Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
LA MAFIOSITA’
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA MAFIOSITA’
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Metodo “Falcone”.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Tommaso Buscetta spiega “Cosa Nostra”.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Omicidio Mattarella.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Mafia.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: i depistaggi sulla strage di via D’Amelio.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Mafia-Appalti.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il grande mistero del covo.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il Concorso Esterno. Reato fantastico.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Le Stragi del '93.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La Strage di Alcamo Marina.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Mafia-Finanziamenti.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il misterioso “caso Antoci”. (Segue dal 2019)
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Rosario Livatino.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Bruno Caccia.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Paolo Adinolfi.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte di Don Pino Puglisi.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte di Diabolik.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Nino Agostino.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro Rostagno.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro De Mauro.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Peppino Impastato.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Mafia stracciona.
I killers della mafia.
La Mafia romana: L’Autoctona.
La Mafia romana: I Casamonica.
La Mafia romana: Gli Spada.
La Mafia romana: I Fasciani.
La Mafia Nomade.
I Basilischi. La Mafia Lucana.
La Quarta Mafia. La Mafia di Foggia.
La 'Ndrangheta tra politica e logge massoniche.
La Mafia Veneta.
La Mafia Italo-Padana-Tedesca.
La Mafia Nigeriana.
La Mafia Pachistana.
La Mafia jihadista. Gli affari dei califfati.
La Mafia Italo-Canadese.
La Mafia Colombiana.
La Mafia Messicana.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Doppio Stato.
In cerca di “Iddu”.
Chinnici e la nascita del Maxi processo.
Le Ricorrenze. Liturgia ed Ipocrisia.
Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.
Guida a un monstrum giuridico: il 41-bis.
Le loro prigioni: Concorso Esterno in Associazione Mafiosa.
La Trattativa degli Onesti.
Quelli che non si pentono: I sepolti vivi come Raffaele Cutolo.
Non è Tutto Bianco o Tutto Nero.
L'antimafia degli ipocriti sinistri.
Non è Mafia…
Invece…è Mafia.
Quelle vittime lasciate sole…
Cassazione, aggravante mafiosa può essere contestata solo se c’è dolo.
Il Business del Proibizionismo.
Il Business “sinistro” dei beni sequestrati preventivamente e dei beni confiscati dopo la condanna.
La Mafia delle interdittive prefettizie.
Chiusi per (Anti) Mafia…
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Gogna Parentale e Territoriale.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giudice Onorari “sfruttati”?
Il Caporalato dei Praticanti.
Noi specializzandi sfruttati e malpagati.
Se lo schiavo sei tu.
Il lavoro sporco delle pulizie.
Il Caporalato agricolo Padano.
Schiavi nei cantieri navali.
Riders: Cornuti e Mazziati.
Caporalato nei centri commerciali.
Il Caporalato dei Call Center.
Il Caporalato degli animatori turistici.
Il Caporalato dei Locali Pubblici.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Favoritismi Curatelari.
Non è Usura…
Astopoli.
La Mangiatoia degli incarichi professionali nelle procedure fallimentari.
SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Io sono il Potere Dio tuo.
La Lobby del Tabacco.
Le Lobbies di Gas e Luce.
La Lobby dei Sindacati.
La Lobby del Volontariato.
La Lobby degli Studi Legali.
La Lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica.
Gli Affari dei Lobbisti.
I Notai sotto inchiesta.
Se comandano i Tassisti.
La Lobby dei Gondolieri.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Massomafia.
INDICE TERZA PARTE
CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Figli di Trojan.
Il Concorso truccato per i magistrati.
Togopoli. La cupola dei Magistrati.
E’ scoppiata Magistratopoli.
Magistrati alla sbarra.
Giornalistopoli.
Voto di Scambio mafioso=Clientelismo-Familismo.
L’Onorevole Mafia.
La Sinistra è una Cupola.
Tutte tonache di rispetto.
La Mafia dei Whistleblowers.
La Mafia del Riciclaggio Bancario Internazionale.
La Mafia del Gasolio.
La Cupola delle Occupazioni delle Case.
La Mafia dello Sport.
La Mafia dei posteggiatori abusivi.
LA MAFIOSITA’
TERZA PARTE
CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Figli di Trojan.
La nuova moda. Clonazione del cellulare: altro che trojan, ecco cosa prevede la nuova moda dell’inquisizione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Dal trojan alla clonazione. Da Perugia contro Palamara a Pavia contro Fontana, tempi duri per i telefonini. Su quello di Attilio Fontana si sono buttati con il lanciafiamme alle sette di mattina nella sua abitazione i pubblici ministeri che indagano sulla multinazionale Diasorin e il Policlinico San Matteo di Pavia per l’assegnazione di test sierologici. Avrebbero potuto mandare gli uomini della Guardia di finanza a Palazzo Lombardia a chiedere la consultazione del cellulare del Presidente. Insieme a quello della sua capo segreteria Giulia Martinelli e dell’assessore Giulio Gallera e di qualche Presidente ospedaliero sparso per la città. Pare che addirittura il presidente del Policlinico di Pavia ogni tanto conversasse con il Presidente del Policlinico di Milano, Marco Giachetti, per esempio. Molto sospetto. Avrebbero potuto limitarsi a controllare usando parole-chiave relative all’inchiesta, come stanno facendo nelle stesse ore nei confronti di altri (compresa la moglie di Fontana, Roberta Dini) nell’indagine sulla donazione di camici, gli uomini della procura della repubblica di Milano. Cioè selezionare notizie e nominativi che possano servire alle indagini, non buttarsi a capofitto sulla vita intera di persone che non sono neppure indagate. Sulla vita loro e su quella di tutte le persone di loro conoscenza, parenti, amici, rapporti politici e istituzionali. Dalla mamma al Presidente della Repubblica, insomma. Evidentemente a Pavia si usa diversamente da Milano, si preferisce la procedura che si chiama “copia forense”, il che significa duplicazione di tutte le zone del disco, con recupero anche di eventuali file cancellati. Cioè la resurrezione di tutto e tutti, compresi magari i numeri di rompiscatole che cercavi di toglierti di torno. Ed è questo che i pm di Pavia stanno cercando, con mentalità e procedura da inquisizione: non quello che appare, non quello che è, ma quello che non si vede, il famoso “lato oscuro” delle persone. Mettendo insieme telefonate e messaggi che riguardano relazioni istituzionali di un Presidente di Regione, con rapporti politici e anche quelli più personali. Presente e passato. Il tutto dato in pasto agli uomini della guardia di finanza e magari (siamo maliziosi o solo realisti?) direttamente in edicola. Cioè nel luogo che ha ormai scalzato le cancellerie, visto che è lì dove vengono depositati gli atti delle inchieste più delicate e appetibili per il popolo dei voyeurs. Lo si intuisce dalle loro azioni e dalle loro parole. Si sono accorti che il Presidente del Policlinico San Matteo di Pavia, Alessandro Venturi, indagato per peculato e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente per aver affidato senza gara alla Diasorin l’incarico di sviluppare i test sierologici per Covid-19, ai primi di luglio aveva dato una bella ripulita al proprio cellulare. In particolare, scrivono nei decreti di perquisizione, “ha proceduto alla cancellazione massiva dal telefono cellulare di tutte le chat whatsapp”. E questo -fatto considerato particolarmente sospetto-, prima di essere indagato. Sono stati quindi ricostruiti i nomi delle persone che facevano parte dei gruppi, ma non il contenuto delle conversazioni. Per recuperare le quali è necessario il ricorso al napalm, a quanto pare. Poca professionalità o incazzatura feroce? Difficile entrare nella mentalità (e negli stati d’animo, fatto non secondario) dei pubblici ministeri. I quali garantiscono che l’esame dei contenuti sarà limitata “all’alveo dei fatti oggetto di contestazione penale”. Mah. Leggeremo su giornali e social nel prossimi giorni.
L’avvocato Jacopo Pensa, difensore di Attilio Fontana, più che arrabbiato pare sbalordito. Alle sette del mattino di solito si va ad arrestare la gente, ragiona. Il mio assistito non è indagato e si è visto entrare in casa cinque o sei persone mandate a copiargli il telefonino, dice con una certa ironia. Ma osserva con serietà che potrebbe ricorrere al tribunale del riesame, a causa delle modalità procedurali e anche dei profili di incostituzionalità per l’ovvia presenza di conversazioni istituzionali nel telefonino del Governatore. Certo che il Presidente della Regione Lombardia è proprio preso di mira. Difficile attribuirgli esplicitamente la commissione di reati. Però. I pubblici ministeri di Pavia non si accontentano evidentemente di quel che hanno già portato a casa, cioè le indagini sui due contraenti della vicenda dei test sierologici, l’ospedale San Matteo di Pavia e la multinazionale Diasorin, in seguito alla denuncia di un concorrente, la Technogentics. Vogliono arrivare più in alto, al boccone prelibato dell’assessore Gallera e a quello grosso del Presidente della Regione. Le indagini sono ferme, e tra l’altro il Consiglio di Stato, dopo un primo verdetto contrario del Tar, ha dato piena ragione a Diasorin. Così il contratto è anche pienamente in atto. Qualcosa di simile sta accadendo alla procura di Milano. Qui la situazione è ancora più delicata, perché lo stesso Fontana si è infilato in un pasticcio economico-familiare che non dovrebbe proprio stare nelle mani della magistratura. E’ la famosa storia dei camici e altri presidi sanitari che la società del cognato e in piccola parte della moglie avrebbe dovuto prima vendere e poi donare alla Regione Lombardia. Vicenda complicata dallo stesso Fontana, che ha cercato in modo goffo di “risarcire” il cognato facendo tornare dalla Svizzera soldi “scudati”, cosa che non è passata inosservata. Ma anche qui, e proprio ieri, abbiamo assistito al balletto dei telefonini. Che cosa cercano i pm in quello della moglie, forse le chiamate sospette del marito? Siamo sempre lì: trojan, clonazioni, copiature. E sempre il buco della serratura. Ci toccherà tornare agli apparecchi a gettone. Ma sappiamo per certo (esperienza di vicinato) che un tempo intercettavano anche quelli.
Caso Palamara: il Pm ordinò di non spiare i parlamentari, ma la Finanza disobbedì. Paolo Comi su Il Riformista il 4 Luglio 2020. Ma se la Procura di Perugia aveva ordinato ai finanzieri del Gico di spegnere il trojan quando Luca Palamara stava per incontrare un parlamentare, perché invece accadde il contrario? Fra le innumerevoli anomalie che contraddistinguono l’indagine a carico dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, questa – certamente – è una delle più clamorose. Il pm Gemma Milani, assegnataria del fascicolo insieme al collega Mario Formisano, dopo qualche giorno che il trojan era stato inoculato nel cellulare di Palamara e aveva iniziato a registrare le conversazioni del magistrato romano, scrive una nota indirizzata personalmente al “Sig. Comandante del Gico di Roma”. All’epoca il reparto speciale della guardia di finanza era comandato dal colonnello Paolo Compagnone. L’ufficiale superiore ricoprì quell’incarico fino al successivo 9 settembre, allorquando divenne il comandante provinciale della gdf di Roma, sostituendo il generale Cosimo Di Gesù. Per la cronaca, quest’anno Compagnone è stato promosso generale di brigata. Attualmente il comandante del Gico è il colonnello Gavino Putzu. Dopo aver ricordato che «non sono stati fissati limiti all’utilizzazione del trojan in modalità ambientale», il pm umbro si premura allora di puntualizzare al colonnello Compagnone che «laddove da elementi certi emerga che PALAMARA sia prossimo a incontrare un parlamentare sarà cura di NON (scritto proprio così: tutto maiuscolo ed in grassetto) attivare il microfono». Il pm, per agevolare la comprensione dell’ordine impartito e fugare eventuali dubbi interpretativi, fa anche degli esempi: «ad es. (riferendosi a Palamara, ndr) prenda appuntamento direttamente con un parlamentare o conversando con un terzo emerga con certezza la presenza di un parlamentare o altro soggetto. In questo caso scatta il “regime autorizzatorio speciale” e quindi le guarentigie in tema di tutela delle conversazioni per i parlamentari della Repubblica. Tutto chiaro? Sulla carta sì, nella pratica no. E già, perché le conversazioni di Palamara con Cosimo Ferri e Luca Lotti, allora entrambi deputati del Pd, sono state tutte puntualmente ascoltate e trascritte dai finanzieri agli ordini di Compagnone. Si tratta di incontri, come si è potuto verificare, non casuali. E che i finanzieri conoscevano all’epoca in “anteprima”, in quanto Palamara, messaggiando o telefonando, aveva fissato in precedenza. Nulla di casuale, insomma. A cominciare proprio dal dopocena all’hotel Champagne di Roma per il quale già nel pomeriggio precedente Palamara e Ferri iniziano a organizzarsi, non solo indicando il luogo ma anche quali persone saranno presenti all’incontro. La chat fra Palamara e Ferri di quel giorno è chiarissima. Alle 23.16 Ferri messaggia a Palamara: “Hotel champagne (l’albergo dove Ferri alloggiava quando era a Roma, ndr) via principe Amedeo 82”. Alle 23.29 Palamara risponde a Ferri: “Stiamo arrivando tutti”. Come mai, allora, i marescialli del colonnello colonnello Compagnone non hanno spento il trojan? Il pm Miliani ha chiesto chiarimenti ai finanzieri sul perché di questa inosservanza dell’ordine? Ci sono altre indicazioni che non si conoscono? C’è un fascicolo parallelo? Il messaggio fra Ferri e Palamara è sfuggito ai finanzieri? E perché, soprattutto, queste conversazioni sono poi finite nel fascicolo? Tutti dubbi per i quali al momento non c’è risposta. Il disciplinare nei confronti di Palamara e degli ex consiglieri del Csm che erano presenti all’hotel Champagne e che poi si sono dimessi è basato quasi esclusivamente su queste conversazioni. Il processo davanti alla Sezione disciplinare è in calendario per il prossimo 21 luglio. Cosa accadrà se dovesse essere appurato che queste conversazioni non potevano essere registrate dai finanzieri del Gico? E infine una curiosità: Raffaele Cantone, il neo procuratore di Perugia, si è già fatto portare il fascicolo per capire come siano state condotte queste indagini che hanno terremotato la magistratura italiana?
Incontro tra Palamara e Ferri: la finanza lo sapeva ma mentì, perché? Paolo Comi su Il Riformista il 29 Ottobre 2020. La guardia di finanza era a conoscenza che Luca Palamara avrebbe incontrato Cosimo Ferri la sera dell’8 maggio dello scorso anno. Non ci sarebbe stata alcuna “casualità”. La circostanza, clamorosa, sarebbe stata “occultata” dal Gico della Capitale, che ha svolto le indagini nei confronti dell’ex presidente dell’Anm, ai magistrati di Perugia, titolari del fascicolo. La Sezione disciplinare del Csm, come si ricorderà, aveva dichiarato l’utilizzabilità delle intercettazioni mediante il trojan effettuate nella notte tra l’8 e il 9 maggio 2019 all’hotel Champagne dove si discusse del futuro procuratore di Roma. La conversazione delle ore 19:13 dell’8 maggio del 2019 con la quale Palamara e Ferri decidevano di incontrarsi sarebbe stata ascoltata e trascritta “solamente” il giorno successivo alle ore 11.00. Ciò è quanto attesta il maggiore Fabio Di Bella del Gico di Roma, il reparto prediletto dall’ex procuratore Giuseppe Pignatone, nell’informativa del successivo 17 maggio destinata ai pm del capoluogo umbro. Di Bella scrive ai magistrati che l’8 maggio del 2019 veniva registrata una conversazione telefonica fra Palamara e Ferri “inerente la programmazione dell’incontro registrato”. «In proposito – prosegue Di Bella – la predetta conversazione telefonica era oggetto di ascolto e di trascrizione, da parte di questa pg, solamente in data 9 maggio 2019 alle ore 11.00. Tanto si rappresenta in relazione a quanto disposto dalla S.V. con provvedimento datato 10 maggio2019». Provvedimento, quest’ultimo, con cui i magistrati di Perugia mettevano paletti all’ascolto dei parlamentari: «Laddove da elementi certi (dalle intercettazioni telefoniche o telematiche) in essere nei suoi confronti vi emerge che Palamara sia prossimo ad incontrare un parlamentare (ad esempio prenda un appuntamento con un parlamentare o conversando con un terzo emerga con certezza la presenza di un parlamentare o altro soggetto – sottoposto al regime autorizzatorio speciale) sarà vostra cura NON attivare il microfono, trattandosi in tal caso, non più di intercettazione indiretta casuale di un parlamentare». L’ascolto tardivo, per la Sezione disciplinare e prima ancora per le Sezioni unite della Cassazione che si erano pronunciate nella fase cautelare, aveva giustificato la “casualità” della captazione. Ci sono, però, due conversazioni precedenti che fanno venir meno la “casualità” dell’ascolto. La prima è del 7 maggio 2019 alle ore 23:19, classificata dallo stesso Di Bella “molto importante”, in cui Palamara parla con Luigi Spina, all’epoca consigliere del Csm. Questa la trascrizione integrale.
Palamara: “eh… allora tu domani sera damme la cosa….poi, domani sera…. l’unico problema che abbiamo io e Cosimo (Ferri, ndr)..”
Spina: “domani sera dobbiamo vederci co… eh dimme….”
Palamara: “è che vuole venì pure Luca (verosimilmente Lotti, deputato Pd, ndr) …e io Luca domani sera non lo vorrei fa venì ….ma Morlini (Gianluigi, consigliere del Csm, ndr) te lo porti domani?”
Spina: “eh me lo devi di te… noi siamo da Salzano (verosimilmente Francesco, avvocato generale in Cassazione, ndr) …che c’ha amica della Taverna dei Gracchi”.
Palamara: “si, si, lo so, io gli ho detto di no, che non ci sto….coprimi eh…ricordati….”
Spina: “sì”
Palamara: “dai”
Spina: “eee …. se devo venì, me lo porto….se devo venì solo io…”
Palamara: “se vieni tu, a me che viene Luca non me ne frega un cazzo….(inc) bene a me…..”
Spina: “se devo venì, io vengo sia da solo sia con Morlini…(inc) dobbiamo decidere se… massacrarlo….”
Palamara: “perché Cosimo, l’unico problema che si poneva è di venì con Luca ….forse pure per Lepre (Antonio, consigliere del Csm, ndr) …vabbè questo è il (inc)… allora domani glielo dico a coso”.
L’altra conversazione, classificata “importante” da Di Bella, è dell’8 maggio 2019, ore 15:27: “Palamara al telefono…. si vedranno nei pressi del Csm con Antonio, Cosimo e lui (la persona al telefono)”. Di Bella, nell’informativa del 17 maggio, non indica queste due conversazioni e, di conseguenza, non indica quando siano state trascritte. “L’omissione” di Di Bella sembra funzionale a far apparire la casualità dell’intercettazione e quindi la corretta esecuzione delle linee guida del 10 maggio dei pm di Perugia. Di Bella, infatti, riporta ai magistrati umbri soltanto una delle tre conversazioni intercettate dalle quali risultava con largo anticipo l’incontro dell’hotel Champagne e tra le tre sceglie quella dell’8 maggio 2019 delle ore 19:13, trascritta il giorno dopo, quindi successivamente all’incontro. Dalle conversazioni omesse da Di Bella appare, invece, evidente che la programmazione dell’incontro dell’hotel Champagne era stata captata 24 ore prima, esattamente il 7 maggio 2019 ore 23.19, così come era stata captata la presenza sicuramente di Ferri e forse anche di Lotti, poiché quest’ultimo non era gradito ad alcuni partecipanti tra i quali Palamara. La conferma dell’incontro si ha, allora, nella seconda captazione, quella delle 15:27 dell’8 maggio 2019, circa otto ore prima, nella quale viene data per sicura la presenza di Ferri. Durante il processo a Palamara nessuno ha chiesto a Di Bella chiarimenti su queste due conversazioni.
Quale credibilità ha un puzzle privo di tanti pezzi? Magistratopoli e il trojan “tarocco”: funzionava male, la Finanza sapeva. Paolo Comi su Il Riformista il 30 Giugno 2020. Il trojan è un “tarocco”. E lo sanno anche i pm e i finanzieri. Nel maxi-calderone del fascicolo d’indagine di Perugia a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara spunta una strana richiesta. Una richiesta che solleva più di un interrogativo sulla reale efficacia del trojan, il micidiale strumento d’investigazione, dallo scorso anno utilizzato anche per i reati contro la Pubblica amministrazione. La richiesta è datata 23 luglio del 2019. Destinatario è Rcs spa, la società di Milano che ha fornito alla Procura di Perugia, dietro lauto compenso, il virus spia che ha trasformato il cellulare di Palamara dal 3 al 31 maggio dello scorso anno in un microfono. Mittente è il comandante del Gico della guardia di finanza di Roma, il colonnello Paolo Compagnone. La nota è firmata dal tenente colonnello Marco Sorrentino, suo stretto collaboratore. «Al fine di aderire a specifica richiesta dell’Autorità giudiziaria (i pm di Perugia Gemma Miliani e Mario Formisano, ndr) pregasi voler specificare gli elementi di dettaglio indicati», scrivono i finanzieri. In ordine. «Quali siano le modalità di attribuzione dei progressivi ai singoli frammenti di conversazione, con l’interruzione di un progressivo e l’inizio di un altro e se le stesse dal sistema o dall’operatore»; «precisare il motivo per il quale la conclusione di ciascun progressivo non corrisponda alla sospensione del dialogo ma una sua interruzione, nonostante stesse proseguendo»; «precisare se, in giorni e orari di attivazione si siano verificate interruzioni nelle captazioni e, se possibile, indicarne le ragioni». Cosa si nasconde dietro questo linguaggio criptico? Molto semplice: il trojan non registra l’intera comunicazione ma a un certo punto si interrompe e poi riparte. La parte di colloquio che non viene registrata è persa per sempre. Ma non solo. A differenza delle normali intercettazioni telefoniche, numerate in stretto ordine cronologico di entrata e uscita, nel trojan la numerazione delle conversazione subisce dei “salti”. Lo strumento ha dei buchi nella cronologia, rendendo a posteriori difficile il riascolto della conversazione. Tradotto, è come leggere un libro al quale ogni tanto sono state strappate delle pagine e l’indice è stato cambiato. La domanda a questo punto è scontata: che attendibilità può avere un simile strumento investigativo? Soprattutto nelle indagini per mafia dove, a differenza dei magistrati, gli interlocutori sono notoriamente poco loquaci? Ma soprattutto: perché i finanzieri hanno aspettato il 27 luglio per chiedere a Rcs questi chiarimenti tecnici? Non si erano accorti fin dal primo giorno di utilizzo, cioè dal 3 maggio, che qualcosa non andava? Con quale criterio è stata scelta Rcs? Chi ha ascoltato le conversazioni di Palamara ha riferito che, una volta attivato, il trojan ha registrato periodi lunghi al massimo cinque minuti e venti secondi. Poi la conversazione ha avuto uno stop per ripartire quindi per altri cinque minuti e venti secondi. Le interruzioni fra una registrazione e l’altra sono denominate “chunk”. Per Rcs la loro durata sarebbe di circa un secondo, nella pratica i secondi sono venti. Un tempo molto diverso nel contesto di un dialogo. La questione non è di lana caprina. Il disciplinare a carico di Luca Palamara, che inizierà al Csm il 21 luglio, si basa quasi esclusivamente sulle risultanze dell’ascolto della conversazione avvenuta nel dopo cena del 9 maggio del 2019 con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. La Procura generale della Cassazione ha fatto ampio utilizzo di quei colloqui. E se invece mancasse qualche pezzo?
La differenza tra Palamara e gli altri magistrati? Il trojan. Mimmo Gangemi su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Luca Palamara ha sbagliato. Lo ha ammesso. Ha chiesto scusa. E ha dichiarato che non ha inventato lui il sistema delle correnti da cui è poi derivata la spartizione dei posti più o meno a cassetta, è solo stato in continuità con prassi consolidate – ed è un punto su cui dargli ragione e concedergli molto più che le generiche. Ha cominciato a fare i nomi dei beneficiati e di responsabili al pari suo di accordi di cordata, trattative, marchingegni vari, tutta roba discutibile, su cui torcere il muso, ma non perseguibile penalmente. Ha così realizzato un corto circuito di cui in fondo essergli grati, perché, a saperla cogliere, è un’occasione irripetibile di ripartenza per la barca della Giustizia, con più buchi di una padella per le caldarroste. Tra i più agguerriti, alcuni beneficiati dalla sua abilità di mediazione in un ambiente che asseconda il degrado morale della nazione. Palamara non appartiene alla folta schiera che ha ricavato avanzamenti. Si è prodigato in grazie e miracoli, ma per sé non ne ha ottenuti: infatti, alla Anm è stato eletto, fino alla carica di Presidente, e al Csm pure, in carriera no, fermo al palo. E tuttavia, annaspa nella palude limacciosa, spinto in profondità da ingrati, farisei, sciacalli, carnefici, e ci aggiungo i cannibali, che tali rimangono anche se per il pranzo umano utilizzano le posate, tutti con le facce più dure dei mostaccioli. Qualcosa tuttavia sta mutando nell’opinione pubblica e in parte della stampa: non si accontentano del capro espiatorio, se altri restano comodi a bordo a riassestare magari gli equilibri interni e le spartizioni. Si puntualizza sempre la correttezza della stragrande maggioranza della magistratura. Il termine “stragrande” mi pare esagerato, visto che per essere etichettati sporchi è bastato aver chiesto un biglietto per la partita della Roma. Dai, serietà. Siamo italiani, le verginelle indignate tacciano, il sistema delle raccomandazioni ci appartiene, è nel nostro Dna. Sfido chiunque, tranne i pochissimi in aria di santità, da meritarsi già in vita la pratica di beatificazione e una processione almeno annuale, a dimostrare che non è mai ricorso ad amici per un occhio di riguardo in ospedale, una raccomandazione a scuola per il figlio. O un’agevolazione che svantaggiava altri, come emerse, per esempio, nel concorso per uditori giudiziari del 1992, denso di ombre, poi riconosciute in seguito alla contestazione dell’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi. La verità è che la differenza tra Palamara e quelli delle altre correnti è il trojan. Lo avessero appiccicato anche a loro, avremmo ottenuto una dilatazione esponenziale, Palamara moltiplicato per il numero dei suoi colleghi – e invece fioccano le denunce, le minacce di querele. Lo mettessero a spiarci tutti, esploderebbe una guerra civile, nell’intimità ne diciamo di cazzate. Uno strumento terribile e diabolico, il trojan. Sconvolge le esistenze, uccide la dignità, trancia il diritto e la democrazia, accorcia il respiro alla libertà. Sa di regime. E troppo risente della discrezionalità di chi lo dispone. Con Palamara pare sia stato giustificato con l’ipotesi di corruzione, i 40 mila euro poi scomparsi dalle accuse, da far insorgere il dubbio che sia stata la botta del mastro, per poterlo cuocere nel pentolone. Se così, che gran figli di trojan! Questo, mentre un’avanguardia dei Pm progredisce, in carriera e in claque osannante, sulla mera apparenza, sui microfoni, sulle ribalte nazionali, spacciando un’efficienza che, alla prova dei processi, si squaglia più che la neve di maggio in bassa collina. È di martedì il risultato del processo di primo grado della decantata operazione Mandamento jonico: 66 condanne e 103 assoluzioni, con una percentuale di innocenti del 61%. Siccome è un evento che si aggiunge a quasi tutti i grandi blitz celebrati dalle cronache televisive e dai giornali, si fa più concreta l’idea che le esagerazioni rendono e non poco, con buona pace di chi incappa nella malagiustizia e con buona pace della Calabria dipinta a tinte molto più fosche di quelle che merita, Easy Jet insegna. Del resto, non può più essere un caso che da un bel po’ di anni si decolli dalla Procura Dda di Reggio per raggiungere i traguardi più prestigiosi e ambiti, pure a essere ballerine di fila. In più, a ogni operazione di polizia, corrisponde il teatrino indecoroso della spettacolarizzazione, in uscita dalla Questura: avanti uno, in manette e scortato da due poliziotti, immortalato nel percorso fino alla volante che lo tradurrà in carcere, e via libera per la sfilata del secondo, con la stessa scena, e così di seguito, con un manovratore del traffico manettaro che scandisce i ritmi della teatralità e alla fine organizza il carosello delle volanti strombazzanti in processione. Tutto in contrasto con l’articolo 114, comma 6 bis, del Codice di Procedura Penale: «È vietata la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta». Sono quindi illegali! Ma non succederà niente, mica vero che la legge è uguale per tutti. Occorre un’inversione di tendenza, drastica e subito. Altrimenti toccherà far propria la frase di una pubblicità antica: «Fermate il mondo, voglio scendere».
Antonino Monteleone, inviato de “Le Iene”, per ''il Giornale'' il 25 giugno 2020. Scopriremo col tempo se Luca Palamara è davvero un corrotto che ha asservito la sua funzione di membro del Csm in cambio di favori e utilità oppure se quella tra Luca Palamara e l'imprenditore Fabrizio Centofanti era un'amicizia contrassegnata dalla generosità del più danaroso tra i due. Di certo l'inchiesta della Procura di Perugia, che indagando su un presunto sistema corruttivo che nascerebbe in Sicilia (il cosiddetto «sistema Siracusa»), ha scoperchiato e messo a nudo il meccanismo di funzionamento dell'organo di autogoverno della magistratura italiana è destinato a segnare uno spartiacque anche nella delicata e spinosa materia delle intercettazioni. Sono necessarie alcune premesse veloci, ma importanti.
Uno: in tema di intercettazioni telefoniche e informatiche la riforma targata dall'ex ministro della Giustizia Andrea Orlando e quella, ancor più manettara, firmata dall'attuale inquilino di Via Arenula Alfonso Bonafede - e le sospensioni della sua entrata in vigore - hanno spinto perfino il pubblico ministero di Perugia Gemma Miliani a definire «magmatico» il quadro normativo in vigore.
Due: perché il lettore lo abbia chiaro: per alcuni reati non c'è più il limite che vede «nei luoghi di privata dimora» uno spazio interdetto all'orecchio delle Procure. E questo limite cade anche quando «Non vi è il fondato motivo di ritenere» che in quei luoghi si stia commettendo «attività criminosa».
Tre: non si mette in discussione l'utilità dello strumento in sé e quindi la necessità che - visto il dilagare della corruzione nella pubblica amministrazione - il «virus di Stato» possa infettare i dispositivi (computer, tablet, telefoni) di chi è sospettato di tradire la fedeltà all'istituzione servita.
Quattro: le riforme che avrebbero dovuto limitare fortemente la pubblicazione delle intercettazioni alle sole ritenute «rilevanti» non hanno impedito lo sputtanamento della vita privata di Palamara e non solo.
Ma fatte le debite premesse qui il tema è un altro: è interessante osservare «come» avviene l'infezione dei nostri apparati e leggendo le carte di Perugia appare un provvedimento molto particolare adottato dal pubblico ministero. Per infettare un dispositivo elettronico di ultima generazione, al netto di molte variabili tecniche che sarebbe superfluo elencare in questa sede, serve un «aiutino» da parte del proprietario. La polizia giudiziaria lancia l'esca e i nostri investigatori si arrovellano su come rendere appetitosa quest' esca che di solito è un link contenuto in un sms che riceviamo da un contatto che ci sembra familiare; l'allegato contenuto in una mail che riteniamo attendibile; ecc.; ma il pesce... deve comunque abboccare. Ecco nell'inchiesta di Perugia alcuni «pesci» si sono fatti furbi e non abboccano. Nemmeno Luca Palamara. Dunque si passa alle maniere forti. La Guardia di finanza, esperta in materia, suggerisce al Pm la strada da seguire: bloccare tutte le chiamate in uscita dal telefono di Palamara, dunque costringerlo - nel tentativo di risolvere il problema - ad abboccare a qualunque «esca». Il Pm chiede il permesso di infettare il telefono di Palamara, ma non dice niente al Gip, che autorizza a marzo del 2019, del metodo che gli ha suggerito la Guardia di finanza (lo scriverà in una nota a piè di pagina nella richiesta di proroga) e che intende adottare per costringere Palamara a cadere nella rete del trojan realizzato dalla società Rcs Spa di Milano. Così il 30 aprile il Pm Miliani firma il «Decreto di interruzione temporanea chiamate uscenti su apparato mobile» in pratica un ordine per il gestore Vodafone di rendere inutilizzabile il telefono di Palamara «al fine di simulare un disservizio» tramite il quale «procedere all'infezione». E Palamara, spiazzato da questo inconveniente e dopo avere tentato invano di risolvere il problema con l'assistenza clienti, non appena sul display del suo iPhone appare un pop-up che recita pressappoco così: «Rilevata anomalia chiamate in uscita, clicca qui per il reset della configurazione di rete» non ci pensa due volte, clicca e da quel momento lo smartphone non è più (solo) il suo. Bene qual è il problema? Apparentemente nessuno, ma forse c'è. La legge stabilisce per quali reati si può intercettare. Eppure niente dice sulle tecniche da adottare in materia di trojan. Tanto che persino il Garante per la privacy, Antonello Soro rivolge al Parlamento un appello a «circoscrivere l'ambito applicativo» di questo strumento sia per prevenire la «vulnerabilità del compendio probatorio, se allocato in server esteri» o, peggio, che «degenerino in strumenti di sorveglianza massiva». Chiedere al gestore telefonico, che prima si limitava ad un'opera «passiva», cioè mettere a disposizione il flusso telefonico e telematico del bersaglio, di compiere un'azione «attiva» che consiste nel simulare un malfunzionamento e interrompere le chiamate in uscita, può considerarsi una perdita di «neutralità» del fornitore del servizio che la legge dovrebbe disciplinare più opportunamente? Sembra uno scherzo del destino, ma l'effetto devastante del «virus di Stato» manifesta i suoi effetti proprio in un'inchiesta che vede al centro un magistrato e la sua rete fatta di colleghi in toga e mondo politico e che ha «sconcertato» il presidente della Repubblica potrebbe avere l'effetto di spingere a un'urgente riflessione sulla necessità che tecnologie dal potenziale illimitato siano sottoposte a limiti ancora più stringenti.
La verità di Luca Palamara: “Così funziona il potere esagerato delle Procure”. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Giugno 2020. «Posso affermare tranquillamente che sono stato io a creare il “partito dei pm”». Incontriamo Luca Palamara a Roma in un bar vicino al Csm. Sabato scorso il Comitato direttivo centrale dell’Anm ha deciso di espellerlo dall’associazione di cui è stato per quattro anni il presidente. Nella secolare storia dell’Anm non era mai successo con un suo presidente venisse espulso perché accusato di condotte gravemente lesive nei confronti dei colleghi. Dalle chat si è scoperto che decine di colleghi si rivolgevano a lui, anche quando formalmente era cessato da tutti gli incarichi, per una ottenere una nomina o un posto di prestigio. Da quello che abbiamo capito in questi mesi, la valanga che ha travolto il Csm e la credibilità della magistratura è iniziata con la convulsa successione di Giuseppe Pignatone al vertice della Procura di Roma. La nomina di Michele Prestipino è stata impugnata al Tar del Lazio dagli sconfitti: Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, e Giuseppe Creazzo, procuratore del capoluogo toscano.
Dottor Palamara, perché queste “tensioni” sulla nomina del procuratore di Roma e, in generale, ogni volta che si deve nominarne uno?
«I pm sono i “front runner” della magistratura. A torto o a ragione è così».
Cerchiamo di spiegare il perché.
«Il pm è ruolo di potere grandissimo. Rappresenta la pubblica accusa ma è un magistrato. Con tutte le garanzie e guarentigie del caso.
Autonomo e indipendente…
«Sì. E ha il controllo pieno della polizia giudiziaria. Penso che chiunque comprenda cosa significhi avere il controllo della polizia, dei carabinieri e della guardia di finanza. Vuol dire scegliere a quale forza di polizia far fare le indagini, dettarne i tempi, stabilire i criteri di priorità».
E poi ci sono i giornalisti…
«Il procuratore è l’unico titolato ad avere i rapporti con la stampa. La sapiente gestione degli organi d’informazione assicura la grancassa mediatica e la conseguente visibilità».
Dopo di lei alla presidenza dell’Anm si sono succeduti solo pm…e di ognuno di loro tutti sapevano quali indagini avessero condotto.
«Esatto».
Quando il sistema è definitivamente esploso?
«Si riferisce al potere delle correnti?»
Sì
«Nel 2007. Con la riforma dell’Ordinamento giudiziario che introdusse la temporaneità degli incarichi. Un procuratore adesso può rimanere al massimo otto anni, poi deve lasciare».
Il legislatore, conoscendo il potere del pm, ha tentato di arginarlo.
«Questa riforma trasformò i generali in soldati e i soldati in generali. Prima del 2007 una volta nominato procuratore rimanevi fino alla pensione. Con la temporaneità dell’incarico non più. Dopo aver diretto uffici importati molti non hanno voglia di tornare indietro. Oggi “comandi” e domani vai a fare il turno».
Quindi il carrierismo sfrenato è anche frutto di questa legge?
«Certo, soprattutto se si diventa procuratori da giovani. Le aspettative aumentano in maniera esponenziale. Bisogna dirlo chiaramente e non prenderci in giro. A oggi non c’è allo studio alcun sistema diverso per la nomina dei dirigenti».
Le correnti, da luogo di elaborazioni culturale, sono ora soggetti politici che si comportano come tali.
«Vuoi il mio voto? Cosa mi dai in cambio?»
Sì, questo.
«Il sistema è andato in tilt per tutti. Anche per le correnti maggiormente ideologizzate. Ovvio che se devo scegliere un magistrato per un incarico devo anche tenere conto di chi mi ha dato il voto. Cerchiamo di non essere ipocriti».
Dalle chat emerge che le correnti si impegnavano sui territori ma era fondamentale portare a casa “qualcosa”. Altrimenti non si raccoglievano i voti. Si organizzavano, ad esempio, la presentazione dei candidati al Csm all’indomani di qualche voto favorevole. Per dire: hai visto? Grazie alla corrente abbiamo ottenuto tot posti.
«È così».
Perché i magistrati non si ribellano a questo sistema infernale?
«È il sistema».
Non esiste un grande manovratore?
«No. Il sistema è ormai congegnato in questo modo. Il magistrato non ha alternative. Se non sei dentro, sei fatto fuori».
Cosa fare per le prossime elezioni Anm?
«Una candidatura senza liste contrapposte. Dare l’Associazione dei magistrati a chi non è stato nelle correnti».
Lei è accusato di aver “tramato” con i politici. Cosa dice?
«Ci sono tanti magistrati che hanno parenti politici e sono sempre rimasti al proprio posto».
La politica condiziona le nomine?
«Si riferisce a Luca Lotti? Trovate una nomina che è stata fatta su indicazione di Lotti. Al Csm i componenti togati sono il doppio dei laici. Sulle nomine il peso di quest’ultimi è relativo. Per certi incarichi poi, tipo magistrato segretario o ufficio studi del Csm, sono solo le correnti, in base ai rapporti di forza, a decidere».
Comunque lei è indagato per corruzione. Ed è fra le prime “vittime” del trojan.
«Che cosa ha scoperto il trojan? Nulla. Chiediamoci invece come ha funzionato».
Si riferisce alla registrazioni ad intermittenza?
«Sì».
Perché?
«Dovranno spiegarlo».
Sa che il suo destino è segnato?
«Mi difenderò fino alla fine».
Il giallo del trojan di Palamara, buchi neri e trascrizioni sbagliate…Paolo Comi su Il Riformista il 14 Giugno 2020. Chi sono i marescialli della guardia di finanza che hanno gestito il funzionamento del trojan installato nel telefono di Luca Palamara? La richiesta è stata fatta questa settimana ai pm di Perugia Gemma Miliani e Mario Formisano, titolari del fascicolo aperto a carico dell’ex presidente dell’Anm, dai difensori di quest’ultimo, gli avvocati romani Benedetto Marzocchi Buratti e Roberto Rampioni. Non si tratta di una curiosità fine a sé stessa ma della probabile “chiave di volta” dell’indagine effettuata con lo strumento investigativo – costosissimo, circa 4000 euro al giorno – tanto desiderato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. Andiamo con ordine. Il trojan, il virus spia che trasforma il cellulare in un registratore, a differenza delle tradizionali intercettazioni telefoniche che registrano in automatico ogni telefonata in entrata e/o in uscita sull’utenza interessata, deve essere attivato manualmente. Da quello che è emerso, per le circa tre settimane di maggio dello scorso anno durante le quali lo strumento è stato in funzione, le attivazioni avvenivano nella fascia oraria del mattino, del pranzo, della sera. Il motivo? Secondo gli investigatori erano queste le ore dove Palamara era solito avere molti contatti. La pg delegata da Perugia all’ascolto era il Nucleo di polizia economico-finanziaria (Gico) della guardia di finanza di Roma. Nel 2019 il Nucleo era comandato dal colonnello Paolo Compagnone. Fra i suoi collaboratori, il colonnello Gerardo Mastrodomenico. Compagnone è adesso il comandante provinciale della gdf di Roma. Mastrodomenico, invece, è diventato il comandante provinciale di Messina. Le attività furono svolte nella caserma romana di via Virginio Talli. Il trojan, una volta attivato, registra al massimo per cinque minuti e venti secondi. Poi si interrompe e riparte per altri cinque minuti e venti secondi. Secondo la società che ha affittato alla Procura di Perugia il trojan, la Rcs di Milano, fra una registrazione e l’altra l’interruzione, il “chunk”, è di circa un secondo. Invece, con grande sorpresa dei difensori di Palamara che stanno procedendo in questi giorni all’ascolto delle registrazioni, la durata dei chunk è di oltre venti secondi. Un tempo interminabile in un colloquio fra persone. Fatta questa premessa, vediamo qualcuno degli interrogativi degli avvocati di Palamara. Uno di questi è capire perchè il trojan non venne spento in occasione degli incontri programmati dell’ex componente del Csm con i parlamentari. Erano stati gli stessi pm umbri, in una nota, a dare indicazioni di spegnere il captatore ogni qualvolta fosse coinvolto un parlamentare. Ed invece, ad esempio, la cena di Palamara del 28 maggio con i deputati del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti è stata registrata per intero. E restando in tema, il 9 maggio Palamara aveva fatto sapere che avrebbe cenato al ristorante romano Mamma Angelina con Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino. Dalle 16 del pomeriggio il trojan risulterà spento. Si riattiverà solo l’indomani mattina. Come mai visto che era nella fascia selezionata dalla finanza? A quella cena con Palamara, si è poi saputo, non partecipò Prestipino ma l’ex procuratore di Roma e il giudice Paola Roja, presidente della sezione penale reati contro la PA, con i rispettivi compagni. Ed ancora. Il maresciallo che ha gestito l’accensione e lo spegnimento del trojan è lo stesso che poi ha effettuato la trascrizione della conversazione? Diverse trascrizioni sono differenti dall’audio. C’è il caso dell’ex consigliere del Csm Corrado Cartoni di Magistratura indipendente. I giornali lo scorso anno pubblicarono delle sue frasi, relative ad una importante pratica della Prima Commissione ed a quella della nomina della Procura di Roma, mai pronunciate.
I quotidiani, poi denunciati da Cartoni e condannati, si sono basati sulla trascrizione del maresciallo rivelatasi errata.
Il 16 luglio è prevista a Perugia l’udienza stralcio. Gli avvocati di Palamara indicheranno quali colloqui trascrivere. Si preannunciano sorprese.
FIGLI (E FIGLIASTRI) DI TROJAN. Giandomenico Caiazza, Presidente Unione Nazionale Camere Penali Italiane, il 12 Giugno 2020 su Il Corriere del Giorno. Ordinanze di custodia cautelare e connessi massacri mediatico-giudiziari letteralmente costruiti su frasi mai pronunciate, su parole mai dette, su trascrizione farlocche . Verrà un giorno (e mi sa che ci stiamo avvicinando a larghi passi) che anche gli idolàtri delle manette capiranno di quale materia tossica sia fatto il leggendario trojan, cioè un microfono perennemente acceso a registrarti la vita, per settimane o per mesi. Il Direttore Marco Travaglio ha dedicato un suo scoppiettante articolo di fondo ad alcuni inconvenienti occorsi agli inquirenti nell’uso del trojan inoculato nel cellulare del dott. Luca Palamara. I faziosi, si sa, funzionano come gli orologi rotti; un paio di volte al giorno capita anche a loro di segnare l’ora esatta. Ed è questo il caso, perché ciò che Travaglio ha scritto, in sé considerato merita senz’altro attenzione. Racconta, il Nostro, una serie di coincidenze che gli appaiono meritevoli di un serio approfondimento. In sostanza, quando il dott. Palamara programma l’incontro a cena con l’allora Procuratore capo di Roma dott. Pignatone, il trojan improvvisamente smette di funzionare un attimo dopo la telefonata di conferma dell’appuntamento, e dunque dalle quattro del pomeriggio fino alla tarda serata (anche se il dott. Palamara viene invece regolarmente intercettato al telefono mentre la spia ambientale risulta in panne). E quando, in altre occasioni, il leader di Unicost fa il suo nome, gli agenti di polizia giudiziaria addetti all’ascolto non sentono o trascrivono fischi per fiaschi. In un caso, siamo alle comiche: Palamara, secondo quegli agenti, avrebbe detto non “Pignatone” ma “carabinierone”, una parola senza senso che non ti verrebbe in mente di pronunciare nemmeno sotto effetto di potenti allucinogeni. Lo stesso, ci racconta Travaglio, sembrerebbe accadere quando le chiacchierate sfiorano il Colle.
Bene, si vedrà dove va a parare questa storia; ma l’incanto di Travaglio che esprime un sennato pensiero critico su una operazione investigativa, come per gli orologi rotti di cui si diceva, svanisce qui. È infatti semplicemente ridicolo che si scoprano i danni del trojan, dopo averne per anni esaltato con un tifo da stadio le virtù poliziesche, civiche e salvifiche, solo quando fa comodo, per esempio quando questo aiuti a sparare a palle incatenate contro il dott. Pignatone (sono le guerre private del Direttore e delle sue milizie: auguri). D’altronde, siamo sicuri, Direttore, che questi improvvisi mancamenti tecnici abbiano riguardato, nella inchiesta perugina, solo il Procuratore capo di Roma? Verrà un giorno (e mi sa che ci stiamo avvicinando a larghi passi) che anche gli idolàtri delle manette capiranno di quale materia tossica sia fatto il leggendario trojan, cioè un microfono perennemente acceso a registrarti la vita, per settimane o per mesi. L’illusione che in tal modo, ascoltandoti anche nella più inviolabile intimità, si possa apprendere “la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”, è -appunto- tipica del pensiero rozzo e becero del manettaro, abituato a semplificare il mondo in buoni (categoria alla quale ovviamente si auto-iscrive) e cattivi (gli altri). Al contrario, questo ascolto ossessivo, voyeuristico, onnivoro della vita altrui restituisce un materiale proteiforme, indistinguibile, tossico, nel quale è più facile che una indagine si strozzi ed affoghi. Nessun essere umano, infatti, colto nella sua totale, incontrollata libertà di dire tutto ciò che gli passi per la mente, resta immancabilmente fedele alla verità. Non siamo i pubblici ufficiali della nostra vita e del nostro pensiero, idioti che altro non siete. Nel fluire incontrollabile della nostra giornata, raccontiamo, millantiamo, confessiamo, alteriamo, coloriamo, deformiamo la verità ad ogni piè sospinto, per convenienza, per pudore, per vanità, per liberarci da un seccatore, per nascondere un segreto, per provocare una reazione nel nostro interlocutore, per sondare sentimenti ed opinioni, per suscitare stupore, ammirazione, polemica, curiosità. Vai poi a distinguere il grano dal loglio, se sei capace. Questo già vale nelle conversazioni telefoniche, dove tuttavia siamo istintivamente più sorvegliati, più guardinghi, più attenti. Ma nella libertà ambientale assoluta delle 24 ore, produciamo un materiale affabulatorio che solo una ossessiva ottusità manettara può immaginare sia utilizzabile alla stregua del verbale di un consiglio di amministrazione. E infatti già leggiamo dalle cronache impazzite del soi disant “caso Palamara” che, ohibò, se il magistrato da un certo giorno ha saputo di essere spiato dal trojan, vuoi vedere che sparge veleni e trappole in quelle sue conversazioni? Dice la verità, o depista? Ai posteri l’ardua sentenza. Se poi un trojan d’improvviso smette di funzionare, beh cosa vuoi? Non pretenderai che funzioni 24 ore su 24, ci sono i cali di corrente, le onde radio, le scie chimiche, vattelapesca perché. Quanto agli errori di trascrizione da parte della Polizia Giudiziaria, suvvia Direttore Travaglio! Se ci dà spazio sulle colonne del suo giornale noi avvocati penalisti gliele riempiamo di aneddoti a migliaia. Ci dovrebbe dedicare almeno due paginoni al giorno. Ordinanze di custodia cautelare e connessi massacri mediatico-giudiziari letteralmente costruiti su frasi mai pronunciate, su parole mai dette, su trascrizione farlocche a fronte delle quali “carabinierone” è un sussurro familiare, un plausibile equivoco. Dunque si decida, Direttore; se le piace l’aggeggio, le tocca tenerselo -come si dice a Roma- con tutto il cucuzzaro. O con tutto il “carabinierone”, se preferisce.
Trojan per tutti. Cosa prevede il dl intercettazioni, trojan ovunque e articolo 15 della Costituzione calpestato. Giorgio Spangher de il Riformista il 19 Febbraio 2020. La maggioranza ha trovato l’accordo, dopo una giornata di forti tensioni, sulle modiche introdotte al dl n°131 del 2019 in tema di intercettazioni telefoniche con cui erano state modificate le previsioni in materia introdotte dal dlgs n° 216 del 2017 in attuazione della legge delega di cui alla legge n°103 dello stesso anno. Già questi riferimenti chiariscono il travaglio che ha interessato e continua a interessare la disciplina delle captazioni. Nella formulazione approvata in commissione il termine fissato dalla decretazione di urgenza inizialmente fissato nel 2 marzo è stato ulteriormente prorogato di due mesi in linea con le richieste del Csm. Che peraltro aveva chiesto un termine più lungo. Si tratta dell’ennesima proroga che tuttavia in questo caso si inserisce in una autentica controriforma del dlgs 216 del ministro Orlando. Il primo dato che emerge dalla riscrittura della disciplina riguarda la riassegnazione ai pubblici ministeri del controllo sulle intercettazioni, sulla loro rilevanza ai fini investigativi, sull’archivio, sui tempi del diritto della difesa di venire a conoscenza del loro contenuto e del diritto di copia sottraendolo alla polizia giudiziaria che si limiterà alle esecuzione delle attività di captazione e di ascolto. L’ulteriore elemento significativo è il completamento della parificazione dei reati dei pubblici ufficiali e ora anche degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione con i reati di criminalità organizzata sia con riferimento ai presupposti sia in relazione alla captazione tra presenti sia in relazione ai provvedimenti d’urgenza sia in relazione con i luoghi dove è consentito l’uso del captatore informatico. Il solo riferimento all’attività di captazione oblitera tutte le altre funzioni del trojan che continuano a mancare di una specifica disciplina pur nella loro riconosciuta invasività e nel grave pregiudizio arrecato ai diritti costituzionalmente garantiti della persona. Una disciplina particolare è prevista per le intercettazioni poste a fondamento di una misura cautelare. Nonostante l’abrogazione della previsione che consentiva al difensore di fare la trasposizione su nastro delle registrazioni deve ritenersi operante la declaratoria di incostituzionalità che consente alla difesa di chiedere all’accusa copia delle registrazioni poste a fondamento dell’ordinanza mentre resta incerta la conoscenza delle intercettazioni che il Gip ha ritenuto irrilevanti ancorché trasmesse con la richiesta cautelare. Deve invece escludersi l’accesso all’archivio per l’ascolto di quanto depositato. L’aspetto fortemente critico e inaccettabile – stando a quanto era emerso ieri dall’emendamento Grasso poi solo in parte modificato con un subemendamento – è costituito non solo dalla possibile utilizzazione delle intercettazioni per un fatto che non avrebbe consentito l’intercettazione perché non ricompreso fra i reati per i quali l’intercettazione è consentita. E ancora, in mancanza dei presupposti per l’autorizzazione (gravi indizi e assoluta necessità della prosecuzione delle indagini) anche dall’ampliamento della cosiddetta pesca a strascico. A conferma che non c’è niente da fare e che le logiche punitive non si fermano neppure a fronte delle sentenze delle sezioni unite appena pubblicate (2 gennaio) si è cercato di modificare la disciplina dell’utilizzabilità delle captazioni in un diverso procedimento superando il vincolo della commissione. La mediazione raggiunta è insoddisfacente perché i due vincoli indicati (reati intercettabili e arresto in flagranza) consentono una piena utilizzazione probatoria che consente di avviare l’attivita investigativa per un reato e acquisire elementi di altri reati del tutto estranei all’attività di indagine. Ancora più grave quanto previsto con l’uso del captatore attivato per reati di criminalità organizzata e per i reati contro la pubblica amministrazione che consente di usare come prova i risultati dell’intercettazione per qualsiasi altro reato di criminalità organizzata e di criminalità economica. Si consideri cosa tutto ciò può significare con riferimento a intercettazioni ambientali in qualsiasi posto effettuate, compresi i luoghi di privata dimora. È difficile non vedere in queste norme un pesante pregiudizio per i diritti costituzionalmente garantiti che mettono a rischio la riservatezza del domicilio anche perché non c’è garanzia di diffusione di quanto captato anche se estraneo alle indagini e riguardante dati soggettivamente sensibili.
ARTICOLO 15 – La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 26 febbraio 2020. Mentre non si esaurisce la polemica sulla abolizione della prescrizione, che è un regalo all' ingiustizia, il Parlamento dà il via libera al cosiddetto Trojan (potevano trovare un nome migliore, per esempio Putan), una diavoleria tecnologica applicando la quale è possibile spiare chiunque sia dotato di un cellulare. Ignoro come esattamente funzioni, ma dicono che nelle mani degli investigatori si trasformi in un' arma letale idonea a ridurre la privacy in una polpetta retorica. Prepariamoci al peggio, che è già cominciato, visto che Italia Viva, pur essendosi dichiarata garantista in materia giudiziaria, ha votato a favore del provvedimento liberticida. Complimenti vivissimi. Della vicenda riguardante le intercettazioni si discute da lustri, intanto esse vengono utilizzate praticamente in ogni indagine come se fossero, e non sono, affidabili. La lotta tra chi le vuole eliminare e chi incrementare vede prevalere immancabilmente la categoria opportunamente definita dei manettari. Di costoro ora assistiamo al trionfo propiziato dagli esultanti figli di Trojan. In sostanza si consegna ai pm un ennesimo mezzo per inchiodare, magari a casaccio, i cittadini. Anziché puntare a ottenere una giustizia più umana e depenalizzare i reati bagattellari, punendoli con un calcio nel sedere e non con una coltellata alla gola, si forniscono ai magistrati altri strumenti per esercitare il loro strapotere. I politici, quasi tutti, sono più portati a consegnare alle toghe strumenti di tortura sempre più raffinati, che non ad aiutare gli italiani a non subire eccessi giustizialisti, dimostrando in modo eclatante di fottersene del bene comune. L' ultima cosa che sta a cuore a deputati e senatori, specialmente della maggioranza, è il nostro benessere. Poi si stupiscono che la gente preferisca andare al mare che a votare. Ma stiano attenti perché la pazienza ha un limite oltre il quale può scoppiare un casino.
Trojan, telefonini spiati dalle aziende private. Lo Stato affida all'esterno le intercettazioni e l'uso del virus. Concreto il rischio manipolazioni. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 12/02/2020 su Il Giornale. Nonostante le grida di allarme di magistrati, avvocati e addetti ai lavori, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non sembra voler fare passi indietro: a meno di sorprese, dal primo marzo troverà piena applicazione la nuova norma sulle intercettazioni. Una decisione che, dopo gli scontri sulla prescrizione, provoca altre fibrillazioni nella maggioranza: i renziani sono infatti pronti a presentare emendamenti al dl per limitare l'utilizzo dei trojan. Alzando così il livello dello scontro. Ieri in commissione Giustizia al Senato sono stati ascoltati funzionari della Giustizia per cercare di dipanare le «comprensibili preoccupazioni» sull'avvio del «Grande fratello» di Stato. Dal ministero sono arrivate rassicurazioni sul «bilanciamento tra esigenze investigative, diritto di difesa e privacy». Eppure restano diverse questioni irrisolte. Il tasto dolente riguarda l'uso dei trojan. Si poteva affidare allo Stato l'intero processo di intercettazione e invece si è preferito ricorrere ai privati, con evidenti rischi in tema di segretezza, fuga di notizie e rispetto della privacy. Chi vigilerà, ad esempio, affinché gli invasivi virus-spia non vengano usati per «caricare» materiale nei dispositivi all'insaputa del proprietario? Semplice: nessuno. Il ministero se ne lava le mani, spostando la responsabilità sulle aziende. Qualora facessero un uso distorto del virus, i responsabili verrebbero indagati e magari condannati. Ma non esiste un controllo «preventivo», se non un meccanismo tecnico che (pare) permetterà ai procuratori di verificare le attività realizzate dalle ditte sui server. La questione è tecnica, ma sostanziale. Il ministero infatti ha ammesso che «l'immodificabilità» dei dati è garantita solo dopo che le società avranno riversato i file sui server statali. Tradotto: per quel che succede prima si confida che le leggi siano rispettate. Sia chiaro: anche oggi il sistema funziona più o meno così. La differenza però è che per il futuro non si parla più solo di semplici intercettazioni ambientali, bensì dell'utilizzo di trojan capaci di trasformarsi in uno strumento di «sorveglianza massiva dei cittadini». Un enigma avvolge poi il trasferimento dei dati. Le ditte avevano messo a verbale «l'impossibilità» di «conferire in originale» le intercettazioni dai server delle società a quelli di Stato, col rischio che non si possano considerare «autentiche». La relazione consegnata ai senatori, però, è stata rivista nella versione destinata al pubblico. Perché? Mistero. Al posto della parola «impossibile» fa infatti capolino un più edulcorato «difficoltoso» che permette al ministero di liquidare come «eccessivi» i timori delle ditte. Infine, il nodo segretezza. Il ministero assicura che le norme obbligano già le società-spia a cancellare le intercettazioni «alla cessazione» del contratto. Il problema è che i diretti interessati sostengono che la legge abbia grosse lacune e che, secondo il procuratore Bruno Cherchi, «non vi sono sistemi di controllo» per accertarsi dell'avvenuta cancellazione. Alla faccia della privacy.
Trojan horse, ecco come ci intercettano minuto per minuto. Voltaire de Il Riformista 9 Novembre 2019. Si chiamano “trojan horse“. E hanno cambiato per sempre le nostre vite. Installati sui nostri telefonini e computer, a nostra insaputa, sono in grado di monitorare qualsiasi conversazione, chat, pagina web visitata. E di violare così la nostra privacy. In teoria i magistrati dovrebbero utilizzarli soltanto in presenza di reati gravi, come mafia o terrorismo. Ma nella pratica le spie informatiche sono diventate le chiavi d’accesso per controllare le nostre vite. Il costo delle intercettazioni è la voce più rilevante delle spese degli uffici giudiziari: 169 milioni su 193,6 milioni destinati dal bilancio dello Stato alle spese di giustizia. Più delle metà dei costi è concentrata in cinque distretti: Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Milano e Roma. Il numero totale delle intercettazioni telefoniche, ambientali e telematiche è di 180.000.
1. Nel mese di maggio scorso, la Procura di Perugia trasmette al Consiglio Superiore della Magistratura i verbali di conversazioni intercettate tra magistrati, componenti del Csm e politici aventi a oggetto il futuro assetto delle nomine dei principali uffici giudiziari. Nonostante la loro segretezza, le conversazioni intercettate con il virus informatico denominato trojan horse vengono interamente pubblicate dagli organi di stampa che parlano di “suk delle nomine“. Come immediata conseguenza i consiglieri coinvolti si dimettono e l’originario assetto del Csm viene totalmente stravolto. Terminata l’eruzione vulcanica della vicenda in questione, rimangono aperte alcune questioni nodali che prescindono dall’inchiesta di Perugia e riguardano la vita delle persone, la sicurezza dello Stato, la garanzia delle istituzioni nonché l’individuazione della normativa applicabile.
2. Il progresso delle tecnologie di captazione delle conversazioni permette di sottoporre l’individuo a un penetrante controllo sulla sua vita che si estende ai luoghi di privata dimora e ai soggetti che stanno vicino alla persona intercettata, senza escludere la possibilità che questi ultimi a loro volta possano essere titolari di immunità e di garanzie costituzionali. Il trojan si sta dimostrando un formidabile strumento per combattere mafia, terrorismo e corruzione ma come tutti gli strumenti innovativi deve essere maneggiato con cura soprattutto quando incide su diritti costituzionalmente tutelati. Vale la pena ricordare che per la compressione di diritti considerati inviolabili, quale deve essere considerata la possibilità di comunicare liberamente, le moderne costituzioni esigono una riserva di legge e una autorizzazione giudiziale nel rispetto del principio di proporzionalità. La mancata osservanza di queste garanzie procedurali va, pertanto, considerata come violazione di un divieto (implicito) di acquisizione del dato probatorio. Il rischio, ragionando diversamente, è quello di lasciare alla polizia ampi spazi di iniziativa informale e atipica, con l’uso di strumenti invasivi della sfera intima della persona.
3. Telefono cellulare, tablet e anche notebook sono diventati oggetti che accompagnano ogni nostro movimento e ci seguono in ogni luogo. Ma come si infetta realmente uno di questi oggetti? Sono gli stessi giudici della Cassazione, nella importantissima sentenza Scurato del 2016, a descrivere le caratteristiche tecniche e informatiche del trojan horse precisando che si tratta di un programma informatico installato in un dispositivo del tipo target (un computer, un tablet o uno smartphone) di norma a distanza e in modo occulto, per mezzo del suo invio con una mail, un sms o un’applicazione di aggiornamento (nel caso dell’inchiesta perugina notizie di stampa parlano addirittura di un blocco di funzionamento del telefono da parte del gestore). Il software è costituito da due moduli principali: il primo (server) è un programma di piccole dimensioni che infetta il dispositivo bersaglio; il secondo (client) è l’applicativo che il virus usa per controllare detto dispositivo. L’utilizzo di questo programma informatico consente in via principale di attivare il microfono e, dunque, di poter apprendere per tale via i colloqui che si svolgono nello spazio che circonda il soggetto che ha la disponibilità materiale del dispositivo. Oltre alla attivazione del microfono sono possibili numerose e diverse attività tra cui:
– captare tutto il traffico dati in arrivo o in partenza dal dispositivo «infettato» (navigazione e posta elettronica, sia web mail che outlook);
– mettere in funzione la web camera, permettendo di carpire immagini;
– perquisire l’hard disk e di fare copia, totale o parziale, delle unità di memoria del sistema informatico preso di mira;
– decifrare tutto ciò che viene digitato sulla tastiera collegata al sistema (keylogger) e visualizzare ciò che appare sullo schermo del dispositivo bersaglio (screenshot);
– sfuggire agli antivirus in commercio.
Si tratta di attività che però nel nostro ordinamento non possono essere effettuate perché la legge di riforma in materia (c.d. legge Orlando) si è imposta una sorta di self restraint limitandosi a “disciplinare le intercettazioni di comunicazioni fra presenti mediante immissione di captatori informatici”, come testualmente recita la direttiva delegante contenuta nell’art. 1, comma 84, lett. e) legge 23 giugno 2017 n.103.
4. L’utilizzo del trojan impone allo Stato di mettere in sicurezza i sistemi informatici onde evitare che la rilevante mole di informazioni acquisite possa poi essere utilizzata per finalità estranee alle indagini. Infatti, i dati raccolti sono trasmessi, per mezzo della rete internet, in tempo reale o a intervalli prestabiliti, ad altro sistema informatico in uso agli investigatori. Lo Stato ha deciso di affidare questa attività ad aziende private, proprietarie dei software oppure solo locatarie, con azionisti noti o addirittura in alcuni casi con dei prestanome (in un caso figurava essere titolare dell’azienda la moglie di un poliziotto). Milena Gabanelli sul Corriere della Sera del 14 luglio del 2019 ha lucidamente fotografato la situazione evidenziando che le imprese del settore sono 148, dotate in alcuni casi di management di livello, ma in altri casi anche senza dipendenti. Alcune delle più attrezzate aziende del comparto hanno un fatturato che oscilla tra i 20 ed i 30 milioni come la Rcs (che si legge nel sito opera dal 1993 nel mercato mondiale dei servizi a supporto dell’attività investigativa) la Innova, la Ips, la Loquendo. Negli altri casi si tratta di piccole imprese che fatturano centinaia di migliaia di euro e a sostanziale conduzione familiare. È incredibile apprendere che tali aziende possano operare senza che sia richiesta alcuna specializzazione, certificazione o selezione da parte del ministero della Giustizia e non siano sottoposte ad alcun controllo. La loro scelta è rimessa a una libera valutazione degli uffici di Procura che a loro volta ricevono “suggerimenti” da parte della polizia giudiziaria. Recenti casi giudiziari, tra tutti il caso Exodus, hanno riproposto l’enorme numero di problematiche. Come noto nel caso delle intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria devono essere selezionati solamente le conversazioni rilevanti per provare che un reato è stato commesso (questo almeno in teoria perché nella pratica non accade questo; ci sono stati addirittura casi in cui i giornali hanno pubblicato il numero di telefono di persone estranee al delitto). Nel caso del trojan non è dato sapere se una volta trasmessi agli uffici inquirenti i dati continuano a rimanere sulla rete informatica, sovente oggetto di hackeraggio, dell’azienda privata. Nessuna disciplina è dettata al riguardo. Giustamente i più importanti Procuratori d’Italia invocano che il ministero della Giustizia assuma un ruolo guida nella materia in questione.
5. Il costo delle intercettazioni è la voce più rilevante delle spese degli uffici giudiziari: 169 milioni su 193,6 milioni destinati dal bilancio dello Stato alle spese di giustizia. Più delle metà delle spese è concentrata in cinque distretti: Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Milano e Roma. Il numero totale delle intercettazioni telefoniche, ambientali e telematiche è di 180.000. Le intercettazioni telefoniche rappresentano per numero dei bersagli l’80% del totale (130 mila).
6. Ultimo nodo è quello di individuare la normativa realmente applicabile ai trojan horse soprattutto se le conversazioni intercettate avvengono in un bar, in un ristorante in una casa e i reati per cui si procede non sono di mafia o di criminalità organizzata. Fino al 2017, l’utilizzo del trojan non era normativamente previsto e la giurisprudenza aveva inquadrato l’impiego dello strumento in questione nell’art. 266, comma 2, c.p.p. come mezzo di «intercettazione ambientale», la cui «natura itinerante» induceva a escludere «la possibilità di compiere intercettazioni nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., […] non potendosi prevedere, all’atto dell’autorizzazione, i luoghi di privata dimora nei quali il dispositivo elettronico verrà introdotto, con conseguente impossibilità di effettuare un adeguato controllo circa l’effettivo rispetto del presupposto, previsto dall’art. 266, comma 2, c.p.p. che in detto luogo si stia svolgendo l’attività criminosa» (Sez. Un., 28 aprile 2016, n. 26889, cit.). Tale regola subiva la sola eccezione, prevista dall’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, con riferimento alle indagini per i «delitti di criminalità organizzata» (oltre che per il delitto «di minaccia col mezzo del telefono»), in relazione ai quali è già stato da tempo previsto che, in presenza di indizi sufficienti (e, quindi, non gravi, come ora prescritto dall’art. 267 c.p.p.), si possa procedere alle necessarie (e quindi non assolutamente indispensabili) intercettazioni di scambi comunicativi intrattenuti tra presenti anche nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. pur in assenza di una attività criminosa ivi in corso. È intervenuto successivamente il d.lgs. n.216 del 2017 (meglio noto come riforma Orlando) che:
ha codificato per la prima volta l’utilizzabilità del captatore informatico per l’intercettazione tra presenti (art. 266, comma 2, primo periodo) mantenendo ferma la regola (sancita per tutte le forme di intercettazione ambientale) per cui la captazione nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. è consentita soltanto se vi è fondato motivo di ritenere che ivi sia in corso l’attività criminosa;
ha reso «sempre possibile» l’intercettazione ambientale mediante captatore informatico nei «procedimenti per i delitti di cui all’articolo 51, comma 3 bis e 3 quater» c.p.p. (art. 266, comma 2 bis);
ha esteso il regime delle intercettazioni cd. “antimafia”, previste dal citato art. 13 d. 1. n. 152 del 1991, ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni (art. 6, comma 1) specificando però che in caso di utilizzo del captatore informatico, è vietato effettuarle nei luoghi di privata dimora e assimilati in assenza di motivi per ritenere in corso di svolgimento l’attività criminosa (art. 6, comma 2);
ha introdotto una disposizione transitoria che differisce l’entrata in vigore delle disposizioni di cui all’art. 266 comma 2 bis al 1 gennaio 2020 (art.9) mosso dalla condivisibile preoccupazione che all’interno degli uffici di Procura venissero introdotti i requisiti minimi di sicurezze per gestire il materiale intercettato.
In questo complesso quadro normativo è infine intervenuta la cd. “Spazzacorrotti“, che ha abrogato il secondo comma del citato art. 6 d. lgs. n. 216 del 2017 e ha integrato l’art.266 comma 2 bis stabilendo che l’impiego del captatore nei luoghi di privata dimora e assimilati è «sempre possibile» pur in assenza di motivi per ritenere che vi sia in atto lo svolgimento dell’attività criminosa, anche per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Tuttavia la novità qui descritta (pur essendo la legge in esame in vigore dal 31 gennaio 2019) opererà solo in relazione «alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 1° gennaio 2020, visto che non risulta abrogata la normativa transitoria del d.l.vo 216/17 in quanto nel frattempo gli ammodernamenti degli uffici di Procura per la gestione del materiale intercettato non sono stati realizzati. Quale dunque la normativa applicabile? Dal quadro delineato emerge che la disciplina dell’uso del captatore informatico per i delitti di criminalità organizzata e dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. sembrerebbe non ancora in vigore. Allo stato attuale il ricorso al trojan è dunque possibile operando una sorta di mix tra giurisprudenza creativa (i termini della sentenza Scurato che nel 2016 ha inteso «anticipare» una riforma in itinere; riforma che oggi prefigura contenuti, almeno in parte, diversi) e una fonte normativa che ha sì già abrogato l’art. 6, 2° comma, d. lgs. n. 216 del 2017, ma che ancora attende l’entrata in vigore degli artt. 266 e 267 cpp —disposizioni, per così dire, portanti— che dovranno disciplinare il processo autorizzativo della medesima «pratica investigativa”. Conclusivamente il tema della specifica tutela delle conversazioni che avvengono in luoghi di privata dimora è ancora quanto mai attuale, quando si procede per i reati che non sono di criminalità organizzata.
Trojan, l’ultima beffa che cancella la privacy. Valeria Valente de Il Riformista 24 Dicembre 2019. Ci sono temi su cui il confronto politico rappresenta il termometro della società, del suo stato di salute e, quindi, anche della sua febbre. La giustizia è uno di questi, ancora di più quando si parla di prescrizione e intercettazioni. Non deve sorprendere allora che il dibattito di queste settimane, tornato prepotentemente su questi due temi, sia ampio, plurale e franco. Nessuno può considerare la discussione di questi giorni un intralcio al processo legislativo, tanto più quando la richiesta di approfondimento proviene da voci autorevoli della magistratura e dell’avvocatura che ne sono direttamente interessate. La disciplina sulle intercettazioni, approvata sabato in Consiglio dei ministri e che entrerà in vigore a marzo, dimostra che questo percorso può essere condotto con senso di responsabilità. Troppe volte in questi anni abbiamo denunciato l’uso distorto delle intercettazioni come clava per la delegittimazione pubblica di persone che magari neanche erano coinvolte nelle indagini. E troppe volte la politica su questo punto è stata ipocrita, perché in quella enorme stortura ci trovava un modo facile per aumentare il consenso. D’altronde, già il fatto che per 18 mesi il precedente governo avesse congelato queste norme, fa capire che senza il Pd probabilmente oggi avremmo una nuova proroga a non si sa quando. Io resto convinta che quello per cui non può diventare pubblico ciò che non è penalmente rilevante e ha invece a che fare con i contesti, i comportamenti leciti, le idee e i giudizi sia un sacrosanto principio di garanzia liberale. Vedremo se con le nuove norme questo rischio sarà scongiurato o servirà proseguire su questa strada. Ad esempio, mi sembra una mediazione equilibrata l’attribuzione al pubblico ministero del controllo affinché nei verbali non finiscano contenuti offensivi e lesivi estranei ai fini delle indagini. Così come è positiva anche la possibilità per il difensore di accedere alle operazioni captative. Sinceramente, mi sembra molto meno accettabile l’ulteriore estensione dell’uso del trojan. Si prevede che nello stesso procedimento il materiale acquisito possa essere utilizzato anche per reati diversi da quelli per i quali c’è l’autorizzazione all’intercettazione. Stiamo parlando del più invasivo strumento nei confronti di una persona. E molto spesso se ne parla senza tenere conto del serio problema di bilanciamento tra efficienza investigativa e rispetto delle garanzie. Su questo punto credo che ci sia stato un passo indietro rispetto al testo originario del decreto Orlando del 2017 e immagino che il Parlamento vorrà esprimersi nelle prossime settimane. Va detto però che sulle intercettazioni il Partito democratico ha dimostrato ragionevolezza e responsabilità, accogliendo le osservazioni espresse da alcune procure e avvocatura. Mi chiedo se su prescrizione e durata del processo stia accadendo lo stesso da parte del Movimento 5 Stelle. Qualcuno, anche nella maggioranza, si è stupito che il Pd sollevi forti criticità sulla prescrizione a firma Bonafede e chieda una soluzione equilibrata sulla giusta durata del processo che quella norma non garantisce affatto. Io francamente mi stupisco di chi si stupisce. Nel gennaio 2019, la legge meglio nota come “spazzacorrotti” ha introdotto il blocco del corso della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado, indipendentemente dall’esito, sia esso di condanna o assoluzione. Lo ha fatto con uno strano meccanismo “ora per allora”, e cioè differendo la sua entrata in vigore al 1° gennaio 2020, in modo tale da poter approvare nel frattempo una revisione di sistema del processo penale in grado di garantirne la ragionevole durata. All’epoca il Partito democratico votò contro quella norma, per il merito e per il metodo, sollevando persino una pregiudiziale di costituzionalità, con ottime motivazioni che credo rimangano in piedi. Infatti, aprire di fatto all’imprescrittibilità dopo la sentenza di primo grado, significa dare un colpo fatale agli equilibri di uno stato di diritto, dove la pretesa punitiva dello stato ha dei limiti e non è una cappa a cui siamo tutti sottoposti fino a che non si dimostri la propria innocenza. Ma oltre a ciò, questa riforma non risolverà il problema che dice di voler curare, e cioè i tempi del processo, dato che la grandissima parte delle prescrizioni giungono in primo grado, e di queste molte durante le indagini preliminari. Così come le richieste di giustizia delle vittime, e i loro risarcimenti, non saranno soddisfatti meglio, come invece sento dire, dato che l’allungamento prevedibile dei processi interferirà anche sulla celerità delle risposte a chi ha subito un reato o patito un danno. Queste erano le ragioni del nostro no di un anno fa, valide ancora di più oggi. Perché? Semplice. Fra pochi giorni quella norma diventerà legge senza che nel frattempo da via Arenula sia arrivata una chiara proposta organica sul processo penale. Un anno fa il M5s e il ministro Bonafede avevano spostato in avanti la prescrizione considerando essenziale farla precedere dalla riforma del processo, che ne dovrebbe garantire la durata ragionevolmente breve. Oggi che però sul processo non c’è nulla, la prescrizione resta comunque in piedi. Dove sta la coerenza? Eppure il ministro della Giustizia è lo stesso di un anno fa.
I dati di quasi 8 miliardi di persone passano nei cavi sottomarini. Chi li controlla? Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Fabio Savelli. Tutto il traffico voce e dati mondiale è in mano a Usa, Cina, Russia. In caso di guerra tecnologica l’Europa rischia il black out. Stiamo parlando del sistema nervoso centrale delle telecomunicazioni globali. Il 99% di tutto il traffico internazionale voce e dati di 7,7 miliardi di persone passa per cavi lunghi migliaia di chilometri stesi sotto i fondali degli oceani. La proprietà di queste autostrade sottomarine è di chi le posa, mentre la gestione è nelle mani di chi le accende e ne fornisce i flussi di informazioni, ovvero le compagnie elettriche e telefoniche. La loro importanza deriva dal fatto che ricordano tutto ciò che su di essi transita, e interromperli, tagliarli di netto, significa mandare in tilt il sistema informatico di interi Paesi bloccando la fornitura di energia, i sistemi di trasmissione delle informazioni sensibili di ministeri ed istituzioni, le transazioni elettroniche, le comunicazioni via Internet. Il segnale che siamo entrati in una nuova era che rivoluziona la «geopolitica mondiale» sovrapponendola alla «geopolitica dei cavi», è scattato qualche mese fa, e sotto forma di campanello d’allarme. Il team Telecom della Casa Bianca ha detto no per la prima volta nella sua storia. Il comitato multi-agenzia del dipartimento di Giustizia Usa ha bloccato il progetto di realizzazione del Pacific Light Cable Network, un cavo di 12.800 chilometri che dovrebbe collegare direttamente, sotto l’oceano Pacifico, Los Angeles ad Hong Kong, ancora assediata dai tumulti anti-Cina. È il primo sistema di cavi composto da 240 canali in una singola coppia di fibre con una velocità di trasmissione di 120 terabytes al secondo. Gli americani parlano di rischi per la «sicurezza nazionale» perché dentro al consorzio che deve realizzare il progetto, insieme ai due colossi Usa, Google e Facebook, c’è anche la Dr Peng Telecom&Media group, ovvero il quarto operatore telecom di Pechino. Due anni fa è stata l’Australia, dietro la regia di Washington, a mettersi di traverso, bloccando la realizzazione di un collegamento della cinese Huawei Marine tra Sydney e le Isole Salomone. Non è un caso se dopo quel divieto il colosso di apparati tlc fondato da Ren Zhengfei abbia deciso di vendere il 51% della sua controllata alla connazionale Hengtong. L’obiettivo dello scorporo era quello di dimostrare che gli interessi tra chi fa apparati tlc e chi installa i cavi non coincidono. Una formalità, poiché a nessuna azienda cinese è permesso di «scorporarsi» dagli interessi del Partito. Nel frattempo la Cina ha steso miliardi di chilometri di fibra ottica e pesa per oltre il 60% della domanda globale, che si attesta sui 600 milioni di chilometri all’anno. Tra i primi sette operatori al mondo, cinque sono cinesi: Hengtong, Futong, Fiber Home, Ztt, Yofc.Le loro economie di scala non hanno concorrenti e hanno finito per terremotare il mercato dei cavi sottomarini, storicamente appannaggio occidentale. La neutralità delle connessioni fino a qualche anno fa è stata assicurata dal fatto che le infrastrutture sono state realizzate da società private occidentali o consorzi internazionali, sottoposti a regole di mercato e finanziati prevalentemente dalla Banca Mondiale e, per conto dell’Europa, dalla Banca europea degli Investimenti. Con il modello statalista di Pechino è lo stesso governo a realizzarle, anche per conto delle grandi big tech americane che stanno investendo massicciamente sui «submarine cable» complice l’esplosione del cloud computing. Questa convergenza di interessi con i colossi Usa – che hanno bisogno di un’incredibile quantità di fibre ottiche di nuova generazione per connettere in tempo reale oltre tre miliardi di dispositivi Android e IOs – preoccupa l’amministrazione Trump, che si trova in ritardo per competenze e investimenti. Google ha investito in 14 cavi, di 3 ne è proprietaria. Facebook ha investito in 10 progetti, Amazon in 3. La fondazione Itif calcola che nei prossimi due anni sono previsti più di 50 progetti in tutto il mondo, e Il mercato dei cavi sottomarini nel 2026 dovrebbe raggiungere gli oltre 30 miliardi di dollari, triplicando le dimensioni del 2017.Pechino ha appena «piazzato», in coerenza con la sua politica di espansione, un cavo di 6mila chilometri tra Brasile e Camerun e avviato il progetto del Pakistan&East Africa Connecting (12mila chilometri per collegare Europa, Asia e Africa), e un collegamento tra il Messico e il golfo della California. Ma anche Mosca è estremamente attiva. Un recente rapporto del think tank Policy Exchange ha avvertito che la Russia sta «operando aggressivamente» nell’Atlantico, dove i cavi collegano l’Europa e gli Stati Uniti. Nella prefazione l’ammiraglio della Marina statunitense James Stavridis ha rilevato come «le forze dei sottomarini russi hanno intrapreso attività di monitoraggio nelle vicinanze dell’infrastruttura di cavi sottomarini. Hanno la capacità di fare un colpo mirato, causando un danno potenzialmente catastrofico». In questo quadro preoccupa la sostanziale irrilevanza dell’Europa, che rischia il blackout tecnologico nel caso in cui Usa, Russia o Cina decidessero di tagliare uno dei cavi sottomarini su cui transitano miliardi di miliardi di dati, dalla fornitura di energia elettrica, telefonia, servizi privati, pubblici e governativi. Non abbiamo né un apparato tecnologico, né un player digitale in grado di competere con la cinese Huawei e con Google.
· Il Concorso truccato per i magistrati.
Magistrato o avvocato, la selezione è severa. Nei paesi del Nord la toga è una “religione”. Renato Luparini su Il Dubbio il 3 luglio 2020. Come si regolano inglesi e tedeschi, calvinisti o luterani che siano. La tesi di Max Weber su etica protestante e spirito capitalista ha fatto scrivere intere biblioteche . Potenza di un classico. E’ un accostamento geniale quello tra sfera religiosa e attività economica, due mondi che sembrano opposti , ma del resto se “la filosofia è la domenica della vita” come diceva un altro tedesco ( e per giunta protestante) come Hegel, occorre trovare un equivalente per gli altri giorni della settimana. Il diritto è sicuramente materia da giorno feriale ma risente anch’esso della concezione religiosa del popolo che lo esprime. Prendiamo un tema attualissimo, come la selezione dei magistrati e confrontiamo le differenti scelte di alcuni Paesi Europei. E’ singolare vedere come i criteri cambino a seconda della religione storicamente prevalente e della concezione del laico nella Chiesa. Il primo modello è quello dei Paesi anglosassoni, di cultura religiosa prevalentemente calvinista. Qui i magistrati, esattamente come i pastori d’anime, non costituiscono una categoria a parte rispetto al laicato : vengono scelti , spesso su base elettorale, tra gli avvocati di maggiore età ed esperienza. Il magistrato non è il rivale dell’avvocato: è semplicemente un suo collega più anziano. Del resto il magistrato nei casi più importanti è solo un arbitro : a decidere la colpevolezza o l’innocenza nei processi più gravi è una giuria laica. Lo stesso avviene nelle Chiese riformate di tipo calvinista o metodista : il predicatore non ha un carisma diverso dai fedeli ; è semplicemente uno di loro che ha fatto uno studio teologico. Il secondo modello è quello tedesco, dove notoriamente la religione prevalente è quella protestante luterana. L’errore di molti italiani è di fare dell’erba evangelica tutto un fascio e confondere calvinisti e luterani. Questi ultimi sono molto più vicini ai cattolici, tanto che il termine “protestanti” equivaleva a “cattolici dissidenti” almeno nei primi anni della loro esperienza. Per i luterani il pastore ha un ruolo più spiccato e distinto dal popolo, pur facendone parte. Infatti in Germania la formazione di magistrati e avvocati è la stessa : escono tutti dal severissimo “secondo esame di diritto “ ( non si può provare più di due volte) e hanno una solidissima formazione teorica comune che li rende sostanzialmente equiparati, anche nella disposizione dei banchi in aula. E’ lo stesso sistema con cui in Germania si formano gli uomini di Chiesa: studi universitari selettivi e primato sul popolo fondato non sull’autorità o un carisma soprannaturale, ma sulla superiore conoscenza. Hegel sul punto scrisse uno dei suoi ultimi discorsi , celebrando il trecentesimo anniversario della Confessione Augustana del 1530 che segnò l’inizio della Chiesa Luterana. Da noi i magistrati sono come i preti ( nessuno si risenta da ambo le parti dell’accostamento). Prendono la toga ( o la tonaca) da giovani e tendenzialmente per tutta la vita, sono selezionati per studi e condotta e costituiscono un ordine chiuso e ben separato dai laici che hanno il compito di ammaestrare e ammonire. Ogni controllo esterno, specie da parte della componente del laicato più vivace e polemica ( come è in ambito giudiziario l’avvocatura) li irrita e sconcerta: reclamano con forza la necessità di controlli esclusivamente interni, in virtù e in ragione di un ministero e di un carisma che viene loro dall’alto. Curiosamente uno dei centri di formazione dei magistrati italiani era nei Castelli Romani a pochi chilometri dal bosco sacro di Ariccia dove Frazer ambienta il suo memorabile finale del “Ramo d’Oro “, il saggio sul rapporto tra sacerdozio e magia nelle civiltà di ogni tempo. Chi si illude con sorteggi e riforme di cambiare la magistratura italiana sappia che si muove all’interno di un bosco sacro, pieno di spiriti arcani.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
Un concorso truccato per aspiranti magistrati. Un avvocato svela la “truffa” subita nel 1992, scrive il 28 settembre 2017 "Il Corriere del Giorno". Il Consiglio Superiore della Magistratura costretto ad ammettere: il suo scritto non era mai stato esaminato. Conseguenze? Nessuna! La vera “casta” porta la toga…Era il 23 maggio 1992 e all’Hotel Ergife sulla via Aurelia a Roma è il giorno dell’abbinamento delle buste del concorso in magistratura per uditore giudiziario: mercoledì 20, diritto penale; giovedì 21, diritto amministrativo; venerdì 22, diritto privato con riferimento al diritto romano. C’era anche Francesca Morvillo la compianta moglie del giudice Falcone, la quale alle 16 salutò tutti andando via. Doveva prendere quel maledetto aereo che la portò a Palermo dove venne uccisa insieme a suo marito, Giovanni Falcone. È il primo colpo di scena del concorso durante le stragi di mafia.
Un concorso così particolare da essere finito in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè Editore. Scoprire il dietro le quinte di quel concorso, svelato 25 anni dopo, è stato possibile alla tenacia un avvocato di Asti, Pierpaolo Berardi all’epoca dei fatti un giovane legale candidato a quel concorso, il quale racconta che allorquando lesse il titolo del tema di diritto penale era più che soddisfatto: proprio quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico, oggetto del concorso, lui lo aveva appena affrontato in Tribunale. La successiva prova di diritto amministrativo andò anche lei bene; quella di diritto privato e romano era stata oggetto di un seminario che aveva seguito poco prima del concorso. Ma passato un anno dopo quel concorso, allorquando vennero resi noti i risultati degli esami scritti, l’avvocato Berardi esito a poter credere ai suoi occhi. Era stato bocciato. Fu in quel momento che iniziò la sua battaglia legale. Il Tar ed Consiglio di Stato gli dettero ragione, mentre il Ministero di Giustizia e il Consiglio Superiore della Magistratura alzarono il loro solito muro di gomma “politico”. L’avvocato Berardi chiese legittimamente di potere vedere i suoi scritti e il verbale, ma – come racconta oggi al quotidiano LA STAMPA – “Mi dissero al telefono che il verbale non c’era”. Dopo un ennesimo ricorso vittorioso al Tar, il legale piemontese ottenne le prove ed i verbali del suo esame, da cui arrivò l’ennesima sorpresa: “I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no”. Berardi non si fermò ed andò avanti, infatti la Legge gli consentiva di poter di chiedere anche le prove degli altri candidati promossi. E lì scoprì tante altre anomalie ed illegalità. I temi erano facilmente riconoscibili perché una volta scritti su una sola facciata, altre volte in stampatello, alcuni persino pieni di macroscopici errori giuridici, altri idonei come il suo, ma sui cui non era stato apposto alcun voto. Addirittura un candidato elaborò il tema su una traccia diversa da quella indicata nell’esame. Qualcuno scrisse con una calligrafia doppia (per far riconoscere il suo elaborato a chi doveva esaminare; un altro () aveva riportato copiando pagine e pagine copiate da manuali di Diritto, mentre si potevano solo consultare i codici. Tra i temi casuali che Berardi chiede di visionare c’è anche quello di Francesco Filocamo, attuale magistrato al Tribunale di Civitavecchia ed estratto a sorte come presidente del Tribunale dei Ministri. Il Ministero di Giustizia con estremo imbarazzo è costretto a risponde a Berardi ammettendo l’inverosimile e cioè che le sue prove non sono in archivio. Uno scandalo o una vergogna? Probabilmente entrambi. Partono i ricorsi. L’avvocato Berardi viene ascoltato a Perugia da un sostituto procuratore della Repubblica alla presenza come uditrice, di una magistrata che aveva vinto proprio quel concorso. Ma non è finita. Infatti quando il Tar ed il Consiglio Superiore della Magistratura ordinano di ricorreggere i suoi temi, invece di nominare una nuova commissione, incredibilmente viene chiamato a valutarlo la stessa che lo aveva bocciato! Dopo aver sempre affermato che era tutto regolare, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 2008 è costretto a riconoscere all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non erano mai stati esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna. E poi parlando di indipendenza della magistratura… In realtà si sentono degli “intoccabili”.
Toga vinta ‘un si rigioca, scrive Cosimo Loré, Docente universitario e scrittore, l'11 ottobre 2010 su "Il Fatto Quotidiano". Se si entra in una bisca non si può pretendere che si giochi pulito! E le selezioni pubbliche si presumono truccate ma si confermano tali appena i controlli verificano i tempi di un concorso. Come ben risulta fin da quelli per magistrato. Da chi si ricorre poi se iudex si diventa in tal modo? Si legga Le toghe ignoranti (L’espresso 9.9.2010) dove l’avvocato penalista di Asti Pierpaolo Berardi ricorda il calvario per la ricerca della verità su imbrogli a catena per commettere prima e occultare poi la serie di illeciti fatti da magistrati e politici che lo bocciarono nel concorso in magistratura svoltosi nel maggio 1992; lo boicottarono intralciandone i ricorsi per ben 16 anni: il 30 aprile del 2008, però, il plenum del Csm riconobbe che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla commissione: l’organo di controllo dei giudici dei futuri giudici, il Csm, riconobbe il falso ideologico presente nel verbale, che invece affermava esservi stato l’esame delle prove scritte. Conseguenza in relazione a questo deliberato: nessuna. Intanto gli elaborati di un candidato vincitore, certamente esaminati, sono spariti dagli archivi del ministero: il padre è un magistrato ora in pensione, la mamma e il fratello magistrati in servizio; i cugini sono anch’essi magistrati; uno aveva superato il concorso del ’92, l’altro fuori ruolo al ministero ebbe l’incarico di esaminare un esposto dell’avvocato Berardi sul concorso, intanto vinto dal fratello e dal cugino…
Nel nostro volume Medicina Diritto Comunicazione (Giuffrè Milano 2005) scrivevamo…«L’attività dei seri ricercatori, la formazione dei giovani studenti, la memoria dei grandi maestri sarebbero meglio garantite se si provvedesse ad una più seria verifica (i concorsi sarebbero pubblici…) della idoneità oltre che della capacità di chi aspira ad indossare una toga. Non meno coraggiosa la denuncia dell’avvocato Pierpaolo Berardi nata nel 1992, anno in cui consegnò i propri scritti al concorso per magistrato, grazie alla legge 241 del 1990 che gli ha consentito di verificare con quale fraudolenti trucchi e impudichi marchingegni arraffarono la toga molti candidati (gli scritti sarebbero da pubblicare e studiare per far comprendere le ragioni reali di alcune disfunzioni della giustizia…). Su tale indagine vi sarebbe stato il silenzio-stampa (di fronte a fatti simili non c’è destra o sinistra che tenga…) se non avessero ritenuto di rendere pubblica questa vicenda – che a ragione si può definire storica – due giornalisti che onorano la professione e che riteniamo doveroso citare: Massimo Numa (La Stampa del 9 settembre 2004 a pag. 12, Lo strano concorso che fa tremare trecento magistrati) e Anna Maria Greco (Il Giornale del 10 settembre 2004 a pag. 10, Dopo dodici anni, concorso «sospetto», 275 toghe rischiano il posto).» La convinzione di molti ̶ all’interno e all’esterno degli ambiti giudiziari e accademici ̶ è che si tratti di aree affrancate da ogni forma di controllo e caratterizzate dall’assoluto arbitrio. In sostanza ed in sintesi vi è un assai consistente rischio – nel caso si vogliano adire le vie legali – di incappare in giudici non degni della toga indossata, talora con cupa alterigia …
Concorso truffa in magistratura: i testimoni raccontano, scrive il 28 Settembre 2017 "Zone d’Ombra". La storia è una di quelle tipiche italiane. Una di quelle, per intenderci, in cui spesso ci sono di mezzo politici e personaggi poco trasparenti. Questa volta, però, c'è di mezzo l'organo istituzionale che dovrebbe garantire il rispetto della legge. La vicenda è finita, 25 anni dopo, in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè. Pierpaolo Berardi, allora giovane legale, è uno dei candidati di un concorso in magistratura: era il 23 maggio del 1992. A quel concorso avrebbe dovuto partecipare anche Francesca Morvillo, moglie di Giovanni Falcone rimasta uccisa poco dopo. Berardi alla lettura del titolo del tema di penale non crede ai suoi occhi: quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico lo ha appena affrontato in tribunale. Tutto fila liscio. Quando un anno dopo escono i risultati degli scritti, però, Berardi legge di essere stato bocciato. Lui non ci sta e intraprende una battaglia. Tar e Consiglio di Stato che gli danno ragione, ma il ministero e il Csm che oppongono resistenza. Come racconta La Stampa, l’avvocato chiede di potere vedere i suoi scritti e il verbale ma il verbale non c’era. Berardi dopo aver vinto un ricorso al Tar scopre che: "I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no". L'avvocato non si ferma e va avanti nella sua battaglia. Visiona anche le prove degli altri candidati promossi e scopre altre questioni: i temi sono riconoscibili perché scritti su una sola facciata, altri in stampatello; alcuni pieni di errori giuridici, altri idonei ma senza voto. Un candidato svolge il tema con una traccia diversa da quella indicata; uno scrive con una calligrafia doppia; un altro copia pagine e pagine di manuali di Diritto. A quel punto partono i ricorsi. A Perugia Berardi viene sentito da un pm con presente come uditrice una magistrata che aveva vinto quel concorso. Quando Tar e Csm ordinano di ricorreggere i suoi temi anziché nominare una nuova commissione è la stessa che lo aveva bocciato a farlo. "Nel 2008 il Csm dopo aver sempre affermato che era tutto regolare riconosce all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna."
