Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2020

 

LA MAFIOSITA’

 

TERZA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

      

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

  

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Metodo “Falcone”.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Tommaso Buscetta spiega “Cosa Nostra”.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Omicidio Mattarella.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: i depistaggi sulla strage di via D’Amelio.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Mafia-Appalti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il grande mistero del covo.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il Concorso Esterno. Reato fantastico.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Le Stragi del '93.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La Strage di Alcamo Marina.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Mafia-Finanziamenti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il misterioso “caso Antoci”. (Segue dal 2019)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Rosario Livatino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Bruno Caccia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Paolo Adinolfi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte di Don Pino Puglisi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte di Diabolik.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Nino Agostino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro Rostagno.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro De Mauro.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Peppino Impastato.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Mafia stracciona.

I killers della mafia.

La Mafia romana: L’Autoctona.

La Mafia romana: I Casamonica.

La Mafia romana: Gli Spada.

La Mafia romana: I Fasciani.

La Mafia Nomade.

I Basilischi. La Mafia Lucana.

La Quarta Mafia. La Mafia di Foggia.

La 'Ndrangheta tra politica e logge massoniche.

La Mafia Veneta.

La Mafia Italo-Padana-Tedesca.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Pachistana.

La Mafia jihadista. Gli affari dei califfati.

La Mafia Italo-Canadese.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Doppio Stato.

In cerca di “Iddu”.

Chinnici e la nascita del Maxi processo.

Le Ricorrenze. Liturgia ed Ipocrisia.

Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.

Guida a un monstrum giuridico: il 41-bis.

Le loro prigioni: Concorso Esterno in Associazione Mafiosa.

La Trattativa degli Onesti.

Quelli che non si pentono: I sepolti vivi come Raffaele Cutolo.

Non è Tutto Bianco o Tutto Nero.

L'antimafia degli ipocriti sinistri.

Non è Mafia…

Invece…è Mafia.

Quelle vittime lasciate sole…

Cassazione, aggravante mafiosa può essere contestata solo se c’è dolo.

Il Business del Proibizionismo.

Il Business “sinistro” dei beni sequestrati preventivamente e dei beni confiscati dopo la condanna.

La Mafia delle interdittive prefettizie.

Chiusi per (Anti) Mafia…

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Gogna Parentale e Territoriale.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giudice Onorari “sfruttati”?

Il Caporalato dei Praticanti.

Noi specializzandi sfruttati e malpagati.

Se lo schiavo sei tu.

Il lavoro sporco delle pulizie.

Il Caporalato agricolo Padano.

Schiavi nei cantieri navali.

Riders: Cornuti e Mazziati.

Caporalato nei centri commerciali.

Il Caporalato dei Call Center.

Il Caporalato degli animatori turistici.

Il Caporalato dei Locali Pubblici.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Favoritismi Curatelari.

Non è Usura…

Astopoli.

La Mangiatoia degli incarichi professionali nelle procedure fallimentari.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Io sono il Potere Dio tuo.

La Lobby del Tabacco.

Le Lobbies di Gas e Luce.

La Lobby dei Sindacati.

La Lobby del Volontariato.

La Lobby degli Studi Legali.

La Lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica.

Gli Affari dei Lobbisti.

I Notai sotto inchiesta.

Se comandano i Tassisti.

La Lobby dei Gondolieri.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Massomafia.

 

INDICE TERZA PARTE

 

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Figli di Trojan.

Il Concorso truccato per i magistrati.

Togopoli. La cupola dei Magistrati.

E’ scoppiata Magistratopoli.

Magistrati alla sbarra.

Giornalistopoli.

Voto di Scambio mafioso=Clientelismo-Familismo.

L’Onorevole Mafia.

La Sinistra è una Cupola.

Tutte tonache di rispetto.

La Mafia dei Whistleblowers.

La Mafia del Riciclaggio Bancario Internazionale.

La Mafia del Gasolio.

La Cupola delle Occupazioni delle Case.

La Mafia dello Sport.

La Mafia dei posteggiatori abusivi.

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

 

TERZA PARTE

 

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Figli di Trojan.

La nuova moda. Clonazione del cellulare: altro che trojan, ecco cosa prevede la nuova moda dell’inquisizione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Dal trojan alla clonazione. Da Perugia contro Palamara a Pavia contro Fontana, tempi duri per i telefonini. Su quello di Attilio Fontana si sono buttati con il lanciafiamme alle sette di mattina nella sua abitazione i pubblici ministeri che indagano sulla multinazionale Diasorin e il Policlinico San Matteo di Pavia per l’assegnazione di test sierologici. Avrebbero potuto mandare gli uomini della Guardia di finanza a Palazzo Lombardia a chiedere la consultazione del cellulare del Presidente. Insieme a quello della sua capo segreteria Giulia Martinelli e dell’assessore Giulio Gallera e di qualche Presidente ospedaliero sparso per la città. Pare che addirittura il presidente del Policlinico di Pavia ogni tanto conversasse con il Presidente del Policlinico di Milano, Marco Giachetti, per esempio. Molto sospetto. Avrebbero potuto limitarsi a controllare usando parole-chiave relative all’inchiesta, come stanno facendo nelle stesse ore nei confronti di altri (compresa la moglie di Fontana, Roberta Dini) nell’indagine sulla donazione di camici, gli uomini della procura della repubblica di Milano. Cioè selezionare notizie e nominativi che possano servire alle indagini, non buttarsi a capofitto sulla vita intera di persone che non sono neppure indagate. Sulla vita loro e su quella di tutte le persone di loro conoscenza, parenti, amici, rapporti politici e istituzionali. Dalla mamma al Presidente della Repubblica, insomma. Evidentemente a Pavia si usa diversamente da Milano, si preferisce la procedura che si chiama “copia forense”, il che significa duplicazione di tutte le zone del disco, con recupero anche di eventuali file cancellati. Cioè la resurrezione di tutto e tutti, compresi magari i numeri di rompiscatole che cercavi di toglierti di torno. Ed è questo che i pm di Pavia stanno cercando, con mentalità e procedura da inquisizione: non quello che appare, non quello che è, ma quello che non si vede, il famoso “lato oscuro” delle persone. Mettendo insieme telefonate e messaggi che riguardano relazioni istituzionali di un Presidente di Regione, con rapporti politici e anche quelli più personali. Presente e passato. Il tutto dato in pasto agli uomini della guardia di finanza e magari (siamo maliziosi o solo realisti?) direttamente in edicola. Cioè nel luogo che ha ormai scalzato le cancellerie, visto che è lì dove vengono depositati gli atti delle inchieste più delicate e appetibili per il popolo dei voyeurs. Lo si intuisce dalle loro azioni e dalle loro parole. Si sono accorti che il Presidente del Policlinico San Matteo di Pavia, Alessandro Venturi, indagato per peculato e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente per aver affidato senza gara alla Diasorin l’incarico di sviluppare i test sierologici per Covid-19, ai primi di luglio aveva dato una bella ripulita al proprio cellulare. In particolare, scrivono nei decreti di perquisizione, “ha proceduto alla cancellazione massiva dal telefono cellulare di tutte le chat whatsapp”. E questo -fatto considerato particolarmente sospetto-, prima di essere indagato. Sono stati quindi ricostruiti i nomi delle persone che facevano parte dei gruppi, ma non il contenuto delle conversazioni. Per recuperare le quali è necessario il ricorso al napalm, a quanto pare. Poca professionalità o incazzatura feroce? Difficile entrare nella mentalità (e negli stati d’animo, fatto non secondario) dei pubblici ministeri. I quali garantiscono che l’esame dei contenuti sarà limitata “all’alveo dei fatti oggetto di contestazione penale”. Mah. Leggeremo su giornali e social nel prossimi giorni.

L’avvocato Jacopo Pensa, difensore di Attilio Fontana, più che arrabbiato pare sbalordito. Alle sette del mattino di solito si va ad arrestare la gente, ragiona. Il mio assistito non è indagato e si è visto entrare in casa cinque o sei persone mandate a copiargli il telefonino, dice con una certa ironia. Ma osserva con serietà che potrebbe ricorrere al tribunale del riesame, a causa delle modalità procedurali e anche dei profili di incostituzionalità per l’ovvia presenza di conversazioni istituzionali nel telefonino del Governatore. Certo che il Presidente della Regione Lombardia è proprio preso di mira. Difficile attribuirgli esplicitamente la commissione di reati. Però. I pubblici ministeri di Pavia non si accontentano evidentemente di quel che hanno già portato a casa, cioè le indagini sui due contraenti della vicenda dei test sierologici, l’ospedale San Matteo di Pavia e la multinazionale Diasorin, in seguito alla denuncia di un concorrente, la Technogentics. Vogliono arrivare più in alto, al boccone prelibato dell’assessore Gallera e a quello grosso del Presidente della Regione. Le indagini sono ferme, e tra l’altro il Consiglio di Stato, dopo un primo verdetto contrario del Tar, ha dato piena ragione a Diasorin. Così il contratto è anche pienamente in atto. Qualcosa di simile sta accadendo alla procura di Milano. Qui la situazione è ancora più delicata, perché lo stesso Fontana si è infilato in un pasticcio economico-familiare che non dovrebbe proprio stare nelle mani della magistratura. E’ la famosa storia dei camici e altri presidi sanitari che la società del cognato e in piccola parte della moglie avrebbe dovuto prima vendere e poi donare alla Regione Lombardia. Vicenda complicata dallo stesso Fontana, che ha cercato in modo goffo di “risarcire” il cognato facendo tornare dalla Svizzera soldi “scudati”, cosa che non è passata inosservata. Ma anche qui, e proprio ieri, abbiamo assistito al balletto dei telefonini. Che cosa cercano i pm in quello della moglie, forse le chiamate sospette del marito? Siamo sempre lì: trojan, clonazioni, copiature. E sempre il buco della serratura. Ci toccherà tornare agli apparecchi a gettone. Ma sappiamo per certo (esperienza di vicinato) che un tempo intercettavano anche quelli.

Caso Palamara: il Pm ordinò di non spiare i parlamentari, ma la Finanza disobbedì. Paolo Comi su Il Riformista il 4 Luglio 2020. Ma se la Procura di Perugia aveva ordinato ai finanzieri del Gico di spegnere il trojan quando Luca Palamara stava per incontrare un parlamentare, perché invece accadde il contrario? Fra le innumerevoli anomalie che contraddistinguono l’indagine a carico dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, questa – certamente – è una delle più clamorose. Il pm Gemma Milani, assegnataria del fascicolo insieme al collega Mario Formisano, dopo qualche giorno che il trojan era stato inoculato nel cellulare di Palamara e aveva iniziato a registrare le conversazioni del magistrato romano, scrive una nota indirizzata personalmente al “Sig. Comandante del Gico di Roma”. All’epoca il reparto speciale della guardia di finanza era comandato dal colonnello Paolo Compagnone. L’ufficiale superiore ricoprì quell’incarico fino al successivo 9 settembre, allorquando divenne il comandante provinciale della gdf di Roma, sostituendo il generale Cosimo Di Gesù. Per la cronaca, quest’anno Compagnone è stato promosso generale di brigata. Attualmente il comandante del Gico è il colonnello Gavino Putzu. Dopo aver ricordato che «non sono stati fissati limiti all’utilizzazione del trojan in modalità ambientale», il pm umbro si premura allora di puntualizzare al colonnello Compagnone che «laddove da elementi certi emerga che PALAMARA sia prossimo a incontrare un parlamentare sarà cura di NON (scritto proprio così: tutto maiuscolo ed in grassetto) attivare il microfono». Il pm, per agevolare la comprensione dell’ordine impartito e fugare eventuali dubbi interpretativi, fa anche degli esempi: «ad es. (riferendosi a Palamara, ndr) prenda appuntamento direttamente con un parlamentare o conversando con un terzo emerga con certezza la presenza di un parlamentare o altro soggetto. In questo caso scatta il “regime autorizzatorio speciale” e quindi le guarentigie in tema di tutela delle conversazioni per i parlamentari della Repubblica. Tutto chiaro? Sulla carta sì, nella pratica no. E già, perché le conversazioni di Palamara con Cosimo Ferri e Luca Lotti, allora entrambi deputati del Pd, sono state tutte puntualmente ascoltate e trascritte dai finanzieri agli ordini di Compagnone. Si tratta di incontri, come si è potuto verificare, non casuali. E che i finanzieri conoscevano all’epoca in “anteprima”, in quanto Palamara, messaggiando o telefonando, aveva fissato in precedenza. Nulla di casuale, insomma. A cominciare proprio dal dopocena all’hotel Champagne di Roma per il quale già nel pomeriggio precedente Palamara e Ferri iniziano a organizzarsi, non solo indicando il luogo ma anche quali persone saranno presenti all’incontro. La chat fra Palamara e Ferri di quel giorno è chiarissima. Alle 23.16 Ferri messaggia a Palamara: “Hotel champagne (l’albergo dove Ferri alloggiava quando era a Roma, ndr) via principe Amedeo 82”. Alle 23.29 Palamara risponde a Ferri: “Stiamo arrivando tutti”. Come mai, allora, i marescialli del colonnello colonnello Compagnone non hanno spento il trojan? Il pm Miliani ha chiesto chiarimenti ai finanzieri sul perché di questa inosservanza dell’ordine? Ci sono altre indicazioni che non si conoscono? C’è un fascicolo parallelo? Il messaggio fra Ferri e Palamara è sfuggito ai finanzieri? E perché, soprattutto, queste conversazioni sono poi finite nel fascicolo? Tutti dubbi per i quali al momento non c’è risposta. Il disciplinare nei confronti di Palamara e degli ex consiglieri del Csm che erano presenti all’hotel Champagne e che poi si sono dimessi è basato quasi esclusivamente su queste conversazioni. Il processo davanti alla Sezione disciplinare è in calendario per il prossimo 21 luglio. Cosa accadrà se dovesse essere appurato che queste conversazioni non potevano essere registrate dai finanzieri del Gico? E infine una curiosità: Raffaele Cantone, il neo procuratore di Perugia, si è già fatto portare il fascicolo per capire come siano state condotte queste indagini che hanno terremotato la magistratura italiana?

Incontro tra Palamara e Ferri: la finanza lo sapeva ma mentì, perché? Paolo Comi su Il Riformista il 29 Ottobre 2020. La guardia di finanza era a conoscenza che Luca Palamara avrebbe incontrato Cosimo Ferri la sera dell’8 maggio dello scorso anno. Non ci sarebbe stata alcuna “casualità”. La circostanza, clamorosa, sarebbe stata “occultata” dal Gico della Capitale, che ha svolto le indagini nei confronti dell’ex presidente dell’Anm, ai magistrati di Perugia, titolari del fascicolo. La Sezione disciplinare del Csm, come si ricorderà, aveva dichiarato l’utilizzabilità delle intercettazioni mediante il trojan effettuate nella notte tra l’8 e il 9 maggio 2019 all’hotel Champagne dove si discusse del futuro procuratore di Roma. La conversazione delle ore 19:13 dell’8 maggio del 2019 con la quale Palamara e Ferri decidevano di incontrarsi sarebbe stata ascoltata e trascritta “solamente” il giorno successivo alle ore 11.00. Ciò è quanto attesta il maggiore Fabio Di Bella del Gico di Roma, il reparto prediletto dall’ex procuratore Giuseppe Pignatone, nell’informativa del successivo 17 maggio destinata ai pm del capoluogo umbro. Di Bella scrive ai magistrati che l’8 maggio del 2019 veniva registrata una conversazione telefonica fra Palamara e Ferri “inerente la programmazione dell’incontro registrato”. «In proposito – prosegue Di Bella – la predetta conversazione telefonica era oggetto di ascolto e di trascrizione, da parte di questa pg, solamente in data 9 maggio 2019 alle ore 11.00. Tanto si rappresenta in relazione a quanto disposto dalla S.V. con provvedimento datato 10 maggio2019». Provvedimento, quest’ultimo, con cui i magistrati di Perugia mettevano paletti all’ascolto dei parlamentari: «Laddove da elementi certi (dalle intercettazioni telefoniche o telematiche) in essere nei suoi confronti vi emerge che Palamara sia prossimo ad incontrare un parlamentare (ad esempio prenda un appuntamento con un parlamentare o conversando con un terzo emerga con certezza la presenza di un parlamentare o altro soggetto – sottoposto al regime autorizzatorio speciale) sarà vostra cura NON attivare il microfono, trattandosi in tal caso, non più di intercettazione indiretta casuale di un parlamentare». L’ascolto tardivo, per la Sezione disciplinare e prima ancora per le Sezioni unite della Cassazione che si erano pronunciate nella fase cautelare, aveva giustificato la “casualità” della captazione. Ci sono, però, due conversazioni precedenti che fanno venir meno la “casualità” dell’ascolto. La prima è del 7 maggio 2019 alle ore 23:19, classificata dallo stesso Di Bella “molto importante”, in cui Palamara parla con Luigi Spina, all’epoca consigliere del Csm. Questa la trascrizione integrale.

Palamara: “eh… allora tu domani sera damme la cosa….poi, domani sera…. l’unico problema che abbiamo io e Cosimo (Ferri, ndr)..”

Spina: “domani sera dobbiamo vederci co… eh dimme….”

Palamara: “è che vuole venì pure Luca (verosimilmente Lotti, deputato Pd, ndr) …e io Luca domani sera non lo vorrei fa venì ….ma Morlini (Gianluigi, consigliere del Csm, ndr) te lo porti domani?”

Spina: “eh me lo devi di te… noi siamo da Salzano (verosimilmente Francesco, avvocato generale in Cassazione, ndr) …che c’ha amica della Taverna dei Gracchi”.

Palamara: “si, si, lo so, io gli ho detto di no, che non ci sto….coprimi eh…ricordati….”

Spina: “sì”

Palamara: “dai”

Spina: “eee …. se devo venì, me lo porto….se devo venì solo io…”

Palamara: “se vieni tu, a me che viene Luca non me ne frega un cazzo….(inc) bene a me…..”

Spina: “se devo venì, io vengo sia da solo sia con Morlini…(inc) dobbiamo decidere se… massacrarlo….”

Palamara: “perché Cosimo, l’unico problema che si poneva è di venì con Luca ….forse pure per Lepre (Antonio, consigliere del Csm, ndr) …vabbè questo è il (inc)… allora domani glielo dico a coso”.

L’altra conversazione, classificata “importante” da Di Bella, è dell’8 maggio 2019, ore 15:27: “Palamara al telefono…. si vedranno nei pressi del Csm con Antonio, Cosimo e lui (la persona al telefono)”. Di Bella, nell’informativa del 17 maggio, non indica queste due conversazioni e, di conseguenza, non indica quando siano state trascritte. “L’omissione” di Di Bella sembra funzionale a far apparire la casualità dell’intercettazione e quindi la corretta esecuzione delle linee guida del 10 maggio dei pm di Perugia. Di Bella, infatti, riporta ai magistrati umbri soltanto una delle tre conversazioni intercettate dalle quali risultava con largo anticipo l’incontro dell’hotel Champagne e tra le tre sceglie quella dell’8 maggio 2019 delle ore 19:13, trascritta il giorno dopo, quindi successivamente all’incontro. Dalle conversazioni omesse da Di Bella appare, invece, evidente che la programmazione dell’incontro dell’hotel Champagne era stata captata 24 ore prima, esattamente il 7 maggio 2019 ore 23.19, così come era stata captata la presenza sicuramente di Ferri e forse anche di Lotti, poiché quest’ultimo non era gradito ad alcuni partecipanti tra i quali Palamara. La conferma dell’incontro si ha, allora, nella seconda captazione, quella delle 15:27 dell’8 maggio 2019, circa otto ore prima, nella quale viene data per sicura la presenza di Ferri. Durante il processo a Palamara nessuno ha chiesto a Di Bella chiarimenti su queste due conversazioni.

Quale credibilità ha un puzzle privo di tanti pezzi? Magistratopoli e il trojan “tarocco”: funzionava male, la Finanza sapeva. Paolo Comi su Il Riformista il 30 Giugno 2020. Il trojan è un “tarocco”. E lo sanno anche i pm e i finanzieri. Nel maxi-calderone del fascicolo d’indagine di Perugia a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara spunta una strana richiesta. Una richiesta che solleva più di un interrogativo sulla reale efficacia del trojan, il micidiale strumento d’investigazione, dallo scorso anno utilizzato anche per i reati contro la Pubblica amministrazione. La richiesta è datata 23 luglio del 2019. Destinatario è Rcs spa, la società di Milano che ha fornito alla Procura di Perugia, dietro lauto compenso, il virus spia che ha trasformato il cellulare di Palamara dal 3 al 31 maggio dello scorso anno in un microfono. Mittente è il comandante del Gico della guardia di finanza di Roma, il colonnello Paolo Compagnone. La nota è firmata dal tenente colonnello Marco Sorrentino, suo stretto collaboratore. «Al fine di aderire a specifica richiesta dell’Autorità giudiziaria (i pm di Perugia Gemma Miliani e Mario Formisano, ndr) pregasi voler specificare gli elementi di dettaglio indicati», scrivono i finanzieri. In ordine. «Quali siano le modalità di attribuzione dei progressivi ai singoli frammenti di conversazione, con l’interruzione di un progressivo e l’inizio di un altro e se le stesse dal sistema o dall’operatore»; «precisare il motivo per il quale la conclusione di ciascun progressivo non corrisponda alla sospensione del dialogo ma una sua interruzione, nonostante stesse proseguendo»; «precisare se, in giorni e orari di attivazione si siano verificate interruzioni nelle captazioni e, se possibile, indicarne le ragioni». Cosa si nasconde dietro questo linguaggio criptico? Molto semplice: il trojan non registra l’intera comunicazione ma a un certo punto si interrompe e poi riparte. La parte di colloquio che non viene registrata è persa per sempre. Ma non solo. A differenza delle normali intercettazioni telefoniche, numerate in stretto ordine cronologico di entrata e uscita, nel trojan la numerazione delle conversazione subisce dei “salti”. Lo strumento ha dei buchi nella cronologia, rendendo a posteriori difficile il riascolto della conversazione. Tradotto, è come leggere un libro al quale ogni tanto sono state strappate delle pagine e l’indice è stato cambiato. La domanda a questo punto è scontata: che attendibilità può avere un simile strumento investigativo? Soprattutto nelle indagini per mafia dove, a differenza dei magistrati, gli interlocutori sono notoriamente poco loquaci? Ma soprattutto: perché i finanzieri hanno aspettato il 27 luglio per chiedere a Rcs questi chiarimenti tecnici? Non si erano accorti fin dal primo giorno di utilizzo, cioè dal 3 maggio, che qualcosa non andava? Con quale criterio è stata scelta Rcs? Chi ha ascoltato le conversazioni di Palamara ha riferito che, una volta attivato, il trojan ha registrato periodi lunghi al massimo cinque minuti e venti secondi. Poi la conversazione ha avuto uno stop per ripartire quindi per altri cinque minuti e venti secondi. Le interruzioni fra una registrazione e l’altra sono denominate “chunk”. Per Rcs la loro durata sarebbe di circa un secondo, nella pratica i secondi sono venti. Un tempo molto diverso nel contesto di un dialogo. La questione non è di lana caprina. Il disciplinare a carico di Luca Palamara, che inizierà al Csm il 21 luglio, si basa quasi esclusivamente sulle risultanze dell’ascolto della conversazione avvenuta nel dopo cena del 9 maggio del 2019 con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. La Procura generale della Cassazione ha fatto ampio utilizzo di quei colloqui. E se invece mancasse qualche pezzo?

La differenza tra Palamara e gli altri magistrati? Il trojan. Mimmo Gangemi su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Luca Palamara ha sbagliato. Lo ha ammesso. Ha chiesto scusa. E ha dichiarato che non ha inventato lui il sistema delle correnti da cui è poi derivata la spartizione dei posti più o meno a cassetta, è solo stato in continuità con prassi consolidate – ed è un punto su cui dargli ragione e concedergli molto più che le generiche. Ha cominciato a fare i nomi dei beneficiati e di responsabili al pari suo di accordi di cordata, trattative, marchingegni vari, tutta roba discutibile, su cui torcere il muso, ma non perseguibile penalmente. Ha così realizzato un corto circuito di cui in fondo essergli grati, perché, a saperla cogliere, è un’occasione irripetibile di ripartenza per la barca della Giustizia, con più buchi di una padella per le caldarroste. Tra i più agguerriti, alcuni beneficiati dalla sua abilità di mediazione in un ambiente che asseconda il degrado morale della nazione. Palamara non appartiene alla folta schiera che ha ricavato avanzamenti. Si è prodigato in grazie e miracoli, ma per sé non ne ha ottenuti: infatti, alla Anm è stato eletto, fino alla carica di Presidente, e al Csm pure, in carriera no, fermo al palo. E tuttavia, annaspa nella palude limacciosa, spinto in profondità da ingrati, farisei, sciacalli, carnefici, e ci aggiungo i cannibali, che tali rimangono anche se per il pranzo umano utilizzano le posate, tutti con le facce più dure dei mostaccioli. Qualcosa tuttavia sta mutando nell’opinione pubblica e in parte della stampa: non si accontentano del capro espiatorio, se altri restano comodi a bordo a riassestare magari gli equilibri interni e le spartizioni. Si puntualizza sempre la correttezza della stragrande maggioranza della magistratura. Il termine “stragrande” mi pare esagerato, visto che per essere etichettati sporchi è bastato aver chiesto un biglietto per la partita della Roma. Dai, serietà. Siamo italiani, le verginelle indignate tacciano, il sistema delle raccomandazioni ci appartiene, è nel nostro Dna. Sfido chiunque, tranne i pochissimi in aria di santità, da meritarsi già in vita la pratica di beatificazione e una processione almeno annuale, a dimostrare che non è mai ricorso ad amici per un occhio di riguardo in ospedale, una raccomandazione a scuola per il figlio. O un’agevolazione che svantaggiava altri, come emerse, per esempio, nel concorso per uditori giudiziari del 1992, denso di ombre, poi riconosciute in seguito alla contestazione dell’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi. La verità è che la differenza tra Palamara e quelli delle altre correnti è il trojan. Lo avessero appiccicato anche a loro, avremmo ottenuto una dilatazione esponenziale, Palamara moltiplicato per il numero dei suoi colleghi – e invece fioccano le denunce, le minacce di querele. Lo mettessero a spiarci tutti, esploderebbe una guerra civile, nell’intimità ne diciamo di cazzate. Uno strumento terribile e diabolico, il trojan. Sconvolge le esistenze, uccide la dignità, trancia il diritto e la democrazia, accorcia il respiro alla libertà. Sa di regime. E troppo risente della discrezionalità di chi lo dispone. Con Palamara pare sia stato giustificato con l’ipotesi di corruzione, i 40 mila euro poi scomparsi dalle accuse, da far insorgere il dubbio che sia stata la botta del mastro, per poterlo cuocere nel pentolone. Se così, che gran figli di trojan! Questo, mentre un’avanguardia dei Pm progredisce, in carriera e in claque osannante, sulla mera apparenza, sui microfoni, sulle ribalte nazionali, spacciando un’efficienza che, alla prova dei processi, si squaglia più che la neve di maggio in bassa collina. È di martedì il risultato del processo di primo grado della decantata operazione Mandamento jonico: 66 condanne e 103 assoluzioni, con una percentuale di innocenti del 61%. Siccome è un evento che si aggiunge a quasi tutti i grandi blitz celebrati dalle cronache televisive e dai giornali, si fa più concreta l’idea che le esagerazioni rendono e non poco, con buona pace di chi incappa nella malagiustizia e con buona pace della Calabria dipinta a tinte molto più fosche di quelle che merita, Easy Jet insegna. Del resto, non può più essere un caso che da un bel po’ di anni si decolli dalla Procura Dda di Reggio per raggiungere i traguardi più prestigiosi e ambiti, pure a essere ballerine di fila. In più, a ogni operazione di polizia, corrisponde il teatrino indecoroso della spettacolarizzazione, in uscita dalla Questura: avanti uno, in manette e scortato da due poliziotti, immortalato nel percorso fino alla volante che lo tradurrà in carcere, e via libera per la sfilata del secondo, con la stessa scena, e così di seguito, con un manovratore del traffico manettaro che scandisce i ritmi della teatralità e alla fine organizza il carosello delle volanti strombazzanti in processione. Tutto in contrasto con l’articolo 114, comma 6 bis, del Codice di Procedura Penale: «È vietata la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta». Sono quindi illegali! Ma non succederà niente, mica vero che la legge è uguale per tutti. Occorre un’inversione di tendenza, drastica e subito. Altrimenti toccherà far propria la frase di una pubblicità antica: «Fermate il mondo, voglio scendere».

Antonino Monteleone, inviato de “Le Iene”, per ''il Giornale'' il 25 giugno 2020. Scopriremo col tempo se Luca Palamara è davvero un corrotto che ha asservito la sua funzione di membro del Csm in cambio di favori e utilità oppure se quella tra Luca Palamara e l'imprenditore Fabrizio Centofanti era un'amicizia contrassegnata dalla generosità del più danaroso tra i due. Di certo l'inchiesta della Procura di Perugia, che indagando su un presunto sistema corruttivo che nascerebbe in Sicilia (il cosiddetto «sistema Siracusa»), ha scoperchiato e messo a nudo il meccanismo di funzionamento dell'organo di autogoverno della magistratura italiana è destinato a segnare uno spartiacque anche nella delicata e spinosa materia delle intercettazioni. Sono necessarie alcune premesse veloci, ma importanti.

Uno: in tema di intercettazioni telefoniche e informatiche la riforma targata dall'ex ministro della Giustizia Andrea Orlando e quella, ancor più manettara, firmata dall'attuale inquilino di Via Arenula Alfonso Bonafede - e le sospensioni della sua entrata in vigore - hanno spinto perfino il pubblico ministero di Perugia Gemma Miliani a definire «magmatico» il quadro normativo in vigore.

Due: perché il lettore lo abbia chiaro: per alcuni reati non c'è più il limite che vede «nei luoghi di privata dimora» uno spazio interdetto all'orecchio delle Procure. E questo limite cade anche quando «Non vi è il fondato motivo di ritenere» che in quei luoghi si stia commettendo «attività criminosa».

Tre: non si mette in discussione l'utilità dello strumento in sé e quindi la necessità che - visto il dilagare della corruzione nella pubblica amministrazione - il «virus di Stato» possa infettare i dispositivi (computer, tablet, telefoni) di chi è sospettato di tradire la fedeltà all'istituzione servita.

Quattro: le riforme che avrebbero dovuto limitare fortemente la pubblicazione delle intercettazioni alle sole ritenute «rilevanti» non hanno impedito lo sputtanamento della vita privata di Palamara e non solo.

Ma fatte le debite premesse qui il tema è un altro: è interessante osservare «come» avviene l'infezione dei nostri apparati e leggendo le carte di Perugia appare un provvedimento molto particolare adottato dal pubblico ministero. Per infettare un dispositivo elettronico di ultima generazione, al netto di molte variabili tecniche che sarebbe superfluo elencare in questa sede, serve un «aiutino» da parte del proprietario. La polizia giudiziaria lancia l'esca e i nostri investigatori si arrovellano su come rendere appetitosa quest' esca che di solito è un link contenuto in un sms che riceviamo da un contatto che ci sembra familiare; l'allegato contenuto in una mail che riteniamo attendibile; ecc.; ma il pesce... deve comunque abboccare. Ecco nell'inchiesta di Perugia alcuni «pesci» si sono fatti furbi e non abboccano. Nemmeno Luca Palamara. Dunque si passa alle maniere forti. La Guardia di finanza, esperta in materia, suggerisce al Pm la strada da seguire: bloccare tutte le chiamate in uscita dal telefono di Palamara, dunque costringerlo - nel tentativo di risolvere il problema - ad abboccare a qualunque «esca». Il Pm chiede il permesso di infettare il telefono di Palamara, ma non dice niente al Gip, che autorizza a marzo del 2019, del metodo che gli ha suggerito la Guardia di finanza (lo scriverà in una nota a piè di pagina nella richiesta di proroga) e che intende adottare per costringere Palamara a cadere nella rete del trojan realizzato dalla società Rcs Spa di Milano. Così il 30 aprile il Pm Miliani firma il «Decreto di interruzione temporanea chiamate uscenti su apparato mobile» in pratica un ordine per il gestore Vodafone di rendere inutilizzabile il telefono di Palamara «al fine di simulare un disservizio» tramite il quale «procedere all'infezione». E Palamara, spiazzato da questo inconveniente e dopo avere tentato invano di risolvere il problema con l'assistenza clienti, non appena sul display del suo iPhone appare un pop-up che recita pressappoco così: «Rilevata anomalia chiamate in uscita, clicca qui per il reset della configurazione di rete» non ci pensa due volte, clicca e da quel momento lo smartphone non è più (solo) il suo. Bene qual è il problema? Apparentemente nessuno, ma forse c'è. La legge stabilisce per quali reati si può intercettare. Eppure niente dice sulle tecniche da adottare in materia di trojan. Tanto che persino il Garante per la privacy, Antonello Soro rivolge al Parlamento un appello a «circoscrivere l'ambito applicativo» di questo strumento sia per prevenire la «vulnerabilità del compendio probatorio, se allocato in server esteri» o, peggio, che «degenerino in strumenti di sorveglianza massiva». Chiedere al gestore telefonico, che prima si limitava ad un'opera «passiva», cioè mettere a disposizione il flusso telefonico e telematico del bersaglio, di compiere un'azione «attiva» che consiste nel simulare un malfunzionamento e interrompere le chiamate in uscita, può considerarsi una perdita di «neutralità» del fornitore del servizio che la legge dovrebbe disciplinare più opportunamente? Sembra uno scherzo del destino, ma l'effetto devastante del «virus di Stato» manifesta i suoi effetti proprio in un'inchiesta che vede al centro un magistrato e la sua rete fatta di colleghi in toga e mondo politico e che ha «sconcertato» il presidente della Repubblica potrebbe avere l'effetto di spingere a un'urgente riflessione sulla necessità che tecnologie dal potenziale illimitato siano sottoposte a limiti ancora più stringenti.

La verità di Luca Palamara: “Così funziona il potere esagerato delle Procure”. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Giugno 2020. «Posso affermare tranquillamente che sono stato io a creare il “partito dei pm”». Incontriamo Luca Palamara a Roma in un bar vicino al Csm. Sabato scorso il Comitato direttivo centrale dell’Anm ha deciso di espellerlo dall’associazione di cui è stato per quattro anni il presidente. Nella secolare storia dell’Anm non era mai successo con un suo presidente venisse espulso perché accusato di condotte gravemente lesive nei confronti dei colleghi. Dalle chat si è scoperto che decine di colleghi si rivolgevano a lui, anche quando formalmente era cessato da tutti gli incarichi, per una ottenere una nomina o un posto di prestigio. Da quello che abbiamo capito in questi mesi, la valanga che ha travolto il Csm e la credibilità della magistratura è iniziata con la convulsa successione di Giuseppe Pignatone al vertice della Procura di Roma. La nomina di Michele Prestipino è stata impugnata al Tar del Lazio dagli sconfitti: Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, e Giuseppe Creazzo, procuratore del capoluogo toscano.

Dottor Palamara, perché queste “tensioni” sulla nomina del procuratore di Roma e, in generale, ogni volta che si deve nominarne uno?

«I pm sono i “front runner” della magistratura. A torto o a ragione è così».

Cerchiamo di spiegare il perché.

«Il pm è ruolo di potere grandissimo. Rappresenta la pubblica accusa ma è un magistrato. Con tutte le garanzie e guarentigie del caso.

Autonomo e indipendente…

«Sì. E ha il controllo pieno della polizia giudiziaria. Penso che chiunque comprenda cosa significhi avere il controllo della polizia, dei carabinieri e della guardia di finanza. Vuol dire scegliere a quale forza di polizia far fare le indagini, dettarne i tempi, stabilire i criteri di priorità».

E poi ci sono i giornalisti…

«Il procuratore è l’unico titolato ad avere i rapporti con la stampa. La sapiente gestione degli organi d’informazione assicura la grancassa mediatica e la conseguente visibilità».

Dopo di lei alla presidenza dell’Anm si sono succeduti solo pm…e di ognuno di loro tutti sapevano quali indagini avessero condotto.

«Esatto».

Quando il sistema è definitivamente esploso?

«Si riferisce al potere delle correnti?»

«Nel 2007. Con la riforma dell’Ordinamento giudiziario che introdusse la temporaneità degli incarichi. Un procuratore adesso può rimanere al massimo otto anni, poi deve lasciare».

Il legislatore, conoscendo il potere del pm, ha tentato di arginarlo.

«Questa riforma trasformò i generali in soldati e i soldati in generali. Prima del 2007 una volta nominato procuratore rimanevi fino alla pensione. Con la temporaneità dell’incarico non più. Dopo aver diretto uffici importati molti non hanno voglia di tornare indietro. Oggi “comandi” e domani vai a fare il turno».

Quindi il carrierismo sfrenato è anche frutto di questa legge?

«Certo, soprattutto se si diventa procuratori da giovani. Le aspettative aumentano in maniera esponenziale. Bisogna dirlo chiaramente e non prenderci in giro. A oggi non c’è allo studio alcun sistema diverso per la nomina dei dirigenti».

Le correnti, da luogo di elaborazioni culturale, sono ora soggetti politici che si comportano come tali.

«Vuoi il mio voto? Cosa mi dai in cambio?»

Sì, questo.

«Il sistema è andato in tilt per tutti. Anche per le correnti maggiormente ideologizzate. Ovvio che se devo scegliere un magistrato per un incarico devo anche tenere conto di chi mi ha dato il voto. Cerchiamo di non essere ipocriti».

Dalle chat emerge che le correnti si impegnavano sui territori ma era fondamentale portare a casa “qualcosa”. Altrimenti non si raccoglievano i voti. Si organizzavano, ad esempio, la presentazione dei candidati al Csm all’indomani di qualche voto favorevole. Per dire: hai visto? Grazie alla corrente abbiamo ottenuto tot posti.

«È così».

Perché i magistrati non si ribellano a questo sistema infernale?

«È il sistema».

Non esiste un grande manovratore?

«No. Il sistema è ormai congegnato in questo modo. Il magistrato non ha alternative. Se non sei dentro, sei fatto fuori».

Cosa fare per le prossime elezioni Anm?

«Una candidatura senza liste contrapposte. Dare l’Associazione dei magistrati a chi non è stato nelle correnti».

Lei è accusato di aver “tramato” con i politici. Cosa dice?

«Ci sono tanti magistrati che hanno parenti politici e sono sempre rimasti al proprio posto».

La politica condiziona le nomine?

«Si riferisce a Luca Lotti? Trovate una nomina che è stata fatta su indicazione di Lotti. Al Csm i componenti togati sono il doppio dei laici. Sulle nomine il peso di quest’ultimi è relativo. Per certi incarichi poi, tipo magistrato segretario o ufficio studi del Csm, sono solo le correnti, in base ai rapporti di forza, a decidere».

Comunque lei è indagato per corruzione. Ed è fra le prime “vittime” del trojan.

«Che cosa ha scoperto il trojan? Nulla. Chiediamoci invece come ha funzionato».

Si riferisce alla registrazioni ad intermittenza?

«».

Perché?

«Dovranno spiegarlo».

Sa che il suo destino è segnato?

«Mi difenderò fino alla fine».

Il giallo del trojan di Palamara, buchi neri e trascrizioni sbagliate…Paolo Comi su Il Riformista il 14 Giugno 2020. Chi sono i marescialli della guardia di finanza che hanno gestito il funzionamento del trojan installato nel telefono di Luca Palamara? La richiesta è stata fatta questa settimana ai pm di Perugia Gemma Miliani e Mario Formisano, titolari del fascicolo aperto a carico dell’ex presidente dell’Anm, dai difensori di quest’ultimo, gli avvocati romani Benedetto Marzocchi Buratti e Roberto Rampioni. Non si tratta di una curiosità fine a sé stessa ma della probabile “chiave di volta” dell’indagine effettuata con lo strumento investigativo – costosissimo, circa 4000 euro al giorno – tanto desiderato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. Andiamo con ordine. Il trojan, il virus spia che trasforma il cellulare in un registratore, a differenza delle tradizionali intercettazioni telefoniche che registrano in automatico ogni telefonata in entrata e/o in uscita sull’utenza interessata, deve essere attivato manualmente. Da quello che è emerso, per le circa tre settimane di maggio dello scorso anno durante le quali lo strumento è stato in funzione, le attivazioni avvenivano nella fascia oraria del mattino, del pranzo, della sera. Il motivo? Secondo gli investigatori erano queste le ore dove Palamara era solito avere molti contatti. La pg delegata da Perugia all’ascolto era il Nucleo di polizia economico-finanziaria (Gico) della guardia di finanza di Roma. Nel 2019 il Nucleo era comandato dal colonnello Paolo Compagnone. Fra i suoi collaboratori, il colonnello Gerardo Mastrodomenico. Compagnone è adesso il comandante provinciale della gdf di Roma. Mastrodomenico, invece, è diventato il comandante provinciale di Messina. Le attività furono svolte nella caserma romana di via Virginio Talli. Il trojan, una volta attivato, registra al massimo per cinque minuti e venti secondi. Poi si interrompe e riparte per altri cinque minuti e venti secondi. Secondo la società che ha affittato alla Procura di Perugia il trojan, la Rcs di Milano, fra una registrazione e l’altra l’interruzione, il “chunk”, è di circa un secondo. Invece, con grande sorpresa dei difensori di Palamara che stanno procedendo in questi giorni all’ascolto delle registrazioni, la durata dei chunk è di oltre venti secondi. Un tempo interminabile in un colloquio fra persone. Fatta questa premessa, vediamo qualcuno degli interrogativi degli avvocati di Palamara. Uno di questi è capire perchè il trojan non venne spento in occasione degli incontri programmati dell’ex componente del Csm con i parlamentari. Erano stati gli stessi pm umbri, in una nota, a dare indicazioni di spegnere il captatore ogni qualvolta fosse coinvolto un parlamentare. Ed invece, ad esempio, la cena di Palamara del 28 maggio con i deputati del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti è stata registrata per intero. E restando in tema, il 9 maggio Palamara aveva fatto sapere che avrebbe cenato al ristorante romano Mamma Angelina con Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino. Dalle 16 del pomeriggio il trojan risulterà spento. Si riattiverà solo l’indomani mattina. Come mai visto che era nella fascia selezionata dalla finanza? A quella cena con Palamara, si è poi saputo, non partecipò Prestipino ma l’ex procuratore di Roma e il giudice Paola Roja, presidente della sezione penale reati contro la PA, con i rispettivi compagni. Ed ancora. Il maresciallo che ha gestito l’accensione e lo spegnimento del trojan è lo stesso che poi ha effettuato la trascrizione della conversazione? Diverse trascrizioni sono differenti dall’audio. C’è il caso dell’ex consigliere del Csm Corrado Cartoni di Magistratura indipendente. I giornali lo scorso anno pubblicarono delle sue frasi, relative ad una importante pratica della Prima Commissione ed a quella della nomina della Procura di Roma, mai pronunciate.

I quotidiani, poi denunciati da Cartoni e condannati, si sono basati sulla trascrizione del maresciallo rivelatasi errata.

Il 16 luglio è prevista a Perugia l’udienza stralcio. Gli avvocati di Palamara indicheranno quali colloqui trascrivere. Si preannunciano sorprese.

FIGLI (E FIGLIASTRI) DI TROJAN.  Giandomenico Caiazza, Presidente Unione Nazionale Camere Penali Italiane,  il 12 Giugno 2020 su Il Corriere del Giorno. Ordinanze di custodia cautelare e connessi massacri mediatico-giudiziari letteralmente costruiti su frasi mai pronunciate, su parole mai dette, su trascrizione farlocche . Verrà un giorno (e mi sa che ci stiamo avvicinando a larghi passi) che anche gli idolàtri delle manette capiranno di quale materia tossica sia fatto il leggendario trojan, cioè un microfono perennemente acceso a registrarti la vita, per settimane o per mesi. Il Direttore Marco Travaglio ha dedicato un suo scoppiettante articolo di fondo ad alcuni inconvenienti occorsi agli inquirenti nell’uso del trojan inoculato nel cellulare del dott. Luca Palamara. I faziosi, si sa, funzionano come gli orologi rotti; un paio di volte al giorno capita anche a loro di segnare l’ora esatta. Ed è questo il caso, perché ciò che Travaglio ha scritto, in sé considerato merita senz’altro attenzione. Racconta, il Nostro, una serie di coincidenze che gli appaiono meritevoli di un serio approfondimento. In sostanza, quando il dott. Palamara programma l’incontro a cena con l’allora Procuratore capo di Roma dott. Pignatone, il trojan improvvisamente smette di funzionare un attimo dopo la telefonata di conferma dell’appuntamento, e dunque dalle quattro del pomeriggio fino alla tarda serata (anche se il dott. Palamara viene invece regolarmente intercettato al telefono mentre la spia ambientale risulta in panne). E quando, in altre occasioni, il leader di Unicost fa il suo nome, gli agenti di polizia giudiziaria addetti all’ascolto non sentono o trascrivono fischi per fiaschi. In un caso, siamo alle comiche: Palamara, secondo quegli agenti, avrebbe detto non “Pignatone” ma “carabinierone”, una parola senza senso che non ti verrebbe in mente di pronunciare nemmeno sotto effetto di potenti allucinogeni. Lo stesso, ci racconta Travaglio, sembrerebbe accadere quando le chiacchierate sfiorano il Colle.

Bene, si vedrà dove va a parare questa storia; ma l’incanto di Travaglio che esprime un sennato pensiero critico su una operazione investigativa, come per gli orologi rotti di cui si diceva, svanisce qui. È infatti semplicemente ridicolo che si scoprano i danni del trojan, dopo averne per anni esaltato con un tifo da stadio le virtù poliziesche, civiche e salvifiche, solo quando fa comodo, per esempio quando questo aiuti a sparare a palle incatenate contro il dott. Pignatone (sono le guerre private del Direttore e delle sue milizie: auguri). D’altronde, siamo sicuri, Direttore, che questi improvvisi mancamenti tecnici abbiano riguardato, nella inchiesta perugina, solo il Procuratore capo di Roma? Verrà un giorno (e mi sa che ci stiamo avvicinando a larghi passi) che anche gli idolàtri delle manette capiranno di quale materia tossica sia fatto il leggendario trojan, cioè un microfono perennemente acceso a registrarti la vita, per settimane o per mesi. L’illusione che in tal modo, ascoltandoti anche nella più inviolabile intimità, si possa apprendere “la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”, è -appunto- tipica del pensiero rozzo e becero del manettaro, abituato a semplificare il mondo in buoni (categoria alla quale ovviamente si auto-iscrive) e cattivi (gli altri). Al contrario, questo ascolto ossessivo, voyeuristico, onnivoro della vita altrui restituisce un materiale proteiforme, indistinguibile, tossico, nel quale è più facile che una indagine si strozzi ed affoghi. Nessun essere umano, infatti, colto nella sua totale, incontrollata libertà di dire tutto ciò che gli passi per la mente, resta immancabilmente fedele alla verità. Non siamo i pubblici ufficiali della nostra vita e del nostro pensiero, idioti che altro non siete. Nel fluire incontrollabile della nostra giornata, raccontiamo, millantiamo, confessiamo, alteriamo, coloriamo, deformiamo la verità ad ogni piè sospinto, per convenienza, per pudore, per vanità, per liberarci da un seccatore, per nascondere un segreto, per provocare una reazione nel nostro interlocutore, per sondare sentimenti ed opinioni, per suscitare stupore, ammirazione, polemica, curiosità. Vai poi a distinguere il grano dal loglio, se sei capace. Questo già vale nelle conversazioni telefoniche, dove tuttavia siamo istintivamente più sorvegliati, più guardinghi, più attenti. Ma nella libertà ambientale assoluta delle 24 ore, produciamo un materiale affabulatorio che solo una ossessiva ottusità manettara può immaginare sia utilizzabile alla stregua del verbale di un consiglio di amministrazione. E infatti già leggiamo dalle cronache impazzite del soi disant “caso Palamara” che, ohibò, se il magistrato da un certo giorno ha saputo di essere spiato dal trojan, vuoi vedere che sparge veleni e trappole in quelle sue conversazioni? Dice la verità, o depista? Ai posteri l’ardua sentenza. Se poi un trojan d’improvviso smette di funzionare, beh cosa vuoi? Non pretenderai che funzioni 24 ore su 24, ci sono i cali di corrente, le onde radio, le scie chimiche, vattelapesca perché. Quanto agli errori di trascrizione da parte della Polizia Giudiziaria, suvvia Direttore Travaglio! Se ci dà spazio sulle colonne del suo giornale noi avvocati penalisti gliele riempiamo di aneddoti a migliaia. Ci dovrebbe dedicare almeno due paginoni al giorno. Ordinanze di custodia cautelare e connessi massacri mediatico-giudiziari letteralmente costruiti su frasi mai pronunciate, su parole mai dette, su trascrizione farlocche a fronte delle quali “carabinierone” è un sussurro familiare, un plausibile equivoco.  Dunque si decida, Direttore; se le piace l’aggeggio, le tocca tenerselo -come si dice a Roma- con tutto il cucuzzaro. O con tutto il “carabinierone”, se preferisce.

Trojan per tutti. Cosa prevede il dl intercettazioni, trojan ovunque e articolo 15 della Costituzione calpestato. Giorgio Spangher de il Riformista il 19 Febbraio 2020. La maggioranza ha trovato l’accordo, dopo una giornata di forti tensioni, sulle modiche introdotte al dl n°131 del 2019 in tema di intercettazioni telefoniche con cui erano state modificate le previsioni in materia introdotte dal dlgs n° 216 del 2017 in attuazione della legge delega di cui alla legge n°103 dello stesso anno. Già questi riferimenti chiariscono il travaglio che ha interessato e continua a interessare la disciplina delle captazioni. Nella formulazione approvata in commissione il termine fissato dalla decretazione di urgenza inizialmente fissato nel 2 marzo è stato ulteriormente prorogato di due mesi in linea con le richieste del Csm. Che peraltro aveva chiesto un termine più lungo. Si tratta dell’ennesima proroga che tuttavia in questo caso si inserisce in una autentica controriforma del dlgs 216 del ministro Orlando. Il primo dato che emerge dalla riscrittura della disciplina riguarda la riassegnazione ai pubblici ministeri del controllo sulle intercettazioni, sulla loro rilevanza ai fini investigativi, sull’archivio, sui tempi del diritto della difesa di venire a conoscenza del loro contenuto e del diritto di copia sottraendolo alla polizia giudiziaria che si limiterà alle esecuzione delle attività di captazione e di ascolto. L’ulteriore elemento significativo è il completamento della parificazione dei reati dei pubblici ufficiali e ora anche degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione con i reati di criminalità organizzata sia con riferimento ai presupposti sia in relazione alla captazione tra presenti sia in relazione ai provvedimenti d’urgenza sia in relazione con i luoghi dove è consentito l’uso del captatore informatico. Il solo riferimento all’attività di captazione oblitera tutte le altre funzioni del trojan che continuano a mancare di una specifica disciplina pur nella loro riconosciuta invasività e nel grave pregiudizio arrecato ai diritti costituzionalmente garantiti della persona. Una disciplina particolare è prevista per le intercettazioni poste a fondamento di una misura cautelare. Nonostante l’abrogazione della previsione che consentiva al difensore di fare la trasposizione su nastro delle registrazioni deve ritenersi operante la declaratoria di incostituzionalità che consente alla difesa di chiedere all’accusa copia delle registrazioni poste a fondamento dell’ordinanza mentre resta incerta la conoscenza delle intercettazioni che il Gip ha ritenuto irrilevanti ancorché trasmesse con la richiesta cautelare. Deve invece escludersi l’accesso all’archivio per l’ascolto di quanto depositato. L’aspetto fortemente critico e inaccettabile – stando a quanto era emerso ieri dall’emendamento Grasso poi solo in parte modificato con un subemendamento – è costituito non solo dalla possibile utilizzazione delle intercettazioni per un fatto che non avrebbe consentito l’intercettazione perché non ricompreso fra i reati per i quali l’intercettazione è consentita. E ancora, in mancanza dei presupposti per l’autorizzazione (gravi indizi e assoluta necessità della prosecuzione delle indagini) anche dall’ampliamento della cosiddetta pesca a strascico. A conferma che non c’è niente da fare e che le logiche punitive non si fermano neppure a fronte delle sentenze delle sezioni unite appena pubblicate (2 gennaio) si è cercato di modificare la disciplina dell’utilizzabilità delle captazioni in un diverso procedimento superando il vincolo della commissione. La mediazione raggiunta è insoddisfacente perché i due vincoli indicati (reati intercettabili e arresto in flagranza) consentono una piena utilizzazione probatoria che consente di avviare l’attivita investigativa per un reato e acquisire elementi di altri reati del tutto estranei all’attività di indagine. Ancora più grave quanto previsto con l’uso del captatore attivato per reati di criminalità organizzata e per i reati contro la pubblica amministrazione che consente di usare come prova i risultati dell’intercettazione per qualsiasi altro reato di criminalità organizzata e di criminalità economica. Si consideri cosa tutto ciò può significare con riferimento a intercettazioni ambientali in qualsiasi posto effettuate, compresi i luoghi di privata dimora. È difficile non vedere in queste norme un pesante pregiudizio per i diritti costituzionalmente garantiti che mettono a rischio la riservatezza del domicilio anche perché non c’è garanzia di diffusione di quanto captato anche se estraneo alle indagini e riguardante dati soggettivamente sensibili.

ARTICOLO 15 – La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 26 febbraio 2020. Mentre non si esaurisce la polemica sulla abolizione della prescrizione, che è un regalo all' ingiustizia, il Parlamento dà il via libera al cosiddetto Trojan (potevano trovare un nome migliore, per esempio Putan), una diavoleria tecnologica applicando la quale è possibile spiare chiunque sia dotato di un cellulare. Ignoro come esattamente funzioni, ma dicono che nelle mani degli investigatori si trasformi in un' arma letale idonea a ridurre la privacy in una polpetta retorica. Prepariamoci al peggio, che è già cominciato, visto che Italia Viva, pur essendosi dichiarata garantista in materia giudiziaria, ha votato a favore del provvedimento liberticida. Complimenti vivissimi. Della vicenda riguardante le intercettazioni si discute da lustri, intanto esse vengono utilizzate praticamente in ogni indagine come se fossero, e non sono, affidabili. La lotta tra chi le vuole eliminare e chi incrementare vede prevalere immancabilmente la categoria opportunamente definita dei manettari. Di costoro ora assistiamo al trionfo propiziato dagli esultanti figli di Trojan. In sostanza si consegna ai pm un ennesimo mezzo per inchiodare, magari a casaccio, i cittadini. Anziché puntare a ottenere una giustizia più umana e depenalizzare i reati bagattellari, punendoli con un calcio nel sedere e non con una coltellata alla gola, si forniscono ai magistrati altri strumenti per esercitare il loro strapotere. I politici, quasi tutti, sono più portati a consegnare alle toghe strumenti di tortura sempre più raffinati, che non ad aiutare gli italiani a non subire eccessi giustizialisti, dimostrando in modo eclatante di fottersene del bene comune. L' ultima cosa che sta a cuore a deputati e senatori, specialmente della maggioranza, è il nostro benessere. Poi si stupiscono che la gente preferisca andare al mare che a votare. Ma stiano attenti perché la pazienza ha un limite oltre il quale può scoppiare un casino.

Trojan, telefonini spiati dalle aziende private. Lo Stato affida all'esterno le intercettazioni e l'uso del virus. Concreto il rischio manipolazioni. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 12/02/2020 su Il Giornale. Nonostante le grida di allarme di magistrati, avvocati e addetti ai lavori, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non sembra voler fare passi indietro: a meno di sorprese, dal primo marzo troverà piena applicazione la nuova norma sulle intercettazioni. Una decisione che, dopo gli scontri sulla prescrizione, provoca altre fibrillazioni nella maggioranza: i renziani sono infatti pronti a presentare emendamenti al dl per limitare l'utilizzo dei trojan. Alzando così il livello dello scontro. Ieri in commissione Giustizia al Senato sono stati ascoltati funzionari della Giustizia per cercare di dipanare le «comprensibili preoccupazioni» sull'avvio del «Grande fratello» di Stato. Dal ministero sono arrivate rassicurazioni sul «bilanciamento tra esigenze investigative, diritto di difesa e privacy». Eppure restano diverse questioni irrisolte. Il tasto dolente riguarda l'uso dei trojan. Si poteva affidare allo Stato l'intero processo di intercettazione e invece si è preferito ricorrere ai privati, con evidenti rischi in tema di segretezza, fuga di notizie e rispetto della privacy. Chi vigilerà, ad esempio, affinché gli invasivi virus-spia non vengano usati per «caricare» materiale nei dispositivi all'insaputa del proprietario? Semplice: nessuno. Il ministero se ne lava le mani, spostando la responsabilità sulle aziende. Qualora facessero un uso distorto del virus, i responsabili verrebbero indagati e magari condannati. Ma non esiste un controllo «preventivo», se non un meccanismo tecnico che (pare) permetterà ai procuratori di verificare le attività realizzate dalle ditte sui server. La questione è tecnica, ma sostanziale. Il ministero infatti ha ammesso che «l'immodificabilità» dei dati è garantita solo dopo che le società avranno riversato i file sui server statali. Tradotto: per quel che succede prima si confida che le leggi siano rispettate. Sia chiaro: anche oggi il sistema funziona più o meno così. La differenza però è che per il futuro non si parla più solo di semplici intercettazioni ambientali, bensì dell'utilizzo di trojan capaci di trasformarsi in uno strumento di «sorveglianza massiva dei cittadini». Un enigma avvolge poi il trasferimento dei dati. Le ditte avevano messo a verbale «l'impossibilità» di «conferire in originale» le intercettazioni dai server delle società a quelli di Stato, col rischio che non si possano considerare «autentiche». La relazione consegnata ai senatori, però, è stata rivista nella versione destinata al pubblico. Perché? Mistero. Al posto della parola «impossibile» fa infatti capolino un più edulcorato «difficoltoso» che permette al ministero di liquidare come «eccessivi» i timori delle ditte. Infine, il nodo segretezza. Il ministero assicura che le norme obbligano già le società-spia a cancellare le intercettazioni «alla cessazione» del contratto. Il problema è che i diretti interessati sostengono che la legge abbia grosse lacune e che, secondo il procuratore Bruno Cherchi, «non vi sono sistemi di controllo» per accertarsi dell'avvenuta cancellazione. Alla faccia della privacy.

Trojan horse, ecco come ci intercettano minuto per minuto. Voltaire de Il Riformista 9 Novembre 2019. Si chiamano “trojan horse“. E hanno cambiato per sempre le nostre vite. Installati sui nostri telefonini e computer, a nostra insaputa, sono in grado di monitorare qualsiasi conversazione, chat, pagina web visitata. E di violare così la nostra privacy. In teoria i magistrati dovrebbero utilizzarli soltanto in presenza di reati gravi, come mafia o terrorismo. Ma nella pratica le spie informatiche sono diventate le chiavi d’accesso per controllare le nostre vite. Il costo delle intercettazioni è la voce più rilevante delle spese degli uffici giudiziari: 169 milioni su 193,6 milioni destinati dal bilancio dello Stato alle spese di giustizia. Più delle metà dei costi è concentrata in cinque distretti: Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Milano e Roma. Il numero totale delle intercettazioni telefoniche, ambientali e telematiche è di 180.000.

1. Nel mese di maggio scorso, la Procura di Perugia trasmette al Consiglio Superiore della Magistratura i verbali di conversazioni intercettate tra magistrati, componenti del Csm e politici aventi a oggetto il futuro assetto delle nomine dei principali uffici giudiziari. Nonostante la loro segretezza, le conversazioni intercettate con il virus informatico denominato trojan horse vengono interamente pubblicate dagli organi di stampa che parlano di “suk delle nomine“. Come immediata conseguenza i consiglieri coinvolti si dimettono e l’originario assetto del Csm viene totalmente stravolto. Terminata l’eruzione vulcanica della vicenda in questione, rimangono aperte alcune questioni nodali che prescindono dall’inchiesta di Perugia e riguardano la vita delle persone, la sicurezza dello Stato, la garanzia delle istituzioni nonché l’individuazione della normativa applicabile.

2. Il progresso delle tecnologie di captazione delle conversazioni permette di sottoporre l’individuo a un penetrante controllo sulla sua vita che si estende ai luoghi di privata dimora e ai soggetti che stanno vicino alla persona intercettata, senza escludere la possibilità che questi ultimi a loro volta possano essere titolari di immunità e di garanzie costituzionali. Il trojan si sta dimostrando un formidabile strumento per combattere mafia, terrorismo e corruzione ma come tutti gli strumenti innovativi deve essere maneggiato con cura soprattutto quando incide su diritti costituzionalmente tutelati. Vale la pena ricordare che per la compressione di diritti considerati inviolabili, quale deve essere considerata la possibilità di comunicare liberamente, le moderne costituzioni esigono una riserva di legge e una autorizzazione giudiziale nel rispetto del principio di proporzionalità. La mancata osservanza di queste garanzie procedurali va, pertanto, considerata come violazione di un divieto (implicito) di acquisizione del dato probatorio. Il rischio, ragionando diversamente, è quello di lasciare alla polizia ampi spazi di iniziativa informale e atipica, con l’uso di strumenti invasivi della sfera intima della persona.

3. Telefono cellulare, tablet e anche notebook sono diventati oggetti che accompagnano ogni nostro movimento e ci seguono in ogni luogo. Ma come si infetta realmente uno di questi oggetti? Sono gli stessi giudici della Cassazione, nella importantissima sentenza Scurato del 2016, a descrivere le caratteristiche tecniche e informatiche del trojan horse precisando che si tratta di un programma informatico installato in un dispositivo del tipo target (un computer, un tablet o uno smartphone) di norma a distanza e in modo occulto, per mezzo del suo invio con una mail, un sms o un’applicazione di aggiornamento (nel caso dell’inchiesta perugina notizie di stampa parlano addirittura di un blocco di funzionamento del telefono da parte del gestore). Il software è costituito da due moduli principali: il primo (server) è un programma di piccole dimensioni che infetta il dispositivo bersaglio; il secondo (client) è l’applicativo che il virus usa per controllare detto dispositivo. L’utilizzo di questo programma informatico consente in via principale di attivare il microfono e, dunque, di poter apprendere per tale via i colloqui che si svolgono nello spazio che circonda il soggetto che ha la disponibilità materiale del dispositivo. Oltre alla attivazione del microfono sono possibili numerose e diverse attività tra cui:

– captare tutto il traffico dati in arrivo o in partenza dal dispositivo «infettato» (navigazione e posta elettronica, sia web mail che outlook);

– mettere in funzione la web camera, permettendo di carpire immagini;

– perquisire l’hard disk e di fare copia, totale o parziale, delle unità di memoria del sistema informatico preso di mira;

– decifrare tutto ciò che viene digitato sulla tastiera collegata al sistema (keylogger) e visualizzare ciò che appare sullo schermo del dispositivo bersaglio (screenshot);

– sfuggire agli antivirus in commercio.

Si tratta di attività che però nel nostro ordinamento non possono essere effettuate perché la legge di riforma in materia (c.d. legge Orlando) si è imposta una sorta di self restraint limitandosi a “disciplinare le intercettazioni di comunicazioni fra presenti mediante immissione di captatori informatici”, come testualmente recita la direttiva delegante contenuta nell’art. 1, comma 84, lett. e) legge 23 giugno 2017 n.103.

4. L’utilizzo del trojan impone allo Stato di mettere in sicurezza i sistemi informatici onde evitare che la rilevante mole di informazioni acquisite possa poi essere utilizzata per finalità estranee alle indagini. Infatti, i dati raccolti sono trasmessi, per mezzo della rete internet, in tempo reale o a intervalli prestabiliti, ad altro sistema informatico in uso agli investigatori. Lo Stato ha deciso di affidare questa attività ad aziende private, proprietarie dei software oppure solo locatarie, con azionisti noti o addirittura in alcuni casi con dei prestanome (in un caso figurava essere titolare dell’azienda la moglie di un poliziotto). Milena Gabanelli sul Corriere della Sera del 14 luglio del 2019 ha lucidamente fotografato la situazione evidenziando che le imprese del settore sono 148, dotate in alcuni casi di management di livello, ma in altri casi anche senza dipendenti. Alcune delle più attrezzate aziende del comparto hanno un fatturato che oscilla tra i 20 ed i 30 milioni come la Rcs (che si legge nel sito opera dal 1993 nel mercato mondiale dei servizi a supporto dell’attività investigativa) la Innova, la Ips, la Loquendo. Negli altri casi si tratta di piccole imprese che fatturano centinaia di migliaia di euro e a sostanziale conduzione familiare. È incredibile apprendere che tali aziende possano operare senza che sia richiesta alcuna specializzazione, certificazione o selezione da parte del ministero della Giustizia e non siano sottoposte ad alcun controllo. La loro scelta è rimessa a una libera valutazione degli uffici di Procura che a loro volta ricevono “suggerimenti” da parte della polizia giudiziaria. Recenti casi giudiziari, tra tutti il caso Exodus, hanno riproposto l’enorme numero di problematiche. Come noto nel caso delle intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria devono essere selezionati solamente le conversazioni rilevanti per provare che un reato è stato commesso (questo almeno in teoria perché nella pratica non accade questo; ci sono stati addirittura casi in cui i giornali hanno pubblicato il numero di telefono di persone estranee al delitto). Nel caso del trojan non è dato sapere se una volta trasmessi agli uffici inquirenti i dati continuano a rimanere sulla rete informatica, sovente oggetto di hackeraggio, dell’azienda privata. Nessuna disciplina è dettata al riguardo. Giustamente i più importanti Procuratori d’Italia invocano che il ministero della Giustizia assuma un ruolo guida nella materia in questione.

5. Il costo delle intercettazioni è la voce più rilevante delle spese degli uffici giudiziari: 169 milioni su 193,6 milioni destinati dal bilancio dello Stato alle spese di giustizia. Più delle metà delle spese è concentrata in cinque distretti: Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Milano e Roma. Il numero totale delle intercettazioni telefoniche, ambientali e telematiche è di 180.000. Le intercettazioni telefoniche rappresentano per numero dei bersagli l’80% del totale (130 mila).

6. Ultimo nodo è quello di individuare la normativa realmente applicabile ai trojan horse soprattutto se le conversazioni intercettate avvengono in un bar, in un ristorante in una casa e i reati per cui si procede non sono di mafia o di criminalità organizzata. Fino al 2017, l’utilizzo del trojan non era normativamente previsto e la giurisprudenza aveva inquadrato l’impiego dello strumento in questione nell’art. 266, comma 2, c.p.p. come mezzo di «intercettazione ambientale», la cui «natura itinerante» induceva a escludere «la possibilità di compiere intercettazioni nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., […] non potendosi prevedere, all’atto dell’autorizzazione, i luoghi di privata dimora nei quali il dispositivo elettronico verrà introdotto, con conseguente impossibilità di effettuare un adeguato controllo circa l’effettivo rispetto del presupposto, previsto dall’art. 266, comma 2, c.p.p. che in detto luogo si stia svolgendo l’attività criminosa» (Sez. Un., 28 aprile 2016, n. 26889, cit.). Tale regola subiva la sola eccezione, prevista dall’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, con riferimento alle indagini per i «delitti di criminalità organizzata» (oltre che per il delitto «di minaccia col mezzo del telefono»), in relazione ai quali è già stato da tempo previsto che, in presenza di indizi sufficienti (e, quindi, non gravi, come ora prescritto dall’art. 267 c.p.p.), si possa procedere alle necessarie (e quindi non assolutamente indispensabili) intercettazioni di scambi comunicativi intrattenuti tra presenti anche nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. pur in assenza di una attività criminosa ivi in corso. È intervenuto successivamente il d.lgs. n.216 del 2017 (meglio noto come riforma Orlando) che:

ha codificato per la prima volta l’utilizzabilità del captatore informatico per l’intercettazione tra presenti (art. 266, comma 2, primo periodo) mantenendo ferma la regola (sancita per tutte le forme di intercettazione ambientale) per cui la captazione nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. è consentita soltanto se vi è fondato motivo di ritenere che ivi sia in corso l’attività criminosa;

ha reso «sempre possibile» l’intercettazione ambientale mediante captatore informatico nei «procedimenti per i delitti di cui all’articolo 51, comma 3 bis e 3 quater» c.p.p. (art. 266, comma 2 bis);

ha esteso il regime delle intercettazioni cd. “antimafia”, previste dal citato art. 13 d. 1. n. 152 del 1991, ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni (art. 6, comma 1) specificando però che in caso di utilizzo del captatore informatico, è vietato effettuarle nei luoghi di privata dimora e assimilati in assenza di motivi per ritenere in corso di svolgimento l’attività criminosa (art. 6, comma 2);

ha introdotto una disposizione transitoria che differisce l’entrata in vigore delle disposizioni di cui all’art. 266 comma 2 bis al 1 gennaio 2020 (art.9) mosso dalla condivisibile preoccupazione che all’interno degli uffici di Procura venissero introdotti i requisiti minimi di sicurezze per gestire il materiale intercettato.

In questo complesso quadro normativo è infine intervenuta la cd. “Spazzacorrotti“, che ha abrogato il secondo comma del citato art. 6 d. lgs. n. 216 del 2017 e ha integrato l’art.266 comma 2 bis stabilendo che l’impiego del captatore nei luoghi di privata dimora e assimilati è «sempre possibile» pur in assenza di motivi per ritenere che vi sia in atto lo svolgimento dell’attività criminosa, anche per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Tuttavia la novità qui descritta (pur essendo la legge in esame in vigore dal 31 gennaio 2019) opererà solo in relazione «alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 1° gennaio 2020, visto che non risulta abrogata la normativa transitoria del d.l.vo 216/17 in quanto nel frattempo gli ammodernamenti degli uffici di Procura per la gestione del materiale intercettato non sono stati realizzati. Quale dunque la normativa applicabile? Dal quadro delineato emerge che la disciplina dell’uso del captatore informatico per i delitti di criminalità organizzata e dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. sembrerebbe non ancora in vigore. Allo stato attuale il ricorso al trojan è dunque possibile operando una sorta di mix tra giurisprudenza creativa (i termini della sentenza Scurato che nel 2016 ha inteso «anticipare» una riforma in itinere; riforma che oggi prefigura contenuti, almeno in parte, diversi) e una fonte normativa che ha sì già abrogato l’art. 6, 2° comma, d. lgs. n. 216 del 2017, ma che ancora attende l’entrata in vigore degli artt. 266 e 267 cpp —disposizioni, per così dire, portanti— che dovranno disciplinare il processo autorizzativo della medesima «pratica investigativa”. Conclusivamente il tema della specifica tutela delle conversazioni che avvengono in luoghi di privata dimora è ancora quanto mai attuale, quando si procede per i reati che non sono di criminalità organizzata. 

Trojan, l’ultima beffa che cancella la privacy. Valeria Valente de Il Riformista 24 Dicembre 2019. Ci sono temi su cui il confronto politico rappresenta il termometro della società, del suo stato di salute e, quindi, anche della sua febbre. La giustizia è uno di questi, ancora di più quando si parla di prescrizione e intercettazioni. Non deve sorprendere allora che il dibattito di queste settimane, tornato prepotentemente su questi due temi, sia ampio, plurale e franco. Nessuno può considerare la discussione di questi giorni un intralcio al processo legislativo, tanto più quando la richiesta di approfondimento proviene da voci autorevoli della magistratura e dell’avvocatura che ne sono direttamente interessate. La disciplina sulle intercettazioni, approvata sabato in Consiglio dei ministri e che entrerà in vigore a marzo, dimostra che questo percorso può essere condotto con senso di responsabilità. Troppe volte in questi anni abbiamo denunciato l’uso distorto delle intercettazioni come clava per la delegittimazione pubblica di persone che magari neanche erano coinvolte nelle indagini. E troppe volte la politica su questo punto è stata ipocrita, perché in quella enorme stortura ci trovava un modo facile per aumentare il consenso. D’altronde, già il fatto che per 18 mesi il precedente governo avesse congelato queste norme, fa capire che senza il Pd probabilmente oggi avremmo una nuova proroga a non si sa quando. Io resto convinta che quello per cui non può diventare pubblico ciò che non è penalmente rilevante e ha invece a che fare con i contesti, i comportamenti leciti, le idee e i giudizi sia un sacrosanto principio di garanzia liberale. Vedremo se con le nuove norme questo rischio sarà scongiurato o servirà proseguire su questa strada. Ad esempio, mi sembra una mediazione equilibrata l’attribuzione al pubblico ministero del controllo affinché nei verbali non finiscano contenuti offensivi e lesivi estranei ai fini delle indagini. Così come è positiva anche la possibilità per il difensore di accedere alle operazioni captative. Sinceramente, mi sembra molto meno accettabile l’ulteriore estensione dell’uso del trojan. Si prevede che nello stesso procedimento il materiale acquisito possa essere utilizzato anche per reati diversi da quelli per i quali c’è l’autorizzazione all’intercettazione. Stiamo parlando del più invasivo strumento nei confronti di una persona. E molto spesso se ne parla senza tenere conto del serio problema di bilanciamento tra efficienza investigativa e rispetto delle garanzie. Su questo punto credo che ci sia stato un passo indietro rispetto al testo originario del decreto Orlando del 2017 e immagino che il Parlamento vorrà esprimersi nelle prossime settimane. Va detto però che sulle intercettazioni il Partito democratico ha dimostrato ragionevolezza e responsabilità, accogliendo le osservazioni espresse da alcune procure e avvocatura. Mi chiedo se su prescrizione e durata del processo stia accadendo lo stesso da parte del Movimento 5 Stelle. Qualcuno, anche nella maggioranza, si è stupito che il Pd sollevi forti criticità sulla prescrizione a firma Bonafede e chieda una soluzione equilibrata sulla giusta durata del processo che quella norma non garantisce affatto. Io francamente mi stupisco di chi si stupisce. Nel gennaio 2019, la legge meglio nota come “spazzacorrotti” ha introdotto il blocco del corso della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado, indipendentemente dall’esito, sia esso di condanna o assoluzione. Lo ha fatto con uno strano meccanismo “ora per allora”, e cioè differendo la sua entrata in vigore al 1° gennaio 2020, in modo tale da poter approvare nel frattempo una revisione di sistema del processo penale in grado di garantirne la ragionevole durata. All’epoca il Partito democratico votò contro quella norma, per il merito e per il metodo, sollevando persino una pregiudiziale di costituzionalità, con ottime motivazioni che credo rimangano in piedi. Infatti, aprire di fatto all’imprescrittibilità dopo la sentenza di primo grado, significa dare un colpo fatale agli equilibri di uno stato di diritto, dove la pretesa punitiva dello stato ha dei limiti e non è una cappa a cui siamo tutti sottoposti fino a che non si dimostri la propria innocenza. Ma oltre a ciò, questa riforma non risolverà il problema che dice di voler curare, e cioè i tempi del processo, dato che la grandissima parte delle prescrizioni giungono in primo grado, e di queste molte durante le indagini preliminari. Così come le richieste di giustizia delle vittime, e i loro risarcimenti, non saranno soddisfatti meglio, come invece sento dire, dato che l’allungamento prevedibile dei processi interferirà anche sulla celerità delle risposte a chi ha subito un reato o patito un danno. Queste erano le ragioni del nostro no di un anno fa, valide ancora di più oggi. Perché? Semplice. Fra pochi giorni quella norma diventerà legge senza che nel frattempo da via Arenula sia arrivata una chiara proposta organica sul processo penale. Un anno fa il M5s e il ministro Bonafede avevano spostato in avanti la prescrizione considerando essenziale farla precedere dalla riforma del processo, che ne dovrebbe garantire la durata ragionevolmente breve. Oggi che però sul processo non c’è nulla, la prescrizione resta comunque in piedi. Dove sta la coerenza? Eppure il ministro della Giustizia è lo stesso di un anno fa.

I dati di quasi 8 miliardi di persone passano nei cavi sottomarini. Chi li controlla? Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Fabio Savelli. Tutto il traffico voce e dati mondiale è in mano a Usa, Cina, Russia. In caso di guerra tecnologica l’Europa rischia il black out. Stiamo parlando del sistema nervoso centrale delle telecomunicazioni globali. Il 99% di tutto il traffico internazionale voce e dati di 7,7 miliardi di persone passa per cavi lunghi migliaia di chilometri stesi sotto i fondali degli oceani. La proprietà di queste autostrade sottomarine è di chi le posa, mentre la gestione è nelle mani di chi le accende e ne fornisce i flussi di informazioni, ovvero le compagnie elettriche e telefoniche. La loro importanza deriva dal fatto che ricordano tutto ciò che su di essi transita, e interromperli, tagliarli di netto, significa mandare in tilt il sistema informatico di interi Paesi bloccando la fornitura di energia, i sistemi di trasmissione delle informazioni sensibili di ministeri ed istituzioni, le transazioni elettroniche, le comunicazioni via Internet. Il segnale che siamo entrati in una nuova era che rivoluziona la «geopolitica mondiale» sovrapponendola alla «geopolitica dei cavi», è scattato qualche mese fa, e sotto forma di campanello d’allarme. Il team Telecom della Casa Bianca ha detto no per la prima volta nella sua storia. Il comitato multi-agenzia del dipartimento di Giustizia Usa ha bloccato il progetto di realizzazione del Pacific Light Cable Network, un cavo di 12.800 chilometri che dovrebbe collegare direttamente, sotto l’oceano Pacifico, Los Angeles ad Hong Kong, ancora assediata dai tumulti anti-Cina. È il primo sistema di cavi composto da 240 canali in una singola coppia di fibre con una velocità di trasmissione di 120 terabytes al secondo. Gli americani parlano di rischi per la «sicurezza nazionale» perché dentro al consorzio che deve realizzare il progetto, insieme ai due colossi Usa, Google e Facebook, c’è anche la Dr Peng Telecom&Media group, ovvero il quarto operatore telecom di Pechino. Due anni fa è stata l’Australia, dietro la regia di Washington, a mettersi di traverso, bloccando la realizzazione di un collegamento della cinese Huawei Marine tra Sydney e le Isole Salomone. Non è un caso se dopo quel divieto il colosso di apparati tlc fondato da Ren Zhengfei abbia deciso di vendere il 51% della sua controllata alla connazionale Hengtong. L’obiettivo dello scorporo era quello di dimostrare che gli interessi tra chi fa apparati tlc e chi installa i cavi non coincidono. Una formalità, poiché a nessuna azienda cinese è permesso di «scorporarsi» dagli interessi del Partito. Nel frattempo la Cina ha steso miliardi di chilometri di fibra ottica e pesa per oltre il 60% della domanda globale, che si attesta sui 600 milioni di chilometri all’anno. Tra i primi sette operatori al mondo, cinque sono cinesi: Hengtong, Futong, Fiber Home, Ztt, Yofc.Le loro economie di scala non hanno concorrenti e hanno finito per terremotare il mercato dei cavi sottomarini, storicamente appannaggio occidentale. La neutralità delle connessioni fino a qualche anno fa è stata assicurata dal fatto che le infrastrutture sono state realizzate da società private occidentali o consorzi internazionali, sottoposti a regole di mercato e finanziati prevalentemente dalla Banca Mondiale e, per conto dell’Europa, dalla Banca europea degli Investimenti. Con il modello statalista di Pechino è lo stesso governo a realizzarle, anche per conto delle grandi big tech americane che stanno investendo massicciamente sui «submarine cable» complice l’esplosione del cloud computing. Questa convergenza di interessi con i colossi Usa – che hanno bisogno di un’incredibile quantità di fibre ottiche di nuova generazione per connettere in tempo reale oltre tre miliardi di dispositivi Android e IOs – preoccupa l’amministrazione Trump, che si trova in ritardo per competenze e investimenti. Google ha investito in 14 cavi, di 3 ne è proprietaria. Facebook ha investito in 10 progetti, Amazon in 3. La fondazione Itif calcola che nei prossimi due anni sono previsti più di 50 progetti in tutto il mondo, e Il mercato dei cavi sottomarini nel 2026 dovrebbe raggiungere gli oltre 30 miliardi di dollari, triplicando le dimensioni del 2017.Pechino ha appena «piazzato», in coerenza con la sua politica di espansione, un cavo di 6mila chilometri tra Brasile e Camerun e avviato il progetto del Pakistan&East Africa Connecting (12mila chilometri per collegare Europa, Asia e Africa), e un collegamento tra il Messico e il golfo della California. Ma anche Mosca è estremamente attiva. Un recente rapporto del think tank Policy Exchange ha avvertito che la Russia sta «operando aggressivamente» nell’Atlantico, dove i cavi collegano l’Europa e gli Stati Uniti. Nella prefazione l’ammiraglio della Marina statunitense James Stavridis ha rilevato come «le forze dei sottomarini russi hanno intrapreso attività di monitoraggio nelle vicinanze dell’infrastruttura di cavi sottomarini. Hanno la capacità di fare un colpo mirato, causando un danno potenzialmente catastrofico». In questo quadro preoccupa la sostanziale irrilevanza dell’Europa, che rischia il blackout tecnologico nel caso in cui Usa, Russia o Cina decidessero di tagliare uno dei cavi sottomarini su cui transitano miliardi di miliardi di dati, dalla fornitura di energia elettrica, telefonia, servizi privati, pubblici e governativi. Non abbiamo né un apparato tecnologico, né un player digitale in grado di competere con la cinese Huawei e con Google.

·         Il Concorso truccato per i magistrati.

Magistrato o avvocato, la selezione è severa. Nei paesi del Nord la toga è una “religione”. Renato Luparini su Il Dubbio il 3 luglio 2020. Come si regolano inglesi e tedeschi, calvinisti o luterani che siano. La tesi di Max Weber su etica protestante e spirito capitalista ha fatto scrivere intere biblioteche . Potenza di un classico. E’ un accostamento geniale quello tra sfera religiosa e attività economica, due mondi che sembrano opposti , ma del resto se “la filosofia è la domenica della vita” come diceva un altro tedesco ( e per giunta protestante) come Hegel, occorre trovare un equivalente per gli altri giorni della settimana. Il diritto è sicuramente materia da giorno feriale ma risente anch’esso della concezione religiosa del popolo che lo esprime. Prendiamo un tema attualissimo, come la selezione dei magistrati e confrontiamo le differenti scelte di alcuni Paesi Europei. E’ singolare vedere come i criteri cambino a seconda della religione storicamente prevalente e della concezione del laico nella Chiesa. Il primo modello è quello dei Paesi anglosassoni, di cultura religiosa prevalentemente calvinista. Qui i magistrati, esattamente come i pastori d’anime, non costituiscono una categoria a parte rispetto al laicato : vengono scelti , spesso su base elettorale, tra gli avvocati di maggiore età ed esperienza. Il magistrato non è il rivale dell’avvocato: è semplicemente un suo collega più anziano. Del resto il magistrato nei casi più importanti è solo un arbitro : a decidere la colpevolezza o l’innocenza nei processi più gravi è una giuria laica. Lo stesso avviene nelle Chiese riformate di tipo calvinista o metodista : il predicatore non ha un carisma diverso dai fedeli ; è semplicemente uno di loro che ha fatto uno studio teologico. Il secondo modello è quello tedesco, dove notoriamente la religione prevalente è quella protestante luterana. L’errore di molti italiani è di fare dell’erba evangelica tutto un fascio e confondere calvinisti e luterani. Questi ultimi sono molto più vicini ai cattolici, tanto che il termine “protestanti” equivaleva a “cattolici dissidenti” almeno nei primi anni della loro esperienza. Per i luterani il pastore ha un ruolo più spiccato e distinto dal popolo, pur facendone parte. Infatti in Germania la formazione di magistrati e avvocati è la stessa : escono tutti dal severissimo “secondo esame di diritto “ ( non si può provare più di due volte) e hanno una solidissima formazione teorica comune che li rende sostanzialmente equiparati, anche nella disposizione dei banchi in aula. E’ lo stesso sistema con cui in Germania si formano gli uomini di Chiesa: studi universitari selettivi e primato sul popolo fondato non sull’autorità o un carisma soprannaturale, ma sulla superiore conoscenza. Hegel sul punto scrisse uno dei suoi ultimi discorsi , celebrando il trecentesimo anniversario della Confessione Augustana del 1530 che segnò l’inizio della Chiesa Luterana. Da noi i magistrati sono come i preti ( nessuno si risenta da ambo le parti dell’accostamento). Prendono la toga ( o la tonaca) da giovani e tendenzialmente per tutta la vita, sono selezionati per studi e condotta e costituiscono un ordine chiuso e ben separato dai laici che hanno il compito di ammaestrare e ammonire. Ogni controllo esterno, specie da parte della componente del laicato più vivace e polemica ( come è in ambito giudiziario l’avvocatura) li irrita e sconcerta: reclamano con forza la necessità di controlli esclusivamente interni, in virtù e in ragione di un ministero e di un carisma che viene loro dall’alto. Curiosamente uno dei centri di formazione dei magistrati italiani era nei Castelli Romani a pochi chilometri dal bosco sacro di Ariccia dove Frazer ambienta il suo memorabile finale del “Ramo d’Oro “, il saggio sul rapporto tra sacerdozio e magia nelle civiltà di ogni tempo. Chi si illude con sorteggi e riforme di cambiare la magistratura italiana sappia che si muove all’interno di un bosco sacro, pieno di spiriti arcani.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

Un concorso truccato per aspiranti magistrati. Un avvocato svela la “truffa” subita nel 1992, scrive il 28 settembre 2017 "Il Corriere del Giorno".  Il Consiglio Superiore della Magistratura costretto ad ammettere: il suo scritto non era mai stato esaminato. Conseguenze? Nessuna! La vera “casta” porta la toga…Era il 23 maggio 1992 e all’Hotel Ergife sulla via Aurelia a Roma è il giorno dell’abbinamento delle buste del concorso in magistratura per uditore giudiziario: mercoledì 20, diritto penale; giovedì 21, diritto amministrativo; venerdì 22, diritto privato con riferimento al diritto romano. C’era anche Francesca Morvillo la compianta moglie del giudice Falcone, la quale alle 16 salutò tutti andando via. Doveva prendere quel maledetto aereo che la portò a Palermo dove venne uccisa insieme a suo marito, Giovanni Falcone. È il primo colpo di scena del concorso durante le stragi di mafia.

Un concorso così particolare da essere finito in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè Editore.  Scoprire il dietro le quinte di quel concorso, svelato 25 anni dopo, è stato possibile alla tenacia un avvocato di Asti, Pierpaolo Berardi all’epoca dei fatti un giovane legale candidato a quel concorso, il quale racconta che allorquando lesse il titolo del tema di diritto penale era più che soddisfatto: proprio quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico, oggetto del concorso, lui lo aveva appena affrontato in Tribunale. La successiva prova di diritto amministrativo andò anche lei bene; quella di diritto privato e romano era stata oggetto di un seminario che aveva seguito poco prima del concorso. Ma passato un anno dopo quel concorso, allorquando vennero resi noti i risultati degli esami scritti, l’avvocato Berardi esito a poter credere ai suoi occhi. Era stato bocciato. Fu in quel momento che iniziò la sua battaglia legale. Il Tar ed Consiglio di Stato gli dettero ragione, mentre il Ministero di Giustizia e il Consiglio Superiore della Magistratura alzarono il loro solito muro di gomma “politico”. L’avvocato Berardi chiese legittimamente di potere vedere i suoi scritti e il verbale, ma – come racconta oggi al quotidiano LA STAMPA – “Mi dissero al telefono che il verbale non c’era”. Dopo un ennesimo ricorso vittorioso al Tar, il legale piemontese ottenne le prove ed i verbali del suo esame, da cui arrivò l’ennesima sorpresa: “I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no”. Berardi non si fermò ed andò avanti, infatti la Legge gli consentiva di poter di chiedere anche le prove degli altri candidati promossi. E lì scoprì tante altre anomalie ed illegalità. I temi erano facilmente riconoscibili perché una volta scritti su una sola facciata, altre volte in stampatello, alcuni persino pieni di macroscopici errori giuridici, altri idonei come il suo, ma sui cui non era stato apposto alcun voto. Addirittura un candidato elaborò il tema su una traccia diversa da quella indicata nell’esame.  Qualcuno scrisse con una calligrafia doppia (per far riconoscere il suo elaborato a chi doveva esaminare; un altro () aveva riportato copiando pagine e pagine copiate da manuali di Diritto, mentre si potevano solo consultare i codici. Tra i temi casuali che Berardi chiede di visionare c’è anche quello di Francesco Filocamo, attuale magistrato al Tribunale di Civitavecchia ed estratto a sorte come presidente del Tribunale dei Ministri. Il Ministero di Giustizia con estremo imbarazzo è costretto a risponde a Berardi ammettendo l’inverosimile e cioè che le sue prove non sono in archivio. Uno scandalo o una vergogna? Probabilmente entrambi. Partono i ricorsi. L’avvocato Berardi viene ascoltato a Perugia da un sostituto procuratore della Repubblica alla presenza come uditrice, di una magistrata che aveva vinto proprio quel concorso. Ma non è finita. Infatti quando il Tar ed il Consiglio Superiore della Magistratura ordinano di ricorreggere i suoi temi, invece di nominare una nuova commissione, incredibilmente viene chiamato a valutarlo la stessa che lo aveva bocciato! Dopo aver sempre affermato che era tutto regolare, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 2008 è costretto a riconoscere all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non erano mai stati esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna.  E poi parlando di indipendenza della magistratura… In realtà si sentono degli “intoccabili”.

Toga vinta ‘un si rigioca, scrive Cosimo Loré, Docente universitario e scrittore, l'11 ottobre 2010 su "Il Fatto Quotidiano". Se si entra in una bisca non si può pretendere che si giochi pulito! E le selezioni pubbliche si presumono truccate ma si confermano tali appena i controlli verificano i tempi di un concorso. Come ben risulta fin da quelli per magistrato. Da chi si ricorre poi se iudex si diventa in tal modo? Si legga Le toghe ignoranti (L’espresso 9.9.2010) dove l’avvocato penalista di Asti Pierpaolo Berardi ricorda il calvario per la ricerca della verità su imbrogli a catena per commettere prima e occultare poi la serie di illeciti fatti da magistrati e politici che lo bocciarono nel concorso in magistratura svoltosi nel maggio 1992; lo boicottarono intralciandone i ricorsi per ben 16 anni: il 30 aprile del 2008, però, il plenum del Csm riconobbe che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla commissione: l’organo di controllo dei giudici dei futuri giudici, il Csm, riconobbe il falso ideologico presente nel verbale, che invece affermava esservi stato l’esame delle prove scritte. Conseguenza in relazione a questo deliberato: nessuna. Intanto gli elaborati di un candidato vincitore, certamente esaminati, sono spariti dagli archivi del ministero: il padre è un magistrato ora in pensione, la mamma e il fratello magistrati in servizio; i cugini sono anch’essi magistrati; uno aveva superato il concorso del ’92, l’altro fuori ruolo al ministero ebbe l’incarico di esaminare un esposto dell’avvocato Berardi sul concorso, intanto vinto dal fratello e dal cugino…

Nel nostro volume Medicina Diritto Comunicazione (Giuffrè Milano 2005) scrivevamo…«L’attività dei seri ricercatori, la formazione dei giovani studenti, la memoria dei grandi maestri sarebbero meglio garantite se si provvedesse ad una più seria verifica (i concorsi sarebbero pubblici…) della idoneità oltre che della capacità di chi aspira ad indossare una toga. Non meno coraggiosa la denuncia dell’avvocato Pierpaolo Berardi nata nel 1992, anno in cui consegnò i propri scritti al concorso per magistrato, grazie alla legge 241 del 1990 che gli ha consentito di verificare con quale fraudolenti trucchi e impudichi marchingegni arraffarono la toga molti candidati (gli scritti sarebbero da pubblicare e studiare per far comprendere le ragioni reali di alcune disfunzioni della giustizia…). Su tale indagine vi sarebbe stato il silenzio-stampa (di fronte a fatti simili non c’è destra o sinistra che tenga…) se non avessero ritenuto di rendere pubblica questa vicenda – che a ragione si può definire storica – due giornalisti che onorano la professione e che riteniamo doveroso citare: Massimo Numa (La Stampa del 9 settembre 2004 a pag. 12, Lo strano concorso che fa tremare trecento magistrati) e Anna Maria Greco (Il Giornale del 10 settembre 2004 a pag. 10, Dopo dodici anni, concorso «sospetto», 275 toghe rischiano il posto).» La convinzione di molti  ̶  all’interno e all’esterno degli ambiti giudiziari e accademici  ̶  è che si tratti di aree affrancate da ogni forma di controllo e caratterizzate dall’assoluto arbitrio. In sostanza ed in sintesi vi è un assai consistente rischio – nel caso si vogliano adire le vie legali – di incappare in giudici non degni della toga indossata, talora con cupa alterigia …

Concorso truffa in magistratura: i testimoni raccontano, scrive il 28 Settembre 2017 "Zone d’Ombra". La storia è una di quelle tipiche italiane. Una di quelle, per intenderci, in cui spesso ci sono di mezzo politici e personaggi poco trasparenti. Questa volta, però, c'è di mezzo l'organo istituzionale che dovrebbe garantire il rispetto della legge. La vicenda è finita, 25 anni dopo, in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè. Pierpaolo Berardi, allora giovane legale, è uno dei candidati di un concorso in magistratura: era il 23 maggio del 1992. A quel concorso avrebbe dovuto partecipare anche Francesca Morvillo, moglie di Giovanni Falcone rimasta uccisa poco dopo. Berardi alla lettura del titolo del tema di penale non crede ai suoi occhi: quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico lo ha appena affrontato in tribunale. Tutto fila liscio. Quando un anno dopo escono i risultati degli scritti, però, Berardi legge di essere stato bocciato.  Lui non ci sta e intraprende una battaglia. Tar e Consiglio di Stato che gli danno ragione, ma il ministero e il Csm che oppongono resistenza. Come racconta La Stampa, l’avvocato chiede di potere vedere i suoi scritti e il verbale ma il verbale non c’era. Berardi dopo aver vinto un ricorso al Tar scopre che: "I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no".   L'avvocato non si ferma e va avanti nella sua battaglia. Visiona anche le prove degli altri candidati promossi e scopre altre questioni: i temi sono riconoscibili perché scritti su una sola facciata, altri in stampatello; alcuni pieni di errori giuridici, altri idonei ma senza voto. Un candidato svolge il tema con una traccia diversa da quella indicata; uno scrive con una calligrafia doppia; un altro copia pagine e pagine di manuali di Diritto.  A quel punto partono i ricorsi. A Perugia Berardi viene sentito da un pm con presente come uditrice una magistrata che aveva vinto quel concorso. Quando Tar e Csm ordinano di ricorreggere i suoi temi anziché nominare una nuova commissione è la stessa che lo aveva bocciato a farlo.  "Nel 2008 il Csm dopo aver sempre affermato che era tutto regolare riconosce all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna."  

La storia dell'avvocato Di Nardo. Un'altra denuncia sui presunti concorso truccati in magistratura è quella fatta dall'avvocato isernino, Giovanni Di Nardo. Nel 2014 l'avvocato partecipò al concorso in magistratura ma, dopo l'esame, arrivò la lettera dal ministero della giustizia che lo informò sulla non ammissione. A quel punto Di Nardo fa ricorso al Tar chiedendo in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia risulta essere piena di errori ortografici e di sintassi. A quel punti Di Nardo presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. La denuncia viene archiviata. Di Nardo presenta un esposto alla Procura Generale e, a quel punto, viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta.

Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi, Mercoledì 29/10/2014, su "Il Giornale". "Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale". A svelare questo dettaglio sulla carriera dell'ex toga di Mani Pulite è il Tempo che riporta quanto detto dall’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma. Come scrive il quotidiano romano, "la vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online "Petrus", Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune". Corrado Carnevale è tornato in aula per difendersi dall'accusa di diffamazione mossa da Antonio Di Pietro. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. Durante il dibattimento in tribunale, il legale di Carnevale ha ribadito le dichiarazioni del suo assistito: "In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria". Opposta la versione del legale di Di Pietro: "Dagli atti documentali del processo di primo grado è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa".

Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive il 29 Ottobre 2014 “Il Tempo”. «Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale». Un aspetto non trascurabile del percorso che ha portato un vicecommissario del Molise a diventare uno dei magistrati di punta del pool di Mani Pulite, viene alla luce da una causa civile per diffamazione. È stato l’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, a spiegare ieri al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma come andò l’esame per diventare uditore di Di Pietro. La vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online «Petrus», Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. «Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune». Per quelle dichiarazioni, poi riprese da altre testate giornalistiche, Di Pietro ha querelato per diffamazione a mezzo stampa Carnevale. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. «L’urgenza di un’inibitoria – ha spiegato l’avvocato Aloisio – è dovuta al fatto che è già stato notificato l’atto di precetto. Lunedì scorso eravamo in attesa dell’ufficiale giudiziario. Il mio assistito non solo ritiene che giustizia non sia stata fatta, ma ritiene che 30 mila euro (se si considerano pure le spese legali e gli interessi) non siano una bazzecola per nessuno, anche per un magistrato la cui pensione mensile corrisponde alla metà di quella somma». Prima di celebrare l’udienza, ieri, il presidente del collegio d’Appello Francesco Ferdinandi ha chiesto alle parti «data la levatura delle loro personalità» se volessero raggiungere un accordo bonario e rinunciare al contenzioso, ma il legale di Di Pietro si è opposto. A quel punto l’avvocato Aloisio è entrato nel merito della questione: «In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria». A difendere l’ex pm di Mani Pulite, in udienza, c’era un avvocato dello studio legale Scicchiatano, di cui lo stesso Di Pietro fa parte da quando ha lasciato la carriera politica per quella forense. «Dagli atti documentali del processo di primo grado – ha spiegato il civilista – è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa». Ora la parola passa ai giudici di secondo grado che dovranno decidere se accogliere la richiesta di sospensiva della sentenza.

"Quel concorso da giudice: tutto truccato". Il racconto al Giornale di una candidata che ha partecipato al concorso di Milano: Ho visto troppe irregolarità. Sui banchi codici commentati o intere enciclopedie. Decine le denunce. Il ministero ha aperto un’inchiesta, scrive Luca Fazzo, Giovedì 27/11/2008, su "Il Giornale". «Una scena che non dimenticherò facilmente. Marasma totale, candidati che chissà come erano riusciti a portarsi appresso intere enciclopedie giuridiche, nessuno che sapeva che pesci pigliare, e in mezzo al caos un membro della commissione che strillava “Fermate quello spelacchiato che incita le persone”. Sembrava di essere al mercato, non al concorso per una delle professioni più delicate della nostra società». Questo è il racconto di V. che ha trent’anni e - per motivi che spiegherà più avanti - non vuole vedere il suo nome sui giornali. Ma il suo nome ce l’ha il ministro della Giustizia Angiolino Alfano, in calce all’accorata lettera che V. gli ha mandato per raccontargli le condizioni surreali in cui si è svolto a Milano, dal 19 al 21 novembre, il concorso per 500 posti da magistrato. Delle decine di testimonianze come quella di V. si dovranno occupare in diversi. Il ministero, che ha avviato una inchiesta interna. Il Consiglio superiore della magistratura che - su richiesta dei Movimenti riuniti e di Md - stamattina aprirà una sua indagine. E la Procura della Repubblica di Milano sul cui tavolo sono arrivati gli esposti che alcuni candidati inferociti si sono precipitati a depositare dopo avere rinunciato a portare avanti la prova. «Io non voglio buttarla in politica», dice V., «non voglio ipotizzare che ci fossero forme di corruzione o di connivenza. Non sta a me accertarlo. A noi spetta denunciare le irregolarità macroscopiche che erano sotto gli occhi di tutti e che la commissione ha fatto finta di non vedere. Adesso leggo che il ministero per fare luce sulla vicenda ha chiesto una relazione al presidente della commissione. Che obiettività ci si può aspettare? Perché non vengono sentiti anche i candidati?». Tema dello scandalo: l’introduzione - da parte di numerosi candidati all’oceanica prova d’esame convocata presso la Fiera di Milano - di vietatissimi codici commentati. Tradotto per i profani: agli esami per magistrato i temi riguardano faccende astruse («diritto di abitazione del coniuge superstite e della tutela del legittimario nel caso di atti simulati da parte del de cuius», recitava una traccia di settimana scorsa) cui i candidati debbono rispondere basandosi unicamente sui testi di legge, e non sui codici assai diffusi in commercio che, in fondo alle pagine, forniscono le risposte a ogni dubbio. Peccato che alla Fiera di Milano i codici del secondo tipo circolassero quasi liberamente. Risultato: sollevazione degli onesti, assalto alla presidenza, la prova che si blocca, riparte, finisce a notte inoltrata tra urla di «vergogna, buffoni», minacce, metà dei 5.600 candidati che abbandonano senza consegnare il compito. Come è stato possibile? Il presidente della commissione d’esame, il consigliere di Cassazione Maurizio Fumo, rifiuta ogni spiegazione. Così per ricostruire i fatti - che rischiano di portare all’annullamento della prova - bisogna affidarsi al racconto di V. e degli altri candidati. «La mia non è una denuncia anonima - dice V. - il ministro ha il mio nome in mano. Ma io quell’esame voglio riprovare a affrontarlo, stanno per essere banditi altri 350 posti. E se il mio nome girasse ne uscirei enormemente penalizzata». Che una aspirante magistrata sia convinta che il «sistema» si vendicherebbe della sua denuncia civile la dice lunga sull’aria che tira. V. non si dichiara ancora ufficialmente una disillusa, ma poco ci manca. «Io da sei anni non faccio altro che prepararmi per questo concorso. Voglio fare il magistrato, e credo che lo farei bene. Non ho aspirazioni missionarie, non ho una visione giustizialista della società. Ma credo che ogni società abbia bisogno di una cultura delle regole, e che per questo servano magistrati equilibrati e preparati. Io credo di essere entrambe le cose. Consideravo il concorso per magistratura l’ultima trincea della meritocrazia, evidentemente mi sbagliavo. All’idea che questo concorso premi i furbi che “ci hanno provato” mi sento profondamente indignata». «Abbiamo passato un giorno intero - racconta - a fare controllare i testi di cui chiedevamo di servirci. A me hanno tolto persino i segnapagine. Il giorno dell’esame ci sono ragazze che si sono viste perquisire anche la busta dei Tampax. I controlli, insomma, sembravano seri. E invece quando siamo entrati nell’aula è arrivata la sorpresa. C’erano candidati che avevano sul banco, con tanto di autorizzazione, codici commentati, manuali di diritto, enciclopedie. A quel punto è partita la protesta». Ma chi è stato, a permettere l’ingresso dei testi vietati? «I controlli li facevano i vigilantes, gli stessi che poi giravano tra i banchi. Non so chi li abbia istruiti. Ma so che un codice semplice si distingue facilmente da uno commentato: c’è scritto in copertina, e uno è alto un terzo dell’altro. Impossibile non accorgersene». E allora? Come è stato possibile? «Non lo so. Era una situazione surreale. E il presidente diceva: la prova va avanti, non è successo niente. Nei due giorni successivi il concorso è andato avanti così, chi copiava dai testi e chi si arrangiava in qualche modo. Se provavi a guardare il banco del vicino quello ti saltava in testa: cosa vuoi, fatti i fatti tuoi, vattene». Ed era il concorso da cui sarebbero usciti i magistrati di domani. 

Concorsi truccati in magistratura. Verso l’Ok all’inchiesta del Csm. Il caso denunciato da un avvocato bocciato due volte. Nel mirino ci sono le sessioni del 1992 e del 2000. Nicola Scuderi su lanotiziagiornale.it il 7 Luglio 2020. Sembra proprio un brutto momento per la magistratura che, ormai quotidianamente, viene travolta da scandali. Dopo i veleni tra toghe nati dallo scandalo sugli incontri carbonari promossi dal pm Luca Palamara, ora spunta pure l’ombra dei concorsi truccati per diventare pubblico ministero o giudice a mettere in ulteriore imbarazzo la giustizia italiana. Proprio ieri i componenti della prima commissione del Csm, i laici Stefano Cavanna in quota Lega e Fulvio Gigliotti di M5s (nella foto), hanno chiesto al Comitato dei presidenza dell’organo di autogoverno della magistratura, di procedere all’apertura di una pratica sul caso dei concorsi in magistratura negli anni 1992 e 2000. ACCERTAMENTI NECESSARI. L’intento è quello, come messo nero su bianco dai due consiglieri, di “effettuare un’approfondita istruttoria” e, conseguentemente “accertare l’eventuale sussistenza di fatti e/o condotte rilevanti nell’ambito delle competenze del Consiglio, nonché al fine di adottare le iniziative meglio ritenute” in caso vengano rilevati illeciti. Una richiesta che i due componenti del Csm ritengono necessaria dopo alcune notizie di stampa, allegate agli atti, che non possono essere ignorate perché descriverebbero una situazione a dir poco allarmante e a tratti peggiore perfino di quella delineata dallo scandalo Palamara. Basti pensare che nella richiesta, senza nessun giro di parole, si fa riferimento a “un articolo ipotizzante gravissimi fatti astrattamente inficianti la regolarità del concorso di magistratura la cui prova scritta si svolse i giorni 20-21 e 22 maggio 1992 e, forse, anche il concorso dell’anno 2000, essendo emersa dalla documentazione acquisita da un ricorrente”. Per la precisione sarebbero emersi “segni di riconoscimento, nonché errori elementari di diritto negli elaborati di alcuni vincenti”. Gli stessi consiglieri, inoltre, ricordano che sul caso tempo fa è intervenuto perfino l’ex vicepresidente della Corte Costituzionale, Guido Neppi Modona, che “lamentava il silenzio assordante degli organi posti al vertice della magistratura, Csm compreso”. Dopo gli scandali che hanno terremotato le toghe, non si può più fare finta di niente. Così quella denuncia di un avvocato, bocciato per due volte all’esame da magistrato, dopo 28 anni richiede che ci sia un approfondimento. Del resto quanto sostenuto dall’allora candidato è di inaudita gravità perché sarebbe emerso, dai documenti sui test da lui faticosamente ottenuti e solo a seguito di una lunga battaglia legale, sarebbe emerso che sui compiti dei promossi erano presenti evidenti segni di riconoscimento lasciati sui fogli così da renderli riconoscibili quando, invece, sarebbero dovuti essere completamente anonimi. Ma c’è molto di più. Gli stessi elaborati presenterebbero anche errori grossolani di diritto e, cosa a dir poco incredibile, dai verbali dei lavori della commissione esaminatrice sarebbe emerso addirittura che la valutazione media per ciascun candidato è durata tre minuti. Un tempo record, se confermato, considerato che sarebbe dovuto servire per leggere tre elaborati scritti, di materie tutt’altro che semplici, e, successivamente, giudicarli. Una vicenda per la quale già nei giorni scorsi si era mossa la politica tanto che il 2 luglio il deputato forzista Pierantonio Zanettin ha presentato un’interpellanza parlamentare per chiedere al ministro Alfonso Bonafede di fare luce sui concorsi incriminati visto il silenzio che, almeno fino a quel momento, proveniva dal Csm e dall’Anm.

GIUSTIZIA, BIANCOFIORE (FI): “GRAVI IRREGOLARITÀ NEI CONCORSI PER MAGISTRATI. MINISTRO BONAFEDE INTERVENGA”. Roma, 10 Luglio 2019. Fonte: AGV - Agenzia Giornalistica il Velino. “Avvengono cose nell’immobilismo e disattenzione del Governo dell’onestà e del cambiamento e dell’avvocato del popolo che amareggiano profondamente. E’ notizia di oggi, riportata anche sul sito di Universo magistratura, che, dopo le gravi irregolarità registrate durante il caso del concorso per uditore giudiziario dello scorso mese di giugno, anche il concorso in magistratura dell’anno 2017 – 2018 sarebbe stato truccato. Sorprende che il ministro Bonafede non ne sia al corrente visto che ci sono stati arresti e pare l’avvantaggiamento della figlia di un faccendiere ad opera di magistrati ripagati con ‘bottiglie di vino’ e ‘biglietti balneari’. Se così fosse, si tratterebbe di un episodio gravissimo: si sta rubando il futuro a migliaia di giovani seri e preparati che hanno investito molto. Dopo l’inchiesta sui concorsi truccati nelle università dalla Sicilia al Veneto, dopo lo scandalo sul Csm, che ha minato profondamente la credibilità del nostro Paese, questi nuovi casi di concorsi truccati gettano un’altra ombra pesante”. Lo ha detto Michaela Biancofiore, deputata di Forza Italia, intervenendo oggi durante il question time al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Siamo felici che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede abbia annunciato la riforma della magistratura e del reclutamento dei magistrati. Ci aspettiamo, a questo punto, anche un agente provocatore nei concorsi e il daspo anche per i magistrati corrotti. Noi ci auguriamo che la magistratura cambi davvero, che torni ad essere al di sopra di ogni sospetto, a partire soprattutto dal mio Trentino Alto Adige, dove il giudicato e il giudicante talvolta coincidono: basti pensare al Tar, nomina totalmente politica, che non conosce pari ed é inaccettabile”, ha concluso.

Il compito che prova la truffa del concorso in magistratura del 1992. Manuela D’Alessandro su  giustiziami.it. Questo documento è la prova solare – che vi mostriamo in esclusiva –  di come venne truccato il concorso per magistrati del 1992. Il compito del candidato non reca in calce né il voto della commissione, né le firme del segretario e del presidente, in palese violazione dell’articolo 13 della legge che disciplinava l’esame. Eppure, l’aspirante toga passò lo scritto a differenza di Pierpaolo Berardi che pure era convinto, quel giorno di maggio all’hotel Ergife di Roma, di avere sviluppato in modo più che convincente le tracce di diritto penale, romano e amministrativo. Tutti argomenti sui quali, per studio matto o perché per caso aveva seguito un seminario pochi giorni prima che riguardava proprio i temi della prova, era preparatissimo. Mentre i diòscuri di Mani Pulite seducono il Paese, il giovane avvocato astigiano comincia una battaglia lunga 20 anni per capire le ragioni di un’inspiegabile bocciatura che ora viene raccontata in un capitolo del libro "Società, crimine e diritto", scritto dal professor Cosimo Loré e pubblicato da Giuffré. Il cocciuto Pierpaolo chiede e ottiene dopo molta insistenza di poter vedere i suoi compiti e quelli degli altri. Si accorge subito che molti non sono stati nemmeno corretti. “Calcolai i tempi. Tre prove giuridiche complesse non potevano essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in tre minuti”. Più scava e più trova abissi di irregolarità. Alcuni elaborati dei promossi sono riconoscibili perché vergati in stampatello o con calligrafia doppia o segni particolari, altri sono zeppi di erroracci giuridici oppure senza voto, come quello della foto. Dagli archivi del Ministero è sparita la prova di uno dei vincitori. Il Tar e il Consiglio di Stato danno ragione a Berardi, il Csm accoglie la sua richiesta di ricorreggere i temi. Peccato che invece di nominare una nuova commissione disponga che sia la stessa che lo ha bocciato a farlo. Per oltre due decenni, e ancora adesso, alcuni magistrati che passarono quel concorso hanno deciso sulla libertà delle persone e molto altro.

Giustizia, Forza Italia: «Concorsi truccati per le toghe. Peggio dell’affaire Palamara». Francesca De Ambra su Il Secolo D’Italia, giovedì 2 luglio 2020. Peggio dell’affaire Palamara. Di tanto è almeno convinto il deputato forzista Pierantonio Zanettin, che sul punto ha presentato in queste ore un’interpellanza parlamentare. Il “punto” riguarda i concorsi per entrare in magistratura. Per l’onorevole, molte di queste prove sarebbero infatti truccate o, se si preferisce, taroccate, in ogni caso congegnate non per far prevalere i più preparati bensì i più raccomandati. Se confermato, avverte Zanettin, un recente passato anche nel Csm, si tratterebbe di uno «scandalo devastante, di gravita’ paragonabile allo stesso affaire Palamara». Sorge il legittimo dubbio, aggiunge il deputato, «che decine di magistrati in carica siano stati selezionati in questi decenni, attraverso loschi traffici».

Interpellanza del deputato Zanettin (ex-Csm). Ma su quali elementi, anzi su quali indizi si la denuncia Zanettin? Tutto nasce dalla lettura di due giornali: la Stampa e il Dubbio. Relativamente al primo, l’interpellante cita le «denunce di Domenico Quirico»; sul secondo fa riferimento proprio all’edizione odierna, in particolare ad un articolo del professor Guido Neppi Modona, già vice presidente della Corte Costituzionale. Tutto nasce dalla caparbietà di un candidato bocciato ai concorsi del 1992 e del 2000. Costui, racconta Zanettin, «dopo una serie innumerevole di ricorsi», riesce finalmente ad acquisire la completa documentazione del primo concorso, quello del’92. Quel che ne viene fuori, sottolinea il deputato, è «un sofisticato e truffaldino sistema, grazie al quale, gli elaborati di taluni candidati erano agevolmente individuabili».

I concorsi sarebbero quelli del 1992 e del 2000. Da quelli dei promossi spuntano segni di riconoscimento lasciati sui fogli e errori grossolani di diritto. Dai verbali dei lavori della commissione risulta che la valutazione media su ciascun candidato è durata tre minuti. La cosa singolare, sottolinea Zanettin, è che in questo tempo così esiguo, «sarebbero stati letti e giudicati collegialmente i tre elaborati scritti» L’interpellante ha chiesto al ministro  Bonafede di accertare tutti i fatti riportati, anche attraverso ispezioni mirate. Ma prima ancora Zanettin ha stigmatizzato il silenzio sulla vicenda di Csm e Anm, «tante volte così solleciti ad ergersi paladini del buon nome e dell’onore della magistratura italiana». Invece, conclude il parlamentare, sulla vicenda dei presunti concorsi truccati «non hanno proferito verbo».

 Atto Camera. Interpellanza 2-00850 presentato da ZANETTIN Pierantonio

testo di Martedì 7 luglio 2020, seduta n. 367

Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della giustizia, per sapere – premesso che:

su «La Stampa», Domenico Quirico ha pubblicato, il 29 giugno 2020, una inchiesta sulle modalità di svolgimento del concorso per l'accesso alla magistratura;

un candidato bocciato ai concorsi del 1992 e del 2000, l'avvocato Pierpaolo Berardi, dopo una serie di innumerevoli ricorsi, è finalmente riuscito ad acquisire la completa documentazione del concorso 1992, facendo emergere un sofisticato e truffaldino sistema, grazie al quale, gli elaborati di taluni candidati erano agevolmente individuabili. Erano evidentemente quelli dei candidati che dovevano essere ammessi in ogni caso all'orale;

dagli elaborati dei promossi spuntano «orrori»: segni di riconoscimento lasciati sui fogli, come saltare le prime righe, o scrivere solo una parte delle facciate, o cambi di calligrafia in punti chiave;

e poi errori grossolani di diritto: un candidato confondeva dolo con colpa, un altro parlava di diritto civile in un tema di diritto penale, una brutta copia era allegata come parte dell'elaborato;

dai verbali dei lavori della commissione risulta inoltre che la valutazione di ogni elaborato in media tre minuti per ciascuno, durante i quali sarebbero stati letti e giudicati collegialmente i tre elaborati scritti;

l'articolo è stato ripreso il 3 luglio 2020 dal professore Guido Neppi Modona, già vice presidente della Corte costituzionale, in un commento pubblicato sul «Il Dubbio»;

dopo l'articolo di Quirico non sono state registrate reazioni di carattere istituzionale;

né il Consiglio superiore della magistratura, né l'Associazione nazionale magistrati, tante volte così solleciti nell'ergersi a paladini del buon nome e dell'onore della magistratura italiana, hanno stavolta «proferito verbo»;

eppure, a giudizio dell'interpellante, lo scandalo denunciato, se confermato, è devastante, di gravità paragonabile allo stesso «affaire Palamara»;

sorge secondo l'interpellante il legittimo dubbio che decine di magistrati in carica siano stati selezionati in questi decenni, attraverso «loschi traffici»;

sorge il sospetto, per l'interpellante, che altrettanti candidati meritevoli possano esser stati bocciati solo per far loro posto –:

se il Ministro interpellato abbia adottato iniziative, per quanto di competenza, anche di carattere ispettivo, in relazione a quanto denunciato negli articoli di Domenico Quirico e del professore Guido Neppi Modona;

quali iniziative, anche di carattere normativo, intenda adottare per evitare che quanto denunciato possa ripetersi in futuro. (2-00850) «Zanettin».

Il concorso truccato per magistrati. Un avvocato svela la truffa del 1992. Il Csm ammette: il suo scritto non è mai stato esaminato. Selma Chiosso su La Stampa il 28 Settembre 2017. Era vestita di bianco, Francesca Morvillo. è il 23 maggio 1992 e all’hotel Ergife di Roma è il giorno dell’abbinamento delle buste del concorso in magistratura per uditore giudiziario: mercoledì 20, diritto penale; giovedì 21, diritto amministrativo; venerdì 22, diritto privato con riferimento al diritto romano. Lei alle 16 saluta, deve prendere l’aereo per Palermo. Rimarrà uccisa insieme a suo marito, Giovanni Falcone. È il primo colpo di scena del concorso durante le stragi di mafia. Concorso tanto particolare da finire ora in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè. Il dietro le quinte lo si deve 25 anni dopo alla caparbietà di Pierpaolo Berardi, avvocato astigiano. L’allora giovane legale è uno dei candidati. Quando legge il titolo del tema di penale si frega le mani soddisfatto: quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico lo ha appena affrontato in tribunale; la prova di amministrativo fila liscia; quella di diritto privato e romano è stata oggetto di un seminario seguito poco prima. Un anno dopo, quando escono i risultati degli scritti, non riesce a credere ai suoi occhi: bocciato. Ed è lì che inizia la sua battaglia; da un lato Tar e Consiglio di Stato che gli danno ragione, dall’altra il ministero e il Csm che oppongono resistenza. L’avvocato chiede di potere vedere i suoi scritti e il verbale. «Mi dissero al telefono che il verbale non c’era» racconta oggi. Quando, dopo un ennesimo vittorioso ricorso al Tar, ha prove e verbali ecco cosa scopre: «I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no». Va avanti e la legge gli consente di chiedere anche le prove degli altri candidati promossi. E lì scopre altre perle: temi riconoscibili perché scritti su una sola facciata, altri in stampatello; alcuni pieni di errori giuridici, altri idonei ma senza voto. Un candidato svolge il tema con una traccia diversa da quella indicata; uno scrive con una calligrafia doppia; un altro (si potevano solo consultare i codici) è degno di Pico della Mirandola: pagine e pagine copiate da manuali di Diritto. Tra i temi casuali che Berardi chiede di visionare c’è anche quello di Francesco Filocamo, attuale magistrato al tribunale di Civitavecchia ed estratto a sorte come presidente del tribunale dei ministri. Il ministero con estremo imbarazzo risponde a Berardi: le sue prove non sono in archivio. Un giallo. Partono i ricorsi. A Perugia Berardi viene sentito da un pm con presente come uditrice una magistrata che aveva vinto quel concorso. Quando Tar e Csm ordinano di ricorreggere i suoi temi anziché nominare una nuova commissione è la stessa che lo aveva bocciato a farlo. Nel 2008 il Csm dopo aver sempre affermato che era tutto regolare riconosce all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna.

Toghe e concorsi truccati, trent’anni di beffe e ricorsi. Domenico Quirico il 29 Giugno 2020 su La Stampa. Toghe e concorsi truccati. “Io, beffato trent’anni fa, lotto ancora per la giustizia”. Dopo l’esclusione, l’avvocato Berardi ha iniziato la battaglia contro il malaffare tra le toghe. «La magistratura è come la chiesa, dove ci sono i pedofili e i santi e quelli che stanno in mezzo». Un ricorso, il primo, poi sono diventati decine: ma è lì che avviene per l’avvocato Pierpaolo Berardi la fusione tra due memorie, quella oggettiva, documentaria con quella per così dire personale, proustiana. Comincia così: «Io sottoscritto dottor avvocato Pierpaolo Berardi nato ad Asti il 10 ottobre 1964 sostenevo in data 20 -21- 22 maggio 1992 le prove scritte del concorso per uditore giudiziario. All’esito dei risultati degli scritti risultavo non idoneo in tutte e tre le prove…». In calce, accanto alla firma, la data: 6 ottobre 1992. I 28 anni che seguono sono fiaba di ingiustizia contorta e di infinita proliferazione, Iliade di convulse guerre di attrito in tribunali amministrativi, procure, Consiglio superiore della magistratura. Perfino un paio di presidenti della Repubblica hanno dovuto chinarsi sul soggetto. Perché Berardi, che è ora penalista ad Asti, ha cocciutamente esibito le prove che quel concorso per le toghe era truccato, fasullo. E nessuno ha potuto negarla, quella scomoda evidenza documentale. Sentenze inorridite lo provano. Ma tutto è rimasto come prima. Il sistema, fatto ahimè anche di privilegi consortili e variegato malaffare, intinto nella italianissima pece di parentele, amicizie, raccomandazioni, scambi dinastici, non riconosce errori.  Attenti. Ora non è più la storia di una singola partita defatigatoria per ottenere la riparazione di un torto amministrativo, la lotta burocraticamente esemplare di un Sisifo della giurisprudenza. Tema appetitoso, ma quasi letterario. Nel frattempo è accaduto qualcosa che costringe a rileggerla [...]

Domenico Quirico su La Stampa, 29 giugno 2020. Toghe e concorsi truccati, trent’anni di beffe e ricorsi. Un ricorso, il primo, poi sono diventati decine: ma è lì che avviene per l’avvocato Pierpaolo Berardi la fusione tra due memorie, quella oggettiva, documentaria con quella per così dire personale, proustiana. Comincia così: «Io sottoscritto dottor avvocato Pierpaolo Berardi nato ad Asti il 10 ottobre 1964 sostenevo in data 20 -21- 22 maggio 1992 le prove scritte del concorso per uditore giudiziario. All’esito dei risultati degli scritti risultavo non idoneo in tutte e tre le prove…».

In calce, accanto alla firma, la data: 6 ottobre 1992. I 28 anni che seguono sono fiaba di ingiustizia contorta e di infinita proliferazione, Iliade di convulse guerre di attrito in tribunali amministrativi, procure, Consiglio superiore della magistratura. Perfino un paio di presidenti della Repubblica hanno dovuto chinarsi sul soggetto. Perché Berardi, che è ora penalista ad Asti, ha cocciutamente esibito le prove che quel concorso per le toghe era truccato, fasullo. E nessuno ha potuto negarla, quella scomoda evidenza documentale. Sentenze inorridite lo provano. Ma tutto è rimasto come prima. Il sistema, fatto ahimè anche di privilegi consortili e variegato malaffare, intinto nella italianissima pece di parentele, amicizie, raccomandazioni, scambi dinastici, non riconosce errori. 

Attenti. Ora non è più la storia di una singola partita defatigatoria per ottenere la riparazione di un torto amministrativo, la lotta burocraticamente esemplare di un Sisifo della giurisprudenza. Tema appetitoso, ma quasi letterario. Nel frattempo è accaduto qualcosa che costringe a rileggerla in uno spazio più vasto. E più inquietante. E questa cosa sono le ingolfate sconcezze dell’hotel Champagne, le cordate di barattieri in toga che spartivano le procure, insomma il «l’affaire Palamara». È un prima che sembra annunciare, in modo nefasto, un dopo. Perversione che si pone come premessa metodologica di altre. 

Non varrebbe la pena di indagare se non sia il contorno di un sistema, verrebbe da dire con Sciascia, di un ‘’contesto’’, dove la Spartizione nel Terzo Potere è norma consustanziale? E poi nel caso Berardi le violazioni sono così sfacciate, evidenti, volgari che si specchiano nell’argot delle mail del caso Palamara. C’è odore di qualcosa di stratificato, sistematico, si va a colpo sicuro, non si ipotizza la possibilità di uno scacco, l’impunità pervade. 

Ci stiamo occupando con il Csm della cuspide della cometa spartitoria. E se la base di questa oleografia dell’intrallazzo togato fosse proprio il concorso da cui escono i futuri magistrati…? Non è opportuno approfondire? Berardi e la sua odissea possono fare da utile baedeker.

Dunque: il 20 maggio a Roma, hotel Ergife, la sede dell’esame trapela afa, ‘«sembrava di entrare in uno stadio»’, ci si sente prosciugati come una carta assorbente. Come potrebbe dimenticarli quei tre giorni, gli hanno assorbito la vita, il Tempo. Non c’è stato giorno, Natale e Pasqua compresi, in cui non vi abbia dedicato, aiutato soltanto da una collega dello studio, Anna Mattioli, pazienza passione rabbia ostinazione sapienza giuridica. Erano diecimila, alla fine consegnarono in 2444.

Succede talvolta: il caso, la fortuna. All’esame di maturità è la lettera di Cicerone da tradurre che hai letto la sera prima nell’ultimo ripasso. Per lui fu dissertare su ‘’la responsabilità penale professionale del medico’’. Due mesi prima aveva affrontato proprio un caso di questo tipo per lo studio dove faceva pratica, sapeva tutto, fino alle recentissime modifiche legislative. Sottopone i tre elaborati al giudizio di magistrati e professori di diritto: perfetto, si vaticina già il voto più alto. Bocciato in tutti e tre. Non ammesso all’esame orale. 

Fu allora che Berardi fece un gesto senza precedenti, rivoluzionario: il bocciato invece di rassegnarsi e transumare nella sessione seguente chiede copia degli elaborati e del relativo verbale che motiva il seppellimento nell’elenco dei falliti. C’è la legge: 241/90!

Qui inizia una guerriglia: dinieghi, rinvii, rifiuti, controricorsi, silenzi. Dapprima gli forniscono solo i suoi temi, se li rilegga! una beffa. Per ottenere il verbale devi rivolgersi al Tar e presentare denuncia alla procura di Roma e a quella di Perugia competente: assonanze. Si piegano all’ordine. La reticenza aveva motivo: risulta che la valutazione di ogni elaborato è durata in media tre minuti ciascuno; compresi i tempi morti per la discussione che deve essere collegiale, apertura materiale delle buste, decifrazione non agevole della scrittura di ogni candidato poiché per legge gli elaborati sono redatti a mano. Si andava di fretta, non c’era suspence: gli idonei, secondo il mos italicus, erano già noti. 

Berardi insiste. Dopo due anni ottiene di vedere tutti gli elaborati. E’ una pendenza rognosa l’avvocato che viene da Asti, un idealista del diritto, specie pericolosa per il malaffare. In più si è fatto accorto nel controbattere stregonerie leguleie, le raffiche di ricorsi dissestano fragili barricate dilatorie o unguenti cosmetici amministrativi apposti agli abusi. 

Dagli elaborati dei promossi (e ormai al lavoro in tribunali e procure taluni con profitto anche mediatico) spuntano orrori: evidenti segni di riconoscimento lasciati sui fogli, come saltare le prime righe o scrivere solo su una parte delle facciate o cambi di calligrafia in punti chiave. E poi errori di diritto così elementari da decapitare uno studente di giurisprudenza, uno confonde dolo con colpa, un altro parla di diritto civile in un tema di penale, una brutta copia è allegata come parte dell’elaborato. Si possono citare solo i codici e le istituzioni di Gaio, allegramente i candidati virgolettano, interpunzioni comprese, bocconi del Digesto. E poi c’è il giallo: il direttore generale del ministero comunica che non può fornire l’elaborato numero 1101, uno dei promossi con voto più alto: è scomparso da più di un anno!

E poi ci sono le firme: un verbale, il 182, ad esempio, è firmato «letto ed approvato» da un componente della commissione che non era presente. Si pone riparo, maldestramente, con firme aggiunte. Un falso che rende l’atto amministrativamente inesistente. Lo racconta in un libro, con i documenti, il professor Cosimo Lorè. I commissari hanno lavorato grossolanamente, si plana super leges allegramente. Non l’avete ancora capito: chi mai andrà a indagare sull’esame? E anche se lo facessero? I francesi la chiamano "camaraderie’’: qualcosa che sta tra lo spirito di corpo e la complicità.

Berardi capisce di scontrarsi con un Sistema per cui non esiste la ammissione di colpa. Gli apre gli occhi la frase che gli rivolge l’allora procuratore generale presso la Corte di cassazione Vittorio Sgroj a cui ha esposto lo scandalo del concorso truccato: «Lei ha ragione, caro Berardi, ma io che ci posso fare?».

Nel 2000 Berardi per un attimo si illude, forse…Evidenti le storture e le illegittimità, si ripeta l’esame per lui solo. Ma la commissione sarà la stessa che lo ha bocciato. La ricusa. Naturaliter lo ribocciano. Che cosa è a verità? Domandava Ponzio Pilato, che era appunto magistrato screditato. Il dubbio rimane.

Ora è in attesa di un ennesimo ricorso in Appello. Il coraggio viene facilmente meno allorché si pensa che tutto sia inutile, che la protesta resterà solitaria. Lui non si arrende, ha studiato per diventare magistrato, gli hanno insegnato il rispetto della legge. La tara, il sudicio che ha svelato per lui è una ferita dell’anima. Con i magistrati lavora ogni giorno: «La magistratura è come la Chiesa, dove ci sono i pedofili e i santi e quelli che stanno in mezzo». Domenico Quirico

Domenico Quirico su La Stampa, 12 luglio 2020. Il giallo lungo trent’anni del fascicolo 1101. Iniziamo da qui, un fascicolo scomparso, un dossier diventato ipotetico. Il fatidico fascicolo 1101. Ouverture più che degna per un giallo. Soprattutto perché il fascicolo è sparito non dalle cantine soggette alla secolare e invadente golosità dei topi di qualche cimmerio municipio paesano. È scomparso dai luminosissimi archivi del ministero di Grazia e Giustizia. Nientemeno. E non riguarda l’anagrafe o una patente agricola. Per carità: gli infortuni amministrativi non sono mai innocui. Ma qui l’anima morta burocratica è collegata al concorso per la leva dei magistrati. Insomma ciò che deve figliare i pretoriani della garanzia di giustizia per i sudditi. Dovrebbe essere una casa di vetro, il concorso, trasparentissimo. Invece si svela un mondo di ombre, omissioni, perfino reati, difficile, impenetrabile dagli estranei (ovvero i sudditi), denso di grandi scambi, traffici. Insofferente a censure e indagini e all’altro giudizio che degli eguali (che da noi non ha mai funzionato). Insomma: estremamente inquietante. 

È il 1992: alla procura di Milano da febbraio, giorno 17, tiene banco un altro dossier. Intestazione: Chiesa Mario, arrestato. Le magnificenze di Mani pulite dunque. Breve dissolvenza. A Roma a maggio, giorno 21, hotel Ergife, lo slogan lombardo non sembra produrre neppure fiacchi stimoli: nella faccenda dell’esame per uditori giudiziari le mani infatti sono tutt’altro che pulite, sono macchiatissime da infingarde furberie. In modo così plateale e malaccorto da sfiorare l’impudenza: firme false di magistrati segretari assenti, due minuti di attenzione per elaborato, segni di riconoscimento lasciati come tracce di elefante, scarabocchi da somari del diritto promossi a testi di esegesi giuridica, pura scenografia di un deliberato e disonesto inganno. Nello spegnimento di ogni regola i promossi erano già promossi prima ancora di consegnare. 

I «figli di». Gli esaminatori dovrebbero aver particolare riguardo a chi si presenta come «figlio di nessuno». Non sempre emerge il migliore ma almeno c’è la certezza che si opera con giustizia. Quel sinedrio di magistrati invece prestò molta attenzione a chi era appunto «figlio di qualcuno», ovvero parente, stretto o periferico, di altro magistrato. La lettura delle biografie dei promossi pare la genealogia delle cariche dell’antico Regime, quando i posti si compravano nei secoli per la famiglia. La toga sembra trasmettersi non per concorso ma per cromosomi. Ora qualcosa si muove. Due componenti laici del Consiglio superiore della magistratura, seppure in preda ai marosi del caso Palamara (o forse proprio la burrasca ha dato coraggio nello scrutare le magagne), hanno chiesto che il Csm apra una pratica presso la prima commissione «al fine di effettuare approfondita istruttoria». Inghiottito il crudo sapore burocratico-leguleio, forse ci siamo: si vuol lumeggiare i fenomenali e irregolari meandri che arrovellano quel concorso. Dopo ventotto anni: tempi lontani ma già assai torbidi, altro che Palamara. Ma in Italia certe piaghe, anche giudiziarie e amministrative, si sa, guariscono solo con il calendario dei secoli. 

Allora l’elaborato 1101. Lo suggeriamo alla possibile commissione di inchiesta, sarà come imboccare una autostrada. Riepiloga, evidenzia esemplifica; leggere i verbali della sparizione è come passar l’aratro, spunta terra fertilissima di illegittimità. Prendiamo alla larga. Il verbale scomparso, l’unico, non è un tema qualunque: perché è quello del candidato più encomiabile, miete osanna, diciassette nella prova di diritto civile, diciotto in quella di penale e sedici in diritto amministrativo. Viene voglia di leggerli quei tre succinti capolavori di dottrina. Ma non si può. Un candidato bocciato, Pierpaolo Berardi, oggi industrioso agonista forense, spezzando una consuetudine di rassegnato fatalismo, convinto della validità dei propri elaborati, voleva farlo, adocchiare i compiti dei promossi e i giudizi della commissione. Gliene dava diritto la legge. Legge virtuosa, da innalzare agli altari, quella sulla trasparenza degli atti amministrativi, sembra uscita da un vigoroso abbraccio tra Solone e Licurgo.

Il mistero dell’archivio. Scopre e ottiene venga certificato in sentenza il cumulo di irregolarità. Fa chiasso questo irriducibile ricorrente, il sistema gli oppone l’ostruzionismo, la faida amministrativa e corporativa. Salvo in un caso: il 1101 appunto. Qui l’anamnesi taglia senza appello le serie casuali della verifica. Sparito. Lo comunica il direttore generale del ministero, cautelandosi in modo cronologico: è sparito prima che io entrassi in carica. Amen. Il ministro dell’epoca, Flick, ordina si investighi su quel tableau trafficone. L’ultimo ad avere maneggiato il fascicolo è… uno dei segretari del concorso sgangherato. È andato all’archivio del ministero e ha chiesto di prelevarlo con vaghe motivazioni. Il responsabile dell’archivio, un ispettore di polizia penitenziaria, ricorda sommessamente al magistrato che la procedura prevede verbali con nome e firma e ovviamente una replica alla riconsegna. Il magistrato ignora, una rapida consultazione dice non si perda tempo, e se ne va con il fascicolo come fosse roba sua. È l’ultimo a vederlo. Il 1101 sparisce nella catastrofe del buio. L’ispettore, ammaestrato da secoli di scaricabarile burocratico, appunta nome e ora della operazione imperfetta. Non si sa mai. Come dargli torto in una simile giungla? Tutto qui? Non vi basta? L’inchiesta non è certo svolta da torchiatori implacabili, nessuno incalza il segretario; il promosso poi chiamato in causa, molto cautelativamente per carità, è già magistrato, sulla «movimentazione del fascicolo» parla fumosamente di una richiesta per diventare collaboratore giudiziario della Federazione gioco calcio. Emerge anche un appunto per il «signor capo di Gabinetto del ministero» che vuole sapere cosa opporre a quel contraddittore tignoso che ammonticchia in Tar e procure ricorsi e denunce. 

La data c’è: 8 giugno 1996. Il nome del magistrato che lo ha redatto negando che ci siano irregolarità no. Giusta precauzione l’esser così anonimo e discreto. Dopo anni e altre vittorie giudiziarie Berardi ottiene che gli sia dato il nome: è il cugino del candidato 1101, magistrato fuori ruolo addetto al ministero della Giustizia. Quel concorso era proprio un affare di famiglia per lui: aveva due parenti candidati, e promossi, cugino e fratello. Patologico non vi pare? Un predestinato il 1101. In delizioso sgomento scopriamo che attorno a lui, che con brillante carriera è diventato tra l’altro presidente del tribunale che si occupa dei reati dei ministri, si ingrossa una confortevole folla di toghe consanguinee. Il padre è alto magistrato, la madre pure, e poi i fratelli e i nipoti. Si potrebbe tener giustizia in tinello, come ai tempi di Omero.

Lotta contro il sistema. È evidente il rifiuto ostinato di porre rimedio a quelle irregolarità. Il chiericato giudiziario non tollera passi a vuoto, riconoscimenti di errore, visto che è lui stesso a controllarsi. A costo di negare l’evidenza. Quali sarebbero le conseguenze del riconoscimento della illegittimità? Fino al 2015 si affermava con disinvolta e spiccia giurisprudenza che l’atto, ovvero la sentenza, heghelianamente assolve perfino la illegittimità di chi l’ha compiuto. Ma in quell’anno la Corte costituzionale, di fronte al caso di funzionari dell’Agenzia delle entrate promossi senza concorso, ha stabilito che gli atti sono nulli. Nel caso del concorso dunque anni di storia giudiziaria da riscrivere, una soap-opera di sentenze cancellate: si ballava sul cratere di un vulcano. Quindici giorni fa la Corte ha fatto marcia indietro: il celebrante ha un peccato originale ma il sacramento della giustizia è valido. Domenico Quirico

Concorsi truccati per diventare magistrati: il Csm resta muto? Prof. Guido Neppi Modona, già vice presidente della Corte Costituzionale, il 2 luglio 2020 su Il Dubbio. Il trucco degli elaborati non anonimi e degli esaminatori truffaldini: un gravissimo danno d’immagine cui va posto rimedio. Su La Stampa di lunedì 29 giugno, Domenico Quirico ha delineato un quadro agghiacciante dei concorsi per l’ingresso in magistratura, una sorta di premessa a quanto abbiamo recentemente scoperto con la sciagurata vicenda Palamara. A seguito di innumerevoli ricorsi un concorrente bocciato nei concorsi del 1992 e del 2000 è riuscito ad acquisire la completa documentazione relativa del concorso del 1992, ed è appunto a quella documentazione che si riferisce l’articolo di Quirico. Che scandalo silenzio di tutti, Csm compreso, sui concorsi truccati per diventare magistrati. Veniamo così a conoscenza del sofisticato e truffaldino sistema grazie al quale gli elaborati di alcuni candidati, che dovrebbero essere tutti rigorosamente anonimi, erano invece agevolmente individuabili; erano appunto quelli dei candidati che dovevano essere comunque dichiarati idonei, quelli per cui si era mossa la macchina della corruzione che attraverso vari passaggi arrivava ai componenti – magistrati e professori universitari – della commissione giudicatrice del concorso. I segni di riconoscimento lasciati sugli elaborati consistevano ad esempio nel saltare la prima riga dei fogli formato protocollo ovvero scrivere una facciata sì e una no. Ed ancora, dai verbali dei lavori della commissione giudicatrice risulta che la valutazione media su ciascun candidato è durata tre (3) minuti, durante i quali si sarebbe dovuto leggere e valutare collegialmente i tre temi di diritto civile, penale e amministrativo. Certo, la commissione era in grado di lavorare speditamente, posto che si sapeva in anticipo quali erano i candidati che dovevano comunque essere promossi. Pare anche che i temi di alcuni degli idonei contenessero errori clamorosi e grossolani, impensabili per qualsiasi laureato in legge. Siamo così venuti a conoscenza che un certo numero di magistrati per definizione truffatori, corrotti e corruttori da decenni esercitavano impunemente funzioni giudiziarie in cui vengono necessariamente in gioco fondamentali diritti personali e patrimoniali dei cittadini. Ho atteso qualche giorno a scrivere su questa vicenda perché mi auguravo che l’articolo suscitasse qualche reazione, qualche presa di posizione degli organi posti al vertice della magistratura o deputati al suo governo, dal presidente al Procuratore generale della Cassazione, dal Consiglio superiore della magistratura al ministro della giustizia. Purtroppo l’unica risposta è stata un silenzio assordante. Il che vuol dire che quelle rivelazioni non potevano essere smentite e che il Csm e i vertici della magistratura ne erano al corrente. Ma queste implicite ammissioni non bastano, i cittadini e la stragrande maggioranza dei magistrati onesti, quelli che hanno vinto il concorso senza ricorrere a loschi traffici e svolgono degnamente il loro mestiere, vogliono sapere di più. Vogliono sapere se i concorsi truccati del 1992 e del 2000 sono stati deviazioni isolate o costituiscono una prassi costante e tuttora attuale; se a suo tempo erano stati iniziati procedimenti penali e disciplinari nei confronti dei magistrati corrotti che facevano parte delle commissioni di concorso; se i magistrati truffaldini entrati abusivamente in carriera, di cui sono noti i nomi, sono stati destituiti e denunciati in sede penale; se e quali misure i vertici della magistratura e il Csm intendono assumere per evitare che la vergogna dei concorsi truccati possa ripetersi. Vi è da domandarsi quale fiducia possono riporre i cittadini in una magistratura di cui continuano a fare parte giudici e pubblici ministeri che erano già corrotti e corruttori prima ancora di entrare in servizio. Il gravissimo danno di immagine e di credibilità arrecato alla magistratura italiana potrà essere almeno parzialmente riparato solo da immediate risposte che dimostrino la volontà di contrastare lo scandalo dei concorsi truccati. Il silenzio del Consiglio e dei vertici della magistratura significherebbe che bisogna accettare di convivere con una fetta minoritaria ma potente – il caso Palamara insegna – di magistrati corrotti e corruttori. Ma questo atteggiamento non sarà mai avallato – ne sono certo – dalla stragrande maggioranza dei magistrati onesti e dalle forze politiche che si richiamano ai principi costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e della soggezione dei giudici soltanto alla legge. 

Giustizia nel caos. Toghe e concorsi truccati: la Calabria e il filo diretto con il potere (di Saverio Di Giorno). Da Saverio Di Giorno su Iacchite il 2 Agosto 2020. E se l’ennesima vicenda che riguarda la magistratura avesse a che fare con la Calabria? Quasi non fosse un luogo geografico, ma un luogo della coscienza per cui chiunque venga dalla Calabria sia marchiato a fuoco. Nei giorni scorsi, sulla Stampa, in due articoli a firma di Domenico Quirico si ripercorre la storia di un concorso truccato in magistratura. Gli articoli hanno spinto il sempre tardivo Csm a vederci chiaro. Quirico ripercorre la storia trentennale del penalista Pierpaolo Berardi e si imbatte in un fascicolo sparito: il 1101. Come questa storia è addirittura arrivata in un’interrogazione parlamentare che abbiamo ritrovato?

Bisogna riavvolgere il nastro fino al 1992, annus horribilis per l’Italia. Berardi viene bocciato, ma chiede di vedere i suoi elaborati. “Qui inizia una guerriglia: dinieghi, rinvii, rifiuti, controricorsi, silenzi” e poi Quirico continua “la reticenza aveva motivo: risulta che la valutazione di ogni elaborato è durata in media tre minuti ciascuno; inclusi i tempi morti per la discussione che deve essere collegiale (…) Si andava di fretta, non c’era suspence: gli idonei, secondo il mos italicus, erano già noti”. Non solo, ma come scrive La Stampa gli elaborati erano pieni di errori sesquipedali, segni di riconoscimento e si arriva infine al fascicolo 1101. “Uno dei promossi con voto più alto”. Il suo fascicolo è scomparso.

L’articolo successivo fornisce ancora più indizi in merito: questo elaborato è quello che ha “diciassette nella prova di diritto civile, diciotto in quella di penale, sedici in diritto amministrativo”. L’ultimo che ha visto quel fascicolo è proprio uno dei segretari di quel concorso. Il promosso costretto a rendere conto parla di una richiesta per diventare collaboratore giudiziario per la FIGC (Federazione Italiana Gioco Calcio). Quirico tira fuori una serie di altri tratteggi: un appunto per il “signor capo di Gabinetto del ministero” e poi scrive che il promosso, ora magistrato, non era l’unico in famiglia e nel concorso: madre, zii, cugini. Praticamente un titolo nobiliare più che una professione. Fin qui la Stampa.

Articoli che hanno smosso il Csm e quindi non potrebbero non smuovere anche gli ambienti calabresi. A quanto pare, questa regione pare avere un filo diretto con gli ambienti più alti del potere e questi, come visto, non si muovono se non, magari, dopo una cena vista mare in Calabria. Vicende così, ormai lo sappiamo, vengono dimenticate ufficialmente, ma in realtà nessuno perde e dimentica nulla. Sono come ancore, pesi che tengono fermi tutti nel caso qualcuno decidesse di rompere il muro del silenzio. Quando la fede crolla, il peccato originale non dà più rimorsi, quindi quello che tiene i fedeli legati è la confessione. Nel caso poi qualcuno le tiri fuori, altri ne approfittano per affondare chi è già bruciato, tirando fuori dell’altro ai propri scopi: è quello che sta succedendo da quando abbiamo iniziato a trascrivere quello che Facciolla ha detto a Salerno, per esempio. Per evitare episodi simili, quindi, sarà bene fare qualche altra ricerca per tracciare l’identikit di questo promosso. E una cosa tra gli archivi salta fuori.

Un’interrogazione a risposta scritta 4/33846 presentata da Nicola Vendola in data 2001/02/06. In questa interrogazione ritroviamo molti indizi dalla Stampa, troppi per non pensare che si tratti proprio della persona con quel numero di fascicolo. Innanzitutto, i voti riportati dal quotidiano e si aggiunge che “la suddescritta terna di voti era stata conseguita, in tutto il concorso, unicamente da un candidato”; trova ulteriore conferma un altro aspetto: “l’Ispettore del Ministero, dottor Mauro, durante l’interrogatorio (…) chiede di conoscere quali erano state le motivazioni che giustificassero la movimentazione del suo fascicolo. Lo stesso racconta che il tutto era nato da una sua richiesta di diventare collaboratore dell’Ufficio indagini della F.I.G.C. (Federazione Italiana Gioco Calcio)” – come riportato dalla Stampa. Insomma, come si dice, la verifica incrociata restituisce un solo nome: Francesco Filocamo. L’oggetto dell’interrogazione di Vendola. Origini calabresi.

Un cognome che è in comune ad una schiatta di magistrati imparentati. Come appunta Quirico. La moglie del dottor Felice Filocamo e madre del dottor Francesco Filocamo, è essa stessa magistrato; il figlio del dottor Felice Filocamo, dottor Fulvio Filocamo, è esso stesso magistrato; il nipote del dottor Felice Filocamo, é il dottor Gerardo Dominijanni, anch’esso magistrato. La Stampa si chiede: una volta appurata l’irregolarità di quel concorso, cosa succederà? Le sentenze dei magistrati di quel concorso saranno nulle e le “vittime” di questi magistrati, vanno risarcite? Ma dopotutto, anche qualora il radar della legge non segnali nulla, quello della giustizia insorge, soprattutto alla luce di quanto il cognome Filocamo rappresenta.

La famiglia Filocamo è l’esatta rappresentazione del Potere in Italia, nel bene e nel male. Di come lo Stato, sia sempre più un potere, un leviatano, un calamaro da mille tentacoli. Non solo magistratura, ma anche politica. Infatti, in un’altra interrogazione, questa volta regionale del 2000, viene messo in luce che tra i componenti tecnici dell’Agenda 2000 viene nominato Felice Maria Filocamo e ci si chiede se sia il fratello dell’assessore alla sanità di allora che è appunto un Filocamo, perché in tal caso ci sarebbe un’evidente anomalia. Non solo politica, ma anche economia. In un libro, Gomez e Barbacetto ricostruiscono i rapporti tra parenti e società e in particolare Giovanni Filocamo (ex direttore dell’Asl di Locri ed ex assessore alla sanità) ha un fratello, Felice (a riscontro di quanto si dice nell’interrogazione) che è presidente della Sorical. In una terra come la Calabria (e perché no, l’Italia) come si concilia tutto questo con l’uguaglianza, l’equità concreta, con il fornire pari opportunità e garanzie a tutti?

Ma come se tutto questo già non fosse un groppone pesante da mandar giù, quasi tutti i componenti, oltre ad aver in comune una toga, hanno in comune l’essere indagati. Che sia Catanzaro o Reggio, De Magistris o l’indagine Primavera, abuso d’ufficio o mafia, poco importa. Perché a quanto risulta nessuno di questi procedimenti poi giunge a condanna. C’è dell’altro? Una piccola chicca per dare ancora più plasticamente l’immagine del potere in Italia prima di tirare le fila del discorso.

Un Felice Maria Filocamo figura anche tra gli appartenenti al C3 International, una sorta di lobby nata per portare avanti e unire i calabresi nel mondo. E infatti troviamo all’interno quasi tutti i calabresi che contano e non solo. Stampa, magistrature, grandi aziende, politica. Non manca nessuno, un organigramma delle varie articolazioni del potere. Quella della C3 è un’iniziativa lodevole se non fosse sporcata dal fatto che molti degli appartenenti sono stati indagati o sospettati di appartenere a logge massoniche non esattamente regolari. Anche in questo caso rari o assenti i casi di condanne, ma a questo punto quasi ce lo si aspetta.  Il fatto è che in questo intreccio di relazioni e parentele viene il legittimo dubbio che succeda questo: si potrà mai condannare un cugino o un compagno di cena nella C3? O viceversa, se ho per le mani soldi pubblici, perché non fare un regalo al mio commensale? A chi non verrebbe una tale tentazione scagli la prima pietra. Poi magari sono tutti animati da uno spirito lodevole, ma non è una visione che concilia con la democrazia, la trasparenza e l’indipendenza.

Di fronte a tutto questo, alla domanda della Stampa: cosa succede se qualcuno di questi incappa in problemi? La risposta la sappiamo: niente. In finanza, quando una grossa banca va in perdita si deve far di tutto per salvarla perché altrimenti si tira giù uno Stato intero. Si dice too big to fail. Troppo grossa per fallire. È all’incirca un vecchio detto popolare riciclato in salsa Wall Street: chiova semp ndu bagnatu; le disgrazie ai disgraziati, le fortune ai fortunati. Cosi è in questi casi: se anche una sola cosa venisse fuori, la più innocente rischierebbe di tirarsi giù tutti gli altri, perché se uno ha un peccato devono averlo tutti. O tutti o nessuno. Lo abbiamo detto prima, altrimenti non funziona. E qua in Calabria, dove non c’è bisogno di indossare doppiopetto e parlare bene lo sappiamo bene perché queste cose sono già venute fuori e tornano periodicamente. Escono fuori sfrontate, caparbie, sdegnose e vanno insieme per strada, nei circoli, nei ristoranti … a mangiare calamari.

INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/33846 presentata da VENDOLA NICOLA (MISTO) in data 02.06.2001

Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che: in relazione al concorso per uditore giudiziario bandito con decreto ministeriale del 30 dicembre 1991 sarebbero emersi dati e fatti, in particolare dalla visione degli elaborati di coloro che hanno superato la prova scritta, che dimostrerebbero come siano state commesse gravissime irregolarita' e veri e propri reati; tale dottor Pierpaolo Berardi, partecipante a detto concorso richiese, tra gli altri, gli elaborati dei candidati che superarono le prove scritte redatte nel verbale n. 101; il Ministero, con una comunicazione al dottor Berardi, riferiva al Berardi che il medesimo era stato autorizzato dal Ministro ad estrarre copia di quanto richiesto, ma che allo stato non era possibile rilasciare copia degli elaborati del candidato n. 1101 (fascicolati all'interno del verbale n. 101), poiche' il relativo fascicolo concernente detto candidato, oggi magistrato, non esisteva piu' all'interno dell'archivio del Ministero; al dottor Berardi pervenivano i verbali delle sedute di correzione, tra cui quello riguardante la seduta di correzione del candidato n. 1101; la votazione di detto candidato era: per la prova di diritto civile di diciassette, per quella di diritto penale diciotto e per la prova di diritto amministrativo sedici; la suddescritta terna di voti era stata conseguita, in tutto il concorso, unicamente dal dottor Francesco Filocamo, oggi magistrato del Tribunale di Civitavecchia; in seguito a tale vicenda l'allora Ministro, professor Flick, dava mandato all'Ispettorato del ministero di provvedere ad una ispezione in ordine alla scomparsa di detto fascicolo, con i relativi elaborati; la moglie del dottor Felice Filocamo e madre del dottor Francesco Filocamo, e' essa stessa magistrato; il figlio del dottor Felice Filocamo, dottor Fulvio Filocamo, e' esso stesso magistrato; il nipote del dottor Felice Filocamo, e' il dottor Gerardo Dominijanni, anch'esso magistrato; risulta all'interrogante che il dottor Gerardo Dominijanni e' stato magistrato fuori ruolo con funzioni amministrative addetto al Gabinetto del ministero della giustizia; risulta all'interrogante che il dottor Gerardo Dominijanni attualmente ricopre l'incarico di magistrato addetto al Giudice della Corte costituzionale, dottor Annibale Marini, quest'ultimo e' stato membro della commissione esaminatrice del concorso per uditore giudiziario bandito con decreto ministeriale del 30 dicembre 1991; risulta all'interrogante che il dottor Paolo D'Alessandro e' stato membro della commissione esaminatrice per uditore giudiziario del concorso bandito con decreto ministeriale del 30 dicembre 1991; in data 27 maggio 1996 il dottor Pierpaolo Berardi e la dottoressa Teresa Calbi, depositavano un esposto in ordine a tutta la vicenda concorsuale; nella stessa giornata il Gabinetto del Ministro dava mandato ad un magistrato del Gabinetto medesimo di svolgere una istruttoria di tipo amministrativo per verificare quanto denunciato dagli esponenti dottor Berardi e dottoressa Calbi; dalla visione degli atti scaturiti dall'inchiesta amministrativa si rilevava in particolare un "appunto per il signor vice capo di Gabinetto", il cui contenuto e' stato smentito dalle decisioni dei giudici amministrativi (TAR Lazio, I sezione decisione n. 2112/96, TAR Lazio, I sezione decisione 697/97 e Consiglio di Stato, IV sezione, decisione 2915/2000); il dottor Berardi ha potuto prendere visione ed estrarre copia degli atti dell'ispezione disposta a seguito della scomparsa del fascicolo del dottor Francesco Filocamo; dalla lettura dei documenti indicati emerge quanto segue: a) vi e' un "appunto per il signor vice capo di Gabinetto" redatto a seguito di un incarico conferito in data 27 maggio 1996 ad un magistrato; b) tale appunto, e' stato solo siglato e datato (8 giugno 1996) da un magistrato appartenente all'Ufficio di Gabinetto del Ministro (depositato il 18 giugno 1996); c) il dottor Fulvio Monteleone magistrato reggente l'Ufficio VII della Direzione Generale dell'Organizzazione Giudiziaria del ministero della giustizia chiese il fascicolo riguardante il dottor Francesco Filocamo al dottor Petruccelli, ispettore di Polizia penitenziaria responsabile dell'archivio del ministero; d)la data di tale richiesta con il relativo prelievo del fascicolo (lo si evince dall'appunto) e' del 13 giugno 1996; e)il dottor Monteleone in una comunicazione al direttore della direzione generale dell'organizzazione giudiziaria neghera' di aver asportato il fascicolo del dottor Filocamo dall'archivio del ministero; f) il dottor Petruccelli dopo una settimana concessa al dottor Monteleone per la presa in visione del fascicolo Filocamo, insistentemente glielo chiese indietro, ma il dottor Monteleone non ricordava piu' a chi l'avesse consegnato; g)il fascicolo del dottor Francesco Filocamo con i relativi elaborati risulta scomparso dall'archivio del Ministero della giustizia, secondo la comunicazione prot. n. 1917 g/rs 1849 della direzione generale del Ministero della giustizia; il dottor Filocamo interrogato dal dottor Mauro, Ispettore incaricato dell'indagine, in ordine alla scomparsa del fascicolo, asserisce di non conoscere dove operi il cugino (dottor Dominijanni) all'interno del Ministero e di non avere alcun tipo di rapporto con lui; l'Ispettore del Ministero, dottor Mauro, durante l'interrogatorio del dottor Francesco Filocamo chiede di conoscere quali erano state le motivazioni che giustificassero la movimentazione del suo fascicolo. Lo stesso Filocamo racconta che il tutto era nato da una sua richiesta di diventare collaboratore dell'Ufficio indagini della F.I.G.C. (Federazione Italiana Gioco Calcio), mentre il padre, dottor Felice Maria Filocamo, escusso anch'esso in merito alla movimentazione del fascicolo dichiara che non fu mai presentata alcuna istanza che potesse giustificare la movimentazione e l'esame del fascicolo stesso -: a chi sia stato affidato l'incarico conferito il 27 maggio 1996 per la redazione di un appunto per il vice capo di Gabinetto del Ministro; per quale motivo l'appunto dell'8 giugno 1996 sia stato solo siglato e datato e non firmato e protocollato in modo comprensibile e leggibile; quali valutazioni dia dei fatti suddescritti; quali provvedimenti e iniziative, anche di natura ispettiva e disciplinare, intenda adottare in relazione ai fatti sopra denunciati. (4-33846)

Esposito, da Antonio a Vitaliano: una famiglia di toghe tra gaffe e scivoloni, scrive “Libero Quotidiano”. Una famiglia spesso in prima pagina, e non sempre in buona luce. Quella degli Esposito è una storia fatta di toghe, giustizia, scivoloni e gossip. Il più famoso è ormai Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione (nonché alla guida dell'Ispi) che lo scorso agosto condannò Silvio Berlusconi al processo sui diritti tv Mediaset e che, pochi giorni dopo, anticipò le motivazioni di quella sentenza in una improvvida conversazione con un abile cronista del Mattino. Inevitabili il polverone delle polemiche e le accuse di parzialità del collegio giudicante, anche perché un testimone riferì di presunti commenti contro Berlusconi rilasciati in libertà dal giudice durante una cena. Pare probabile che il Csm voglia archiviare il caso senza procedere a sanzioni disciplinari. La figuraccia, in ogni caso, resta, con tanto di richiamo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in quelle caldissime settimane di fine estate 2013, alla "continenza" per chi di mestiere fa il giudice. Le bucce di banana per la Esposito family non finiscono qui: l'ultimo a inciamparci è il figlio di Antonio, Ferdinando. Pubblico ministero a Milano, risulta indagato a Brescia e a Milano in seguito alle accuse di un suo amico avvocato, che sostiene di avergli prestato soldi e di essere stato "pressato" per pagargli l'affitto di casa. Prima ancora, era finito al centro del gossip per un incontro con Nicole Minetti (sotto processo per il Rubygate) avvenuto in un prestigioso ristorante milanese nel 2012. L'altro ramo della famiglia è altrettanto prestigioso: Vitaliano Esposito, fratello di Antonio, è stato Procuratore generale della Cassazione. Sempre sul finire dello scorso agosto è stato "paparazzato" in spiaggia nel suo stabilimento abituale ad Agropoli, nel Cilento. Piccolo particolare: lo stabilimento era abusivo. Foto imbarazzante, invece, per sua figlia Andreana Esposito, giudice alla Corte europea dei diritti dell'Uomo. Un po' di clamore aveva suscitato lo scatto da lei pubblicato sui social network (e poi cancellato in fretta e furia) in cui esibiva una maglietta decisamente inappropriata per una toga: "Beato chi crede nella giustizia perché verrà... giustiziato", slogan che aveva messo in allarme lo stesso Cavaliere, che di lì a qualche mese si sarebbe rivolto proprio alla Corte europea per vedere ribaltata la sentenza stabilita dallo zio di Andreana. Un corto circuito da barzelletta.

Andreana Esposito, napoletana, classe 1966, professore aggregato di diritto europeo e sistema penale alla facoltà di giurisprudenza alla seconda università di Napoli, componente dell’ufficio studi della Corte Costituzionale, e nipote di Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato Berlusconi, è nell’elenco dei giudici ad hoc italiani applicati per il 2013 proprio alla Corte europea dei diritti umani. Lo è interrottamente dal 2010, quando Gianni Letta (all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio) si battè come un leone per farle avere questo incarico di consolazione. Lo stesso Letta, che aveva ottimi rapporti con il padre di Andreana, l’ex procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, aveva fatto inserire la giovane giurista (che dal 2004 al 2006 aveva già collaborato con il governo Berlusconi) nella terna di candidati italiani a sostituire a Strasburgo Vladimiro Zagrebelski. La sua nomina sembrava cosa quasi fatta, quando dal Vaticano partì una lettera indirizzata a Letta, al governo e ai membri italiani dell’assemblea del consiglio di Europa, in cui si manifestava forte disappunto per la scelta della Esposito, accusata di avere espresso in alcuni scritti posizioni assai radicali su valori sensibili per la Chiesa (come la bioetica e il diritto di famiglia)". Finì che alla prova del voto dell’assemblea del Consiglio di Europa la professoressa Andreana fu terza su tre, e il giudice italiano eletto (ed attuale vicepresidente della Corte) fu Guido Raimondi. La giovane Esposito fu però subito inserita nella lista dei giudici ad hoc che di tanto in tanto venivano applicati alle cause della Corte, e l’anno successivo divenne pure membro del comitato europeo per la prevenzione della tortura presso il Consiglio di Europa (vi resterà fino al 2015). Andreana dunque a Strasburgo è ormai di casa, e non è fatto improbabile che ancora una volta la vicenda giudiziaria di Berlusconi possa incocciare in un membro della famiglia Esposito. Non cambierà poi tanto, perché anche se dall’Italia ogni anno piovono ricorsi sulla Corte di Strasburgo, la regola costante e che quasi nessuno trovi soddisfazione. E anche nei rarissimi casi in cui questa arrivi, non è che cambi radicalmente la vita dei ricorrenti: basti pensare che il povero Bettino Craxi riuscì ad avere riconosciute le sue ragioni, e la Corte bacchettò l’Italia per non avergli assicurato un giusto processo. In quel caso furono per altro respinti due dei tre motivi di ricorso, e pure la richiesta di un risarcimento danni, perché la Corte stabilì che bastava ed avanzava la soddisfazione morale per l’unica decisione favorevole. Ecco, questo è un punto chiave: la Corte europea dei diritti dell’uomo non ribalta sentenze nazionali, in rarissimi casi stabilisce condanne politiche e morali dello Stato portato in giudizio e qualche risarcimento assai contenuto al ricorrente (nella maggiore parte dei casi inferiore ai 10 mila euro). Ma non accade quasi mai: nel 2012 su 128.100 ricorsi che arrivavano da tutta Europa, hanno trovato parziale soddisfazione solo 1.093 casi. Per l’Italia non sono stati bocciati solo 63 ricorsi, e solo in 36 di questi è stata ravvisata una violazione della convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma anche in questi casi si tratta di accoglimenti parziali dei ricorsi, con risarcimenti concessi poco più che simbolici. L’unico sostanzioso (10 milioni di euro più centomila di risarcimento spese) è stato ottenuto dalla società Europa 7 e dall’imprenditore Francescantonio Di Stefano il 7 giugno 2012. Sostanzialmente si trattava di un doppio ricorso proprio contro Berlusconi, nella sua qualità di imprenditore (Europa 7 lamentava di non avere avuto la frequenza tv per colpa di Rete 4) e di presidente del Consiglio. Ma anche quei 10 milioni Di Stefano li ha ottenuti per il rotto della cuffia: la Corte ha respinto quasi tutti i motivi del suo ricorso, dichiarandoli irricevibili, e sull’unico accolto che ha dato origine al risarcimento, i giudici si sono spaccati: 8 favorevoli e 7 contrari, con tanto di pubblicazione in allegato dei motivi di dissenso. Vale la pena di addentrarsi nelle clamorose bocciature della Corte: negli ultimi due anni a parte avere riconosciuto a qualche cittadino risarcimenti di mille o duemila euro a integrazione della legge Pinto per la durata eccessiva dei loro processi, da Strasburgo sono arrivati solo schiaffi in faccia ai poveri ricorrenti italiani. L’unico ad avere messo parzialmente in crisi quei giudici è stato il boss dei boss della mafia, Totò Riina. I giudici europei hanno bocciato infatti quasi integralmente il suo ricorso contro il 41 bis. Però hanno sospeso il giudizio e si sono presi tempo per riflettere se avere messo una telecamera nel wc della cella di Riina per riprendere anche i suoi bisogni, sia compatibile o meno con i diritti umani… 

Sicuramente avrebbe preferito l’anonimato, nel quale ha tentato di rifugiarsi, continua “Libero”. Andreana Esposito, figlia di Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione e nipote di Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato Silvio Berlusconi, non ha gradito la rivelazione di Libero sulla sua applicazione nel 2013 come giudice ad hoc alla Corte europea dei diritti dell’uomo a cui il leader Pdl vorrebbe ricorrere. Così da ieri mattina la giurista ha oscurato tutte le sue foto da lei stessa postate sul social network Google + (anche quella dove indossa una maglietta con la scritta «Beato chi crede nella giustizia, perché verrà giustiziato») e allo stesso tempo ha oscurato e protetto anche tutti i tweet visibili a chiunque fino alla sera precedente. Non che ci fosse molto da nascondere: la professoressa Andreana (è professore aggregato di diritto europeo e sistema penale alla facoltà di giurisprudenza alla seconda università di Napoli) aveva cinguettato in tutto 150 volte, in gran parte per rilanciare video musicali o articoli del Fatto quotidiano. Da quelli si capisce che ama in particolare modo la cantante Malika Ayane (e le è piaciuta molto la canzone presentata all’ultimo festival di Sanremo , «E se poi»). La Esposito ha 18 seguaci e a sua volta segue 78 altri profili su Twitter. L’unico personaggio noto con cui ha vicendevole corrispondenza (si seguono a vicenda e quindi possono cinguettare in privato) è il leader di Sel, Nichi Vendola. Non risultano però loro discussioni nella bacheca pubblica, dove nelle ultime settimane ha naturalmente tenuto banco la vicenda del giudice Esposito. I commenti - tutti a difesa del magistrato - erano però quasi tutti di amici che frequentavano la bacheca. Lei si è limitata a diffondere un comunicato stampa dello zio sull’intervista al Mattino e una striscia satirica sulla famiglia Esposito pubblicata dal Fatto quotidiano.

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche F. Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

·         Togopoli. La cupola dei Magistrati.

Magistrati indipendenti dalla politica ? Macchè, sono i primi che vogliono “fare politica”! Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 22 Dicembre 2020. In 25 (tra cui Albomonte e Poniz) lasciano Magistratura Democratica: “Luogo escludente che seppellisce nel silenzio il dissenso interno”. Una decisione “dolorosa”, spiegano i firmatari nel lungo documento con cui hanno annunciato l’addio, per imprimere una “formidabile accelerazione” alla scelta di abbandonare il percorso verso Area. 25 magistrati iscritti a Magistratura democratica, tra i quali Eugenio Albamonte e Luca Poniz entrambi ex presidenti dell’ Anm, l’ Associazione Nazionale Magistrati , hanno annunciano la loro uscita dalla “storica” corrente di sinistra. Una frattura netta che emerge dal lungo documento firmato dai magistrati che definiscono “dolorosa” la propria scelta di staccarsi da Md definendolo “Un luogo escludente, autoreferenziale, assente dal dibattito politico reale, proteso ad una narrazione costantemente autoassolutoria degli eventi, opaco e ambiguo rispetto al progetto politico di Area e che seppellisce nel silenzio il dissenso interno“. Avete letto bene: progetto politico !!! “E’ ormai compromessa ogni possibilità di continuare a lavorare insieme e a riconoscersi in questa MD, che seppellisce nel silenzio il dissenso interno e a noi appare ormai come un luogo escludente, autoreferenziale, assente dal dibattito politico reale, proteso ad una narrazione costantemente autoassolutoria degli eventi, opaco e ambiguo rispetto al progetto politico di Area”, aggiungono i magistrati dissidenti puntando il dito contro la dirigenza, a loro opinione responsabile di aver impresso una “formidabile accelerazione” alla scelta di abbandonare il percorso verso Area, il gruppo comune con il Movimento per la giustizia, che vede unite da tempo le due correnti all’Associazione Nazionale Magistrati ed al Consiglio Superiore della Magistratura. Un errore secondo i 25 magistrati dissidenti secondo i quali la corrente di Area rappresenta ” l’unico soggetto politico” all’interno del quale “realisticamente è possibile provare a costruire un progetto di radicale rinnovamento della magistratura” . E “oggi che la questione del correntismo e delle sue degenerazioni è esplosa con tutta la sua violenza, la scelta di impiegare tutte le nostre energie” in questo progetto, scrivono, “è divenuta non più rinviabile”. La decisione dei 25 di staccarsi da Md secondo loro non va però intesa come una svolta moderata ai fini del consenso, sostenendo che è “una scelta pienamente in linea con le ragioni fondanti del gruppo di Magistratura Democratica, l’ambizione e l’aspirazione di cambiare la magistratura. Per questo non ci sembra più possibile rimanere iscritti a Magistratura Democratica”. Abbiamo letto e riletto più volte il lungo comunicato e ci siamo chiesti: e questa sarebbe la magistratura che vuole essere indipendente dalla politica, salvo poi farla loro, senza alcun delega elettorale ricevuta dal popolo ? La verità è che questa “casta” sta diventando un cancro sempre più pericoloso per la vita democratica del Paese, assoldando i soliti “pennivendoli” (chiamarli giornalisti ci disturba) proni in ginocchio ai voleri di questa magistratura sempre più politicizzata . Più il Paese è scivolato in una profonda crisi economica, arrivando a perdere il 30 per cento nel prodotto nazionale lordo rispetto ad altri paesi oltralpe come ad esempio la Francia, più la politica e il Parlamento hanno perso credibilità con l’arrivo del Movimento 5 Stelle, e più la magistratura si è allargata, assumendo un ruolo politico che non è proprio. Va ricordato che parte della politica e del Parlamento, ha rinunciato sempre più volentieri al proprio ruolo. Dapprima chiedendo legittimazione ai vari Di Pietro, De Magistris e compagnia varia, poi teorizzando addirittura insieme al M5S, il “primato” delle Procure. Un circolo “vizioso” questo da fermare al più presto possibile sperando che sia ancora un punto di non ritorno. L’arroganza e l’ambizione politica di una certa magistratura è figlia della crisi della politica. Se i magistrati avessero la statura morale, l’autorevolezza necessaria sarebbe auspicabile un loro maggiore impegno politico, chiaramente candidandosi e facendosi eleggere dai cittadini in Parlamento. Da quello che è sotto i nostri occhi, onestamente non sembra una realtà possibile …

Con le correnti e senza autocritica non si va lontano. Dimissioni in massa dall’Anm, altri 30 magistrati pronti a lasciare. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Dicembre 2020. «Ci sono diversi magistrati che stanno seriamente valutando di lasciare l’Associazione nazionale magistrati. Molti di loro, ed è più che comprensibile, sono titubanti perché la scelta è lacerante e c’è il timore di sentirsi abbandonati a se stessi. Io vorrei tranquillizzare questi colleghi: se decidono di lasciare l’Anm non resteranno soli. Ci sono tante brave persone che in questo momento sono disposte ad accoglierli in una nuova casa». Paolo Itri, pm attualmente in forza al pool Antimafia di Napoli, spiega le ragioni del distacco suo e di alcuni colleghi dall’Associazione. Anche se è presto per pensare alla nascita di una nuova associazione che possa accogliere gli indignati del metodo Palamara, sembra che un progetto ci sia già: «Si può pensare a un’associazione di natura culturale che abbia una duplice condizione per potersi iscrivere: l’appartenenza all’ordine giudiziario, quindi si tratterebbe di un’associazione di magistrati, e il non essere iscritti all’Associazione nazionale magistrati. Un’associazione culturale con valori ideali nei quali ci si possa riconoscere, con il totale e definitivo superamento della logica correntizia che è una logica vecchia, che ha dato pessima prova di sé e che, è inutile illudersi, non è capace di emendarsi da quelle che sono state le gravissime deviazioni a cui ha dato luogo». «La logica correntizia – ribadisce Itri – va semplicemente superata e basta». Sarebbero una trentina i magistrati napoletani pronti ad andare via dall’Associazione nazionale magistrati, seguendo la scelta fatta nei giorni scorsi da Itri e da altri quattro colleghi (i giudici Dario Raffone, Federica Colucci, Michele Caccese, Giuseppe Sassone). Ed è, inoltre, notizia di questi giorni anche la decisione di Catello Maresca, attuale sostituto alla Procura generale di Napoli e ormai protagonista di un caso che si è creato attorno alla sua possibile candidatura a sindaco di Napoli, di abbandonare l’Anm. «Per quanto ne sappia, si tratta di motivazioni personali che nulla hanno a che vedere con le nostre argomentazioni – spiega Paolo Itri – anche se possono esserci punti di contatto nel ragionamento che fa lui e in quello che facciamo noi». Sta di fatto che l’Associazione nazionale magistrati continua a perdere pezzi, e potrà perdere con essi anche credibilità, rappresentatività, quindi potere. «Noi siamo fortemente critici non solo nei confronti dell’attuale assetto dell’Anm, ma anche verso l’assoluta mancanza di autocritica che registriamo da parte dell’Associazione nazionale magistrati rispetto a determinate gravissime vicende che hanno visto coinvolti esponenti e rappresentanti dell’Associazione stessa, vicende rispetto alle quali né l’Associazione al proprio interno né la politica, e purtroppo dispiace dirlo, sta assumendo alcun genere di iniziativa atta a evitare il perpetuarsi di comportamenti che sono al di fuori di ogni regola e – commenta Itri – ai limiti dell’eversione». L’Anm appare come un’entità chiusa in se stessa e chiusa al dialogo. «Per dialogare bisogna essere in due, di fronte a chi non vuol dialogare non ci può essere alcun rapporto e per noi l’Ann non esiste più». Nelle parole di Itri c’è amarezza, ma anche voglia di guardare al futuro: «Per anni c’è stata una gestione clientelare e correntista delle nomine e delle questioni collegate, ora registriamo un’esigenza comune di totale e radicale cambiamento». Quanto al caso Maresca, Itri preferisce non commentare le voci su una possibile candidatura a sindaco («Sono scelte personali del collega», precisa) ma commenta la posizione dell’Anm che a Maresca ha chiesto pubblicamente di fare chiarezza sulla decisione di accettare la candidatura facendo riferimento anche a esigenze di tutela dell’immagine dell’intera magistratura: «Penso che per poter criticare determinate scelte e comportamenti – chiosa Itri – bisogna avere la statura morale per poterlo fare. Prima di indicare agli altri quali linee di comportamento tenere e quali sono le più consone ai canoni etici e deontologici, occorre rendersi credibili e l’Associazione nazionale magistrati, a seguito delle ben note vicende che l’hanno riguardata, non ha fatto quello che doveva fare, tanto che determinati errori sembra che continuino a perpetuarsi».