La storia dell'avvocato Di Nardo. Un'altra denuncia sui presunti concorso truccati in magistratura è quella fatta dall'avvocato isernino, Giovanni Di Nardo. Nel 2014 l'avvocato partecipò al concorso in magistratura ma, dopo l'esame, arrivò la lettera dal ministero della giustizia che lo informò sulla non ammissione. A quel punto Di Nardo fa ricorso al Tar chiedendo in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia risulta essere piena di errori ortografici e di sintassi. A quel punti Di Nardo presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. La denuncia viene archiviata. Di Nardo presenta un esposto alla Procura Generale e, a quel punto, viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta.
Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi, Mercoledì 29/10/2014, su "Il Giornale". "Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale". A svelare questo dettaglio sulla carriera dell'ex toga di Mani Pulite è il Tempo che riporta quanto detto dall’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma. Come scrive il quotidiano romano, "la vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online "Petrus", Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune". Corrado Carnevale è tornato in aula per difendersi dall'accusa di diffamazione mossa da Antonio Di Pietro. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. Durante il dibattimento in tribunale, il legale di Carnevale ha ribadito le dichiarazioni del suo assistito: "In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria". Opposta la versione del legale di Di Pietro: "Dagli atti documentali del processo di primo grado è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa".
Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive il 29 Ottobre 2014 “Il Tempo”. «Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale». Un aspetto non trascurabile del percorso che ha portato un vicecommissario del Molise a diventare uno dei magistrati di punta del pool di Mani Pulite, viene alla luce da una causa civile per diffamazione. È stato l’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, a spiegare ieri al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma come andò l’esame per diventare uditore di Di Pietro. La vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online «Petrus», Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. «Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune». Per quelle dichiarazioni, poi riprese da altre testate giornalistiche, Di Pietro ha querelato per diffamazione a mezzo stampa Carnevale. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. «L’urgenza di un’inibitoria – ha spiegato l’avvocato Aloisio – è dovuta al fatto che è già stato notificato l’atto di precetto. Lunedì scorso eravamo in attesa dell’ufficiale giudiziario. Il mio assistito non solo ritiene che giustizia non sia stata fatta, ma ritiene che 30 mila euro (se si considerano pure le spese legali e gli interessi) non siano una bazzecola per nessuno, anche per un magistrato la cui pensione mensile corrisponde alla metà di quella somma». Prima di celebrare l’udienza, ieri, il presidente del collegio d’Appello Francesco Ferdinandi ha chiesto alle parti «data la levatura delle loro personalità» se volessero raggiungere un accordo bonario e rinunciare al contenzioso, ma il legale di Di Pietro si è opposto. A quel punto l’avvocato Aloisio è entrato nel merito della questione: «In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria». A difendere l’ex pm di Mani Pulite, in udienza, c’era un avvocato dello studio legale Scicchiatano, di cui lo stesso Di Pietro fa parte da quando ha lasciato la carriera politica per quella forense. «Dagli atti documentali del processo di primo grado – ha spiegato il civilista – è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa». Ora la parola passa ai giudici di secondo grado che dovranno decidere se accogliere la richiesta di sospensiva della sentenza.
"Quel concorso da giudice: tutto truccato". Il racconto al Giornale di una candidata che ha partecipato al concorso di Milano: Ho visto troppe irregolarità. Sui banchi codici commentati o intere enciclopedie. Decine le denunce. Il ministero ha aperto un’inchiesta, scrive Luca Fazzo, Giovedì 27/11/2008, su "Il Giornale". «Una scena che non dimenticherò facilmente. Marasma totale, candidati che chissà come erano riusciti a portarsi appresso intere enciclopedie giuridiche, nessuno che sapeva che pesci pigliare, e in mezzo al caos un membro della commissione che strillava “Fermate quello spelacchiato che incita le persone”. Sembrava di essere al mercato, non al concorso per una delle professioni più delicate della nostra società». Questo è il racconto di V. che ha trent’anni e - per motivi che spiegherà più avanti - non vuole vedere il suo nome sui giornali. Ma il suo nome ce l’ha il ministro della Giustizia Angiolino Alfano, in calce all’accorata lettera che V. gli ha mandato per raccontargli le condizioni surreali in cui si è svolto a Milano, dal 19 al 21 novembre, il concorso per 500 posti da magistrato. Delle decine di testimonianze come quella di V. si dovranno occupare in diversi. Il ministero, che ha avviato una inchiesta interna. Il Consiglio superiore della magistratura che - su richiesta dei Movimenti riuniti e di Md - stamattina aprirà una sua indagine. E la Procura della Repubblica di Milano sul cui tavolo sono arrivati gli esposti che alcuni candidati inferociti si sono precipitati a depositare dopo avere rinunciato a portare avanti la prova. «Io non voglio buttarla in politica», dice V., «non voglio ipotizzare che ci fossero forme di corruzione o di connivenza. Non sta a me accertarlo. A noi spetta denunciare le irregolarità macroscopiche che erano sotto gli occhi di tutti e che la commissione ha fatto finta di non vedere. Adesso leggo che il ministero per fare luce sulla vicenda ha chiesto una relazione al presidente della commissione. Che obiettività ci si può aspettare? Perché non vengono sentiti anche i candidati?». Tema dello scandalo: l’introduzione - da parte di numerosi candidati all’oceanica prova d’esame convocata presso la Fiera di Milano - di vietatissimi codici commentati. Tradotto per i profani: agli esami per magistrato i temi riguardano faccende astruse («diritto di abitazione del coniuge superstite e della tutela del legittimario nel caso di atti simulati da parte del de cuius», recitava una traccia di settimana scorsa) cui i candidati debbono rispondere basandosi unicamente sui testi di legge, e non sui codici assai diffusi in commercio che, in fondo alle pagine, forniscono le risposte a ogni dubbio. Peccato che alla Fiera di Milano i codici del secondo tipo circolassero quasi liberamente. Risultato: sollevazione degli onesti, assalto alla presidenza, la prova che si blocca, riparte, finisce a notte inoltrata tra urla di «vergogna, buffoni», minacce, metà dei 5.600 candidati che abbandonano senza consegnare il compito. Come è stato possibile? Il presidente della commissione d’esame, il consigliere di Cassazione Maurizio Fumo, rifiuta ogni spiegazione. Così per ricostruire i fatti - che rischiano di portare all’annullamento della prova - bisogna affidarsi al racconto di V. e degli altri candidati. «La mia non è una denuncia anonima - dice V. - il ministro ha il mio nome in mano. Ma io quell’esame voglio riprovare a affrontarlo, stanno per essere banditi altri 350 posti. E se il mio nome girasse ne uscirei enormemente penalizzata». Che una aspirante magistrata sia convinta che il «sistema» si vendicherebbe della sua denuncia civile la dice lunga sull’aria che tira. V. non si dichiara ancora ufficialmente una disillusa, ma poco ci manca. «Io da sei anni non faccio altro che prepararmi per questo concorso. Voglio fare il magistrato, e credo che lo farei bene. Non ho aspirazioni missionarie, non ho una visione giustizialista della società. Ma credo che ogni società abbia bisogno di una cultura delle regole, e che per questo servano magistrati equilibrati e preparati. Io credo di essere entrambe le cose. Consideravo il concorso per magistratura l’ultima trincea della meritocrazia, evidentemente mi sbagliavo. All’idea che questo concorso premi i furbi che “ci hanno provato” mi sento profondamente indignata». «Abbiamo passato un giorno intero - racconta - a fare controllare i testi di cui chiedevamo di servirci. A me hanno tolto persino i segnapagine. Il giorno dell’esame ci sono ragazze che si sono viste perquisire anche la busta dei Tampax. I controlli, insomma, sembravano seri. E invece quando siamo entrati nell’aula è arrivata la sorpresa. C’erano candidati che avevano sul banco, con tanto di autorizzazione, codici commentati, manuali di diritto, enciclopedie. A quel punto è partita la protesta». Ma chi è stato, a permettere l’ingresso dei testi vietati? «I controlli li facevano i vigilantes, gli stessi che poi giravano tra i banchi. Non so chi li abbia istruiti. Ma so che un codice semplice si distingue facilmente da uno commentato: c’è scritto in copertina, e uno è alto un terzo dell’altro. Impossibile non accorgersene». E allora? Come è stato possibile? «Non lo so. Era una situazione surreale. E il presidente diceva: la prova va avanti, non è successo niente. Nei due giorni successivi il concorso è andato avanti così, chi copiava dai testi e chi si arrangiava in qualche modo. Se provavi a guardare il banco del vicino quello ti saltava in testa: cosa vuoi, fatti i fatti tuoi, vattene». Ed era il concorso da cui sarebbero usciti i magistrati di domani.
Concorsi truccati in magistratura. Verso l’Ok all’inchiesta del Csm. Il caso denunciato da un avvocato bocciato due volte. Nel mirino ci sono le sessioni del 1992 e del 2000. Nicola Scuderi su lanotiziagiornale.it il 7 Luglio 2020. Sembra proprio un brutto momento per la magistratura che, ormai quotidianamente, viene travolta da scandali. Dopo i veleni tra toghe nati dallo scandalo sugli incontri carbonari promossi dal pm Luca Palamara, ora spunta pure l’ombra dei concorsi truccati per diventare pubblico ministero o giudice a mettere in ulteriore imbarazzo la giustizia italiana. Proprio ieri i componenti della prima commissione del Csm, i laici Stefano Cavanna in quota Lega e Fulvio Gigliotti di M5s (nella foto), hanno chiesto al Comitato dei presidenza dell’organo di autogoverno della magistratura, di procedere all’apertura di una pratica sul caso dei concorsi in magistratura negli anni 1992 e 2000. ACCERTAMENTI NECESSARI. L’intento è quello, come messo nero su bianco dai due consiglieri, di “effettuare un’approfondita istruttoria” e, conseguentemente “accertare l’eventuale sussistenza di fatti e/o condotte rilevanti nell’ambito delle competenze del Consiglio, nonché al fine di adottare le iniziative meglio ritenute” in caso vengano rilevati illeciti. Una richiesta che i due componenti del Csm ritengono necessaria dopo alcune notizie di stampa, allegate agli atti, che non possono essere ignorate perché descriverebbero una situazione a dir poco allarmante e a tratti peggiore perfino di quella delineata dallo scandalo Palamara. Basti pensare che nella richiesta, senza nessun giro di parole, si fa riferimento a “un articolo ipotizzante gravissimi fatti astrattamente inficianti la regolarità del concorso di magistratura la cui prova scritta si svolse i giorni 20-21 e 22 maggio 1992 e, forse, anche il concorso dell’anno 2000, essendo emersa dalla documentazione acquisita da un ricorrente”. Per la precisione sarebbero emersi “segni di riconoscimento, nonché errori elementari di diritto negli elaborati di alcuni vincenti”. Gli stessi consiglieri, inoltre, ricordano che sul caso tempo fa è intervenuto perfino l’ex vicepresidente della Corte Costituzionale, Guido Neppi Modona, che “lamentava il silenzio assordante degli organi posti al vertice della magistratura, Csm compreso”. Dopo gli scandali che hanno terremotato le toghe, non si può più fare finta di niente. Così quella denuncia di un avvocato, bocciato per due volte all’esame da magistrato, dopo 28 anni richiede che ci sia un approfondimento. Del resto quanto sostenuto dall’allora candidato è di inaudita gravità perché sarebbe emerso, dai documenti sui test da lui faticosamente ottenuti e solo a seguito di una lunga battaglia legale, sarebbe emerso che sui compiti dei promossi erano presenti evidenti segni di riconoscimento lasciati sui fogli così da renderli riconoscibili quando, invece, sarebbero dovuti essere completamente anonimi. Ma c’è molto di più. Gli stessi elaborati presenterebbero anche errori grossolani di diritto e, cosa a dir poco incredibile, dai verbali dei lavori della commissione esaminatrice sarebbe emerso addirittura che la valutazione media per ciascun candidato è durata tre minuti. Un tempo record, se confermato, considerato che sarebbe dovuto servire per leggere tre elaborati scritti, di materie tutt’altro che semplici, e, successivamente, giudicarli. Una vicenda per la quale già nei giorni scorsi si era mossa la politica tanto che il 2 luglio il deputato forzista Pierantonio Zanettin ha presentato un’interpellanza parlamentare per chiedere al ministro Alfonso Bonafede di fare luce sui concorsi incriminati visto il silenzio che, almeno fino a quel momento, proveniva dal Csm e dall’Anm.
GIUSTIZIA, BIANCOFIORE (FI): “GRAVI IRREGOLARITÀ NEI CONCORSI PER MAGISTRATI. MINISTRO BONAFEDE INTERVENGA”. Roma, 10 Luglio 2019. Fonte: AGV - Agenzia Giornalistica il Velino. “Avvengono cose nell’immobilismo e disattenzione del Governo dell’onestà e del cambiamento e dell’avvocato del popolo che amareggiano profondamente. E’ notizia di oggi, riportata anche sul sito di Universo magistratura, che, dopo le gravi irregolarità registrate durante il caso del concorso per uditore giudiziario dello scorso mese di giugno, anche il concorso in magistratura dell’anno 2017 – 2018 sarebbe stato truccato. Sorprende che il ministro Bonafede non ne sia al corrente visto che ci sono stati arresti e pare l’avvantaggiamento della figlia di un faccendiere ad opera di magistrati ripagati con ‘bottiglie di vino’ e ‘biglietti balneari’. Se così fosse, si tratterebbe di un episodio gravissimo: si sta rubando il futuro a migliaia di giovani seri e preparati che hanno investito molto. Dopo l’inchiesta sui concorsi truccati nelle università dalla Sicilia al Veneto, dopo lo scandalo sul Csm, che ha minato profondamente la credibilità del nostro Paese, questi nuovi casi di concorsi truccati gettano un’altra ombra pesante”. Lo ha detto Michaela Biancofiore, deputata di Forza Italia, intervenendo oggi durante il question time al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Siamo felici che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede abbia annunciato la riforma della magistratura e del reclutamento dei magistrati. Ci aspettiamo, a questo punto, anche un agente provocatore nei concorsi e il daspo anche per i magistrati corrotti. Noi ci auguriamo che la magistratura cambi davvero, che torni ad essere al di sopra di ogni sospetto, a partire soprattutto dal mio Trentino Alto Adige, dove il giudicato e il giudicante talvolta coincidono: basti pensare al Tar, nomina totalmente politica, che non conosce pari ed é inaccettabile”, ha concluso.
Il compito che prova la truffa del concorso in magistratura del 1992. Manuela D’Alessandro su giustiziami.it. Questo documento è la prova solare – che vi mostriamo in esclusiva – di come venne truccato il concorso per magistrati del 1992. Il compito del candidato non reca in calce né il voto della commissione, né le firme del segretario e del presidente, in palese violazione dell’articolo 13 della legge che disciplinava l’esame. Eppure, l’aspirante toga passò lo scritto a differenza di Pierpaolo Berardi che pure era convinto, quel giorno di maggio all’hotel Ergife di Roma, di avere sviluppato in modo più che convincente le tracce di diritto penale, romano e amministrativo. Tutti argomenti sui quali, per studio matto o perché per caso aveva seguito un seminario pochi giorni prima che riguardava proprio i temi della prova, era preparatissimo. Mentre i diòscuri di Mani Pulite seducono il Paese, il giovane avvocato astigiano comincia una battaglia lunga 20 anni per capire le ragioni di un’inspiegabile bocciatura che ora viene raccontata in un capitolo del libro "Società, crimine e diritto", scritto dal professor Cosimo Loré e pubblicato da Giuffré. Il cocciuto Pierpaolo chiede e ottiene dopo molta insistenza di poter vedere i suoi compiti e quelli degli altri. Si accorge subito che molti non sono stati nemmeno corretti. “Calcolai i tempi. Tre prove giuridiche complesse non potevano essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in tre minuti”. Più scava e più trova abissi di irregolarità. Alcuni elaborati dei promossi sono riconoscibili perché vergati in stampatello o con calligrafia doppia o segni particolari, altri sono zeppi di erroracci giuridici oppure senza voto, come quello della foto. Dagli archivi del Ministero è sparita la prova di uno dei vincitori. Il Tar e il Consiglio di Stato danno ragione a Berardi, il Csm accoglie la sua richiesta di ricorreggere i temi. Peccato che invece di nominare una nuova commissione disponga che sia la stessa che lo ha bocciato a farlo. Per oltre due decenni, e ancora adesso, alcuni magistrati che passarono quel concorso hanno deciso sulla libertà delle persone e molto altro.
Giustizia, Forza Italia: «Concorsi truccati per le toghe. Peggio dell’affaire Palamara». Francesca De Ambra su Il Secolo D’Italia, giovedì 2 luglio 2020. Peggio dell’affaire Palamara. Di tanto è almeno convinto il deputato forzista Pierantonio Zanettin, che sul punto ha presentato in queste ore un’interpellanza parlamentare. Il “punto” riguarda i concorsi per entrare in magistratura. Per l’onorevole, molte di queste prove sarebbero infatti truccate o, se si preferisce, taroccate, in ogni caso congegnate non per far prevalere i più preparati bensì i più raccomandati. Se confermato, avverte Zanettin, un recente passato anche nel Csm, si tratterebbe di uno «scandalo devastante, di gravita’ paragonabile allo stesso affaire Palamara». Sorge il legittimo dubbio, aggiunge il deputato, «che decine di magistrati in carica siano stati selezionati in questi decenni, attraverso loschi traffici».
Interpellanza del deputato Zanettin (ex-Csm). Ma su quali elementi, anzi su quali indizi si la denuncia Zanettin? Tutto nasce dalla lettura di due giornali: la Stampa e il Dubbio. Relativamente al primo, l’interpellante cita le «denunce di Domenico Quirico»; sul secondo fa riferimento proprio all’edizione odierna, in particolare ad un articolo del professor Guido Neppi Modona, già vice presidente della Corte Costituzionale. Tutto nasce dalla caparbietà di un candidato bocciato ai concorsi del 1992 e del 2000. Costui, racconta Zanettin, «dopo una serie innumerevole di ricorsi», riesce finalmente ad acquisire la completa documentazione del primo concorso, quello del’92. Quel che ne viene fuori, sottolinea il deputato, è «un sofisticato e truffaldino sistema, grazie al quale, gli elaborati di taluni candidati erano agevolmente individuabili».
I concorsi sarebbero quelli del 1992 e del 2000. Da quelli dei promossi spuntano segni di riconoscimento lasciati sui fogli e errori grossolani di diritto. Dai verbali dei lavori della commissione risulta che la valutazione media su ciascun candidato è durata tre minuti. La cosa singolare, sottolinea Zanettin, è che in questo tempo così esiguo, «sarebbero stati letti e giudicati collegialmente i tre elaborati scritti» L’interpellante ha chiesto al ministro Bonafede di accertare tutti i fatti riportati, anche attraverso ispezioni mirate. Ma prima ancora Zanettin ha stigmatizzato il silenzio sulla vicenda di Csm e Anm, «tante volte così solleciti ad ergersi paladini del buon nome e dell’onore della magistratura italiana». Invece, conclude il parlamentare, sulla vicenda dei presunti concorsi truccati «non hanno proferito verbo».
Atto Camera. Interpellanza 2-00850 presentato da ZANETTIN Pierantonio
testo di Martedì 7 luglio 2020, seduta n. 367
Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della giustizia, per sapere – premesso che:
su «La Stampa», Domenico Quirico ha pubblicato, il 29 giugno 2020, una inchiesta sulle modalità di svolgimento del concorso per l'accesso alla magistratura;
un candidato bocciato ai concorsi del 1992 e del 2000, l'avvocato Pierpaolo Berardi, dopo una serie di innumerevoli ricorsi, è finalmente riuscito ad acquisire la completa documentazione del concorso 1992, facendo emergere un sofisticato e truffaldino sistema, grazie al quale, gli elaborati di taluni candidati erano agevolmente individuabili. Erano evidentemente quelli dei candidati che dovevano essere ammessi in ogni caso all'orale;
dagli elaborati dei promossi spuntano «orrori»: segni di riconoscimento lasciati sui fogli, come saltare le prime righe, o scrivere solo una parte delle facciate, o cambi di calligrafia in punti chiave;
e poi errori grossolani di diritto: un candidato confondeva dolo con colpa, un altro parlava di diritto civile in un tema di diritto penale, una brutta copia era allegata come parte dell'elaborato;
dai verbali dei lavori della commissione risulta inoltre che la valutazione di ogni elaborato in media tre minuti per ciascuno, durante i quali sarebbero stati letti e giudicati collegialmente i tre elaborati scritti;
l'articolo è stato ripreso il 3 luglio 2020 dal professore Guido Neppi Modona, già vice presidente della Corte costituzionale, in un commento pubblicato sul «Il Dubbio»;
dopo l'articolo di Quirico non sono state registrate reazioni di carattere istituzionale;
né il Consiglio superiore della magistratura, né l'Associazione nazionale magistrati, tante volte così solleciti nell'ergersi a paladini del buon nome e dell'onore della magistratura italiana, hanno stavolta «proferito verbo»;
eppure, a giudizio dell'interpellante, lo scandalo denunciato, se confermato, è devastante, di gravità paragonabile allo stesso «affaire Palamara»;
sorge secondo l'interpellante il legittimo dubbio che decine di magistrati in carica siano stati selezionati in questi decenni, attraverso «loschi traffici»;
sorge il sospetto, per l'interpellante, che altrettanti candidati meritevoli possano esser stati bocciati solo per far loro posto –:
se il Ministro interpellato abbia adottato iniziative, per quanto di competenza, anche di carattere ispettivo, in relazione a quanto denunciato negli articoli di Domenico Quirico e del professore Guido Neppi Modona;
quali iniziative, anche di carattere normativo, intenda adottare per evitare che quanto denunciato possa ripetersi in futuro. (2-00850) «Zanettin».
Il concorso truccato per magistrati. Un avvocato svela la truffa del 1992. Il Csm ammette: il suo scritto non è mai stato esaminato. Selma Chiosso su La Stampa il 28 Settembre 2017. Era vestita di bianco, Francesca Morvillo. è il 23 maggio 1992 e all’hotel Ergife di Roma è il giorno dell’abbinamento delle buste del concorso in magistratura per uditore giudiziario: mercoledì 20, diritto penale; giovedì 21, diritto amministrativo; venerdì 22, diritto privato con riferimento al diritto romano. Lei alle 16 saluta, deve prendere l’aereo per Palermo. Rimarrà uccisa insieme a suo marito, Giovanni Falcone. È il primo colpo di scena del concorso durante le stragi di mafia. Concorso tanto particolare da finire ora in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè. Il dietro le quinte lo si deve 25 anni dopo alla caparbietà di Pierpaolo Berardi, avvocato astigiano. L’allora giovane legale è uno dei candidati. Quando legge il titolo del tema di penale si frega le mani soddisfatto: quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico lo ha appena affrontato in tribunale; la prova di amministrativo fila liscia; quella di diritto privato e romano è stata oggetto di un seminario seguito poco prima. Un anno dopo, quando escono i risultati degli scritti, non riesce a credere ai suoi occhi: bocciato. Ed è lì che inizia la sua battaglia; da un lato Tar e Consiglio di Stato che gli danno ragione, dall’altra il ministero e il Csm che oppongono resistenza. L’avvocato chiede di potere vedere i suoi scritti e il verbale. «Mi dissero al telefono che il verbale non c’era» racconta oggi. Quando, dopo un ennesimo vittorioso ricorso al Tar, ha prove e verbali ecco cosa scopre: «I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no». Va avanti e la legge gli consente di chiedere anche le prove degli altri candidati promossi. E lì scopre altre perle: temi riconoscibili perché scritti su una sola facciata, altri in stampatello; alcuni pieni di errori giuridici, altri idonei ma senza voto. Un candidato svolge il tema con una traccia diversa da quella indicata; uno scrive con una calligrafia doppia; un altro (si potevano solo consultare i codici) è degno di Pico della Mirandola: pagine e pagine copiate da manuali di Diritto. Tra i temi casuali che Berardi chiede di visionare c’è anche quello di Francesco Filocamo, attuale magistrato al tribunale di Civitavecchia ed estratto a sorte come presidente del tribunale dei ministri. Il ministero con estremo imbarazzo risponde a Berardi: le sue prove non sono in archivio. Un giallo. Partono i ricorsi. A Perugia Berardi viene sentito da un pm con presente come uditrice una magistrata che aveva vinto quel concorso. Quando Tar e Csm ordinano di ricorreggere i suoi temi anziché nominare una nuova commissione è la stessa che lo aveva bocciato a farlo. Nel 2008 il Csm dopo aver sempre affermato che era tutto regolare riconosce all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna.
Toghe e concorsi truccati, trent’anni di beffe e ricorsi. Domenico Quirico il 29 Giugno 2020 su La Stampa. Toghe e concorsi truccati. “Io, beffato trent’anni fa, lotto ancora per la giustizia”. Dopo l’esclusione, l’avvocato Berardi ha iniziato la battaglia contro il malaffare tra le toghe. «La magistratura è come la chiesa, dove ci sono i pedofili e i santi e quelli che stanno in mezzo». Un ricorso, il primo, poi sono diventati decine: ma è lì che avviene per l’avvocato Pierpaolo Berardi la fusione tra due memorie, quella oggettiva, documentaria con quella per così dire personale, proustiana. Comincia così: «Io sottoscritto dottor avvocato Pierpaolo Berardi nato ad Asti il 10 ottobre 1964 sostenevo in data 20 -21- 22 maggio 1992 le prove scritte del concorso per uditore giudiziario. All’esito dei risultati degli scritti risultavo non idoneo in tutte e tre le prove…». In calce, accanto alla firma, la data: 6 ottobre 1992. I 28 anni che seguono sono fiaba di ingiustizia contorta e di infinita proliferazione, Iliade di convulse guerre di attrito in tribunali amministrativi, procure, Consiglio superiore della magistratura. Perfino un paio di presidenti della Repubblica hanno dovuto chinarsi sul soggetto. Perché Berardi, che è ora penalista ad Asti, ha cocciutamente esibito le prove che quel concorso per le toghe era truccato, fasullo. E nessuno ha potuto negarla, quella scomoda evidenza documentale. Sentenze inorridite lo provano. Ma tutto è rimasto come prima. Il sistema, fatto ahimè anche di privilegi consortili e variegato malaffare, intinto nella italianissima pece di parentele, amicizie, raccomandazioni, scambi dinastici, non riconosce errori. Attenti. Ora non è più la storia di una singola partita defatigatoria per ottenere la riparazione di un torto amministrativo, la lotta burocraticamente esemplare di un Sisifo della giurisprudenza. Tema appetitoso, ma quasi letterario. Nel frattempo è accaduto qualcosa che costringe a rileggerla [...]
Domenico Quirico su La Stampa, 29 giugno 2020. Toghe e concorsi truccati, trent’anni di beffe e ricorsi. Un ricorso, il primo, poi sono diventati decine: ma è lì che avviene per l’avvocato Pierpaolo Berardi la fusione tra due memorie, quella oggettiva, documentaria con quella per così dire personale, proustiana. Comincia così: «Io sottoscritto dottor avvocato Pierpaolo Berardi nato ad Asti il 10 ottobre 1964 sostenevo in data 20 -21- 22 maggio 1992 le prove scritte del concorso per uditore giudiziario. All’esito dei risultati degli scritti risultavo non idoneo in tutte e tre le prove…».
In calce, accanto alla firma, la data: 6 ottobre 1992. I 28 anni che seguono sono fiaba di ingiustizia contorta e di infinita proliferazione, Iliade di convulse guerre di attrito in tribunali amministrativi, procure, Consiglio superiore della magistratura. Perfino un paio di presidenti della Repubblica hanno dovuto chinarsi sul soggetto. Perché Berardi, che è ora penalista ad Asti, ha cocciutamente esibito le prove che quel concorso per le toghe era truccato, fasullo. E nessuno ha potuto negarla, quella scomoda evidenza documentale. Sentenze inorridite lo provano. Ma tutto è rimasto come prima. Il sistema, fatto ahimè anche di privilegi consortili e variegato malaffare, intinto nella italianissima pece di parentele, amicizie, raccomandazioni, scambi dinastici, non riconosce errori.
Attenti. Ora non è più la storia di una singola partita defatigatoria per ottenere la riparazione di un torto amministrativo, la lotta burocraticamente esemplare di un Sisifo della giurisprudenza. Tema appetitoso, ma quasi letterario. Nel frattempo è accaduto qualcosa che costringe a rileggerla in uno spazio più vasto. E più inquietante. E questa cosa sono le ingolfate sconcezze dell’hotel Champagne, le cordate di barattieri in toga che spartivano le procure, insomma il «l’affaire Palamara». È un prima che sembra annunciare, in modo nefasto, un dopo. Perversione che si pone come premessa metodologica di altre.
Non varrebbe la pena di indagare se non sia il contorno di un sistema, verrebbe da dire con Sciascia, di un ‘’contesto’’, dove la Spartizione nel Terzo Potere è norma consustanziale? E poi nel caso Berardi le violazioni sono così sfacciate, evidenti, volgari che si specchiano nell’argot delle mail del caso Palamara. C’è odore di qualcosa di stratificato, sistematico, si va a colpo sicuro, non si ipotizza la possibilità di uno scacco, l’impunità pervade.
Ci stiamo occupando con il Csm della cuspide della cometa spartitoria. E se la base di questa oleografia dell’intrallazzo togato fosse proprio il concorso da cui escono i futuri magistrati…? Non è opportuno approfondire? Berardi e la sua odissea possono fare da utile baedeker.
Dunque: il 20 maggio a Roma, hotel Ergife, la sede dell’esame trapela afa, ‘«sembrava di entrare in uno stadio»’, ci si sente prosciugati come una carta assorbente. Come potrebbe dimenticarli quei tre giorni, gli hanno assorbito la vita, il Tempo. Non c’è stato giorno, Natale e Pasqua compresi, in cui non vi abbia dedicato, aiutato soltanto da una collega dello studio, Anna Mattioli, pazienza passione rabbia ostinazione sapienza giuridica. Erano diecimila, alla fine consegnarono in 2444.
Succede talvolta: il caso, la fortuna. All’esame di maturità è la lettera di Cicerone da tradurre che hai letto la sera prima nell’ultimo ripasso. Per lui fu dissertare su ‘’la responsabilità penale professionale del medico’’. Due mesi prima aveva affrontato proprio un caso di questo tipo per lo studio dove faceva pratica, sapeva tutto, fino alle recentissime modifiche legislative. Sottopone i tre elaborati al giudizio di magistrati e professori di diritto: perfetto, si vaticina già il voto più alto. Bocciato in tutti e tre. Non ammesso all’esame orale.
Fu allora che Berardi fece un gesto senza precedenti, rivoluzionario: il bocciato invece di rassegnarsi e transumare nella sessione seguente chiede copia degli elaborati e del relativo verbale che motiva il seppellimento nell’elenco dei falliti. C’è la legge: 241/90!
Qui inizia una guerriglia: dinieghi, rinvii, rifiuti, controricorsi, silenzi. Dapprima gli forniscono solo i suoi temi, se li rilegga! una beffa. Per ottenere il verbale devi rivolgersi al Tar e presentare denuncia alla procura di Roma e a quella di Perugia competente: assonanze. Si piegano all’ordine. La reticenza aveva motivo: risulta che la valutazione di ogni elaborato è durata in media tre minuti ciascuno; compresi i tempi morti per la discussione che deve essere collegiale, apertura materiale delle buste, decifrazione non agevole della scrittura di ogni candidato poiché per legge gli elaborati sono redatti a mano. Si andava di fretta, non c’era suspence: gli idonei, secondo il mos italicus, erano già noti.
Berardi insiste. Dopo due anni ottiene di vedere tutti gli elaborati. E’ una pendenza rognosa l’avvocato che viene da Asti, un idealista del diritto, specie pericolosa per il malaffare. In più si è fatto accorto nel controbattere stregonerie leguleie, le raffiche di ricorsi dissestano fragili barricate dilatorie o unguenti cosmetici amministrativi apposti agli abusi.
Dagli elaborati dei promossi (e ormai al lavoro in tribunali e procure taluni con profitto anche mediatico) spuntano orrori: evidenti segni di riconoscimento lasciati sui fogli, come saltare le prime righe o scrivere solo su una parte delle facciate o cambi di calligrafia in punti chiave. E poi errori di diritto così elementari da decapitare uno studente di giurisprudenza, uno confonde dolo con colpa, un altro parla di diritto civile in un tema di penale, una brutta copia è allegata come parte dell’elaborato. Si possono citare solo i codici e le istituzioni di Gaio, allegramente i candidati virgolettano, interpunzioni comprese, bocconi del Digesto. E poi c’è il giallo: il direttore generale del ministero comunica che non può fornire l’elaborato numero 1101, uno dei promossi con voto più alto: è scomparso da più di un anno!
E poi ci sono le firme: un verbale, il 182, ad esempio, è firmato «letto ed approvato» da un componente della commissione che non era presente. Si pone riparo, maldestramente, con firme aggiunte. Un falso che rende l’atto amministrativamente inesistente. Lo racconta in un libro, con i documenti, il professor Cosimo Lorè. I commissari hanno lavorato grossolanamente, si plana super leges allegramente. Non l’avete ancora capito: chi mai andrà a indagare sull’esame? E anche se lo facessero? I francesi la chiamano "camaraderie’’: qualcosa che sta tra lo spirito di corpo e la complicità.
Berardi capisce di scontrarsi con un Sistema per cui non esiste la ammissione di colpa. Gli apre gli occhi la frase che gli rivolge l’allora procuratore generale presso la Corte di cassazione Vittorio Sgroj a cui ha esposto lo scandalo del concorso truccato: «Lei ha ragione, caro Berardi, ma io che ci posso fare?».
Nel 2000 Berardi per un attimo si illude, forse…Evidenti le storture e le illegittimità, si ripeta l’esame per lui solo. Ma la commissione sarà la stessa che lo ha bocciato. La ricusa. Naturaliter lo ribocciano. Che cosa è a verità? Domandava Ponzio Pilato, che era appunto magistrato screditato. Il dubbio rimane.
Ora è in attesa di un ennesimo ricorso in Appello. Il coraggio viene facilmente meno allorché si pensa che tutto sia inutile, che la protesta resterà solitaria. Lui non si arrende, ha studiato per diventare magistrato, gli hanno insegnato il rispetto della legge. La tara, il sudicio che ha svelato per lui è una ferita dell’anima. Con i magistrati lavora ogni giorno: «La magistratura è come la Chiesa, dove ci sono i pedofili e i santi e quelli che stanno in mezzo». Domenico Quirico
Domenico Quirico su La Stampa, 12 luglio 2020. Il giallo lungo trent’anni del fascicolo 1101. Iniziamo da qui, un fascicolo scomparso, un dossier diventato ipotetico. Il fatidico fascicolo 1101. Ouverture più che degna per un giallo. Soprattutto perché il fascicolo è sparito non dalle cantine soggette alla secolare e invadente golosità dei topi di qualche cimmerio municipio paesano. È scomparso dai luminosissimi archivi del ministero di Grazia e Giustizia. Nientemeno. E non riguarda l’anagrafe o una patente agricola. Per carità: gli infortuni amministrativi non sono mai innocui. Ma qui l’anima morta burocratica è collegata al concorso per la leva dei magistrati. Insomma ciò che deve figliare i pretoriani della garanzia di giustizia per i sudditi. Dovrebbe essere una casa di vetro, il concorso, trasparentissimo. Invece si svela un mondo di ombre, omissioni, perfino reati, difficile, impenetrabile dagli estranei (ovvero i sudditi), denso di grandi scambi, traffici. Insofferente a censure e indagini e all’altro giudizio che degli eguali (che da noi non ha mai funzionato). Insomma: estremamente inquietante.
È il 1992: alla procura di Milano da febbraio, giorno 17, tiene banco un altro dossier. Intestazione: Chiesa Mario, arrestato. Le magnificenze di Mani pulite dunque. Breve dissolvenza. A Roma a maggio, giorno 21, hotel Ergife, lo slogan lombardo non sembra produrre neppure fiacchi stimoli: nella faccenda dell’esame per uditori giudiziari le mani infatti sono tutt’altro che pulite, sono macchiatissime da infingarde furberie. In modo così plateale e malaccorto da sfiorare l’impudenza: firme false di magistrati segretari assenti, due minuti di attenzione per elaborato, segni di riconoscimento lasciati come tracce di elefante, scarabocchi da somari del diritto promossi a testi di esegesi giuridica, pura scenografia di un deliberato e disonesto inganno. Nello spegnimento di ogni regola i promossi erano già promossi prima ancora di consegnare.
I «figli di». Gli esaminatori dovrebbero aver particolare riguardo a chi si presenta come «figlio di nessuno». Non sempre emerge il migliore ma almeno c’è la certezza che si opera con giustizia. Quel sinedrio di magistrati invece prestò molta attenzione a chi era appunto «figlio di qualcuno», ovvero parente, stretto o periferico, di altro magistrato. La lettura delle biografie dei promossi pare la genealogia delle cariche dell’antico Regime, quando i posti si compravano nei secoli per la famiglia. La toga sembra trasmettersi non per concorso ma per cromosomi. Ora qualcosa si muove. Due componenti laici del Consiglio superiore della magistratura, seppure in preda ai marosi del caso Palamara (o forse proprio la burrasca ha dato coraggio nello scrutare le magagne), hanno chiesto che il Csm apra una pratica presso la prima commissione «al fine di effettuare approfondita istruttoria». Inghiottito il crudo sapore burocratico-leguleio, forse ci siamo: si vuol lumeggiare i fenomenali e irregolari meandri che arrovellano quel concorso. Dopo ventotto anni: tempi lontani ma già assai torbidi, altro che Palamara. Ma in Italia certe piaghe, anche giudiziarie e amministrative, si sa, guariscono solo con il calendario dei secoli.
Allora l’elaborato 1101. Lo suggeriamo alla possibile commissione di inchiesta, sarà come imboccare una autostrada. Riepiloga, evidenzia esemplifica; leggere i verbali della sparizione è come passar l’aratro, spunta terra fertilissima di illegittimità. Prendiamo alla larga. Il verbale scomparso, l’unico, non è un tema qualunque: perché è quello del candidato più encomiabile, miete osanna, diciassette nella prova di diritto civile, diciotto in quella di penale e sedici in diritto amministrativo. Viene voglia di leggerli quei tre succinti capolavori di dottrina. Ma non si può. Un candidato bocciato, Pierpaolo Berardi, oggi industrioso agonista forense, spezzando una consuetudine di rassegnato fatalismo, convinto della validità dei propri elaborati, voleva farlo, adocchiare i compiti dei promossi e i giudizi della commissione. Gliene dava diritto la legge. Legge virtuosa, da innalzare agli altari, quella sulla trasparenza degli atti amministrativi, sembra uscita da un vigoroso abbraccio tra Solone e Licurgo.
Il mistero dell’archivio. Scopre e ottiene venga certificato in sentenza il cumulo di irregolarità. Fa chiasso questo irriducibile ricorrente, il sistema gli oppone l’ostruzionismo, la faida amministrativa e corporativa. Salvo in un caso: il 1101 appunto. Qui l’anamnesi taglia senza appello le serie casuali della verifica. Sparito. Lo comunica il direttore generale del ministero, cautelandosi in modo cronologico: è sparito prima che io entrassi in carica. Amen. Il ministro dell’epoca, Flick, ordina si investighi su quel tableau trafficone. L’ultimo ad avere maneggiato il fascicolo è… uno dei segretari del concorso sgangherato. È andato all’archivio del ministero e ha chiesto di prelevarlo con vaghe motivazioni. Il responsabile dell’archivio, un ispettore di polizia penitenziaria, ricorda sommessamente al magistrato che la procedura prevede verbali con nome e firma e ovviamente una replica alla riconsegna. Il magistrato ignora, una rapida consultazione dice non si perda tempo, e se ne va con il fascicolo come fosse roba sua. È l’ultimo a vederlo. Il 1101 sparisce nella catastrofe del buio. L’ispettore, ammaestrato da secoli di scaricabarile burocratico, appunta nome e ora della operazione imperfetta. Non si sa mai. Come dargli torto in una simile giungla? Tutto qui? Non vi basta? L’inchiesta non è certo svolta da torchiatori implacabili, nessuno incalza il segretario; il promosso poi chiamato in causa, molto cautelativamente per carità, è già magistrato, sulla «movimentazione del fascicolo» parla fumosamente di una richiesta per diventare collaboratore giudiziario della Federazione gioco calcio. Emerge anche un appunto per il «signor capo di Gabinetto del ministero» che vuole sapere cosa opporre a quel contraddittore tignoso che ammonticchia in Tar e procure ricorsi e denunce.
La data c’è: 8 giugno 1996. Il nome del magistrato che lo ha redatto negando che ci siano irregolarità no. Giusta precauzione l’esser così anonimo e discreto. Dopo anni e altre vittorie giudiziarie Berardi ottiene che gli sia dato il nome: è il cugino del candidato 1101, magistrato fuori ruolo addetto al ministero della Giustizia. Quel concorso era proprio un affare di famiglia per lui: aveva due parenti candidati, e promossi, cugino e fratello. Patologico non vi pare? Un predestinato il 1101. In delizioso sgomento scopriamo che attorno a lui, che con brillante carriera è diventato tra l’altro presidente del tribunale che si occupa dei reati dei ministri, si ingrossa una confortevole folla di toghe consanguinee. Il padre è alto magistrato, la madre pure, e poi i fratelli e i nipoti. Si potrebbe tener giustizia in tinello, come ai tempi di Omero.
Lotta contro il sistema. È evidente il rifiuto ostinato di porre rimedio a quelle irregolarità. Il chiericato giudiziario non tollera passi a vuoto, riconoscimenti di errore, visto che è lui stesso a controllarsi. A costo di negare l’evidenza. Quali sarebbero le conseguenze del riconoscimento della illegittimità? Fino al 2015 si affermava con disinvolta e spiccia giurisprudenza che l’atto, ovvero la sentenza, heghelianamente assolve perfino la illegittimità di chi l’ha compiuto. Ma in quell’anno la Corte costituzionale, di fronte al caso di funzionari dell’Agenzia delle entrate promossi senza concorso, ha stabilito che gli atti sono nulli. Nel caso del concorso dunque anni di storia giudiziaria da riscrivere, una soap-opera di sentenze cancellate: si ballava sul cratere di un vulcano. Quindici giorni fa la Corte ha fatto marcia indietro: il celebrante ha un peccato originale ma il sacramento della giustizia è valido. Domenico Quirico
Concorsi truccati per diventare magistrati: il Csm resta muto? Prof. Guido Neppi Modona, già vice presidente della Corte Costituzionale, il 2 luglio 2020 su Il Dubbio. Il trucco degli elaborati non anonimi e degli esaminatori truffaldini: un gravissimo danno d’immagine cui va posto rimedio. Su La Stampa di lunedì 29 giugno, Domenico Quirico ha delineato un quadro agghiacciante dei concorsi per l’ingresso in magistratura, una sorta di premessa a quanto abbiamo recentemente scoperto con la sciagurata vicenda Palamara. A seguito di innumerevoli ricorsi un concorrente bocciato nei concorsi del 1992 e del 2000 è riuscito ad acquisire la completa documentazione relativa del concorso del 1992, ed è appunto a quella documentazione che si riferisce l’articolo di Quirico. Che scandalo silenzio di tutti, Csm compreso, sui concorsi truccati per diventare magistrati. Veniamo così a conoscenza del sofisticato e truffaldino sistema grazie al quale gli elaborati di alcuni candidati, che dovrebbero essere tutti rigorosamente anonimi, erano invece agevolmente individuabili; erano appunto quelli dei candidati che dovevano essere comunque dichiarati idonei, quelli per cui si era mossa la macchina della corruzione che attraverso vari passaggi arrivava ai componenti – magistrati e professori universitari – della commissione giudicatrice del concorso. I segni di riconoscimento lasciati sugli elaborati consistevano ad esempio nel saltare la prima riga dei fogli formato protocollo ovvero scrivere una facciata sì e una no. Ed ancora, dai verbali dei lavori della commissione giudicatrice risulta che la valutazione media su ciascun candidato è durata tre (3) minuti, durante i quali si sarebbe dovuto leggere e valutare collegialmente i tre temi di diritto civile, penale e amministrativo. Certo, la commissione era in grado di lavorare speditamente, posto che si sapeva in anticipo quali erano i candidati che dovevano comunque essere promossi. Pare anche che i temi di alcuni degli idonei contenessero errori clamorosi e grossolani, impensabili per qualsiasi laureato in legge. Siamo così venuti a conoscenza che un certo numero di magistrati per definizione truffatori, corrotti e corruttori da decenni esercitavano impunemente funzioni giudiziarie in cui vengono necessariamente in gioco fondamentali diritti personali e patrimoniali dei cittadini. Ho atteso qualche giorno a scrivere su questa vicenda perché mi auguravo che l’articolo suscitasse qualche reazione, qualche presa di posizione degli organi posti al vertice della magistratura o deputati al suo governo, dal presidente al Procuratore generale della Cassazione, dal Consiglio superiore della magistratura al ministro della giustizia. Purtroppo l’unica risposta è stata un silenzio assordante. Il che vuol dire che quelle rivelazioni non potevano essere smentite e che il Csm e i vertici della magistratura ne erano al corrente. Ma queste implicite ammissioni non bastano, i cittadini e la stragrande maggioranza dei magistrati onesti, quelli che hanno vinto il concorso senza ricorrere a loschi traffici e svolgono degnamente il loro mestiere, vogliono sapere di più. Vogliono sapere se i concorsi truccati del 1992 e del 2000 sono stati deviazioni isolate o costituiscono una prassi costante e tuttora attuale; se a suo tempo erano stati iniziati procedimenti penali e disciplinari nei confronti dei magistrati corrotti che facevano parte delle commissioni di concorso; se i magistrati truffaldini entrati abusivamente in carriera, di cui sono noti i nomi, sono stati destituiti e denunciati in sede penale; se e quali misure i vertici della magistratura e il Csm intendono assumere per evitare che la vergogna dei concorsi truccati possa ripetersi. Vi è da domandarsi quale fiducia possono riporre i cittadini in una magistratura di cui continuano a fare parte giudici e pubblici ministeri che erano già corrotti e corruttori prima ancora di entrare in servizio. Il gravissimo danno di immagine e di credibilità arrecato alla magistratura italiana potrà essere almeno parzialmente riparato solo da immediate risposte che dimostrino la volontà di contrastare lo scandalo dei concorsi truccati. Il silenzio del Consiglio e dei vertici della magistratura significherebbe che bisogna accettare di convivere con una fetta minoritaria ma potente – il caso Palamara insegna – di magistrati corrotti e corruttori. Ma questo atteggiamento non sarà mai avallato – ne sono certo – dalla stragrande maggioranza dei magistrati onesti e dalle forze politiche che si richiamano ai principi costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e della soggezione dei giudici soltanto alla legge.
Giustizia nel caos. Toghe e concorsi truccati: la Calabria e il filo diretto con il potere (di Saverio Di Giorno). Da Saverio Di Giorno su Iacchite il 2 Agosto 2020. E se l’ennesima vicenda che riguarda la magistratura avesse a che fare con la Calabria? Quasi non fosse un luogo geografico, ma un luogo della coscienza per cui chiunque venga dalla Calabria sia marchiato a fuoco. Nei giorni scorsi, sulla Stampa, in due articoli a firma di Domenico Quirico si ripercorre la storia di un concorso truccato in magistratura. Gli articoli hanno spinto il sempre tardivo Csm a vederci chiaro. Quirico ripercorre la storia trentennale del penalista Pierpaolo Berardi e si imbatte in un fascicolo sparito: il 1101. Come questa storia è addirittura arrivata in un’interrogazione parlamentare che abbiamo ritrovato?
Bisogna riavvolgere il nastro fino al 1992, annus horribilis per l’Italia. Berardi viene bocciato, ma chiede di vedere i suoi elaborati. “Qui inizia una guerriglia: dinieghi, rinvii, rifiuti, controricorsi, silenzi” e poi Quirico continua “la reticenza aveva motivo: risulta che la valutazione di ogni elaborato è durata in media tre minuti ciascuno; inclusi i tempi morti per la discussione che deve essere collegiale (…) Si andava di fretta, non c’era suspence: gli idonei, secondo il mos italicus, erano già noti”. Non solo, ma come scrive La Stampa gli elaborati erano pieni di errori sesquipedali, segni di riconoscimento e si arriva infine al fascicolo 1101. “Uno dei promossi con voto più alto”. Il suo fascicolo è scomparso.
L’articolo successivo fornisce ancora più indizi in merito: questo elaborato è quello che ha “diciassette nella prova di diritto civile, diciotto in quella di penale, sedici in diritto amministrativo”. L’ultimo che ha visto quel fascicolo è proprio uno dei segretari di quel concorso. Il promosso costretto a rendere conto parla di una richiesta per diventare collaboratore giudiziario per la FIGC (Federazione Italiana Gioco Calcio). Quirico tira fuori una serie di altri tratteggi: un appunto per il “signor capo di Gabinetto del ministero” e poi scrive che il promosso, ora magistrato, non era l’unico in famiglia e nel concorso: madre, zii, cugini. Praticamente un titolo nobiliare più che una professione. Fin qui la Stampa.
Articoli che hanno smosso il Csm e quindi non potrebbero non smuovere anche gli ambienti calabresi. A quanto pare, questa regione pare avere un filo diretto con gli ambienti più alti del potere e questi, come visto, non si muovono se non, magari, dopo una cena vista mare in Calabria. Vicende così, ormai lo sappiamo, vengono dimenticate ufficialmente, ma in realtà nessuno perde e dimentica nulla. Sono come ancore, pesi che tengono fermi tutti nel caso qualcuno decidesse di rompere il muro del silenzio. Quando la fede crolla, il peccato originale non dà più rimorsi, quindi quello che tiene i fedeli legati è la confessione. Nel caso poi qualcuno le tiri fuori, altri ne approfittano per affondare chi è già bruciato, tirando fuori dell’altro ai propri scopi: è quello che sta succedendo da quando abbiamo iniziato a trascrivere quello che Facciolla ha detto a Salerno, per esempio. Per evitare episodi simili, quindi, sarà bene fare qualche altra ricerca per tracciare l’identikit di questo promosso. E una cosa tra gli archivi salta fuori.
Un’interrogazione a risposta scritta 4/33846 presentata da Nicola Vendola in data 2001/02/06. In questa interrogazione ritroviamo molti indizi dalla Stampa, troppi per non pensare che si tratti proprio della persona con quel numero di fascicolo. Innanzitutto, i voti riportati dal quotidiano e si aggiunge che “la suddescritta terna di voti era stata conseguita, in tutto il concorso, unicamente da un candidato”; trova ulteriore conferma un altro aspetto: “l’Ispettore del Ministero, dottor Mauro, durante l’interrogatorio (…) chiede di conoscere quali erano state le motivazioni che giustificassero la movimentazione del suo fascicolo. Lo stesso racconta che il tutto era nato da una sua richiesta di diventare collaboratore dell’Ufficio indagini della F.I.G.C. (Federazione Italiana Gioco Calcio)” – come riportato dalla Stampa. Insomma, come si dice, la verifica incrociata restituisce un solo nome: Francesco Filocamo. L’oggetto dell’interrogazione di Vendola. Origini calabresi.
Un cognome che è in comune ad una schiatta di magistrati imparentati. Come appunta Quirico. La moglie del dottor Felice Filocamo e madre del dottor Francesco Filocamo, è essa stessa magistrato; il figlio del dottor Felice Filocamo, dottor Fulvio Filocamo, è esso stesso magistrato; il nipote del dottor Felice Filocamo, é il dottor Gerardo Dominijanni, anch’esso magistrato. La Stampa si chiede: una volta appurata l’irregolarità di quel concorso, cosa succederà? Le sentenze dei magistrati di quel concorso saranno nulle e le “vittime” di questi magistrati, vanno risarcite? Ma dopotutto, anche qualora il radar della legge non segnali nulla, quello della giustizia insorge, soprattutto alla luce di quanto il cognome Filocamo rappresenta.
La famiglia Filocamo è l’esatta rappresentazione del Potere in Italia, nel bene e nel male. Di come lo Stato, sia sempre più un potere, un leviatano, un calamaro da mille tentacoli. Non solo magistratura, ma anche politica. Infatti, in un’altra interrogazione, questa volta regionale del 2000, viene messo in luce che tra i componenti tecnici dell’Agenda 2000 viene nominato Felice Maria Filocamo e ci si chiede se sia il fratello dell’assessore alla sanità di allora che è appunto un Filocamo, perché in tal caso ci sarebbe un’evidente anomalia. Non solo politica, ma anche economia. In un libro, Gomez e Barbacetto ricostruiscono i rapporti tra parenti e società e in particolare Giovanni Filocamo (ex direttore dell’Asl di Locri ed ex assessore alla sanità) ha un fratello, Felice (a riscontro di quanto si dice nell’interrogazione) che è presidente della Sorical. In una terra come la Calabria (e perché no, l’Italia) come si concilia tutto questo con l’uguaglianza, l’equità concreta, con il fornire pari opportunità e garanzie a tutti?
Ma come se tutto questo già non fosse un groppone pesante da mandar giù, quasi tutti i componenti, oltre ad aver in comune una toga, hanno in comune l’essere indagati. Che sia Catanzaro o Reggio, De Magistris o l’indagine Primavera, abuso d’ufficio o mafia, poco importa. Perché a quanto risulta nessuno di questi procedimenti poi giunge a condanna. C’è dell’altro? Una piccola chicca per dare ancora più plasticamente l’immagine del potere in Italia prima di tirare le fila del discorso.
Un Felice Maria Filocamo figura anche tra gli appartenenti al C3 International, una sorta di lobby nata per portare avanti e unire i calabresi nel mondo. E infatti troviamo all’interno quasi tutti i calabresi che contano e non solo. Stampa, magistrature, grandi aziende, politica. Non manca nessuno, un organigramma delle varie articolazioni del potere. Quella della C3 è un’iniziativa lodevole se non fosse sporcata dal fatto che molti degli appartenenti sono stati indagati o sospettati di appartenere a logge massoniche non esattamente regolari. Anche in questo caso rari o assenti i casi di condanne, ma a questo punto quasi ce lo si aspetta. Il fatto è che in questo intreccio di relazioni e parentele viene il legittimo dubbio che succeda questo: si potrà mai condannare un cugino o un compagno di cena nella C3? O viceversa, se ho per le mani soldi pubblici, perché non fare un regalo al mio commensale? A chi non verrebbe una tale tentazione scagli la prima pietra. Poi magari sono tutti animati da uno spirito lodevole, ma non è una visione che concilia con la democrazia, la trasparenza e l’indipendenza.
Di fronte a tutto questo, alla domanda della Stampa: cosa succede se qualcuno di questi incappa in problemi? La risposta la sappiamo: niente. In finanza, quando una grossa banca va in perdita si deve far di tutto per salvarla perché altrimenti si tira giù uno Stato intero. Si dice too big to fail. Troppo grossa per fallire. È all’incirca un vecchio detto popolare riciclato in salsa Wall Street: chiova semp ndu bagnatu; le disgrazie ai disgraziati, le fortune ai fortunati. Cosi è in questi casi: se anche una sola cosa venisse fuori, la più innocente rischierebbe di tirarsi giù tutti gli altri, perché se uno ha un peccato devono averlo tutti. O tutti o nessuno. Lo abbiamo detto prima, altrimenti non funziona. E qua in Calabria, dove non c’è bisogno di indossare doppiopetto e parlare bene lo sappiamo bene perché queste cose sono già venute fuori e tornano periodicamente. Escono fuori sfrontate, caparbie, sdegnose e vanno insieme per strada, nei circoli, nei ristoranti … a mangiare calamari.
INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/33846 presentata da VENDOLA NICOLA (MISTO) in data 02.06.2001
Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che: in relazione al concorso per uditore giudiziario bandito con decreto ministeriale del 30 dicembre 1991 sarebbero emersi dati e fatti, in particolare dalla visione degli elaborati di coloro che hanno superato la prova scritta, che dimostrerebbero come siano state commesse gravissime irregolarita' e veri e propri reati; tale dottor Pierpaolo Berardi, partecipante a detto concorso richiese, tra gli altri, gli elaborati dei candidati che superarono le prove scritte redatte nel verbale n. 101; il Ministero, con una comunicazione al dottor Berardi, riferiva al Berardi che il medesimo era stato autorizzato dal Ministro ad estrarre copia di quanto richiesto, ma che allo stato non era possibile rilasciare copia degli elaborati del candidato n. 1101 (fascicolati all'interno del verbale n. 101), poiche' il relativo fascicolo concernente detto candidato, oggi magistrato, non esisteva piu' all'interno dell'archivio del Ministero; al dottor Berardi pervenivano i verbali delle sedute di correzione, tra cui quello riguardante la seduta di correzione del candidato n. 1101; la votazione di detto candidato era: per la prova di diritto civile di diciassette, per quella di diritto penale diciotto e per la prova di diritto amministrativo sedici; la suddescritta terna di voti era stata conseguita, in tutto il concorso, unicamente dal dottor Francesco Filocamo, oggi magistrato del Tribunale di Civitavecchia; in seguito a tale vicenda l'allora Ministro, professor Flick, dava mandato all'Ispettorato del ministero di provvedere ad una ispezione in ordine alla scomparsa di detto fascicolo, con i relativi elaborati; la moglie del dottor Felice Filocamo e madre del dottor Francesco Filocamo, e' essa stessa magistrato; il figlio del dottor Felice Filocamo, dottor Fulvio Filocamo, e' esso stesso magistrato; il nipote del dottor Felice Filocamo, e' il dottor Gerardo Dominijanni, anch'esso magistrato; risulta all'interrogante che il dottor Gerardo Dominijanni e' stato magistrato fuori ruolo con funzioni amministrative addetto al Gabinetto del ministero della giustizia; risulta all'interrogante che il dottor Gerardo Dominijanni attualmente ricopre l'incarico di magistrato addetto al Giudice della Corte costituzionale, dottor Annibale Marini, quest'ultimo e' stato membro della commissione esaminatrice del concorso per uditore giudiziario bandito con decreto ministeriale del 30 dicembre 1991; risulta all'interrogante che il dottor Paolo D'Alessandro e' stato membro della commissione esaminatrice per uditore giudiziario del concorso bandito con decreto ministeriale del 30 dicembre 1991; in data 27 maggio 1996 il dottor Pierpaolo Berardi e la dottoressa Teresa Calbi, depositavano un esposto in ordine a tutta la vicenda concorsuale; nella stessa giornata il Gabinetto del Ministro dava mandato ad un magistrato del Gabinetto medesimo di svolgere una istruttoria di tipo amministrativo per verificare quanto denunciato dagli esponenti dottor Berardi e dottoressa Calbi; dalla visione degli atti scaturiti dall'inchiesta amministrativa si rilevava in particolare un "appunto per il signor vice capo di Gabinetto", il cui contenuto e' stato smentito dalle decisioni dei giudici amministrativi (TAR Lazio, I sezione decisione n. 2112/96, TAR Lazio, I sezione decisione 697/97 e Consiglio di Stato, IV sezione, decisione 2915/2000); il dottor Berardi ha potuto prendere visione ed estrarre copia degli atti dell'ispezione disposta a seguito della scomparsa del fascicolo del dottor Francesco Filocamo; dalla lettura dei documenti indicati emerge quanto segue: a) vi e' un "appunto per il signor vice capo di Gabinetto" redatto a seguito di un incarico conferito in data 27 maggio 1996 ad un magistrato; b) tale appunto, e' stato solo siglato e datato (8 giugno 1996) da un magistrato appartenente all'Ufficio di Gabinetto del Ministro (depositato il 18 giugno 1996); c) il dottor Fulvio Monteleone magistrato reggente l'Ufficio VII della Direzione Generale dell'Organizzazione Giudiziaria del ministero della giustizia chiese il fascicolo riguardante il dottor Francesco Filocamo al dottor Petruccelli, ispettore di Polizia penitenziaria responsabile dell'archivio del ministero; d)la data di tale richiesta con il relativo prelievo del fascicolo (lo si evince dall'appunto) e' del 13 giugno 1996; e)il dottor Monteleone in una comunicazione al direttore della direzione generale dell'organizzazione giudiziaria neghera' di aver asportato il fascicolo del dottor Filocamo dall'archivio del ministero; f) il dottor Petruccelli dopo una settimana concessa al dottor Monteleone per la presa in visione del fascicolo Filocamo, insistentemente glielo chiese indietro, ma il dottor Monteleone non ricordava piu' a chi l'avesse consegnato; g)il fascicolo del dottor Francesco Filocamo con i relativi elaborati risulta scomparso dall'archivio del Ministero della giustizia, secondo la comunicazione prot. n. 1917 g/rs 1849 della direzione generale del Ministero della giustizia; il dottor Filocamo interrogato dal dottor Mauro, Ispettore incaricato dell'indagine, in ordine alla scomparsa del fascicolo, asserisce di non conoscere dove operi il cugino (dottor Dominijanni) all'interno del Ministero e di non avere alcun tipo di rapporto con lui; l'Ispettore del Ministero, dottor Mauro, durante l'interrogatorio del dottor Francesco Filocamo chiede di conoscere quali erano state le motivazioni che giustificassero la movimentazione del suo fascicolo. Lo stesso Filocamo racconta che il tutto era nato da una sua richiesta di diventare collaboratore dell'Ufficio indagini della F.I.G.C. (Federazione Italiana Gioco Calcio), mentre il padre, dottor Felice Maria Filocamo, escusso anch'esso in merito alla movimentazione del fascicolo dichiara che non fu mai presentata alcuna istanza che potesse giustificare la movimentazione e l'esame del fascicolo stesso -: a chi sia stato affidato l'incarico conferito il 27 maggio 1996 per la redazione di un appunto per il vice capo di Gabinetto del Ministro; per quale motivo l'appunto dell'8 giugno 1996 sia stato solo siglato e datato e non firmato e protocollato in modo comprensibile e leggibile; quali valutazioni dia dei fatti suddescritti; quali provvedimenti e iniziative, anche di natura ispettiva e disciplinare, intenda adottare in relazione ai fatti sopra denunciati. (4-33846)
Esposito, da Antonio a Vitaliano: una famiglia di toghe tra gaffe e scivoloni, scrive “Libero Quotidiano”. Una famiglia spesso in prima pagina, e non sempre in buona luce. Quella degli Esposito è una storia fatta di toghe, giustizia, scivoloni e gossip. Il più famoso è ormai Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione (nonché alla guida dell'Ispi) che lo scorso agosto condannò Silvio Berlusconi al processo sui diritti tv Mediaset e che, pochi giorni dopo, anticipò le motivazioni di quella sentenza in una improvvida conversazione con un abile cronista del Mattino. Inevitabili il polverone delle polemiche e le accuse di parzialità del collegio giudicante, anche perché un testimone riferì di presunti commenti contro Berlusconi rilasciati in libertà dal giudice durante una cena. Pare probabile che il Csm voglia archiviare il caso senza procedere a sanzioni disciplinari. La figuraccia, in ogni caso, resta, con tanto di richiamo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in quelle caldissime settimane di fine estate 2013, alla "continenza" per chi di mestiere fa il giudice. Le bucce di banana per la Esposito family non finiscono qui: l'ultimo a inciamparci è il figlio di Antonio, Ferdinando. Pubblico ministero a Milano, risulta indagato a Brescia e a Milano in seguito alle accuse di un suo amico avvocato, che sostiene di avergli prestato soldi e di essere stato "pressato" per pagargli l'affitto di casa. Prima ancora, era finito al centro del gossip per un incontro con Nicole Minetti (sotto processo per il Rubygate) avvenuto in un prestigioso ristorante milanese nel 2012. L'altro ramo della famiglia è altrettanto prestigioso: Vitaliano Esposito, fratello di Antonio, è stato Procuratore generale della Cassazione. Sempre sul finire dello scorso agosto è stato "paparazzato" in spiaggia nel suo stabilimento abituale ad Agropoli, nel Cilento. Piccolo particolare: lo stabilimento era abusivo. Foto imbarazzante, invece, per sua figlia Andreana Esposito, giudice alla Corte europea dei diritti dell'Uomo. Un po' di clamore aveva suscitato lo scatto da lei pubblicato sui social network (e poi cancellato in fretta e furia) in cui esibiva una maglietta decisamente inappropriata per una toga: "Beato chi crede nella giustizia perché verrà... giustiziato", slogan che aveva messo in allarme lo stesso Cavaliere, che di lì a qualche mese si sarebbe rivolto proprio alla Corte europea per vedere ribaltata la sentenza stabilita dallo zio di Andreana. Un corto circuito da barzelletta.
Andreana Esposito, napoletana, classe 1966, professore aggregato di diritto europeo e sistema penale alla facoltà di giurisprudenza alla seconda università di Napoli, componente dell’ufficio studi della Corte Costituzionale, e nipote di Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato Berlusconi, è nell’elenco dei giudici ad hoc italiani applicati per il 2013 proprio alla Corte europea dei diritti umani. Lo è interrottamente dal 2010, quando Gianni Letta (all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio) si battè come un leone per farle avere questo incarico di consolazione. Lo stesso Letta, che aveva ottimi rapporti con il padre di Andreana, l’ex procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, aveva fatto inserire la giovane giurista (che dal 2004 al 2006 aveva già collaborato con il governo Berlusconi) nella terna di candidati italiani a sostituire a Strasburgo Vladimiro Zagrebelski. La sua nomina sembrava cosa quasi fatta, quando dal Vaticano partì una lettera indirizzata a Letta, al governo e ai membri italiani dell’assemblea del consiglio di Europa, in cui si manifestava forte disappunto per la scelta della Esposito, accusata di avere espresso in alcuni scritti posizioni assai radicali su valori sensibili per la Chiesa (come la bioetica e il diritto di famiglia)". Finì che alla prova del voto dell’assemblea del Consiglio di Europa la professoressa Andreana fu terza su tre, e il giudice italiano eletto (ed attuale vicepresidente della Corte) fu Guido Raimondi. La giovane Esposito fu però subito inserita nella lista dei giudici ad hoc che di tanto in tanto venivano applicati alle cause della Corte, e l’anno successivo divenne pure membro del comitato europeo per la prevenzione della tortura presso il Consiglio di Europa (vi resterà fino al 2015). Andreana dunque a Strasburgo è ormai di casa, e non è fatto improbabile che ancora una volta la vicenda giudiziaria di Berlusconi possa incocciare in un membro della famiglia Esposito. Non cambierà poi tanto, perché anche se dall’Italia ogni anno piovono ricorsi sulla Corte di Strasburgo, la regola costante e che quasi nessuno trovi soddisfazione. E anche nei rarissimi casi in cui questa arrivi, non è che cambi radicalmente la vita dei ricorrenti: basti pensare che il povero Bettino Craxi riuscì ad avere riconosciute le sue ragioni, e la Corte bacchettò l’Italia per non avergli assicurato un giusto processo. In quel caso furono per altro respinti due dei tre motivi di ricorso, e pure la richiesta di un risarcimento danni, perché la Corte stabilì che bastava ed avanzava la soddisfazione morale per l’unica decisione favorevole. Ecco, questo è un punto chiave: la Corte europea dei diritti dell’uomo non ribalta sentenze nazionali, in rarissimi casi stabilisce condanne politiche e morali dello Stato portato in giudizio e qualche risarcimento assai contenuto al ricorrente (nella maggiore parte dei casi inferiore ai 10 mila euro). Ma non accade quasi mai: nel 2012 su 128.100 ricorsi che arrivavano da tutta Europa, hanno trovato parziale soddisfazione solo 1.093 casi. Per l’Italia non sono stati bocciati solo 63 ricorsi, e solo in 36 di questi è stata ravvisata una violazione della convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma anche in questi casi si tratta di accoglimenti parziali dei ricorsi, con risarcimenti concessi poco più che simbolici. L’unico sostanzioso (10 milioni di euro più centomila di risarcimento spese) è stato ottenuto dalla società Europa 7 e dall’imprenditore Francescantonio Di Stefano il 7 giugno 2012. Sostanzialmente si trattava di un doppio ricorso proprio contro Berlusconi, nella sua qualità di imprenditore (Europa 7 lamentava di non avere avuto la frequenza tv per colpa di Rete 4) e di presidente del Consiglio. Ma anche quei 10 milioni Di Stefano li ha ottenuti per il rotto della cuffia: la Corte ha respinto quasi tutti i motivi del suo ricorso, dichiarandoli irricevibili, e sull’unico accolto che ha dato origine al risarcimento, i giudici si sono spaccati: 8 favorevoli e 7 contrari, con tanto di pubblicazione in allegato dei motivi di dissenso. Vale la pena di addentrarsi nelle clamorose bocciature della Corte: negli ultimi due anni a parte avere riconosciuto a qualche cittadino risarcimenti di mille o duemila euro a integrazione della legge Pinto per la durata eccessiva dei loro processi, da Strasburgo sono arrivati solo schiaffi in faccia ai poveri ricorrenti italiani. L’unico ad avere messo parzialmente in crisi quei giudici è stato il boss dei boss della mafia, Totò Riina. I giudici europei hanno bocciato infatti quasi integralmente il suo ricorso contro il 41 bis. Però hanno sospeso il giudizio e si sono presi tempo per riflettere se avere messo una telecamera nel wc della cella di Riina per riprendere anche i suoi bisogni, sia compatibile o meno con i diritti umani…
Sicuramente avrebbe preferito l’anonimato, nel quale ha tentato di rifugiarsi, continua “Libero”. Andreana Esposito, figlia di Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione e nipote di Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato Silvio Berlusconi, non ha gradito la rivelazione di Libero sulla sua applicazione nel 2013 come giudice ad hoc alla Corte europea dei diritti dell’uomo a cui il leader Pdl vorrebbe ricorrere. Così da ieri mattina la giurista ha oscurato tutte le sue foto da lei stessa postate sul social network Google + (anche quella dove indossa una maglietta con la scritta «Beato chi crede nella giustizia, perché verrà giustiziato») e allo stesso tempo ha oscurato e protetto anche tutti i tweet visibili a chiunque fino alla sera precedente. Non che ci fosse molto da nascondere: la professoressa Andreana (è professore aggregato di diritto europeo e sistema penale alla facoltà di giurisprudenza alla seconda università di Napoli) aveva cinguettato in tutto 150 volte, in gran parte per rilanciare video musicali o articoli del Fatto quotidiano. Da quelli si capisce che ama in particolare modo la cantante Malika Ayane (e le è piaciuta molto la canzone presentata all’ultimo festival di Sanremo , «E se poi»). La Esposito ha 18 seguaci e a sua volta segue 78 altri profili su Twitter. L’unico personaggio noto con cui ha vicendevole corrispondenza (si seguono a vicenda e quindi possono cinguettare in privato) è il leader di Sel, Nichi Vendola. Non risultano però loro discussioni nella bacheca pubblica, dove nelle ultime settimane ha naturalmente tenuto banco la vicenda del giudice Esposito. I commenti - tutti a difesa del magistrato - erano però quasi tutti di amici che frequentavano la bacheca. Lei si è limitata a diffondere un comunicato stampa dello zio sull’intervista al Mattino e una striscia satirica sulla famiglia Esposito pubblicata dal Fatto quotidiano.
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche F. Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
· Togopoli. La cupola dei Magistrati.
Magistrati indipendenti dalla politica ? Macchè, sono i primi che vogliono “fare politica”! Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 22 Dicembre 2020. In 25 (tra cui Albomonte e Poniz) lasciano Magistratura Democratica: “Luogo escludente che seppellisce nel silenzio il dissenso interno”. Una decisione “dolorosa”, spiegano i firmatari nel lungo documento con cui hanno annunciato l’addio, per imprimere una “formidabile accelerazione” alla scelta di abbandonare il percorso verso Area. 25 magistrati iscritti a Magistratura democratica, tra i quali Eugenio Albamonte e Luca Poniz entrambi ex presidenti dell’ Anm, l’ Associazione Nazionale Magistrati , hanno annunciano la loro uscita dalla “storica” corrente di sinistra. Una frattura netta che emerge dal lungo documento firmato dai magistrati che definiscono “dolorosa” la propria scelta di staccarsi da Md definendolo “Un luogo escludente, autoreferenziale, assente dal dibattito politico reale, proteso ad una narrazione costantemente autoassolutoria degli eventi, opaco e ambiguo rispetto al progetto politico di Area e che seppellisce nel silenzio il dissenso interno“. Avete letto bene: progetto politico !!! “E’ ormai compromessa ogni possibilità di continuare a lavorare insieme e a riconoscersi in questa MD, che seppellisce nel silenzio il dissenso interno e a noi appare ormai come un luogo escludente, autoreferenziale, assente dal dibattito politico reale, proteso ad una narrazione costantemente autoassolutoria degli eventi, opaco e ambiguo rispetto al progetto politico di Area”, aggiungono i magistrati dissidenti puntando il dito contro la dirigenza, a loro opinione responsabile di aver impresso una “formidabile accelerazione” alla scelta di abbandonare il percorso verso Area, il gruppo comune con il Movimento per la giustizia, che vede unite da tempo le due correnti all’Associazione Nazionale Magistrati ed al Consiglio Superiore della Magistratura. Un errore secondo i 25 magistrati dissidenti secondo i quali la corrente di Area rappresenta ” l’unico soggetto politico” all’interno del quale “realisticamente è possibile provare a costruire un progetto di radicale rinnovamento della magistratura” . E “oggi che la questione del correntismo e delle sue degenerazioni è esplosa con tutta la sua violenza, la scelta di impiegare tutte le nostre energie” in questo progetto, scrivono, “è divenuta non più rinviabile”. La decisione dei 25 di staccarsi da Md secondo loro non va però intesa come una svolta moderata ai fini del consenso, sostenendo che è “una scelta pienamente in linea con le ragioni fondanti del gruppo di Magistratura Democratica, l’ambizione e l’aspirazione di cambiare la magistratura. Per questo non ci sembra più possibile rimanere iscritti a Magistratura Democratica”. Abbiamo letto e riletto più volte il lungo comunicato e ci siamo chiesti: e questa sarebbe la magistratura che vuole essere indipendente dalla politica, salvo poi farla loro, senza alcun delega elettorale ricevuta dal popolo ? La verità è che questa “casta” sta diventando un cancro sempre più pericoloso per la vita democratica del Paese, assoldando i soliti “pennivendoli” (chiamarli giornalisti ci disturba) proni in ginocchio ai voleri di questa magistratura sempre più politicizzata . Più il Paese è scivolato in una profonda crisi economica, arrivando a perdere il 30 per cento nel prodotto nazionale lordo rispetto ad altri paesi oltralpe come ad esempio la Francia, più la politica e il Parlamento hanno perso credibilità con l’arrivo del Movimento 5 Stelle, e più la magistratura si è allargata, assumendo un ruolo politico che non è proprio. Va ricordato che parte della politica e del Parlamento, ha rinunciato sempre più volentieri al proprio ruolo. Dapprima chiedendo legittimazione ai vari Di Pietro, De Magistris e compagnia varia, poi teorizzando addirittura insieme al M5S, il “primato” delle Procure. Un circolo “vizioso” questo da fermare al più presto possibile sperando che sia ancora un punto di non ritorno. L’arroganza e l’ambizione politica di una certa magistratura è figlia della crisi della politica. Se i magistrati avessero la statura morale, l’autorevolezza necessaria sarebbe auspicabile un loro maggiore impegno politico, chiaramente candidandosi e facendosi eleggere dai cittadini in Parlamento. Da quello che è sotto i nostri occhi, onestamente non sembra una realtà possibile …
Con le correnti e senza autocritica non si va lontano. Dimissioni in massa dall’Anm, altri 30 magistrati pronti a lasciare. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Dicembre 2020. «Ci sono diversi magistrati che stanno seriamente valutando di lasciare l’Associazione nazionale magistrati. Molti di loro, ed è più che comprensibile, sono titubanti perché la scelta è lacerante e c’è il timore di sentirsi abbandonati a se stessi. Io vorrei tranquillizzare questi colleghi: se decidono di lasciare l’Anm non resteranno soli. Ci sono tante brave persone che in questo momento sono disposte ad accoglierli in una nuova casa». Paolo Itri, pm attualmente in forza al pool Antimafia di Napoli, spiega le ragioni del distacco suo e di alcuni colleghi dall’Associazione. Anche se è presto per pensare alla nascita di una nuova associazione che possa accogliere gli indignati del metodo Palamara, sembra che un progetto ci sia già: «Si può pensare a un’associazione di natura culturale che abbia una duplice condizione per potersi iscrivere: l’appartenenza all’ordine giudiziario, quindi si tratterebbe di un’associazione di magistrati, e il non essere iscritti all’Associazione nazionale magistrati. Un’associazione culturale con valori ideali nei quali ci si possa riconoscere, con il totale e definitivo superamento della logica correntizia che è una logica vecchia, che ha dato pessima prova di sé e che, è inutile illudersi, non è capace di emendarsi da quelle che sono state le gravissime deviazioni a cui ha dato luogo». «La logica correntizia – ribadisce Itri – va semplicemente superata e basta». Sarebbero una trentina i magistrati napoletani pronti ad andare via dall’Associazione nazionale magistrati, seguendo la scelta fatta nei giorni scorsi da Itri e da altri quattro colleghi (i giudici Dario Raffone, Federica Colucci, Michele Caccese, Giuseppe Sassone). Ed è, inoltre, notizia di questi giorni anche la decisione di Catello Maresca, attuale sostituto alla Procura generale di Napoli e ormai protagonista di un caso che si è creato attorno alla sua possibile candidatura a sindaco di Napoli, di abbandonare l’Anm. «Per quanto ne sappia, si tratta di motivazioni personali che nulla hanno a che vedere con le nostre argomentazioni – spiega Paolo Itri – anche se possono esserci punti di contatto nel ragionamento che fa lui e in quello che facciamo noi». Sta di fatto che l’Associazione nazionale magistrati continua a perdere pezzi, e potrà perdere con essi anche credibilità, rappresentatività, quindi potere. «Noi siamo fortemente critici non solo nei confronti dell’attuale assetto dell’Anm, ma anche verso l’assoluta mancanza di autocritica che registriamo da parte dell’Associazione nazionale magistrati rispetto a determinate gravissime vicende che hanno visto coinvolti esponenti e rappresentanti dell’Associazione stessa, vicende rispetto alle quali né l’Associazione al proprio interno né la politica, e purtroppo dispiace dirlo, sta assumendo alcun genere di iniziativa atta a evitare il perpetuarsi di comportamenti che sono al di fuori di ogni regola e – commenta Itri – ai limiti dell’eversione». L’Anm appare come un’entità chiusa in se stessa e chiusa al dialogo. «Per dialogare bisogna essere in due, di fronte a chi non vuol dialogare non ci può essere alcun rapporto e per noi l’Ann non esiste più». Nelle parole di Itri c’è amarezza, ma anche voglia di guardare al futuro: «Per anni c’è stata una gestione clientelare e correntista delle nomine e delle questioni collegate, ora registriamo un’esigenza comune di totale e radicale cambiamento». Quanto al caso Maresca, Itri preferisce non commentare le voci su una possibile candidatura a sindaco («Sono scelte personali del collega», precisa) ma commenta la posizione dell’Anm che a Maresca ha chiesto pubblicamente di fare chiarezza sulla decisione di accettare la candidatura facendo riferimento anche a esigenze di tutela dell’immagine dell’intera magistratura: «Penso che per poter criticare determinate scelte e comportamenti – chiosa Itri – bisogna avere la statura morale per poterlo fare. Prima di indicare agli altri quali linee di comportamento tenere e quali sono le più consone ai canoni etici e deontologici, occorre rendersi credibili e l’Associazione nazionale magistrati, a seguito delle ben note vicende che l’hanno riguardata, non ha fatto quello che doveva fare, tanto che determinati errori sembra che continuino a perpetuarsi».
Anna Maria Greco per “il Giornale” il 23 dicembre 2020. Sembravano tutte d' accordo, le toghe: dopo il caso Palamara è d' obbligo superare le correnti. Solo che adesso Magistratura Democratica, quella di sinistra, frena il processo di fusione con il Movimento per la Giustizia nel cartello Area, che doveva riunire tutti i progressisti. E scoppia clamorosamente il caso, con le dimissioni di 25 iscritti di peso, compresi due ex presidenti dell' Associazione nazionale magistrati (Eugenio Albamonte e Luca Poniz) e un' accusa bruciante: «In Md seppellito il dissenso». Che sta succedendo nella corrente rossa, che per decenni ha predicato l' impegno politico in magistratura e il collateralismo con i partiti di sinistra? Già nei mesi scorsi hanno lasciato i due consiglieri del Csm Giuseppe Cascini e Giovanni Zaccaro, mentre a luglio Silvia Albano si era dimessa dal Comitato direttivo centrale dell' Anm. La frattura tra la vecchia Md (più garantista anche nei procedimenti disciplinari e in sintonia con Leu più che con il Pd) e i fuoriusciti (che rappresentano la frangia grillina e giustizialista vicina anche alla corrente di Davigo, Autonomia e Indipendenza), porta di fatto alla nascita di un nuovo gruppo dentro Area e prelude all' uscita della corrente rossa, che rimarrebbe autonoma. Un nuovo gruppo di toghe più gialle che rosse, dure e pure, accusate dai vertici di Md di ergersi a moralizzatrici solo degli altri. I dirigenti, come la segretaria Maria Rosaria Gugliemi e nomi storici come Nello Rossi sono entrati in rotta di collisione con i due consiglieri del Csm Cascini e Zaccaro quando hanno contrastato la decadenza di Davigo pensionato da Palazzo de' Marescialli o hanno appoggiato la nomina del fuori ruolo Raffaele Cantone a capo della procura di Perugia. Lo scontro, anche sulla mancanza di dialogo con la corrente moderata di Magistratura indipendente e sull' allineamento spesso al Csm con i laici 5S e i togati di A&I, si è acuito e ha portato alle defezioni di questi giorni. Non si può puntare il dito senza fare autocritica e presentarsi come campioni di purezza morale, sosteneva la dirigenza. I dimissionari hanno risposto che Md è diventata «un luogo escludente, autoreferenziale, assente dal dibattito politico reale, proteso ad una narrazione costantemente autoassolutoria degli eventi, opaco e ambiguo rispetto al progetto politico di Area». Nel lungo documento di addio la «scelta dolorosa» di lasciare la corrente viene legata alla «formidabile accelerazione» impressa dall' attuale vertice all' interruzione del percorso verso Area, il gruppo comune che già unisce da tempo Md e MpG all' Anm e al Csm. Per i dissenzienti solo con questo soggetto politico «realisticamente è possibile provare a costruire un progetto di radicale rinnovamento della magistratura». Dunque il progetto non è più rinviabile, «oggi che la questione del correntismo e delle sue degenerazioni è esplosa con tutta la sua violenza». La scelta, precisano i 25, non è di «moderatismo»( un insulto da quelle parti) o di «attenuazione della propria identità politica a fine di consenso», ma è per loro «pienamente in linea con le ragioni fondanti» di Md e cioè «l' ambizione e l' aspirazione di cambiare la magistratura». Sì, ma come?
In 25 lasciano polemici MD. Magistratura Democratica si spacca, regolamento di conti tra le toghe di sinistra. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Dicembre 2020. È iniziata la resa dei conti fra le toghe di sinistra. Senza neppure aspettare il prossimo congresso nazionale, in programma (Covid permettendo, ndr) fra un mese, venticinque toghe iscritte a Magistratura democratica hanno deciso questa settimana di abbandonare il gruppo con “effetto immediato”. Fra loro, gli ultimi due presidenti dell’Anm, i pm Eugenio Albamonte e Luca Poniz, l’ex segretaria nazionale della corrente, Anna Canepa, alcuni esponenti di punta delle passate giunte dell’Anm, come Alcide Maritati. La motivazione ufficiale sarebbe che Md negli ultimi tempi, dopo aver contribuito alla «trasformazione della magistratura, da corpo burocratico chiuso, strutturalmente ed ideologicamente vicino alle classi dominanti, a potere diffuso, contraddistinto da un’organizzazione orizzontale e paritaria», «ha perso la spinta propulsiva» e «la sua capacità di intercettare e convogliare le spinte al cambiamento». «Abbiamo, pertanto, maturato la scelta, per noi dolorosa, di abbandonare il gruppo, non perché ci allontaniamo dai suoi valori e dalla sua identità, ma perché vogliamo continuare a farli vivere quali linee ideali del nostro impegno politico», scrivono i venticinque magistrati che, strappata la tessera di Md, rimarranno comunque iscritti ad Area, il cartello progressista di cui fanno parte anche i Movimenti. Oltre alla fine della spinta propulsiva, la mancata adesione al progetto di Area, il rassemblement di tutta la sinistra giudiziaria, è un altro punto oggetto di contestazione. «Assistiamo oggi – si legge, infatti, nella lettera di dimissioni – ad una formidabile accelerazione del gruppo dirigente di Md rispetto alla scelta di abbandonare il percorso verso Area». Dulcis in fundo, le continue critiche all’operato di Area e delle sue rappresentanze al Csm e in Anm da parte della dirigenza di Md e dei suoi sostenitori, fondate «quasi sempre su postulati privi di contenuto». Tradotto per i non addetti ai lavori, il caso “Davigo” ed il caso “Cantone”. La dirigenza di Md era stata fin dall’inizio molto critica sulla possibilità che l’ex pm di Mani pulite rimanesse consigliere del Csm anche dopo essere andato in pensione per raggiunti limiti di età. Nello Rossi, già procuratore aggiunto a Roma e Avvocato generale in Cassazione, in un lungo articolo la scorsa estate su Questione giustizia, la rivista di Md, aveva bocciato la possibilità del pensionato Davigo togato a Palazzo dei Marescialli. Giuseppe Cascini, capo delegazione di Area al Csm, era stato invece fra quelli che si erano spesi maggiormente per la permanenza di Davigo: Cascini, dopo il cambio dei rapporti di forza al Csm a causa del Palamaragate, aveva stretto un patto di ferro con Davigo. E poi c’era stata, appunto, la nomina di Raffaele Cantone a procuratore di Perugia. Cantone, che veniva da un lungo “fuori ruolo” come capo dell’Anac scelto da Matteo Renzi, era stato scelto per l’incarico delicatissimo di numero uno della Procura competente ad indagare sui magistrati della Capitale. Anche in questo caso notevoli erano stati gli attriti fra Md, che avrebbe voluto una figura dal passato meno “politicizzato” , ed Area. Alle “critiche” dei fuoriusciti l’esecutivo nazionale di Md, presidente Riccardo De Vito, segretario Maria Rosaria Guglielmi, ha risposto con un orgoglioso comunicato: «Crediamo in una magistratura progressista che, in quest’epoca di accresciute diseguaglianze e di moltiplicate povertà, sappia declinare di nuovo, accanto a progetti di efficienza e organizzazione, la volontà di inverare il progetto costituzionale di difesa dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più svantaggiate: poveri, di migranti, detenuti, malati, disabili, ‘matti’, donne, persone discriminate per il loro orientamento sessuale o per la loro identità di genere». E sulle dimissioni: «Tanto più dispiace perché ciò avviene in un momento in cui sono indispensabili la massima responsabilità e unità della magistratura associata, all’indomani di gravi vicende che ne hanno ferito l’autorevolezza e la credibilità agli occhi dei cittadini». Queste le giustificazioni ufficiali. Dietro l’abbandono dei venticinque, però, ci sarebbe un’altra verità. Inconfessabile. Quella legata ai rapporti di alcuni esponenti di Area con l’ex zar delle nomine Luca Palamara, al momento unico capro espiatorio della lottizzazione correntizia. Secondo la vulgata di questi mesi, Palamara (ieri è stata depositata la sentenza, oltre cento pagine, con cui la sezione disciplinare del Csm ne ha disposto ad ottobre la rimozione dalla magistratura, ndr) avrebbe sempre agito da solo. La lettura delle chat di Palamara ha fatto emergere un altro scenario. Molto diverso. È lunghissimo, ad esempio, l’elenco di toghe progressiste che si rivolgevano all’ex presidente dell’Anm. Uno dei casi più clamorosi è proprio quella della dottoressa Canepa, sostituto procuratore generale presso la Dna. Canepa scrisse a Palamara nell’estate del 2018 alla vigilia della nomina del procuratore di Savona: «Scusa se ti disturbo. Savona è uno snodo fondamentale. Sono in corsa Arena (Giovanni) e Landolfi (Alberto), uno di Mi (Magistratura indipendente, la corrente di Cosimo Ferri, ndr) e l’altro di Ai (Autonomia&indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo, ndr), ma non è questo il problema. Sono due banditi incapaci, il migliore è Ubaldo Pelosi. Un collega veramente valido. Attuale reggente. Grazie e buon lavoro». Palamara, sempre galante con il gentilsesso, risponde: «Ok tesoro». Canepa ribatte: «Mi raccomando!». Palamara aggiunge: «Assolutamente sì». Pelosi, per la cronaca, diventerà procuratore di Savona. E come dimenticare i rapporti strettissimi di Palamara con il togato Valerio Fracassi, altro esponente di punta di Area? «Ricordati che ti ho votato Pasca (Annarita) a patto che mi sistemassi Orlando (Massimo), non mi mollare», scrive Fracassi. E Palamara, rispettando gli accordi “spartitori”, risponde: «Assolutamente no, tu ordini, io eseguo». Forse dietro questo repentino abbandono c’è il desiderio di non fare i conti con un passato ingombrante. Altro che fine della spinta “propulsiva”.
E' iniziato il dopo Palamaragate. Terremoto in magistratura, scoppia la rivolta dei Pm ultrà. Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Dicembre 2020. Magistratopoli, piano piano, inizia a dare frutti. L’establishment del potere giudiziario ha finto di non vederla. Il Csm si è comportato come una specie di setta segreta, anche abbastanza sfacciata nel seppellire tutto sotto la sabbia. La politica si è voltata dall’altra parte. Il giornalismo… beh, non parliamo del giornalismo, perché quello italiano, ormai, in larghissima parte, è solo lo scantinato della magistratura. Non è certo il giornalismo che può ribellarsi allo strapotere e all’evidente grado di non indipendenza, e anche di corruzione profonda, venuto alla luce grazie al Palamara-gate. E però…Però qualcosa è successo. Perchè la magistratura è un luogo piuttosto vasto. Composto da circa 8000 professionisti. Di questi ottomila c’è solo una parte modesta, forse di duemila persone, che ha in mano tutto il potere, che controlla le correnti, e dunque le carriere, gli assetti delle procure, le nomine, molto spesso anche le sentenze. La magistratura è un monolite, come quasi sempre succede ai poteri autoreferenziali. Cioè ai poteri che non subiscono controlli o condizionamenti o verifiche esterni. Ma alle volte succede che anche i monoliti si sfaldano. E succede che le minoranze al potere vengono messe in discussione. Così è accaduto nel luogo sacro del potere giudiziario. Dico del potere giudiziario, non certo del diritto, perché le due cose non sempre, anzi quasi mai, coincidono. Questo luogo sacro è l’Anm, cioè l’associazione che raccoglie tutti i magistrati italiani e che da molti e molti anni è dominata dal partito dei Pm. È successo che una parte consistente della magistratura si è ribellata al partito dei Pm e gli ha tolto via lo scettro. Nessuno se l’aspettava. Non era mai accaduto. L’elezione di Beppe Santalucia a presidente dell’Anm è un fatto storico. Innanzitutto per una ragione oggettiva: per la prima volta da molti decenni diventa presidente dell’Anm un giudice. Almeno in questo secolo mai un giudice aveva ottenuto il comando: Bruti Liberati, Palamara, Sabelli, Davigo, Albamonte, Poniz: tutti uomini della procura. Eppure, i Pm sono solo una minoranza nel corpo della magistratura italiana. Ma una minoranza che ha in mano tutto il potere. La vittoria di Santalucia su Poniz ha avuto subito un effetto deflagrante. Santalucia non solo è un giudice e non un Pm, ma è un giudice della Cassazione (dunque dell’istituzione più garantista della magistratura). Non è un forcaiolo, anzi è considerato un liberale, e appartiene a quella componente garantista di magistratura democratica che negli ultimi anni era quasi sparita, ma che fa parte del Dna della corrente di sinistra della magistratura. La nomina di Santalucia, che avviene a sorpresa, spacca Md e spacca tutto lo schieramento delle correnti. Proviamo a spiegare perché. Nella magistratura italiana esistono diversi livelli di potere. Il potere istituzionale, e cioè il potere vero, quello che determina assetti, orientamenti e anche sentenze, che regola i rapporti col potere politico, che indirizza le carriere e gli organigrammi, è in mano a pochi uomini, in genere molto discreti, fuori dal clamore, che non amano la Tv, i giornali, la fama: amano il comando. Chi sono? Provo a fare tre nomi, difficilmente mi sbaglio: Michele Prestipino, Giovanni Melillo, Francesco Greco. Sono i capi rispettivamente della Procura di Roma, di Napoli e di Milano. Prestipino è il successore di Pignatone, ex deus ex machina del potere giudiziario. Melillo ha costruito la sua carriera al ministero. Greco ha una grande esperienza nella lotta contro la politica, perché è l’autore del primo clamoroso arresto di un segretario di partito (Pietro Longo, Psdi, 1992) e poi partecipa attivamente al pool mani pulite che smantella e liquida la Prima Repubblica. È questa troika, oggi, che tiene stretto il bastone del comando. Poi c’è il partito dei Pm, che è molto rumoroso, vistoso, super politicizzato, spesso folkloristico. Sostenuto da stampa e Tv. E che partecipa attivamente, e controlla, tutte le correnti. La tattica del partito dei Pm, fin qui, è stata molto semplice: stare nelle correnti di sinistra, di centro e di destra, in modo da avere una quota di potere molto superiore alla propria forza reale. In particolare, il partito dei Pm aveva conquistato la corrente più importante della magistratura, e cioè Md (“Magistratura democratica”) che nasce negli anni Sessanta su posizioni di sinistra e garantiste ma da diversi anni è diventata la corrente delle cosiddette “toghe rosse” che si sono poste alla testa del pensiero e della pratica giustizialista. Il partito dei Pm si interfaccia con la troika, la sostiene, in parte la condiziona, in parte obbedisce. La novità di questi giorni, probabilmente in buona parte dovuta al clamoroso scandalo di magistratopoli, è che in Md si è indebolita la forza dei giustizialisti. Il primo scricchiolio si era sentito sull’affare Davigo. Piercamillo Davigo certamente non è un magistrato di sinistra, anzi è sempre stato considerato esponente della destra estrema. Però da diversi anni è lui la bandiera del giustizialismo, ed è esattamente sul giustizialismo che si era realizzata una convergenza col gruppo di testa di Md e si era formata, anche in Csm, una specie di alleanza di potere rosso-bruna, con le truppe di Md e il cervello davighista, che aveva preso il sopravvento. Quando in settembre si è posto il problema di accettare o respingere la pretesa, arrogante di Davigo di restare in Csm nonostante il pensionamento, una parte consistente di Magistratura democratica si è ribellata. Ha detto no. Davigo non se l’aspettava. Ha perso una battaglia che era sicuro di vincere e ha dovuto lasciare la magistratura. Da lì è iniziato il terremoto. Ora alcuni tra i più noti e potenti esponenti di Md (Cascini, Albamonte, Poniz) si sono dimessi dalla loro corrente per protesta contro la linea liberale che ha prevalso. Quali saranno le conseguenze? Probabilmente la mossa del gruppo Cascini costringe il partito dei Pm a uscire allo scoperto. Voglio dire: a unificarsi e a dichiararsi. Non sarebbe una cosa cattiva. Sarebbe oggettivamente un atto di semplificazione. Porterebbe la lotta all’interno della magistratura dal piano della pura lotta di potere a quello di una lotta sulle idee: da una parte i settori (che probabilmente sono maggioritari) della magistratura convinti che la bussola debba essere sempre il diritto, e non la lotta politica o la moralizzazione, dall’altra parte la componente giustizialista, che sicuramente ha la maggioranza tra i Pm ma non nella magistratura giudicante. Perché questa sarebbe una grande novità? Perché finalmente si potrebbero separare gli schieramenti di potere dagli schieramenti delle idee. Una magistratura aperta, dove si confrontano le idee e non solo i rapporti di forza, è l’unica precondizione a una possibile riforma della giustizia. Finora la riforma è stata impossibile perché il fortino della “casta” giudiziaria era inespugnabile. Stanno per cambiare le cose?
Ho sempre pensato che l’unica possibilità di una riforma della giustizia risiedesse in una rottura nel monolite magistratura. Dal giornalismo e dalla politica non mi sono mai aspettato nulla. Se il monolite si è rotto davvero, possiamo tornare a sperare. Non è mai troppo tardi per provare a rimettere insieme i cocci dello Stato di diritto.
La storia della corrente. Storia di Magistratura Democratica: da casa dei lavoratori a trincea dell’antiberlusconismo. Frank Cimini su Il Riformista il 23 Dicembre 2020. Magistratura Democratica, molto conosciuta con la sua sigla, Md, nasce nel 1964, un anno indubbiamente di grandi speranze perché il contesto era quello dei primi governi di centro-sinistra, in sostanza l’alleanza tra democristiani e socialisti. Il perno di tutto all’inizio fu l’attuazione della Costituzione reclamata non solo dalle forze dell’opposizione perché, in pratica, la Carta aveva subito una sorta di congelamento con i governi centristi all’interno e la “guerra fredda” in ambito internazionale. Ma si trattava anche di garanzie per le classi lavoratrici di diritti sociali, di applicare lo Statuto per rimuovere gli ostacoli che limitavano uguaglianza e libertà dei cittadini. Insomma, Md nasce per interpretare le leggi a favore dei lavoratori per superare la figura del giudice come mero tecnico che vive in una sorte di torre d’avorio. Furono messi in discussione i valori tradizionali della magistratura. Ad aiutare la nuova corrente di sinistra fu la spinta al cambiamento sociale. Magistratura Democratica si schiera per il cosiddetto “Intervento esterno”, il privilegiare il rapporto e la collaborazione con le forze politiche e sociali che sono a favore del cambiamento. Ma la corrente venne investita dai problemi posti dalla giurisdizione, prima la strategia della tensione poi il terrorismo. In Md nell’analisi della lotta armata c’erano tre anime: una completamente legata al Pci, il partito della fermezza e delle leggi speciali anche forzando (eufemismo) la Costituzione, un’altra che stava in mezzo a cercare di mediare e un’altra ancora molto garantista nel perorare la causa della “democrazia che si difende con la democrazia”. A operare fu una piccola pattuglia ma molto determinata di magistrati distribuita tra Roma e Milano che ben presto venne emarginata e accusata addirittura di “fiancheggiamento”. Da ricordare la vicenda di due magistrati milanesi, Romano Canosa e Amedeo Santosuosso, sottoposti a procedimento disciplinare a causa delle loro posizioni garantiste riguardo alle inchieste sul terrorismo. L’allora procuratore generale della Cassazione arrivò ad affermare che i due magistrati erano «più pericolosi delle Brigate Rosse perché almeno le Br ti sparano e stanno davanti a te». A Padova un giudice del caso Sette aprile, che non era neanche di sinistra, fu ricusato perché aveva osato affermare: “stanno facendo un processo per quattro giornaletti”. Ancora a Milano il pm Antonio Bevere organizzatore della cena alla quale parteciparono Toni Negri e Emilio Alessandrini di lì a poco ucciso da Prima Linea fu sentito come testimone nell’inchiesta ma emarginato e trattato come un appestato dalla maggior parte della sua corrente. In quella indagine ci fu una sola teste ad affermare il falso a verbale in merito ai partecipanti alla cena. Fu la vedova Alessandrini, mai indagata però. Era la criminalizzazione della peperonata. Con il proliferare degli arresti e le lunghe carcerazioni preventive andarono in frantumi rapporti di amicizia decennali. Rapporti in parte mai ricuciti e in parte sì, come è nelle cose della vita. La frattura interna verificatasi sul terrorismo non venne replicata quando il protagonismo dei magistrati si ingigantì con le inchieste sulla corruzione. La crescita del ruolo del Consiglio Superiore della Magistratura come organo di autogoverno e di garanzia (in verità presunta, molto presunta) dell’indipendenza della magistratura fu il prodotto soprattutto delle iniziative e dell’attività di Md. Non si può dimenticare la replica del presidente della Repubblica Cossiga che mandò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli per impedire una riunione. Negli anni di Mani pulite poi Magistratura Democratica fu la punta di diamante della categoria togata soprattutto nell’infinita polemica con Silvio Berlusconi e la Fininvest. La corrente agiva in modo compatto. Va ricordato però un piccolo episodio molto poco pubblicizzato: quello del procedimento disciplinare al pubblico ministero Ilda Boccassini che utilizzando gli appunti di un poliziotto aveva fatto apparire come funzionante una microspia inceppata messa dalla procura di Milano in un bar romano dove si riunivano per il caffè di metà mattina un po’ di giudici sospettati di prendere mazzette. Boccassini fu prosciolta ma un componente del Csm targato Md volle spiegare: «La collega è stata assolta ma un magistrato certe cose non solo non le deve fare ma neanche pensare». Una mosca bianca, insomma. Per capire la storia di Md, di cosa è diventata, basta pensare che il 4 luglio del 1964 tra i “punti” nativi della corrente c’era l’obiettivo di avere uffici inquirenti caratterizzati dall’orizzontalità delle decisioni. Tra i fondatori di Md c’era Edmondo Bruti Liberati che nella sua carriera ha fatto soprattutto il massimo dirigente dell’Anm prima di diventare capo della procura di Milano. E da capo della procura di Milano sfilò le inchieste su Expo al suo aggiunto Alfredo Robledo supportato fino in fondo dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che intervenne per dire che con la riforma dei poteri dei capi degli uffici giudiziari il problema della guerra interna era risolto in nuce e punto.
Del resto era stato lo stesso Bruti ad ammettere di aver detto a Robledo: «Se nella seduta in cui ti nominarono aggiunto io avessi invitato uno della mia corrente ad andare a fare la pipì al momento del voto tu non saresti stato nominato a vantaggio della tua collega che poi avremo sbattuto alle esecuzioni». La nuova orizzontalità delle procure riformata dalla Md del terzo millennio.
Le chat con l’ex zar delle nomine. La Gip di Reggio accusa: magistrati imparentati con le cosche. Paolo Comi su il Riformista il 19 Dicembre 2020. Al Palazzo di giustizia di Reggio Calabria ci sono magistrati che hanno parenti (ed affini) ‘ndranghetisti. La pesantissima accusa viene dal presidente della sezione penale del Tribunale della città calabrese, Tommasina Cotroneo. La circostanza è emersa, come sempre, dalla lettura delle chat dell’ex zar delle nomine al Csm Luca Palamara, una fonte inesauribile di informazioni per comprendere “dall’interno” le dinamiche della magistratura in tema di incarichi e promozioni. A tal riguardo, secondo alcune indiscrezioni, le chat più significative, insieme ad altro materiale inedito, dovrebbero confluire in un libro, suddiviso in capitoletti per singolo distretto giudiziario, che Palamara ha iniziato a scrivere in questi giorni dopo aver trovato l’editore. «Ci sono tanti magistrati Luca che qui hanno parenti ed affini mafiosi e solo me hanno tirato fuori», scrive la dottoressa Cotroneo il 3 gennaio del 2018 a Palamara. «Che io sappia almeno tre», aggiunge la magistrata, all’epoca esponente di punta di Unicost, la corrente di centro all’interno dell’Anm di cui Palamara era il capo indiscusso. La “confidenza” è in risposta ad una nota informativa nei suoi confronti trasmessa al Csm da Bernardo Petralia, in quel momento procuratore generale a Reggio Calabria prima di essere nominato da Alfonso Bonafede Capo del Dap. «Petralia – precisa Cotroneo – mi ha convocata per avvertirmi che ha comunicato al Csm perché doveva la vicenda sull’altro mio cugino, il secondo di cui ti avevo parlato. Dicendomi che incontestabile la mia condotta era la seconda vicenda di parentela che doveva comunicare». Cotroneo spiega a Palamara su cosa verte la nota: «Comunque sostanzialmente si tratta di due cugini come ti avevo detto da subito. In questo caso la comunicazione riguarda l’altro dei due. La problematicità però riguardava il cugino di cui già il Csm ha discusso». Per poi aggiungere: «Le vicende dei miei parenti sono state sempre conosciute dalla Procura. Da Pignatone (Giuseppe, già procuratore di Reggio Calabria e di Roma, adesso presidente del Tribunale pontificio, ndr) in avanti ed anche prima». «Non si tratta di prossimi congiunti peraltro ma cugini con cui non ho rapporti da 20 anni», conclude Cotroneo. Chi siano questi cugini non è dato sapere. Al Csm la pratica è secretata. Alcuni dicono che siano della piana di Gioia Tauro, altri che siano del clan dei Tegano, fra i mandanti, secondo le accuse, dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. «Avranno pane per i loro denti», risponde subito Palamara. «Se non ci fossi tu mi farebbero a pezzi. Tanto gli sto sul cazzo?», replica Cotroneo. «Ci temono, e molto», ribatte Palamara. Cotroneo è legatissima all’ex presidente dell’Anm, recentemente radiato dalla magistratura: «Tu non capisci cosa rappresenti. Io per te mi farei uccidere». La magistrata, comunque, è prodiga di consigli per Palamara: «Non ti fare intimorire da questi di Area (la corrente di sinistra delle toghe, ndr). Sono maestri in questo. Che vadano a fare in culo se è il caso». Ma torniamo alla nota informativa inviata al Csm. «C’è sempre di mezzo Gerardis (Luciano, presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria, ndr) in ogni cosa che mi riguardi e Petralia (Bernardo, ndr) e Gerardis sono amici intimi. Proprio Gerardis mi ha chiamata stamattina per dirmi che mi voleva parlare Petralia», puntualizza ancora Cotroneo, sottolineando: «Vedi che Petralia è un vigliacco e se sente fiuto di Csm … mente, Gerardis è vigliacco e ipocrita». Da informazioni assunte non pare siano stati effettuati in questi mesi accertamenti sulla veridicità o meno delle affermazioni della dottoressa Cotroneo. A carico di quest’ultima, invece, è stato aperto un procedimento disciplinare per altre sue affermazioni contenute nella chat in occasione del voto del Csm per il posto di presidente di sezione per il quale aveva fatto domanda. Questa l’incolpazione della Procura generale della Cassazione: «Aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei magistrati che avevano presentato domanda per presidente di sezione del Tribunale di Reggio Calabria, al quale lei stessa concorreva, prospettando a Palamara la strategia da seguire al fine di prevalere su Katia Tassone e Daniele Cappuccio, consistente nella reiterata denigrazione di questi ultimi». Cosa aveva detto la dottoressa Cotroneo a Palamara ? «E poi devo dirti a questo punto delle cose sulla Tassone visto che si deve giocare con le loro carte. È una persona pericolosa e senza nessuna sensibilità istituzionale con un padre pieno di reati fiscali ed una impossibilità di vendere un suo bene in esecuzione immobiliare a Vibo per le pressioni che evidentemente esercita». E ancora: «Lei peraltro a seguito di una causa civile che la vedeva parte soccombente rispetto ad un vicino di casa ha mandato al giudice civile che aveva la causa una foto wapp con le immagini del suo appartamento e sotto scritto ‘senza parole’ stigmatizzando così la decisione di quel giudice. Quest’ultimo ha raccontato tutto a Gerardis che non gli ha detto di relazionare altrimenti a quest’ora la signorina Tassone sarebbe stata sotto procedimento disciplinare. Fagliele sapere queste cose al suo mentore (verosimilmente un consigliere del Csm, ndr)». «Non l’hanno mai voluta la Tassone – continua Cotroneo – perché conosciuta da tutti come pericolosa per i suoi tratti caratteriali. Sarebbe un presidente di sezione pericolosissimo. Quanto alla giurisdizione sconosce il ragionamento probatorio». E per l’altro concorrente: «Cappuccio sta presiedendo ora un maxi in Corte e si è talmente incartato che farà scadere i termini». Affermazioni che hanno già superato il vaglio della fase predisciplinare della Procura generale della Cassazione. Responsabile di questa fase istruttoria è l’Avvocato generale Pietro Gaeta, fratello di Rosalia Gaeta, giudice al Tribunale di Reggio Calabria e moglie del presidente Gerardis, quello ritenuto dalla dottoressa Cotroneo “vigliacco e ipocrita”.
«Avvocati ficcanaso, fuori dal Consiglio giudiziario!». L’editto bulgaro delle toghe baresi. Errico Novi su Il Dubbio il 17 dicembre 2020. I togati del Consiglio giudiziario pugliese: «No al diritto di tribuna dei laici quando discutiamo delle nostre promozioni». Una decisione che resterà alla storia. A Roma, a poche ore di treno da Bari, proprio ieri è toccato all’avvocatura esprimersi sulla riforma del Csm. Su una riforma che, per inciso, contiene una parziale ma pur significativa novità in materia di Consigli giudiziari: stabilisce che in queste articolazioni locali dell’autogoverno, la magistratura non può essere sola, in alcun caso, inclusi quelli in cui si decide sulla professionalità di un giudice. Nei pareri (da inviare al Csm) approvati dai Consigli giudiziari sugli scatti di carriera, avvocati e professori (cioè i “laici”) devono esserci sempre, dice una volta per tutte l’articolo 3 comma 1 lettera a) del ddl Bonafede. In casi del genere, c’è il diritto di “tribuna”, anche se non quello di voto: comunque un passo avanti. Bene. Anche se dal punto di vista del Cnf e delle altre rappresentanze forensi il diritto di voto andrebbe sempre previsto. Ma sentite cosa avviene nell’altro “polo” della ormai annosa questione: a Bari, oggi, i tre componenti avvocati e la rappresentante dell’accademia non parteciperanno, per protesta, alla prevista riunione del Consiglio giudiziario. Motivo: la maggioranza togata metterà ai voti, e approverà in modo “bulgaro”, una modifica del regolamento con cui si elimina proprio quel “diritto di tribuna” che a Bari, come in altri 14 distretti giudiziari, era già stato riconosciuto ai “laici”, prima ancora che il ddl Bonafede entri in vigore. Un «gravissimo arretramento culturale», scrivono gli avvocati eletti nel Consiglio giudiziario di Bari, in una lunga e amara lettera rivolta ai due componenti di diritto dell’organismo, che — come dappertutto — sono il presidente della Corte d’appello e il procuratore generale. «La logica seguita dai consiglieri, in aperto contrasto con l’esigenza di sempre maggiore trasparenza della magistratura, appare rispondere a scelte chiaramente corporative», scrivono i tre avvocati, «frutto di logiche interne e di quella sorta di allontanamento dalla realtà che finisce con lo sfociare in un elitarismo anacronistico, benzina per la sempre crescente sfiducia della collettività nella magistratura e quindi nella Giustizia del nostro Paese». Ancora, secondo i tre rappresentanti del Foro — Gaetano Sassanelli per gli avvocati di Bari, Giuseppe Limongelli di Foggia e Diego Petroni di Trani — gli atteggiamenti dei “togati” appena entrati in carica ( a novembre) sembrano «lesivi del rispetto non solo dei singoli componenti, ma proprio dell’intera categoria dagli stessi rappresentata e quindi anche dell’avvocatura». I magistrati oltretutto sbattono la porta in faccia al Foro in un momento in cui proprio grazie alla «sempre maggiore collaborazione» offerta dagli avvocati si è riusciti ad affrontare il dramma del covid. Rilievi davvero difficili da contestare, soprattutto perché, come ricordano ancora i tre consiglieri indicati dall’avvocatura, i «metodi sbrigativi che prescindono dal confronto» sembrano concepiti per «imporre quanto a tavolino era stato deciso al di fuori dal consesso». A cosa si riferiscono, i tre consiglieri, nella lettera inviata a presidente e pg della Corte d’appello? Nella precedente riunione, tenuta lo scorso 3 dicembre, i dieci togati elettivi si erano presentati con la mozione già pronta per essere messa ai voti: «Riteniamo non necessario discuterla. È evidente come sull’argomento», cioè la cacciata dei “laici” dalle assemblee in cui si discute di promozioni per i magistrati, «ci sia una netta maggioranza: noi togati siamo tutti favorevoli». Il presidente della Corte d’appello, Franco Cassano, legge e trasecola. E ribatte: «Io non la metto all’ordine del giorno, mi dispiace. Se volete se ne discute nella prossima riunione del Consiglio giudiziario». In quella fissata per oggi, appunto. Che rischia di registrare un fatto clamoroso: la totale e definitiva assenza dei laici dalle attività dell’organismo. I tre rappresentanti del Foro infatti, nella lettera a Cassano e alla pg Annamaria Tosto, esprimono non solo la loro incredulità, ma anche la ferma determinazione a «rimettere nelle Vostre mani i nostri mandati in ragione della totale inutilità, a queste condizioni della nostra presenza. Se le decisioni devono essere adottare al di fuori del Consiglio e prima di qualunque confronto, come invece ci insegna la nostra Costituzione, allora», scrivono gli avvocati Sassanelli, Limongelli e Petroni, «procedano pure senza la nostra presenza, così risparmiando all’avvocatura una mortificazione tanto ingiusta quanto grave». La consigliera rappresentante dell’accademia, la docente dell’università di Bari Carmela Ventrella, non può rimettere il mandato — lo impedisce il regolamento dell’ateneo — ma ha già fatto sapere che la propria investitura resterà “bianca”, e cioè che anche lei non si farà più vedere in alcuna riunione dell’organismo. La storia non si comprende se non si spiega un antefatto. Come detto, la legge al momento non prescrive il diritto di tribuna dei laici, nelle riunioni dei Consigli giudiziari destinate alle valutazioni di professionalità dei magistrati. Ma intanto, come ricordato dalla lettera degli avvocati, in 14 distretti su 26 la prerogativa è ormai riconosciuta per regolamento. Una prerogativa importante, perché qualora le solite correnti intendessero far promuovere un collega non proprio irreprensibile, sarebbe più difficile che possano farlo senza imbarazzi se alla riunione partecipano, pur senza votare, anche gli avvocati. Ma non è solo questo. A Bari il diritto ad “assistere”, per i laici, non era previsto, all’inizio della scorsa consiliatura. Poi si sono verificate un paio di cosette: la vicenda di Palamara a livello nazionale e, a livello locale, il caso dei magistrati di Trani accusati di aver pilotato e dirottato indagini. Cosicché la componente togata del “vecchio” Consiglio giudiziario decise che era opportuno offrire anche all’esterno un segnale di trasparenza, e aprire le porte di qualsiasi riunione anche ad avvocati e professori. Adesso, come si legge nella lettera a Cassano e Tosto, si torna indietro. Come se si preferisse gestire solo tra le correnti quelle questioni delicate e a volte imbarazzanti che hanno già scatenato un uragano per l’intero ordine giudiziario del Paese. Un «gravissimo arretramento», scrivono gli avvocati. Si accettano proposte per trovare una definizione migliore.
Follia al Csm: il sostituto pg Casella, accusatore di Palamara, gli chiedeva favori…Paolo Comi su Il Riformista il 15 Dicembre 2020. Quando si tratta di esprimere una valutazione sul comportamento delle toghe, il ministro della Giustizia è solito girarsi dall’altra parte. Anche se la Costituzione gli attribuisce la facoltà di promuovere l’azione disciplinare, Alfonso Bonafede resta sempre silente. Meglio non pretendere posizione, si sarà detto dopo aver visto cosa era successo in casi analoghi ai suoi predecessori a via Arenula, ed attendere che siano i magistrati a togliergli le castagne dal fuoco. Il Palamaragate, a tal proposito, è stato un grande banco di prova per il mutismo del Guardasigilli. Tralasciando la nomina di Marco Mescolini a procuratore di Reggio Emilia, con ben otto interrogazioni parlamentari di cinque diversi partiti alle quali in questi mesi Bonafede non ha mai trovato il tempo di rispondere, c’è un altro episodio, forse ancor più clamoroso, che è finito nel dimenticatoio. La vicenda riguarda l’avvocato generale Piero Gaeta, colui che ha chiesto e ottenuto la rimozione di Palamara dalla magistratura nelle scorse settimane. Il caso è stato sollevato da Maurizio Gasparri lo scorso giugno. Il senatore di Forza Italia si domandava come Gaeta avesse potuto occuparsi di muovere le accuse a Palamara posto che «si scriveva e si incontrava con l’indagato per discutere, a quanto appare, della sua carriera. È opportuno che Gaeta, che spunta nelle scandalose intercettazioni giudichi chat in cui lui stesso viene evocato? Emergono incontri Gaeta-Palamara, finalizzati a cosa? Al sostegno di Palamara alla carriera di Gaeta o a cosa?». Il nome di Gaeta, esponente della corrente Magistratura democratica e quindi della sinistra giudiziaria Area – come l’altro accusatore, il sostituto pg Simone Perelli, e il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi che li ha entrambi delegati – ricorre molte volte nella chat tra Palamara e Pina Casella, anch’ella sostituto procuratore generale della Cassazione ed esponente della corrente Unicost cui apparteneva l’ex presidente dell’Anm. Il ruolo della dottoressa Casella di “testa di ponte” tra gli aspiranti in servizio alla Procura generale (ma non solo) e Palamara emerge da molte conversazioni. Il 6 dicembre 2017 Casella scrive a Palamara: «Grazie per Gigi Salvato hai davvero contribuito a migliorare l’ufficio. Un abbraccio», riferendosi alla nomina di Salvato ad avvocato generale in Cassazione, altro accusatore nel Palamaragate. Il 10 gennaio successivo sempre Casella scrive a Palamara: «Ciao Luca. Carmelo ti porterà un mio messaggio…a cui tengo molto…poi la prossima settimana ci vediamo. Baci. Ps: sono qui con Maria Teresa Cameli (aspirante procuratore di Forlì, ndr). Aspetta tue notizie». Il Carmelo “messaggero” è il successore di Piercamillo Davigo al Csm Carmelo Celentano, ed a proposito della dottoressa Cameli il 31 gennaio 2018 Palamara risponde: “Votata Cameli”. Dopo due minuti Casella: «Una buona notizia dopo tre giorni difficili. Grazie». Risponde subito Palamara: «Stiamo recuperando su tutto». Ribatte Casella: «Volere è potere». La sostituta pg in Cassazione, sempre sui medesimi argomenti, scrive a Palamara il 10 febbraio 2018: «Quando hai le idee chiare mi fai sapere come sei orientato per pst Rimini ancona Macerata e Pesaro? Baci». Risponde Palamara: «Assolutamente si. Ancora nessuno in trattazione». Ancora Casella a Palamara il 12 febbraio 2018: «Che aria tira per Carmelo Sgroi??» Subito Palamara: «Non facile. Ma ci stiamo lavorando». Replica Casella: «Mi raccomando Luca. Per l’ufficio è importante. Chiamerò anche Maria Rosaria per farglielo capire…». Il magistrato segnalato da Casella è Carmelo Sgroi, sostituto pg in Cassazione, mentre la Maria Rosaria che doveva “capire” era Maria Rosaria Sangiorgio, consigliere del Csm insieme a Palamara. In questo contesto fa capolino l’accusatore di Palamara. Il 26 aprile 2018 Casella scrive a Palamara: «Ciao Luca sono in ufficio con Piero Gaeta che vorrebbe salutarti come già sai. Io ritorno a Roma il 2. Riesci quella settimana a passare dalle nostre parti per un caffè??». Risponde Palamara: «Si assolutamente si con piacere». Ancora Casella: «Ok allora ti chiamo il 2 e organizziamo». Come promesso il 2 maggio successivo Casella si fa viva: «Ciao Luca. Quando puoi sentiamoci un attimo. Baci». Risponde Palamara: «Assolutamente sì». Ancora Casella: «Ti chiamo fra un’oretta ok?». E Palamara: «Ok». Il 3 maggio 2018 Casella scrive ancora: «Alle 17 Piero deve andare via. A questo punto rimandiamo». Casella non demorde ed ancora il 9 maggio scrive: «Ciao Luca. Rimandiamo il tuo appuntamento di domani con Piero Gaeta alla prossima settimana? Io questa non ci sono e mi fa piacere partecipare. Ti chiamo lunedì per accordi precisi. Ok?? Baci”. Risponde Palamara: «Ok va bene un bacio». Con tenacia il 14 maggio scrive ancora Casella a Palamara: «Buon inizio settimana. Quando ci si vede? P». Palamara: “Mercoledì pomeriggio caffe’? buon inizio settimana anche a te!!” Ribatte Casella: “Perfetto. Ti chiamo in mattinata e mi dai l’orario esatto”. Puntuale mercoledì 16 maggio 2018 Casella scrive: «Ciao caro. Confermato il caffè? A che ora?». Risponde Palamara: «Ok per le 15 ti confermo orario preciso appena finiamo plenum». Ribatte Casella: «Perfetto». Sempre il 16 maggio 2018, ore 14.23, scrive Casella: «Siamo a pranzo al francese. Ti aspettiamo per il caffè come d’intesa». Risponde subito Palamara: «Alle 15.15 sono da voi». Ribatte la Casella «Bravo…». Alle 15.18 Palamara scrive: «Sto arrivando». E Casella alle 15.18: «Siamo qui». C’è poi una significativa coda. Il 6 febbraio 2019 Palamara, pur non essendo più consigliere del Csm, scrive alla magistrata: «Mi mandi numero di Piero Gaeta? Noi ci vediamo venerdì?». Risponde Casella: «Certo. Baci» e subito dopo: «Piero Gaeta Cellulare 320 xxx xxxxx». Gaeta, per la cronaca, verrà nominato avvocato generale qualche giorno più tardi.
Ci scusiamo con i lettori per l’immagine errata utilizzata in prima pagina in riferimento all’articolo di Paolo Comi nell’edizione cartacea del Riformista del 15 dicembre 2020. La foto che abbiamo pubblicato non è quella del magistrato Piero Gaeta ma dell’avvocato Piero Gaeta che niente ha a che fare con il caso Palamara.
Al Csm cose turche... Da pm dell’accusa a giudice, l’assurdo caso di Carmelo Celentano subentrato al Csm a Davigo. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Può un magistrato che, da pm, ha partecipato all’attività istruttoria di un fascicolo, continuare ad occuparsi, adesso che è diventato giudice, del predetto fascicolo? Se il fatto capita in una qualsiasi aula di tribunale, l’astensione è di “default”. L’articolo 34 del codice di procedura penale è chiarissimo: “Chi ha esercitato funzioni di pubblico ministero (…) non può esercitare nel medesimo procedimento l’ufficio del giudice”. Alla Sezione disciplinare del Csm, dove gli imputati sono i magistrati, pare invece di no. Al punto che “l’incolpato” in toga è stato costretto a presentare al collegio una istanza in cui si “invita” il pm/giudice all’astensione. In caso di mancato accoglimento del garbato invito, è già stata depositata la ricusazione. La vicenda riguarda l’ex pm della Capitale Stefano Rocco Fava, ora giudice a Latina. Il pm/giudice, invece, è Carmelo Celentano, il sostituto procuratore generale della Cassazione che ha preso il posto al Csm di Piercamillo Davigo, dopo che quest’ultimo era andato in pensione per raggiunti limiti di età, sostituendolo anche come giudice disciplinare. Fava è sotto procedimento a Palazzo dei Marescialli per avere, secondo il procuratore generale della Cassazione che ha esercitato l’azione disciplinare, “mancato ai doveri di imparzialità, correttezza, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, quale magistrato in servizio presso la Procura della Repubblica di Roma, con funzioni di sostituto”. Più precisamente, l’accusa è quella di aver raccontato all’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, e all’epoca dei fatti anch’egli pm a Roma, i contenuti di una sua nota trasmessa al Csm e di avergli consegnato alcuni allegati “pur nella consapevolezza che sarebbero stati utilizzati dal suo interlocutore per gettare discredito” sull’allora procuratore della Capitale Giuseppe Pignatone e sul suo aggiunto Paolo Ielo. Fava aveva depositato alla fine di marzo dello scorso anno un esposto al Csm in cui evidenziava delle anomalie nella gestione di diversi fascicoli da parte di Pignatone. La circostanza era stata raccontata, qualche settimana prima, anche a Davigo e al togato del Csm Sebastiano Ardita. L’ex pm parlò della faccenda durante due pranzi al ristorante Baccanale di Roma dove, oltre a Davigo e Ardita, era presente anche il collega pm Erminio Amelio. Fra i vari temi, pare si fosse discusso anche di una candidatura di Fava all’Anm nelle liste davighiane di Autonomia&indipendenza. Dopo aver acquisito nelle scorse settimane gli atti del fascicolo disciplinare, Fava ha scoperto una mail, a firma del sostituto procuratore generale della Cassazione Simone Perrelli, indirizzata all’allora procuratore generale Riccardo Fuzio e ad alcuni sostituti fra cui, appunto, Celentano. L’oggetto della mail, datata 28 giugno 2019, è “bozza capo di incolpazione” a carico di Fava. Si tratta dei capi d’accusa che sono ora al vaglio del collegio di cui fa parte Celentano. Poi c’è un’altra mail, questa volta inviata da Fuzio, circa l’interlocuzione fra la Procura generale della Cassazione ed il Csm relativa proprio alla segnalazione del marzo 2019 di Fava su Pignatone. Celentano si sarebbe “occupato” del fascicolo e non risulta alcuna sua forma di “dissenso” al riguardo, scrive Fava, invitandolo all’astensione. Per Fava ci sarebbe, poi, da parte di Celentano un “indubbio interesse, quanto meno professionale a vedere convalidata all’esito del giudizio le ipotesi d’accusa che ha concorso ad istruire e formare”. Celentano, che fra poco più di un anno e mezzo tornerà alla Procura generale, non avrebbe mai riscontrato anomalie nel comportamento di Pignatone, come rappresentato nell’esposto di Fava, ora oggetto di contestazione. Un corto circuito senza precedenti. Come mai, allora Celentano, eletto con Unicost, la corrente di centro, non si astiene dal procedimento? Mistero. Anche perché il suo sostituto è già pronto: la togata di Magistratura indipendente Loredana Miccichè. “Nemo iudex in causa sua”, dicevano i latini. In attesa di conoscere le decisioni di Celentano, Fava ha chiesto l’esibizione di tutti gli atti concernenti la partecipazione dell’ex pg al procedimento disciplinare aperto nei suoi confronti.
L’assalto degli uomini di Davigo a Celentano: è socio di Palamara, deve lasciare. Paolo Comi su Il Riformista il 30 Ottobre 2020. Carmelo Celentano – forse – farebbe meglio a tornare al suo ufficio in Cassazione. Dopo lo scoop di questa settimana del Riformista che ha pubblicato alcuni dei messaggi che il neo consigliere del Csm si scambiava con l’ex potente presidente dell’Anm Luca Palamara, sono tanti i magistrati che ritengono sia opportuno che Celentano lasci Palazzo dei Marescialli. La presa di posizione più forte è quella delle toghe del gruppo di Autonomia&indipendenza, la corrente fondata da Piercamillo Davigo e di cui Celentano ha preso il posto al Csm dallo scorso 20 ottobre, ultimo giorno di servizio per raggiunti limiti di età dell’ex pm di Mani pulite. I davighiani fanno appello al senso istituzionale di Celentano, già sostituto procuratore generale in Cassazione, affinché faccia proprie, prima possibile, determinazioni rispettose degli alti compiti ai quali è stato chiamato». Il motivo è da rintracciare nella ormai micidiale chat di Palamara che descrive «comportamenti perfettamente in linea con il diffuso sistema clientelare di recente disvelatosi in modo chiaro». Erano tantissimi i messaggi che i due, esponenti di primo piano di Unicost, si scambiavano. «Ho parlato – scriveva Celentano – con Salzano (Francesco, ora avvocato generale in Cassazione, ndr), lo ho tranquillizzato per il futuro e gli ho detto che lo avresti chiamato. Se gli dai la prospettiva dei prossimi posti sarà sereno», scrive Celentano a novembre del 2017. Palamara risponde: «Ho parlato con Salzano, è tutto ok». «Votato Salvato (Luigi, ndr) unanime», esordisce qualche settimana più tardi Palamara. «Sei fondamentale come sempre. È tutto nelle tue mani. Per questo sono tranquillo», replica Celentano. «Volevo notizie su PAT (procuratore aggiunto, ndr) Trapani; alcuni colleghi mi parlavano di Rossana Penna attualmente a Trapani, che a detta di Area (la corrente di sinistra, ndr) se la dovrebbe contendere con Marzella (Carlo) ora a Palermo. Oltre a questo mi hanno ricordato di PST (presidente sezione, ndr) Padova. Se puoi chiamami», scrive Celentano nella primavera del 2018. «PAT Trapani ancora non trattata. Per PST Padova lo metto prossima settimana», risponde Palamara che da zar delle nomine aveva il potere di decidere anche l’ordine cronologico dei posti da assegnare. «Scusa caro Luca, potresti aggiornarmi sulla situazione di Rossana Penna per procuratore aggiunto Trapani e procuratore aggiunto Bergamo? La dovrei sentire domani. Un abbraccio», ancora Celentano. «Bergamo ti spiego tutta situazione a Milano. Per aggiunto Trapani trattiamo prossima settimana con PAT Palermo», risponde Palamara. «Martusciello – prosegue Celentano – voleva notizie su Lagonegro, gli ho detto che tu mi hai detto che già sapevi tutto e che la situazione è un po’ complicata». E poi: «Come sta messo Raffaele Frasca per PS (presidente di sezione, ndr) Cassazione? Ce la fa? Avvisami quando sai qualcosa». Palamara, contattato dal Riformista aveva ricordato che Celentano lo invitava spesso, prima di essere candidato al Csm, a cena e che lo pressava con richieste per sistemare questo o quel magistrato. Celentano ha confermato di aver messaggiato con Palamara e di aver chiesto, su sollecitazione dei colleghi, informazioni sullo stato delle pratiche che li riguardavano, preoccupandosi del loro “profilo umano”. Leggendo la chat, però, il sostituto pg della Cassazione non si informava solo dei destini dei colleghi ma anche degli assetti del Consiglio superiore della magistratura. Ad iniziare dall’ufficio del Segretario generale, l’ufficio più importante di Palazzo dei Marescialli, quello che ha i rapporti con il Quirinale. Il 6 giugno del 2018 scrive Celentano a Palamara: «È in plenum la pratica vice segretario? Sai che fa Riccardo (Fuzio, procuratore generale della Cassazione, all’epoca il suo capo, ndr)?». Palamara: «Stiamo discutendo ora. Riccardo già si è espresso come Comitato di presidenza (composto dal vice presidente del Csm, dal primo presidente della Cassazione e, appunto, da Fuzio, ndr). Che ha portato in plenum Fiorentino (Gabriele, di Magistratura democratica, ndr). «Quindi in favore di Fiorentino?», aggiunge Celentano. «Sì», la risposta di Palamara. Il giudice Andrea Reale, neo eletto all’Anm per articolo 101, il gruppo “anticorrenti” aveva chiesto a Celentano chiarimenti sul suo comportamento. Dopo la prima risposta di quest’ultimo, Reale aveva replicato aggiungendo: «Potremmo dire a tutti i magistrati che è lecito, anche sotto il profilo deontologico, contattare direttamente un consigliere del Csm per chiedere notizie su colleghi del proprio ufficio, o degli uffici di legittimità, oppure sullo stato di pratiche di colleghi da loro conosciuti e di preoccuparsi del profilo umano dei richiedenti con i componenti del Consiglio?». E poi: «È consentito da oggi che circa 10.000 magistrati contattino i sedici consiglieri togati per chiedere notizie sulle pratiche degli altri 9.999? O sussiste, in questo genere di condotte, un profilo deontologicamente rilevante?». «Da consigliere è pronto a fornire la sua utenza cellulare a tutti i magistrati italiani che vogliano interessarsi delle pratiche di un loro collega amico?», aveva quindi aggiunto Reale. Difficile che il diretto interessato risponda nuovamente.
Palamara silura l’erede di Davigo: “Celentano mi pressava per le nomine”. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Ottobre 2020. «Carmelo Celentano? È un ottimo cuoco. Ricordo che ogni volta che mi invitava a cena a casa sua il livello qualitativo delle portate era altissimo. Ricordo anche, però, che tutte le cene si concludevano sempre allo stesso modo: con sue continue e pressanti richieste per sistemare questo o quel magistrato». Così Luca Palamara all’indomani dello scoop del Riformista che ha pubblicato alcuni fra i tantissimi messaggi contenuti nella sua chat con Celentano, sostituto procuratore presso la Procura generale della Cassazione e attuale consigliere del Csm dopo essere subentrato, dalla scorsa settimana, al posto del pensionato Piercamillo Davigo. Dalla lettura di questi messaggi, tutti agli atti del procedimento penale pendente a Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Anm e di cui è in corso l’udienza preliminare, emergeva una strettissima e pressante interlocuzione di Celentano con Palamara per avere informazioni su nomine, tempistiche, e quant’altro riguardasse i colleghi che aspiravano ad un incarico. Secondo la recente circolare del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, il capo di Celentano, si trattava comunque di attività lecite, senza alcuna rilevanza disciplinare. Il pg nelle scorse settimane aveva, infatti, sdoganato per i magistrati l’attività di self marketing, svolta in proprio o “esternalizzata” ad altri colleghi, come nel caso di Celentano. I messaggi fra Celentano e Palamara, come tutti quelli contenuti nelle altre chat dell’ex capo dell’Anm, sarebbero da mesi all’esame della task force istituita da Salvi a piazza Cavour. Nonostante le rassicurazioni di Salvi sulla correttezza dell’auto promozione togata, il primo a intervenire in maniera critica dopo la lettura dello scoop del Riformista era stato sulla propria pagina Fb Andrea Mirenda, giudice di sorveglianza a Verona, neo eletto al Consiglio giudiziario di Venezia con Articolo 101, il gruppo delle toghe “anticorrenti”. Celentano è anche componente della Sezione disciplinare del Csm. Quindi “giudice dei giudici”. La Sezione, si ricorderà, che sta ora giudicando i cinque ex togati coinvolti nella cena con lo stesso Palamara all’hotel Champagne dello scorso anno quando si discuteva del futuro procuratore di Roma. Anche il collega di Articolo 101, Andrea Reale, gip a Ragusa e da poco eletto all’Anm, tramite mail aveva chiesto chiarimenti a Celentano sul contenuto di tali messaggi. Da quanto appreso, Celentano avrebbe confermato di aver messaggiato con Palamara e di aver chiesto, su sollecitazione dei colleghi, informazioni sullo stato delle pratiche che li riguardavano, preoccupandosi anche del loro “profilo umano”. La risposta non ha convinto il giudice Mirenda: “A che titolo si informa? Quale legittimazione aveva per chiedere ragguagli, informazioni, raccomandazioni, anche di tipo ‘umanitario’”? Il paragone, in automatico, è con tutti gli altri cittadini della Repubblica che non hanno il privilegio di indossare la toga. «Se un privato avesse interferito senza averne titolo in un procedimento amministrativo volto a conferire incarichi, appalti, concessioni a quali responsabilità si sarebbe esposto?». La risposta Mirenda non la fornisce ma ci permettiamo di fornirla noi: la prigione. Celentano, nella sua risposta, ha preso anche le distanze da Palamara. Una “pia bugia” sarebbe quanto dichiarato da Palamara sul fatto che i colleghi di Unicost non avessero votato per lui alle ultime elezioni per il Csm, preferendogli invece Davigo, poi eletto in maniera plebiscitaria. Sempre Palamara: «Un consigliere ha l’obbligo di raccontare la verità. Celentano mi accusa di aver detto una bugia. Se intende riferirsi al fatto che una parte del gruppo di Unicost di Roma di cui facevo parte aveva votato per Loredana Miccichè (togata di Magistratura indipendente, poi eletta insieme a Davigo per i due posti destinati ai giudici di legittimità al Csm, ndr) a suo danno, gli rispondo di averlo votato convintamente e di averci sempre messo la faccia». «Anche se non ho mai condiviso il metodo della cooptazione con il quale venne la sua candidatura – prosegue infine Palamara -auguro buon lavoro al consigliere Celentano. Sono personalmente contento che abbia coronato la sua aspirazione».
L’erede di Davigo al Csm? Tramava con Palamara…Paolo Comi su Il Riformista il 27 Ottobre 2020. Con l’uscita di scena, contro la sua volontà, di Piercamillo Davigo, dalla scorsa settimana il posto dell’icona di Mani pulite al Csm è stato preso da Carmelo Celentano, il primo dei non eletti. Sconosciuto al grande pubblico, Celentano, sostituto procuratore generale in Cassazione, è stato per anni uno dei fedelissimi dell’ex zar delle nomine Luca Palamara, recentemente radiato dalla magistratura. Entrambi di Unicost, la corrente di centro, i due si sono messaggiati per anni. In particolare, Celentano sponsorizzava i colleghi che aspiravano a una nomina, chiedendo di essere costantemente aggiornato sullo stato delle pratiche. «Ho parlato con Salzano (Francesco, ora avvocato generale in Cassazione, ndr), lo ho tranquillizzato per il futuro e gli ho detto che lo avresti chiamato. Se gli dai la prospettiva dei prossimi posti sarà sereno», scrive Celentano a novembre del 2017. Palamara risponde: «Ho parlato con Salzano, è tutto ok». «Votato Salvato (Luigi, ndr) unanime», esordisce qualche settimana più tardi Palamara. «Sei fondamentale come sempre. È tutto nelle tue mani. Per questo sono tranquillo», replica Celentano. «Volevo notizie su PAT (procuratore aggiunto, ndr) Trapani; alcuni colleghi mi parlavano di Rossana Penna attualmente a Trapani, che a detta di Area (la corrente di sinistra, ndr) se la dovrebbe contendere con Marzella (Carlo) ora a Palermo. Oltre a questo mi hanno ricordato di Pst (presidente sezione, ndr) Padova. Se puoi chiamami», scrive Celentano nella primavera del 2018. «PAT Trapani ancora non trattata. Per PST Padova lo metto prossima settimana», risponde Palamara che da zar delle nomine aveva il potere di decidere anche l’ordine cronologico dei posti da assegnare. «Scusa caro Luca, potresti aggiornarmi sulla situazione di Rossana Penna per procuratore aggiunto Trapani e procuratore aggiunto Bergamo? La dovrei sentire domani. Un abbraccio», ancora Celentano. «Bergamo ti spiego tutta situazione a Milano. Per aggiunto Trapani trattiamo prossima settimana con PAT Palermo», risponde Palamara. «Martusciello – prosegue Celentano – voleva notizie su Lagonegro, gli ho detto che tu mi hai detto che già sapevi tutto e che la situazione è un po’ complicata». E poi: «Come sta messo Raffaele Frasca per PS (presidente di sezione, ndr) Cassazione? Ce la fa? Avvisami quando sai qualcosa». All’indomani del voto per il rinnovo del Csm, a luglio del 2018, Celentano, non eletto, è furente: «Come vedi mi hanno venduto per un pugno di voti». E subito Palamara: «È una cosa vergognosa e assurda: non riesco ad accettare quello che è accaduto. Avevamo fiutato il pericolo di Davigo. Io non accetto che un elettore di Unicost lo abbia votato!!! E non lo accetterò mai. Voglio dirti che ti voglio bene e che ti sono e ti sarò sempre vicino. Solo chi cade può rialzarsi e ancora più forte!!! Un abbraccio». Rincuorato dal messaggio dello zar, Celentano scrive: «Caro Luca, ti ringrazio per l’affetto che ricambio immutato! Io so riconoscere le persone che hanno testa e cuore come te. Abbiamo tuttavia entrambi la necessità di far crescere davvero il gruppo, liberandolo da qualche bassezza che la magistratura non merita. E su questo conto ancora una volta su di te e su pochi altri. Un abbraccio sincero». Dopo aver chattato come un forsennato con Palamara, Celentano sarà adesso il “giudice di se stesso”, essendo stato destinato a coprire il posto di Davigo anche alla sezione disciplinare del Csm. Dopo essere stato fra i più stretti collaboratori del titolare dell’azione disciplinare, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, Celentano giudicherà adesso l’attività svolta dal suo momentaneamente “ex” ufficio. Quando fra due anni terminerà il mandato al Csm, infatti, Celentano dovrà far ritorno a piazza Cavour. Si poteva evitare questa “incompatibilità d’ufficio”? Certo. Al posto di Davigo alla disciplinare poteva andare Loredana Miccichè, già giudice in Cassazione. Sulla non scelta della togata pare (il condizionale è d’obbligo) abbia pesato nei giorni scorsi una sua intervista al quotidiano Il Giornale in cui manifestava perplessità sul modo in cui era stato condotto il turbo processo a Palamara.
Peggio ancora di quel che credevamo....La rivelazione di Orlando: ministero della giustizia occupato dai magistrati, nomine nelle loro mani. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Novembre 2020. Mi è andata bene. Mi sono beccato soltanto l’epiteto di persona “ridicola”. Visti i toni del dibattito pubblico, in questa epoca dei vaffa, e dei vaffa che hanno conquistato il governo, non posso lamentarmi. Io invece credo che Andrea Orlando sia una persona molto seria e che però abbia fatto male il ministro della Giustizia. E non sia stato in grado, successivamente, di opporsi al suo successore (sto parlando, ahimé, di Bonafede) che faceva carne di porco delle poche riforme avviate proprio da Orlando (e mai concluse) e dei principi essenziali del diritto. Nel silenzio – complice? – del Pd e dell’ex ministro. Ne parliamo un’altra volta. Qui rispondo solo alle obiezioni di Orlando, che peraltro conosco da molto tempo e ho sempre pensato che fosse un politico con buone idee ma poco coraggio. Può darsi che mi sbagli. Del resto l’assenza di scelte coraggiose, a mio modo di vedere, è il difetto principale che il Pd si porta appresso dal momento della sua fondazione (tranne il breve periodo renziano, forse, ma in quel periodo il difetto, non meno drammatico, fu l’eccesso di coraggio e tracotanza…). Orlando si è arrabbiato perché sul Riformista gli abbiamo dato dell’amendoliano. E abbiamo fatto risalire l’abbandono di Bassolino da parte dei compagni di partito, alla vecchia ed eterna lotta – prima nel Pci e poi nei Ds e nel Pd – tra le opposte correnti. Non c’è niente per cui offendersi, francamente. Che Bassolino sia del tutto innocente è acclarato: lo ammette ormai persino Marco Travaglio (e dunque, immagino, il partito dei Pm che lui guida). Che Bassolino sia stato abbandonato dai suoi quando un gruppetto di Pm gli ha lanciato la fatwa, mi sembra cosa altrettanto sicura. Che il Pm Sirleo abbia avuto un ruolo molto importante nei processi a Bassolino (ricordo di nuovo: tutti finiti con una assoluzione), non penso che possa essere messo in discussione. Che i processi abbiano messo Bassolino fuori dalla politica e azzerato quella che era stata la sinistra (nell’ambito del centrosinistra) napoletana è una cosa che tutti vedono. Punto. Dopodiché il compito di noi giornalisti è quello di mettere in fila i fatti e tentare qualche deduzione logica. Chi conosce la storia della sinistra napoletana – e anche la storia dei rapporti tra magistratura e politica, e il modo nel quale la magistratura ha vessato la politica e l’ha espropriata, e il modo nel quale la politica ha tentato di usare la magistratura per regolare i conti interni – chi conosce tutte queste cose sa da solo, benissimo, trarre le conclusioni dei fatti che noi abbiamo messo in fila. Che Orlando appartenesse alla corrente del Pci che era stata più o meno fondata da un gigante della politica come Giorgio Amendola, non credo che sia né da mettere in discussione né da considerare un’accusa. Far parte – aver fatto parte, da giovane – del riformismo comunista ed ex comunista, è una gloria, non una vergogna. Io non ne ho mai fatto parte ma ho grande stima di tantissime persone che ne hanno fatto parte e hanno dato molto alla politica. Capisco che quello che ha dato fastidio a Orlando non è stato il sospetto amichevolissismo di amendolismo, ma il sospetto di avere sacrificato – forse alla lotta tra le correnti, forse ad altre considerazioni politiche – la difesa di un galantuomo come Bassolino e cioè uno dei personaggi più importanti della sinistra in Campania negli ultimi 30 anni. Sul Riformista, ieri, abbiamo denunciato un altro fatto. Abbiamo scoperto che i magistrati che avevano combinato il disastro dei processi a Bassolino, commettendo, evidentemente, dei clamorosi errori professionali (non è possibile processare per 19 volte un innocente, per di più ex sindaco ed ex governatore della Campania) non solo non sono stati in nessun modo chiamati a rispondere ma sono stati premiati. Mi chiedo: perchè il ministero – prima ancora di Orlando, ma poi anche quello guidato da Orlando – non ha mandato gli ispettori per capire cosa stesse combinando la magistratura napoletana contro Bassolino? E perché, addirittura, il ministro (in questo caso Orlando), invece di mandare gli ispettori a Napoli a controllare il lavoro dei Pm ha invece chiamato uno dei Pm in questione a Roma e ha nominato lui ispettore? Vede, Orlando, lei può pensare che tutto questo sia ridicolo, ma non lo è: è invece un fatto gravissimo. E questo a prescindere dalla dirittura morale e professionale del dottor Sirleo, che io mi guarderei bene dal mettere in discussione. So però che ha fatto degli errori gravissimi e che qualunque altro professionista li avesse commessi non sarebbe stato certo promosso. Dopodiché, caro Orlando, la sua giustificazione sul motivo della chiamata a Roma del dottor Sirleo, mi perdoni, ma aggrava molto – moltissimo – la situazione. Lei mi dice che non è stato lei a decidere ma il suo capo di Gabinetto. Cioè, se non sbaglio, nel luglio 2015, il dott Melillo, magistrato distaccato al ministero e oggi Procuratore di Napoli. Ho capito bene? È così? Cioè scopro che le nomine al ministero non le fa il ministro, quindi non spettano più alla politica, ma le fa – di nuovo – un magistrato? Dunque devo prendere atto del fatto che la sottomissione del potere politico al partito dei Pm è ufficiale e rivendicata? Su che basi, poi, si fanno queste scelte? Cioè su quali base i magistrati, espropriando le competenze dell’esecutivo e della politica, decidono le nomine? Caro Orlando, lo sai quanto me, perché hai letto i giornali. La parola è quella: lottizzazione. Come si fa questa lottizzazione? Il dottor Palamara lo ha spiegato in tutte le lingue. Decidono le correnti dei magistrati, cioè degli organismi potentissimi e del tutto illegali. La professionalità, le idee, l’indipendenza, la giustizia non c’entrano niente. Le correnti dicono: questo va qui, questo va lì. Questo sale, questo scende. Io pensavo che almeno al ministero ci fosse una possibilità di frenare questo scandalo. Scopro invece – dalla sua lettera – che il vero ministro, quello che decide – e non ammette obiezioni – è sempre un magistrato. Dio mio, pensavo che piovesse: qui grandina.
(ANSA il 24 novembre 2020) - La Corte d'Appello di Catanzaro, seconda sezione civile, ha condannato per diffamazione l'ex pm di Catanzaro e attuale sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Il politico dovrà pagare 20mila euro e pubblicare la sentenza che lo condanna sul suo blog, dal quale la vicenda è iniziata, entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza. A proporre appello era stato l'imprenditore Maurizio Mottola di Amato, legale rappresentante della Impremed spa nonché marito del giudice Abigail Mellace, che ha svolto le funzioni di gup al Tribunale di Catanzaro nel processo "Why not". A ottobre 2010 De Magistris aveva scritto sul proprio blog due articoli titolati "Le Mistificazioni del regime" e "Il giudice di Why not… non di Berlino", articoli poi ripresi da un quotidiano calabrese. Secondo Mottola di Amato "l'autore avrebbe riferito notizie false e incomplete sulla sua vicenda processuale senza dare conto del suo esito, contestualizzandole in un ambiente giudiziario caratterizzato a suo dire da indebiti aggiustamenti processuali e utilizzando espressioni denigratorie e lesive della sua reputazione personale e imprenditoriale". L'imprenditore era stato coinvolto nell'inchiesta "Splendor" avviata nel 2004 al termine della quale, nel 2006, è stato assolto con formula piena. Nel 2012 il Tribunale di Catanzaro si era espresso con un non doversi procedere perché De Magistris non era punibile per immunità parlamentare (a quel tempo era europarlamentare). Adesso i giudici d'appello lo hanno ritenuto processabile. "Non c'è stata alcuna condanna per diffamazione in sede penale ma solo una provvisoria sentenza civile di soccombenza in sede di appello, dopo aver avuto pienamente ragione in primo grado". E' quanto afferma il Sindaco di Napoli Luigi de Magistris commentando la sentenza della seconda sezione civile della Corte d'Appello di Catanzaro dicendosi certo che la sentenza "verrà riformata in Cassazione."
Massimo Malpica per “il Giornale” il 25 novembre 2020. Un libro nero che più nero non si può per raccontare i panni sporchi dei magistrati, lavati preferibilmente in famiglia, messi in fila dalla sezione disciplinare del Csm ma sbianchettati perché si sa, la privacy è sacra e quella delle toghe, se possibile, lo è ancora di più. Anche perché i protagonisti delle storie che Stefano Zurlo racconta ne «Il Libro Nero della Magistratura» (Baldini&Castoldi, 224 pagine, in libreria da domani), e che coprono lo spazio dell' ultimo decennio, spesso continuano a fare il proprio lavoro. Restano al loro posto, cavandosela magari con una censura, un ammonimento, il corrispettivo disciplinare di una tirata d' orecchi. Ma le storie, appunto, restano, e sono emblematiche di comportamenti che, come dice l'autore nella prefazione, fanno impallidire pure il caso Palamara. Ma restano nell' ombra o vedono la luce protetti dal bianchetto, che nasconde i nomi, ma non cancella fatti incredibili ma veri: dal giudice che «molesta e assilla» la collega pm a quello che copia le sentenze, fino al collega che assegna centinaia di incarichi all' amico professionista con cui condivide la frequentazione di un club di prostitute, al Gip che «si ricorda» di liberare due imputati dai domiciliari con un anno e mezzo di ritardo o al giudice di Corte d'Appello che fotografava le nipoti minorenni e diffondeva in rete quelle foto pedopornografiche. Sono trentaquattro storie da non credere quelle messe in fila da Zurlo. Come quella di Orazio Gallo (il nome, come lo sono anche tutti gli altri, è appunto di fantasia), giudice in aspettativa, che ad aprile e poi a luglio del 2009 per due volte dà i numeri sulla pubblica via, prima ubriaco, aggredendo i passanti che vogliono aiutarlo, del insultando i poliziotti accorsi e offrendosi di «leccare la f...» alla dottoressa 118, poi concedendo il bis con i carabinieri, dopo un tamponamento seguito da tentativo di fuga e sfociato in atti di vandalismo contro la «gazzella» dell' Arma e in un inevitabile arresto, concluso tra insulti e contumelie dell' uomo. Il Csm, anche di fronte a due precedenti sempre «stradali» sfociati in altrettanti procedimenti disciplinari, decide di cacciarlo dalla magistratura. Ma non va sempre a finire così. Zurlo lo dimostra raccontando il caso di Giovanni Domodossola, magistrato la cui moglie si ritrova con un ematoma al naso dopo una lite e che, si legge nel fascicolo del Csm, «dal 1995 al febbraio 2007 teneva fuori dall' ufficio condotte tali da renderlo immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere un magistrato». Una storia, lunga, di liti con la consorte, ricche di insulti, strattoni, lesioni. Ma la donna ritira la querela, la sezione disciplinare ne prende atto. Derubrica tutto a «insofferenze reciproche», mette nero su bianco che «tutte le violenze, a quanto consta dagli atti, furono consumate all' interno della convivenza, dunque senza effetti sul piano sociale e della credibilità del magistrato». Insomma, Domodossola sarebbe colpevole solo di vivere una «quotidianità triste». E viene assolto. Ma Zurlo ci racconta anche di Franco Rossi, pm al quale ad agosto 2011 arriva sulla scrivania un caso di cronaca terribile: un padre che ha accoltellato alla gola, davanti alla moglie e ai familiari, la figlia di due anni. L'autore del gesto ha gravi problemi psichici, ma il pm non fa nulla, anzi, indaga l'uomo «erroneamente» per lesioni colpose, e tocca al procuratore capo, più di un mese dopo, correggere l' imputazione in lesioni dolose. Il pm non si smuove e gli atti del procedimento disciplinare fotografano l'assurdo, scrivendo che «si asteneva da ogni atto concreto di indagine, sebbene sollecitato più volte». E più di un anno dopo, a ottobre 2012, l' accoltellatore, con la giustizia che ha ignorato ogni allarme, chiude il cerchio e ammazza la moglie. Il pm, scrive il Csm, «in tal modo non impediva» che l' indagato «provocasse alla donna il danno irreparabile della perdita della vita». Il caso finisce al Csm 4 anni dopo, nel 2016, ma «finisce ancora prima di cominciare», racconta sconsolato Zurlo, perché il pm, nel frattempo, si è spogliato dalla toga. Tutto in archivio. Tranne il sentimento della vergogna.
Luca Fazzo per “il Giornale” il 21 novembre 2020. Come può David Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, giudicare gli accusati di una vicenda in cui anche il suo nome ricorre più volte? Contro l'esponente del Pd, l' uomo che rappresenta in Csm la voce del presidente Mattarella, parte ieri un siluro da uno dei magistrati sotto accusa per il caso Palamara. Il tema non è dissimile da quello che vide protagonista Piercamillo Davigo, ricusato da Palamara perché lui stesso coinvolto nelle nomine oggetto del procedimento disciplinare contro l' ex leader dell' Anm. Stavolta tocca ad Ermini venire ricusato: con un atto depositato nei giorni scorsi da Stefano Fava, il pm romano che fa parte dell' elenco di 27 toghe per cui la Procura generale della Cassazione chiede sanzioni disciplinari. Fava risponde di due capi d' accusa: uno è avere spifferato a Palamara qualche dritta sull' indagine che lo vedeva coinvolto; l' altro, il più delicato, è avere inviato un esposto al Csm in cui si riferiva dei rapporti d' affari con alcuni inquisiti del fratello di Giuseppe Pignatone, allora procuratore della Repubblica a Roma. Pignatone ha lasciato la Procura per limiti di età, e oggi presiede il tribunale del Vaticano. E il suo nome ricorre spesso nella ricusazione depositata da Fava. Ermini, secondo Fava, dovrebbe farsi da parte per non avere dato corso al suo esposto proprio contro Pignatone: «Sia il Quirinale, sia David lo vogliono affossare», si legge in una intercettazione. Scrive Fava: «il Presidente Ermini ha un evidente interesse personale a patrocinare una certa interpretazione delle intercettazioni che lo riguardano direttamente quale, ad esempio, quella sopra citata, versate agli atti del presente procedimento poiché, da una certa interpretazione piuttosto che da un' altra, potrebbe discenderne una sua responsabilità personale». E non è tutto. Fava ricusa anche Giuseppe Cascini, membro di sinistra del Csm: ricusazione superata dai fatti, perché Cascini ha già deciso di astenersi. Ma nel capitolo dedicato a Cascini, Fava infierisce nuovamente su Pignatone: «in data 16 novembre 2016 intorno alle ore 17 il dottor Pignatone ha infatti comunicato al dottor Fava di conoscere Centofanti Fabrizio per essere costui una della dieci persone che gli era capitato di frequentare a Roma. Di essere stato a cena con il predetto Centofanti e che tra i commensali c' era anche il ministro della difesa Pinotti». Centofanti è l' imprenditore legato al Pd da cui ora Palamara è accusato di essersi fatto comprare: ma secondo Fava i rapporti erano stretti anche con Pignatone. E fu proprio Pignatone, scrive Fava, a rivelare a Palamara dell' esistenza di un indagine a suo carico. Ma nei guai c' è finito Fava.
Caso Palamara, l'atto di accusa della procura generale: ecco i nomi dei 27 magistrati. Il procuratore della Cassazione Giovanni Salvi ha già chiesto il giudizio disciplinare per 11 toghe e inviato le contestazioni ad altri 16. Le cento pagine firmate dal pg con il dettaglio delle "incolpazioni". Antonio Fraschilla su L'Espresso il 17 novembre 2020. «Sono 27 i magistrati per i quali la procura generale ha già esercitato l'azione disciplinare per i fatti emersi da chat e intercettazioni». Lo ha detto il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, affrontando, durante un intervento al plenum del Csm, il tema del caso procure e delle chat emerse dal telefono dell’allora sostituto procuratore di Roma, Luca Palamara, espulso dalla magistratura lo scorso ottobre. «Mi sono assunto la responsabilità di fare linee guida per fare chiarezza su quali siano e quali no i comportamenti disciplinarmente rilevanti, ho ricevuto anche critiche, ma questo è il momento di assumersi responsabilità», ha detto Salvi, secondo il quale la «stessa scelta andrebbe fatta dalla prima e dalla quarta Commissione del Csm per avere indicazioni generali a cui attenersi». La procura generale della Cassazione ha esaminato migliaia di pagine di chat e intercettazioni dei Palamara papers, e ha contestato ad altre 27 toghe comportamenti non in linea con l’onorabilità della magistratura: e tra queste non ci sono solo i magistrati che hanno partecipato alla cena all’Hotel Champagne insieme ai deputati Cosimo Ferri (che è anche una toga prestata alla politica) e Luca Lotti per parlare di nomine che il Csm era prossimo a fare nelle principali procure del Paese, ma anche tanti magistrati che grazie Palamara, leader della corrente di Unicost ed ex presidente dell’Anm, avrebbero cercato di fare carriera e farla fare ai loro amici e in alcuni casi anche ai parenti. Quello di Salvi è un atto di accusa dettagliato: per undici di loro ha già chiesto il giudizio di fronte alla commissione disciplinare del Csm, come da lui stesso annunciato lo scorso luglio, ad altri 16 ha inviato nelle scorse settimane le contestazioni e dopo aver ascoltato la controparte deciderà se chiedere il giudizio o meno.
Colpo di spugna della Procura. Palamaragate, magistrati a processo ma si salvano tutti i big che trafficavano con lo zar delle nomine. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Novembre 2020. La montagna ha partorito il topolino. La maxi task-force messa in campo dalla Procura generale della Cassazione per analizzare le migliaia di chat contenute nel telefono di Luca Palamara ha prodotto poco più di dieci nomi. Sedici per l’esattezza. Tutto qui. Della centinaia e centinaia di magistrati che per anni hanno “stalkerizzato”, direttamente o indirettamente, l’ex zar delle nomine ed ex presidente dell’Anm, in pochissimi finiranno davanti alla sezione disciplinare del Csm insieme ai colleghi che presero parte al dopo cena all’hotel Champagne con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. Il Palamaragate, salvo colpi di scena, al momento alquanto improbabili, finisce dunque così. Con una colossale autoassoluzione. La circolare del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, che aveva sdogonando il “self marketing togato” ha escluso dalla punibilità moltissimi magistrati. Il Csm, poi, a distanza di oltre un anno dallo scoppio dello scandalo non si è, incredibilmente, ancora dato criteri univoci per la valutazione di queste chat ai fini delle sue decisioni in merito al conferimento di incarichi o alle valutazioni di professionalità per le toghe. Una voce fuori dal coro è quella del pm antimafia Nino Di Matteo. «Perché non possiamo valutare le chat?», ha dichiarato in Plenum questa settimana. «Siamo in possesso legittimo di questo materiale», ha aggiunto, chiedendo di analizzare una volta per tutte la condotta tenuta da Palamara con i colleghi per il conferimento degli incarichi. L’ex presidente dell’Anm, radiato dalla magistratura il mese scorso, fino a oggi ha tenuto il massimo riserbo su quanto fatto e sugli accordi presi per le nomine dei capi degli uffici più importanti del Paese. Qualche “pizzino” ai giornali ma nulla di più. «Con le conversazioni di terzi diamo ergastoli, indaghiamo politici ed amministratori», ha sottolineato Di Matteo ai colleghi in Plenum che gli ricordavano che non era possibile valutare disciplinarmente un magistrato solamente sulla base di cosa Palamara aveva detto di lui. Insomma, sotto la scure di Salvi finiranno le retrovie: i “big” togati sono stati tutti esclusi. Ma chi sono i malcapitati? Maria Vittoria Caprara, attuale giudice del tribunale di Roma, nella qualità di segretaria della Quinta commissione del Csm, avrebbe dato informazioni riservate a Palamara, in particolare “sulla procedura di nomina del procuratore di Roma”. Fiammetta Palmieri, anche lei ex magistrato segretario del Csm, avrebbe fornito ai “consiglieri del Csm Lepre, Cartoni e Criscuoli (coinvolti nel dopo cena dell’hotel Champagne, ndr), atti relativi alla trascrizione di intercettazioni telefoniche vincolate dal segreto”. Roberto Ceroni, sostituto procuratore a Bologna, referente di Unicost, la corrente di Palamara, in Emilia Romagna, avrebbe mirato «a far conseguire la nomina di Gianluca Chiapponi, Stefano Brusati e Silvia Corinaldesi rispettivamente ai posti di procuratore di Forlì, presidente Tribunale Piacenza e presidente Tribunale Rimini, perché appartenenti alla loro comune corrente associativa». Valerio Fracassi, presidente dei gip del Tribunale di Brindisi ed ex componente del Csm in quota Area, il cartello progressista, avrebbe ottenuto da Palamara «di espungere dall’elenco dei posti di imminente pubblicazione quello di presidente di sezione di Brindisi, trattandosi dell’ufficio dal quale proveniva e sul quale sarebbe dovuto rientrare (ufficio poi ricoperto al termine del ruolo al Csm)». Alessia Sinatra, pm a Palermo, avrebbe tenuto un «comportamento gravemente scorretto nei confronti del procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, che aveva presentato domanda per la Procura di Roma” dichiarandosi “disposta a tutto” pur di scongiurarne la nomina». Massimo Forciniti, pm a Crotone, e Claudio Maria Galoppi, consigliere giuridico della presidenza del Senato, entrambi ex consiglieri del Csm, avrebbero sollecitato insieme a Palamara un emendamento alla legge di stabilità del 2017 che permetteva agli ex togati di piazza Indipendenza di essere nominati a un ufficio direttivo senza attendere un anno dalla cessazione dalla carica. Tommasina Cotroneo, presidente sezione Tribunale Reggio Calabria, avrebbe «tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei magistrati che avevano presentato domanda per presidente di sezione del Tribunale di Reggio Calabria, al quale lei stessa concorreva, prospettando a Palamara la strategia da seguire consistente nella reiterata denigrazione di questi ultimi». Stefano Pizza, sostituto procuratore a Roma, avrebbe fatto una attività di dossieraggio, insieme a Palamara, per screditare un sostituto procuratore a Grosseto. Salvo, quindi, Marco Mescolini, procuratore di Reggio Emilia, che aveva scritto a Palamara la sera prima del voto in Plenum per la sua nomina, dopo avergli mandato per mesi decine e decine di messaggi, la celebre frase: “Ti vengo a trovare e ti porto la maglietta di PAL RE DE ROMA….”.
Thierry Cretin: l’ex pm francese che ha conosciuto il sistema ad orologeria italiano. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 6 Novembre 2020. Thierry Cretin è stato un PM francese, che in Italia si sarebbe chiamato “magistrato d’assalto”. “Oggi è martedì grasso. Tuttavia, non vorrei avanzare mascherato”, dichiarava alla stampa nel marzo del 1995, quando era procuratore della repubblica a Lione, e chiedeva la condanna con una requisitoria di quasi sette ore, che ne sanciva la fine delle ambizioni da Presidente della Repubblica, di Michel Noir, il potente sindaco gollista della città. “Ho avuto alcune preoccupazioni quando ho intrapreso la revisione di questo dossier. Quando ho chiuso il coperchio della scatola, le mie preoccupazioni si erano placate: questo dossier era terrificante, questo dossier era travolgente. Era la strana mescolanza di soldi facili, politica e media”, spiegò Thierry Cretin a Liberation. Precisando il suo metodo di procuratore che parla solo in Tribunale: “Preferisco il fatto al commento, l’analisi del diritto“. Il tribunale, i dodici imputati, il pubblico erano avvertiti. E fu non sola la fine della carriera politica del sindaco di Lione, ma anche uno smacco per altri personaggi pubblici francesi finiti nell’inchiesta, come Charles Giscard d’Estaing, nipote dell’ex Presidente della Repubblica. Cretin, autore di un celebre libro sulle mafie, tradotto in diverse lingue, è stato per molti anni alla Commissione Europea, Capo Unità prima e Direttore poi delle indagini dell’Ufficio Europeo per la Lotta alla Frode (OLAF). Fino a quando, nel 2011, al posto del Procuratore tedesco, Franz-Hermann Bruener, deceduto dopo una breve malattia, arrivò il successore. Thierry Cretin, per la sua grande esperienza, la sua assoluta indipendenza, l’equilibrio ed il rigore sereno, era considerato il successore naturale di Bruener. Era stimato da tutti i servizi investigativi europei, ma anche dai suoi investigatori e dalla maggioranza dei funzionari dell’OLAF. Va però segnalato che Bruener, cui Cretin era sempre stato legato da un grande rapporto di stima reciproca, non aveva avuto un ottimo rapporto con il Comitato di Sorveglianza dell’OLAF, tra i cui membri vi era stato, anche come Presidente, l’ex numero uno della potente ANM (l’Associazione Nazionale Magistrati), Edmondo Bruti Liberati, prima che diventasse Procuratore della Repubblica di Milano. E la Commissione Controllo Bilancio del Parlamento Europeo, che aveva un peso enorme nella nomina del capo dell’OLAF, era presieduta dall’ex magistrato italiano, ed oggi sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, col quale Bruener nel 2007 ebbe pubblicamente da dire a causa di alcune fughe di notizie e speculazioni mediatiche su un’inchiesta su presunte frodi ai fondi europei, della quale era responsabile alla Procura della Repubblica di Catanzaro, ed alla quale l’OLAF aveva fornito la propria collaborazione. Bruener scrisse una infuocata lettera di protesta al Ministro della Giustizia, e pretese la pubblicazione di un comunicato stampa congiunto OLAF e Commissione Europea contro le per lui inammissibili speculazioni stampa, che allora non si chiamavano ancora fake news. Ma in quella stessa Commissione Controllo Bilancio c’era anche l’eurodeputata Sonia Alfano, all’epoca appartenente all’Italia dei Valori dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che nelle audizioni pubbliche dei candidati al vertice dell’OLAF, del 26 ottobre del 2010, diede un determinante contributo a chi preferiva a Cretin un altro magistrato, guarda caso italiano, ed ex deputato del Pd: Giovanni Kessler. E per Thierry Cretin, ma anche per tutti coloro che erano stati leali a lui e all’OLAF di Franz-Hermann Bruener, venne sancita la fine della carriera all’Ufficio Europeo per la Lotta alla Frode. E dovettero cercarsi un altro posto, a seguito di azioni di mobbing strisciante, se non di vere e proprie epurazioni. E chi scrive ne sa più di qualcosa. Ricordo benissimo che Sonia Alfano, entrata in aula durante l’audizione pubblica come candidato di Cretin, chiese la parola, per porre le sue domande iscritte in agenda, al Presidente della Commissione Controllo Bilancio del Parlamento, Luigi De Magistris. E furono due, brevi e precise, lette su un foglietto, prima di abbandonare di fretta l’aula, se il ricordo non mi inganna, senza neppure ascoltare la risposta. La prima era se fosse vero che Cretin si trovasse sotto inchiesta per un’accusa di mobbing nei confronti di “un ufficiale della Guardia di Finanza”. Cretin rispose che effettivamente era stato oggetto di un reclamo per presunto mobbing da parte di “uno dei suoi agenti dell’OLAF”, e che questa denuncia era in corso di esame dal mese di luglio da parte del servizio di mediazione della Commissione Europea, le cui conclusioni non erano ancora note (al momento dell’audizione). La seconda domanda era se appartenesse ad una “associazione dei magistrati”, senza fornire ulteriori dettagli. Cretin rispose che era stato membro di un’”associazione di magistrati” ma che non versava più i contributi a quell’associazione da diversi anni, perché non ne faceva più parte. Queste due domande, a molti di coloro che hanno assistito come me all’audizione, apparvero subito come le fucilate di un plotone d’esecuzione. Perché la stampa ed i resoconti parlamentari – che stranamente oggi non si trovano più on line – misero subito in evidenza proprio queste due domande di SoniaAlfano. Poco importò – facendo molto pensare a molti alle tecniche di orologeria tipicamente italiane – che la presunta accusa di mobbing venne archiviata solo qualche settimana dopo, perché considerata del tutto infondata, dal Servizio di Mediazione della Commissione Europea. Perché in ogni caso quell’ombra gettata durante l’audizione pubblica costò a Cretin il posto di Direttore Generale dell’OLAF. Nessuno obiettò neppure che, a parte la palese infondatezza delle accuse, il Direttore Generale facente funzioni dell’OLAF, un inglese che era si era pure candidato al posto di Direttore generale, e che partecipò come Cretin all’audizione pubblica, notoriamente non era simpatizzante del suo concorrente interno e collega francese. Che temeva molto, lui che era un semplice funzionario del Tesoro britannico, per la sua incomparabile esperienza investigativa. Come non era stato simpatizzante neppure di Franz Hermann Bruener, al punto che la moglie del procuratore tedesco, alla cerimonia funebre della Commissione Europea, rifiutò di averlo al suo fianco, nonostante fosse stato il vice ed il successore facente funzioni del marito scomparso. Ma neppure nessuno si insospettì del fatto che nel luglio precedente, in piena procedura di selezione per il posto di Direttore Generale, l’inglese si sentì preso dallo zelo di dover investire il servizio del Mediatore della Commissione Europea delle accuse, poi risultate palesemente infondate, contro il suo concorrente interno. La denuncia si rivelò infatti una montagna di accuse false e pretestuose, che Cretin smantellò facilmente, punto per punto, dimostrandone il carattere palesemente stravagante. La conclusione ufficiale del servizio di mediazione, ancorché dopo il forse un po’ troppo lungo tempo – qualche mese – necessario ad effettuare l’inchiesta, fu che l’accusa contro Cretin non solo era assolutamente infondata, ma che era anche palesemente legata alla procedura di nomina del Direttore Generale dell’OLAF. Ma tale decisione giunse troppo tardi. Perché nel frattempo il successore di Bruener era stato già scelto. Ed era, guarda il caso, un altro magistrato italiano, oltre che ex parlamentare del PD. Quindi troppo tardi perché la sorte di Cretin non fosse già segnata, ed iscritto come secondo nella lista di merito della Commissione Parlamentare presieduta dall’attuale Sindaco di Napoli. E a nulla era servito che, come nessuno poteva dubitare, avesse scalzato l’inglese, il quale in ogni caso avrebbe preferito un outsider, come il magistrato ed ex politico italiano, piuttosto che trovarsi subordinato al suo concorrente interno, che troppo bene conosceva l’Ufficio ed il suo mestiere. Nemmeno la seconda domanda di Sonia Alfano, a molti, non solo a Cretin, parve innocente. E merita essere pertanto essere ricordata. Perché era riferita all’Association Professionnelle des Magistrats, che negli anni ’90 si era opposta con forza a quelli che considerava come abusi del Syndicat de la Magistrature (una sorta di Magistratura Democratica, con la quale alcuni magistrati italiani, anche molto vicini all’OLAF, mantenevano strettissimi contatti, anche di tipo personale) e alle sue idee in materia di giustizia. E all’epoca il presidente di questa associazione, di cui Cretin non faceva più parte da anni, era stato accusato di alcuni commenti considerati antisemiti. Nessuno tolse quindi dalla testa di Thierry Cretin che l’obiettivo della domanda che qualcuno aveva suggerito a Sonia Alfano era quello di lanciare un’insinuazione di antisemitismo nei suoi confronti. Infatti, nei giorni che seguirono (anche se qualche mese dopo sparirono misteriosamente dal Web, e persino dai resoconti parlamentari on line del Parlamento Europeo) Cretin trovò su Internet alcune dichiarazioni che andavano proprio in questa direzione. Nonostante un’esperienza che ha lasciato un sapore amaro, Thierry Cretin non ha mai perso il suo modo ironico, ma determinato, di affrontare anche situazioni complicate della sua lunga vita professionale. Con spirito da autentico cacciatore, nel suo tempo libero come nella sua attività professionale. Non ha neppure perso il suo modo, rigoroso e preciso, da appassionato costruttore di coltelli artigianali, da uomo giusto e da Magistrato con la emme maiuscola, di valutare il sistema della giustizia. Compreso il modo variegato di agire dei singoli magistrati. In Francia, ma anche in Italia. Ragione per la quale l’ho intervistato su qualche tema della giustizia italiana.
Luca Palamara, l'ex pm a Libero: "Ho fatto parte di un meccanismo. Ora voglio riformare la magistratura". Emilia Urso Anfuso su Libero Quotidiano il 05 novembre 2020. È al centro di una vicenda complessa scoppiata in seno alla magistratura, e che ha trovato - almeno apparentemente - un solo protagonista, un unico colpevole: Luca Palamara. Eppure, basta scavare un poco tra le pieghe di questa storia per capire che non ha senso urlare allo scandalo. In queste ore circola la storia della "manina" che avrebbe passato le carte ai giornali per far saltare le trattative sul nuovo vertice dei pm di Roma. Pare una spy story «Non sta a me stabilire se esista o meno una "manina" che avrebbe passato le carte ai giornali con riferimento a fatti e notizie che riguardavano l'indagine nei miei confronti. Ciò che è certo è che anch' io sono interessato a comprendere come e perché determinate informazioni siano state divulgate e diffuse in maniera illecita».
Perché ciò che è considerato normale in politica non lo è all'interno della magistratura?
«In questo momento, e sottolineo in questo momento, è stato più facile identificare nella mia persona l'unico autore degli accordi all'interno delle correnti. Ma ciò è accaduto perché non è mai stato spiegato il meccanismo attraverso il quale le correnti operano all'interno della magistratura stessa. Questo ha creato una sorta di diversità tra ciò che avviene in politica e ciò che avviene in magistratura. Intendo dire che, poiché mai stato reso pubblico il sistema delle nomine all'interno del Csm, quando si è iniziato a parlarne si è gridato allo scandalo. I cittadini conoscono il sistema delle nomine in politica e perciò non lo ritengono scandaloso».
Il Csm sembra non trovare pace anche sulla nomina in sostituzione del dimissionario Mancinetti.
«Non ritengo di essere la persona più indicata a rispondere alla domanda. Posso dire ciò che penso: non si è raggiunto un accordo tra le correnti».
Di recente è entrato a far parte della Commissione sulla riforma della giustizia del Partito Radicale. Una giustizia giusta è possibile?
«Per circa 25 anni ho operato all'interno della magistratura, e ho sempre seguito la linea dell'applicazione imparziale della legge. Avrò modo e occasione, spero, di dimostrare che mi sono sempre battuto per i principi di una giustizia giusta. Per questo motivo, ho ritenuto di voler mettere a disposizione l'esperienza della mia attività per chi si è sempre battuto per questi principi, anche se ho espresso nel corso degli anni diversità d'opinione e d'idee su determinate questioni. Però, poiché ritengo che il tema della giustizia molto importante per la vita dello Stato e dei cittadini, voglio mettere il mio bagaglio personale e professionale a disposizione di tutti».
È stato denominato "Il caso Palamara" ma sarebbe stato più corretto denominarlo "Il caso magistratura". A un certo punto sembrava addirittura che la magistratura fosse composta di un solo elemento: lei. Mi sono fatta l'idea che tutto nasca dalla frattura tra Unicost e Magistratura democratica e la nuova alleanza con Magistratura indipendente. È così?
«La mia storia politica e associativa è caratterizzata da un'alleanza tra la corrente di Unicost e le correnti della sinistra giudiziaria. Quando quest' alleanza si è affievolita, in special modo nell'ultimo periodo, in occasione della nomina del vice presidente Ermini, si è verificato uno scostamento maggiore verso l'area moderata, e sono iniziati a nascere problemi che a un certo punto hanno riguardato direttamente la mia persona».
Mi dica la verità: lei è più potente di quanto voglia far apparire? Perché tutto quest' accanimento contro di lei? Cosa può aver mai ordito che gli altri non potessero?
«L'idea dell'uomo solo al comando non mi è mai piaciuta e non mi sono mai sentito tale. Sono stato semplicemente un magistrato che in una fase della sua vita ha fatto parte di un meccanismo, quello delle correnti, all'interno del quale, interfacciandomi con le altre, ho operato».
La cosa particolare è che lo scandalo non è scoppiato tanto all'interno della magistratura quanto a livello socio-politico. Ha scandalizzato gli italiani.
«Ogni giorno ci sono giudici impegnati nei casi più svariati. Dall'ambito civile, come i divorzi, oppure che decidono di uno sfratto, o sono chiamati a giudicare un ladro o un truffatore. Ai cittadini va spiegato che il fatto che mi ha riguardato è interno alla magistratura, si riferisce alla gestione interna del potere, ma non intacca l'applicazione imparziale della legge. Questa situazione, quindi, non deve incrinare la fiducia che i cittadini ripongono nel sistema giudiziario».
Di recente si sono tenute le elezioni del comitato direttivo centrale: tonfo per Autonomia&Indipendenza, la corrente di Davigo, costretto però dai colleghi a lasciare la carica per decadenza a poche ore dal voto. Fatto fuori pure lui?
«Davigo è stato tra i giudici che mi ha giudicato, e per tale motivo non mi esprimo su questo punto. Posso però dire che nemmeno io mi aspettavo che a distanza di pochi giorni dalla decisione che mi ha riguardato, egli sarebbe decaduto dal Csm. È però certo che la scorsa estate c'erano avvisaglie su quanto sarebbe accaduto».
Il giorno successivo all'esplosione dello scandalo sulle nomine, 5 consiglieri togati su 16 si sono dimessi e il Procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio in pensionamento forzato: un fuggi fuggi generale che potrebbe apparire come un'ammissione di colpe.
«Ognuno risponde dei propri atteggiamenti e comportamenti, io rispondo per me stesso. Non voglio giudicare il comportamento degli altri».
Lei potrebbe tornare a breve a indossare la toga se le Sezioni Unite della Cassazione dovessero ammettere il suo ricorso.
«Non demordo, utilizzerò tutti gli strumenti processuali che l'ordinamento mi mette a disposizione, facendo ricorso all'organo di ultima istanza, perché ho pieno interesse a far emergere tutta la verità su come sono andate le cose. Voglio anche far comprendere perché in quel periodo storico la corrente di sinistra della magistratura era fortemente ostica nei confronti del Procuratore Viola. Per tale motivo il ricorso sarà funzionale in attesa della decisione della sezione disciplinare, per continuare a far valere i miei diritti fino a che mi sarà possibile, passando per le Sezioni Unite e la Corte Europea per i Diritti dell'Uomo, per ristabilire la verità dei fatti".
Magistratopoli e i suoi scandali. Dopo Magistratopoli è arrivato il momento di un referendum sulla giustizia. Biagio Marzo, Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 24 Ottobre 2020. È il momento giusto per indire uno o più referendum su aspetti fondamentali riguardanti la giustizia italiana e la magistratura, dopo il caso Palamara. Ciò non significa che si vuole intaccare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Bisogna piuttosto liberarla dalla ruggine di privilegi accumulati nei decenni. Due esempi.
Il primo: gli incarichi extragiudiziari dei magistrati, la loro seconda attività, la cui crescita, negli ultimi sei mesi, ha raggiunto il numero di 961, rispetto ai 494 dei sei mesi precedenti.
Il secondo: l’uso eccessivo della custodia cautelare.
Questo è il quadro nel quale si svolse il referendum sulla giustizia giusta, l’8 ottobre del 1987, per stabilire la responsabilità civile per i magistrati. Certamente bisognerà studiare sul piano tecnico come i referendum devono essere articolati, i punti specifici su cui far pronunciare i cittadini. Per memoria, i temi essenziali sono la separazione delle carriere, il Csm, i termini processuali, gli incarichi extragiudiziali, la carcerazione preventiva. Su un altro piano: le intercettazioni e la prescrizione. La presa di coscienza dell’esistenza di un problema magistratura è partita dall’arresto, nel 1983, di Enzo Tortora, scaturito dalle dichiarazioni di un pentito e dalle successive calunnie di suoi omologhi a cui i mezzi di informazione e la procura di Napoli diedero grande credibilità. Insomma, fu condannato un innocente che subì una via crucis giudiziaria e una gogna mediatica senza pari, per colpa di macroscopici errori giudiziari. Non sapremo mai se quegli errori fossero dovuti a deficit di capacità professionale o del tutto intenzionali, fatti per fare carriera e addirittura per conquistare fama. A dire il vero, i magistrati coinvolti in quei processi hanno fatto ottima carriera e i falsi pentiti hanno vissuto, negli anni, felici e contenti. Il caso Tortora fu definito giustamente da Giorgio Bocca: «Il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso nel nostro Paese». I protagonisti di quella battaglia referendaria furono il Partito Radicale di Marco Pannella e il Psi di Bettino Craxi. Per Tortora ci fu il combinato disposto di pentiti e Pm con la partecipazione straordinaria dei mass media. Dopo Tortora è avvenuto di tutto. Da un lato c’è stata una magistratura che ha pagato un prezzo altissimo al suo impegno contro la mafia e contro il terrorismo. Non facciamo nomi perché l’elenco sarebbe lungo. C’è stato però anche il rovescio della medaglia, la magistratura che ha fatto politica e che con Mani Pulite ha operato una forzatura al limite dell’eversione: tutti i partiti si finanziavano in modo irregolare, alcuni di essi furono distrutti, altri salvati e favoriti. È inutile anche in questa occasione fare nomi e cognomi. Va però detto che si è trattato dell’unico caso in Europa nel quale alcuni partiti sono stati estromessi dal Parlamento non per il libero voto degli elettori, ma per l’inusitato, pressante e invasivo intervento del circo mediatico-giudiziario. Il caso Palamara è arrivato alla conclusione di un ciclo all’inizio del quale il ruolo dei magistrati è apparso come “l’angelo sterminatore” nel film di Buňuel. Invece il caso Palamara ha messo in evidenza che esiste una lotta di potere all’interno della magistratura che arriva fino all’ordine gerarchico più elevato, il Csm. Il correntismo e il carrierismo hanno messo l’ordine giudiziario (diventato potere per colpa della politica in uno stato di soggezione di fronte alla magistratura), in una condizione di credibilità decrescente. Gli italiani ora diffidano della magistratura. L’inversione di tendenza si è avuta per via del caso Palamara, ma il malessere durava da decenni. In più, si è inserito il populismo giudiziario dei 5 stelle e del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Come un fulmine a ciel sereno, Luca Palamara balza agli onori della cronaca, accusato di aver ricevuto 40 mila euro per una nomina e per aver rapporti con imprenditori e avvocati. Ha sempre negato di aver intascato soldi. Chi è Luca Palamara? Ex presidente dell’Anm, leader della corrente moderata di Unicost, ed ex componente del Csm. Come mai deflagra il caso? Una microspia-virus, il trojan, è stata introdotta nel suo cellulare, registrando per filo e per segno la sua vita pubblica e privata. Galeotto fu l’hotel Champagne e chi partecipò alla cena con magistrati del Csm delle correnti Unicost e Magistratura Indipendente e politici di alto rango: Cosimo Ferri, ex magistrato e parlamentare ex Pd ora Italia Viva, e Luca Lotti deputato Pd ed ex ministro, inquisito per il caso Consip. Il trojan in questo caso certe volte funziona, altre volte no. Quando gli incontri coinvolgono personalità o magistrati intoccabili il trojan pare non funzionare. Il corto circuito si innesca con l’andata in pensione del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Inizia uno scontro senza esclusione di colpi per conquistare la poltrona più prestigiosa e di maggior potere della giustizia italiana. I procuratori di Firenze e di Palermo scendono in campo. Lo scontro è durissimo e Luca Palamara entra per questo nel tritacarne. La chiave di lettura che egli dà delle sue disgrazie è la seguente: quando ero alleato della sinistra non ho avuto problemi, ora, che l’asse del Csm si stava spostando a destra, sono stato radiato dalla magistratura. Ora, il rapporto ambiguo e ipocrita tra magistratura e politica è vecchio come il cucco. Ad esempio, un vicepresidente del Csm non nasce dalla testa di Giove come Minerva, ma viene eletto sulla base di trattative tra mondo politico e quello della giustizia. Non crediamo che l’attuale vicepresidente Ermini sia stato eletto per le sue pubblicazioni, ma pensiamo sia il frutto di una contrattazione che però non è stata registrata dal trojan. Sono migliaia i casi di promozione all’interno della magistratura, decisi dalle correnti con l’intervento della politica. Fino a quando questo sistema esisterà e resisterà alle spinte di riforma, vale la citazione dell’Amleto di William Shakespeare. E, comunque, non valgono le riforme omeopatiche e quelle gattopardesche bensì quelle che cambiano l’attuale sistema molto autoreferenziale. Per farla breve, Palamara si trova radiato dalla magistratura perché così ha deciso il Csm, incolpato di essere stato “il regista del sistema delle nomine”. Ma nel passato, invece, le nomine come sono state fatte? Un vero peccato che grazie alla mancata ammissione dei 130 testimoni indicati da Palamara non sia stato possibile approfondire l’argomento. A noi oggi interessa il caso Palamara per capire come funziona la giustizia, di modo che l’eventuale referendum abbia tutte le carte in regola per riformarla, per non ripetere per ogni sentenza di assoluzione la famosa frase del mugnaio “c’è un giudice a Berlino” e per scongiurare ciò che, profeticamente, affermò Bettino Craxi: «Arriverà un giorno in cui i giudici si arresteranno tra loro».