Anna Maria Greco per “il Giornale” il 23 dicembre 2020. Sembravano tutte d' accordo, le toghe: dopo il caso Palamara è d' obbligo superare le correnti. Solo che adesso Magistratura Democratica, quella di sinistra, frena il processo di fusione con il Movimento per la Giustizia nel cartello Area, che doveva riunire tutti i progressisti. E scoppia clamorosamente il caso, con le dimissioni di 25 iscritti di peso, compresi due ex presidenti dell' Associazione nazionale magistrati (Eugenio Albamonte e Luca Poniz) e un' accusa bruciante: «In Md seppellito il dissenso». Che sta succedendo nella corrente rossa, che per decenni ha predicato l' impegno politico in magistratura e il collateralismo con i partiti di sinistra? Già nei mesi scorsi hanno lasciato i due consiglieri del Csm Giuseppe Cascini e Giovanni Zaccaro, mentre a luglio Silvia Albano si era dimessa dal Comitato direttivo centrale dell' Anm. La frattura tra la vecchia Md (più garantista anche nei procedimenti disciplinari e in sintonia con Leu più che con il Pd) e i fuoriusciti (che rappresentano la frangia grillina e giustizialista vicina anche alla corrente di Davigo, Autonomia e Indipendenza), porta di fatto alla nascita di un nuovo gruppo dentro Area e prelude all' uscita della corrente rossa, che rimarrebbe autonoma. Un nuovo gruppo di toghe più gialle che rosse, dure e pure, accusate dai vertici di Md di ergersi a moralizzatrici solo degli altri. I dirigenti, come la segretaria Maria Rosaria Gugliemi e nomi storici come Nello Rossi sono entrati in rotta di collisione con i due consiglieri del Csm Cascini e Zaccaro quando hanno contrastato la decadenza di Davigo pensionato da Palazzo de' Marescialli o hanno appoggiato la nomina del fuori ruolo Raffaele Cantone a capo della procura di Perugia. Lo scontro, anche sulla mancanza di dialogo con la corrente moderata di Magistratura indipendente e sull' allineamento spesso al Csm con i laici 5S e i togati di A&I, si è acuito e ha portato alle defezioni di questi giorni. Non si può puntare il dito senza fare autocritica e presentarsi come campioni di purezza morale, sosteneva la dirigenza. I dimissionari hanno risposto che Md è diventata «un luogo escludente, autoreferenziale, assente dal dibattito politico reale, proteso ad una narrazione costantemente autoassolutoria degli eventi, opaco e ambiguo rispetto al progetto politico di Area». Nel lungo documento di addio la «scelta dolorosa» di lasciare la corrente viene legata alla «formidabile accelerazione» impressa dall' attuale vertice all' interruzione del percorso verso Area, il gruppo comune che già unisce da tempo Md e MpG all' Anm e al Csm. Per i dissenzienti solo con questo soggetto politico «realisticamente è possibile provare a costruire un progetto di radicale rinnovamento della magistratura». Dunque il progetto non è più rinviabile, «oggi che la questione del correntismo e delle sue degenerazioni è esplosa con tutta la sua violenza». La scelta, precisano i 25, non è di «moderatismo»( un insulto da quelle parti) o di «attenuazione della propria identità politica a fine di consenso», ma è per loro «pienamente in linea con le ragioni fondanti» di Md e cioè «l' ambizione e l' aspirazione di cambiare la magistratura». Sì, ma come?

In 25 lasciano polemici MD. Magistratura Democratica si spacca, regolamento di conti tra le toghe di sinistra. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Dicembre 2020. È iniziata la resa dei conti fra le toghe di sinistra. Senza neppure aspettare il prossimo congresso nazionale, in programma (Covid permettendo, ndr) fra un mese, venticinque toghe iscritte a Magistratura democratica hanno deciso questa settimana di abbandonare il gruppo con “effetto immediato”. Fra loro, gli ultimi due presidenti dell’Anm, i pm Eugenio Albamonte e Luca Poniz, l’ex segretaria nazionale della corrente, Anna Canepa, alcuni esponenti di punta delle passate giunte dell’Anm, come Alcide Maritati. La motivazione ufficiale sarebbe che Md negli ultimi tempi, dopo aver contribuito alla «trasformazione della magistratura, da corpo burocratico chiuso, strutturalmente ed ideologicamente vicino alle classi dominanti, a potere diffuso, contraddistinto da un’organizzazione orizzontale e paritaria», «ha perso la spinta propulsiva» e «la sua capacità di intercettare e convogliare le spinte al cambiamento». «Abbiamo, pertanto, maturato la scelta, per noi dolorosa, di abbandonare il gruppo, non perché ci allontaniamo dai suoi valori e dalla sua identità, ma perché vogliamo continuare a farli vivere quali linee ideali del nostro impegno politico», scrivono i venticinque magistrati che, strappata la tessera di Md, rimarranno comunque iscritti ad Area, il cartello progressista di cui fanno parte anche i Movimenti. Oltre alla fine della spinta propulsiva, la mancata adesione al progetto di Area, il rassemblement di tutta la sinistra giudiziaria, è un altro punto oggetto di contestazione. «Assistiamo oggi – si legge, infatti, nella lettera di dimissioni – ad una formidabile accelerazione del gruppo dirigente di Md rispetto alla scelta di abbandonare il percorso verso Area». Dulcis in fundo, le continue critiche all’operato di Area e delle sue rappresentanze al Csm e in Anm da parte della dirigenza di Md e dei suoi sostenitori, fondate «quasi sempre su postulati privi di contenuto». Tradotto per i non addetti ai lavori, il caso “Davigo” ed il caso “Cantone”. La dirigenza di Md era stata fin dall’inizio molto critica sulla possibilità che l’ex pm di Mani pulite rimanesse consigliere del Csm anche dopo essere andato in pensione per raggiunti limiti di età. Nello Rossi, già procuratore aggiunto a Roma e Avvocato generale in Cassazione, in un lungo articolo la scorsa estate su Questione giustizia, la rivista di Md, aveva bocciato la possibilità del pensionato Davigo togato a Palazzo dei Marescialli. Giuseppe Cascini, capo delegazione di Area al Csm, era stato invece fra quelli che si erano spesi maggiormente per la permanenza di Davigo: Cascini, dopo il cambio dei rapporti di forza al Csm a causa del Palamaragate, aveva stretto un patto di ferro con Davigo. E poi c’era stata, appunto, la nomina di Raffaele Cantone a procuratore di Perugia. Cantone, che veniva da un lungo “fuori ruolo” come capo dell’Anac scelto da Matteo Renzi, era stato scelto per l’incarico delicatissimo di numero uno della Procura competente ad indagare sui magistrati della Capitale. Anche in questo caso notevoli erano stati gli attriti fra Md, che avrebbe voluto una figura dal passato meno “politicizzato” , ed Area. Alle “critiche” dei fuoriusciti l’esecutivo nazionale di Md, presidente Riccardo De Vito, segretario Maria Rosaria Guglielmi, ha risposto con un orgoglioso comunicato: «Crediamo in una magistratura progressista che, in quest’epoca di accresciute diseguaglianze e di moltiplicate povertà, sappia declinare di nuovo, accanto a progetti di efficienza e organizzazione, la volontà di inverare il progetto costituzionale di difesa dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più svantaggiate: poveri, di migranti, detenuti, malati, disabili, ‘matti’, donne, persone discriminate per il loro orientamento sessuale o per la loro identità di genere». E sulle dimissioni: «Tanto più dispiace perché ciò avviene in un momento in cui sono indispensabili la massima responsabilità e unità della magistratura associata, all’indomani di gravi vicende che ne hanno ferito l’autorevolezza e la credibilità agli occhi dei cittadini». Queste le giustificazioni ufficiali. Dietro l’abbandono dei venticinque, però, ci sarebbe un’altra verità. Inconfessabile. Quella legata ai rapporti di alcuni esponenti di Area con l’ex zar delle nomine Luca Palamara, al momento unico capro espiatorio della lottizzazione correntizia. Secondo la vulgata di questi mesi, Palamara (ieri è stata depositata la sentenza, oltre cento pagine, con cui la sezione disciplinare del Csm ne ha disposto ad ottobre la rimozione dalla magistratura, ndr) avrebbe sempre agito da solo. La lettura delle chat di Palamara ha fatto emergere un altro scenario. Molto diverso. È lunghissimo, ad esempio, l’elenco di toghe progressiste che si rivolgevano all’ex presidente dell’Anm. Uno dei casi più clamorosi è proprio quella della dottoressa Canepa, sostituto procuratore generale presso la Dna. Canepa scrisse a Palamara nell’estate del 2018 alla vigilia della nomina del procuratore di Savona: «Scusa se ti disturbo. Savona è uno snodo fondamentale. Sono in corsa Arena (Giovanni) e Landolfi (Alberto), uno di Mi (Magistratura indipendente, la corrente di Cosimo Ferri, ndr) e l’altro di Ai (Autonomia&indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo, ndr), ma non è questo il problema. Sono due banditi incapaci, il migliore è Ubaldo Pelosi. Un collega veramente valido. Attuale reggente. Grazie e buon lavoro». Palamara, sempre galante con il gentilsesso, risponde: «Ok tesoro». Canepa ribatte: «Mi raccomando!». Palamara aggiunge: «Assolutamente sì». Pelosi, per la cronaca, diventerà procuratore di Savona. E come dimenticare i rapporti strettissimi di Palamara con il togato Valerio Fracassi, altro esponente di punta di Area? «Ricordati che ti ho votato Pasca (Annarita) a patto che mi sistemassi Orlando (Massimo), non mi mollare», scrive Fracassi. E Palamara, rispettando gli accordi “spartitori”, risponde: «Assolutamente no, tu ordini, io eseguo». Forse dietro questo repentino abbandono c’è il desiderio di non fare i conti con un passato ingombrante. Altro che fine della spinta “propulsiva”.

E' iniziato il dopo Palamaragate. Terremoto in magistratura, scoppia la rivolta dei Pm ultrà. Piero Sansonetti su Il Riformista il  23 Dicembre 2020. Magistratopoli, piano piano, inizia a dare frutti. L’establishment del potere giudiziario ha finto di non vederla. Il Csm si è comportato come una specie di setta segreta, anche abbastanza sfacciata nel seppellire tutto sotto la sabbia. La politica si è voltata dall’altra parte. Il giornalismo… beh, non parliamo del giornalismo, perché quello italiano, ormai, in larghissima parte, è solo lo scantinato della magistratura. Non è certo il giornalismo che può ribellarsi allo strapotere e all’evidente grado di non indipendenza, e anche di corruzione profonda, venuto alla luce grazie al Palamara-gate. E però…Però qualcosa è successo. Perchè la magistratura è un luogo piuttosto vasto. Composto da circa 8000 professionisti. Di questi ottomila c’è solo una parte modesta, forse di duemila persone, che ha in mano tutto il potere, che controlla le correnti, e dunque le carriere, gli assetti delle procure, le nomine, molto spesso anche le sentenze. La magistratura è un monolite, come quasi sempre succede ai poteri autoreferenziali. Cioè ai poteri che non subiscono controlli o condizionamenti o verifiche esterni. Ma alle volte succede che anche i monoliti si sfaldano. E succede che le minoranze al potere vengono messe in discussione. Così è accaduto nel luogo sacro del potere giudiziario. Dico del potere giudiziario, non certo del diritto, perché le due cose non sempre, anzi quasi mai, coincidono. Questo luogo sacro è l’Anm, cioè l’associazione che raccoglie tutti i magistrati italiani e che da molti e molti anni è dominata dal partito dei Pm. È successo che una parte consistente della magistratura si è ribellata al partito dei Pm e gli ha tolto via lo scettro. Nessuno se l’aspettava. Non era mai accaduto. L’elezione di Beppe Santalucia a presidente dell’Anm è un fatto storico. Innanzitutto per una ragione oggettiva: per la prima volta da molti decenni diventa presidente dell’Anm un giudice. Almeno in questo secolo mai un giudice aveva ottenuto il comando: Bruti Liberati, Palamara, Sabelli, Davigo, Albamonte, Poniz: tutti uomini della procura. Eppure, i Pm sono solo una minoranza nel corpo della magistratura italiana. Ma una minoranza che ha in mano tutto il potere. La vittoria di Santalucia su Poniz ha avuto subito un effetto deflagrante. Santalucia non solo è un giudice e non un Pm, ma è un giudice della Cassazione (dunque dell’istituzione più garantista della magistratura). Non è un forcaiolo, anzi è considerato un liberale, e appartiene a quella componente garantista di magistratura democratica che negli ultimi anni era quasi sparita, ma che fa parte del Dna della corrente di sinistra della magistratura. La nomina di Santalucia, che avviene a sorpresa, spacca Md e spacca tutto lo schieramento delle correnti. Proviamo a spiegare perché. Nella magistratura italiana esistono diversi livelli di potere. Il potere istituzionale, e cioè il potere vero, quello che determina assetti, orientamenti e anche sentenze, che regola i rapporti col potere politico, che indirizza le carriere e gli organigrammi, è in mano a pochi uomini, in genere molto discreti, fuori dal clamore, che non amano la Tv, i giornali, la fama: amano il comando. Chi sono? Provo a fare tre nomi, difficilmente mi sbaglio: Michele Prestipino, Giovanni Melillo, Francesco Greco. Sono i capi rispettivamente della Procura di Roma, di Napoli e di Milano. Prestipino è il successore di Pignatone, ex deus ex machina del potere giudiziario. Melillo ha costruito la sua carriera al ministero. Greco ha una grande esperienza nella lotta contro la politica, perché è l’autore del primo clamoroso arresto di un segretario di partito (Pietro Longo, Psdi, 1992) e poi partecipa attivamente al pool mani pulite che smantella e liquida la Prima Repubblica. È questa troika, oggi, che tiene stretto il bastone del comando. Poi c’è il partito dei Pm, che è molto rumoroso, vistoso, super politicizzato, spesso folkloristico. Sostenuto da stampa e Tv. E che partecipa attivamente, e controlla, tutte le correnti. La tattica del partito dei Pm, fin qui, è stata molto semplice: stare nelle correnti di sinistra, di centro e di destra, in modo da avere una quota di potere molto superiore alla propria forza reale. In particolare, il partito dei Pm aveva conquistato la corrente più importante della magistratura, e cioè Md (“Magistratura democratica”) che nasce negli anni Sessanta su posizioni di sinistra e garantiste ma da diversi anni è diventata la corrente delle cosiddette “toghe rosse” che si sono poste alla testa del pensiero e della pratica giustizialista. Il partito dei Pm si interfaccia con la troika, la sostiene, in parte la condiziona, in parte obbedisce. La novità di questi giorni, probabilmente in buona parte dovuta al clamoroso scandalo di magistratopoli, è che in Md si è indebolita la forza dei giustizialisti. Il primo scricchiolio si era sentito sull’affare Davigo. Piercamillo Davigo certamente non è un magistrato di sinistra, anzi è sempre stato considerato esponente della destra estrema. Però da diversi anni è lui la bandiera del giustizialismo, ed è esattamente sul giustizialismo che si era realizzata una convergenza col gruppo di testa di Md e si era formata, anche in Csm, una specie di alleanza di potere rosso-bruna, con le truppe di Md e il cervello davighista, che aveva preso il sopravvento. Quando in settembre si è posto il problema di accettare o respingere la pretesa, arrogante di Davigo di restare in Csm nonostante il pensionamento, una parte consistente di Magistratura democratica si è ribellata. Ha detto no. Davigo non se l’aspettava. Ha perso una battaglia che era sicuro di vincere e ha dovuto lasciare la magistratura. Da lì è iniziato il terremoto. Ora alcuni tra i più noti e potenti esponenti di Md (Cascini, Albamonte, Poniz) si sono dimessi dalla loro corrente per protesta contro la linea liberale che ha prevalso. Quali saranno le conseguenze? Probabilmente la mossa del gruppo Cascini costringe il partito dei Pm a uscire allo scoperto. Voglio dire: a unificarsi e a dichiararsi. Non sarebbe una cosa cattiva. Sarebbe oggettivamente un atto di semplificazione. Porterebbe la lotta all’interno della magistratura dal piano della pura lotta di potere a quello di una lotta sulle idee: da una parte i settori (che probabilmente sono maggioritari) della magistratura convinti che la bussola debba essere sempre il diritto, e non la lotta politica o la moralizzazione, dall’altra parte la componente giustizialista, che sicuramente ha la maggioranza tra i Pm ma non nella magistratura giudicante. Perché questa sarebbe una grande novità? Perché finalmente si potrebbero separare gli schieramenti di potere dagli schieramenti delle idee. Una magistratura aperta, dove si confrontano le idee e non solo i rapporti di forza, è l’unica precondizione a una possibile riforma della giustizia. Finora la riforma è stata impossibile perché il fortino della “casta” giudiziaria era inespugnabile. Stanno per cambiare le cose?

Ho sempre pensato che l’unica possibilità di una riforma della giustizia risiedesse in una rottura nel monolite magistratura. Dal giornalismo e dalla politica non mi sono mai aspettato nulla. Se il monolite si è rotto davvero, possiamo tornare a sperare. Non è mai troppo tardi per provare a rimettere insieme i cocci dello Stato di diritto.

La storia della corrente. Storia di Magistratura Democratica: da casa dei lavoratori a trincea dell’antiberlusconismo. Frank Cimini su Il Riformista il 23 Dicembre 2020. Magistratura Democratica, molto conosciuta con la sua sigla, Md, nasce nel 1964, un anno indubbiamente di grandi speranze perché il contesto era quello dei primi governi di centro-sinistra, in sostanza l’alleanza tra democristiani e socialisti. Il perno di tutto all’inizio fu l’attuazione della Costituzione reclamata non solo dalle forze dell’opposizione perché, in pratica, la Carta aveva subito una sorta di congelamento con i governi centristi all’interno e la “guerra fredda” in ambito internazionale. Ma si trattava anche di garanzie per le classi lavoratrici di diritti sociali, di applicare lo Statuto per rimuovere gli ostacoli che limitavano uguaglianza e libertà dei cittadini. Insomma, Md nasce per interpretare le leggi a favore dei lavoratori per superare la figura del giudice come mero tecnico che vive in una sorte di torre d’avorio. Furono messi in discussione i valori tradizionali della magistratura. Ad aiutare la nuova corrente di sinistra fu la spinta al cambiamento sociale. Magistratura Democratica si schiera per il cosiddetto “Intervento esterno”, il privilegiare il rapporto e la collaborazione con le forze politiche e sociali che sono a favore del cambiamento. Ma la corrente venne investita dai problemi posti dalla giurisdizione, prima la strategia della tensione poi il terrorismo. In Md nell’analisi della lotta armata c’erano tre anime: una completamente legata al Pci, il partito della fermezza e delle leggi speciali anche forzando (eufemismo) la Costituzione, un’altra che stava in mezzo a cercare di mediare e un’altra ancora molto garantista nel perorare la causa della “democrazia che si difende con la democrazia”. A operare fu una piccola pattuglia ma molto determinata di magistrati distribuita tra Roma e Milano che ben presto venne emarginata e accusata addirittura di “fiancheggiamento”. Da ricordare la vicenda di due magistrati milanesi, Romano Canosa e Amedeo Santosuosso, sottoposti a procedimento disciplinare a causa delle loro posizioni garantiste riguardo alle inchieste sul terrorismo. L’allora procuratore generale della Cassazione arrivò ad affermare che i due magistrati erano «più pericolosi delle Brigate Rosse perché almeno le Br ti sparano e stanno davanti a te». A Padova un giudice del caso Sette aprile, che non era neanche di sinistra, fu ricusato perché aveva osato affermare: “stanno facendo un processo per quattro giornaletti”. Ancora a Milano il pm Antonio Bevere organizzatore della cena alla quale parteciparono Toni Negri e Emilio Alessandrini di lì a poco ucciso da Prima Linea fu sentito come testimone nell’inchiesta ma emarginato e trattato come un appestato dalla maggior parte della sua corrente. In quella indagine ci fu una sola teste ad affermare il falso a verbale in merito ai partecipanti alla cena. Fu la vedova Alessandrini, mai indagata però. Era la criminalizzazione della peperonata. Con il proliferare degli arresti e le lunghe carcerazioni preventive andarono in frantumi rapporti di amicizia decennali. Rapporti in parte mai ricuciti e in parte sì, come è nelle cose della vita. La frattura interna verificatasi sul terrorismo non venne replicata quando il protagonismo dei magistrati si ingigantì con le inchieste sulla corruzione. La crescita del ruolo del Consiglio Superiore della Magistratura come organo di autogoverno e di garanzia (in verità presunta, molto presunta) dell’indipendenza della magistratura fu il prodotto soprattutto delle iniziative e dell’attività di Md. Non si può dimenticare la replica del presidente della Repubblica Cossiga che mandò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli per impedire una riunione. Negli anni di Mani pulite poi Magistratura Democratica fu la punta di diamante della categoria togata soprattutto nell’infinita polemica con Silvio Berlusconi e la Fininvest. La corrente agiva in modo compatto. Va ricordato però un piccolo episodio molto poco pubblicizzato: quello del procedimento disciplinare al pubblico ministero Ilda Boccassini che utilizzando gli appunti di un poliziotto aveva fatto apparire come funzionante una microspia inceppata messa dalla procura di Milano in un bar romano dove si riunivano per il caffè di metà mattina un po’ di giudici sospettati di prendere mazzette. Boccassini fu prosciolta ma un componente del Csm targato Md volle spiegare: «La collega è stata assolta ma un magistrato certe cose non solo non le deve fare ma neanche pensare». Una mosca bianca, insomma. Per capire la storia di Md, di cosa è diventata, basta pensare che il 4 luglio del 1964 tra i “punti” nativi della corrente c’era l’obiettivo di avere uffici inquirenti caratterizzati dall’orizzontalità delle decisioni. Tra i fondatori di Md c’era Edmondo Bruti Liberati che nella sua carriera ha fatto soprattutto il massimo dirigente dell’Anm prima di diventare capo della procura di Milano. E da capo della procura di Milano sfilò le inchieste su Expo al suo aggiunto Alfredo Robledo supportato fino in fondo dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che intervenne per dire che con la riforma dei poteri dei capi degli uffici giudiziari il problema della guerra interna era risolto in nuce e punto.

Del resto era stato lo stesso Bruti ad ammettere di aver detto a Robledo: «Se nella seduta in cui ti nominarono aggiunto io avessi invitato uno della mia corrente ad andare a fare la pipì al momento del voto tu non saresti stato nominato a vantaggio della tua collega che poi avremo sbattuto alle esecuzioni». La nuova orizzontalità delle procure riformata dalla Md del terzo millennio.

Le chat con l’ex zar delle nomine. La Gip di Reggio accusa: magistrati imparentati con le cosche. Paolo Comi su il Riformista il 19 Dicembre 2020. Al Palazzo di giustizia di Reggio Calabria ci sono magistrati che hanno parenti (ed affini) ‘ndranghetisti. La pesantissima accusa viene dal presidente della sezione penale del Tribunale della città calabrese, Tommasina Cotroneo. La circostanza è emersa, come sempre, dalla lettura delle chat dell’ex zar delle nomine al Csm Luca Palamara, una fonte inesauribile di informazioni per comprendere “dall’interno” le dinamiche della magistratura in tema di incarichi e promozioni. A tal riguardo, secondo alcune indiscrezioni, le chat più significative, insieme ad altro materiale inedito, dovrebbero confluire in un libro, suddiviso in capitoletti per singolo distretto giudiziario, che Palamara ha iniziato a scrivere in questi giorni dopo aver trovato l’editore. «Ci sono tanti magistrati Luca che qui hanno parenti ed affini mafiosi e solo me hanno tirato fuori», scrive la dottoressa Cotroneo il 3 gennaio del 2018 a Palamara. «Che io sappia almeno tre», aggiunge la magistrata, all’epoca esponente di punta di Unicost, la corrente di centro all’interno dell’Anm di cui Palamara era il capo indiscusso. La “confidenza” è in risposta ad una nota informativa nei suoi confronti trasmessa al Csm da Bernardo Petralia, in quel momento procuratore generale a Reggio Calabria prima di essere nominato da Alfonso Bonafede Capo del Dap. «Petralia – precisa Cotroneo – mi ha convocata per avvertirmi che ha comunicato al Csm perché doveva la vicenda sull’altro mio cugino, il secondo di cui ti avevo parlato. Dicendomi che incontestabile la mia condotta era la seconda vicenda di parentela che doveva comunicare». Cotroneo spiega a Palamara su cosa verte la nota: «Comunque sostanzialmente si tratta di due cugini come ti avevo detto da subito. In questo caso la comunicazione riguarda l’altro dei due. La problematicità però riguardava il cugino di cui già il Csm ha discusso». Per poi aggiungere: «Le vicende dei miei parenti sono state sempre conosciute dalla Procura. Da Pignatone (Giuseppe, già procuratore di Reggio Calabria e di Roma, adesso presidente del Tribunale pontificio, ndr) in avanti ed anche prima». «Non si tratta di prossimi congiunti peraltro ma cugini con cui non ho rapporti da 20 anni», conclude Cotroneo. Chi siano questi cugini non è dato sapere. Al Csm la pratica è secretata. Alcuni dicono che siano della piana di Gioia Tauro, altri che siano del clan dei Tegano, fra i mandanti, secondo le accuse, dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. «Avranno pane per i loro denti», risponde subito Palamara. «Se non ci fossi tu mi farebbero a pezzi. Tanto gli sto sul cazzo?», replica Cotroneo. «Ci temono, e molto», ribatte Palamara. Cotroneo è legatissima all’ex presidente dell’Anm, recentemente radiato dalla magistratura: «Tu non capisci cosa rappresenti. Io per te mi farei uccidere». La magistrata, comunque, è prodiga di consigli per Palamara: «Non ti fare intimorire da questi di Area (la corrente di sinistra delle toghe, ndr). Sono maestri in questo. Che vadano a fare in culo se è il caso». Ma torniamo alla nota informativa inviata al Csm. «C’è sempre di mezzo Gerardis (Luciano, presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria, ndr) in ogni cosa che mi riguardi e Petralia (Bernardo, ndr) e Gerardis sono amici intimi. Proprio Gerardis mi ha chiamata stamattina per dirmi che mi voleva parlare Petralia», puntualizza ancora Cotroneo, sottolineando: «Vedi che Petralia è un vigliacco e se sente fiuto di Csm … mente, Gerardis è vigliacco e ipocrita». Da informazioni assunte non pare siano stati effettuati in questi mesi accertamenti sulla veridicità o meno delle affermazioni della dottoressa Cotroneo. A carico di quest’ultima, invece, è stato aperto un procedimento disciplinare per altre sue affermazioni contenute nella chat in occasione del voto del Csm per il posto di presidente di sezione per il quale aveva fatto domanda. Questa l’incolpazione della Procura generale della Cassazione: «Aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei magistrati che avevano presentato domanda per presidente di sezione del Tribunale di Reggio Calabria, al quale lei stessa concorreva, prospettando a Palamara la strategia da seguire al fine di prevalere su Katia Tassone e Daniele Cappuccio, consistente nella reiterata denigrazione di questi ultimi». Cosa aveva detto la dottoressa Cotroneo a Palamara ? «E poi devo dirti a questo punto delle cose sulla Tassone visto che si deve giocare con le loro carte. È una persona pericolosa e senza nessuna sensibilità istituzionale con un padre pieno di reati fiscali ed una impossibilità di vendere un suo bene in esecuzione immobiliare a Vibo per le pressioni che evidentemente esercita». E ancora: «Lei peraltro a seguito di una causa civile che la vedeva parte soccombente rispetto ad un vicino di casa ha mandato al giudice civile che aveva la causa una foto wapp con le immagini del suo appartamento e sotto scritto ‘senza parole’ stigmatizzando così la decisione di quel giudice. Quest’ultimo ha raccontato tutto a Gerardis che non gli ha detto di relazionare altrimenti a quest’ora la signorina Tassone sarebbe stata sotto procedimento disciplinare. Fagliele sapere queste cose al suo mentore (verosimilmente un consigliere del Csm, ndr)». «Non l’hanno mai voluta la Tassone – continua Cotroneo – perché conosciuta da tutti come pericolosa per i suoi tratti caratteriali. Sarebbe un presidente di sezione pericolosissimo. Quanto alla giurisdizione sconosce il ragionamento probatorio». E per l’altro concorrente: «Cappuccio sta presiedendo ora un maxi in Corte e si è talmente incartato che farà scadere i termini». Affermazioni che hanno già superato il vaglio della fase predisciplinare della Procura generale della Cassazione. Responsabile di questa fase istruttoria è l’Avvocato generale Pietro Gaeta, fratello di Rosalia Gaeta, giudice al Tribunale di Reggio Calabria e moglie del presidente Gerardis, quello ritenuto dalla dottoressa Cotroneo “vigliacco e ipocrita”.

«Avvocati ficcanaso, fuori dal Consiglio giudiziario!». L’editto bulgaro delle toghe baresi. Errico Novi su Il Dubbio il 17 dicembre 2020. I togati del Consiglio giudiziario pugliese: «No al diritto di tribuna dei laici quando discutiamo delle nostre promozioni». Una decisione che resterà alla storia. A Roma, a poche ore di treno da Bari, proprio ieri è toccato all’avvocatura esprimersi sulla riforma del Csm. Su una riforma che, per inciso, contiene una parziale ma pur significativa novità in materia di Consigli giudiziari: stabilisce che in queste articolazioni locali dell’autogoverno, la magistratura non può essere sola, in alcun caso, inclusi quelli in cui si decide sulla professionalità di un giudice. Nei pareri (da inviare al Csm) approvati dai Consigli giudiziari sugli scatti di carriera, avvocati e professori (cioè i “laici”) devono esserci sempre, dice una volta per tutte l’articolo 3 comma 1 lettera a) del ddl Bonafede. In casi del genere, c’è il diritto di “tribuna”, anche se non quello di voto: comunque un passo avanti. Bene. Anche se dal punto di vista del Cnf e delle altre rappresentanze forensi il diritto di voto andrebbe sempre previsto. Ma sentite cosa avviene nell’altro “polo” della ormai annosa questione: a Bari, oggi, i tre componenti avvocati e la rappresentante dell’accademia non parteciperanno, per protesta, alla prevista riunione del Consiglio giudiziario. Motivo: la maggioranza togata metterà ai voti, e approverà in modo “bulgaro”, una modifica del regolamento con cui si elimina proprio quel “diritto di tribuna” che a Bari, come in altri 14 distretti giudiziari, era già stato riconosciuto ai “laici”, prima ancora che il ddl Bonafede entri in vigore. Un «gravissimo arretramento culturale», scrivono gli avvocati eletti nel Consiglio giudiziario di Bari, in una lunga e amara lettera rivolta ai due componenti di diritto dell’organismo, che — come dappertutto — sono il presidente della Corte d’appello e il procuratore generale. «La logica seguita dai consiglieri, in aperto contrasto con l’esigenza di sempre maggiore trasparenza della magistratura, appare rispondere a scelte chiaramente corporative», scrivono i tre avvocati, «frutto di logiche interne e di quella sorta di allontanamento dalla realtà che finisce con lo sfociare in un elitarismo anacronistico, benzina per la sempre crescente sfiducia della collettività nella magistratura e quindi nella Giustizia del nostro Paese». Ancora, secondo i tre rappresentanti del Foro — Gaetano Sassanelli per gli avvocati di Bari, Giuseppe Limongelli di Foggia e Diego Petroni di Trani — gli atteggiamenti dei “togati” appena entrati in carica ( a novembre) sembrano «lesivi del rispetto non solo dei singoli componenti, ma proprio dell’intera categoria dagli stessi rappresentata e quindi anche dell’avvocatura». I magistrati oltretutto sbattono la porta in faccia al Foro in un momento in cui proprio grazie alla «sempre maggiore collaborazione» offerta dagli avvocati si è riusciti ad affrontare il dramma del covid. Rilievi davvero difficili da contestare, soprattutto perché, come ricordano ancora i tre consiglieri indicati dall’avvocatura, i «metodi sbrigativi che prescindono dal confronto» sembrano concepiti per «imporre quanto a tavolino era stato deciso al di fuori dal consesso». A cosa si riferiscono, i tre consiglieri, nella lettera inviata a presidente e pg della Corte d’appello? Nella precedente riunione, tenuta lo scorso 3 dicembre, i dieci togati elettivi si erano presentati con la mozione già pronta per essere messa ai voti: «Riteniamo non necessario discuterla. È evidente come sull’argomento», cioè la cacciata dei “laici” dalle assemblee in cui si discute di promozioni per i magistrati, «ci sia una netta maggioranza: noi togati siamo tutti favorevoli». Il presidente della Corte d’appello, Franco Cassano, legge e trasecola. E ribatte: «Io non la metto all’ordine del giorno, mi dispiace. Se volete se ne discute nella prossima riunione del Consiglio giudiziario». In quella fissata per oggi, appunto. Che rischia di registrare un fatto clamoroso: la totale e definitiva assenza dei laici dalle attività dell’organismo. I tre rappresentanti del Foro infatti, nella lettera a Cassano e alla pg Annamaria Tosto, esprimono non solo la loro incredulità, ma anche la ferma determinazione a «rimettere nelle Vostre mani i nostri mandati in ragione della totale inutilità, a queste condizioni della nostra presenza. Se le decisioni devono essere adottare al di fuori del Consiglio e prima di qualunque confronto, come invece ci insegna la nostra Costituzione, allora», scrivono gli avvocati Sassanelli, Limongelli e Petroni, «procedano pure senza la nostra presenza, così risparmiando all’avvocatura una mortificazione tanto ingiusta quanto grave». La consigliera rappresentante dell’accademia, la docente dell’università di Bari Carmela Ventrella, non può rimettere il mandato — lo impedisce il regolamento dell’ateneo — ma ha già fatto sapere che la propria investitura resterà “bianca”, e cioè che anche lei non si farà più vedere in alcuna riunione dell’organismo. La storia non si comprende se non si spiega un antefatto. Come detto, la legge al momento non prescrive il diritto di tribuna dei laici, nelle riunioni dei Consigli giudiziari destinate alle valutazioni di professionalità dei magistrati. Ma intanto, come ricordato dalla lettera degli avvocati, in 14 distretti su 26 la prerogativa è ormai riconosciuta per regolamento. Una prerogativa importante, perché qualora le solite correnti intendessero far promuovere un collega non proprio irreprensibile, sarebbe più difficile che possano farlo senza imbarazzi se alla riunione partecipano, pur senza votare, anche gli avvocati. Ma non è solo questo. A Bari il diritto ad “assistere”, per i laici, non era previsto, all’inizio della scorsa consiliatura. Poi si sono verificate un paio di cosette: la vicenda di Palamara a livello nazionale e, a livello locale, il caso dei magistrati di Trani accusati di aver pilotato e dirottato indagini. Cosicché la componente togata del “vecchio” Consiglio giudiziario decise che era opportuno offrire anche all’esterno un segnale di trasparenza, e aprire le porte di qualsiasi riunione anche ad avvocati e professori. Adesso, come si legge nella lettera a Cassano e Tosto, si torna indietro. Come se si preferisse gestire solo tra le correnti quelle questioni delicate e a volte imbarazzanti che hanno già scatenato un uragano per l’intero ordine giudiziario del Paese. Un «gravissimo arretramento», scrivono gli avvocati. Si accettano proposte per trovare una definizione migliore.

Follia al Csm: il sostituto pg Casella, accusatore di Palamara, gli chiedeva favori…Paolo Comi su Il Riformista il 15 Dicembre 2020. Quando si tratta di esprimere una valutazione sul comportamento delle toghe, il ministro della Giustizia è solito girarsi dall’altra parte. Anche se la Costituzione gli attribuisce la facoltà di promuovere l’azione disciplinare, Alfonso Bonafede resta sempre silente. Meglio non pretendere posizione, si sarà detto dopo aver visto cosa era successo in casi analoghi ai suoi predecessori a via Arenula, ed attendere che siano i magistrati a togliergli le castagne dal fuoco. Il Palamaragate, a tal proposito, è stato un grande banco di prova per il mutismo del Guardasigilli. Tralasciando la nomina di Marco Mescolini a procuratore di Reggio Emilia, con ben otto interrogazioni parlamentari di cinque diversi partiti alle quali in questi mesi Bonafede non ha mai trovato il tempo di rispondere, c’è un altro episodio, forse ancor più clamoroso, che è finito nel dimenticatoio. La vicenda riguarda l’avvocato generale Piero Gaeta, colui che ha chiesto e ottenuto la rimozione di Palamara dalla magistratura nelle scorse settimane. Il caso è stato sollevato da Maurizio Gasparri lo scorso giugno. Il senatore di Forza Italia si domandava come Gaeta avesse potuto occuparsi di muovere le accuse a Palamara posto che «si scriveva e si incontrava con l’indagato per discutere, a quanto appare, della sua carriera. È opportuno che Gaeta, che spunta nelle scandalose intercettazioni giudichi chat in cui lui stesso viene evocato? Emergono incontri Gaeta-Palamara, finalizzati a cosa? Al sostegno di Palamara alla carriera di Gaeta o a cosa?». Il nome di Gaeta, esponente della corrente Magistratura democratica e quindi della sinistra giudiziaria Area – come l’altro accusatore, il sostituto pg Simone Perelli, e il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi che li ha entrambi delegati – ricorre molte volte nella chat tra Palamara e Pina Casella, anch’ella sostituto procuratore generale della Cassazione ed esponente della corrente Unicost cui apparteneva l’ex presidente dell’Anm. Il ruolo della dottoressa Casella di “testa di ponte” tra gli aspiranti in servizio alla Procura generale (ma non solo) e Palamara emerge da molte conversazioni. Il 6 dicembre 2017 Casella scrive a Palamara: «Grazie per Gigi Salvato hai davvero contribuito a migliorare l’ufficio. Un abbraccio», riferendosi alla nomina di Salvato ad avvocato generale in Cassazione, altro accusatore nel Palamaragate. Il 10 gennaio successivo sempre Casella scrive a Palamara: «Ciao Luca. Carmelo ti porterà un mio messaggio…a cui tengo molto…poi la prossima settimana ci vediamo. Baci. Ps: sono qui con Maria Teresa Cameli (aspirante procuratore di Forlì, ndr). Aspetta tue notizie». Il Carmelo “messaggero” è il successore di Piercamillo Davigo al Csm Carmelo Celentano, ed a proposito della dottoressa Cameli il 31 gennaio 2018 Palamara risponde: “Votata Cameli”. Dopo due minuti Casella: «Una buona notizia dopo tre giorni difficili. Grazie». Risponde subito Palamara: «Stiamo recuperando su tutto». Ribatte Casella: «Volere è potere». La sostituta pg in Cassazione, sempre sui medesimi argomenti, scrive a Palamara il 10 febbraio 2018: «Quando hai le idee chiare mi fai sapere come sei orientato per pst Rimini ancona Macerata e Pesaro? Baci». Risponde Palamara: «Assolutamente si. Ancora nessuno in trattazione».  Ancora Casella a Palamara il 12 febbraio 2018: «Che aria tira per Carmelo Sgroi??» Subito Palamara: «Non facile. Ma ci stiamo lavorando». Replica Casella: «Mi raccomando Luca. Per l’ufficio è importante. Chiamerò anche Maria Rosaria per farglielo capire…». Il magistrato segnalato da Casella è Carmelo Sgroi, sostituto pg in Cassazione, mentre la Maria Rosaria che doveva “capire” era Maria Rosaria Sangiorgio, consigliere del Csm insieme a Palamara. In questo contesto fa capolino l’accusatore di Palamara. Il 26 aprile 2018 Casella scrive a Palamara: «Ciao Luca sono in ufficio con Piero Gaeta che vorrebbe salutarti come già sai. Io ritorno a Roma il 2. Riesci quella settimana a passare dalle nostre parti per un caffè??». Risponde Palamara: «Si assolutamente si con piacere». Ancora Casella: «Ok allora ti chiamo il 2 e organizziamo». Come promesso il 2 maggio successivo Casella si fa viva: «Ciao Luca. Quando puoi sentiamoci un attimo. Baci». Risponde Palamara: «Assolutamente sì». Ancora Casella: «Ti chiamo fra un’oretta ok?». E Palamara: «Ok». Il 3 maggio 2018 Casella scrive ancora: «Alle 17 Piero deve andare via. A questo punto rimandiamo». Casella non demorde ed ancora il 9 maggio scrive: «Ciao Luca. Rimandiamo il tuo appuntamento di domani con Piero Gaeta alla prossima settimana? Io questa non ci sono e mi fa piacere partecipare. Ti chiamo lunedì per accordi precisi. Ok?? Baci”. Risponde Palamara: «Ok va bene un bacio». Con tenacia il 14 maggio scrive ancora Casella a Palamara: «Buon inizio settimana. Quando ci si vede? P». Palamara: “Mercoledì pomeriggio caffe’? buon inizio settimana anche a te!!” Ribatte Casella: “Perfetto. Ti chiamo in mattinata e mi dai l’orario esatto”. Puntuale mercoledì 16 maggio 2018 Casella scrive: «Ciao caro. Confermato il caffè? A che ora?». Risponde Palamara: «Ok per le 15 ti confermo orario preciso appena finiamo plenum». Ribatte Casella: «Perfetto». Sempre il 16 maggio 2018, ore 14.23, scrive Casella: «Siamo a pranzo al francese. Ti aspettiamo per il caffè come d’intesa». Risponde subito Palamara: «Alle 15.15 sono da voi». Ribatte la Casella «Bravo…». Alle 15.18 Palamara scrive: «Sto arrivando». E Casella alle 15.18: «Siamo qui». C’è poi una significativa coda. Il 6 febbraio 2019 Palamara, pur non essendo più consigliere del Csm, scrive alla magistrata: «Mi mandi numero di Piero Gaeta? Noi ci vediamo venerdì?». Risponde Casella: «Certo. Baci» e subito dopo: «Piero Gaeta Cellulare 320 xxx xxxxx». Gaeta, per la cronaca, verrà nominato avvocato generale qualche giorno più tardi.

Ci scusiamo con i lettori per l’immagine errata utilizzata in prima pagina in riferimento all’articolo di Paolo Comi nell’edizione cartacea del Riformista del 15 dicembre 2020. La foto che abbiamo pubblicato non è quella del magistrato Piero Gaeta ma dell’avvocato Piero Gaeta che niente ha a che fare con il caso Palamara.

Al Csm cose turche... Da pm dell’accusa a giudice, l’assurdo caso di Carmelo Celentano subentrato al Csm a Davigo. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Può un magistrato che, da pm, ha partecipato all’attività istruttoria di un fascicolo, continuare ad occuparsi, adesso che è diventato giudice, del predetto fascicolo? Se il fatto capita in una qualsiasi aula di tribunale, l’astensione è di “default”. L’articolo 34 del codice di procedura penale è chiarissimo: “Chi ha esercitato funzioni di pubblico ministero (…) non può esercitare nel medesimo procedimento l’ufficio del giudice”. Alla Sezione disciplinare del Csm, dove gli imputati sono i magistrati, pare invece di no. Al punto che “l’incolpato” in toga è stato costretto a presentare al collegio una istanza in cui si “invita” il pm/giudice all’astensione. In caso di mancato accoglimento del garbato invito, è già stata depositata la ricusazione. La vicenda riguarda l’ex pm della Capitale Stefano Rocco Fava, ora giudice a Latina. Il pm/giudice, invece, è Carmelo Celentano, il sostituto procuratore generale della Cassazione che ha preso il posto al Csm di Piercamillo Davigo, dopo che quest’ultimo era andato in pensione per raggiunti limiti di età, sostituendolo anche come giudice disciplinare. Fava è sotto procedimento a Palazzo dei Marescialli per avere, secondo il procuratore generale della Cassazione che ha esercitato l’azione disciplinare, “mancato ai doveri di imparzialità, correttezza, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, quale magistrato in servizio presso la Procura della Repubblica di Roma, con funzioni di sostituto”. Più precisamente, l’accusa è quella di aver raccontato all’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, e all’epoca dei fatti anch’egli pm a Roma, i contenuti di una sua nota trasmessa al Csm e di avergli consegnato alcuni allegati “pur nella consapevolezza che sarebbero stati utilizzati dal suo interlocutore per gettare discredito” sull’allora procuratore della Capitale Giuseppe Pignatone e sul suo aggiunto Paolo Ielo. Fava aveva depositato alla fine di marzo dello scorso anno un esposto al Csm in cui evidenziava delle anomalie nella gestione di diversi fascicoli da parte di Pignatone. La circostanza era stata raccontata, qualche settimana prima, anche a Davigo e al togato del Csm Sebastiano Ardita. L’ex pm parlò della faccenda durante due pranzi al ristorante Baccanale di Roma dove, oltre a Davigo e Ardita, era presente anche il collega pm Erminio Amelio. Fra i vari temi, pare si fosse discusso anche di una candidatura di Fava all’Anm nelle liste davighiane di Autonomia&indipendenza. Dopo aver acquisito nelle scorse settimane gli atti del fascicolo disciplinare, Fava ha scoperto una mail, a firma del sostituto procuratore generale della Cassazione Simone Perrelli, indirizzata all’allora procuratore generale Riccardo Fuzio e ad alcuni sostituti fra cui, appunto, Celentano. L’oggetto della mail, datata 28 giugno 2019, è “bozza capo di incolpazione” a carico di Fava. Si tratta dei capi d’accusa che sono ora al vaglio del collegio di cui fa parte Celentano. Poi c’è un’altra mail, questa volta inviata da Fuzio, circa l’interlocuzione fra la Procura generale della Cassazione ed il Csm relativa proprio alla segnalazione del marzo 2019 di Fava su Pignatone. Celentano si sarebbe “occupato” del fascicolo e non risulta alcuna sua forma di “dissenso” al riguardo, scrive Fava, invitandolo all’astensione. Per Fava ci sarebbe, poi, da parte di Celentano un “indubbio interesse, quanto meno professionale a vedere convalidata all’esito del giudizio le ipotesi d’accusa che ha concorso ad istruire e formare”. Celentano, che fra poco più di un anno e mezzo tornerà alla Procura generale, non avrebbe mai riscontrato anomalie nel comportamento di Pignatone, come rappresentato nell’esposto di Fava, ora oggetto di contestazione. Un corto circuito senza precedenti. Come mai, allora Celentano, eletto con Unicost, la corrente di centro, non si astiene dal procedimento? Mistero. Anche perché il suo sostituto è già pronto: la togata di Magistratura indipendente Loredana Miccichè. “Nemo iudex in causa sua”, dicevano i latini. In attesa di conoscere le decisioni di Celentano, Fava ha chiesto l’esibizione di tutti gli atti concernenti la partecipazione dell’ex pg al procedimento disciplinare aperto nei suoi confronti.

L’assalto degli uomini di Davigo a Celentano: è socio di Palamara, deve lasciare. Paolo Comi su Il Riformista il 30 Ottobre 2020. Carmelo Celentano – forse – farebbe meglio a tornare al suo ufficio in Cassazione. Dopo lo scoop di questa settimana del Riformista che ha pubblicato alcuni dei messaggi che il neo consigliere del Csm si scambiava con l’ex potente presidente dell’Anm Luca Palamara, sono tanti i magistrati che ritengono sia opportuno che Celentano lasci Palazzo dei Marescialli. La presa di posizione più forte è quella delle toghe del gruppo di Autonomia&indipendenza, la corrente fondata da Piercamillo Davigo e di cui Celentano ha preso il posto al Csm dallo scorso 20 ottobre, ultimo giorno di servizio per raggiunti limiti di età dell’ex pm di Mani pulite. I davighiani fanno appello al senso istituzionale di Celentano, già sostituto procuratore generale in Cassazione, affinché faccia proprie, prima possibile, determinazioni rispettose degli alti compiti ai quali è stato chiamato». Il motivo è da rintracciare nella ormai micidiale chat di Palamara che descrive «comportamenti perfettamente in linea con il diffuso sistema clientelare di recente disvelatosi in modo chiaro». Erano tantissimi i messaggi che i due, esponenti di primo piano di Unicost, si scambiavano. «Ho parlato – scriveva Celentano – con Salzano (Francesco, ora avvocato generale in Cassazione, ndr), lo ho tranquillizzato per il futuro e gli ho detto che lo avresti chiamato. Se gli dai la prospettiva dei prossimi posti sarà sereno», scrive Celentano a novembre del 2017. Palamara risponde: «Ho parlato con Salzano, è tutto ok». «Votato Salvato (Luigi, ndr) unanime», esordisce qualche settimana più tardi Palamara. «Sei fondamentale come sempre. È tutto nelle tue mani. Per questo sono tranquillo», replica Celentano. «Volevo notizie su PAT (procuratore aggiunto, ndr) Trapani; alcuni colleghi mi parlavano di Rossana Penna attualmente a Trapani, che a detta di Area (la corrente di sinistra, ndr) se la dovrebbe contendere con Marzella (Carlo) ora a Palermo. Oltre a questo mi hanno ricordato di PST (presidente sezione, ndr) Padova. Se puoi chiamami», scrive Celentano nella primavera del 2018. «PAT Trapani ancora non trattata. Per PST Padova lo metto prossima settimana», risponde Palamara che da zar delle nomine aveva il potere di decidere anche l’ordine cronologico dei posti da assegnare. «Scusa caro Luca, potresti aggiornarmi sulla situazione di Rossana Penna per procuratore aggiunto Trapani e procuratore aggiunto Bergamo? La dovrei sentire domani. Un abbraccio», ancora Celentano. «Bergamo ti spiego tutta situazione a Milano. Per aggiunto Trapani trattiamo prossima settimana con PAT Palermo», risponde Palamara. «Martusciello – prosegue Celentano – voleva notizie su Lagonegro, gli ho detto che tu mi hai detto che già sapevi tutto e che la situazione è un po’ complicata». E poi: «Come sta messo Raffaele Frasca per PS (presidente di sezione, ndr) Cassazione? Ce la fa? Avvisami quando sai qualcosa». Palamara, contattato dal Riformista aveva ricordato che Celentano lo invitava spesso, prima di essere candidato al Csm, a cena e che lo pressava con richieste per sistemare questo o quel magistrato. Celentano ha confermato di aver messaggiato con Palamara e di aver chiesto, su sollecitazione dei colleghi, informazioni sullo stato delle pratiche che li riguardavano, preoccupandosi del loro “profilo umano”. Leggendo la chat, però, il sostituto pg della Cassazione non si informava solo dei destini dei colleghi ma anche degli assetti del Consiglio superiore della magistratura. Ad iniziare dall’ufficio del Segretario generale, l’ufficio più importante di Palazzo dei Marescialli, quello che ha i rapporti con il Quirinale. Il 6 giugno del 2018 scrive Celentano a Palamara: «È in plenum la pratica vice segretario? Sai che fa Riccardo (Fuzio, procuratore generale della Cassazione, all’epoca il suo capo, ndr)?». Palamara: «Stiamo discutendo ora. Riccardo già si è espresso come Comitato di presidenza (composto dal vice presidente del Csm, dal primo presidente della Cassazione e, appunto, da Fuzio, ndr). Che ha portato in plenum Fiorentino (Gabriele, di Magistratura democratica, ndr). «Quindi in favore di Fiorentino?», aggiunge Celentano. «Sì», la risposta di Palamara. Il giudice Andrea Reale, neo eletto all’Anm per articolo 101, il gruppo “anticorrenti” aveva chiesto a Celentano chiarimenti sul suo comportamento. Dopo la prima risposta di quest’ultimo, Reale aveva replicato aggiungendo: «Potremmo dire a tutti i magistrati che è lecito, anche sotto il profilo deontologico, contattare direttamente un consigliere del Csm per chiedere notizie su colleghi del proprio ufficio, o degli uffici di legittimità, oppure sullo stato di pratiche di colleghi da loro conosciuti e di preoccuparsi del profilo umano dei richiedenti con i componenti del Consiglio?». E poi: «È consentito da oggi che circa 10.000 magistrati contattino i sedici consiglieri togati per chiedere notizie sulle pratiche degli altri 9.999? O sussiste, in questo genere di condotte, un profilo deontologicamente rilevante?». «Da consigliere è pronto a fornire la sua utenza cellulare a tutti i magistrati italiani che vogliano interessarsi delle pratiche di un loro collega amico?», aveva quindi aggiunto Reale. Difficile che il diretto interessato risponda nuovamente.

Palamara silura l’erede di Davigo: “Celentano mi pressava per le nomine”. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Ottobre 2020. «Carmelo Celentano? È un ottimo cuoco. Ricordo che ogni volta che mi invitava a cena a casa sua il livello qualitativo delle portate era altissimo. Ricordo anche, però, che tutte le cene si concludevano sempre allo stesso modo: con sue continue e pressanti richieste per sistemare questo o quel magistrato». Così Luca Palamara all’indomani dello scoop del Riformista che ha pubblicato alcuni fra i tantissimi messaggi contenuti nella sua chat con Celentano, sostituto procuratore presso la Procura generale della Cassazione e attuale consigliere del Csm dopo essere subentrato, dalla scorsa settimana, al posto del pensionato Piercamillo Davigo. Dalla lettura di questi messaggi, tutti agli atti del procedimento penale pendente a Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Anm e di cui è in corso l’udienza preliminare, emergeva una strettissima e pressante interlocuzione di Celentano con Palamara per avere informazioni su nomine, tempistiche, e quant’altro riguardasse i colleghi che aspiravano ad un incarico. Secondo la recente circolare del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, il capo di Celentano, si trattava comunque di attività lecite, senza alcuna rilevanza disciplinare. Il pg nelle scorse settimane aveva, infatti, sdoganato per i magistrati l’attività di self marketing, svolta in proprio o “esternalizzata” ad altri colleghi, come nel caso di Celentano. I messaggi fra Celentano e Palamara, come tutti quelli contenuti nelle altre chat dell’ex capo dell’Anm, sarebbero da mesi all’esame della task force istituita da Salvi a piazza Cavour. Nonostante le rassicurazioni di Salvi sulla correttezza dell’auto promozione togata, il primo a intervenire in maniera critica dopo la lettura dello scoop del Riformista era stato sulla propria pagina Fb Andrea Mirenda, giudice di sorveglianza a Verona, neo eletto al Consiglio giudiziario di Venezia con Articolo 101, il gruppo delle toghe “anticorrenti”. Celentano è anche componente della Sezione disciplinare del Csm. Quindi “giudice dei giudici”. La Sezione, si ricorderà, che sta ora giudicando i cinque ex togati coinvolti nella cena con lo stesso Palamara all’hotel Champagne dello scorso anno quando si discuteva del futuro procuratore di Roma. Anche il collega di Articolo 101, Andrea Reale, gip a Ragusa e da poco eletto all’Anm, tramite mail aveva chiesto chiarimenti a Celentano sul contenuto di tali messaggi. Da quanto appreso, Celentano avrebbe confermato di aver messaggiato con Palamara e di aver chiesto, su sollecitazione dei colleghi, informazioni sullo stato delle pratiche che li riguardavano, preoccupandosi anche del loro “profilo umano”. La risposta non ha convinto il giudice Mirenda: “A che titolo si informa? Quale legittimazione aveva per chiedere ragguagli, informazioni, raccomandazioni, anche di tipo ‘umanitario’”? Il paragone, in automatico, è con tutti gli altri cittadini della Repubblica che non hanno il privilegio di indossare la toga. «Se un privato avesse interferito senza averne titolo in un procedimento amministrativo volto a conferire incarichi, appalti, concessioni a quali responsabilità si sarebbe esposto?». La risposta Mirenda non la fornisce ma ci permettiamo di fornirla noi: la prigione. Celentano, nella sua risposta, ha preso anche le distanze da Palamara. Una “pia bugia” sarebbe quanto dichiarato da Palamara sul fatto che i colleghi di Unicost non avessero votato per lui alle ultime elezioni per il Csm, preferendogli invece Davigo, poi eletto in maniera plebiscitaria. Sempre Palamara: «Un consigliere ha l’obbligo di raccontare la verità. Celentano mi accusa di aver detto una bugia. Se intende riferirsi al fatto che una parte del gruppo di Unicost di Roma di cui facevo parte aveva votato per Loredana Miccichè (togata di Magistratura indipendente, poi eletta insieme a Davigo per i due posti destinati ai giudici di legittimità al Csm, ndr) a suo danno, gli rispondo di averlo votato convintamente e di averci sempre messo la faccia». «Anche se non ho mai condiviso il metodo della cooptazione con il quale venne la sua candidatura – prosegue infine Palamara -auguro buon lavoro al consigliere Celentano. Sono personalmente contento che abbia coronato la sua aspirazione».

L’erede di Davigo al Csm? Tramava con Palamara…Paolo Comi su Il Riformista il 27 Ottobre 2020. Con l’uscita di scena, contro la sua volontà, di Piercamillo Davigo, dalla scorsa settimana il posto dell’icona di Mani pulite al Csm è stato preso da Carmelo Celentano, il primo dei non eletti. Sconosciuto al grande pubblico, Celentano, sostituto procuratore generale in Cassazione, è stato per anni uno dei fedelissimi dell’ex zar delle nomine Luca Palamara, recentemente radiato dalla magistratura. Entrambi di Unicost, la corrente di centro, i due si sono messaggiati per anni. In particolare, Celentano sponsorizzava i colleghi che aspiravano a una nomina, chiedendo di essere costantemente aggiornato sullo stato delle pratiche. «Ho parlato con Salzano (Francesco, ora avvocato generale in Cassazione, ndr), lo ho tranquillizzato per il futuro e gli ho detto che lo avresti chiamato. Se gli dai la prospettiva dei prossimi posti sarà sereno», scrive Celentano a novembre del 2017. Palamara risponde: «Ho parlato con Salzano, è tutto ok». «Votato Salvato (Luigi, ndr) unanime», esordisce qualche settimana più tardi Palamara. «Sei fondamentale come sempre. È tutto nelle tue mani. Per questo sono tranquillo», replica Celentano. «Volevo notizie su PAT (procuratore aggiunto, ndr) Trapani; alcuni colleghi mi parlavano di Rossana Penna attualmente a Trapani, che a detta di Area (la corrente di sinistra, ndr) se la dovrebbe contendere con Marzella (Carlo) ora a Palermo. Oltre a questo mi hanno ricordato di Pst (presidente sezione, ndr) Padova. Se puoi chiamami», scrive Celentano nella primavera del 2018. «PAT Trapani ancora non trattata. Per PST Padova lo metto prossima settimana», risponde Palamara che da zar delle nomine aveva il potere di decidere anche l’ordine cronologico dei posti da assegnare. «Scusa caro Luca, potresti aggiornarmi sulla situazione di Rossana Penna per procuratore aggiunto Trapani e procuratore aggiunto Bergamo? La dovrei sentire domani. Un abbraccio», ancora Celentano. «Bergamo ti spiego tutta situazione a Milano. Per aggiunto Trapani trattiamo prossima settimana con PAT Palermo», risponde Palamara. «Martusciello – prosegue Celentano – voleva notizie su Lagonegro, gli ho detto che tu mi hai detto che già sapevi tutto e che la situazione è un po’ complicata». E poi: «Come sta messo Raffaele Frasca per PS (presidente di sezione, ndr) Cassazione? Ce la fa? Avvisami quando sai qualcosa». All’indomani del voto per il rinnovo del Csm, a luglio del 2018, Celentano, non eletto, è furente: «Come vedi mi hanno venduto per un pugno di voti». E subito Palamara: «È una cosa vergognosa e assurda: non riesco ad accettare quello che è accaduto. Avevamo fiutato il pericolo di Davigo. Io non accetto che un elettore di Unicost lo abbia votato!!! E non lo accetterò mai. Voglio dirti che ti voglio bene e che ti sono e ti sarò sempre vicino. Solo chi cade può rialzarsi e ancora più forte!!! Un abbraccio». Rincuorato dal messaggio dello zar, Celentano scrive: «Caro Luca, ti ringrazio per l’affetto che ricambio immutato! Io so riconoscere le persone che hanno testa e cuore come te. Abbiamo tuttavia entrambi la necessità di far crescere davvero il gruppo, liberandolo da qualche bassezza che la magistratura non merita. E su questo conto ancora una volta su di te e su pochi altri. Un abbraccio sincero». Dopo aver chattato come un forsennato con Palamara, Celentano sarà adesso il “giudice di se stesso”, essendo stato destinato a coprire il posto di Davigo anche alla sezione disciplinare del Csm. Dopo essere stato fra i più stretti collaboratori del titolare dell’azione disciplinare, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, Celentano giudicherà adesso l’attività svolta dal suo momentaneamente “ex” ufficio. Quando fra due anni terminerà il mandato al Csm, infatti, Celentano dovrà far ritorno a piazza Cavour. Si poteva evitare questa “incompatibilità d’ufficio”? Certo. Al posto di Davigo alla disciplinare poteva andare Loredana Miccichè, già giudice in Cassazione. Sulla non scelta della togata pare (il condizionale è d’obbligo) abbia pesato nei giorni scorsi una sua intervista al quotidiano Il Giornale in cui manifestava perplessità sul modo in cui era stato condotto il turbo processo a Palamara.

Peggio ancora di quel che credevamo....La rivelazione di Orlando: ministero della giustizia occupato dai magistrati, nomine nelle loro mani. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Novembre 2020. Mi è andata bene. Mi sono beccato soltanto l’epiteto di persona “ridicola”. Visti i toni del dibattito pubblico, in questa epoca dei vaffa, e dei vaffa che hanno conquistato il governo, non posso lamentarmi. Io invece credo che Andrea Orlando sia una persona molto seria e che però abbia fatto male il ministro della Giustizia. E non sia stato in grado, successivamente, di opporsi al suo successore (sto parlando, ahimé, di Bonafede) che faceva carne di porco delle poche riforme avviate proprio da Orlando (e mai concluse) e dei principi essenziali del diritto. Nel silenzio – complice? – del Pd e dell’ex ministro. Ne parliamo un’altra volta. Qui rispondo solo alle obiezioni di Orlando, che peraltro conosco da molto tempo e ho sempre pensato che fosse un politico con buone idee ma poco coraggio. Può darsi che mi sbagli. Del resto l’assenza di scelte coraggiose, a mio modo di vedere, è il difetto principale che il Pd si porta appresso dal momento della sua fondazione (tranne il breve periodo renziano, forse, ma in quel periodo il difetto, non meno drammatico, fu l’eccesso di coraggio e tracotanza…). Orlando si è arrabbiato perché sul Riformista gli abbiamo dato dell’amendoliano. E abbiamo fatto risalire l’abbandono di Bassolino da parte dei compagni di partito, alla vecchia ed eterna lotta – prima nel Pci e poi nei Ds e nel Pd – tra le opposte correnti. Non c’è niente per cui offendersi, francamente. Che Bassolino sia del tutto innocente è acclarato: lo ammette ormai persino Marco Travaglio (e dunque, immagino, il partito dei Pm che lui guida). Che Bassolino sia stato abbandonato dai suoi quando un gruppetto di Pm gli ha lanciato la fatwa, mi sembra cosa altrettanto sicura. Che il Pm Sirleo abbia avuto un ruolo molto importante nei processi a Bassolino (ricordo di nuovo: tutti finiti con una assoluzione), non penso che possa essere messo in discussione. Che i processi abbiano messo Bassolino fuori dalla politica e azzerato quella che era stata la sinistra (nell’ambito del centrosinistra) napoletana è una cosa che tutti vedono. Punto. Dopodiché il compito di noi giornalisti è quello di mettere in fila i fatti e tentare qualche deduzione logica. Chi conosce la storia della sinistra napoletana – e anche la storia dei rapporti tra magistratura e politica, e il modo nel quale la magistratura ha vessato la politica e l’ha espropriata, e il modo nel quale la politica ha tentato di usare la magistratura per regolare i conti interni – chi conosce tutte queste cose sa da solo, benissimo, trarre le conclusioni dei fatti che noi abbiamo messo in fila. Che Orlando appartenesse alla corrente del Pci che era stata più o meno fondata da un gigante della politica come Giorgio Amendola, non credo che sia né da mettere in discussione né da considerare un’accusa. Far parte – aver fatto parte, da giovane – del riformismo comunista ed ex comunista, è una gloria, non una vergogna. Io non ne ho mai fatto parte ma ho grande stima di tantissime persone che ne hanno fatto parte e hanno dato molto alla politica. Capisco che quello che ha dato fastidio a Orlando non è stato il sospetto amichevolissismo di amendolismo, ma il sospetto di avere sacrificato – forse alla lotta tra le correnti, forse ad altre considerazioni politiche – la difesa di un galantuomo come Bassolino e cioè uno dei personaggi più importanti della sinistra in Campania negli ultimi 30 anni. Sul Riformista, ieri, abbiamo denunciato un altro fatto. Abbiamo scoperto che i magistrati che avevano combinato il disastro dei processi a Bassolino, commettendo, evidentemente, dei clamorosi errori professionali (non è possibile processare per 19 volte un innocente, per di più ex sindaco ed ex governatore della Campania) non solo non sono stati in nessun modo chiamati a rispondere ma sono stati premiati. Mi chiedo: perchè il ministero – prima ancora di Orlando, ma poi anche quello guidato da Orlando – non ha mandato gli ispettori per capire cosa stesse combinando la magistratura napoletana contro Bassolino? E perché, addirittura, il ministro (in questo caso Orlando), invece di mandare gli ispettori a Napoli a controllare il lavoro dei Pm ha invece chiamato uno dei Pm in questione a Roma e ha nominato lui ispettore? Vede, Orlando, lei può pensare che tutto questo sia ridicolo, ma non lo è: è invece un fatto gravissimo. E questo a prescindere dalla dirittura morale e professionale del dottor Sirleo, che io mi guarderei bene dal mettere in discussione. So però che ha fatto degli errori gravissimi e che qualunque altro professionista li avesse commessi non sarebbe stato certo promosso. Dopodiché, caro Orlando, la sua giustificazione sul motivo della chiamata a Roma del dottor Sirleo, mi perdoni, ma aggrava molto – moltissimo – la situazione. Lei mi dice che non è stato lei a decidere ma il suo capo di Gabinetto. Cioè, se non sbaglio, nel luglio 2015, il dott Melillo, magistrato distaccato al ministero e oggi Procuratore di Napoli. Ho capito bene? È così? Cioè scopro che le nomine al ministero non le fa il ministro, quindi non spettano più alla politica, ma le fa – di nuovo – un magistrato? Dunque devo prendere atto del fatto che la sottomissione del potere politico al partito dei Pm è ufficiale e rivendicata? Su che basi, poi, si fanno queste scelte? Cioè su quali base i magistrati, espropriando le competenze dell’esecutivo e della politica, decidono le nomine? Caro Orlando, lo sai quanto me, perché hai letto i giornali. La parola è quella: lottizzazione. Come si fa questa lottizzazione? Il dottor Palamara lo ha spiegato in tutte le lingue. Decidono le correnti dei magistrati, cioè degli organismi potentissimi e del tutto illegali. La professionalità, le idee, l’indipendenza, la giustizia non c’entrano niente. Le correnti dicono: questo va qui, questo va lì. Questo sale, questo scende. Io pensavo che almeno al ministero ci fosse una possibilità di frenare questo scandalo. Scopro invece – dalla sua lettera – che il vero ministro, quello che decide – e non ammette obiezioni – è sempre un magistrato. Dio mio, pensavo che piovesse: qui grandina.

(ANSA il 24 novembre 2020) - La Corte d'Appello di Catanzaro, seconda sezione civile, ha condannato per diffamazione l'ex pm di Catanzaro e attuale sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Il politico dovrà pagare 20mila euro e pubblicare la sentenza che lo condanna sul suo blog, dal quale la vicenda è iniziata, entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza. A proporre appello era stato l'imprenditore Maurizio Mottola di Amato, legale rappresentante della Impremed spa nonché marito del giudice Abigail Mellace, che ha svolto le funzioni di gup al Tribunale di Catanzaro nel processo "Why not". A ottobre 2010 De Magistris aveva scritto sul proprio blog due articoli titolati "Le Mistificazioni del regime" e "Il giudice di Why not… non di Berlino", articoli poi ripresi da un quotidiano calabrese. Secondo Mottola di Amato "l'autore avrebbe riferito notizie false e incomplete sulla sua vicenda processuale senza dare conto del suo esito, contestualizzandole in un ambiente giudiziario caratterizzato a suo dire da indebiti aggiustamenti processuali e utilizzando espressioni denigratorie e lesive della sua reputazione personale e imprenditoriale". L'imprenditore era stato coinvolto nell'inchiesta "Splendor" avviata nel 2004 al termine della quale, nel 2006, è stato assolto con formula piena. Nel 2012 il Tribunale di Catanzaro si era espresso con un non doversi procedere perché De Magistris non era punibile per immunità parlamentare (a quel tempo era europarlamentare). Adesso i giudici d'appello lo hanno ritenuto processabile. "Non c'è stata alcuna condanna per diffamazione in sede penale ma solo una provvisoria sentenza civile di soccombenza in sede di appello, dopo aver avuto pienamente ragione in primo grado". E' quanto afferma il Sindaco di Napoli Luigi de Magistris commentando la sentenza della seconda sezione civile della Corte d'Appello di Catanzaro dicendosi certo che la sentenza "verrà riformata in Cassazione."

Massimo Malpica per “il Giornale” il 25 novembre 2020. Un libro nero che più nero non si può per raccontare i panni sporchi dei magistrati, lavati preferibilmente in famiglia, messi in fila dalla sezione disciplinare del Csm ma sbianchettati perché si sa, la privacy è sacra e quella delle toghe, se possibile, lo è ancora di più. Anche perché i protagonisti delle storie che Stefano Zurlo racconta ne «Il Libro Nero della Magistratura» (Baldini&Castoldi, 224 pagine, in libreria da domani), e che coprono lo spazio dell' ultimo decennio, spesso continuano a fare il proprio lavoro. Restano al loro posto, cavandosela magari con una censura, un ammonimento, il corrispettivo disciplinare di una tirata d' orecchi. Ma le storie, appunto, restano, e sono emblematiche di comportamenti che, come dice l'autore nella prefazione, fanno impallidire pure il caso Palamara. Ma restano nell' ombra o vedono la luce protetti dal bianchetto, che nasconde i nomi, ma non cancella fatti incredibili ma veri: dal giudice che «molesta e assilla» la collega pm a quello che copia le sentenze, fino al collega che assegna centinaia di incarichi all' amico professionista con cui condivide la frequentazione di un club di prostitute, al Gip che «si ricorda» di liberare due imputati dai domiciliari con un anno e mezzo di ritardo o al giudice di Corte d'Appello che fotografava le nipoti minorenni e diffondeva in rete quelle foto pedopornografiche. Sono trentaquattro storie da non credere quelle messe in fila da Zurlo. Come quella di Orazio Gallo (il nome, come lo sono anche tutti gli altri, è appunto di fantasia), giudice in aspettativa, che ad aprile e poi a luglio del 2009 per due volte dà i numeri sulla pubblica via, prima ubriaco, aggredendo i passanti che vogliono aiutarlo, del insultando i poliziotti accorsi e offrendosi di «leccare la f...» alla dottoressa 118, poi concedendo il bis con i carabinieri, dopo un tamponamento seguito da tentativo di fuga e sfociato in atti di vandalismo contro la «gazzella» dell' Arma e in un inevitabile arresto, concluso tra insulti e contumelie dell' uomo. Il Csm, anche di fronte a due precedenti sempre «stradali» sfociati in altrettanti procedimenti disciplinari, decide di cacciarlo dalla magistratura. Ma non va sempre a finire così. Zurlo lo dimostra raccontando il caso di Giovanni Domodossola, magistrato la cui moglie si ritrova con un ematoma al naso dopo una lite e che, si legge nel fascicolo del Csm, «dal 1995 al febbraio 2007 teneva fuori dall' ufficio condotte tali da renderlo immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere un magistrato». Una storia, lunga, di liti con la consorte, ricche di insulti, strattoni, lesioni. Ma la donna ritira la querela, la sezione disciplinare ne prende atto. Derubrica tutto a «insofferenze reciproche», mette nero su bianco che «tutte le violenze, a quanto consta dagli atti, furono consumate all' interno della convivenza, dunque senza effetti sul piano sociale e della credibilità del magistrato». Insomma, Domodossola sarebbe colpevole solo di vivere una «quotidianità triste». E viene assolto. Ma Zurlo ci racconta anche di Franco Rossi, pm al quale ad agosto 2011 arriva sulla scrivania un caso di cronaca terribile: un padre che ha accoltellato alla gola, davanti alla moglie e ai familiari, la figlia di due anni. L'autore del gesto ha gravi problemi psichici, ma il pm non fa nulla, anzi, indaga l'uomo «erroneamente» per lesioni colpose, e tocca al procuratore capo, più di un mese dopo, correggere l' imputazione in lesioni dolose. Il pm non si smuove e gli atti del procedimento disciplinare fotografano l'assurdo, scrivendo che «si asteneva da ogni atto concreto di indagine, sebbene sollecitato più volte». E più di un anno dopo, a ottobre 2012, l' accoltellatore, con la giustizia che ha ignorato ogni allarme, chiude il cerchio e ammazza la moglie. Il pm, scrive il Csm, «in tal modo non impediva» che l' indagato «provocasse alla donna il danno irreparabile della perdita della vita». Il caso finisce al Csm 4 anni dopo, nel 2016, ma «finisce ancora prima di cominciare», racconta sconsolato Zurlo, perché il pm, nel frattempo, si è spogliato dalla toga. Tutto in archivio. Tranne il sentimento della vergogna.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 21 novembre 2020. Come può David Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, giudicare gli accusati di una vicenda in cui anche il suo nome ricorre più volte? Contro l'esponente del Pd, l' uomo che rappresenta in Csm la voce del presidente Mattarella, parte ieri un siluro da uno dei magistrati sotto accusa per il caso Palamara. Il tema non è dissimile da quello che vide protagonista Piercamillo Davigo, ricusato da Palamara perché lui stesso coinvolto nelle nomine oggetto del procedimento disciplinare contro l' ex leader dell' Anm. Stavolta tocca ad Ermini venire ricusato: con un atto depositato nei giorni scorsi da Stefano Fava, il pm romano che fa parte dell' elenco di 27 toghe per cui la Procura generale della Cassazione chiede sanzioni disciplinari. Fava risponde di due capi d' accusa: uno è avere spifferato a Palamara qualche dritta sull' indagine che lo vedeva coinvolto; l' altro, il più delicato, è avere inviato un esposto al Csm in cui si riferiva dei rapporti d' affari con alcuni inquisiti del fratello di Giuseppe Pignatone, allora procuratore della Repubblica a Roma. Pignatone ha lasciato la Procura per limiti di età, e oggi presiede il tribunale del Vaticano. E il suo nome ricorre spesso nella ricusazione depositata da Fava. Ermini, secondo Fava, dovrebbe farsi da parte per non avere dato corso al suo esposto proprio contro Pignatone: «Sia il Quirinale, sia David lo vogliono affossare», si legge in una intercettazione. Scrive Fava: «il Presidente Ermini ha un evidente interesse personale a patrocinare una certa interpretazione delle intercettazioni che lo riguardano direttamente quale, ad esempio, quella sopra citata, versate agli atti del presente procedimento poiché, da una certa interpretazione piuttosto che da un' altra, potrebbe discenderne una sua responsabilità personale». E non è tutto. Fava ricusa anche Giuseppe Cascini, membro di sinistra del Csm: ricusazione superata dai fatti, perché Cascini ha già deciso di astenersi. Ma nel capitolo dedicato a Cascini, Fava infierisce nuovamente su Pignatone: «in data 16 novembre 2016 intorno alle ore 17  il dottor Pignatone ha infatti comunicato al dottor Fava di conoscere Centofanti Fabrizio per essere costui una della dieci persone che gli era capitato di frequentare a Roma. Di essere stato a cena con il predetto Centofanti e che tra i commensali c' era anche il ministro della difesa Pinotti». Centofanti è l' imprenditore legato al Pd da cui ora Palamara è accusato di essersi fatto comprare: ma secondo Fava i rapporti erano stretti anche con Pignatone. E fu proprio Pignatone, scrive Fava, a rivelare a Palamara dell' esistenza di un indagine a suo carico. Ma nei guai c' è finito Fava.

Caso Palamara, l'atto di accusa della procura generale: ecco i nomi dei 27 magistrati. Il procuratore della Cassazione Giovanni Salvi ha già chiesto il giudizio disciplinare per 11 toghe e inviato le contestazioni ad altri 16. Le cento pagine firmate dal pg con il dettaglio delle "incolpazioni". Antonio Fraschilla su L'Espresso il 17 novembre 2020. «Sono 27 i magistrati per i quali la procura generale ha già esercitato l'azione disciplinare per i fatti emersi da chat e intercettazioni». Lo ha detto il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, affrontando, durante un intervento al plenum del Csm, il tema del caso procure e delle chat emerse dal telefono dell’allora sostituto procuratore di Roma, Luca Palamara, espulso dalla magistratura lo scorso ottobre. «Mi sono assunto la responsabilità di fare linee guida per fare chiarezza su quali siano e quali no i comportamenti disciplinarmente rilevanti, ho ricevuto anche critiche, ma questo è il momento di assumersi responsabilità», ha detto Salvi, secondo il quale la «stessa scelta andrebbe fatta dalla prima e dalla quarta Commissione del Csm per avere indicazioni generali a cui attenersi». La procura generale della Cassazione ha esaminato migliaia di pagine di chat e intercettazioni dei Palamara papers, e ha contestato ad altre 27 toghe comportamenti non in linea con l’onorabilità della magistratura: e tra queste non ci sono solo i magistrati che hanno partecipato alla cena all’Hotel Champagne insieme ai deputati Cosimo Ferri (che è anche una toga prestata alla politica) e Luca Lotti per parlare di nomine che il Csm era prossimo a fare nelle principali procure del Paese, ma anche tanti magistrati che grazie Palamara, leader della corrente di Unicost ed ex presidente dell’Anm, avrebbero cercato di fare carriera e farla fare ai loro amici e in alcuni casi anche ai parenti. Quello di Salvi è un atto di accusa dettagliato: per undici di loro ha già chiesto il giudizio di fronte alla commissione disciplinare del Csm, come da lui stesso annunciato lo scorso luglio, ad altri 16 ha inviato nelle scorse settimane le contestazioni e dopo aver ascoltato la controparte deciderà se chiedere il giudizio o meno. 

Colpo di spugna della Procura. Palamaragate, magistrati a processo ma si salvano tutti i big che trafficavano con lo zar delle nomine. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Novembre 2020. La montagna ha partorito il topolino. La maxi task-force messa in campo dalla Procura generale della Cassazione per analizzare le migliaia di chat contenute nel telefono di Luca Palamara ha prodotto poco più di dieci nomi. Sedici per l’esattezza. Tutto qui. Della centinaia e centinaia di magistrati che per anni hanno “stalkerizzato”, direttamente o indirettamente, l’ex zar delle nomine ed ex presidente dell’Anm, in pochissimi finiranno davanti alla sezione disciplinare del Csm insieme ai colleghi che presero parte al dopo cena all’hotel Champagne con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. Il Palamaragate, salvo colpi di scena, al momento alquanto improbabili, finisce dunque così. Con una colossale autoassoluzione. La circolare del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, che aveva sdogonando il “self marketing togato” ha escluso dalla punibilità moltissimi magistrati. Il Csm, poi, a distanza di oltre un anno dallo scoppio dello scandalo non si è, incredibilmente, ancora dato criteri univoci per la valutazione di queste chat ai fini delle sue decisioni in merito al conferimento di incarichi o alle valutazioni di professionalità per le toghe. Una voce fuori dal coro è quella del pm antimafia Nino Di Matteo. «Perché non possiamo valutare le chat?», ha dichiarato in Plenum questa settimana. «Siamo in possesso legittimo di questo materiale», ha aggiunto, chiedendo di analizzare una volta per tutte la condotta tenuta da Palamara con i colleghi per il conferimento degli incarichi. L’ex presidente dell’Anm, radiato dalla magistratura il mese scorso, fino a oggi ha tenuto il massimo riserbo su quanto fatto e sugli accordi presi per le nomine dei capi degli uffici più importanti del Paese. Qualche “pizzino” ai giornali ma nulla di più. «Con le conversazioni di terzi diamo ergastoli, indaghiamo politici ed amministratori», ha sottolineato Di Matteo ai colleghi in Plenum che gli ricordavano che non era possibile valutare disciplinarmente un magistrato solamente sulla base di cosa Palamara aveva detto di lui. Insomma, sotto la scure di Salvi finiranno le retrovie: i “big” togati sono stati tutti esclusi. Ma chi sono i malcapitati? Maria Vittoria Caprara, attuale giudice del tribunale di Roma, nella qualità di segretaria della Quinta commissione del Csm, avrebbe dato informazioni riservate a Palamara, in particolare “sulla procedura di nomina del procuratore di Roma”. Fiammetta Palmieri, anche lei ex magistrato segretario del Csm, avrebbe fornito ai “consiglieri del Csm Lepre, Cartoni e Criscuoli (coinvolti nel dopo cena dell’hotel Champagne, ndr), atti relativi alla trascrizione di intercettazioni telefoniche vincolate dal segreto”. Roberto Ceroni, sostituto procuratore a Bologna, referente di Unicost, la corrente di Palamara, in Emilia Romagna, avrebbe mirato «a far conseguire la nomina di Gianluca Chiapponi, Stefano Brusati e Silvia Corinaldesi rispettivamente ai posti di procuratore di Forlì, presidente Tribunale Piacenza e presidente Tribunale Rimini, perché appartenenti alla loro comune corrente associativa». Valerio Fracassi, presidente dei gip del Tribunale di Brindisi ed ex componente del Csm in quota Area, il cartello progressista, avrebbe ottenuto da Palamara «di espungere dall’elenco dei posti di imminente pubblicazione quello di presidente di sezione di Brindisi, trattandosi dell’ufficio dal quale proveniva e sul quale sarebbe dovuto rientrare (ufficio poi ricoperto al termine del ruolo al Csm)». Alessia Sinatra, pm a Palermo, avrebbe tenuto un «comportamento gravemente scorretto nei confronti del procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, che aveva presentato domanda per la Procura di Roma” dichiarandosi “disposta a tutto” pur di scongiurarne la nomina». Massimo Forciniti, pm a Crotone, e Claudio Maria Galoppi, consigliere giuridico della presidenza del Senato, entrambi ex consiglieri del Csm, avrebbero sollecitato insieme a Palamara un emendamento alla legge di stabilità del 2017 che permetteva agli ex togati di piazza Indipendenza di essere nominati a un ufficio direttivo senza attendere un anno dalla cessazione dalla carica. Tommasina Cotroneo, presidente sezione Tribunale Reggio Calabria, avrebbe «tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei magistrati che avevano presentato domanda per presidente di sezione del Tribunale di Reggio Calabria, al quale lei stessa concorreva, prospettando a Palamara la strategia da seguire consistente nella reiterata denigrazione di questi ultimi». Stefano Pizza, sostituto procuratore a Roma, avrebbe fatto una attività di dossieraggio, insieme a Palamara, per screditare un sostituto procuratore a Grosseto. Salvo, quindi, Marco Mescolini, procuratore di Reggio Emilia, che aveva scritto a Palamara la sera prima del voto in Plenum per la sua nomina, dopo avergli mandato per mesi decine e decine di messaggi, la celebre frase: “Ti vengo a trovare e ti porto la maglietta di PAL RE DE ROMA….”.

Thierry Cretin: l’ex pm francese che ha conosciuto il sistema ad orologeria italiano. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 6 Novembre 2020. Thierry Cretin è stato un PM francese, che in Italia si sarebbe chiamato “magistrato d’assalto”. “Oggi è martedì grasso. Tuttavia, non vorrei avanzare mascherato”, dichiarava alla stampa nel marzo del 1995, quando era procuratore della repubblica a Lione, e chiedeva la condanna con una requisitoria di quasi sette ore, che ne sanciva la fine delle ambizioni da Presidente della Repubblica, di Michel Noir, il potente sindaco gollista della città. “Ho avuto alcune preoccupazioni quando ho intrapreso la revisione di questo dossier. Quando ho chiuso il coperchio della scatola, le mie preoccupazioni si erano placate: questo dossier era terrificante, questo dossier era travolgente. Era la strana mescolanza di soldi facili, politica e media”, spiegò Thierry Cretin a Liberation. Precisando il suo metodo di procuratore che parla solo in Tribunale: “Preferisco il fatto al commento, l’analisi del diritto“. Il tribunale, i dodici imputati, il pubblico erano avvertiti. E fu non sola la fine della carriera politica del sindaco di Lione, ma anche uno smacco per altri personaggi pubblici francesi finiti nell’inchiesta, come Charles Giscard d’Estaing, nipote dell’ex Presidente della Repubblica. Cretin, autore di un celebre libro sulle mafie, tradotto in diverse lingue, è stato per molti anni alla Commissione Europea, Capo Unità prima e Direttore poi delle indagini dell’Ufficio Europeo per la Lotta alla Frode (OLAF). Fino a quando, nel 2011, al posto del Procuratore tedesco, Franz-Hermann Bruener, deceduto dopo una breve malattia, arrivò il successore. Thierry Cretin, per la sua grande esperienza, la sua assoluta indipendenza, l’equilibrio ed il rigore sereno, era considerato il successore naturale di Bruener. Era stimato da tutti i servizi investigativi europei, ma anche dai suoi investigatori e dalla maggioranza dei funzionari dell’OLAF. Va però segnalato che Bruener, cui Cretin era sempre stato legato da un grande rapporto di stima reciproca, non aveva avuto un ottimo rapporto con il Comitato di Sorveglianza dell’OLAF, tra i cui membri vi era stato, anche come Presidente, l’ex numero uno della potente ANM (l’Associazione Nazionale Magistrati), Edmondo Bruti Liberati, prima che diventasse Procuratore della Repubblica di Milano. E la Commissione Controllo Bilancio del Parlamento Europeo, che aveva un peso enorme nella nomina del capo dell’OLAF, era presieduta dall’ex magistrato italiano, ed oggi sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, col quale Bruener nel 2007 ebbe pubblicamente da dire a causa di alcune fughe di notizie e speculazioni mediatiche  su un’inchiesta su presunte frodi ai fondi europei, della quale era responsabile alla Procura della Repubblica di Catanzaro, ed alla quale l’OLAF aveva fornito la propria collaborazione. Bruener scrisse una infuocata lettera di protesta al Ministro della Giustizia, e pretese la pubblicazione di un comunicato stampa congiunto OLAF e Commissione Europea contro le per lui inammissibili speculazioni stampa, che allora non si chiamavano ancora fake news. Ma in quella stessa Commissione Controllo Bilancio c’era anche l’eurodeputata Sonia Alfano, all’epoca appartenente all’Italia dei Valori dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che nelle audizioni pubbliche dei candidati al vertice dell’OLAF, del 26 ottobre del 2010, diede un determinante contributo a chi preferiva a Cretin un altro magistrato, guarda caso italiano, ed ex deputato del Pd: Giovanni Kessler. E per Thierry Cretin, ma anche per tutti coloro che erano stati leali a lui e all’OLAF di Franz-Hermann Bruener, venne sancita la fine della carriera all’Ufficio Europeo per la Lotta alla Frode. E dovettero cercarsi un altro posto, a seguito di azioni di mobbing strisciante, se non di vere e proprie epurazioni. E chi scrive ne sa più di qualcosa. Ricordo benissimo che Sonia Alfano, entrata in aula durante l’audizione pubblica come candidato di Cretin, chiese la parola, per porre le sue domande iscritte in agenda, al Presidente della Commissione Controllo Bilancio del Parlamento, Luigi De Magistris. E furono due, brevi e precise, lette su un foglietto, prima di abbandonare di fretta l’aula, se il ricordo non mi inganna, senza neppure ascoltare la risposta. La prima era se fosse vero che Cretin si trovasse sotto inchiesta per un’accusa di mobbing nei confronti di “un ufficiale della Guardia di Finanza”. Cretin rispose che effettivamente era stato oggetto di un reclamo per presunto mobbing da parte di “uno dei suoi agenti dell’OLAF”, e che questa denuncia era in corso di esame dal mese di luglio da parte del servizio di mediazione della Commissione Europea, le cui conclusioni non erano ancora note (al momento dell’audizione). La seconda domanda era se appartenesse ad una “associazione dei magistrati”, senza fornire ulteriori dettagli. Cretin rispose che era stato membro di un’”associazione di magistrati” ma che non versava più i contributi a quell’associazione da diversi anni, perché non ne faceva più parte. Queste due domande, a molti di coloro che hanno assistito come me all’audizione, apparvero subito come le fucilate di un plotone d’esecuzione. Perché la stampa ed i resoconti parlamentari – che stranamente oggi non si trovano più on line – misero subito in evidenza proprio queste due domande di SoniaAlfano. Poco importò – facendo molto pensare a molti alle tecniche di orologeria tipicamente italiane – che la presunta accusa di mobbing venne archiviata solo qualche settimana dopo, perché considerata del tutto infondata, dal Servizio di Mediazione della Commissione Europea. Perché in ogni caso quell’ombra gettata durante l’audizione pubblica costò a Cretin il posto di Direttore Generale dell’OLAF. Nessuno obiettò neppure che, a parte la palese infondatezza delle accuse, il Direttore Generale facente funzioni dell’OLAF, un inglese che era si era pure candidato al posto di Direttore generale, e che partecipò come Cretin all’audizione pubblica, notoriamente non era simpatizzante del suo concorrente interno e collega francese. Che temeva molto, lui che era un semplice funzionario del Tesoro britannico, per la sua incomparabile esperienza investigativa. Come non era stato simpatizzante neppure di Franz Hermann Bruener, al punto che la moglie del procuratore tedesco, alla cerimonia funebre della Commissione Europea, rifiutò di averlo al suo fianco, nonostante fosse stato il vice ed il successore facente funzioni del marito scomparso. Ma neppure nessuno si insospettì del fatto che nel luglio precedente, in piena procedura di selezione per il posto di Direttore Generale, l’inglese si sentì preso dallo zelo di dover investire il servizio del Mediatore della Commissione Europea delle accuse, poi risultate palesemente infondate, contro il suo concorrente interno. La denuncia si rivelò infatti una montagna di accuse false e pretestuose, che Cretin smantellò facilmente, punto per punto, dimostrandone il carattere palesemente stravagante. La conclusione ufficiale del servizio di mediazione, ancorché dopo il forse un po’ troppo lungo tempo – qualche mese – necessario ad effettuare l’inchiesta, fu che l’accusa contro Cretin non solo era assolutamente infondata, ma che era anche palesemente legata alla procedura di nomina del Direttore Generale dell’OLAF. Ma tale decisione giunse troppo tardi. Perché nel frattempo il successore di Bruener era stato già scelto. Ed era, guarda il caso, un altro magistrato italiano, oltre che ex parlamentare del PD. Quindi troppo tardi perché la sorte di Cretin non fosse già segnata, ed iscritto come secondo nella lista di merito della Commissione Parlamentare presieduta dall’attuale Sindaco di Napoli. E a nulla era servito che, come nessuno poteva dubitare, avesse scalzato l’inglese, il quale in ogni caso avrebbe preferito un outsider, come il magistrato ed ex politico italiano, piuttosto che trovarsi subordinato al suo concorrente interno, che troppo bene conosceva l’Ufficio ed il suo mestiere. Nemmeno la seconda domanda di Sonia Alfano, a molti, non solo a Cretin, parve innocente. E merita essere pertanto essere ricordata. Perché era riferita all’Association Professionnelle des Magistrats, che negli anni ’90 si era opposta con forza a quelli che considerava come abusi del Syndicat de la Magistrature (una sorta di Magistratura Democratica, con la quale alcuni magistrati italiani, anche molto vicini all’OLAF, mantenevano strettissimi contatti, anche di tipo personale) e alle sue idee in materia di giustizia. E all’epoca il presidente di questa associazione, di cui Cretin non faceva più parte da anni, era stato accusato di alcuni commenti considerati antisemiti. Nessuno tolse quindi dalla testa di Thierry Cretin che l’obiettivo della domanda che qualcuno aveva suggerito a Sonia Alfano era quello di lanciare un’insinuazione di antisemitismo nei suoi confronti. Infatti, nei giorni che seguirono (anche se qualche mese dopo sparirono misteriosamente dal Web, e persino dai resoconti parlamentari on line del Parlamento Europeo) Cretin trovò su Internet alcune dichiarazioni che andavano proprio in questa direzione. Nonostante un’esperienza che ha lasciato un sapore amaro, Thierry Cretin non ha mai perso il suo modo ironico, ma determinato, di affrontare anche situazioni complicate della sua lunga vita professionale. Con spirito da autentico cacciatore, nel suo tempo libero come nella sua attività professionale. Non ha neppure perso il suo modo, rigoroso e preciso, da appassionato costruttore di coltelli artigianali, da uomo giusto e da Magistrato con la emme maiuscola, di valutare il sistema della giustizia. Compreso il modo variegato di agire dei singoli magistrati. In Francia, ma anche in Italia. Ragione per la quale l’ho intervistato su qualche tema della giustizia italiana.

Luca Palamara, l'ex pm a Libero: "Ho fatto parte di un meccanismo. Ora voglio riformare la magistratura". Emilia Urso Anfuso su Libero Quotidiano il 05 novembre 2020.  È al centro di una vicenda complessa scoppiata in seno alla magistratura, e che ha trovato - almeno apparentemente - un solo protagonista, un unico colpevole: Luca Palamara. Eppure, basta scavare un poco tra le pieghe di questa storia per capire che non ha senso urlare allo scandalo. In queste ore circola la storia della "manina" che avrebbe passato le carte ai giornali per far saltare le trattative sul nuovo vertice dei pm di Roma. Pare una spy story «Non sta a me stabilire se esista o meno una "manina" che avrebbe passato le carte ai giornali con riferimento a fatti e notizie che riguardavano l'indagine nei miei confronti. Ciò che è certo è che anch' io sono interessato a comprendere come e perché determinate informazioni siano state divulgate e diffuse in maniera illecita».

Perché ciò che è considerato normale in politica non lo è all'interno della magistratura?

«In questo momento, e sottolineo in questo momento, è stato più facile identificare nella mia persona l'unico autore degli accordi all'interno delle correnti. Ma ciò è accaduto perché non è mai stato spiegato il meccanismo attraverso il quale le correnti operano all'interno della magistratura stessa. Questo ha creato una sorta di diversità tra ciò che avviene in politica e ciò che avviene in magistratura. Intendo dire che, poiché mai stato reso pubblico il sistema delle nomine all'interno del Csm, quando si è iniziato a parlarne si è gridato allo scandalo. I cittadini conoscono il sistema delle nomine in politica e perciò non lo ritengono scandaloso».

Il Csm sembra non trovare pace anche sulla nomina in sostituzione del dimissionario Mancinetti.

«Non ritengo di essere la persona più indicata a rispondere alla domanda. Posso dire ciò che penso: non si è raggiunto un accordo tra le correnti».

Di recente è entrato a far parte della Commissione sulla riforma della giustizia del Partito Radicale. Una giustizia giusta è possibile?

«Per circa 25 anni ho operato all'interno della magistratura, e ho sempre seguito la linea dell'applicazione imparziale della legge. Avrò modo e occasione, spero, di dimostrare che mi sono sempre battuto per i principi di una giustizia giusta. Per questo motivo, ho ritenuto di voler mettere a disposizione l'esperienza della mia attività per chi si è sempre battuto per questi principi, anche se ho espresso nel corso degli anni diversità d'opinione e d'idee su determinate questioni. Però, poiché ritengo che il tema della giustizia molto importante per la vita dello Stato e dei cittadini, voglio mettere il mio bagaglio personale e professionale a disposizione di tutti».

È stato denominato "Il caso Palamara" ma sarebbe stato più corretto denominarlo "Il caso magistratura". A un certo punto sembrava addirittura che la magistratura fosse composta di un solo elemento: lei. Mi sono fatta l'idea che tutto nasca dalla frattura tra Unicost e Magistratura democratica e la nuova alleanza con Magistratura indipendente. È così?

«La mia storia politica e associativa è caratterizzata da un'alleanza tra la corrente di Unicost e le correnti della sinistra giudiziaria. Quando quest' alleanza si è affievolita, in special modo nell'ultimo periodo, in occasione della nomina del vice presidente Ermini, si è verificato uno scostamento maggiore verso l'area moderata, e sono iniziati a nascere problemi che a un certo punto hanno riguardato direttamente la mia persona».

Mi dica la verità: lei è più potente di quanto voglia far apparire? Perché tutto quest' accanimento contro di lei? Cosa può aver mai ordito che gli altri non potessero?

«L'idea dell'uomo solo al comando non mi è mai piaciuta e non mi sono mai sentito tale. Sono stato semplicemente un magistrato che in una fase della sua vita ha fatto parte di un meccanismo, quello delle correnti, all'interno del quale, interfacciandomi con le altre, ho operato».

La cosa particolare è che lo scandalo non è scoppiato tanto all'interno della magistratura quanto a livello socio-politico. Ha scandalizzato gli italiani.

«Ogni giorno ci sono giudici impegnati nei casi più svariati. Dall'ambito civile, come i divorzi, oppure che decidono di uno sfratto, o sono chiamati a giudicare un ladro o un truffatore. Ai cittadini va spiegato che il fatto che mi ha riguardato è interno alla magistratura, si riferisce alla gestione interna del potere, ma non intacca l'applicazione imparziale della legge. Questa situazione, quindi, non deve incrinare la fiducia che i cittadini ripongono nel sistema giudiziario».

Di recente si sono tenute le elezioni del comitato direttivo centrale: tonfo per Autonomia&Indipendenza, la corrente di Davigo, costretto però dai colleghi a lasciare la carica per decadenza a poche ore dal voto. Fatto fuori pure lui?

«Davigo è stato tra i giudici che mi ha giudicato, e per tale motivo non mi esprimo su questo punto. Posso però dire che nemmeno io mi aspettavo che a distanza di pochi giorni dalla decisione che mi ha riguardato, egli sarebbe decaduto dal Csm. È però certo che la scorsa estate c'erano avvisaglie su quanto sarebbe accaduto».

Il giorno successivo all'esplosione dello scandalo sulle nomine, 5 consiglieri togati su 16 si sono dimessi e il Procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio in pensionamento forzato: un fuggi fuggi generale che potrebbe apparire come un'ammissione di colpe.

«Ognuno risponde dei propri atteggiamenti e comportamenti, io rispondo per me stesso. Non voglio giudicare il comportamento degli altri».

Lei potrebbe tornare a breve a indossare la toga se le Sezioni Unite della Cassazione dovessero ammettere il suo ricorso.

«Non demordo, utilizzerò tutti gli strumenti processuali che l'ordinamento mi mette a disposizione, facendo ricorso all'organo di ultima istanza, perché ho pieno interesse a far emergere tutta la verità su come sono andate le cose. Voglio anche far comprendere perché in quel periodo storico la corrente di sinistra della magistratura era fortemente ostica nei confronti del Procuratore Viola. Per tale motivo il ricorso sarà funzionale in attesa della decisione della sezione disciplinare, per continuare a far valere i miei diritti fino a che mi sarà possibile, passando per le Sezioni Unite e la Corte Europea per i Diritti dell'Uomo, per ristabilire la verità dei fatti".

Magistratopoli e i suoi scandali. Dopo Magistratopoli è arrivato il momento di un referendum sulla giustizia. Biagio Marzo, Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 24 Ottobre 2020. È il momento giusto per indire uno o più referendum su aspetti fondamentali riguardanti la giustizia italiana e la magistratura, dopo il caso Palamara. Ciò non significa che si vuole intaccare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Bisogna piuttosto liberarla dalla ruggine di privilegi accumulati nei decenni. Due esempi.

Il primo: gli incarichi extragiudiziari dei magistrati, la loro seconda attività, la cui crescita, negli ultimi sei mesi, ha raggiunto il numero di 961, rispetto ai 494 dei sei mesi precedenti.

Il secondo: l’uso eccessivo della custodia cautelare.

Questo è il quadro nel quale si svolse il referendum sulla giustizia giusta, l’8 ottobre del 1987, per stabilire la responsabilità civile per i magistrati. Certamente bisognerà studiare sul piano tecnico come i referendum devono essere articolati, i punti specifici su cui far pronunciare i cittadini. Per memoria, i temi essenziali sono la separazione delle carriere, il Csm, i termini processuali, gli incarichi extragiudiziali, la carcerazione preventiva. Su un altro piano: le intercettazioni e la prescrizione. La presa di coscienza dell’esistenza di un problema magistratura è partita dall’arresto, nel 1983, di Enzo Tortora, scaturito dalle dichiarazioni di un pentito e dalle successive calunnie di suoi omologhi a cui i mezzi di informazione e la procura di Napoli diedero grande credibilità. Insomma, fu condannato un innocente che subì una via crucis giudiziaria e una gogna mediatica senza pari, per colpa di macroscopici errori giudiziari. Non sapremo mai se quegli errori fossero dovuti a deficit di capacità professionale o del tutto intenzionali, fatti per fare carriera e addirittura per conquistare fama. A dire il vero, i magistrati coinvolti in quei processi hanno fatto ottima carriera e i falsi pentiti hanno vissuto, negli anni, felici e contenti. Il caso Tortora fu definito giustamente da Giorgio Bocca: «Il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso nel nostro Paese». I protagonisti di quella battaglia referendaria furono il Partito Radicale di Marco Pannella e il Psi di Bettino Craxi. Per Tortora ci fu il combinato disposto di pentiti e Pm con la partecipazione straordinaria dei mass media. Dopo Tortora è avvenuto di tutto. Da un lato c’è stata una magistratura che ha pagato un prezzo altissimo al suo impegno contro la mafia e contro il terrorismo. Non facciamo nomi perché l’elenco sarebbe lungo. C’è stato però anche il rovescio della medaglia, la magistratura che ha fatto politica e che con Mani Pulite ha operato una forzatura al limite dell’eversione: tutti i partiti si finanziavano in modo irregolare, alcuni di essi furono distrutti, altri salvati e favoriti. È inutile anche in questa occasione fare nomi e cognomi. Va però detto che si è trattato dell’unico caso in Europa nel quale alcuni partiti sono stati estromessi dal Parlamento non per il libero voto degli elettori, ma per l’inusitato, pressante e invasivo intervento del circo mediatico-giudiziario. Il caso Palamara è arrivato alla conclusione di un ciclo all’inizio del quale il ruolo dei magistrati è apparso come “l’angelo sterminatore” nel film di Buňuel. Invece il caso Palamara ha messo in evidenza che esiste una lotta di potere all’interno della magistratura che arriva fino all’ordine gerarchico più elevato, il Csm. Il correntismo e il carrierismo hanno messo l’ordine giudiziario (diventato potere per colpa della politica in uno stato di soggezione di fronte alla magistratura), in una condizione di credibilità decrescente. Gli italiani ora diffidano della magistratura. L’inversione di tendenza si è avuta per via del caso Palamara, ma il malessere durava da decenni. In più, si è inserito il populismo giudiziario dei 5 stelle e del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Come un fulmine a ciel sereno, Luca Palamara balza agli onori della cronaca, accusato di aver ricevuto 40 mila euro per una nomina e per aver rapporti con imprenditori e avvocati. Ha sempre negato di aver intascato soldi. Chi è Luca Palamara? Ex presidente dell’Anm, leader della corrente moderata di Unicost, ed ex componente del Csm. Come mai deflagra il caso? Una microspia-virus, il trojan, è stata introdotta nel suo cellulare, registrando per filo e per segno la sua vita pubblica e privata. Galeotto fu l’hotel Champagne e chi partecipò alla cena con magistrati del Csm delle correnti Unicost e Magistratura Indipendente e politici di alto rango: Cosimo Ferri, ex magistrato e parlamentare ex Pd ora Italia Viva, e Luca Lotti deputato Pd ed ex ministro, inquisito per il caso Consip. Il trojan in questo caso certe volte funziona, altre volte no. Quando gli incontri coinvolgono personalità o magistrati intoccabili il trojan pare non funzionare. Il corto circuito si innesca con l’andata in pensione del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Inizia uno scontro senza esclusione di colpi per conquistare la poltrona più prestigiosa e di maggior potere della giustizia italiana. I procuratori di Firenze e di Palermo scendono in campo. Lo scontro è durissimo e Luca Palamara entra per questo nel tritacarne. La chiave di lettura che egli dà delle sue disgrazie è la seguente: quando ero alleato della sinistra non ho avuto problemi, ora, che l’asse del Csm si stava spostando a destra, sono stato radiato dalla magistratura. Ora, il rapporto ambiguo e ipocrita tra magistratura e politica è vecchio come il cucco. Ad esempio, un vicepresidente del Csm non nasce dalla testa di Giove come Minerva, ma viene eletto sulla base di trattative tra mondo politico e quello della giustizia. Non crediamo che l’attuale vicepresidente Ermini sia stato eletto per le sue pubblicazioni, ma pensiamo sia il frutto di una contrattazione che però non è stata registrata dal trojan. Sono migliaia i casi di promozione all’interno della magistratura, decisi dalle correnti con l’intervento della politica. Fino a quando questo sistema esisterà e resisterà alle spinte di riforma, vale la citazione dell’Amleto di William Shakespeare. E, comunque, non valgono le riforme omeopatiche e quelle gattopardesche bensì quelle che cambiano l’attuale sistema molto autoreferenziale. Per farla breve, Palamara si trova radiato dalla magistratura perché così ha deciso il Csm, incolpato di essere stato “il regista del sistema delle nomine”. Ma nel passato, invece, le nomine come sono state fatte? Un vero peccato che grazie alla mancata ammissione dei 130 testimoni indicati da Palamara non sia stato possibile approfondire l’argomento. A noi oggi interessa il caso Palamara per capire come funziona la giustizia, di modo che l’eventuale referendum abbia tutte le carte in regola per riformarla, per non ripetere per ogni sentenza di assoluzione la famosa frase del mugnaio “c’è un giudice a Berlino” e per scongiurare ciò che, profeticamente, affermò Bettino Craxi: «Arriverà un giorno in cui i giudici si arresteranno tra loro».

Il caso Palamara scoperchia un sistema marcio, le cosche giudiziarie comandano. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Si è detto giustamente che lo sapevano anche i sassi: non c’era bisogno della rivelazione delle sessantamila chat di Palamara per scoprire ciò che appunto conoscevano già tutti e cioè l’immondezzaio delle nomine, dei traffici, delle cospirazioni nel sistema di governo della magistratura corporata. Ma il fatto che quel dispositivo di potere corrotto funzionasse risaputamente in modo incensurato denuncia una responsabilità ulteriore, e se possibile anche più grave: la responsabilità della classe politica che, pur sapendo, ha taciuto. E soprattutto: che, pur potendo intervenire, nulla ha fatto per ricondurre a legalità i comportamenti della magistratura deviata. Bisogna concedere che la classe politica (non c’è destra, non c’è sinistra, non c’è centro: tutta la classe politica) potesse aver timore di denunciare e intervenire: perché quelli ti fanno a pezzi, ti sbattono in galera, mentre il giornalismo alleato (anche qui: praticamente tutto) fa il suo sporco lavoro di demolizione con tre mesi di prime pagine alla notizia dell’arresto e col trafiletto non si sa dove alla notizia dell’assoluzione. Ma una classe politica finalmente compatta nel reclamare il ripristino dello Stato di diritto, e capace di qualche convinzione sulla necessità di non sottomettersi alla prepotenza intimidatoria del mostro togato, avrebbe ben potuto almeno provare a interrompere il dominio della malavita giudiziaria. Che cosa faceva la piovra delle manette: li arrestava tutti? Anche perché se la classe politica avesse reagito come di dovere c’è da star sicuri che la parte non corrotta della magistratura, che è ampia per quanto senza voce, avrebbe condiviso quell’opera di richiamo all’ordine costituzionale. Tanti bravi magistrati sono a loro volta i soggetti passivi dello strapotere delle cosche giudiziarie, e vi si sottomettono esattamente come tanta brava gente si sottomette al potere mafioso: perché non c’è lo Stato a imporre il diritto e a proteggere i diritti, e al suo posto imperversa la violenza di un potere arbitrario e anch’esso armato visto che può infierire con altrettanta violenza sui beni e sulla stessa vita dei cittadini. E il paragone non indigni nessuno: l’intimidazione giudiziaria non è meno forte rispetto a quella della criminalità solo perché non minaccia pallottole ma l’inferno del carcere, la distruzione di un’impresa, la devastazione di una famiglia, lo rovina della reputazione personale. I diritti delle persone sono i beni che la classe politica dovrebbe proteggere. Sono i beni che invece la classe politica lascia esposti all’usurpazione di una magistratura che li offende ogni giorno mentre si governa nel modo illecito che tutti conoscono.

LE CORRENTI: QUANDO IL GRUPPO SI TRASFORMA IN BRANCO. Una storia eloquente di correntocrazia. Toghe.blogspot.com sabato 11 luglio 2020. A seguito dello scandalo scoppiato dopo la pubblicazioni delle chat tra il dott. Palamara e numerosi magistrati (nonché qualche politico) si è acceso un forte dibattito sul valore o disvalore delle correnti presenti all'interno della magistratura. Dalle chat si è infatti avuta insindacabile conferma che le nomine dei direttivi e semi-direttivi degli uffici giudiziari, così come gli incarichi fuori ruolo, sono interamente pilotata dalle correnti in combutta con i partiti politici. Con altrettanta evidenza, è emerso che le correnti hanno fatto uso e abuso del loro potere anche per condizionare l'esito di procedimenti aventi particolare rilevanza politica e/o economica e per "perseguitare" altri magistrati mediante apertura di procedimenti disciplinari e ostruzionismo alle legittime aspettative del singolo magistrato. A dispetto di quanto emerso, i correntocrati - imperterriti nel sostenere il valore delle correnti in quanto naturale e legittima espressione di multi-culturalità - si sono affannati a ricercare le giustificazioni storiche dell'associazionismo giudiziario e a sottolineare l'importanza dell'ANM. Tuttavia, lo sforzo profuso non ha consentito loro di trovare valide prove di recente esemplare rappresentatività dell'indipendenza della magistratura, risalendo invece il più valido intervento dell'ANM addirittura al periodo fascista. In termini generali, le correnti presentano delle connotazioni positive allorquando trattasi di gruppi costituiti da persone libere che, liberamente, scelgono di aderirvi in quanto accomunati ai suoi partecipanti da comuni ideali. E, entro certi limiti, si può anche ritenere positivo che il singolo senta di potersi autoaffermare all'interno di un gruppo che, nel proporre idee similari a quelle individuali, ne costituisce una sorta di cassa di risonanza. Tuttavia, le vicende emerse recentemente - ma che in realtà caratterizzano ormai da tempo immemorabile le azioni della magistratura italiana, sotto gli occhi complici e silenti della gran parte dei magistrati - hanno evidenziato con chiarezza come le correnti abbiano nella realtà snaturalizzato la dimensione umana di associati e simpatizzanti tirandone fuori il peggio. L'adesione alle correnti non è più frutto di libera scelta sulla base di comuni valori ma piuttosto obbligo imprescindibile per ottenere "protezione" dal gruppo, in aperta violazione dell'art. 18 della Costituzione che prevede il diritto di associarsi liberamente e non già il dovere di associarsi obbligatoriamente. Quanto accaduto altro non è che il codice di comportamento tipico delle dinamiche in cui il gruppo si trasforma in branco. All'interno del branco il pensiero individuale perde interamente la sua dimensione, l'individuo non è riconosciuto come tale se non in quanto vi appartiene. È questo il momento in cui la forza aggregativa delle correnti non si basa più sulla comunanza di idee quanto sulla forza del branco e sulle prevaricazioni che, nel caso di specie, vengono utilizzate con una nonchalance apparentemente sorprendente ma che purtroppo si basa sugli elementi negativi di una società che non solo le tollera ma addirittura le alimenta e le normalizza. Sui giornali abbiamo letto di prevaricazioni "importanti" che hanno condizionato nomine di procuratori capo e presidenti di tribunale, collocamenti politici fuori ruolo e esiti processuali o che hanno determinato l'abuso del potere disciplinare. Ciò che, tuttavia, è rimasto sommerso è la frustrazione quotidiana dei magistrati che, non essendo parte del branco e addirittura contestandolo, sono costretti a subire prevaricazioni che non assurgeranno mai agli onori della cronaca. È proprio di queste nefandezze che voglio parlarvi, perché sono queste che distruggono lentamente la vita di una persona e cancellano per sempre l'idea di Giustizia. Avevo fatto accesso in magistratura da poco tempo e mi trovavo ad affrontare il parere che allora veniva dato agli uditori con funzioni. Avevo assunto le funzioni di pubblico ministero presso il Tribunale di C. ed ereditavo il ruolo di una collega della ex procura presso la Pretura che ammontava a più di 3.000 fascicoli di cui una parte sostanziosa giaceva disordinatamente per terra. Mi ero messa di buona lena e, con l’entusiasmo e le insicurezze della novellina, mi ero data da fare per smaltire così l'enorme mole di procedimenti. Le statistiche parevano premiare la mia buona volontà visto che mi trovavo sempre piazzata nella pole position. E anche il parere redatto dal capo ufficio, Procuratore aggiunto dott. R.P., sembrava confermare il mio buon operato. Avevo addirittura ricevuto una nota di merito dall'allora Procuratore capo M.B.-. Strano a dirsi, però, al momento della redazione del parere da parte del Consiglio Giudiziario, il giudizio sulla mia laboriosità fu "discreto". Rimasi veramente interdetta, non solo perché non corrispondente a quanto risultante dagli allora unici due criteri utilizzabili a fini valutativi (parere del capo ufficio e statistiche), ma perché un ottimo non si risparmiava a nessuno, figuriamoci un buono! A me invece era toccato addirittura un discreto! Mi fu consigliato di fare ricorso al Consiglio giudiziario, ricorso che si rivelò inutile dato che, trattandosi del medesimo Consiglio che aveva dato il parere, non fece che confermarlo sebbene con delle motivazioni assurde. Specificamente, ritenne l'inutilità a fini valutativi sia delle statistiche (per via della presunta incomparabilità qualitativa tra i fascicoli assegnati ai diversi sostituti procuratori) che del parere del capo ufficio (attesa la frequente pratica di utilizzare dei "pareri fotocopia"). A quel punto rimaneva da capire sulla base di quali elementi il Consiglio Giudiziario avesse espresso il proprio parere visto che quelli considerati "inutili" erano comunque gli unici criteri legalmente previsti. Fu così che - recatami dal Dott. R.P. al quale rappresentai che in fondo lui era stato implicitamente accusato di utilizzare pareri fotocopia - assistetti in diretta all'assalto del branco.

R.P. telefonò in mia presenza all'allora presidente della Corte d'Appello per chiedere le ragioni del parere emesso. Ebbe dunque inizio una conversazione che definirla kafkiana sarebbe riduttivo.

- Il Presidente sostiene che hai lasciato un cadavere annegato dentro una vasca da bagno per diversi giorni - disse.

- Ma io non ho mai avuto un fascicolo di un cadavere dentro una vasca da bagno! - esclamai stupefatta.

- La collega dice di non aver mai avuto un cadavere dentro una vasca da bagno - riferì allora il dott. R.P. al Presidente.

- Il Presidente dice che forse il cadavere non era dentro una vasca da bagno, era impiccato e l'hai lasciato attaccato penzoloni alla corda - mi riferiva il dott. R.P. dopo aver parlato nuovamente con il Presidente.

- Mi è capitato di avere un procedimento di un detenuto che si era impiccato ma, quando mi hanno avvisata, io e il medico legale ci siamo recati sul posto nell'immediatezza e il cadavere era già stato staccato dalla corda - Risposi sempre più esterrefatta da quell'inverosimile telefonata che pareva un procedimento disciplinare celebrato ex post, senza un'accusa definita e senza diritto di difesa.

- La collega dice che l'unico impiccato che ha avuto era già stato staccato dalla corda al suo arrivo - riferì il dott. R.P. al Presidente e quindi tornò a me.

- Insomma, il Presidente non sa dove si trovasse il cadavere né di che morte sia morto, sa soltanto che hai lasciato un cadavere per giorni senza intervenire - concluse.

Io ero allibita, ma ebbi la prontezza di rispondere che, semmai una cosa di questa fosse successa, il fatto sarebbe stato di una tale gravità da rendere doveroso un procedimento disciplinare nei miei confronti, procedimento che invece non era mai stato celebrato. Aggiunsi che lui stesso avrebbe dovuto essere coinvolto per non aver adeguatamente svolto le sue funzioni di supervisore. Gli dissi che gli avrei comunque consegnato tutti i fascicoli di decessi a me assegnati in modo da consentirgli di effettuare un controllo sul mio operato. Inutile dire che, al suo controllo, risultò che tutti i decessi erano stati gestiti in modo impeccabile.

A quel punto R.P. - noto esponente della corrente Unicost, ma anche noto "simpaticone" e "buon padre di famiglia" - anche in considerazione del fatto che il suo stesso parere era stato ritenuto "fotocopia", intervenne inviando una lettera ai singoli componenti del Consiglio Giudiziario dolendosi del trattamento a me riservato nonché della sottovalutazione del suo parere. Constatava anche, con amarezza, che il parere era stato emesso all'unanimità e che nessuno dei componenti aveva sentito il dovere di approfondire la vicenda. Ovviamente quella lettera non venne mai protocollata perché si sa che, se fai parte del branco, ti stai già permettendo un lusso se dissenti dal suo operato. Non puoi arrivare di certo a lederlo, neanche se a suggerirtelo è quella ormai lontana vocina della tua coscienza. Qualche giorno dopo l'amara vicenda, incontrai uno dei componenti del Consiglio Giudiziario, stimatissimo collega, oggi presidente aggiunto presso l'Ufficio GIP di C., anch'egli simpatizzante di Unicost. Conoscendone le sue note virtù, non esitai a chiedergli il perché di quella ingiustizia perpetrata nei miei confronti. Il virtuoso - si vedeva chiaramente che si trovava assai a disagio - mi rispose che altro componente del Consiglio Giudiziario, oggi procuratore aggiunto di S., anch'egli affiliato Unicost, aveva riferito al Consiglio Giudiziario che, durante il mio uditorato con funzioni, un collega, allora procuratore presso la DDA, oggi Presidente di sezione di Corte di Appello a T., aveva sbraitato contro di me lungo il corridoio della Procura perché "come aveva osato una presuntuosa novellina rifiutare il suo aiuto lasciando così un cadavere senza l'intervento del medico legale?!" D'improvviso tutto mi fu chiaro. Durante uno dei miei turni una donna si era suicidata con dei barbiturici ed era morta sul letto di casa propria, non annegata in una vasca né impiccata ad una corda. Sfortuna aveva voluto che tale donna fosse una parente o conoscente di qualcuno che lavorava nella segreteria di un collega della DDA (ovverosia di colui che quello stesso pomeriggio aveva sbraitato, a mia insaputa, contro di me) o comunque a lui vicina. Pertanto, mentre io cercavo un medico legale per recarsi in loco, quest'ultimo ritenne di telefonarmi, "offrendomi il suo aiuto". È vero che io rifiutai l'aiuto, ma non per arroganza o senso di superiorità, ma perché ritenevo doveroso fare il mio lavoro. Non l'avevo mica capito che l'offerta di aiuto era, in codice, una "imposizione di aiuto" che avrebbe consentito di accelerare delle procedure che, comunque, per i normali mortali avrebbero dovuto rispettare i termini di legge.

Ed ecco che il branco si accanì contro di me per quella mia stupida impudenza. A distanza di tempo un componente del Consiglio Giudiziario vendicava l'offesa fatta all'amico, contro l'impudente indipendente che, non solo non era di corrente, ma per di più aveva osato non accettarne i codici. Non importa che militassero o meno nella stessa corrente, comunque ne rispettavano i codici, cosa che invece gli indipendenti si ostinavano a non fare. Il collega tanto stimato (al quale io chiesi giustificazioni del parere), anch'egli simpatizzante di corrente, per quanto virtuoso, evidentemente non era altrettanto coraggioso da evitare che si consumasse una palese ingiustizia ed illegalità. Lo stesso dicasi di tutti i membri del Consiglio Giudiziario i quali, sulla base di un fatto riferito da un amico del branco, avevano sottoscritto il parere. L'intero Consiglio Giudiziario, votando all'unanimità, aveva agito non sulla base di criteri legali ma di commenti autorevoli di uno dei componenti del branco, in altre parole di "voci di corridoio", proprio come oggi lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura, svilito ormai dalle correnti, effettua le nomine e avvia i procedimenti disciplinari.

Riportato l'accaduto a R.P., che ben sapeva che la sua lettera non avrebbe mai ristabilito giustizia, questi si lavò la coscienza fornendomi ulteriori informazioni, a me, sino ad allora, sconosciute. Segnatamente mi riferì che già prima di quell'accaduto c'era stato un accanimento nei miei confronti tanto che, prima che assumessi le funzioni, era stato avvisato da uno dei coordinatori degli uditori - oggi egregio Avvocato Generale presso la Procura Generale di C. nonché noto appartenente alla corrente Unicost - che avrebbe dovuto "stare assai attento alla G…da!". Il dott. R.P. si faceva vanto al contempo di non essersi lasciato influenzare dall'allerta del collega compagno di merende unicostiane. E, certamente di ciò gli va dato atto viste le dinamiche del branco. Tale circostanza veniva anni dopo confermata anche dal dott. G.G. il quale, dopo avermi reso la vita in Procura un vero inferno, scusandosi, mi confessava di aver sbagliato nel farsi guidare da un pregiudizio nei miei confronti esclusivamente sulla base di informazioni fornitegli dallo stesso coordinatore di uditori che aveva dato l'allerta al dott. R.P. contro la temibile collega G.da.

Questo è il branco. È quello che tu scrivi email e nessuno ti risponde, è quello che tu parli e nessuno ti ascolta, è quello che, mentre tu lavori, sparge la voce che sei una sfaticata, è quello che a volte strumentalizza il procedimento disciplinare ma, quando è ben consapevole che non esiste neanche il fatto storico, ti fa un procedimento disciplinare segreto nei corridoi di un Tribunale, violando il più elementare diritto di difesa. E tu non puoi fare nulla per combatterlo, perché il branco è vigliacco, non ti affronta direttamente ma ti distrugge con le voci di corridoio. E, nel frattempo, i suoi componenti fanno tutti carriera. Da allora, durante tutti questi anni, mi sono ritrovata tante volte ad affrontare il branco. E mi sono ritrovata a combattere da sola in situazioni molto più grandi di me in cui, fino alla fine, ho sperato che la giustizia trionfasse. Durante tutto questo tempo, in maniera forse assai infantile ma tipica dei sognatori, ho sperato che anche a me potesse capitare quello che era capitato a Robin Williams ne "L'attimo fuggente". Ho sperato tante volte che qualcuno salisse su un banco, non tanto in mia difesa ma in difesa della indipendenza intellettuale.

Non è mai accaduto. E allora ho imparato a salire da sola sul tavolo, sempre più sola e sempre più stanca. Penso a tutti gli anni di studio per diventare magistrato, io che non ero "figlia d'arte", anzi, ero la prima laureata della famiglia. Penso a tutti i miei sogni…e ogni tanto piango. Poi, però, è più forte di me, salgo sul banco nuovamente e ricomincio a lottare. E a volte capita di incontrare altre anime libere e sole. Perché io so, ne sono intimamente consapevole, che non occorre essere "riconosciuti" per sapere di esistere.

Malagiustizia, migliaia di errori ma pagano solo quattro magistrati. Viviana Lanza su Il Riformista l'11 Luglio 2020. I casi di ingiusta detenzione sono un migliaio all’anno in tutta Italia. Le azioni disciplinari nei confronti dei magistrati sono 53 in tutto, ma in tre anni, cioè nel periodo 2017-2019. Il dato napoletano è tra quelli non indicati nel bilancio dell’Ispettorato del ministero della Giustizia. Resta il fatto che non bisogna essere sofisticati matematici per cogliere una sproporzione tra questi numeri. Se a Napoli, solo nel 2019, ci sono state 129 ordinanze che hanno disposto indennizzi per un totale di oltre tre milioni di euro (3.207.214 a voler essere precisi), vuol dire che ci sono stati 129 casi accertati di ingiusta detenzione. Vuol dire che ci sono state 129 persone che hanno subìto l’arresto e il carcere, senza che vi fossero accuse o presupposti fondati ma sicuramente per disposizione di un magistrato, pm o giudice. E allora viene da chiedersi come mai sono soltanto 53 i magistrati, che in tutta Italia e non solo a Napoli, e in tre anni non in uno solo, sono stati sottoposti ad azioni disciplinari, considerando anche che di questi 7 sono stati assolti, 4 hanno avuto la censura, 9 non doversi procedere e 31 procedimenti sono in corso. Di chi è allora la responsabilità delle centinaia di ingiuste detenzioni risarcite nello scorso anno a Napoli e del migliaio risarcito in tutta Italia? Pur volendo considerare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il diritto alla riparazione è configurabile anche nel caso di un atto di querela successivamente oggetto di remissione, nel caso di reati in prescrizione o derubricati, resta una sproporzione. Come si spiega? «Vuol dire che c’è un abuso della custodia cautelare», afferma Raffaele Marino, magistrato di lunga esperienza, attualmente in servizio presso la Procura generale di Napoli. «Bisogna distinguere tra ciò che è fisiologico e ciò che è invece patologico. Se un imputato viene assolto in Appello siamo di fronte a un errore fisiologico ma se viene scarcerato dal Riesame e la posizione archiviata si tratta di un errore patologico, a mio avviso». Il procuratore Marino sottolinea tuttavia la singolarità di ciascun caso. «Bisogna valutare caso per caso sulla base delle carte, non si può generalizzare». Ma pur restando distanti da facili generalizzazioni, un problema c’è. «Sta nella mancanza di controlli da parte dei capi degli uffici giudiziari o di volontà di fare controlli – aggiunge Marino – Se, per esempio, l’indagine di un pm viene ridimensionata già al Riesame vuol dire che il pm non ha lavorato bene, e se non ha lavorato bene il pm non deve stare dove sta oppure va controllato. C’è tutto un ragionamento da fare che non viene fatto». Cosa si può fare? «Bisognerebbe introdurre meccanismi di controllo seri, ora invece tutto è affidato al capo dell’ufficio che dovrebbe essere Superman per controllare tutto e tutti». Di fronte ai numeri del report ministeriale, Marino non ha dubbi: «Quando abbiamo numeri di questo genere c’è qualcosa che non funziona nella resa giudiziaria e rispetto alla lesione dei diritti primari dei cittadini, perché chi viene messo in galera subisce danni che sono notevolissimi. Per non parlare del processo penale, che oggi ha un fine processo mai grazie a nostro ministro della Giustizia, ed è di per sé un danno, un danno notevole. Al di là del dato economico, quindi, il costo sociale della giustizia in Italia è enorme e questo Paese non può più sopportarlo». «Ben vengano – conclude il magistrato – proposte come quella di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta che cerchi di capire cosa non funziona e come il progetto di una riforma che parta anche dal Csm per eliminare il potere delle correnti».

Intervista allo psichiatra Vincenzo Mastronardi: “Test psicoattitudinali per fare il magistrato”. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'11 Luglio 2020. Il professor Vincenzo Mastronardi è uno psichiatra e criminologo clinico tra i più noti nel contesto accademico internazionale. «Diciamo che mi piace studiare», glissa lui. E in effetti ha prodotto il più alto indice bibliometrico della sua categoria. Con il sistema-giustizia interagisce come psichiatra forense ed esperto di criminologia. E non è detto che la profilatura dei soggetti delittuosi sia tutta a carico degli imputati, come ci dice lui stesso. Anche i magistrati sbagliano, sono umani. E non vanno ritenuti “superuomini”. «Ho avuto in terapia ogni tipologia di essere umano, dalla massaia all’impiegato di banca, al medico, al magistrato, al politico…».

Che cosa li accomuna?

«Sono tutti esseri umani, con le vulnerabilità e le paure di ciascun essere umano».

Alcuni però hanno più responsabilità di altri. I magistrati decidono della vita, e dunque in fondo della morte, delle persone…

«Alcuni magistrati illuminati parlano dell’incidenza delle emozioni e del libero convincimento nelle decisioni. Il giudicare giusto ed equilibrato è troppo spesso sottoposto alla pressione soverchiante dell’opinione pubblica che preme sulle decisioni da adottare, inserendo di fatto le decisioni dei magistrati in un clima contestuale incisivo».

Un tema su cui la stessa magistratura è chiamata a riflettere.

«Il processo mediatico incide sempre di più sul processo giudiziario. Mi rifaccio in questo al lavoro di Luigi Lanza, un magistrato illuminato, già in Corte di Cassazione, e al lavoro di Imposimato, che invitai a tenere con me una lezione sugli errori giudiziari, su cui ha scritto un bellissimo manuale con la Giuffré. C’è spesso un clima falsato da un’attenzione selettiva della stampa o della politica».

Parliamo del caso Berlusconi. Un linciaggio mediatico-giudiziario preorchestrato, a giudicare dall’ammissione dello stesso giudice Amedeo Franco.

«Il linciaggio ha origine da Charles Lynch che era il giudice della Virginia che nel 1782 presiedette una corte irregolare incaricata di punire un gruppo di soldati lealisti (alla Corona britannica, ndr) durante la guerra di indipendenza americana. Il giudice Lynch decise di rimettersi al volere dei presenti in aula, e quelli uccisero seduta stante gli imputati. Se ci si rimette agli umori della piazza, si rischia di fare come Ponzio Pilato quando chiese un parere al popolo. Chi urla Barabba, Barabba a gran voce, vince. L’opinione pubblica viene influenzata, si carica e a sua volta finisce per influenzare la giurisdizione».

Il populismo giudiziario.

«Preferisco parlare dell’intelligenza della folla, con le parole di un altro grande giurista, Scipio Sighele, scritte nel 1903: «L’opinione pubblica è nel mondo quello che Dio è in Cielo. Un giudice invisibile, impersonale e temuto; è come la religione, una potenza arcana nel nome della quale si sono compiuti i più sublimi eroismi e le più abbiette iniquità; è, come la legge, invocata e interpretata a torto o a ragione in ogni momento della vita; è come la forza, sostenitrice a volte del diritto, più spesso dell’errore; è, infine, come una bandiera, disposta a volgersi sempre dalla parte donde spira il vento»».

Ad arginare questa potenza arcana, calibrandola e dando priorità allo stato di diritto, dovrebbero esserci dei magistrati capaci di giudizio, più che di pregiudizio.

«Il giudice convince se stesso, in primis, della bontà della sua decisione. Ma sappiamo bene che certi convincimenti sono “contenitori di emozioni”. Comunque nessuno può essere estraneo al condizionamento subliminale, non per un atteggiamento perverso ma perché siamo tutti uomini e tutti possiamo sbagliare. Il lavoro di magistrati quali Paola Di Nicola, Ferdinando Imposimato e Luigi Lanza è stato encombiale su questi temi».

La mancanza di empatia verso il condannato fa parte dei prerequisiti caratteriali?

«Assolutamente sì. Come il medico legale: chi seziona il cadavere in sede di autopsia, non può e non deve avere partecipazione emotiva con la vicenda umana che ha condotto quel corpo in quella sede. Così deve fare il magistrato. Non sto dando loro le attenuanti generiche, ma il distacco emozionale è una delle caratteristiche del giudice. Ed è variabile da caso a caso».

Distacco fino a un certo punto. “Berlusconi è una chiavica”, avrebbe detto secondo alcuni testimoni Antonio Esposito.

«Stiamo parlando di uomini: alcuni hanno un distacco assoluto, altri si lasciano andare ad espressioni cruente».

Su Berlusconi c’è stata una campagna che ha coinvolto magistrati e giornalisti?

«Guardi, io ho 350 allievi universitari nel corso di investigazione criminalità e sicurezza. Quando avete pubblicato l’audio di Amedeo Franco è capitato di parlarne con i miei studenti. Mi hanno risposto, in un sentire comune, “tutti sanno che c’era un disegno. Lo avevamo capito da subito che sui suoi processi c’erano condizionamenti”».

Esiste una ansia di vendetta che sfocia nella visione ideologica e di parte?

«Proposi nell’ambito delle mie lezioni alla Scuola superiore della magistratura il tema dei test psicoattitudinali. Si fanno per chi pilota un aereo, perché ha in mano tante vite umane, perché non si dovrebbero fare per chi decide in tribunale? Lo fanno in Argentina con un buon esito. I giovani magistrati presenti – tutti da stimare, per la loro volontà di tenersi aggiornati – ventilarono la loro risposta: non potrà passare mai, perché va subito sotto il dibattito politico. Si possono però fare i test anonimi. Luigi Lanza li somministrò a un centinaio di magistrati».

Esiste una presunzione di onnipotenza del magistrato?

«Leggo soltanto quel che è stato scritto nel libro Psicopatologia della Carriera Universitaria, nell’indice delle voci trattate: la sindrome involutiva, dissociativa, narcisistica. Il delirio scientifico, burocratico, bellico. Nessuno ha mai costruito una tipologia personologica del magistrato».

Ci vuole pensare lei?

«Perché no. Ci posso pensare, con l’aiuto di qualche magistrato».

Nasce la scuola per futuri magistrati, si insegni la deontologia. Marco Demarco su Il Riformista il 9 Luglio 2020. Mezzo secolo fa, Salvatore Satta – una colonna del nostro Novecento – immaginò che uno studente gli chiedesse cosa fare per diventare giurista. «Gli direi – scrisse – che occorrono la cultura e l’esperienza». Poi, però, entrò più nello specifico e gli consigliò, prima, la lettura della Divina commedia («Se non si è letto Dante, se non si è ricreato il proprio spirito in Dante, non si può chiamarsi giuristi») e poi la lettera che Gargantua scrisse al figlio Pantagruele quando questi si avviò agli studi. Eccone un frammento. «Figlio mio, io intendo e voglio che tu apprenda le lingue perfettamente: in primo luogo il greco, come prescrive Quintiliano; in secondo luogo il latino; e poi l’ebraico per le sacre scritture, e il caldaico anche e l’arabico». A parte Dante, una tale pretesa oggi suonerebbe alquanto eccessiva. O no? Ma c’è una ragione perché tutto questo mi è venuto in mente. Proprio oggi, infatti, alle 15 in diretta streaming, l’università Suor Orsola Benincasa annuncerà la nascita della prima “scuola per la magistratura”: del primo percorso di studi universitari finalizzato alla preparazione dei futuri magistrati. Con i tempi che corrono, è sicuramente una buona notizia. E lo è doppiamente aver scelto come sede Napoli, città di grandi giuristi. Ma quel che più conta è il momento scelto per l’iniziativa, che fa della scuola quasi una misura di pronto intervento. Lo scandalo Palamara, le dimissioni dal Csm, l’imbarazzo dell’Anm, le polemiche sulle chat dei magistrati pubblicate sui giornali, il caso Berlusconi: cos’altro deve ancora succedere? Mai la magistratura italiana è stata così fortemente delegittimata da una serie tanto impressionante di fatti. Ed ecco perché una scuola arriva a proposito. Le ragioni della débâcle giudiziaria sono note, dalle riforme mancate, ai privilegi togati mai sacrificati in nome dell’interesse pubblico. Ma è inutile, ora, insistere su questo tasto o, viceversa, sul patriottismo eroico di tanti magistrati che hanno difeso la democrazia italiana. Più opportuno, piuttosto, potrebbe essere immaginare anche noi cosa insegnare ai magistrati di domani. E gira e rigira, forse anche oggi non restano che due cose: l’uso delle parole e il dominio dei comportamenti. I fatti recenti ci dicono che i magistrati devono anche imparare a comunicare e a stare in società. E poiché le cose e le parole si tengono, ciò spiega perché a molti magistrati capiti di comportarsi male e di esprimersi peggio. Si sono scritte intere biblioteche sul giuridichese, su questa lingua ostentata come sacrale, ma in realtà banalmente gergale, infarcita di pseudotecnicismi, di arcaismi, di sociologismi, di narcisismi, di luoghi comuni e di locuzioni dall’apparenza specialistica ma nella sostanza inessenziali. Il punto però è che tutto questo parlar male spesso non esprime altro che il mero compiacimento per il potere esercitato. Un potere che dovrebbe essere libero da condizionamenti e che invece non lo è affatto, specialmente quando si avvina troppo alla politica rappresentativa, addirittura fino a mutuarne le liturgie e le peggiori finalità. Ma c’è un problema. Per una scuola, insegnare a usare le parole giuste non è difficile: basta, ad esempio, impegnare uno scrittore ex magistrato come Carofiglio (devo a lui, tra l’altro, il riferimento a Salvatore Satta). Più difficile, invece, è educare alla sobrietà dei comportamenti. Un corso specifico di deontologia professionale? Magari, perché no. Nel frattempo, però, può valere come spinta motivazionale proprio il finale della lettera di Gargantua, sempre quella. Caro futuro magistrato, «guardati dalle lusinghe del mondo; non perdere il tuo cuore in cose vane… Servi il tuo prossimo e amalo come te stesso. Onora i tuoi precettori. Fuggi la compagnia di quelli ai quali non vorresti somigliare, e fa’ che non siano vane le grazie che Dio ti ha elargito…». Credo possa andar bene anche per i non credenti.

Sono 13 i magistrati sotto inchiesta nella città di Pirandello: esiste un "sistema Agrigento"? Salvatore Petrotto il 16 giugno 2020 su italyflash.it. Che Agrigento è l’ultima provincia d’Italia lo si capisce anche per la scarsa rilevanza che in genere si dà a certe notizie. Il fatto che la Procura ed il Tribunale della Città dei Templi si ritrovano con 13 magistrati (per ora solo 13) sotto inchiesta a Caltanissetta, per anni ed anni, anzi decenni, di presunti abusi ed insabbiamenti di importantissime inchieste, non fa notizia! E neanche fa notizia che, probabilmente quegli stessi magistrati, adesso sotto inchiesta, per i quali il Giudice David Salvucci ha respinto una richiesta di archiviazione nei loro confronti, avanzata della Procura nissena, hanno avviato delle vere e proprie campagne persecutorie assai terribili ed inimmaginabili, nei confronti di chi magari denunciava illeciti e truffe miliardarie. Il metodo per insabbiare tutto, a quanto pare, è sempre lo stesso. Prima si perseguitano i poveri disgraziati che osano denunciare dei reati miliardari, reati commessi dai potenti di turno, assicurando loro un trattamento, si fa per dire, di "favore". In questi casi la prassi giudiziaria è la seguente: basta assicurare una corsia preferenziale alle querele ed alle denunce per calunnia che, sempre i potenti di turno, o in alternativa gli stessi magistrati in questione, presentano contro i poveri malcapitati che credono ancora nella Giustizia con la G maiuscola, e l’infame gioco è fatto! Sembra di rivivere sempre la solita trama, quella dell’ultimo romanzo giallo scritto nel 1989 da Leonardo Sciascia dal titolo: "Una storia semplice", da cui due anni dopo è stato tratto l’omonimo film per la regia di Emidio Greco e l’impareggiabile interpretazione del prof. Franzò che nel romanzo, ed ancor più nella trasposizione cinematografica, di fatto è diventato un tutt’uno con Sciascia.  Incommensurabile è stata, come sempre del resto, la capacità del compianto Gian Maria Volonté di calarsi nel personaggio, grazie alle sue innate doti ed alla sua inimitabile carica emotiva. In quel libro, pressappoco, venivano narrate delle vicende analoghe a tante storie di straordinaria ingiustizia che oggi, più di ieri, ci vogliono abituare a digerire senza bisbigliare. Altrimenti sono guai seri. Nel nostro caso non si tratta di morire una volta sola, magari di lupara, ma di morire ogni giorno di malagiustizia. Sciascia ci racconta la storia di un inconsapevole testimone che stava semplicemente facendo il suo dovere, ‘l’uomo della Volvo’.  Ci vuol poco ed il  braccio armato della "legge", praticamente un’associazione a delinquere di cui facevano parte i vertici degli uffici giudiziari e delle forze dell’ordine, da testimone subito lo fanno diventare ‘il colpevole’. Si inscenava così la solita parodia di un crimine inesistente, per occultare i veri crimini, ed ovviamente i veri criminali che, nella fattispecie, avrebbero dovuto essere, ma non lo erano, degli uomini di legge; semplicemente perché erano dei fuorilegge! E dire che non stiamo mica parlando di uno degli ultimi casi del genere, svelato dalla squadra mobile e dagli uffici giudiziari nisseni. Non stiamo parlando del cosiddetto "sistema Montante", di cui mi sono occupato lo scorso anno in un mio libro. Quando si dice che Leonardo Sciascia era profetico, non dobbiamo limitarci alle semplici enunciazioni di principio, ma dobbiamo rileggere, a questo punto, tutte quante le sue opere, per capire possibilmente cosa è successo ieri a Caltanissetta con Antonello Montante, il falso paladino dell’antimafia, protetto da stuoli di magistrati e di alti esponenti delle forze dell’ordine e che, a maggio dello scorso anno, è stato condannato a 14 anni di reclusione. O cosa è successo od ancora sta succedendo oggi ad Agrigento. In questo caso non osiamo e non intendiamo parlare di un "sistema Agrigento". Anche perché, non spetta a noi dimostrare che qualcosa di simile a Caltanissetta è accaduto anche nella Città dei Templi. Se volete farvi un’idea in proposito basta leggere tutte quante le denunce degli ultimi decenni, "regolarmente" insabbiate.

Che ne dite allora di studiare un altro  giallo sciasciano risalente  al 1971? Altro libro, altra profondissima profezia! Ci riferiamo a: "Il contesto".  A questo giallo, in cui le imposture politiche si sposavano perfettamente con quelle giudiziarie, producendo solo corruzione e morte, si è ispirato Francesco Rosi, dando vita ad un altro sconvolgente film, dal titolo "Cadaveri eccellenti". Alcune importanti scene sono state girate, guarda caso, ad Agrigento ed a Siculiana, il paese dove continua a consumarsi l’affare più maleodorante dell’Agrigentino, quello dei rifiuti.  E’ come se 50 anni fa Sciascia avesse capito  quello che doveva succedere ad Agrigento. Anche se , pensandoci bene, nella terra di Pirandello, le cose sono andate sempre così!  Ma ciò che è più importante è che, il mio più illustre concittadino, aveva capito  il putiferio che avrebbero continuato a scatenare i magistrati immortalati nel suo romanzo, nonché gli odierni  Palamara, Pignatone & company.  Aveva già scritto  il copione ed aveva messo a fuoco le trame e gli intrecci oscuri della cosiddetta giustizia italiana; quella per intenderci che, tre anni dopo la sua morte ha continuato a fagocitare le vite di altri due giudici, Falcone e Borsellino, con i quali Sciascia ha avuto la fortuna, mentre era ancora vivo, di chiarire il famoso equivoco sui "professionisti dell’antimafia". Sciascia aveva capito già 50 anni fa, cosa sarebbero stati capaci di combinare tutti quanti i magistrati che siedono dentro il Consiglio Superiore della Magistratura. E cosa erano e sono ancora capaci di fare in giro per l’Italia!  Quindi, quando assistiamo a delle vere e proprie lotte tra "bande" di giudici, assetati di potere, parlare di un "sistema Agrigento", così come è capitato di parlare, qualche anno fa,  di un "sistema Siracusa", o di un "sistema Taranto", di un "sistema Potenza" e via discorrendo, ci sembra del tutto riduttivo. E’ un sistema e basta! E’ la solita parodia della giustizia all’italiana, della giustizia degli uomini se preferite. O, per meglio dire, è la storia sbagliata di una profonda ingiustizia che ci assicurano, quotidianamente, certe donne e certi uomini: forti con i deboli e deboli con i forti. Di sicuro c’è solo che siamo ormai un esercito le persone innocenti, inghiottiti da questo terribile ingranaggio del sistema giustizia o, per meglio dire, da questa giustizia ingiusta. Anzi  osiamo sottolineare che un intero popolo, il popolo italiano, in nome e per conto del quale molti magistrati, indegnamente, emettono delle sentenze tremendamente inique, non riesce più a fidarsi della Giustizia italiana.

CAOS GIUSTIZIA. “Chi ha autorizzato i pm a sentirsi padroni del mondo?”. Federico Ferraù intervista Frank Cimini su ilsussidiario.net il 25.06.2020. “Palamara non c’entra, questo è il caso magistratura” dice Frank Cimini. Certo la corruzione va combattuta, “ma non con la logica che i magistrati salvano il mondo”. “Palamara non c’entra, questo è il caso magistratura” dice Frank Cimini, una vita nella cronaca giudiziaria, a cominciare da quel che succede nel palazzo di giustizia di Milano che frequenta dal 1977. Non solo Palamara; Davigo, il Csm, Mattarella, Sala, le tangenti della metro di Milano, la magistratura associata (“quella che fa politica tutto il giorno”), Cimini ne ha per tutti. Ed è pessimista. Certo la corruzione va combattuta, “ma non con la logica che i magistrati salvano il mondo”.

Cosa pensi di come si sta mettendo il caso Palamara?

«Palamara non c’entra, questo è il caso magistratura».

Ma lui è il bubbone, no?

«Lo fanno sembrare il bubbone. È la strategia della mela marcia: corrotto lui, buoni noi. Falso. È marcio tutto. Sarebbero 84 i magistrati piazzati in posti di rilievo da Palamara. Vuol dire che ha avuto almeno 84 complici, o no? Questo non è Palamara, è il sistema».

Solo che adesso, grazie a Palamara, è venuto alla luce.

«È successo perché c’era il trojan nel suo cellulare. Chi di spada ferisce, di spada perisce. Però si intercetta troppo. La sentenza Cavallo della Corte di Cassazione del gennaio scorso è chiara: non si possono usare le intercettazioni in un’inchiesta su un reato diverso dal quello per cui sono state autorizzate».

E invece?

«Guarda i dati di Napoli: la Procura ha speso 12 milioni in un anno per tenere sotto controllo poco più di 2mila utenze. Bisognerebbe ripensare tutto. Non è solo un problema di rivedere il sistema di elezione del Csm, quello è un fatto tecnico. C’è prima un problema di cultura, di mentalità».

D’accordo, il Csm verrà per ultimo, però il nodo va affrontato.

«Si potrebbero sorteggiare i candidati da eleggere, o viceversa. Un sorteggio dovrebbe esserci, per non lasciare tutto agli accordi sottobanco, ma il solo sorteggio non va bene perché andrebbe incontro al pregiudizio di incostituzionalità».

Sorteggio anche per i capi degli uffici giudiziari?

«Anche per loro. E comunque non si risolve così il problema. Tutti in qualche modo minimizzano, anche Mattarella, che parla di distorsione, di degenerazione».

Eppure la “modestia etica” di certi personaggi è fuori discussione.

«Il problema vero è che la magistratura ha acquisito troppo potere. Alla fine degli anni 70, con il terrorismo e la legislazione di emergenza la politica ha delegato i suoi compiti al codice penale. Non è che non devi processare chi ha rapito e ucciso Moro, ma devi comunque fare la tua parte».

Cosa significa?

«Vuol dire che servivano anche iniziative di tipo politico. Invece da allora la sovversione politica è stata trattata solo come un problema penale. Si sono approvate delle leggi che venivano chieste dai capi degli uffici giudiziari. La legge antiterrorismo di Cossiga è del 1980, quella sui pentiti del 1982».

Allora che tutto comincia molto prima di Tangentopoli.

«Certo. È in quegli anni che la magistratura ha acquisito un potere enorme, e quando nel ’92 la politica si è indebolita, la magistratura le ha puntato il coltello alla gola e le ha detto: adesso comandiamo noi. E non se ne esce».

E adesso?

«Adesso, con il trojan nel cellulare di Palamara, viene fuori che i magistrati quando emettono le misure cautelari si piccano anche di dare lezioni di morale. Ma non sono meglio dei politici, sono peggio».

Perché?

«Perché i politici, bene o male, sono stati eletti. I magistrati hanno soltanto vinto un concorso. Che autorità hanno per sentirsi i padroni del mondo?»

Palamara cosa dirà?

«Palamara non parla. La sua forza è quella di dire: “adesso parlo” e poi tacere».

Qual è il messaggio?

«Il messaggio è: ho sbagliato, ma non ho sbagliato da solo. Perché mi cacciate se siete come me o peggio di me? E infatti quando lo accusano di corruzione, lui cosa fa? Cominciato a lanciare messaggi».

La contropartita per tacere?

«Gli hanno risparmiato le manette per paura che parlasse. L’esatto opposto di quello che succederebbe a me e a te. E adesso la sua forza è che potrebbe parlare ma non parla».

Che cosa vuole?

«Sta trattando per rientrare. Dice all’Anm: non ho fatto niente di diverso da quello che avete fatto voi».

Ma che cosa avrebbe da dire?

«Non lo sappiamo, anche se avremmo il diritto di saperlo. Quando Cafiero de Raho gli dice che “dobbiamo lottare insieme” o quando Francesco Greco gli dice “ci vediamo al solito posto”, in un’inchiesta normale, se tu e io diciamo queste cose e ci stanno intercettando, il pm vuole sapere qual è “il solito posto” e di quale battaglia stiamo parlando, o no?»

Come andrà a finire questa storia?

«Alla fine non succederà niente. Stanno gattopardando. Poniz crede di cavarsela dicendo che il corpo della magistratura è sano, ma chi ha mai messo in dubbio che una buona parte di magistrati facciano il loro lavoro in silenzio? Il problema è che la magistratura è rappresentata da questi qui, ed esercita potere sulla politica grazie a questi qui, a quelli come Palamara più gli altri 84. In realtà sono molti di più».

Ne abbiamo citati diversi. Palamara, de Raho, Greco, Poniz… E Ferri?

«Ferri è l’unicum per eccellenza. Metà magistrato e metà politico, non si capisce bene se fa il magistrato o fa il politico…»

C’è una via di uscita, una soluzione?

«Al momento non la vedo. Il sistema appare irriformabile. Anche il consigliere giuridico di Mattarella, Erbani, è finito nelle captazioni».

Perché, con la magistratura così debole, la politica non fa una riforma?

«Perché è troppo debole anch’essa. E poi continua nelle ruberie. I politici sono ricattabili. Nemmeno quelli di Forza Italia pongono più il problema della magistratura. Temono che partano subito le inchieste.

Cosa pensi della vicenda dell’emendamento presentato da FdI e Pd per prolungare la carriera dei magistrati a 72 anni?

«Non penso nulla. Però c’è da dire che Davigo ha 70 anni, e se va in pensione a 70 anni, come dice la legge attuale, gli subentra al Csm uno che non è della sua corrente».

Gian Carlo Caselli si è lamentato del poco spazio che i giornali hanno dedicato alle tangenti sugli appalti per la metro di Milano. Avrebbe meritato almeno lo spazio concesso all’arresto di Emilio Fede, perché è un fatto grave che ricorda Tangentopoli.

«Questa storia della metropolitana non c’entra niente con Tangentopoli, allora erano soldi per i partiti, qui sono soldi presi per avidità personale da funzionari che parlano al telefono facendosi degli autogol clamorosi».

Però è sempre corruzione.

«La corruzione c’è sempre stata, anche prima del ’92, quando le procure, quella di Milano in testa, facevano finta di non vederla perché non avevano forza politica».

Non va sempre perseguita?

«Certo, ma non con la logica che i magistrati salvano il mondo. Nessuna inchiesta o processo sconfiggeranno per sempre la corruzione».

“La giustizia farà il suo corso ma per me è già una condanna” ha detto Beppe Sala.

«Che cosa dicevo della politica? La metropolitana è una società partecipata del Comune, se non ci sono gli anticorpi nella pubblica amministrazione, la responsabilità politica è anche di Sala».

Cosa dici della guerra di carte bollate per la poltrona di capo della procura di Roma?

«Vuoi sapere come finisce? Che il Csm se ne frega del ricorso al Tar di Viola e Creazzo contro Prestipino. La magistratura associata, quella che fa politica ogni minuto del suo tempo, voleva la continuità con Pignatone. Il tempo di fare due giochetti e come al solito ha vinto».

C’è un’alternativa?

«È dal ’77 che sto in tribunale a Milano e fino ad oggi il capo della Procura è sempre stato un interno. Per dare una ventata di aria fresca sarebbe auspicabile che venisse uno da fuori. Invece no. Dopo Gresti è toccato a Borrelli, D’Ambrosio, Minale, Bruti Liberati, Greco».

Non abbiamo parlate dei media. Spesso a braccetto con le procure.

«Minale, il presidente della Corte d’assise che condannò Sofri in primo grado, si vide accolta la domanda per andare in procura come pm mentre faceva il processo. S’è vista mai una cosa del genere? Giudicava il lavoro dell’ufficio che sarebbe andato a dirigere come aggiunto».

E poi?

«A seguire il processo Sofri c’era Rossana Rossanda, che rimase allibita e sul Manifesto difese la separazione delle carriere. Finito il processo Sofri, riprese a scrivere quello che il Manifesto ha sempre scritto, e cioè che la separazione delle carriere era nel programma piduista di Licio Gelli. Ecco, il paese è ancora questo. (Federico Ferraù)

Il partito dei Pm ha ucciso lo Stato di diritto, altro che quella piccola loggia di Licio Gelli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Un mio amico giornalista l’altro giorno mi ha detto che magistratopoli è un po’ più del circolo Aniene e un po’ meno della P2. Io penso che sia il contrario: un po’ meno del circolo Aniene e un po’ più della P2. Il circolo Aniene è un luogo conosciuto dai romani. Un circolo sportivo tra il quartiere Flaminio e Parioli frequentato solo da vip molto vip. Che si scambiano favori e favorini, biglietti delle partite, inviti alle feste, qualche pizzino, qualche raccomandazione importante. La P2 invece è un luogo conosciuto da chi ha più di 50 anni: è il luogo dove l’immaginario politico collettivo ha collocato la sede di ogni male, ogni delitto e ogni prevaricazione politica del Novecento. Era una loggia massonica presieduta da un certo Licio Gelli, faccendiere ed ex 007 a servizio di varie bandiere, che viaggiava tra progetti di grandi riforme dello Stato e affari che lo portarono, essenzialmente, a mettere le mani sul Corriere della Sera. Per stroncare la P2, i partiti della prima Repubblica si unirono, istituirono una commissione parlamentare di inchiesta che lavorò alacremente per anni e pronunciò molte condanne incontrovertibili, anche se trovò, poi, alla fine, pochi delitti. Chissà se ora oseranno istituire una commissione di inchiesta sulla magistratura. Magistratopoli secondo me è una organizzazione molto più potente della P2. Anche perché la sua organizzazione è segreta ma la sua azione è alla luce del sole ed è una azione devastante. Magistratopoli è una organizzazione segreta che condiziona e indirizza una parte molto grande della giurisdizione. È in grado di avviare processi, di fare arrestare delle persone, di processare, di condannare o assolvere a seconda delle convenienze, o delle simpatie, o delle necessità di carriera dei magistrati coinvolti. Tutti noi siamo potenziali vittime di magistratopoli, non solo i politici, non solo Berlusconi. Il Palamara-Gate ci ha mostrato che questa organizzazione segreta, che in passato – e prima che scoppiasse lo scandalo di magistratopoli – noi chiamavamo il partito dei Pm, era in grado (lo è ancora) di governare tutto il sistema della giustizia. In parte lo faceva seguendo logiche del tutto interne alla corporazione, che per noi restano oscure (chi doveva salire in carriera, chi doveva scendere, chi voleva cambiare sede, chi aveva rotto gli equilibri e andava punito…), in parte invece seguiva logiche politiche. Quali erano (anzi: sono, perché il partito dei Pm è ancora vivente e molto forte) queste logiche? Essenzialmente si trattava di ottenere dal Parlamento e dal governo la certezza che nessuno osasse mettere in discussione la Casta dei magistrati e le sue prebende, e i suoi privilegi e – soprattutto – il suo potere. Questa battaglia continua, affidata non solo ai 5 Stelle. Per ottenere questo risultato si seguiva (si segue) un percorso ideologico: il davighismo, che va anche sotto il nome di travaglismo. Consiste nel considerare sostanzialmente tutti coloro che non fanno parte della casta, o della sua servitù, come colpevoli. Da colpire o risparmiare a seconda di come si comportano, e se si piegano, e se ossequiano o invece sbeffeggiano. Si chiama giustizialismo. Il giustizialismo, attraverso il partito dei Pm e la nuova P2, è diventato una vera e propria ideologia, come in passato lo sono state il comunismo, il fascismo, il liberalismo. E il sangue e la carne di questa ideologia è la lotta al garantismo. Cioè all’idea che difende lo Stato di Diritto. Il partito dei Pm, diciamo pure la nuova P2, vede lo Stato di Diritto come il nemico giurato. Satana. Perché lo Stato di diritto esclude la prevalenza di un potere sull’altro, esclude la sottomissione della società a una casta eletta, esclude la subordinazione della legalità all’etica. Questo partito, questa grande e fortissima loggia, a differenza della piccola loggia di Licio Gelli, ha vinto. Ha messo in ginocchio la democrazia e il sistema liberale. Ha guidato molti rovesciamenti di maggioranza, a livello centrale o regionale o dei grandi comuni, indifferentemente favorendo la destra o la sinistra. Per questo dico che è molto più potente e non più modesta della P2. E sapete perché ha vinto? Perché ha ottenuto il pieno appoggio di quasi tutto lo schieramento politico, e in particolare l’appoggio incondizionato della sinistra. La sinistra ha tradito la sua vocazione democratica e si è messa a disposizione del partito dei Pm, convinta di potere in questo modo sconfiggere la destra, e in particolare Berlusconi. Il risultato? Quello di sempre: quando ti schieri con gli autoritari e i giustizialisti spingi sempre il paese a destra. L’azione dei magistrati, appoggiati dalla sinistra, ha raso al suolo la destra liberale e ha dato le chiavi dello schieramento conservatore in mano a Matteo Salvini e alla Meloni. È una legge della storia: il giustizialismo, la lotta ai diritti e alla libertà, spinge solo verso la destra reazionaria. Infatti sull’affare Berlusconi, cioè sulla sentenza pilotata contro di lui della quale si parla in questi giorni, abbiamo provato a intervistare vari esponenti della sinistra storica. Hanno tutti declinato. Tranne quel vecchio leone, quel combattente che non lo abbatti mai, 96 anni, ottanta dei quali passati nelle trincee della politica, che risponde al nome di Emanuele Macaluso. Se in Italia ci fossero stati, non dico tanto, una decina di giganti come Macaluso…

Cassazione, la sinistra prende tutto: Curzio presidente, la rabbia di Tirelli. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Luglio 2020. Le previsioni della vigilia sono state confermate: la sinistra giudiziaria ha fatto “cappotto” in Cassazione. Come anticipato dal Riformista, Pietro Curzio è il nuovo numero 1 di piazza Cavour. Dopo la nomina avvenuta lo scorso novembre del procuratore generale Giovanni Salvi, esponente di Magistratura democratica, ieri è stato il turno dell’attuale presidente della Sesta sezione civile della Cassazione, anch’egli legato alla corrente di sinistra delle toghe. Il suo nome è stato proposto all’unanimità dalla Quinta commissione del Csm. Per l’ufficialità bisognerà ora attendere mercoledì prossimo quando al Quirinale si terrà una seduta del Plenum del Csm presieduta dal presidente della Repubblica. Il passaggio di consegne in Cassazione con Giovanni Mammone, che ha raggiunto l’età pensionabile, è invece previsto il venerdì successivo. Grande amarezza, dunque, per Francesco Tirelli, presidente della prima sezione civile e attuale segretario generale della Cassazione. Sulla carta era lui ad aver più titoli, con l’attitudine specifica alle funzioni direttive rappresentata proprio dall’incarico di segretario generale, il responsabile dell’organizzazione delle sezioni civile e penali e stretto collaboratore del primo presidente. Fonti della Cassazione hanno riferito che già da giorni avrebbe fatto sapere che, in caso di bocciatura, avrebbe lasciato questo incarico. Ieri, comunque, non risultava ancora nulla di ufficiale. Forse perché in attesa dell’insediamento del nuovo presidente. Tirelli, come ricordato, è simpatizzante di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe. Per il segretario generale della Cassazione quella di ieri è la seconda doccia fredda dopo quella dello scorso maggio quando era stato bocciato per l’incarico di presidente del Tribunale Superiore delle acque pubbliche. Il Csm gli aveva preferito Giuseppe Napoletano. La Cassazione, comunque, si conferma ancora una volta off limits per le donne. Come la presidenza della Repubblica. Per Margherita Cassano, presidente della Corte d’appello, unica donna in lizza, il “contentino” di presidente aggiunto. L’anagrafe – è più giovane di Curzio – e un eventuale cambio di maggioranza al Csm nel 2022, potrebbe giocare a suo favore per diventare la prima donna al vertice Cassazione. Cassano, da sempre molto attiva in Magistratura indipendente, è una delle magistrate più stimate in Italia. Classe 1953, barese, esperto di diritto di lavoro, Curzio è stato recentemente autore di un saggio sul Job acts. Ed è lui che ha firmato il provvedimento con cui è stato rigettato il ricorso dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara contro la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio disposta l’anno scorso dal Csm. A tal proposito, questa settimana sono stati eletti anche i quattro componenti supplenti della Sezione disciplinare. Si tratta del laico in quota Lega Emanuele Basile e dei tre togati (giudici con funzioni di merito) Elisabetta Chinaglia, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe. La prima è esponente delle toghe progressiste. I due sono invece davighiani di Autonomia&indipendenza. Il “potenziamento” della Sezione disciplinare avviene a ridosso dell’udienza fissata per il 21 luglio a carico di Luca Palamara. Per aumentare i giudici è stata necessaria una modifica del regolamento. Scelta dettata dal timore che i vari componenti possano essere ricusati dall’ex presidente dell’Anm per essere finiti in qualche chat. II laico di Forza Italia Alessio Lanzi ha espresso “serie perplessità” sulla modifica regolamentare, perché «la modifica si pone in tensione con l’articolo 25 della Costituzione sulla precostituzione del giudice per legge (…) creando di fatto dei giudici nuovi che andranno a valutare fatti precedenti alla loro nomina». Per Lanzi sarebbe stato preferibile che una riforma che incide così pesantemente sulla composizione della sezione disciplinare fosse decisa dal Parlamento o dal Governo. Altri hanno fatto rilevare come l’elezione dei supplenti debba avvenire contemporaneamente all’elezione del vice presidente del Csm. Il tempo era scaduto da tempo, insomma, ma il terrore di non poter giudicare Palamara deve aver avuto il sopravvento a Palazzo dei Marescialli.

Il Palazzaccio dei passi perduti (degli avvocati). Renato Luparini il 15 gennaio 2020 su Il Dubbio. Nei meandri della sede della Cassazione. Girando per I corridoi si notano cartelli perentori affissi alle porte che avvisano I viandanti di non valicare le soglie delle aule, diventate oramai laboratori destinati solo ai magistrati. A Roma si dissacra tutto. La sede della Suprema Corte di Cassazione è per tutti “Il palazzaccio”, anche se la sua architettura a confronto con certe realizzazioni contemporanee non merita tanto disprezzo. Per anni è stato il tempio laico del diritto. Così lo volle il ministro Zanardelli che ne prescrisse la costruzione e che lo volle in palese antitesi alla prigione papalina di Castel Sant’Angelo e al Cupolone di San Pietro, che gli sono vicinissimi, ma che da Piazza Cavour volutamente non si vedono. Ogni avvocato che dalle provincie più remote saliva le sue scale, magari dopo aver noleggiato una toga all’ingresso, si sentiva onorato e tornava a casa lusingato anche solo per le poche parole che gli toccava di dire davanti al supremo consesso. I più diligenti di viaggi a Roma ne facevano un paio, uno per la discussione e uno per leggere le requisitorie scritte della Procura Generale e controllare il fascicolo, perdendosi nei meandri affascinanti del Palazzo, tra statue di giuristi e corridoi infiniti. Da qualche tempo, l’incanto è finito. Il tempio è diventato una fabbrica, dove si producono massime e decisioni in quantità industriale. La presenza dell’uomo-avvocato è ormai superflua. Non si fanno più sentenze, che anche dall’etimo richiamano l’ascolto e il sentimento, ma si emanano secche ordinanze. Non si ascolta quasi più la voce degli avvocati. Nella cause civili la loro presenza è rarefatta e in quelle penali ridotta al minimo, spesso al simulacro del “riportarsi ai motivi”, fatto da un legale di passaggio. Girando per i corridoi si notano cartelli perentori affissi alle porte che avvisano i viandanti di non valicare le soglie delle aule, diventate oramai laboratori destinati ai soli e veri scienziati del diritto, i magistrati, che decidono “in camere di consiglio non partecipate”, come si dice in gergo, senza la fastidiosa presenza dei logorroici postulanti. Perfino l’accesso alla cancellerie è limitato ; gli avvocati ora si arrestano alla soglia dell’ufficio relazioni con il pubblico, come se anziché protagonisti del giudizio in cassazione fossero solo spettatori. Da ultimo, ma non in ordine di importanza, si è ascoltata la voce del Presidente Davigo, che si è fatto latore di un pensiero già diffuso tra i giudici: agli avvocati ridotti a spettatori far pagare di tasca loro il biglietto ogni volta che osano turbare i lavori del laboratorio giuridico con i loro vani ricorsi. Del resto il Primo Presidente Canzio pochi anni fa scrisse e parlò di una “Corte assediata”, dove la parte dei barbari invasori era destinata ai difensori, che con le loro inutili doglianze rendevano dura la vita nella cittadella del giure. Eppure chi è avvocato cassazionista, per poter patrocinare e soggiornare al Palazzaccio anche solo per qualche minuto paga già regolare quota annuale, una sorta di simbolico canone e risulta iscritto nel registro speciali dei patrocinanti in Cassazione, un tempo vanto e lustro delle toghe con i cordoni dorati. Insomma, da sacerdoti laici di un tempio ( la definizione, bellissima è contenuta nel testamento spirituale di Gabriele Cagliari, una delle prime vittime di Tangentopoli), gli avvocati in Cassazione sono ridotti a occupanti senza titolo, morosi e senza nemmeno un Monsignore a sostegno. Questa potrebbe sembrare una bagatella senza importanza e le mie lamentele marginali, se in Cassazione non si decidesse dei diritti e delle libertà di tutti i cittadini e se in gioco non ci fosse una questioncella che si chiama Stato di diritto. L’abolizione della prescrizione, per chi non lo sapesse, esisteva già: era contenuta in una circolare del Primo Presidente della Corte di Cassazione che incentivava lo strumento della declaratoria della inammissibilità per manifesta infondatezza. Per i non addetti ai lavori, funziona così: anziché scrivere che un ricorso non va accolto e limitarsi a respingerlo, i giudici di Cassazione scrivono che è palesemente infondato, come se invece di parlare del processo il difensore avesse scritto qualche poesia. In questo modo, si deduce che il ricorso è come se non fosse mai stato presentato e quindi che il tempo passato per esaminarlo non vale ai fini della prescrizione. Sembrano cronache di Bisanzio e invece è quotidiana realtà, con l’aggravante che magari quello stesso ricorso era stata ritenuto talmente fondato da richiedere il suo accoglimento dalla Procura Generale. Con l’amaro risultato che il povero avvocato non solo vede vanificato il proprio lavoro, ma si vede anche beffato dal fatto che il suo scritto ha convinto il massimo organo dell’accusa, ma è stato considerato carta straccia dal Giudice supremo. Ora, secondo Davigo, l’avvocato, che già passa brutti momenti ad annunciare rigetto e magari galera al cliente, va anche multato. Aspetto solo che siano riaccesi i fuochi in Campo dei Fiori, con una sommessa avvertenza: ho scoperto che un mio antenato, certo Fulvio Luparini, fu messo al rogo per sospetta eresia qualche anno prima del più famoso Giordano Bruno. Insomma: abbiamo già dato. Quanto meno, come pare abbia detto San Lorenzo sulla graticola, girateci dall’altro lato; da questo siamo già cotti.

I modi dei magistrati per umiliare gli imputati come un sergente con il soldato semplice. Iuri Maria Prado il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. In questi giorni di rievocazioni mi sono rivisto un po’ di udienze del processo Cusani-Enimont, quello sulla cosiddetta maxi tangente. La cosa più impressionante era il modo in cui il giudice – peraltro una brava persona – si rivolgeva agli imputati e ai testimoni. Così: «Senta, Martelli…»; «Sama, lei che ci dice?», e simili. Come fa un sergente con il soldato semplice. Come fa il padrone con il maggiordomo. A che titolo si permetteva di rivolgersi in tal modo a quelle persone? È presto detto: quelle persone erano “cadute in basso”. E non perché avevano commesso illeciti, così guadagnandosi una riprovazione che toglieva loro il diritto di ricevere riguardo, ma “in basso” perché sottoposte al potere del processo. Ti interrogo, ti giudico, e questo implica una degradazione sufficiente a permettermi di non darti di “signore”. Si noti che i magistrati incassano senza perplessità roba come “Eccellentissima Corte” o “Illustrissimo Signor Presidente”, certamente anche per responsabilità degli avvocati che si lasciano andare a queste disgustose manifestazioni di servilismo indegno: ma proviamo a immaginare quale reazione avrebbero se il cittadino che loro sottopongono a processo esordisse con qualcosa tipo «Senta un po’, Davigo…». Inutile precisare che mentre esistono magistrati rispettosissimi, ai quali neppure verrebbe in mente di rivolgersi all’imputato come fa il prof. con l’alunno delle medie, altri che non si fanno troppi riguardi ritengono evidentemente che si tratti di sciocchezzuole: e non avvertono il pericolo che lo stato di soggezione in cui è posto chi finisce “sotto” processo sia generalmente trattato con noncuranza. E invece bisognerebbe che l’amministrazione della giustizia risentisse come primario l’obbligo di non degradare in nessun modo, e anzi di trattare con il massimo grado di rispetto, il cittadino affidato alle cure giudiziarie. Perché è un “signore” qualunque cosa abbia fatto, e revocargli questo attributo rappresenta una versione solo attenuata di messa in berlina. Non è ancora come lasciare che gli lancino verdura marcia, ma condivide la medesima causa: l’idea che chi giudica sia “superiore”, stia sopra, appunto, e sotto di lui il bandito che ha perso rango civile. La medesima causa e dunque il medesimo effetto: l’imbarbarimento della società che, indifferente o compiaciuta, assiste allo scempio.