Il caso Palamara scoperchia un sistema marcio, le cosche giudiziarie comandano. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Si è detto giustamente che lo sapevano anche i sassi: non c’era bisogno della rivelazione delle sessantamila chat di Palamara per scoprire ciò che appunto conoscevano già tutti e cioè l’immondezzaio delle nomine, dei traffici, delle cospirazioni nel sistema di governo della magistratura corporata. Ma il fatto che quel dispositivo di potere corrotto funzionasse risaputamente in modo incensurato denuncia una responsabilità ulteriore, e se possibile anche più grave: la responsabilità della classe politica che, pur sapendo, ha taciuto. E soprattutto: che, pur potendo intervenire, nulla ha fatto per ricondurre a legalità i comportamenti della magistratura deviata. Bisogna concedere che la classe politica (non c’è destra, non c’è sinistra, non c’è centro: tutta la classe politica) potesse aver timore di denunciare e intervenire: perché quelli ti fanno a pezzi, ti sbattono in galera, mentre il giornalismo alleato (anche qui: praticamente tutto) fa il suo sporco lavoro di demolizione con tre mesi di prime pagine alla notizia dell’arresto e col trafiletto non si sa dove alla notizia dell’assoluzione. Ma una classe politica finalmente compatta nel reclamare il ripristino dello Stato di diritto, e capace di qualche convinzione sulla necessità di non sottomettersi alla prepotenza intimidatoria del mostro togato, avrebbe ben potuto almeno provare a interrompere il dominio della malavita giudiziaria. Che cosa faceva la piovra delle manette: li arrestava tutti? Anche perché se la classe politica avesse reagito come di dovere c’è da star sicuri che la parte non corrotta della magistratura, che è ampia per quanto senza voce, avrebbe condiviso quell’opera di richiamo all’ordine costituzionale. Tanti bravi magistrati sono a loro volta i soggetti passivi dello strapotere delle cosche giudiziarie, e vi si sottomettono esattamente come tanta brava gente si sottomette al potere mafioso: perché non c’è lo Stato a imporre il diritto e a proteggere i diritti, e al suo posto imperversa la violenza di un potere arbitrario e anch’esso armato visto che può infierire con altrettanta violenza sui beni e sulla stessa vita dei cittadini. E il paragone non indigni nessuno: l’intimidazione giudiziaria non è meno forte rispetto a quella della criminalità solo perché non minaccia pallottole ma l’inferno del carcere, la distruzione di un’impresa, la devastazione di una famiglia, lo rovina della reputazione personale. I diritti delle persone sono i beni che la classe politica dovrebbe proteggere. Sono i beni che invece la classe politica lascia esposti all’usurpazione di una magistratura che li offende ogni giorno mentre si governa nel modo illecito che tutti conoscono.
LE CORRENTI: QUANDO IL GRUPPO SI TRASFORMA IN BRANCO. Una storia eloquente di correntocrazia. Toghe.blogspot.com sabato 11 luglio 2020. A seguito dello scandalo scoppiato dopo la pubblicazioni delle chat tra il dott. Palamara e numerosi magistrati (nonché qualche politico) si è acceso un forte dibattito sul valore o disvalore delle correnti presenti all'interno della magistratura. Dalle chat si è infatti avuta insindacabile conferma che le nomine dei direttivi e semi-direttivi degli uffici giudiziari, così come gli incarichi fuori ruolo, sono interamente pilotata dalle correnti in combutta con i partiti politici. Con altrettanta evidenza, è emerso che le correnti hanno fatto uso e abuso del loro potere anche per condizionare l'esito di procedimenti aventi particolare rilevanza politica e/o economica e per "perseguitare" altri magistrati mediante apertura di procedimenti disciplinari e ostruzionismo alle legittime aspettative del singolo magistrato. A dispetto di quanto emerso, i correntocrati - imperterriti nel sostenere il valore delle correnti in quanto naturale e legittima espressione di multi-culturalità - si sono affannati a ricercare le giustificazioni storiche dell'associazionismo giudiziario e a sottolineare l'importanza dell'ANM. Tuttavia, lo sforzo profuso non ha consentito loro di trovare valide prove di recente esemplare rappresentatività dell'indipendenza della magistratura, risalendo invece il più valido intervento dell'ANM addirittura al periodo fascista. In termini generali, le correnti presentano delle connotazioni positive allorquando trattasi di gruppi costituiti da persone libere che, liberamente, scelgono di aderirvi in quanto accomunati ai suoi partecipanti da comuni ideali. E, entro certi limiti, si può anche ritenere positivo che il singolo senta di potersi autoaffermare all'interno di un gruppo che, nel proporre idee similari a quelle individuali, ne costituisce una sorta di cassa di risonanza. Tuttavia, le vicende emerse recentemente - ma che in realtà caratterizzano ormai da tempo immemorabile le azioni della magistratura italiana, sotto gli occhi complici e silenti della gran parte dei magistrati - hanno evidenziato con chiarezza come le correnti abbiano nella realtà snaturalizzato la dimensione umana di associati e simpatizzanti tirandone fuori il peggio. L'adesione alle correnti non è più frutto di libera scelta sulla base di comuni valori ma piuttosto obbligo imprescindibile per ottenere "protezione" dal gruppo, in aperta violazione dell'art. 18 della Costituzione che prevede il diritto di associarsi liberamente e non già il dovere di associarsi obbligatoriamente. Quanto accaduto altro non è che il codice di comportamento tipico delle dinamiche in cui il gruppo si trasforma in branco. All'interno del branco il pensiero individuale perde interamente la sua dimensione, l'individuo non è riconosciuto come tale se non in quanto vi appartiene. È questo il momento in cui la forza aggregativa delle correnti non si basa più sulla comunanza di idee quanto sulla forza del branco e sulle prevaricazioni che, nel caso di specie, vengono utilizzate con una nonchalance apparentemente sorprendente ma che purtroppo si basa sugli elementi negativi di una società che non solo le tollera ma addirittura le alimenta e le normalizza. Sui giornali abbiamo letto di prevaricazioni "importanti" che hanno condizionato nomine di procuratori capo e presidenti di tribunale, collocamenti politici fuori ruolo e esiti processuali o che hanno determinato l'abuso del potere disciplinare. Ciò che, tuttavia, è rimasto sommerso è la frustrazione quotidiana dei magistrati che, non essendo parte del branco e addirittura contestandolo, sono costretti a subire prevaricazioni che non assurgeranno mai agli onori della cronaca. È proprio di queste nefandezze che voglio parlarvi, perché sono queste che distruggono lentamente la vita di una persona e cancellano per sempre l'idea di Giustizia. Avevo fatto accesso in magistratura da poco tempo e mi trovavo ad affrontare il parere che allora veniva dato agli uditori con funzioni. Avevo assunto le funzioni di pubblico ministero presso il Tribunale di C. ed ereditavo il ruolo di una collega della ex procura presso la Pretura che ammontava a più di 3.000 fascicoli di cui una parte sostanziosa giaceva disordinatamente per terra. Mi ero messa di buona lena e, con l’entusiasmo e le insicurezze della novellina, mi ero data da fare per smaltire così l'enorme mole di procedimenti. Le statistiche parevano premiare la mia buona volontà visto che mi trovavo sempre piazzata nella pole position. E anche il parere redatto dal capo ufficio, Procuratore aggiunto dott. R.P., sembrava confermare il mio buon operato. Avevo addirittura ricevuto una nota di merito dall'allora Procuratore capo M.B.-. Strano a dirsi, però, al momento della redazione del parere da parte del Consiglio Giudiziario, il giudizio sulla mia laboriosità fu "discreto". Rimasi veramente interdetta, non solo perché non corrispondente a quanto risultante dagli allora unici due criteri utilizzabili a fini valutativi (parere del capo ufficio e statistiche), ma perché un ottimo non si risparmiava a nessuno, figuriamoci un buono! A me invece era toccato addirittura un discreto! Mi fu consigliato di fare ricorso al Consiglio giudiziario, ricorso che si rivelò inutile dato che, trattandosi del medesimo Consiglio che aveva dato il parere, non fece che confermarlo sebbene con delle motivazioni assurde. Specificamente, ritenne l'inutilità a fini valutativi sia delle statistiche (per via della presunta incomparabilità qualitativa tra i fascicoli assegnati ai diversi sostituti procuratori) che del parere del capo ufficio (attesa la frequente pratica di utilizzare dei "pareri fotocopia"). A quel punto rimaneva da capire sulla base di quali elementi il Consiglio Giudiziario avesse espresso il proprio parere visto che quelli considerati "inutili" erano comunque gli unici criteri legalmente previsti. Fu così che - recatami dal Dott. R.P. al quale rappresentai che in fondo lui era stato implicitamente accusato di utilizzare pareri fotocopia - assistetti in diretta all'assalto del branco.
R.P. telefonò in mia presenza all'allora presidente della Corte d'Appello per chiedere le ragioni del parere emesso. Ebbe dunque inizio una conversazione che definirla kafkiana sarebbe riduttivo.
- Il Presidente sostiene che hai lasciato un cadavere annegato dentro una vasca da bagno per diversi giorni - disse.
- Ma io non ho mai avuto un fascicolo di un cadavere dentro una vasca da bagno! - esclamai stupefatta.
- La collega dice di non aver mai avuto un cadavere dentro una vasca da bagno - riferì allora il dott. R.P. al Presidente.
- Il Presidente dice che forse il cadavere non era dentro una vasca da bagno, era impiccato e l'hai lasciato attaccato penzoloni alla corda - mi riferiva il dott. R.P. dopo aver parlato nuovamente con il Presidente.
- Mi è capitato di avere un procedimento di un detenuto che si era impiccato ma, quando mi hanno avvisata, io e il medico legale ci siamo recati sul posto nell'immediatezza e il cadavere era già stato staccato dalla corda - Risposi sempre più esterrefatta da quell'inverosimile telefonata che pareva un procedimento disciplinare celebrato ex post, senza un'accusa definita e senza diritto di difesa.
- La collega dice che l'unico impiccato che ha avuto era già stato staccato dalla corda al suo arrivo - riferì il dott. R.P. al Presidente e quindi tornò a me.
- Insomma, il Presidente non sa dove si trovasse il cadavere né di che morte sia morto, sa soltanto che hai lasciato un cadavere per giorni senza intervenire - concluse.
Io ero allibita, ma ebbi la prontezza di rispondere che, semmai una cosa di questa fosse successa, il fatto sarebbe stato di una tale gravità da rendere doveroso un procedimento disciplinare nei miei confronti, procedimento che invece non era mai stato celebrato. Aggiunsi che lui stesso avrebbe dovuto essere coinvolto per non aver adeguatamente svolto le sue funzioni di supervisore. Gli dissi che gli avrei comunque consegnato tutti i fascicoli di decessi a me assegnati in modo da consentirgli di effettuare un controllo sul mio operato. Inutile dire che, al suo controllo, risultò che tutti i decessi erano stati gestiti in modo impeccabile.
A quel punto R.P. - noto esponente della corrente Unicost, ma anche noto "simpaticone" e "buon padre di famiglia" - anche in considerazione del fatto che il suo stesso parere era stato ritenuto "fotocopia", intervenne inviando una lettera ai singoli componenti del Consiglio Giudiziario dolendosi del trattamento a me riservato nonché della sottovalutazione del suo parere. Constatava anche, con amarezza, che il parere era stato emesso all'unanimità e che nessuno dei componenti aveva sentito il dovere di approfondire la vicenda. Ovviamente quella lettera non venne mai protocollata perché si sa che, se fai parte del branco, ti stai già permettendo un lusso se dissenti dal suo operato. Non puoi arrivare di certo a lederlo, neanche se a suggerirtelo è quella ormai lontana vocina della tua coscienza. Qualche giorno dopo l'amara vicenda, incontrai uno dei componenti del Consiglio Giudiziario, stimatissimo collega, oggi presidente aggiunto presso l'Ufficio GIP di C., anch'egli simpatizzante di Unicost. Conoscendone le sue note virtù, non esitai a chiedergli il perché di quella ingiustizia perpetrata nei miei confronti. Il virtuoso - si vedeva chiaramente che si trovava assai a disagio - mi rispose che altro componente del Consiglio Giudiziario, oggi procuratore aggiunto di S., anch'egli affiliato Unicost, aveva riferito al Consiglio Giudiziario che, durante il mio uditorato con funzioni, un collega, allora procuratore presso la DDA, oggi Presidente di sezione di Corte di Appello a T., aveva sbraitato contro di me lungo il corridoio della Procura perché "come aveva osato una presuntuosa novellina rifiutare il suo aiuto lasciando così un cadavere senza l'intervento del medico legale?!" D'improvviso tutto mi fu chiaro. Durante uno dei miei turni una donna si era suicidata con dei barbiturici ed era morta sul letto di casa propria, non annegata in una vasca né impiccata ad una corda. Sfortuna aveva voluto che tale donna fosse una parente o conoscente di qualcuno che lavorava nella segreteria di un collega della DDA (ovverosia di colui che quello stesso pomeriggio aveva sbraitato, a mia insaputa, contro di me) o comunque a lui vicina. Pertanto, mentre io cercavo un medico legale per recarsi in loco, quest'ultimo ritenne di telefonarmi, "offrendomi il suo aiuto". È vero che io rifiutai l'aiuto, ma non per arroganza o senso di superiorità, ma perché ritenevo doveroso fare il mio lavoro. Non l'avevo mica capito che l'offerta di aiuto era, in codice, una "imposizione di aiuto" che avrebbe consentito di accelerare delle procedure che, comunque, per i normali mortali avrebbero dovuto rispettare i termini di legge.
Ed ecco che il branco si accanì contro di me per quella mia stupida impudenza. A distanza di tempo un componente del Consiglio Giudiziario vendicava l'offesa fatta all'amico, contro l'impudente indipendente che, non solo non era di corrente, ma per di più aveva osato non accettarne i codici. Non importa che militassero o meno nella stessa corrente, comunque ne rispettavano i codici, cosa che invece gli indipendenti si ostinavano a non fare. Il collega tanto stimato (al quale io chiesi giustificazioni del parere), anch'egli simpatizzante di corrente, per quanto virtuoso, evidentemente non era altrettanto coraggioso da evitare che si consumasse una palese ingiustizia ed illegalità. Lo stesso dicasi di tutti i membri del Consiglio Giudiziario i quali, sulla base di un fatto riferito da un amico del branco, avevano sottoscritto il parere. L'intero Consiglio Giudiziario, votando all'unanimità, aveva agito non sulla base di criteri legali ma di commenti autorevoli di uno dei componenti del branco, in altre parole di "voci di corridoio", proprio come oggi lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura, svilito ormai dalle correnti, effettua le nomine e avvia i procedimenti disciplinari.
Riportato l'accaduto a R.P., che ben sapeva che la sua lettera non avrebbe mai ristabilito giustizia, questi si lavò la coscienza fornendomi ulteriori informazioni, a me, sino ad allora, sconosciute. Segnatamente mi riferì che già prima di quell'accaduto c'era stato un accanimento nei miei confronti tanto che, prima che assumessi le funzioni, era stato avvisato da uno dei coordinatori degli uditori - oggi egregio Avvocato Generale presso la Procura Generale di C. nonché noto appartenente alla corrente Unicost - che avrebbe dovuto "stare assai attento alla G…da!". Il dott. R.P. si faceva vanto al contempo di non essersi lasciato influenzare dall'allerta del collega compagno di merende unicostiane. E, certamente di ciò gli va dato atto viste le dinamiche del branco. Tale circostanza veniva anni dopo confermata anche dal dott. G.G. il quale, dopo avermi reso la vita in Procura un vero inferno, scusandosi, mi confessava di aver sbagliato nel farsi guidare da un pregiudizio nei miei confronti esclusivamente sulla base di informazioni fornitegli dallo stesso coordinatore di uditori che aveva dato l'allerta al dott. R.P. contro la temibile collega G.da.
Questo è il branco. È quello che tu scrivi email e nessuno ti risponde, è quello che tu parli e nessuno ti ascolta, è quello che, mentre tu lavori, sparge la voce che sei una sfaticata, è quello che a volte strumentalizza il procedimento disciplinare ma, quando è ben consapevole che non esiste neanche il fatto storico, ti fa un procedimento disciplinare segreto nei corridoi di un Tribunale, violando il più elementare diritto di difesa. E tu non puoi fare nulla per combatterlo, perché il branco è vigliacco, non ti affronta direttamente ma ti distrugge con le voci di corridoio. E, nel frattempo, i suoi componenti fanno tutti carriera. Da allora, durante tutti questi anni, mi sono ritrovata tante volte ad affrontare il branco. E mi sono ritrovata a combattere da sola in situazioni molto più grandi di me in cui, fino alla fine, ho sperato che la giustizia trionfasse. Durante tutto questo tempo, in maniera forse assai infantile ma tipica dei sognatori, ho sperato che anche a me potesse capitare quello che era capitato a Robin Williams ne "L'attimo fuggente". Ho sperato tante volte che qualcuno salisse su un banco, non tanto in mia difesa ma in difesa della indipendenza intellettuale.
Non è mai accaduto. E allora ho imparato a salire da sola sul tavolo, sempre più sola e sempre più stanca. Penso a tutti gli anni di studio per diventare magistrato, io che non ero "figlia d'arte", anzi, ero la prima laureata della famiglia. Penso a tutti i miei sogni…e ogni tanto piango. Poi, però, è più forte di me, salgo sul banco nuovamente e ricomincio a lottare. E a volte capita di incontrare altre anime libere e sole. Perché io so, ne sono intimamente consapevole, che non occorre essere "riconosciuti" per sapere di esistere.
Malagiustizia, migliaia di errori ma pagano solo quattro magistrati. Viviana Lanza su Il Riformista l'11 Luglio 2020. I casi di ingiusta detenzione sono un migliaio all’anno in tutta Italia. Le azioni disciplinari nei confronti dei magistrati sono 53 in tutto, ma in tre anni, cioè nel periodo 2017-2019. Il dato napoletano è tra quelli non indicati nel bilancio dell’Ispettorato del ministero della Giustizia. Resta il fatto che non bisogna essere sofisticati matematici per cogliere una sproporzione tra questi numeri. Se a Napoli, solo nel 2019, ci sono state 129 ordinanze che hanno disposto indennizzi per un totale di oltre tre milioni di euro (3.207.214 a voler essere precisi), vuol dire che ci sono stati 129 casi accertati di ingiusta detenzione. Vuol dire che ci sono state 129 persone che hanno subìto l’arresto e il carcere, senza che vi fossero accuse o presupposti fondati ma sicuramente per disposizione di un magistrato, pm o giudice. E allora viene da chiedersi come mai sono soltanto 53 i magistrati, che in tutta Italia e non solo a Napoli, e in tre anni non in uno solo, sono stati sottoposti ad azioni disciplinari, considerando anche che di questi 7 sono stati assolti, 4 hanno avuto la censura, 9 non doversi procedere e 31 procedimenti sono in corso. Di chi è allora la responsabilità delle centinaia di ingiuste detenzioni risarcite nello scorso anno a Napoli e del migliaio risarcito in tutta Italia? Pur volendo considerare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il diritto alla riparazione è configurabile anche nel caso di un atto di querela successivamente oggetto di remissione, nel caso di reati in prescrizione o derubricati, resta una sproporzione. Come si spiega? «Vuol dire che c’è un abuso della custodia cautelare», afferma Raffaele Marino, magistrato di lunga esperienza, attualmente in servizio presso la Procura generale di Napoli. «Bisogna distinguere tra ciò che è fisiologico e ciò che è invece patologico. Se un imputato viene assolto in Appello siamo di fronte a un errore fisiologico ma se viene scarcerato dal Riesame e la posizione archiviata si tratta di un errore patologico, a mio avviso». Il procuratore Marino sottolinea tuttavia la singolarità di ciascun caso. «Bisogna valutare caso per caso sulla base delle carte, non si può generalizzare». Ma pur restando distanti da facili generalizzazioni, un problema c’è. «Sta nella mancanza di controlli da parte dei capi degli uffici giudiziari o di volontà di fare controlli – aggiunge Marino – Se, per esempio, l’indagine di un pm viene ridimensionata già al Riesame vuol dire che il pm non ha lavorato bene, e se non ha lavorato bene il pm non deve stare dove sta oppure va controllato. C’è tutto un ragionamento da fare che non viene fatto». Cosa si può fare? «Bisognerebbe introdurre meccanismi di controllo seri, ora invece tutto è affidato al capo dell’ufficio che dovrebbe essere Superman per controllare tutto e tutti». Di fronte ai numeri del report ministeriale, Marino non ha dubbi: «Quando abbiamo numeri di questo genere c’è qualcosa che non funziona nella resa giudiziaria e rispetto alla lesione dei diritti primari dei cittadini, perché chi viene messo in galera subisce danni che sono notevolissimi. Per non parlare del processo penale, che oggi ha un fine processo mai grazie a nostro ministro della Giustizia, ed è di per sé un danno, un danno notevole. Al di là del dato economico, quindi, il costo sociale della giustizia in Italia è enorme e questo Paese non può più sopportarlo». «Ben vengano – conclude il magistrato – proposte come quella di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta che cerchi di capire cosa non funziona e come il progetto di una riforma che parta anche dal Csm per eliminare il potere delle correnti».
Intervista allo psichiatra Vincenzo Mastronardi: “Test psicoattitudinali per fare il magistrato”. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'11 Luglio 2020. Il professor Vincenzo Mastronardi è uno psichiatra e criminologo clinico tra i più noti nel contesto accademico internazionale. «Diciamo che mi piace studiare», glissa lui. E in effetti ha prodotto il più alto indice bibliometrico della sua categoria. Con il sistema-giustizia interagisce come psichiatra forense ed esperto di criminologia. E non è detto che la profilatura dei soggetti delittuosi sia tutta a carico degli imputati, come ci dice lui stesso. Anche i magistrati sbagliano, sono umani. E non vanno ritenuti “superuomini”. «Ho avuto in terapia ogni tipologia di essere umano, dalla massaia all’impiegato di banca, al medico, al magistrato, al politico…».
Che cosa li accomuna?
«Sono tutti esseri umani, con le vulnerabilità e le paure di ciascun essere umano».
Alcuni però hanno più responsabilità di altri. I magistrati decidono della vita, e dunque in fondo della morte, delle persone…
«Alcuni magistrati illuminati parlano dell’incidenza delle emozioni e del libero convincimento nelle decisioni. Il giudicare giusto ed equilibrato è troppo spesso sottoposto alla pressione soverchiante dell’opinione pubblica che preme sulle decisioni da adottare, inserendo di fatto le decisioni dei magistrati in un clima contestuale incisivo».
Un tema su cui la stessa magistratura è chiamata a riflettere.
«Il processo mediatico incide sempre di più sul processo giudiziario. Mi rifaccio in questo al lavoro di Luigi Lanza, un magistrato illuminato, già in Corte di Cassazione, e al lavoro di Imposimato, che invitai a tenere con me una lezione sugli errori giudiziari, su cui ha scritto un bellissimo manuale con la Giuffré. C’è spesso un clima falsato da un’attenzione selettiva della stampa o della politica».
Parliamo del caso Berlusconi. Un linciaggio mediatico-giudiziario preorchestrato, a giudicare dall’ammissione dello stesso giudice Amedeo Franco.
«Il linciaggio ha origine da Charles Lynch che era il giudice della Virginia che nel 1782 presiedette una corte irregolare incaricata di punire un gruppo di soldati lealisti (alla Corona britannica, ndr) durante la guerra di indipendenza americana. Il giudice Lynch decise di rimettersi al volere dei presenti in aula, e quelli uccisero seduta stante gli imputati. Se ci si rimette agli umori della piazza, si rischia di fare come Ponzio Pilato quando chiese un parere al popolo. Chi urla Barabba, Barabba a gran voce, vince. L’opinione pubblica viene influenzata, si carica e a sua volta finisce per influenzare la giurisdizione».
Il populismo giudiziario.
«Preferisco parlare dell’intelligenza della folla, con le parole di un altro grande giurista, Scipio Sighele, scritte nel 1903: «L’opinione pubblica è nel mondo quello che Dio è in Cielo. Un giudice invisibile, impersonale e temuto; è come la religione, una potenza arcana nel nome della quale si sono compiuti i più sublimi eroismi e le più abbiette iniquità; è, come la legge, invocata e interpretata a torto o a ragione in ogni momento della vita; è come la forza, sostenitrice a volte del diritto, più spesso dell’errore; è, infine, come una bandiera, disposta a volgersi sempre dalla parte donde spira il vento»».
Ad arginare questa potenza arcana, calibrandola e dando priorità allo stato di diritto, dovrebbero esserci dei magistrati capaci di giudizio, più che di pregiudizio.
«Il giudice convince se stesso, in primis, della bontà della sua decisione. Ma sappiamo bene che certi convincimenti sono “contenitori di emozioni”. Comunque nessuno può essere estraneo al condizionamento subliminale, non per un atteggiamento perverso ma perché siamo tutti uomini e tutti possiamo sbagliare. Il lavoro di magistrati quali Paola Di Nicola, Ferdinando Imposimato e Luigi Lanza è stato encombiale su questi temi».
La mancanza di empatia verso il condannato fa parte dei prerequisiti caratteriali?
«Assolutamente sì. Come il medico legale: chi seziona il cadavere in sede di autopsia, non può e non deve avere partecipazione emotiva con la vicenda umana che ha condotto quel corpo in quella sede. Così deve fare il magistrato. Non sto dando loro le attenuanti generiche, ma il distacco emozionale è una delle caratteristiche del giudice. Ed è variabile da caso a caso».
Distacco fino a un certo punto. “Berlusconi è una chiavica”, avrebbe detto secondo alcuni testimoni Antonio Esposito.
«Stiamo parlando di uomini: alcuni hanno un distacco assoluto, altri si lasciano andare ad espressioni cruente».
Su Berlusconi c’è stata una campagna che ha coinvolto magistrati e giornalisti?
«Guardi, io ho 350 allievi universitari nel corso di investigazione criminalità e sicurezza. Quando avete pubblicato l’audio di Amedeo Franco è capitato di parlarne con i miei studenti. Mi hanno risposto, in un sentire comune, “tutti sanno che c’era un disegno. Lo avevamo capito da subito che sui suoi processi c’erano condizionamenti”».
Esiste una ansia di vendetta che sfocia nella visione ideologica e di parte?
«Proposi nell’ambito delle mie lezioni alla Scuola superiore della magistratura il tema dei test psicoattitudinali. Si fanno per chi pilota un aereo, perché ha in mano tante vite umane, perché non si dovrebbero fare per chi decide in tribunale? Lo fanno in Argentina con un buon esito. I giovani magistrati presenti – tutti da stimare, per la loro volontà di tenersi aggiornati – ventilarono la loro risposta: non potrà passare mai, perché va subito sotto il dibattito politico. Si possono però fare i test anonimi. Luigi Lanza li somministrò a un centinaio di magistrati».
Esiste una presunzione di onnipotenza del magistrato?
«Leggo soltanto quel che è stato scritto nel libro Psicopatologia della Carriera Universitaria, nell’indice delle voci trattate: la sindrome involutiva, dissociativa, narcisistica. Il delirio scientifico, burocratico, bellico. Nessuno ha mai costruito una tipologia personologica del magistrato».
Ci vuole pensare lei?
«Perché no. Ci posso pensare, con l’aiuto di qualche magistrato».
Nasce la scuola per futuri magistrati, si insegni la deontologia. Marco Demarco su Il Riformista il 9 Luglio 2020. Mezzo secolo fa, Salvatore Satta – una colonna del nostro Novecento – immaginò che uno studente gli chiedesse cosa fare per diventare giurista. «Gli direi – scrisse – che occorrono la cultura e l’esperienza». Poi, però, entrò più nello specifico e gli consigliò, prima, la lettura della Divina commedia («Se non si è letto Dante, se non si è ricreato il proprio spirito in Dante, non si può chiamarsi giuristi») e poi la lettera che Gargantua scrisse al figlio Pantagruele quando questi si avviò agli studi. Eccone un frammento. «Figlio mio, io intendo e voglio che tu apprenda le lingue perfettamente: in primo luogo il greco, come prescrive Quintiliano; in secondo luogo il latino; e poi l’ebraico per le sacre scritture, e il caldaico anche e l’arabico». A parte Dante, una tale pretesa oggi suonerebbe alquanto eccessiva. O no? Ma c’è una ragione perché tutto questo mi è venuto in mente. Proprio oggi, infatti, alle 15 in diretta streaming, l’università Suor Orsola Benincasa annuncerà la nascita della prima “scuola per la magistratura”: del primo percorso di studi universitari finalizzato alla preparazione dei futuri magistrati. Con i tempi che corrono, è sicuramente una buona notizia. E lo è doppiamente aver scelto come sede Napoli, città di grandi giuristi. Ma quel che più conta è il momento scelto per l’iniziativa, che fa della scuola quasi una misura di pronto intervento. Lo scandalo Palamara, le dimissioni dal Csm, l’imbarazzo dell’Anm, le polemiche sulle chat dei magistrati pubblicate sui giornali, il caso Berlusconi: cos’altro deve ancora succedere? Mai la magistratura italiana è stata così fortemente delegittimata da una serie tanto impressionante di fatti. Ed ecco perché una scuola arriva a proposito. Le ragioni della débâcle giudiziaria sono note, dalle riforme mancate, ai privilegi togati mai sacrificati in nome dell’interesse pubblico. Ma è inutile, ora, insistere su questo tasto o, viceversa, sul patriottismo eroico di tanti magistrati che hanno difeso la democrazia italiana. Più opportuno, piuttosto, potrebbe essere immaginare anche noi cosa insegnare ai magistrati di domani. E gira e rigira, forse anche oggi non restano che due cose: l’uso delle parole e il dominio dei comportamenti. I fatti recenti ci dicono che i magistrati devono anche imparare a comunicare e a stare in società. E poiché le cose e le parole si tengono, ciò spiega perché a molti magistrati capiti di comportarsi male e di esprimersi peggio. Si sono scritte intere biblioteche sul giuridichese, su questa lingua ostentata come sacrale, ma in realtà banalmente gergale, infarcita di pseudotecnicismi, di arcaismi, di sociologismi, di narcisismi, di luoghi comuni e di locuzioni dall’apparenza specialistica ma nella sostanza inessenziali. Il punto però è che tutto questo parlar male spesso non esprime altro che il mero compiacimento per il potere esercitato. Un potere che dovrebbe essere libero da condizionamenti e che invece non lo è affatto, specialmente quando si avvina troppo alla politica rappresentativa, addirittura fino a mutuarne le liturgie e le peggiori finalità. Ma c’è un problema. Per una scuola, insegnare a usare le parole giuste non è difficile: basta, ad esempio, impegnare uno scrittore ex magistrato come Carofiglio (devo a lui, tra l’altro, il riferimento a Salvatore Satta). Più difficile, invece, è educare alla sobrietà dei comportamenti. Un corso specifico di deontologia professionale? Magari, perché no. Nel frattempo, però, può valere come spinta motivazionale proprio il finale della lettera di Gargantua, sempre quella. Caro futuro magistrato, «guardati dalle lusinghe del mondo; non perdere il tuo cuore in cose vane… Servi il tuo prossimo e amalo come te stesso. Onora i tuoi precettori. Fuggi la compagnia di quelli ai quali non vorresti somigliare, e fa’ che non siano vane le grazie che Dio ti ha elargito…». Credo possa andar bene anche per i non credenti.
Sono 13 i magistrati sotto inchiesta nella città di Pirandello: esiste un "sistema Agrigento"? Salvatore Petrotto il 16 giugno 2020 su italyflash.it. Che Agrigento è l’ultima provincia d’Italia lo si capisce anche per la scarsa rilevanza che in genere si dà a certe notizie. Il fatto che la Procura ed il Tribunale della Città dei Templi si ritrovano con 13 magistrati (per ora solo 13) sotto inchiesta a Caltanissetta, per anni ed anni, anzi decenni, di presunti abusi ed insabbiamenti di importantissime inchieste, non fa notizia! E neanche fa notizia che, probabilmente quegli stessi magistrati, adesso sotto inchiesta, per i quali il Giudice David Salvucci ha respinto una richiesta di archiviazione nei loro confronti, avanzata della Procura nissena, hanno avviato delle vere e proprie campagne persecutorie assai terribili ed inimmaginabili, nei confronti di chi magari denunciava illeciti e truffe miliardarie. Il metodo per insabbiare tutto, a quanto pare, è sempre lo stesso. Prima si perseguitano i poveri disgraziati che osano denunciare dei reati miliardari, reati commessi dai potenti di turno, assicurando loro un trattamento, si fa per dire, di "favore". In questi casi la prassi giudiziaria è la seguente: basta assicurare una corsia preferenziale alle querele ed alle denunce per calunnia che, sempre i potenti di turno, o in alternativa gli stessi magistrati in questione, presentano contro i poveri malcapitati che credono ancora nella Giustizia con la G maiuscola, e l’infame gioco è fatto! Sembra di rivivere sempre la solita trama, quella dell’ultimo romanzo giallo scritto nel 1989 da Leonardo Sciascia dal titolo: "Una storia semplice", da cui due anni dopo è stato tratto l’omonimo film per la regia di Emidio Greco e l’impareggiabile interpretazione del prof. Franzò che nel romanzo, ed ancor più nella trasposizione cinematografica, di fatto è diventato un tutt’uno con Sciascia. Incommensurabile è stata, come sempre del resto, la capacità del compianto Gian Maria Volonté di calarsi nel personaggio, grazie alle sue innate doti ed alla sua inimitabile carica emotiva. In quel libro, pressappoco, venivano narrate delle vicende analoghe a tante storie di straordinaria ingiustizia che oggi, più di ieri, ci vogliono abituare a digerire senza bisbigliare. Altrimenti sono guai seri. Nel nostro caso non si tratta di morire una volta sola, magari di lupara, ma di morire ogni giorno di malagiustizia. Sciascia ci racconta la storia di un inconsapevole testimone che stava semplicemente facendo il suo dovere, ‘l’uomo della Volvo’. Ci vuol poco ed il braccio armato della "legge", praticamente un’associazione a delinquere di cui facevano parte i vertici degli uffici giudiziari e delle forze dell’ordine, da testimone subito lo fanno diventare ‘il colpevole’. Si inscenava così la solita parodia di un crimine inesistente, per occultare i veri crimini, ed ovviamente i veri criminali che, nella fattispecie, avrebbero dovuto essere, ma non lo erano, degli uomini di legge; semplicemente perché erano dei fuorilegge! E dire che non stiamo mica parlando di uno degli ultimi casi del genere, svelato dalla squadra mobile e dagli uffici giudiziari nisseni. Non stiamo parlando del cosiddetto "sistema Montante", di cui mi sono occupato lo scorso anno in un mio libro. Quando si dice che Leonardo Sciascia era profetico, non dobbiamo limitarci alle semplici enunciazioni di principio, ma dobbiamo rileggere, a questo punto, tutte quante le sue opere, per capire possibilmente cosa è successo ieri a Caltanissetta con Antonello Montante, il falso paladino dell’antimafia, protetto da stuoli di magistrati e di alti esponenti delle forze dell’ordine e che, a maggio dello scorso anno, è stato condannato a 14 anni di reclusione. O cosa è successo od ancora sta succedendo oggi ad Agrigento. In questo caso non osiamo e non intendiamo parlare di un "sistema Agrigento". Anche perché, non spetta a noi dimostrare che qualcosa di simile a Caltanissetta è accaduto anche nella Città dei Templi. Se volete farvi un’idea in proposito basta leggere tutte quante le denunce degli ultimi decenni, "regolarmente" insabbiate.
Che ne dite allora di studiare un altro giallo sciasciano risalente al 1971? Altro libro, altra profondissima profezia! Ci riferiamo a: "Il contesto". A questo giallo, in cui le imposture politiche si sposavano perfettamente con quelle giudiziarie, producendo solo corruzione e morte, si è ispirato Francesco Rosi, dando vita ad un altro sconvolgente film, dal titolo "Cadaveri eccellenti". Alcune importanti scene sono state girate, guarda caso, ad Agrigento ed a Siculiana, il paese dove continua a consumarsi l’affare più maleodorante dell’Agrigentino, quello dei rifiuti. E’ come se 50 anni fa Sciascia avesse capito quello che doveva succedere ad Agrigento. Anche se , pensandoci bene, nella terra di Pirandello, le cose sono andate sempre così! Ma ciò che è più importante è che, il mio più illustre concittadino, aveva capito il putiferio che avrebbero continuato a scatenare i magistrati immortalati nel suo romanzo, nonché gli odierni Palamara, Pignatone & company. Aveva già scritto il copione ed aveva messo a fuoco le trame e gli intrecci oscuri della cosiddetta giustizia italiana; quella per intenderci che, tre anni dopo la sua morte ha continuato a fagocitare le vite di altri due giudici, Falcone e Borsellino, con i quali Sciascia ha avuto la fortuna, mentre era ancora vivo, di chiarire il famoso equivoco sui "professionisti dell’antimafia". Sciascia aveva capito già 50 anni fa, cosa sarebbero stati capaci di combinare tutti quanti i magistrati che siedono dentro il Consiglio Superiore della Magistratura. E cosa erano e sono ancora capaci di fare in giro per l’Italia! Quindi, quando assistiamo a delle vere e proprie lotte tra "bande" di giudici, assetati di potere, parlare di un "sistema Agrigento", così come è capitato di parlare, qualche anno fa, di un "sistema Siracusa", o di un "sistema Taranto", di un "sistema Potenza" e via discorrendo, ci sembra del tutto riduttivo. E’ un sistema e basta! E’ la solita parodia della giustizia all’italiana, della giustizia degli uomini se preferite. O, per meglio dire, è la storia sbagliata di una profonda ingiustizia che ci assicurano, quotidianamente, certe donne e certi uomini: forti con i deboli e deboli con i forti. Di sicuro c’è solo che siamo ormai un esercito le persone innocenti, inghiottiti da questo terribile ingranaggio del sistema giustizia o, per meglio dire, da questa giustizia ingiusta. Anzi osiamo sottolineare che un intero popolo, il popolo italiano, in nome e per conto del quale molti magistrati, indegnamente, emettono delle sentenze tremendamente inique, non riesce più a fidarsi della Giustizia italiana.
CAOS GIUSTIZIA. “Chi ha autorizzato i pm a sentirsi padroni del mondo?”. Federico Ferraù intervista Frank Cimini su ilsussidiario.net il 25.06.2020. “Palamara non c’entra, questo è il caso magistratura” dice Frank Cimini. Certo la corruzione va combattuta, “ma non con la logica che i magistrati salvano il mondo”. “Palamara non c’entra, questo è il caso magistratura” dice Frank Cimini, una vita nella cronaca giudiziaria, a cominciare da quel che succede nel palazzo di giustizia di Milano che frequenta dal 1977. Non solo Palamara; Davigo, il Csm, Mattarella, Sala, le tangenti della metro di Milano, la magistratura associata (“quella che fa politica tutto il giorno”), Cimini ne ha per tutti. Ed è pessimista. Certo la corruzione va combattuta, “ma non con la logica che i magistrati salvano il mondo”.
Cosa pensi di come si sta mettendo il caso Palamara?
«Palamara non c’entra, questo è il caso magistratura».
Ma lui è il bubbone, no?
«Lo fanno sembrare il bubbone. È la strategia della mela marcia: corrotto lui, buoni noi. Falso. È marcio tutto. Sarebbero 84 i magistrati piazzati in posti di rilievo da Palamara. Vuol dire che ha avuto almeno 84 complici, o no? Questo non è Palamara, è il sistema».
Solo che adesso, grazie a Palamara, è venuto alla luce.
«È successo perché c’era il trojan nel suo cellulare. Chi di spada ferisce, di spada perisce. Però si intercetta troppo. La sentenza Cavallo della Corte di Cassazione del gennaio scorso è chiara: non si possono usare le intercettazioni in un’inchiesta su un reato diverso dal quello per cui sono state autorizzate».
E invece?
«Guarda i dati di Napoli: la Procura ha speso 12 milioni in un anno per tenere sotto controllo poco più di 2mila utenze. Bisognerebbe ripensare tutto. Non è solo un problema di rivedere il sistema di elezione del Csm, quello è un fatto tecnico. C’è prima un problema di cultura, di mentalità».
D’accordo, il Csm verrà per ultimo, però il nodo va affrontato.
«Si potrebbero sorteggiare i candidati da eleggere, o viceversa. Un sorteggio dovrebbe esserci, per non lasciare tutto agli accordi sottobanco, ma il solo sorteggio non va bene perché andrebbe incontro al pregiudizio di incostituzionalità».
Sorteggio anche per i capi degli uffici giudiziari?
«Anche per loro. E comunque non si risolve così il problema. Tutti in qualche modo minimizzano, anche Mattarella, che parla di distorsione, di degenerazione».
Eppure la “modestia etica” di certi personaggi è fuori discussione.
«Il problema vero è che la magistratura ha acquisito troppo potere. Alla fine degli anni 70, con il terrorismo e la legislazione di emergenza la politica ha delegato i suoi compiti al codice penale. Non è che non devi processare chi ha rapito e ucciso Moro, ma devi comunque fare la tua parte».
Cosa significa?
«Vuol dire che servivano anche iniziative di tipo politico. Invece da allora la sovversione politica è stata trattata solo come un problema penale. Si sono approvate delle leggi che venivano chieste dai capi degli uffici giudiziari. La legge antiterrorismo di Cossiga è del 1980, quella sui pentiti del 1982».
Allora che tutto comincia molto prima di Tangentopoli.
«Certo. È in quegli anni che la magistratura ha acquisito un potere enorme, e quando nel ’92 la politica si è indebolita, la magistratura le ha puntato il coltello alla gola e le ha detto: adesso comandiamo noi. E non se ne esce».
E adesso?
«Adesso, con il trojan nel cellulare di Palamara, viene fuori che i magistrati quando emettono le misure cautelari si piccano anche di dare lezioni di morale. Ma non sono meglio dei politici, sono peggio».
Perché?
«Perché i politici, bene o male, sono stati eletti. I magistrati hanno soltanto vinto un concorso. Che autorità hanno per sentirsi i padroni del mondo?»
Palamara cosa dirà?
«Palamara non parla. La sua forza è quella di dire: “adesso parlo” e poi tacere».
Qual è il messaggio?
«Il messaggio è: ho sbagliato, ma non ho sbagliato da solo. Perché mi cacciate se siete come me o peggio di me? E infatti quando lo accusano di corruzione, lui cosa fa? Cominciato a lanciare messaggi».
La contropartita per tacere?
«Gli hanno risparmiato le manette per paura che parlasse. L’esatto opposto di quello che succederebbe a me e a te. E adesso la sua forza è che potrebbe parlare ma non parla».
Che cosa vuole?
«Sta trattando per rientrare. Dice all’Anm: non ho fatto niente di diverso da quello che avete fatto voi».
Ma che cosa avrebbe da dire?
«Non lo sappiamo, anche se avremmo il diritto di saperlo. Quando Cafiero de Raho gli dice che “dobbiamo lottare insieme” o quando Francesco Greco gli dice “ci vediamo al solito posto”, in un’inchiesta normale, se tu e io diciamo queste cose e ci stanno intercettando, il pm vuole sapere qual è “il solito posto” e di quale battaglia stiamo parlando, o no?»
Come andrà a finire questa storia?
«Alla fine non succederà niente. Stanno gattopardando. Poniz crede di cavarsela dicendo che il corpo della magistratura è sano, ma chi ha mai messo in dubbio che una buona parte di magistrati facciano il loro lavoro in silenzio? Il problema è che la magistratura è rappresentata da questi qui, ed esercita potere sulla politica grazie a questi qui, a quelli come Palamara più gli altri 84. In realtà sono molti di più».
Ne abbiamo citati diversi. Palamara, de Raho, Greco, Poniz… E Ferri?
«Ferri è l’unicum per eccellenza. Metà magistrato e metà politico, non si capisce bene se fa il magistrato o fa il politico…»
C’è una via di uscita, una soluzione?
«Al momento non la vedo. Il sistema appare irriformabile. Anche il consigliere giuridico di Mattarella, Erbani, è finito nelle captazioni».
Perché, con la magistratura così debole, la politica non fa una riforma?
«Perché è troppo debole anch’essa. E poi continua nelle ruberie. I politici sono ricattabili. Nemmeno quelli di Forza Italia pongono più il problema della magistratura. Temono che partano subito le inchieste.
Cosa pensi della vicenda dell’emendamento presentato da FdI e Pd per prolungare la carriera dei magistrati a 72 anni?
«Non penso nulla. Però c’è da dire che Davigo ha 70 anni, e se va in pensione a 70 anni, come dice la legge attuale, gli subentra al Csm uno che non è della sua corrente».
Gian Carlo Caselli si è lamentato del poco spazio che i giornali hanno dedicato alle tangenti sugli appalti per la metro di Milano. Avrebbe meritato almeno lo spazio concesso all’arresto di Emilio Fede, perché è un fatto grave che ricorda Tangentopoli.
«Questa storia della metropolitana non c’entra niente con Tangentopoli, allora erano soldi per i partiti, qui sono soldi presi per avidità personale da funzionari che parlano al telefono facendosi degli autogol clamorosi».
Però è sempre corruzione.
«La corruzione c’è sempre stata, anche prima del ’92, quando le procure, quella di Milano in testa, facevano finta di non vederla perché non avevano forza politica».
Non va sempre perseguita?
«Certo, ma non con la logica che i magistrati salvano il mondo. Nessuna inchiesta o processo sconfiggeranno per sempre la corruzione».
“La giustizia farà il suo corso ma per me è già una condanna” ha detto Beppe Sala.
«Che cosa dicevo della politica? La metropolitana è una società partecipata del Comune, se non ci sono gli anticorpi nella pubblica amministrazione, la responsabilità politica è anche di Sala».
Cosa dici della guerra di carte bollate per la poltrona di capo della procura di Roma?
«Vuoi sapere come finisce? Che il Csm se ne frega del ricorso al Tar di Viola e Creazzo contro Prestipino. La magistratura associata, quella che fa politica ogni minuto del suo tempo, voleva la continuità con Pignatone. Il tempo di fare due giochetti e come al solito ha vinto».
C’è un’alternativa?
«È dal ’77 che sto in tribunale a Milano e fino ad oggi il capo della Procura è sempre stato un interno. Per dare una ventata di aria fresca sarebbe auspicabile che venisse uno da fuori. Invece no. Dopo Gresti è toccato a Borrelli, D’Ambrosio, Minale, Bruti Liberati, Greco».
Non abbiamo parlate dei media. Spesso a braccetto con le procure.
«Minale, il presidente della Corte d’assise che condannò Sofri in primo grado, si vide accolta la domanda per andare in procura come pm mentre faceva il processo. S’è vista mai una cosa del genere? Giudicava il lavoro dell’ufficio che sarebbe andato a dirigere come aggiunto».
E poi?
«A seguire il processo Sofri c’era Rossana Rossanda, che rimase allibita e sul Manifesto difese la separazione delle carriere. Finito il processo Sofri, riprese a scrivere quello che il Manifesto ha sempre scritto, e cioè che la separazione delle carriere era nel programma piduista di Licio Gelli. Ecco, il paese è ancora questo. (Federico Ferraù)
Il partito dei Pm ha ucciso lo Stato di diritto, altro che quella piccola loggia di Licio Gelli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Un mio amico giornalista l’altro giorno mi ha detto che magistratopoli è un po’ più del circolo Aniene e un po’ meno della P2. Io penso che sia il contrario: un po’ meno del circolo Aniene e un po’ più della P2. Il circolo Aniene è un luogo conosciuto dai romani. Un circolo sportivo tra il quartiere Flaminio e Parioli frequentato solo da vip molto vip. Che si scambiano favori e favorini, biglietti delle partite, inviti alle feste, qualche pizzino, qualche raccomandazione importante. La P2 invece è un luogo conosciuto da chi ha più di 50 anni: è il luogo dove l’immaginario politico collettivo ha collocato la sede di ogni male, ogni delitto e ogni prevaricazione politica del Novecento. Era una loggia massonica presieduta da un certo Licio Gelli, faccendiere ed ex 007 a servizio di varie bandiere, che viaggiava tra progetti di grandi riforme dello Stato e affari che lo portarono, essenzialmente, a mettere le mani sul Corriere della Sera. Per stroncare la P2, i partiti della prima Repubblica si unirono, istituirono una commissione parlamentare di inchiesta che lavorò alacremente per anni e pronunciò molte condanne incontrovertibili, anche se trovò, poi, alla fine, pochi delitti. Chissà se ora oseranno istituire una commissione di inchiesta sulla magistratura. Magistratopoli secondo me è una organizzazione molto più potente della P2. Anche perché la sua organizzazione è segreta ma la sua azione è alla luce del sole ed è una azione devastante. Magistratopoli è una organizzazione segreta che condiziona e indirizza una parte molto grande della giurisdizione. È in grado di avviare processi, di fare arrestare delle persone, di processare, di condannare o assolvere a seconda delle convenienze, o delle simpatie, o delle necessità di carriera dei magistrati coinvolti. Tutti noi siamo potenziali vittime di magistratopoli, non solo i politici, non solo Berlusconi. Il Palamara-Gate ci ha mostrato che questa organizzazione segreta, che in passato – e prima che scoppiasse lo scandalo di magistratopoli – noi chiamavamo il partito dei Pm, era in grado (lo è ancora) di governare tutto il sistema della giustizia. In parte lo faceva seguendo logiche del tutto interne alla corporazione, che per noi restano oscure (chi doveva salire in carriera, chi doveva scendere, chi voleva cambiare sede, chi aveva rotto gli equilibri e andava punito…), in parte invece seguiva logiche politiche. Quali erano (anzi: sono, perché il partito dei Pm è ancora vivente e molto forte) queste logiche? Essenzialmente si trattava di ottenere dal Parlamento e dal governo la certezza che nessuno osasse mettere in discussione la Casta dei magistrati e le sue prebende, e i suoi privilegi e – soprattutto – il suo potere. Questa battaglia continua, affidata non solo ai 5 Stelle. Per ottenere questo risultato si seguiva (si segue) un percorso ideologico: il davighismo, che va anche sotto il nome di travaglismo. Consiste nel considerare sostanzialmente tutti coloro che non fanno parte della casta, o della sua servitù, come colpevoli. Da colpire o risparmiare a seconda di come si comportano, e se si piegano, e se ossequiano o invece sbeffeggiano. Si chiama giustizialismo. Il giustizialismo, attraverso il partito dei Pm e la nuova P2, è diventato una vera e propria ideologia, come in passato lo sono state il comunismo, il fascismo, il liberalismo. E il sangue e la carne di questa ideologia è la lotta al garantismo. Cioè all’idea che difende lo Stato di Diritto. Il partito dei Pm, diciamo pure la nuova P2, vede lo Stato di Diritto come il nemico giurato. Satana. Perché lo Stato di diritto esclude la prevalenza di un potere sull’altro, esclude la sottomissione della società a una casta eletta, esclude la subordinazione della legalità all’etica. Questo partito, questa grande e fortissima loggia, a differenza della piccola loggia di Licio Gelli, ha vinto. Ha messo in ginocchio la democrazia e il sistema liberale. Ha guidato molti rovesciamenti di maggioranza, a livello centrale o regionale o dei grandi comuni, indifferentemente favorendo la destra o la sinistra. Per questo dico che è molto più potente e non più modesta della P2. E sapete perché ha vinto? Perché ha ottenuto il pieno appoggio di quasi tutto lo schieramento politico, e in particolare l’appoggio incondizionato della sinistra. La sinistra ha tradito la sua vocazione democratica e si è messa a disposizione del partito dei Pm, convinta di potere in questo modo sconfiggere la destra, e in particolare Berlusconi. Il risultato? Quello di sempre: quando ti schieri con gli autoritari e i giustizialisti spingi sempre il paese a destra. L’azione dei magistrati, appoggiati dalla sinistra, ha raso al suolo la destra liberale e ha dato le chiavi dello schieramento conservatore in mano a Matteo Salvini e alla Meloni. È una legge della storia: il giustizialismo, la lotta ai diritti e alla libertà, spinge solo verso la destra reazionaria. Infatti sull’affare Berlusconi, cioè sulla sentenza pilotata contro di lui della quale si parla in questi giorni, abbiamo provato a intervistare vari esponenti della sinistra storica. Hanno tutti declinato. Tranne quel vecchio leone, quel combattente che non lo abbatti mai, 96 anni, ottanta dei quali passati nelle trincee della politica, che risponde al nome di Emanuele Macaluso. Se in Italia ci fossero stati, non dico tanto, una decina di giganti come Macaluso…
Cassazione, la sinistra prende tutto: Curzio presidente, la rabbia di Tirelli. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Luglio 2020. Le previsioni della vigilia sono state confermate: la sinistra giudiziaria ha fatto “cappotto” in Cassazione. Come anticipato dal Riformista, Pietro Curzio è il nuovo numero 1 di piazza Cavour. Dopo la nomina avvenuta lo scorso novembre del procuratore generale Giovanni Salvi, esponente di Magistratura democratica, ieri è stato il turno dell’attuale presidente della Sesta sezione civile della Cassazione, anch’egli legato alla corrente di sinistra delle toghe. Il suo nome è stato proposto all’unanimità dalla Quinta commissione del Csm. Per l’ufficialità bisognerà ora attendere mercoledì prossimo quando al Quirinale si terrà una seduta del Plenum del Csm presieduta dal presidente della Repubblica. Il passaggio di consegne in Cassazione con Giovanni Mammone, che ha raggiunto l’età pensionabile, è invece previsto il venerdì successivo. Grande amarezza, dunque, per Francesco Tirelli, presidente della prima sezione civile e attuale segretario generale della Cassazione. Sulla carta era lui ad aver più titoli, con l’attitudine specifica alle funzioni direttive rappresentata proprio dall’incarico di segretario generale, il responsabile dell’organizzazione delle sezioni civile e penali e stretto collaboratore del primo presidente. Fonti della Cassazione hanno riferito che già da giorni avrebbe fatto sapere che, in caso di bocciatura, avrebbe lasciato questo incarico. Ieri, comunque, non risultava ancora nulla di ufficiale. Forse perché in attesa dell’insediamento del nuovo presidente. Tirelli, come ricordato, è simpatizzante di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe. Per il segretario generale della Cassazione quella di ieri è la seconda doccia fredda dopo quella dello scorso maggio quando era stato bocciato per l’incarico di presidente del Tribunale Superiore delle acque pubbliche. Il Csm gli aveva preferito Giuseppe Napoletano. La Cassazione, comunque, si conferma ancora una volta off limits per le donne. Come la presidenza della Repubblica. Per Margherita Cassano, presidente della Corte d’appello, unica donna in lizza, il “contentino” di presidente aggiunto. L’anagrafe – è più giovane di Curzio – e un eventuale cambio di maggioranza al Csm nel 2022, potrebbe giocare a suo favore per diventare la prima donna al vertice Cassazione. Cassano, da sempre molto attiva in Magistratura indipendente, è una delle magistrate più stimate in Italia. Classe 1953, barese, esperto di diritto di lavoro, Curzio è stato recentemente autore di un saggio sul Job acts. Ed è lui che ha firmato il provvedimento con cui è stato rigettato il ricorso dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara contro la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio disposta l’anno scorso dal Csm. A tal proposito, questa settimana sono stati eletti anche i quattro componenti supplenti della Sezione disciplinare. Si tratta del laico in quota Lega Emanuele Basile e dei tre togati (giudici con funzioni di merito) Elisabetta Chinaglia, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe. La prima è esponente delle toghe progressiste. I due sono invece davighiani di Autonomia&indipendenza. Il “potenziamento” della Sezione disciplinare avviene a ridosso dell’udienza fissata per il 21 luglio a carico di Luca Palamara. Per aumentare i giudici è stata necessaria una modifica del regolamento. Scelta dettata dal timore che i vari componenti possano essere ricusati dall’ex presidente dell’Anm per essere finiti in qualche chat. II laico di Forza Italia Alessio Lanzi ha espresso “serie perplessità” sulla modifica regolamentare, perché «la modifica si pone in tensione con l’articolo 25 della Costituzione sulla precostituzione del giudice per legge (…) creando di fatto dei giudici nuovi che andranno a valutare fatti precedenti alla loro nomina». Per Lanzi sarebbe stato preferibile che una riforma che incide così pesantemente sulla composizione della sezione disciplinare fosse decisa dal Parlamento o dal Governo. Altri hanno fatto rilevare come l’elezione dei supplenti debba avvenire contemporaneamente all’elezione del vice presidente del Csm. Il tempo era scaduto da tempo, insomma, ma il terrore di non poter giudicare Palamara deve aver avuto il sopravvento a Palazzo dei Marescialli.
Il Palazzaccio dei passi perduti (degli avvocati). Renato Luparini il 15 gennaio 2020 su Il Dubbio. Nei meandri della sede della Cassazione. Girando per I corridoi si notano cartelli perentori affissi alle porte che avvisano I viandanti di non valicare le soglie delle aule, diventate oramai laboratori destinati solo ai magistrati. A Roma si dissacra tutto. La sede della Suprema Corte di Cassazione è per tutti “Il palazzaccio”, anche se la sua architettura a confronto con certe realizzazioni contemporanee non merita tanto disprezzo. Per anni è stato il tempio laico del diritto. Così lo volle il ministro Zanardelli che ne prescrisse la costruzione e che lo volle in palese antitesi alla prigione papalina di Castel Sant’Angelo e al Cupolone di San Pietro, che gli sono vicinissimi, ma che da Piazza Cavour volutamente non si vedono. Ogni avvocato che dalle provincie più remote saliva le sue scale, magari dopo aver noleggiato una toga all’ingresso, si sentiva onorato e tornava a casa lusingato anche solo per le poche parole che gli toccava di dire davanti al supremo consesso. I più diligenti di viaggi a Roma ne facevano un paio, uno per la discussione e uno per leggere le requisitorie scritte della Procura Generale e controllare il fascicolo, perdendosi nei meandri affascinanti del Palazzo, tra statue di giuristi e corridoi infiniti. Da qualche tempo, l’incanto è finito. Il tempio è diventato una fabbrica, dove si producono massime e decisioni in quantità industriale. La presenza dell’uomo-avvocato è ormai superflua. Non si fanno più sentenze, che anche dall’etimo richiamano l’ascolto e il sentimento, ma si emanano secche ordinanze. Non si ascolta quasi più la voce degli avvocati. Nella cause civili la loro presenza è rarefatta e in quelle penali ridotta al minimo, spesso al simulacro del “riportarsi ai motivi”, fatto da un legale di passaggio. Girando per i corridoi si notano cartelli perentori affissi alle porte che avvisano i viandanti di non valicare le soglie delle aule, diventate oramai laboratori destinati ai soli e veri scienziati del diritto, i magistrati, che decidono “in camere di consiglio non partecipate”, come si dice in gergo, senza la fastidiosa presenza dei logorroici postulanti. Perfino l’accesso alla cancellerie è limitato ; gli avvocati ora si arrestano alla soglia dell’ufficio relazioni con il pubblico, come se anziché protagonisti del giudizio in cassazione fossero solo spettatori. Da ultimo, ma non in ordine di importanza, si è ascoltata la voce del Presidente Davigo, che si è fatto latore di un pensiero già diffuso tra i giudici: agli avvocati ridotti a spettatori far pagare di tasca loro il biglietto ogni volta che osano turbare i lavori del laboratorio giuridico con i loro vani ricorsi. Del resto il Primo Presidente Canzio pochi anni fa scrisse e parlò di una “Corte assediata”, dove la parte dei barbari invasori era destinata ai difensori, che con le loro inutili doglianze rendevano dura la vita nella cittadella del giure. Eppure chi è avvocato cassazionista, per poter patrocinare e soggiornare al Palazzaccio anche solo per qualche minuto paga già regolare quota annuale, una sorta di simbolico canone e risulta iscritto nel registro speciali dei patrocinanti in Cassazione, un tempo vanto e lustro delle toghe con i cordoni dorati. Insomma, da sacerdoti laici di un tempio ( la definizione, bellissima è contenuta nel testamento spirituale di Gabriele Cagliari, una delle prime vittime di Tangentopoli), gli avvocati in Cassazione sono ridotti a occupanti senza titolo, morosi e senza nemmeno un Monsignore a sostegno. Questa potrebbe sembrare una bagatella senza importanza e le mie lamentele marginali, se in Cassazione non si decidesse dei diritti e delle libertà di tutti i cittadini e se in gioco non ci fosse una questioncella che si chiama Stato di diritto. L’abolizione della prescrizione, per chi non lo sapesse, esisteva già: era contenuta in una circolare del Primo Presidente della Corte di Cassazione che incentivava lo strumento della declaratoria della inammissibilità per manifesta infondatezza. Per i non addetti ai lavori, funziona così: anziché scrivere che un ricorso non va accolto e limitarsi a respingerlo, i giudici di Cassazione scrivono che è palesemente infondato, come se invece di parlare del processo il difensore avesse scritto qualche poesia. In questo modo, si deduce che il ricorso è come se non fosse mai stato presentato e quindi che il tempo passato per esaminarlo non vale ai fini della prescrizione. Sembrano cronache di Bisanzio e invece è quotidiana realtà, con l’aggravante che magari quello stesso ricorso era stata ritenuto talmente fondato da richiedere il suo accoglimento dalla Procura Generale. Con l’amaro risultato che il povero avvocato non solo vede vanificato il proprio lavoro, ma si vede anche beffato dal fatto che il suo scritto ha convinto il massimo organo dell’accusa, ma è stato considerato carta straccia dal Giudice supremo. Ora, secondo Davigo, l’avvocato, che già passa brutti momenti ad annunciare rigetto e magari galera al cliente, va anche multato. Aspetto solo che siano riaccesi i fuochi in Campo dei Fiori, con una sommessa avvertenza: ho scoperto che un mio antenato, certo Fulvio Luparini, fu messo al rogo per sospetta eresia qualche anno prima del più famoso Giordano Bruno. Insomma: abbiamo già dato. Quanto meno, come pare abbia detto San Lorenzo sulla graticola, girateci dall’altro lato; da questo siamo già cotti.
I modi dei magistrati per umiliare gli imputati come un sergente con il soldato semplice. Iuri Maria Prado il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. In questi giorni di rievocazioni mi sono rivisto un po’ di udienze del processo Cusani-Enimont, quello sulla cosiddetta maxi tangente. La cosa più impressionante era il modo in cui il giudice – peraltro una brava persona – si rivolgeva agli imputati e ai testimoni. Così: «Senta, Martelli…»; «Sama, lei che ci dice?», e simili. Come fa un sergente con il soldato semplice. Come fa il padrone con il maggiordomo. A che titolo si permetteva di rivolgersi in tal modo a quelle persone? È presto detto: quelle persone erano “cadute in basso”. E non perché avevano commesso illeciti, così guadagnandosi una riprovazione che toglieva loro il diritto di ricevere riguardo, ma “in basso” perché sottoposte al potere del processo. Ti interrogo, ti giudico, e questo implica una degradazione sufficiente a permettermi di non darti di “signore”. Si noti che i magistrati incassano senza perplessità roba come “Eccellentissima Corte” o “Illustrissimo Signor Presidente”, certamente anche per responsabilità degli avvocati che si lasciano andare a queste disgustose manifestazioni di servilismo indegno: ma proviamo a immaginare quale reazione avrebbero se il cittadino che loro sottopongono a processo esordisse con qualcosa tipo «Senta un po’, Davigo…». Inutile precisare che mentre esistono magistrati rispettosissimi, ai quali neppure verrebbe in mente di rivolgersi all’imputato come fa il prof. con l’alunno delle medie, altri che non si fanno troppi riguardi ritengono evidentemente che si tratti di sciocchezzuole: e non avvertono il pericolo che lo stato di soggezione in cui è posto chi finisce “sotto” processo sia generalmente trattato con noncuranza. E invece bisognerebbe che l’amministrazione della giustizia risentisse come primario l’obbligo di non degradare in nessun modo, e anzi di trattare con il massimo grado di rispetto, il cittadino affidato alle cure giudiziarie. Perché è un “signore” qualunque cosa abbia fatto, e revocargli questo attributo rappresenta una versione solo attenuata di messa in berlina. Non è ancora come lasciare che gli lancino verdura marcia, ma condivide la medesima causa: l’idea che chi giudica sia “superiore”, stia sopra, appunto, e sotto di lui il bandito che ha perso rango civile. La medesima causa e dunque il medesimo effetto: l’imbarbarimento della società che, indifferente o compiaciuta, assiste allo scempio.
Da repubblica.it il 14 gennaio 2020. La Commissione sugli incarichi direttivi del Csm si è spaccata sulla nomina del procuratore di Roma. E ha proposto tre nomi alternativi. In testa il Procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, che ha ottenuto 2 preferenze. Un voto ciascuno invece per il procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo, e per l'attuale reggente della procura di Roma Michele Prestipino. Due consiglieri si sono astenuti. Lo Voi è stato votato dai consiglieri Loredana Micciché, di Magistratura indipendente, e Michele Cerabona, laico di Forza Italia. Insomma, dall'area di centrodestra. A favore di Giuseppe Creazzo si è espresso il consigliere Marco Mancinetti, di Unicost, mentre per Michele Prestipino ha votato il consigliere di Autonomia&Indipendenza Piercamillo Davigo. Astenuti i consiglieri Mario Suriano, di Area, presidente della commissione, e il laico in quota M5S Alberto Maria Benedetti. Dunque i giochi sono ancora tutti aperti visto che dalle scelte di Area e dell'area M5S potrebbe dipendere il verdetto del plenum dell'organo di autogoverno dei magistrati. La pratica per la nomina del successore di Giuseppe Pignatone, già votata il 23 marzo scorso, era stata annullata per effetto della bufera che ha travolto il Csm, nata da quanto emerso dalle intercettazioni dell'inchiesta di Perugia di colloqui tra magistrati ed esponenti politici proprio sulla guida, tra l'altro, della più importante procura italiana. La quinta Commissione del Csm aveva già votato alla fine dello scorso maggio - prima che esplodesse il caso - tre proposte per il vertice della procura di Roma: allora, in pole risultò Marcello Viola, pg di Firenze, seguito da Lo Voi e Creazzo. Dopo le dimissioni di ben 5 togati - tra cui Gian Luigi Morlini, che all'epoca presiedeva la Quinta Commissione - il Csm decise di riprendere daccapo il lavoro con un'istruttoria approfondita e le audizioni dei 13 magistrati candidati. Oggi, quindi, la chiusura dei lavori in Commissione.
Giacomo Amadori per “la Verità” il 15 gennaio 2020. La nomina del procuratore di Roma sta causando all'interno del Csm un vero e proprio stallo alla messicana, dove tutti si tengono sotto tiro a vicenda e nessuno può sparare il primo colpo. Ieri in quinta commissione, quella che decide gli incarichi direttivi e semidirettivi, i sei membri si sono divisi. Una spaccatura che si può comprendere solo riavvolgendo il nastro e ricordando quanto è successo a maggio, quando la Procura di Perugia intercettò il pm Luca Palamara, indagato per corruzione, mentre insieme con i due parlamentari renziani Cosimo Ferri e Luca Lotti e alcuni consiglieri del Csm (poi costretti alle dimissioni) spingeva per la nomina di Marcello Viola e per l' allontanamento da Firenze di Giuseppe Creazzo, considerato troppo ostile alla famiglia Renzi. In effetti il 23 maggio il procuratore generale di Firenze Viola, raggranellò in commissione ben quattro voti (diventando il favorito), Creazzo uno solo, come il procuratore di Palermo Franco Lo Voi, considerato dagli orfani dell' ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone suo erede naturale (e per questo votato in commissione da Area, il cartello delle sinistre, particolarmente impegnato nel dare continuità alla gestione capitolina). La pubblicazione sui giornali, quasi in tempo reale, delle intercettazioni mandò all' aria il piano di Palamara&C. Otto mesi dopo il Csm, però, non è ancora pacificato e il voto in commissione per il procuratore di Roma sta lì a dimostrarlo. In otto mesi non si è trovato un nome di alto profilo e super partes capace di mettere tutti d' accordo. Ieri la consigliera di Magistratura indipendente Loredana Miccichè, anziché votare per il precedente cavallo (Viola) ha scelto Lo Voi, che è iscritto alla sua stessa corrente. Il laico di Forza Italia Michele Cerabona ha fatto la stessa scelta, lasciando supporre che i moderati in occasione del plenum potrebbero convergere sul procuratore di Palermo. Ma l'appoggio di Mi potrebbe trasformarsi nel classico bacio della morte per Lo Voi. Non sarà facile per Area prendere la stessa decisione dei magistrati conservatori, dopo che le due correnti si sono letteralmente scannate in questi mesi. Inoltre gran parte dei consiglieri di Autonomia e indipendenza difficilmente voteranno per Lo Voi, per questioni interne all' antimafia siciliana e anche per alcune allusioni di Palamara alla sua nomina a procuratore di Palermo, passata attraverso una discussa sentenza del Consiglio di Stato. Un altro segnale da tenere in considerazione è il fatto che il progressista Mario Suriano (che a maggio diede il suo suffragio a Lo Voi) e il laico dei 5 stelle Alberto Maria Benedetti si siano astenuti in commissione. Tale scelta potrebbe far pronosticare un accordo sottobanco a favore di Michele Prestipino, attuale reggente della Procura di Roma, votato in commissione dal capo di Ai Piercamillo Davigo. Ma perché i commissari di Area e dei 5 stelle non si sono espressi? Prestipino è certamente la scelta prediletta dagli aggiunti di Roma, ma esporlo troppo prima del plenum non sarebbe ritenuto saggio, visto che il candidato manca di un importante requisito: al contrario dei concorrenti, non ha mai guidato un ufficio giudiziario (Creazzo quelli di Palmi e Firenze, Lo Voi Palermo e Viola Trapani) e la sua nomina potrebbe essere impallinata dai ricorsi al Tar. In questo gioco di veti incrociati non è escluso che la spunti l' outsider Creazzo, il magistrato con il curriculum più completo. Da giorni uno dei laici dei 5 stelle sta facendo campagna per lui tra i consiglieri non togati (otto con il vicepresidente David Ermini) in nome dell'«unità dei laici». Sulla candidatura del procuratore di Firenze potrebbero confluire anche tutti i tre membri di Unicost e quei consiglieri vogliosi di dare un segnale di discontinuità totale rispetto alle trame dei congiurati intercettati a maggio. Ma la nomina di Creazzo rischia di avere un effetto paradossale: quello di allontanarlo da Firenze, l' obiettivo dei renziani. Qualcuno ribatterà che a Roma è in corso il processo Consip contro Luca Lotti, ma l' ex ministro è da tempo uscito dalle grazie del fu Rottamatore. Un altro ostacolo per Creazzo potrebbe essere rappresentato dal sostegno di Marco Mancinetti, membro della quinta commissione in quota Unicost ed ex grande amico di Palamara. Nelle ultime ore è sottoposto a un fuoco di fila di critiche per il presunto aiutino che avrebbe chiesto a Palamara per consentire al figlio di superare i test di medicina a Roma. Caso sollevato da un' intercettazione che abbiamo pubblicato in esclusiva. Il magistrato, dopo essersi rifiutato per giorni di dare spiegazioni ai cronisti e ai colleghi, ieri ha pubblicato sulla chat dell' Associazione nazionale magistrati uno scarno comunicato che differiva le risposte a ipotetiche controversie giudiziarie: «In relazione agli articoli di stampa pubblicati in questi giorni sul quotidiano La Verità comunico di aver dato mandato al mio legale di tutelarmi nelle opportune sedi giudiziarie, non corrispondendo al vero la ricostruzione dei fatti fornita dal predetto organo di stampa». Sulla mailing list dell' Anm il collega Felice Lima lo ha biasimato «per il solito generico mandato al legale [] che usano i politici» e Andrea Reale, gup a Ragusa, lo ha infilzato: «Il solo dubbio che tu, per ragioni familistiche, abbia potuto scomodare un (all' epoca) consigliere del Csm per favorire l' ingresso di un parente in una università a numero chiuso, come ben comprendi, oltre a paventare condotte anche di carattere penalmente rilevante, getta una ombra enorme sulla trasparenza del tuo operato e sulla tua onestà. Soprattutto quando si riveste un posto così importante nella commissione la cui attività è quella che rende più appetibili le forme di condizionamento correntizio o "politico". Credo che tu abbia l' obbligo di smentire con fatti, nomi e date precise [] quanto vi viene attribuito».
Csm, la casa di vetro impermeabile a tutto. Giovanni Altoprati il 14 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il Consiglio superiore della magistratura, “la casa di vetro” delle toghe italiane come disse molti anni fa il costituzionalista Carlo Esposito, è impermeabile a tutto. Può accadere qualsiasi cosa, come ad esempio che si dimettano cinque consiglieri togati su sedici, senza che nessuno si ponga il benché minimo interrogativo. L’attività prosegue come se non fosse successo nulla. I problemi, infatti, non vengono affrontati ma molto più semplicemente rimossi. Partiamo proprio dalle dimissioni dei cinque togati coinvolti negli incontri di maggio con i parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti per discutere di nomine di alcune Procure. Quando vennero resi noti i loro colloqui intercettati con il telefono di Luca Palamara ci fu chi paragonò l’accaduto allo scandalo della loggia P2. Vennero chiesti provvedimenti feroci nei loro confronti, essendo stati accusati di essere “indegni” di vestire la toga. Poi, però, passata qualche settimana, la vicenda è finita nel dimenticatoio e del procedimento disciplinare si sono perse le tracce. Anzi, pare non sia mai iniziato. E cosa dire della Banca popolare di Bari? Il Csm decise di affidare nel 2015, con un bando pubblicato a Ferragosto, le proprie ingenti risorse economiche alla disastrata banca pugliese. Bpb, presente nel Lazio con solo cinque sportelli, scalzò Banca Intesa San Paolo, il primo gruppo bancario italiano, fra i primi dieci in Europa, diventando il tesoriere di Palazzo dei Marescialli. Già nel 2010, però, erano note le difficoltà dell’istituto di credito pugliese, come certificato dalle numerose ispezioni della Banca d’Italia. Sono stati presi provvedimenti? Non risulta. Anzi, Bpb continua ad avere uno sportello all’interno del Csm, erogando mutui e prestiti molto vantaggiosi a tutto il personale del Csm. Capitolo nomine. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che del Csm è il capo, si è raccomandato spesso, l’ultima volta a giugno, di procedere in tempi rapidi per evitare che gli uffici restino scoperti a lungo. Bene, è dallo scorso maggio che la Procura di Roma è vacante. Marcello Viola, il procuratore generale di Firenze che era stato inizialmente scelto per essere il successore di Giuseppe Pignatone, è stato fatto fuori dopo lo scandalo di maggio. La Commissione per gli incarichi direttivi azzerò tutto. Ad ottobre venne deciso di procedere con le audizioni di tutti i candidati. La nomina era attesa entro il 2019. Poi questa settimana quando all’ultimo momento, per motivi non noti, è sfumata ancora. Discorso a parte meritano le continue esternazioni del consigliere Piercamillo Davigo. A memoria non si ricorda un componente dell’organo di autogoverno della magistratura che punti a sostituirsi al legislatore dettando quelle che dovrebbero essere, secondo lui, le riforma in materia di giustizia. Al massimo il Csm può dare dei pareri, non vincolanti, all’inquilino di via Arenula. La sintesi di quanto accade a pizza Indipendenza può essere lasciata ad Andrea Mirenda, giudice di sorveglianza a Verona, da sempre critico con la deriva correntizia della magistratura e con le disfunzioni del Csm. Scrive Mirenda sulla sua pagina Fb: «Passano i giorni e nessuno parla. Tace la nobilissima Anm, e con essa il suo illuminato presidente, ancorché sempre pronta ad intervenire sui massimi sistemi copernicani; tace il vice presidente del Csm, quello per intenderci che esaltava il rinnovamento del lauto governo dopo l’ignobile traffico notturno per pilotare le principali nomine delle Procure italiane; tacciono i capi e capetti delle correnti, e tace addirittura il presidente della Repubblica a cui solo dobbiamo la simpatica scelta di far eleggere in tre rate quell’organo anziché scioglierlo per ridare ai magistrati il diritto di pronunciarsi fino in fondo sui miasmi emersi. A questo punto ogni cittadino ha il diritto di pensare ciò che vuole di un sistema siffatto, di certi modi di intendere la magistratura e la toga ed infine di invitare ciascuno dei sunnominati a darsi l’insulto che preferisce».
Da leggo.it il 5 febbraio 2020. Nicola Gratteri poteva diventare ministro della Giustizia. O meglio, lo è stato, ma per una sola notte, quella che ha preceduto l'incontro di Matteo Renzi, che stava per diventare premier, con Giorgio Napolitano al Quirinale. Lo ha raccontato lo stesso Gratteri durante la puntata di ieri sera di Dimartedì, su La7, con Giovanni Floris. «Ho incontrato per la prima volta Renzi la sera prima che incontrasse Napolitano - ha detto il magistrato - me lo presentò Delrio, che conoscevo da quando era sindaco di Reggio Emilia. Abbiamo parlato per due ore e mezza di giustizia, mi ha chiesto tante cose, poi mi ha lanciato la proposta: "Lei deve fare il ministro della Giustizia". Io ho detto che no, non ho il carattere per farlo: sono un decisionista, sono abituato a sedermi e non alzarmi finché non si prende una decisione. Lui però ha insistito: "Le do carta bianca, mi siedo a fianco a lei in Parlamento e tutto ciò che lei propone, deve passare"». «Io avevo in testa la rivoluzione dei codici - aggiunge Gratteri - Gli ho detto di sì. Vado a dormire, la mattina dopo torno in Calabria a lavorare: mi chiama Delrio e mi dice "lei è nell'elenco dei 16 ministri, non è che si tira indietro?". Rispondo che io sono un uomo di parola». Nel pomeriggio poi, arriva l'incontro Renzi-Napolitano e la lista definitiva dei ministri: ma nasce qualche problema. «Vi ricordate che la porta non si apriva? Quando ho visto quella scena ho pensato che stessero litigando per me, e infatti era così. Poco dopo mi chiama Delrio, tutto dispiaciuto e mortificato, io invece ho fatto un sospiro di sollievo - conclude il suo racconto - Chi mi vuole bene mi dice che devo accendere due candele a Napolitano ogni mattina».
Il j'accuse. Le accuse di Ernesto Galli della Loggia: “Il potere dei Pm e la paura degli intellettuali”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Giugno 2020. Suppongo (e spero) non stia parlando di sé, il professor Ernesto Galli della Loggia quando narra di una indeterminata “opinione pubblica” che in tutti questi anni, pur conoscendo le nefandezze dei magistrati oggi scoperchiate dalla bocca e dalla mano di Luca Palamara, non ha mai detto nulla per paura. Sì, lo scrive e lo ripete con un certo vigore, il commentatore del Corriere della sera. Paura. Se alludesse al comprensibile timore che ogni cittadino nutre nei confronti di colui che dall’alto del suo scranno, della sua nera toga e del suo bianco bavaglino, decide della sua libertà (cioè della sua vita), Galli della Loggia si sarebbe limitato a dire una ovvietà. Ma l’uomo non è mai ovvio, e non lo è neppure in questa occasione. Infatti ci dà una notizia. Questa è la notizia. Silvio Berlusconi nelle sue battaglie per una giustizia imparziale aveva ragione (talvolta, dice il professore) ma non lo si poteva dire per la paura di essere appiattiti sulla “destra berlusconiana”. È questa la paura. È interessante la scelta delle parole che esprimono il concetto. Che cosa è “la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica”? Sono solo i cittadini che vanno a votare o non anche gli intellettuali che scrivono sui giornali, quelli che vaneggiano di “caste” sui libri, e quei politici che, facendosi un baffo dell’opinione di illustri costituzionalisti, hanno fatto espellere Berlusconi dal Senato? Dobbiamo pensare che tutti questi, cioè coloro che hanno contribuito a cambiare la storia giudiziaria, e quindi politica, del Paese lo hanno fatto per “paura”? La magistratura, scrive ancora della Loggia con una continua attenta selezione del linguaggio, «ha guadagnato il silenzio complice di molti». Fino a perdere l’anima della propria identità. Perché, in sintesi, in questo presunto corpo a corpo che la “destra berlusconiana” avrebbe ingaggiato con le Procure, il clima si è avvelenato tanto che questo esercito di paurosi è stato silenziosamente complice dei peggiori intrallazzi (il sostantivo scelto non è mio) degli uomini in toga, del loro sindacato corporativo e lottizzato e anche del Consiglio superiore, che proprio superiore non è, come si è visto. Povero Silvio! “Avvisato” a Napoli mentre presiedeva un convegno internazionale sulla criminalità per un reato da cui è stato assolto, poi condannato per l’evasione di una cifra che per le sue società rappresentava qualche nocciolina, poi indagato-archiviato-indagato-archiviato-indagato addirittura come mandante di stragi di mafia. Ma nessuno finora, neanche un procuratore della Repubblica, lo aveva mai sospettato di essere il mandante della vigliaccheria di un drappello di intellettuali capaci di contribuire, con il loro “silenzio complice”, alle ingiustizie di venticinque anni di storia giudiziaria e politica italiana. Sono sicura che Ernesto Galli della Loggia non abbia parlato di sé, nel commento che sul Corriere della sera narra «dell’Identità smarrita dei magistrati italiani». Perché lui – e non lo fa neppure in questa occasione – è un intellettuale non abituato a nascondersi, neppure quando pizzica i suoi colleghi cattedratici. Ma forse sta parlando di qualche direttore di grandi quotidiani, o di qualche assemblatore di atti giudiziari trasformati in libri, o magari di qualche imprenditore proprietario di giornale. Forse anche lui ricorda gli anni di Tangentopoli e quelli che vennero dopo, fino all’oggi. Non c’è bisogno di tornare ai tempi di Romiti e De Benedetti e delle trattative (quelle sì, erano vere) dei loro avvocati con i pubblici ministeri per evitar loro il carcere, per confermare quel che “l’opinione pubblica sapeva” ma solo il trojan di Palamara ha saputo raccontarci. Quando il magistrato diventa politico, perde l’immagine della sua imparzialità, scrive ancora il professor della Loggia. Ma dobbiamo anche chiederci, oggi che qualcuno ha, se pur non di propria volontà, gridato a gran voce che “il re è nudo”, se questa imparzialità sancita dalla Costituzione (cosa che i magistrati dimenticano spesso, a loro interessano solo l’autonomia e l’indipendenza) non sia caduta anche all’interno e come conseguenza di comportamenti portati all’“intrallazzo” e alla “collusione” con la politica. Intrallazzi e collusioni che, per esempio, hanno rafforzato moltissimo, nel processo e fuori di esso (con la complicità di tanti giornalisti), il ruolo dell’accusa. Mortificando non solo la figura dell’avvocato difensore ma addirittura quella del giudice. Se oggi il pubblico ministero vale mille e l’avvocato zero, il giudice arriva al massimo a uno, nella scala dei valori di quelli che contano. Ma quando dico “oggi” intendo dire almeno negli ultimi trent’anni. Vorrei raccontare un episodio “antico”, che ha ritrovato il professor Giuseppe di Federico (e che mi ha gentilmente passato) nell’appendice del libro La degenerazione del processo penale in Italia pubblicato da un grande giurista, Agostino Viviani nel 1988. È la storia del casuale ritrovamento, tra le carte di un processo celebrato in una grande città italiana, di una lettera scritta da una presidente del tribunale del Riesame al presidente del tribunale. Questa giudice raccontava di aver subito una «violenta aggressione verbale da parte del pm poiché si era permessa di rimettere in libertà un imputato di partecipazione a banda armata, nonostante la diversa richiesta dell’accusa. Ma questo pubblico ministero non si era limitato agli insulti e all’aggressione, si era anche rivolto al Presidente del tribunale della grande città perché intervenisse. E costui, invece di denunciare il pm ai titolari dell’azione disciplinare, aveva convocato la presidente del Riesame. Tanto che costei, «in uno stato di grave disagio», poiché doveva giudicare un altro caso analogo e con la presenza dello stesso pm, si era dimessa. Va da sé che il suo successore non scarcerò. Proprio come voleva il famoso pm. Questo caso fu portato due volte al Consiglio superiore della magistratura, prima dallo stesso Viviani e poi da Di Federico. Furono insultati pure loro e non successe niente. Per l’organo di autogoverno tutto ciò era normale. Il famoso pubblico ministero poté percorrere tutta la sua carriera fino ai massimi vertici e tranquillamente in seguito andare in pensione. Ma quel presidente di tribunale che portò una sua collega, supponiamo molto più giovane di lui, alle dimissioni, come si sente con la coscienza? Di questo bisognerebbe parlare quando si narrano gli intrallazzi e le collusioni della magistratura e soprattutto il dis-funzionamento del Csm e il ruolo politico di giudici e pubblici ministeri. E mi tocca anche leggere, sempre sul Corriere, ma del giorno prima, che Niccolò Ghedini, che casualmente è anche l’avvocato di Silvio Berlusconi, dice che non si devono separare la carriere di giudici e pm perché è bene che il rappresentante della pubblica accusa mantenga (ma quando mai l’ha avuta?) la “cultura della giurisdizione”. Consiglio anche a lui la lettura del libro di Agostino Viviani. E della lettera (che pubblicheremo) di quella presidente del tribunale del Riesame dei tempi dei processi per terrorismo. Quelli in cui si fecero le prove generali di quel che capiterà in seguito con tangentopoli e le inchieste di mafia.
Gratteri: Berlusconi ha ragione, ai Pm va fatto il test. Redazione De Il Riformista 28 Novembre 2019. «Berlusconi una volta ha detto una cosa giusta: bisognerebbe fare i test psico-attitudinali ai magistrati». A dirlo non è un pasdaran del Cav, né di un detrattore delle toghe. Tutt’altro. A parlare è proprio un pm, e non uno qualunque ma nientepopodimeno che il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, tra i più noti all’opinione pubblica e ministro della Giustizia mancato (la sua nomina nel governo Renzi sarebbe sfumata per volontà dell’allora presidente della Repubblica Napolitano, ha rivelato lo stesso pm). Intervistato ieri da Massimo Giannini su Radio Capital, non è voluto entrare nel merito dell’inchiesta sulla fondazione Open («c’è un’indagine in corso, non conosco le carte e se non si conoscono si fanno discorsi da bar»), ma sul rapporto tra magistratura e politica ecco il Gratteri che non t’aspetti: «Ci possono essere dei magistrati che fanno militanza attiva», «che ne fanno un modo di ragionare e può accadere che uno perda di lucidità». E quindi: «Non condivido la maggior parte delle cose dette da Berlusconi, ma una volta ha detto una cosa giusta: bisognerebbe fare i test psico-attitudinali ai magistrati. È un lavoro molto logorante quindi una volta ogni 5 anni in forma anonima dovrebbero sottoporci a test». Ma Gratteri ne ha anche per la politica: «Chi è al potere non vuole essere controllato. Il potere non vuole un sistema giudiziario efficiente, che controlli anche il manovratore. In Parlamento ci sono tante persone perbene, sono la stragrande maggioranza, ma ci sono anche molti incompetenti e alcuni faccendieri, alcuni borderline». A proposito di efficienza della giustizia, il procuratore di Catanzaro a Radio Capital ha parlato anche della riforma voluta dal ministro Bonafede che blocca i termini della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, riforma che è diventata il nuovo terreno di scontro nella maggioranza di governo. «Per come ragiono io, termini come prescrizione, amnistia, indulto, dovrebbero sparire dal vocabolario della lingua italiana», ha affermato. Per Gratteri la nuova norma «non è inutile, va fatta, ma non è la soluzione del problema. La prescrizione è una ghigliottina, non possiamo ragionare in questo modo, non esiste una sola ricetta per un problema». «Ogni volta che il legislatore interviene solo per un problema non fa un ragionamento serio. Un ragionamento serio – ha spiegato il procuratore – vuol dire avere il coraggio, la volontà e la libertà di cambiare tutto il sistema, 3-400 norme, con piccole e medie modifiche, per far sì che funzioni. Altrimenti si va sempre a rattoppare». «Se non si decide di investire in giustizia, di applicare la tecnologia che abbiamo a disposizione nel 2019, non si va da nessuna parte», ha continuato Gratteri. «In questo momento ci sono fuori ruolo 250 magistrati, io penso che ne basterebbero 30-40», e poi «bisogna rivedere tutta la geografia giudiziaria, ancora ci sono sedi inutili che andrebbero chiuse o accorpate», ma «con la benda davanti, senza andare a guardare lì chi c’è e se lo disturbiamo se gli chiudiamo l’ufficio».
Gratteri: “Io, troppo indipendente per fare il ministro”. Il Dubbio il 10 febbraio 2020. La ricostruzione della mancata nomina a via Arenula ai tempi del governo Renzi. Altro giro altra corsa. Il procuratore Nicola Gratteri ospite di Lucia Annunziata – che con Piercamillo Davigo condivide lo scettro del magistrato più presenzialista della tv italiana – si è lasciato andare a nuove, importanti rivelazioni sulla sua mancata nomina a ministro della giustizia ai tempi del governo Renzi.
La prima: sembra che il no dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano fosse dovuto – dice lui – alla sua marcata “caratterizzazione”. “Non so cosa volesse dire ha poi confessato Gratteri – ancora è vivo, chi è in confidenza può chiederglielo, ma è vero che sono molto indipendente.
La seconda: Gratteri non si definisce nè giustizialista nè garantista – e questo si era capito – ma solo “uno che cerca di applicare il codice nel modo più corretto possibile. Esiste la legge e la sua applicazione».
La terza: ci sono corrotti anche tra i magistrati, ma sono pochi. “Il problema della corruzione c’è, ma possiamo parlare del 6-7%, non di più”, ha infatti spiegato Gratteri. Che poi ha aggiustato il tiro: “posso dire che sostanzialmente la struttura della magistratura è sana, però è ovvio che un magistrato corrotto fa un botto, fa rumore, è molto grave, la gente si allontana e perdiamo credibilità”. Il che, detto ai tempi dello scandalo nomine, è un’affermazione piuttosto “coraggiosa”.