Da repubblica.it il 14 gennaio 2020. La Commissione sugli incarichi direttivi del Csm si è spaccata sulla nomina del procuratore di Roma. E ha proposto tre nomi alternativi. In testa il Procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, che ha ottenuto 2 preferenze. Un voto ciascuno invece per il procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo, e per l'attuale reggente della procura di Roma Michele Prestipino. Due consiglieri si sono astenuti. Lo Voi è stato votato dai consiglieri Loredana Micciché, di Magistratura indipendente, e Michele Cerabona, laico di Forza Italia. Insomma, dall'area di centrodestra. A favore di Giuseppe Creazzo si è espresso il consigliere Marco Mancinetti, di Unicost, mentre per Michele Prestipino ha votato il consigliere di Autonomia&Indipendenza Piercamillo Davigo. Astenuti i consiglieri Mario Suriano, di Area, presidente della commissione, e il laico in quota M5S Alberto Maria Benedetti. Dunque i giochi sono ancora tutti aperti visto che dalle scelte di Area e dell'area M5S potrebbe dipendere il verdetto del plenum dell'organo di autogoverno dei magistrati. La pratica per la nomina del successore di Giuseppe Pignatone, già votata il 23 marzo scorso, era stata annullata per effetto della bufera che ha travolto il Csm, nata da quanto emerso dalle intercettazioni dell'inchiesta di Perugia di colloqui tra magistrati ed esponenti politici proprio sulla guida, tra l'altro, della più importante procura italiana. La quinta Commissione del Csm aveva già votato alla fine dello scorso maggio - prima che esplodesse il caso - tre proposte per il vertice della procura di Roma: allora, in pole risultò Marcello Viola, pg di Firenze, seguito da Lo Voi e Creazzo. Dopo le dimissioni di ben 5 togati - tra cui Gian Luigi Morlini, che all'epoca presiedeva la Quinta Commissione - il Csm decise di riprendere daccapo il lavoro con un'istruttoria approfondita e le audizioni dei 13 magistrati candidati. Oggi, quindi, la chiusura dei lavori in Commissione.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 15 gennaio 2020. La nomina del procuratore di Roma sta causando all'interno del Csm un vero e proprio stallo alla messicana, dove tutti si tengono sotto tiro a vicenda e nessuno può sparare il primo colpo. Ieri in quinta commissione, quella che decide gli incarichi direttivi e semidirettivi, i sei membri si sono divisi. Una spaccatura che si può comprendere solo riavvolgendo il nastro e ricordando quanto è successo a maggio, quando la Procura di Perugia intercettò il pm Luca Palamara, indagato per corruzione, mentre insieme con i due parlamentari renziani Cosimo Ferri e Luca Lotti e alcuni consiglieri del Csm (poi costretti alle dimissioni) spingeva per la nomina di Marcello Viola e per l' allontanamento da Firenze di Giuseppe Creazzo, considerato troppo ostile alla famiglia Renzi. In effetti il 23 maggio il procuratore generale di Firenze Viola, raggranellò in commissione ben quattro voti (diventando il favorito), Creazzo uno solo, come il procuratore di Palermo Franco Lo Voi, considerato dagli orfani dell' ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone suo erede naturale (e per questo votato in commissione da Area, il cartello delle sinistre, particolarmente impegnato nel dare continuità alla gestione capitolina). La pubblicazione sui giornali, quasi in tempo reale, delle intercettazioni mandò all' aria il piano di Palamara&C. Otto mesi dopo il Csm, però, non è ancora pacificato e il voto in commissione per il procuratore di Roma sta lì a dimostrarlo. In otto mesi non si è trovato un nome di alto profilo e super partes capace di mettere tutti d' accordo. Ieri la consigliera di Magistratura indipendente Loredana Miccichè, anziché votare per il precedente cavallo (Viola) ha scelto Lo Voi, che è iscritto alla sua stessa corrente. Il laico di Forza Italia Michele Cerabona ha fatto la stessa scelta, lasciando supporre che i moderati in occasione del plenum potrebbero convergere sul procuratore di Palermo. Ma l'appoggio di Mi potrebbe trasformarsi nel classico bacio della morte per Lo Voi. Non sarà facile per Area prendere la stessa decisione dei magistrati conservatori, dopo che le due correnti si sono letteralmente scannate in questi mesi. Inoltre gran parte dei consiglieri di Autonomia e indipendenza difficilmente voteranno per Lo Voi, per questioni interne all' antimafia siciliana e anche per alcune allusioni di Palamara alla sua nomina a procuratore di Palermo, passata attraverso una discussa sentenza del Consiglio di Stato. Un altro segnale da tenere in considerazione è il fatto che il progressista Mario Suriano (che a maggio diede il suo suffragio a Lo Voi) e il laico dei 5 stelle Alberto Maria Benedetti si siano astenuti in commissione. Tale scelta potrebbe far pronosticare un accordo sottobanco a favore di Michele Prestipino, attuale reggente della Procura di Roma, votato in commissione dal capo di Ai Piercamillo Davigo. Ma perché i commissari di Area e dei 5 stelle non si sono espressi? Prestipino è certamente la scelta prediletta dagli aggiunti di Roma, ma esporlo troppo prima del plenum non sarebbe ritenuto saggio, visto che il candidato manca di un importante requisito: al contrario dei concorrenti, non ha mai guidato un ufficio giudiziario (Creazzo quelli di Palmi e Firenze, Lo Voi Palermo e Viola Trapani) e la sua nomina potrebbe essere impallinata dai ricorsi al Tar. In questo gioco di veti incrociati non è escluso che la spunti l' outsider Creazzo, il magistrato con il curriculum più completo. Da giorni uno dei laici dei 5 stelle sta facendo campagna per lui tra i consiglieri non togati (otto con il vicepresidente David Ermini) in nome dell'«unità dei laici». Sulla candidatura del procuratore di Firenze potrebbero confluire anche tutti i tre membri di Unicost e quei consiglieri vogliosi di dare un segnale di discontinuità totale rispetto alle trame dei congiurati intercettati a maggio. Ma la nomina di Creazzo rischia di avere un effetto paradossale: quello di allontanarlo da Firenze, l' obiettivo dei renziani. Qualcuno ribatterà che a Roma è in corso il processo Consip contro Luca Lotti, ma l' ex ministro è da tempo uscito dalle grazie del fu Rottamatore. Un altro ostacolo per Creazzo potrebbe essere rappresentato dal sostegno di Marco Mancinetti, membro della quinta commissione in quota Unicost ed ex grande amico di Palamara. Nelle ultime ore è sottoposto a un fuoco di fila di critiche per il presunto aiutino che avrebbe chiesto a Palamara per consentire al figlio di superare i test di medicina a Roma. Caso sollevato da un' intercettazione che abbiamo pubblicato in esclusiva. Il magistrato, dopo essersi rifiutato per giorni di dare spiegazioni ai cronisti e ai colleghi, ieri ha pubblicato sulla chat dell' Associazione nazionale magistrati uno scarno comunicato che differiva le risposte a ipotetiche controversie giudiziarie: «In relazione agli articoli di stampa pubblicati in questi giorni sul quotidiano La Verità comunico di aver dato mandato al mio legale di tutelarmi nelle opportune sedi giudiziarie, non corrispondendo al vero la ricostruzione dei fatti fornita dal predetto organo di stampa». Sulla mailing list dell' Anm il collega Felice Lima lo ha biasimato «per il solito generico mandato al legale [] che usano i politici» e Andrea Reale, gup a Ragusa, lo ha infilzato: «Il solo dubbio che tu, per ragioni familistiche, abbia potuto scomodare un (all' epoca) consigliere del Csm per favorire l' ingresso di un parente in una università a numero chiuso, come ben comprendi, oltre a paventare condotte anche di carattere penalmente rilevante, getta una ombra enorme sulla trasparenza del tuo operato e sulla tua onestà. Soprattutto quando si riveste un posto così importante nella commissione la cui attività è quella che rende più appetibili le forme di condizionamento correntizio o "politico". Credo che tu abbia l' obbligo di smentire con fatti, nomi e date precise [] quanto vi viene attribuito».

Csm, la casa di vetro impermeabile a tutto. Giovanni Altoprati il 14 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il Consiglio superiore della magistratura, “la casa di vetro” delle toghe italiane come disse molti anni fa il costituzionalista Carlo Esposito, è impermeabile a tutto. Può accadere qualsiasi cosa, come ad esempio che si dimettano cinque consiglieri togati su sedici, senza che nessuno si ponga il benché minimo interrogativo. L’attività prosegue come se non fosse successo nulla. I problemi, infatti, non vengono affrontati ma molto più semplicemente rimossi. Partiamo proprio dalle dimissioni dei cinque togati coinvolti negli incontri di maggio con i parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti per discutere di nomine di alcune Procure. Quando vennero resi noti i loro colloqui intercettati con il telefono di Luca Palamara ci fu chi paragonò l’accaduto allo scandalo della loggia P2. Vennero chiesti provvedimenti feroci nei loro confronti, essendo stati accusati di essere “indegni” di vestire la toga. Poi, però, passata qualche settimana, la vicenda è finita nel dimenticatoio e del procedimento disciplinare si sono perse le tracce. Anzi, pare non sia mai iniziato. E cosa dire della Banca popolare di Bari? Il Csm decise di affidare nel 2015, con un bando pubblicato a Ferragosto, le proprie ingenti risorse economiche alla disastrata banca pugliese. Bpb, presente nel Lazio con solo cinque sportelli, scalzò Banca Intesa San Paolo, il primo gruppo bancario italiano, fra i primi dieci in Europa, diventando il tesoriere di Palazzo dei Marescialli. Già nel 2010, però, erano note le difficoltà dell’istituto di credito pugliese, come certificato dalle numerose ispezioni della Banca d’Italia. Sono stati presi provvedimenti? Non risulta. Anzi, Bpb continua ad avere uno sportello all’interno del Csm, erogando mutui e prestiti molto vantaggiosi a tutto il personale del Csm. Capitolo nomine. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che del Csm è il capo, si è raccomandato spesso, l’ultima volta a giugno, di procedere in tempi rapidi per evitare che gli uffici restino scoperti a lungo. Bene, è dallo scorso maggio che la Procura di Roma è vacante. Marcello Viola, il procuratore generale di Firenze che era stato inizialmente scelto per essere il successore di Giuseppe Pignatone, è stato fatto fuori dopo lo scandalo di maggio. La Commissione per gli incarichi direttivi azzerò tutto. Ad ottobre venne deciso di procedere con le audizioni di tutti i candidati. La nomina era attesa entro il 2019. Poi questa settimana quando all’ultimo momento, per motivi non noti, è sfumata ancora. Discorso a parte meritano le continue esternazioni del consigliere Piercamillo Davigo. A memoria non si ricorda un componente dell’organo di autogoverno della magistratura che punti a sostituirsi al legislatore dettando quelle che dovrebbero essere, secondo lui, le riforma in materia di giustizia. Al massimo il Csm può dare dei pareri, non vincolanti, all’inquilino di via Arenula. La sintesi di quanto accade a pizza Indipendenza può essere lasciata ad Andrea Mirenda, giudice di sorveglianza a Verona, da sempre critico con la deriva correntizia della magistratura e con le disfunzioni del Csm. Scrive Mirenda sulla sua pagina Fb: «Passano i giorni e nessuno parla. Tace la nobilissima Anm, e con essa il suo illuminato presidente, ancorché sempre pronta ad intervenire sui massimi sistemi copernicani; tace il vice presidente del Csm, quello per intenderci che esaltava il rinnovamento del lauto governo dopo l’ignobile traffico notturno per pilotare le principali nomine delle Procure italiane; tacciono i capi e capetti delle correnti, e tace addirittura il presidente della Repubblica a cui solo dobbiamo la simpatica scelta di far eleggere in tre rate quell’organo anziché scioglierlo per ridare ai magistrati il diritto di pronunciarsi fino in fondo sui miasmi emersi. A questo punto ogni cittadino ha il diritto di pensare ciò che vuole di un sistema siffatto, di certi modi di intendere la magistratura e la toga ed infine di invitare ciascuno dei sunnominati a darsi l’insulto che preferisce».

Da leggo.it il 5 febbraio 2020. Nicola Gratteri poteva diventare ministro della Giustizia. O meglio, lo è stato, ma per una sola notte, quella che ha preceduto l'incontro di Matteo Renzi, che stava per diventare premier, con Giorgio Napolitano al Quirinale. Lo ha raccontato lo stesso Gratteri durante la puntata di ieri sera di Dimartedì, su La7, con Giovanni Floris. «Ho incontrato per la prima volta Renzi la sera prima che incontrasse Napolitano - ha detto il magistrato - me lo presentò Delrio, che conoscevo da quando era sindaco di Reggio Emilia. Abbiamo parlato per due ore e mezza di giustizia, mi ha chiesto tante cose, poi mi ha lanciato la proposta: "Lei deve fare il ministro della Giustizia". Io ho detto che no, non ho il carattere per farlo: sono un decisionista, sono abituato a sedermi e non alzarmi finché non si prende una decisione. Lui però ha insistito: "Le do carta bianca, mi siedo a fianco a lei in Parlamento e tutto ciò che lei propone, deve passare"». «Io avevo in testa la rivoluzione dei codici - aggiunge Gratteri - Gli ho detto di sì. Vado a dormire, la mattina dopo torno in Calabria a lavorare: mi chiama Delrio e mi dice "lei è nell'elenco dei 16 ministri, non è che si tira indietro?". Rispondo che io sono un uomo di parola». Nel pomeriggio poi, arriva l'incontro Renzi-Napolitano e la lista definitiva dei ministri: ma nasce qualche problema. «Vi ricordate che la porta non si apriva? Quando ho visto quella scena ho pensato che stessero litigando per me, e infatti era così. Poco dopo mi chiama Delrio, tutto  dispiaciuto e mortificato, io invece ho fatto un sospiro di sollievo - conclude il suo racconto - Chi mi vuole bene mi dice che devo accendere due candele a Napolitano ogni mattina».

Il j'accuse. Le accuse di Ernesto Galli della Loggia: “Il potere dei Pm e la paura degli intellettuali”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Giugno 2020. Suppongo (e spero) non stia parlando di sé, il professor Ernesto Galli della Loggia quando narra di una indeterminata “opinione pubblica” che in tutti questi anni, pur conoscendo le nefandezze dei magistrati oggi scoperchiate dalla bocca e dalla mano di Luca Palamara, non ha mai detto nulla per paura. Sì, lo scrive e lo ripete con un certo vigore, il commentatore del Corriere della sera. Paura. Se alludesse al comprensibile timore che ogni cittadino nutre nei confronti di colui che dall’alto del suo scranno, della sua nera toga e del suo bianco bavaglino, decide della sua libertà (cioè della sua vita), Galli della Loggia si sarebbe limitato a dire una ovvietà. Ma l’uomo non è mai ovvio, e non lo è neppure in questa occasione. Infatti ci dà una notizia. Questa è la notizia. Silvio Berlusconi nelle sue battaglie per una giustizia imparziale aveva ragione (talvolta, dice il professore) ma non lo si poteva dire per la paura di essere appiattiti sulla “destra berlusconiana”. È questa la paura. È interessante la scelta delle parole che esprimono il concetto. Che cosa è “la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica”? Sono solo i cittadini che vanno a votare o non anche gli intellettuali che scrivono sui giornali, quelli che vaneggiano di “caste” sui libri, e quei politici che, facendosi un baffo dell’opinione di illustri costituzionalisti, hanno fatto espellere Berlusconi dal Senato? Dobbiamo pensare che tutti questi, cioè coloro che hanno contribuito a cambiare la storia giudiziaria, e quindi politica, del Paese lo hanno fatto per “paura”? La magistratura, scrive ancora della Loggia con una continua attenta selezione del linguaggio, «ha guadagnato il silenzio complice di molti». Fino a perdere l’anima della propria identità. Perché, in sintesi, in questo presunto corpo a corpo che la “destra berlusconiana” avrebbe ingaggiato con le Procure, il clima si è avvelenato tanto che questo esercito di paurosi è stato silenziosamente complice dei peggiori intrallazzi (il sostantivo scelto non è mio) degli uomini in toga, del loro sindacato corporativo e lottizzato e anche del Consiglio superiore, che proprio superiore non è, come si è visto. Povero Silvio! “Avvisato” a Napoli mentre presiedeva un convegno internazionale sulla criminalità per un reato da cui è stato assolto, poi condannato per l’evasione di una cifra che per le sue società rappresentava qualche nocciolina, poi indagato-archiviato-indagato-archiviato-indagato addirittura come mandante di stragi di mafia. Ma nessuno finora, neanche un procuratore della Repubblica, lo aveva mai sospettato di essere il mandante della vigliaccheria di un drappello di intellettuali capaci di contribuire, con il loro “silenzio complice”, alle ingiustizie di venticinque anni di storia giudiziaria e politica italiana. Sono sicura che Ernesto Galli della Loggia non abbia parlato di sé, nel commento che sul Corriere della sera narra «dell’Identità smarrita dei magistrati italiani». Perché lui – e non lo fa neppure in questa occasione – è un intellettuale non abituato a nascondersi, neppure quando pizzica i suoi colleghi cattedratici. Ma forse sta parlando di qualche direttore di grandi quotidiani, o di qualche assemblatore di atti giudiziari trasformati in libri, o magari di qualche imprenditore proprietario di giornale. Forse anche lui ricorda gli anni di Tangentopoli e quelli che vennero dopo, fino all’oggi. Non c’è bisogno di tornare ai tempi di Romiti e De Benedetti e delle trattative (quelle sì, erano vere) dei loro avvocati con i pubblici ministeri per evitar loro il carcere, per confermare quel che “l’opinione pubblica sapeva” ma solo il trojan di Palamara ha saputo raccontarci. Quando il magistrato diventa politico, perde l’immagine della sua imparzialità, scrive ancora il professor della Loggia. Ma dobbiamo anche chiederci, oggi che qualcuno ha, se pur non di propria volontà, gridato a gran voce che “il re è nudo”, se questa imparzialità sancita dalla Costituzione (cosa che i magistrati dimenticano spesso, a loro interessano solo l’autonomia e l’indipendenza) non sia caduta anche all’interno e come conseguenza di comportamenti portati all’“intrallazzo” e alla “collusione” con la politica. Intrallazzi e collusioni che, per esempio, hanno rafforzato moltissimo, nel processo e fuori di esso (con la complicità di tanti giornalisti), il ruolo dell’accusa. Mortificando non solo la figura dell’avvocato difensore ma addirittura quella del giudice. Se oggi il pubblico ministero vale mille e l’avvocato zero, il giudice arriva al massimo a uno, nella scala dei valori di quelli che contano. Ma quando dico “oggi” intendo dire almeno negli ultimi trent’anni. Vorrei raccontare un episodio “antico”, che ha ritrovato il professor Giuseppe di Federico (e che mi ha gentilmente passato) nell’appendice del libro La degenerazione del processo penale in Italia pubblicato da un grande giurista, Agostino Viviani nel 1988. È la storia del casuale ritrovamento, tra le carte di un processo celebrato in una grande città italiana, di una lettera scritta da una presidente del tribunale del Riesame al presidente del tribunale. Questa giudice raccontava di aver subito una «violenta aggressione verbale da parte del pm poiché si era permessa di rimettere in libertà un imputato di partecipazione a banda armata, nonostante la diversa richiesta dell’accusa. Ma questo pubblico ministero non si era limitato agli insulti e all’aggressione, si era anche rivolto al Presidente del tribunale della grande città perché intervenisse. E costui, invece di denunciare il pm ai titolari dell’azione disciplinare, aveva convocato la presidente del Riesame. Tanto che costei, «in uno stato di grave disagio», poiché doveva giudicare un altro caso analogo e con la presenza dello stesso pm, si era dimessa. Va da sé che il suo successore non scarcerò. Proprio come voleva il famoso pm. Questo caso fu portato due volte al Consiglio superiore della magistratura, prima dallo stesso Viviani e poi da Di Federico. Furono insultati pure loro e non successe niente. Per l’organo di autogoverno tutto ciò era normale. Il famoso pubblico ministero poté percorrere tutta la sua carriera fino ai massimi vertici e tranquillamente in seguito andare in pensione. Ma quel presidente di tribunale che portò una sua collega, supponiamo molto più giovane di lui, alle dimissioni, come si sente con la coscienza? Di questo bisognerebbe parlare quando si narrano gli intrallazzi e le collusioni della magistratura e soprattutto il dis-funzionamento del Csm e il ruolo politico di giudici e pubblici ministeri. E mi tocca anche leggere, sempre sul Corriere, ma del giorno prima, che Niccolò Ghedini, che casualmente è anche l’avvocato di Silvio Berlusconi, dice che non si devono separare la carriere di giudici e pm perché è bene che il rappresentante della pubblica accusa mantenga (ma quando mai l’ha avuta?) la “cultura della giurisdizione”. Consiglio anche a lui la lettura del libro di Agostino Viviani. E della lettera (che pubblicheremo) di quella presidente del tribunale del Riesame dei tempi dei processi per terrorismo. Quelli in cui si fecero le prove generali di quel che capiterà in seguito con tangentopoli e le inchieste di mafia.

Gratteri: Berlusconi ha ragione, ai Pm va fatto il test. Redazione De Il Riformista 28 Novembre 2019. «Berlusconi una volta ha detto una cosa giusta: bisognerebbe fare i test psico-attitudinali ai magistrati». A dirlo non è un pasdaran del Cav, né di un detrattore delle toghe. Tutt’altro. A parlare è proprio un pm, e non uno qualunque ma nientepopodimeno che il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, tra i più noti all’opinione pubblica e ministro della Giustizia mancato (la sua nomina nel governo Renzi sarebbe sfumata per volontà dell’allora presidente della Repubblica Napolitano, ha rivelato lo stesso pm).  Intervistato ieri da Massimo Giannini su Radio Capital, non è voluto entrare nel merito dell’inchiesta sulla fondazione Open («c’è un’indagine in corso, non conosco le carte e se non si conoscono si fanno discorsi da bar»), ma sul rapporto tra magistratura e politica ecco il Gratteri che non t’aspetti: «Ci possono essere dei magistrati che fanno militanza attiva», «che ne fanno un modo di ragionare e può accadere che uno perda di lucidità». E quindi: «Non condivido la maggior parte delle cose dette da Berlusconi, ma una volta ha detto una cosa giusta: bisognerebbe fare i test psico-attitudinali ai magistrati. È un lavoro molto logorante quindi una volta ogni 5 anni in forma anonima dovrebbero sottoporci a test». Ma Gratteri ne ha anche per la politica: «Chi è al potere non vuole essere controllato. Il potere non vuole un sistema giudiziario efficiente, che controlli anche il manovratore. In Parlamento ci sono tante persone perbene, sono la stragrande maggioranza, ma ci sono anche molti incompetenti e alcuni faccendieri, alcuni borderline». A proposito di efficienza della giustizia, il procuratore di Catanzaro a Radio Capital ha parlato anche della riforma voluta dal ministro Bonafede che blocca i termini della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, riforma che è diventata il nuovo terreno di scontro nella maggioranza di governo. «Per come ragiono io, termini come prescrizione, amnistia, indulto, dovrebbero sparire dal vocabolario della lingua italiana», ha affermato. Per Gratteri la nuova norma «non è inutile, va fatta, ma non è la soluzione del problema. La prescrizione è una ghigliottina, non possiamo ragionare in questo modo, non esiste una sola ricetta per un problema». «Ogni volta che il legislatore interviene solo per un problema non fa un ragionamento serio. Un ragionamento serio – ha spiegato il procuratore – vuol dire avere il coraggio, la volontà e la libertà di cambiare tutto il sistema, 3-400 norme, con piccole e medie modifiche, per far sì che funzioni. Altrimenti si va sempre a rattoppare». «Se non si decide di investire in giustizia, di applicare la tecnologia che abbiamo a disposizione nel 2019, non si va da nessuna parte», ha continuato Gratteri. «In questo momento ci sono fuori ruolo 250 magistrati, io penso che ne basterebbero 30-40», e poi «bisogna rivedere tutta la geografia giudiziaria, ancora ci sono sedi inutili che andrebbero chiuse o accorpate», ma «con la benda davanti, senza andare a guardare lì chi c’è e se lo disturbiamo se gli chiudiamo l’ufficio».

Gratteri: “Io, troppo indipendente per fare il ministro”. Il Dubbio il 10 febbraio 2020. La ricostruzione della mancata nomina a via Arenula ai tempi del governo Renzi. Altro giro altra corsa. Il procuratore Nicola Gratteri ospite di Lucia Annunziata – che con Piercamillo Davigo condivide lo scettro del magistrato più presenzialista della tv italiana – si è lasciato andare a nuove, importanti rivelazioni sulla sua mancata nomina a ministro della giustizia ai tempi del governo Renzi.

La prima: sembra che il no dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano fosse dovuto – dice lui – alla sua marcata “caratterizzazione”. “Non so cosa volesse dire ha poi confessato Gratteri – ancora è vivo, chi è in confidenza può chiederglielo, ma è vero che sono molto indipendente.

La seconda: Gratteri non si definisce nè giustizialista nè garantista – e questo si era capito – ma solo “uno che cerca di applicare il codice nel modo più corretto possibile. Esiste la legge e la sua applicazione».

La terza: ci sono corrotti anche tra i magistrati, ma sono pochi. “Il problema della corruzione c’è, ma possiamo parlare del 6-7%, non di più”, ha infatti spiegato Gratteri. Che poi ha aggiustato il tiro: “posso dire che sostanzialmente la struttura della magistratura è sana, però è ovvio che un magistrato corrotto fa un botto, fa rumore, è molto grave, la gente si allontana e perdiamo credibilità”. Il che, detto ai tempi dello scandalo nomine, è un’affermazione piuttosto “coraggiosa”.

Nicola Gratteri a Mezz'ora in più: "In magistratura un 6-7 per cento di corrotti". Libero Quotidiano il 9 Febbraio 2020. Tempo di rivelazioni a Mezz'ora in più su Rai 3, dove l'ospite era Nicola Gratteri, che sei anni fa fu ministro della Giustizia soltanto per poche ore nel nascente governo di Matteo Renzi. In studio si fa il punto sulla riforma della prescrizione di Alfonso Bonafede, ma poi si torna ai tempi della nomina sfumata: "Ho conosciuto Renzi nel 2014, il giorno prima che andasse dal presidente Giorgio Napolitano - premette -. Non è che mi fidassi di Renzi, gli dissi quello che bisognava fare e lui era d’accordo su tutto, parlammo di cose strutturali che riguardavano il sistema giudiziario". Così il capo della procura di Catanzaro rispondendo a una domanda di Lucia Annunziata. Perché il veto di Napolitano? "Chiedete a lui - riprende Grattieri -. Pare che avesse detto che sono un pm troppo caratterizzato. Non so cosa volesse dire - ha aggiunto -. È vero che sono molto indipendente e non faccio parte di nessuna corrente, ho un carattere duro, non conosco mediazioni al ribasso. In ogni caso, una volta finito l’incarico di ministro, avrei guidato un’azienda agricola, sono un bravo agricoltore, di certo non avrei fatto più il magistrato per una questione di serietà e credibilità", ha concluso. Poi, parole pesantissime sulla piaga della corruzione tra le toghe. Tema che esiste, eccome, anche secondo Gratteri: "Il problema corruzione nella magistratura c’è, possiamo parlare del 6-7 per cento - stima -. È grave, inimmaginabile, terribile. Noi guadagniamo bene. Io prendo 7.200 euro e si vive bene e non c’è lo stato di necessità. Io penso che sia un fatto di ingordigia. Il potere è avere incarichi o chiedere incarichi per amici degli amici", ha concluso.

Gratteri: guadagno 7200 euro. I super stipendi delle toghe. Il pm antimafia Gratteri in televisione rivela la busta paga dei magistrati: 137mila euro all'anno e 45 giorni di ferie. Felice Manti, Lunedì 10/02/2020 su Il Giornale. Il pm antimafia Nicola Gratteri ha un merito: parla chiaro. E dice una verità che molte toghe fingono di non vedere: «Il problema della corruzione in magistratura c'è, e riguarda il 6-7%, non di più». E non è un problema legato ai soldi. D'altronde si sa, gli stipendi delle toghe sono tra i più alti d'Italia. Guardando alla media delle retribuzioni lorde annue del pubblico impiego la magistratura si colloca al top con 137.294 euro (e 45 giorni di ferie), seguita a distanza da carriera prefettizia (94.293), autorità indipendenti (91.259) e persino carriera diplomatica (87.121): «Guadagniamo bene - conferma il procuratore capo di Catanzaro, ospite di Lucia Annunziata a In mezz'ora - io prendo 7.200 euro al mese, quindi non c'è giustificazione, non è uno stato di necessità, non è il tizio che va a rubare al supermercato per fame». La corruzione in magistratura «ha a che fare con l'ingordigia». È strano sentire un magistrato ammettere che anche i giudici «sono il prodotto di questa società» e che «l'abbassamento della morale e dell'etica», fa rumore quando riguarda un magistrato corrotto, perché così «la gente si allontana e perdiamo credibilità». Gratteri non fa nomi ma il pensiero corre al magistrato Luca Palamara, ex membro del Csm ed ex presidente dell'Anm (il sindacato dei magistrati), che secondo la Procura di Perugia avrebbe favorito o tentato di favorire alcune nomine in cambio di viaggi, soldi e regali in combutta con alcuni politici Pd. L'indagine ha già portato ad alcune dimissioni eccellenti dentro lo stesso Csm come il Procuratore generale Riccardo Fuzio. Anche Catanzaro è squassata da una sequela di magistrati finiti nel mirino della Procura della Repubblica di Salerno per favoreggiamento mafioso, corruzione e corruzione in atti giudiziari. Un magistrato della Corte d'appello è stato arrestato perché avrebbe venduto sentenze in cambio di sesso e mazzette. E guarda caso, la stessa Corte d'appello (il cui procuratore capo Otello Lupacchini è stato da poco cacciato per uno scazzo con Gratteri) si conferma sul podio - per il sesto anno consecutivo - per ingiusta detenzione (158 persone nel 2017) e 8,9 milioni di euro pagati alle vittime innocenti. A stipendi alti non corrispondono neanche processi veloci. Anzi. Per colpa della lentezza della giustizia ogni anno ci sono circa 17mila richieste di indennizzo per «irragionevole durata dei processi» secondo i parametri fissati dalla legge Pinto (tre anni per una sentenza di primo grado, due anni per l'appello e un anno per la Cassazione). Quanto alla produttività dei magistrati è difficile trovare un parametro univoco. Pier Camillo Davigo dice che i giudici italiani sono i più produttivi d'Europa ma non c'è un dato della Commissione europea per l'efficienza della giustizia che ne dia conferma. E si torna al problema prescrizione, alibi piuttosto che soluzione. E lo conferma Gratteri quando dice «il legislatore serio si preoccupi del perché il fascicolo rimane cinque anni nel mio armadio», non sulla sua scrivania. Ecco perché il pm parla di «mediazione al ribasso» sulla prescrizione perché c'è «una disparità di trattamento» tra chi è assolto e chi è condannato in primo grado, mentre «chi finisce in carcere, che è diventato un contenitore, non sa quando ne uscirà. E non si fa né rieducazione né trattamento». Ancora una volta «il legislatore non fa le modifiche giuste», quelle «per velocizzare il processo senza diminuire i diritti. Perché questa è la madre di tutte le riforme». E come si velocizzano? «Anziché perdere mesi ad appigliarsi sulla prescrizione per velocizzare i processi basta applicare la tecnologia disponibile e rileggere il codice di procedura penale». Anche perché, tra i magistrati è un segreto di Pulcinella, lo stop alla prescrizione ingolferà ancor di più il sistema. Nel 2018, secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia, i procedimenti penali prescritti in Corte d'appello e Cassazione sono stati 29.862. Dal 2020 questi 30mila processi in più graveranno ogni anno sugli uffici giudiziari. Allungando ancora di più i processi.

Gratteri via dalla foto del magistrato arrestato.  Franco Bechis il 16 gennaio 2020 su Il Tempo. Tutti i quotidiani hanno tagliato l'immagine di Nicola Gratteri dalla unica foto che avevano del giudice arrestato a Catanzaro, Mario Petrini, presidente di sezione di corte di appello e anche presidente della commissione tributaria provinciale. La notizia dell'arresto di Petrini è stata data con grande evidenza, ed è naturale quando a finire nei guai è un magistrato accusato di avere svenduto la sua funzione in cambio di soldi e favori. Poi siccome l'indagine ha scoperto che fra i pagamenti ricevuti in cambio di sentenze favorevoli c'erano non solo soldi, regali e viaggi, ma anche prestazioni sessuali da parte di giovani avvocatesse filmate addirittura in 18 amplessi nell'ufficio del magistrato, la stampa ha puntato sull'aspetto più pruriginoso. Tutti i media però hanno avuto un problema: dove trovare la foto di Petrini, magistrato che è stato per lo più nell'ombra? C'era una sola soluzione: fare un fermo immagine di un video di un paio di anni fa dal sito del Lametino.

Michela Allegri per “il Messaggero” il 21 aprile 2020. Viaggi all'estero, da Londra a Dubai, fino a Ibiza. Lavori di ristrutturazione, vacanze in montagna, persino un trattamento di bellezza in una Spa. E ancora: informazioni riservate passate sottobanco, notizie di denunce e inchieste rivelate senza autorizzazione. E' con l'accusa di corruzione che il pm di Roma, Luca Palamara, ex presidente dell' Anm, rischia di finire sotto processo a Perugia. Insieme a lui, la sua amica Adele Attisani, l' ex consigliere del Csm Luigi Spina, il titolare di un' agenzia di viaggi e l' imprenditore Fabrizio Centofanti, già figura chiave nell' inchiesta sulla «cricca» in grado di pilotare sentenze del Consiglio di Stato. Secondo i pm umbri, che hanno notificato a tutti un avviso di conclusione delle indagini, Palamara, all' epoca dei fatti consigliere del Csm, avrebbe ricevuto - per sé e per la Attisani - regali e favori da Centofanti e, in cambio, avrebbe messo al servizio dell' imprenditore la sua funzione. Un' inchiesta dalla quale era emerso un vero e proprio mercato delle toghe con strategie per pilotare le nomine ai vertici delle procure più importanti, in primis quella di Roma. Tra i vari cadeaux, i magistrati umbri contestano anche un viaggio a Madrid regalato al pm e al figlio per assistere alla partita Real Madrid-Roma, un match di Champions League dell' 8 marzo 2016, per il quale Centofanti avrebbe speso oltre 1.300 euro. Ma nel capo di imputazione si legge pure che l' imprenditore, tra il 2013 e il 2017, avrebbe pagato lavori di ristrutturazione per decine di migliaia di euro nell' appartamento della Attisani, pure lei accusata di corruzione e considerata dagli inquirenti «istigatrice delle condotte delittuose e beneficiaria in parte delle utilità». E' finito nei guai anche Giancarlo Manfredonia, titolare di un' agenzia di viaggi: avrebbe fornito «false informazioni e documentazione artefatta» alla Finanza, che stava indagando sui viaggi organizzati da Centofanti. Pesanti anche le contestazioni anche per l' ex consigliere del Csm, Luigi Spina, che si è dimesso a causa dello scandalo: è accusato di rivelazione di segreto d' ufficio e favoreggiamento. Avrebbe informato Palamara di un esposto presentato dal pm Stefano Fava contro l' ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e un aggiunto. E, inoltre, gli avrebbe passato informazioni sull' inchiesta per corruzione. Rispetto alle precedenti contestazioni, la posizione del pm si è alleggerita: non è più accusato di avere ottenuto 40mila euro per pilotare una nomina alla procura di Gela e per danneggiare un collega. Lo sottolineano i suoi avvocati, Roberto Rampioni, e Mariano e Benedetto Buratti: «In relazione alle ulteriori ipotesi la difesa è certa di poter dimostrare l' innocenza dell' assistito».

Quegli spifferi che arrivano dalla procura Perugia: prima i togati, poi la stampa e ora il fedelissimo di Bonafede. Giulia Merlo su Il Dubbio il 15 maggio 2020. Prima le indiscrezioni su Luca Palamara, poi quelle sui giornalisti “amici” dei pm e ora l’uomo di fiducia del ministro della Giustizia…Ormai è un vero e proprio virus, quello che dalla Procura di Perugia contagia chiunque ruoti intorno all’inchiesta contro Luca Palamara. O meglio, che contagia chiunque abbia parlato al telefono con l’ex membro dell’Anm e che dunque sia finito nei brogliacci delle intercettazioni ora nelle mani dei magistrati. La sorte toccata al capo di Gabinetto del Ministro Bonafede, Fulvio Baldi, infatti, è solo l’ultimo caso in ordine di tempo. Prima del suo, sono stati molti i nomi a finire direttamente dagli atti di indagine alle pagine dei giornali, in un flusso all’apparenza inarrestabile che sgorga direttamente da Perugia. Poche settimane fa e a qualche giorno dalla notizia della conclusione delle indagini, a risultare “schedati” dalla procura erano stati i principali cronisti di giudiziaria, da Liliana Milella di Repubblica a Giovanni Bianconi del Corriere, ma i nomi citati sono circa una ventina. Le intercettazioni delle loro conversazioni private con Palamara, pur senza contenere alcun elemento utile alle indagini, erano finite pubblicate in un articolo della Verità. L’esito è stato quello di un discreto imbarazzo, oltre al disvelamento di rapporti riservati tra stampa e magistratura, ma nessuna conseguenza diretta per i colleghi. Solo, al massimo, un certo biasimo per il metodo con cui vengono compilate le informative della polizia giudiziaria, che pur dovrebbero contenere solo le trascrizioni delle intercettazioni rilevanti. Lo stesso è poi successo, con esiti ben più pesanti, anche all’ex pg di Cassazione Riccardo Fuzio. Anche in questo caso il Trojan installato nel cellulare di Palamara ha registrato le loro conversazioni, date alla stampa prima della conclusione delle indagini. Fuzio non è politicamente sopravvissuto allo scandalo: ha scelto la via del pensionamento anticipato ed è finito a sua volta indagato. Infine – terminando il percorso a ritroso nei fatti collaterali all’indagine che ha fatto tremare il Csm nel giugno scorso – la stessa sequenza è toccata anche a cinque togati del Csm. Tutti intercettati di riflesso a Palamara, tutti finiti nelle trascrizioni pubblicate da mezza stampa italiana. Contro di loro, conversazioni con Palamara per la decisione di alcune nomine di magistrati. Alla fine, i togati di Magistratura Indipendente Antonio Lepre, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli e quello di Unicost Gianluigi Morlini e Luigi Spina (unico indagato) si sono dimessi dal ruolo di consiglieri al Csm.La beffa, in questa maxi inchiesta che ha terremotato l’organo di autogoverno della magistratura, è che potrebbe concludersi in un nulla, almeno sul fronte prettamente giudiziario. Sono cadute, infatti, tutte le ipotesi di reato a carico di Palamara per le presunte nomine pilotate e che è stata chiesta l’archiviazione anche per corruzione aggravata e in atti giudiziari.

Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero. Il capo di gabinetto: “Che cazzo li piazziamo a fare i nostri?” Agli atti dell'inchiesta della procura di Perugia sulle nomine dei magistrati ci sono anche le intercettazioni di Fulvio Baldi, capo di gabinetto di Alfonso Bonafede, che l'ex pm di Roma chiama "Fulvietto". Baldi è ovviamente estraneo alle indagini, ma gli investigatori riportano le registrazioni in cui è coinvolto perché sono un elemento utile a ricostruire l'enorme potere dell'ex presidente dell'Anm. E poi perché ricostruiscono come funzionano le correnti della magistratura, come gestiscono il potere, come si muovono, come spingono per far ottenere ai loro iscritti poltrone di prestigio. La replica: "Con Palamara siamo amici da tanti anni ma i suoi problemi giudiziari emergono solo dopo le conversazioni in questione. Le intercettazioni? Non le conosco ma non vedo nessun profilo disciplinare". di Marco Lillo e Antonio Massari il 14 maggio 2020 su Il Fatto Quotidiano.  Luca Palamara lo chiamava “Fulvietto”. Gli faceva dei nomi di magistrate, gli chiedeva di piazzarle in posti di staff nei ministeri. Fulvietto rispondeva: “Te la porto qua stai tranquillo, perché è una considerazione che ho per te, un affetto che ho per te e lo meriti tutto”. E quando Palamara era dubbioso Fulvietto lo rassicurava: “Se no che cazzo li piazziamo a fare i nostri?”. I “nostri” erano probabilmente i magistrati di Unicost, la corrente moderata delle toghe, il cui leader era proprio il pm indagato nell’inchiesta sulle nomine al Csm. Fulvietto, invece, è Fulvio Baldi, già sostituto procuratore generale della Cassazione, candidato nel 2012 al Comitato Direttivo dell’Anm per Unicost e da quasi due anni capo di gabinetto di Alfonso Bonafede al ministero della giustizia. Sulla sua scrivania passano tutte le pratiche più delicate: le leggi, le nomine, i fascicoli giudiziari. Tra questi ultimi anche gli atti inviati dalle procure quando a finire sotto inchiesta sono i magistrati, affinché il guardasigilli possa esercitare l’azione disciplinare. È successo anche con l’indagine su Palamara e in quel caso il ministro Bonafede non ha perso tempo e ha attivato le sue prerogative: alla fine il magistrato è finito davanti al collegio disciplinare ed è stato sospeso dallo stipendio e dalle sue funzioni da pm di Roma, in attesa che la giustizia faccia il suo corso e confermi o smentisca le ipotesi accusatorie. Da alcune settimane i pm perugini hanno chiuso l’inchiesta che ha provocato un vero e proprio terremoto fin dentro le stanze di Palazzo dei marescialli, con le dimissioni di cinque consiglieri e l’azzeramento dell’iter per la nomina del nuovo capo della procura di Roma. Agli atti sono finite anche le intercettazioni tra Palamara e Baldi, pure lui esponente di Unicost, la corrente più rappresentata (ma non l’unica) nelle stanze del ministero della giustizia. Oltre a Baldi ne fa parte Francesco Basentini, nominato dallo stesso Bonafede a capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, fino alle dimissioni di qualche giorno fa. Nel gabinetto c’è anche Leonardo Pucci, vice di Baldi e già compagno di studi a Firenze di Bonafede. Assistente volontario del professor Giuseppe Conte dal 2002 fino al 2009, poi giudice del lavoro a Potenza dal 2009 al 2015. In Basilicata Pucci conosce oltre a Basentini anche Luigi Spina, poi divenuto consigliere del Csm di Unicost, travolto dall’indagine per le intercettazioni con l’amico Palamara. Pucci è l’uomo più vicino a Bonafede ma il ruolo di vertice nel gabinetto è occupato da due anni da Baldi. Salernitano, 52 anni, è ovviamente estraneo alle indagini su Palamara. Le parole intercettate della Guardia di Finanza non fanno ipotizzare a suo carico alcuna fattispecie di reato. Gli investigatori le riportano perché sono un elemento utile a ricostruire l’enorme potere di Palamara, pm sotto inchiesta. Ricostruiscono, infatti, come funzionano le correnti della magistratura, come gestiscono il potere, come si muovono, come spingono per far ottenere ai loro iscritti poltrone di prestigio e poi giù giù fino ai posti minori di staff. E anche come entrano in contrasto tra loro. A questo proposito, va detto che Bonafede è autore di una proposta di legge anti-correnti che puntava a introdurre il sorteggio per le elezioni al Csm. Dopo la caduta del governo con la Lega, però, il M5s ha dovuto discutere la nuova riforma della giustizia col Pd. E la proposta di sorteggiare i membri del Csm è svanita dal tavolo. Col sorteggio lo strapotere delle correnti sarebbe stato indubbiamente azzerato. E non si sarebbero più lette intercettazioni come quelle di Palamara. Che al capo di gabinetto di Bonafede segnala una serie di nomi per incarichi negli staff di uffici e dipartimenti. In una conversazione si cita di passaggio anche il Dap, finito di recente al centro delle cronache per il “caso Di Matteo” e le scarcerazioni di mafiosi: anche lì Baldi pensava di poter piazzare una magistrata raccomandata da Palamara. Quella manovra, però, non è andata a buon fine. Forse anche perché, due settimane dopo le ultime telefonate intercettate con il capo di gabinetto del ministro, Palamara è stato travolto dall’inchiesta di Perugia. È proprio leggendo le carte dell’indagine umbra che si scopre come le trame dell’ex presidente dell’Anm passavano anche dall’ufficio di Baldi in via Arenula. È il 3 aprile del 2018 e Palamara chiede al capo di gabinetto di Bonafede di sistemare al ministero una magistrata a lui vicina: si chiama Katia Marino ed è sostituto procuratore a Modena. Baldi risponde ‘presente’ e dice che la donna sarà contattata nel pomeriggio da Mauro Vitiello, capo dell’ufficio legislativo: “Ho passato il nome – dice – vediamo che cazzo succede prima o poi te la porto qua stai tranquillo perché è una considerazione che ho per te un affetto che ho per te e lo meriti tutto”. “Va bene”, risponde tranquillo Palamara. Ma c’è un problema. Mauro Vitiello, il capo dell’Ufficio legislativo del ministero citato da Baldi, è di un’altra corrente: appartiene a Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, e non ai moderati di Unicost. Già giudice fallimentare a Milano, Vitiello non è l’unico esponente di Md in via Arenula: sua compagna di corrente è la sua vice, Concetta Locurto, già coordinatrice nel capoluogo lombardo di Area, il cartello di correnti di sinistra dei magistrati. Quello può essere un problema, almeno a leggere le parole di Baldi, che chiama Palamara desolato: “Vitiello ha sentito la ragazza, Katia Marino, ed è andata come deve andare aggiungendo ‘uomini però di mala fede i soliti di Magistratura Democratica‘”. Poi Baldi sostiene che Vitiello gli avrebbe detto: “Prenditela tu”. Ma il capo di gabinetto di Bonafede ha esaurito i posti liberi: “Ho detto – continua – ma io se non ero completo non c’era nessun problema’”. A quel punto il magistrato mette a disposizione del suo capocorrente una serie di possibili incarichi al ministero della Giustizia: “Però – dice Baldi a Palamara – abbiamo varie strade. Abbiamo l’Ispettorato, abbiamo il Dap, ma la strada più praticabile a questo punto è dal 6 maggio la Casola prende possesso al Dag. E’ qui già dal 7 maggio la Casola e mattina può far partire la richiesta insomma”. Il riferimento è a un altro magistrato, Maria Casola, stimata giudice autrice di note di dottrina pubblicate sul sito di Unicost, che dopo pochi giorni effettivamente sarebbe diventata capo Dipartimento per gli Affari di Giustizia. A Palamara sembra che la previsione di Baldi sia un po’ troppo semplicistica e quindi chiede: “Se la prende lei o no?”. Quasi indignato per la domanda, Baldi replica: “Eh beh ma la Casola è nostra ragazzi, gliela indichiamo noi che cazzo, e allora che cazzo piazziamo a fare i nostri?”. Una frase che dimostra meglio di cento indagini come funzionino le nomine basate sui criteri di appartenenza nel mondo della magistratura. Soprattutto perché a pronunciarla è il capo di gabinetto del ministero della giustizia. Che parlando con l’amico Palamara spiega come va il mondo: “Glielo dico io tranquillamente (a Maria Casola, Ndr) tanto abbiamo tempo fino al 6 maggio poi gliela presentiamo (la dottoressa Marino, Ndr) però glielo voglio dire che poi ci sei pure tu dietro perché vai rispettato pure tu (…) glielo diciamo tutti e due insomma”. Il capo di gabinetto è fiero del suo potere: “Quindi – dice – hai capito che cazzo questa gente deve capire che la ruota gira nella vita”. Baldi – annota il Gico della Guardia di Finanza – “continua dicendo che ha 51 anni e che per altri 19 dovrà lavorare ovvero che tutti si devono voler bene e rispettare”. Le manovre non si fermano al ministero. Dopo aver chiuso la telefonata con Baldi, Palamara chiama Nicola Clivio, consigliere del Csm dal 2014 al 2018 in quota Area. “Ciccio me l’hanno purgata! La fonte sono quelli di Md che l’hanno bruciata però guarda che è una brava ragazza”. Clivio risponde spiegando che dopo il messaggino ha preso informazioni e gliene hanno parlato male. Palamara ribadisce: “Sono quelli di Area e Magistratura Democratica, i soliti”. L’ex pm di Roma chiude chiedendo a Clivio di parlare con Vitiello. Poi richiama Katia Marino e le dice che Fulvio Baldi gli ha detto: “Vitiello o non Vitiello Katia viene”. Anche la Marino conferma quella frase di Baldi, poi Palamara si vanta e le racconta che “lui è stato aggressivo come il suo solito dimostrando che deve forzare la mano affinché il trasferimento riesca”. Non riuscirà: oggi Katia Marino è ancora un pm di Modena e non è mai andata a lavorare la ministero. Le manovre di Palamara non riguardano solo lei e non si fermano al ministero della Giustizia. Arrivano, infatti, anche in altri dicasteri, come alla Farnesina. È il 17 maggio 2019, esattamente un anno fa, e il pm sollecita un’altra nomina a Baldi, quella della dottoressa Francesca Russo. La definisce “vicinissima a noi”. Baldi, scrive il gip, “chiede i suoi contatti dicendo che al Ministero Affari Esteri ha questa possibilità avendo carta bianca”. Il capo di gabinetto di Bonafede, viste le difficoltà incontrate per la dottoressa Marino in via Arenula, punta sulla Farnesina. Scrivono le Fiamme gialle “chiede se a Katia Marino può interessare un posto all’ufficio Contenzioso del Ministero degli Esteri seppur senza indennità aggiuntive (…) Palamara si informerà specie sul discorso della lingua”. Evidentemente il capo di gabinetto di via Arenula ci tiene a sottolineare di avere una rete di rapporti che vanno oltre il suo dicastero: “Fulvio – continuano gli inquirenti – conclude dicendo dipende solo da me capito non da capi Dipartimento e tutto, la mando io la porto io eh eh eh”. La dottoressa Katia Marino, però, fa capire a Palamara, “che avrebbe delle difficoltà con le lingue e che quindi sicuramente il posto proposto (al ministero degli Affari esteri) sarebbe per lei peggiore rispetto a dove è attualmente”. Insomma la pm non è fortissima sulle lingue, e quindi preferisce andare al ministero di giustizia, dove si parla solo italiano. “Palamara – annota la Finanza – le spiega che c’erano altre opportunità che per ora sono in stand by a causa di Vitiello che fa opposizione per privilegiare i suoi ovvero quelli di Md (…) quindi parlano di Fulvio Baldi nei confronti del quale formulano elogi e Palamara aggiunge che ha capito chiaramente che la Marino deve rientrare aggiungendo: Lo sa non solo Fulvio ma lo sanno anche quelli vicino al Ministro’”. Passano appena 12 giorni e sui giornali esce la notizia che Palamara è indagato. Tutto si ferma. La dottoressa Katia Marino e la dottoressa Francesca Russo, che non sono mai state indagate, sono ancora al loro posto al Tribunale di Roma e alla Procura di Modena. Non sono mai passate al ministero. Sentito dal Fatto Fulvio Baldi dice: “Abbiamo già visto con il Ministro Bonafede alcune mie chat con Palamara su questa vicenda e non c’è nulla di male”. Le chat, secondo Baldi, sono arrivate all’ispettorato del Ministero competente a valutare eventuali profili disciplinari dell’inchiesta. Ovviamente non su Fulvio Baldi ma su altri. “Io non ho letto queste intercettazioni che lei mi riferisce ma non vedo nessun profilo disciplinare a mio carico nelle frasi che mi legge”, spiega Baldi al Fatto che gli chiede un parere sulle sue stesse parole. “Siamo amici con Luca Palamara da tanti anni – spiega Baldi al Fatto – ma i suoi problemi giudiziari emergono solo dopo le conversazioni in questione. Io non ho portato al Ministero la dottoressa Katia Marino. Nel novembre 2018 l’ho incontrata su segnalazione di Palamara ma non l’ho presa. Poi la ho segnalata al dottor Mauro Vitiello e lui non l’ha voluta prendere. Certo, ho detto a Palamara, ‘vedrai che te la porto‘ ma solo per non deludere un amico dicendo alcune cose negative. Anche la dottoressa Francesca Russo l’ho vista al Ministero e ho ritenuto di disporre il collocamento fuori ruolo al Mae per altre tre persone. La dottoressa Katia Marino non l’ho mandata al Mae. Al Ministero ci sono 80 persone. E sono tanti che mi segnalano persone. Io faccio colloqui e vedo se la persona segnalata è compatibile”. E le intercettazioni in cui Baldi dice a Palamara “Che cazzo li piazziamo a fare i nostri?”. Baldi replica al Fatto: “Io definivo ‘i nostri’ quelli che appartenevano a quella che era la mia corrente Unicost. Io però sono uscito da Unicost a settembre 2019”. Quanto all’ex direttore del Dap Francesco Basentini, Baldi è netto: “Basentini lo ho conosciuto al Ministero, come anche Leonardo Pucci. Io non li ho mai visti in una riunione di corrente”.

Inchiesta Csm, dopo l’articolo su ilfattoquotidiano.it si dimette il capo di gabinetto del ministero della Giustizia. Le dimissioni dopo l'articolo di Marco Lillo e Antonio Massari: "Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero". Fonti vicine al Guardasigilli fanno sapere che Bonafede non ha apprezzato le logiche correntizie rivendicate da Baldi nelle conversazioni telefoniche con Luca Palamara. Il Fatto Quotidiano il 15 maggio 2020.

Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero. Il capo di gabinetto: “Che cazzo li piazziamo a fare i nostri?” Il capo di gabinetto del Ministero di Giustizia Fulvio Baldi si è dimesso. Le agenzie di stampa riferiscono “ragioni personali” molto sinteticamente. La reggenza è stata affidata al capo dell’ufficio legislativo, Mauro Vitiello. Le dimissioni arrivano poco dopo la telefonata con Il Fatto quotidiano (e la pubblicazione sul sito de ilfattoquotidiano.it dell’articolo di Marco Lillo e Antonio Massari: “Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero”) che ha letto a Baldi le intercettazioni delle conversazioni con Luca Palamara del periodo aprile-maggio 2019. In quelle conversazioni Baldi parlava di raccomandazioni in favore di una pm e di una giudice che volevano andare a lavorare al Ministero di via Arenula. Intorno alle 20, terminata la telefonata, Baldi ha avuto un colloquio con il Ministro Alfonso Bonafede. Alla fine del colloquio si è deciso a dare le dimissioni dal suo incarico che ricopriva dal 28 giugno del 2018.

Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero. Il capo di gabinetto: “Che cazzo li piazziamo a fare i nostri?” Fonti vicine al ministro fanno sapere che Bonafede non ha apprezzato le logiche correntizie rivendicate da Baldi nelle conversazioni telefoniche con Luca Palamara. Il Capo di Gabinetto (ovviamente mai indagato) parlava con il suo amico e compagno di corrente nel periodo in cui Palamara era indagato e intercettato dal Gico della GdF di Roma in un’inchiesta segreta dei pm di Perugia che da poche settimane si è chiusa con il deposito degli atti e l’accusa di corruzione nei confronti dell’ex consigliere del Csm. All’epoca Baldi, che ha militato per moltissimi anni in Unicost, corrente centrista della quale Palamara era leader e consigliere Csm uscente, non poteva sapere che Palamara era indagato, ma poteva conoscere l’esistenza del fascicolo perugino (allora senza indagati) che fu svelata dal Fatto il 27 settembre del 2018. Il posto di capo gabinetto resta vacante, ma Alfonso Bonafede ha per ora affidato la reggenza proprio a Mauro Vitiello, il capo dell’ufficio legislativo citato nelle intercettazioni di Palamara con Baldi. Mauro Vitiello, a detta di Baldi, dopo un colloquio ad aprile 2019 con una pm di Modena che voleva venire al ministero, non aveva voluto prenderla. La dottoressa Katia Marino era stata raccomandata a Baldi da Luca Palamara. Tuttora lavora alla Procura di Modena e ovviamente non ha nessuna colpa in questa vicenda, avendo solo chiesto all’amico Luca Palamara che stava a Roma se c’era bisogno di una persona nello staff del Ministero. Baldi nelle intercettazioni sosteneva che Vitiello fosse contrario anche perché di area MD, la corrente progressista della magistratura contrapposta di Unicost. Però, come ha spiegato Baldi ieri al Fatto durante il colloquio precedente alle sue dimissioni, “io pensavo allora fosse di Md poi ho scoperto che Vitiello non ne fa parte”. Ora Alfonso Bonafede deve decidere chi sarà il suo nuovo capo di gabinetto, una posizione nevralgica per il funzionamento del ministero.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 15 maggio 2020. L'articolo della Verità sulle chat di Luca Palamara ieri ha fatto il giro degli uffici giudiziari, del Csm e delle mailing list delle toghe. In molti sono rimasti colpiti dai discutibili messaggi del consigliere del Csm Marco Mancinetti, sino all' anno scorso in strettissimi rapporti con lo stesso Palamara, oltre che suo compagno di corrente in Unicost. Ma nelle chat depositate presso il tribunale di Perugia spunta anche il nome di David Ermini, attuale vicepresidente del Csm, al cui vertice c' è il capo dello Stato, Sergio Mattarella. Dai messaggi emergono i vecchi rapporti con il pm sotto inchiesta, con Cosimo Ferri e Luca Lotti, lo stesso gruppo che ha sostenuto nel maggio 2019 la candidatura a procuratore di Roma di Marcello Viola, rovinando la carriera di diversi consiglieri del Csm presenti alle riunioni.

I contatti tra Ermini e Palamara iniziano nel luglio 2018. Si erano appena svolte le elezioni per la nomina dei consiglieri del parlamentino dei giudici ed erano iniziate le grandi manovre per nominare il vicepresidente. Palamara era consigliere uscente. «Ciao Luca. Io sono a Roma. Penso di rimanere fino a giovedì o venerdì mattina» scrive Ermini, in quel momento candidato per la prestigiosa poltrona del Giglio magico. Palamara gli dà appuntamento all' hotel Montemartini. «Quando vuoi puoi chiamare Luigi Spina (pm indagato con Palamara a Perugia, ndr) che aspetta tua chiamata», gli fa sapere.

Il 19 settembre 2018 il consigliere uscente in quota Maria Elena Boschi, Giuseppe Fanfani, manda questo messaggio a Palamara: «Confermo martedì ore 21 a casa mia cena riservata io, te, Cosimo e David». Alla serata, a quanto risulta alla Verità, si unirà Lotti. Palamara il 24 settembre fa sapere al futuro vicepresidente che «tutto procede bene» per la sua elezione a vice del Csm. «Grazie», è la risposta. Il giorno della vittoria Palamara festeggia Ermini: «Godo! Insieme a te!». Il neoeletto richiama, ma la telefonata va persa.

Lo stesso giorno Il Fatto Quotidiano ha dato la notizia dell' informativa a carico di Palamara inviata dalla Procura di Roma a Perugia. Ma questo non è sufficiente a raffreddare i rapporti tra il grande elettore e il beneficiato. Il 2 ottobre Palamara propone: «Caro Davide se riesci e non sei stanco ci beviamo una cosa da me dalle 23.30 con Cosimo e Luca (probabilmente sempre Lotti, ndr)». Ermini non può, ma il 3 ottobre, verosimilmente con la stessa compagnia di giro, accetta di prendere un caffè al Montemartini.

 Il 12 riscrive Palamara: «Caro David puoi bloccare se non hai altri impegni 22 o 24 ottobre sera? Volevo organizzare cena ristretta con Cafiero de Raho (Federico, procuratore nazionale antimafia, ndr). Un abbraccio e quando vuoi caffè».

Ermini: «Ok. Per ora sono libero tutte e due le date. Fammi sapere». Palamara: «Blocchiamo 22 ottobre». Ermini: «Ok fatto». Al messaggio seguono due pollicioni gialli. Il 17 ottobre il pm torna alla carica: «Caro David ci possiamo sentire un istante appena puoi?». Ermini: «Ti chiamo dopo plenum della mattina». Tra le prime uscite pubbliche del vicepresidente ci sono quella per il seminario della corrente di Magistratura indipendente e quella per il congresso dell' Unione delle camere penali a Sorrento. Entrambi gli appuntamenti si sono tenuti il 19 ottobre 2018. Due giorni prima Palamara scrive: «Per domani entro le 13 ti mando traccia intervento». Il 18 ottobre forse la bozza non è arrivata, perché Ermini sollecita: «Mi mandi un paio di punti per la traccia dell' intervento di domani?».

Passano pochi minuti e il pm replica: «Mi hanno assicurato entro mezz' ora arriva tutto [] Inviata».Qualche giorno dopo Palamara informa il nuovo amico: «Confermato domani sera ore 21 ristorante mamma Angelina». Il 26 ottobre il magistrato si complimenta: «Grande David, ottima intervista: precisa, chiara, puntuale. Ci vediamo a pranzo martedì con Riccardo (probabilmente Fuzio, ex procuratore generale della Cassazione indagato con Palamara a Perugia, ndr)». Ermini: «Ok! Grazie mille».

Il 13 novembre Palamara informa l' interlocutore: «Sono dentro». Il 19 fissano un altro appuntamento. Palamara: «Ciao David ci vediamo dopo Mattarella?». Ermini: «Allora ci vediamo dopo le 12.15. Per me ok». Il 20 novembre commentano un' intervista televisiva di Pier Camillo Davigo: «Anche stasera Davigo debole», è il giudizio di Palamara. «Va troppo spesso in tv... secondo me così si inflaziona [] alla fine non fa più notizia», chiosa Ermini. Il 20 dicembre i due fissano per un caffè al Montemartini, ma poi con un lungo messaggio di giustificazione Ermini annulla l' appuntamento.

Palamara il 14 gennaio propone un' altra cena con Cafiero de Raho e Riccardo. Ermini: «Il 21 non ci sono. Il 22 va bene». Il 20 gennaio Palamara si complimenta («Bravissimo»), Ermini ringrazia. Il 21 gennaio: «Confermato domani sera ore 21 a casa mia [] ci saranno Cafiero, Riccardo e Cosimo». Ermini: «Ok». Il 25 gennaio nuovi complimenti del pm sotto inchiesta a Ermini: «Hai fatto grande intervento... ottimo anche passaggio su Csm e giudice Anm. Un abbraccio». Ermini è soddisfatto: «Grazie Luca!».

A febbraio Palamara vuole coinvolgere il vicepresidente in un torneo di calcio in Calabria. Ermini prova a obiettare che lo stesso giorno «c' è un mega convegno a Milano». Ma a togliere le castagne dal fuoco ci pensa lo stesso Palamara spiegandogli che ha rinviato «l' evento culturale e sportivo» a dopo la chiusura delle scuole: «Quindi puoi cancellare impegno del 12 aprile e andare tranquillamente a Milano», gli concede Palamara. «Ok grazie», ribatte grato Ermini. Il 22 febbraio 2019 Il Fatto pubblica un articolo intitolato: «Ermini e i pasdaran pd, la rimpatriata a pranzo». Palamara: «Ho letto ora quello schifo». Ermini: «Grazie». Gli ultimi messaggi vengono scambiati alla vigilia dell' esplosione dello scandalo.

Palamara: «Caro David siamo in ripartenza da Pristina ci vediamo presto a Roma. Buona permanenza (in Kosovo, ndr) un abbraccio». Ermini: «Grazie. Buon Viaggio! Ho visto la foto della squadra!». Dalle carte spuntano anche le presunte invasioni di campo di Stefano Erbani, consigliere giuridico di Mattarella, ex magistrato segretario del Csm ed esponente di spicco di Magistratura democratica. A parlarne sono Palamara e Valerio Fracassi, capogruppo al Csm del cartello di Area, quello dei giudici di sinistra. Il 27 marzo 2018 Fracassi chiede a Palamara di spingere su Fuzio per rinviare la nomina del vicesegretario del Csm. Dice testualmente: «Erbani non può imperversare così». In un altro messaggio si lamenta: «Decide tutto Erbani». Il 10 aprile aggiunge: «Erbani sta contattando anche Fuzio. Credo che ora esageri e merita una risposta».

Il 12 aprile commenta: «Siamo alla volata finale. Erbani sostiene di aver parlato con ciascuno di voi e di avere ottenuto assenso». A voler credere a queste chat Erbani si comporta come se fosse un consigliere del Csm o un capo corrente. Fracassi continua: «L' uomo è pericoloso! Fidati!». E fa un invito a Palamara: «Usa la stessa determinazione che hai adoperato quando hai fatto vincere Fuzio contro le indicazioni di Giovanni Legnini (all' epoca vicepresidente del Csm, ndr)». Dalle chat si evince che un altro tema di discussione è la riorganizzazione della sezione disciplinare. Fracassi: «Chi sai tu (forse un altro consigliere di Area, ndr) si è sentito più forte e ha pensato che ormai se rovescia il tavolo può farlo senza conseguenze perché io sono più debole. Per il disciplinare qualcuno è andato anche da Erbani che ne ha parlato a chi puoi immaginare. Tutto si collega a una delegittimazione complessiva e alla solita doppiezza di chi occupa i posti, ma poi fa il moralista sugli altri».

Grazia Longo per lastampa.it il 15 maggio 2020. Travolto dallo scandalo Palamara, si è dimesso il capo di Gabinetto del ministero della Giustizia. In una nota ministeriale si legge che Fulvio Baldi ha abbandonato il suo incarico «per motivi personali»,  dopo un colloquio con il Guardasigilli Alfonso Bonafede, avvenuto ieri sera. Ma la decisone presa coincide con le polemiche scaturite dopo le rivelazioni di un articolo de «Il Fatto quotidiano» che rivelava alcune conversazioni intercettate nell’ambito dell’inchiesta di Perugia tra il pm (ora sospeso) Luca Palamara e l’ex capo di Gabinetto del ministero, che risulta però estraneo alle indagini. L’inchiesta di Perugia è stata chiusa e dalle intercettazioni della Guardia di finanza emerge uno spaccato di forte ingerenza di Palamara anche al ministero. Bonafede ha comunque ringraziato Baldi per il lavoro portato avanti dal giugno 2018. La reggenza è stata momentaneamente affidata al capo dell’ufficio legislativo, Mauro Vitiello. Dalle carte delle indagini perugine si evince lo stretto rapporto di amicizia e «collaborazione» tra Fulvio Baldi e Luca Palamara. Quest’ultimo lo chiamava «Fulvietto» e lo contattava per ottenere favori in via Arenula. Gli suggeriva magistrate da sistemare negli staff nei ministeri. E Baldi rispondeva: «Te la porto qua stai tranquillo, perché è una considerazione che ho per te, un affetto che ho per te e lo meriti tutto». E se Palamara era perplesso Baldi lo rassicurava: «Se no che cazzo li piazziamo a fare i nostri?». Per  «nostri», con molta probabilità, si intendono  i magistrati di Unicost, la corrente moderata delle toghe, il cui leader era proprio il pm indagato nell’inchiesta sulle nomine al Csm. Fulvio Baldi, ex sostituto procuratore generale della Cassazione, candidato nel 2012 al Comitato Direttivo dell’Anm per Unicost per quasi due anni è stato il capo di Gabinetto di Alfonso Bonafede. Oltre a Baldi aderisce a Unicost anche Francesco Basentini, scelto dallo stesso Bonafede per guidare il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), fino alle recenti dimissioni. Basentini è il magistrato che a Potenza ha seguito le indagini su Total e poi su Eni. La sua inchiesta petrolifera nel 2016 portò alle dimissioni dell’allora ministra dello Sviluppo Federica Guidi. Nell’ufficio di gabinetto del ministero della Giustizia c’è anche Leonardo Pucci, vice di Baldi ed ex compagno di studi a Firenze di Bonafede. Assistente volontario del professor Giuseppe Conte dal 2002 fino al 2009, poi giudice del lavoro a Potenza dal 2009 al 2015. In Basilicata Pucci frequenta non solo Basentini ma anche Luigi Spina, che è diventato consigliere del Csm di Unicost, ed è stato travolto dall’indagine per le intercettazioni con l’amico Palamara.

Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera il 16 maggio 2020. «Mi sono dimesso per tutelare il ministro e l' istituzione, che vengono prima di tutto», spiega il magistrato Fulvio Baldi, da poche ore ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia per via di alcune intercettazioni tra lui e l' ex componente del Consiglio superiore della magistratura Luca Palamara. Il quale è indagato per corruzione dalla Procura di Perugia, come s' è scoperto un anno fa, ma fino ad allora era una delle toghe più influenti d' Italia; per le cariche ricoperte (è stato anche presidente dell' Associazione magistrati) e la disponibilità a dare e ricevere indicazioni e segnalazioni. È ciò che svelano le registrazioni dei suoi colloqui e dialoghi WhatsApp , emersi con la conclusione dell' inchiesta perugina. Compresi quelli in cui Palamara insisteva con Baldi (appartenente a Unità per la costituzione, la sua stessa corrente, scelto come capo di gabinetto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nel giugno 2018) perché portasse al ministero una collega: il 27 novembre 2018 la nominava scrivendogli «Ricordati», e il 15 aprile 2019, fallito ogni tentativo da parte di Baldi, si lamentava con i gruppi della sinistra giudiziaria: «L' hanno bruciata... i soliti». Un contesto che ha molto irritato Bonafede, ignaro di tutto e già turbato dal «caso Di Matteo», dall' emergenza scarcerazioni (vera o presunta che sia) che l' ha spinto a cambiare il vertice dell' Amministrazione penitenziaria, dalla mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni, in calendario la prossima settimana. E dopo il faccia a faccia con il ministro, il suo più stretto collaboratore non ha avuto alternative al passo indietro. Per provare a salvare il salvabile. Baldi non può negare di aver cercato di soddisfare le richieste di Palamara (anche con frasi poco piacevoli, del tipo «allora che cazzo piazziamo a fare i nostri?»), e ammette che «le chiamate al ministero si fanno su base fiduciaria, attraverso i filtri della conoscenza personale e la mediazione di altri; non ci vedo alcuna patologia». Dopodiché aggiunge: «Certe frasi appartengono al gergo sindacale, ma il ministro Bonafede non ha mai voluto sentire parlare di correntismo; io ho avvertito il suo imbarazzo e ho deciso di dimettermi». Conclusione: «Io parlavo con Palamara, autorevole esponente della mia corrente, già componente del Csm e presidente dell' Anm, che non aveva scritto "indagato" sulla fronte. Ma in questi due anni il ministro e il ministero non sono stati minimamente intaccati dal fenomeno del correntismo». Resta però il «fenomeno Palamara», che nonostante avesse lasciato il Csm continuava - per come emerge dalle intercettazioni - a tentare di condizionarne il funzionamento e le decisioni. Non solo con le ormai note riunioni segrete a cui partecipava assieme ai deputati Cosimo Ferri (giudice anche lui, leader-ombra di Magistratura indipendente) e Luca Lotti. Il 27 settembre 2018, giorno dell' elezione dell' ex parlamentare pd David Ermini a vice-presidente del Csm, frutto di un accordo tra Unicost e Mi, Ferri scrive: «Luca ho voglia di abbracciarti! Sei stato decisivo, straordinario, ma soprattutto ho trovato un amico che vale un tesoro». Palamara risponde: «Insieme non ci ferma più nessuno!!». In seguito i neo-alleati avranno di che lamentarsi dei comportamenti di Ermini, ma qualche ora dopo Palamara propone di fare «un bello scherzetto sul disciplinare (la sezione disciplinare da costituire nel nuovo Csm, ndr )», e Ferri replica: «Ci stavo pensando ora, incredibile». Una settimana dopo, evidentemente a fronte di un problema per il quale Palamara chiedeva un colloquio urgente, Ferri scrive: «Se regge blocco con Unicost è irrilevante. Non ti fidare tanto di quelli di Forza Italia, c' è dietro la Casellati (presidente del Senato, ex «laica» del Csm, ndr )». Tra i mille contatti di Palamara c' è pure il segretario del Pd Nicola Zingaretti, al quale il magistrato, di cui molti intuivano le aspirazioni politiche, fa grandi complimenti ad ogni affermazione o evento importante: la rielezione a governatore del Lazio, il lancio della candidatura alle primarie, l' elezione a segretario: «Grande Nicola!!!». Il resto del messaggi conservati sono per lo più appuntamenti per caffè o aperitivi, uno per la presentazione del nuovo commissario dell' istituto giuridico regionale. Il 28 maggio Palamara chiede un altro incontro, Zingaretti propone il 30, il 29 esce sui giornali la notizia che il magistrato è indagato per corruzione, l' appuntamento viene rinviato. L' indomani scatta la perquisizione a Palamara e il sequestro del telefonino.

Il retroscena: perché è stato silurato Fulvio Baldi, braccio destro di Bonafede. Paolo Comi su Il Riformista il 16 Maggio 2020. Non c’è due senza tre a via Arenula. Dopo le dimissioni del capo dell’Ispettorato Andrea Nocera, indagato per corruzione, quelle del capo del Dap Francesco Basentini, travolto per la (non) gestione delle carceri durante emergenza Covid-19, ecco il turno di quelle del capo di gabinetto Fulvio Baldi. La pubblicazione questa settimana sul Fatto Quotidiano dei suoi colloqui con Luca Palamara, contenuti nel fascicolo della Procura di Perugia che lo scorso anno terremotò il Csm, è stata fatale all’ormai ex uomo di fiducia di Alfonso Bonafede. “Fulvietto”, come lo chiama Palamara, più che un capo di gabinetto di un ministro, leggendo le trascrizioni delle conversazioni, sembra il capo dell’ufficio di collocamento magistrati. Palamara, già ras indiscusso di Unicost, la stessa corrente di Baldi, nell’estate del 2018 ha un problema: piazzare “fuori ruolo” due magistrate. Si tratta di Katia Marino, sostituto procuratore a Modena, e Francesca Russo, giudice del Tribunale di Roma. Baldi è pronto ad esaudire i desiderata di Palamara ma ha finito i posti al gabinetto del Ministero. Si rivolge al collega Mauro Vitiello, capo del Legislativo, ufficio dove i posti ci sono ancora. Vitiello, però, è di Magistratura democratica, la corrente di sinistra, e si mette di traverso. Palamara non si perde d’animo e cerca una sponda con Nicola Clivio, suo collega al Csm in quota Md, ma senza successo. L’exit strategy, per non fare brutta figura, pare essere il Dag, il Dipartimento degli Affari di Giustizia (all’interno del quale c’è la direzione che Bonafede voleva dare in quelle settimane a Nino Di Matteo, ndr), presidiato da Maria Casola, altra esponente di punta di Unicost. Palamara è dubbioso sulla soluzione proposta da Baldi e quindi chiede: «Se la prende lei o no?». Baldi replica: «Eh beh ma la Casola è nostra ragazzi, gliela indichiamo noi che cazzo, e allora che cazzo piazziamo a fare i nostri?». Passando i giorni senza che situazione si sblocchi, ecco spuntare dal cilindro di Baldi l’Ufficio contenzioso del Ministero degli esteri. A differenza degli incarichi a via Arenula questo posto non ha indennità economiche aggiuntive. E poi c’è il problema della lingua inglese che il giudice Russo non conosce. L’esplosione del caso Palamara qualche mese più tardi interrompe l’attività dell’ufficio di “collocamento” e le due magistrate restano al loro posto. Sul fronte del Csm, invece, altre intercettazioni riportate dal quotidiano La Verità, molto attivo in questa fase insieme al Fatto (nel silenzio, invece, del Corriere, Repubblica e Messaggero, i giornali che lo scorso anno pubblicarono le intercettazioni che costrinsero alle dimissioni cinque consiglieri, cambiando gli equilibri al Csm e stoppando la corsa di Marcello Viola alla Procura di Roma), hanno svelato ieri il ruolo di Md, la corrente del molto attivo presidente dell’Anm Luca Poniz, nella spartizione degli incarichi. Attività che si pensava fosse esclusivo appannaggio del duo Palamara-Cosimo Ferri. Dai colloqui con Massimiliano Fracassi, nella scorsa consiliatura capo delegazione delle toghe di sinistra a Palazzo dei Marescialli, si discute della nomina del vice segretario generale del Csm.  Nella scelta sembra si sia intromesso Stefano Erbani, esponente di Md distaccato al Quirinale. «L’uomo è pericoloso, fidati», dice allora Fracassi a Palamara. L’incarico andrà poi a Gabriele Fiorentino, componente del comitato esecutivo di Md. Palamara, comunque, ha un rapporto di ferro con David Ermini (Pd) da lui imposto alla vicepresidenza del Csm. I due si sentono spessissimo. Il giorno dell’elezione Palamara gli scrive due messaggi: “Godo!!!” e “Insieme a te!!!”. Ermini ha in grande considerazione Palamara al punto che, bypassando gli Uffici relazioni esterne del Csm, gli chiede la cortesia di scrivere gli interventi che deve pronunciare ai convegni. In attesa della probabile pubblicazione di ulteriori intercettazioni, alcuni aspetti non tornano. Il primo è come mai il livello di fiducia dei cittadini italiani nella magistratura sia ancora attestato su un elevato 36%. Il secondo riguarda i laici del Csm, stimati professori universitari e avvocati, che continuano ad entrare a Palazzo dei Marescialli senza provare alcun disagio.

Carceri, dopo le scarcerazioni dei mafiosi via il capo dell’ufficio detenuti.

Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 da Liana Milella su La Repubblica.it Era stato condannato per l'omicidio dell'agente Magli. Giulio Romano era al vertice della struttura che si occupa specificatamente del controllo sui detenuti. Si sarebbe dimesso "per ragioni personali". Ancora dimissioni al vertice delle carceri. Dopo il direttore Francesco Basentini, lascia adesso il direttore dell’ufficio detenuti Giulio Romano, una figura gerarchicamente strategica nel Dap, poiché sovrintende proprio alla collocazione dei reclusi nelle singole prigioni, ne controlla e autorizza gli spostamenti, si occupa anche del loro trattamento. Per intenderci, quando al vertice di questa struttura c’era l’attuale pm di Marsala Roberto Piscitello fu lui che seguì i casi di Riina e Provenzano che chiedevano, per gravi motivi di salute, di lasciare i rispettivi penitenziari per essere trasferiti in normali ospedali. Piscitello invece propose soluzioni interne, cioè le sezioni degli ospedali già attrezzate per ospitare i detenuti posti al 41bis. Il vertice dell’ufficio detenuti, lo dice la parola stessa, è strategico nella gestione di chi entra ed esce dalle carceri, della sua sistemazione, dei suoi trasferimenti per i processi, dei compagni di cella. Si tratta di un vero e proprio osservatorio che deve avere una sensibilità estrema su quanto accade ogni giorno nelle prigioni. Giulio Romano era al Dap da febbraio, quindi da pochi mesi. Proveniva dalla Cassazione, dov’era stato sostituto procuratore generale dopo un passato da magistrato di sorveglianza. Lo scrive il sito Poliziapenitenziaria.it che dà la notizia delle dimissioni, senza fornire ulteriori informazioni. Arido di notizie anche il ministero, nonché il vertice del Dap: per tutti è stato Romano stesso a lasciare. Ma non ci vuol molto a leggere le sue dimissioni dopo le polemiche dei giorni scorsi sulle scarcerazioni dei quasi 500 mafiosi (di cui però la metà non definitivi, quindi in stato di carcerazione preventiva), di cui tre al 41 bis, ma gli altri collocati nell’area cosiddetta di Alta sorveglianza Tre, quella più attenuata, nella quale comunque sono reclusi capi e picciotti organici a Cosa nostra. Ormai è noto che una causa scatenante delle scarcerazioni decise dai magistrati di sorveglianza è stata  la circolare del 21 marzo in cui il Dap scriveva ai suoi provveditori e direttori delle carceri per sollecitare l’invio senza ritardo alla magistratura, in relazione al rischio Covid, degli elenchi di detenuti con gravi patologie (di cui c’era anche l’elenco), nonché di quelli che superavano i 70 anni.  Un foglio firmato di sabato da una funzionaria. Che invece, proprio per il suo significato e le conseguenze che poteva produrre (come in effetti ha prodotto), avrebbe dovuto essere firmato da un responsabile ad alto livello delle prigioni. Quel foglio, comunque, una volta giunto sui tavoli dei magistrati, ha sortito l’unico effetto che poteva avere: valutare la segnalazione del Dap come un motivo in più per scarcerare e mettere ai domiciliari chi chiedeva di uscire in quanto malato. Così è avvenuto. La circolare, di fatto, è già costata la testa del direttore Basentini, che il primo maggio ha rassegnato le dimissioni. Nel frattempo il Guardasigilli Alfonso Bonafede aveva nominato anche un vice capo del dap, l’ex pm Roberto Tartaglia, occupando una poltrona che era rimasta vuota. Nonché il nuovo capo, l’ex procuratore generale di Reggio Calabria Dino Petralia. Adesso, con il passo indietro di Romano, si chiude il cerchio delle responsabilità che hanno portato alle scarcerazioni, anche non valutando a fondo le conseguenze di una circolare come quella del 21 marzo. Ma nel frattempo non solo è scoppiata la polemica su Bonafede, ma il governo ha dovuto fare ben due decreti legge per rivalutare le scarcerazioni già fatte. Sono tornati dentro Francesco Bonura, Cataldo Franco, Carmine Alvaro, Antonino Sacco. Ieri è stata rinviata, per difetti nella notifica, la seduta del tribunale di sorveglianza di Sassari che deve rivalutare i domiciliare di Pasquale Zagaria. 

Uno scandalo il ministero di giustizia in mano ai Pm. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 17 Maggio 2020. Come era del tutto prevedibile, le intercettazioni depositate dalla Procura di Perugia a conclusioni delle indagini su quello che si è voluto fino ad oggi spacciare come “il caso Palamara”, terremotano da subito gli assetti e gli equilibri della magistratura italiana: si è appena dimesso il capo di Gabinetto del Ministero di Giustizia, e ne vedremo ancora delle belle. Intanto, sarebbe il caso di piantarla con questa definizione di comodo della inchiesta, che non riguarda una persona ma, come è del tutto evidente, un sistema ben radicato e strutturato, da sempre al centro dell’attenzione e dell’impegno associativo della magistratura italiana. È il sistema dei “fuori ruolo”, cioè del massiccio trasferimento di centinaia di magistrati dal ruolo per il quale hanno vinto il concorso a ruoli di primo piano nei vari Ministeri, in primis quello di Giustizia ovviamente, per i quali non è ben chiaro quali titoli possano esattamente vantare più di un pubblico funzionario che abbia invece vinto uno specifico concorso nella Pubblica Amministrazione. Il sistema funziona benissimo da anni, è strutturato ed oliato a puntino per riprodurre in questo organigramma di vero e proprio sconfinamento tra poteri dello Stato i tumultuosi equilibri correntizi della magistratura. Come tutti i sistemi di potere, esso esprime di volta in volta uno o più protagonisti, uno o più leader, con connotazioni e qualità personali diversi, con inciampi o degenerazioni più o meno evidenti e gravi: ma il sistema resta, ed è quello il problema, non le persone che lo interpretano meglio o peggio. Siamo un caso unico nel mondo, e non c’è verso che qualcuno ce ne spieghi la ragione in modo convincente. Soprattutto perché si tratta di un sistema che letteralmente sovverte il principio fondamentale della separazione dei poteri. O vogliamo forse sostenere che la foglia di fico della collocazione fuori ruolo risolva questo scandalo costituzionale? Le intercettazioni depositate dalla Procura perugina dovrebbero finalmente porre fine alla sceneggiata delle solite anime belle che ora trasecolano, e dell’esercito di ipocriti o di pavidi che da sempre fingono di non capire. Il Ministero di Giustizia nel nostro Paese è consegnato mani e piedi alla Magistratura associata, che lo occupa con scientifica precisione quale che sia il colore del governo democraticamente eletto […]. Questo quadro di alterazione del rapporto tra poteri costituzionali è aggravato e reso ancora più inquietante dal peso davvero abnorme che la giurisdizione penale ha, come è a tutti noto, assunto da venticinque anni a questa parte sull’ordinario fluire della vita politica ed amministrativa nel nostro Paese. La Politica, sia locale che nazionale, è sempre più evidentemente ridotta ad un ruolo ancillare rispetto al potere giudiziario. D’altronde, non potrebbe essere diversamente, visto come in questo Paese possa essere sufficiente la iscrizione nel registro degli indagati per segnare le sorti politiche di un Ministro, di un sindaco, di un Governatore, e delle rispettive maggioranze politiche […]. Dunque, quello che va in scena a Perugia non è il caso Palamara ma è il caso Italia: una democrazia malata, con un potere giudiziario strabordante ed incontrollabile, dentro e fuori dai propri ambiti funzionali, ed una classe dirigente che, da ultimo, conquistato il potere proprio con le armi della criminalizzazione dell’avversario politico e la santificazione della magistratura, ora raccoglie i cocci di questo disastro e ne viene travolta […]

Dagospia il 17 maggio 2020. Rispondendo a un lettore del Fatto, ieri Travaglio ritorna sul caso Di Matteo-Bonafede: “Di Matteo ha accettato in prima battuta l’incarico agli Affari penali, allora Bonafede ha affidato il Dap a Basentini, ma poche ore dopo Di Matteo ha cambiato idea. Cosa legittima, che però gli ha impedito di andare al Dap, già occupato”. "Non ho mai fatto trattative politiche con nessuno, ma venni raggiunto da una telefonata del ministro Bonafede che mi chiese se ero interessato a diventare capo del Dap o prendere il posto di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo, nel frattempo ero stato informato della reazione preoccupata all'indiscrezione da parte del mondo mafioso. Dopo meno di 48 ore andai trovare il ministro che mi disse che ci aveva ripensato e mi chiese di accettare il ruolo di direttore generale degli affari penali del ministero. Nel giro di 48 ore mi sono ritrovato a essere designato a capo del Dap e quando accettai mi trovai di fronte a questo cambio".

Liberoquotidiano.it – del 6 maggio 2020. Nino Di Matteo non smentisce una virgola di quanto annunciato in diretta a Non è l'Arena sulla sua mancata nomina alla presidenza del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. "I fatti sono quelli, il mio ricordo è preciso e circostanziato" ribadisce in una lunga intervista a Repubblica. Il pm antimafia racconta di una telefonata di Alfonso Bonafede avvenuta il 18 giugno scorso. "In quell'occasione il ministro della Giustizia mi pose l'alternativa, andare a dirigere il Dap oppure prendere il posto di capo degli Affari penali. Aggiunse che dovevo decidere io e subito perché mercoledì ci sarebbe stato l'ultimo plenum utile del Csm per presentare la richiesta di fuori ruolo. Richiesta che era urgente per il Dap, ma non lo era per la direzione degli Affari penali". E così Di Matteo decise: "Andai a Roma da lui e gli dissi che accettavo il posto di capo del Dap. Lui però, a quel punto, replicò che aveva già scelto Basentini, mi chiese se lo conoscessi e lo apprezzassi. Risposi di no, che non lo avevo mai incontrato". Una vera e propria sorpresa. Per il pm "quella notte qualcosa mutò all'improvviso". Il Guardasigilli - stando al racconto di Di Matteo - insistette sugli Affari penali. Non dissi subito no, ma manifestai perplessità. Siamo a giugno, disse Bonafede, lei mi manda il curriculum, a settembre sblocchiamo la situazione". Ma queste non erano più le condizioni ottimali per il magistrato che, a quel punto, lo chiamò per dirgli che così non poteva andare. "Cose come queste sono indimenticabili - sottolinea -. Come il nostro ultimo scambio di battute. Io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali 'non c'è dissenso o mancato gradimento che tenga'. Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente mi ha fatto pensare".

Giacomo Amadori per la Verità il 17 maggio 2020. Dopo le dimissioni del capo di gabinetto del ministro Alfonso Bonafede «Fulvietto» Baldi, a traballare sono le poltrone di due consiglieri del Csm, il vicepresidente David Ermini, membro del parlamentino dei giudici in quota Giglio magico, e Marco Mancinetti, portabandiera della corrente Unicost in consiglio. Le loro chat, non meno imbarazzanti di quelle di Baldi, sono diventate di dominio pubblico, ma loro resistono. Almeno per ora. Il problema è che la marea di carte depositate nel cosiddetto caso Csm contiene messaggi e intercettazioni che non risparmiano neppure la coalizione dei giudici di sinistra, il cartello di Area. Infatti per un decennio Palamara ha deciso e spartito incarichi e promozioni con toghe progressiste come Valerio Fracassi, ex capogruppo di Area nella consiliatura 2014-2018. Il 15 marzo 2018 Fracassi scrive: «Ricordati che ti ho votato Pasca a patto che mi sistemassi Orlando!!!». Non basta. Prima di lasciare il posto al Csm Francassi chiede di non pubblicare il posto di presidente di sezione del tribunale di Brindisi «che è quello in cui tornerò». Così i vecchi portabandiera. Ma anche il nuovo capogruppo di Area al Csm, Giuseppe Cascini era legato a Palamara. Il quale, ai magistrati che lo interrogavano, un anno fa ha spiegato: «Con lui ho avuto sempre un rapporto stretto di amicizia, ho condiviso un' importantissima esperienza all' Anm e sono stato una delle persone che più di tutti ha favorito la sua nomina di aggiunto a Roma, che fu una nomina molto controversa e ostacolata». In effetti nel novembre 2017 Palamara incontra l' amico in un bar poco prima della votazione per la promozione. Poi lo informa in tempo reale degli esiti della prima tranche di nomine in quinta commissione. Ma il messaggio più atteso è questo: «4 voti Cascini, 1 Colaiocco». Palamara domanda: «Quando festeggiamo da Piero anche con Annina?». I due si danno appuntamento per diverse pause caffè e, in una chat, Cascini chiede come sia «messo» il collega Stefano Pesci per «aggiunto Bologna». Palamara ammette che è dura. Qualche mese dopo andrà meglio: «Anche Stefano ok. Lo porto unanime la prossima settimana», annuncia trionfante il king maker delle nomine nel febbraio 2018. Il 3 aprile Cascini, candidato al Csm, chiede a Palamara di potersi accodare in una trasferta per una partita di pallone, a cui non vuole, però, partecipare come calciatore («Ho appeso le scarpette al chiodo. Come Totti»): « Hai già fatto la squadra per Lecce? Io verrei come mascotte per bieche ragioni elettorali». Il 4 maggio 2018 Cascini chiede a Palamara di intervenire per arginare l' onnipresenza mediatica di Pier Camillo Davigo, oggi suo grande alleato: «Tu che hai rapporti con Enrico Mentana fagli presente che è una grave scorrettezza far fare tutte queste ospitate a Davigo candidato al Csm. In una settimana ha fatto Dimartedì e Piazzapulita». Palamara: «Già lo avevo fatto è una vergogna quello che fanno con Davigo». II 27 settembre 2018 sui giornali appare la notizia dell' informativa su Palamara per una presunta storia di corruzione inviata a Perugia dallo stesso Cascini e da altri colleghi. Eppure il 4 ottobre Cascini e Palamara fissano l' ennesimo appuntamento al bar Settembrini di Roma. Forse il campione di Area non riteneva particolarmente grave l' accusa formulata contro Palamara di aver scroccato qualche viaggio all' imprenditore Fabrizio Centofanti. Fatto sta che il 18 ottobre Cascini, nel suo piccolo, prova ad avere gratis un biglietto per il figlio per la partita di Champions league Roma-Cska Mosca. Infatti i consiglieri hanno diritto a un posto in tribuna autorità, i parenti no: «Ciao Luca hai qualcuno da indicarmi al Coni con cui posso parlare per i biglietti dello stadio per portare anche Lollo (il figlio ventenne, ndr)?». «Bisogna parlare direttamente con la segreteria. Ora mi informo e ti faccio sapere» lo ragguaglia l' amico. Cascini: «Io ho fatto la tessera per me. Ma quello che ho in segreteria al Csm dice che non danno altri biglietti». Per fortuna verrebbe da dire. Palamara chiede i dati di Lollo, ma purtroppo «le scorte biglietti in tribuna autorità sono esaurite» e il pm indagato prova a trovare un' altra soluzione: «Se vuoi chiediamo per altro posto alla Roma come per Rocco (figlio di Palamara, ndr)». «Non ti preoccupare ora vedo io», ribatte Cascini. Il quale prova a rendersi autonomo: «Però dammi contatto. Non posso romperti i coglioni per ogni partita». Grazie alle chat apprendiamo che Palamara si è dovuto preoccupare anche del fratello minore di Giuseppe Cascini, Francesco. Quest' ultimo, alla fine dell' estate del 2017, dopo essere stato fuori ruolo per quasi 11 anni al ministero, sta provando ad andare come pubblico ministero alla Procura di Roma anziché tornare a Napoli. Fortuna vuole che i tempi del suo rientro si allunghino sino alla pubblicazione del bando per un posto da pm nella Capitale. «Luca, ho mandato l' integrazione (documenti per aumentare il punteggio, ndr), sai qualcosa? [] secondo te come si mette?», scrive il candidato che si contende la poltrona con il collega Carlo Villani. Palamara: «Sto cercando di rimetterla a posto. Sono fiducioso». Cascini jr: «Luca grazie speriamo bene al plenum [] Grazie davvero senza di te non avevo speranze». Palamara: «Devo tenere a bada la San Giorgio (Maria Rosaria, una delle esponenti di punta di Unicost, ndr)». Qualche giorno dopo Palamara informa il suo pupillo che «sta andando bene in commissione (la terza, quella che si occupa dei trasferimenti, ndr)». Cascini jr: «Meno male, grazie. Ma sai quando va in plenum?». Palamara: «Non ancora, è combattuta». Cascini jr: «Ma non è già passata 3 a 3?». Palamara: «Stanno discutendo di nuovo». In quelle ore è in fibrillazione pure Cascini senior. A cui Palamara scrive: «Ora in terza (commissione, ndr) a difendere tuo fratello». Dopo poche ore la battaglia è vinta. «Francesco ok». «Grazie Luca», digita il fratello maggiore. «Grazie Luca», gli fa eco il fratello minore.

Simone Di Meo per la Verità il 17 maggio 2020. Quando esplose l' inchiesta per corruzione a carico di Luca Palamara, il procuratore di Milano Francesco Greco fu tra i più duri a fustigare quel «mondo che vive nei corridoi degli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana e che non ci appartiene e non appartiene ai magistrati del Nord... ci ha lasciato sconcertati». Era il giugno 2019. Eppure, agli atti dell' indagine di Perugia emergono anche i suoi Whatsapp con il Belzebù romano in toga. Messaggi di simpatica complicità. Come quello dell' 1 ottobre 2017, quando a Palamara dedica un «Grandi!!!». I due fanno riferimento a un viaggio non meglio specificato, e Greco spiega: «No, a Milano non ci vado... per scaramanzia! Comunque la squadra comincia a girare». La replica di Palamara è positiva: «Si sta migliorando nettamente». La conversazione continua ancora per qualche minuto e si conclude con un appuntamento a Roma. «Al solito posto», gli ricorda Greco (ovviamente non indagato). Con la Procura del capoluogo lombardo, l' ex presidente dell' Anm sembra avere un feeling particolare. Angelo Renna, che da membro della segreteria Unicost definì l' inchiesta di Perugia una «Caporetto» per la magistratura, è tra i contatti più frequenti nel Whatsapp di Palamara. Non solo in occasione degli auguri per le feste comandate, ma soprattutto per parlare delle politiche correntizie e delle nomine negli uffici giudiziari del distretto. «Si, ho proprio grande interesse di fare il punto della situazione con te. Ps: giunge fino qui, nel profondo nord, l' eco della tua maestria nelle nomine dei vertici della Cassazione», gli scrive il 16 dicembre 2017 Renna (anche lui non indagato). Il sostituto procuratore milanese coltiva l' ambizione di andare a fare l' aggiunto («pensavo di chiedere pure Brescia oltre a Bergamo») e spesso si rivolge all' amico per ottenere qualche consiglio. Il 12 marzo, infatti, gli invia questo messaggio: «Caro Luca, venerdì Greco mi ha manifestato sostegno per Brescia, dicendosi disposto a dire ai suoi di sostenermi. Ho raccolto l'endorsement, ma non mi muovo senza che tu mi dica se e che fare... Te lo dico, perché sia tu a valutare. Sei certo molto più bravo di me e, se mi consenti, ti considero un amico e quindi mi affido totalmente. Un abbraccio». Le risposte di Palamara quasi mai entrano nel vivo della questione, almeno quelle che sono state trascritte e depositate agli atti, limitandosi a valutazioni generiche o di attesa. Eppure, Renna pende dalle sue labbra. Tant' è che, dopo una promessa di interessamento da parte del più navigato magistrato, il pm milanese gli rivolge questa dedica affettuosa: «Grazie, quasi mi vergogno a dirlo, ma mi emozioni». E aggiunge, per meglio chiarire il concetto, due emoticon sorridenti. Non sempre però i propositi di Renna si realizzano, e allora giunge il sostegno consolatorio dell' amico pm di Roma. A cui la toga milanese risponde così: «... grazie per la franchezza e la schiettezza della telefonata (sic, ndr) di ieri. Per me significa molto, significa stima e amicizia cioè quello che conta nella vita. Buon fine settimana, caro Luca!». Oltre che alla sua carriera, Renna è interessato anche a quella degli altri. Per questo lancia a Palamara qualche palla da schiacciare. Il 7 ottobre 2017, di buon mattino lo stuzzica con questo messaggio: «E che ne pensi di fare lo sgambetto a Massenz e votare Serafini in Plenum? In Area (il cartello di sinistra dei magistrati, ndr) volerebbero stracci». Una decina di giorni dopo, ritorna alla carica, ma con un altro obiettivo: «Se riuscite a fottere la Savoia sarebbe un gran colpo». Ma Palamara non gli risponde. Dalla chat di Renna si intuisce anche che il suo capo, Greco, avrebbe segnalato all'ex boss di Unicost il nome di Laura Pedio come procuratore aggiunto a Milano nel corso dell' incontro romano del 3 ottobre 2017. Nomina poi arrivata a metà novembre di quello stesso anno.

Guerra tra toghe, Mi denuncia “l’occupazione” del potere delle correnti. Il Dubbio il 18 maggio 2020. Caso Palamara, il durissimo attacco di Magistratura Indipendente: “I protagonisti involontari dei nuovi dialoghi sono i Savonarola di un tempo: i duri e puri che gridavano il loro sdegno li vediamo arroccati nel bunker, si cimentano in sottili distinguo o in maldestri equilibrismi dialettici”. “Già all’indomani dei fatti dello scorso maggio Magistratura indipendente ebbe a indicare il pericolo della superficialità e sommarietà con cui si stavano valutando i noti fatti, tanto da ricordare l’espressione trasformista propria del gattopardismo: "se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi". Con un insopportabile moralismo di maniera ci si è accaniti in modo feroce contro pochi individui, convinti di poter così eludere la realtà e far finta di voler cambiare voltando frettolosamente pagina. Nulla di più errato, insensato e delegittimante”. E’ quanto sottolinea Magistratura Indipendente, in una nota a forma del presidente Mariagrazia Arena, e del segretario Paola D’Ovidio. “Ci trovavamo di fronte ad un allarme, un problema ben più serio e generalizzato che avrebbe richiesto in sede associativa una immediata autocritica collettiva Invece si è preferito cercare la strada più rapida e antidemocratica per la occupazione del potere da parte di una corrente in danno dell’altra”. “Negli ultimi giorni, con una seconda ondata di notizie giornalistiche, sono stati pubblicati stralci di messaggi whatsapp. Per uno strano scherzo del destino, i protagonisti involontari dei nuovi dialoghi sono i Savonarola di un tempo: i duri e puri che gridavano il loro sdegno li vediamo arroccati nel bunker, si cimentano in sottili distinguo o in maldestri equilibrismi dialettici. La Giunta dell’Anm, che un anno fa convocò un Cdc d’urgenza ed assemblee immediate chiedendo dimissioni ed esprimendo giudizi morali, oggi tace – denuncia Mi – evidentemente incapace di individuare soluzioni basate su una, smarrita quanto inutilmente sbandierata, Etica della responsabilità”. Il gruppo di Magistratura Indipendente, ricordano presidente e segretario, “ha avviato per tempo, rispetto a quelle drammatiche vicende, un percorso di sofferta autocritica, operando subito un radicale cambiamento e procedendo, nel segno del totale rinnovamento, unico gruppo nel panorama associativo, a un avvicendamento integrale nelle cariche statutarie al fine di favorire il più ampio contributo di sensibilità ed esperienze professionali”. “Se si vuole (tentare di) restituire credibilità e decoro alla magistratura, è necessario, ora come allora, un atto di riflessione e di autoresponsabilità anche da parte delle altre componenti associative e di tutti coloro che si trovano coinvolti: costoro pensavano forse di essere esenti e che quanto sta emergendo sulla libera Stampa non li colpisse, ma così non è stato. Ciò senza indulgere affatto – assicura Mi – sulle condotte che hanno investito anche Magistratura Indipendente per le quali, è bene ricordarlo, tre Consiglieri del Csm si sono dimessi un anno addietro, a ciò determinati, oltre che per sensibilità istituzionale, da una inaudita, terribile ferocia condita da processi sommari con l’individuazione delle loro persone quali unici capri espiatori”.

L’ATTACCO ALL’ANM. “In questi giorni più testate giornalistiche, con la curiosa assenza di quelle più diffuse, hanno nuovamente consegnato, con un tempismo che fa riflettere, al pubblico dei lettori porzioni di conversazioni di tenore simile a quelle dell’ormai noto caso Palamara, con alcuni nuovi, e molti noti, protagonisti” ma “il governo dell’Anm, con alla guida Area, tace, osserva, medita e non si scandalizza, non favella; eppure alcuni dei timonieri attuali si stracciarono le vesti nel mese di maggio 2019 a fronte di pubblicazioni di intercettazioni con protagonisti, in parte, diversi”. A denunciarlo, in una nota, sono i rappresentanti di Magistratura indipendente nel Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati Gli esponenti di Mi chiedono che “chi governa l’Associazione nazionale magistrati sui più recenti accadimenti prenda posizione; non intendiamo imbastire processi mediatici o di piazza, che lasciamo agli altri, ma vogliamo capire quale reale percorso di rinnovamento abbiano intrapreso i colleghi che, scossi dagli eventi del maggio 2019, oggi governano l’Associazione”.

Bruti Liberati: «Cari magistrati, è ora di finirla con i deliri di onnipotenza». Errico Novi su Il Dubbio il 16 maggio 2020. L’ex procuratore capo di Milano: «Si volti pagina, come chiede il presidente Mattarella: i magistrati devono ritrovare la fiducia dei cittadini». Con Edmondo Bruti Liberati l’espressione “leadership” può declinarsi a pieno anche rispetto alla magistratura. Non solo perché si tratta di una figura che ha guidato l’ufficio inquirente chiave del Paese, la Procura di Milano: Bruti Liberati è stato anche leader in senso stretto di Magistratura democratica, gruppo storico e decisivo dell’associazionismo giudiziario. Ora assiste ai tormenti delle toghe, che non risparmiano gli uffici di via Arenula. E usa un’espressione: amarezza. «È amaro», dice, «vedere un magistrato in preda a un delirio di onnipotenza e altri, non tutti, che non hanno la prontezza di rigettare il suo approccio».

Le notizie sull’indagine di Perugia possono radicare nell’opinione pubblica un’immagine desolante della magistratura?

«Le notizie emerse mostrano un preoccupante decadimento di costume, di cui è indice anche un linguaggio non commendevole, che coinvolge alcuni magistrati in posizioni di rilievo. È amaro vedere un magistrato in preda a un delirio di onnipotenza e altri, non tutti, che non hanno la prontezza di rigettare il suo approccio».

Ma non si tratta di fatti di rilievo penale.

«No e, pare, neppure di rilevo disciplinare: riguardano alcuni singoli magistrati, ma non voglio minimizzare perché viene coinvolto il Csm. Le vicende che oggi vengono alla luce sono degli anni scorsi e arrivano fino ai primi mesi del 2019 toccando il Csm attualmente in carica. Ricordiamo il severo monito rivolto dal presidente Mattarella nella seduta straordinaria del Csm del 21 giugno dello scorso anno: “Oggi si volta pagina nella vita del Csm, la prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficoltà e fatica di impegno. Dimostrando la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione. Occorre far comprendere che la Magistratura italiana – e il suo organo di governo autonomo, previsto dalla Costituzione – hanno al proprio interno gli anticorpi necessari e sono in grado di assicurare, nelle proprie scelte, rigore e piena linearità”».

Quel monito si è tradotto in un effettivo cambio di passo?

«A me pare che una risposta vi sia stata: sia pure dopo qualche titubanza, tutti i consiglieri in qualche modo coinvolti hanno rassegnato le dimissioni, taluni dall’incarico al Csm, altri dalla magistratura. E viviamo in un Paese in cui le dimissioni, a prescindere da un’indagine penale, sono un evento tutt’altro che frequente».

Ma nel Paese la magistratura è stata a lungo considerata un baluardo di credibilità e autorevolezza, nel vuoto di classi dirigenti sempre più pallide: crede che quel baluardo regga ancora, agli occhi dell’opinione pubblica?

«La giustizia si regge sulla credibilità della magistratura, i magistrati sono espressione di un Paese che vede una crisi delle classi dirigenti e una pericolosa svalutazione delle competenze. Le riforme degli studi universitari e post universitari, con le migliori intenzioni, hanno prodotto effetti pessimi. Si è creato un lungo periodo di parcheggio, di pochissima utilità sotto il profilo della formazione, che induce i migliori a trovare altri sbocchi professionali, seleziona per censo coloro che hanno alle spalle una famiglia in grado di mantenerli agli studi fino a trent’anni, stempera nella attesa gli entusiasmi».

Quadro desolante: come si fa a cambiarlo?

«È urgente consentire ai giovani laureati, dopo il quinquennio di studi di giurisprudenza, di affrontare subito il concorso per l’accesso in magistratura. Per i vincitori si deve prevedere un più lungo e organizzato periodo di tirocinio presso la Scuola Superiore della Magistratura. La nostra Scuola, arrivata buona ultima in Europa, ha acquisito efficacia e autorevolezza, grazie anche alla guida dei tre presidenti che si sono succeduti, non a caso tutti ex presidenti della Corte costituzionale. Occorre investire sulla Scuola, sia per il tirocinio iniziale che per l’aggiornamento professionale, e tra i corsi dovrà essere potenziato lo spazio dedicato alla deontologia».

Ma è possibile che la magistratura, avvilita anche da alcune vicende poco commendevoli, rinunci a esercitare un ruolo culturale nel dibattito pubblico e finisca per ritirarsi in una sorta di minimalismo sindacalistico?

«Questo rischio esiste. L’Anm deve occuparsi anche di temi strettamente sindacali, ma la sua lunga storia ha evidenziato la capacità di superare una visione grettamente corporativa e contribuire alle riforme del sistema giustizia. La magistratura deve conquistarsi la fiducia dei cittadini, che non vuol dire assenso acritico e neppure adeguamento al volere della piazza. Si citano spesso sondaggi di opinione sulla percentuale di fiducia nella magistratura che si attesterebbe intorno al 45 per cento. Ebbene, un sondaggio francese del settembre 2019, di Ifop per L’Express, indica la percentuale del 53 per cento per la fiducia nella giustizia, in quadro complessivo in cui tutte le istituzioni hanno un grado di fiducia di circa dieci punti superiori rispetto alla situazione italiana. I molteplici fattori di crisi delle nostre società si ripercuotono ovunque anche sul sistema di giustizia».

Le campagne sulle “scarcerazioni dei boss” e i provvedimenti assunti a riguardo dal governo possono indebolire l’indipendenza dei magistrati di sorveglianza?

«Vi è stata una clamorosa disinformazione: basti pensare che i 3 casi che hanno riguardato detenuti delle categorie pericolose sono divenuti più di 300… Il ministro della Giustizia e il Governo si sono sottratti alla responsabilità di affrontare la situazione di grave sovraffollamento nella emergenza covid- 19 e il problema è stato rovesciato sulle spalle della magistratura e di quella di sorveglianza in particolare. Ogni provvedimento può essere discusso, ma è inaccettabile l’allarmismo sui numeri manipolati e la campagna di aggressione verso chi si è assunto responsabilità, a fronte di una politica latitante».

Ma per tornare alle vicende delle ultime ore, crede che favoriranno la rivincita di chi chiede il sorteggio per eleggere il Csm?

«Il sistema elettorale in vigore, che si proponeva di scardinare il sistema delle correnti, ha ottenuto l’effetto opposto. Il sorteggio è il sistema proposto nel 1972 dall’onorevole Almirante, ma con modifica costituzionale. I tentativi di costruirne oggi declinazioni variamente mitigate ne evidenziano il limite insuperabile. La elettività dei componenti, posta in Costituzione, mira a far vivere il Csm ai magistrati come organo di cui portano la responsabilità. Si fonda anche sulla esigenza di valorizzare l’attitudine per una funzione, che richiede, oltre a tutte le qualità del buon magistrato, anche una ulteriore: la capacità di misurarsi con la organizzazione di un sistema complesso come quello della giustizia».

Non è dunque il sorteggio, la soluzione.

«Le clamorose vicende che hanno investito alcuni componenti del Csm indicano che le peggiori derive sono conseguenza di ambigui occulti rapporti tra “notabili”, sensibili al demone dell’esercizio del potere e delle pratiche di accordi occulti, che si muovono del tutto trasversalmente rispetto a quello che dovrebbe essere l’aperto e trasparente confronto. Le “correnti” della magistratura devono mostrarsi all’altezza del monito del presidente Mattarella: “Voltare pagina”. Il sistema elettorale deve mirare a ridurre il peso degli apparati allargando le possibilità di scelta degli elettori che continuino a fare riferimento ad una o altra corrente. Qualunque riforma deve misurarsi con principi fondamentali: la libertà di opinione e di associazione e il contributo che i corpi intermedi apportano alla vita di un ordinamento democratico, in tutte le sue articolazioni».

Parla Luca Palamara, il magistrato più intercettato e sputtanato d’Italia. Giovanni Minoli su Il Riformista il 16 Maggio 2020. Pubblichiamo un ampio stralcio dell’intervista di Giovanni Minoli al magistrato Luca Palamara, trasmessa giovedì pomeriggio su Radio 1 (“Il Mix delle cinque”). Questa intervista fa seguito a una precedente intervista che andò in onda a novembre e nella quale Palamara aveva proclamato la sua innocenza e aveva detto che aspettava che venissero rese pubbliche le carte dell’inchiesta, visto che fino a quel momento erano usciti (illegalmente) solo brandelli di intercettazioni pubblicati sui giornali. Le carte dell’inchiesta della Procura di Perugia su Luca Palamara sono state depositate, ora sono pubbliche e gli stessi PM di Perugia hanno escluso ogni forma o tipo di corruzione per i 40 mila euro di cui si è lungamente parlato.

Eppure noi abbiamo letto sui giornali i contenuti di tutti gli incontri registrati che lei ha avuto con gli altri magistrati per discutere le nomine delle Procure italiane. Com’è possibile?

«La Procura di Perugia ha trasmesso le intercettazioni al Consiglio Superiore della Magistratura, dopodiché nel mese di maggio quelle intercettazioni sono state interamente pubblicate e riportate dagli organi di stampa».

La titolarità, e quindi, la responsabilità di quei materiali registrati ce l’ha la Procura, Csm? Chi ce l’ha?

«Direi entrambi perché il Codice di Procedura Penale individua come titolare il Procuratore della Repubblica. In questo caso si aggiunge il Consiglio Superiore della Magistratura che aveva la disponibilità di queste carte».

Uno dei due o tutti e due insieme l’hanno fatta uscire?

«Questo non sta a me dirlo. Sarà oggetto di accertamenti. Si trattava di atti non depositati dei quali gli indagati non erano a conoscenza, ma come nel mio caso, ne sono venuto a conoscenza tramite la lettura dei giornali».

Una volta il Procuratore Gratteri, durante un’intervista, mi ha detto che la titolarità e la custodia, quindi la responsabilità di quei materiali è di esclusiva pertinenza dei pm o della polizia giudiziaria. In questo caso si aggiunge il Csm.

«Il Procuratore Gratteri è un esperto in materia. In questo caso, si aggiunge, l’organo al quale erano state trasmesse per primo».

Parliamo del Trojan, di quello strumento, nuovo, che è stato utilizzato per indagini su di lei e in tante altre indagini. È uno strumento valido?

«Assolutamente sì, parlo da vecchio giurista, sia nei casi di mafia che di terrorismo, che in quelli di corruzione ha sicuramente consentito un livello ulteriore di aggressione ai criminali e alla scoperta di tutti questi delitti. Ovviamente deve essere maneggiato con attenzione soprattutto perché coinvolge un tema assolutamente rilevante che è anche quello della tutela della privacy delle persone estranee al reato, che possono trovarsi catapultate in vicende che non le riguardano».

È mai possibile che lei, che ha fatto delle inchieste molto importanti, ricordo una per tutte, Calciopoli, non si sia accorto che gli avevano messo il Trojan nel telefono?

«Assolutamente no, perché le mie conversazioni riguardavano prevalentemente o la mia attività di lavoro o attività politico-giudiziaria, per questo non pensavo potessero mai avere rilievo penale».

Un pubblico ministero come lei che non si è accorto di essere intercettato… Difficile da credere.

«Io ho ispirato la mia vita sempre al rispetto delle regole, alla lealtà e alla trasparenza dell’agire, quindi non pensavo mai che potesse capitare a me».

Per essere concreti, io ho letto sul Fatto quotidiano, che nel caso della nomina a vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura del dottore Ermini, lei avrebbe avuto un ruolo decisivo.

«Io su questo non voglio rispondere. È una considerazione del giornale e come tale la domanda va posta al giornalista. Posso dire che le correnti sono state assolutamente determinanti nella nomina del vicepresidente».

Anche nel caso di Ermini, il ruolo delle correnti è stato determinante come lo è stato in tutte le nomine finora?

«Il ruolo delle correnti è determinante perché il Vicepresidente, la Costituzione prevede che venga eletto tra i laici, quindi è necessario un accordo tra le componenti della Magistratura che notoriamente al Consiglio superiore della Magistratura si raggruppano nelle cosiddette correnti. Quindi se non c’è l’accordo delle correnti non vi può essere alcuna nomina».

Dunque è valso anche per Ermini il metodo delle nomine correntizie: me lo conferma?

«Certo che sì, se non ci fosse accordo, non vi potrebbe essere nomina».

Ancora uno stop. noi abbiamo cercato tre volte il presidente Ermini per avere la sua versione dei fatti, ma il Presidente si è sempre sottratto ad ogni domanda in proposito. Ma riprendiamo l’intervista con Palamara.

Lei pensa che ci sia una relazione tra le nomine da fare nelle Procure italiane all’epoca delle intercettazioni che sono state fatte e le intercettazioni che la riguardavano?

«Diceva qualcuno che a “pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”».

Gli altri indagati: Amara, Calaforiore e Longo. Chi sono esattamente?

«Guardi, l’avvocato Calafiore non l’ho mai visto e conosciuto in vita mia. L’Avvocato Amara penso di averlo visto due volte in eventi conviviali e il dottor Longo l’ho visto una volta. Non ho mai avuto né rapporti, né frequentazioni, né numeri di telefono né quant’altro con loro».

Ancora uno stop : rispetto all’intervista di novembre c’è una novità: oggi con le carte depositate, si vede che anche i pubblici ministeri di Perugia riconoscono la verità di quello che afferma Palamara e ritorniamo all’intervista.

Perché partecipava alle nomine…

«Perché c’era una necessità di capire quello che era il mio ruolo.

Comunque tutto è sembrato un suk, un mercato delle nomine… Le nomine nella magistratura funzionano come un mercato?

«Il termine suk è qualcosa di estremamente negativo, nel quale non mi riconosco. Io posso dire che ho fatto parte del Consiglio Superiore dal 2014 al 2018, sono state realizzate più di mille nomine. Sfido chiunque a dire quali sono state al di sotto del livello di soglia. Io penso che tanti uffici giudiziari hanno tanti importanti magistrati che li guidano. Si può fare meglio, sicuramente, ma da qui a demonizzare tutto quello che è stato fatto è un’operazione sbagliata».

… senza demonizzare, sempre nominati dalle correnti.

«Perché è innegabile che le correnti siano il momento attraverso il quale la gestione del potere giudiziario viene effettuato. Le correnti dominano il mondo della magistratura. L’obiettivo è far sì che le correnti possano aspirare sicuramente a valori più alti».

Nel suo caso, c’erano anche parlamentari insieme a voi a discutere di quelle nomine. Magistrati e politici che si spartivano la giustizia italiana. Questa è l’impressione che c’è stata. Ma le sembra normale?

«Io non voglio affrontare in questa sede la sfera etica dei comportamenti e non mi ritrovo assolutamente nella definizione o nell’accusa che magistrati e politici si distribuiscono gli incarichi. Nel caso dell’On. Ferri, si tratta di un collega Magistrato che conosco sin da bambino, i nostri padri erano Magistrati. Nel caso dell’On. Lotti, ho avuto modo di conoscerlo come Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio al quale due grossi esponenti del mondo politico-istituzionale della magistratura stessa si rivolgevano per affrontare questioni relative alla giustizia».

Però l’On. Lotti che era presente era un parlamentare inquisito proprio dalla Procura di Roma…

«Io non ho frequentato l’On. Lotti come indagato del procedimento Consip, ma l’ho frequentato prima come Sottosegretario e poi come Onorevole. Nel momento delle cene, tengo a precisare che l’On. Lotti era stato già tecnicamente rinviato a giudizio, quindi la sua vicenda processuale con la Procura di Roma era già finita e mai e poi mai ho potuto in qualche modo interferire o influenzare qualcuno».

Quindi i parlamentari non erano protagonisti attivi delle discussioni? Comunque non erano decisivi…

«Erano discussioni fatte in assoluta libertà, il luogo decisionale delle nomine è uno solo: la Quinta Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura e, tutto quello che avviene fuori è sempre avvenuto come momento di discussione politico-giudiziaria».

Lo stesso pm di Perugia che raccomandava alla polizia giudiziaria di spegnere i microfoni nel caso di incontri con parlamentari che fossero frutti di appuntamenti prefissati. In quel caso c’erano stati appuntamenti prefissati?

«Io mi sono sempre mosso con appuntamenti prefissati. Raramente non sono incontri prefissati».

Fino a oggi, ogni nomina nelle procure ha alle sue spalle una storia di accordi tra correnti.

«Le correnti sono immanenti, dominano il sistema giudiziario. Non solo nel senso deteriore del termine, come momento fisiologico e inevitabile di trovare un meccanismo attraverso il quale gestire il più corretto funzionamento del potere giudiziario».

Dopo tutto quello che abbiamo detto, lei ha capito cosa c’è dietro l’angolo?

«In questi ultimi tempi ho spesso l’immagine ricorrente di un palazzo che rischia di crollare, però è necessario che tutti si adoperino affinché questo non accada».

Francesco Grignetti per la Stampa il 16 maggio 2020. Porta al Giglio magico, alla fine, l' inchiesta di Perugia sul caso Palamara. Erano tutti renziani: Cosimo Ferri, Luca Palamara, ovviamente Luca Lotti. E porta alle grandi manovre non solo dentro la magistratura, ma anche nelle società di Stato. L' inchiesta di Perugia s' è così incrociata con una di Milano su un complotto al vertice dell' Eni. Luca Lotti è interrogato nel luglio 2019 a Milano, dai pm Laura Pedio e Paola Storari, sui suoi rapporti con Piero Amara, il faccendiere siciliano che a sua volta è dietro il lobbista Fabrizio Centofanti e indirettamente dietro Luca Palamara. Ammette di avere conosciuto Amara nel dicembre 2015 su sollecitazione di Andrea Bacci, un imprenditore fiorentino, altro amicone di Renzi. «Ho incontrato Amara almeno un paio di volte nel 2016 in occasioni private: una volta insieme con Bacci ci siano visti in un bar all' intero della galleria Colonna a Roma; l' altro incontro è avvenuto a Firenze o nel mio ufficio a palazzo Chigi. Il tema di cui abbiamo parlato è stato l' Eni». E lui? «Ho sempre dato risposte interlocutorie». C' era un problema di cui Amara si interessava moltissimo: la guerra tra Claudio Granata, potente responsabile per gli Affari istituzionali, e Antonio Vella, il numero due, amico di Claudio Descalzi. Nel computer di Amara c' era un promemoria, palesemente scritto per Bacci, cui si chiede di intercedere presso «il Capo» a difesa di Vella. E Lotti: «Non ho ricordi». Lotti e l' Eni Anche Luca Palamara e Cosimo Ferri coinvolgono Lotti per una vicenda collegata all' Eni. Era un tema che stava loro a cuore: come rovinare la reputazione di Paolo Ielo, il procuratore aggiunto di Roma. La storia s' intreccia con la famosa cena romana del 21 maggio 2019, quando Palamara, Ferri e Lotti tentarono di far quadrare i conti con le nomine in magistratura, a partire da Roma. I magistrati milanesi fanno sentire a Lotti l' intercettazione, e l' uomo politico non può non agitarsi sulla sedia. «Ricostruisco come segue la vicenda Qualche giorno prima, precisamente il 9 maggio, presso l' hotel Champagne di Roma, ho avuto un incontro con Palamara e Ferri dopo la mezzanotte. Nel corso di quell'incontro tra le altre cose Palamara ha riferito sommariamente il contenuto di un esposto presentato da Stefano Fava (un pm amico di Palamara, ndr) nei confronti del dottor Ielo e del dottor Pignatone». Già è anomalo che un esposto presentato da un magistrato sia portato a conoscenza di un uomo politico, oltretutto con il dente avvelenato con Ielo e Pignatone perché sotto scacco nell' inchiesta Consip. Grave è che gli sia offerta la possibilità di vendicarsi. «In quell' occasione Palamara ha aggiunto che gli risultava che Domenico Ielo avesse avuto degli incarichi dall' Eni e mi ha chiesto se potevo verificarlo. Ho detto che avrei potuto farlo chiedendo a Granata». Lotti andò avanti nel suo lavoro di intelligence. «Pochi giorni dopo ho incontrato Granata presso l' hotel Montemartini. Tra gli altri argomenti, chiesi se gli risultasse che Domenico Ielo aveva avuto una consulenza». Di più, Lotti non vorrebbe dire. Sostiene che le sue richieste sarebbero cadute nel nulla. Ma c' è un ma. Nel corso del 21 maggio, in occasione di un secondo rendez-vous dei congiurati, dove confluirono anche cinque membri del Csm, ormai tutti fuori per dimissioni, si sente la sua voce raccontare di avere ricevuto documentazione da Descalzi, e che Domenico Ielo avrebbe ricevuto ben 228 mila euro dall' Eni. Vero? Falso? Lotti se la cava così: «Non avevo ricevuto documenti che certifichino un incarico dato a Domenico Ielo e per quell' importo. Mi chiedete se io abbia quindi millantato con i miei interlocutori e dico che effettivamente è andata così».

I giornalisti finiti nella rete delle intercettazioni per aver chiamato Palamara. Il Dubbio il 4 maggio 2020. Milella, Bianconi e Minoli: la procura di Perugia “scheda” chi ha contattato il pm indagato per corruzione nell’inchiesta che ha terremotato il Csm. La procura di Perugia “scheda” i giornalisti che chiamavano il magistrato Luca Palamara, indagato per corruzione nell’inchiesta che ha terremotato il Csm la scorsa estate. Tutte intercettazioni, però, che non hanno alcun elemento di rilevanza con l’inchiesta in corso. Come scritto dal quotidiano La Verità, nell’informativa dell’inchiesta compare il nome della giornalista di punta del quotidiano La Repubblica, Liliana Milella, che il giorno in cui il suo giornale ha pubblicato la notizia dell’indagine avrebbe chiamato Palamara, che era una sua fonte: “La Milella riferisce che ha saputo dell’articolo leggendolo all’1,30 di notte e dice di aver sbagliato a non chiamarlo prima, ma a lei non avevano detto nulla dal suo giornale. Se lei avesse chiamato prima Palamara "l’avremmo scritta, ma non in questo modo". La stessa, in un’altra telefonata, avvisa il pm che la collega Maria Elena Vincenzi sta andando sotto casa sua, probabilmente per cercare di strappare una dichiarazione». In un’altra telefonata la giornalista sembra molto preoccupata per la sorte dell’ex capo dell’Anac Raffaele Cantone e alla fine propone: “Potrebbero (i membri del Csm, ndr) pure fare la mossa di mandare Cantone da qualche parte (…)? Cioè perché poi alla fine fanno pure un piacere a questo governo che glielo levano dai coglioni”. Nell’informativa ci sono anche alcune chiamate di Francesco Grignetti della Stampa, alla ricerca di notizie sull’inchiesta. C’è anche un capitoletto su Giovanni Bianconi, inviato del Corriere della Sera, dall’inizio in prima linea nello spingere mediaticamente l’inchiesta. Agli atti finiscono persino le telefonate per organizzare un incontro di persona con Palamara. Poi per il resto i finanzieri riportano alcune considerazioni di Palamara su Bianconi, che viene gentilmente definito come “vicino ai servizi segreti” e “cassa di risonanza del gruppo di potere attuale”. Infine Palamara giudica così l’intervista di congedo rilasciata dall’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone allo stesso Bianconi: “Hai visto ieri che pompino gli ha fatto al Pigna?”. Nella stessa conversazione aggiunge: “L’altra volta (Bianconi, ndr) mi è venuto a riparlare di Perugia a me”, ovvero dell’inchiesta che al momento era ancora segreta. I finanzieri annotano “l’esistenza di contatti intercorsi tra Palamara e Giovanni Minoli, giornalista saggista e conduttore televisivo”. I due, stando alle captazioni, sono in confidenza. Si confrontano sugli articoli pubblicati nel periodo clou della tempesta sulle toghe e sulla possibilità di rendere un’intervista per la trasmissione condotta da Lucia Annunziata. Tra il 13 marzo 2019 e il 5 giugno, periodo monitorato dagli investigatori, si parlano otto volte. In una conversazione Minoli fa a Palamara i complimenti per un’intervista. Ci sono anche telefonate durante le quali Minoli sembra quasi lo spin doctor della toga. Il 29 maggio si sentono due volte. «’La Repubblica è la risposta al Fatto’, dice Palamara. E chiede a Minoli un consiglio, visto che Claudio Tito, cronista di Repubblica, gli ha chiesto se voglia replicare e la toga non sa cosa rispondere, scrive La Verità. Si vedono anche per parlare dell’invito dell’Annunziata, che Minoli definisce pericolosa, perché è dall’altra parte. La giornalista è stata una delle prime a saltare sull’inchiesta perugina. Il 29 maggio, data dei primi articoli sull’argomento, alle 9 del mattino, Palamara viene chiamato da Silvia Barocci, autrice della trasmissione Mezz’ora in più, quella dell’Annunziata. Lo invita per la domenica. La toga prende tempo. Poi richiama e accetta, ma con riserva. E annuncia che ’se andrà in trasmissione parlerà di cose importantì. Per quella comparsata Palamara si confronta persino con Giovanni Legnini, già vicepresidente del Csm». “Cioè, se Lucia mi dà la possibilità… faccio un discorso politico…”, dice Palamara. Legnini lo riprende: “No, tu le cose tue le devi gridà… seguono milioni di persone, viene ripreso dalla stampa”. Poi fanno strategia sulla necessità di avviare una interlocuzione con redattori a livello apicale di Repubblica, al fine di riequilibrare gli articoli usciti su altre testate di fronte avverso, e reindirizzare, attraverso nuovi articoli di stampa, la figura del procuratore uscente di Roma Pignatone. Tra gli “schedati” ci sono anche Rosa Polito e Simona Olleni dell’Agi, Sandra Fischetti dell’Ansa, Valeria Di Corrado del Tempo e Federico Marietti del Tg5. Vincenzo Bisbiglia del Fatto Quotidiano lo cerca per chiedergli informazioni sul conto della moglie, che ha un impiego alla Regione Lazio, ma anche su eventuali contatti con Nicola Zingaretti. La toga afferma di non aver fatto pressioni e che la moglie “ha un curriculum di tutto rispetto”.

Ecco chi sono i giornalisti nelle intercettazioni al telefono con il magistrato Luca Palamara. Il Corriere del Giorno il 13 Maggio 2020. I magistrati della procura di Perugia indaga anche su chi ha contattato il pm indagato per corruzione nell’inchiesta che ha terremotato il Consiglio Superiore della Magistratura. Nell’informativa della Guardia di Finanza nell’inchiesta della Procura della repubblica di Perugia sul Csm, compaiono molti nomi di giornalisti intercettati mentre parlavano con il magistrato Luca Palamara l’ex-presidente dell’ ANM l’associazione nazionale dei magistrati ed ex-componente del Csm, “protagonista” principale dello scandalo che ha letteralmente terremotato il Consiglio Superiore della Magistratura ribaltando anche gli equilibri “politici” interni fra le varie correnti della magistratura italiana, Intercettazioni che non hanno scaturito iscrizioni dei giornalisti nel registro degli indagati in mancanza di elementi di rilevanza con l’inchiesta. Una delle persone maggiormente presenti nelle intercettazioni è la giornalista barese Liliana Milella del quotidiano La Repubblica, che avrebbe chiamato Palamara (che era una sua fonte) il giorno stesso in cui il quotidiano romano aveva pubblicato la notizia dell’indagine: “La Milella riferisce che ha saputo dell’articolo leggendolo all’1,30 di notte e dice di aver sbagliato a non chiamarlo prima, ma a lei non avevano detto nulla dal suo giornale. Se lei avesse chiamato prima Palamara ‘l’avremmo scritta, ma non in questo modo’. La stessa, in un’altra telefonata, avvisa il pm che la collega Maria Elena Vincenzi sta andando sotto casa sua, probabilmente per cercare di strappare una dichiarazione». La giornalista barese sembra molto preoccupata in un’altra telefonata per il destino del magistrato Raffaele Cantone l’ex capo dell’Anac ed alla fine della conversazione addirittura consiglia nomine e strategie per i componenti del Csm : “Potrebbero pure fare la mossa di mandare Cantone da qualche parte (…)? Cioè perché poi alla fine fanno pure un piacere a questo governo che glielo levano dai coglioni”. Uno dei passaggi più imbarazzanti delle intercettazioni riguarda il giornalista Giovanni Bianconi, inviato del Corriere della Sera, giornale che sin dall’esplosione dell’inchiesta si è posizionato in prima fila nell’amplificare giornalistiche le tristi vicende del Csm. Agli atti delle indagini dei magistrati di Perugia ci sono anche delle telefonate per organizzare un incontro di persona con Palamara. Poi per il resto i finanzieri riportano alcune considerazioni di Palamara su Bianconi, che viene definito come “vicino ai servizi segreti” e “cassa di risonanza del gruppo di potere attuale”. Con queste parole il magistrato Luca Palamara commenta l’intervista di Bianconi all’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone al momento del suo congedo in pensione : “Hai visto ieri che pompino gli ha fatto al Pigna?”. Sempre nel corso della stessa telefonata Palamara, riferendosi a Bianconi aggiunge: “L’altra volta mi è venuto a riparlare di Perugia a me”, cioè dell’inchiesta che al momento era ancora secretata. Le Fiamme Gialle in ascolto annotano “l’esistenza di contatti intercorsi tra Palamara e Giovanni Minoli, giornalista saggista e conduttore televisivo”. I due, secondo quanto emerso dalle intercettazioni captate, hanno rapporti stretti di confidenza, e si confrontano sugli articoli pubblicati nel periodo “caldo” del terremoto sulle toghe, prospettandogli la possibilità di rendere un’intervista per la trasmissione “Mezz’Ora in più” (RAITRE) condotta dalla giornalista Lucia Annunziata. Nel periodo monitorato dai finanzieri, tra il 13 marzo ed il 5 giugno 2019 , i due si parlano ben otto volte. In una telefonata Minoli fa addirittura i complimenti a Palamara per un’intervista. Telefonate durante le quali Minoli sembra essere lo “spin doctor” del magistrato. I due si sentono due volte il 29 maggio 2019. “’La Repubblica è la risposta al Fatto” afferma Palamara e chiede un consiglio a Minoli, poichè il giornalista di Repubblica Claudio Tito, gli aveva chiesto se volesse replicare ma il magistrato è dubbioso e non sa cosa rispondere. Palamara e Minoli si incontrano anche per discutere dell’invito dell’Annunziata, che è stata una delle prime a saltare sull’inchiesta perugina, definita Minoli “pericolosa, perché è dall’altra parte” . Il 29 maggio 2019, giorno dei primi articoli pubblicati sullo scandalo del Csm, Palamara viene contattato telefonicamente alle 9 del mattino, dalla giornalista Silvia Barocci, autrice della trasmissione dell’Annunziata, e lo invita per la domenica successivo . Il magistrato inizialmenteì prende tempo, poi la chiama ed accetta, ma con riserva. E annuncia che “se andrà in trasmissione parlerà di cose importantì“. Prima della trasmissione televisiva il magistrato Palamara si confronta incredibilmente con l’esponente del Pd Giovanni Legnini, ex-vicepresidente del Csm, e gli dice: “Cioè, se Lucia (la Annunziata n.d.r.) mi dà la possibilità… faccio un discorso politico…”. Legnini lo incalza ed incita: “No, tu le cose tue le devi gridà… seguono milioni di persone, viene ripreso dalla stampa”. Poi imbastiscono una strategia sulla necessità di avviare dei contatti con dei giornalisti ai vertici del quotidiano La Repubblica, per riequilibrare gli articoli usciti su altre testate di fronte avverso, ed attraverso nuovi articoli di stampa, offuscare la figura di Pignatone procuratore uscente della Capitale. Tra gli “intercettati” compaiono anche Sandra Fischetti dell’ Agenzia Ansa, Simona Olleni e Rosa Polito dell’ Agenzia Italia, Federico Marietti del Tg5 e Valeria Di Corrado del Tempo. Il giornalista Vincenzo Bisbiglia del Fatto Quotidiano invece chiama Palamara per chiedergli delle informazioni sul conto di sua moglie, Giovanna Remigi, che per quasi tre anni è stata dirigente esterna della Regione Lazio guidata da Nicola Zingaretti, . Un ruolo ricoperto dal 2015 al 2017 nell’ufficio staff del direttore Coordinamento del contenzioso nella Direzione Salute e Politiche Sociali alla cifra di 78 mila euro l’anno più retribuzione di risultato. Palamara risponde di non aver fatto pressioni e che la moglie “ha un curriculum di tutto rispetto” aggiungendo “ha un curriculum di tutto rispetto nei più importanti studi amministrativi“”. Sempre dall’inchiesta viene fuori che nel 2017, dopo il rapporto con la Regione Lazio, la moglie di Palamara ha successivamente ottenuto un contratto triennale (ancora in corso) all’Agenzia Italiana del Farmaco. Nell’informativa della Guardia di Finanza sul tavolo dei magistrati umbri risultano delle chiamate a Palamara anche del giornalista Francesco Grignetti del quotidiano La Stampa, alla ricerca di notizie sull’inchiesta. Il magistrato Luca Palamara nonostante avesse svolto per anni le funzioni di pm alla  Procura di Roma, ha “abboccato” alla trappola informatica tesa dalle Fiamme Gialle.  All’improvviso la sua linea telefonica mobile aveva avuto dei disservizi (causati ad hoc) ed aveva risposto ad un link che sembrava essere proveniente  da Vodafone. “Gentile cliente stiamo riscontrando problemi sulla linea. Per risolverli, clicchi qui”. Un “click” che si è rivelato fatale per il “terremoto” giudiziario interno all’Organo di autogoverno della magistratura. La strategia del messaggio “fake” da parte del gestore di telefonia era stata consigliata al pm di Perugia, Gemma Milani, dai tecnici informatici del Gico della Guardia di Finanza.

Giornalisti intercettati, lo sfogo di Liliana Milella: “Parlavo con Palamara, e allora?” Il Dubbio il 24 maggio 2020. La cronista delle Repubblica finita nelle intercettazioni del caos procure si difende: “Pubblicatele pure le mie conversazioni. Non ci troverete nulla se non l’insistente sforzo di convincere una fonte a parlare”. ”Eh no, adesso basta. Stop alle bugie, agli insulti, alle interpretazioni del tutto false delle conversazioni tra me e Luca Palamara. Lo scrive sul suo blog su Repubblica la cronista giudiziaria Liana Milella in un articolo intitolato ”Io e Palamara”. ”Faccio questo mestiere da 40 anni – spiega Milella -, con fatica, quella di ogni giorno per cercare le notizie. Con l’onore di aver tenuto sempre la testa alta e aver detto dei no quando c’era da dirli. È la mia storia, di cui vado fiera. Non consento a nessuno di sporcarla. Né tantomeno, attraverso di me, di attaccare Repubblica. Di cosa stiamo parlando? Delle intercettazioni di Palamara, depositate a Perugia. In cui ricorre anche il mio nome. E certo che c’è. Perché seguo il Csm e la politica della giustizia. Perché nella primavera del 2019 l’argomento più gettonato a palazzo dei Marescialli era chi avrebbe occupato la poltrona di procuratore di Roma dopo Pignatone. Palamara non era più componente del Csm, ma la toga più influente di Unicost. Nonché ex presidente dell’Anm ai tempi dello scontro con Berlusconi, nonché pm di Roma, con l’ambizione di diventare procuratore aggiunto. Un magistrato intervistato ovunque. Una fonte per chi scrive un articolo come quello pubblicato su Repubblica il 24 maggio del 2019 proprio sul destino di Roma”. Con ”questa fonte – prosegue Miletta – io ho avuto delle normalissime conversazioni. Quelle che intercorrono tra un giornalista che vuole sapere che succede e una fonte che risponde. Tutto lapalissiano. Nessuna ”merenda” di mezzo. Neppure un panino. Solo la fatica di scoprire dei retroscena. La fatica che il cronista onesto fa ogni giorno per scrivere un articolo. Nessun gioco. Nessun patto. Nessun favoritismo. Solo notizie. In questo caso come si sarebbero schierate le correnti della magistratura nella scelta del procuratore di Roma. Con chi votava Unicost? Stava con Magistratura indipendente e non con la sinistra di Area? E Palamara, che aveva fatto domanda anche per la procura di Torino, dove avrebbe preferito andare? ”Ti metto a Torino?” Chiedo a Palamara. Ditemi voi cosa c’è di così ”infame” in questa domanda”. ”Scorretto – perché io non uso l’espressione ”infame” – è invece il tentativo di colpire chi si è sempre battuto per la trasparenza delle carte giudiziarie, per la piena pubblicazione, anche delle intercettazioni. Pubblicatele pure le mie conversazioni. Non ci troverete nulla se non l’insistente sforzo di convincere una fonte a parlare. Certo, per chi da decenni scrive solo commenti, capisco che il dialogo può risultare da extraterrestre”, conclude.

Le trame di Palamara che hanno “inguaiato” Borrelli nella corsa alla procura di Perugia. Paolo Comi su Il Riformista il 12 Maggio 2020. C’è anche una intercettazione “autoprodotta” fra le tante contenute nel fascicolo di Perugia sull’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. A realizzarla è stato Giuseppe Borrelli, attuale procuratore di Salerno e all’epoca aggiunto a Napoli. L’autoascolto avviene all’indomani della perquisizione a carico di Palamara disposta dai magistrati umbri lo scorso 30 maggio. Il pm romano, intercettato nell’ambito di una indagine per corruzione, il precedente 7 maggio aveva discusso con Cesare Sirignano, sostituto procuratore presso la Dna, di temi non particolarmente originali per le toghe: le nomine. I due si conoscono da molti anni. Oltre ad essere della stessa corrente, Unicost, giocano a pallone nella “Rappresentativa magistrati italiani”. Il risiko degli incarichi riguarda tutt’Italia. Nel disegno di Palamara, Borrelli è destinato a diventare il nuovo procuratore di Perugia, Massimo Forciniti il presidente del Tribunale di Salerno, Marcello Viola il procuratore di Roma, Antonio Chiappani il procuratore di Brescia, Dino Petralia il procuratore di Torino e Leonida Primicerio il procuratore di Salerno. Palamara punta a diventare aggiunto a Roma. La procura di Perugia, però, è fondamentale per Palamara in quanto dovrà decidere sull’esposto presentato dal pm romano Stefano Fava contro il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo, e dovrà definire l’indagine a suo carico. Sirignano conviene con Palamara sul nome di Borrelli. La diffusione di questa conversazione, riportata dai pm umbri nel decreto di perquisizione a carico di Palamara, allarma Borrelli che è in corsa, oltre a Perugia, per altre Procure. L’aggiunto napoletano decide allora di vedere di persona Sirignano, registrando l’incontro, per capire cosa abbia detto su di lui a Palamara. «M’hai inguaiato a me», gli dice. «Mi hai inguaiato», ripete, «in buona fede ma mi hai inguaiato». «Non aggio fatto niente in questa vicenda, aggio fatto la domanda per Perugia», aggiunge in una tiratissima conversazione nella quale Sirignano tenta di ricordare le esatte parole utilizzate con Palamara. «Mi interessava sostenere l’amico Borrelli e rassicurare Palamara sulla sua serietà e capacità», «i magistrati napoletani non sono stati valorizzati a sufficienza. Per noi magistrati napoletani è una cosa che ci ha sempre pesato», racconterà poi a luglio ai pm di Perugia. «È uno sconcio di dimensioni internazionali», il commento invece di Borrelli dello scandalo che aveva travolto le toghe, per poi aggiungere: «Non si fa una nomina decente in vent’anni in questo cavolo di Csm». Ed a proposito di nomine, sfumata Perugia, Borrelli venne votato a luglio all’unanimità in commissione, relatore Piercamillo Davigo, procuratore di Salerno. Il colloquio con Sirignano sarà trascritto dai magistrati umbri due mesi più tardi. A novembre il colpo di scena: al momento del voto finale in Plenum, Davigo chiede il ritorno in commissione della pratica su Borrelli. Il definitivo via libera in Plenum arriverà solo lo scorso gennaio. Avrà pesato il colloquio con Sirignano? Non lo sapremo mai in quanto la pratica è stata secretata.

Luca Palamara, chiuse le indagini sull’ex presidente dell’Anm: rischia processo con l’ex consigliere del Csm Spina e altri tre. A rischiare il processo, per le accuse della procura di Perugia al termine dell'inchiesta della Guardia di finanza, oltre al pubblico ministero e all’ex consigliere Spina, sono l’amica di Palamara, Adele Attisani, l’imprenditore Fabrizio Centofanti e Giancarlo Manfredonia. Tra gli episodi di corruzione contestati ci sono viaggi a Londra, Dubai e Ibiza, soggiorni, lavori di ristrutturazione e anche un trattamento di bellezza. I difensori: "Cadute le accuse più gravi". Il Fatto Quotidiano il 20 aprile 2020. Il pubblico ministero Luca Palamara rischia il processo nell’ambito dell’inchiesta che lo vede indagato per corruzione. La procura di Perugia – al termine dell’inchiesta della Guardia di finanza – ha notificato la chiusura indagini all’ex presidente dell’Anm, all’ex consigliere del Csm Luigi Spina, all’amica di Palamara, Adele Attisani, all’imprenditore Fabrizio Centofanti e a Giancarlo Manfredonia. Tutti, come il pm romano, sono quindi a rischio processo. La decisione dei pm di Perugia non potrà arrivare prima del 31 maggio, a causa della sospensione dell’attività giudiziaria per l’emergenza coronavirus. Tra gli episodi di corruzione contestati ci sono viaggi a Londra, Dubai e Ibiza, soggiorni, lavori di ristrutturazione e anche un trattamento di bellezza. A Palamara, all’epoca dei fatti consigliere del Csm, i pm umbri contestano anche un viaggio a Madrid insieme con un familiare per assistere alla partita Real Madrid-Roma di Champions League dell’8 marzo 2016, per il quale Centofanti avrebbe versato oltre 1.300 euro. L’imprenditore inoltre, avrebbe pagato lavori per diverse decine di migliaia di euro tra il 2013 e il 2017, nell’appartamento romano di Attisani, ritenuta dai pm umbri “istigatrice delle condotte delittuose e beneficiaria in parte delle utilità”, tra cui interventi edili, opere di impermeabilizzazione delle terrazze e la realizzazione di una veranda. L’ex consigliere del Csm Luigi Spina, che si è dimesso in seguito alla bufera sulle nomine in diverse procure d’Italia, è accusato di rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento perché avrebbe informato Palamara di un esposto presentato dal pm Stefano Fava contro l’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e un procuratore aggiunto della Capitale. Spina inoltre avrebbe passato informazioni a Palamara sull’inchiesta che lo riguardava aiutandolo “ad eludere le investigazioni”. A Giancarlo Manfredonia, titolare di un’agenzia di viaggi, nell’atto di conclusione delle indagini, i pm di Perugia, contestano di aver fornito “false informazioni” e “documentazione artefatta” ai finanzieri che stavano procedendo a far luce sui viaggi organizzati da Centofanti presso la sua agenzia, “in modo da aiutare quest’ultimo e Palamara ad eludere” le indagini. Palamara “non non è più accusato di aver ricevuto la somma di 40mila euro per nominare il dottor Longo come procuratore di Gela – spiegano i suoi avvocati Roberto Rampioni, Mariano e Benedetto Buratti – o per danneggiare il dottor Bisogni nell’ambito del procedimento disciplinare che lo vedeva coinvolto”. L’inchiesta a maggio dello scorso anno ha terremotato il Csm (si sono dimessi ben 5 consiglieri) perché ha scoperchiato le trattative sulle nomine ai vertici delle procure. Il 9 aprile era stata chiusa l’inchiesta sull’ex procuratore generale di Cassazione, Riccardo Fuzio, per il quale i pubblici ministeri ipotizzato il reato di rivelazione di segreto d’ufficio perché avrebbe rivelato a Palamara, tra le altre cose anche ex componente del Csm, dettagli sull’indagine per corruzione ora chiusa dalla stessa procura. Nell’inchiesta a Palamara viene contestato di avere violato i suoi doveri quale componente del Consiglio superiore della magistratura. In particolare di avere messo le sue funzioni a disposizione dell’imprenditore e suo amico Fabrizio Centofanti in cambio di viaggi e regali. Gli atti erano stati quindi trasmessi dalla procura di Roma – che inizialmente aveva condotto l’indagine su Centofanti – a quella di Perugia competente a occuparsi di tutti i fascicoli che coinvolgono i magistrati romani.

“Palamara non prese 40mila euro per la nomina del procuratore di Gela”. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 20 aprile 2020. Crollano le accuse nei confronti del magistrato ex presidente dell’Anm. Luca Palamara non venne corrotto per nominare Giancarlo Longo procuratore della Repubblica di Gela. E’ quanto si legge nell’avviso di conclusioni indagini notificato ieri all’ex presidente dell’Anm ed ex componente del Csm.I pm di Perugia hanno escluso quindi che Palamara abbia ricevuto 40.000 euro dal faccendiere Fabrizio Centofanti per nominare Longo a capo della Procura di Gela o per danneggiare il pm Marco Bisogni nell’ambito del procedimento disciplinare che lo vedeva coinvolto. Dopo circa due anni di indagini si affievoliscono le accuse nei confronti di Palamara che avevano scatenato lo scorso maggio, quando vennero pubblicate alcune intercettazioni, un terremoto a Palazzo dei Marescialli con le dimissioni di cinque consiglieri del Csm. Gli inquirenti contestano a Palamara l’articolo 318 codice penale nella formulazione introdotta dalla legge Severino del 2012, “corruzione per esercizio della funzione”. Il reato svincola la punibilità dalla individuazione di uno specifico atto ricollegandola al generico “mercimonio della funzione”. Palamara, per i pm Gemma Miliani e Mario Formisano, sarebbe stato a libro paga di Centofanti anche se non è chiaro a quale scopo, dato che, come scrisse il gip, “il contributo del singolo consigliere non può assumente rilievo determinante nell’ambito dei processi deliberativi di un organo collegiale e non sono stati individuati specifici comportamenti anti/doverosi attribuibili a Palamara”. Nello specifico a Palamara vengono contestati dei viaggi in Italia e all’estero. Un’altra contestazione riguarda invece l’ex consigliere Luigi Spina che avrebbe violato il segreto avvisando Palamara di un esposto presentato dal pm romano Stefano Fava contro l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. “In relazione alle ipotesi di reato ancora contestate a Palamara questa difesa è certa di poter portare all’attenzione degli organi inquirenti ulteriori e decisivi elementi per dimostrare da un lato l’insussistenza di accettazione di qualsiasi forma di utilità dall’altro l’assenza di qualsiasi forma di istigazione per conoscere notizie già ampiamente note in quanto riportate dai principali quotidiani nazionali”. E’ quanto si legge in una nota degli avvocati Roberto Rampioni Mariano e Benedetto Buratti.

Antonio Massari per il “Fatto quotidiano” il 23 aprile 2020. Era una manciata di secondi che mancava, nell' intercettazione tra il pm romano Luca Palamara e l' ex procuratore generale della Corte di Cassazione Riccardo Fuzio. Ora che c' è, si sta trasformando in un dettaglio interessante dell' inchiesta, ormai conclusa, che vede i due magistrati accusati di violazione del segreto istruttorio. Per la procura di Perugia, Fuzio rivelò a Palamara dettagli sull' inchiesta che lo riguardava. É un filone nato dall' indagine, anch' essa ormai conclusa, che vede Palamara indagato per corruzione con l' imprenditore Fabrizio Centofanti e che, la scorsa primavera ha costituito un autentico terremoto per il Csm (si sono dimessi cinque consiglieri) e per la stessa nomina del futuro procuratore di Roma. L' audio tra le 21.53 e le 21.58 del 21 maggio scorso è stato - in gran parte lo è tuttora - classificato dal Gico della Guardia di Finanza come "rumori". In effetti il fruscio è altissimo. La difesa di Palamara - assistito dagli avvocati Benedetto e Mariano Buratti e Roberto Rampioni - aveva chiesto di trascrivere quella manciata di secondi mai verbalizzata. Il Gico della Gdf - con gli strumenti del Ris dei Carabinieri - ha coperto la falla. C' è quindi una trascrizione inedita. Il Fatto ha ascoltato l' audio e rilevato delle potenziali difformità con la trascrizione del Gico. Invece della parola "carabinieroni" sembra che si dica il nome dell' ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone. In un' altra frase sembra che si parli del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il cui nome, nella trascrizione del Gico non c' è. "A nostro avviso esiste una difformità tra l' audio e la trascrizione - sostiene la difesa di Palamara ed effettivamente i nomi da voi citati rientravano nel colloquio tra Fuzio e Palamara". Non si tratta peraltro dell' unica divergenza tra accusa e difesa: secondo gli avvocati di Palamara, la contestazione sulla ristrutturazione dell' appartamento di Adele Attisani, legata a Palamara, della quale l' accusa ha acquisito i documenti, si basa su "fatture palesemente false". Ma torniamo all' intercettazione mai trascritta prima. Ecco la versione del Gico.

Fuzio: alla fine hanno definito male () in che senso perché hanno già fasciato la testa ma perché è per venire fuori

P: uhm carabinieroni

F: no che cosa sono P: eh be

F: no ricollegandola probabilmente a

P: ma loro lo fanno sai

F: il 6 o il 7 agosto? di più

P: non lo so

F: non ho capito prima mi avete detto di farla presto di farla presto mo se la facciamo presto dice perché si sono spaventati di questo fatto che può venire fuori uno sputtanamento su di te ma nessuno l' ha mai detta questa storia di Fava, perché Fava è fermo non è che chi è figlio.

Questa è l' altra - secondo la difesa di Palamara verosimile - versione.

F: alla fine hanno definito male perché hanno nel senso che la verità ma purtroppo può venire fuori

P: quella di Pignatone dici?

F: no (interlocutorio)

P: mbe

F: ricollegandola probabilmente alla storia di Pignatone (poi sembra che dica Amara)

P: Erbani

F: sì però questa cosa di Mattarella è dopo Mattarella mi avete detto di farlo presto perché si sono spaventati di questo fatto che può venire fuori uno sputtanamento su di te ma nessuno l' ha mai detta questa storia di Fava, perché Fava è fermo non è che chi è figlio.".

Se invece di "carabinieroni" leggiamo Pignatone, il passaggio diventa interessante: evoca l' esposto che il pm Stefano Fava aveva presentato al Csm su Pignatone. Se così fosse sarebbe interessante capire perché Fuzio e Palamara ne stessero parlando.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 21 marzo 2020. L' inchiesta per corruzione a carico dell' ex componente del Consiglio Superiore della Magistratura Luca Palamara si allarga fino a coinvolgere un altro ex membro dell' organo di autogoverno dei giudici: l' avvocata Paola Balducci (all' epoca «laica» in quota centrosinistra), è stata iscritta nel registro degli indagati per corruzione, in un fascicolo separato, dopo che dagli atti sono emerse presunte «utilità» dispensate da Fabrizio Centofanti, l' imprenditore amico di Palamara inquisito per lo stesso reato. E destinatario, come Palamara e la sua amica Adele Attisani (altra neo-indagata), di un ordine di sequestro preventivo del giudice di Perugia di oltre 60.000 euro. Nel provvedimento si riportano - oltre alle parole del magistrato intercettato su «vacanze pagate» - le spese per un paio di soggiorni in altrettanti alberghi e qualche altro servizio. L' avvocata è già stata interrogata dai pm di Perugia, e i suoi difensori Antonio Villani e Marco Franco commentano: «Si tratta di un' iscrizione a nostro avviso eccessiva a seguito delle parole in libertà captate al dottor Palamara; riteniamo di avere già offerto ai pm ogni elemento di chiarimento tanto da attenderci una richiesta di archiviazione». Ma il fulcro dell' inchiesta resta il magistrato che, oltre ad essere coinvolto nelle manovre occulte extra-Csm per le nomine ai vertici di alcuni uffici giudiziari, è accusato di essere stato corrotto per avere «messo a disposizione» le sue funzioni di consigliere. E tra le «regalie» ricevute da Centofanti (interessato, secondo i pm, a molte nomine dei magistrati decise dal Csm) spunta anche il pagamento di una trasferta in Spagna dal 7 a 9 marzo 2016 di Palamara e figlio in occasione della partita di Champions League Real Madrid-Roma. Poi ci sono alcune vacanze sia con la famiglia che con l' amica Adele, nonché i lavori di ristrutturazione dell' appartamento di Attisani per decine di migliaia di euro. Il magistrato ha sostenuto che si trattava di anticipi di spese restituiti in contanti, in virtù di una disinteressata amicizia, ma la Procura e il giudice la pensano diversamente: «Sono emersi dati oggettivi e difficilmente contestabili che denotano come la relazione tra Palamara e Centofanti sia stata inquinata da interessi non confessabili». E a dimostrazione di ciò si sottolineano sia le modalità semiclandestine dei loro incontri, soprattutto dopo le inchieste giudiziarie che hanno portato all' arresto di Centofanti, sia le intercettazioni e gli interrogatori di indagati in altri procedimenti e testimoni vari. La semplice amicizia, accusano i pm, non giustifica «un atteggiamento costantemente munifico di Centofanti verso Palamara», protrattosi nel tempo e senza che il magistrato risultasse bisognoso di aiuti o prestiti. Piuttosto «sono emersi elementi, che denotano modalità relazionali ambigue e volutamente occulte». Dopo l' arresto di Centofanti a inizio 2018 Palamara ha cancellato i messaggi WhatsApp con l' imprenditore, ma dal telefono della Attisani gli investigatori sono riusciti a ricostruire almeno dodici incontri tra i due, fino alla vigilia dell' arresto dell' imprenditore e dopo il suo ritorno in libertà. Il pagamento dei lavori a casa della donna è avvenuto dopo le perquisizioni subite da Centofanti nel 2017, quando il magistrato avrebbe potuto avere maggiore prudenza nei suoi rapporti con l' imprenditore. Tanto più che dopo la visita degli investigatori a casa di Centofanti scrisse subito un messaggio alla donna: «Ci sono delle rogne». E poco dopo: «Quante cose mi tornano in mente ora tipo Favignana», che per i pm è un chiaro riferimento a uno dei soggiorni pagati dall' imprenditore a Palamara e Attisani nel 2014. Per i pm si tratta di «continui benefici» accordati al magistrato per la sua «stabile disponibilità» alle «istanze esterne» di cui il lobbista Centofanti era «portatore», e poco importa se non sono emersi atti in cui l' ex componente del Csm abbia fatto qualcosa che non doveva fare. Basta il «generico mercimonio della funzione».

La Cassazione conferma la sospensione: «Palamara ha violato i suoi doveri di pm». Il Dubbio il 17 gennaio 2020. Caos procure. Nella motivazione si legge che sussistono «gravi elementi di fondatezza» dell’azione disciplinare, che rendono legittima la misura cautelare adottata dal Csm. Le sezioni unite civili della Corte di Cassazione hanno confermato la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio del pm di Roma Luca Palamara. Nella sentenza depositata due giorni fa, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del magistrato contro la misura cautelare disciplinare che era stata disposta nei suoi confronti dal Csm lo scorso luglio, in seguito allo scandalo che terremotò lo stesso Csm emerso in seguito all’indagine a carico di Palamara per corruzione. Palamara, inoltre, chiedeva alla Cassazione di annullare anche i provvedimenti con cui Palazzo dei Marescialli aveva respinto le sue istanze di ricusazione presentate nei confronti dei togati di A& I Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo, membri della disciplinare. Nella motivazione si legge che sussistono «gravi elementi di fondatezza» dell’azione disciplinare che rendono legittima la misura cautelare disciplinare adottata dal Csm, perchè la commissione disciplinare «non ha arrestato il suo giudizio al clamore mediatico dei fatti oggetto dell’incolpazione», ma ha aggiunto che «i fatti contestati sono di “consistenza, pervasività, reiterazione, sistematicità, da configurare una vera e propria frustrazione dell’immagine dell’integrità, indipendenza e imparzialità che ciascun magistrato deve possedere”, con conseguente compromissione, allo stato della credibilità dell’incolpato, anche sotto il profilo dell’imparzialità e dell’equilibrio». Secondo la Cassazione, quindi, «la valutazione relativa al profilo di proporzionalità della misura irrogata supera lo scrutinio di legittimità quanto ai profili di adeguatezza delle motivazioni che la sorreggono e di conformità al principio normativo di gradualità nell’applicazione delle misure cautelari». Quanto all’uso delle intercettazioni nel procedimento disciplinare, esse «possono essere utilizzate nel presente procedimento, in applicazione della consolidata giurisprudenza secondo cui le intercettazioni effettuate in un procedimento penale sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati, purchè, come nella specie, siano state legittimamente disposte ed acquisite».

“Danneggiare il sostituto Bisogni”: l’indagine sul pm Palamara porta anche a Siracusa. Gianni Catania il 30 maggio 2019 su siracusaoggi.it. Piero Amara e Giuseppe Calafiore: ancora loro. I due avvocati siracusani, secondo la procura di Perugia, avrebbero “veicolato” regali, viaggi e altre utilità al pm Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Indagato con loro per corruzione anche il manager Fabrizio Centofanti. Lo scopo dei “benefit” a Palamara, secondo i magistrati umbri, sarebbe stato “danneggiare Marco Bisogni” che all’epoca era sostituto procuratore a Siracusa ed in precedenza oggetto di esposti al pg di Catania presentati da Amara e Calafiore. Palamara, per i pubblici ministeri, faceva parte della sezione del Csm che “rigettava la richiesta di archiviazione proposta dal procura generale della Cassazione, avanzando richiesta di incolpazione coatta a carico del medesimo Bisogni, che di seguito veniva assolto dalla commissione in diversa composizione. Ma quel giorno Palamara era assente”. Bisogni, oggi a Catania, venne poi assolto dalla Commissione in diversa composizione a gennaio 2018. La Guardia di Finanza di Roma, intanto, ha perquisito l’abitazione dell’ex presidente dell’Anm, indagato per corruzione dalla procura di Perugia. Palamara, da consigliere del Csm, avrebbe ottenuto “viaggi e vacanze (soggiorni presso svariati alberghi anche all’estero) a suo beneficio e a beneficio di familiari e conoscenti”.

"Sistema Siracusa", il pm Bisogni: “Inascoltata battaglia sul lato oscuro della magistratura”. Redazione di blogsicilia.it il 18/06/2019. Una presunta compravendita di sentenze, la magistratura non trasparente così come il rapporto tra alcuni colletti bianchi e la magistratura stessa. Uno scandalo giudiziario sfociato un anno e mezzo fa nel cosiddetto “Sistema Siracusa“ che ha portato anche all’arresto del sostituto procuratore Giancarlo Longo. Vicende ripercorse durante il vertice del Comitato di coordinamento di Unità per la Costituzione, in occasione del quale è intervenuto Marco Bisogni, sostituto della Dda di Catania, che ha raccontato la sua esperienza da pm alla Procura di Siracusa dove ci sarebbero stati accordi e connivenze tra magistrati, professionisti e imprenditori. Come riporta il Giornale di Sicilia di oggi in edicola, nel suo intervento Bisogni ha rimproverato, in un certo senso, al Csm, alcune scelte nella composizione dell’allora vertice della Procura di Siracusa. “Mentre tutto questo accadeva, mentre giovani magistrati di provincia – ha spiegato il pm Bisogni – provavano a riaffermare la legalità negli uffici il nostro autogoverno ha scelto e ha scelto male e ha mandato nell’ufficio un procuratore poi condannato per abuso d’ufficio, un procuratore aggiunto ora imputato per lo stesso reato ed un nuovo procuratore trasferito per incompatibilità ambientale”. Bisogni si riferisce all’ex procuratore Ugo Rossi, condannato in via definitiva per abuso d’ufficio in concorso assieme all’ex pm di Siracusa, Maurizio Musco, rimosso dalla magistratura nei giorni scorsi a seguito di un provvedimento disciplinare del Csm. Gli altri due magistrati ai quali fa cenno Bisogni sono l’ex procuratore aggiunto di Siracusa Giuseppe Toscano e l’ex procuratore di Siracusa, Francesco Paolo Giordano. Bisogni, ripercorrendo quanto accaduto, parla della battaglia di legalità sua e di alcuni suoi colleghi, dai quali partì un esposto contro il lato oscuro della Procura di Siracusa. Come si legge ancora Nel Giornale di Sicilia, Bisogni ha dichiarato: “Abbiamo sopportato per anni esposti che trovavano sponda in magistrati, che ora si può dire, avevano piegato la loro funzione anche ad interessi diversi; campagne stampa denigratorie pagate dagli imputati eccellenti con amicizie importanti nella politica e nella magistratura; azioni di responsabilità civile per milioni di euro coltivate e portate avanti anche grazie al mercimonio di atti giudiziari da parte di colleghi disonesti; un abuso d’ufficio commesso dal capo della Procura nella quale prestavo lavoro”. Bisogni ha concluso il suo intervento con un commento-appello relativo allo scandalo per le nomine in seno al Csm: “Rendiamo utile a noi stessi e all’intera magistratura italiana questo momento drammatico – ha detto – per rimettere al centro dell’azione associativa i nostri valori e non le nostre ambizioni e facciamolo senza guardare quello che avviene nelle altre correnti, per una volta, senza calcoli elettorali”.

“A Siracusa il lato oscuro della magistratura”, lo sfogo del Sostituto Bisogni. Oriana Vella il 17/06/2019 su siracusaoggi.it. “A Siracusa pensavo di poter fare la differenza. Entrando in magistratura ero convinto che avrei fatto parte di un’organizzazione composta da persone votate al sacrificio e dedite al dovere”. Il sostituto della Dda di Catania, Marco Bisogni affida al sito UniCost dichiarazioni forti, importanti, relative al periodo siracusano e non soltanto. Il Pm, a lungo impegnato in Procura, a Siracusa, è stato tra quanti hanno subito una serie di ripercussioni per contrastare quello che è poi emerso come Sistema Siracusa, con gli avvocati Giuseppe Calafiore, Pietro Amara e tutti coloro i quali sono rientrati, in un modo o nell’altro, nell’inchiesta, che si è poi allargata ben oltre i confini di Siracusa. “Ho dovuto condividere l’ufficio con il lato oscuro della magistratura - racconta - e  non ho voluto andar via fino a quando non sono riuscito a completare - bene o male - tutto il mio lavoro”. Parla di una vicenda personale, per la prima volta, e ne spiega anche la ragione. “Abbiamo cercato di condurre e portare a termine indagini e processi contro alcuni colletti bianchi legati proprio al lato oscuro della magistratura-prosegue il magistrato-  e, per questo, abbiamo sopportato per anni  esposti che trovavano sponda in magistrati – che ora si può dire – avevano piegato la loro funzione anche ad interessi diversi, campagne stampa denigratorie pagate dagli imputati eccellenti con amicizie importanti nella politica e nella magistratura, azioni di responsabilità civile per milioni di euro coltivate e portate avanti anche grazie al mercimonio di atti giudiziari da parte di colleghi disonesti, un abuso d’ufficio commesso dal capo della Procura nella quale prestavo lavoro, la difesa da esposti disciplinari pretestuosi e costruiti a tavolino”. Bisogni racconta anche la parte bella, pulita, trasparente della sua esperienza. “Ho incontrato altri magistrati -prosegue il magistrato– quasi tutti giovani e incoscienti – che si sono fatti, anche loro, carico del fardello e oggi abbiamo sotto gli occhi di tutti voi, l’enorme scandalo di questi mesi. Mentre tutto questo accadeva, mentre giovani magistrati di provincia provavano a riaffermare la legalità negli uffici il nostro autogoverno-dice ancora-  ha scelto e ha scelto male e ha mandato nell’ufficio un Procuratore poi condannato per abuso d’ufficio, un Procuratore Aggiunto ora imputato per lo stesso reato ed un nuovo Procuratore traferito per incompatibilità ambientale. Vi abbiamo delegato l’autogoverno e la nostra rappresentanza nella speranza che i candidati, poi eletti consiglieri ne facessero buon uso. Non è accaduto”.

Questo il suo intervento integrale:

“Sono dovuto restare otto anni nella prima sede perché lavorando e quasi per caso (come avviene spesso nel nostro lavoro) ho progressivamente capito che la magistratura, quando perde la sua carica ideale e smarrisce il desiderio di rendere Giustizia, diviene un potere come gli altri, permeabile alla lusinghe esterne che arrivano attratte dalla possibilità di sfruttare l’enorme potere che abbiamo sulle persone e sulle cose. Ho dovuto condividere l’ufficio con il lato oscuro della magistratura e non ho voluto andar via fino a quando non sono riuscito a completare – bene o male – tutto il mio lavoro. Mi scuso se parlo di una vicenda personale, non l’ho mai fatto e non è il mio stile, ma oggi credo che sia giusto fare un piccolo accenno a questa storia proprio qui e proprio a voi. Abbiamo cercato di condurre e portare a termine indagini e processi contro alcuni colletti bianchi legati proprio al lato oscuro della magistratura e, per questo, abbiamo sopportato per anni:

• esposti che trovavano sponda in magistrati – che ora si può dire – avevano piegato la loro funzione anche ad interessi diversi;

• campagne stampa denigratorie pagate dagli imputati eccellenti con amicizie importanti nella politica e nella magistratura;

• azioni di responsabilità civile per milioni di euro coltivate e portate avanti anche grazie al mercimonio di atti giudiziari da parte di colleghi disonesti;

• un abuso d’ufficio commesso dal capo della Procura nella quale prestavo lavoro;

• la difesa da esposti disciplinari pretestuosi e costruiti a tavolino.

Ho però incontrato altri magistrati – quasi tutti giovani e incoscienti – che si sono fatti, anche loro, carico del fardello e oggi abbiamo sotto gli occhi di tutti voi, l’enorme scandalo di questi mesi. Mentre tutto questo accadeva, mentre giovani magistrati di provincia provavano a riaffermare la legalità negli uffici il nostro autogoverno ha scelto e ha scelto male e ha mandato nell’ufficio un Procuratore poi condannato per abuso d’ufficio, un Procuratore Aggiunto ora imputato per lo stesso reato ed un nuovo Procuratore trasferito per incompatibilità ambientale. Vi abbiamo delegato l’autogoverno e la nostra rappresentanza nella speranza che i candidati, poi eletti consiglieri ne facessero buon uso. Non è accaduto. Negli anni abbiamo visto anche qui il progressivo stravolgimento dell’ordine delle cose:

– ho visto carriere politiche interne alla corrente nascere dal nulla a cavallo tra l’ANM ed il CSM; carriere, a volte, sganciate da una reale credibilità professionale negli uffici, testimoniata con il lavoro quotidiano, ovvero dal parametro che dovrebbe essere il più importante per la selezione dei nostri rappresentanti;

– ho visto nomine di direttivi e semi-direttivi contraddittorie, se non immotivate, e di origine clientelare evidente (colleghi provenienti da lunghissimi fuori ruolo proiettati a dirigere sezioni di grandi Tribunali, colleghi con lunghi trascorsi in politica preferiti nella direzione dei Tribunali, con motivazioni risibili, a magistrati da sempre impegnati negli uffici), nomine – che so bene essere state possibili grazie ad una pessima scrittura delle circolari del Consiglio in tema di selezione, nomina e valutazione dei semi-direttivi e direttivi; Circolari troppo spesso rivendicate a vanto da parte di questo gruppo;

– ho visto in occasione di ogni competizione elettorale il rincorrersi di tatticismi associativi e politici con la rinuncia a competizioni elettorali effettive per il nostro Autogoverno;

– ho visto selezionare i candidati di UNICOST al CSM eludendo le regole che noi stessi ci siamo dati (abbiamo stabilito che un giudice cambiasse funzioni anche nella prospettiva di essere eletto come PM, abbiamo deciso – con un’interpretazione formalista del nostro statuto – che non vi fosse incompatibilità tra i membri del comitato direttivo della SSM e la candidatura al CSM);

– ho visto la corrente silente e immobile mentre la magistratura subiva quotidianamente la divisione in caste (rievocando momenti e fasi storiche che ritenevamo superate): quella dei dirigenti, dei fuori ruolo, dei consiglieri e degli ex consiglieri e quella dei magistrati chiusi negli uffici a spalare fascicoli e ho visto, progressivamente, prendere piede nei colleghi piegati sui fascicoli speranza e timore. La speranza di potere ascendere alla casta superiore e il timore di non riuscire a farlo;

– ho visto, così, in modo irresistibile, anche la stragrande maggioranza dei magistrati adagiarsi e adattarsi a questo stato di cose cercando di cavalcare l’onda della degenerazione correntizia per perseguire proprie ambizioni personali.

Tutto questo ci ha portato al punto in cui siamo e quello che avviene in questi giorni non accade per caso: perdonatemi – lo dico con sincero dolore e rabbia – siamo la corrente che ha scelto di evocare nel suo nome la Costituzione, ma non siamo stati in grado di pretendere il rispetto del codice etico dagli associati e dai nostri rappresentanti che dovrebbero essere i migliori di noi, quelli con i quali i magistrati identificano Unità per la Costituzione.