Nicola Gratteri a Mezz'ora in più: "In magistratura un 6-7 per cento di corrotti". Libero Quotidiano il 9 Febbraio 2020. Tempo di rivelazioni a Mezz'ora in più su Rai 3, dove l'ospite era Nicola Gratteri, che sei anni fa fu ministro della Giustizia soltanto per poche ore nel nascente governo di Matteo Renzi. In studio si fa il punto sulla riforma della prescrizione di Alfonso Bonafede, ma poi si torna ai tempi della nomina sfumata: "Ho conosciuto Renzi nel 2014, il giorno prima che andasse dal presidente Giorgio Napolitano - premette -. Non è che mi fidassi di Renzi, gli dissi quello che bisognava fare e lui era d’accordo su tutto, parlammo di cose strutturali che riguardavano il sistema giudiziario". Così il capo della procura di Catanzaro rispondendo a una domanda di Lucia Annunziata. Perché il veto di Napolitano? "Chiedete a lui - riprende Grattieri -. Pare che avesse detto che sono un pm troppo caratterizzato. Non so cosa volesse dire - ha aggiunto -. È vero che sono molto indipendente e non faccio parte di nessuna corrente, ho un carattere duro, non conosco mediazioni al ribasso. In ogni caso, una volta finito l’incarico di ministro, avrei guidato un’azienda agricola, sono un bravo agricoltore, di certo non avrei fatto più il magistrato per una questione di serietà e credibilità", ha concluso. Poi, parole pesantissime sulla piaga della corruzione tra le toghe. Tema che esiste, eccome, anche secondo Gratteri: "Il problema corruzione nella magistratura c’è, possiamo parlare del 6-7 per cento - stima -. È grave, inimmaginabile, terribile. Noi guadagniamo bene. Io prendo 7.200 euro e si vive bene e non c’è lo stato di necessità. Io penso che sia un fatto di ingordigia. Il potere è avere incarichi o chiedere incarichi per amici degli amici", ha concluso.
Gratteri: guadagno 7200 euro. I super stipendi delle toghe. Il pm antimafia Gratteri in televisione rivela la busta paga dei magistrati: 137mila euro all'anno e 45 giorni di ferie. Felice Manti, Lunedì 10/02/2020 su Il Giornale. Il pm antimafia Nicola Gratteri ha un merito: parla chiaro. E dice una verità che molte toghe fingono di non vedere: «Il problema della corruzione in magistratura c'è, e riguarda il 6-7%, non di più». E non è un problema legato ai soldi. D'altronde si sa, gli stipendi delle toghe sono tra i più alti d'Italia. Guardando alla media delle retribuzioni lorde annue del pubblico impiego la magistratura si colloca al top con 137.294 euro (e 45 giorni di ferie), seguita a distanza da carriera prefettizia (94.293), autorità indipendenti (91.259) e persino carriera diplomatica (87.121): «Guadagniamo bene - conferma il procuratore capo di Catanzaro, ospite di Lucia Annunziata a In mezz'ora - io prendo 7.200 euro al mese, quindi non c'è giustificazione, non è uno stato di necessità, non è il tizio che va a rubare al supermercato per fame». La corruzione in magistratura «ha a che fare con l'ingordigia». È strano sentire un magistrato ammettere che anche i giudici «sono il prodotto di questa società» e che «l'abbassamento della morale e dell'etica», fa rumore quando riguarda un magistrato corrotto, perché così «la gente si allontana e perdiamo credibilità». Gratteri non fa nomi ma il pensiero corre al magistrato Luca Palamara, ex membro del Csm ed ex presidente dell'Anm (il sindacato dei magistrati), che secondo la Procura di Perugia avrebbe favorito o tentato di favorire alcune nomine in cambio di viaggi, soldi e regali in combutta con alcuni politici Pd. L'indagine ha già portato ad alcune dimissioni eccellenti dentro lo stesso Csm come il Procuratore generale Riccardo Fuzio. Anche Catanzaro è squassata da una sequela di magistrati finiti nel mirino della Procura della Repubblica di Salerno per favoreggiamento mafioso, corruzione e corruzione in atti giudiziari. Un magistrato della Corte d'appello è stato arrestato perché avrebbe venduto sentenze in cambio di sesso e mazzette. E guarda caso, la stessa Corte d'appello (il cui procuratore capo Otello Lupacchini è stato da poco cacciato per uno scazzo con Gratteri) si conferma sul podio - per il sesto anno consecutivo - per ingiusta detenzione (158 persone nel 2017) e 8,9 milioni di euro pagati alle vittime innocenti. A stipendi alti non corrispondono neanche processi veloci. Anzi. Per colpa della lentezza della giustizia ogni anno ci sono circa 17mila richieste di indennizzo per «irragionevole durata dei processi» secondo i parametri fissati dalla legge Pinto (tre anni per una sentenza di primo grado, due anni per l'appello e un anno per la Cassazione). Quanto alla produttività dei magistrati è difficile trovare un parametro univoco. Pier Camillo Davigo dice che i giudici italiani sono i più produttivi d'Europa ma non c'è un dato della Commissione europea per l'efficienza della giustizia che ne dia conferma. E si torna al problema prescrizione, alibi piuttosto che soluzione. E lo conferma Gratteri quando dice «il legislatore serio si preoccupi del perché il fascicolo rimane cinque anni nel mio armadio», non sulla sua scrivania. Ecco perché il pm parla di «mediazione al ribasso» sulla prescrizione perché c'è «una disparità di trattamento» tra chi è assolto e chi è condannato in primo grado, mentre «chi finisce in carcere, che è diventato un contenitore, non sa quando ne uscirà. E non si fa né rieducazione né trattamento». Ancora una volta «il legislatore non fa le modifiche giuste», quelle «per velocizzare il processo senza diminuire i diritti. Perché questa è la madre di tutte le riforme». E come si velocizzano? «Anziché perdere mesi ad appigliarsi sulla prescrizione per velocizzare i processi basta applicare la tecnologia disponibile e rileggere il codice di procedura penale». Anche perché, tra i magistrati è un segreto di Pulcinella, lo stop alla prescrizione ingolferà ancor di più il sistema. Nel 2018, secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia, i procedimenti penali prescritti in Corte d'appello e Cassazione sono stati 29.862. Dal 2020 questi 30mila processi in più graveranno ogni anno sugli uffici giudiziari. Allungando ancora di più i processi.
Gratteri via dalla foto del magistrato arrestato. Franco Bechis il 16 gennaio 2020 su Il Tempo. Tutti i quotidiani hanno tagliato l'immagine di Nicola Gratteri dalla unica foto che avevano del giudice arrestato a Catanzaro, Mario Petrini, presidente di sezione di corte di appello e anche presidente della commissione tributaria provinciale. La notizia dell'arresto di Petrini è stata data con grande evidenza, ed è naturale quando a finire nei guai è un magistrato accusato di avere svenduto la sua funzione in cambio di soldi e favori. Poi siccome l'indagine ha scoperto che fra i pagamenti ricevuti in cambio di sentenze favorevoli c'erano non solo soldi, regali e viaggi, ma anche prestazioni sessuali da parte di giovani avvocatesse filmate addirittura in 18 amplessi nell'ufficio del magistrato, la stampa ha puntato sull'aspetto più pruriginoso. Tutti i media però hanno avuto un problema: dove trovare la foto di Petrini, magistrato che è stato per lo più nell'ombra? C'era una sola soluzione: fare un fermo immagine di un video di un paio di anni fa dal sito del Lametino.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 21 aprile 2020. Viaggi all'estero, da Londra a Dubai, fino a Ibiza. Lavori di ristrutturazione, vacanze in montagna, persino un trattamento di bellezza in una Spa. E ancora: informazioni riservate passate sottobanco, notizie di denunce e inchieste rivelate senza autorizzazione. E' con l'accusa di corruzione che il pm di Roma, Luca Palamara, ex presidente dell' Anm, rischia di finire sotto processo a Perugia. Insieme a lui, la sua amica Adele Attisani, l' ex consigliere del Csm Luigi Spina, il titolare di un' agenzia di viaggi e l' imprenditore Fabrizio Centofanti, già figura chiave nell' inchiesta sulla «cricca» in grado di pilotare sentenze del Consiglio di Stato. Secondo i pm umbri, che hanno notificato a tutti un avviso di conclusione delle indagini, Palamara, all' epoca dei fatti consigliere del Csm, avrebbe ricevuto - per sé e per la Attisani - regali e favori da Centofanti e, in cambio, avrebbe messo al servizio dell' imprenditore la sua funzione. Un' inchiesta dalla quale era emerso un vero e proprio mercato delle toghe con strategie per pilotare le nomine ai vertici delle procure più importanti, in primis quella di Roma. Tra i vari cadeaux, i magistrati umbri contestano anche un viaggio a Madrid regalato al pm e al figlio per assistere alla partita Real Madrid-Roma, un match di Champions League dell' 8 marzo 2016, per il quale Centofanti avrebbe speso oltre 1.300 euro. Ma nel capo di imputazione si legge pure che l' imprenditore, tra il 2013 e il 2017, avrebbe pagato lavori di ristrutturazione per decine di migliaia di euro nell' appartamento della Attisani, pure lei accusata di corruzione e considerata dagli inquirenti «istigatrice delle condotte delittuose e beneficiaria in parte delle utilità». E' finito nei guai anche Giancarlo Manfredonia, titolare di un' agenzia di viaggi: avrebbe fornito «false informazioni e documentazione artefatta» alla Finanza, che stava indagando sui viaggi organizzati da Centofanti. Pesanti anche le contestazioni anche per l' ex consigliere del Csm, Luigi Spina, che si è dimesso a causa dello scandalo: è accusato di rivelazione di segreto d' ufficio e favoreggiamento. Avrebbe informato Palamara di un esposto presentato dal pm Stefano Fava contro l' ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e un aggiunto. E, inoltre, gli avrebbe passato informazioni sull' inchiesta per corruzione. Rispetto alle precedenti contestazioni, la posizione del pm si è alleggerita: non è più accusato di avere ottenuto 40mila euro per pilotare una nomina alla procura di Gela e per danneggiare un collega. Lo sottolineano i suoi avvocati, Roberto Rampioni, e Mariano e Benedetto Buratti: «In relazione alle ulteriori ipotesi la difesa è certa di poter dimostrare l' innocenza dell' assistito».
Quegli spifferi che arrivano dalla procura Perugia: prima i togati, poi la stampa e ora il fedelissimo di Bonafede. Giulia Merlo su Il Dubbio il 15 maggio 2020. Prima le indiscrezioni su Luca Palamara, poi quelle sui giornalisti “amici” dei pm e ora l’uomo di fiducia del ministro della Giustizia…Ormai è un vero e proprio virus, quello che dalla Procura di Perugia contagia chiunque ruoti intorno all’inchiesta contro Luca Palamara. O meglio, che contagia chiunque abbia parlato al telefono con l’ex membro dell’Anm e che dunque sia finito nei brogliacci delle intercettazioni ora nelle mani dei magistrati. La sorte toccata al capo di Gabinetto del Ministro Bonafede, Fulvio Baldi, infatti, è solo l’ultimo caso in ordine di tempo. Prima del suo, sono stati molti i nomi a finire direttamente dagli atti di indagine alle pagine dei giornali, in un flusso all’apparenza inarrestabile che sgorga direttamente da Perugia. Poche settimane fa e a qualche giorno dalla notizia della conclusione delle indagini, a risultare “schedati” dalla procura erano stati i principali cronisti di giudiziaria, da Liliana Milella di Repubblica a Giovanni Bianconi del Corriere, ma i nomi citati sono circa una ventina. Le intercettazioni delle loro conversazioni private con Palamara, pur senza contenere alcun elemento utile alle indagini, erano finite pubblicate in un articolo della Verità. L’esito è stato quello di un discreto imbarazzo, oltre al disvelamento di rapporti riservati tra stampa e magistratura, ma nessuna conseguenza diretta per i colleghi. Solo, al massimo, un certo biasimo per il metodo con cui vengono compilate le informative della polizia giudiziaria, che pur dovrebbero contenere solo le trascrizioni delle intercettazioni rilevanti. Lo stesso è poi successo, con esiti ben più pesanti, anche all’ex pg di Cassazione Riccardo Fuzio. Anche in questo caso il Trojan installato nel cellulare di Palamara ha registrato le loro conversazioni, date alla stampa prima della conclusione delle indagini. Fuzio non è politicamente sopravvissuto allo scandalo: ha scelto la via del pensionamento anticipato ed è finito a sua volta indagato. Infine – terminando il percorso a ritroso nei fatti collaterali all’indagine che ha fatto tremare il Csm nel giugno scorso – la stessa sequenza è toccata anche a cinque togati del Csm. Tutti intercettati di riflesso a Palamara, tutti finiti nelle trascrizioni pubblicate da mezza stampa italiana. Contro di loro, conversazioni con Palamara per la decisione di alcune nomine di magistrati. Alla fine, i togati di Magistratura Indipendente Antonio Lepre, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli e quello di Unicost Gianluigi Morlini e Luigi Spina (unico indagato) si sono dimessi dal ruolo di consiglieri al Csm.La beffa, in questa maxi inchiesta che ha terremotato l’organo di autogoverno della magistratura, è che potrebbe concludersi in un nulla, almeno sul fronte prettamente giudiziario. Sono cadute, infatti, tutte le ipotesi di reato a carico di Palamara per le presunte nomine pilotate e che è stata chiesta l’archiviazione anche per corruzione aggravata e in atti giudiziari.
Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero. Il capo di gabinetto: “Che cazzo li piazziamo a fare i nostri?” Agli atti dell'inchiesta della procura di Perugia sulle nomine dei magistrati ci sono anche le intercettazioni di Fulvio Baldi, capo di gabinetto di Alfonso Bonafede, che l'ex pm di Roma chiama "Fulvietto". Baldi è ovviamente estraneo alle indagini, ma gli investigatori riportano le registrazioni in cui è coinvolto perché sono un elemento utile a ricostruire l'enorme potere dell'ex presidente dell'Anm. E poi perché ricostruiscono come funzionano le correnti della magistratura, come gestiscono il potere, come si muovono, come spingono per far ottenere ai loro iscritti poltrone di prestigio. La replica: "Con Palamara siamo amici da tanti anni ma i suoi problemi giudiziari emergono solo dopo le conversazioni in questione. Le intercettazioni? Non le conosco ma non vedo nessun profilo disciplinare". di Marco Lillo e Antonio Massari il 14 maggio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Luca Palamara lo chiamava “Fulvietto”. Gli faceva dei nomi di magistrate, gli chiedeva di piazzarle in posti di staff nei ministeri. Fulvietto rispondeva: “Te la porto qua stai tranquillo, perché è una considerazione che ho per te, un affetto che ho per te e lo meriti tutto”. E quando Palamara era dubbioso Fulvietto lo rassicurava: “Se no che cazzo li piazziamo a fare i nostri?”. I “nostri” erano probabilmente i magistrati di Unicost, la corrente moderata delle toghe, il cui leader era proprio il pm indagato nell’inchiesta sulle nomine al Csm. Fulvietto, invece, è Fulvio Baldi, già sostituto procuratore generale della Cassazione, candidato nel 2012 al Comitato Direttivo dell’Anm per Unicost e da quasi due anni capo di gabinetto di Alfonso Bonafede al ministero della giustizia. Sulla sua scrivania passano tutte le pratiche più delicate: le leggi, le nomine, i fascicoli giudiziari. Tra questi ultimi anche gli atti inviati dalle procure quando a finire sotto inchiesta sono i magistrati, affinché il guardasigilli possa esercitare l’azione disciplinare. È successo anche con l’indagine su Palamara e in quel caso il ministro Bonafede non ha perso tempo e ha attivato le sue prerogative: alla fine il magistrato è finito davanti al collegio disciplinare ed è stato sospeso dallo stipendio e dalle sue funzioni da pm di Roma, in attesa che la giustizia faccia il suo corso e confermi o smentisca le ipotesi accusatorie. Da alcune settimane i pm perugini hanno chiuso l’inchiesta che ha provocato un vero e proprio terremoto fin dentro le stanze di Palazzo dei marescialli, con le dimissioni di cinque consiglieri e l’azzeramento dell’iter per la nomina del nuovo capo della procura di Roma. Agli atti sono finite anche le intercettazioni tra Palamara e Baldi, pure lui esponente di Unicost, la corrente più rappresentata (ma non l’unica) nelle stanze del ministero della giustizia. Oltre a Baldi ne fa parte Francesco Basentini, nominato dallo stesso Bonafede a capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, fino alle dimissioni di qualche giorno fa. Nel gabinetto c’è anche Leonardo Pucci, vice di Baldi e già compagno di studi a Firenze di Bonafede. Assistente volontario del professor Giuseppe Conte dal 2002 fino al 2009, poi giudice del lavoro a Potenza dal 2009 al 2015. In Basilicata Pucci conosce oltre a Basentini anche Luigi Spina, poi divenuto consigliere del Csm di Unicost, travolto dall’indagine per le intercettazioni con l’amico Palamara. Pucci è l’uomo più vicino a Bonafede ma il ruolo di vertice nel gabinetto è occupato da due anni da Baldi. Salernitano, 52 anni, è ovviamente estraneo alle indagini su Palamara. Le parole intercettate della Guardia di Finanza non fanno ipotizzare a suo carico alcuna fattispecie di reato. Gli investigatori le riportano perché sono un elemento utile a ricostruire l’enorme potere di Palamara, pm sotto inchiesta. Ricostruiscono, infatti, come funzionano le correnti della magistratura, come gestiscono il potere, come si muovono, come spingono per far ottenere ai loro iscritti poltrone di prestigio e poi giù giù fino ai posti minori di staff. E anche come entrano in contrasto tra loro. A questo proposito, va detto che Bonafede è autore di una proposta di legge anti-correnti che puntava a introdurre il sorteggio per le elezioni al Csm. Dopo la caduta del governo con la Lega, però, il M5s ha dovuto discutere la nuova riforma della giustizia col Pd. E la proposta di sorteggiare i membri del Csm è svanita dal tavolo. Col sorteggio lo strapotere delle correnti sarebbe stato indubbiamente azzerato. E non si sarebbero più lette intercettazioni come quelle di Palamara. Che al capo di gabinetto di Bonafede segnala una serie di nomi per incarichi negli staff di uffici e dipartimenti. In una conversazione si cita di passaggio anche il Dap, finito di recente al centro delle cronache per il “caso Di Matteo” e le scarcerazioni di mafiosi: anche lì Baldi pensava di poter piazzare una magistrata raccomandata da Palamara. Quella manovra, però, non è andata a buon fine. Forse anche perché, due settimane dopo le ultime telefonate intercettate con il capo di gabinetto del ministro, Palamara è stato travolto dall’inchiesta di Perugia. È proprio leggendo le carte dell’indagine umbra che si scopre come le trame dell’ex presidente dell’Anm passavano anche dall’ufficio di Baldi in via Arenula. È il 3 aprile del 2018 e Palamara chiede al capo di gabinetto di Bonafede di sistemare al ministero una magistrata a lui vicina: si chiama Katia Marino ed è sostituto procuratore a Modena. Baldi risponde ‘presente’ e dice che la donna sarà contattata nel pomeriggio da Mauro Vitiello, capo dell’ufficio legislativo: “Ho passato il nome – dice – vediamo che cazzo succede prima o poi te la porto qua stai tranquillo perché è una considerazione che ho per te un affetto che ho per te e lo meriti tutto”. “Va bene”, risponde tranquillo Palamara. Ma c’è un problema. Mauro Vitiello, il capo dell’Ufficio legislativo del ministero citato da Baldi, è di un’altra corrente: appartiene a Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, e non ai moderati di Unicost. Già giudice fallimentare a Milano, Vitiello non è l’unico esponente di Md in via Arenula: sua compagna di corrente è la sua vice, Concetta Locurto, già coordinatrice nel capoluogo lombardo di Area, il cartello di correnti di sinistra dei magistrati. Quello può essere un problema, almeno a leggere le parole di Baldi, che chiama Palamara desolato: “Vitiello ha sentito la ragazza, Katia Marino, ed è andata come deve andare aggiungendo ‘uomini però di mala fede i soliti di Magistratura Democratica‘”. Poi Baldi sostiene che Vitiello gli avrebbe detto: “Prenditela tu”. Ma il capo di gabinetto di Bonafede ha esaurito i posti liberi: “Ho detto – continua – ma io se non ero completo non c’era nessun problema’”. A quel punto il magistrato mette a disposizione del suo capocorrente una serie di possibili incarichi al ministero della Giustizia: “Però – dice Baldi a Palamara – abbiamo varie strade. Abbiamo l’Ispettorato, abbiamo il Dap, ma la strada più praticabile a questo punto è dal 6 maggio la Casola prende possesso al Dag. E’ qui già dal 7 maggio la Casola e mattina può far partire la richiesta insomma”. Il riferimento è a un altro magistrato, Maria Casola, stimata giudice autrice di note di dottrina pubblicate sul sito di Unicost, che dopo pochi giorni effettivamente sarebbe diventata capo Dipartimento per gli Affari di Giustizia. A Palamara sembra che la previsione di Baldi sia un po’ troppo semplicistica e quindi chiede: “Se la prende lei o no?”. Quasi indignato per la domanda, Baldi replica: “Eh beh ma la Casola è nostra ragazzi, gliela indichiamo noi che cazzo, e allora che cazzo piazziamo a fare i nostri?”. Una frase che dimostra meglio di cento indagini come funzionino le nomine basate sui criteri di appartenenza nel mondo della magistratura. Soprattutto perché a pronunciarla è il capo di gabinetto del ministero della giustizia. Che parlando con l’amico Palamara spiega come va il mondo: “Glielo dico io tranquillamente (a Maria Casola, Ndr) tanto abbiamo tempo fino al 6 maggio poi gliela presentiamo (la dottoressa Marino, Ndr) però glielo voglio dire che poi ci sei pure tu dietro perché vai rispettato pure tu (…) glielo diciamo tutti e due insomma”. Il capo di gabinetto è fiero del suo potere: “Quindi – dice – hai capito che cazzo questa gente deve capire che la ruota gira nella vita”. Baldi – annota il Gico della Guardia di Finanza – “continua dicendo che ha 51 anni e che per altri 19 dovrà lavorare ovvero che tutti si devono voler bene e rispettare”. Le manovre non si fermano al ministero. Dopo aver chiuso la telefonata con Baldi, Palamara chiama Nicola Clivio, consigliere del Csm dal 2014 al 2018 in quota Area. “Ciccio me l’hanno purgata! La fonte sono quelli di Md che l’hanno bruciata però guarda che è una brava ragazza”. Clivio risponde spiegando che dopo il messaggino ha preso informazioni e gliene hanno parlato male. Palamara ribadisce: “Sono quelli di Area e Magistratura Democratica, i soliti”. L’ex pm di Roma chiude chiedendo a Clivio di parlare con Vitiello. Poi richiama Katia Marino e le dice che Fulvio Baldi gli ha detto: “Vitiello o non Vitiello Katia viene”. Anche la Marino conferma quella frase di Baldi, poi Palamara si vanta e le racconta che “lui è stato aggressivo come il suo solito dimostrando che deve forzare la mano affinché il trasferimento riesca”. Non riuscirà: oggi Katia Marino è ancora un pm di Modena e non è mai andata a lavorare la ministero. Le manovre di Palamara non riguardano solo lei e non si fermano al ministero della Giustizia. Arrivano, infatti, anche in altri dicasteri, come alla Farnesina. È il 17 maggio 2019, esattamente un anno fa, e il pm sollecita un’altra nomina a Baldi, quella della dottoressa Francesca Russo. La definisce “vicinissima a noi”. Baldi, scrive il gip, “chiede i suoi contatti dicendo che al Ministero Affari Esteri ha questa possibilità avendo carta bianca”. Il capo di gabinetto di Bonafede, viste le difficoltà incontrate per la dottoressa Marino in via Arenula, punta sulla Farnesina. Scrivono le Fiamme gialle “chiede se a Katia Marino può interessare un posto all’ufficio Contenzioso del Ministero degli Esteri seppur senza indennità aggiuntive (…) Palamara si informerà specie sul discorso della lingua”. Evidentemente il capo di gabinetto di via Arenula ci tiene a sottolineare di avere una rete di rapporti che vanno oltre il suo dicastero: “Fulvio – continuano gli inquirenti – conclude dicendo dipende solo da me capito non da capi Dipartimento e tutto, la mando io la porto io eh eh eh”. La dottoressa Katia Marino, però, fa capire a Palamara, “che avrebbe delle difficoltà con le lingue e che quindi sicuramente il posto proposto (al ministero degli Affari esteri) sarebbe per lei peggiore rispetto a dove è attualmente”. Insomma la pm non è fortissima sulle lingue, e quindi preferisce andare al ministero di giustizia, dove si parla solo italiano. “Palamara – annota la Finanza – le spiega che c’erano altre opportunità che per ora sono in stand by a causa di Vitiello che fa opposizione per privilegiare i suoi ovvero quelli di Md (…) quindi parlano di Fulvio Baldi nei confronti del quale formulano elogi e Palamara aggiunge che ha capito chiaramente che la Marino deve rientrare aggiungendo: Lo sa non solo Fulvio ma lo sanno anche quelli vicino al Ministro’”. Passano appena 12 giorni e sui giornali esce la notizia che Palamara è indagato. Tutto si ferma. La dottoressa Katia Marino e la dottoressa Francesca Russo, che non sono mai state indagate, sono ancora al loro posto al Tribunale di Roma e alla Procura di Modena. Non sono mai passate al ministero. Sentito dal Fatto Fulvio Baldi dice: “Abbiamo già visto con il Ministro Bonafede alcune mie chat con Palamara su questa vicenda e non c’è nulla di male”. Le chat, secondo Baldi, sono arrivate all’ispettorato del Ministero competente a valutare eventuali profili disciplinari dell’inchiesta. Ovviamente non su Fulvio Baldi ma su altri. “Io non ho letto queste intercettazioni che lei mi riferisce ma non vedo nessun profilo disciplinare a mio carico nelle frasi che mi legge”, spiega Baldi al Fatto che gli chiede un parere sulle sue stesse parole. “Siamo amici con Luca Palamara da tanti anni – spiega Baldi al Fatto – ma i suoi problemi giudiziari emergono solo dopo le conversazioni in questione. Io non ho portato al Ministero la dottoressa Katia Marino. Nel novembre 2018 l’ho incontrata su segnalazione di Palamara ma non l’ho presa. Poi la ho segnalata al dottor Mauro Vitiello e lui non l’ha voluta prendere. Certo, ho detto a Palamara, ‘vedrai che te la porto‘ ma solo per non deludere un amico dicendo alcune cose negative. Anche la dottoressa Francesca Russo l’ho vista al Ministero e ho ritenuto di disporre il collocamento fuori ruolo al Mae per altre tre persone. La dottoressa Katia Marino non l’ho mandata al Mae. Al Ministero ci sono 80 persone. E sono tanti che mi segnalano persone. Io faccio colloqui e vedo se la persona segnalata è compatibile”. E le intercettazioni in cui Baldi dice a Palamara “Che cazzo li piazziamo a fare i nostri?”. Baldi replica al Fatto: “Io definivo ‘i nostri’ quelli che appartenevano a quella che era la mia corrente Unicost. Io però sono uscito da Unicost a settembre 2019”. Quanto all’ex direttore del Dap Francesco Basentini, Baldi è netto: “Basentini lo ho conosciuto al Ministero, come anche Leonardo Pucci. Io non li ho mai visti in una riunione di corrente”.
Inchiesta Csm, dopo l’articolo su ilfattoquotidiano.it si dimette il capo di gabinetto del ministero della Giustizia. Le dimissioni dopo l'articolo di Marco Lillo e Antonio Massari: "Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero". Fonti vicine al Guardasigilli fanno sapere che Bonafede non ha apprezzato le logiche correntizie rivendicate da Baldi nelle conversazioni telefoniche con Luca Palamara. Il Fatto Quotidiano il 15 maggio 2020.
Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero. Il capo di gabinetto: “Che cazzo li piazziamo a fare i nostri?” Il capo di gabinetto del Ministero di Giustizia Fulvio Baldi si è dimesso. Le agenzie di stampa riferiscono “ragioni personali” molto sinteticamente. La reggenza è stata affidata al capo dell’ufficio legislativo, Mauro Vitiello. Le dimissioni arrivano poco dopo la telefonata con Il Fatto quotidiano (e la pubblicazione sul sito de ilfattoquotidiano.it dell’articolo di Marco Lillo e Antonio Massari: “Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero”) che ha letto a Baldi le intercettazioni delle conversazioni con Luca Palamara del periodo aprile-maggio 2019. In quelle conversazioni Baldi parlava di raccomandazioni in favore di una pm e di una giudice che volevano andare a lavorare al Ministero di via Arenula. Intorno alle 20, terminata la telefonata, Baldi ha avuto un colloquio con il Ministro Alfonso Bonafede. Alla fine del colloquio si è deciso a dare le dimissioni dal suo incarico che ricopriva dal 28 giugno del 2018.
Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero. Il capo di gabinetto: “Che cazzo li piazziamo a fare i nostri?” Fonti vicine al ministro fanno sapere che Bonafede non ha apprezzato le logiche correntizie rivendicate da Baldi nelle conversazioni telefoniche con Luca Palamara. Il Capo di Gabinetto (ovviamente mai indagato) parlava con il suo amico e compagno di corrente nel periodo in cui Palamara era indagato e intercettato dal Gico della GdF di Roma in un’inchiesta segreta dei pm di Perugia che da poche settimane si è chiusa con il deposito degli atti e l’accusa di corruzione nei confronti dell’ex consigliere del Csm. All’epoca Baldi, che ha militato per moltissimi anni in Unicost, corrente centrista della quale Palamara era leader e consigliere Csm uscente, non poteva sapere che Palamara era indagato, ma poteva conoscere l’esistenza del fascicolo perugino (allora senza indagati) che fu svelata dal Fatto il 27 settembre del 2018. Il posto di capo gabinetto resta vacante, ma Alfonso Bonafede ha per ora affidato la reggenza proprio a Mauro Vitiello, il capo dell’ufficio legislativo citato nelle intercettazioni di Palamara con Baldi. Mauro Vitiello, a detta di Baldi, dopo un colloquio ad aprile 2019 con una pm di Modena che voleva venire al ministero, non aveva voluto prenderla. La dottoressa Katia Marino era stata raccomandata a Baldi da Luca Palamara. Tuttora lavora alla Procura di Modena e ovviamente non ha nessuna colpa in questa vicenda, avendo solo chiesto all’amico Luca Palamara che stava a Roma se c’era bisogno di una persona nello staff del Ministero. Baldi nelle intercettazioni sosteneva che Vitiello fosse contrario anche perché di area MD, la corrente progressista della magistratura contrapposta di Unicost. Però, come ha spiegato Baldi ieri al Fatto durante il colloquio precedente alle sue dimissioni, “io pensavo allora fosse di Md poi ho scoperto che Vitiello non ne fa parte”. Ora Alfonso Bonafede deve decidere chi sarà il suo nuovo capo di gabinetto, una posizione nevralgica per il funzionamento del ministero.
Giacomo Amadori per “la Verità” il 15 maggio 2020. L'articolo della Verità sulle chat di Luca Palamara ieri ha fatto il giro degli uffici giudiziari, del Csm e delle mailing list delle toghe. In molti sono rimasti colpiti dai discutibili messaggi del consigliere del Csm Marco Mancinetti, sino all' anno scorso in strettissimi rapporti con lo stesso Palamara, oltre che suo compagno di corrente in Unicost. Ma nelle chat depositate presso il tribunale di Perugia spunta anche il nome di David Ermini, attuale vicepresidente del Csm, al cui vertice c' è il capo dello Stato, Sergio Mattarella. Dai messaggi emergono i vecchi rapporti con il pm sotto inchiesta, con Cosimo Ferri e Luca Lotti, lo stesso gruppo che ha sostenuto nel maggio 2019 la candidatura a procuratore di Roma di Marcello Viola, rovinando la carriera di diversi consiglieri del Csm presenti alle riunioni.
I contatti tra Ermini e Palamara iniziano nel luglio 2018. Si erano appena svolte le elezioni per la nomina dei consiglieri del parlamentino dei giudici ed erano iniziate le grandi manovre per nominare il vicepresidente. Palamara era consigliere uscente. «Ciao Luca. Io sono a Roma. Penso di rimanere fino a giovedì o venerdì mattina» scrive Ermini, in quel momento candidato per la prestigiosa poltrona del Giglio magico. Palamara gli dà appuntamento all' hotel Montemartini. «Quando vuoi puoi chiamare Luigi Spina (pm indagato con Palamara a Perugia, ndr) che aspetta tua chiamata», gli fa sapere.
Il 19 settembre 2018 il consigliere uscente in quota Maria Elena Boschi, Giuseppe Fanfani, manda questo messaggio a Palamara: «Confermo martedì ore 21 a casa mia cena riservata io, te, Cosimo e David». Alla serata, a quanto risulta alla Verità, si unirà Lotti. Palamara il 24 settembre fa sapere al futuro vicepresidente che «tutto procede bene» per la sua elezione a vice del Csm. «Grazie», è la risposta. Il giorno della vittoria Palamara festeggia Ermini: «Godo! Insieme a te!». Il neoeletto richiama, ma la telefonata va persa.
Lo stesso giorno Il Fatto Quotidiano ha dato la notizia dell' informativa a carico di Palamara inviata dalla Procura di Roma a Perugia. Ma questo non è sufficiente a raffreddare i rapporti tra il grande elettore e il beneficiato. Il 2 ottobre Palamara propone: «Caro Davide se riesci e non sei stanco ci beviamo una cosa da me dalle 23.30 con Cosimo e Luca (probabilmente sempre Lotti, ndr)». Ermini non può, ma il 3 ottobre, verosimilmente con la stessa compagnia di giro, accetta di prendere un caffè al Montemartini.
Il 12 riscrive Palamara: «Caro David puoi bloccare se non hai altri impegni 22 o 24 ottobre sera? Volevo organizzare cena ristretta con Cafiero de Raho (Federico, procuratore nazionale antimafia, ndr). Un abbraccio e quando vuoi caffè».
Ermini: «Ok. Per ora sono libero tutte e due le date. Fammi sapere». Palamara: «Blocchiamo 22 ottobre». Ermini: «Ok fatto». Al messaggio seguono due pollicioni gialli. Il 17 ottobre il pm torna alla carica: «Caro David ci possiamo sentire un istante appena puoi?». Ermini: «Ti chiamo dopo plenum della mattina». Tra le prime uscite pubbliche del vicepresidente ci sono quella per il seminario della corrente di Magistratura indipendente e quella per il congresso dell' Unione delle camere penali a Sorrento. Entrambi gli appuntamenti si sono tenuti il 19 ottobre 2018. Due giorni prima Palamara scrive: «Per domani entro le 13 ti mando traccia intervento». Il 18 ottobre forse la bozza non è arrivata, perché Ermini sollecita: «Mi mandi un paio di punti per la traccia dell' intervento di domani?».
Passano pochi minuti e il pm replica: «Mi hanno assicurato entro mezz' ora arriva tutto [] Inviata».Qualche giorno dopo Palamara informa il nuovo amico: «Confermato domani sera ore 21 ristorante mamma Angelina». Il 26 ottobre il magistrato si complimenta: «Grande David, ottima intervista: precisa, chiara, puntuale. Ci vediamo a pranzo martedì con Riccardo (probabilmente Fuzio, ex procuratore generale della Cassazione indagato con Palamara a Perugia, ndr)». Ermini: «Ok! Grazie mille».
Il 13 novembre Palamara informa l' interlocutore: «Sono dentro». Il 19 fissano un altro appuntamento. Palamara: «Ciao David ci vediamo dopo Mattarella?». Ermini: «Allora ci vediamo dopo le 12.15. Per me ok». Il 20 novembre commentano un' intervista televisiva di Pier Camillo Davigo: «Anche stasera Davigo debole», è il giudizio di Palamara. «Va troppo spesso in tv... secondo me così si inflaziona [] alla fine non fa più notizia», chiosa Ermini. Il 20 dicembre i due fissano per un caffè al Montemartini, ma poi con un lungo messaggio di giustificazione Ermini annulla l' appuntamento.
Palamara il 14 gennaio propone un' altra cena con Cafiero de Raho e Riccardo. Ermini: «Il 21 non ci sono. Il 22 va bene». Il 20 gennaio Palamara si complimenta («Bravissimo»), Ermini ringrazia. Il 21 gennaio: «Confermato domani sera ore 21 a casa mia [] ci saranno Cafiero, Riccardo e Cosimo». Ermini: «Ok». Il 25 gennaio nuovi complimenti del pm sotto inchiesta a Ermini: «Hai fatto grande intervento... ottimo anche passaggio su Csm e giudice Anm. Un abbraccio». Ermini è soddisfatto: «Grazie Luca!».
A febbraio Palamara vuole coinvolgere il vicepresidente in un torneo di calcio in Calabria. Ermini prova a obiettare che lo stesso giorno «c' è un mega convegno a Milano». Ma a togliere le castagne dal fuoco ci pensa lo stesso Palamara spiegandogli che ha rinviato «l' evento culturale e sportivo» a dopo la chiusura delle scuole: «Quindi puoi cancellare impegno del 12 aprile e andare tranquillamente a Milano», gli concede Palamara. «Ok grazie», ribatte grato Ermini. Il 22 febbraio 2019 Il Fatto pubblica un articolo intitolato: «Ermini e i pasdaran pd, la rimpatriata a pranzo». Palamara: «Ho letto ora quello schifo». Ermini: «Grazie». Gli ultimi messaggi vengono scambiati alla vigilia dell' esplosione dello scandalo.
Palamara: «Caro David siamo in ripartenza da Pristina ci vediamo presto a Roma. Buona permanenza (in Kosovo, ndr) un abbraccio». Ermini: «Grazie. Buon Viaggio! Ho visto la foto della squadra!». Dalle carte spuntano anche le presunte invasioni di campo di Stefano Erbani, consigliere giuridico di Mattarella, ex magistrato segretario del Csm ed esponente di spicco di Magistratura democratica. A parlarne sono Palamara e Valerio Fracassi, capogruppo al Csm del cartello di Area, quello dei giudici di sinistra. Il 27 marzo 2018 Fracassi chiede a Palamara di spingere su Fuzio per rinviare la nomina del vicesegretario del Csm. Dice testualmente: «Erbani non può imperversare così». In un altro messaggio si lamenta: «Decide tutto Erbani». Il 10 aprile aggiunge: «Erbani sta contattando anche Fuzio. Credo che ora esageri e merita una risposta».
Il 12 aprile commenta: «Siamo alla volata finale. Erbani sostiene di aver parlato con ciascuno di voi e di avere ottenuto assenso». A voler credere a queste chat Erbani si comporta come se fosse un consigliere del Csm o un capo corrente. Fracassi continua: «L' uomo è pericoloso! Fidati!». E fa un invito a Palamara: «Usa la stessa determinazione che hai adoperato quando hai fatto vincere Fuzio contro le indicazioni di Giovanni Legnini (all' epoca vicepresidente del Csm, ndr)». Dalle chat si evince che un altro tema di discussione è la riorganizzazione della sezione disciplinare. Fracassi: «Chi sai tu (forse un altro consigliere di Area, ndr) si è sentito più forte e ha pensato che ormai se rovescia il tavolo può farlo senza conseguenze perché io sono più debole. Per il disciplinare qualcuno è andato anche da Erbani che ne ha parlato a chi puoi immaginare. Tutto si collega a una delegittimazione complessiva e alla solita doppiezza di chi occupa i posti, ma poi fa il moralista sugli altri».
Grazia Longo per lastampa.it il 15 maggio 2020. Travolto dallo scandalo Palamara, si è dimesso il capo di Gabinetto del ministero della Giustizia. In una nota ministeriale si legge che Fulvio Baldi ha abbandonato il suo incarico «per motivi personali», dopo un colloquio con il Guardasigilli Alfonso Bonafede, avvenuto ieri sera. Ma la decisone presa coincide con le polemiche scaturite dopo le rivelazioni di un articolo de «Il Fatto quotidiano» che rivelava alcune conversazioni intercettate nell’ambito dell’inchiesta di Perugia tra il pm (ora sospeso) Luca Palamara e l’ex capo di Gabinetto del ministero, che risulta però estraneo alle indagini. L’inchiesta di Perugia è stata chiusa e dalle intercettazioni della Guardia di finanza emerge uno spaccato di forte ingerenza di Palamara anche al ministero. Bonafede ha comunque ringraziato Baldi per il lavoro portato avanti dal giugno 2018. La reggenza è stata momentaneamente affidata al capo dell’ufficio legislativo, Mauro Vitiello. Dalle carte delle indagini perugine si evince lo stretto rapporto di amicizia e «collaborazione» tra Fulvio Baldi e Luca Palamara. Quest’ultimo lo chiamava «Fulvietto» e lo contattava per ottenere favori in via Arenula. Gli suggeriva magistrate da sistemare negli staff nei ministeri. E Baldi rispondeva: «Te la porto qua stai tranquillo, perché è una considerazione che ho per te, un affetto che ho per te e lo meriti tutto». E se Palamara era perplesso Baldi lo rassicurava: «Se no che cazzo li piazziamo a fare i nostri?». Per «nostri», con molta probabilità, si intendono i magistrati di Unicost, la corrente moderata delle toghe, il cui leader era proprio il pm indagato nell’inchiesta sulle nomine al Csm. Fulvio Baldi, ex sostituto procuratore generale della Cassazione, candidato nel 2012 al Comitato Direttivo dell’Anm per Unicost per quasi due anni è stato il capo di Gabinetto di Alfonso Bonafede. Oltre a Baldi aderisce a Unicost anche Francesco Basentini, scelto dallo stesso Bonafede per guidare il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), fino alle recenti dimissioni. Basentini è il magistrato che a Potenza ha seguito le indagini su Total e poi su Eni. La sua inchiesta petrolifera nel 2016 portò alle dimissioni dell’allora ministra dello Sviluppo Federica Guidi. Nell’ufficio di gabinetto del ministero della Giustizia c’è anche Leonardo Pucci, vice di Baldi ed ex compagno di studi a Firenze di Bonafede. Assistente volontario del professor Giuseppe Conte dal 2002 fino al 2009, poi giudice del lavoro a Potenza dal 2009 al 2015. In Basilicata Pucci frequenta non solo Basentini ma anche Luigi Spina, che è diventato consigliere del Csm di Unicost, ed è stato travolto dall’indagine per le intercettazioni con l’amico Palamara.
Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera il 16 maggio 2020. «Mi sono dimesso per tutelare il ministro e l' istituzione, che vengono prima di tutto», spiega il magistrato Fulvio Baldi, da poche ore ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia per via di alcune intercettazioni tra lui e l' ex componente del Consiglio superiore della magistratura Luca Palamara. Il quale è indagato per corruzione dalla Procura di Perugia, come s' è scoperto un anno fa, ma fino ad allora era una delle toghe più influenti d' Italia; per le cariche ricoperte (è stato anche presidente dell' Associazione magistrati) e la disponibilità a dare e ricevere indicazioni e segnalazioni. È ciò che svelano le registrazioni dei suoi colloqui e dialoghi WhatsApp , emersi con la conclusione dell' inchiesta perugina. Compresi quelli in cui Palamara insisteva con Baldi (appartenente a Unità per la costituzione, la sua stessa corrente, scelto come capo di gabinetto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nel giugno 2018) perché portasse al ministero una collega: il 27 novembre 2018 la nominava scrivendogli «Ricordati», e il 15 aprile 2019, fallito ogni tentativo da parte di Baldi, si lamentava con i gruppi della sinistra giudiziaria: «L' hanno bruciata... i soliti». Un contesto che ha molto irritato Bonafede, ignaro di tutto e già turbato dal «caso Di Matteo», dall' emergenza scarcerazioni (vera o presunta che sia) che l' ha spinto a cambiare il vertice dell' Amministrazione penitenziaria, dalla mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni, in calendario la prossima settimana. E dopo il faccia a faccia con il ministro, il suo più stretto collaboratore non ha avuto alternative al passo indietro. Per provare a salvare il salvabile. Baldi non può negare di aver cercato di soddisfare le richieste di Palamara (anche con frasi poco piacevoli, del tipo «allora che cazzo piazziamo a fare i nostri?»), e ammette che «le chiamate al ministero si fanno su base fiduciaria, attraverso i filtri della conoscenza personale e la mediazione di altri; non ci vedo alcuna patologia». Dopodiché aggiunge: «Certe frasi appartengono al gergo sindacale, ma il ministro Bonafede non ha mai voluto sentire parlare di correntismo; io ho avvertito il suo imbarazzo e ho deciso di dimettermi». Conclusione: «Io parlavo con Palamara, autorevole esponente della mia corrente, già componente del Csm e presidente dell' Anm, che non aveva scritto "indagato" sulla fronte. Ma in questi due anni il ministro e il ministero non sono stati minimamente intaccati dal fenomeno del correntismo». Resta però il «fenomeno Palamara», che nonostante avesse lasciato il Csm continuava - per come emerge dalle intercettazioni - a tentare di condizionarne il funzionamento e le decisioni. Non solo con le ormai note riunioni segrete a cui partecipava assieme ai deputati Cosimo Ferri (giudice anche lui, leader-ombra di Magistratura indipendente) e Luca Lotti. Il 27 settembre 2018, giorno dell' elezione dell' ex parlamentare pd David Ermini a vice-presidente del Csm, frutto di un accordo tra Unicost e Mi, Ferri scrive: «Luca ho voglia di abbracciarti! Sei stato decisivo, straordinario, ma soprattutto ho trovato un amico che vale un tesoro». Palamara risponde: «Insieme non ci ferma più nessuno!!». In seguito i neo-alleati avranno di che lamentarsi dei comportamenti di Ermini, ma qualche ora dopo Palamara propone di fare «un bello scherzetto sul disciplinare (la sezione disciplinare da costituire nel nuovo Csm, ndr )», e Ferri replica: «Ci stavo pensando ora, incredibile». Una settimana dopo, evidentemente a fronte di un problema per il quale Palamara chiedeva un colloquio urgente, Ferri scrive: «Se regge blocco con Unicost è irrilevante. Non ti fidare tanto di quelli di Forza Italia, c' è dietro la Casellati (presidente del Senato, ex «laica» del Csm, ndr )». Tra i mille contatti di Palamara c' è pure il segretario del Pd Nicola Zingaretti, al quale il magistrato, di cui molti intuivano le aspirazioni politiche, fa grandi complimenti ad ogni affermazione o evento importante: la rielezione a governatore del Lazio, il lancio della candidatura alle primarie, l' elezione a segretario: «Grande Nicola!!!». Il resto del messaggi conservati sono per lo più appuntamenti per caffè o aperitivi, uno per la presentazione del nuovo commissario dell' istituto giuridico regionale. Il 28 maggio Palamara chiede un altro incontro, Zingaretti propone il 30, il 29 esce sui giornali la notizia che il magistrato è indagato per corruzione, l' appuntamento viene rinviato. L' indomani scatta la perquisizione a Palamara e il sequestro del telefonino.
Il retroscena: perché è stato silurato Fulvio Baldi, braccio destro di Bonafede. Paolo Comi su Il Riformista il 16 Maggio 2020. Non c’è due senza tre a via Arenula. Dopo le dimissioni del capo dell’Ispettorato Andrea Nocera, indagato per corruzione, quelle del capo del Dap Francesco Basentini, travolto per la (non) gestione delle carceri durante emergenza Covid-19, ecco il turno di quelle del capo di gabinetto Fulvio Baldi. La pubblicazione questa settimana sul Fatto Quotidiano dei suoi colloqui con Luca Palamara, contenuti nel fascicolo della Procura di Perugia che lo scorso anno terremotò il Csm, è stata fatale all’ormai ex uomo di fiducia di Alfonso Bonafede. “Fulvietto”, come lo chiama Palamara, più che un capo di gabinetto di un ministro, leggendo le trascrizioni delle conversazioni, sembra il capo dell’ufficio di collocamento magistrati. Palamara, già ras indiscusso di Unicost, la stessa corrente di Baldi, nell’estate del 2018 ha un problema: piazzare “fuori ruolo” due magistrate. Si tratta di Katia Marino, sostituto procuratore a Modena, e Francesca Russo, giudice del Tribunale di Roma. Baldi è pronto ad esaudire i desiderata di Palamara ma ha finito i posti al gabinetto del Ministero. Si rivolge al collega Mauro Vitiello, capo del Legislativo, ufficio dove i posti ci sono ancora. Vitiello, però, è di Magistratura democratica, la corrente di sinistra, e si mette di traverso. Palamara non si perde d’animo e cerca una sponda con Nicola Clivio, suo collega al Csm in quota Md, ma senza successo. L’exit strategy, per non fare brutta figura, pare essere il Dag, il Dipartimento degli Affari di Giustizia (all’interno del quale c’è la direzione che Bonafede voleva dare in quelle settimane a Nino Di Matteo, ndr), presidiato da Maria Casola, altra esponente di punta di Unicost. Palamara è dubbioso sulla soluzione proposta da Baldi e quindi chiede: «Se la prende lei o no?». Baldi replica: «Eh beh ma la Casola è nostra ragazzi, gliela indichiamo noi che cazzo, e allora che cazzo piazziamo a fare i nostri?». Passando i giorni senza che situazione si sblocchi, ecco spuntare dal cilindro di Baldi l’Ufficio contenzioso del Ministero degli esteri. A differenza degli incarichi a via Arenula questo posto non ha indennità economiche aggiuntive. E poi c’è il problema della lingua inglese che il giudice Russo non conosce. L’esplosione del caso Palamara qualche mese più tardi interrompe l’attività dell’ufficio di “collocamento” e le due magistrate restano al loro posto. Sul fronte del Csm, invece, altre intercettazioni riportate dal quotidiano La Verità, molto attivo in questa fase insieme al Fatto (nel silenzio, invece, del Corriere, Repubblica e Messaggero, i giornali che lo scorso anno pubblicarono le intercettazioni che costrinsero alle dimissioni cinque consiglieri, cambiando gli equilibri al Csm e stoppando la corsa di Marcello Viola alla Procura di Roma), hanno svelato ieri il ruolo di Md, la corrente del molto attivo presidente dell’Anm Luca Poniz, nella spartizione degli incarichi. Attività che si pensava fosse esclusivo appannaggio del duo Palamara-Cosimo Ferri. Dai colloqui con Massimiliano Fracassi, nella scorsa consiliatura capo delegazione delle toghe di sinistra a Palazzo dei Marescialli, si discute della nomina del vice segretario generale del Csm. Nella scelta sembra si sia intromesso Stefano Erbani, esponente di Md distaccato al Quirinale. «L’uomo è pericoloso, fidati», dice allora Fracassi a Palamara. L’incarico andrà poi a Gabriele Fiorentino, componente del comitato esecutivo di Md. Palamara, comunque, ha un rapporto di ferro con David Ermini (Pd) da lui imposto alla vicepresidenza del Csm. I due si sentono spessissimo. Il giorno dell’elezione Palamara gli scrive due messaggi: “Godo!!!” e “Insieme a te!!!”. Ermini ha in grande considerazione Palamara al punto che, bypassando gli Uffici relazioni esterne del Csm, gli chiede la cortesia di scrivere gli interventi che deve pronunciare ai convegni. In attesa della probabile pubblicazione di ulteriori intercettazioni, alcuni aspetti non tornano. Il primo è come mai il livello di fiducia dei cittadini italiani nella magistratura sia ancora attestato su un elevato 36%. Il secondo riguarda i laici del Csm, stimati professori universitari e avvocati, che continuano ad entrare a Palazzo dei Marescialli senza provare alcun disagio.
Carceri, dopo le scarcerazioni dei mafiosi via il capo dell’ufficio detenuti.
Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 da Liana Milella su La Repubblica.it Era stato condannato per l'omicidio dell'agente Magli. Giulio Romano era al vertice della struttura che si occupa specificatamente del controllo sui detenuti. Si sarebbe dimesso "per ragioni personali". Ancora dimissioni al vertice delle carceri. Dopo il direttore Francesco Basentini, lascia adesso il direttore dell’ufficio detenuti Giulio Romano, una figura gerarchicamente strategica nel Dap, poiché sovrintende proprio alla collocazione dei reclusi nelle singole prigioni, ne controlla e autorizza gli spostamenti, si occupa anche del loro trattamento. Per intenderci, quando al vertice di questa struttura c’era l’attuale pm di Marsala Roberto Piscitello fu lui che seguì i casi di Riina e Provenzano che chiedevano, per gravi motivi di salute, di lasciare i rispettivi penitenziari per essere trasferiti in normali ospedali. Piscitello invece propose soluzioni interne, cioè le sezioni degli ospedali già attrezzate per ospitare i detenuti posti al 41bis. Il vertice dell’ufficio detenuti, lo dice la parola stessa, è strategico nella gestione di chi entra ed esce dalle carceri, della sua sistemazione, dei suoi trasferimenti per i processi, dei compagni di cella. Si tratta di un vero e proprio osservatorio che deve avere una sensibilità estrema su quanto accade ogni giorno nelle prigioni. Giulio Romano era al Dap da febbraio, quindi da pochi mesi. Proveniva dalla Cassazione, dov’era stato sostituto procuratore generale dopo un passato da magistrato di sorveglianza. Lo scrive il sito Poliziapenitenziaria.it che dà la notizia delle dimissioni, senza fornire ulteriori informazioni. Arido di notizie anche il ministero, nonché il vertice del Dap: per tutti è stato Romano stesso a lasciare. Ma non ci vuol molto a leggere le sue dimissioni dopo le polemiche dei giorni scorsi sulle scarcerazioni dei quasi 500 mafiosi (di cui però la metà non definitivi, quindi in stato di carcerazione preventiva), di cui tre al 41 bis, ma gli altri collocati nell’area cosiddetta di Alta sorveglianza Tre, quella più attenuata, nella quale comunque sono reclusi capi e picciotti organici a Cosa nostra. Ormai è noto che una causa scatenante delle scarcerazioni decise dai magistrati di sorveglianza è stata la circolare del 21 marzo in cui il Dap scriveva ai suoi provveditori e direttori delle carceri per sollecitare l’invio senza ritardo alla magistratura, in relazione al rischio Covid, degli elenchi di detenuti con gravi patologie (di cui c’era anche l’elenco), nonché di quelli che superavano i 70 anni. Un foglio firmato di sabato da una funzionaria. Che invece, proprio per il suo significato e le conseguenze che poteva produrre (come in effetti ha prodotto), avrebbe dovuto essere firmato da un responsabile ad alto livello delle prigioni. Quel foglio, comunque, una volta giunto sui tavoli dei magistrati, ha sortito l’unico effetto che poteva avere: valutare la segnalazione del Dap come un motivo in più per scarcerare e mettere ai domiciliari chi chiedeva di uscire in quanto malato. Così è avvenuto. La circolare, di fatto, è già costata la testa del direttore Basentini, che il primo maggio ha rassegnato le dimissioni. Nel frattempo il Guardasigilli Alfonso Bonafede aveva nominato anche un vice capo del dap, l’ex pm Roberto Tartaglia, occupando una poltrona che era rimasta vuota. Nonché il nuovo capo, l’ex procuratore generale di Reggio Calabria Dino Petralia. Adesso, con il passo indietro di Romano, si chiude il cerchio delle responsabilità che hanno portato alle scarcerazioni, anche non valutando a fondo le conseguenze di una circolare come quella del 21 marzo. Ma nel frattempo non solo è scoppiata la polemica su Bonafede, ma il governo ha dovuto fare ben due decreti legge per rivalutare le scarcerazioni già fatte. Sono tornati dentro Francesco Bonura, Cataldo Franco, Carmine Alvaro, Antonino Sacco. Ieri è stata rinviata, per difetti nella notifica, la seduta del tribunale di sorveglianza di Sassari che deve rivalutare i domiciliare di Pasquale Zagaria.
Uno scandalo il ministero di giustizia in mano ai Pm. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 17 Maggio 2020. Come era del tutto prevedibile, le intercettazioni depositate dalla Procura di Perugia a conclusioni delle indagini su quello che si è voluto fino ad oggi spacciare come “il caso Palamara”, terremotano da subito gli assetti e gli equilibri della magistratura italiana: si è appena dimesso il capo di Gabinetto del Ministero di Giustizia, e ne vedremo ancora delle belle. Intanto, sarebbe il caso di piantarla con questa definizione di comodo della inchiesta, che non riguarda una persona ma, come è del tutto evidente, un sistema ben radicato e strutturato, da sempre al centro dell’attenzione e dell’impegno associativo della magistratura italiana. È il sistema dei “fuori ruolo”, cioè del massiccio trasferimento di centinaia di magistrati dal ruolo per il quale hanno vinto il concorso a ruoli di primo piano nei vari Ministeri, in primis quello di Giustizia ovviamente, per i quali non è ben chiaro quali titoli possano esattamente vantare più di un pubblico funzionario che abbia invece vinto uno specifico concorso nella Pubblica Amministrazione. Il sistema funziona benissimo da anni, è strutturato ed oliato a puntino per riprodurre in questo organigramma di vero e proprio sconfinamento tra poteri dello Stato i tumultuosi equilibri correntizi della magistratura. Come tutti i sistemi di potere, esso esprime di volta in volta uno o più protagonisti, uno o più leader, con connotazioni e qualità personali diversi, con inciampi o degenerazioni più o meno evidenti e gravi: ma il sistema resta, ed è quello il problema, non le persone che lo interpretano meglio o peggio. Siamo un caso unico nel mondo, e non c’è verso che qualcuno ce ne spieghi la ragione in modo convincente. Soprattutto perché si tratta di un sistema che letteralmente sovverte il principio fondamentale della separazione dei poteri. O vogliamo forse sostenere che la foglia di fico della collocazione fuori ruolo risolva questo scandalo costituzionale? Le intercettazioni depositate dalla Procura perugina dovrebbero finalmente porre fine alla sceneggiata delle solite anime belle che ora trasecolano, e dell’esercito di ipocriti o di pavidi che da sempre fingono di non capire. Il Ministero di Giustizia nel nostro Paese è consegnato mani e piedi alla Magistratura associata, che lo occupa con scientifica precisione quale che sia il colore del governo democraticamente eletto […]. Questo quadro di alterazione del rapporto tra poteri costituzionali è aggravato e reso ancora più inquietante dal peso davvero abnorme che la giurisdizione penale ha, come è a tutti noto, assunto da venticinque anni a questa parte sull’ordinario fluire della vita politica ed amministrativa nel nostro Paese. La Politica, sia locale che nazionale, è sempre più evidentemente ridotta ad un ruolo ancillare rispetto al potere giudiziario. D’altronde, non potrebbe essere diversamente, visto come in questo Paese possa essere sufficiente la iscrizione nel registro degli indagati per segnare le sorti politiche di un Ministro, di un sindaco, di un Governatore, e delle rispettive maggioranze politiche […]. Dunque, quello che va in scena a Perugia non è il caso Palamara ma è il caso Italia: una democrazia malata, con un potere giudiziario strabordante ed incontrollabile, dentro e fuori dai propri ambiti funzionali, ed una classe dirigente che, da ultimo, conquistato il potere proprio con le armi della criminalizzazione dell’avversario politico e la santificazione della magistratura, ora raccoglie i cocci di questo disastro e ne viene travolta […]
Dagospia il 17 maggio 2020. Rispondendo a un lettore del Fatto, ieri Travaglio ritorna sul caso Di Matteo-Bonafede: “Di Matteo ha accettato in prima battuta l’incarico agli Affari penali, allora Bonafede ha affidato il Dap a Basentini, ma poche ore dopo Di Matteo ha cambiato idea. Cosa legittima, che però gli ha impedito di andare al Dap, già occupato”. "Non ho mai fatto trattative politiche con nessuno, ma venni raggiunto da una telefonata del ministro Bonafede che mi chiese se ero interessato a diventare capo del Dap o prendere il posto di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo, nel frattempo ero stato informato della reazione preoccupata all'indiscrezione da parte del mondo mafioso. Dopo meno di 48 ore andai trovare il ministro che mi disse che ci aveva ripensato e mi chiese di accettare il ruolo di direttore generale degli affari penali del ministero. Nel giro di 48 ore mi sono ritrovato a essere designato a capo del Dap e quando accettai mi trovai di fronte a questo cambio".
Liberoquotidiano.it – del 6 maggio 2020. Nino Di Matteo non smentisce una virgola di quanto annunciato in diretta a Non è l'Arena sulla sua mancata nomina alla presidenza del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. "I fatti sono quelli, il mio ricordo è preciso e circostanziato" ribadisce in una lunga intervista a Repubblica. Il pm antimafia racconta di una telefonata di Alfonso Bonafede avvenuta il 18 giugno scorso. "In quell'occasione il ministro della Giustizia mi pose l'alternativa, andare a dirigere il Dap oppure prendere il posto di capo degli Affari penali. Aggiunse che dovevo decidere io e subito perché mercoledì ci sarebbe stato l'ultimo plenum utile del Csm per presentare la richiesta di fuori ruolo. Richiesta che era urgente per il Dap, ma non lo era per la direzione degli Affari penali". E così Di Matteo decise: "Andai a Roma da lui e gli dissi che accettavo il posto di capo del Dap. Lui però, a quel punto, replicò che aveva già scelto Basentini, mi chiese se lo conoscessi e lo apprezzassi. Risposi di no, che non lo avevo mai incontrato". Una vera e propria sorpresa. Per il pm "quella notte qualcosa mutò all'improvviso". Il Guardasigilli - stando al racconto di Di Matteo - insistette sugli Affari penali. Non dissi subito no, ma manifestai perplessità. Siamo a giugno, disse Bonafede, lei mi manda il curriculum, a settembre sblocchiamo la situazione". Ma queste non erano più le condizioni ottimali per il magistrato che, a quel punto, lo chiamò per dirgli che così non poteva andare. "Cose come queste sono indimenticabili - sottolinea -. Come il nostro ultimo scambio di battute. Io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali 'non c'è dissenso o mancato gradimento che tenga'. Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente mi ha fatto pensare".
Giacomo Amadori per la Verità il 17 maggio 2020. Dopo le dimissioni del capo di gabinetto del ministro Alfonso Bonafede «Fulvietto» Baldi, a traballare sono le poltrone di due consiglieri del Csm, il vicepresidente David Ermini, membro del parlamentino dei giudici in quota Giglio magico, e Marco Mancinetti, portabandiera della corrente Unicost in consiglio. Le loro chat, non meno imbarazzanti di quelle di Baldi, sono diventate di dominio pubblico, ma loro resistono. Almeno per ora. Il problema è che la marea di carte depositate nel cosiddetto caso Csm contiene messaggi e intercettazioni che non risparmiano neppure la coalizione dei giudici di sinistra, il cartello di Area. Infatti per un decennio Palamara ha deciso e spartito incarichi e promozioni con toghe progressiste come Valerio Fracassi, ex capogruppo di Area nella consiliatura 2014-2018. Il 15 marzo 2018 Fracassi scrive: «Ricordati che ti ho votato Pasca a patto che mi sistemassi Orlando!!!». Non basta. Prima di lasciare il posto al Csm Francassi chiede di non pubblicare il posto di presidente di sezione del tribunale di Brindisi «che è quello in cui tornerò». Così i vecchi portabandiera. Ma anche il nuovo capogruppo di Area al Csm, Giuseppe Cascini era legato a Palamara. Il quale, ai magistrati che lo interrogavano, un anno fa ha spiegato: «Con lui ho avuto sempre un rapporto stretto di amicizia, ho condiviso un' importantissima esperienza all' Anm e sono stato una delle persone che più di tutti ha favorito la sua nomina di aggiunto a Roma, che fu una nomina molto controversa e ostacolata». In effetti nel novembre 2017 Palamara incontra l' amico in un bar poco prima della votazione per la promozione. Poi lo informa in tempo reale degli esiti della prima tranche di nomine in quinta commissione. Ma il messaggio più atteso è questo: «4 voti Cascini, 1 Colaiocco». Palamara domanda: «Quando festeggiamo da Piero anche con Annina?». I due si danno appuntamento per diverse pause caffè e, in una chat, Cascini chiede come sia «messo» il collega Stefano Pesci per «aggiunto Bologna». Palamara ammette che è dura. Qualche mese dopo andrà meglio: «Anche Stefano ok. Lo porto unanime la prossima settimana», annuncia trionfante il king maker delle nomine nel febbraio 2018. Il 3 aprile Cascini, candidato al Csm, chiede a Palamara di potersi accodare in una trasferta per una partita di pallone, a cui non vuole, però, partecipare come calciatore («Ho appeso le scarpette al chiodo. Come Totti»): « Hai già fatto la squadra per Lecce? Io verrei come mascotte per bieche ragioni elettorali». Il 4 maggio 2018 Cascini chiede a Palamara di intervenire per arginare l' onnipresenza mediatica di Pier Camillo Davigo, oggi suo grande alleato: «Tu che hai rapporti con Enrico Mentana fagli presente che è una grave scorrettezza far fare tutte queste ospitate a Davigo candidato al Csm. In una settimana ha fatto Dimartedì e Piazzapulita». Palamara: «Già lo avevo fatto è una vergogna quello che fanno con Davigo». II 27 settembre 2018 sui giornali appare la notizia dell' informativa su Palamara per una presunta storia di corruzione inviata a Perugia dallo stesso Cascini e da altri colleghi. Eppure il 4 ottobre Cascini e Palamara fissano l' ennesimo appuntamento al bar Settembrini di Roma. Forse il campione di Area non riteneva particolarmente grave l' accusa formulata contro Palamara di aver scroccato qualche viaggio all' imprenditore Fabrizio Centofanti. Fatto sta che il 18 ottobre Cascini, nel suo piccolo, prova ad avere gratis un biglietto per il figlio per la partita di Champions league Roma-Cska Mosca. Infatti i consiglieri hanno diritto a un posto in tribuna autorità, i parenti no: «Ciao Luca hai qualcuno da indicarmi al Coni con cui posso parlare per i biglietti dello stadio per portare anche Lollo (il figlio ventenne, ndr)?». «Bisogna parlare direttamente con la segreteria. Ora mi informo e ti faccio sapere» lo ragguaglia l' amico. Cascini: «Io ho fatto la tessera per me. Ma quello che ho in segreteria al Csm dice che non danno altri biglietti». Per fortuna verrebbe da dire. Palamara chiede i dati di Lollo, ma purtroppo «le scorte biglietti in tribuna autorità sono esaurite» e il pm indagato prova a trovare un' altra soluzione: «Se vuoi chiediamo per altro posto alla Roma come per Rocco (figlio di Palamara, ndr)». «Non ti preoccupare ora vedo io», ribatte Cascini. Il quale prova a rendersi autonomo: «Però dammi contatto. Non posso romperti i coglioni per ogni partita». Grazie alle chat apprendiamo che Palamara si è dovuto preoccupare anche del fratello minore di Giuseppe Cascini, Francesco. Quest' ultimo, alla fine dell' estate del 2017, dopo essere stato fuori ruolo per quasi 11 anni al ministero, sta provando ad andare come pubblico ministero alla Procura di Roma anziché tornare a Napoli. Fortuna vuole che i tempi del suo rientro si allunghino sino alla pubblicazione del bando per un posto da pm nella Capitale. «Luca, ho mandato l' integrazione (documenti per aumentare il punteggio, ndr), sai qualcosa? [] secondo te come si mette?», scrive il candidato che si contende la poltrona con il collega Carlo Villani. Palamara: «Sto cercando di rimetterla a posto. Sono fiducioso». Cascini jr: «Luca grazie speriamo bene al plenum [] Grazie davvero senza di te non avevo speranze». Palamara: «Devo tenere a bada la San Giorgio (Maria Rosaria, una delle esponenti di punta di Unicost, ndr)». Qualche giorno dopo Palamara informa il suo pupillo che «sta andando bene in commissione (la terza, quella che si occupa dei trasferimenti, ndr)». Cascini jr: «Meno male, grazie. Ma sai quando va in plenum?». Palamara: «Non ancora, è combattuta». Cascini jr: «Ma non è già passata 3 a 3?». Palamara: «Stanno discutendo di nuovo». In quelle ore è in fibrillazione pure Cascini senior. A cui Palamara scrive: «Ora in terza (commissione, ndr) a difendere tuo fratello». Dopo poche ore la battaglia è vinta. «Francesco ok». «Grazie Luca», digita il fratello maggiore. «Grazie Luca», gli fa eco il fratello minore.
Simone Di Meo per la Verità il 17 maggio 2020. Quando esplose l' inchiesta per corruzione a carico di Luca Palamara, il procuratore di Milano Francesco Greco fu tra i più duri a fustigare quel «mondo che vive nei corridoi degli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana e che non ci appartiene e non appartiene ai magistrati del Nord... ci ha lasciato sconcertati». Era il giugno 2019. Eppure, agli atti dell' indagine di Perugia emergono anche i suoi Whatsapp con il Belzebù romano in toga. Messaggi di simpatica complicità. Come quello dell' 1 ottobre 2017, quando a Palamara dedica un «Grandi!!!». I due fanno riferimento a un viaggio non meglio specificato, e Greco spiega: «No, a Milano non ci vado... per scaramanzia! Comunque la squadra comincia a girare». La replica di Palamara è positiva: «Si sta migliorando nettamente». La conversazione continua ancora per qualche minuto e si conclude con un appuntamento a Roma. «Al solito posto», gli ricorda Greco (ovviamente non indagato). Con la Procura del capoluogo lombardo, l' ex presidente dell' Anm sembra avere un feeling particolare. Angelo Renna, che da membro della segreteria Unicost definì l' inchiesta di Perugia una «Caporetto» per la magistratura, è tra i contatti più frequenti nel Whatsapp di Palamara. Non solo in occasione degli auguri per le feste comandate, ma soprattutto per parlare delle politiche correntizie e delle nomine negli uffici giudiziari del distretto. «Si, ho proprio grande interesse di fare il punto della situazione con te. Ps: giunge fino qui, nel profondo nord, l' eco della tua maestria nelle nomine dei vertici della Cassazione», gli scrive il 16 dicembre 2017 Renna (anche lui non indagato). Il sostituto procuratore milanese coltiva l' ambizione di andare a fare l' aggiunto («pensavo di chiedere pure Brescia oltre a Bergamo») e spesso si rivolge all' amico per ottenere qualche consiglio. Il 12 marzo, infatti, gli invia questo messaggio: «Caro Luca, venerdì Greco mi ha manifestato sostegno per Brescia, dicendosi disposto a dire ai suoi di sostenermi. Ho raccolto l'endorsement, ma non mi muovo senza che tu mi dica se e che fare... Te lo dico, perché sia tu a valutare. Sei certo molto più bravo di me e, se mi consenti, ti considero un amico e quindi mi affido totalmente. Un abbraccio». Le risposte di Palamara quasi mai entrano nel vivo della questione, almeno quelle che sono state trascritte e depositate agli atti, limitandosi a valutazioni generiche o di attesa. Eppure, Renna pende dalle sue labbra. Tant' è che, dopo una promessa di interessamento da parte del più navigato magistrato, il pm milanese gli rivolge questa dedica affettuosa: «Grazie, quasi mi vergogno a dirlo, ma mi emozioni». E aggiunge, per meglio chiarire il concetto, due emoticon sorridenti. Non sempre però i propositi di Renna si realizzano, e allora giunge il sostegno consolatorio dell' amico pm di Roma. A cui la toga milanese risponde così: «... grazie per la franchezza e la schiettezza della telefonata (sic, ndr) di ieri. Per me significa molto, significa stima e amicizia cioè quello che conta nella vita. Buon fine settimana, caro Luca!». Oltre che alla sua carriera, Renna è interessato anche a quella degli altri. Per questo lancia a Palamara qualche palla da schiacciare. Il 7 ottobre 2017, di buon mattino lo stuzzica con questo messaggio: «E che ne pensi di fare lo sgambetto a Massenz e votare Serafini in Plenum? In Area (il cartello di sinistra dei magistrati, ndr) volerebbero stracci». Una decina di giorni dopo, ritorna alla carica, ma con un altro obiettivo: «Se riuscite a fottere la Savoia sarebbe un gran colpo». Ma Palamara non gli risponde. Dalla chat di Renna si intuisce anche che il suo capo, Greco, avrebbe segnalato all'ex boss di Unicost il nome di Laura Pedio come procuratore aggiunto a Milano nel corso dell' incontro romano del 3 ottobre 2017. Nomina poi arrivata a metà novembre di quello stesso anno.
Guerra tra toghe, Mi denuncia “l’occupazione” del potere delle correnti. Il Dubbio il 18 maggio 2020. Caso Palamara, il durissimo attacco di Magistratura Indipendente: “I protagonisti involontari dei nuovi dialoghi sono i Savonarola di un tempo: i duri e puri che gridavano il loro sdegno li vediamo arroccati nel bunker, si cimentano in sottili distinguo o in maldestri equilibrismi dialettici”. “Già all’indomani dei fatti dello scorso maggio Magistratura indipendente ebbe a indicare il pericolo della superficialità e sommarietà con cui si stavano valutando i noti fatti, tanto da ricordare l’espressione trasformista propria del gattopardismo: "se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi". Con un insopportabile moralismo di maniera ci si è accaniti in modo feroce contro pochi individui, convinti di poter così eludere la realtà e far finta di voler cambiare voltando frettolosamente pagina. Nulla di più errato, insensato e delegittimante”. E’ quanto sottolinea Magistratura Indipendente, in una nota a forma del presidente Mariagrazia Arena, e del segretario Paola D’Ovidio. “Ci trovavamo di fronte ad un allarme, un problema ben più serio e generalizzato che avrebbe richiesto in sede associativa una immediata autocritica collettiva Invece si è preferito cercare la strada più rapida e antidemocratica per la occupazione del potere da parte di una corrente in danno dell’altra”. “Negli ultimi giorni, con una seconda ondata di notizie giornalistiche, sono stati pubblicati stralci di messaggi whatsapp. Per uno strano scherzo del destino, i protagonisti involontari dei nuovi dialoghi sono i Savonarola di un tempo: i duri e puri che gridavano il loro sdegno li vediamo arroccati nel bunker, si cimentano in sottili distinguo o in maldestri equilibrismi dialettici. La Giunta dell’Anm, che un anno fa convocò un Cdc d’urgenza ed assemblee immediate chiedendo dimissioni ed esprimendo giudizi morali, oggi tace – denuncia Mi – evidentemente incapace di individuare soluzioni basate su una, smarrita quanto inutilmente sbandierata, Etica della responsabilità”. Il gruppo di Magistratura Indipendente, ricordano presidente e segretario, “ha avviato per tempo, rispetto a quelle drammatiche vicende, un percorso di sofferta autocritica, operando subito un radicale cambiamento e procedendo, nel segno del totale rinnovamento, unico gruppo nel panorama associativo, a un avvicendamento integrale nelle cariche statutarie al fine di favorire il più ampio contributo di sensibilità ed esperienze professionali”. “Se si vuole (tentare di) restituire credibilità e decoro alla magistratura, è necessario, ora come allora, un atto di riflessione e di autoresponsabilità anche da parte delle altre componenti associative e di tutti coloro che si trovano coinvolti: costoro pensavano forse di essere esenti e che quanto sta emergendo sulla libera Stampa non li colpisse, ma così non è stato. Ciò senza indulgere affatto – assicura Mi – sulle condotte che hanno investito anche Magistratura Indipendente per le quali, è bene ricordarlo, tre Consiglieri del Csm si sono dimessi un anno addietro, a ciò determinati, oltre che per sensibilità istituzionale, da una inaudita, terribile ferocia condita da processi sommari con l’individuazione delle loro persone quali unici capri espiatori”.
L’ATTACCO ALL’ANM. “In questi giorni più testate giornalistiche, con la curiosa assenza di quelle più diffuse, hanno nuovamente consegnato, con un tempismo che fa riflettere, al pubblico dei lettori porzioni di conversazioni di tenore simile a quelle dell’ormai noto caso Palamara, con alcuni nuovi, e molti noti, protagonisti” ma “il governo dell’Anm, con alla guida Area, tace, osserva, medita e non si scandalizza, non favella; eppure alcuni dei timonieri attuali si stracciarono le vesti nel mese di maggio 2019 a fronte di pubblicazioni di intercettazioni con protagonisti, in parte, diversi”. A denunciarlo, in una nota, sono i rappresentanti di Magistratura indipendente nel Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati Gli esponenti di Mi chiedono che “chi governa l’Associazione nazionale magistrati sui più recenti accadimenti prenda posizione; non intendiamo imbastire processi mediatici o di piazza, che lasciamo agli altri, ma vogliamo capire quale reale percorso di rinnovamento abbiano intrapreso i colleghi che, scossi dagli eventi del maggio 2019, oggi governano l’Associazione”.
Bruti Liberati: «Cari magistrati, è ora di finirla con i deliri di onnipotenza». Errico Novi su Il Dubbio il 16 maggio 2020. L’ex procuratore capo di Milano: «Si volti pagina, come chiede il presidente Mattarella: i magistrati devono ritrovare la fiducia dei cittadini». Con Edmondo Bruti Liberati l’espressione “leadership” può declinarsi a pieno anche rispetto alla magistratura. Non solo perché si tratta di una figura che ha guidato l’ufficio inquirente chiave del Paese, la Procura di Milano: Bruti Liberati è stato anche leader in senso stretto di Magistratura democratica, gruppo storico e decisivo dell’associazionismo giudiziario. Ora assiste ai tormenti delle toghe, che non risparmiano gli uffici di via Arenula. E usa un’espressione: amarezza. «È amaro», dice, «vedere un magistrato in preda a un delirio di onnipotenza e altri, non tutti, che non hanno la prontezza di rigettare il suo approccio».
Le notizie sull’indagine di Perugia possono radicare nell’opinione pubblica un’immagine desolante della magistratura?
«Le notizie emerse mostrano un preoccupante decadimento di costume, di cui è indice anche un linguaggio non commendevole, che coinvolge alcuni magistrati in posizioni di rilievo. È amaro vedere un magistrato in preda a un delirio di onnipotenza e altri, non tutti, che non hanno la prontezza di rigettare il suo approccio».
Ma non si tratta di fatti di rilievo penale.
«No e, pare, neppure di rilevo disciplinare: riguardano alcuni singoli magistrati, ma non voglio minimizzare perché viene coinvolto il Csm. Le vicende che oggi vengono alla luce sono degli anni scorsi e arrivano fino ai primi mesi del 2019 toccando il Csm attualmente in carica. Ricordiamo il severo monito rivolto dal presidente Mattarella nella seduta straordinaria del Csm del 21 giugno dello scorso anno: “Oggi si volta pagina nella vita del Csm, la prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficoltà e fatica di impegno. Dimostrando la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione. Occorre far comprendere che la Magistratura italiana – e il suo organo di governo autonomo, previsto dalla Costituzione – hanno al proprio interno gli anticorpi necessari e sono in grado di assicurare, nelle proprie scelte, rigore e piena linearità”».
Quel monito si è tradotto in un effettivo cambio di passo?
«A me pare che una risposta vi sia stata: sia pure dopo qualche titubanza, tutti i consiglieri in qualche modo coinvolti hanno rassegnato le dimissioni, taluni dall’incarico al Csm, altri dalla magistratura. E viviamo in un Paese in cui le dimissioni, a prescindere da un’indagine penale, sono un evento tutt’altro che frequente».
Ma nel Paese la magistratura è stata a lungo considerata un baluardo di credibilità e autorevolezza, nel vuoto di classi dirigenti sempre più pallide: crede che quel baluardo regga ancora, agli occhi dell’opinione pubblica?
«La giustizia si regge sulla credibilità della magistratura, i magistrati sono espressione di un Paese che vede una crisi delle classi dirigenti e una pericolosa svalutazione delle competenze. Le riforme degli studi universitari e post universitari, con le migliori intenzioni, hanno prodotto effetti pessimi. Si è creato un lungo periodo di parcheggio, di pochissima utilità sotto il profilo della formazione, che induce i migliori a trovare altri sbocchi professionali, seleziona per censo coloro che hanno alle spalle una famiglia in grado di mantenerli agli studi fino a trent’anni, stempera nella attesa gli entusiasmi».
Quadro desolante: come si fa a cambiarlo?
«È urgente consentire ai giovani laureati, dopo il quinquennio di studi di giurisprudenza, di affrontare subito il concorso per l’accesso in magistratura. Per i vincitori si deve prevedere un più lungo e organizzato periodo di tirocinio presso la Scuola Superiore della Magistratura. La nostra Scuola, arrivata buona ultima in Europa, ha acquisito efficacia e autorevolezza, grazie anche alla guida dei tre presidenti che si sono succeduti, non a caso tutti ex presidenti della Corte costituzionale. Occorre investire sulla Scuola, sia per il tirocinio iniziale che per l’aggiornamento professionale, e tra i corsi dovrà essere potenziato lo spazio dedicato alla deontologia».
Ma è possibile che la magistratura, avvilita anche da alcune vicende poco commendevoli, rinunci a esercitare un ruolo culturale nel dibattito pubblico e finisca per ritirarsi in una sorta di minimalismo sindacalistico?
«Questo rischio esiste. L’Anm deve occuparsi anche di temi strettamente sindacali, ma la sua lunga storia ha evidenziato la capacità di superare una visione grettamente corporativa e contribuire alle riforme del sistema giustizia. La magistratura deve conquistarsi la fiducia dei cittadini, che non vuol dire assenso acritico e neppure adeguamento al volere della piazza. Si citano spesso sondaggi di opinione sulla percentuale di fiducia nella magistratura che si attesterebbe intorno al 45 per cento. Ebbene, un sondaggio francese del settembre 2019, di Ifop per L’Express, indica la percentuale del 53 per cento per la fiducia nella giustizia, in quadro complessivo in cui tutte le istituzioni hanno un grado di fiducia di circa dieci punti superiori rispetto alla situazione italiana. I molteplici fattori di crisi delle nostre società si ripercuotono ovunque anche sul sistema di giustizia».
Le campagne sulle “scarcerazioni dei boss” e i provvedimenti assunti a riguardo dal governo possono indebolire l’indipendenza dei magistrati di sorveglianza?
«Vi è stata una clamorosa disinformazione: basti pensare che i 3 casi che hanno riguardato detenuti delle categorie pericolose sono divenuti più di 300… Il ministro della Giustizia e il Governo si sono sottratti alla responsabilità di affrontare la situazione di grave sovraffollamento nella emergenza covid- 19 e il problema è stato rovesciato sulle spalle della magistratura e di quella di sorveglianza in particolare. Ogni provvedimento può essere discusso, ma è inaccettabile l’allarmismo sui numeri manipolati e la campagna di aggressione verso chi si è assunto responsabilità, a fronte di una politica latitante».
Ma per tornare alle vicende delle ultime ore, crede che favoriranno la rivincita di chi chiede il sorteggio per eleggere il Csm?
«Il sistema elettorale in vigore, che si proponeva di scardinare il sistema delle correnti, ha ottenuto l’effetto opposto. Il sorteggio è il sistema proposto nel 1972 dall’onorevole Almirante, ma con modifica costituzionale. I tentativi di costruirne oggi declinazioni variamente mitigate ne evidenziano il limite insuperabile. La elettività dei componenti, posta in Costituzione, mira a far vivere il Csm ai magistrati come organo di cui portano la responsabilità. Si fonda anche sulla esigenza di valorizzare l’attitudine per una funzione, che richiede, oltre a tutte le qualità del buon magistrato, anche una ulteriore: la capacità di misurarsi con la organizzazione di un sistema complesso come quello della giustizia».
Non è dunque il sorteggio, la soluzione.
«Le clamorose vicende che hanno investito alcuni componenti del Csm indicano che le peggiori derive sono conseguenza di ambigui occulti rapporti tra “notabili”, sensibili al demone dell’esercizio del potere e delle pratiche di accordi occulti, che si muovono del tutto trasversalmente rispetto a quello che dovrebbe essere l’aperto e trasparente confronto. Le “correnti” della magistratura devono mostrarsi all’altezza del monito del presidente Mattarella: “Voltare pagina”. Il sistema elettorale deve mirare a ridurre il peso degli apparati allargando le possibilità di scelta degli elettori che continuino a fare riferimento ad una o altra corrente. Qualunque riforma deve misurarsi con principi fondamentali: la libertà di opinione e di associazione e il contributo che i corpi intermedi apportano alla vita di un ordinamento democratico, in tutte le sue articolazioni».
Parla Luca Palamara, il magistrato più intercettato e sputtanato d’Italia. Giovanni Minoli su Il Riformista il 16 Maggio 2020. Pubblichiamo un ampio stralcio dell’intervista di Giovanni Minoli al magistrato Luca Palamara, trasmessa giovedì pomeriggio su Radio 1 (“Il Mix delle cinque”). Questa intervista fa seguito a una precedente intervista che andò in onda a novembre e nella quale Palamara aveva proclamato la sua innocenza e aveva detto che aspettava che venissero rese pubbliche le carte dell’inchiesta, visto che fino a quel momento erano usciti (illegalmente) solo brandelli di intercettazioni pubblicati sui giornali. Le carte dell’inchiesta della Procura di Perugia su Luca Palamara sono state depositate, ora sono pubbliche e gli stessi PM di Perugia hanno escluso ogni forma o tipo di corruzione per i 40 mila euro di cui si è lungamente parlato.
Eppure noi abbiamo letto sui giornali i contenuti di tutti gli incontri registrati che lei ha avuto con gli altri magistrati per discutere le nomine delle Procure italiane. Com’è possibile?
«La Procura di Perugia ha trasmesso le intercettazioni al Consiglio Superiore della Magistratura, dopodiché nel mese di maggio quelle intercettazioni sono state interamente pubblicate e riportate dagli organi di stampa».
La titolarità, e quindi, la responsabilità di quei materiali registrati ce l’ha la Procura, Csm? Chi ce l’ha?
«Direi entrambi perché il Codice di Procedura Penale individua come titolare il Procuratore della Repubblica. In questo caso si aggiunge il Consiglio Superiore della Magistratura che aveva la disponibilità di queste carte».
Uno dei due o tutti e due insieme l’hanno fatta uscire?
«Questo non sta a me dirlo. Sarà oggetto di accertamenti. Si trattava di atti non depositati dei quali gli indagati non erano a conoscenza, ma come nel mio caso, ne sono venuto a conoscenza tramite la lettura dei giornali».
Una volta il Procuratore Gratteri, durante un’intervista, mi ha detto che la titolarità e la custodia, quindi la responsabilità di quei materiali è di esclusiva pertinenza dei pm o della polizia giudiziaria. In questo caso si aggiunge il Csm.
«Il Procuratore Gratteri è un esperto in materia. In questo caso, si aggiunge, l’organo al quale erano state trasmesse per primo».
Parliamo del Trojan, di quello strumento, nuovo, che è stato utilizzato per indagini su di lei e in tante altre indagini. È uno strumento valido?
«Assolutamente sì, parlo da vecchio giurista, sia nei casi di mafia che di terrorismo, che in quelli di corruzione ha sicuramente consentito un livello ulteriore di aggressione ai criminali e alla scoperta di tutti questi delitti. Ovviamente deve essere maneggiato con attenzione soprattutto perché coinvolge un tema assolutamente rilevante che è anche quello della tutela della privacy delle persone estranee al reato, che possono trovarsi catapultate in vicende che non le riguardano».
È mai possibile che lei, che ha fatto delle inchieste molto importanti, ricordo una per tutte, Calciopoli, non si sia accorto che gli avevano messo il Trojan nel telefono?
«Assolutamente no, perché le mie conversazioni riguardavano prevalentemente o la mia attività di lavoro o attività politico-giudiziaria, per questo non pensavo potessero mai avere rilievo penale».
Un pubblico ministero come lei che non si è accorto di essere intercettato… Difficile da credere.
«Io ho ispirato la mia vita sempre al rispetto delle regole, alla lealtà e alla trasparenza dell’agire, quindi non pensavo mai che potesse capitare a me».
Per essere concreti, io ho letto sul Fatto quotidiano, che nel caso della nomina a vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura del dottore Ermini, lei avrebbe avuto un ruolo decisivo.
«Io su questo non voglio rispondere. È una considerazione del giornale e come tale la domanda va posta al giornalista. Posso dire che le correnti sono state assolutamente determinanti nella nomina del vicepresidente».
Anche nel caso di Ermini, il ruolo delle correnti è stato determinante come lo è stato in tutte le nomine finora?
«Il ruolo delle correnti è determinante perché il Vicepresidente, la Costituzione prevede che venga eletto tra i laici, quindi è necessario un accordo tra le componenti della Magistratura che notoriamente al Consiglio superiore della Magistratura si raggruppano nelle cosiddette correnti. Quindi se non c’è l’accordo delle correnti non vi può essere alcuna nomina».
Dunque è valso anche per Ermini il metodo delle nomine correntizie: me lo conferma?
«Certo che sì, se non ci fosse accordo, non vi potrebbe essere nomina».
Ancora uno stop. noi abbiamo cercato tre volte il presidente Ermini per avere la sua versione dei fatti, ma il Presidente si è sempre sottratto ad ogni domanda in proposito. Ma riprendiamo l’intervista con Palamara.
Lei pensa che ci sia una relazione tra le nomine da fare nelle Procure italiane all’epoca delle intercettazioni che sono state fatte e le intercettazioni che la riguardavano?
«Diceva qualcuno che a “pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”».
Gli altri indagati: Amara, Calaforiore e Longo. Chi sono esattamente?
«Guardi, l’avvocato Calafiore non l’ho mai visto e conosciuto in vita mia. L’Avvocato Amara penso di averlo visto due volte in eventi conviviali e il dottor Longo l’ho visto una volta. Non ho mai avuto né rapporti, né frequentazioni, né numeri di telefono né quant’altro con loro».
Ancora uno stop : rispetto all’intervista di novembre c’è una novità: oggi con le carte depositate, si vede che anche i pubblici ministeri di Perugia riconoscono la verità di quello che afferma Palamara e ritorniamo all’intervista.
Perché partecipava alle nomine…
«Perché c’era una necessità di capire quello che era il mio ruolo.
Comunque tutto è sembrato un suk, un mercato delle nomine… Le nomine nella magistratura funzionano come un mercato?
«Il termine suk è qualcosa di estremamente negativo, nel quale non mi riconosco. Io posso dire che ho fatto parte del Consiglio Superiore dal 2014 al 2018, sono state realizzate più di mille nomine. Sfido chiunque a dire quali sono state al di sotto del livello di soglia. Io penso che tanti uffici giudiziari hanno tanti importanti magistrati che li guidano. Si può fare meglio, sicuramente, ma da qui a demonizzare tutto quello che è stato fatto è un’operazione sbagliata».
… senza demonizzare, sempre nominati dalle correnti.
«Perché è innegabile che le correnti siano il momento attraverso il quale la gestione del potere giudiziario viene effettuato. Le correnti dominano il mondo della magistratura. L’obiettivo è far sì che le correnti possano aspirare sicuramente a valori più alti».
Nel suo caso, c’erano anche parlamentari insieme a voi a discutere di quelle nomine. Magistrati e politici che si spartivano la giustizia italiana. Questa è l’impressione che c’è stata. Ma le sembra normale?
«Io non voglio affrontare in questa sede la sfera etica dei comportamenti e non mi ritrovo assolutamente nella definizione o nell’accusa che magistrati e politici si distribuiscono gli incarichi. Nel caso dell’On. Ferri, si tratta di un collega Magistrato che conosco sin da bambino, i nostri padri erano Magistrati. Nel caso dell’On. Lotti, ho avuto modo di conoscerlo come Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio al quale due grossi esponenti del mondo politico-istituzionale della magistratura stessa si rivolgevano per affrontare questioni relative alla giustizia».
Però l’On. Lotti che era presente era un parlamentare inquisito proprio dalla Procura di Roma…
«Io non ho frequentato l’On. Lotti come indagato del procedimento Consip, ma l’ho frequentato prima come Sottosegretario e poi come Onorevole. Nel momento delle cene, tengo a precisare che l’On. Lotti era stato già tecnicamente rinviato a giudizio, quindi la sua vicenda processuale con la Procura di Roma era già finita e mai e poi mai ho potuto in qualche modo interferire o influenzare qualcuno».
Quindi i parlamentari non erano protagonisti attivi delle discussioni? Comunque non erano decisivi…
«Erano discussioni fatte in assoluta libertà, il luogo decisionale delle nomine è uno solo: la Quinta Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura e, tutto quello che avviene fuori è sempre avvenuto come momento di discussione politico-giudiziaria».
Lo stesso pm di Perugia che raccomandava alla polizia giudiziaria di spegnere i microfoni nel caso di incontri con parlamentari che fossero frutti di appuntamenti prefissati. In quel caso c’erano stati appuntamenti prefissati?
«Io mi sono sempre mosso con appuntamenti prefissati. Raramente non sono incontri prefissati».
Fino a oggi, ogni nomina nelle procure ha alle sue spalle una storia di accordi tra correnti.
«Le correnti sono immanenti, dominano il sistema giudiziario. Non solo nel senso deteriore del termine, come momento fisiologico e inevitabile di trovare un meccanismo attraverso il quale gestire il più corretto funzionamento del potere giudiziario».
Dopo tutto quello che abbiamo detto, lei ha capito cosa c’è dietro l’angolo?
«In questi ultimi tempi ho spesso l’immagine ricorrente di un palazzo che rischia di crollare, però è necessario che tutti si adoperino affinché questo non accada».