Mi piacerebbe, però, che questo fosse anche un momento per ricostruire e ripartire. Mi sono accostato ad Unità per la Costituzione perché mi riconosco nell’idea di un magistrato privo di pregiudizi politici, rispettoso delle idee altrui e felice di avere come unica protezione della sua azione la forza della Costituzione e della sua professionalità. Vi confesso, però, che quando un collega, subito dopo le prime notizie, mi ha detto “non voglio più sentire il nome di Unità per la Costituzione”, non ho trovato nell’immediatezza alcuna argomentazione per replicare in modo convinto e credibile. Se sono qui oggi con voi e insieme a voi è perché, invece, gli argomenti li voglio trovare. Li voglio trovare perché sono fortemente convinto che il fallimento definitivo dell’associazionismo giudiziario e dei gruppi associativi – unico antidoto che salvaguarda l’ANM dall’infiltrazione di lobby e centri di interesse – costituirebbe il fallimento della magistratura nella quale sognavo di entrare da liceale e nella quale voglio continuare a lavorare. Un fallimento che sarà l’anticamera di una magistratura burocratizzata esposta all’influenza della politica e pertanto assoggettata al consenso popolare. Li voglio trovare perché la magistratura – soprattutto quella più giovane – è portatrice di una straordinaria carica ideale che funziona come carburante di un corpo professionale che sta dimostrando con orgoglio in ogni sede di avere gli anticorpi necessari per fare pulizia al suo interno. Gli argomenti e le proposte che dobbiamo trovare richiedono, però, rigore, coraggio e determinazione, la stessa che si deve, a volte, mettere nel nostro lavoro quando si lavora per mesi ad un’indagine difficile con la consapevolezza che, se le cose possono andare male, sappiamo comunque di aver fatto il nostro dovere. E allora rendiamo utile a noi stessi e all’intera magistratura italiana questo momento drammatico per rimettere al centro dell’azione associativa i nostri valori e non le nostre ambizioni e facciamolo senza guardare quello che avviene nelle altre correnti, per una volta, senza calcoli elettorali. Quanto è stato fatto in questi terribili giorni dall’attuale gruppo dirigente va nella direzione giusta: riconoscere i clamorosi errori commessi e subire le conseguenze politiche di quanto accaduto è, però, solo l’inizio del percorso. Dobbiamo avere la forza ora di cambiare veramente:

– i nostri Consiglieri siano magistrati al servizio degli altri magistrati che – all’onore di sedere negli scranni del CSM – affianchino maggiori oneri. Chiediamo ai nostri candidati l’impegno a non presentare domanda per incarichi direttivi o semi-direttivi per la consiliatura successiva a quella nella quale hanno operato;

– al CSM e sulle questioni che non sono di principio – come il conferimento degli uffici direttivi o semi-direttivi – le decisioni dei nostri consiglieri non siano il frutto di una scelta di gruppo, ma dei singoli sulla base delle diverse sensibilità individuali;

– nelle more della necessaria modifica alla possiamo legge elettorale del CSM, dobbiamo allentare la nostra presa sulle candidature e sulle liste accettando più candidati e più rappresentanti dai territori;

– l’ANM nazionale non può essere l’anticamera del CSM. Non siamo stati in grado di gestire il passaggio dal ruolo associativo a quello istituzionale. Prevediamo incompatibilità effettive tra i nostri rappresentanti all’ANM e quelli al CSM;

– rendiamoci primi promotori di una riscrittura delle circolari sulla dirigenza e riduciamo la distanza tra alta e bassa magistratura. I dirigenti devono essere valutati secondo i risultati che hanno effettivamente conseguito valorizzando anche le valutazioni dei colleghi d’ufficio con criteri obiettivi e verificabili. La dirigenza non può essere uno status onorifico permanente ma, tra un incarico e l’altro, ci deve essere un congruo periodo di giurisdizione ordinaria.

Solo se metteremo – conclude il dottor Bisogni – tutti veramente testa e cuore in queste battaglie avremo ancora i colleghi al nostro fianco e restituiremo senso alle cose terribili di questi giorni. Rita Levi Montalcini ha detto ”non temete i momenti difficili, il meglio viene li”.

Caso Palamara, Csm e Anm fanno sparire l’indagine. Giovanni Altoprati il 7 Gennaio 2020 su Il Riformista. E tre. Sparita dai radar l’indagine della Procura di Perugia, perse le tracce del procedimento disciplinare del Csm, anche la decisione dei probiviri dell’Anm sulle toghe coinvolte nel caso “Palamara” è finita nel cassetto. Dal Palazzaccio di piazza Cavour, sede dell’Anm, non si hanno da mesi più notizie sullo stato del fascicolo per violazione del codice etico aperto a carico dei magistrati coinvolti nelle cene dello scorso maggio con i deputati del Pd Cosimo Ferri, ora Italia viva, e Luca Lotti, dove si discuteva delle nomine di alcune Procure, iniziando da quella di Roma. Gli incontri romani fra toghe e politici furono registrati tramite il Trojan installato nel cellulare dell’ex presidente dell’Anm e membro del Csm, Luca Palamara, sotto indagine a Perugia dal 2018 per corruzione. Secondo l’accusa, Palamara avrebbe ricevuto denaro e benefit in cambio della nomina, non avvenuta, di Giancarlo Longo a procuratore di Gela. Era il 5 giugno quando il Comitato direttivo centrale dell’Anm decise all’unanimità di deferire al collegio dei probiviri i magistrati investiti dalla bufera scaturita dall’indagine della Procura del capoluogo umbro. Venne anche diramato un comunicato: il Comitato, «deferisce al collegio dei probiviri, cui spetterà di verificare la sussistenza di violazioni del codice etico, i colleghi Luca Palamara, Cosimo Ferri, Luigi Spina, Antonio Lepre, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli e Gianluigi Morlini, riservandosi di deferire altri colleghi che risultassero coinvolti nella medesima vicenda o in altre simili». Trascorsi sei mesi da allora, il nulla. I cinque ex consiglieri, costretti alle dimissioni, sono da tempo tornati in servizio nei rispettivi uffici. Spina, indagato per rivelazione del segreto e favoreggiamento nei confronti di Palamara, è addirittura procuratore facente funzioni a Castrovillari, una delle Procure più impegnate sul fronte del contrasto all’ndrangheta. L’inerzia dell’Anm non ha molte giustificazioni. Il procedimento disciplinare per violazione del codice etico è di prassi molto rapido. La particolare natura del giudizio disciplinare associativo riguarda, infatti, esclusivamente violazioni delle regole associative, senza alcuna censura di carattere morale, ma con un giudizio solamente giuridico. È un procedimento celere, in ragione dei diritti associativi in gioco, e non necessita della conclusione di altri procedimenti, ad esempio penali, aperti nei riguardi degli interessati. La decisione dei probiviri è poi sottoposta al voto del Comitato direttivo centrale, che può anche decidere, nei casi estremamente gravi, di espellere il magistrato dall’Anm. Considerati i tempi, sarà molto però difficile che si arrivi ad una qualsiasi decisione. L’attuale Comitato direttivo centrale terminerà il mandato fra poche settimane. Le elezioni per il suo rinnovo sono state già fissate per il prossimo 22 marzo. A febbraio scadrà il termine per la presentazione delle candidature fra i rappresentanti delle varie correnti. Di questa vicenda, quindi, l’unico che al momento ha avuto “contraccolpi” è stato Palamara, dallo scorso autunno in “ferie forzate”. Sospeso dal servizio e con lo stipendio ridotto, l’ex presidente dell’Anm attende la decisione delle Sezioni unite della Cassazione sul provvedimento cautelare disposto dalla sezione disciplinare del Csm. La tesi di molti commentatori secondo cui l’indagine di Perugia non sarebbe stato altro che un pretesto per il ribaltone degli equilibri all’interno magistratura associata prende sempre più corpo.  Travolta Magistratura indipendente, la corrente di destra della magistratura e di cui facevano parte tre dei cinque consiglieri dimissionari, destinata alla scomparsa Unicost, la corrente di Palamara, l’asse vincente per i prossimi anni sarà quindi quello Davigo-Magistratura democratica. Con la massima soddisfazione del ministro Alfonso Bonafede, il primo supporter dell’ex pm di Mani pulite.

Caso Palamara, per il Gip non ci sono prove. L’ex Pm vittima di congiura. Giovanni Altoprati de Il Riformista il 24 Marzo 2020. Tre soggiorni a San Casciano dei Bagni (SI), uno a Favignana (TP), uno a Madonna di Campiglio (TN), uno a Dubai e uno a Madrid. Sette viaggi per un totale di 7.619,75 euro. L’indagine di Perugia che ha travolto le toghe italiane e ha “consegnato” la maggioranza nel Consiglio superiore della magistratura al gruppo di Piercamillo Davigo ruota intorno a questi sette soggiorni effettuati da Luca Palamara fra il 2014 ed il 2017 e pagati dall’imprenditore e lobbista Fabrizio Centofanti. È quanto emerge dal provvedimento di sequestro preventivo nei confronti di Palamara disposto lo scorso 4 marzo dal Tribunale umbro. L’emergenza Covid-19 deve aver risvegliato dopo mesi di silenzio gli inquirenti: in circa duecento pagine, con dovizia di particolari, il gip di Perugia Lidia Brutti ricostruisce la genesi dell’intera indagine, iniziata nel 2016 dalla Procura di Roma nei confronti di Centofanti, svelando gran parte delle carte in mano all’accusa. Il tema su cui si concentra l’attenzione degli investigatori è il rapporto, iniziato nel 2008, fra Centofanti e l’ex consigliere del Csm ed ex presidente dell’Anm. Una relazione, afferma il gip, «inquinata da interessi non confessabili». «Centofanti – scrive il gip – da tempo operava come lobbista, aveva svolto attività di lobbying per conto di importanti gruppi imprenditoriali, nelle sedi politico/istituzionali. In tale ambito operativo aveva mirato ad accrescere la propria capacità di influenza intessendo una rete di relazioni con rappresentanti di varie istituzioni e con soggetti a loro volta portatori di interessi di importanti gruppi di pressione, alcuni dei quali avevano svolto tale ruolo in modo disinvolto e talora illecito». Il rapporto fra i due, sottolinea il gip, è “opaco” e “anomalo”. Il motivo? Gli incontri avvenivano “soltanto con modalità semi/clandestine”, con numerose accortezze da parte di Centofanti, come ad esempio “lasciare il telefono in auto” prima di incontrare Palamara. Tale rapporto, che espone a pericolo di «pregiudizio l’imparzialità e il buon andamento della funzione pubblica esercitata da Palamara», manca però della pistola fumante. «Non vi è prova che Palamara abbia compiuto in conseguenza delle utilità ricevute atti contrari ai doveri d’ufficio» e «non vi sono elementi sufficienti per affermare che un effetto dannoso sia stato concretamente prodotto», puntualizza il magistrato umbro. Sui fascicoli rinvenuti nell’ufficio del pm romano e sottoposti a sequestro, «non vi è prova che Palamara abbia effettivamente dato seguito alle segnalazioni ricevute». «Io ho scontato il fatto – si difende Palamara – che con tutto quello che ho fatto nella carriera ho ricevuto segnalazioni e richieste da parte di tanti», in primis «magistrati e forze dell’ordine». Per i magistrati le segnalazioni non riguardavano solo gli incarichi direttivi ma anche per “la legge 104”. «Non dico mai no, ma cerco di rallentare, di non esaudire nella speranza che le persone desistano. Quando è possibile, nei limiti del consentito, cerco di esaudire le richieste come ho fatto con tantissime persone», aggiunge Palamara. Nella tesi investigativa gli inquirenti contestano a Palamara l’articolo 318 del codice penale nella formulazione introdotta dalla legge Severino del 2012, “corruzione per esercizio della funzione”. Il reato svincola la punibilità dalla individuazione di uno specifico atto ricollegandola al generico “mercimonio della funzione”. Insomma, Palamara sarebbe stato a libro paga di Centofanti, anche se non è chiaro a quale scopo, dato che, è lo stesso gip a ricordarlo, «il contributo del singolo consigliere non può assumente rilievo determinante nell’ambito dei processi deliberativi di un organo collegiale e non sono stati individuati specifici comportamenti anti/doverosi attribuibili a Palamara». Il sospetto, allora, è che qualcuno fra le toghe abbia voluto preparare il classico “piattino” a Palamara nel momento in cui la magistratura italiana aveva cambiato rotta. Con Unicost, la corrente di centro di cui Palarmara era stato per anni ras indiscusso, che aveva rotto lo storico rapporto con le toghe di Magistratura democratica per allearsi con la destra giudiziaria di Magistratura indipendente. Alleanza che aveva determinato, ad esempio, l’elezione nel 2018 del vice presidente del Csm David Ermini (Pd). Il 16 maggio scorso, avvisato dal collega Luigi Spina che la Procura di Perugia ha trasmesso l’informativa al Csm, Palamara capisce di essere finito nel mirino. In una concitata telefonata con la sorella Emanuela, avvenuta il successivo 29 maggio, Palamara si sfoga: «Me la vogliono far pagare». Il pm romano, dalla scorsa estate sospeso dal servizio, è assistito dagli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti. Nel procedimento disciplinare sarà invece assistito da Stefano Guizzi, consigliere della Corte di Cassazione.

Caso Cesaro, terremoto in tribunale: il giudice stoppa le intercettazioni a strascico. Viviana Lanza su Il Riformista il 19 Giugno 2020. La riforma sulle intercettazioni prorogata a settembre, l’app per il contact tracing tra le ultime novità e da gennaio la sentenza della Cassazione a Sezioni unite (la sentenza Cavallo) a creare uno squarcio nella rete delle intercettazioni a strascico, dichiarando non valide quelle per reati non connessi e diversi dai reati per i quali erano state autorizzate. Quante cose stanno accadendo… Si ragiona sulla tecnologia, madre e matrigna, che può aprire mondi o comprimere diritti. Come nel caso delle intercettazioni. Sì, il famoso trojan, quello che qualche magistrato ha trasformato in esclusivo metodo d’indagine, che può rivelarsi un utile strumento investigativo ma anche un mezzo per andare alla ricerca di reati più che di responsabili. Basta informarsi su alcune delle più clamorose inchieste degli ultimi anni – come quelle partite da Napoli e approdate a Roma, come quelle capaci di condizionare non solo vite personali ma anche il corso della politica – per accorgersi che un buon numero di inchieste su reati ipotizzati nella sfera della pubblica amministrazione si basano sulle cosiddette intercettazioni a strascico, quelle che mettono sotto controllo decine di persone per scoprire decine di fatti (che poi bisogna vedere se sono o no reati), quelle che i decreti autorizzativi sono sì autonomi ma si basano sui contenuti di intercettazioni raccolte partendo da tutt’altri fatti per tutt’altre notizie di reato. Cosa ne sarà di tutte queste inchieste? Di certo nei vari gradi di giudizio si dovranno confrontare con la nuova linea dettata dalla Corte di Cassazione con la sentenza Cavallo. La sentenza è di gennaio scorso ma tra l’emergenza Covid e il lockdown è tema che da poco infiamma le aule di Tribunale. Non perché l’argomento sia nuovo in sé (in passato ci sono stati giudici chiamati a pronunciarsi sulla utilizzabilità o meno delle intercettazioni a strascico) ma perché la decisione delle Sezioni unite si pone ora come argine per risolvere un antico conflitto giurisprudenziale. In ordine di tempo, quindi, una delle prime applicazioni della sentenza Cavallo si ritrova nella decisione del Tribunale del Riesame di Napoli (ottava sezione) che nei giorni scorsi ha annullato la misura cautelare, dichiarando inutilizzabili le intercettazioni al cuore delle accuse nell’ambito dell’inchiesta sulla riqualificazione dell’area ex Cirio di Castellammare di Stabia, indagine che coinvolge imprenditori, pubblici amministratori e parlamentari. «E ciò non per ossequio a un criterio di tipo formalistico da contrapporsi all’approccio “sostanzialistico” suggerito dal pm – si legge nelle motivazioni del Riesame di Napoli – ma perché è la concreta lettura dei provvedimenti di intercettazione a rendere palese come, all’atto della loro emissione o proroga, non sia stato effettuato dal gip, né richiesto dal pm, alcun vaglio circa la sussistenza di gravi indizi del reato di corruzione». Gravi indizi del reato: è un passaggio fondamentale, quello su cui c’è da aspettarsi grande battaglia tra pm, giudici e avvocati. «È uno dei punti su cui ancora non si è stabilita una giurisprudenza e una linea costante – spiega l’avvocato Giovan Battista Vignola, uno dei penalisti del collegio difensivo che dinanzi al Riesame di Napoli ha ottenuto l’annullamento della misura per l’inutilizzabilità delle intercettazioni – ma la sentenza Cavallo ha messo un punto fermo. Le intercettazioni vanno motivate e autorizzate sulla base di gravi indizi dell’esistenza del reato e non possono essere usate come strumento per cercare reati». «Si tratta di una decisione coerente con il rigore della ratio e della portata della disciplina costituzionale della libertà e della segretezza delle comunicazioni – osserva, a proposito della sentenza Cavallo, il professor Vincenzo Maiello, ordinario di diritto penale all’università di Napoli Federico II e penalista che è nel collegio difensivo che dinanzi al Riesame di Napoli ha ottenuto la pronuncia sulla inutilizzabilità delle intercettazioni a strascico – Rappresenta un punto di equilibrio, ragionevole e proporzionato, tra la tutela di questo diritto fondamentale e la doverosa attività di ricerca della prova finalizzata all’accertamento dei reati e alla loro punizione. Le Sezioni unite – aggiunge – hanno inteso porre un argine a letture lassiste, eccessivamente largheggianti, del dato normativo che a loro volta finivano per legittimare la pratica delle cosiddette autorizzazioni in bianco».

Arresti erano illegittimi. Su Cesaro e Pentangelo c'era solo tanto fango. L’indagine riguarda la riqualificazione dell’area ex Cirio di Castellammare di Stabia. Sulla richiesta di arresto di Cesaro e Pentangelo si sarebbero dovute esprimere le Camere di appartenenza. Gabriele Laganà, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. Il Tribunale del Riesame ha annullato la richiesta di arresto per i parlamentari di Forza Italia Luigi Cesaro e Antonio Pentangelo. La decisione è arrivata ai sensi della cosiddetta "sentenza Cavallo": in pratica, le intercettazioni autorizzate per provare alcuni reati non possono essere utilizzate in un differente procedimento penale. Nel caso dei due esponenti azzurri, infatti, tali intercettazioni che avevano portato alla misura cautelare erano antecedenti alle ipotesi di reato contestate dalla Procura. La misura cautelare in carcere con il beneficio dei domiciliari era stata richiesta dalla Procura di Torre Annunziata nell'ambito dell'inchiesta sulla riqualificazione dell'area ex Cirio di Castellammare di Stabia. Secondo gli investigatori, i due parlamentari sarebbero stati corrotti dall'imprenditore stabiese Greco per ottenere delle autorizzazioni. Sulla richiesta di arresto dei due esponenti azzurri si sarebbero dovute esprimere le rispettive Camere di appartenenza (il Senato per Cesaro e la Camera dei Deputati per Pentangelo, ndr) ma con l'annullamento non sarà più necessaria la decisione. Le motivazioni specifiche dell’annullamento della richiesta di arresto per i parlamentari non sono state ancora rese note ma gli avvocati Giovan Battista Vignola e Giuseppe De Angelis, difensori di Cesaro, e Antonio Cesarano, legale di Pentangelo, hanno puntato sulla violazione "di legge in ordine alla corretta applicazione delle norme che regolano le intercettazioni telefoniche". Si tratta della cosiddetta sentenza Cavallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che in passato ha riguardato il tema delle "intercettazioni a strascico", il principio giuridico secondo il quale se nel corso di intercettazioni telefoniche autorizzate per una ipotesi di reato specifica emergono altre ipotesi di reato, allora è necessario chiedere nuovi decreti autorizzativi al gip, così da procedere separatamente per i due reati. Circostanza questa che, secondo quanto emerso nel corso della discussione davanti ai giudice della Libertà, non si è verificata. Cesaro si era sempre detto fiducioso nell'operato della magistratura e si era augurato di avere "in tempi stretti la possibilità di chiarire la totale estraneità alle vicende e ai fatti contestati". Pentangelo, invece, si era detto "esterrefatto nell'apprende la notizia di un mio paventato coinvolgimento in ipotesi di reato per una vicenda della quale viene fornita, per la mia posizione, una ricostruzione totalmente distante dalla realtà" e aveva annunciato che non avrebbe partecipato ai lavori di commissione "in attesa di chiarire la mia posizione prima possibile". "L’ordinanza impugnata dal senatore Cesaro ed ora annullata dal Tribunale del Riesame si sostanzia nel fatto che nei confronti del nostro assistito non doveva essere e non poteva essere né richiesta né emessa la misura cautelare", hanno affermato gli avvocati Giovan Battista Vignola e Giuseppe De Angelis, difensori del senatore Cesaro. I legali hanno aggiunto che si è confermata "ancora una volta che la condotta del senatore Cesaro è sempre stata ispirata alla correttezza e alla trasparenza, dimostrando puntualmente in tutte le sedi la sua totale estraneità alle diverse vicende contestategli".

 Il Riesame annulla domiciliari per Cesaro e Pentangelo, ma erano già nel tritacarne mediatico. Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Giugno 2020. Come quelle linee di cui si vede l’inizio ma non la fine. Come quelle matrioske che ne apri una e dentro ce ne trovi un’altra e potresti continuare all’infinito. Tecnicamente vengono definite “intercettazioni a strascico”. Una ne richiama un’altra, e un’altra, e un’altra ancora. E così si riesce ad annaspare tra dialoghi e reti di relazioni e persone, continuando fin quando non si arriva a intercettare la persona cercata, l’obiettivo. Perché chi cerca trova sempre qualcosa. Bisogna poi vedere quanto quel qualcosa sia penalmente rilevante. Bisogna vedere se quel qualcosa poggia su solide accuse o solo su deduzioni, ipotesi, interpretazioni. A gennaio la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la cosiddetta sentenza Cavallo, si è pronunciata sulle intercettazioni a strascico, ritenendole inutilizzabili. Si è così posto un argine al fiume di conversazioni intercettate, che costano all’anno decine di milioni di euro, e fissate su bobine che finiscono nei fascicoli di indagine. La Cassazione ha stabilito che non sono utilizzabili le conversazioni captate per altri reati e autorizzate in inchieste diverse da quella per cui si procede (unica eccezione i casi di criminalità organizzata), tracciando di fatto un limite ad uso eccessivo delle intercettazioni e al loro passaggio da un filone investigativo all’altro senza relativa autorizzazione. Perché intercettare una persona vuol dire entrare nella sua vita in maniera così invadente che devono esserci una valida motivazione e una formale autorizzazione. Come a dire che non si può chiedere l’arresto di una persona sulla base del contenuto di conversazioni intercettate nell’ambito di un’indagine in cui quelle intercettazioni non sono state specificamente autorizzate. Come a dire che il metodo della matrioska, in un settore delicato come quello delle intercettazioni, non è utilizzabile. Un po’ quello che è accaduto nel caso di Luigi Cesaro e Antonio Pentangelo, i due parlamentari del centrodestra che la Procura di Torre Annunziata voleva agli arresti domiciliari, in via cautelare, per ipotesi di corruzione nell’ambito dell’indagine sulla riqualificazione dell’area dell’ex Cirio di Castellammare di Stabia. Il Tribunale del Riesame (ottava sezione, presidente Pepe, a latere Purcaro e Maddalena) ha annullato la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di Cesaro e Pentangelo, misura che pendeva come richiesta in attesa della pronuncia delle Camere e che a questo punto, con l’ordinanza emessa ieri dal Riesame, è annullata. La Procura potrà, se vorrà, fare ricorso per Cassazione. Ma la strada sembra comunque segnata. Proprio appellandosi a una recente sentenza della Cassazione, infatti, i difensori dei due parlamentari avevano argomentato l’istanza al Tribunale della Libertà. Le motivazioni saranno depositate a giorni, ma appare evidente che il Riesame abbia accolto la linea della difesa. «L’ordinanza impugnata dal senatore Cesaro e annullata dal Riesame si sostanzia nel fatto che nei confronti del nostro assistito non doveva e non poteva essere né richiesta né emessa la misura cautelare», affermano gli avvocati Giovan Battista Vignola e Giuseppe De Angelis aggiungendo che “si conferma la condotta del senatore ispirata alla correttezza e alla trasparenza”. «Ogni volta che un giudice afferma un diritto viene affermato un principio di democrazia del Paese», aggiunge l’avvocato De Angelis a proposito della pronuncia dei giudici sull’inutilizzabilità delle intercettazioni a carico di Cesaro. «Il provvedimento emesso dai giudici del Tribunale del Riesame conforta le nostre tesi, ovvero l’assoluta correttezza e osservanza delle leggi da parte dell’onorevole Pentangelo», commenta l’avvocato Antonio Cesarano, legale dell’onorevole. «Oggi le buone notizie sono due – interviene Fulvio Martusciello, europarlamentare di Forza Italia – La prima è la conferma, qualora ce ne fosse bisogno, del corretto operato dei nostri parlamentari. La seconda è l’affermazione di un principio di legalità sancito da un collegio giudicante e non da un organismo di garanzia delle Camere. Un ottimo segnale per la democrazia – aggiunge Martusciello – in un Paese nel quale si può continuare ad avere piena fiducia nella magistratura». Soddisfazione anche da parte del senatore Domenico De Siano, coordinatore regionale campano di Forza Italia: «Da garantisti convinti – commenta – ribadiamo la piena fiducia nella magistratura, rimarcando come l’affermazione del principio di legalità coincida con l’affermazione del principio di democrazia».

 “Intercettazioni su Cesaro e Pentangelo inutilizzabili”, deputati colpiti dalla macchina del fango. Viviana Lanza su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Ci sono almeno tre argomenti che per il caso dell’ex Cirio, inchiesta per presunta corruzione a Castellammare di Stabia, invitano a usare cautela nei giudizi, evitando quelli affrettati e che potrebbero risolversi in una bolla di sapone. Non sarebbe la prima volta, del resto, che accuse su cui si sono inizialmente sollevati grossi scandali giudiziari si siano poi ridimensionate nelle aule di tribunale. Ci sono almeno tre passaggi, dunque, su cui la difesa di Luigi Cesaro (avvocati Giovanbattista Vignola e Giuseppe De Angelis) e di Antonio Pentangelo (avvocato Antonio Cesarano) punta l’attenzione in attesa della decisione delle Camere sulla richiesta di arresti domiciliari avanzata dagli inquirenti nei confronti dei due politici, oggi parlamentari di Forza Italia e già presidenti della Provincia di Napoli, e in attesa del possibile, quasi scontato, ricorso al Riesame da parte dei difensori. Due argomenti sono di carattere tecnico giuridico, un terzo va invece dritto al cuore delle vicende al centro dell’inchiesta. Ed è quest’ultimo un punto centrale nella ricostruzione difensiva. “Tutta l’operazione oggetto delle indagini sembrerebbe non essere affatto finalizzata alla emanazione di provvedimenti illeciti ma piuttosto a rimuovere un’inspiegabile inerzia burocratica ai limiti dell’ostracismo, tanto da dover sollecitare la nomina di un commissario ad acta per l’espletamento delle incombenze richieste”, osservano i difensori di Cesaro. È un ragionamento che si basa su una chiave di lettura dei fatti diversa da quella proposta dalla Procura di Torre Annunziata che coordina l’indagine, e su una ricostruzione che considera l’interesse della politica verso una simile opportunità per il territorio come un’attenzione legittima e confinata nei limiti dei compiti istituzionali di un politico. “Nessun atto illegittimo è stato fatto, nessun atto contrario ai doveri di ufficio”, spiega l’avvocato Cesarano, difensore di Pentangelo, evidenziando come il ruolo del suo assistito si sia limitato alla nomina del commissario. Un commissario ad acta di cui nelle intercettazioni si parla come di uno che lavora per 1.800 euro. “Ma stiamo scherzando?”, si commenta in una delle intercettazioni agli atti, come a meravigliarsi secondo la chiave di lettura che offre la difesa. Uno stupore che si ritrova anche quando un consigliere comunale si meraviglia di avere a che fare con una politica che non chiede nulla, non chiede soldi: “Ma quando l’hanno avuta una cosa del genere senza cacciare una lira?”. Eppure il progetto di riconversione dell’ex Cirio era un’operazione imponente, operazione che, come si ascolta in una delle conversazioni intercettate, avrebbe trasformato “le baracche in oro”. Centrale nell’inchiesta è la figura di Adolfo Greco, imprenditore molto conosciuto nella zona, uno con tantissimi amici e una fitta rete di relazioni con tutti i partiti, dal centrosinistra al centrodestra passando per gli esponenti di Scelta Civica. “In nessun passaggio emerge che Cesaro e Pentangelo abbiano chiesto soldi o altro”, spiega la difesa a proposito dei rapporti con l’imprenditore. Quanto all’orologio avuto in dono da Pentangelo si sarebbe trattato di un regalo di compleanno arrivato a distanza di molto tempo dai fatti, mentre a proposito dello sconto per il fitto della sede di Forza Italia di cui pure si parla nell’inchiesta, la difesa smonta l’ipotesi accusatoria evidenziando come il canone fosse a carico del partito a Roma e non già del coordinamento regionale. I fatti, a volte, si prestano a più chiavi di lettura. Poi ci sono le argomentazioni più strettamente tecniche e riguardano le intercettazioni al cuore delle accuse e la tempistica delle richieste di misura cautelare. Sulle intercettazioni i difensori di Cesaro e Pentangelo sollevano una questione di legittimità e utilizzabilità essendo state, le intercettazioni al cuore di questa inchiesta, disposte e autorizzate in relazione a un reato non connesso a quello ipotizzato a carico dei politici. La seconda perplessità difensiva riguarda la tempistica delle richieste di misura cautelare, e quindi l’attualità delle esigenze cautelari su cui base la Procura ha basato la richiesta di arresti domiciliari per Cesaro e Pentangelo: i fatti si riferiscono agli anni dal 2013 al 2015. “E di essi già da tale epoca – spiega la difesa – l’autorità giudiziaria ne era a conoscenza. Perché allora la decisione di emettere a distanza di tale lasso di tempo una misura così grave come quella adottata?” Questo è uno dei tanti interrogativi che su questa vicenda restano ancora aperti.

Caso Palamara, spunta il "salvagente" per le toghe. Non utilizzabili le intercettazioni compiute per altre inchieste. Appiglio pure per Maroni. Luca Fazzo, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Una svolta che potrebbe salvare Roberto Maroni, l'ex presidente della Regione Lombardia recentemente condannato anche in appello per induzione indebita. Ma che sullo sfondo ha anche un'altra vicenda, e di rilevanza ancora maggiore: lo scandalo che ha investito il Consiglio superiore della magistratura, le cui manovre sottobanco sono state messe in luce da una serie di intercettazioni che hanno portato a incriminazioni eccellenti e dimissioni. A partire da quelle del giudice Luca Palamara, leader della corrente di Unicost, e del procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio. A unire le due vicende (ma anche molte altre di minor rilievo) è la sentenza, per alcuni aspetti rivoluzionaria, emessa il 2 gennaio dalle Sezioni Unite della Cassazione. Tema cruciale: la utilizzabilità in un'inchiesta e in un processo di intercettazioni compiute in un'altra indagine. È il sistema invalso da anni, con verbali che rimbalzano da una inchiesta all'altra. Finora la Cassazione aveva lasciato le briglie sciolte alle Procure: bastava che il contesto fosse più o meno uguale, che uno o più indagati comparissero in entrambi i filoni, e tutto si poteva utilizzare. Il caso più recente e lampante era stato proprio quello di Maroni: intercettato in una costola dell'indagine sugli appalti in India di Finmeccanica, finita in nulla, ma poi inquisito e condannato per i favori fatti in Lombardia a una collaboratrice del suo staff. La motivazione della condanna in appello, depositata l'altro ieri, dice che le intercettazioni erano utilizzabili essendoci «connessione soggettiva e probatoria tra i due procedimenti», «siccome erano evidenti le necessità di approfondire i rapporti tra Maroni e i suoi più stretti collaboratori». Macché, dicono ora le Sezioni Unite della Cassazione: le intercettazioni possono transitare da un indagine all'altra solo nei casi previsti dall'articolo 12, cioè se i reati sono commessi «con una sola azione» o con un «unico disegno criminoso», o il secondo reato per coprire il primo. Maroni, quando il suo caso approderà in Cassazione, potrà giovarsi della svolta. Ma lo stesso potranno fare esponenti di spicco della magistratura coinvolti dall'inchiesta sul Csm, e intercettati insieme a Palamara. Dovrebbero salvarsi l'ex procuratore generale della Cassazione, Fuzio, e l'ex membro del Csm Luigi Spina, accusati di avere rivelato a Palamara l'esistenza dell'inchiesta a suo carico. L'inutilizzabilità delle intercettazioni in sede penale potrebbe essere fatta valere anche in sede disciplinare dai numerosi ex membri del Csm finiti sotto procedimento. Per non parlare di cosa accadrebbe se la Corte Costituzionale desse ragione a Cosimo Ferri, senatore di Italia viva, che accusa la Procura di Perugia di averlo intercettato abusivamente mentre parlava con i membri del Csm.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 10 gennaio 2020. L'inchiesta perugina sul presunto mercato delle nomine al Csm ci regala un nuovo colpo di scena. L' uomo le cui dichiarazioni sono la principale fonte d' accusa dei magistrati umbri è finito sotto indagine per calunnia presso la Procura di Messina. Direte: magari si tratta di storie completamente diverse. Sbagliato. Il grande accusatore, l' ex pm Giancarlo Longo, che, nel dicembre 2018, dopo aver lasciato magistratura, ha patteggiato una pena di cinque anni per corruzione e altri reati, è stato iscritto per alcune delle cose che ha riferito anche a Perugia. Da una parte le sue dichiarazioni hanno giustificato perquisizioni e atti d' indagine, dall' altra sono state prese come un tentativo di infangare il buon nome dell' ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, attuale presidente del Tribunale di prima istanza del Vaticano. Ma procediamo con ordine. A fine maggio la Procura perugina ha spedito i finanzieri a casa e nell' ufficio del pm romano Luca Palamara, ex consigliere del Csm. Nel decreto di perquisizione e nell' avviso di garanzia il primo capo d' accusa per corruzione era così formulato: «Perché quale componente del Csm, riceveva da Calafiore Giuseppe e Amara Piero - in concorso tra loro e con Longo Giancarlo - la somma pari ad euro 40.000 per compiere un atto contrario ai doveri d' ufficio, ovvero agevolare e favorire il medesimo Longo nell' ambito della procedura di nomina del procuratore di Gela alla quale aveva preso parte Longo». Un reato che sarebbe stato commesso intorno all' aprile del 2016, quando Palamara era membro del Csm. Amara e Calafiore, lo ricordiamo, sono due avvocati accusati da diverse Procure di aver aggiustato processi, corrompendo giudici (a Roma hanno già patteggiato rispettivamente 36 e 33 mesi di reclusione; Amara ha chiuso la pratica anche a Messina incassando altri 14 mesi). La succitata accusa contro Palamara nasce dalle dichiarazioni rese da Longo a Perugia il 26 aprile 2019: «È stato Calafiore a dirmi che la candidatura a Gela, in particolare non era andata a buon fine, nonostante lui fosse intervenuto su Palamara con una dazione di 40.000 euro». Ma il 26 aprile Longo fa anche sapere ai pm di non essere così certo di quanto gli riferisse Calafiore: «Raccontava molte circostanze similari e non so dire se millantasse o altro». Per i magistrati probabilmente, almeno su questo punto, no. Ma nella stessa giornata, l' avvocato di Longo, Bonaventura Candido, fa presente che nel luglio 2018 il suo assistito aveva riferito a Messina di una circostanza «presumibilmente di vostra competenza relativa a un altro magistrato». Nel verbale sintetico si legge quanto Longo dichiarò subito dopo: «Ho riferito che attraverso un telefono cellulare poi non rinvenuto ero stato avvisato da Calafiore che Amara era stato informato di una mail che De Lucia (procuratore di Messina, ndr) aveva inviato a Pignatone (che stava indagando su Amara e Calafiore a braccetto con i colleghi messinesi, ndr), contenente in allegato la bozza della richiesta di misura cautelare nei nostri confronti (di Longo, Amara e Calafiore, ndr)». Arresto poi in effetti avvenuto nel febbraio 2018. Di quella bozza, secondo il grande accusatore, Amara «era venuto a conoscenza attraverso il fratello del dottor Pignatone», Roberto, il quale in passato era stato un consulente dello stesso Amara. La notizia gli sarebbe stata confermata dall' avvocato su una chat riservata (Wickr, dove i messaggi si autodistruggono) inviata su un telefonino che gli era stato fornito dai due coimputati per interloquire con loro e che «al momento dell' arresto è stato gettato nella spazzatura». Tutto ciò sarebbe avvenuto «nel settembre/ottobre 2017». A Messina Longo aveva riferito all' incirca le stesse cose, aggiungendo: «Sia Amara che Calafiore avevano un rapporto diretto col fratello di Pignatone a loro dire, a quello che so è un professore che si occupa di economia». Non è finita: «Calafiore mi disse che mi stavano arrestando. Mi consigliò di trovarmi un avvocato bravo e di fare una memoria difensiva. Ho poi visto due cnr (comunicazioni notizie di reato, annotazioni degli investigatori ndr) delle quali intendo riferire». Calafiore nell' incidente probatorio del 3 luglio 2018 prima avverte i giudici che «Longo è uno dei miei più cari amici», ma poi smentisce il compare sia a proposito delle dichiarazioni su Palamara sia di quelle sui fratelli Pignatone. «Io non ho riferito a Longo di nessuna mail [] Non ho rapporti diretti con il fratello del dottor Pignatone, non so nemmeno se l' ho mai incontrato. Io non ero a conoscenza della misura di custodia cautelare». Calafiore ammette solo di aver mostrato le cnr a Longo, carte riservate che Amara avrebbe ricevuto da sue fonti («Mi ha detto: "Guardia di finanza, persone mie"»). Sulla base di quei documenti, ma, a suo avviso, anche della notizia dell' imminente arresto, l' ex magistrato, a tambur battente, nell' ottobre del 2017 nominò un avvocato a Messina (Candido) e preparò una memoria e una consulenza tecnica sui suoi conti correnti. Il legale depositò anche una comunicazione in cui faceva presente agli inquirenti che il suo assistito non era più magistrato di Siracusa (dove era ipotizzata la commissione di condotte illecite), ma aveva «assunto le nuove funzioni di giudice istruttore della quinta sezione civile del Tribunale di Napoli». Una mossa dall' obiettivo chiaro anche per uno studente del primo anno di giurisprudenza: il suo cliente non poteva reiterare il reato e quindi non doveva essere arrestato. Nel 2018 a Messina hanno iscritto Longo sul registro degli indagati per la presunta calunnia ai danni di Pignatone e di suo fratello Roberto, per averli incolpati di rivelazione di segreto, «pur sapendoli innocenti, poiché attribuiva a Calafiore Giuseppe delle propalazioni rivelatesi non vere». In pratica Longo oltre che corrotto sarebbe una specie di kamikaze: mentre ammetteva i reati a lui contestati alla ricerca del patteggiamento, avrebbe deciso di infangare il nome del più potente procuratore d' Italia, non si sa bene con quale fine. Fatto sta che il 10 ottobre scorso Longo ha ricevuto in carcere l'avviso di chiusura indagini e il 31 ottobre, su sua richiesta, è stato sentito a Rebibbia (dove è rinchiuso da agosto) da due pm messinesi, volati a Roma per interrogarlo sulla presunta calunnia ai danni dei fratelli Pignatone. L'indagato, nell'occasione assistito anche dall' avvocato Itana Crialesi, ha consegnato ai magistrati alcune pagine di spontanee dichiarazioni, con cui, a quanto ci risulta, avrebbe confermato le precedenti versioni. Resta inspiegabile l' atteggiamento suicida di Longo, a meno che non si voglia prendere in considerazione l' ipotesi che stia ripetendo in buona fede quanto gli è stato realmente riferito. Quel che è certo è che di fronte a valutazioni apparentemente così difformi da parte di due diversi uffici giudiziari sulle sue dichiarazioni qualcuno potrebbe trarre l' errata conclusione che Longo è un testimone credibile quando parla di Palamara, mentre è un calunniatore quando coinvolge Pignatone e famiglia.

Antonella Mascali per il Fatto Quotidiano il 10 gennaio 2020. Ha accusato il Procuratore di Catanzaro anti 'ndrangheta, Nicola Gratteri, via telecamere, di condurre inchieste "evanescenti" e per questo, ma non solo, il Procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, potrebbe essere trasferito dal Csm per incompatibilità ambientale. Ieri, la Prima commissione del Csm, presieduta da Sebastiano Ardita, ha votato all' unanimità la procedura e già lunedì Lupacchini sarà sentito dalla Prima con il suo avvocato Ivano Lai, che assicura: "Il Pg con serenità si sottoporrà alle domande del Csm". Lupacchini ha anche chiesto che la seduta sia pubblica, dovrà decidere il Csm se acconsentire. Contemporaneamente, la Prima Commissione, su richiesta di Magistratura Indipendente, Area e del laico M5S , Gigliotti ha aperto una pratica a tutela di Gratteri per le dichiarazioni di Lupacchini e per quelle della deputata del Pd Enza Bruno Bossio che aveva definito l' operazione di Gratteri uno "show" destinato a finire "in una bolla di sapone come il 90% delle sue indagini", con lo scopo di "colpire la possibilità di Oliverio di ricandidarsi". Dopo i 300 arresti di dicembre chiesti e ottenuti dal procuratore Gratteri, Lupacchini aveva rilasciato una dichiarazione su Tgcom24 che ha determinato la decisione della Prima: "I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa, che evidentemente è più importante della Procura generale. Al di là di quelle che sono poi, invece, le attività della Procura generale, che quindi può rispondere soltanto sulla base di ciò che normalmente accade e cioè l' evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della Procura distrettuale di Catanzaro stessa". Cioè il Procuratore generale accusa pubblicamente il procuratore del suo distretto di condurre inchieste basate sul nulla e di non averlo informato. Secondo la Prima commissione ci sono gli estremi per valutare un trasferimento per incompatibilità ambientale perché Lupacchini avrebbe espresso un giudizio su inchieste su cui dovrà esserci una valutazione di merito di giudici; formula un giudizio su un magistrato su cui, per funzione, deve vigilare come su tutte le altre toghe del distretto. Il Procuratore generale fa anche parte, come membro di diritto, del Consiglio giudiziario, il "Csm locale", che concorre alla valutazione professionale dei magistrati e alla loro nomina per incarichi direttivi o semi direttivi. Proprio per questo ruolo, è il ragionamento della Prima, con tale comportamento Lupacchini potrebbe aver compromesso la sua immagine di imparzialità in quel distretto. Lunedì non sarà contestata, però, solo l' intervista ma anche, ci risulta, la pubblicazione sulla pagina Facebook del Pg di una petizione contro la decisione dei giudici disciplinari del Csm di trasferimento cautelare a Potenza, come giudice civile, del procuratore Eugenio Facciolla di Castrovillari (distretto di Catanzaro), messo sotto inchiesta a Salerno dopo aver ricevuto un fascicolo dal procuratore Gratteri.

Gratteri intoccabile, il Pg critica e rischia sanzioni. Lupacchini in tv ha accusato: «Avvisa stampa e non noi». Aperto procedimento disciplinare. Felice Manti, Venerdì 10/01/2020 su Il Giornale.  Chi tocca Gratteri muore. Il procuratore capo di Catanzaro non è molto amato negli uffici giudiziari del capoluogo calabrese, e questo il coraggioso magistrato antimafia l'aveva messo in conto. Ma quando le critiche al suo operato si sono spostate dalla macchinetta del caffè alle telecamere di Tgcom il disagio del tribunale calabrese è venuto fuori in maniera esplosiva. A innescare la miccia sono state le dichiarazioni del Procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Non certo un dilettante ma un gigante della magistratura, con alle spalle inchieste e processi pesantissimi, dallo strano suicidio del «banchiere di Dio» Roberto Calvi all'omicidio del giuslavorista Massimo D'Antona per mano delle nuove Br passando dalla strage di Bologna e un libro-inchiesta sulla Banda della Magliana. Nei giorni successivi alla maxi inchiesta di 'ndrangheta che ha portato a 416 indagati tra politici, avocati, amministratori, funzionari e forze dell'ordine Gratteri si è beccato via etere la durissima reprimenda di Lupacchini con frasi del tipo «abbiamo saputo i nomi degli arrestati dalla tv», «per Gratteri è più importante informare la stampa della procura generale», aggiungendo una postilla al vetriolo su «l'evanescenza di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro». «Dichiarazioni allarmanti», dicono i magistrati di Area e Magistratura indipendente, che hanno innescato il «processo» a Lupacchini, che adesso rischia il trasferimento. Anche perché contro si trova anche l'Anm, sceso in trincea a difendere Gratteri da «un'inaccettabile forma di condizionamento dell'autonomia e indipendenza dei titolari delle indagini». «Frasi sconcertanti, non argomentate e infondate» espresse da chi, dice il sindacato delle toghe, «è al vertice della magistratura requirente del distretto». Se la mafia calabrese a casa sua fa il bello e il cattivo tempo un motivo c'è. E Gratteri lo sa benissimo. La Procura calabrese è un colabrodo, tanto che per scongiurare la fuga di notizie aveva anticipato il maxiblitz anti 'ndrangheta di un giorno. Lo sa bene anche l'ex pm di Catanzaro Luigi de Magistris, anche lui «costretto» nel 2007 ad agire all'insaputa dell'allora suo capo Mariano Lombardi perché voleva indagare sui rapporti tra le toghe e i politici come l'ex senatore di Forza Italia Giancarlo Pittelli, che di Lombardi era il legale di fiducia. E oggi è in carcere per 'ndrangheta nell'inchiesta firmata Gratteri che ha scoperchiato il vaso di Pandora pieno di colletti bianchi al servizio delle 'ndrine. È in questo clima di sospetti incrociati che, tra i pm litiganti, la 'ndrangheta gode.

Il procuratore generale Lupacchini rischia il trasferimento per le critiche a Gratteri. Redazione de Il Riformista il 9 Gennaio 2020. Il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini rischia di dover lasciare il suo posto per aver criticato la Procura della Repubblica del capoluogo e il suo capo Nicola Gratteri per l’inchiesta sulla ‘ndangheta che nelle scorse settimane ha portato all’arresto di oltre 300 persone. In particolare la Prima Commissione del Csm ha aperto nei confronti di Lupacchini, convocato per lunedì prossimo, la procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale. La ‘colpa’ del procuratore generale sarebbe quella di aver delegittimato pubblicamente l’operato di Gratteri. La stessa Commissione del Consigli superiore della magistratura ha anche aperto una pratica a tutela di Gratteri per le accuse ricevute sia da Lupacchini che dalla deputata Pd Enza Bruno Bossio. Gratteri in una intervista a TgCom24 aveva parlato di “evanescenza di molte operazioni della Procura di Catanzaro”, lamentando di aver appreso soltanto dalla stampa le ragioni dei provvedimenti e i nomi degli arrestati. Nelle scorse settimane anche l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, si era espressa contro Lupacchini. “Le valutazioni del Procuratore Generale Lupacchini, come riportate dalla stampa, relative a ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip in seguito ad indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Catanzaro e in attesa di ulteriori verifiche giurisdizionali, sono sconcertanti in sè e ancor più perché provenienti dal vertice della magistratura requirente del distretto”, era la posizione netta dell’associazione di categoria.

Scontro Gratteri-Lupacchini, chiesto il trasferimento del procuratore generale di Catanzaro. Simona Musco su Il Dubbio il 21 gennaio 2020. Il pg nel mirino dopo le critiche al procuratore della Dda di Catanzaro: «non mi ha informato sul blitz, preferisce i giornali». «Otello Lupacchini va trasferito». È questa la misura cautelare invocata dal pg di Cassazione Giovanni Salvi e dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per il procuratore generale di Catanzaro. Una decisione che il plenum del Csm prenderà giovedì prossimo, quando si stabilirà il destino del magistrato, finito nell’occhio del ciclone per le sue esternazioni critiche nei confronti della Dda di Catanzaro e, in particolare, nei confronti del suo capo, Nicola Gratteri. Tutto era nato dalle dichiarazioni rilasciate in un’intervista a TgCom, dopo il blitz “Rinascita-Scott”, che ha portato ad oltre 300 misure cautelari e a un totale di 416 indagati. A chiedere la pratica a tutela del procuratore della Dda Nicola Gratteri erano stati i consiglieri di Area e Magistratura Indipendente, preoccupati per l’intervista, che aveva fornito al pg il pretesto per riprendere i fili della polemica ingaggiata ormai da mesi con Gratteri, lamentando il «mancato rispetto delle regole di coordinamento con altri uffici giudiziari». «I nomi degli arrestati – aveva dichiarato – e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante della procura generale contattare e informare. Al di là di quelle che sono poi, invece, le attività della procura generale, che quindi può rispondere soltanto sulla base di ciò che normalmente accade e cioè l’evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro stessa». Per il Csm, Lupacchini avrebbe così delegittimato pubblicamente l’operato del procuratore Gratteri, tenendo tutta una serie di comportamenti che macchierebbero l’immagine del magistrato. Il pg era comparso in prima commissione lo scorso 13 gennaio, nel corso di un’audizione a porte chiuse, nonostante la richiesta avanzata dal legale di Lupacchini, Ivano Iai, di renderla pubblica per evitare «di notizie distorte». Richiesta respinta, però, per esigenze di segretezza degli atti e per la delicatezza della vicenda. Ed oggi, dopo la richiesta cautelare avanzata da Bonafede e Salvi, il difensore del magistrato torna a chiedere che tutto venga reso pubblico: una richiesta motivata con la «necessità» di tutelare l’immagine del pg,«oggetto di diverse centinaia di insulti che, precipitati in rete con inusitata virulenza (soprattutto attraverso social network) hanno ingenerosamente e immotivatamente apostrofato il magistrato con espressioni offensive della sua dignità personale e professionale». Appare inoltre «indispensabile – sostiene il legale – portare a conoscenza della collettività, nei minimi dettagli, fatti estremamente gravi in ragione dei quali il dottor Lupacchini vede aggravarsi ulteriormente il pericolo per la propria incolumità».

Il “capo” di Gratteri va cacciato, ha osato criticare l’indagine Rinascita Scott in tv. Giovanni Altoprati il 22 Gennaio 2020 su Il Riformista. Nessuno poteva immaginare, tanto meno il diretto interessato, che a pochi mesi dalla pensione Otello Lupacchini, procuratore generale di Catanzaro, avrebbe affrontato un procedimento disciplinare, con lo spauracchio del trasferimento d’ufficio, davanti al Csm. E tutto per “colpa” di una intervista. Sia il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi hanno chiesto, infatti, alla Sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli di allontare Lupacchini da Catanzaro. Motivo? Intervistato alla vigilia di Natale da Tgcom24, Lupacchini aveva criticato la maxi operazione anti ‘ndrangheta condotta pochi giorni prima dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. L’indagine, denominata “Rinascita Scott”, aveva portato in carcere 334 persone, circa 50 già scarcerate dal tribunale dei riesame, e alla denuncia di altre 400 in Italia e all’estero. «Per me – aveva detto Gratteri nella conferenza stampa “fiume” durata circa due ore – era importante realizzare un sogno, fare la rivoluzione, quella di smontare la Calabria come un treno dei Lego e rimontarla piano piano». «Sebbene possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare di tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale», erano state le parole di Lupacchini al giornalista Mediaset che gli chiedeva informazioni al riguardo. «Non siamo stati portati a conoscenza – aveva aggiunto Lupacchini – prima della vicenda, non ne siamo stati portati a conoscenza dopo: i nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti, in una sintesi estrema, li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione della stampa, che è molto più importante della Procura generale da contattare ed informare». Tutto qui. Poche parole sufficienti però a scatenare gli strali delle correnti dell’Anm. Sia i togati di sinistra di Area-Md che quelli di destra di Magistratura indipendente, la corrente di riferimento di Gratteri, avevano subito chiesto l’apertura di una pratica al Csm per valutare “la posizione” di Lupacchini. L’udienza è stata fissata per il prossimo giovedì. Il difensore di Lupacchini ha già fatto istanza affinché sia pubblica, sottolineando la «necessità» di tutelare l’immagine del pg, «oggetto di diverse centinaia di insulti che, precipitati in rete con inusitata virulenza (soprattutto attraverso social network) hanno ingenerosamente e immotivatamente apostrofato il magistrato con espressioni offensive della sua dignità personale e professionale». Appare inoltre «indispensabile – ha aggiunto – portare a conoscenza della collettività, nei minimi dettagli, fatti estremamente gravi in ragione dei quali Lupacchini vede aggravarsi ulteriormente il pericolo per la propria incolumità». Per non farsi mancare nulla, su Lupacchini, oltre al trasferimento d’ufficio, pende pure una procedura di trasferimento per “incompatibilità funzionale”. Il legale del pg sul punto ha ricordato di aver già segnalato al Csm «il vulnus all’assoluto riserbo che avrebbe dovuto caratterizzare la procedura, a carico di Lupacchini, a suo tempo concretizzatasi con la reiterata fuga di notizie relativa agli atti di precedente procedura riservata, da cui è derivata la diffusione di notizie distorte, con grave pregiudizio per il magistrato». Il riferimento è all’audizione di Lupacchini avvenuta lo scorso 13 gennaio a Roma. E sempre il legale di Lupacchini ha chiesto di sapere che fine abbiano fatto gli esposti del suo assistito «inoltrati al ministro della Giustizia e al procuratore generale presso la Corte di cassazione, relativi alle criticità riscontrate anche in materia di coordinamento e collegamento tra Procure». E Gratteri invece? Dopo essersi “lamentato” per la poca copertura mediatica fornita alla sua indagine, sarà ospite d’onore del convegno “I nostri ideali per costruire il futuro, per cambiare e condividere” organizzato il prossimo 8 febbraio a Roma da Magistratura indipendente. A lui il compito tenere un intervento sul tema “La comunicazione degli uffici giudiziari: sostanza e forma”.

Accuse a Gratteri, azione disciplinare del Csm nei confronti del Pg Lupacchini. Va a Torino, accolta richiesta del ministro Bonafede. Alessia Candito il 27 gennaio 2020 su La Repubblica. Il procuratore generale Otello Lupacchini dovrà lasciare Catanzaro per incompatibilità ambientale. Così ha deciso la prima sezione del Csm, che come chiesto dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e dal pg della Cassazione, Giovanni Salvi lo ha trasferito altrove, spedendolo alla Corte d’appello di Torino con funzioni di sostituto procuratore generale. Alla base della pesantissima ordinanza del parlamentino dei giudici, le dichiarazioni di Lupacchini in diretta tv, all’indomani degli oltre 340 arresti dell’operazione “Rinascita-Scott”. “I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti – si era lamentato il magistrato in diretta nazionale – li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante della procura generale contattare e informare”. Ma a far discutere era stata soprattutto l’affermazione successiva del magistrato, che aveva parlato di “evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro stessa”. Inutilmente Lupacchini ha tentato di giustificarsi di fronte al Csm, sostenendo di non aver mai avuto intenzione di criticare Gratteri e i magistrati della sua procura. Per il parlamentino dei giudici, le sue affermazioni sono inaccettabili e tanto gravi da rendere impossibile la permanenza di Lupacchini nel distretto di Catanzaro. Il diretto interessato non commenta, ma il suo legale, Ivano Iai, si scaglia contro il parlamentino dei giudici. Per l’avvocato, Lupacchini ha "subito ingiustamente un trasferimento d'ufficio lontano dal Distretto nel quale ha, con disciplina e onore, semplicemente cercato di esercitare le proprie funzioni". E a detta sua, “appare evidente che al Dott. Lupacchini non sia stata semplicemente applicata una misura cautelare quanto una vera e propria anticipazione di sanzione, oggettivamente e severamente punitiva, oltre che ostile, avendo disposto il trasferimento del magistrato, con perdita delle funzioni direttive, a 600 Km di distanza dalla città di Roma e a oltre 1000 Km da Catanzaro". Per il Csm quelle parole che l’ormai ex pg di Catanzaro ha affidato ai microfoni di Tgcom24 sono state non solo gravi, inopportune e denigratorie, ma sono arrivate anche in un momento estremamente delicato per l’Ufficio diretto da Gratteri. Dopo Rinascita-Scott, la procura di Catanzaro è finita al centro di attacchi mediatici e politici, a partire da quelli della deputata dem Enza Bruno Bossio. Moglie di uno degli indagati, l’ex consigliere regionale Nicola Adamo, dopo l’ennesima inchiesta che ha travolto il marito la deputata su facebook aveva scritto “È giustizia? No è solo uno show! Colpire mille per non colpire nessuno. Anzi sì. Colpire la possibilità di Oliverio di ricandidarsi”. Il Pd si era immediatamente dissociato e il post poco dopo era sparito, ma era rimasto in bella vita tempo sufficiente ad alimentare le polemiche contro la procura in generale e Gratteri in particolare, proprio mentre l’Ufficio finiva nel mirino dei clan. La maxi-inchiesta contro la ‘ndrangheta vibonese non solo ha colpito duramente storici casati di ‘ndrangheta che per quasi dieci anni sono riusciti a dribblare indagini e arresti, ma per la prima volta nella zona ha toccato le strutture massonico-mafiose che hanno permesso ai clan di interfacciarsi con il mondo politico, bancario, istituzionale e finanziario in tutta Italia. Un lavoro iniziato da tempo dalla procura di Reggio Calabria nel distretto di competenza e che Catanzaro ha condiviso e proseguito nella restante parte della regione. Risultato? I clan, che per la prima volta hanno assistito ad un’azione coordinata delle due procure, che da qualche anno hanno iniziato a lavorare in tandem, si sono sentiti accerchiati e attaccati da due fronti. E la reazione è stata immediata e violenta. Nelle prime settimane di gennaio gli investigatori hanno scoperto che alcune delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta della regione avevano già assoldato un killer, specializzato nell’uso di armi da guerra, incaricato di un attentato contro il procuratore Gratteri. Immediatamente sono state rafforzate le misure di sicurezza a protezione del magistrato, dai suv corazzati che hanno sostituito le normali auto della scorta alla blindatura le finestre della procura che danno sulla piazza. Un rischio che in procura avevano messo in conto quando sono scattati gli arresti di Rinascita Scott. E che anche fuori dal distretto le toghe avevano compreso. Per questo contro le parole di Lupacchini unanime è stata la reazione di sdegno non solo dell’Anm, che le aveva “sconcertanti in sé e ancor più perché provenienti dal vertice della magistratura requirente del distretto”, ma anche di tutte le correnti.

Critiche in tv a Gratteri, il Csm trasferisce il Pg Lupacchini a Torino. Redazione de Il Riformista il 27 Gennaio 2020. Il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini sarà destinato Procura generale di Torino come sostituto Pg. È la decisione della sezione disciplinare del Csm che ne ha disposto il trasferimento dopo la richiesta avanzata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal Pg della Cassazione Giovanni Salvi. Lupacchini era finito nel mirino per le parole critiche pronunciate alla vigilia di Natale a Tgcom24, quando aveva criticato la maxi operazione anti ‘ndrangheta condotta pochi giorni prima dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. L’indagine, denominata “Rinascita Scott”, aveva portato in carcere 334 persone, circa 50 già scarcerate dal tribunale dei Riesame, e alla denuncia di altre 400 in Italia e all’estero. “Per me – aveva detto Gratteri nella conferenza stampa “fiume” durata circa due ore – era importante realizzare un sogno, fare la rivoluzione, quella di smontare la Calabria come un treno dei Lego e rimontarla piano piano”. “Sebbene possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare di tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale”, erano state invece le parole di Lupacchini al giornalista Mediaset che gli chiedeva informazioni al riguardo. “Non siamo stati portati a conoscenza – aveva aggiunto Lupacchini – prima della vicenda, non ne siamo stati portati a conoscenza dopo: i nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti, in una sintesi estrema, li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione della stampa, che è molto più importante della Procura generale da contattare ed informare”. Per questa parole i togati di sinistra di Area-Md e quelli di destra di Magistratura indipendente all’interno dell’Anm avevano chiesto l’apertura di una pratica al Csm per valutare “la posizione” di Lupacchini.

Criticò le indagini di Gratteri, il procuratore Lupacchini trasferito a Torino. Simona Musco il 27 gennaio 2020 su Il Dubbio. Dopo la maxiretata del magistrato antindrangheta, l’ex pg di Catanzaro aveva osato parlare di indagini evanescenti. La sezione disciplinare del Csm ha disposto il trasferimento d’ufficio per il Pg di Catanzaro Otello Lupacchini, destinandolo alla Procura generale di Torino come sostituto Pg. Il “tribunale delle toghe” ha accolto la richiesta avanzata dal ministro della Giustizia Bonafede e dal Pg della Cassazione Giovanni Salvi, che hanno avviato l’azione disciplinare nei confronti dell’ormai ex procuratore generale di Catanzaro accusandolo di aver “delegittimato” il procuratore della Dda Nicola Gratteri. Nei giorni scorsi, Lupacchini aveva sottolineato che alla base delle sue critiche non c’era alcuna intenzione di denigrare i magistrati del Distretto e il loro operato, ma soltanto di sollecitare una riflessione su circostanze e criticità nei rapporti istituzionali tra Procure. L’avvocato Ivano Iai, difensore del magistrato, ha invece sottolineato l’assenza di fumus di fondatezza dell’azione disciplinare e l’insussistenza dell’urgenza di provvedere alla misura poiché l’ufficio di Procura generale garantisce il buon andamento della giustizia nel Distretto di Corte d’appello di Catanzaro. Il casus belli, l’ultimo di una lunga, serie sta nelle considerazioni fatte da Lupacchini nel corso di un’intervista rilasciata a TgCom 24, all’indomani del maxi blitz “Rinascita- Scott”, che a dicembre ha portato all’arresto di oltre 330 persone: il pg lamentò un mancato coordinamento tra la procura antimafia e quella generale, definendo «evanescenti» le inchieste dei colleghi guidati da Gratteri e affermando di aver saputo dagli arresti solo dalla stampa, «evidentemente molto più importante della procura generale contattare e informare». Da qui, su richiesta dei consiglieri del Csm di Area e Magistratura Indipendenti, la prima commissione del Csm ha aperto una pratica per verificare se sussistano o meno i presupposti per un trasferimento per incompatibilità ambientale, pratica conclusasi con il trasferimento d’ufficio del magistrato.

«La “punizione” a Lupacchini è un avviso a tutti i magistrati». Giovanni M. Jacobazzi il 29 gennaio 2020 su Il Dubbio. Intervista a Ivani Iai, l’avvocato del procuratore che ha osato criticare Nicola Gratteri. «Le affermazioni del dottor Otello Lupacchini vanno considerate come il classico “grido di dolore” della persona che non trova risposta alle sue istanze», dichiara al Dubbio l’avvocato Ivano Iai, legale dell’ormai ex procuratore generale di Catanzaro, trasferito lunedì in via cautelare dalla sezione disciplinare del Csm, di cui fa parte Piercamillo Davigo, a Torino come sostituto pg. Intervistato alla vigilia di Natale da Tgcom24, Lupacchini aveva usato parole molto dure per commentare la maxi indagine anti ‘ndrangheta denominata “Rinascita Scott”, condotta dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, che aveva portato all’arresto di 334 persone, molti dei quali, nel frattempo, già scarcerati dal riesame, e alla denuncia di oltre 400, in Italia e all’estero. «Sebbene possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare di tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale», le parole “incriminate” di Lupacchini. Palazzo dei Marescialli, anche su pressione dei togati di Area, il cartello progressista, e Magistratura indipendente, il gruppo di riferimento di Gratteri, aveva deciso di aprire una pratica nei confronti di Lupacchini per incompatibilità ambientale. A rincarare la dose, la Procura generale della Cassazione e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che avevano esercitato l’azione disciplinare nei confronti del magistrato romano. L’accusa contestatagli era quella di aver violato i doveri di imparzialità, correttezza e riserbo. «Il dott. Lupacchini – spiega l’avvocato Iai – in questi anni ha inviato diversi esposti alla Procura generale della Cassazione e al Ministero della giustizia per segnalare criticità e violazioni riscontrate circa il mancato coordinamento della Procura distrettuale con la Procura generale di Catanzaro». Il riferimento è all’art. 118 bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale e agli articoli 371 e 372 comma 1 bis del codice di procedura penale, i quali prevedono che il procuratore generale debba essere informato dei procedimenti riguardanti i reati particolarmente gravi, fra cui appunto quelli di associazione a delinquere di stampo mafioso pendenti nelle Procure del distretto. In caso ci fossero indagini collegate, il procuratore generale deve farsi parte attiva per garantire e promuovere il loro coordinamento, sia nell’ambito del distretto della Corte d’Appello e sia – d’intesa con gli altri procuratori generali interessati – in ambito nazionale. Un compito che, secondo quindi quanto riferito dal suo difensore, Lupacchini avrebbe svolto con estrema difficoltà. «Il dott. Lupacchini non ha mai avuto riscontro delle sue segnalazioni», prosegue l’avvocato Iai, evidenziando come gli esisti di tali esposti sarebbero stati importanti «per la difesa nel procedimento disciplinare. Abbiamo ricevuto un diniego dalla Procura generale e da via Arenula», puntualizza. «Appare evidente – prosegue il legale di Lupacchini – che non è affatto facile difendersi in un procedimento disciplinare senza sapere quali siano state le determinazioni da parte della Procura generale e del Ministero della giustizia». Per Iai, aver trasferito, seppure in via cautelare, Lupacchini ad oltre mille km da Catanzaro e seicento da Roma è stata una decisione quanto mai “ostile”. «C’e poi un altro aspetto da considerare: il provvedimento del Csm mina la libertà di pensiero e di espressione. Un grave precedente per tutti i magistrati», sottolinea ancora Iai. Che la vicenda di Lupacchini sia particolarmente complessa si evince dal fatto che il collegio disciplinare che doveva essere presieduto dal vice presidente del Csm David Ermini ha subito uno stravolgimento. Ermini è stato sostituito dal laico in quota Cinque stelle Fulvio Gigliotti, calabrese come Gratteri. Il motivo, che ha portato all’astensione del vice presidente e di altri componenti, va rintracciato in un altro procedimento che è stato aperto a carico di Lupacchini per la petizione a favore di Eugenio Facciolla, ex procuratore di Castrovillari ( Cs), anch’egli rimosso dal Csm, pubblicata sulla pagina Fb dell’ex pg di Catanzaro. L’avvocato Iai ha annunciato che impugnerà il provvedimento della sezione disciplinare del Csm davanti alle sezioni unite della Corte di Cassazione. Nel frattempo, però, appena il Guardasigilli avrà firmato il decreto, Lupacchini dovrà prendere servizio a Torino.

Dagospia  il 28 gennaio 2020. Caro Dagospia, Il diritto di critica morto defunto... Non c’è un politico un giornale qualcuno che almeno avanzi un dubbio neppure minimo sulla decisione del CSM di trasferire il pg di Catanzaro Lupacchini a Torino degradandolo a sostituto pg…Lesa maestà è l’accusa.. Aveva osato criticare Gratteri, autorizzato di fatto a trasformare le conferenze stampa in comizi e a fare il caporedattore dei giornaloni... Del Riesame che sta facendo a pezzi l’inchiesta con scarcerazioni a raffica è vietato parlare e scrivere...trasferiranno anche il Riesame a Torino?

Il caso. Nessuno può criticare Gratteri, l’ex Pg Lupacchini "esiliato" definitivamente a Torino. Carmine Di Niro su Il Riformista il 5 Novembre 2020. Nessuno osi criticare Nicola Gratteri, il pm della Dda di Catanzaro amato da giornali e tv. Ne sa qualcosa l’ex procuratore generale di Otello Lupacchini, che si è visto confermare dalle Sezioni Unite della Cassazione il trasferimento a Torino come "semplice" sostituto procuratore, provvedimento deciso dal Csm lo scorso 27 gennaio. Lupacchini "paga" l’intervista rilasciata lo scorso dicembre a TgCom24 in seguito ai 345 arresti avvenuti nell’ambito della operazione contro la ‘ndrangheta "Rinascita Scott", guidata da Gratteri, che ha visto poi nei mesi successi scarcerare numerosi indagati finiti in cella. L’allora Pg di Catanzaro, che dal 31 gennaio si è insediato nel capoluogo piemontese, aveva sottolineato sulla rete Mediaset che “i nomi degli arrestati e le ragioni li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante contattare e informare rispetto alla procura generale”. Parole censurate dal "tribunale delle toghe", con la decisione del Csm di disporre il trasferimento d’ufficio a Torino accogliendo la richiesta avanzata dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e dal ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede. A Lupacchini è contestata una “immotivata e ingiustificata denigrazione” del lavoro di Gratteri, “palesemente idonea a determinarne il discredito”.

G.Leg. per “la Stampa” il 5 novembre 2020. È stato confermato, dalle Sezioni Unite della Cassazione, il trasferimento a Torino e contestuale demansionamento come sostituto procuratore, dell' ex Procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Il provvedimento era stato deciso dal Csm lo scorso 27 gennaio. All' ex Pg di Catanzaro, insediatosi a Palagiustizia già dal 31 gennaio, è contestata una «immotivata e ingiustificata denigrazione» del lavoro di altri magistrati, soprattutto del pm della Dda di Catanzaro Nicola Gratteri, «palesemente idonea a determinarne il discredito». Prima della Cassazione era stata la sezione disciplinare del Csm a disporre il trasferimento d' ufficio per l' ex Pg di Catanzaro- Il "tribunale delle toghe" aveva accolto la richiesta avanzata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Al centro del procedimento, l' intervista che Lupacchini rilasciò lo scorso dicembre a Tgcom24 - dopo i numerosi arresti avvenuti nell' ambito della maxi-operazione guidata da Gratteri contro la `ndrangheta denominata «Rinascita Scott» (345 arresti). L' ex Pg aveva detto in tv: «I nomi degli arrestati e le ragioni li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante contattare e informare rispetto alla procura generale». Aveva definito poi molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro come "evanescenti". All' invettiva erano seguite reazioni molto dure dei sindacati delle toghe.

Lupacchini cacciato da Catanzaro da toghe in conflitto di interesse dopo lo scontro con Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Novembre 2020. Probabilmente mi avrebbe accolta con un brocardo del tipo “Quod nullum est nullum producit effectum”. E avrebbe ridacchiato “sull’illecito di sarcasmo” di cui è accusato da quando è entrato in conflitto con il seriosissimo intoccabile magistrato Nicola Gratteri. Tutto ciò sarebbe forse accaduto se il procuratore Otello Lupacchini avesse deciso di commentare a voce alta la sentenza con cui la Corte di Cassazione a sezioni unite ha messo il timbro finale sul suo trasferimento a Torino. Ha invece deciso di tacere ed è un peccato per gli ammiratori della sua cultura che si estende non solo al piano strettamente giuridico. Reazione pavloviana comprensibile per chi si è così violentemente scottato per aver toccato i fili dell’alta tensione che in Calabria hanno fatto terra bruciata di chiunque abbia osato mettere in discussione l’attività del procuratore Nicola Gratteri. Il quale insieme a Nino Di Matteo è uno degli uomini più scortati d’Italia e che si accinge ( o spera) a far celebrare il maxiprocesso che dovrebbe far concorrenza a quello voluto a Palermo da Giovanni Falcone. Il procuratore Lupacchini ha la fortuna di avere al suo fianco Ivano Iai, un giovane avvocato sardo dal brillante curriculum, agguerrito quanto il proprio assistito. Ricostruiamo insieme a Ivano Iai questo pezzo di storia calabrese che al suo termine, almeno per una sua parte, potrebbe essere un vero triangolo delle Bermuda, con Gratteri, Lupacchini e (sì, proprio lui) Palamara ai tre vertici. Due sono i “peccati” di cui si sarebbe macchiato Otello Lupacchini quando rivestiva il ruolo di procuratore generale in Calabria. Il primo: dopo aver invano invaso le scrivanie del ministro di giustizia, del procuratore generale della cassazione e del comitato direttivo del Csm con le sue proteste perché il dottor Gratteri non lo teneva informato, come prescritto, di inchieste per reati gravissimi, si era permesso di fare un commento pubblico. Aveva solo dato eco, con la sua cultura di esperto di gravi questioni criminali, alla vox populi di quei giorni, quando, dopo il blitz dell’inchiesta “Rinascita Scott” con quindicimila pagine di accuse e qualche centinaio di richieste di arresti, sia il gip che il tribunale del riesame e la cassazione avevano incenerito il maxi-progetto di Gratteri.  «Evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della Procura distrettuale di Catanzaro», aveva sibilato davanti alle telecamere di Tgcom24. E il suo collega Gratteri, che pure accetta con qualche ragione di essere definito “ignorante”, invece di offendersi, avrebbe dovuto inchinarsi davanti a un uso così romantico e prezioso della lingua italiana. Ma ha preferito adombrarsi. Il secondo “peccato” ha invece offeso lo stesso Csm e ha sempre a che fare con la libertà d’espressione. La domanda è: poteva il procuratore generale ospitare nella propria pagina Facebook un appello perché l’ex procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, trasferito al tribunale civile di Potenza, fosse ricollocato al suo posto d’origine? Evidentemente non poteva. I giudici del Csm che avevano deciso quel trasferimento si offendono a loro volta. Ma, fa notare l’avvocato Iai, sono gli stessi che ogni giorno lavorano fianco a fianco con quelli che devono decidere sull’allontanamento da Catanzaro del procuratore Lupacchini, come possono essere sereni e distaccati nel loro giudizio? È questo uno dei conflitti d’interesse di cui la cassazione non ha voluto tener conto nel respingere il ricorso del legale. L’avvocato li aveva citati per nome e cognome, quelli che avevano contribuito al trasferimento del dottor Lupacchini da Catanzaro a Torino e che erano in conflitto d’interesse. E uno di loro è anche un nome “pesante”, quello di Nino Di Matteo il quale, insieme al collega Zuccaro, in quanto componente della prima commissione, si era ben guardato dall’archiviare la pratica. Per non parlare della dottoressa Dal Moro, che, insieme a Zuccaro e a tutti i loro compagni della corrente Area, aveva aperto la pratica davanti alla prima commissione a favore di Gratteri e contro Lupacchini. Ma pare che il concetto di conflitto di interessi non valga per i magistrati, e soprattutto per i componenti del Csm, che evidentemente sono una sola grande famiglia. L’avvocato Iai è sconcertato, per non dire scandalizzato, soprattutto per la superficialità con cui la cassazione ha affrontato l’argomento. Durante l’udienza al Csm, ricorda, ho invitato questi magistrati ad astenersi, cosa che per loro sarebbe stata la più dignitosa. E ora mi sento quasi rimproverare di non averli ricusati! Ma la ricusazione sarebbe stata subito respinta, per come stanno le cose. Stava a loro, alla loro correttezza, astenersi dal giudicare. Anche sulla libertà d’opinione l’avvocato Iai ha da ridire. Ma come, ricorda, altri magistrati hanno detto cose ben più pesanti rispetto alla battuta del mio assistito. Proprio in Calabria, un luogo dove, fin dai tempi di Luigi de Magistris, è sempre stata alta la conflittualità tra magistrati, un sostituto definì “eversiva” la dichiarazione di un procuratore capo e il Csm archiviò la pratica proprio in nome di quella libertà di pensiero che oggi non viene riconosciuta a Otello Lupacchini. Come avrebbe potuto astenersi il procuratore generale di Catanzaro dal denunciare i comportamenti molto gravi del procuratore Gratteri, quando lui indagava per mafia un maresciallo che lavorava ogni giorno al fianco del procuratore di Castrovillari senza avvertirlo? E quando poi ha sottoposto a indagini lo stesso procuratore, trattenendo troppo a lungo presso di sé il fascicolo che la legge gli imponeva di trasmettere immediatamente alla procura di Salerno? E vantandosi dopo di intrattenere rapporti (ci telefoniamo quattro volte al giorno, dice al Csm) con il collega campano, magari per parlare di qualcosa (o di qualcuno) che non era consentita? La cosa assurda è che un bravo magistrato con tanta esperienza come il procuratore Lupacchini da denunciante sia diventato l’imputato. Deve essere proprio vero, anche se non se ne capisce la ragione, che Nicola Gratteri è “intoccabile”, come si dice in giro. Anche se, a partire dalla decimazione delle sue richieste su “Rinascita Scott”, fino al fallimento dei processi “Nemea” e “Borderland”, nella classifica sui risultati non sembra proprio meritare i primi posti. Merito e capacità però deve averne molti, visto che il dottor Luca Palamara ne ha citato il nome tra quelli che hanno avuto il suo aiutino per conquistare il vertice di una procura. Uno dei tanti, e ci piace pensare che le trattative politiche sulla sua persona siano avvenute a sua insaputa. Ma non a sua insaputa si è verificato un certo incontro nel 2018 al bar “Il cigno” di Roma. Chissà se Luca Palamara se ne ricorda. Ma ha buona memoria il maledetto trojan che ha con lui convissuto il tempo sufficiente per rubargli l’anima e l’intimità. E conversazioni e messaggi, soprattutto. Il 25 luglio del 2018 a Roma il tempo era abbastanza bello e la temperatura oscillava tra i 20 e i 26 gradi quando il procuratore Lupacchini era andato a deporre al Csm contro Nicola Gratteri. Il quale era convocato per il giorno dopo, quando, pur con la stessa temperatura, ci furono nuvole e anche pioggia. Fin dalla sera del 25 il procuratore superscortato di Catanzaro si era messo in cerca di Luca Palamara, membro della commissione disciplinare del Csm. Il quale prima non aveva risposto, ma infine si era concesso per un caffè al bar “Cigno”. Di che cosa possono parlare al bar, quando i due si erano infine incontrati, due magistrati di cui uno deve deporre di fronte all’altro dopo poche ore, uno che sa già quel che ha detto il giorno prima il “nemico” dell’altro? Credo del tempo, visto che si era improvvisamente così messo al brutto. Se ne occuperà, se lo vorrà, il procuratore Cantone a Perugia, anche se il reato di traffico di influenze è già stato amnistiato dal procuratore generale della cassazione Giovanni Salvi, per lo meno per i magistrati. Ma forse Luca Palamara, che non pare proprio uno di quelli portati ad aver simpatia per lo stile Gratteri, potrebbe raccontare com’era il tempo quel giorno a Roma. Che cosa succede adesso, avvocato Iai? La commissione disciplinare dovrà giudicare nel merito le incolpazioni del procuratore Lupacchini, che intanto rimane a Torino dove è stato trasferito ormai in via definitiva. Ma abbiamo chiesto di discutere pubblicamente e con urgenza il caso, dice. Anche perché (pensiero fuggevole) il dottor Lupacchini, che non ha interesse a un insabbiamento diplomatico, nell’agosto del 2021 compirà settant’anni, e se è andato in pensione persino Davigo…

Giustizia nel caos, tutta la verità del procuratore Facciolla (di Saverio Di Giorno). Da Iacchite il 7 Luglio 2020. Saverio Di Giorno. Il procuratore Facciolla è esattamente come ce lo si immagina. Sarà forse che è vestito all’incirca come lo si vede sui giornali, o che gli abiti vestono perfettamente le sue movenze, ma è come se non usasse quei filtri e quelle dissimulazioni che si usano nella comunicazione. È una giornata caldissima, tuttavia il mare è vicino quindi c’è una bella corrente. Il procuratore vuole sedersi di fronte al mare e capita, quindi, che mentre risponde e riannoda i fili di vicende passate scruti l’orizzonte. Per la magistratura corrono tempi difficili, c’è Palamara con le sue chat, le nomine pilotate. E nel bailamme di dichiarazioni e strane fughe di notizie, tutti sembrano avere qualcosa da perdere o da nascondere. Perché non lui? Mi viene provocatoriamente da pensare. Certo una cosa è chiara: se ci sono stati movimenti esterni nella procura di Castrovillari sono serviti a estrometterlo e non a nominarlo, come negli altri casi; e poi in questi mesi è l’unico protagonista a non essere mai apparso sulla stampa. Eppure, sotto i suoi occhi sono passati i più interessanti avvenimenti di cronaca e in Calabria, in qualche modo, è l’epicentro della questione magistratura. Come mai questa riservatezza? “Attendo che la mia posizione si chiarisca definitivamente nelle giuste sedi – risponde Facciolla -. Ormai non manca molto e solo allora racconterò la mia versione dei fatti per come sono avvenuti e avrò l’opportunità di dimostrarlo… è deformazione professionale: non si parla senza possibilità di dimostrare”. E di riferimenti a carte e sentenze, questa chiacchierata sarà piena. Il punto di partenza necessario è la sua situazione e dal racconto emergono considerazioni interessanti. Il trasferimento avviene essenzialmente per suoi rapporti con Tignanelli, poliziotto in rapporti con il maresciallo Greco, finito al centro dell’indagine Stige per i suoi rapporti con Spadafora, imprenditore in odor di mafia. “I miei rapporti con Tignanelli erano strettamente professionali, ci sono le intercettazioni a dimostrarlo. O meglio non ci sono, dal momento che sono veramente pochi i casi di dialoghi. Ci siamo sentiti al di fuori solo per degli auguri. Leggendo le carte si rimane sbalorditi. Mi si indaga sostanzialmente per la riorganizzazione che ho fatto all’interno della Procura di Castrovillari per quanto riguarda l’affidamento alle aziende che forniscono materiale investigativo (telecamere, microspie ecc.) quando mesi prima in una ispezione per lo stesso lavoro mi si facevano i complimenti. Ci sono coincidenze e anomalie molto particolari in questa storia”. È una cosa forte. Bisogna approfondire il perché di questa impressione ed emergono particolari che forse un giorno dovrebbero essere approfonditi. “Per lavorare bene su questo territorio occorre prendersi squadre di ragazzi giovani che non abbiano il minimo contatto con il territorio, per evitare di pestare il meno possibile piedi di parenti, amici. In molti casi i rapporti di parentela tra tribunali, procure, agenti e aziende sono inestricabili. Avevo dei bravi ragazzi, collaboratori, tra la polizia giudiziaria e nell’avanzare dell’indagine ci sono state promozioni molto tempestive altrove e poi hanno preso posto in pochissimi giorni, una cosa molto rara”. Vengono in mente altre promozioni fulminee e spostamenti avvenuti in questi territori. E viene in mente anche che andando a controllare il trasferimento (momentaneo) del procuratore Facciolla non avviene nemmeno secondo tutti i protocolli. In effetti stranezze ci sono, ma perché spostarlo? In quei giorni stava indagando sul gruppo Alimentitaliani (si scrive così ma tutti sanno che si legge gruppo iGreco) e sull’oscuro sistema fallimentare, oltre che sull’omicidio Bergamini. Consulenze fantasma pagate migliaia di euro. Un’indagine grossa che arriva a toccare parlamentari. Anche qui quello che ascolto è solo un insieme di fatti l’uno dietro l’altro. Poi sta a ognuno farsi un’idea. L’indagine portava fino al MISE (Ministero dello Sviluppo Economico), dove all’epoca c’era il ministro Calenda (governo Renzi). Bisognava accedere per acquisire alcuni dati ed evidenze investigative. Risulta anche un incontro con alcuni senatori e tale Castano, che ha diretto la task force sulle crisi aziendali nel decennio aperto dalla recessione del 2008. Alcune indiscrezioni circolate parlavano anche di lui tra i nomi in lizza per le grandi aziende. Per inciso, in quelle aziende (ENI, ENEL, Poste ecc.) Renzi ha fatto incetta di poltrone nonostante il suo 3%. Insomma, pare che Facciolla fosse andato a parlare di corde in casa dell’impiccato e come se non bastasse, quando va a riferire al Csm si trova davanti persone che sarebbero poi state al centro della bufera. Altro che indipendenza dei poteri, viene da pensare…

Calenda e Castano. E tra le varie vicende che legano i gruppi imprenditoriali della Sibaritide e i suoi referenti politici (l’ex parlamentare Pd Aiello), resta impigliato l’altro procuratore calabrese, Luberto, per aver insabbiato, secondo l’accusa, le intercettazioni. Una vicenda che si lega a doppio filo con le indagini di Facciolla e non è difficile credere quindi al fatto che il ruolo di Luberto fosse emerso già in tempi precedenti rispetto alla denuncia. Ma allora viene da chiedersi: perché tanta attesa prima di comunicarlo a Salerno? È una risposta che può arrivare solo dalla DDA di Catanzaro. In realtà, il procuratore non è sorpreso nemmeno di quanto sta emergendo dalle inchieste di Salerno e dalle indiscrezioni su 15 magistrati indagati. “Scopriamo l’acqua calda e non dico nulla di nuovo”. Questa volta è facile anticipare dove vanno i suoi pensieri: l’ispezione ministeriale di Lupacchini (e ancora prima Why Not) che aveva denunciato le commistioni all’interno della procura di Cosenza. “Forse non tutti sanno che quella relazione circolò parecchio, arrivò anche all’interno delle carceri, ma soprattutto arrivò sulla scrivania dell’allora ministro della Giustizia Mastella e lì rimase ferma senza azioni per due anni. Ovviamente la conoscevano anche alla Procura di Salerno, che aveva aperto un fascicolo su input degli ispettori. Addirittura fu notificata la chiusura di indagini a carico di magistrati e avvocati che ritroviamo oggi colpevoli, secondo gli ispettori, di illeciti funzionali e disciplinari e forse reati. Ovviamente era passato troppo tempo tra una fase a e l’altra e nel settembre 2011 dopo un’avocazione si arrivò all’archiviazione. Da quando ho iniziato a interessarmi di criminalità nel Cosentino, ricordo pentiti come Franco Pino che già in tempi remoti e non sospetti parlarono e mi misero in guardia sui problemi che ci sarebbero stati nel toccare il livello misto di salotti buoni e criminalità”. Forse bisognerebbe riprendere quelle dichiarazioni. Le denunce di queste commistioni, in effetti, Facciolla le fece già all’epoca e finirono in un articolo de l’Espresso insieme ad altri intercettazioni tra Franco Pacenza ed Ennio Morrone che tirano in ballo procuratori e politici, tra cui Nicola Adamo. Nomi che ritornano. Mastella risultava indagato anche all’interno dell’inchiesta di Why Not di De Magistris. C’è una sua dichiarazione circa l’appartenenza a una loggia massonica. Ironia della sorte, anche questa inchiesta passò sotto gli occhi dell’allora giovane Facciolla. Lui e il dottore Lia impugnarono lo storico decreto di proscioglimento, quello riguardante, in buona sostanza il sistema Saladino e il giro di lavori pubblici. Genchi ha recentemente dichiarato che Bruno Bossio e Adamo in proposito si rivolsero ai buoni uffici di alcuni magistrati. Facciolla aggiunge: “Quell’impugnazione per associazione a delinquere fu accolta dalla Cassazione e ricordo che a Roma incrociai Minniti. Era interessato alle vicende calabresi e riconosceva la difficoltà di indagare in Calabria. Ricordo che si mise a completa disposizione”. I ricordi e i racconti si susseguono tumultuosi. Come se seguissero il moto delle onde che guarda. Nomi, eventi, date, carte, davvero un oceano sconfinato … come si può non sentirsi affogati in questo rincorrersi di eventi sempre uguali da anni? Come si esce fuori? È vero che ora, come stiamo scrivendo, sta venendo meno una serie di appoggi e per questo si possono provare vicende finora passate sotto silenzio? Come si può altrimenti guardare l’orizzonte con tutto ciò in mente. “Indubbiamente ora una rete si sta sfilacciando. È una transizione storica, ma finché resteranno queste dinamiche ci saranno sempre informazioni da poter usare per bloccare tutto o una parte e che una nuova rete può usare per inserirsi. Ho l’impressione che sta sfuggendo dalla vicenda Palamara il fatto che le nomine pilotate dei direttivi non servono solo al potere delle correnti, ma servono perché chi viene nominato poi deve rispondere a chi l’ha nominato. Rispondere alle chiamate in ufficio, a casa, ai favori. Questo è il sospetto grave e inquietante, non le singole chat o invidie personali. Ad un certo punto alcuni colleghi diventano più impeditivi delle minacce dei criminali, ma sono cose che ripeto da anni” – Ma quindi come se ne esce? – “Ora l’unica soluzione sarebbe avere una nuova legge elettorale e poi sciogliere il Csm e riformarlo, altrimenti non cambierà nulla”. Ci si è davvero allontanati molto in questo racconto, ma tuttavia un ultimo passaggio vale la pena farlo, perché tra le inchieste del procuratore Facciolla alcune riguardano anche il clan Muto. È passato poco tempo dal ricordo dell’omicidio Losardo e molte delle vicende riguardanti il clan sono tuttora oscure, tra cui molti omicidi. Un buon modo per ricordare questi uomini è fare passi in avanti nella verità e chissà che non è utile anche ad aprire un piccolo faro su questo lato del territorio: “Ho fatto rilegare le indagini riguardanti il clan, andrebbero studiate come storia. Per imparare. Ricordo che quando c’era da abbattere una pescheria abusiva, con il procuratore Emanuele non si riusciva a trovare una ditta disposta a farlo. L’unico modo fu organizzare un grande evento in pompa magna. Un potere simbolico e pratico. In tutti i procedimenti ci sono stati impedimenti o cavilli che hanno ridotto o evitato le pene. Ci furono anche collaboratori che parlarono di giudici compiacenti a Bari, ma nessuno ha approfondito. In una perquisizione trovammo una foto che ritraeva la famiglia Muto con un allora parlamentare DC calabrese alla sua festa di compleanno”. Sono gli anni ’80 o giù di li. Le commistioni tra criminalità e Stato hanno radici lunghe e profonde. Quando la fiducia nelle istituzioni è al minimo, non resta che quella nelle persone. D’altra parte queste vicende si intersecano con quelle personali, di quando da studenti, in anni caldi di militanza politica, c’erano futuri politici che facevano cordoni e occupazioni e si scontravano con chi era dall’altra parte della barricata, studente di legge. Ma una cosa è stare da due parti diverse della barricata politica, un’altra è essere contrapposti nella barricata della legge e allora come oggi c’erano colleghi che questa barricata l’attraversavano in un senso e nell’altro e che poi ne avrebbero attraversate altre. Non resta altro quindi che rimanere ai propri posti, in trincea perché altrimenti a furia di guardare questo bel mare con il suo orizzonte viene la voglia di prendere il largo, e di andarsene via…

Salerno, Facciolla spiega la sceneggiata del “capo” (di Lardieri). Da Iacchite il 12 Luglio 2020. Eugenio Facciolla si difende a spada tratta dalle accuse che gli arrivano dal braccio destro di Gratteri, il maggiore dei carabinieri Gerardo Lardieri, personaggio tutt’altro che limpido. E dopo aver dimostrato, con carte alla mano, il suo tentativo di inquinamento delle prove con tanto di “sparizione” delle intercettazioni che lo riguardavano e di “sconfinamenti” negli atti riservati della procura di Salerno, continua a contestare con veemenza tutto il suo tragicomico impianto accusatorio. In questo stralcio si fa riferimento ad un “capo”, che secondo il maggiore Lardieri, sarebbe Facciolla. Ma così non è: l’unico capo riconosciuto – fino a prova contraria – è quello di… Lardieri. Il resto dev’essere un lapsus per molti versi “freudiano”. Ma vallo a spiegare a Lardieri cosa significa! Speriamo che ci pensi qualcuno “acculturato” del suo “giro”… … Ci sono decine di contatti in cui io non vengo mai intercettato, non sono io a parlare, sono gli altri che parlano… Si parla di identificazione del capo, ma il capo di che cosa, Giudice? Perché il Noe (ovvero Gerardo Lardieri, braccio destro di Gratteri, ndr) deve identificare il capo? Il capo di un’associazione mafiosa? Il capo di un’associazione a delinquere? Allora, le conversazioni in cui il maresciallo Calonico parla con il maresciallo Greco… tra colleghi parlano dell’alluvione e di altre vicende, poi Calonico chiede a Greco che si trova a Cosenza – e risulta che si trova a Cosenza -, non a Castrovillari: “Che dice il capo?”. E Greco risponde: “Eh, il capo no, è tutto… perché mo arrestiamo, mo ci ricogliamo un po’ di gente, facciamo questo, facciamo quello…”… E gli dice delle cose che sono questioni che attengono chiaramente al loro rapporto. Stanno parlando del capo, il capo è Roseti, il Capitano Roseti. Giudice, ci sono le telefonate successive di trascrizioni che smentiscono quello che costruisce da una parte il Noe, basta leggere. Ad una telefonata risponde Greco: “Pronto?”, “Capo, buongiorno”. Dall’altra parte chi è? E’ Roseti… Lo scrivono loro. Quindi il capo è il comandante di Greco, è il comandante di Calonico. Mirabelli viene chiamato: “Capo, buongiorno”. Telefonata tra il dottore Tridico, sostituto a Cosenza, e il maresciallo Greco: “Capo, buongiorno, scendi per il caffé?”. “Sì, sto arrivando”. E perché questo capo dev’essere sempre Facciolla? La prego di controllare. Quando si fa riferimento a Tignanelli e Greco… “Dove sei?”; “Sono a Cosenza con il capo”… si aggiunge tra parentesi Facciolla… Tutto questo viene fatto per consentire di legare un rapporto illecito tra me e Tignanelli, ed ecco perché poi si arriva addirittura a contestarmi l’associazione per delinquere, finalizzata a chissà cosa. Questi sono i costanti contatti…Allora, telefonate trascritte in minima parte, incomprensibili… Lardieri le evidenzia soltanto quando sente il nome Eugenio o riporta il nome Otello. In una occasione, Otello, perché Otello è un nome chiaramente raro, Otello Lupacchini, Procuratore Generale di Catanzaro, riporta lo schema delle conversazioni tra Facciolla e Tignanelli, che è uno schema, ma io veramente non ci perdo una parola, è uno schema inutile, irrilevante, una perdita di tempo e basta. Commenti sulla partita, il Milan e la Juventus che cosa hanno fatto, eccetera. Mio figlio ha un incidente sugli sci, mi hanno chiamato i medici, non si capisce perché non ci sono queste telefonate, ma si esalta invece la telefonata di Tignanelli, me l’hanno fatta anche altri colleghi, ma non ci sono queste telefonate, non ci sono… Si esalta la telefonata di Tignanelli, che mi chiama e mi dice: “Ma cosa è successo a Francesco?”. Questo è rilevante, Giudice, è rilevante? Dimostra che cosa? Dimostra un rapporto di stima personale o un rapporto di malaffare?