Francesco Grignetti per la Stampa il 16 maggio 2020. Porta al Giglio magico, alla fine, l' inchiesta di Perugia sul caso Palamara. Erano tutti renziani: Cosimo Ferri, Luca Palamara, ovviamente Luca Lotti. E porta alle grandi manovre non solo dentro la magistratura, ma anche nelle società di Stato. L' inchiesta di Perugia s' è così incrociata con una di Milano su un complotto al vertice dell' Eni. Luca Lotti è interrogato nel luglio 2019 a Milano, dai pm Laura Pedio e Paola Storari, sui suoi rapporti con Piero Amara, il faccendiere siciliano che a sua volta è dietro il lobbista Fabrizio Centofanti e indirettamente dietro Luca Palamara. Ammette di avere conosciuto Amara nel dicembre 2015 su sollecitazione di Andrea Bacci, un imprenditore fiorentino, altro amicone di Renzi. «Ho incontrato Amara almeno un paio di volte nel 2016 in occasioni private: una volta insieme con Bacci ci siano visti in un bar all' intero della galleria Colonna a Roma; l' altro incontro è avvenuto a Firenze o nel mio ufficio a palazzo Chigi. Il tema di cui abbiamo parlato è stato l' Eni». E lui? «Ho sempre dato risposte interlocutorie». C' era un problema di cui Amara si interessava moltissimo: la guerra tra Claudio Granata, potente responsabile per gli Affari istituzionali, e Antonio Vella, il numero due, amico di Claudio Descalzi. Nel computer di Amara c' era un promemoria, palesemente scritto per Bacci, cui si chiede di intercedere presso «il Capo» a difesa di Vella. E Lotti: «Non ho ricordi». Lotti e l' Eni Anche Luca Palamara e Cosimo Ferri coinvolgono Lotti per una vicenda collegata all' Eni. Era un tema che stava loro a cuore: come rovinare la reputazione di Paolo Ielo, il procuratore aggiunto di Roma. La storia s' intreccia con la famosa cena romana del 21 maggio 2019, quando Palamara, Ferri e Lotti tentarono di far quadrare i conti con le nomine in magistratura, a partire da Roma. I magistrati milanesi fanno sentire a Lotti l' intercettazione, e l' uomo politico non può non agitarsi sulla sedia. «Ricostruisco come segue la vicenda Qualche giorno prima, precisamente il 9 maggio, presso l' hotel Champagne di Roma, ho avuto un incontro con Palamara e Ferri dopo la mezzanotte. Nel corso di quell'incontro tra le altre cose Palamara ha riferito sommariamente il contenuto di un esposto presentato da Stefano Fava (un pm amico di Palamara, ndr) nei confronti del dottor Ielo e del dottor Pignatone». Già è anomalo che un esposto presentato da un magistrato sia portato a conoscenza di un uomo politico, oltretutto con il dente avvelenato con Ielo e Pignatone perché sotto scacco nell' inchiesta Consip. Grave è che gli sia offerta la possibilità di vendicarsi. «In quell' occasione Palamara ha aggiunto che gli risultava che Domenico Ielo avesse avuto degli incarichi dall' Eni e mi ha chiesto se potevo verificarlo. Ho detto che avrei potuto farlo chiedendo a Granata». Lotti andò avanti nel suo lavoro di intelligence. «Pochi giorni dopo ho incontrato Granata presso l' hotel Montemartini. Tra gli altri argomenti, chiesi se gli risultasse che Domenico Ielo aveva avuto una consulenza». Di più, Lotti non vorrebbe dire. Sostiene che le sue richieste sarebbero cadute nel nulla. Ma c' è un ma. Nel corso del 21 maggio, in occasione di un secondo rendez-vous dei congiurati, dove confluirono anche cinque membri del Csm, ormai tutti fuori per dimissioni, si sente la sua voce raccontare di avere ricevuto documentazione da Descalzi, e che Domenico Ielo avrebbe ricevuto ben 228 mila euro dall' Eni. Vero? Falso? Lotti se la cava così: «Non avevo ricevuto documenti che certifichino un incarico dato a Domenico Ielo e per quell' importo. Mi chiedete se io abbia quindi millantato con i miei interlocutori e dico che effettivamente è andata così».
I giornalisti finiti nella rete delle intercettazioni per aver chiamato Palamara. Il Dubbio il 4 maggio 2020. Milella, Bianconi e Minoli: la procura di Perugia “scheda” chi ha contattato il pm indagato per corruzione nell’inchiesta che ha terremotato il Csm. La procura di Perugia “scheda” i giornalisti che chiamavano il magistrato Luca Palamara, indagato per corruzione nell’inchiesta che ha terremotato il Csm la scorsa estate. Tutte intercettazioni, però, che non hanno alcun elemento di rilevanza con l’inchiesta in corso. Come scritto dal quotidiano La Verità, nell’informativa dell’inchiesta compare il nome della giornalista di punta del quotidiano La Repubblica, Liliana Milella, che il giorno in cui il suo giornale ha pubblicato la notizia dell’indagine avrebbe chiamato Palamara, che era una sua fonte: “La Milella riferisce che ha saputo dell’articolo leggendolo all’1,30 di notte e dice di aver sbagliato a non chiamarlo prima, ma a lei non avevano detto nulla dal suo giornale. Se lei avesse chiamato prima Palamara "l’avremmo scritta, ma non in questo modo". La stessa, in un’altra telefonata, avvisa il pm che la collega Maria Elena Vincenzi sta andando sotto casa sua, probabilmente per cercare di strappare una dichiarazione». In un’altra telefonata la giornalista sembra molto preoccupata per la sorte dell’ex capo dell’Anac Raffaele Cantone e alla fine propone: “Potrebbero (i membri del Csm, ndr) pure fare la mossa di mandare Cantone da qualche parte (…)? Cioè perché poi alla fine fanno pure un piacere a questo governo che glielo levano dai coglioni”. Nell’informativa ci sono anche alcune chiamate di Francesco Grignetti della Stampa, alla ricerca di notizie sull’inchiesta. C’è anche un capitoletto su Giovanni Bianconi, inviato del Corriere della Sera, dall’inizio in prima linea nello spingere mediaticamente l’inchiesta. Agli atti finiscono persino le telefonate per organizzare un incontro di persona con Palamara. Poi per il resto i finanzieri riportano alcune considerazioni di Palamara su Bianconi, che viene gentilmente definito come “vicino ai servizi segreti” e “cassa di risonanza del gruppo di potere attuale”. Infine Palamara giudica così l’intervista di congedo rilasciata dall’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone allo stesso Bianconi: “Hai visto ieri che pompino gli ha fatto al Pigna?”. Nella stessa conversazione aggiunge: “L’altra volta (Bianconi, ndr) mi è venuto a riparlare di Perugia a me”, ovvero dell’inchiesta che al momento era ancora segreta. I finanzieri annotano “l’esistenza di contatti intercorsi tra Palamara e Giovanni Minoli, giornalista saggista e conduttore televisivo”. I due, stando alle captazioni, sono in confidenza. Si confrontano sugli articoli pubblicati nel periodo clou della tempesta sulle toghe e sulla possibilità di rendere un’intervista per la trasmissione condotta da Lucia Annunziata. Tra il 13 marzo 2019 e il 5 giugno, periodo monitorato dagli investigatori, si parlano otto volte. In una conversazione Minoli fa a Palamara i complimenti per un’intervista. Ci sono anche telefonate durante le quali Minoli sembra quasi lo spin doctor della toga. Il 29 maggio si sentono due volte. «’La Repubblica è la risposta al Fatto’, dice Palamara. E chiede a Minoli un consiglio, visto che Claudio Tito, cronista di Repubblica, gli ha chiesto se voglia replicare e la toga non sa cosa rispondere, scrive La Verità. Si vedono anche per parlare dell’invito dell’Annunziata, che Minoli definisce pericolosa, perché è dall’altra parte. La giornalista è stata una delle prime a saltare sull’inchiesta perugina. Il 29 maggio, data dei primi articoli sull’argomento, alle 9 del mattino, Palamara viene chiamato da Silvia Barocci, autrice della trasmissione Mezz’ora in più, quella dell’Annunziata. Lo invita per la domenica. La toga prende tempo. Poi richiama e accetta, ma con riserva. E annuncia che ’se andrà in trasmissione parlerà di cose importantì. Per quella comparsata Palamara si confronta persino con Giovanni Legnini, già vicepresidente del Csm». “Cioè, se Lucia mi dà la possibilità… faccio un discorso politico…”, dice Palamara. Legnini lo riprende: “No, tu le cose tue le devi gridà… seguono milioni di persone, viene ripreso dalla stampa”. Poi fanno strategia sulla necessità di avviare una interlocuzione con redattori a livello apicale di Repubblica, al fine di riequilibrare gli articoli usciti su altre testate di fronte avverso, e reindirizzare, attraverso nuovi articoli di stampa, la figura del procuratore uscente di Roma Pignatone. Tra gli “schedati” ci sono anche Rosa Polito e Simona Olleni dell’Agi, Sandra Fischetti dell’Ansa, Valeria Di Corrado del Tempo e Federico Marietti del Tg5. Vincenzo Bisbiglia del Fatto Quotidiano lo cerca per chiedergli informazioni sul conto della moglie, che ha un impiego alla Regione Lazio, ma anche su eventuali contatti con Nicola Zingaretti. La toga afferma di non aver fatto pressioni e che la moglie “ha un curriculum di tutto rispetto”.
Ecco chi sono i giornalisti nelle intercettazioni al telefono con il magistrato Luca Palamara. Il Corriere del Giorno il 13 Maggio 2020. I magistrati della procura di Perugia indaga anche su chi ha contattato il pm indagato per corruzione nell’inchiesta che ha terremotato il Consiglio Superiore della Magistratura. Nell’informativa della Guardia di Finanza nell’inchiesta della Procura della repubblica di Perugia sul Csm, compaiono molti nomi di giornalisti intercettati mentre parlavano con il magistrato Luca Palamara l’ex-presidente dell’ ANM l’associazione nazionale dei magistrati ed ex-componente del Csm, “protagonista” principale dello scandalo che ha letteralmente terremotato il Consiglio Superiore della Magistratura ribaltando anche gli equilibri “politici” interni fra le varie correnti della magistratura italiana, Intercettazioni che non hanno scaturito iscrizioni dei giornalisti nel registro degli indagati in mancanza di elementi di rilevanza con l’inchiesta. Una delle persone maggiormente presenti nelle intercettazioni è la giornalista barese Liliana Milella del quotidiano La Repubblica, che avrebbe chiamato Palamara (che era una sua fonte) il giorno stesso in cui il quotidiano romano aveva pubblicato la notizia dell’indagine: “La Milella riferisce che ha saputo dell’articolo leggendolo all’1,30 di notte e dice di aver sbagliato a non chiamarlo prima, ma a lei non avevano detto nulla dal suo giornale. Se lei avesse chiamato prima Palamara ‘l’avremmo scritta, ma non in questo modo’. La stessa, in un’altra telefonata, avvisa il pm che la collega Maria Elena Vincenzi sta andando sotto casa sua, probabilmente per cercare di strappare una dichiarazione». La giornalista barese sembra molto preoccupata in un’altra telefonata per il destino del magistrato Raffaele Cantone l’ex capo dell’Anac ed alla fine della conversazione addirittura consiglia nomine e strategie per i componenti del Csm : “Potrebbero pure fare la mossa di mandare Cantone da qualche parte (…)? Cioè perché poi alla fine fanno pure un piacere a questo governo che glielo levano dai coglioni”. Uno dei passaggi più imbarazzanti delle intercettazioni riguarda il giornalista Giovanni Bianconi, inviato del Corriere della Sera, giornale che sin dall’esplosione dell’inchiesta si è posizionato in prima fila nell’amplificare giornalistiche le tristi vicende del Csm. Agli atti delle indagini dei magistrati di Perugia ci sono anche delle telefonate per organizzare un incontro di persona con Palamara. Poi per il resto i finanzieri riportano alcune considerazioni di Palamara su Bianconi, che viene definito come “vicino ai servizi segreti” e “cassa di risonanza del gruppo di potere attuale”. Con queste parole il magistrato Luca Palamara commenta l’intervista di Bianconi all’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone al momento del suo congedo in pensione : “Hai visto ieri che pompino gli ha fatto al Pigna?”. Sempre nel corso della stessa telefonata Palamara, riferendosi a Bianconi aggiunge: “L’altra volta mi è venuto a riparlare di Perugia a me”, cioè dell’inchiesta che al momento era ancora secretata. Le Fiamme Gialle in ascolto annotano “l’esistenza di contatti intercorsi tra Palamara e Giovanni Minoli, giornalista saggista e conduttore televisivo”. I due, secondo quanto emerso dalle intercettazioni captate, hanno rapporti stretti di confidenza, e si confrontano sugli articoli pubblicati nel periodo “caldo” del terremoto sulle toghe, prospettandogli la possibilità di rendere un’intervista per la trasmissione “Mezz’Ora in più” (RAITRE) condotta dalla giornalista Lucia Annunziata. Nel periodo monitorato dai finanzieri, tra il 13 marzo ed il 5 giugno 2019 , i due si parlano ben otto volte. In una telefonata Minoli fa addirittura i complimenti a Palamara per un’intervista. Telefonate durante le quali Minoli sembra essere lo “spin doctor” del magistrato. I due si sentono due volte il 29 maggio 2019. “’La Repubblica è la risposta al Fatto” afferma Palamara e chiede un consiglio a Minoli, poichè il giornalista di Repubblica Claudio Tito, gli aveva chiesto se volesse replicare ma il magistrato è dubbioso e non sa cosa rispondere. Palamara e Minoli si incontrano anche per discutere dell’invito dell’Annunziata, che è stata una delle prime a saltare sull’inchiesta perugina, definita Minoli “pericolosa, perché è dall’altra parte” . Il 29 maggio 2019, giorno dei primi articoli pubblicati sullo scandalo del Csm, Palamara viene contattato telefonicamente alle 9 del mattino, dalla giornalista Silvia Barocci, autrice della trasmissione dell’Annunziata, e lo invita per la domenica successivo . Il magistrato inizialmenteì prende tempo, poi la chiama ed accetta, ma con riserva. E annuncia che “se andrà in trasmissione parlerà di cose importantì“. Prima della trasmissione televisiva il magistrato Palamara si confronta incredibilmente con l’esponente del Pd Giovanni Legnini, ex-vicepresidente del Csm, e gli dice: “Cioè, se Lucia (la Annunziata n.d.r.) mi dà la possibilità… faccio un discorso politico…”. Legnini lo incalza ed incita: “No, tu le cose tue le devi gridà… seguono milioni di persone, viene ripreso dalla stampa”. Poi imbastiscono una strategia sulla necessità di avviare dei contatti con dei giornalisti ai vertici del quotidiano La Repubblica, per riequilibrare gli articoli usciti su altre testate di fronte avverso, ed attraverso nuovi articoli di stampa, offuscare la figura di Pignatone procuratore uscente della Capitale. Tra gli “intercettati” compaiono anche Sandra Fischetti dell’ Agenzia Ansa, Simona Olleni e Rosa Polito dell’ Agenzia Italia, Federico Marietti del Tg5 e Valeria Di Corrado del Tempo. Il giornalista Vincenzo Bisbiglia del Fatto Quotidiano invece chiama Palamara per chiedergli delle informazioni sul conto di sua moglie, Giovanna Remigi, che per quasi tre anni è stata dirigente esterna della Regione Lazio guidata da Nicola Zingaretti, . Un ruolo ricoperto dal 2015 al 2017 nell’ufficio staff del direttore Coordinamento del contenzioso nella Direzione Salute e Politiche Sociali alla cifra di 78 mila euro l’anno più retribuzione di risultato. Palamara risponde di non aver fatto pressioni e che la moglie “ha un curriculum di tutto rispetto” aggiungendo “ha un curriculum di tutto rispetto nei più importanti studi amministrativi“”. Sempre dall’inchiesta viene fuori che nel 2017, dopo il rapporto con la Regione Lazio, la moglie di Palamara ha successivamente ottenuto un contratto triennale (ancora in corso) all’Agenzia Italiana del Farmaco. Nell’informativa della Guardia di Finanza sul tavolo dei magistrati umbri risultano delle chiamate a Palamara anche del giornalista Francesco Grignetti del quotidiano La Stampa, alla ricerca di notizie sull’inchiesta. Il magistrato Luca Palamara nonostante avesse svolto per anni le funzioni di pm alla Procura di Roma, ha “abboccato” alla trappola informatica tesa dalle Fiamme Gialle. All’improvviso la sua linea telefonica mobile aveva avuto dei disservizi (causati ad hoc) ed aveva risposto ad un link che sembrava essere proveniente da Vodafone. “Gentile cliente stiamo riscontrando problemi sulla linea. Per risolverli, clicchi qui”. Un “click” che si è rivelato fatale per il “terremoto” giudiziario interno all’Organo di autogoverno della magistratura. La strategia del messaggio “fake” da parte del gestore di telefonia era stata consigliata al pm di Perugia, Gemma Milani, dai tecnici informatici del Gico della Guardia di Finanza.
Giornalisti intercettati, lo sfogo di Liliana Milella: “Parlavo con Palamara, e allora?” Il Dubbio il 24 maggio 2020. La cronista delle Repubblica finita nelle intercettazioni del caos procure si difende: “Pubblicatele pure le mie conversazioni. Non ci troverete nulla se non l’insistente sforzo di convincere una fonte a parlare”. ”Eh no, adesso basta. Stop alle bugie, agli insulti, alle interpretazioni del tutto false delle conversazioni tra me e Luca Palamara. Lo scrive sul suo blog su Repubblica la cronista giudiziaria Liana Milella in un articolo intitolato ”Io e Palamara”. ”Faccio questo mestiere da 40 anni – spiega Milella -, con fatica, quella di ogni giorno per cercare le notizie. Con l’onore di aver tenuto sempre la testa alta e aver detto dei no quando c’era da dirli. È la mia storia, di cui vado fiera. Non consento a nessuno di sporcarla. Né tantomeno, attraverso di me, di attaccare Repubblica. Di cosa stiamo parlando? Delle intercettazioni di Palamara, depositate a Perugia. In cui ricorre anche il mio nome. E certo che c’è. Perché seguo il Csm e la politica della giustizia. Perché nella primavera del 2019 l’argomento più gettonato a palazzo dei Marescialli era chi avrebbe occupato la poltrona di procuratore di Roma dopo Pignatone. Palamara non era più componente del Csm, ma la toga più influente di Unicost. Nonché ex presidente dell’Anm ai tempi dello scontro con Berlusconi, nonché pm di Roma, con l’ambizione di diventare procuratore aggiunto. Un magistrato intervistato ovunque. Una fonte per chi scrive un articolo come quello pubblicato su Repubblica il 24 maggio del 2019 proprio sul destino di Roma”. Con ”questa fonte – prosegue Miletta – io ho avuto delle normalissime conversazioni. Quelle che intercorrono tra un giornalista che vuole sapere che succede e una fonte che risponde. Tutto lapalissiano. Nessuna ”merenda” di mezzo. Neppure un panino. Solo la fatica di scoprire dei retroscena. La fatica che il cronista onesto fa ogni giorno per scrivere un articolo. Nessun gioco. Nessun patto. Nessun favoritismo. Solo notizie. In questo caso come si sarebbero schierate le correnti della magistratura nella scelta del procuratore di Roma. Con chi votava Unicost? Stava con Magistratura indipendente e non con la sinistra di Area? E Palamara, che aveva fatto domanda anche per la procura di Torino, dove avrebbe preferito andare? ”Ti metto a Torino?” Chiedo a Palamara. Ditemi voi cosa c’è di così ”infame” in questa domanda”. ”Scorretto – perché io non uso l’espressione ”infame” – è invece il tentativo di colpire chi si è sempre battuto per la trasparenza delle carte giudiziarie, per la piena pubblicazione, anche delle intercettazioni. Pubblicatele pure le mie conversazioni. Non ci troverete nulla se non l’insistente sforzo di convincere una fonte a parlare. Certo, per chi da decenni scrive solo commenti, capisco che il dialogo può risultare da extraterrestre”, conclude.
Le trame di Palamara che hanno “inguaiato” Borrelli nella corsa alla procura di Perugia. Paolo Comi su Il Riformista il 12 Maggio 2020. C’è anche una intercettazione “autoprodotta” fra le tante contenute nel fascicolo di Perugia sull’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. A realizzarla è stato Giuseppe Borrelli, attuale procuratore di Salerno e all’epoca aggiunto a Napoli. L’autoascolto avviene all’indomani della perquisizione a carico di Palamara disposta dai magistrati umbri lo scorso 30 maggio. Il pm romano, intercettato nell’ambito di una indagine per corruzione, il precedente 7 maggio aveva discusso con Cesare Sirignano, sostituto procuratore presso la Dna, di temi non particolarmente originali per le toghe: le nomine. I due si conoscono da molti anni. Oltre ad essere della stessa corrente, Unicost, giocano a pallone nella “Rappresentativa magistrati italiani”. Il risiko degli incarichi riguarda tutt’Italia. Nel disegno di Palamara, Borrelli è destinato a diventare il nuovo procuratore di Perugia, Massimo Forciniti il presidente del Tribunale di Salerno, Marcello Viola il procuratore di Roma, Antonio Chiappani il procuratore di Brescia, Dino Petralia il procuratore di Torino e Leonida Primicerio il procuratore di Salerno. Palamara punta a diventare aggiunto a Roma. La procura di Perugia, però, è fondamentale per Palamara in quanto dovrà decidere sull’esposto presentato dal pm romano Stefano Fava contro il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo, e dovrà definire l’indagine a suo carico. Sirignano conviene con Palamara sul nome di Borrelli. La diffusione di questa conversazione, riportata dai pm umbri nel decreto di perquisizione a carico di Palamara, allarma Borrelli che è in corsa, oltre a Perugia, per altre Procure. L’aggiunto napoletano decide allora di vedere di persona Sirignano, registrando l’incontro, per capire cosa abbia detto su di lui a Palamara. «M’hai inguaiato a me», gli dice. «Mi hai inguaiato», ripete, «in buona fede ma mi hai inguaiato». «Non aggio fatto niente in questa vicenda, aggio fatto la domanda per Perugia», aggiunge in una tiratissima conversazione nella quale Sirignano tenta di ricordare le esatte parole utilizzate con Palamara. «Mi interessava sostenere l’amico Borrelli e rassicurare Palamara sulla sua serietà e capacità», «i magistrati napoletani non sono stati valorizzati a sufficienza. Per noi magistrati napoletani è una cosa che ci ha sempre pesato», racconterà poi a luglio ai pm di Perugia. «È uno sconcio di dimensioni internazionali», il commento invece di Borrelli dello scandalo che aveva travolto le toghe, per poi aggiungere: «Non si fa una nomina decente in vent’anni in questo cavolo di Csm». Ed a proposito di nomine, sfumata Perugia, Borrelli venne votato a luglio all’unanimità in commissione, relatore Piercamillo Davigo, procuratore di Salerno. Il colloquio con Sirignano sarà trascritto dai magistrati umbri due mesi più tardi. A novembre il colpo di scena: al momento del voto finale in Plenum, Davigo chiede il ritorno in commissione della pratica su Borrelli. Il definitivo via libera in Plenum arriverà solo lo scorso gennaio. Avrà pesato il colloquio con Sirignano? Non lo sapremo mai in quanto la pratica è stata secretata.
Luca Palamara, chiuse le indagini sull’ex presidente dell’Anm: rischia processo con l’ex consigliere del Csm Spina e altri tre. A rischiare il processo, per le accuse della procura di Perugia al termine dell'inchiesta della Guardia di finanza, oltre al pubblico ministero e all’ex consigliere Spina, sono l’amica di Palamara, Adele Attisani, l’imprenditore Fabrizio Centofanti e Giancarlo Manfredonia. Tra gli episodi di corruzione contestati ci sono viaggi a Londra, Dubai e Ibiza, soggiorni, lavori di ristrutturazione e anche un trattamento di bellezza. I difensori: "Cadute le accuse più gravi". Il Fatto Quotidiano il 20 aprile 2020. Il pubblico ministero Luca Palamara rischia il processo nell’ambito dell’inchiesta che lo vede indagato per corruzione. La procura di Perugia – al termine dell’inchiesta della Guardia di finanza – ha notificato la chiusura indagini all’ex presidente dell’Anm, all’ex consigliere del Csm Luigi Spina, all’amica di Palamara, Adele Attisani, all’imprenditore Fabrizio Centofanti e a Giancarlo Manfredonia. Tutti, come il pm romano, sono quindi a rischio processo. La decisione dei pm di Perugia non potrà arrivare prima del 31 maggio, a causa della sospensione dell’attività giudiziaria per l’emergenza coronavirus. Tra gli episodi di corruzione contestati ci sono viaggi a Londra, Dubai e Ibiza, soggiorni, lavori di ristrutturazione e anche un trattamento di bellezza. A Palamara, all’epoca dei fatti consigliere del Csm, i pm umbri contestano anche un viaggio a Madrid insieme con un familiare per assistere alla partita Real Madrid-Roma di Champions League dell’8 marzo 2016, per il quale Centofanti avrebbe versato oltre 1.300 euro. L’imprenditore inoltre, avrebbe pagato lavori per diverse decine di migliaia di euro tra il 2013 e il 2017, nell’appartamento romano di Attisani, ritenuta dai pm umbri “istigatrice delle condotte delittuose e beneficiaria in parte delle utilità”, tra cui interventi edili, opere di impermeabilizzazione delle terrazze e la realizzazione di una veranda. L’ex consigliere del Csm Luigi Spina, che si è dimesso in seguito alla bufera sulle nomine in diverse procure d’Italia, è accusato di rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento perché avrebbe informato Palamara di un esposto presentato dal pm Stefano Fava contro l’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e un procuratore aggiunto della Capitale. Spina inoltre avrebbe passato informazioni a Palamara sull’inchiesta che lo riguardava aiutandolo “ad eludere le investigazioni”. A Giancarlo Manfredonia, titolare di un’agenzia di viaggi, nell’atto di conclusione delle indagini, i pm di Perugia, contestano di aver fornito “false informazioni” e “documentazione artefatta” ai finanzieri che stavano procedendo a far luce sui viaggi organizzati da Centofanti presso la sua agenzia, “in modo da aiutare quest’ultimo e Palamara ad eludere” le indagini. Palamara “non non è più accusato di aver ricevuto la somma di 40mila euro per nominare il dottor Longo come procuratore di Gela – spiegano i suoi avvocati Roberto Rampioni, Mariano e Benedetto Buratti – o per danneggiare il dottor Bisogni nell’ambito del procedimento disciplinare che lo vedeva coinvolto”. L’inchiesta a maggio dello scorso anno ha terremotato il Csm (si sono dimessi ben 5 consiglieri) perché ha scoperchiato le trattative sulle nomine ai vertici delle procure. Il 9 aprile era stata chiusa l’inchiesta sull’ex procuratore generale di Cassazione, Riccardo Fuzio, per il quale i pubblici ministeri ipotizzato il reato di rivelazione di segreto d’ufficio perché avrebbe rivelato a Palamara, tra le altre cose anche ex componente del Csm, dettagli sull’indagine per corruzione ora chiusa dalla stessa procura. Nell’inchiesta a Palamara viene contestato di avere violato i suoi doveri quale componente del Consiglio superiore della magistratura. In particolare di avere messo le sue funzioni a disposizione dell’imprenditore e suo amico Fabrizio Centofanti in cambio di viaggi e regali. Gli atti erano stati quindi trasmessi dalla procura di Roma – che inizialmente aveva condotto l’indagine su Centofanti – a quella di Perugia competente a occuparsi di tutti i fascicoli che coinvolgono i magistrati romani.
“Palamara non prese 40mila euro per la nomina del procuratore di Gela”. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 20 aprile 2020. Crollano le accuse nei confronti del magistrato ex presidente dell’Anm. Luca Palamara non venne corrotto per nominare Giancarlo Longo procuratore della Repubblica di Gela. E’ quanto si legge nell’avviso di conclusioni indagini notificato ieri all’ex presidente dell’Anm ed ex componente del Csm.I pm di Perugia hanno escluso quindi che Palamara abbia ricevuto 40.000 euro dal faccendiere Fabrizio Centofanti per nominare Longo a capo della Procura di Gela o per danneggiare il pm Marco Bisogni nell’ambito del procedimento disciplinare che lo vedeva coinvolto. Dopo circa due anni di indagini si affievoliscono le accuse nei confronti di Palamara che avevano scatenato lo scorso maggio, quando vennero pubblicate alcune intercettazioni, un terremoto a Palazzo dei Marescialli con le dimissioni di cinque consiglieri del Csm. Gli inquirenti contestano a Palamara l’articolo 318 codice penale nella formulazione introdotta dalla legge Severino del 2012, “corruzione per esercizio della funzione”. Il reato svincola la punibilità dalla individuazione di uno specifico atto ricollegandola al generico “mercimonio della funzione”. Palamara, per i pm Gemma Miliani e Mario Formisano, sarebbe stato a libro paga di Centofanti anche se non è chiaro a quale scopo, dato che, come scrisse il gip, “il contributo del singolo consigliere non può assumente rilievo determinante nell’ambito dei processi deliberativi di un organo collegiale e non sono stati individuati specifici comportamenti anti/doverosi attribuibili a Palamara”. Nello specifico a Palamara vengono contestati dei viaggi in Italia e all’estero. Un’altra contestazione riguarda invece l’ex consigliere Luigi Spina che avrebbe violato il segreto avvisando Palamara di un esposto presentato dal pm romano Stefano Fava contro l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. “In relazione alle ipotesi di reato ancora contestate a Palamara questa difesa è certa di poter portare all’attenzione degli organi inquirenti ulteriori e decisivi elementi per dimostrare da un lato l’insussistenza di accettazione di qualsiasi forma di utilità dall’altro l’assenza di qualsiasi forma di istigazione per conoscere notizie già ampiamente note in quanto riportate dai principali quotidiani nazionali”. E’ quanto si legge in una nota degli avvocati Roberto Rampioni Mariano e Benedetto Buratti.
Antonio Massari per il “Fatto quotidiano” il 23 aprile 2020. Era una manciata di secondi che mancava, nell' intercettazione tra il pm romano Luca Palamara e l' ex procuratore generale della Corte di Cassazione Riccardo Fuzio. Ora che c' è, si sta trasformando in un dettaglio interessante dell' inchiesta, ormai conclusa, che vede i due magistrati accusati di violazione del segreto istruttorio. Per la procura di Perugia, Fuzio rivelò a Palamara dettagli sull' inchiesta che lo riguardava. É un filone nato dall' indagine, anch' essa ormai conclusa, che vede Palamara indagato per corruzione con l' imprenditore Fabrizio Centofanti e che, la scorsa primavera ha costituito un autentico terremoto per il Csm (si sono dimessi cinque consiglieri) e per la stessa nomina del futuro procuratore di Roma. L' audio tra le 21.53 e le 21.58 del 21 maggio scorso è stato - in gran parte lo è tuttora - classificato dal Gico della Guardia di Finanza come "rumori". In effetti il fruscio è altissimo. La difesa di Palamara - assistito dagli avvocati Benedetto e Mariano Buratti e Roberto Rampioni - aveva chiesto di trascrivere quella manciata di secondi mai verbalizzata. Il Gico della Gdf - con gli strumenti del Ris dei Carabinieri - ha coperto la falla. C' è quindi una trascrizione inedita. Il Fatto ha ascoltato l' audio e rilevato delle potenziali difformità con la trascrizione del Gico. Invece della parola "carabinieroni" sembra che si dica il nome dell' ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone. In un' altra frase sembra che si parli del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il cui nome, nella trascrizione del Gico non c' è. "A nostro avviso esiste una difformità tra l' audio e la trascrizione - sostiene la difesa di Palamara ed effettivamente i nomi da voi citati rientravano nel colloquio tra Fuzio e Palamara". Non si tratta peraltro dell' unica divergenza tra accusa e difesa: secondo gli avvocati di Palamara, la contestazione sulla ristrutturazione dell' appartamento di Adele Attisani, legata a Palamara, della quale l' accusa ha acquisito i documenti, si basa su "fatture palesemente false". Ma torniamo all' intercettazione mai trascritta prima. Ecco la versione del Gico.
Fuzio: alla fine hanno definito male () in che senso perché hanno già fasciato la testa ma perché è per venire fuori
P: uhm carabinieroni
F: no che cosa sono P: eh be
F: no ricollegandola probabilmente a
P: ma loro lo fanno sai
F: il 6 o il 7 agosto? di più
P: non lo so
F: non ho capito prima mi avete detto di farla presto di farla presto mo se la facciamo presto dice perché si sono spaventati di questo fatto che può venire fuori uno sputtanamento su di te ma nessuno l' ha mai detta questa storia di Fava, perché Fava è fermo non è che chi è figlio.
Questa è l' altra - secondo la difesa di Palamara verosimile - versione.
F: alla fine hanno definito male perché hanno nel senso che la verità ma purtroppo può venire fuori
P: quella di Pignatone dici?
F: no (interlocutorio)
P: mbe
F: ricollegandola probabilmente alla storia di Pignatone (poi sembra che dica Amara)
P: Erbani
F: sì però questa cosa di Mattarella è dopo Mattarella mi avete detto di farlo presto perché si sono spaventati di questo fatto che può venire fuori uno sputtanamento su di te ma nessuno l' ha mai detta questa storia di Fava, perché Fava è fermo non è che chi è figlio.".
Se invece di "carabinieroni" leggiamo Pignatone, il passaggio diventa interessante: evoca l' esposto che il pm Stefano Fava aveva presentato al Csm su Pignatone. Se così fosse sarebbe interessante capire perché Fuzio e Palamara ne stessero parlando.
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 21 marzo 2020. L' inchiesta per corruzione a carico dell' ex componente del Consiglio Superiore della Magistratura Luca Palamara si allarga fino a coinvolgere un altro ex membro dell' organo di autogoverno dei giudici: l' avvocata Paola Balducci (all' epoca «laica» in quota centrosinistra), è stata iscritta nel registro degli indagati per corruzione, in un fascicolo separato, dopo che dagli atti sono emerse presunte «utilità» dispensate da Fabrizio Centofanti, l' imprenditore amico di Palamara inquisito per lo stesso reato. E destinatario, come Palamara e la sua amica Adele Attisani (altra neo-indagata), di un ordine di sequestro preventivo del giudice di Perugia di oltre 60.000 euro. Nel provvedimento si riportano - oltre alle parole del magistrato intercettato su «vacanze pagate» - le spese per un paio di soggiorni in altrettanti alberghi e qualche altro servizio. L' avvocata è già stata interrogata dai pm di Perugia, e i suoi difensori Antonio Villani e Marco Franco commentano: «Si tratta di un' iscrizione a nostro avviso eccessiva a seguito delle parole in libertà captate al dottor Palamara; riteniamo di avere già offerto ai pm ogni elemento di chiarimento tanto da attenderci una richiesta di archiviazione». Ma il fulcro dell' inchiesta resta il magistrato che, oltre ad essere coinvolto nelle manovre occulte extra-Csm per le nomine ai vertici di alcuni uffici giudiziari, è accusato di essere stato corrotto per avere «messo a disposizione» le sue funzioni di consigliere. E tra le «regalie» ricevute da Centofanti (interessato, secondo i pm, a molte nomine dei magistrati decise dal Csm) spunta anche il pagamento di una trasferta in Spagna dal 7 a 9 marzo 2016 di Palamara e figlio in occasione della partita di Champions League Real Madrid-Roma. Poi ci sono alcune vacanze sia con la famiglia che con l' amica Adele, nonché i lavori di ristrutturazione dell' appartamento di Attisani per decine di migliaia di euro. Il magistrato ha sostenuto che si trattava di anticipi di spese restituiti in contanti, in virtù di una disinteressata amicizia, ma la Procura e il giudice la pensano diversamente: «Sono emersi dati oggettivi e difficilmente contestabili che denotano come la relazione tra Palamara e Centofanti sia stata inquinata da interessi non confessabili». E a dimostrazione di ciò si sottolineano sia le modalità semiclandestine dei loro incontri, soprattutto dopo le inchieste giudiziarie che hanno portato all' arresto di Centofanti, sia le intercettazioni e gli interrogatori di indagati in altri procedimenti e testimoni vari. La semplice amicizia, accusano i pm, non giustifica «un atteggiamento costantemente munifico di Centofanti verso Palamara», protrattosi nel tempo e senza che il magistrato risultasse bisognoso di aiuti o prestiti. Piuttosto «sono emersi elementi, che denotano modalità relazionali ambigue e volutamente occulte». Dopo l' arresto di Centofanti a inizio 2018 Palamara ha cancellato i messaggi WhatsApp con l' imprenditore, ma dal telefono della Attisani gli investigatori sono riusciti a ricostruire almeno dodici incontri tra i due, fino alla vigilia dell' arresto dell' imprenditore e dopo il suo ritorno in libertà. Il pagamento dei lavori a casa della donna è avvenuto dopo le perquisizioni subite da Centofanti nel 2017, quando il magistrato avrebbe potuto avere maggiore prudenza nei suoi rapporti con l' imprenditore. Tanto più che dopo la visita degli investigatori a casa di Centofanti scrisse subito un messaggio alla donna: «Ci sono delle rogne». E poco dopo: «Quante cose mi tornano in mente ora tipo Favignana», che per i pm è un chiaro riferimento a uno dei soggiorni pagati dall' imprenditore a Palamara e Attisani nel 2014. Per i pm si tratta di «continui benefici» accordati al magistrato per la sua «stabile disponibilità» alle «istanze esterne» di cui il lobbista Centofanti era «portatore», e poco importa se non sono emersi atti in cui l' ex componente del Csm abbia fatto qualcosa che non doveva fare. Basta il «generico mercimonio della funzione».
La Cassazione conferma la sospensione: «Palamara ha violato i suoi doveri di pm». Il Dubbio il 17 gennaio 2020. Caos procure. Nella motivazione si legge che sussistono «gravi elementi di fondatezza» dell’azione disciplinare, che rendono legittima la misura cautelare adottata dal Csm. Le sezioni unite civili della Corte di Cassazione hanno confermato la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio del pm di Roma Luca Palamara. Nella sentenza depositata due giorni fa, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del magistrato contro la misura cautelare disciplinare che era stata disposta nei suoi confronti dal Csm lo scorso luglio, in seguito allo scandalo che terremotò lo stesso Csm emerso in seguito all’indagine a carico di Palamara per corruzione. Palamara, inoltre, chiedeva alla Cassazione di annullare anche i provvedimenti con cui Palazzo dei Marescialli aveva respinto le sue istanze di ricusazione presentate nei confronti dei togati di A& I Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo, membri della disciplinare. Nella motivazione si legge che sussistono «gravi elementi di fondatezza» dell’azione disciplinare che rendono legittima la misura cautelare disciplinare adottata dal Csm, perchè la commissione disciplinare «non ha arrestato il suo giudizio al clamore mediatico dei fatti oggetto dell’incolpazione», ma ha aggiunto che «i fatti contestati sono di “consistenza, pervasività, reiterazione, sistematicità, da configurare una vera e propria frustrazione dell’immagine dell’integrità, indipendenza e imparzialità che ciascun magistrato deve possedere”, con conseguente compromissione, allo stato della credibilità dell’incolpato, anche sotto il profilo dell’imparzialità e dell’equilibrio». Secondo la Cassazione, quindi, «la valutazione relativa al profilo di proporzionalità della misura irrogata supera lo scrutinio di legittimità quanto ai profili di adeguatezza delle motivazioni che la sorreggono e di conformità al principio normativo di gradualità nell’applicazione delle misure cautelari». Quanto all’uso delle intercettazioni nel procedimento disciplinare, esse «possono essere utilizzate nel presente procedimento, in applicazione della consolidata giurisprudenza secondo cui le intercettazioni effettuate in un procedimento penale sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati, purchè, come nella specie, siano state legittimamente disposte ed acquisite».
“Danneggiare il sostituto Bisogni”: l’indagine sul pm Palamara porta anche a Siracusa. Gianni Catania il 30 maggio 2019 su siracusaoggi.it. Piero Amara e Giuseppe Calafiore: ancora loro. I due avvocati siracusani, secondo la procura di Perugia, avrebbero “veicolato” regali, viaggi e altre utilità al pm Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Indagato con loro per corruzione anche il manager Fabrizio Centofanti. Lo scopo dei “benefit” a Palamara, secondo i magistrati umbri, sarebbe stato “danneggiare Marco Bisogni” che all’epoca era sostituto procuratore a Siracusa ed in precedenza oggetto di esposti al pg di Catania presentati da Amara e Calafiore. Palamara, per i pubblici ministeri, faceva parte della sezione del Csm che “rigettava la richiesta di archiviazione proposta dal procura generale della Cassazione, avanzando richiesta di incolpazione coatta a carico del medesimo Bisogni, che di seguito veniva assolto dalla commissione in diversa composizione. Ma quel giorno Palamara era assente”. Bisogni, oggi a Catania, venne poi assolto dalla Commissione in diversa composizione a gennaio 2018. La Guardia di Finanza di Roma, intanto, ha perquisito l’abitazione dell’ex presidente dell’Anm, indagato per corruzione dalla procura di Perugia. Palamara, da consigliere del Csm, avrebbe ottenuto “viaggi e vacanze (soggiorni presso svariati alberghi anche all’estero) a suo beneficio e a beneficio di familiari e conoscenti”.
"Sistema Siracusa", il pm Bisogni: “Inascoltata battaglia sul lato oscuro della magistratura”. Redazione di blogsicilia.it il 18/06/2019. Una presunta compravendita di sentenze, la magistratura non trasparente così come il rapporto tra alcuni colletti bianchi e la magistratura stessa. Uno scandalo giudiziario sfociato un anno e mezzo fa nel cosiddetto “Sistema Siracusa“ che ha portato anche all’arresto del sostituto procuratore Giancarlo Longo. Vicende ripercorse durante il vertice del Comitato di coordinamento di Unità per la Costituzione, in occasione del quale è intervenuto Marco Bisogni, sostituto della Dda di Catania, che ha raccontato la sua esperienza da pm alla Procura di Siracusa dove ci sarebbero stati accordi e connivenze tra magistrati, professionisti e imprenditori. Come riporta il Giornale di Sicilia di oggi in edicola, nel suo intervento Bisogni ha rimproverato, in un certo senso, al Csm, alcune scelte nella composizione dell’allora vertice della Procura di Siracusa. “Mentre tutto questo accadeva, mentre giovani magistrati di provincia – ha spiegato il pm Bisogni – provavano a riaffermare la legalità negli uffici il nostro autogoverno ha scelto e ha scelto male e ha mandato nell’ufficio un procuratore poi condannato per abuso d’ufficio, un procuratore aggiunto ora imputato per lo stesso reato ed un nuovo procuratore trasferito per incompatibilità ambientale”. Bisogni si riferisce all’ex procuratore Ugo Rossi, condannato in via definitiva per abuso d’ufficio in concorso assieme all’ex pm di Siracusa, Maurizio Musco, rimosso dalla magistratura nei giorni scorsi a seguito di un provvedimento disciplinare del Csm. Gli altri due magistrati ai quali fa cenno Bisogni sono l’ex procuratore aggiunto di Siracusa Giuseppe Toscano e l’ex procuratore di Siracusa, Francesco Paolo Giordano. Bisogni, ripercorrendo quanto accaduto, parla della battaglia di legalità sua e di alcuni suoi colleghi, dai quali partì un esposto contro il lato oscuro della Procura di Siracusa. Come si legge ancora Nel Giornale di Sicilia, Bisogni ha dichiarato: “Abbiamo sopportato per anni esposti che trovavano sponda in magistrati, che ora si può dire, avevano piegato la loro funzione anche ad interessi diversi; campagne stampa denigratorie pagate dagli imputati eccellenti con amicizie importanti nella politica e nella magistratura; azioni di responsabilità civile per milioni di euro coltivate e portate avanti anche grazie al mercimonio di atti giudiziari da parte di colleghi disonesti; un abuso d’ufficio commesso dal capo della Procura nella quale prestavo lavoro”. Bisogni ha concluso il suo intervento con un commento-appello relativo allo scandalo per le nomine in seno al Csm: “Rendiamo utile a noi stessi e all’intera magistratura italiana questo momento drammatico – ha detto – per rimettere al centro dell’azione associativa i nostri valori e non le nostre ambizioni e facciamolo senza guardare quello che avviene nelle altre correnti, per una volta, senza calcoli elettorali”.
“A Siracusa il lato oscuro della magistratura”, lo sfogo del Sostituto Bisogni. Oriana Vella il 17/06/2019 su siracusaoggi.it. “A Siracusa pensavo di poter fare la differenza. Entrando in magistratura ero convinto che avrei fatto parte di un’organizzazione composta da persone votate al sacrificio e dedite al dovere”. Il sostituto della Dda di Catania, Marco Bisogni affida al sito UniCost dichiarazioni forti, importanti, relative al periodo siracusano e non soltanto. Il Pm, a lungo impegnato in Procura, a Siracusa, è stato tra quanti hanno subito una serie di ripercussioni per contrastare quello che è poi emerso come Sistema Siracusa, con gli avvocati Giuseppe Calafiore, Pietro Amara e tutti coloro i quali sono rientrati, in un modo o nell’altro, nell’inchiesta, che si è poi allargata ben oltre i confini di Siracusa. “Ho dovuto condividere l’ufficio con il lato oscuro della magistratura - racconta - e non ho voluto andar via fino a quando non sono riuscito a completare - bene o male - tutto il mio lavoro”. Parla di una vicenda personale, per la prima volta, e ne spiega anche la ragione. “Abbiamo cercato di condurre e portare a termine indagini e processi contro alcuni colletti bianchi legati proprio al lato oscuro della magistratura-prosegue il magistrato- e, per questo, abbiamo sopportato per anni esposti che trovavano sponda in magistrati – che ora si può dire – avevano piegato la loro funzione anche ad interessi diversi, campagne stampa denigratorie pagate dagli imputati eccellenti con amicizie importanti nella politica e nella magistratura, azioni di responsabilità civile per milioni di euro coltivate e portate avanti anche grazie al mercimonio di atti giudiziari da parte di colleghi disonesti, un abuso d’ufficio commesso dal capo della Procura nella quale prestavo lavoro, la difesa da esposti disciplinari pretestuosi e costruiti a tavolino”. Bisogni racconta anche la parte bella, pulita, trasparente della sua esperienza. “Ho incontrato altri magistrati -prosegue il magistrato– quasi tutti giovani e incoscienti – che si sono fatti, anche loro, carico del fardello e oggi abbiamo sotto gli occhi di tutti voi, l’enorme scandalo di questi mesi. Mentre tutto questo accadeva, mentre giovani magistrati di provincia provavano a riaffermare la legalità negli uffici il nostro autogoverno-dice ancora- ha scelto e ha scelto male e ha mandato nell’ufficio un Procuratore poi condannato per abuso d’ufficio, un Procuratore Aggiunto ora imputato per lo stesso reato ed un nuovo Procuratore traferito per incompatibilità ambientale. Vi abbiamo delegato l’autogoverno e la nostra rappresentanza nella speranza che i candidati, poi eletti consiglieri ne facessero buon uso. Non è accaduto”.
Questo il suo intervento integrale:
“Sono dovuto restare otto anni nella prima sede perché lavorando e quasi per caso (come avviene spesso nel nostro lavoro) ho progressivamente capito che la magistratura, quando perde la sua carica ideale e smarrisce il desiderio di rendere Giustizia, diviene un potere come gli altri, permeabile alla lusinghe esterne che arrivano attratte dalla possibilità di sfruttare l’enorme potere che abbiamo sulle persone e sulle cose. Ho dovuto condividere l’ufficio con il lato oscuro della magistratura e non ho voluto andar via fino a quando non sono riuscito a completare – bene o male – tutto il mio lavoro. Mi scuso se parlo di una vicenda personale, non l’ho mai fatto e non è il mio stile, ma oggi credo che sia giusto fare un piccolo accenno a questa storia proprio qui e proprio a voi. Abbiamo cercato di condurre e portare a termine indagini e processi contro alcuni colletti bianchi legati proprio al lato oscuro della magistratura e, per questo, abbiamo sopportato per anni:
• esposti che trovavano sponda in magistrati – che ora si può dire – avevano piegato la loro funzione anche ad interessi diversi;
• campagne stampa denigratorie pagate dagli imputati eccellenti con amicizie importanti nella politica e nella magistratura;
• azioni di responsabilità civile per milioni di euro coltivate e portate avanti anche grazie al mercimonio di atti giudiziari da parte di colleghi disonesti;
• un abuso d’ufficio commesso dal capo della Procura nella quale prestavo lavoro;
• la difesa da esposti disciplinari pretestuosi e costruiti a tavolino.
Ho però incontrato altri magistrati – quasi tutti giovani e incoscienti – che si sono fatti, anche loro, carico del fardello e oggi abbiamo sotto gli occhi di tutti voi, l’enorme scandalo di questi mesi. Mentre tutto questo accadeva, mentre giovani magistrati di provincia provavano a riaffermare la legalità negli uffici il nostro autogoverno ha scelto e ha scelto male e ha mandato nell’ufficio un Procuratore poi condannato per abuso d’ufficio, un Procuratore Aggiunto ora imputato per lo stesso reato ed un nuovo Procuratore trasferito per incompatibilità ambientale. Vi abbiamo delegato l’autogoverno e la nostra rappresentanza nella speranza che i candidati, poi eletti consiglieri ne facessero buon uso. Non è accaduto. Negli anni abbiamo visto anche qui il progressivo stravolgimento dell’ordine delle cose:
– ho visto carriere politiche interne alla corrente nascere dal nulla a cavallo tra l’ANM ed il CSM; carriere, a volte, sganciate da una reale credibilità professionale negli uffici, testimoniata con il lavoro quotidiano, ovvero dal parametro che dovrebbe essere il più importante per la selezione dei nostri rappresentanti;
– ho visto nomine di direttivi e semi-direttivi contraddittorie, se non immotivate, e di origine clientelare evidente (colleghi provenienti da lunghissimi fuori ruolo proiettati a dirigere sezioni di grandi Tribunali, colleghi con lunghi trascorsi in politica preferiti nella direzione dei Tribunali, con motivazioni risibili, a magistrati da sempre impegnati negli uffici), nomine – che so bene essere state possibili grazie ad una pessima scrittura delle circolari del Consiglio in tema di selezione, nomina e valutazione dei semi-direttivi e direttivi; Circolari troppo spesso rivendicate a vanto da parte di questo gruppo;
– ho visto in occasione di ogni competizione elettorale il rincorrersi di tatticismi associativi e politici con la rinuncia a competizioni elettorali effettive per il nostro Autogoverno;
– ho visto selezionare i candidati di UNICOST al CSM eludendo le regole che noi stessi ci siamo dati (abbiamo stabilito che un giudice cambiasse funzioni anche nella prospettiva di essere eletto come PM, abbiamo deciso – con un’interpretazione formalista del nostro statuto – che non vi fosse incompatibilità tra i membri del comitato direttivo della SSM e la candidatura al CSM);
– ho visto la corrente silente e immobile mentre la magistratura subiva quotidianamente la divisione in caste (rievocando momenti e fasi storiche che ritenevamo superate): quella dei dirigenti, dei fuori ruolo, dei consiglieri e degli ex consiglieri e quella dei magistrati chiusi negli uffici a spalare fascicoli e ho visto, progressivamente, prendere piede nei colleghi piegati sui fascicoli speranza e timore. La speranza di potere ascendere alla casta superiore e il timore di non riuscire a farlo;
– ho visto, così, in modo irresistibile, anche la stragrande maggioranza dei magistrati adagiarsi e adattarsi a questo stato di cose cercando di cavalcare l’onda della degenerazione correntizia per perseguire proprie ambizioni personali.
Tutto questo ci ha portato al punto in cui siamo e quello che avviene in questi giorni non accade per caso: perdonatemi – lo dico con sincero dolore e rabbia – siamo la corrente che ha scelto di evocare nel suo nome la Costituzione, ma non siamo stati in grado di pretendere il rispetto del codice etico dagli associati e dai nostri rappresentanti che dovrebbero essere i migliori di noi, quelli con i quali i magistrati identificano Unità per la Costituzione.
Mi piacerebbe, però, che questo fosse anche un momento per ricostruire e ripartire. Mi sono accostato ad Unità per la Costituzione perché mi riconosco nell’idea di un magistrato privo di pregiudizi politici, rispettoso delle idee altrui e felice di avere come unica protezione della sua azione la forza della Costituzione e della sua professionalità. Vi confesso, però, che quando un collega, subito dopo le prime notizie, mi ha detto “non voglio più sentire il nome di Unità per la Costituzione”, non ho trovato nell’immediatezza alcuna argomentazione per replicare in modo convinto e credibile. Se sono qui oggi con voi e insieme a voi è perché, invece, gli argomenti li voglio trovare. Li voglio trovare perché sono fortemente convinto che il fallimento definitivo dell’associazionismo giudiziario e dei gruppi associativi – unico antidoto che salvaguarda l’ANM dall’infiltrazione di lobby e centri di interesse – costituirebbe il fallimento della magistratura nella quale sognavo di entrare da liceale e nella quale voglio continuare a lavorare. Un fallimento che sarà l’anticamera di una magistratura burocratizzata esposta all’influenza della politica e pertanto assoggettata al consenso popolare. Li voglio trovare perché la magistratura – soprattutto quella più giovane – è portatrice di una straordinaria carica ideale che funziona come carburante di un corpo professionale che sta dimostrando con orgoglio in ogni sede di avere gli anticorpi necessari per fare pulizia al suo interno. Gli argomenti e le proposte che dobbiamo trovare richiedono, però, rigore, coraggio e determinazione, la stessa che si deve, a volte, mettere nel nostro lavoro quando si lavora per mesi ad un’indagine difficile con la consapevolezza che, se le cose possono andare male, sappiamo comunque di aver fatto il nostro dovere. E allora rendiamo utile a noi stessi e all’intera magistratura italiana questo momento drammatico per rimettere al centro dell’azione associativa i nostri valori e non le nostre ambizioni e facciamolo senza guardare quello che avviene nelle altre correnti, per una volta, senza calcoli elettorali. Quanto è stato fatto in questi terribili giorni dall’attuale gruppo dirigente va nella direzione giusta: riconoscere i clamorosi errori commessi e subire le conseguenze politiche di quanto accaduto è, però, solo l’inizio del percorso. Dobbiamo avere la forza ora di cambiare veramente:
– i nostri Consiglieri siano magistrati al servizio degli altri magistrati che – all’onore di sedere negli scranni del CSM – affianchino maggiori oneri. Chiediamo ai nostri candidati l’impegno a non presentare domanda per incarichi direttivi o semi-direttivi per la consiliatura successiva a quella nella quale hanno operato;
– al CSM e sulle questioni che non sono di principio – come il conferimento degli uffici direttivi o semi-direttivi – le decisioni dei nostri consiglieri non siano il frutto di una scelta di gruppo, ma dei singoli sulla base delle diverse sensibilità individuali;
– nelle more della necessaria modifica alla possiamo legge elettorale del CSM, dobbiamo allentare la nostra presa sulle candidature e sulle liste accettando più candidati e più rappresentanti dai territori;
– l’ANM nazionale non può essere l’anticamera del CSM. Non siamo stati in grado di gestire il passaggio dal ruolo associativo a quello istituzionale. Prevediamo incompatibilità effettive tra i nostri rappresentanti all’ANM e quelli al CSM;
– rendiamoci primi promotori di una riscrittura delle circolari sulla dirigenza e riduciamo la distanza tra alta e bassa magistratura. I dirigenti devono essere valutati secondo i risultati che hanno effettivamente conseguito valorizzando anche le valutazioni dei colleghi d’ufficio con criteri obiettivi e verificabili. La dirigenza non può essere uno status onorifico permanente ma, tra un incarico e l’altro, ci deve essere un congruo periodo di giurisdizione ordinaria.
Solo se metteremo – conclude il dottor Bisogni – tutti veramente testa e cuore in queste battaglie avremo ancora i colleghi al nostro fianco e restituiremo senso alle cose terribili di questi giorni. Rita Levi Montalcini ha detto ”non temete i momenti difficili, il meglio viene li”.
Caso Palamara, Csm e Anm fanno sparire l’indagine. Giovanni Altoprati il 7 Gennaio 2020 su Il Riformista. E tre. Sparita dai radar l’indagine della Procura di Perugia, perse le tracce del procedimento disciplinare del Csm, anche la decisione dei probiviri dell’Anm sulle toghe coinvolte nel caso “Palamara” è finita nel cassetto. Dal Palazzaccio di piazza Cavour, sede dell’Anm, non si hanno da mesi più notizie sullo stato del fascicolo per violazione del codice etico aperto a carico dei magistrati coinvolti nelle cene dello scorso maggio con i deputati del Pd Cosimo Ferri, ora Italia viva, e Luca Lotti, dove si discuteva delle nomine di alcune Procure, iniziando da quella di Roma. Gli incontri romani fra toghe e politici furono registrati tramite il Trojan installato nel cellulare dell’ex presidente dell’Anm e membro del Csm, Luca Palamara, sotto indagine a Perugia dal 2018 per corruzione. Secondo l’accusa, Palamara avrebbe ricevuto denaro e benefit in cambio della nomina, non avvenuta, di Giancarlo Longo a procuratore di Gela. Era il 5 giugno quando il Comitato direttivo centrale dell’Anm decise all’unanimità di deferire al collegio dei probiviri i magistrati investiti dalla bufera scaturita dall’indagine della Procura del capoluogo umbro. Venne anche diramato un comunicato: il Comitato, «deferisce al collegio dei probiviri, cui spetterà di verificare la sussistenza di violazioni del codice etico, i colleghi Luca Palamara, Cosimo Ferri, Luigi Spina, Antonio Lepre, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli e Gianluigi Morlini, riservandosi di deferire altri colleghi che risultassero coinvolti nella medesima vicenda o in altre simili». Trascorsi sei mesi da allora, il nulla. I cinque ex consiglieri, costretti alle dimissioni, sono da tempo tornati in servizio nei rispettivi uffici. Spina, indagato per rivelazione del segreto e favoreggiamento nei confronti di Palamara, è addirittura procuratore facente funzioni a Castrovillari, una delle Procure più impegnate sul fronte del contrasto all’ndrangheta. L’inerzia dell’Anm non ha molte giustificazioni. Il procedimento disciplinare per violazione del codice etico è di prassi molto rapido. La particolare natura del giudizio disciplinare associativo riguarda, infatti, esclusivamente violazioni delle regole associative, senza alcuna censura di carattere morale, ma con un giudizio solamente giuridico. È un procedimento celere, in ragione dei diritti associativi in gioco, e non necessita della conclusione di altri procedimenti, ad esempio penali, aperti nei riguardi degli interessati. La decisione dei probiviri è poi sottoposta al voto del Comitato direttivo centrale, che può anche decidere, nei casi estremamente gravi, di espellere il magistrato dall’Anm. Considerati i tempi, sarà molto però difficile che si arrivi ad una qualsiasi decisione. L’attuale Comitato direttivo centrale terminerà il mandato fra poche settimane. Le elezioni per il suo rinnovo sono state già fissate per il prossimo 22 marzo. A febbraio scadrà il termine per la presentazione delle candidature fra i rappresentanti delle varie correnti. Di questa vicenda, quindi, l’unico che al momento ha avuto “contraccolpi” è stato Palamara, dallo scorso autunno in “ferie forzate”. Sospeso dal servizio e con lo stipendio ridotto, l’ex presidente dell’Anm attende la decisione delle Sezioni unite della Cassazione sul provvedimento cautelare disposto dalla sezione disciplinare del Csm. La tesi di molti commentatori secondo cui l’indagine di Perugia non sarebbe stato altro che un pretesto per il ribaltone degli equilibri all’interno magistratura associata prende sempre più corpo. Travolta Magistratura indipendente, la corrente di destra della magistratura e di cui facevano parte tre dei cinque consiglieri dimissionari, destinata alla scomparsa Unicost, la corrente di Palamara, l’asse vincente per i prossimi anni sarà quindi quello Davigo-Magistratura democratica. Con la massima soddisfazione del ministro Alfonso Bonafede, il primo supporter dell’ex pm di Mani pulite.
Caso Palamara, per il Gip non ci sono prove. L’ex Pm vittima di congiura. Giovanni Altoprati de Il Riformista il 24 Marzo 2020. Tre soggiorni a San Casciano dei Bagni (SI), uno a Favignana (TP), uno a Madonna di Campiglio (TN), uno a Dubai e uno a Madrid. Sette viaggi per un totale di 7.619,75 euro. L’indagine di Perugia che ha travolto le toghe italiane e ha “consegnato” la maggioranza nel Consiglio superiore della magistratura al gruppo di Piercamillo Davigo ruota intorno a questi sette soggiorni effettuati da Luca Palamara fra il 2014 ed il 2017 e pagati dall’imprenditore e lobbista Fabrizio Centofanti. È quanto emerge dal provvedimento di sequestro preventivo nei confronti di Palamara disposto lo scorso 4 marzo dal Tribunale umbro. L’emergenza Covid-19 deve aver risvegliato dopo mesi di silenzio gli inquirenti: in circa duecento pagine, con dovizia di particolari, il gip di Perugia Lidia Brutti ricostruisce la genesi dell’intera indagine, iniziata nel 2016 dalla Procura di Roma nei confronti di Centofanti, svelando gran parte delle carte in mano all’accusa. Il tema su cui si concentra l’attenzione degli investigatori è il rapporto, iniziato nel 2008, fra Centofanti e l’ex consigliere del Csm ed ex presidente dell’Anm. Una relazione, afferma il gip, «inquinata da interessi non confessabili». «Centofanti – scrive il gip – da tempo operava come lobbista, aveva svolto attività di lobbying per conto di importanti gruppi imprenditoriali, nelle sedi politico/istituzionali. In tale ambito operativo aveva mirato ad accrescere la propria capacità di influenza intessendo una rete di relazioni con rappresentanti di varie istituzioni e con soggetti a loro volta portatori di interessi di importanti gruppi di pressione, alcuni dei quali avevano svolto tale ruolo in modo disinvolto e talora illecito». Il rapporto fra i due, sottolinea il gip, è “opaco” e “anomalo”. Il motivo? Gli incontri avvenivano “soltanto con modalità semi/clandestine”, con numerose accortezze da parte di Centofanti, come ad esempio “lasciare il telefono in auto” prima di incontrare Palamara. Tale rapporto, che espone a pericolo di «pregiudizio l’imparzialità e il buon andamento della funzione pubblica esercitata da Palamara», manca però della pistola fumante. «Non vi è prova che Palamara abbia compiuto in conseguenza delle utilità ricevute atti contrari ai doveri d’ufficio» e «non vi sono elementi sufficienti per affermare che un effetto dannoso sia stato concretamente prodotto», puntualizza il magistrato umbro. Sui fascicoli rinvenuti nell’ufficio del pm romano e sottoposti a sequestro, «non vi è prova che Palamara abbia effettivamente dato seguito alle segnalazioni ricevute». «Io ho scontato il fatto – si difende Palamara – che con tutto quello che ho fatto nella carriera ho ricevuto segnalazioni e richieste da parte di tanti», in primis «magistrati e forze dell’ordine». Per i magistrati le segnalazioni non riguardavano solo gli incarichi direttivi ma anche per “la legge 104”. «Non dico mai no, ma cerco di rallentare, di non esaudire nella speranza che le persone desistano. Quando è possibile, nei limiti del consentito, cerco di esaudire le richieste come ho fatto con tantissime persone», aggiunge Palamara. Nella tesi investigativa gli inquirenti contestano a Palamara l’articolo 318 del codice penale nella formulazione introdotta dalla legge Severino del 2012, “corruzione per esercizio della funzione”. Il reato svincola la punibilità dalla individuazione di uno specifico atto ricollegandola al generico “mercimonio della funzione”. Insomma, Palamara sarebbe stato a libro paga di Centofanti, anche se non è chiaro a quale scopo, dato che, è lo stesso gip a ricordarlo, «il contributo del singolo consigliere non può assumente rilievo determinante nell’ambito dei processi deliberativi di un organo collegiale e non sono stati individuati specifici comportamenti anti/doverosi attribuibili a Palamara». Il sospetto, allora, è che qualcuno fra le toghe abbia voluto preparare il classico “piattino” a Palamara nel momento in cui la magistratura italiana aveva cambiato rotta. Con Unicost, la corrente di centro di cui Palarmara era stato per anni ras indiscusso, che aveva rotto lo storico rapporto con le toghe di Magistratura democratica per allearsi con la destra giudiziaria di Magistratura indipendente. Alleanza che aveva determinato, ad esempio, l’elezione nel 2018 del vice presidente del Csm David Ermini (Pd). Il 16 maggio scorso, avvisato dal collega Luigi Spina che la Procura di Perugia ha trasmesso l’informativa al Csm, Palamara capisce di essere finito nel mirino. In una concitata telefonata con la sorella Emanuela, avvenuta il successivo 29 maggio, Palamara si sfoga: «Me la vogliono far pagare». Il pm romano, dalla scorsa estate sospeso dal servizio, è assistito dagli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti. Nel procedimento disciplinare sarà invece assistito da Stefano Guizzi, consigliere della Corte di Cassazione.
Caso Cesaro, terremoto in tribunale: il giudice stoppa le intercettazioni a strascico. Viviana Lanza su Il Riformista il 19 Giugno 2020. La riforma sulle intercettazioni prorogata a settembre, l’app per il contact tracing tra le ultime novità e da gennaio la sentenza della Cassazione a Sezioni unite (la sentenza Cavallo) a creare uno squarcio nella rete delle intercettazioni a strascico, dichiarando non valide quelle per reati non connessi e diversi dai reati per i quali erano state autorizzate. Quante cose stanno accadendo… Si ragiona sulla tecnologia, madre e matrigna, che può aprire mondi o comprimere diritti. Come nel caso delle intercettazioni. Sì, il famoso trojan, quello che qualche magistrato ha trasformato in esclusivo metodo d’indagine, che può rivelarsi un utile strumento investigativo ma anche un mezzo per andare alla ricerca di reati più che di responsabili. Basta informarsi su alcune delle più clamorose inchieste degli ultimi anni – come quelle partite da Napoli e approdate a Roma, come quelle capaci di condizionare non solo vite personali ma anche il corso della politica – per accorgersi che un buon numero di inchieste su reati ipotizzati nella sfera della pubblica amministrazione si basano sulle cosiddette intercettazioni a strascico, quelle che mettono sotto controllo decine di persone per scoprire decine di fatti (che poi bisogna vedere se sono o no reati), quelle che i decreti autorizzativi sono sì autonomi ma si basano sui contenuti di intercettazioni raccolte partendo da tutt’altri fatti per tutt’altre notizie di reato. Cosa ne sarà di tutte queste inchieste? Di certo nei vari gradi di giudizio si dovranno confrontare con la nuova linea dettata dalla Corte di Cassazione con la sentenza Cavallo. La sentenza è di gennaio scorso ma tra l’emergenza Covid e il lockdown è tema che da poco infiamma le aule di Tribunale. Non perché l’argomento sia nuovo in sé (in passato ci sono stati giudici chiamati a pronunciarsi sulla utilizzabilità o meno delle intercettazioni a strascico) ma perché la decisione delle Sezioni unite si pone ora come argine per risolvere un antico conflitto giurisprudenziale. In ordine di tempo, quindi, una delle prime applicazioni della sentenza Cavallo si ritrova nella decisione del Tribunale del Riesame di Napoli (ottava sezione) che nei giorni scorsi ha annullato la misura cautelare, dichiarando inutilizzabili le intercettazioni al cuore delle accuse nell’ambito dell’inchiesta sulla riqualificazione dell’area ex Cirio di Castellammare di Stabia, indagine che coinvolge imprenditori, pubblici amministratori e parlamentari. «E ciò non per ossequio a un criterio di tipo formalistico da contrapporsi all’approccio “sostanzialistico” suggerito dal pm – si legge nelle motivazioni del Riesame di Napoli – ma perché è la concreta lettura dei provvedimenti di intercettazione a rendere palese come, all’atto della loro emissione o proroga, non sia stato effettuato dal gip, né richiesto dal pm, alcun vaglio circa la sussistenza di gravi indizi del reato di corruzione». Gravi indizi del reato: è un passaggio fondamentale, quello su cui c’è da aspettarsi grande battaglia tra pm, giudici e avvocati. «È uno dei punti su cui ancora non si è stabilita una giurisprudenza e una linea costante – spiega l’avvocato Giovan Battista Vignola, uno dei penalisti del collegio difensivo che dinanzi al Riesame di Napoli ha ottenuto l’annullamento della misura per l’inutilizzabilità delle intercettazioni – ma la sentenza Cavallo ha messo un punto fermo. Le intercettazioni vanno motivate e autorizzate sulla base di gravi indizi dell’esistenza del reato e non possono essere usate come strumento per cercare reati». «Si tratta di una decisione coerente con il rigore della ratio e della portata della disciplina costituzionale della libertà e della segretezza delle comunicazioni – osserva, a proposito della sentenza Cavallo, il professor Vincenzo Maiello, ordinario di diritto penale all’università di Napoli Federico II e penalista che è nel collegio difensivo che dinanzi al Riesame di Napoli ha ottenuto la pronuncia sulla inutilizzabilità delle intercettazioni a strascico – Rappresenta un punto di equilibrio, ragionevole e proporzionato, tra la tutela di questo diritto fondamentale e la doverosa attività di ricerca della prova finalizzata all’accertamento dei reati e alla loro punizione. Le Sezioni unite – aggiunge – hanno inteso porre un argine a letture lassiste, eccessivamente largheggianti, del dato normativo che a loro volta finivano per legittimare la pratica delle cosiddette autorizzazioni in bianco».
Arresti erano illegittimi. Su Cesaro e Pentangelo c'era solo tanto fango. L’indagine riguarda la riqualificazione dell’area ex Cirio di Castellammare di Stabia. Sulla richiesta di arresto di Cesaro e Pentangelo si sarebbero dovute esprimere le Camere di appartenenza. Gabriele Laganà, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. Il Tribunale del Riesame ha annullato la richiesta di arresto per i parlamentari di Forza Italia Luigi Cesaro e Antonio Pentangelo. La decisione è arrivata ai sensi della cosiddetta "sentenza Cavallo": in pratica, le intercettazioni autorizzate per provare alcuni reati non possono essere utilizzate in un differente procedimento penale. Nel caso dei due esponenti azzurri, infatti, tali intercettazioni che avevano portato alla misura cautelare erano antecedenti alle ipotesi di reato contestate dalla Procura. La misura cautelare in carcere con il beneficio dei domiciliari era stata richiesta dalla Procura di Torre Annunziata nell'ambito dell'inchiesta sulla riqualificazione dell'area ex Cirio di Castellammare di Stabia. Secondo gli investigatori, i due parlamentari sarebbero stati corrotti dall'imprenditore stabiese Greco per ottenere delle autorizzazioni. Sulla richiesta di arresto dei due esponenti azzurri si sarebbero dovute esprimere le rispettive Camere di appartenenza (il Senato per Cesaro e la Camera dei Deputati per Pentangelo, ndr) ma con l'annullamento non sarà più necessaria la decisione. Le motivazioni specifiche dell’annullamento della richiesta di arresto per i parlamentari non sono state ancora rese note ma gli avvocati Giovan Battista Vignola e Giuseppe De Angelis, difensori di Cesaro, e Antonio Cesarano, legale di Pentangelo, hanno puntato sulla violazione "di legge in ordine alla corretta applicazione delle norme che regolano le intercettazioni telefoniche". Si tratta della cosiddetta sentenza Cavallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che in passato ha riguardato il tema delle "intercettazioni a strascico", il principio giuridico secondo il quale se nel corso di intercettazioni telefoniche autorizzate per una ipotesi di reato specifica emergono altre ipotesi di reato, allora è necessario chiedere nuovi decreti autorizzativi al gip, così da procedere separatamente per i due reati. Circostanza questa che, secondo quanto emerso nel corso della discussione davanti ai giudice della Libertà, non si è verificata. Cesaro si era sempre detto fiducioso nell'operato della magistratura e si era augurato di avere "in tempi stretti la possibilità di chiarire la totale estraneità alle vicende e ai fatti contestati". Pentangelo, invece, si era detto "esterrefatto nell'apprende la notizia di un mio paventato coinvolgimento in ipotesi di reato per una vicenda della quale viene fornita, per la mia posizione, una ricostruzione totalmente distante dalla realtà" e aveva annunciato che non avrebbe partecipato ai lavori di commissione "in attesa di chiarire la mia posizione prima possibile". "L’ordinanza impugnata dal senatore Cesaro ed ora annullata dal Tribunale del Riesame si sostanzia nel fatto che nei confronti del nostro assistito non doveva essere e non poteva essere né richiesta né emessa la misura cautelare", hanno affermato gli avvocati Giovan Battista Vignola e Giuseppe De Angelis, difensori del senatore Cesaro. I legali hanno aggiunto che si è confermata "ancora una volta che la condotta del senatore Cesaro è sempre stata ispirata alla correttezza e alla trasparenza, dimostrando puntualmente in tutte le sedi la sua totale estraneità alle diverse vicende contestategli".
Il Riesame annulla domiciliari per Cesaro e Pentangelo, ma erano già nel tritacarne mediatico. Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Giugno 2020. Come quelle linee di cui si vede l’inizio ma non la fine. Come quelle matrioske che ne apri una e dentro ce ne trovi un’altra e potresti continuare all’infinito. Tecnicamente vengono definite “intercettazioni a strascico”. Una ne richiama un’altra, e un’altra, e un’altra ancora. E così si riesce ad annaspare tra dialoghi e reti di relazioni e persone, continuando fin quando non si arriva a intercettare la persona cercata, l’obiettivo. Perché chi cerca trova sempre qualcosa. Bisogna poi vedere quanto quel qualcosa sia penalmente rilevante. Bisogna vedere se quel qualcosa poggia su solide accuse o solo su deduzioni, ipotesi, interpretazioni. A gennaio la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la cosiddetta sentenza Cavallo, si è pronunciata sulle intercettazioni a strascico, ritenendole inutilizzabili. Si è così posto un argine al fiume di conversazioni intercettate, che costano all’anno decine di milioni di euro, e fissate su bobine che finiscono nei fascicoli di indagine. La Cassazione ha stabilito che non sono utilizzabili le conversazioni captate per altri reati e autorizzate in inchieste diverse da quella per cui si procede (unica eccezione i casi di criminalità organizzata), tracciando di fatto un limite ad uso eccessivo delle intercettazioni e al loro passaggio da un filone investigativo all’altro senza relativa autorizzazione. Perché intercettare una persona vuol dire entrare nella sua vita in maniera così invadente che devono esserci una valida motivazione e una formale autorizzazione. Come a dire che non si può chiedere l’arresto di una persona sulla base del contenuto di conversazioni intercettate nell’ambito di un’indagine in cui quelle intercettazioni non sono state specificamente autorizzate. Come a dire che il metodo della matrioska, in un settore delicato come quello delle intercettazioni, non è utilizzabile. Un po’ quello che è accaduto nel caso di Luigi Cesaro e Antonio Pentangelo, i due parlamentari del centrodestra che la Procura di Torre Annunziata voleva agli arresti domiciliari, in via cautelare, per ipotesi di corruzione nell’ambito dell’indagine sulla riqualificazione dell’area dell’ex Cirio di Castellammare di Stabia. Il Tribunale del Riesame (ottava sezione, presidente Pepe, a latere Purcaro e Maddalena) ha annullato la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di Cesaro e Pentangelo, misura che pendeva come richiesta in attesa della pronuncia delle Camere e che a questo punto, con l’ordinanza emessa ieri dal Riesame, è annullata. La Procura potrà, se vorrà, fare ricorso per Cassazione. Ma la strada sembra comunque segnata. Proprio appellandosi a una recente sentenza della Cassazione, infatti, i difensori dei due parlamentari avevano argomentato l’istanza al Tribunale della Libertà. Le motivazioni saranno depositate a giorni, ma appare evidente che il Riesame abbia accolto la linea della difesa. «L’ordinanza impugnata dal senatore Cesaro e annullata dal Riesame si sostanzia nel fatto che nei confronti del nostro assistito non doveva e non poteva essere né richiesta né emessa la misura cautelare», affermano gli avvocati Giovan Battista Vignola e Giuseppe De Angelis aggiungendo che “si conferma la condotta del senatore ispirata alla correttezza e alla trasparenza”. «Ogni volta che un giudice afferma un diritto viene affermato un principio di democrazia del Paese», aggiunge l’avvocato De Angelis a proposito della pronuncia dei giudici sull’inutilizzabilità delle intercettazioni a carico di Cesaro. «Il provvedimento emesso dai giudici del Tribunale del Riesame conforta le nostre tesi, ovvero l’assoluta correttezza e osservanza delle leggi da parte dell’onorevole Pentangelo», commenta l’avvocato Antonio Cesarano, legale dell’onorevole. «Oggi le buone notizie sono due – interviene Fulvio Martusciello, europarlamentare di Forza Italia – La prima è la conferma, qualora ce ne fosse bisogno, del corretto operato dei nostri parlamentari. La seconda è l’affermazione di un principio di legalità sancito da un collegio giudicante e non da un organismo di garanzia delle Camere. Un ottimo segnale per la democrazia – aggiunge Martusciello – in un Paese nel quale si può continuare ad avere piena fiducia nella magistratura». Soddisfazione anche da parte del senatore Domenico De Siano, coordinatore regionale campano di Forza Italia: «Da garantisti convinti – commenta – ribadiamo la piena fiducia nella magistratura, rimarcando come l’affermazione del principio di legalità coincida con l’affermazione del principio di democrazia».
“Intercettazioni su Cesaro e Pentangelo inutilizzabili”, deputati colpiti dalla macchina del fango. Viviana Lanza su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Ci sono almeno tre argomenti che per il caso dell’ex Cirio, inchiesta per presunta corruzione a Castellammare di Stabia, invitano a usare cautela nei giudizi, evitando quelli affrettati e che potrebbero risolversi in una bolla di sapone. Non sarebbe la prima volta, del resto, che accuse su cui si sono inizialmente sollevati grossi scandali giudiziari si siano poi ridimensionate nelle aule di tribunale. Ci sono almeno tre passaggi, dunque, su cui la difesa di Luigi Cesaro (avvocati Giovanbattista Vignola e Giuseppe De Angelis) e di Antonio Pentangelo (avvocato Antonio Cesarano) punta l’attenzione in attesa della decisione delle Camere sulla richiesta di arresti domiciliari avanzata dagli inquirenti nei confronti dei due politici, oggi parlamentari di Forza Italia e già presidenti della Provincia di Napoli, e in attesa del possibile, quasi scontato, ricorso al Riesame da parte dei difensori. Due argomenti sono di carattere tecnico giuridico, un terzo va invece dritto al cuore delle vicende al centro dell’inchiesta. Ed è quest’ultimo un punto centrale nella ricostruzione difensiva. “Tutta l’operazione oggetto delle indagini sembrerebbe non essere affatto finalizzata alla emanazione di provvedimenti illeciti ma piuttosto a rimuovere un’inspiegabile inerzia burocratica ai limiti dell’ostracismo, tanto da dover sollecitare la nomina di un commissario ad acta per l’espletamento delle incombenze richieste”, osservano i difensori di Cesaro. È un ragionamento che si basa su una chiave di lettura dei fatti diversa da quella proposta dalla Procura di Torre Annunziata che coordina l’indagine, e su una ricostruzione che considera l’interesse della politica verso una simile opportunità per il territorio come un’attenzione legittima e confinata nei limiti dei compiti istituzionali di un politico. “Nessun atto illegittimo è stato fatto, nessun atto contrario ai doveri di ufficio”, spiega l’avvocato Cesarano, difensore di Pentangelo, evidenziando come il ruolo del suo assistito si sia limitato alla nomina del commissario. Un commissario ad acta di cui nelle intercettazioni si parla come di uno che lavora per 1.800 euro. “Ma stiamo scherzando?”, si commenta in una delle intercettazioni agli atti, come a meravigliarsi secondo la chiave di lettura che offre la difesa. Uno stupore che si ritrova anche quando un consigliere comunale si meraviglia di avere a che fare con una politica che non chiede nulla, non chiede soldi: “Ma quando l’hanno avuta una cosa del genere senza cacciare una lira?”. Eppure il progetto di riconversione dell’ex Cirio era un’operazione imponente, operazione che, come si ascolta in una delle conversazioni intercettate, avrebbe trasformato “le baracche in oro”. Centrale nell’inchiesta è la figura di Adolfo Greco, imprenditore molto conosciuto nella zona, uno con tantissimi amici e una fitta rete di relazioni con tutti i partiti, dal centrosinistra al centrodestra passando per gli esponenti di Scelta Civica. “In nessun passaggio emerge che Cesaro e Pentangelo abbiano chiesto soldi o altro”, spiega la difesa a proposito dei rapporti con l’imprenditore. Quanto all’orologio avuto in dono da Pentangelo si sarebbe trattato di un regalo di compleanno arrivato a distanza di molto tempo dai fatti, mentre a proposito dello sconto per il fitto della sede di Forza Italia di cui pure si parla nell’inchiesta, la difesa smonta l’ipotesi accusatoria evidenziando come il canone fosse a carico del partito a Roma e non già del coordinamento regionale. I fatti, a volte, si prestano a più chiavi di lettura. Poi ci sono le argomentazioni più strettamente tecniche e riguardano le intercettazioni al cuore delle accuse e la tempistica delle richieste di misura cautelare. Sulle intercettazioni i difensori di Cesaro e Pentangelo sollevano una questione di legittimità e utilizzabilità essendo state, le intercettazioni al cuore di questa inchiesta, disposte e autorizzate in relazione a un reato non connesso a quello ipotizzato a carico dei politici. La seconda perplessità difensiva riguarda la tempistica delle richieste di misura cautelare, e quindi l’attualità delle esigenze cautelari su cui base la Procura ha basato la richiesta di arresti domiciliari per Cesaro e Pentangelo: i fatti si riferiscono agli anni dal 2013 al 2015. “E di essi già da tale epoca – spiega la difesa – l’autorità giudiziaria ne era a conoscenza. Perché allora la decisione di emettere a distanza di tale lasso di tempo una misura così grave come quella adottata?” Questo è uno dei tanti interrogativi che su questa vicenda restano ancora aperti.
Caso Palamara, spunta il "salvagente" per le toghe. Non utilizzabili le intercettazioni compiute per altre inchieste. Appiglio pure per Maroni. Luca Fazzo, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Una svolta che potrebbe salvare Roberto Maroni, l'ex presidente della Regione Lombardia recentemente condannato anche in appello per induzione indebita. Ma che sullo sfondo ha anche un'altra vicenda, e di rilevanza ancora maggiore: lo scandalo che ha investito il Consiglio superiore della magistratura, le cui manovre sottobanco sono state messe in luce da una serie di intercettazioni che hanno portato a incriminazioni eccellenti e dimissioni. A partire da quelle del giudice Luca Palamara, leader della corrente di Unicost, e del procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio. A unire le due vicende (ma anche molte altre di minor rilievo) è la sentenza, per alcuni aspetti rivoluzionaria, emessa il 2 gennaio dalle Sezioni Unite della Cassazione. Tema cruciale: la utilizzabilità in un'inchiesta e in un processo di intercettazioni compiute in un'altra indagine. È il sistema invalso da anni, con verbali che rimbalzano da una inchiesta all'altra. Finora la Cassazione aveva lasciato le briglie sciolte alle Procure: bastava che il contesto fosse più o meno uguale, che uno o più indagati comparissero in entrambi i filoni, e tutto si poteva utilizzare. Il caso più recente e lampante era stato proprio quello di Maroni: intercettato in una costola dell'indagine sugli appalti in India di Finmeccanica, finita in nulla, ma poi inquisito e condannato per i favori fatti in Lombardia a una collaboratrice del suo staff. La motivazione della condanna in appello, depositata l'altro ieri, dice che le intercettazioni erano utilizzabili essendoci «connessione soggettiva e probatoria tra i due procedimenti», «siccome erano evidenti le necessità di approfondire i rapporti tra Maroni e i suoi più stretti collaboratori». Macché, dicono ora le Sezioni Unite della Cassazione: le intercettazioni possono transitare da un indagine all'altra solo nei casi previsti dall'articolo 12, cioè se i reati sono commessi «con una sola azione» o con un «unico disegno criminoso», o il secondo reato per coprire il primo. Maroni, quando il suo caso approderà in Cassazione, potrà giovarsi della svolta. Ma lo stesso potranno fare esponenti di spicco della magistratura coinvolti dall'inchiesta sul Csm, e intercettati insieme a Palamara. Dovrebbero salvarsi l'ex procuratore generale della Cassazione, Fuzio, e l'ex membro del Csm Luigi Spina, accusati di avere rivelato a Palamara l'esistenza dell'inchiesta a suo carico. L'inutilizzabilità delle intercettazioni in sede penale potrebbe essere fatta valere anche in sede disciplinare dai numerosi ex membri del Csm finiti sotto procedimento. Per non parlare di cosa accadrebbe se la Corte Costituzionale desse ragione a Cosimo Ferri, senatore di Italia viva, che accusa la Procura di Perugia di averlo intercettato abusivamente mentre parlava con i membri del Csm.
Giacomo Amadori per “la Verità” il 10 gennaio 2020. L'inchiesta perugina sul presunto mercato delle nomine al Csm ci regala un nuovo colpo di scena. L' uomo le cui dichiarazioni sono la principale fonte d' accusa dei magistrati umbri è finito sotto indagine per calunnia presso la Procura di Messina. Direte: magari si tratta di storie completamente diverse. Sbagliato. Il grande accusatore, l' ex pm Giancarlo Longo, che, nel dicembre 2018, dopo aver lasciato magistratura, ha patteggiato una pena di cinque anni per corruzione e altri reati, è stato iscritto per alcune delle cose che ha riferito anche a Perugia. Da una parte le sue dichiarazioni hanno giustificato perquisizioni e atti d' indagine, dall' altra sono state prese come un tentativo di infangare il buon nome dell' ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, attuale presidente del Tribunale di prima istanza del Vaticano. Ma procediamo con ordine. A fine maggio la Procura perugina ha spedito i finanzieri a casa e nell' ufficio del pm romano Luca Palamara, ex consigliere del Csm. Nel decreto di perquisizione e nell' avviso di garanzia il primo capo d' accusa per corruzione era così formulato: «Perché quale componente del Csm, riceveva da Calafiore Giuseppe e Amara Piero - in concorso tra loro e con Longo Giancarlo - la somma pari ad euro 40.000 per compiere un atto contrario ai doveri d' ufficio, ovvero agevolare e favorire il medesimo Longo nell' ambito della procedura di nomina del procuratore di Gela alla quale aveva preso parte Longo». Un reato che sarebbe stato commesso intorno all' aprile del 2016, quando Palamara era membro del Csm. Amara e Calafiore, lo ricordiamo, sono due avvocati accusati da diverse Procure di aver aggiustato processi, corrompendo giudici (a Roma hanno già patteggiato rispettivamente 36 e 33 mesi di reclusione; Amara ha chiuso la pratica anche a Messina incassando altri 14 mesi). La succitata accusa contro Palamara nasce dalle dichiarazioni rese da Longo a Perugia il 26 aprile 2019: «È stato Calafiore a dirmi che la candidatura a Gela, in particolare non era andata a buon fine, nonostante lui fosse intervenuto su Palamara con una dazione di 40.000 euro». Ma il 26 aprile Longo fa anche sapere ai pm di non essere così certo di quanto gli riferisse Calafiore: «Raccontava molte circostanze similari e non so dire se millantasse o altro». Per i magistrati probabilmente, almeno su questo punto, no. Ma nella stessa giornata, l' avvocato di Longo, Bonaventura Candido, fa presente che nel luglio 2018 il suo assistito aveva riferito a Messina di una circostanza «presumibilmente di vostra competenza relativa a un altro magistrato». Nel verbale sintetico si legge quanto Longo dichiarò subito dopo: «Ho riferito che attraverso un telefono cellulare poi non rinvenuto ero stato avvisato da Calafiore che Amara era stato informato di una mail che De Lucia (procuratore di Messina, ndr) aveva inviato a Pignatone (che stava indagando su Amara e Calafiore a braccetto con i colleghi messinesi, ndr), contenente in allegato la bozza della richiesta di misura cautelare nei nostri confronti (di Longo, Amara e Calafiore, ndr)». Arresto poi in effetti avvenuto nel febbraio 2018. Di quella bozza, secondo il grande accusatore, Amara «era venuto a conoscenza attraverso il fratello del dottor Pignatone», Roberto, il quale in passato era stato un consulente dello stesso Amara. La notizia gli sarebbe stata confermata dall' avvocato su una chat riservata (Wickr, dove i messaggi si autodistruggono) inviata su un telefonino che gli era stato fornito dai due coimputati per interloquire con loro e che «al momento dell' arresto è stato gettato nella spazzatura». Tutto ciò sarebbe avvenuto «nel settembre/ottobre 2017». A Messina Longo aveva riferito all' incirca le stesse cose, aggiungendo: «Sia Amara che Calafiore avevano un rapporto diretto col fratello di Pignatone a loro dire, a quello che so è un professore che si occupa di economia». Non è finita: «Calafiore mi disse che mi stavano arrestando. Mi consigliò di trovarmi un avvocato bravo e di fare una memoria difensiva. Ho poi visto due cnr (comunicazioni notizie di reato, annotazioni degli investigatori ndr) delle quali intendo riferire». Calafiore nell' incidente probatorio del 3 luglio 2018 prima avverte i giudici che «Longo è uno dei miei più cari amici», ma poi smentisce il compare sia a proposito delle dichiarazioni su Palamara sia di quelle sui fratelli Pignatone. «Io non ho riferito a Longo di nessuna mail [] Non ho rapporti diretti con il fratello del dottor Pignatone, non so nemmeno se l' ho mai incontrato. Io non ero a conoscenza della misura di custodia cautelare». Calafiore ammette solo di aver mostrato le cnr a Longo, carte riservate che Amara avrebbe ricevuto da sue fonti («Mi ha detto: "Guardia di finanza, persone mie"»). Sulla base di quei documenti, ma, a suo avviso, anche della notizia dell' imminente arresto, l' ex magistrato, a tambur battente, nell' ottobre del 2017 nominò un avvocato a Messina (Candido) e preparò una memoria e una consulenza tecnica sui suoi conti correnti. Il legale depositò anche una comunicazione in cui faceva presente agli inquirenti che il suo assistito non era più magistrato di Siracusa (dove era ipotizzata la commissione di condotte illecite), ma aveva «assunto le nuove funzioni di giudice istruttore della quinta sezione civile del Tribunale di Napoli». Una mossa dall' obiettivo chiaro anche per uno studente del primo anno di giurisprudenza: il suo cliente non poteva reiterare il reato e quindi non doveva essere arrestato. Nel 2018 a Messina hanno iscritto Longo sul registro degli indagati per la presunta calunnia ai danni di Pignatone e di suo fratello Roberto, per averli incolpati di rivelazione di segreto, «pur sapendoli innocenti, poiché attribuiva a Calafiore Giuseppe delle propalazioni rivelatesi non vere». In pratica Longo oltre che corrotto sarebbe una specie di kamikaze: mentre ammetteva i reati a lui contestati alla ricerca del patteggiamento, avrebbe deciso di infangare il nome del più potente procuratore d' Italia, non si sa bene con quale fine. Fatto sta che il 10 ottobre scorso Longo ha ricevuto in carcere l'avviso di chiusura indagini e il 31 ottobre, su sua richiesta, è stato sentito a Rebibbia (dove è rinchiuso da agosto) da due pm messinesi, volati a Roma per interrogarlo sulla presunta calunnia ai danni dei fratelli Pignatone. L'indagato, nell'occasione assistito anche dall' avvocato Itana Crialesi, ha consegnato ai magistrati alcune pagine di spontanee dichiarazioni, con cui, a quanto ci risulta, avrebbe confermato le precedenti versioni. Resta inspiegabile l' atteggiamento suicida di Longo, a meno che non si voglia prendere in considerazione l' ipotesi che stia ripetendo in buona fede quanto gli è stato realmente riferito. Quel che è certo è che di fronte a valutazioni apparentemente così difformi da parte di due diversi uffici giudiziari sulle sue dichiarazioni qualcuno potrebbe trarre l' errata conclusione che Longo è un testimone credibile quando parla di Palamara, mentre è un calunniatore quando coinvolge Pignatone e famiglia.
Antonella Mascali per il Fatto Quotidiano il 10 gennaio 2020. Ha accusato il Procuratore di Catanzaro anti 'ndrangheta, Nicola Gratteri, via telecamere, di condurre inchieste "evanescenti" e per questo, ma non solo, il Procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, potrebbe essere trasferito dal Csm per incompatibilità ambientale. Ieri, la Prima commissione del Csm, presieduta da Sebastiano Ardita, ha votato all' unanimità la procedura e già lunedì Lupacchini sarà sentito dalla Prima con il suo avvocato Ivano Lai, che assicura: "Il Pg con serenità si sottoporrà alle domande del Csm". Lupacchini ha anche chiesto che la seduta sia pubblica, dovrà decidere il Csm se acconsentire. Contemporaneamente, la Prima Commissione, su richiesta di Magistratura Indipendente, Area e del laico M5S , Gigliotti ha aperto una pratica a tutela di Gratteri per le dichiarazioni di Lupacchini e per quelle della deputata del Pd Enza Bruno Bossio che aveva definito l' operazione di Gratteri uno "show" destinato a finire "in una bolla di sapone come il 90% delle sue indagini", con lo scopo di "colpire la possibilità di Oliverio di ricandidarsi". Dopo i 300 arresti di dicembre chiesti e ottenuti dal procuratore Gratteri, Lupacchini aveva rilasciato una dichiarazione su Tgcom24 che ha determinato la decisione della Prima: "I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa, che evidentemente è più importante della Procura generale. Al di là di quelle che sono poi, invece, le attività della Procura generale, che quindi può rispondere soltanto sulla base di ciò che normalmente accade e cioè l' evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della Procura distrettuale di Catanzaro stessa". Cioè il Procuratore generale accusa pubblicamente il procuratore del suo distretto di condurre inchieste basate sul nulla e di non averlo informato. Secondo la Prima commissione ci sono gli estremi per valutare un trasferimento per incompatibilità ambientale perché Lupacchini avrebbe espresso un giudizio su inchieste su cui dovrà esserci una valutazione di merito di giudici; formula un giudizio su un magistrato su cui, per funzione, deve vigilare come su tutte le altre toghe del distretto. Il Procuratore generale fa anche parte, come membro di diritto, del Consiglio giudiziario, il "Csm locale", che concorre alla valutazione professionale dei magistrati e alla loro nomina per incarichi direttivi o semi direttivi. Proprio per questo ruolo, è il ragionamento della Prima, con tale comportamento Lupacchini potrebbe aver compromesso la sua immagine di imparzialità in quel distretto. Lunedì non sarà contestata, però, solo l' intervista ma anche, ci risulta, la pubblicazione sulla pagina Facebook del Pg di una petizione contro la decisione dei giudici disciplinari del Csm di trasferimento cautelare a Potenza, come giudice civile, del procuratore Eugenio Facciolla di Castrovillari (distretto di Catanzaro), messo sotto inchiesta a Salerno dopo aver ricevuto un fascicolo dal procuratore Gratteri.
Gratteri intoccabile, il Pg critica e rischia sanzioni. Lupacchini in tv ha accusato: «Avvisa stampa e non noi». Aperto procedimento disciplinare. Felice Manti, Venerdì 10/01/2020 su Il Giornale. Chi tocca Gratteri muore. Il procuratore capo di Catanzaro non è molto amato negli uffici giudiziari del capoluogo calabrese, e questo il coraggioso magistrato antimafia l'aveva messo in conto. Ma quando le critiche al suo operato si sono spostate dalla macchinetta del caffè alle telecamere di Tgcom il disagio del tribunale calabrese è venuto fuori in maniera esplosiva. A innescare la miccia sono state le dichiarazioni del Procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Non certo un dilettante ma un gigante della magistratura, con alle spalle inchieste e processi pesantissimi, dallo strano suicidio del «banchiere di Dio» Roberto Calvi all'omicidio del giuslavorista Massimo D'Antona per mano delle nuove Br passando dalla strage di Bologna e un libro-inchiesta sulla Banda della Magliana. Nei giorni successivi alla maxi inchiesta di 'ndrangheta che ha portato a 416 indagati tra politici, avocati, amministratori, funzionari e forze dell'ordine Gratteri si è beccato via etere la durissima reprimenda di Lupacchini con frasi del tipo «abbiamo saputo i nomi degli arrestati dalla tv», «per Gratteri è più importante informare la stampa della procura generale», aggiungendo una postilla al vetriolo su «l'evanescenza di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro». «Dichiarazioni allarmanti», dicono i magistrati di Area e Magistratura indipendente, che hanno innescato il «processo» a Lupacchini, che adesso rischia il trasferimento. Anche perché contro si trova anche l'Anm, sceso in trincea a difendere Gratteri da «un'inaccettabile forma di condizionamento dell'autonomia e indipendenza dei titolari delle indagini». «Frasi sconcertanti, non argomentate e infondate» espresse da chi, dice il sindacato delle toghe, «è al vertice della magistratura requirente del distretto». Se la mafia calabrese a casa sua fa il bello e il cattivo tempo un motivo c'è. E Gratteri lo sa benissimo. La Procura calabrese è un colabrodo, tanto che per scongiurare la fuga di notizie aveva anticipato il maxiblitz anti 'ndrangheta di un giorno. Lo sa bene anche l'ex pm di Catanzaro Luigi de Magistris, anche lui «costretto» nel 2007 ad agire all'insaputa dell'allora suo capo Mariano Lombardi perché voleva indagare sui rapporti tra le toghe e i politici come l'ex senatore di Forza Italia Giancarlo Pittelli, che di Lombardi era il legale di fiducia. E oggi è in carcere per 'ndrangheta nell'inchiesta firmata Gratteri che ha scoperchiato il vaso di Pandora pieno di colletti bianchi al servizio delle 'ndrine. È in questo clima di sospetti incrociati che, tra i pm litiganti, la 'ndrangheta gode.
Il procuratore generale Lupacchini rischia il trasferimento per le critiche a Gratteri. Redazione de Il Riformista il 9 Gennaio 2020. Il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini rischia di dover lasciare il suo posto per aver criticato la Procura della Repubblica del capoluogo e il suo capo Nicola Gratteri per l’inchiesta sulla ‘ndangheta che nelle scorse settimane ha portato all’arresto di oltre 300 persone. In particolare la Prima Commissione del Csm ha aperto nei confronti di Lupacchini, convocato per lunedì prossimo, la procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale. La ‘colpa’ del procuratore generale sarebbe quella di aver delegittimato pubblicamente l’operato di Gratteri. La stessa Commissione del Consigli superiore della magistratura ha anche aperto una pratica a tutela di Gratteri per le accuse ricevute sia da Lupacchini che dalla deputata Pd Enza Bruno Bossio. Gratteri in una intervista a TgCom24 aveva parlato di “evanescenza di molte operazioni della Procura di Catanzaro”, lamentando di aver appreso soltanto dalla stampa le ragioni dei provvedimenti e i nomi degli arrestati. Nelle scorse settimane anche l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, si era espressa contro Lupacchini. “Le valutazioni del Procuratore Generale Lupacchini, come riportate dalla stampa, relative a ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip in seguito ad indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Catanzaro e in attesa di ulteriori verifiche giurisdizionali, sono sconcertanti in sè e ancor più perché provenienti dal vertice della magistratura requirente del distretto”, era la posizione netta dell’associazione di categoria.
Scontro Gratteri-Lupacchini, chiesto il trasferimento del procuratore generale di Catanzaro. Simona Musco su Il Dubbio il 21 gennaio 2020. Il pg nel mirino dopo le critiche al procuratore della Dda di Catanzaro: «non mi ha informato sul blitz, preferisce i giornali». «Otello Lupacchini va trasferito». È questa la misura cautelare invocata dal pg di Cassazione Giovanni Salvi e dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per il procuratore generale di Catanzaro. Una decisione che il plenum del Csm prenderà giovedì prossimo, quando si stabilirà il destino del magistrato, finito nell’occhio del ciclone per le sue esternazioni critiche nei confronti della Dda di Catanzaro e, in particolare, nei confronti del suo capo, Nicola Gratteri. Tutto era nato dalle dichiarazioni rilasciate in un’intervista a TgCom, dopo il blitz “Rinascita-Scott”, che ha portato ad oltre 300 misure cautelari e a un totale di 416 indagati. A chiedere la pratica a tutela del procuratore della Dda Nicola Gratteri erano stati i consiglieri di Area e Magistratura Indipendente, preoccupati per l’intervista, che aveva fornito al pg il pretesto per riprendere i fili della polemica ingaggiata ormai da mesi con Gratteri, lamentando il «mancato rispetto delle regole di coordinamento con altri uffici giudiziari». «I nomi degli arrestati – aveva dichiarato – e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante della procura generale contattare e informare. Al di là di quelle che sono poi, invece, le attività della procura generale, che quindi può rispondere soltanto sulla base di ciò che normalmente accade e cioè l’evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro stessa». Per il Csm, Lupacchini avrebbe così delegittimato pubblicamente l’operato del procuratore Gratteri, tenendo tutta una serie di comportamenti che macchierebbero l’immagine del magistrato. Il pg era comparso in prima commissione lo scorso 13 gennaio, nel corso di un’audizione a porte chiuse, nonostante la richiesta avanzata dal legale di Lupacchini, Ivano Iai, di renderla pubblica per evitare «di notizie distorte». Richiesta respinta, però, per esigenze di segretezza degli atti e per la delicatezza della vicenda. Ed oggi, dopo la richiesta cautelare avanzata da Bonafede e Salvi, il difensore del magistrato torna a chiedere che tutto venga reso pubblico: una richiesta motivata con la «necessità» di tutelare l’immagine del pg,«oggetto di diverse centinaia di insulti che, precipitati in rete con inusitata virulenza (soprattutto attraverso social network) hanno ingenerosamente e immotivatamente apostrofato il magistrato con espressioni offensive della sua dignità personale e professionale». Appare inoltre «indispensabile – sostiene il legale – portare a conoscenza della collettività, nei minimi dettagli, fatti estremamente gravi in ragione dei quali il dottor Lupacchini vede aggravarsi ulteriormente il pericolo per la propria incolumità».
Il “capo” di Gratteri va cacciato, ha osato criticare l’indagine Rinascita Scott in tv. Giovanni Altoprati il 22 Gennaio 2020 su Il Riformista. Nessuno poteva immaginare, tanto meno il diretto interessato, che a pochi mesi dalla pensione Otello Lupacchini, procuratore generale di Catanzaro, avrebbe affrontato un procedimento disciplinare, con lo spauracchio del trasferimento d’ufficio, davanti al Csm. E tutto per “colpa” di una intervista. Sia il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi hanno chiesto, infatti, alla Sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli di allontare Lupacchini da Catanzaro. Motivo? Intervistato alla vigilia di Natale da Tgcom24, Lupacchini aveva criticato la maxi operazione anti ‘ndrangheta condotta pochi giorni prima dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. L’indagine, denominata “Rinascita Scott”, aveva portato in carcere 334 persone, circa 50 già scarcerate dal tribunale dei riesame, e alla denuncia di altre 400 in Italia e all’estero. «Per me – aveva detto Gratteri nella conferenza stampa “fiume” durata circa due ore – era importante realizzare un sogno, fare la rivoluzione, quella di smontare la Calabria come un treno dei Lego e rimontarla piano piano». «Sebbene possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare di tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale», erano state le parole di Lupacchini al giornalista Mediaset che gli chiedeva informazioni al riguardo. «Non siamo stati portati a conoscenza – aveva aggiunto Lupacchini – prima della vicenda, non ne siamo stati portati a conoscenza dopo: i nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti, in una sintesi estrema, li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione della stampa, che è molto più importante della Procura generale da contattare ed informare». Tutto qui. Poche parole sufficienti però a scatenare gli strali delle correnti dell’Anm. Sia i togati di sinistra di Area-Md che quelli di destra di Magistratura indipendente, la corrente di riferimento di Gratteri, avevano subito chiesto l’apertura di una pratica al Csm per valutare “la posizione” di Lupacchini. L’udienza è stata fissata per il prossimo giovedì. Il difensore di Lupacchini ha già fatto istanza affinché sia pubblica, sottolineando la «necessità» di tutelare l’immagine del pg, «oggetto di diverse centinaia di insulti che, precipitati in rete con inusitata virulenza (soprattutto attraverso social network) hanno ingenerosamente e immotivatamente apostrofato il magistrato con espressioni offensive della sua dignità personale e professionale». Appare inoltre «indispensabile – ha aggiunto – portare a conoscenza della collettività, nei minimi dettagli, fatti estremamente gravi in ragione dei quali Lupacchini vede aggravarsi ulteriormente il pericolo per la propria incolumità». Per non farsi mancare nulla, su Lupacchini, oltre al trasferimento d’ufficio, pende pure una procedura di trasferimento per “incompatibilità funzionale”. Il legale del pg sul punto ha ricordato di aver già segnalato al Csm «il vulnus all’assoluto riserbo che avrebbe dovuto caratterizzare la procedura, a carico di Lupacchini, a suo tempo concretizzatasi con la reiterata fuga di notizie relativa agli atti di precedente procedura riservata, da cui è derivata la diffusione di notizie distorte, con grave pregiudizio per il magistrato». Il riferimento è all’audizione di Lupacchini avvenuta lo scorso 13 gennaio a Roma. E sempre il legale di Lupacchini ha chiesto di sapere che fine abbiano fatto gli esposti del suo assistito «inoltrati al ministro della Giustizia e al procuratore generale presso la Corte di cassazione, relativi alle criticità riscontrate anche in materia di coordinamento e collegamento tra Procure». E Gratteri invece? Dopo essersi “lamentato” per la poca copertura mediatica fornita alla sua indagine, sarà ospite d’onore del convegno “I nostri ideali per costruire il futuro, per cambiare e condividere” organizzato il prossimo 8 febbraio a Roma da Magistratura indipendente. A lui il compito tenere un intervento sul tema “La comunicazione degli uffici giudiziari: sostanza e forma”.
Accuse a Gratteri, azione disciplinare del Csm nei confronti del Pg Lupacchini. Va a Torino, accolta richiesta del ministro Bonafede. Alessia Candito il 27 gennaio 2020 su La Repubblica. Il procuratore generale Otello Lupacchini dovrà lasciare Catanzaro per incompatibilità ambientale. Così ha deciso la prima sezione del Csm, che come chiesto dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e dal pg della Cassazione, Giovanni Salvi lo ha trasferito altrove, spedendolo alla Corte d’appello di Torino con funzioni di sostituto procuratore generale. Alla base della pesantissima ordinanza del parlamentino dei giudici, le dichiarazioni di Lupacchini in diretta tv, all’indomani degli oltre 340 arresti dell’operazione “Rinascita-Scott”. “I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti – si era lamentato il magistrato in diretta nazionale – li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante della procura generale contattare e informare”. Ma a far discutere era stata soprattutto l’affermazione successiva del magistrato, che aveva parlato di “evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro stessa”. Inutilmente Lupacchini ha tentato di giustificarsi di fronte al Csm, sostenendo di non aver mai avuto intenzione di criticare Gratteri e i magistrati della sua procura. Per il parlamentino dei giudici, le sue affermazioni sono inaccettabili e tanto gravi da rendere impossibile la permanenza di Lupacchini nel distretto di Catanzaro. Il diretto interessato non commenta, ma il suo legale, Ivano Iai, si scaglia contro il parlamentino dei giudici. Per l’avvocato, Lupacchini ha "subito ingiustamente un trasferimento d'ufficio lontano dal Distretto nel quale ha, con disciplina e onore, semplicemente cercato di esercitare le proprie funzioni". E a detta sua, “appare evidente che al Dott. Lupacchini non sia stata semplicemente applicata una misura cautelare quanto una vera e propria anticipazione di sanzione, oggettivamente e severamente punitiva, oltre che ostile, avendo disposto il trasferimento del magistrato, con perdita delle funzioni direttive, a 600 Km di distanza dalla città di Roma e a oltre 1000 Km da Catanzaro". Per il Csm quelle parole che l’ormai ex pg di Catanzaro ha affidato ai microfoni di Tgcom24 sono state non solo gravi, inopportune e denigratorie, ma sono arrivate anche in un momento estremamente delicato per l’Ufficio diretto da Gratteri. Dopo Rinascita-Scott, la procura di Catanzaro è finita al centro di attacchi mediatici e politici, a partire da quelli della deputata dem Enza Bruno Bossio. Moglie di uno degli indagati, l’ex consigliere regionale Nicola Adamo, dopo l’ennesima inchiesta che ha travolto il marito la deputata su facebook aveva scritto “È giustizia? No è solo uno show! Colpire mille per non colpire nessuno. Anzi sì. Colpire la possibilità di Oliverio di ricandidarsi”. Il Pd si era immediatamente dissociato e il post poco dopo era sparito, ma era rimasto in bella vita tempo sufficiente ad alimentare le polemiche contro la procura in generale e Gratteri in particolare, proprio mentre l’Ufficio finiva nel mirino dei clan. La maxi-inchiesta contro la ‘ndrangheta vibonese non solo ha colpito duramente storici casati di ‘ndrangheta che per quasi dieci anni sono riusciti a dribblare indagini e arresti, ma per la prima volta nella zona ha toccato le strutture massonico-mafiose che hanno permesso ai clan di interfacciarsi con il mondo politico, bancario, istituzionale e finanziario in tutta Italia. Un lavoro iniziato da tempo dalla procura di Reggio Calabria nel distretto di competenza e che Catanzaro ha condiviso e proseguito nella restante parte della regione. Risultato? I clan, che per la prima volta hanno assistito ad un’azione coordinata delle due procure, che da qualche anno hanno iniziato a lavorare in tandem, si sono sentiti accerchiati e attaccati da due fronti. E la reazione è stata immediata e violenta. Nelle prime settimane di gennaio gli investigatori hanno scoperto che alcune delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta della regione avevano già assoldato un killer, specializzato nell’uso di armi da guerra, incaricato di un attentato contro il procuratore Gratteri. Immediatamente sono state rafforzate le misure di sicurezza a protezione del magistrato, dai suv corazzati che hanno sostituito le normali auto della scorta alla blindatura le finestre della procura che danno sulla piazza. Un rischio che in procura avevano messo in conto quando sono scattati gli arresti di Rinascita Scott. E che anche fuori dal distretto le toghe avevano compreso. Per questo contro le parole di Lupacchini unanime è stata la reazione di sdegno non solo dell’Anm, che le aveva “sconcertanti in sé e ancor più perché provenienti dal vertice della magistratura requirente del distretto”, ma anche di tutte le correnti.
Critiche in tv a Gratteri, il Csm trasferisce il Pg Lupacchini a Torino. Redazione de Il Riformista il 27 Gennaio 2020. Il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini sarà destinato Procura generale di Torino come sostituto Pg. È la decisione della sezione disciplinare del Csm che ne ha disposto il trasferimento dopo la richiesta avanzata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal Pg della Cassazione Giovanni Salvi. Lupacchini era finito nel mirino per le parole critiche pronunciate alla vigilia di Natale a Tgcom24, quando aveva criticato la maxi operazione anti ‘ndrangheta condotta pochi giorni prima dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. L’indagine, denominata “Rinascita Scott”, aveva portato in carcere 334 persone, circa 50 già scarcerate dal tribunale dei Riesame, e alla denuncia di altre 400 in Italia e all’estero. “Per me – aveva detto Gratteri nella conferenza stampa “fiume” durata circa due ore – era importante realizzare un sogno, fare la rivoluzione, quella di smontare la Calabria come un treno dei Lego e rimontarla piano piano”. “Sebbene possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare di tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale”, erano state invece le parole di Lupacchini al giornalista Mediaset che gli chiedeva informazioni al riguardo. “Non siamo stati portati a conoscenza – aveva aggiunto Lupacchini – prima della vicenda, non ne siamo stati portati a conoscenza dopo: i nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti, in una sintesi estrema, li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione della stampa, che è molto più importante della Procura generale da contattare ed informare”. Per questa parole i togati di sinistra di Area-Md e quelli di destra di Magistratura indipendente all’interno dell’Anm avevano chiesto l’apertura di una pratica al Csm per valutare “la posizione” di Lupacchini.
Criticò le indagini di Gratteri, il procuratore Lupacchini trasferito a Torino. Simona Musco il 27 gennaio 2020 su Il Dubbio. Dopo la maxiretata del magistrato antindrangheta, l’ex pg di Catanzaro aveva osato parlare di indagini evanescenti. La sezione disciplinare del Csm ha disposto il trasferimento d’ufficio per il Pg di Catanzaro Otello Lupacchini, destinandolo alla Procura generale di Torino come sostituto Pg. Il “tribunale delle toghe” ha accolto la richiesta avanzata dal ministro della Giustizia Bonafede e dal Pg della Cassazione Giovanni Salvi, che hanno avviato l’azione disciplinare nei confronti dell’ormai ex procuratore generale di Catanzaro accusandolo di aver “delegittimato” il procuratore della Dda Nicola Gratteri. Nei giorni scorsi, Lupacchini aveva sottolineato che alla base delle sue critiche non c’era alcuna intenzione di denigrare i magistrati del Distretto e il loro operato, ma soltanto di sollecitare una riflessione su circostanze e criticità nei rapporti istituzionali tra Procure. L’avvocato Ivano Iai, difensore del magistrato, ha invece sottolineato l’assenza di fumus di fondatezza dell’azione disciplinare e l’insussistenza dell’urgenza di provvedere alla misura poiché l’ufficio di Procura generale garantisce il buon andamento della giustizia nel Distretto di Corte d’appello di Catanzaro. Il casus belli, l’ultimo di una lunga, serie sta nelle considerazioni fatte da Lupacchini nel corso di un’intervista rilasciata a TgCom 24, all’indomani del maxi blitz “Rinascita- Scott”, che a dicembre ha portato all’arresto di oltre 330 persone: il pg lamentò un mancato coordinamento tra la procura antimafia e quella generale, definendo «evanescenti» le inchieste dei colleghi guidati da Gratteri e affermando di aver saputo dagli arresti solo dalla stampa, «evidentemente molto più importante della procura generale contattare e informare». Da qui, su richiesta dei consiglieri del Csm di Area e Magistratura Indipendenti, la prima commissione del Csm ha aperto una pratica per verificare se sussistano o meno i presupposti per un trasferimento per incompatibilità ambientale, pratica conclusasi con il trasferimento d’ufficio del magistrato.
«La “punizione” a Lupacchini è un avviso a tutti i magistrati». Giovanni M. Jacobazzi il 29 gennaio 2020 su Il Dubbio. Intervista a Ivani Iai, l’avvocato del procuratore che ha osato criticare Nicola Gratteri. «Le affermazioni del dottor Otello Lupacchini vanno considerate come il classico “grido di dolore” della persona che non trova risposta alle sue istanze», dichiara al Dubbio l’avvocato Ivano Iai, legale dell’ormai ex procuratore generale di Catanzaro, trasferito lunedì in via cautelare dalla sezione disciplinare del Csm, di cui fa parte Piercamillo Davigo, a Torino come sostituto pg. Intervistato alla vigilia di Natale da Tgcom24, Lupacchini aveva usato parole molto dure per commentare la maxi indagine anti ‘ndrangheta denominata “Rinascita Scott”, condotta dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, che aveva portato all’arresto di 334 persone, molti dei quali, nel frattempo, già scarcerati dal riesame, e alla denuncia di oltre 400, in Italia e all’estero. «Sebbene possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare di tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale», le parole “incriminate” di Lupacchini. Palazzo dei Marescialli, anche su pressione dei togati di Area, il cartello progressista, e Magistratura indipendente, il gruppo di riferimento di Gratteri, aveva deciso di aprire una pratica nei confronti di Lupacchini per incompatibilità ambientale. A rincarare la dose, la Procura generale della Cassazione e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che avevano esercitato l’azione disciplinare nei confronti del magistrato romano. L’accusa contestatagli era quella di aver violato i doveri di imparzialità, correttezza e riserbo. «Il dott. Lupacchini – spiega l’avvocato Iai – in questi anni ha inviato diversi esposti alla Procura generale della Cassazione e al Ministero della giustizia per segnalare criticità e violazioni riscontrate circa il mancato coordinamento della Procura distrettuale con la Procura generale di Catanzaro». Il riferimento è all’art. 118 bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale e agli articoli 371 e 372 comma 1 bis del codice di procedura penale, i quali prevedono che il procuratore generale debba essere informato dei procedimenti riguardanti i reati particolarmente gravi, fra cui appunto quelli di associazione a delinquere di stampo mafioso pendenti nelle Procure del distretto. In caso ci fossero indagini collegate, il procuratore generale deve farsi parte attiva per garantire e promuovere il loro coordinamento, sia nell’ambito del distretto della Corte d’Appello e sia – d’intesa con gli altri procuratori generali interessati – in ambito nazionale. Un compito che, secondo quindi quanto riferito dal suo difensore, Lupacchini avrebbe svolto con estrema difficoltà. «Il dott. Lupacchini non ha mai avuto riscontro delle sue segnalazioni», prosegue l’avvocato Iai, evidenziando come gli esisti di tali esposti sarebbero stati importanti «per la difesa nel procedimento disciplinare. Abbiamo ricevuto un diniego dalla Procura generale e da via Arenula», puntualizza. «Appare evidente – prosegue il legale di Lupacchini – che non è affatto facile difendersi in un procedimento disciplinare senza sapere quali siano state le determinazioni da parte della Procura generale e del Ministero della giustizia». Per Iai, aver trasferito, seppure in via cautelare, Lupacchini ad oltre mille km da Catanzaro e seicento da Roma è stata una decisione quanto mai “ostile”. «C’e poi un altro aspetto da considerare: il provvedimento del Csm mina la libertà di pensiero e di espressione. Un grave precedente per tutti i magistrati», sottolinea ancora Iai. Che la vicenda di Lupacchini sia particolarmente complessa si evince dal fatto che il collegio disciplinare che doveva essere presieduto dal vice presidente del Csm David Ermini ha subito uno stravolgimento. Ermini è stato sostituito dal laico in quota Cinque stelle Fulvio Gigliotti, calabrese come Gratteri. Il motivo, che ha portato all’astensione del vice presidente e di altri componenti, va rintracciato in un altro procedimento che è stato aperto a carico di Lupacchini per la petizione a favore di Eugenio Facciolla, ex procuratore di Castrovillari ( Cs), anch’egli rimosso dal Csm, pubblicata sulla pagina Fb dell’ex pg di Catanzaro. L’avvocato Iai ha annunciato che impugnerà il provvedimento della sezione disciplinare del Csm davanti alle sezioni unite della Corte di Cassazione. Nel frattempo, però, appena il Guardasigilli avrà firmato il decreto, Lupacchini dovrà prendere servizio a Torino.
Dagospia il 28 gennaio 2020. Caro Dagospia, Il diritto di critica morto defunto... Non c’è un politico un giornale qualcuno che almeno avanzi un dubbio neppure minimo sulla decisione del CSM di trasferire il pg di Catanzaro Lupacchini a Torino degradandolo a sostituto pg…Lesa maestà è l’accusa.. Aveva osato criticare Gratteri, autorizzato di fatto a trasformare le conferenze stampa in comizi e a fare il caporedattore dei giornaloni... Del Riesame che sta facendo a pezzi l’inchiesta con scarcerazioni a raffica è vietato parlare e scrivere...trasferiranno anche il Riesame a Torino?
Il caso. Nessuno può criticare Gratteri, l’ex Pg Lupacchini "esiliato" definitivamente a Torino. Carmine Di Niro su Il Riformista il 5 Novembre 2020. Nessuno osi criticare Nicola Gratteri, il pm della Dda di Catanzaro amato da giornali e tv. Ne sa qualcosa l’ex procuratore generale di Otello Lupacchini, che si è visto confermare dalle Sezioni Unite della Cassazione il trasferimento a Torino come "semplice" sostituto procuratore, provvedimento deciso dal Csm lo scorso 27 gennaio. Lupacchini "paga" l’intervista rilasciata lo scorso dicembre a TgCom24 in seguito ai 345 arresti avvenuti nell’ambito della operazione contro la ‘ndrangheta "Rinascita Scott", guidata da Gratteri, che ha visto poi nei mesi successi scarcerare numerosi indagati finiti in cella. L’allora Pg di Catanzaro, che dal 31 gennaio si è insediato nel capoluogo piemontese, aveva sottolineato sulla rete Mediaset che “i nomi degli arrestati e le ragioni li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante contattare e informare rispetto alla procura generale”. Parole censurate dal "tribunale delle toghe", con la decisione del Csm di disporre il trasferimento d’ufficio a Torino accogliendo la richiesta avanzata dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e dal ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede. A Lupacchini è contestata una “immotivata e ingiustificata denigrazione” del lavoro di Gratteri, “palesemente idonea a determinarne il discredito”.
G.Leg. per “la Stampa” il 5 novembre 2020. È stato confermato, dalle Sezioni Unite della Cassazione, il trasferimento a Torino e contestuale demansionamento come sostituto procuratore, dell' ex Procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Il provvedimento era stato deciso dal Csm lo scorso 27 gennaio. All' ex Pg di Catanzaro, insediatosi a Palagiustizia già dal 31 gennaio, è contestata una «immotivata e ingiustificata denigrazione» del lavoro di altri magistrati, soprattutto del pm della Dda di Catanzaro Nicola Gratteri, «palesemente idonea a determinarne il discredito». Prima della Cassazione era stata la sezione disciplinare del Csm a disporre il trasferimento d' ufficio per l' ex Pg di Catanzaro- Il "tribunale delle toghe" aveva accolto la richiesta avanzata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Al centro del procedimento, l' intervista che Lupacchini rilasciò lo scorso dicembre a Tgcom24 - dopo i numerosi arresti avvenuti nell' ambito della maxi-operazione guidata da Gratteri contro la `ndrangheta denominata «Rinascita Scott» (345 arresti). L' ex Pg aveva detto in tv: «I nomi degli arrestati e le ragioni li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante contattare e informare rispetto alla procura generale». Aveva definito poi molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro come "evanescenti". All' invettiva erano seguite reazioni molto dure dei sindacati delle toghe.
Lupacchini cacciato da Catanzaro da toghe in conflitto di interesse dopo lo scontro con Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Novembre 2020. Probabilmente mi avrebbe accolta con un brocardo del tipo “Quod nullum est nullum producit effectum”. E avrebbe ridacchiato “sull’illecito di sarcasmo” di cui è accusato da quando è entrato in conflitto con il seriosissimo intoccabile magistrato Nicola Gratteri. Tutto ciò sarebbe forse accaduto se il procuratore Otello Lupacchini avesse deciso di commentare a voce alta la sentenza con cui la Corte di Cassazione a sezioni unite ha messo il timbro finale sul suo trasferimento a Torino. Ha invece deciso di tacere ed è un peccato per gli ammiratori della sua cultura che si estende non solo al piano strettamente giuridico. Reazione pavloviana comprensibile per chi si è così violentemente scottato per aver toccato i fili dell’alta tensione che in Calabria hanno fatto terra bruciata di chiunque abbia osato mettere in discussione l’attività del procuratore Nicola Gratteri. Il quale insieme a Nino Di Matteo è uno degli uomini più scortati d’Italia e che si accinge ( o spera) a far celebrare il maxiprocesso che dovrebbe far concorrenza a quello voluto a Palermo da Giovanni Falcone. Il procuratore Lupacchini ha la fortuna di avere al suo fianco Ivano Iai, un giovane avvocato sardo dal brillante curriculum, agguerrito quanto il proprio assistito. Ricostruiamo insieme a Ivano Iai questo pezzo di storia calabrese che al suo termine, almeno per una sua parte, potrebbe essere un vero triangolo delle Bermuda, con Gratteri, Lupacchini e (sì, proprio lui) Palamara ai tre vertici. Due sono i “peccati” di cui si sarebbe macchiato Otello Lupacchini quando rivestiva il ruolo di procuratore generale in Calabria. Il primo: dopo aver invano invaso le scrivanie del ministro di giustizia, del procuratore generale della cassazione e del comitato direttivo del Csm con le sue proteste perché il dottor Gratteri non lo teneva informato, come prescritto, di inchieste per reati gravissimi, si era permesso di fare un commento pubblico. Aveva solo dato eco, con la sua cultura di esperto di gravi questioni criminali, alla vox populi di quei giorni, quando, dopo il blitz dell’inchiesta “Rinascita Scott” con quindicimila pagine di accuse e qualche centinaio di richieste di arresti, sia il gip che il tribunale del riesame e la cassazione avevano incenerito il maxi-progetto di Gratteri. «Evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della Procura distrettuale di Catanzaro», aveva sibilato davanti alle telecamere di Tgcom24. E il suo collega Gratteri, che pure accetta con qualche ragione di essere definito “ignorante”, invece di offendersi, avrebbe dovuto inchinarsi davanti a un uso così romantico e prezioso della lingua italiana. Ma ha preferito adombrarsi. Il secondo “peccato” ha invece offeso lo stesso Csm e ha sempre a che fare con la libertà d’espressione. La domanda è: poteva il procuratore generale ospitare nella propria pagina Facebook un appello perché l’ex procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, trasferito al tribunale civile di Potenza, fosse ricollocato al suo posto d’origine? Evidentemente non poteva. I giudici del Csm che avevano deciso quel trasferimento si offendono a loro volta. Ma, fa notare l’avvocato Iai, sono gli stessi che ogni giorno lavorano fianco a fianco con quelli che devono decidere sull’allontanamento da Catanzaro del procuratore Lupacchini, come possono essere sereni e distaccati nel loro giudizio? È questo uno dei conflitti d’interesse di cui la cassazione non ha voluto tener conto nel respingere il ricorso del legale. L’avvocato li aveva citati per nome e cognome, quelli che avevano contribuito al trasferimento del dottor Lupacchini da Catanzaro a Torino e che erano in conflitto d’interesse. E uno di loro è anche un nome “pesante”, quello di Nino Di Matteo il quale, insieme al collega Zuccaro, in quanto componente della prima commissione, si era ben guardato dall’archiviare la pratica. Per non parlare della dottoressa Dal Moro, che, insieme a Zuccaro e a tutti i loro compagni della corrente Area, aveva aperto la pratica davanti alla prima commissione a favore di Gratteri e contro Lupacchini. Ma pare che il concetto di conflitto di interessi non valga per i magistrati, e soprattutto per i componenti del Csm, che evidentemente sono una sola grande famiglia. L’avvocato Iai è sconcertato, per non dire scandalizzato, soprattutto per la superficialità con cui la cassazione ha affrontato l’argomento. Durante l’udienza al Csm, ricorda, ho invitato questi magistrati ad astenersi, cosa che per loro sarebbe stata la più dignitosa. E ora mi sento quasi rimproverare di non averli ricusati! Ma la ricusazione sarebbe stata subito respinta, per come stanno le cose. Stava a loro, alla loro correttezza, astenersi dal giudicare. Anche sulla libertà d’opinione l’avvocato Iai ha da ridire. Ma come, ricorda, altri magistrati hanno detto cose ben più pesanti rispetto alla battuta del mio assistito. Proprio in Calabria, un luogo dove, fin dai tempi di Luigi de Magistris, è sempre stata alta la conflittualità tra magistrati, un sostituto definì “eversiva” la dichiarazione di un procuratore capo e il Csm archiviò la pratica proprio in nome di quella libertà di pensiero che oggi non viene riconosciuta a Otello Lupacchini. Come avrebbe potuto astenersi il procuratore generale di Catanzaro dal denunciare i comportamenti molto gravi del procuratore Gratteri, quando lui indagava per mafia un maresciallo che lavorava ogni giorno al fianco del procuratore di Castrovillari senza avvertirlo? E quando poi ha sottoposto a indagini lo stesso procuratore, trattenendo troppo a lungo presso di sé il fascicolo che la legge gli imponeva di trasmettere immediatamente alla procura di Salerno? E vantandosi dopo di intrattenere rapporti (ci telefoniamo quattro volte al giorno, dice al Csm) con il collega campano, magari per parlare di qualcosa (o di qualcuno) che non era consentita? La cosa assurda è che un bravo magistrato con tanta esperienza come il procuratore Lupacchini da denunciante sia diventato l’imputato. Deve essere proprio vero, anche se non se ne capisce la ragione, che Nicola Gratteri è “intoccabile”, come si dice in giro. Anche se, a partire dalla decimazione delle sue richieste su “Rinascita Scott”, fino al fallimento dei processi “Nemea” e “Borderland”, nella classifica sui risultati non sembra proprio meritare i primi posti. Merito e capacità però deve averne molti, visto che il dottor Luca Palamara ne ha citato il nome tra quelli che hanno avuto il suo aiutino per conquistare il vertice di una procura. Uno dei tanti, e ci piace pensare che le trattative politiche sulla sua persona siano avvenute a sua insaputa. Ma non a sua insaputa si è verificato un certo incontro nel 2018 al bar “Il cigno” di Roma. Chissà se Luca Palamara se ne ricorda. Ma ha buona memoria il maledetto trojan che ha con lui convissuto il tempo sufficiente per rubargli l’anima e l’intimità. E conversazioni e messaggi, soprattutto. Il 25 luglio del 2018 a Roma il tempo era abbastanza bello e la temperatura oscillava tra i 20 e i 26 gradi quando il procuratore Lupacchini era andato a deporre al Csm contro Nicola Gratteri. Il quale era convocato per il giorno dopo, quando, pur con la stessa temperatura, ci furono nuvole e anche pioggia. Fin dalla sera del 25 il procuratore superscortato di Catanzaro si era messo in cerca di Luca Palamara, membro della commissione disciplinare del Csm. Il quale prima non aveva risposto, ma infine si era concesso per un caffè al bar “Cigno”. Di che cosa possono parlare al bar, quando i due si erano infine incontrati, due magistrati di cui uno deve deporre di fronte all’altro dopo poche ore, uno che sa già quel che ha detto il giorno prima il “nemico” dell’altro? Credo del tempo, visto che si era improvvisamente così messo al brutto. Se ne occuperà, se lo vorrà, il procuratore Cantone a Perugia, anche se il reato di traffico di influenze è già stato amnistiato dal procuratore generale della cassazione Giovanni Salvi, per lo meno per i magistrati. Ma forse Luca Palamara, che non pare proprio uno di quelli portati ad aver simpatia per lo stile Gratteri, potrebbe raccontare com’era il tempo quel giorno a Roma. Che cosa succede adesso, avvocato Iai? La commissione disciplinare dovrà giudicare nel merito le incolpazioni del procuratore Lupacchini, che intanto rimane a Torino dove è stato trasferito ormai in via definitiva. Ma abbiamo chiesto di discutere pubblicamente e con urgenza il caso, dice. Anche perché (pensiero fuggevole) il dottor Lupacchini, che non ha interesse a un insabbiamento diplomatico, nell’agosto del 2021 compirà settant’anni, e se è andato in pensione persino Davigo…
Giustizia nel caos, tutta la verità del procuratore Facciolla (di Saverio Di Giorno). Da Iacchite il 7 Luglio 2020. Saverio Di Giorno. Il procuratore Facciolla è esattamente come ce lo si immagina. Sarà forse che è vestito all’incirca come lo si vede sui giornali, o che gli abiti vestono perfettamente le sue movenze, ma è come se non usasse quei filtri e quelle dissimulazioni che si usano nella comunicazione. È una giornata caldissima, tuttavia il mare è vicino quindi c’è una bella corrente. Il procuratore vuole sedersi di fronte al mare e capita, quindi, che mentre risponde e riannoda i fili di vicende passate scruti l’orizzonte. Per la magistratura corrono tempi difficili, c’è Palamara con le sue chat, le nomine pilotate. E nel bailamme di dichiarazioni e strane fughe di notizie, tutti sembrano avere qualcosa da perdere o da nascondere. Perché non lui? Mi viene provocatoriamente da pensare. Certo una cosa è chiara: se ci sono stati movimenti esterni nella procura di Castrovillari sono serviti a estrometterlo e non a nominarlo, come negli altri casi; e poi in questi mesi è l’unico protagonista a non essere mai apparso sulla stampa. Eppure, sotto i suoi occhi sono passati i più interessanti avvenimenti di cronaca e in Calabria, in qualche modo, è l’epicentro della questione magistratura. Come mai questa riservatezza? “Attendo che la mia posizione si chiarisca definitivamente nelle giuste sedi – risponde Facciolla -. Ormai non manca molto e solo allora racconterò la mia versione dei fatti per come sono avvenuti e avrò l’opportunità di dimostrarlo… è deformazione professionale: non si parla senza possibilità di dimostrare”. E di riferimenti a carte e sentenze, questa chiacchierata sarà piena. Il punto di partenza necessario è la sua situazione e dal racconto emergono considerazioni interessanti. Il trasferimento avviene essenzialmente per suoi rapporti con Tignanelli, poliziotto in rapporti con il maresciallo Greco, finito al centro dell’indagine Stige per i suoi rapporti con Spadafora, imprenditore in odor di mafia. “I miei rapporti con Tignanelli erano strettamente professionali, ci sono le intercettazioni a dimostrarlo. O meglio non ci sono, dal momento che sono veramente pochi i casi di dialoghi. Ci siamo sentiti al di fuori solo per degli auguri. Leggendo le carte si rimane sbalorditi. Mi si indaga sostanzialmente per la riorganizzazione che ho fatto all’interno della Procura di Castrovillari per quanto riguarda l’affidamento alle aziende che forniscono materiale investigativo (telecamere, microspie ecc.) quando mesi prima in una ispezione per lo stesso lavoro mi si facevano i complimenti. Ci sono coincidenze e anomalie molto particolari in questa storia”. È una cosa forte. Bisogna approfondire il perché di questa impressione ed emergono particolari che forse un giorno dovrebbero essere approfonditi. “Per lavorare bene su questo territorio occorre prendersi squadre di ragazzi giovani che non abbiano il minimo contatto con il territorio, per evitare di pestare il meno possibile piedi di parenti, amici. In molti casi i rapporti di parentela tra tribunali, procure, agenti e aziende sono inestricabili. Avevo dei bravi ragazzi, collaboratori, tra la polizia giudiziaria e nell’avanzare dell’indagine ci sono state promozioni molto tempestive altrove e poi hanno preso posto in pochissimi giorni, una cosa molto rara”. Vengono in mente altre promozioni fulminee e spostamenti avvenuti in questi territori. E viene in mente anche che andando a controllare il trasferimento (momentaneo) del procuratore Facciolla non avviene nemmeno secondo tutti i protocolli. In effetti stranezze ci sono, ma perché spostarlo? In quei giorni stava indagando sul gruppo Alimentitaliani (si scrive così ma tutti sanno che si legge gruppo iGreco) e sull’oscuro sistema fallimentare, oltre che sull’omicidio Bergamini. Consulenze fantasma pagate migliaia di euro. Un’indagine grossa che arriva a toccare parlamentari. Anche qui quello che ascolto è solo un insieme di fatti l’uno dietro l’altro. Poi sta a ognuno farsi un’idea. L’indagine portava fino al MISE (Ministero dello Sviluppo Economico), dove all’epoca c’era il ministro Calenda (governo Renzi). Bisognava accedere per acquisire alcuni dati ed evidenze investigative. Risulta anche un incontro con alcuni senatori e tale Castano, che ha diretto la task force sulle crisi aziendali nel decennio aperto dalla recessione del 2008. Alcune indiscrezioni circolate parlavano anche di lui tra i nomi in lizza per le grandi aziende. Per inciso, in quelle aziende (ENI, ENEL, Poste ecc.) Renzi ha fatto incetta di poltrone nonostante il suo 3%. Insomma, pare che Facciolla fosse andato a parlare di corde in casa dell’impiccato e come se non bastasse, quando va a riferire al Csm si trova davanti persone che sarebbero poi state al centro della bufera. Altro che indipendenza dei poteri, viene da pensare…
Calenda e Castano. E tra le varie vicende che legano i gruppi imprenditoriali della Sibaritide e i suoi referenti politici (l’ex parlamentare Pd Aiello), resta impigliato l’altro procuratore calabrese, Luberto, per aver insabbiato, secondo l’accusa, le intercettazioni. Una vicenda che si lega a doppio filo con le indagini di Facciolla e non è difficile credere quindi al fatto che il ruolo di Luberto fosse emerso già in tempi precedenti rispetto alla denuncia. Ma allora viene da chiedersi: perché tanta attesa prima di comunicarlo a Salerno? È una risposta che può arrivare solo dalla DDA di Catanzaro. In realtà, il procuratore non è sorpreso nemmeno di quanto sta emergendo dalle inchieste di Salerno e dalle indiscrezioni su 15 magistrati indagati. “Scopriamo l’acqua calda e non dico nulla di nuovo”. Questa volta è facile anticipare dove vanno i suoi pensieri: l’ispezione ministeriale di Lupacchini (e ancora prima Why Not) che aveva denunciato le commistioni all’interno della procura di Cosenza. “Forse non tutti sanno che quella relazione circolò parecchio, arrivò anche all’interno delle carceri, ma soprattutto arrivò sulla scrivania dell’allora ministro della Giustizia Mastella e lì rimase ferma senza azioni per due anni. Ovviamente la conoscevano anche alla Procura di Salerno, che aveva aperto un fascicolo su input degli ispettori. Addirittura fu notificata la chiusura di indagini a carico di magistrati e avvocati che ritroviamo oggi colpevoli, secondo gli ispettori, di illeciti funzionali e disciplinari e forse reati. Ovviamente era passato troppo tempo tra una fase a e l’altra e nel settembre 2011 dopo un’avocazione si arrivò all’archiviazione. Da quando ho iniziato a interessarmi di criminalità nel Cosentino, ricordo pentiti come Franco Pino che già in tempi remoti e non sospetti parlarono e mi misero in guardia sui problemi che ci sarebbero stati nel toccare il livello misto di salotti buoni e criminalità”. Forse bisognerebbe riprendere quelle dichiarazioni. Le denunce di queste commistioni, in effetti, Facciolla le fece già all’epoca e finirono in un articolo de l’Espresso insieme ad altri intercettazioni tra Franco Pacenza ed Ennio Morrone che tirano in ballo procuratori e politici, tra cui Nicola Adamo. Nomi che ritornano. Mastella risultava indagato anche all’interno dell’inchiesta di Why Not di De Magistris. C’è una sua dichiarazione circa l’appartenenza a una loggia massonica. Ironia della sorte, anche questa inchiesta passò sotto gli occhi dell’allora giovane Facciolla. Lui e il dottore Lia impugnarono lo storico decreto di proscioglimento, quello riguardante, in buona sostanza il sistema Saladino e il giro di lavori pubblici. Genchi ha recentemente dichiarato che Bruno Bossio e Adamo in proposito si rivolsero ai buoni uffici di alcuni magistrati. Facciolla aggiunge: “Quell’impugnazione per associazione a delinquere fu accolta dalla Cassazione e ricordo che a Roma incrociai Minniti. Era interessato alle vicende calabresi e riconosceva la difficoltà di indagare in Calabria. Ricordo che si mise a completa disposizione”. I ricordi e i racconti si susseguono tumultuosi. Come se seguissero il moto delle onde che guarda. Nomi, eventi, date, carte, davvero un oceano sconfinato … come si può non sentirsi affogati in questo rincorrersi di eventi sempre uguali da anni? Come si esce fuori? È vero che ora, come stiamo scrivendo, sta venendo meno una serie di appoggi e per questo si possono provare vicende finora passate sotto silenzio? Come si può altrimenti guardare l’orizzonte con tutto ciò in mente. “Indubbiamente ora una rete si sta sfilacciando. È una transizione storica, ma finché resteranno queste dinamiche ci saranno sempre informazioni da poter usare per bloccare tutto o una parte e che una nuova rete può usare per inserirsi. Ho l’impressione che sta sfuggendo dalla vicenda Palamara il fatto che le nomine pilotate dei direttivi non servono solo al potere delle correnti, ma servono perché chi viene nominato poi deve rispondere a chi l’ha nominato. Rispondere alle chiamate in ufficio, a casa, ai favori. Questo è il sospetto grave e inquietante, non le singole chat o invidie personali. Ad un certo punto alcuni colleghi diventano più impeditivi delle minacce dei criminali, ma sono cose che ripeto da anni” – Ma quindi come se ne esce? – “Ora l’unica soluzione sarebbe avere una nuova legge elettorale e poi sciogliere il Csm e riformarlo, altrimenti non cambierà nulla”. Ci si è davvero allontanati molto in questo racconto, ma tuttavia un ultimo passaggio vale la pena farlo, perché tra le inchieste del procuratore Facciolla alcune riguardano anche il clan Muto. È passato poco tempo dal ricordo dell’omicidio Losardo e molte delle vicende riguardanti il clan sono tuttora oscure, tra cui molti omicidi. Un buon modo per ricordare questi uomini è fare passi in avanti nella verità e chissà che non è utile anche ad aprire un piccolo faro su questo lato del territorio: “Ho fatto rilegare le indagini riguardanti il clan, andrebbero studiate come storia. Per imparare. Ricordo che quando c’era da abbattere una pescheria abusiva, con il procuratore Emanuele non si riusciva a trovare una ditta disposta a farlo. L’unico modo fu organizzare un grande evento in pompa magna. Un potere simbolico e pratico. In tutti i procedimenti ci sono stati impedimenti o cavilli che hanno ridotto o evitato le pene. Ci furono anche collaboratori che parlarono di giudici compiacenti a Bari, ma nessuno ha approfondito. In una perquisizione trovammo una foto che ritraeva la famiglia Muto con un allora parlamentare DC calabrese alla sua festa di compleanno”. Sono gli anni ’80 o giù di li. Le commistioni tra criminalità e Stato hanno radici lunghe e profonde. Quando la fiducia nelle istituzioni è al minimo, non resta che quella nelle persone. D’altra parte queste vicende si intersecano con quelle personali, di quando da studenti, in anni caldi di militanza politica, c’erano futuri politici che facevano cordoni e occupazioni e si scontravano con chi era dall’altra parte della barricata, studente di legge. Ma una cosa è stare da due parti diverse della barricata politica, un’altra è essere contrapposti nella barricata della legge e allora come oggi c’erano colleghi che questa barricata l’attraversavano in un senso e nell’altro e che poi ne avrebbero attraversate altre. Non resta altro quindi che rimanere ai propri posti, in trincea perché altrimenti a furia di guardare questo bel mare con il suo orizzonte viene la voglia di prendere il largo, e di andarsene via…
Salerno, Facciolla spiega la sceneggiata del “capo” (di Lardieri). Da Iacchite il 12 Luglio 2020. Eugenio Facciolla si difende a spada tratta dalle accuse che gli arrivano dal braccio destro di Gratteri, il maggiore dei carabinieri Gerardo Lardieri, personaggio tutt’altro che limpido. E dopo aver dimostrato, con carte alla mano, il suo tentativo di inquinamento delle prove con tanto di “sparizione” delle intercettazioni che lo riguardavano e di “sconfinamenti” negli atti riservati della procura di Salerno, continua a contestare con veemenza tutto il suo tragicomico impianto accusatorio. In questo stralcio si fa riferimento ad un “capo”, che secondo il maggiore Lardieri, sarebbe Facciolla. Ma così non è: l’unico capo riconosciuto – fino a prova contraria – è quello di… Lardieri. Il resto dev’essere un lapsus per molti versi “freudiano”. Ma vallo a spiegare a Lardieri cosa significa! Speriamo che ci pensi qualcuno “acculturato” del suo “giro”… … Ci sono decine di contatti in cui io non vengo mai intercettato, non sono io a parlare, sono gli altri che parlano… Si parla di identificazione del capo, ma il capo di che cosa, Giudice? Perché il Noe (ovvero Gerardo Lardieri, braccio destro di Gratteri, ndr) deve identificare il capo? Il capo di un’associazione mafiosa? Il capo di un’associazione a delinquere? Allora, le conversazioni in cui il maresciallo Calonico parla con il maresciallo Greco… tra colleghi parlano dell’alluvione e di altre vicende, poi Calonico chiede a Greco che si trova a Cosenza – e risulta che si trova a Cosenza -, non a Castrovillari: “Che dice il capo?”. E Greco risponde: “Eh, il capo no, è tutto… perché mo arrestiamo, mo ci ricogliamo un po’ di gente, facciamo questo, facciamo quello…”… E gli dice delle cose che sono questioni che attengono chiaramente al loro rapporto. Stanno parlando del capo, il capo è Roseti, il Capitano Roseti. Giudice, ci sono le telefonate successive di trascrizioni che smentiscono quello che costruisce da una parte il Noe, basta leggere. Ad una telefonata risponde Greco: “Pronto?”, “Capo, buongiorno”. Dall’altra parte chi è? E’ Roseti… Lo scrivono loro. Quindi il capo è il comandante di Greco, è il comandante di Calonico. Mirabelli viene chiamato: “Capo, buongiorno”. Telefonata tra il dottore Tridico, sostituto a Cosenza, e il maresciallo Greco: “Capo, buongiorno, scendi per il caffé?”. “Sì, sto arrivando”. E perché questo capo dev’essere sempre Facciolla? La prego di controllare. Quando si fa riferimento a Tignanelli e Greco… “Dove sei?”; “Sono a Cosenza con il capo”… si aggiunge tra parentesi Facciolla… Tutto questo viene fatto per consentire di legare un rapporto illecito tra me e Tignanelli, ed ecco perché poi si arriva addirittura a contestarmi l’associazione per delinquere, finalizzata a chissà cosa. Questi sono i costanti contatti…Allora, telefonate trascritte in minima parte, incomprensibili… Lardieri le evidenzia soltanto quando sente il nome Eugenio o riporta il nome Otello. In una occasione, Otello, perché Otello è un nome chiaramente raro, Otello Lupacchini, Procuratore Generale di Catanzaro, riporta lo schema delle conversazioni tra Facciolla e Tignanelli, che è uno schema, ma io veramente non ci perdo una parola, è uno schema inutile, irrilevante, una perdita di tempo e basta. Commenti sulla partita, il Milan e la Juventus che cosa hanno fatto, eccetera. Mio figlio ha un incidente sugli sci, mi hanno chiamato i medici, non si capisce perché non ci sono queste telefonate, ma si esalta invece la telefonata di Tignanelli, me l’hanno fatta anche altri colleghi, ma non ci sono queste telefonate, non ci sono… Si esalta la telefonata di Tignanelli, che mi chiama e mi dice: “Ma cosa è successo a Francesco?”. Questo è rilevante, Giudice, è rilevante? Dimostra che cosa? Dimostra un rapporto di stima personale o un rapporto di malaffare?
Salerno, la trappola di Gratteri a Facciolla: la fuga di notizie sul sito “amico”. Da Iacchite il 13 Luglio 2020. Eugenio Facciolla si difende a spada tratta dalle accuse che gli arrivano dal braccio destro di Gratteri, il maggiore dei carabinieri Gerardo Lardieri, personaggio tutt’altro che limpido. E dopo aver dimostrato, con carte alla mano, il suo tentativo di inquinamento delle prove con tanto di “sparizione” delle intercettazioni che lo riguardavano insieme al colonnello dei Carabinieri Forestali Gaetano Gorpia e di “sconfinamenti” negli atti riservati della procura di Salerno, continua a contestare con veemenza tutto il suo tragicomico impianto accusatorio. In un altro stralcio si fa riferimento ad un “capo”, che secondo il maggiore Lardieri, sarebbe Facciolla. Ma così non è: l’unico capo riconosciuto – fino a prova contraria – è quello di… Lardieri. Il resto dev’essere un lapsus per molti versi “freudiano”. Ma vallo a spiegare a Lardieri cosa significa! E non è finita qui. Perché anche l’apertura del procedimento a Salerno contro Facciolla è decisamente tragicomica. Ecco il virgolettato testuale delle dichiarazioni spontanee del Procuratore di Castrovillari al Tribunale di Salerno. “… Giudice, dal primo momento non si leggono atti, non c’è un’informativa di reato in cui si dice: guardi che c’è il sospetto, non dico l’indizio, c’è il sospetto che il Procuratore Facciolla, abusando del suo ufficio, ha conferito, ha dato incarichi, o con Greco ha fatto chissà quale guaio, quale sfacelo, ma sono attività di – mi passi il termine – pesca a strascico, sperando di pescare qualche cosa che non c’è, Giudice, perché in tutta questa indagine cercavano soldi, cercavano affari, cercavano intrallazzi, e nel momento in cui la Procura fa questo tipo di accertamenti, negativi… ci sono le notizie che compaiono sulla stampa sistematicamente, solo su una certa stampa di soggetti che scrivono, e sono soggetti non vicini ma più che vicini alla Procura di Catanzaro. E allora davanti a questi dati, io sono l’indagato, il 5 dicembre mi sottopongo ad interrogatorio senza conoscere niente, due giorni dopo l’arresto di Greco escono le notizie, non si spiega la ragione, e i magistrati di Catanzaro trasmettono gli atti a Salerno e scrivono che c’è una fuga di notizie – ed è vero – nei confronti di due magistrati… Il fascicolo arriva a Salerno, viene iscritto incredibilmente a Modello 45 e tale rimarrà e viene iscritto con parte offesa il Corriere della Calabria, quando il Corriere della Calabria è il soggetto – in particolare il direttore responsabile (Paolo Pollichieni, ndr) – che è autore, coautore, concorrente nella rivelazione di notizie che ha ritenuto la Procura di Catanzaro… In onore alla toga che indossiamo, le chiedo di verificare quello che sto dicendo, di leggere tra le righe delle carte. La Procura di Catanzaro quegli atti li trasmette non per la rivelazione o per la fuga di notizie ma perché li ritiene rilevanti nel fascicolo che riguarda già il dottore Facciolla a seguito della trasmissione degli atti precedenti. E qual è la rilevanza? Una fuga di notizie in cui si dice che hanno mandato gli atti su due magistrati che erano coinvolti nelle indagini sul maresciallo Greco arrestato due giorni prima. Qual è la rilevanza per me? Abbiamo chiesto di fare accertamenti, visto che poi questo fascicolo risulta copiato, fotocopiato, trasmesso, Modello 45, negli atti che mi riguardano, e restituito a Catanzaro per competenza territoriale. C’è un errore macroscopico, perché il Corriere della Calabria è edito in quel di Lamezia Terme e la Procura competente, come sappiamo bene, è la Procura di Lamezia Terme. Non poteva essere la Procura di Catanzaro. Peraltro, la Procura di Catanzaro, in particolar modo il Procuratore, doveva astenersi, avrebbe dovuto – immagino lo avrà fatto -, si sarà astenuto dal trattare questo procedimento per i rapporti personali che intercorrevano… (internet è pieno di foto e articoli che riguardano la “collaborazione” di Gratteri e Pollichieni, ndr). E immagino, conoscendo la sua correttezza, che l’avrà fatto. Però tutto ciò rimane come dato inserito nel procedimento in questione. Io veramente non riesco a percepire qual è la rilevanza di questi atti e in che modo peraltro, cioè su quali basi, che cosa devo andare a discutere rispetto ad un fascicolo costruito in questi termini…”.
Facciolla non doveva essere trasferito. La Cassazione sbugiarda Gratteri e i suoi giochi di potere. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. Quel trasferimento non s’aveva da fare. E va rivisto e ripensato, e sarà un’altra commissione del Csm ad occuparsene. È intervenuta la Corte di cassazione a sezioni riunite a riportare un po’ di giustizia in terra di Calabria. Con annessa Basilicata, nel caso del dottor Eugenio Facciolla, l’ex procuratore capo di Castrovillari che, entrato in rotta di collisione con il collega Nicola Gratteri, si era ritrovato un anno fa indagato e prontamente trasferito a fare il giudice civile a Potenza. Strano destino, quello dei magistrati poco allineati con il procuratore di Catanzaro. Il casus belli aveva riguardato, pensa un po’, il sistema delle intercettazioni in Calabria. Il dottor Gratteri pretendeva di centralizzare al suo ufficio quelle di ogni procura di tutta la regione. C’era stata un po’ di rivolta, di cui Eugenio Facciolla era stato protagonista. L’ha pagata cara. Aveva anche presentato esposti contro certi sistemi d’indagine dell’antimafia, che al Csm gli erano poi stati rispediti indietro come boomerang, arricchendo il fascicolo accusatorio che sarà alla base del suo degradante trasferimento, perché «volti a screditare l’operato e la figura dei colleghi della Dda e della Pg da essi delegata per le indagini». Fatto sta che il procuratore Gratteri comincia anche a indagare su di lui, partendo dall’incriminare per concorso esterno in associazione mafiosa un carabiniere forestale che era stato suo collaboratore. È stato proprio a partire da quelle indagini, che secondo il procuratore generale si erano protratte troppo a lungo prima che le carte fossero passate agli uffici di Salerno, come previsto dalle legge quando i fatti riguardino un magistrato, che si creò la frattura tra Gratteri e il procuratore generale Otello Lupacchini. Il quale aveva protestato e denunciato, quindi anche lui speditamente degradato e trasferito dal Csm a Torino. Chi tocca Gratteri fa una brutta fine, pare dirci l’organo di autogoverno dei magistrati. Del resto, non è lo stesso procuratore di Catanzaro ad affermare con una certa strana soddisfazione in ogni intervista (più o meno una al giorno) che in Italia ci sono almeno quattrocento giudici corrotti? Lui li tiene d’occhio e se può li sottopone a indagini, anche quando sarebbe opportuno spogliarsi in gran fretta di un fascicolo che riguarda un collega, e passarlo alla procura del distretto contiguo, l’unica competente. La vicenda giudiziaria dell’ex procuratore capo di Castrovillari, uno dei pochi a poter vantare l’assenza del suo nome nelle intercettazioni di Luca Palamara, ruota tutta nel mondo delle intercettazioni. È accusato di essersi fatto corrompere dai titolari di una società per il noleggio di apparecchiature attraverso l’affidamento di un incarico che gli avrebbe fruttato l’omaggio di una scheda telefonica e di un sistema di videosorveglianza davanti al portone di casa sua. All’ipotesi di corruzione, per la quale il pm Luca Masini (quello che aveva i titoli per diventare procuratore di Perugia quando gli fu preferito Cantone) ha già chiesto il rinvio a giudizio, si aggiunge quella di falso ideologico. Nelle prime udienze davanti al giudice per le indagini preliminari il dottor Facciolla si è difeso in modo appassionato. «Il mio è un omicidio professionale», ha detto con enfasi, e poi ha parlato per quattro ore. Dichiarazioni spontanee, ma massima disponibilità anche all’interrogatorio, ha precisato. Non sono un magistrato corrotto, ha quasi gridato, con una certa commozione, contestando punto per punto ogni sospetto. Molti dei quali del resto, i tanti ipotizzati dal procuratore Gratteri, sono già caduti. E ricordando che la Guardia di finanza ha fatto gli esami del sangue a ogni suo conto, spulciando persino l’atto d’acquisto di un’auto del 1990, cioè di quando ancora lui faceva l’avvocato, senza mai trovare alcuna anomalia. Vittima di un omicidio professionale, vuol dire che la sua toga era d’intralcio. A chi? Al ministro Bonafede, per esempio, titolare dell’azione disciplinare, che la ha esercitata a piene mani nei suoi confronti, portandolo davanti al Csm. Situazione diversa per quel che riguarda un altro soggetto titolare della stessa prerogativa, il procuratore generale presso la cassazione Salvi. Il quale è parso quasi aver preso le distanze quando, su richiesta dell’avvocato difensore di Eugenio Facciolla, Ivano Iai, ha accettato di incontrare l’ex procuratore di Castrovillari e ha precisato che non è dipesa dal proprio ufficio l’estensione dell’azione disciplinare nei confronti del dottor Facciolla. Un punto a favore della difesa, rafforzato dalla decisione di ieri della cassazione a sezioni riunite. E un bello smacco per Bonafede, per il Csm con le sue decisioni frettolose e anche per il procuratore Gratteri.
A Nicola Gratteri non si può dire di no, e forse un giorno capiremo perché…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Luglio 2020. Nicola Gratteri, l’uomo cui non si può dire di no. Vuol passare alla storia come il nuovo Falcone, il Falcone calabrese, quello che dovrà smontare la sua Regione pezzo a pezzo e poi ricostruirla. Ma prima, ha bisogno di spazio. Spazio sui giornali, e guai se glielo si nega. Ma soprattutto il procuratore Nicola Gratteri ha bisogno di spazio fisico. Una Grande area, su cui costruire una Grande aula bunker, per celebrare il Grande processo del secolo, quello per cui passerà alla storia. Una corsa contro il tempo per arrivare al traguardo del Maxi calabrese che dovrà superare in tutto il Maxi siciliano. Ci vogliono prima di tutto moltissimi imputati, possibilmente in vinculis. Quelli di Falcone erano 474, di cui meno della metà era in carcere, ma soprattutto, grande vulnus, ben 121 erano latitanti, tra cui Totò Riina e Bernardo Provenzano. Sul numero degli imputati (per ora solo indagati) andiamo già maluccio, in Calabria, soprattutto per quel che riguarda la custodia cautelare. Nell’inchiesta “Rinascita-Scott”, “la più grande operazione antimafia dopo quella di Palermo”, i pezzettini di lego erano così male incastrati che hanno cominciato a venir giù. Come ha riportato nel suo articolo (Il Riformista, 22 luglio) Ilario Ammendolia, dei 334 ordini di cattura richiesti dal procuratore Gratteri con l’operazione notturna del 19 dicembre 2019, ben 203 sono stati annullati o riformati: 51 dal gip, 123 dal Tribunale del riesame, 13 dalla cassazione senza rinvio e 9 con rinvio. Un fallimento gigantesco. Ecco perché è stato necessario avviare l’operazione “Imponimento” (termine astruso anche per noi calabresi, che forse deriva da “imporre”) con 158 indagati freschi freschi, di cui 75 già ammanettati. Statistiche alla mano, si attende il prossimo dimezzamento delle custodie cautelari in carcere, non appena partiranno i ricorsi al riesame e alla cassazione. Anche con i politici, la cui presenza nelle inchieste di mafia è indispensabile per avere qualche prima pagina di giornale, non è andata benissimo. È vero che l’onorevole Pittelli giace ancora sequestrato in un carcere sardo, ma l’ex sindaco di Pizzo e Presidente di Anci Calabria, Gianluca Callipo e il tenente colonnello dei carabinieri in servizio Giancarlo Naselli sono stati liberati dai ceppi dopo otto mesi dalla Cassazione. Anche l’operazione nei confronti di un personaggio come Mario Oliverio, ex governatore della Regione Calabria ed esponente di rilievo del Pd, si era rivelata un buco nell’acqua, con una sentenza della Cassazione che bollava l’inchiesta per “mancanza di gravità indiziaria” e per il “chiaro pregiudizio accusatorio”. Anche con la novella inchiesta “Imponimento” il carniere appare un po’ vuoto. C’è il nome di un senatore, che non è indagato, ma viene comunque menzionato (e a noi il fatto pare grave) perché “si ipotizzava” che nelle elezioni del 2018 avesse avuto l’appoggio di qualcuno che era cugino di qualcun altro. E poi c’è un altro, fuori dalla politica dal 2013, su cui c’è il sospetto che abbia avuto un appoggio da ambienti mafiosi alle elezioni regionali del…2005! Ebbene si, stiamo parlando di 15 anni fa. Complimenti per la velocità, dottor Gratteri. E complimenti ai settecento uomini della Guardia di finanza impegnati per l’operazione. Ma rispetto a Giovanni Falcone, indubbiamente Nicola Gratteri ha più frecce al proprio arco. Ha più potere. Nicola Gratteri piace a tutti (o quasi). Matteo Renzi lo voleva come ministro di giustizia, la sua presenza nei talk viene contesa da conduttori e conduttrici più prestigiosi. Non appena ha cominciato a dire che per la sua inchiesta ci vorrà un’aula bunker di grandi dimensioni anche solo per l’udienza preliminare, perché lui immagina centinaia di imputati e ancor più avvocati, e poi migliaia di cittadini tra il pubblico e televisioni da tutto il mondo, tutti si sono offerti di dare una mano. La Giunta regionale presieduta da Jole Santelli, prima di tutto, che ha già trovato un bel tremila metri quadri in zona industriale vicino a Lametia, e poi il ministro Bonafede (cui Gratteri però ha dovuto tirare le orecchie perché non era scattato subito sull’attenti), che dovrà firmare il protocollo con la Regione e poi far costruire una enorme tensostruttura. E il Comune di Catanzaro non si è certo tirato indietro. Lui intanto ha istituito una bella commissione con il fior fiore della magistratura calabrese: dal presidente della Corte d’appello al presidente del tribunale fino al procuratore generale facente funzioni e, ciliegina sulla torta, anche il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati. Perché a Nicola Gratteri non si può dire di no. Nessuno osa dire di no. Ma a nessuno viene il dubbio che tutte queste inchieste, già abbastanza colabrodo, possano finire in niente? Chi ha stabilito che ci sarà un processo, maxi o mini che sia, visto che non ci sono ancora neppure rinvii a giudizio? Eppure –vogliamo scommettere?- il processo ci sarà, l’aula bunker ci sarà, la grande eco mediatica ci sarà. Perché a Nicola Gratteri non si può dire di no. E forse un giorno capiremo perché.
Gratteri va tutelato dallo Stato, ma mai mitizzato. Ilario Ammendolia il 9 Gennaio 2020 su IL Riformista. Si svolgerà il 18 gennaio a Catanzaro la manifestazione nazionale “Io sto co Gratteri” che secondo gli organizzatori coinvolgerà i fans del procuratore di Catanzaro da “Aosta alla Sicilia”. La manifestazione intende contrastare quanti con le loro critiche hanno causato e causano la “delegittimazione” del magistrato “ utilizzando la stessa tecnica che la mafia ha messo in campo con Falcone già qualche mese prima della strage di Capaci”. Si stabilisce l’equazione: chi critica il procuratore di Catanzaro sta dalle parte degli stragisti. Pertanto noi che abbiamo avuto l’ardire di fare qualche rilievo su alcune inchieste di Gratteri (che poi i giudici hanno raso al suolo), dovremmo sentirci in colpa e vivere con l’angoscia di essere collocati dalla parte dei mafiosi e degli assassini di Falcone. Chiariamo subito che tocca allo Stato proteggere Gratteri ed ha l’obbligo di farlo qualunque sia la somma da spendere e le forze da impegnare. Il procuratore di Catanzaro, come chiunque altro, deve essere messo in condizioni di lavorare nel massimo di sicurezza e di serenità. In una democrazia liberale ogni magistrato, quindi anche Gratteri, va tutelato e rispettato ma mai mitizzato. Ma questo non c’entra niente con la manifestazione di Catanzaro. E’ difficile non percepire le motivazioni di alcuni organizzatori della manifestazione di Catanzaro – forse sponsorizzata da alcuni palazzi – come un oggettivo ricatto verso chiunque si azzardi a criticare i provvedimenti di Gratteri anche se palesemente ingiusti. Un pesante invito al silenzio, un attacco alla libertà di critica, una specie di minaccia verso chi si schiera dalla parte dei più deboli che – non bisognerebbe mai dimenticarlo- sono gli innocenti gettati in galera. Ed anche tra i 334 ammanettati nel blitz “Rinascita-scott”, e sin dalle prime battute, s’è registrata una raffica di scarcerazioni di persone messe in carcere con accuse inconsistenti e tutte da verificare. E’ provato da precedenti inchieste che il numero altissimo di arrestati ha una grande importanza nel ricercato impatto mediatico e serve per dare la sensazione d’un evento eccezionale aldilà del risultato finale. Ed infatti la procura di Catanzaro arrestando così tante persone ha ottenuto tanto clamore ma ne è scaturita una inchiesta ingestibile di 450 mila pagine più gli audio ed i video, cosicché solo per avere gli atti bisognerebbe spendere 39 mila euro. Ora riflettete: c’è uno studio legale capace di un lavoro così imponente? E perché – se non per far numero – mischiare l’estorsione d’una torta o d’un paio di pantaloni, la raccomandazione ad una piccola impresa , l’abuso di potere, una ipotizzata intestazione fittizia di beni avvenuta tra il 2007 ed il 2009, il “traffico di influenze” – reati tutti da dimostrare- con omicidi, traffico di droga, pestaggi mafiosi, occultamenti di cadaveri e quant’altro? Non è questo un modo di fare “giustizia” che garantisce una oggettiva tutela e la probabile impunità ai ricchi, ai capi mafia ed ai colpevoli mentre punisce i poveri e gli innocenti? Siamo mafiosi o stragisti perché muoviamo tali rilievi? Oppure vengono meno al loro dovere quanti hanno scelto di restare in silenzio rispetto al quotidiano strazio delle garanzie costituzionali?
· E’ scoppiata Magistratopoli.
«Luca Palamara è la “spia” del Fatto e dalla Verità». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 16 dicembre 2020. Secondo Cantone, l’ex magistrato accusato di aver gestito le nomine avrebbe anche rivelato ai giornali notizie coperte da segreto istruttorio al Fatto di Travaglio e alla Verità. La Procura di Perugia ha notificato ieri pomeriggio all’ex presidente dell’Anm l’avviso di conclusione indagini, propedeutico al rinvio a giudizio, per il reato di rivelazione del segreto d’ufficio. Secondo l’ufficio guidato da Raffaele Cantone, già numero uno dell’Anac, Palamara, in concorso con il collega pm Stefano Rocco Fava, «in data antecedente e prossima al 29 maggio 2019», avrebbe rivelato ai giornalisti del Fatto e della Verità alcune informazioni relative alle pendenze penali dell’avvocato Piero Amara, uno dei principali protagonisti del cd Sistema Siracusa, il sodalizio di magistrati e professionisti finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi.Amara, già avvocato dell’Eni, era stato indagato a Roma per bancarotta e frode fiscale. Fava, all’epoca in forza al dipartimento reati contro la Pa, coordinato dall’aggiunto Paolo Ielo, aveva chiesto per Amara la custodia cautelare in carcere ma il procuratore Giuseppe Pignatone non aveva voluto apporre il visto.Lo scopo dei due magistrati sarebbe stato, allora, quello di avviare una “campagna mediatica” contro Pignatone, che era da poco andato in pensione per raggiunti limiti di età, e contro Ielo. Pignatone e Ielo sarebbero stati i “responsabili” dei guai giudiziari di Palamara, avendo trasmesso a Perugia, competente per i reati commessi dai magistrati della Capitale, il fascicolo sui rapporti avuti dall’ex capo dell’Anm con il faccendiere Fabrizio Centofanti. Palamara, a tal riguardo, venne poi iscritto nel capoluogo umbro per il reato di corruzione e sottoposto ad intercettazione mediante il trojan.Fava, invece, è anche accusato di abuso d’ufficio, avendo acquisito, in maniera ritenuta non regolare, documenti dal sistema informatico Tiap per provare l’incompatibilità e la violazione dell’obbligo di astensione da parte di Pignatone e Ielo in un paio di procedimenti. Il 27 marzo 2019 Fava aveva presentato un esposto al Csm in cui sarebbe stata riportata una versione, secondo i magistrati umbri, “incompleta” degli atti adottati da Pignatone e da Ielo nei procedimenti in questione. A far compagnia a Palamara nel reato di rivelazione del segreto, Riccardo Fuzio, l’ex procuratore generale della Cassazione. Fuzio avrebbe confermato a Palamara che Fava aveva effettivamente presentato un esposto al Csm contro Pignatone e Ielo. Esposto che era stato secretato una volta giunto a Palazzo dei Marescialli. La circostanza emergerebbe da una telefonata fra i due intercettata il 3 aprile dello scorso anno.L’ex pg della Cassazione è attualmente indagato anche per un’altra rivelazione del segreto, e cioè quando a maggio del 2019 aveva informato Palamara che al Csm era arrivato il fascicolo da Perugia per corruzione nei suoi confronti. Fava, sul punto, si era “autoaccusato”. Interrogato dai pm umbri Mario Formisano e Gemma Miliani aveva dichiarato di aver effettivamente fatto verifiche nelle banche dati, finalizzate alla redazione del citato esposto. Tutto regolare, quindi, trattandosi di procedimenti che erano stati definiti con sentenze passate in giudicato.Se per Fava questo è il primo procedimento penale, per Palamara si tratta invece della terza indagine. Ma quali sarebbero, poi, gli articoli incriminati del 29 maggio 2019? Per il Fatto, a firma Marco Lillo, “Esposto bomba al Csm: Incarichi ai fratelli di Pignatone e Ielo”. Per la Verità, a firma Giacomo Amadori,”Sotto inchiesta al Csm l’ex capo dei pm di Roma e il suo aggiunto: Esposto al Csm su Pignatone e Ielo, affari fra indagati e i loro fratelli”. Lo stesso giorno, Repubblica, Corriere e Messaggero apriranno sull’indagine di Perugia a carico di Palamara. Repubblica titolerà “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”, il Corriere “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma” e il Messaggero “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”.
"C’è il segreto d’ufficio". Palamaragate, Davigo a Cantone: “Non parlo più con Ardita ma non vi dico il perché…” Paolo Comi su il riformista il 18 Dicembre 2020. C’è un segreto “inconfessabile” che si nasconde dietro il più grande scandalo che ha investito la magistratura italiana dal dopoguerra. Uno scandalo che, con l’avallo dei Palazzi romani e dei grandi giornali, si sta cercando in questi mesi di mandare in tutta fretta nel dimenticatoio. L’ultimo dei misteri del Palamaragate ha avuto come conseguenza la rottura di ogni rapporto fra due dei più importanti e famosi pm del Paese: Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. I due magistrati, che non hanno bisogno di presentazioni, erano stati tra i fondatori di Autonomia&indipendenza, la corrente nata nel 2015 dopo la scissione dalla destra giudiziaria di Magistratura indipendente. Motivo? Contrasti con l’allora leadership di Cosimo Ferri. A&i, prima del pensionamento di Davigo, era il gruppo di maggioranza al Csm, con cinque consiglieri, contando anche l’indipendente pm antimafia Nino Di Matteo, eletto a Palazzo dei Marescialli nelle liste “davighiane”. Il rapporto di Davigo ed Ardita, prima del Palamaragate era solidissimo. Insieme avevano scritto nel 2017 un libro, Giustizialisti, così la politica lega le mani alla magistratura, edito da Paperfirst, la casa editrice del Fatto Quotidiano, che ebbe un discreto successo. L’anno successivo si erano entrambi candidati al Csm venendo eletti. Per Davigo l’elezione fu plebiscitaria, risultando il magistrato più votato di sempre. La clamorosa circostanza della rottura fra i due è emersa dall’interrogatorio dello scorso 19 ottobre condotto personalmente dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone e depositato all’udienza del 25 novembre nel processo per corruzione a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Interrogatorio che il Riformista ha potuto leggere integralmente. Davigo era stato convocato a Perugia per essere sentito come persona informata dei fatti nel procedimento penale che vede coinvolto Palamara. Lo stesso giorno al Csm era discusso della sua permanenza a Palazzo dei Marescialli anche dopo il compimento dei settanta anni, età massima per il trattenimento in servizio dei magistrati. Durante il tesissimo dibattito in Plenum si consumerà una spaccatura all’interno di A&i. L’interrogatorio era incentrato essenzialmente sull’esposto presentato dal pm della Capitale Stefano Rocco Fava contro il procuratore Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Pignatone e Ielo, secondo Fava, avrebbero violato il dovere di astensione in diversi fascicoli. Fava, poi, aveva avuto forti contrasti con Pignatone sulla gestione di alcuni procedimenti che si erano conclusi con l’avocazione degli stessi da parte del procuratore di Roma. La domanda di Cantone è secca: «Conosce Fava?» Davigo rispose dicendo che Ardita, volendo fare proselitismo a Roma, dove A&i era debole, in vista delle elezioni dell’Anm, aveva organizzato a marzo del 2019 un pranzo con Fava e un altro pm. Durante il pranzo si parlò di questioni associative e «non posso escludere che si parlò delle problematiche dell’ufficio di Roma». «Escludo categoricamente che il dottor Fava mi disse che voleva presentare un esposto contro Pignatone e Ielo. Ovviamente se mi avesse detto che intendeva presentare un esposto contro Ielo, me ne sarei ricordato, visto che conosco quest’ultimo da anni», puntualizzò Davigo. «Ha parlato con Ardita dell’esposto presentato da Fava contro Pignatone?», aggiunse Cantone. «Ho parlato con Ardita dell’esposto contro Ielo e non contro Pignatone una volta uscite le intercettazioni», rispose Davigo per poi aggiungere: «Siccome lo avevo visto agitato dopo la pubblicazione delle intercettazioni, gli chiesi di indicarmi se aveva avuto un ruolo nel gestire tale esposto. Lui mi disse che il suo ruolo era stato istituzionale». Cantone non molla: «Perché Ardita era preoccupato?» «Io non posso spiegare interamente la vicenda, in quanto coperta da segreto d’ufficio», la secca risposta di Davigo. Cantone non rimase soddisfatto. Ed aggiunse: «Il dottor Ardita esternò le ragioni delle sue preoccupazioni?». Davigo: «Questa è la parte coperta da segreto d’ufficio su cui non posso rispondere». Per poi sparare il colpo: «Si tratta della ragione per cui non parlo più con il consigliere Ardita dal marzo del 2020». Cantone, da toga esperta, forse avendo intuito cosa era successo, chiese allora: «Ha avuto modo di parlare con il consigliere Ardita dell’esposto Fava prima di marzo 2020?». «Non ho mai parlato con il consigliere Ardita. Non mi spiegavo le ragioni delle sue preoccupazioni in quanto ho sempre pensato ‘male non fare, paura non avere’». A cosa si riferiva Davigo? Qual è il segreto che non può essere rivelato ed è talmente grave che ha costretto l’ex pm di Mani pulite a togliere il saluto ad Ardita?
Magistratopoli, l’Ue deve intervenire a tutela della legalità della giustizia in Italia. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista l'1 Luglio 2020. Le dichiarazioni dell’ex Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), Luca Palamara, e la registrazione della clamorosa “confessione” del relatore della sentenza di condanna da parte della Corte di Cassazione di Silvio Berlusconi, ha provocato grande attenzione e sconcerto anche fuori dell’Italia, e nell’ambito delle Istituzioni Ue. Ue che, va ricordato, è sinora stata ed è un sicuro argine a potenziali derive autoritarie nei singoli stati membri. Deriva che alcuni, come chi scrive, hanno temuto negli anni di tangentopoli. Perché tra i benefici dell’Ue, al di là degli zero virgola dei vincoli economici, non dobbiamo mai dimenticarlo, vi sono anche quelli di legalità, democrazia, e rispetto delle libertà fondamentali, che legano tutti gli stati membri dell’Ue. In altri termini, lo stare all’interno dell’Ue è anche un antidoto ai demoni antidemocratici e anti-libertari che, a seconda del momento storico, possono risvegliarsi nei singoli paesi a seguito di situazioni contingenti. Siano essi incarnati nell’uso della forza delle armi che delle sentenze manettare. È quello di cui sono convinto, avendo vissuto dall’osservatorio europeo, con grande preoccupazione per la stabilità democratica del nostro paese, il periodo di tangentopoli, e la deriva giudiziaria e giustizialista che ne è seguita. E che nulla ha a che fare con la Giustizia. Quella con la G maiuscola. Perché penso che, se non ci fosse stata l’Unione Europea che non l’avrebbe mai permesso, il rischio che a qualcuno saltassero i nervi, trascinando il Paese in pericolose avventure, è stato in qualche momento tutt’altro che teorico. L’Ue è sempre stata, e rimane, un faro del rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche all’interno dei suoi Stati membri e nel mondo. E lo è ben prima ancora di essere un mercato unico. Ed è per questo che Antonio Tajani, nella sua qualità di Vicepresidente del Partito Popolare Europeo, si è rivolto alle istituzioni europee chiedendone l’intervento di vigilanza della singolare situazione in cui si è trovato l’ex presidente del consiglio italiano. Per alcuni vittima di un golpe giudiziario e mediatico, del quale hanno forse beneficiato altri paesi, ma che ha compromesso non solo i diritti della persona e della famiglia di Silvio Berlusconi ma, ed è ben più grave, pure le sorti politiche ed istituzionali del Paese, in un significativo e delicatissimo momento storico. In una lettera inviata oggi alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ed agli altri vertici delle istituzioni Ue, Tajani ricorda che “molte volte, negli ultimi anni, le Istituzione europee si sono espresse per tutelare lo Stato di diritto nei Paesi membri dell’Unione europea”. Riferendosi alla sentenza di condanna per frode fiscale, nel 2013, del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, precisa che “negli ultimi giorni, sono emersi nuovi elementi inquietanti: i quotidiani italiani pubblicano frasi del magistrato relatore della sentenza che definisce il Collegio giudicante “un plotone d’esecuzione” e quella sentenza “già scritta e ordinata dall’alto”. Inoltre, una recente sentenza del tribunale civile di Milano ribalta quanto già deciso e smonta la vecchia accusa, dichiarando che non ci fu frode fiscale.” “Quella del 2013, quindi”, prosegue Tajani, “è stata una sentenza politica che ha condannato il nostro partito e il nostro leader ad una forte campagna denigratoria che ha causato una evidente distorsione nei nostri processi democratici. Infatti, questa condanna che oggi scopriamo infondata, ha successivamente costretto Silvio Berlusconi, democraticamente eletto dagli italiani, ad abbandonare il Senato della Repubblica e gli ha impedito per anni di candidarsi a cariche pubbliche.” “Come già accaduto in passato”, continua l’ex presidente del Parlamento Europeo, “oggi, le Istituzioni europee devono valutare se in Italia la magistratura abbia adempiuto al proprio compito in maniera assolutamente imparziale.” L’utilizzo politico della giustizia contro gli avversari, secondo Tajani, “sarebbe una ferita profonda alla nostra democrazia e ai valori a cui ci ispiriamo. In un Paese sano non ci può essere spazio per giudizi basati su ragioni puramente ideologiche. Questa frangia di giudici fa danno a tutta la magistratura onesta e alla credibilità del sistema e delle Istituzioni italiane.” Tajani, impegnandosi a tenere informate le Istituzioni Ue sugli sviluppi che avrà la vicenda nelle prossime settimane, conclude sottolineando che quello che è emerso negli ultimi giorni è preoccupante non solo per il proprio partito, ma anche “per ogni cittadino italiano ed europeo”. E per questo motivo informa anche la von der Leyen ed i presidenti delle altre Istituzioni UE che, a livello nazionale, ha chiesto l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta su quanto è accaduto a Silvio Berlusconi e sul cattivo funzionamento della giustizia penale in Italia.
Magistratopoli e i Pm che da soli valgono un partito. Alberto Cisterna su Il Riformista il 12 Luglio 2020. Esiste in Italia un partito dei pubblici ministeri? In senso formale sicuramente no. E la stessa risposta negativa si deve dare se si ricorre alla definizione politologica più accreditata di partito: «Un partito è qualsiasi gruppo politico identificato da un’etichetta ufficiale che si presenta alle elezioni, ed è capace di collocare attraverso le elezioni (libere o no) candidati alle cariche pubbliche» (Sartori, Oxford, 1976). La partecipazione alle elezioni e il vaglio del consenso popolare sono indispensabili perché un’azione politica possa dirsi organizzata nella forma-partito. Un’associazione che si definisse partitica e che si sottraesse sistematicamente alle competizioni elettorali sarebbe un guscio vuoto, una polisportiva delle chiacchiere. Partito-elezioni-potere è una triade inscindibile a prescindere, come ricordava Sartori, dal fatto che le votazioni si svolgano liberamente o meno. La storia è piena di partiti fantoccio a copertura di tirannie. Certo, però, se la discussione politica e i mass media – sia pure con accenti più o meno critici – ritengono tutti e da anni che questo partito dei pubblici ministeri esista e operi la questione merita di essere presa in esame secondo prospettive diverse. In questa declinazione vicaria per “partito” si dovrebbe intendere l’agglutinarsi delle toghe intorno ad alcune convinzioni, la condivisione di alcune idee circa la funzione giudiziaria, cui seguirebbe una vera e propria azione di influenza politica. Ma anche questa volta i conti non tornano. I tornei correntizi del Csm disvelati di recente hanno per oggetto, quasi esclusivo, la scelta dei titolari di uffici di procura (Roma, Perugia, Torino, Napoli, la Nazionale antimafia e via seguitando). Da quel materiale emerge che queste competizioni hanno dato luogo a scontri ferocissimi, a raid senza esclusione di colpi. Sino all’idea di una manipolazione delle indagini per sopprimere gli avversari. Insomma, nulla che sia corrispondente al modello di un partito unico dei pubblici ministeri che normalmente circola. I duellanti per il monopolio dell’azione penale nella Capitale o nel borgo più sperduto si guardano in cagnesco, si fanno causa e lanciano veleni e veline di ogni genere gli uni contro gli altri, al punto tale da poterli definire con grande difficoltà componenti di uno stesso movimento o gruppo. E quindi? Una mano ce la può dare il Sommo: «Sì ch’a te fia bello averti fatta parte per te stesso» (Paradiso, canto XVII, 69). Non esiste un partito dei pubblici ministeri per la semplice ragione che – da un certo punto in poi, dallo sgorgare di una certa smisurata ambizione in poi – l’ego tendenzialmente ipertrofico dell’inquirente volge lo sguardo a sé stesso e rimirandosi (verrebbe da dire) insieme alla sua corte di poliziotti, carabinieri e via seguitando, matura l’idea di essere il migliore o uno dei migliori. Lo ha detto con chiarezza il reprobo ex-presidente dell’Anm: tutti immaginavano di meritare, tutti ritenevano di aver diritto, tutti sentivano di poter primeggiare. E insieme a loro entra in fibrillazione anche la selezionata corte di investigatori da questi scelta nel tempo che, in uno con il nubendo, partecipa dei suoi fasti e soffre per i suoi nefasti, che intravede prospettive di carriera o di promozioni a seconda che il “proprio” pubblico ministero gareggi e vinca oppure soccomba. La questione dovrà essere ripresa e completata, ma un primo punto deve essere messo in evidenza. Certi pubblici ministeri – ma sempre tanti pubblici ministeri – interpretano il proprio ruolo come immancabilmente volto alla costituzione di una immagine mediatica spendibile. Per realizzare questo fine occorre una compagine appropriata che sia cooptata e fidelizzata e che si muova a testuggine, scalzando chiunque si frapponga al successo di quel micro-cosmo e di quel micro-partito in toga. È come in certi consigli regionali o, un tempo, alle Camere in cui bastava anche un solo componente per costruire un gruppo e rappresentare un partito. Talvolta sono i pubblici ministeri a essere fagocitati da apparati investigativi, enormemente più efficienti e capaci di loro, che li trasformano in proprie appendici giudiziarie e trojan nel plesso della magistratura italiana di cui apprendono segreti e maldicenze e di cui condividono odi e alleanze. La combinazione delle due direttrici ha, poi, nei rari casi in cui si realizza, effetti “eversivi” rispetto all’ordinato funzionamento delle istituzioni e all’insopprimibile separazione dei poteri dello Stato. Si creano Leviathan promiscui, ibridi poliziesco-giudiziari, meticci investiganti che si sorreggono vicendevolmente, che scalano posizioni e uffici, che condizionano finanche i vertici ergendosi a poteri autonomi, autoreferenziali e autocontrollati. Meglio ancora se questi “partiti”, nei propri flussi migratori, hanno a disposizione giornalisti embedded da manovrare per mirate fughe di notizie, per tempestive campagne di stampa o per approntare selezionate divulgazioni di atti riservati. Questi raggruppamenti purulenti e maleodoranti aleggiano inquietanti nelle vicende dell’ex presidente dell’Anm e di essi è sembrato, a più riprese, che il dottor Palamara intenda parlare. Non si tratta più di proteggere la corporazione dagli scandali, né le toghe da qualche disdicevole prassi spartitoria. La magistratura italiana – come la Chiesa – è da decenni una «casta meretrix» (Sant’Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca) e da sempre ha ceduto a simili debolezze. La posta in gioco che si intravede nei ritagli delle dichiarazioni sembra essere un’altra e ben più importante. La sola impressione che qualcuno si stia freneticamente operando per mettere in lockdown un’angosciante verità e porre a tacere chi custodisce segreti indicibili dovrebbe allarmare la pubblica opinione. I troppi pm-partito che sono cresciuti all’ombra di questa diversione costituzionale hanno da preoccuparsi e molto per ciò quello che potrebbe avvenire. Non è in discussione un sistema di nomine (se ne troverà un altro), ma il patto scellerato che si potrebbe essere realizzato in alcuni cupi anfratti della corporazione inquirente tra magistrati, pezzi delle forze di polizia e segmenti del giornalismo. Un patto che rappresenterebbe, purtroppo, una parte della Costituzione materiale del paese e sul quale invano, come sempre, aveva lanciato i propri moniti Giovanni Falcone: «Una polizia giudiziaria, che dipende direttamente dal pubblico ministero, ben poco serve ad accrescere la sua autonomia e indipendenza, se poi il pubblico ministero non è in grado di dirigerla» (Interventi e proposte. 1982-1992) o vi instaura reciproche relazioni di servizio e utilità.
L’identità smarrita dei magistrati italiani. Ernesto Galli Della Loggia su Il Corriere della Sera il 29 Giugno 2020. Il danno terribile occorso alla magistratura italiana: la perdita dell’immagine dell’imparzialità. Una magistratura, per giunta, apparsa finora, tranne rarissime eccezioni, totalmente ignara del problema, accecata dal suo enorme potere, trincerata in un Consiglio superiore impegnato perennemente nella bassa cucina delle nomine o nella difesa della corporazione, incapace sempre di dire un’alta parola di verità e di autocritica. Non è dunque per caso se nella democrazia italiana anche l’ideologia strutturante della magistratura è diventata ben presto la politica. Una trasformazione che non è partita dal suo interno ma che ha rispecchiato un cambiamento più generale del Paese. Le donne e gli uomini dell’apparato giudiziario, infatti, sono stati forse le maggiori vittime di quella duplice assenza di etica e di spirito di corpo comune a tutta la struttura socio-statale italiana nel periodo della Repubblica. Un breve salto nel passato farà capire meglio cosa voglio dire. Ricordo bene quando molti e molti anni fa i magistrati italiani erano dei conservatori. Lo erano innanzi tutto da un punto di vista culturale, in un modo che spesso appariva perfino patetico. E naturalmente lo erano in senso politico. Ma lo erano, dirò così «naturalmente». Cioè non già perché coltivassero personali legami con la politica o con qualche partito di centro o di destra, o perché se ne attendessero qualche vantaggio o magari si sentissero impegnati in una qualche battaglia ideale a sfondo socio-politico. Erano politicamente conservatori soprattutto perché provenivano pressoché totalmente dalla borghesia, la quale allora era conservatrice, spesso e volentieri anche reazionaria. Sicché era normale, ad esempio, che nei processi a sfondo politico — penso a quelli allora frequentissimi riguardanti l’ordine pubblico — sugli imputati di sinistra grandinassero per un nonnulla anni di galera. Poi le cose cambiarono. Grazie alla mobilità favorita dalla crescente scolarizzazione, la provenienza sociale dei magistrati così come quella di ogni altro gruppo professionale fu in buona parte liberata dagli stretti vincoli classisti precedenti. Da un carattere dominante cetuale di tipo liberal-borghese con forti tratti reazionari la società italiana passò almeno tendenzialmente a una struttura democratico-interclassista. Sebbene con il vincolo in Italia sempre fortissimo della trasmissione ereditaria delle professioni, tutti poterono diventare giudici, medici o notai. Un fatto indubbiamente positivo ma con una conseguenza inevitabile: il venir meno all’interno delle varie corporazioni professionali di quell’omogeneità/ solidarietà di fondo che in precedenza erano assicurate dalla comune origine socio-culturale. In altri Paesi questo venir meno di valori di tipo classista nei ceti professionali e degli alti uffici pubblici, verificatosi in tutte le democrazie, è stato compensato da un insieme di altri caratteri risalenti: da una diffusa cultura civica, da un’orgogliosa deontologia delle identità professionali, da antiche tradizioni di servizio allo Stato e di spirito di corpo.
Svelamento. Le intercettazioni dal cellulare di Luca Palamara hanno fatto conoscere a tutti il clima di intrallazzo correntizio. Tutte cose che per ragioni storiche da noi erano invece introvabili o solo debolmente esistenti. Sulle quali quindi la Repubblica non ha potuto contare e alle quali tantomeno essa è riuscita a dare vita. Nata dai partiti, infatti, e rimasta sempre dei partiti (anche per effetto di uno sciagurato sistema di governo), la Repubblica ha potuto trovare solo nella politica, nella politica di partito, la sua vera ragion d’essere, in un certo senso la sua ideologia fondativa. Per ragioni storiche ormai consolidate ma abbastanza uniche nel panorama europeo, nel nostro Paese la stessa Costituzione non sfugge al destino di essere oggetto da sempre di continue dispute di segno politico. Non è dunque per caso se nella democrazia italiana anche l’ideologia strutturante della magistratura è diventata ben presto la politica. Non è per caso se una volta andata in soffitto l’antica unità classista, il ruolo e la funzione dei magistrati, ai loro stessi occhi, nei loro stessi discorsi, si sono andati caricando immediatamente di significato e contenuto politico. Se ben presto per l’identità della grande maggioranza di essi la dimensione della politica e delle relative ideologie è diventata la sola dimensione realmente significativa. Anche perché nel frattempo la politica dei partiti non lesinava certo seduzioni, minacce e allettamenti di ogni tipo avendo scoperto quale ruolo importante potesse avere (o non avere) un procuratore della Repubblica al posto giusto nel momento giusto.
Memoria. La stragrande maggioranza dell’opinione pubblica intuiva l’involuzione ma preferiva non parlarne. Sia chiaro: è evidente che anche per ciò che riguarda la giustizia vale il principio che «tutto è politica». Ma un conto è che tale principio informi di sé la discussione sulle grandi linee generali, sulle opzioni di sistema, un conto ben diverso è che immediatamente, cioè senza alcuna mediazione, la politica diventi di fatto l’unico elemento di autoidentificazione dei singoli, del loro profilo, dei loro atti, del modo di esercitare le proprie funzioni. Secondo una deriva che rende impossibile — non bisogna stancarsi di ripeterlo — qualunque immagine d’imparzialità e che di conseguenza dissolve virtualmente ogni idea di giustizia. Perché questo è il danno terribile occorso alla magistratura italiana: la perdita dell’immagine dell’imparzialità. Una magistratura, per giunta, apparsa finora, tranne rarissime eccezioni, totalmente ignara del problema, accecata dal suo enorme potere, trincerata in un Consiglio superiore impegnato perennemente nella bassa cucina delle nomine o nella difesa della corporazione, incapace sempre di dire un’alta parola di verità e di autocritica.
Magistratura_poli. Alessandro Bertirotti il 29 giugno 2020 su Il Giornale. È tutta questione di… schifezza. Prima o poi (nella nostra nazione, potremmo togliere il “prima” e lasciare sempre e solo il “poi”…) sarebbe venuto fuori “lo stile organizzativo” di uno dei poteri fondamentali dello Stato. Il fatto è, nella sostanza e per arrivare immediatamente al punto centrale del mio articolo, che questo stile alligna ovunque nella nostra nazione. Questo procedere per tradizione culinario-familistica è nella politica, nella magistratura, nella vita quotidiana di ogni italiano. Perché? Perché siamo levantini, ed abbiamo la corruzione e la collusione nel DNA, con una particolare cura a tramandarla come essenziale ai nostri figli, quando desiderano farsi una posizione che permetta loro di sopravvivere. Una sopravvivenza al minimo, perché se si vuole ascendere agli alti gradini della scala sociale, entrano in gioco le diverse qualità dei rapporti clientelari e familistici. In altri termini, dipende da quali famiglie si conoscono, quali rapporti precostituiti esistono nella tradizione amicale con le diverse famiglie, e se è ancora spendibile la serie quasi infinita di crediti e debiti esistenziali. Ecco, tutto qui e semplicemente. Infatti, è il primo articolo che dedico alla questione Palamara (e non penso affatto sia un caso isolato), mentre ritengo che una parte della magistratura abbia vita assai difficile nel fare onestamente il proprio mestiere, utilizzando comportamenti e convinzioni etiche para-nazionali. Siamo ad un punto tale di sfiducia nelle Istituzioni italiane, che, certamente, nel prossimo futuro qualche cosa dovrà ben accadere, specialmente da parte di un popolo italiano che, per ora, ha ancora di che nutrirsi. Non so quanto potrà durare tutto questo. Siamo di fronte ad un tale livello di collusione massificata, non disgiunta dalla relativa corruzione, che non restiamo affatto sorpresi di fronte ai “furbetti del cartellino”, alle tangenti metropolitane milanesi, ai vari “Bibbiano”, ai milioni non restituiti di qualche partito, alla presenza di parlamentari indagati e persino condannati, ai condoni edilizi romani, e via elencando. Come potersi fermare, di fronte a questa decadenza? Ci penserà l’evoluzione, con la determinazione di quelle catastrofi che da sempre sono accadute, salvando i nuovi posteri, e con l’aiuto di quella umanità che continua a rendere la specie un insieme di individui abortivi. La natura non tollera al suo interno la presenza di sistemi viventi che vadano contro la sua stessa sopravvivenza. Ed io… che speravo in zio Covid-19. Dovrò attendere, ma, come sapete, non perdo la speranza.
Federico Novella per “la Verità” il 6 luglio 2020. «Non è una questione di ideologia, ma di potere: ci sono gruppi nella magistratura che vanno per conto proprio, in cerca di vantaggi personali. E i magistrati che lavorano onestamente hanno il dovere di reagire, altrimenti verranno trascinati a fondo».
Luciano Violante, ex magistrato, ex presidente della Camera ai tempi dell'Ulivo, docente di diritto penale, che impressione le hanno fatto le intercettazioni di Palamara finite sui giornali?
«Più che inopportune, frasi indecorose».
«Ora bisogna attaccare Salvini», diceva Palamara sulla questione della nave Diciotti. È indubbio che molti magistrati non nutrano simpatie per il leader della Lega?
«Salvini suscita antipatie non solo nella magistratura; ma l'antipatia non può diventare presupposto per incriminazioni».
Abbiamo a che fare con una frangia di magistrati ideologizzati?
«Chi ha tenuto comportamenti deprecabili è schierato soprattutto con sé stesso e con il proprio potere, senza essere contiguo a nessuno».
Però quando da giudice istruttore a Torino si occupava di terrorismo, lasciò Magistratura democratica. Perché?
«Un settore di Md assunse atteggiamenti equivoci nei confronti dei terroristi. Alcuni cadevano nel sociologismo nei confronti di chi sparava. Non potevo starci, e non fui l'unico».
E questa non è ideologia?
«Era una stortura inaccettabile, dettata da ideologia».
E oggi?
«Oggi le ideologie non c'entrano. Non commettiamo l'errore di pensare che destra e sinistra abbiano qualcosa a che fare con la magistratura di oggi. Ci sono elementi patologici: più che all'ideologia, ci troviamo di fronte a strutture di potere».
Possiamo chiamarle frange affaristiche?
«Piccole oligarchie che si sono costituite per esercitare grande potere dentro e fuori la magistratura. Nelle conversazioni emerse, l'obbiettivo non era collocare il magistrato migliore, ma quello che sarebbe stato più fedele, per mettere nei guai Tizio e garantire Caio. Questo è inaccettabile».
È sempre stato così e ce ne accorgiamo solo adesso?
«È una degenerazione contemporanea. Il Csm in base alla Costituzione è sempre stato il luogo del confronto tra politica e magistratura. Finché il dialogo è pubblico e trasparente, non c'è nulla di male. Quando il dialogo invece è clandestino, notturno, è segno che c'è qualcosa da nascondere».
Un problema destinato ad allargarsi?
«Per quello che sappiamo, Palamara si è comportato in modo non degno, facendo ricadere le macchie della propria condotta su quel grandissimo numero di magistrati che lavorano onestamente».
Questo gruppo di potere, come lo chiama lei, non è il motore di un sistema?
«No, è la degenerazione di un sistema. La magistratura fino alla fine degli anni Sessanta è stata solo una corporazione di funzionari pubblici, alla periferia dell'ordinamento politico. In seguito le sono state delegate con leggi funzioni sempre più ampie, sempre più discrezionali, sempre più politiche, sempre più fondate sull'ideologia del sospetto».
Con quali conseguenze?
«Leggi occhiute e pervasive hanno attribuito soprattutto alla magistratura penale, ma anche ad altri organi dello Stato, funzioni di sorveglianza e di controllo sulla intera società italiana. La politica ha ceduto il passo, delegando alla magistratura molte delle sue funzioni. Oggi le toghe decidono persino chi può stare nelle liste elettorali e chi no».
Dunque?
«Quando si delegano funzioni politiche ad un altro corpo, quel corpo diventa politico. Perciò, oggi la magistratura per delega della politica fa parte del sistema di governo del paese».
Con buona pace della separazione dei poteri?
«Il rapporto tra sovranità della politica e potere giudiziario è squilibrato. L'equilibrio costituzionale va ricostruito».
Quali sono i cascami più evidenti di questo squilibrio?
«Siamo una società sotto sorveglianza».
Una deriva giustizialista?
«Siamo oltre. C'è stata ed è tuttora in corso una delega alla magistratura delle funzioni di controllo della legalità. La magistratura dovrebbe intervenire quando c'è una notizia di reato, non per accertare se c'è una notizia di reato: questo lavoro, nello Stato di diritto, spetta alla polizia e ad altri settori della pubblica amministrazione».
Un quarto potere?
«Un potere che ormai governa insieme alla politica per decisione della politica. Accade in Italia più che altrove perché abbiamo un sistema politico fragile».
Come si può riformare il Csm, per contrastare lo strapotere delle correnti?
«Il Csm è un organo fermo agli anni Sessanta, bisogna renderlo adeguato al mutato ruolo della magistratura. Pensare di risolvere problemi con un nuovo sistema di elezione è un'ingenuità».
Quindi cosa propone?
«Anzitutto il vicepresidente del Csm dev' essere nominato dal capo dello Stato. Altrimenti già nel primo giorno di lavoro cominciano trattative oscure tra politici e magistrati su chi debba ricoprire quel posto. E già da subito inizia una trattativa spesso oscura fatta di negoziazioni, promesse e minacce tra le correnti e con le correnti, tra i partiti e con i partiti».
Poi?
«Poi si deve costituire un'Alta corte per la responsabilità disciplinare di tutte le magistrature. Composta da magistrati ordinari, amministrativi, contabili, tributari e una quota di laici. E questa corte deve decidere anche sui ricorsi contro le nomine interne».
Oggi la questione morale di berlingueriana memoria investe le toghe anziché la politica?
«Sì, c'è una questione morale, anche più grave di quella sollevata da Enrico Berlinguer nei confronti dei partiti. All'epoca si assistette alll'incardinamento del potere dei partiti nel sistema pubblico, oggi siamo di fronte a una degenerazione del potere della magistratura. Un pezzo di questo potere va per conto suo, al fine di acquisire prerogative personali, influire illecitamente sugli altri magistrati e dunque anche sulla società e sul sistema delle imprese».
Quanto è alto il rischio per la democrazia?
«Dovrebbe essere la stessa magistratura a prendere atto della condizione difficile in cui si trova. La spirale è verso il basso, ogni settimana succede qualcosa. Se la magistratura non si attiva per riforme profonde, sarà trascinata giù».
Parliamo del premier Giuseppe Conte: si sente rappresentato da questo governo?
«Il governo non mi deve rappresentare: deve decidere».
Troppi rinvii, soprattutto sulle misure economiche, e poca sostanza?
«Governare è difficile. Ma occorrerebbe maggiore chiarezza sulle priorità».
L'indecisione del governo sta logorando il Pd?
«Con il sistema proporzionale i partiti di governo sono alleati ma anche concorrenti. Anche i Cinque stelle rischiano il logoramento. È un tema che si pone quando le alleanze non scaturiscono dal voto dei cittadini, ma attraverso le negoziazioni parlamentari. Accadde anche nel precedente governo».
Silvio Berlusconi sarebbe disponibile a un nuovo governo senza i Cinque stelle. Si immagina il Pd al potere con Forza Italia?
«Ho l'impressione che sarebbero avventure, non governi».
A proposito, che cosa ne pensa dell'audio in cui il magistrato Amedeo Franco parla di «plotone di esecuzione» giudiziario contro Berlusconi?
«Bisogna innanzitutto liberarsi dai preconcetti pro e contro. Poi stare ai fatti».
Berlusconi ha ragione a sentirsi un perseguitato?
«È stato assolto diverse volte».
Siamo un Paese a rischio autoritarismo?
«Il Parlamento è marginale. Il decreto legge sulle semplificazioni, per esempio, affida a un Dpcm l'indicazione delle opere strategiche da realizzare. Non ci sono gli strumenti parlamentari per decidere, e il Dpcm diventa strumento di governo autonomo rispetto al Parlamento. Se non si riforma il bicameralismo paritario sarà inevitabilmente sempre peggio».
Durante il periodo più buio dell'emergenza qualcuno al governo si è fatto prendere la mano?
«La realtà è più complessa: è mutato dappertutto il contratto sociale. Oggi i governi dicono al cittadino: dammi le tue libertà, io ti garantisco la vita. E se la vita è a rischio, il cittadino accetta qualsiasi cosa».
L'esecutivo giallorosso è nato per scegliere il nome giusto per il Quirinale?
«Può darsi, ma programmare queste cose è difficile. Se qualcuno ha in mente di farlo, è un po' troppo ottimista».
Sarebbe favorevole a un gentiluomo legato al centrodestra come capo dello Stato?
»Un gentiluomo o una gentildonna. Se ci sono i voti, perché no? Ci sono personaggi adatti in tutto il mondo politico».
Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 6 luglio 2020. «Benvenuti nell'Italia dei disvalori, un Paese in confusione totale, in guerra con i padri costituenti, dove ogni anno che passa aumentano le violazioni alla Carta e cala il tasso di democrazia». Requisitoria di Antonio Di Pietro, il pm più famoso della storia della Repubblica. Da magistrato, ha puntato il dito contro la politica; mollata da tempo la toga, allarga il j' accuse a molti suoi ex colleghi. «Ma non alla categoria», ci tiene a precisare, «perché sono gli individui che hanno umiliato la magistratura, come sono i singoli parlamentari che hanno fatto sì che ora tutto il Palazzo venga visto come il luogo del malaffare. La responsabilità, d'altronde, è sempre personale».
Questo però non impedisce all'eroe di Mani Pulite di processare come al solito, non l'individuo, ma il sistema.
«Non condivido l'idea per cui Palamara è il male assoluto. Non era da solo a manovrare. Più dell'ex presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, di cui ormai sappiamo anche troppo, mi preoccupano i tanti Palamara non emersi, tutti coloro che non sono stati intercettati ma comunque hanno trasformato la magistratura da servizio in occasione di potere personale, realizzando una mutazione genetica di un'istituzione nata per difendere lo Stato e i cittadini».
Ma Di Pietro, è tutta colpa vostra se la giustizia è diventata strumento di potere politico, siete stati voi a iniziare.
«Nella mia vita sono stato accusato di aver fatto un uso politico della giustizia, ma la verità è che altri hanno fatto un uso politico della mia attività giudiziaria, sia contestandomi, sia per sfruttare il vento e farsi portare al traguardo».
Berlusconi l'ha contestata e la sinistra l'ha sfruttata?
«Guardi, Mani Pulite era un'inchiesta che partiva dai reati e poi è arrivata alla politica, quando abbiamo trovato i soldi nascosti nei divani. Le inchieste politiche oggi partono dalla persona per vedere se si riesce ad arrivare a qualche reato. Mani Pulite era un'operazione chirurgica, noi eravamo dei medici; poi sono subentrati i paramedici, e i risultati si sono visti».
I paramedici sono quelli che usano la giustizia a scopi politici?
«Sono i magistrati che aprono le inchieste pensando alla propria realizzazione privata anziché alla loro funzione istituzionale. E se poi l'inchiesta si chiude con un nulla di fatto, nel frattempo loro ne hanno tratto beneficio».
Può farmi degli esempi?
«Pensi al reato di abuso di ufficio, in cui il politico di turno deve dimostrare di non essere colpevole. È la resa del diritto: si anticipa la condanna non essendo in grado di provare il reato. Sono inchieste che garantiscono notorietà ma non giustizia».
Il caso Palamara è la Tangentopoli dei giudici?
«A volerla tirare molto sì, perché allora tutti i politici si mettevano d'accordo per spartirsi le mazzette mentre oggi le toghe si accordano per dividersi il potere. E in entrambi i casi c'è stata una degenerazione, un tempo dei partiti, adesso della magistratura. Però è anche vero che, ora come allora, anche nelle categorie screditate ci sono molte brave persone. Lei non deve guardare all'Anm, che per quel che mi riguarda neppure dovrebbe esistere, visto che i sindacati servono per difendere i lavoratori dal potere ma i magistrati, che hanno il potere più grande, da che cosa si dovrebbero mai difendere? Deve guardare i giudici della porta accanto, quelli che frequento tutti i giorni in tribunale da avvocato, gente preparatissima e laboriosa».
E allora perché comandano le mele marce?
«Perché l'Italia è divisa da sempre in chi lo mette e chi lo prende. La scelta di accentrare i poteri della magistratura nella figura del capo e nelle super Procure inibisce molti giudici e li priva di libertà nel loro lavoro».
In magistratura c'è una dittatura dei peggiori?
«Diciamo che chi canta fuori dal coro poi ne paga le conseguenze. Io ero un cane sciolto, quando fui attaccato processualmente, nessun collega mi difese. E lo stesso capitò, più o meno negli stessi anni, a Falcone. Guardi, un magistrato può essere fermato solo facendolo saltare in aria, come capitò a Giovanni, o da un altro magistrato, come capitò a me».
Anche Palamara è stato fermato da altri magistrati: regolamento di conti?
«E qui torniamo al discorso dei magistrati non intercettati. Se Palamara oggi ha perso, significa che qualcun altro ha vinto. La storia d'Italia è dominata dall'invidia e dall'accidia».
Palamara si difende dicendo che così fan tutti «Come disse Craxi in Parlamento, un discorso di alta responsabilità, ma che di fatto era una confessione». Come se ne viene fuori?
«Il Csm ha creato il cancro che lo sta uccidendo, scegliendo il sistema elettivo e aprendo delle vere e proprie campagne elettorali, dove ciascun aspirante a posizioni di vertice ha i suoi sponsor, le sue promesse, i suoi debiti da onorare. Le nomine dei capi della magistratura non devono essere fatte dalle correnti ma dal presidente della Repubblica, dalla Corte Costituzionale e, per la restante parte, tirate a sorte».
Perché lei fu fermato?
«Perché stavo indagando sui collegamenti tra la mafia e l'imprenditoria del Nord; e questo dava fastidio a molti».
Cosa pensa dell'audio del magistrato che condannò Berlusconi e poi andò da lui per scusarsi?
«Berlusconi da sempre fa la vittima e gioca sugli attacchi alla propria persona. È un gioco che non mi piace. Ma se chiudo gli occhi, la cosa che mi fa più male è il magistrato che rinnega se stesso: una sentenza o non la firmi o, se la sottoscrivi, poi te ne assumi le responsabilità».
I magistrati non parlano un po' troppo?
«Si è diffusa la dipietrite».
Me la spieghi meglio.
«Tutti vogliono diventare delle star, avere i loro cinque minuti di gloria, come me ai tempi di Mani Pulite, solo che io non me la sono cercata».
Però l'ha cavalcata bene.
«Ho fatto tutte le parti in commedia del processo penale, compreso quella dell'imputato. E le garantisco che non mi sono divertito. Oggi sto bene nei panni dell'avvocato».
Avvocato, perché la giustizia non funziona se la maggior parte dei giudici è così brava?
«Per carenza di strutture e di personale».
Faccio appello: quando le cose non funzionano il difetto va cercato nel manico.
«Allora le dico che non mi piace come si fanno le inchieste oggi: si procede per associazione a delinquere per poter fare intercettazioni a strascico alla ricerca del reato. Io ho fatto tutta Tangentopoli senza mai ricorrere a certi mezzucci».
Md contro Ferri e Palamara: “Ci delegittimano per salvarsi”. Paolo Comi su Il Riformista il 5 Luglio 2020. È un’offensiva a tutto campo quella lanciata ieri dalle toghe di sinistra di Magistratura democratica. Diversi gli obiettivi: Amedeo Franco, il giudice “reo” di aver detto in un colloquio che il processo sui diritti televisivi fu “un plotone d’esecuzione” e che la sentenza era “schifosa”; Cosimo Ferri, il leader di Magistratura indipendente, la corrente di destra da sempre invisa a Md; Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm che con le sue chat ha svelato il sistema delle nomine, a cui partecipavano tutte le correnti della magistratura (anche Md), al Csm. Una vicenda dai «profili torbidi ed inquietanti», esordisce il comunicato delle toghe di sinistra diffuso ieri pomeriggio. «La registrazione, della quale è ignoto il contesto e non è stata appurata la genuinità e l’integralità, viene divulgata a molti anni di distanza, dopo la morte del giudice Franco, in un contesto che appare favorevole ad accreditare qualsiasi ignominia per screditare e delegittimare i magistrati e la giurisdizione». «Questo clima è oggettivamente determinato dalla vicenda Ferri/Palamara, disvelata a maggio dello scorso anno, e dalle successive propagazioni delle chat telefoniche di uno dei due protagonisti, effettuata in modo strumentale da una parte della stampa compiacente (verosimilmente i giornali che stanno pubblicando le chat di Palamara, ndr) con i due protagonisti principali della vicenda”. «C’è chi in questo momento per salvare se stesso è disposto a far pagare un prezzo altissimo alla magistratura e al Paese: la posta in gioco non è una tardiva, quanto improbabile dimostrazione di un complotto ordito dalla magistratura ai danni di Berlusconi; non è l’impossibile occultamento delle responsabilità dei protagonisti dello scandalo di maggio 2019, né l’obliterazione delle oggettive responsabilità delle correnti e delle persone coinvolte che non vogliono abbandonare certe pratiche di potere e clientelari. La posta in gioco è l’autonomia e l’indipendenza della magistratura». Un classico. Ma non solo: «La posta in gioco è anche la credibilità e l’onore del corpo sano della magistratura, che è fatto della stragrande maggioranza dei magistrati, che rifiutano e hanno sempre rifiutato logiche e pratiche clientelari e che sono i primi danneggiati da esse e da coloro che le hanno messe in atto». «È necessario in questo momento che le responsabilità specifiche per i fatti emersi vengano affermate con ponderazione, rigore e fermezza e che, nel contempo venga difesa gelosamente la credibilità della magistratura e della giurisdizione che è rimasta estranea a tali deviazioni e che deve poter proseguire a svolgere le proprie funzioni in un contesto di serenità e fiducia», concludono le toghe di sinistra. Parole durissime che arrivano alla vigilia del disciplinare nei confronti di Ferri e Palamara, il cui inizio è fissato per il 21 luglio. Immediata la replica dei difensori di Palamara gli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti, e il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi: «In uno Stato di diritto si chiede al giudice di “accertare” e non “affermare” le responsabilità solo ipotizzate a carico degli incolpati. Il processo è sede di giudizio, non fabbrica di colpevoli, stupisce che dei magistrati lo dimentichino».
Dal “Corriere della Sera” l'11 luglio 2020. fine della «carriera» sindacale in seno all' Associazione nazionale magistrati per Cosimo Ferri, toga scesa in politica, attualmente deputato nelle file renziane di Italia viva e per cinque anni sottosegretario alla Giustizia. Ex leader di Magistratura Indipendente, Ferri aveva saputo portare la corrente più a destra delle toghe all' apice dei consensi raccogliendo molti voti nel segno del ritorno alle rivendicazioni più corporative. La Giunta del parlamentino delle toghe, riunita nella sede romana di Piazza Cavour, con mascherine e diretta streaming, ha deciso di accogliere le dimissioni che Ferri aveva presentato alla precedente convocazione e ha così evitato sanzioni pesanti, come quelle dell' espulsione inflitta a Luca Palamara. Con l' accoglimento delle dimissioni (solo quattro i voti contrari) l' Anm ha dichiarato «il non luogo a provvedere» per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio che pendeva sul capo di Ferri e lo spettro della radiazione, che era il pericolo maggiore.
Luca Palamara, Renato Farina: può chiudere una stagione di oscuri traffici giudiziari. Se non gli tappano la bocca. Renato Farina su Libero Quotidiano il 12 luglio 2020. E se Luca Palamara fosse, omicidi e Andreotti a parte, il Tommaso Buscetta dei tempi nuovi? Somiglianza paradossale, certo. E però siamo davanti a due pentiti di grosso calibro che, dopo aver subito torti inescusabili, hanno girato il cannone contro le rispettive famiglie dove facevano il bello e il cattivo tempo, e dalle quali sono stati rinnegati e puniti per essersi messi di traverso ai nuovi equilibri di potere. Ci sono due differenze. 1- La magistratura non è la mafia, non ci permetteremmo. Migliaia di oneste toghe dedicano la vita alla giustizia e qualche volta la rischiano e per la buona causa l'hanno perduta. Resta il fatto che il Trojan infilato nel cellulare dell'ex presidente dell'Anm, nonché ex capo corrente ed ex membro del Csm, e presto ex pm tout-court, ha rivelato un intrico di relazioni tra procuratori e giudici, inciuci con giornalisti a scopo promozionale per entrambi, pressioni per far condannare politici poco amici delle procure, eccetera, dove la preoccupazione degli eminenti capo bastone è quanto di più lontano dall'equità e dall'imparzialità si possa immaginare. 2- Buscetta ha finito il suo lavoro e ha sistemato per le feste i suoi nemici d'alto rango criminale. Palamara non ha ancora cominciato. Vedremo se glielo lasceranno fare. Il 20 giugno era stato espulso dall'Anm, dopo che gli era stato vietato sulla base di un codicillo moscovita di difendersi. È allora che ha annunciato un'operazione verità, che somiglia alquanto ad un'auto-bomba con lui al volante diretta nelle sacre aule dei Tribunali, e soprattutto nei retrostanti corridoi e camere di scarso consiglio. Un repulisti che di sicuro coinvolgerà anche lui, ma sarà l'occasione di un lavacro di categoria mai visto. Toghe ed ermellini finiranno chi in tintoria chi in pellicceria. La decisione è di vuotare il sacco: non con un chiacchiericcio di corridoio o tra le urla di un talk-show ma davanti a un'Alta Corte. In questo caso non come testimone in una commissione parlamentare d'inchiesta che serve di solito a colorare ideologicamente la realtà, ma in un vero e proprio processo, sia pure disciplinare, davanti al Consiglio superiore della magistratura, dove comparirà il 31 luglio per la prima udienza. È convocato a Palazzo dei Marescialli nelle vesti di incolpato. Ha pronta una lista di circa cento testimoni delle proprie e altrui malefatte. Glielo lasceranno fare? Sergio Mattarella per l'occasione, come fece Francesco Cossiga in casi drammatici, non dovrà perdere l'occasione per esercitare di presenza il suo ruolo costituzionale di presidente, per garantire trasparenza ed equità. Lui ha autorità e autorevolezza perché la più grave crisi istituzionale che sta travolgendo il terzo potere della Repubblica, il più delicato, non si risolva nel rito ipocrita del capro espiatorio ma neppure nell'altrettanto furbesco tutti colpevoli -nessun colpevole. Cosa nostra fece di tutto per tappare la bocca a Tommasino, detto Il "boss dei due mondi": gli ammazzò figli e parenti. Tenne duro. Finché ebbe Giovanni Falcone al fianco non inciampò in contraddizioni e fu determinante nel maxi-processo dove disegnò l'architettura della Cupola, sbugiardò in confronti leggendari i mamma santissima che pensavano di intimidirlo e ne fece condannare a centinaia. Don Masino, così era chiamato, pur essendo un conclamato assassino si meritò un trattamento coi fiocchi da Enzo Biagi che scrisse un libro con lui trattandolo da eroe, e da Marco Bellocchio che gli dedicò un film mitologico. Con Palamara l'apparato opaco della sua casta punta a renderlo inoffensivo. Escludiamo - e ci mancherebbe - metodi da lupara, non siamo a Gomorra, ma conoscendo i metodi degli alti pennacchi scommettiamo sulla volontà di radiarli in fretta e senza cerimonie. Una mela marcia da buttar fuori in fretta dal cesto. Tre o quattro testimoni e chiusa lì. Non provateci. Palamara, alias don Luca Buscetta, riconosce di essere stato ingranaggio importante di un sistema che si reggeva su regole pessime ma condivise, e praticate da magistrati di ogni fazione della consorteria togata. L'omertà non è ammessa.
Magistratopoli, rischio processo farsa per Palamara: verrà radiato rapidamente o verranno ascoltati i 100 testimoni? Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Luglio 2020. Il 21 luglio Luca Palamara dovrà comparire davanti alla commissione disciplinare del Csm per essere giudicato. È stato il Procuratore generale della Cassazione a chiederlo. Sarà un processo in piena regola. Probabilmente molto diverso da tanti altri processi tenuti in questa sede. La sezione disciplinare del Csm, tra tutti i possibili tribunali, è certamente il più generoso. Gli imputati sono solo magistrati, la pubblica accusa è sostenuta da magistrati e la difesa, di solito, da ex magistrati, i giudici sono magistrati, la sentenza, salvo ragioni speciali, è l’assoluzione o il perdono. I casi più famosi di assoluzione dei quali si è parlato recentemente sono quelli del Pm John Woodcock, che era accusato di avere interrogato un testimone, che in realtà stava per diventare imputato, senza l’avvocato e di avergli fatto capire che se non parlava finiva a Poggioreale, e poi di avere rilasciato un’intervista a Repubblica, violando dei segreti; assolto due volte. Poi c’è il caso del quale parliamo anche oggi, del giudice Esposito che anticipò in una intervista le motivazioni di una sentenza (guarda caso quella contro Berlusconi) ma anche lui, dopo molti rinvii (credo sette) e un ragionevole cambiamento dei membri della corte che avrebbe dovuto giudicarlo, fu assolto nonostante l’evidenza indiscutibile della scorrettezza. Stavolta però, con Palamara, il clima è cambiato. la Procura generale della Cassazione vuole la condanna e la condanna vogliono quasi tutti i suoi colleghi. A patto che sia una condanna rapida, senza fronzoli, senza addentellati, e che sia la condanna alla radiazione della magistratura, alla sepoltura di Palamara: deve scomparire. Perché deve scomparire? E allora ripartiamo dal 21 luglio. Si sa che Palamara, per difendersi, chiamerà al banco circa 100 testimoni. Cioè, Palamara vorrebbe, prima di essere condannato, poter raccontare a tutti come funzionava la magistratura che lui ha conosciuto e che ha contribuito a dirigere, come si facevano le nomine, come si scambiavano i piaceri ( e i poteri), quali fossero i rapporti di sudditanza tra Pm e alcuni giudici, come le correnti avessero in mano il bandolo di tutte le matasse, come molte sentenze e molte inchieste avessero origini non giudiziarie, quali e quanto grandi nomi della magistratura fossero coinvolti in questo gioco, come la stessa Anm fosse non un limpido luogo di trasparenza e di lotta etica ma un punto di incontro dei poteri interni alla magistratura e della loro compravendita e suddivisione, e infine, e anche per riassumere, come funzionasse l’unica Casta (vera casta, fondata sulla cooptazione e sull’autogoverno, e sull’impermeabilità a influenze esterne) che domina il potere, anche il potere politico, in Italia. Mi rendo conto di avere scritto una frase lunghissima, molto più lunga di quello che è permesso dai normali canoni giornalistici. Ma qui, in questa storia un po’ infame, di normale non c’è quasi nulla, e la lunghezza dei difetti della magistratura italiana è senza precedenti. Il Csm accetterà i cento testimoni di Palamara o procederà, come ha fatto l’Anm, a un processo sommario? Senza garanzie, senza riscontri, senza nessun anelito né ricerca della verità? Vedete, la materia della quale si dovrà parlare è sconfinata. È un pezzo piuttosto grande della storia pubblica e privata di questo paese. Si tratta di capire se il sistema giustizia, negli ultimi trent’anni (ma forse molti di più) è stato solo sfregiato da alcuni episodi di malcostume e di degenerazione, comunque ad altissimo livello, o se invece è stato un sistema interamente marcio e lontano da ogni criterio di giustizia. Ed è molto importante scoprirlo, perché non solo dobbiamo dire a migliaia di imputati se i loro processi sono stati giusti o se erano condizionati e teleguidati, ma dobbiamo decidere in che modo recidere il cancro e ricostruire una magistratura credibile, non più casta, non più autoreferenziale, non più tesa a considerare l’indipendenza non un dovere ma un privilegio di discrezionalità e una garanzia di potere assoluto. Capite quanto è grande la partita? Qui si ricostruisce la struttura della democrazia italiana oppure la si distrugge. La sentenza pilotata contro Silvio Berlusconi del 2013, che sicuramente ha deviato il corso della politica italiana e ha cambiato la natura della destra politica, spingendola su posizioni estremiste e xenofobe, è una piccolissima parte del problema. È una parte molto vistosa, perché riguarda uno dei quattro o cinque più importanti leader politici del dopoguerra, liquidato da una piccola cospirazione giudiziaria. Ma la questione vera è quella generale dell’imbarbarimento della giurisdizione e della sua caduta nelle mani del partito delle Procure, e in particolare di alcune Procure (e giornali annessi). Se i testimoni sono quasi cento o più di cento devono parlare tutti. Palamara deve avere la possibilità di raccontare tutto quello che sa e di indicare quelli che sanno quanto o più di lui. Se non sarà così sarà la fine di ogni credibilità della magistratura italiana. Se lo spettacolo che darà il Csm – come ha fatto l’Anm – sarà quello di un tribunale fascista o sovietico, con la sentenza scritta e la fretta di concludere e di nascondere la verità vera, nessuno più, nessuno mai potrà più, neppure per scherzo, dire di avere fiducia nella magistratura. Se il Csm non accoglierà tutti i testimoni di Palamara – anche a costo di far durare un anno questo processo, e di svolgerlo in modo trasparente e pubblico – toccherà alla politica intervenire. In modo secco, drastico: non solo con una commissione di inchiesta ma con una riforma che tolga alla magistratura quella indipendenza che ha usato solo per coltivare i suoi privilegi e il suo potere e le camarille che hanno spinto verso l’ingiustizia. Non ci sono più tempi supplementari. O la magistratura si salva accettando di farsi processare, e di essere in parte smantellata, o, insieme ai corrotti, cadranno tutti. Anche quelle migliaia di magistrati onesti che hanno milioni di pregi e un gigantesco difetto: quello di non ribellarsi.
Berlusconi, la verità sulle trame nella lista dei teste di Palamara. L'ex pm alla sbarra prepara il suo contrattacco al Csm. Un elenco di 120 colleghi che possono far luce sul caso. Luca Fazzo, Domenica 12/07/2020 su Il Giornale. Ultimi due giorni di lavoro, chiuso nello studio dei suoi avvocati, a limare, ad aggiungere, a ragionare. Ora Luca Palamara è pronto. E domani mattina depositerà al Consiglio superiore della magistratura l'atto che segna ufficialmente l'inizio dello scontro: la lista dei testimoni che il pm romano, ex leader di Unicost e ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, chiede che vengano interrogati dalla sezione disciplinare del Csm quando il 21 luglio inizierà il procedimento contro di lui, Palamara, e gli altri cinque magistrati sotto accusa. Sono i cinque ex membri del Csm che si sono dovuti dimettere l'anno scorso in seguito alla divulgazione delle prime intercettazioni sull'allegro mercato di nomine e di favori in cui le correnti dei giudici hanno trasformato il Consiglio superiore. Nel frattempo, altre ondate di intercettazioni hanno dipinto un quadro ancora più devastante. Per questo la lista dei testimoni che verranno indicati da Palamara assume una importanza cruciale. Perché sarà una lista molto lunga, si parla di centoventi nomi: tutti necessari, secondo Palamara, ad accertare fin in fondo la trasversalità del degrado all'interno del Csm, la partecipazione di tutte le correnti al sistema; e soprattutto a capire come e perché sia iniziata l'inchiesta di Perugia, chi l'abbia ispirata e governata. Se non si capisce questo, dice Palamara, è impossibile valutare correttamente l'enorme mole di intercettazioni compiute dalla Guardia di finanza. Capirne il senso. Spiegarne i buchi, le alterazioni. La mega-lista testi di Palamara mette la sezione disciplinare del Csm in una situazione apparentemente senza sbocchi. Perché se dice di no, come vorrebbe una parte del Csm, a quasi tutti i testimoni chiesti dall'incolpato, e riduce all'osso la lista, si presta all'ovvio sospetto di accontentarsi di una verità minimale, di voler insabbiare le responsabilità delle correnti che oggi chiedono la testa di Palamara dopo avere bussato per anni alla sua porta; e dà fiato alla tesi dell'ex presidente dell'Anm che ritiene - in sostanza - di pagare la sua opposizione alle manovre della sinistra sulla Procura di Roma. Se invece la sezione disciplinare accetta le richieste di Palamara, il processo che inizia il 21 rischia di trasformarsi in un processo a dieci anni di storia del Csm, in cui verrebbero a galla gli accordi sotterranei che hanno portato alla spartizione di tutti i più importanti uffici giudiziari del Paese, in combutta con le forze politiche e a volte con l'intervento diretto del Quirinale. Una catastrofe, insomma. E a rasserenare il clima a Palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio, non contribuiscono di certo le ultime uscite di Palamara, che si dice pronto a parlare anche dei processi a Silvio Berlusconi e della loro gestione. Il tema è reso bollente dalle registrazioni del giudice di Cassazione Amedeo Franco che descrive la condanna del Cavaliere per frode fiscale come un processo preconfezionato e diretto dall'alto. Ma il tema è più vasto, e riguarda direttamente anche il Csm: perché sul tavolo ci sono le promozioni a raffica disposte dal Consiglio per molte delle toghe che in questi anni hanno partecipato a vario titolo alle condanne dell'ex premier; ma anche, specularmente, il destino infausto dei pochi giudici che hanno firmato sentenze di assoluzione. A Milano, per fare un esempio, tutti i giudici che hanno prosciolto Berlusconi hanno dovuto, per un motivo o per l'altro, cambiare aria. Che davanti a questo marasma, al Csm non sappiano più che pesci pigliare lo racconta bene anche il fatto che a dieci giorni dall'udienza ancora non si sa chi saranno i componenti della sezione, cioè i «giudici» di Palamara. Il vicepresidente del Csm, David Ermini, si è già dovuto tirare fuori perché anche il suo nome compare nelle intercettazioni. Piercamillo Davigo è stato ricusato da Palamara per alcune sue dichiarazioni che suonavano, secondo il pm, come una condanna anticipata. L'altro giorno sono stati nominati alcuni membri supplenti, col rischio - denunciato dal membro laico Alessio Lanzi - che si costruisca un tribunale su misura. E insomma ancora non si capisce se tutto finirà con una formalità dall'esito scontato o se davvero il processo diventerà il processo a un sistema: come il processo Cusani fu per i partiti della Prima Repubblica.
Repubblica e il fango su Palamara, Molinari all’assalto dell’ex leader Anm. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Luglio 2020. Prosegue violentissimo “l’assalto” contro Luca Palamara e Cosimo Ferri in vista del loro processo disciplinare che inizierà il 21 luglio al Csm e che, secondo le aspettative, dovrebbe concludersi con l’espulsione dei due dalla magistratura. I primi colpi sono stati sparati venerdì scorso dai magistrati di Area, il correntone di sinistra di cui fa parte Magistratura democratica. «È necessario che le responsabilità specifiche per i fatti emersi vengano affermate con ponderazione, rigore e fermezza e che, nel contempo venga difesa gelosamente la credibilità della magistratura e della giurisdizione che è rimasta estranea a tali deviazioni e che deve poter proseguire a svolgere le proprie funzioni in un contesto di serenità e fiducia», il diktat delle toghe progressiste ai giudici della disciplinare. Domenica è stato il turno del Fatto Quotidiano con l’editoriale del direttore. «Ma che deve ancora fare Cosimo Maria Ferri per essere cacciato dalla magistratura», l’incipit del pezzo di Marco Travaglio il quale, per non farsi mancare nulla, elencava anche le vicissitudini giudiziarie dei fratelli dell’ex sottosegretario alla Giustizia. Ieri, infine, il botto con due articoli su Repubblica: “Un lido in Sardegna per Palamara ma spunta l’amico prestanome”, e “Operazione Confusione. Le manovre dell’ex pm per sfuggire ai suoi giudici”. Nel primo pezzo Palamara viene indicato come “socio occulto”, il titolare è un commercialista romano, di uno stabilimento di fronte l’isola di Tavolara. Dal maxi fascicolo di Perugia sono stati ripresi alcuni passaggi circa l’acquisto da parte dell’ex presidente dell’Anm di una quota per 23mila euro di un chiosco per la vendita di bibite e panini. Episodio senza rilievo penale, come certificato dal gip del capoluogo umbro, in quanto la legge consente ai magistrati la possibilità di acquistare quote societarie. Nulla di illecito, insomma, ma sufficiente per il titolone ad effetto di Repubblica. L’altro articolo, senza citarli espressamente, punta ai giornali, fra cui anche il Riformista, che in questi mesi hanno sollevato perplessità sul modo di conduzione delle indagini. Una strategia per allontanare il processo disciplinare. Fra i temi dibattuti, la raccolta illegittima delle intercettazioni da parte della finanza e la successiva manipolazione del contenuto. Tutto, ovviamente, falso per Repubblica. Il Riformista, invece, ha dato conto di un provvedimento del pm titolare del fascicolo, Gemma Miliani, indirizzato al comandante del Gico della guardia di finanza di spegnere il microfono ogni qualvolta nelle discussioni di Palamara fosse stato coinvolto un parlamentare. Cosa non accaduta. E poi errori di trascrizione come quello della conversazione tra Palamara e l’ex pg della Cassazione Riccardo Fuzio. «Dall’ascolto dell’audio emerge che Palamara e Fuzio discutono delle problematiche insorte a seguito della presentazione dell’esposto presentato al Csm da parte di Stefano Fava (già pm a Roma) nei confronti di Pignatone», puntualizza la difesa di Palamara, sottolineando come «i comunicati di gruppi associativi o gli articoli di giornali» abbiano il «chiaro intento di cercare di influenzare e di anticipare il giudizio della sezione disciplinare». Leggendo il fascicolo di Perugia, si scopre infatti che i rapporti fra Pignatone e Fava non fossero idilliaci. L’elemento scatenante è una richiesta di intercettazioni da parte di Fava, nell’ambito di una indagine per corruzione in atti giudiziari, a carico di avvocati e magistrati, fra cui Francesco Caringella, giudice del consiglio di Stato. Siamo nell’estate del 2016. Pignatone scrive una piccata nota a Fava, per conoscenza all’aggiunto Paolo Ielo. «Rileva che permangono violazione dei criteri organizzativi dell’ufficio che prevedono il visto dell’aggiunto per le nuove intercettazioni». E poi: «Rimangono senza esito le mie richieste, formali ed informali, di essere informato degli sviluppi delle indagini più importanti». Il procedimento è ritenuto da Pignatone di “particolare delicatezza”. L’ex procuratore di Roma ordina allora di «non dare corso alla richiesta e ad attenersi alle regole dell’ufficio». Ielo è d’accordo con il procuratore e stronca l’annotazione della guardia di finanza «piena di affermazioni apodittiche e gronda di condizionali e giudizi probabilistici, assolutamente inidonei a radicare un giudizio di sussistenza di indizi». «Si è in presenza di illazioni e nulla di più», scrive Ielo. «Occorre non solo un controllo critico più intenso delle affermazioni della pg ma a mio giudizio anche una più pregnante direzione della sua attività secondo le prerogative proprie del pm», l’affondo nei confronti di Fava.
Palamara e il lido "occulto" in Sardegna. “Io, prestanome del Pm”: favori e incarichi. Niccolò Magnani su Il Sussidiario il 7.07.2020. Luca Palamara, spunta nuovo “filone” su gestione da proprietario “occulto” di un lido in Sardegna: “sì, sono un prestanome del pm”. Incarichi e presunti favori. Il caso Palamara non riguarda più “solo” presunte corruzioni e nomine pilotate di Procure quando il magistrato ora espulso dall’Anm era consigliere del Csm: secondo due scoop di Repubblica e Corriere della Sera emergono nuove intercettazioni in cui Palamara risulterebbe, in attesa di verifiche in sede di indagine, proprietario “occulto” di un lido in Sardegna tramite un suo fidato “prestanome”. Il possibile nuovo filone del “sistema Palamara” sbarca in una spiaggia vicino ad Olbia, nel lido “Kando Istana Beach” dove pare avesse più di un interesse nella gestione. «Non ha la titolarità di nessun lido in Sardegna, essendosi più modestamente limitato ad acquistare nell’interesse dei figli una piccola quota, per un valore di 23 mila euro, di un chiosco adibito alla vendita di panini, gelati e bibite senza alcuna velleità imprenditoriale e per chi conosce la Sardegna a distanza di circa un’ora di auto da Porto Cervo», hanno spiegato gli avvocati di Palamara al CorSera dopo le intercettazioni emerse su Repubblica il giorno prima. Eppure la storia parte ancora una volta da lontano, dal 2016 quando l’amministratore unico del lido – il commercialista Andrea De Giorgio – diventa effettivo e per “conto” di Palamara. Lo avrebbe ammesso lo stesso De Giorgio alle domande degli inquirenti: «sì, è vero, sono un prestanome di Palamara».
LE NUOVE INTERCETTAZIONI CONTRO PALAMARA. Nel mare magnum delle intercettazioni sullo smartphone del pm romano si sarebbero visti tutti gli scambi per le decisioni da prendere sulla spiaggia sarda: «La somma di denaro necessaria per acquisire la quota, 23mila euro, era stata anticipata per conto del magistrato dal suo amico De Giorgio, come prestanome, al quale Palamara ha restituito nel corso del tempo l’importo di 14mila euro», spiegano le carte della Procura di Perugia riportate dal Corriere della Sera. I dubbi degli inquirenti si fissano sul fatto che non l’intera cifra è stata restituita da Palamara e, parallelamente, vi sarebbero stati diverse “intercessioni” fatte dal magistrato ex Anm presso amici giudici e procuratori: «Il commercialista aveva ricevuto incarichi dai tribunali e dalla procura di Roma […]. In un’occasione ha ringraziato l’amico magistrato per un incarico ricevuto da un altro sostituto procuratore», si legge ancora negli atti allegati all’inchiesta. Gli scambi sui messaggi tra i due sono tutti riferiti a come rendere al meglio quella spiaggia financo ai temi più gestionali e personali («Non è dignitoso avere una spiaggia così. Ti assicuro che la spiaggia libera è dieci volte più ordinata. Trova tu un rimedio perché così è inaccettabile»).
I SOCI DI PALAMARA. Secondo il Corriere della Sera, dalle carte emerge anche un secondo “socio” di Palamara per il Kando Istana Beach, di nome Federico Aureli: in prima battuta, l’uomo interrogato avrebbe prima negato la compartecipazione di Palamara salvo poi riferire «Io penso che le quote sono state formalmente acquistate da Andrea De Giorgio, ritengo però che l’interessamento alla società fosse di Palamara Luca. Nel senso che ritengo che De Giorgio figurasse al posto di Palamara. Fermo restando che gli aspetti contabili venivano gestiti da me insieme a De Giorgio. Penso che le quote, quindi la proprietà del chiosco interessasse a Luca Palamara ma in ogni caso io ho gestito gli aspetti formali e commerciali con Andrea De Giorgio». Anche in questa occasione vi sarebbero state delle informazioni rivelate da Palamara circa vicende giudiziarie della famiglia dell’imprenditore De Giorgio, «[…] mia moglie è stata denunciata dalla controparte ed è iniziato a suo carico un procedimento penale. Il processo è in corso. Sapevo che il pm conosce Luca Palamara», spiega De Giorgio ai pm di Perugia durante l’interrogatorio redatto con ampi stralci dal CorSera. Gli affari sul «Kando Istana Beach» non fanno parte per il momento delle contestazioni penali a Palamara eppure, secondo il giudice di Perugia «emergono rapporti poco trasparenti o, comunque, commistioni di interessi quantomeno sintomatici di un impiego non appropriato della posizione e della qualità di magistrato».
Un lido in Sardegna per Palamara ma spunta l’amico prestanome. Giuliano Foschini il 5 luglio 2020 su La Repubblica. Il titolare della società è un commercialista romano, che secondo i magistrati ha ottenuto incarichi dai tribunali e dalla Procura di Roma. E l’ex leader Anm si interessò di un procedimento penale riguardante la moglie di un altro socio. Comincia in Sardegna, nella meravigliosa spiaggia di Porto Istana a Murta Maria - all'orizzonte si intravede l'isola di Tavolara e a 30 chilometri c'è Porto Cervo - un pezzo della storia del magistrato Luca Palamara tutta ancora da scrivere. È la storia di un chiosco su una delle spiagge più belle di Italia, il Kando Istana Beach, che - così come hanno ricostruito la Guardia di finanza e la procura di Perugia - era di proprietà di un graf...
Un lido in Sardegna per il magistrato Palamara ma spunta l’amico prestanome e segue smentita dei suoi legali. Il commercialista titolare del Kando Beach a Tavolara riceveva incarichi dalla Procura di Roma. Il titolare della società è un commercialista romano, che secondo i magistrati ha ottenuto incarichi dai tribunali e dalla Procura di Roma. E l’ex leader Anm si interessò di un procedimento penale riguardante la moglie di un altro socio. Comincia in Sardegna, nella meravigliosa spiaggia di Porto Istana a Murta Maria – all’orizzonte si intravede l’isola di Tavolara e a 30 chilometri c’è Porto Cervo – un pezzo della storia del magistrato Luca Palamara tutta ancora da scrivere. È la storia di un chiosco su una delle spiagge più belle di Italia, il Kando Istana Beach, che – così come hanno ricostruito la Guardia di finanza e la procura di Perugia – era di proprietà. Il caso Palamara non si sgonfia, ma anzi si arricchisce sempre più di nuovi particolari. Come quello che riporta Repubblica, relativo ad un lido di una spiaggia in Sardegna, tra Tavolara e Porto Cervo, di cui sarebbe proprietario proprio Luca Palamara, l’ex boss di Unicost a processo a Perugia per corruzione, dirigeva attraverso un prestanome, che avrebbe anche ricevuto incarichi presso i tribunali e la Procura di Roma. L’amico di Palamara Andrea de Giorgio, a verbale, stretto dalle domande della Finanza ha dovuto ammettere «Sì, è vero, sono un prestanome di Palamara». Analizzando i messaggi del pm romano i finanzieri si sono imbattuti in questo commercialista che, nell’interrogatorio, lo stesso Palamara ha definito essere «un vero amico». Si conoscono dai tempi della scuola e contavano uno sull’altro, anche nelle situazioni più delicate. «Dalle indagini» si legge negli atti depositati all’inchiesta di Perugia. «è emerso che Palamara sia socio occulto della Kando Beach srl. La somma di denaro necessaria per acquisire la quota, 23mila euro, era stata anticipata per conto del magistrato dal suo amico De Giorgio, come prestanome, al quale Palamara ha restituito nel corso del tempo l’importo di 14mila euro». Il capitale per rilevare il ramo d’azienda lo versa De Giorgio per conto di Palamara e, secondo il suo racconto, solo in parte gli viene restituito. Anche perché Palamara aveva sempre un pensiero per gli amici. «Il commercialista – si legge ancora negli atti allegati all’inchiesta – aveva ricevuto incarichi dai tribunali e dalla procura di Roma». E Palamara sapeva. «In un’occasione ha ringraziato l’amico magistrato per un incarico ricevuto da un altro sostituto procuratore ». Fonte: Repubblica- Affari
Comunicato smentita legali di Luca Palamara. “Non si farà intimorire da comunicati di gruppi associativi o da articoli con funzione anticipatoria di giudizio”. “In data 6 odierna sul quotidiano la Repubblica venivano pubblicati due articoli, il primo dal titolo “Un lido in Sardegna per Palamara ma spunta l’amico prestanome” il secondo dal titolo “Operazione confusione. Le manovre dell’ex pm per sfuggire ai suoi giudici” a firma rispettivamente di Giuliano Foschini e Carlo Bonini. Quanto al primo articolo dal titolo “Un lido in Sardegna per Palamara ma spunta l’amico prestanome” l’articolo nel riportare stralci del provvedimento del GIP del Tribunale di Perugia, ha riferito notizie non vere riguardanti il dott. Palamara e comunque ha omesso di riferire circostanze assolutamente rilevanti per la reale ricostruzione dei fatti in violazione del corretto dovere di informazione da parte del giornalista. Infatti sono destituiti di ogni fondamento i seguenti passaggi del citato brano giornalistico:
“E’ la storia di un chiosco…di proprietà di un gruppo di amici…tra cui Luca Palamara che si è schermato con un prestanome…Andrea De Giorgio che a verbale stretto dalle domande della Guardia di Finanza ha dovuto ammettere “si è vero sono un prestanome di Palamara.…“. A parte l’accostamento suggestivo per adombrare chissà quali malefatte compiute dal dott. Palamara, il giornalista ha tuttavia omesso di riportare nell’articolo le seguenti circostanze assolutamente decisive per la reale ricostruzione degli accadimenti e precisamente che:
a) il dott. Palamara non ha la titolarità di nessun lido in Sardegna come enfaticamente afferma il titolo dell’articolo, essendosi più modestamente limitato ad acquistare nell’interesse dei figli una piccola quota, per un valore di € 23.000, di un chiosco adibito alla vendita di panini, gelati e bibite senza alcuna velleità imprenditoriale e per chi conosce la Sardegna a distanza di circa un’ora di auto da Porto Cervo;
b) si tratta di fatti e vicende ampiamente approfonditi nel corso delle indagini preliminari all’esito delle quali come emerge dal capo di imputazione formulato nell’avviso 415 bis c.p.p. non è stato ravvisato alcun profilo di rilevanza penale da parte dell’autorità giudiziaria nei confronti del dott. Palamara;
c) la legge consente ai magistrati la possibilità di acquistare quote societarie (quello che normalmente avviene nella vita quotidiana quando ad esempio anche i magistrati acquistano azioni di società quotate in borsa, spesso addirittura per importi superiori a quello in questione);
d) in questo caso l’acquisto della quota societaria è avvenuto mediante intestazione formale ed in via fiduciaria al dott. De Giorgio in virtù di un familiare rapporto di amicizia intrattenuto sin dalla nascita con lo stesso;
e) il dott. De Giorgio è stato nominato consulente tecnico non su indicazione del dott. Palamara ma in via del tutto autonoma e per le sue riconosciute capacità professionali da parte dei magistrati titolari dei rispettivi procedimenti in osservanza delle norme sul conferimento degli incarichi professionali;
f) il Presidente della Corte d’appello di Roma con una nota del 5 luglio del 2019 ha escluso qualsiasi interessamento del dott. Palamara su procedimenti giudiziari in corso;
g) il dott.Palamara è stato sempre estraneo alle vicende relative alla moglie dell’Aureli imputata nell’ambito di un procedimento penale avente ad oggetto la mancata esecuzione di un provvedimento del giudice civile come facilmente si può evincere dagli atti depositati dalla Procura di Perugia. Quanto al secondo articolo dal titolo “Operazione confusione. Le manovre dell’ex pm per sfuggire ai suoi giudici” lo stesso ha riferito notizie non vere riguardanti il dott. Palamara. Infatti sono destituiti di ogni fondamento i seguenti passaggi del citato brano giornalistico:
“E’ un interesse, quello di Palamara…. “a sottrarsi dal processo”. La difesa del dott. Palamara in vista delle citate udienze del 16 e del 21 luglio p.v. agisce nella assoluta certezza di poter dimostrare nelle sedi processuali istituzionalmente preposte ad accertare il reale accadimento dei fatti la correttezza personale e professionale del dott. Palamara, senza farsi intimorire allo scopo da comunicati di gruppi associativi o addirittura da articoli di giornali evidentemente mossi dall’intento di interferire e di svolgere una funzione anticipatoria del relativo giudizio. Anzi sin da ora possiamo dire che sarà molto agevole dimostrare l’assoluta inesistenza di qualsiasi adesione ad associazioni massoniche e segrete da parte del dott. Palamara, affermazioni in relazione alle quali riserviamo le più incisive azioni a tutela del nostro assistito;
Per rovesciare i due tavoli quello penale e disciplinare è necessario per Palamara accreditare due circostanze. False entrambe. La prima: che la Guardia di Finanza abbia raccolto illegittimamente le intercettazioni…… La seconda: che la stessa Guardia di Finanza abbia manipolato il contenuto……” In palese violazione del dovere di verità, nell’articolo in questione il giornalista ha omesso di riportare circostanze assolutamente decisive per ricostruire il reale accadimento dei fatti atteso che dagli atti dello stesso procedimento di Perugia emerge che:
a) vi è un provvedimento del 10 maggio del 2019 con il quale il Pubblico Ministero impartisce al colonnello Mastrodomenico del GICO della GDF di spegnere il microfono ogni qualvolta nelle discussioni del dott. Palamara fosse stato coinvolto un parlamentare. Disposizione questa disattesa sul presupposto che gli ascolti avvenivano nelle giornate successive in violazione di quanto stabilito dall’art.68 della Costituzione;
b) nella trascrizione della conversazione tra il dott. Palamara ed il dott. Fuzio in data 21 maggio 2019, il GICO della GDF trascriveva “carabinieroni” anzichè “Pignatone”. Dall’ascolto dell’audio in realtà emerge che il dott.Palamara ed il dott. Fuzio discutono delle problematiche insorte a seguito della presentazione dell’esposto presentato al CSM da parte del dott. Fava nei confronti del dott. Pignatone, relativamente ai motivi che avevano indotto quest’ultimo a richiedere di astenersi per gli incarichi conferiti da un imputato di un procedimento al di lui fratello Roberto Pignatone;
c) nella giornata del 9 maggio del 2019 le registrazioni delle conversazioni si interrompevano alle ore 16.02 dopo che nel corso di una conversazione il dott. Palamara riferiva al suo interlocutore che la sera stessa sarebbe stato a cena con il dott. Pignatone.” E’ quanto dichiarato dai legali di Luca Palamara.
Giacomo Amadori per ''La Verità'' il 7 luglio 2020. La Repubblica l'anno scorso aprì le danze del caso Palamara con un articolo intitolato «Corruzione al Csm». Lo scoop anticipava un'ipotesi investigativa relativa al pagamento di mazzette in cambio di nomine, congettura che nel procedimento penale in corso a Perugia si è dimostrata priva di fondamento. Eppure quella discesa in campo, ispirata da suggeritori ben informati sulle indagini in corso, contribuì a far saltare la nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma, considerato candidato in controtendenza rispetto all'ex procuratore Giuseppe Pignatone. Raggiunto l'obiettivo, il sommergibile di Repubblica si è inabissato ed è rimasto sott' acqua per circa un anno, nonostante ad aprile siano state depositate dai pm di Perugia 49.000 pagine di chat ben più succulente dei brandelli di informative, a volte solo orecchiate, pubblicate con ardore e sprezzo delle querele un anno fa. Ma in vista dell'udienza stralcio riguardante Luca Palamara del prossimo 16 luglio in cui si dovrà decidere quali intercettazioni salvare e quali distruggere e dell'udienza del 21 luglio davanti alla sezione disciplinare del Csm per Palamara e altri sei incolpati, il sottomarino ha ritirato fuori il periscopio e sparato un paio di missili a salve. Dopo mesi di quasi totale assenza il quotidiano ha spedito un cronista su una spiaggia sarda per indagare su un chiosco di cui Palamara ha acquistato una quota attraverso il commercialista Andrea De Giorgio, il quale avrebbe ricevuto incarichi sospetti da parte del tribunale di Roma. Questo servizio, che non ci sembra in grado di far tremare il modo della magistratura, ha permesso ai cronisti di ribadire quella che ci sembra la loro principale preoccupazione: che l'inchiesta di Perugia e le intercettazioni captate dal Gico non hanno ombre né buchi. Di fronte a ciò gli avvocati di Palamara, Roberto Rampioni, Mariano e Benedetto Buratti, hanno inviato alle agenzie un comunicato così intitolato: «Falsa la notizia del lido in proprietà. Palamara non si farà intimorire da pressioni volte a cercare di manipolare l'esito del giudizio disciplinare del 21 luglio». A proposito del chiosco i legali hanno scritto che «Palamara non ha la titolarità di nessun lido in Sardegna come enfaticamente afferma il titolo dell'articolo, essendosi più modestamente limitato ad acquistare nell'interesse dei figli (all'epoca minorenni, ndr) una piccola quota, per un valore di 23.000, di un chiosco adibito alla vendita di panini, gelati e bibite». Hanno, inoltre, precisato che dai pm perugini «non è stato ravvisato alcun profilo di rilevanza penale» sulla questione, che «la legge consente ai magistrati la possibilità di acquistare quote societarie» e che il commercialista a cui «in via fiduciaria» è stata intestata la partecipazione è un amico d'infanzia. Quanto agli incarichi i difensori hanno puntualizzato che «il dottor De Giorgio è stato nominato consulente tecnico non su indicazione del dottor Palamara», ma di altri magistrati. Quindi hanno citato una nota del presidente della Corte d'appello di Roma di un anno fa che escludeva «qualsiasi interessamento del dottor Palamara su procedimenti giudiziari in corso». Di fronte al risveglio di Repubblica gli avvocati di Palamara, in vista delle udienze del 16 e del 21 luglio, hanno voluto far presente che il loro assistito intende difendersi «senza farsi intimorire da comunicati di gruppi associativi (le toghe progressiste di Area, ndr) o da articoli di giornali» che, a loro dire, hanno «il chiaro intento di cercare di influenzare e di anticipare il giudizio della sezione disciplinare». Sull'ulteriore allusione a una presunta appartenenza di Palamara ad associazioni massoniche i legali giudicano «agevole» dimostrare «l'assoluta inesistenza di qualsiasi adesione» a logge segrete da parte del loro assistito e annunciano querele. Infine, sul tema degli svarioni investigativi, i difensori hanno fatto presente come sia stata «disattesa» la disposizione della pm Gemma Miliani di spegnere il microfono ogni qualvolta nelle conversazioni di Palamara fosse stato coinvolto un parlamentare. Riguardo alla presunta infallibilità del trojan gli avvocati hanno ricordato che «in data 21 maggio 2019, il Gico trascriveva "carabinieroni" anziché "Pignatone"» e hanno rammentato come «nella giornata del 9 maggio del 2019 le registrazioni delle conversazioni si interrompevano alle ore 16.02 dopo che il dottor Palamara riferiva al suo interlocutore che la sera stessa sarebbe stato a cena con il dottor Pignatone». Prima o poi qualcuno dovrà giustificare l'interruzione di quel servizio di captazione.
Palamaragate fa emergere una magistratura avvelenata da tensioni, spartizioni, ambizioni e litigi. Alberto Cisterna su Il Riformista il 28 Giugno 2020. Come si potrebbe chiamare un luogo con meno di 10.000 abitanti? Un paese o giù di lì. I magistrati italiani in servizio sono circa 9.000. Non molti in una nazione con un tasso di litigiosità tra i più alti in Europa e che patisce la presenza di gravi fenomeni criminali, spesso organizzati in mafie e consorterie di vario genere. Ma le toghe sono comunque abbastanza per dar vita a ben quattro (forse cinque) sigle associative che hanno una loro vivace proiezione in seno all’Associazione nazionale magistrati e al Csm. Gruppi che periodicamente, anzi con una certa frequenza – tra elezioni ai Consigli giudiziari, al Csm, alle Giunte distrettuali dell’Anm e al parlamentino associativo che recentemente ha defenestrato il proprio ex-presidente – si danno battaglia per contarsi e per pesarsi. L’associazionismo in magistratura vanta una storia illustre e battaglie decisive per l’assetto democratico delle istituzioni. Una storia che, però, sembra giunta al proprio epilogo – non da ora – e che fatica a giustificarsi in nome di un pluralismo culturale ormai sbiadito e appannato da troppe prassi condivise. Per essere un modesto paesino di 9.000 abitanti la magistratura italiana galleggia su un tasso di conflittualità altissimo (è di poche ore or sono l’ennesimo ricorso al Tar contro una nomina controversa) e ha rivelato un malcostume purtroppo praticato in molti anfratti. Il risentimento e l’avversione che circola tra un numero non esiguo di toghe ha radici difficili da esplorare e, in qualche caso, si alimenta di palesi ingiustizie e insopportabili protervie. Purtroppo non esiste sede giudiziaria di medie e grandi dimensioni che non consumi nelle proprie mura faide associative e professionali di una certa intensità. Le chat pubblicate in queste settimane, dopo l’oblio di oltre un anno, offrono innanzitutto lo spaccato di un clima nella magistratura italiana avvelenato da tensioni, spartizioni, ambizioni spesso smisurate, da litigi e ripicche senza tregua. Più che la corsa alle poltrone, più dei magheggi tra boss delle correnti, è questo il dato che dovrebbe preoccupare l’opinione pubblica. I magistrati esercitano una funzione delicata che richiede sobrietà, serenità, pacatezza d’animo. Come nessuno si metterebbe nelle mani di un chirurgo che ha appena litigato con l’anestesista o che ha fatto a pugni con un collega, così i cittadini hanno diritto di pretendere per i propri processi una sala operatoria asettica, sanificata da ogni tossina e protesa solo all’accertamento della verità dei fatti. La stragrande maggioranza dei processi civili e penali che si celebrano non ha un rilievo mediatico, spesso non ha neppure un apprezzabile rilievo economico. Tutti questi processi hanno un solo elemento che li tiene insieme: sono importanti per chi attende una decisione, spesso a distanza di anni e spesso dopo aver sborsato molti denari per ottenerla in un’aula di giustizia. E a costoro, alla moltitudine esterrefatta dei cittadini e dei loro avvocati che occorrerebbe volgere lo sguardo in queste settimane per cercare un rimedio efficace a questo vuoto di credibilità che minaccia di ingoiare la magistratura italiana. Sia chiaro la riforma della legge elettorale del Csm o qualche pannicello caldo in tema di porte girevoli tra politica e magistratura (a proposito a oggi i magistrati fuori ruolo per incarichi politici sono 4, un paio di stanze del già piccolo villaggio) nel giro di un decennio potrebbe anche dare qualche risultato e potrebbe contenere il peso delle correnti nell’autogoverno della magistratura. Ma non sembra questa la necessità più impellente. Né lo è il progetto di attuare furiose epurazioni che pagherebbero il prezzo di una certa dose di ipocrisia visto che tutti sapevano e che le toghe, a spanne, si possono distinguere solo tra chi partecipava al mercato e chi ne restava lontano disprezzandone le regole. Anzi, a ben guardare, v’è il rischio che azioni punitive pulviscolari lascino al riparo da sanzioni qualcuna delle toghe altolocate che sono coinvolte nell’affaire Palamara e i cui nomi hanno pur occupato le pagine dei giornali in queste settimane tra esilaranti attese in piazza con tanto di scorta e improbabili segnalazioni amicali di candidati ritenuti ipermeritevoli. Se dovesse davvero arrivare una purga ad ampio compasso si spera almeno che inizi dalle teste coronate, come in ogni rivoluzione che si rispetti. In verità il primo obiettivo, quello più impellente, dovrebbe essere il rasserenare il clima tra le toghe e all’interno della magistratura. Da questo punto di vista l’Anm farebbe forse bene a meditare un’adeguata sospensione dei cicli elettorali interni congelando gli organi statutari e limitando le competizioni a quelle che riguardano i soli organi istituzionali (Consigli giudiziari e Csm). Al contempo, forse, sarebbe opportuno attuare una capillare ricognizione nelle proprie sedi più “calde” per tentare la ricomposizione di un clima di serenità e di collaborazione che la stagione delle chat a rate ha solo ulteriormente esasperato. Questi sono i giorni dell’ira, della resa dei conti, delle probabili chiamate in correità, delle minacce appena sibilate, dei sorrisini malevoli e ammiccanti al pettegolezzo. Un clima davvero poco degno per una Nazione che conta decine di migliaia di morti contagiati, una devastazione economica e sociale imponente e che meriterebbe da una delle principali istituzioni parole e atteggiamenti più composti, rassicurazioni più persuasive e gesti più efficaci. Tra uffici giudiziari in protratto lockdown, cause rinviate, avvocati in subbuglio e dosi quotidiane di pizzini informatici la magistratura è chiamata a uno sforzo ulteriore di impegno e di attenzione verso i cittadini. La peste virale è stata tenuta fuori dai palazzi di giustizia quasi ovunque, ma dentro quelle stanze rischia di allignare per molto tempo un’aria mefitica. I vertici dell’Anm revochino le dimissioni, restino al loro posto e inizino a visitare i lazzaretti in cui si è propagata senza limiti la diceria degli untori e dove servono con dignità la Repubblica tanti eccellenti magistrati. Una vicinanza e un ascolto per uscire dalle mura assediate.
Vittorio Sgarbi a Quarta Repubblica: "Palamara come Buscetta, voi state tranquilli?" Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. Luca Palamara "come Tommaso Buscetta". Vittorio Sgarbi "legge" nella testa dei magistrati e in studio a Quarta Repubblica ospite di Nicola Porro si lascia andare a uno dei suoi classici, clamorosi commenti. "Nella logica dei buoni processi serve un pentito e Palamara è come Buscetta". Insomma, taglia corto il deputato eletto alla Camera con Forza Italia, è giunta "l'ora di Palamaropoli!". Il professore si fa però più serio quando alle intercettazioni di Palamara lega lo scontro tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il pm anti-mafia Nino Di Matteo. "Palamara e Di Matteo dicono che nella magistratura c'è un inquinamento mafioso e stiamo tranquilli?". La risposta può darsela ciascuno di noi.
Vittorio Sgarbi, il deputato ha ragione nel volere indagare le toghe. Farina condanna la cacciata dall'Aula. Renato Farina su Libero Quotidiano il 27 giugno 2020. Vittorio Sgarbi - stavolta, e non è la prima volta - ha perfettamente ragione. Di più: è stato vittima di un rito barbarico nel cuore stesso della democrazia repubblicana. E con lui a essere stata matata in una arena di vigliaccheria è stato il diritto di dire la verità e il dovere di consentirlo. La cronaca è nota. Ma non è quella che è stata raccontata. Anche chi infatti è benevolo con il critico d'arte e parlamentare, trasferisce l'essenza dell'accaduto sul piano del costume. Come quando si litiga da Barbara D'Urso o da Lilli Gruber: un gioco dove non conta la tensione alla verità ma l'efficacia della battuta o la gravità dell'offesa. Bisogna saltar fuori dal pregiudizio negativo o positivo sul «solito Sgarbi». E osservare quello che ritengo non uno sketch, ma se è stato uno spettacolo appartiene al genere della tragedia. Esagero? Neanche un po'. La vergogna di quel che è accaduto mercoledì a Montecitorio non consiste affatto nelle parole e nei comportamenti di Vittorio Sgarbi, deputato nell'esercizio delle sue funzioni di rappresentante del popolo italiano. L'oscenità sta tutta nell'aver falsificato le sue parole, tramutandone il senso, e averlo perciò sbattuto fuori dall'aula impedendogli di votare un provvedimento infame che allarga all'infinito la possibilità per la magistratura di intercettare chiunque, dovunque e comunque, senza alcun controllo salvo quello della magistratura medesima. Il parlamentare di Ferrara aveva osato l'inosabile. Chiedere un'inchiesta parlamentare non contro la classe politica, o contro un delitto di 40 anni fa, bensì su «magistratopoli, palamaropoli», ovvero sullo scempio dell'onestà e della buona fede del popolo italiano ad opera di una cricca in toga che governa carriere e (a quanto si è udito) sentenze, e che è stata ai vertici dell'Associazione nazionale magistrati, quella che - ha citato correttamente Sgarbi - Cossiga definì «associazione mafiosa». Con una spudorata deformazione, senza avere alcun diritto di interloquire con un collega in dichiarazione di voto, l'onorevole di Forza Italia Giusi Bartolozzi, ex magistrato in Sicilia, ha attribuito a Sgarbi d'aver qualificato come criminali tutti i magistrati. Chi stava dalla parte di Sgarbi (buona parte del centrodestra) non ha contraddetto la deputata che mentiva, mentre grillini e sinistra unanime sono balzati in trecento contro uno addosso a Sgarbi che cercava di far udire il suo non-ho-detto-questo. Lo hanno sommerso di urla. Visto che non lo facevano replicare ed anzi lo inondavano di improperi, ha lanciato invettive, e ha pronunciato, oibò, un sonoro vaffanculo. Dicono anche si sia lasciato andare a parolacce e ingiurie che lui nega di aver profferito (nella registrazione però non si ode l'epiteto «troia» che gli è attribuita nello stenografico della Camera). Fatto sta che appena la canea ha cominciato ha scandire fuori-fuori, immediatamente la presidente Mara Carfagna, per la quale la mia stima resta intatta, ha obbedito e ha letteralmente ripetuto «fuori» cacciandolo dall'aula, con accompagnamento teatrale di commissari che lo tenevano per le mani e per i piedi. Ripeto. Si tende a trattare l'episodio come un fatto di cabaret, tifando alcuni pro e quasi tutti contro Sgarbi, riducendo la cosa a un accidente caratteriale. Si incolpa la sregolatezza linguistica del professore di Ferrara. Molto comodo. È il classico della censura. Usare un frase particolare, che si può vendere all'opinione pubblica come sgradevole, in nome del linguaggio tutto tè e pasticcini che sarebbe in voga in Italia (ma dai), per squalificare ed espellere dall'agorà democratica e civile una denuncia accorata e urgente. Guai a chi tocca il totem, a chi viola il tabù: la degenerazione della magistratura, nei suoi massimi organi rappresentativi (Anm) e di autogoverno (Csm) non può essere nominata. Sgarbi è il migliore - e di gran lunga - oratore a braccio di questa legislatura. Sa alternare e mescolare la raffinatezza al genere retorico dell'invettiva anche salace e veemente, tale da lacerare la camicia o lo chemisier degli avversari di oratoria. L'insulto però all'essenza del Parlamento è quello che è accaduto intorno a lui e contro di lui, per trafiggere e trascinare fuori il dissidente dal pensiero unico. Sgarbi ha avuto la temerarietà di indicare la nudità sporcacciona del re. Ha detto la verità sul potere sommo che si è seduto sull'Italia schiacciandola, e tiene sotto schiaffo minacciando - e quanto accaduto alla Camera ne è la prova - chi non si genuflette. Ci siamo capiti, l'ordine giudiziario ha in mano lo scettro anche in Parlamento. Con abilità mostruosa il centro della questione non è più se e quanto il malaffare sia diffuso nella magistratura, e se non sia il caso di investigarvi da parte di un soggetto terzo (il potere legislativo). Il cuore del problema italiano diventa il vaffa. Il filmato mostra il deputato del Pd Emanuele Fiano correre al banco della Carfagna e ripeterle piano con l'aria di chi ha udito la formula con cui Voldemort dissolve il mondo: «...ha detto "vaffanculo"!». Sul serio. Ho trascritto lo stenografico. Dio mio, ha detto vaffanculo! Qualcuno chiami De Luca con i lanciafiamme. Che razza di ipocrisia. Fiano e i suoi dem così pudichi sono alleati e governano con chi di questa sollecitazione al meretricio posteriore ha fatto l'essenza della sua politica. E adesso diventa pretesto per trasferire nel mondo delle parolacce un giudizio politico e morale sullo scandalo di una magistratura malata.
Sgarbi querela Carfagna e Bartolozzi: “Indignate a comando”. Notizie.it il 26/06/2020. Sgarbi annuncia querela per Carfagna e Bartolozzi dopo essere stato cacciato dal Parlamento. Il video di Vittorio Sgarbi trascinato via dal Parlamento è già diventato un capitolo di storia repubblicana assolutamente da dimenticare che ha indignato tutte le componenti politiche. Ma adesso, il parlamentare e critico d’arte annuncia di non voler restare a guardare ma, anzi, di passare alla controffensiva tanto da aver già comunicato l’intenzione di presentare querela per Mara Carfagna, vicepresidente della Camera, e Giusi Bartolozzi, collega forzista. Così, attraverso la sua pagina Facebook, Sgarbi smentisce le accuse in merito ai presunti insulti rivolti alle due parlamentari: “Le sole parole irripetibili che ho pronunciato all’indirizzo delle due indignate di comodo sono: ridicola alla Bartolozzi e fascista alla Carfagna. Parole perfettamente aderenti ai loro comportamenti”. Vittorio Sgarbi è un fiume in piena e promette guerra alle due parlamentari che lo hanno costretto ad abbandonare l’aula del Parlamento: “Quanto alla Bartolozzi, ex magistrato – continua il critico d’arte -, le ho anche evocato il nome di Berlusconi, solo per ricordarle che si trova in Parlamento proprio grazie alla generosità del Cavaliere, l’uomo più perseguitato d’Italia da certa magistratura”. Sgarbi fa riferimento a quella stessa magistratura che: “Io ho denunciato nel mio discorso alla Camera e che lei ha ciecamente difeso, come se lo scandalo delle chat di Palamara fosse una invenzione. Tra l’altro io a quei magistrati del caso Palamara ho fatto riferimento, e non genericamente alla categoria dei magistrati”. E non mancano le accuse agli indirizzi della Carfagna che Sgarbi definisce soubrette in catene: “Lo so, ricordare ciò che siamo stati è sempre un esercizio faticoso. Ma a lei ribadisco che impedirmi di parlare e votare è un atto fascista. Ma le due indignate a comando cosa fanno? Montano una ignobile strumentalizzazione politica mostrandosi come vittime. Evocano il sessismo pretendendo in quanto donne, una sorta di immunità alle critiche, esercitando, loro sì, una forma di intimidazione nei miei confronti”. Tutti questi motivi spingono Vittorio Sgarbi ad agire per via legali: “Vista la grave diffamazione consumata ai miei danni con accuse false, dovranno portare le prove in un tribunale, il solo luogo in cui si potrà parlare liberamente di ciò che ho detto, visto che il Parlamento è diventato un luogo di censura e di restrizioni. In quella sede si potrà anche ricostruire il percorso che ha portato la Bartolozzi e la Carfagna in Parlamento. In modo che, anche se con anni di ritardo, si possa poi dire: aveva ragione Sgarbi”.
Salvini a processo il 19 ottobre: definì magistratura “cancro da estirpare”. Notizie.it il 25/06/2020. Il 19 ottobre Salvini è atteso a Torino per il processo che lo vede imputato per villipendio nei confronti dell'ordine giudiziario. É slittata al 19 ottobre la data in cui Matteo Salvini dovrà presentarsi al Tribunale di Torino per prendere parte al processo intentatogli: il reato che gli viene contestato è quello di villipendio nei confronti della magistratura a causa di un episodio del 2016 in cui la definì “un cancro da estirpare“. L’udienza ha subito diversi slittamenti per motivi di vario titolo. L’ultima volta i giudici l’avevano fissata per il 2 marzo ma, a causa della chiusura dei tribunali e del fermo delle attività giudiziarie, alla fine non ebbe luogo. Il leader della Lega è dunque atteso lunedì 19 ottobre alle ore 15 insieme al suo legale Claudia Eccher che a marzo aveva ribadito “la piena disponibilità di Salvini a partecipare all’udienza“. L’episodio a cui fanno riferimento le carte del processo risale al 14 febbraio 2016. In tale data il numero uno del Carroccio stava partecipando al congresso regionale della partito tenutosi al palasport di Collegno, in provincia di Torino, per l’elezione del nuovo segretario regionale. Durante il suo intervento pronunciò alcune frasi nei confronti dell’ordine giudiziario che lo stesso ha ritenuto offensive. Riferendosi in particolare ad un’inchiesta sulle spese dei politici in Liguria, Salvini aveva affermato la sua disponibilità a difendere “qualunque leghista indagato da quella schifezza che si chiama magistratura italiana, che è un cancro da estirpare“. Sempre ad ottobre dovrebbe poi affrontare il processo che lo vede indagato per sequestro aggravato di persona in merito al caso Gregoretti. Il Senato, che deve ancora votare l’autorizzazione a procedere per quello relativo alla Open Arms, ha infatti concesso alla magistratura il via libera alle indagini.
Vittorio Feltri su Luca Palamara: "Evviva, sto con lui. Crepi chi gli vuole male". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 23 giugno 2020. Il magistrato Luca Palamara dicono che sia nei guai essendo stato espulso dal sindacato della sua categoria, l'Anm. Penso che a lui non gliene freghi niente, dato che le associazioni dei lavoratori, siano pure togati, sono importanti per trafficare eppure non decisive. A me personalmente Palamara è simpatico, ha tenuto per il bavero decine di suoi colleghi che pendevano dalle sue labbra e ha agito proprio come i suoi predecessori, mettendo le mani in pasta e talvolta sporcandosele ma non troppo. Senza dubbio la pubblicazione delle intercettazioni riguardanti le sue conversazioni con Tizio Caio e Sempronio hanno suscitato scalpore. Tuttavia non era il caso. L'ex presidente, in fondo, si è comportato come coloro che lo hanno preceduto, influenzando promozioni, favorendo taluni e danneggiando altri. Cose che sono sempre avvenute nell'ambito giudiziario, che non è diverso da quello di ogni altro potere. È noto che nelle corporazioni c'è qualcuno che mena le danze e qualcuno che si muove ubbidendo agli ordini. Tutto ciò non è edificante, ma non rappresenta una novità. Palamara peraltro non arrivò al vertice della Anm per fatalità, bensì mediante elezioni: egli cioè ricevette dei voti che gli consentirono di giungere all'apice. Dov' è lo scandalo? Una considerazione generale. Sappiamo da sempre che l'umanità non è mai pulita al massimo, i filibustieri, i furbi e i mentecatti costituiscono un genere trasversale: esistono personaggi discutibili tra i geometri, tra i medici, tra i muratori e in particolare tra i giornalisti, che ben conosco. Ovvio che anche i giudici, essendo persone in carne e ossa, non sfuggano alla regola: pure tra loro vi è chi non è santo. Palamara, in realtà, facendo pur parte di un ceto fin troppo rispettato, ha adottato una condotta non molto biasimevole, esattamente come la maggioranza di quelli che egli ha manovrato. Non mi risulta opportuno dargli addosso. Del resto, era soltanto un influencer, un tipo intelligente cui una massa si rivolgeva per ottenerne favori. Io gli conferirei un premio, non fosse che per convincerlo a non sputtanare la sua casta che si è già sputtanata abbastanza per conto proprio. Basta leggere certe sentenze e prendere atto di determinati e frequenti errori giudiziari per accorgersene. Palamara ha un aspetto inquietante, con quei capelli corvini e lo sguardo penetrante, ma è intelligente e non ha compiuto nulla di peggio dei suoi compagni di lavoro. Pertanto mi schiero con lui, lo stimo, e mi aspetto che nella sua disgrazia trascini numerosi suoi detrattori, meritevoli di essere sfruculiati. Colpevolizzare lui di aver intrattenuto rapporti di convenienza con i suoi sodali e assolvere chi ha beneficiato di spinte e agevolazioni è una operazione sporca. Viva Palamara e crepino coloro che gli vogliono male. Noi siamo con lui e non con i suoi nemici comunisti.
Virginia Piccolillo per corriere.it il 20 giugno 2020. «Gravi violazioni del codice etico». Il comitato direttivo dell’Anm, espelle Luca Palamara. Accolta la richiesta dei probiviri in una seduta difficile. Segnata dalla richiesta dell’ex presidente dell’associazione nazionale magistrati di potersi difendere. E dal rifiuto dei colleghi di lasciare parlare, in audizione o tramite una memoria scritta, lui o il suo collega difensore, Roberto Carrelli Palombi. Poi l’illustrazione delle colpe individuate dai probiviri nelle sue condotte: «Si sono collocate inusitatamente quanto indegnamente fuori dalle regole deontologiche». Infine il voto: fuori dall’Anm. Lui protesta.
Palamara: «Nemmeno nell’inquisizione». L’istanza di Palamara è stata ritenuta «inammissibile», in base allo statuto, oltre che «irrituale». Secondo i colleghi l’ex pm avrebbe dovuto parlare solo di fronte ai probiviri, dove invece non si è mai presentato. Non è stato concesso neanche al collega che aveva preso le sue difese nel procedimento di parlare in favore alla sua richiesta. L’ex pm denuncia: «Mi è stato negato il diritto di parola. Nemmeno nell’inquisizione». All’Adnkronos ha affidato il discorso che avrebbe voluto pronunciare. «Volevo il cambiamento ma mi sono lasciato inghiottire dal sistema», avrebbe detto. «Mi son sempre ispirato a un imparziale esercizio della giurisdizione», avrebbe aggiunto. E ancora: «Non farò il capro espiatorio», le «responsabilità politiche per avere accettato le regole del gioco sono discutibili» e sulle nomine dei dirigenti giudiziari avrebbe scandito: «Sono frutto di accordi politici».
Anm decimata. La riunione si è aperta con la presa d’atto di altre dimissioni: quelle di tutti i componenti di Magistratura Democratica che hanno seguito quelle dei 7 componenti di Magistratura indipendente, di Silvia Albano di Area, dell’ex presidente Francesco Minisci e di Bianca Fieramosca di Unicost, due di loro facevano parte della giunta.
Il monito di Mattarella. «Nessun contrasto può giustificare l’abbandono del luogo deputato al confronto» ha detto il presidente dell’Anm Luca Poniz, in apertura del Comitato sul quale pesa il monito lanciato dal capo dello Stato, Sergio Mattarella: «La magistratura recuperi credibilità. Sotto accusa dei probiviri anche i magistrati Lepre, Morlini, Cartoni e Spina che hanno già dato le dimissioni dall’associazione (motivo per il quale il Cdc ha deciso di non esprimersi a riguardo), Criscuoli e il deputato Cosimo Ferri.
La verità di Luca Palamara: “Così funziona il potere esagerato delle Procure”. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Giugno 2020. «Posso affermare tranquillamente che sono stato io a creare il “partito dei pm”». Incontriamo Luca Palamara a Roma in un bar vicino al Csm. Sabato scorso il Comitato direttivo centrale dell’Anm ha deciso di espellerlo dall’associazione di cui è stato per quattro anni il presidente. Nella secolare storia dell’Anm non era mai successo con un suo presidente venisse espulso perché accusato di condotte gravemente lesive nei confronti dei colleghi. Dalle chat si è scoperto che decine di colleghi si rivolgevano a lui, anche quando formalmente era cessato da tutti gli incarichi, per una ottenere una nomina o un posto di prestigio. Da quello che abbiamo capito in questi mesi, la valanga che ha travolto il Csm e la credibilità della magistratura è iniziata con la convulsa successione di Giuseppe Pignatone al vertice della Procura di Roma. La nomina di Michele Prestipino è stata impugnata al Tar del Lazio dagli sconfitti: Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, e Giuseppe Creazzo, procuratore del capoluogo toscano.
Dottor Palamara, perché queste “tensioni” sulla nomina del procuratore di Roma e, in generale, ogni volta che si deve nominarne uno?
«I pm sono i “front runner” della magistratura. A torto o a ragione è così».
Cerchiamo di spiegare il perché.
«Il pm è ruolo di potere grandissimo. Rappresenta la pubblica accusa ma è un magistrato. Con tutte le garanzie e guarentigie del caso.
Autonomo e indipendente…
«Sì. E ha il controllo pieno della polizia giudiziaria. Penso che chiunque comprenda cosa significhi avere il controllo della polizia, dei carabinieri e della guardia di finanza. Vuol dire scegliere a quale forza di polizia far fare le indagini, dettarne i tempi, stabilire i criteri di priorità».
E poi ci sono i giornalisti…
«Il procuratore è l’unico titolato ad avere i rapporti con la stampa. La sapiente gestione degli organi d’informazione assicura la grancassa mediatica e la conseguente visibilità».
Dopo di lei alla presidenza dell’Anm si sono succeduti solo pm…e di ognuno di loro tutti sapevano quali indagini avessero condotto.
«Esatto».
Quando il sistema è definitivamente esploso?
«Si riferisce al potere delle correnti?»
Sì
«Nel 2007. Con la riforma dell’Ordinamento giudiziario che introdusse la temporaneità degli incarichi. Un procuratore adesso può rimanere al massimo otto anni, poi deve lasciare».
Il legislatore, conoscendo il potere del pm, ha tentato di arginarlo.
«Questa riforma trasformò i generali in soldati e i soldati in generali. Prima del 2007 una volta nominato procuratore rimanevi fino alla pensione. Con la temporaneità dell’incarico non più. Dopo aver diretto uffici importati molti non hanno voglia di tornare indietro. Oggi “comandi” e domani vai a fare il turno».
Quindi il carrierismo sfrenato è anche frutto di questa legge?
«Certo, soprattutto se si diventa procuratori da giovani. Le aspettative aumentano in maniera esponenziale. Bisogna dirlo chiaramente e non prenderci in giro. A oggi non c’è allo studio alcun sistema diverso per la nomina dei dirigenti».
Le correnti, da luogo di elaborazioni culturale, sono ora soggetti politici che si comportano come tali.
«Vuoi il mio voto? Cosa mi dai in cambio?»
Sì, questo.
«Il sistema è andato in tilt per tutti. Anche per le correnti maggiormente ideologizzate. Ovvio che se devo scegliere un magistrato per un incarico devo anche tenere conto di chi mi ha dato il voto. Cerchiamo di non essere ipocriti».
Dalle chat emerge che le correnti si impegnavano sui territori ma era fondamentale portare a casa “qualcosa”. Altrimenti non si raccoglievano i voti. Si organizzavano, ad esempio, la presentazione dei candidati al Csm all’indomani di qualche voto favorevole. Per dire: hai visto? Grazie alla corrente abbiamo ottenuto tot posti.
«È così».
Perché i magistrati non si ribellano a questo sistema infernale?
«È il sistema».
Non esiste un grande manovratore?
«No. Il sistema è ormai congegnato in questo modo. Il magistrato non ha alternative. Se non sei dentro, sei fatto fuori».
Cosa fare per le prossime elezioni Anm?
«Una candidatura senza liste contrapposte. Dare l’Associazione dei magistrati a chi non è stato nelle correnti».
Lei è accusato di aver “tramato” con i politici. Cosa dice?