Salerno, la trappola di Gratteri a Facciolla: la fuga di notizie sul sito “amico”. Da Iacchite il 13 Luglio 2020. Eugenio Facciolla si difende a spada tratta dalle accuse che gli arrivano dal braccio destro di Gratteri, il maggiore dei carabinieri Gerardo Lardieri, personaggio tutt’altro che limpido. E dopo aver dimostrato, con carte alla mano, il suo tentativo di inquinamento delle prove con tanto di “sparizione” delle intercettazioni che lo riguardavano insieme al colonnello dei Carabinieri Forestali Gaetano Gorpia e di “sconfinamenti” negli atti riservati della procura di Salerno, continua a contestare con veemenza tutto il suo tragicomico impianto accusatorio. In un altro stralcio si fa riferimento ad un “capo”, che secondo il maggiore Lardieri, sarebbe Facciolla. Ma così non è: l’unico capo riconosciuto – fino a prova contraria – è quello di… Lardieri. Il resto dev’essere un lapsus per molti versi “freudiano”. Ma vallo a spiegare a Lardieri cosa significa! E non è finita qui. Perché anche l’apertura del procedimento a Salerno contro Facciolla è decisamente tragicomica. Ecco il virgolettato testuale delle dichiarazioni spontanee del Procuratore di Castrovillari al Tribunale di Salerno. “… Giudice, dal primo momento non si leggono atti, non c’è un’informativa di reato in cui si dice: guardi che c’è il sospetto, non dico l’indizio, c’è il sospetto che il Procuratore Facciolla, abusando del suo ufficio, ha conferito, ha dato incarichi, o con Greco ha fatto chissà quale guaio, quale sfacelo, ma sono attività di – mi passi il termine – pesca a strascico, sperando di pescare qualche cosa che non c’è, Giudice, perché in tutta questa indagine cercavano soldi, cercavano affari, cercavano intrallazzi, e nel momento in cui la Procura fa questo tipo di accertamenti, negativi… ci sono le notizie che compaiono sulla stampa sistematicamente, solo su una certa stampa di soggetti che scrivono, e sono soggetti non vicini ma più che vicini alla Procura di Catanzaro. E allora davanti a questi dati, io sono l’indagato, il 5 dicembre mi sottopongo ad interrogatorio senza conoscere niente, due giorni dopo l’arresto di Greco escono le notizie, non si spiega la ragione, e i magistrati di Catanzaro trasmettono gli atti a Salerno e scrivono che c’è una fuga di notizie – ed è vero – nei confronti di due magistrati… Il fascicolo arriva a Salerno, viene iscritto incredibilmente a Modello 45 e tale rimarrà e viene iscritto con parte offesa il Corriere della Calabria, quando il Corriere della Calabria è il soggetto – in particolare il direttore responsabile (Paolo Pollichieni, ndr) – che è autore, coautore, concorrente nella rivelazione di notizie che ha ritenuto la Procura di Catanzaro… In onore alla toga che indossiamo, le chiedo di verificare quello che sto dicendo, di leggere tra le righe delle carte. La Procura di Catanzaro quegli atti li trasmette non per la rivelazione o per la fuga di notizie ma perché li ritiene rilevanti nel fascicolo che riguarda già il dottore Facciolla a seguito della trasmissione degli atti precedenti. E qual è la rilevanza? Una fuga di notizie in cui si dice  che hanno mandato gli atti su due magistrati che erano coinvolti nelle indagini sul maresciallo Greco arrestato due giorni prima. Qual è la rilevanza per me? Abbiamo chiesto di fare accertamenti, visto che poi questo fascicolo risulta copiato, fotocopiato, trasmesso, Modello 45, negli atti che mi riguardano, e restituito a Catanzaro per competenza territoriale. C’è un errore macroscopico, perché il Corriere della Calabria è edito in quel di Lamezia Terme e la Procura competente, come sappiamo bene, è la Procura di Lamezia Terme. Non poteva essere la Procura di Catanzaro. Peraltro, la Procura di Catanzaro, in particolar modo il Procuratore, doveva astenersi, avrebbe dovuto – immagino lo avrà fatto -, si sarà astenuto dal trattare questo procedimento per i rapporti personali che intercorrevano… (internet è pieno di foto e articoli che riguardano la “collaborazione” di Gratteri e Pollichieni, ndr). E immagino, conoscendo la sua correttezza, che l’avrà fatto. Però tutto ciò rimane come dato inserito nel procedimento in questione. Io veramente non riesco a percepire qual è la rilevanza di questi atti e in che modo peraltro, cioè su quali basi, che cosa devo andare a discutere rispetto ad un fascicolo costruito in questi termini…”.

Facciolla non doveva essere trasferito. La Cassazione sbugiarda Gratteri e i suoi giochi di potere. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. Quel trasferimento non s’aveva da fare. E va rivisto e ripensato, e sarà un’altra commissione del Csm ad occuparsene. È intervenuta la Corte di cassazione a sezioni riunite a riportare un po’ di giustizia in terra di Calabria. Con annessa Basilicata, nel caso del dottor Eugenio Facciolla, l’ex procuratore capo di Castrovillari che, entrato in rotta di collisione con il collega Nicola Gratteri, si era ritrovato un anno fa indagato e prontamente trasferito a fare il giudice civile a Potenza. Strano destino, quello dei magistrati poco allineati con il procuratore di Catanzaro. Il casus belli aveva riguardato, pensa un po’, il sistema delle intercettazioni in Calabria. Il dottor Gratteri pretendeva di centralizzare al suo ufficio quelle di ogni procura di tutta la regione. C’era stata un po’ di rivolta, di cui Eugenio Facciolla era stato protagonista. L’ha pagata cara. Aveva anche presentato esposti contro certi sistemi d’indagine dell’antimafia, che al Csm gli erano poi stati rispediti indietro come boomerang, arricchendo il fascicolo accusatorio che sarà alla base del suo degradante trasferimento, perché «volti a screditare l’operato e la figura dei colleghi della Dda e della Pg da essi delegata per le indagini». Fatto sta che il procuratore Gratteri comincia anche a indagare su di lui, partendo dall’incriminare per concorso esterno in associazione mafiosa un carabiniere forestale che era stato suo collaboratore. È stato proprio a partire da quelle indagini, che secondo il procuratore generale si erano protratte troppo a lungo prima che le carte fossero passate agli uffici di Salerno, come previsto dalle legge quando i fatti riguardino un magistrato, che si creò la frattura tra Gratteri e il procuratore generale Otello Lupacchini. Il quale aveva protestato e denunciato, quindi anche lui speditamente degradato e trasferito dal Csm a Torino. Chi tocca Gratteri fa una brutta fine, pare dirci l’organo di autogoverno dei magistrati. Del resto, non è lo stesso procuratore di Catanzaro ad affermare con una certa strana soddisfazione in ogni intervista (più o meno una al giorno) che in Italia ci sono almeno quattrocento giudici corrotti? Lui li tiene d’occhio e se può li sottopone a indagini, anche quando sarebbe opportuno spogliarsi in gran fretta di un fascicolo che riguarda un collega, e passarlo alla procura del distretto contiguo, l’unica competente. La vicenda giudiziaria dell’ex procuratore capo di Castrovillari, uno dei pochi a poter vantare l’assenza del suo nome nelle intercettazioni di Luca Palamara, ruota tutta nel mondo delle intercettazioni. È accusato di essersi fatto corrompere dai titolari di una società per il noleggio di apparecchiature attraverso l’affidamento di un incarico che gli avrebbe fruttato l’omaggio di una scheda telefonica e di un sistema di videosorveglianza davanti al portone di casa sua. All’ipotesi di corruzione, per la quale il pm Luca Masini (quello che aveva i titoli per diventare procuratore di Perugia quando gli fu preferito Cantone) ha già chiesto il rinvio a giudizio, si aggiunge quella di falso ideologico. Nelle prime udienze davanti al giudice per le indagini preliminari il dottor Facciolla si è difeso in modo appassionato. «Il mio è un omicidio professionale», ha detto con enfasi, e poi ha parlato per quattro ore. Dichiarazioni spontanee, ma massima disponibilità anche all’interrogatorio, ha precisato. Non sono un magistrato corrotto, ha quasi gridato, con una certa commozione, contestando punto per punto ogni sospetto. Molti dei quali del resto, i tanti ipotizzati dal procuratore Gratteri, sono già caduti. E ricordando che la Guardia di finanza ha fatto gli esami del sangue a ogni suo conto, spulciando persino l’atto d’acquisto di un’auto del 1990, cioè di quando ancora lui faceva l’avvocato, senza mai trovare alcuna anomalia. Vittima di un omicidio professionale, vuol dire che la sua toga era d’intralcio. A chi? Al ministro Bonafede, per esempio, titolare dell’azione disciplinare, che la ha esercitata a piene mani nei suoi confronti, portandolo davanti al Csm. Situazione diversa per quel che riguarda un altro soggetto titolare della stessa prerogativa, il procuratore generale presso la cassazione Salvi. Il quale è parso quasi aver preso le distanze quando, su richiesta dell’avvocato difensore di Eugenio Facciolla, Ivano Iai, ha accettato di incontrare l’ex procuratore di Castrovillari e ha precisato che non è dipesa dal proprio ufficio l’estensione dell’azione disciplinare nei confronti del dottor Facciolla. Un punto a favore della difesa, rafforzato dalla decisione di ieri della cassazione a sezioni riunite. E un bello smacco per Bonafede, per il Csm con le sue decisioni frettolose e anche per il procuratore Gratteri.

A Nicola Gratteri non si può dire di no, e forse un giorno capiremo perché…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Luglio 2020. Nicola Gratteri, l’uomo cui non si può dire di no. Vuol passare alla storia come il nuovo Falcone, il Falcone calabrese, quello che dovrà smontare la sua Regione pezzo a pezzo e poi ricostruirla. Ma prima, ha bisogno di spazio. Spazio sui giornali, e guai se glielo si nega. Ma soprattutto il procuratore Nicola Gratteri ha bisogno di spazio fisico. Una Grande area, su cui costruire una Grande aula bunker, per celebrare il Grande processo del secolo, quello per cui passerà alla storia. Una corsa contro il tempo per arrivare al traguardo del Maxi calabrese che dovrà superare in tutto il Maxi siciliano. Ci vogliono prima di tutto moltissimi imputati, possibilmente in vinculis. Quelli di Falcone erano 474, di cui meno della metà era in carcere, ma soprattutto, grande vulnus, ben 121 erano latitanti, tra cui Totò Riina e Bernardo Provenzano. Sul numero degli imputati (per ora solo indagati) andiamo già maluccio, in Calabria, soprattutto per quel che riguarda la custodia cautelare. Nell’inchiesta “Rinascita-Scott”, “la più grande operazione antimafia dopo quella di Palermo”, i pezzettini di lego erano così male incastrati che hanno cominciato a venir giù. Come ha riportato nel suo articolo (Il Riformista, 22 luglio) Ilario Ammendolia, dei 334 ordini di cattura richiesti dal procuratore Gratteri con l’operazione notturna del 19 dicembre 2019, ben 203 sono stati annullati o riformati: 51 dal gip, 123 dal Tribunale del riesame, 13 dalla cassazione senza rinvio e 9 con rinvio. Un fallimento gigantesco. Ecco perché è stato necessario avviare l’operazione “Imponimento” (termine astruso anche per noi calabresi, che forse deriva da “imporre”) con 158 indagati freschi freschi, di cui 75 già ammanettati. Statistiche alla mano, si attende il prossimo dimezzamento delle custodie cautelari in carcere, non appena partiranno i ricorsi al riesame e alla cassazione. Anche con i politici, la cui presenza nelle inchieste di mafia è indispensabile per avere qualche prima pagina di giornale, non è andata benissimo. È vero che l’onorevole Pittelli giace ancora sequestrato in un carcere sardo, ma l’ex sindaco di Pizzo e Presidente di Anci Calabria, Gianluca Callipo e il tenente colonnello dei carabinieri in servizio Giancarlo Naselli sono stati liberati dai ceppi dopo otto mesi dalla Cassazione. Anche l’operazione nei confronti di un personaggio come Mario Oliverio, ex governatore della Regione Calabria ed esponente di rilievo del Pd, si era rivelata un buco nell’acqua, con una sentenza della Cassazione che bollava l’inchiesta per “mancanza di gravità indiziaria” e per il “chiaro pregiudizio accusatorio”. Anche con la novella inchiesta “Imponimento” il carniere appare un po’ vuoto. C’è il nome di un senatore, che non è indagato, ma viene comunque menzionato (e a noi il fatto pare grave) perché “si ipotizzava” che nelle elezioni del 2018 avesse avuto l’appoggio di qualcuno che era cugino di qualcun altro. E poi c’è un altro, fuori dalla politica dal 2013, su cui c’è il sospetto che abbia avuto un appoggio da ambienti mafiosi alle elezioni regionali del…2005! Ebbene si, stiamo parlando di 15 anni fa. Complimenti per la velocità, dottor Gratteri. E complimenti ai settecento uomini della Guardia di finanza impegnati per l’operazione. Ma rispetto a Giovanni Falcone, indubbiamente Nicola Gratteri ha più frecce al proprio arco. Ha più potere. Nicola Gratteri piace a tutti (o quasi). Matteo Renzi lo voleva come ministro di giustizia, la sua presenza nei talk viene contesa da conduttori e conduttrici più prestigiosi. Non appena ha cominciato a dire che per la sua inchiesta ci vorrà un’aula bunker di grandi dimensioni anche solo per l’udienza preliminare, perché lui immagina centinaia di imputati e ancor più avvocati, e poi migliaia di cittadini tra il pubblico e televisioni da tutto il mondo, tutti si sono offerti di dare una mano. La Giunta regionale presieduta da Jole Santelli, prima di tutto, che ha già trovato un bel tremila metri quadri in zona industriale vicino a Lametia, e poi il ministro Bonafede (cui Gratteri però ha dovuto tirare le orecchie perché non era scattato subito sull’attenti), che dovrà firmare il protocollo con la Regione e poi far costruire una enorme tensostruttura. E il Comune di Catanzaro non si è certo tirato indietro. Lui intanto ha istituito una bella commissione con il fior fiore della magistratura calabrese: dal presidente della Corte d’appello al presidente del tribunale fino al procuratore generale facente funzioni e, ciliegina sulla torta, anche il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati. Perché a Nicola Gratteri non si può dire di no. Nessuno osa dire di no. Ma a nessuno viene il dubbio che tutte queste inchieste, già abbastanza colabrodo, possano finire in niente? Chi ha stabilito che ci sarà un processo, maxi o mini che sia, visto che non ci sono ancora neppure rinvii a giudizio? Eppure –vogliamo scommettere?- il processo ci sarà, l’aula bunker ci sarà, la grande eco mediatica ci sarà. Perché a Nicola Gratteri non si può dire di no. E forse un giorno capiremo perché.

Gratteri va tutelato dallo Stato, ma mai mitizzato. Ilario Ammendolia il 9 Gennaio 2020 su IL Riformista. Si svolgerà il 18 gennaio a Catanzaro la manifestazione nazionale “Io sto co Gratteri” che secondo gli organizzatori coinvolgerà i fans del procuratore di Catanzaro da “Aosta alla Sicilia”. La manifestazione intende contrastare quanti con le loro critiche hanno causato e causano la “delegittimazione” del magistrato “ utilizzando la stessa tecnica che la mafia ha messo in campo con Falcone già qualche mese prima della strage di Capaci”. Si stabilisce l’equazione: chi critica il procuratore di Catanzaro sta dalle parte degli stragisti. Pertanto noi che abbiamo avuto l’ardire di fare qualche rilievo su alcune inchieste di Gratteri (che poi i giudici hanno raso al suolo), dovremmo sentirci in colpa e vivere con l’angoscia di essere collocati dalla parte dei mafiosi e degli assassini di Falcone. Chiariamo subito che tocca allo Stato proteggere Gratteri ed ha l’obbligo di farlo qualunque sia la somma da spendere e le forze da impegnare. Il procuratore di Catanzaro, come chiunque altro, deve essere messo in condizioni di lavorare nel massimo di sicurezza e di serenità. In una democrazia liberale ogni magistrato, quindi anche Gratteri, va tutelato e rispettato ma mai mitizzato. Ma questo non c’entra niente con la manifestazione di Catanzaro. E’ difficile non percepire le motivazioni di alcuni organizzatori della manifestazione di Catanzaro – forse sponsorizzata da alcuni palazzi – come un oggettivo ricatto verso chiunque si azzardi a criticare i provvedimenti di Gratteri anche se palesemente ingiusti. Un pesante invito al silenzio, un attacco alla libertà di critica, una specie di minaccia verso chi si schiera dalla parte dei più deboli che – non bisognerebbe mai dimenticarlo- sono gli innocenti gettati in galera. Ed anche tra i 334 ammanettati nel blitz “Rinascita-scott”, e sin dalle prime battute, s’è registrata una raffica di scarcerazioni di persone messe in carcere con accuse inconsistenti e tutte da verificare. E’ provato da precedenti inchieste che il numero altissimo di arrestati ha una grande importanza nel ricercato impatto mediatico e serve per dare la sensazione d’un evento eccezionale aldilà del risultato finale. Ed infatti la procura di Catanzaro arrestando così tante persone ha ottenuto tanto clamore ma ne è scaturita una inchiesta ingestibile di 450 mila pagine più gli audio ed i video, cosicché solo per avere gli atti bisognerebbe spendere 39 mila euro. Ora riflettete: c’è uno studio legale capace di un lavoro così imponente? E perché – se non per far numero – mischiare l’estorsione d’una torta o d’un paio di pantaloni, la raccomandazione ad una piccola impresa , l’abuso di potere, una ipotizzata intestazione fittizia di beni avvenuta tra il 2007 ed il 2009, il “traffico di influenze” – reati tutti da dimostrare- con omicidi, traffico di droga, pestaggi mafiosi, occultamenti di cadaveri e quant’altro? Non è questo un modo di fare “giustizia” che garantisce una oggettiva tutela e la probabile impunità ai ricchi, ai capi mafia ed ai colpevoli mentre punisce i poveri e gli innocenti? Siamo mafiosi o stragisti perché muoviamo tali rilievi? Oppure vengono meno al loro dovere quanti hanno scelto di restare in silenzio rispetto al quotidiano strazio delle garanzie costituzionali?

·         E’ scoppiata Magistratopoli.

«Luca Palamara è la “spia” del Fatto e dalla Verità». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 16 dicembre 2020. Secondo Cantone, l’ex magistrato accusato di aver gestito le nomine avrebbe anche rivelato ai giornali notizie coperte da segreto istruttorio al Fatto di Travaglio e alla Verità. La Procura di Perugia ha notificato ieri pomeriggio all’ex presidente dell’Anm l’avviso di conclusione indagini, propedeutico al rinvio a giudizio, per il reato di rivelazione del segreto d’ufficio. Secondo l’ufficio guidato da Raffaele Cantone, già numero uno dell’Anac, Palamara, in concorso con il collega pm Stefano Rocco Fava, «in data antecedente e prossima al 29 maggio 2019», avrebbe rivelato ai giornalisti del Fatto e della Verità alcune informazioni relative alle pendenze penali dell’avvocato Piero Amara, uno dei principali protagonisti del cd Sistema Siracusa, il sodalizio di magistrati e professionisti finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi.Amara, già avvocato dell’Eni, era stato indagato a Roma per bancarotta e frode fiscale. Fava, all’epoca in forza al dipartimento reati contro la Pa, coordinato dall’aggiunto Paolo Ielo, aveva chiesto per Amara la custodia cautelare in carcere ma il procuratore Giuseppe Pignatone non aveva voluto apporre il visto.Lo scopo dei due magistrati sarebbe stato, allora, quello di avviare una “campagna mediatica” contro Pignatone, che era da poco andato in pensione per raggiunti limiti di età, e contro Ielo. Pignatone e Ielo sarebbero stati i “responsabili” dei guai giudiziari di Palamara, avendo trasmesso a Perugia, competente per i reati commessi dai magistrati della Capitale, il fascicolo sui rapporti avuti dall’ex capo dell’Anm con il faccendiere Fabrizio Centofanti. Palamara, a tal riguardo, venne poi iscritto nel capoluogo umbro per il reato di corruzione e sottoposto ad intercettazione mediante il trojan.Fava, invece, è anche accusato di abuso d’ufficio, avendo acquisito, in maniera ritenuta non regolare, documenti dal sistema informatico Tiap per provare l’incompatibilità e la violazione dell’obbligo di astensione da parte di Pignatone e Ielo in un paio di procedimenti. Il 27 marzo 2019 Fava aveva presentato un esposto al Csm in cui sarebbe stata riportata una versione, secondo i magistrati umbri, “incompleta” degli atti adottati da Pignatone e da Ielo nei procedimenti in questione. A far compagnia a Palamara nel reato di rivelazione del segreto, Riccardo Fuzio, l’ex procuratore generale della Cassazione. Fuzio avrebbe confermato a Palamara che Fava aveva effettivamente presentato un esposto al Csm contro Pignatone e Ielo. Esposto che era stato secretato una volta giunto a Palazzo dei Marescialli. La circostanza emergerebbe da una telefonata fra i due intercettata il 3 aprile dello scorso anno.L’ex pg della Cassazione è attualmente indagato anche per un’altra rivelazione del segreto, e cioè quando a maggio del 2019 aveva informato Palamara che al Csm era arrivato il fascicolo da Perugia per corruzione nei suoi confronti. Fava, sul punto, si era “autoaccusato”. Interrogato dai pm umbri Mario Formisano e Gemma Miliani aveva dichiarato di aver effettivamente fatto verifiche nelle banche dati, finalizzate alla redazione del citato esposto. Tutto regolare, quindi, trattandosi di procedimenti che erano stati definiti con sentenze passate in giudicato.Se per Fava questo è il primo procedimento penale, per Palamara si tratta invece della terza indagine. Ma quali sarebbero, poi, gli articoli incriminati del 29 maggio 2019? Per il Fatto, a firma Marco Lillo, “Esposto bomba al Csm: Incarichi ai fratelli di Pignatone e Ielo”. Per la Verità, a firma Giacomo Amadori,”Sotto inchiesta al Csm l’ex capo dei pm di Roma e il suo aggiunto: Esposto al Csm su Pignatone e Ielo, affari fra indagati e i loro fratelli”. Lo stesso giorno, Repubblica, Corriere e Messaggero apriranno sull’indagine di Perugia a carico di Palamara. Repubblica titolerà “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”, il Corriere “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma” e il Messaggero “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”.

"C’è il segreto d’ufficio". Palamaragate, Davigo a Cantone: “Non parlo più con Ardita ma non vi dico il perché…” Paolo Comi su il riformista il 18 Dicembre 2020. C’è un segreto “inconfessabile” che si nasconde dietro il più grande scandalo che ha investito la magistratura italiana dal dopoguerra. Uno scandalo che, con l’avallo dei Palazzi romani e dei grandi giornali, si sta cercando in questi mesi di mandare in tutta fretta nel dimenticatoio. L’ultimo dei misteri del Palamaragate ha avuto come conseguenza la rottura di ogni rapporto fra due dei più importanti e famosi pm del Paese: Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. I due magistrati, che non hanno bisogno di presentazioni, erano stati tra i fondatori di Autonomia&indipendenza, la corrente nata nel 2015 dopo la scissione dalla destra giudiziaria di Magistratura indipendente. Motivo? Contrasti con l’allora leadership di Cosimo Ferri. A&i, prima del pensionamento di Davigo, era il gruppo di maggioranza al Csm, con cinque consiglieri, contando anche l’indipendente pm antimafia Nino Di Matteo, eletto a Palazzo dei Marescialli nelle liste “davighiane”. Il rapporto di Davigo ed Ardita, prima del Palamaragate era solidissimo. Insieme avevano scritto nel 2017 un libro, Giustizialisti, così la politica lega le mani alla magistratura, edito da Paperfirst, la casa editrice del Fatto Quotidiano, che ebbe un discreto successo. L’anno successivo si erano entrambi candidati al Csm venendo eletti. Per Davigo l’elezione fu plebiscitaria, risultando il magistrato più votato di sempre. La clamorosa circostanza della rottura fra i due è emersa dall’interrogatorio dello scorso 19 ottobre condotto personalmente dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone e depositato all’udienza del 25 novembre nel processo per corruzione a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Interrogatorio che il Riformista ha potuto leggere integralmente. Davigo era stato convocato a Perugia per essere sentito come persona informata dei fatti nel procedimento penale che vede coinvolto Palamara. Lo stesso giorno al Csm era discusso della sua permanenza a Palazzo dei Marescialli anche dopo il compimento dei settanta anni, età massima per il trattenimento in servizio dei magistrati. Durante il tesissimo dibattito in Plenum si consumerà una spaccatura all’interno di A&i. L’interrogatorio era incentrato essenzialmente sull’esposto presentato dal pm della Capitale Stefano Rocco Fava contro il procuratore Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Pignatone e Ielo, secondo Fava, avrebbero violato il dovere di astensione in diversi fascicoli. Fava, poi, aveva avuto forti contrasti con Pignatone sulla gestione di alcuni procedimenti che si erano conclusi con l’avocazione degli stessi da parte del procuratore di Roma. La domanda di Cantone è secca: «Conosce Fava?» Davigo rispose dicendo che Ardita, volendo fare proselitismo a Roma, dove A&i era debole, in vista delle elezioni dell’Anm, aveva organizzato a marzo del 2019 un pranzo con Fava e un altro pm. Durante il pranzo si parlò di questioni associative e «non posso escludere che si parlò delle problematiche dell’ufficio di Roma». «Escludo categoricamente che il dottor Fava mi disse che voleva presentare un esposto contro Pignatone e Ielo. Ovviamente se mi avesse detto che intendeva presentare un esposto contro Ielo, me ne sarei ricordato, visto che conosco quest’ultimo da anni», puntualizzò Davigo. «Ha parlato con Ardita dell’esposto presentato da Fava contro Pignatone?», aggiunse Cantone. «Ho parlato con Ardita dell’esposto contro Ielo e non contro Pignatone una volta uscite le intercettazioni», rispose Davigo per poi aggiungere: «Siccome lo avevo visto agitato dopo la pubblicazione delle intercettazioni, gli chiesi di indicarmi se aveva avuto un ruolo nel gestire tale esposto. Lui mi disse che il suo ruolo era stato istituzionale». Cantone non molla: «Perché Ardita era preoccupato?» «Io non posso spiegare interamente la vicenda, in quanto coperta da segreto d’ufficio», la secca risposta di Davigo. Cantone non rimase soddisfatto. Ed aggiunse: «Il dottor Ardita esternò le ragioni delle sue preoccupazioni?». Davigo: «Questa è la parte coperta da segreto d’ufficio su cui non posso rispondere». Per poi sparare il colpo: «Si tratta della ragione per cui non parlo più con il consigliere Ardita dal marzo del 2020». Cantone, da toga esperta, forse avendo intuito cosa era successo, chiese allora: «Ha avuto modo di parlare con il consigliere Ardita dell’esposto Fava prima di marzo 2020?». «Non ho mai parlato con il consigliere Ardita. Non mi spiegavo le ragioni delle sue preoccupazioni in quanto ho sempre pensato ‘male non fare, paura non avere’». A cosa si riferiva Davigo? Qual è il segreto che non può essere rivelato ed è talmente grave che ha costretto l’ex pm di Mani pulite a togliere il saluto ad Ardita?

Magistratopoli, l’Ue deve intervenire a tutela della legalità della giustizia in Italia. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista l'1 Luglio 2020. Le dichiarazioni dell’ex Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), Luca Palamara, e la registrazione della clamorosa “confessione” del relatore della sentenza di condanna da parte della Corte di Cassazione di Silvio Berlusconi, ha provocato grande attenzione e sconcerto anche fuori dell’Italia, e nell’ambito delle Istituzioni Ue. Ue che, va ricordato, è sinora stata ed è un sicuro argine a potenziali derive autoritarie nei singoli stati membri. Deriva che alcuni, come chi scrive, hanno temuto negli anni di tangentopoli. Perché tra i benefici dell’Ue, al di là degli zero virgola dei vincoli economici, non dobbiamo mai dimenticarlo, vi sono anche quelli di legalità, democrazia, e rispetto delle libertà fondamentali, che legano tutti gli stati membri dell’Ue.  In altri termini, lo stare all’interno dell’Ue è anche un antidoto ai demoni antidemocratici e anti-libertari che, a seconda del momento storico, possono risvegliarsi nei singoli paesi a seguito di situazioni contingenti. Siano essi incarnati nell’uso della forza delle armi che delle sentenze manettare. È quello di cui sono convinto, avendo vissuto dall’osservatorio europeo, con grande preoccupazione per la stabilità democratica del nostro paese, il periodo di tangentopoli, e la deriva giudiziaria e giustizialista che ne è seguita. E che nulla ha a che fare con la Giustizia. Quella con la G maiuscola. Perché penso che, se non ci fosse stata l’Unione Europea che non l’avrebbe mai permesso, il rischio che a qualcuno saltassero i nervi, trascinando il Paese in pericolose avventure, è stato in qualche momento tutt’altro che teorico. L’Ue è sempre stata, e rimane, un faro del rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche all’interno dei suoi Stati membri e nel mondo. E lo è ben prima ancora di essere un mercato unico. Ed è per questo che Antonio Tajani, nella sua qualità di Vicepresidente del Partito Popolare Europeo, si è rivolto alle istituzioni europee chiedendone l’intervento di vigilanza della singolare situazione in cui si è trovato l’ex presidente del consiglio italiano. Per alcuni vittima di un golpe giudiziario e mediatico, del quale hanno forse beneficiato altri paesi, ma che ha compromesso non solo i diritti della persona e della famiglia di Silvio Berlusconi ma, ed è ben più grave, pure le sorti politiche ed istituzionali del Paese, in un significativo e delicatissimo momento storico. In una lettera inviata oggi alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ed agli altri vertici delle istituzioni Ue, Tajani ricorda che “molte volte, negli ultimi anni, le Istituzione europee si sono espresse per tutelare lo Stato di diritto nei Paesi membri dell’Unione europea”. Riferendosi alla sentenza di condanna per frode fiscale, nel 2013, del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, precisa che “negli ultimi giorni, sono emersi nuovi elementi inquietanti: i quotidiani italiani pubblicano frasi del magistrato relatore della sentenza che definisce il Collegio giudicante “un plotone d’esecuzione” e quella sentenza “già scritta e ordinata dall’alto”.  Inoltre, una recente sentenza del tribunale civile di Milano ribalta quanto già deciso e smonta la vecchia accusa, dichiarando che non ci fu frode fiscale.” “Quella del 2013, quindi”, prosegue Tajani, “è stata una sentenza politica che ha condannato il nostro partito e il nostro leader ad una forte campagna denigratoria che ha causato una evidente distorsione nei nostri processi democratici. Infatti, questa condanna che oggi scopriamo infondata, ha successivamente costretto Silvio Berlusconi, democraticamente eletto dagli italiani, ad abbandonare il Senato della Repubblica e gli ha impedito per anni di candidarsi a cariche pubbliche.” “Come già accaduto in passato”, continua l’ex presidente del Parlamento Europeo, “oggi, le Istituzioni europee devono valutare se in Italia la magistratura abbia adempiuto al proprio compito in maniera assolutamente imparziale.” L’utilizzo politico della giustizia contro gli avversari, secondo Tajani, “sarebbe una ferita profonda alla nostra democrazia e ai valori a cui ci ispiriamo. In un Paese sano non ci può essere spazio per giudizi basati su ragioni puramente ideologiche. Questa frangia di giudici fa danno a tutta la magistratura onesta e alla credibilità del sistema e delle Istituzioni italiane.” Tajani, impegnandosi a tenere informate le Istituzioni Ue sugli sviluppi che avrà la vicenda nelle prossime settimane, conclude sottolineando che quello che è emerso negli ultimi giorni è preoccupante non solo per il proprio partito, ma anche “per ogni cittadino italiano ed europeo”. E per questo motivo informa anche la von der Leyen ed i presidenti delle altre Istituzioni UE che, a livello nazionale, ha chiesto l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta su quanto è accaduto a Silvio Berlusconi e sul cattivo funzionamento della giustizia penale in Italia.

Magistratopoli e i Pm che da soli valgono un partito. Alberto Cisterna su Il Riformista il 12 Luglio 2020. Esiste in Italia un partito dei pubblici ministeri? In senso formale sicuramente no. E la stessa risposta negativa si deve dare se si ricorre alla definizione politologica più accreditata di partito: «Un partito è qualsiasi gruppo politico identificato da un’etichetta ufficiale che si presenta alle elezioni, ed è capace di collocare attraverso le elezioni (libere o no) candidati alle cariche pubbliche» (Sartori, Oxford, 1976). La partecipazione alle elezioni e il vaglio del consenso popolare sono indispensabili perché un’azione politica possa dirsi organizzata nella forma-partito. Un’associazione che si definisse partitica e che si sottraesse sistematicamente alle competizioni elettorali sarebbe un guscio vuoto, una polisportiva delle chiacchiere. Partito-elezioni-potere è una triade inscindibile a prescindere, come ricordava Sartori, dal fatto che le votazioni si svolgano liberamente o meno. La storia è piena di partiti fantoccio a copertura di tirannie. Certo, però, se la discussione politica e i mass media – sia pure con accenti più o meno critici – ritengono tutti e da anni che questo partito dei pubblici ministeri esista e operi la questione merita di essere presa in esame secondo prospettive diverse. In questa declinazione vicaria per “partito” si dovrebbe intendere l’agglutinarsi delle toghe intorno ad alcune convinzioni, la condivisione di alcune idee circa la funzione giudiziaria, cui seguirebbe una vera e propria azione di influenza politica. Ma anche questa volta i conti non tornano. I tornei correntizi del Csm disvelati di recente hanno per oggetto, quasi esclusivo, la scelta dei titolari di uffici di procura (Roma, Perugia, Torino, Napoli, la Nazionale antimafia e via seguitando). Da quel materiale emerge che queste competizioni hanno dato luogo a scontri ferocissimi, a raid senza esclusione di colpi. Sino all’idea di una manipolazione delle indagini per sopprimere gli avversari. Insomma, nulla che sia corrispondente al modello di un partito unico dei pubblici ministeri che normalmente circola. I duellanti per il monopolio dell’azione penale nella Capitale o nel borgo più sperduto si guardano in cagnesco, si fanno causa e lanciano veleni e veline di ogni genere gli uni contro gli altri, al punto tale da poterli definire con grande difficoltà componenti di uno stesso movimento o gruppo. E quindi? Una mano ce la può dare il Sommo: «Sì ch’a te fia bello averti fatta parte per te stesso» (Paradiso, canto XVII, 69). Non esiste un partito dei pubblici ministeri per la semplice ragione che – da un certo punto in poi, dallo sgorgare di una certa smisurata ambizione in poi – l’ego tendenzialmente ipertrofico dell’inquirente volge lo sguardo a sé stesso e rimirandosi (verrebbe da dire) insieme alla sua corte di poliziotti, carabinieri e via seguitando, matura l’idea di essere il migliore o uno dei migliori. Lo ha detto con chiarezza il reprobo ex-presidente dell’Anm: tutti immaginavano di meritare, tutti ritenevano di aver diritto, tutti sentivano di poter primeggiare. E insieme a loro entra in fibrillazione anche la selezionata corte di investigatori da questi scelta nel tempo che, in uno con il nubendo, partecipa dei suoi fasti e soffre per i suoi nefasti, che intravede prospettive di carriera o di promozioni a seconda che il “proprio” pubblico ministero gareggi e vinca oppure soccomba. La questione dovrà essere ripresa e completata, ma un primo punto deve essere messo in evidenza. Certi pubblici ministeri – ma sempre tanti pubblici ministeri – interpretano il proprio ruolo come immancabilmente volto alla costituzione di una immagine mediatica spendibile. Per realizzare questo fine occorre una compagine appropriata che sia cooptata e fidelizzata e che si muova a testuggine, scalzando chiunque si frapponga al successo di quel micro-cosmo e di quel micro-partito in toga. È come in certi consigli regionali o, un tempo, alle Camere in cui bastava anche un solo componente per costruire un gruppo e rappresentare un partito. Talvolta sono i pubblici ministeri a essere fagocitati da apparati investigativi, enormemente più efficienti e capaci di loro, che li trasformano in proprie appendici giudiziarie e trojan nel plesso della magistratura italiana di cui apprendono segreti e maldicenze e di cui condividono odi e alleanze. La combinazione delle due direttrici ha, poi, nei rari casi in cui si realizza, effetti “eversivi” rispetto all’ordinato funzionamento delle istituzioni e all’insopprimibile separazione dei poteri dello Stato. Si creano Leviathan promiscui, ibridi poliziesco-giudiziari, meticci investiganti che si sorreggono vicendevolmente, che scalano posizioni e uffici, che condizionano finanche i vertici ergendosi a poteri autonomi, autoreferenziali e autocontrollati. Meglio ancora se questi “partiti”, nei propri flussi migratori, hanno a disposizione giornalisti embedded da manovrare per mirate fughe di notizie, per tempestive campagne di stampa o per approntare selezionate divulgazioni di atti riservati. Questi raggruppamenti purulenti e maleodoranti aleggiano inquietanti nelle vicende dell’ex presidente dell’Anm e di essi è sembrato, a più riprese, che il dottor Palamara intenda parlare. Non si tratta più di proteggere la corporazione dagli scandali, né le toghe da qualche disdicevole prassi spartitoria. La magistratura italiana – come la Chiesa – è da decenni una «casta meretrix» (Sant’Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca) e da sempre ha ceduto a simili debolezze. La posta in gioco che si intravede nei ritagli delle dichiarazioni sembra essere un’altra e ben più importante. La sola impressione che qualcuno si stia freneticamente operando per mettere in lockdown un’angosciante verità e porre a tacere chi custodisce segreti indicibili dovrebbe allarmare la pubblica opinione. I troppi pm-partito che sono cresciuti all’ombra di questa diversione costituzionale hanno da preoccuparsi e molto per ciò quello che potrebbe avvenire. Non è in discussione un sistema di nomine (se ne troverà un altro), ma il patto scellerato che si potrebbe essere realizzato in alcuni cupi anfratti della corporazione inquirente tra magistrati, pezzi delle forze di polizia e segmenti del giornalismo. Un patto che rappresenterebbe, purtroppo, una parte della Costituzione materiale del paese e sul quale invano, come sempre, aveva lanciato i propri moniti Giovanni Falcone: «Una polizia giudiziaria, che dipende direttamente dal pubblico ministero, ben poco serve ad accrescere la sua autonomia e indipendenza, se poi il pubblico ministero non è in grado di dirigerla» (Interventi e proposte. 1982-1992) o vi instaura reciproche relazioni di servizio e utilità.

L’identità smarrita dei magistrati italiani. Ernesto Galli Della Loggia su Il Corriere della Sera il 29 Giugno 2020. Il danno terribile occorso alla magistratura italiana: la perdita dell’immagine dell’imparzialità. Una magistratura, per giunta, apparsa finora, tranne rarissime eccezioni, totalmente ignara del problema, accecata dal suo enorme potere, trincerata in un Consiglio superiore impegnato perennemente nella bassa cucina delle nomine o nella difesa della corporazione, incapace sempre di dire un’alta parola di verità e di autocritica. Non è dunque per caso se nella democrazia italiana anche l’ideologia strutturante della magistratura è diventata ben presto la politica. Una trasformazione che non è partita dal suo interno ma che ha rispecchiato un cambiamento più generale del Paese. Le donne e gli uomini dell’apparato giudiziario, infatti, sono stati forse le maggiori vittime di quella duplice assenza di etica e di spirito di corpo comune a tutta la struttura socio-statale italiana nel periodo della Repubblica. Un breve salto nel passato farà capire meglio cosa voglio dire. Ricordo bene quando molti e molti anni fa i magistrati italiani erano dei conservatori. Lo erano innanzi tutto da un punto di vista culturale, in un modo che spesso appariva perfino patetico. E naturalmente lo erano in senso politico. Ma lo erano, dirò così «naturalmente». Cioè non già perché coltivassero personali legami con la politica o con qualche partito di centro o di destra, o perché se ne attendessero qualche vantaggio o magari si sentissero impegnati in una qualche battaglia ideale a sfondo socio-politico. Erano politicamente conservatori soprattutto perché provenivano pressoché totalmente dalla borghesia, la quale allora era conservatrice, spesso e volentieri anche reazionaria. Sicché era normale, ad esempio, che nei processi a sfondo politico — penso a quelli allora frequentissimi riguardanti l’ordine pubblico — sugli imputati di sinistra grandinassero per un nonnulla anni di galera. Poi le cose cambiarono. Grazie alla mobilità favorita dalla crescente scolarizzazione, la provenienza sociale dei magistrati così come quella di ogni altro gruppo professionale fu in buona parte liberata dagli stretti vincoli classisti precedenti. Da un carattere dominante cetuale di tipo liberal-borghese con forti tratti reazionari la società italiana passò almeno tendenzialmente a una struttura democratico-interclassista. Sebbene con il vincolo in Italia sempre fortissimo della trasmissione ereditaria delle professioni, tutti poterono diventare giudici, medici o notai. Un fatto indubbiamente positivo ma con una conseguenza inevitabile: il venir meno all’interno delle varie corporazioni professionali di quell’omogeneità/ solidarietà di fondo che in precedenza erano assicurate dalla comune origine socio-culturale. In altri Paesi questo venir meno di valori di tipo classista nei ceti professionali e degli alti uffici pubblici, verificatosi in tutte le democrazie, è stato compensato da un insieme di altri caratteri risalenti: da una diffusa cultura civica, da un’orgogliosa deontologia delle identità professionali, da antiche tradizioni di servizio allo Stato e di spirito di corpo.

Svelamento. Le intercettazioni dal cellulare di Luca Palamara hanno fatto conoscere a tutti il clima di intrallazzo correntizio. Tutte cose che per ragioni storiche da noi erano invece introvabili o solo debolmente esistenti. Sulle quali quindi la Repubblica non ha potuto contare e alle quali tantomeno essa è riuscita a dare vita. Nata dai partiti, infatti, e rimasta sempre dei partiti (anche per effetto di uno sciagurato sistema di governo), la Repubblica ha potuto trovare solo nella politica, nella politica di partito, la sua vera ragion d’essere, in un certo senso la sua ideologia fondativa. Per ragioni storiche ormai consolidate ma abbastanza uniche nel panorama europeo, nel nostro Paese la stessa Costituzione non sfugge al destino di essere oggetto da sempre di continue dispute di segno politico. Non è dunque per caso se nella democrazia italiana anche l’ideologia strutturante della magistratura è diventata ben presto la politica. Non è per caso se una volta andata in soffitto l’antica unità classista, il ruolo e la funzione dei magistrati, ai loro stessi occhi, nei loro stessi discorsi, si sono andati caricando immediatamente di significato e contenuto politico. Se ben presto per l’identità della grande maggioranza di essi la dimensione della politica e delle relative ideologie è diventata la sola dimensione realmente significativa. Anche perché nel frattempo la politica dei partiti non lesinava certo seduzioni, minacce e allettamenti di ogni tipo avendo scoperto quale ruolo importante potesse avere (o non avere) un procuratore della Repubblica al posto giusto nel momento giusto.

Memoria. La stragrande maggioranza dell’opinione pubblica intuiva l’involuzione ma preferiva non parlarne. Sia chiaro: è evidente che anche per ciò che riguarda la giustizia vale il principio che «tutto è politica». Ma un conto è che tale principio informi di sé la discussione sulle grandi linee generali, sulle opzioni di sistema, un conto ben diverso è che immediatamente, cioè senza alcuna mediazione, la politica diventi di fatto l’unico elemento di autoidentificazione dei singoli, del loro profilo, dei loro atti, del modo di esercitare le proprie funzioni. Secondo una deriva che rende impossibile — non bisogna stancarsi di ripeterlo — qualunque immagine d’imparzialità e che di conseguenza dissolve virtualmente ogni idea di giustizia. Perché questo è il danno terribile occorso alla magistratura italiana: la perdita dell’immagine dell’imparzialità. Una magistratura, per giunta, apparsa finora, tranne rarissime eccezioni, totalmente ignara del problema, accecata dal suo enorme potere, trincerata in un Consiglio superiore impegnato perennemente nella bassa cucina delle nomine o nella difesa della corporazione, incapace sempre di dire un’alta parola di verità e di autocritica.

Magistratura_poli. Alessandro Bertirotti il 29 giugno 2020 su Il Giornale. È tutta questione di… schifezza. Prima o poi (nella nostra nazione, potremmo togliere il “prima” e lasciare sempre e solo il “poi”…) sarebbe venuto fuori “lo stile organizzativo” di uno dei poteri fondamentali dello Stato. Il fatto è, nella sostanza e per arrivare immediatamente al punto centrale del mio articolo, che questo stile alligna ovunque nella nostra nazione. Questo procedere per tradizione culinario-familistica è nella politica, nella magistratura, nella vita quotidiana di ogni italiano. Perché? Perché siamo levantini, ed abbiamo la corruzione e la collusione nel DNA, con una particolare cura a tramandarla come essenziale ai nostri figli, quando desiderano farsi una posizione che permetta loro di sopravvivere. Una sopravvivenza al minimo, perché se si vuole ascendere agli alti gradini della scala sociale, entrano in gioco le diverse qualità dei rapporti clientelari e familistici. In altri termini, dipende da quali famiglie si conoscono, quali rapporti precostituiti esistono nella tradizione amicale con le diverse famiglie, e se è ancora spendibile la serie quasi infinita di crediti e debiti esistenziali. Ecco, tutto qui e semplicemente. Infatti, è il primo articolo che dedico alla questione Palamara (e non penso affatto sia un caso isolato), mentre ritengo che una parte della magistratura abbia vita assai difficile nel fare onestamente il proprio mestiere, utilizzando comportamenti e convinzioni etiche para-nazionali. Siamo ad un punto tale di sfiducia nelle Istituzioni italiane, che, certamente, nel prossimo futuro qualche cosa dovrà ben accadere, specialmente da parte di un popolo italiano che, per ora, ha ancora di che nutrirsi. Non so quanto potrà durare tutto questo. Siamo di fronte ad un tale livello di collusione massificata, non disgiunta dalla relativa corruzione, che non restiamo affatto sorpresi di fronte ai “furbetti del cartellino”, alle tangenti metropolitane milanesi, ai vari “Bibbiano”, ai milioni non restituiti di qualche partito, alla presenza di parlamentari indagati e persino condannati, ai condoni edilizi romani, e via elencando. Come potersi fermare, di fronte a questa decadenza? Ci penserà l’evoluzione, con la determinazione di quelle catastrofi che da sempre sono accadute, salvando i nuovi posteri, e con l’aiuto di quella umanità che continua a rendere la specie un insieme di individui abortivi. La natura non tollera al suo interno la presenza di sistemi viventi che vadano contro la sua stessa sopravvivenza. Ed io… che speravo in zio Covid-19. Dovrò attendere, ma, come sapete, non perdo la speranza.

Federico Novella per “la Verità” il 6 luglio 2020. «Non è una questione di ideologia, ma di potere: ci sono gruppi nella magistratura che vanno per conto proprio, in cerca di vantaggi personali. E i magistrati che lavorano onestamente hanno il dovere di reagire, altrimenti verranno trascinati a fondo».

Luciano Violante, ex magistrato, ex presidente della Camera ai tempi dell'Ulivo, docente di diritto penale, che impressione le hanno fatto le intercettazioni di Palamara finite sui giornali?

«Più che inopportune, frasi indecorose».

«Ora bisogna attaccare Salvini», diceva Palamara sulla questione della nave Diciotti. È indubbio che molti magistrati non nutrano simpatie per il leader della Lega?

«Salvini suscita antipatie non solo nella magistratura; ma l'antipatia non può diventare presupposto per incriminazioni».

Abbiamo a che fare con una frangia di magistrati ideologizzati?

«Chi ha tenuto comportamenti deprecabili è schierato soprattutto con sé stesso e con il proprio potere, senza essere contiguo a nessuno».

Però quando da giudice istruttore a Torino si occupava di terrorismo, lasciò Magistratura democratica. Perché?

«Un settore di Md assunse atteggiamenti equivoci nei confronti dei terroristi. Alcuni cadevano nel sociologismo nei confronti di chi sparava. Non potevo starci, e non fui l'unico».

E questa non è ideologia?

«Era una stortura inaccettabile, dettata da ideologia».

E oggi?

«Oggi le ideologie non c'entrano. Non commettiamo l'errore di pensare che destra e sinistra abbiano qualcosa a che fare con la magistratura di oggi. Ci sono elementi patologici: più che all'ideologia, ci troviamo di fronte a strutture di potere».

Possiamo chiamarle frange affaristiche?

«Piccole oligarchie che si sono costituite per esercitare grande potere dentro e fuori la magistratura. Nelle conversazioni emerse, l'obbiettivo non era collocare il magistrato migliore, ma quello che sarebbe stato più fedele, per mettere nei guai Tizio e garantire Caio. Questo è inaccettabile».

È sempre stato così e ce ne accorgiamo solo adesso?

«È una degenerazione contemporanea. Il Csm in base alla Costituzione è sempre stato il luogo del confronto tra politica e magistratura. Finché il dialogo è pubblico e trasparente, non c'è nulla di male. Quando il dialogo invece è clandestino, notturno, è segno che c'è qualcosa da nascondere».

Un problema destinato ad allargarsi?

«Per quello che sappiamo, Palamara si è comportato in modo non degno, facendo ricadere le macchie della propria condotta su quel grandissimo numero di magistrati che lavorano onestamente».

Questo gruppo di potere, come lo chiama lei, non è il motore di un sistema?

«No, è la degenerazione di un sistema. La magistratura fino alla fine degli anni Sessanta è stata solo una corporazione di funzionari pubblici, alla periferia dell'ordinamento politico. In seguito le sono state delegate con leggi funzioni sempre più ampie, sempre più discrezionali, sempre più politiche, sempre più fondate sull'ideologia del sospetto».

Con quali conseguenze?

«Leggi occhiute e pervasive hanno attribuito soprattutto alla magistratura penale, ma anche ad altri organi dello Stato, funzioni di sorveglianza e di controllo sulla intera società italiana. La politica ha ceduto il passo, delegando alla magistratura molte delle sue funzioni. Oggi le toghe decidono persino chi può stare nelle liste elettorali e chi no».

Dunque?

«Quando si delegano funzioni politiche ad un altro corpo, quel corpo diventa politico. Perciò, oggi la magistratura per delega della politica fa parte del sistema di governo del paese».

Con buona pace della separazione dei poteri?

«Il rapporto tra sovranità della politica e potere giudiziario è squilibrato. L'equilibrio costituzionale va ricostruito».

Quali sono i cascami più evidenti di questo squilibrio?

«Siamo una società sotto sorveglianza».

Una deriva giustizialista?

«Siamo oltre. C'è stata ed è tuttora in corso una delega alla magistratura delle funzioni di controllo della legalità. La magistratura dovrebbe intervenire quando c'è una notizia di reato, non per accertare se c'è una notizia di reato: questo lavoro, nello Stato di diritto, spetta alla polizia e ad altri settori della pubblica amministrazione».

Un quarto potere?

«Un potere che ormai governa insieme alla politica per decisione della politica. Accade in Italia più che altrove perché abbiamo un sistema politico fragile».

Come si può riformare il Csm, per contrastare lo strapotere delle correnti?

«Il Csm è un organo fermo agli anni Sessanta, bisogna renderlo adeguato al mutato ruolo della magistratura. Pensare di risolvere problemi con un nuovo sistema di elezione è un'ingenuità».

Quindi cosa propone?

«Anzitutto il vicepresidente del Csm dev' essere nominato dal capo dello Stato. Altrimenti già nel primo giorno di lavoro cominciano trattative oscure tra politici e magistrati su chi debba ricoprire quel posto. E già da subito inizia una trattativa spesso oscura fatta di negoziazioni, promesse e minacce tra le correnti e con le correnti, tra i partiti e con i partiti».

Poi?

«Poi si deve costituire un'Alta corte per la responsabilità disciplinare di tutte le magistrature. Composta da magistrati ordinari, amministrativi, contabili, tributari e una quota di laici. E questa corte deve decidere anche sui ricorsi contro le nomine interne».

Oggi la questione morale di berlingueriana memoria investe le toghe anziché la politica?

«Sì, c'è una questione morale, anche più grave di quella sollevata da Enrico Berlinguer nei confronti dei partiti. All'epoca si assistette alll'incardinamento del potere dei partiti nel sistema pubblico, oggi siamo di fronte a una degenerazione del potere della magistratura. Un pezzo di questo potere va per conto suo, al fine di acquisire prerogative personali, influire illecitamente sugli altri magistrati e dunque anche sulla società e sul sistema delle imprese».

Quanto è alto il rischio per la democrazia?

«Dovrebbe essere la stessa magistratura a prendere atto della condizione difficile in cui si trova. La spirale è verso il basso, ogni settimana succede qualcosa. Se la magistratura non si attiva per riforme profonde, sarà trascinata giù».

Parliamo del premier Giuseppe Conte: si sente rappresentato da questo governo?

«Il governo non mi deve rappresentare: deve decidere».

Troppi rinvii, soprattutto sulle misure economiche, e poca sostanza?

«Governare è difficile. Ma occorrerebbe maggiore chiarezza sulle priorità».

L'indecisione del governo sta logorando il Pd?

«Con il sistema proporzionale i partiti di governo sono alleati ma anche concorrenti. Anche i Cinque stelle rischiano il logoramento. È un tema che si pone quando le alleanze non scaturiscono dal voto dei cittadini, ma attraverso le negoziazioni parlamentari. Accadde anche nel precedente governo».

Silvio Berlusconi sarebbe disponibile a un nuovo governo senza i Cinque stelle. Si immagina il Pd al potere con Forza Italia?

«Ho l'impressione che sarebbero avventure, non governi».

A proposito, che cosa ne pensa dell'audio in cui il magistrato Amedeo Franco parla di «plotone di esecuzione» giudiziario contro Berlusconi?

«Bisogna innanzitutto liberarsi dai preconcetti pro e contro. Poi stare ai fatti».

Berlusconi ha ragione a sentirsi un perseguitato?

«È stato assolto diverse volte».

Siamo un Paese a rischio autoritarismo?

«Il Parlamento è marginale. Il decreto legge sulle semplificazioni, per esempio, affida a un Dpcm l'indicazione delle opere strategiche da realizzare. Non ci sono gli strumenti parlamentari per decidere, e il Dpcm diventa strumento di governo autonomo rispetto al Parlamento. Se non si riforma il bicameralismo paritario sarà inevitabilmente sempre peggio».

Durante il periodo più buio dell'emergenza qualcuno al governo si è fatto prendere la mano?

«La realtà è più complessa: è mutato dappertutto il contratto sociale. Oggi i governi dicono al cittadino: dammi le tue libertà, io ti garantisco la vita. E se la vita è a rischio, il cittadino accetta qualsiasi cosa».

L'esecutivo giallorosso è nato per scegliere il nome giusto per il Quirinale?

«Può darsi, ma programmare queste cose è difficile. Se qualcuno ha in mente di farlo, è un po' troppo ottimista».

Sarebbe favorevole a un gentiluomo legato al centrodestra come capo dello Stato?

»Un gentiluomo o una gentildonna. Se ci sono i voti, perché no? Ci sono personaggi adatti in tutto il mondo politico».

Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 6 luglio 2020. «Benvenuti nell'Italia dei disvalori, un Paese in confusione totale, in guerra con i padri costituenti, dove ogni anno che passa aumentano le violazioni alla Carta e cala il tasso di democrazia». Requisitoria di Antonio Di Pietro, il pm più famoso della storia della Repubblica. Da magistrato, ha puntato il dito contro la politica; mollata da tempo la toga, allarga il j' accuse a molti suoi ex colleghi. «Ma non alla categoria», ci tiene a precisare, «perché sono gli individui che hanno umiliato la magistratura, come sono i singoli parlamentari che hanno fatto sì che ora tutto il Palazzo venga visto come il luogo del malaffare. La responsabilità, d'altronde, è sempre personale».

Questo però non impedisce all'eroe di Mani Pulite di processare come al solito, non l'individuo, ma il sistema.

«Non condivido l'idea per cui Palamara è il male assoluto. Non era da solo a manovrare. Più dell'ex presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, di cui ormai sappiamo anche troppo, mi preoccupano i tanti Palamara non emersi, tutti coloro che non sono stati intercettati ma comunque hanno trasformato la magistratura da servizio in occasione di potere personale, realizzando una mutazione genetica di un'istituzione nata per difendere lo Stato e i cittadini».

Ma Di Pietro, è tutta colpa vostra se la giustizia è diventata strumento di potere politico, siete stati voi a iniziare.

«Nella mia vita sono stato accusato di aver fatto un uso politico della giustizia, ma la verità è che altri hanno fatto un uso politico della mia attività giudiziaria, sia contestandomi, sia per sfruttare il vento e farsi portare al traguardo».

Berlusconi l'ha contestata e la sinistra l'ha sfruttata?

«Guardi, Mani Pulite era un'inchiesta che partiva dai reati e poi è arrivata alla politica, quando abbiamo trovato i soldi nascosti nei divani. Le inchieste politiche oggi partono dalla persona per vedere se si riesce ad arrivare a qualche reato. Mani Pulite era un'operazione chirurgica, noi eravamo dei medici; poi sono subentrati i paramedici, e i risultati si sono visti».

I paramedici sono quelli che usano la giustizia a scopi politici?

«Sono i magistrati che aprono le inchieste pensando alla propria realizzazione privata anziché alla loro funzione istituzionale. E se poi l'inchiesta si chiude con un nulla di fatto, nel frattempo loro ne hanno tratto beneficio».

Può farmi degli esempi?

«Pensi al reato di abuso di ufficio, in cui il politico di turno deve dimostrare di non essere colpevole. È la resa del diritto: si anticipa la condanna non essendo in grado di provare il reato. Sono inchieste che garantiscono notorietà ma non giustizia».

Il caso Palamara è la Tangentopoli dei giudici?

«A volerla tirare molto sì, perché allora tutti i politici si mettevano d'accordo per spartirsi le mazzette mentre oggi le toghe si accordano per dividersi il potere. E in entrambi i casi c'è stata una degenerazione, un tempo dei partiti, adesso della magistratura. Però è anche vero che, ora come allora, anche nelle categorie screditate ci sono molte brave persone. Lei non deve guardare all'Anm, che per quel che mi riguarda neppure dovrebbe esistere, visto che i sindacati servono per difendere i lavoratori dal potere ma i magistrati, che hanno il potere più grande, da che cosa si dovrebbero mai difendere? Deve guardare i giudici della porta accanto, quelli che frequento tutti i giorni in tribunale da avvocato, gente preparatissima e laboriosa».

E allora perché comandano le mele marce?

«Perché l'Italia è divisa da sempre in chi lo mette e chi lo prende. La scelta di accentrare i poteri della magistratura nella figura del capo e nelle super Procure inibisce molti giudici e li priva di libertà nel loro lavoro».

In magistratura c'è una dittatura dei peggiori?

«Diciamo che chi canta fuori dal coro poi ne paga le conseguenze. Io ero un cane sciolto, quando fui attaccato processualmente, nessun collega mi difese. E lo stesso capitò, più o meno negli stessi anni, a Falcone. Guardi, un magistrato può essere fermato solo facendolo saltare in aria, come capitò a Giovanni, o da un altro magistrato, come capitò a me».

Anche Palamara è stato fermato da altri magistrati: regolamento di conti?

«E qui torniamo al discorso dei magistrati non intercettati. Se Palamara oggi ha perso, significa che qualcun altro ha vinto. La storia d'Italia è dominata dall'invidia e dall'accidia».

Palamara si difende dicendo che così fan tutti «Come disse Craxi in Parlamento, un discorso di alta responsabilità, ma che di fatto era una confessione». Come se ne viene fuori?

«Il Csm ha creato il cancro che lo sta uccidendo, scegliendo il sistema elettivo e aprendo delle vere e proprie campagne elettorali, dove ciascun aspirante a posizioni di vertice ha i suoi sponsor, le sue promesse, i suoi debiti da onorare. Le nomine dei capi della magistratura non devono essere fatte dalle correnti ma dal presidente della Repubblica, dalla Corte Costituzionale e, per la restante parte, tirate a sorte».

Perché lei fu fermato?

«Perché stavo indagando sui collegamenti tra la mafia e l'imprenditoria del Nord; e questo dava fastidio a molti».

Cosa pensa dell'audio del magistrato che condannò Berlusconi e poi andò da lui per scusarsi?

«Berlusconi da sempre fa la vittima e gioca sugli attacchi alla propria persona. È un gioco che non mi piace. Ma se chiudo gli occhi, la cosa che mi fa più male è il magistrato che rinnega se stesso: una sentenza o non la firmi o, se la sottoscrivi, poi te ne assumi le responsabilità».

I magistrati non parlano un po' troppo?

«Si è diffusa la dipietrite».

Me la spieghi meglio.

«Tutti vogliono diventare delle star, avere i loro cinque minuti di gloria, come me ai tempi di Mani Pulite, solo che io non me la sono cercata».

Però l'ha cavalcata bene.

«Ho fatto tutte le parti in commedia del processo penale, compreso quella dell'imputato. E le garantisco che non mi sono divertito. Oggi sto bene nei panni dell'avvocato».

Avvocato, perché la giustizia non funziona se la maggior parte dei giudici è così brava?

«Per carenza di strutture e di personale».

Faccio appello: quando le cose non funzionano il difetto va cercato nel manico.

«Allora le dico che non mi piace come si fanno le inchieste oggi: si procede per associazione a delinquere per poter fare intercettazioni a strascico alla ricerca del reato. Io ho fatto tutta Tangentopoli senza mai ricorrere a certi mezzucci».

Md contro Ferri e Palamara: “Ci delegittimano per salvarsi”. Paolo Comi su Il Riformista il 5 Luglio 2020. È un’offensiva a tutto campo quella lanciata ieri dalle toghe di sinistra di Magistratura democratica. Diversi gli obiettivi: Amedeo Franco, il giudice “reo” di aver detto in un colloquio che il processo sui diritti televisivi fu “un plotone d’esecuzione” e che la sentenza era “schifosa”; Cosimo Ferri, il leader di Magistratura indipendente, la corrente di destra da sempre invisa a Md; Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm che con le sue chat ha svelato il sistema delle nomine, a cui partecipavano tutte le correnti della magistratura (anche Md), al Csm. Una vicenda dai «profili torbidi ed inquietanti», esordisce il comunicato delle toghe di sinistra diffuso ieri pomeriggio. «La registrazione, della quale è ignoto il contesto e non è stata appurata la genuinità e l’integralità, viene divulgata a molti anni di distanza, dopo la morte del giudice Franco, in un contesto che appare favorevole ad accreditare qualsiasi ignominia per screditare e delegittimare i magistrati e la giurisdizione». «Questo clima è oggettivamente determinato dalla vicenda Ferri/Palamara, disvelata a maggio dello scorso anno, e dalle successive propagazioni delle chat telefoniche di uno dei due protagonisti, effettuata in modo strumentale da una parte della stampa compiacente (verosimilmente i giornali che stanno pubblicando le chat di Palamara, ndr) con i due protagonisti principali della vicenda”. «C’è chi in questo momento per salvare se stesso è disposto a far pagare un prezzo altissimo alla magistratura e al Paese: la posta in gioco non è una tardiva, quanto improbabile dimostrazione di un complotto ordito dalla magistratura ai danni di Berlusconi; non è l’impossibile occultamento delle responsabilità dei protagonisti dello scandalo di maggio 2019, né l’obliterazione delle oggettive responsabilità delle correnti e delle persone coinvolte che non vogliono abbandonare certe pratiche di potere e clientelari. La posta in gioco è l’autonomia e l’indipendenza della magistratura». Un classico. Ma non solo: «La posta in gioco è anche la credibilità e l’onore del corpo sano della magistratura, che è fatto della stragrande maggioranza dei magistrati, che rifiutano e hanno sempre rifiutato logiche e pratiche clientelari e che sono i primi danneggiati da esse e da coloro che le hanno messe in atto». «È necessario in questo momento che le responsabilità specifiche per i fatti emersi vengano affermate con ponderazione, rigore e fermezza e che, nel contempo venga difesa gelosamente la credibilità della magistratura e della giurisdizione che è rimasta estranea a tali deviazioni e che deve poter proseguire a svolgere le proprie funzioni in un contesto di serenità e fiducia», concludono le toghe di sinistra. Parole durissime che arrivano alla vigilia del disciplinare nei confronti di Ferri e Palamara, il cui inizio è fissato per il 21 luglio. Immediata la replica dei difensori di Palamara gli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti, e il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi: «In uno Stato di diritto si chiede al giudice di “accertare” e non “affermare” le responsabilità solo ipotizzate a carico degli incolpati. Il processo è sede di giudizio, non fabbrica di colpevoli, stupisce che dei magistrati lo dimentichino».

Dal “Corriere della Sera” l'11 luglio 2020. fine della «carriera» sindacale in seno all' Associazione nazionale magistrati per Cosimo Ferri, toga scesa in politica, attualmente deputato nelle file renziane di Italia viva e per cinque anni sottosegretario alla Giustizia. Ex leader di Magistratura Indipendente, Ferri aveva saputo portare la corrente più a destra delle toghe all' apice dei consensi raccogliendo molti voti nel segno del ritorno alle rivendicazioni più corporative. La Giunta del parlamentino delle toghe, riunita nella sede romana di Piazza Cavour, con mascherine e diretta streaming, ha deciso di accogliere le dimissioni che Ferri aveva presentato alla precedente convocazione e ha così evitato sanzioni pesanti, come quelle dell' espulsione inflitta a Luca Palamara. Con l' accoglimento delle dimissioni (solo quattro i voti contrari) l' Anm ha dichiarato «il non luogo a provvedere» per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio che pendeva sul capo di Ferri e lo spettro della radiazione, che era il pericolo maggiore.

Luca Palamara, Renato Farina: può chiudere una stagione di oscuri traffici giudiziari. Se non gli tappano la bocca. Renato Farina su Libero Quotidiano il 12 luglio 2020. E se Luca Palamara fosse, omicidi e Andreotti a parte, il Tommaso Buscetta dei tempi nuovi? Somiglianza paradossale, certo. E però siamo davanti a due pentiti di grosso calibro che, dopo aver subito torti inescusabili, hanno girato il cannone contro le rispettive famiglie dove facevano il bello e il cattivo tempo, e dalle quali sono stati rinnegati e puniti per essersi messi di traverso ai nuovi equilibri di potere. Ci sono due differenze. 1- La magistratura non è la mafia, non ci permetteremmo. Migliaia di oneste toghe dedicano la vita alla giustizia e qualche volta la rischiano e per la buona causa l'hanno perduta. Resta il fatto che il Trojan infilato nel cellulare dell'ex presidente dell'Anm, nonché ex capo corrente ed ex membro del Csm, e presto ex pm tout-court, ha rivelato un intrico di relazioni tra procuratori e giudici, inciuci con giornalisti a scopo promozionale per entrambi, pressioni per far condannare politici poco amici delle procure, eccetera, dove la preoccupazione degli eminenti capo bastone è quanto di più lontano dall'equità e dall'imparzialità si possa immaginare. 2- Buscetta ha finito il suo lavoro e ha sistemato per le feste i suoi nemici d'alto rango criminale. Palamara non ha ancora cominciato. Vedremo se glielo lasceranno fare. Il 20 giugno era stato espulso dall'Anm, dopo che gli era stato vietato sulla base di un codicillo moscovita di difendersi. È allora che ha annunciato un'operazione verità, che somiglia alquanto ad un'auto-bomba con lui al volante diretta nelle sacre aule dei Tribunali, e soprattutto nei retrostanti corridoi e camere di scarso consiglio. Un repulisti che di sicuro coinvolgerà anche lui, ma sarà l'occasione di un lavacro di categoria mai visto.  Toghe ed ermellini finiranno chi in tintoria chi in pellicceria. La decisione è di vuotare il sacco: non con un chiacchiericcio di corridoio o tra le urla di un talk-show ma davanti a un'Alta Corte. In questo caso non come testimone in una commissione parlamentare d'inchiesta che serve di solito a colorare ideologicamente la realtà, ma in un vero e proprio processo, sia pure disciplinare, davanti al Consiglio superiore della magistratura, dove comparirà il 31 luglio per la prima udienza. È convocato a Palazzo dei Marescialli nelle vesti di incolpato. Ha pronta una lista di circa cento testimoni delle proprie e altrui malefatte. Glielo lasceranno fare? Sergio Mattarella per l'occasione, come fece Francesco Cossiga in casi drammatici, non dovrà perdere l'occasione per esercitare di presenza il suo ruolo costituzionale di presidente, per garantire trasparenza ed equità. Lui ha autorità e autorevolezza perché la più grave crisi istituzionale che sta travolgendo il terzo potere della Repubblica, il più delicato, non si risolva nel rito ipocrita del capro espiatorio ma neppure nell'altrettanto furbesco tutti colpevoli -nessun colpevole.  Cosa nostra fece di tutto per tappare la bocca a Tommasino, detto Il "boss dei due mondi": gli ammazzò figli e parenti. Tenne duro. Finché ebbe Giovanni Falcone al fianco non inciampò in contraddizioni e fu determinante nel maxi-processo dove disegnò l'architettura della Cupola, sbugiardò in confronti leggendari i mamma santissima che pensavano di intimidirlo e ne fece condannare a centinaia. Don Masino, così era chiamato, pur essendo un conclamato assassino si meritò un trattamento coi fiocchi da Enzo Biagi che scrisse un libro con lui trattandolo da eroe, e da Marco Bellocchio che gli dedicò un film mitologico. Con Palamara l'apparato opaco della sua casta punta a renderlo inoffensivo. Escludiamo - e ci mancherebbe - metodi da lupara, non siamo a Gomorra, ma conoscendo i metodi degli alti pennacchi scommettiamo sulla volontà di radiarli in fretta e senza cerimonie. Una mela marcia da buttar fuori in fretta dal cesto. Tre o quattro testimoni e chiusa lì. Non provateci. Palamara, alias don Luca Buscetta, riconosce di essere stato ingranaggio importante di un sistema che si reggeva su regole pessime ma condivise, e praticate da magistrati di ogni fazione della consorteria togata. L'omertà non è ammessa. 

Magistratopoli, rischio processo farsa per Palamara: verrà radiato rapidamente o verranno ascoltati i 100 testimoni? Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Luglio 2020. Il 21 luglio Luca Palamara dovrà comparire davanti alla commissione disciplinare del Csm per essere giudicato. È stato il Procuratore generale della Cassazione a chiederlo. Sarà un processo in piena regola. Probabilmente molto diverso da tanti altri processi tenuti in questa sede. La sezione disciplinare del Csm, tra tutti i possibili tribunali, è certamente il più generoso. Gli imputati sono solo magistrati, la pubblica accusa è sostenuta da magistrati e la difesa, di solito, da ex magistrati, i giudici sono magistrati, la sentenza, salvo ragioni speciali, è l’assoluzione o il perdono. I casi più famosi di assoluzione dei quali si è parlato recentemente sono quelli del Pm John Woodcock, che era accusato di avere interrogato un testimone, che in realtà stava per diventare imputato, senza l’avvocato e di avergli fatto capire che se non parlava finiva a Poggioreale, e poi di avere rilasciato un’intervista a Repubblica, violando dei segreti; assolto due volte. Poi c’è il caso del quale parliamo anche oggi, del giudice Esposito che anticipò in una intervista le motivazioni di una sentenza (guarda caso quella contro Berlusconi) ma anche lui, dopo molti rinvii (credo sette) e un ragionevole cambiamento dei membri della corte che avrebbe dovuto giudicarlo, fu assolto nonostante l’evidenza indiscutibile della scorrettezza. Stavolta però, con Palamara, il clima è cambiato. la Procura generale della Cassazione vuole la condanna e la condanna vogliono quasi tutti i suoi colleghi. A patto che sia una condanna rapida, senza fronzoli, senza addentellati, e che sia la condanna alla radiazione della magistratura, alla sepoltura di Palamara: deve scomparire. Perché deve scomparire? E allora ripartiamo dal 21 luglio. Si sa che Palamara, per difendersi, chiamerà al banco circa 100 testimoni. Cioè, Palamara vorrebbe, prima di essere condannato, poter raccontare a tutti come funzionava la magistratura che lui ha conosciuto e che ha contribuito a dirigere, come si facevano le nomine, come si scambiavano i piaceri ( e i poteri), quali fossero i rapporti di sudditanza tra Pm e alcuni giudici, come le correnti avessero in mano il bandolo di tutte le matasse, come molte sentenze e molte inchieste avessero origini non giudiziarie, quali e quanto grandi nomi della magistratura fossero coinvolti in questo gioco, come la stessa Anm fosse non un limpido luogo di trasparenza e di lotta etica ma un punto di incontro dei poteri interni alla magistratura e della loro compravendita e suddivisione, e infine, e anche per riassumere, come funzionasse l’unica Casta (vera casta, fondata sulla cooptazione e sull’autogoverno, e sull’impermeabilità a influenze esterne) che domina il potere, anche il potere politico, in Italia. Mi rendo conto di avere scritto una frase lunghissima, molto più lunga di quello che è permesso dai normali canoni giornalistici. Ma qui, in questa storia un po’ infame, di normale non c’è quasi nulla, e la lunghezza dei difetti della magistratura italiana è senza precedenti. Il Csm accetterà i cento testimoni di Palamara o procederà, come ha fatto l’Anm, a un processo sommario? Senza garanzie, senza riscontri, senza nessun anelito né ricerca della verità? Vedete, la materia della quale si dovrà parlare è sconfinata. È un pezzo piuttosto grande della storia pubblica e privata di questo paese. Si tratta di capire se il sistema giustizia, negli ultimi trent’anni (ma forse molti di più) è stato solo sfregiato da alcuni episodi di malcostume e di degenerazione, comunque ad altissimo livello, o se invece è stato un sistema interamente marcio e lontano da ogni criterio di giustizia. Ed è molto importante scoprirlo, perché non solo dobbiamo dire a migliaia di imputati se i loro processi sono stati giusti o se erano condizionati e teleguidati, ma dobbiamo decidere in che modo recidere il cancro e ricostruire una magistratura credibile, non più casta, non più autoreferenziale, non più tesa a considerare l’indipendenza non un dovere ma un privilegio di discrezionalità e una garanzia di potere assoluto. Capite quanto è grande la partita? Qui si ricostruisce la struttura della democrazia italiana oppure la si distrugge. La sentenza pilotata contro Silvio Berlusconi del 2013, che sicuramente ha deviato il corso della politica italiana e ha cambiato la natura della destra politica, spingendola su posizioni estremiste e xenofobe, è una piccolissima parte del problema. È una parte molto vistosa, perché riguarda uno dei quattro o cinque più importanti leader politici del dopoguerra, liquidato da una piccola cospirazione giudiziaria. Ma la questione vera è quella generale dell’imbarbarimento della giurisdizione e della sua caduta nelle mani del partito delle Procure, e in particolare di alcune Procure (e giornali annessi). Se i testimoni sono quasi cento o più di cento devono parlare tutti. Palamara deve avere la possibilità di raccontare tutto quello che sa e di indicare quelli che sanno quanto o più di lui. Se non sarà così sarà la fine di ogni credibilità della magistratura italiana. Se lo spettacolo che darà il Csm – come ha fatto l’Anm – sarà quello di un tribunale fascista o sovietico, con la sentenza scritta e la fretta di concludere e di nascondere la verità vera, nessuno più, nessuno mai potrà più, neppure per scherzo, dire di avere fiducia nella magistratura. Se il Csm non accoglierà tutti i testimoni di Palamara – anche a costo di far durare un anno questo processo, e di svolgerlo in modo trasparente e pubblico – toccherà alla politica intervenire. In modo secco, drastico: non solo con una commissione di inchiesta ma con una riforma che tolga alla magistratura quella indipendenza che ha usato solo per coltivare i suoi privilegi e il suo potere e le camarille che hanno spinto verso l’ingiustizia. Non ci sono più tempi supplementari. O la magistratura si salva accettando di farsi processare, e di essere in parte smantellata, o, insieme ai corrotti, cadranno tutti. Anche quelle migliaia di magistrati onesti che hanno milioni di pregi e un gigantesco difetto: quello di non ribellarsi.

Berlusconi, la verità sulle trame nella lista dei teste di Palamara. L'ex pm alla sbarra prepara il suo contrattacco al Csm. Un elenco di 120 colleghi che possono far luce sul caso. Luca Fazzo, Domenica 12/07/2020 su Il Giornale. Ultimi due giorni di lavoro, chiuso nello studio dei suoi avvocati, a limare, ad aggiungere, a ragionare. Ora Luca Palamara è pronto. E domani mattina depositerà al Consiglio superiore della magistratura l'atto che segna ufficialmente l'inizio dello scontro: la lista dei testimoni che il pm romano, ex leader di Unicost e ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, chiede che vengano interrogati dalla sezione disciplinare del Csm quando il 21 luglio inizierà il procedimento contro di lui, Palamara, e gli altri cinque magistrati sotto accusa. Sono i cinque ex membri del Csm che si sono dovuti dimettere l'anno scorso in seguito alla divulgazione delle prime intercettazioni sull'allegro mercato di nomine e di favori in cui le correnti dei giudici hanno trasformato il Consiglio superiore. Nel frattempo, altre ondate di intercettazioni hanno dipinto un quadro ancora più devastante. Per questo la lista dei testimoni che verranno indicati da Palamara assume una importanza cruciale. Perché sarà una lista molto lunga, si parla di centoventi nomi: tutti necessari, secondo Palamara, ad accertare fin in fondo la trasversalità del degrado all'interno del Csm, la partecipazione di tutte le correnti al sistema; e soprattutto a capire come e perché sia iniziata l'inchiesta di Perugia, chi l'abbia ispirata e governata. Se non si capisce questo, dice Palamara, è impossibile valutare correttamente l'enorme mole di intercettazioni compiute dalla Guardia di finanza. Capirne il senso. Spiegarne i buchi, le alterazioni. La mega-lista testi di Palamara mette la sezione disciplinare del Csm in una situazione apparentemente senza sbocchi. Perché se dice di no, come vorrebbe una parte del Csm, a quasi tutti i testimoni chiesti dall'incolpato, e riduce all'osso la lista, si presta all'ovvio sospetto di accontentarsi di una verità minimale, di voler insabbiare le responsabilità delle correnti che oggi chiedono la testa di Palamara dopo avere bussato per anni alla sua porta; e dà fiato alla tesi dell'ex presidente dell'Anm che ritiene - in sostanza - di pagare la sua opposizione alle manovre della sinistra sulla Procura di Roma. Se invece la sezione disciplinare accetta le richieste di Palamara, il processo che inizia il 21 rischia di trasformarsi in un processo a dieci anni di storia del Csm, in cui verrebbero a galla gli accordi sotterranei che hanno portato alla spartizione di tutti i più importanti uffici giudiziari del Paese, in combutta con le forze politiche e a volte con l'intervento diretto del Quirinale. Una catastrofe, insomma. E a rasserenare il clima a Palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio, non contribuiscono di certo le ultime uscite di Palamara, che si dice pronto a parlare anche dei processi a Silvio Berlusconi e della loro gestione. Il tema è reso bollente dalle registrazioni del giudice di Cassazione Amedeo Franco che descrive la condanna del Cavaliere per frode fiscale come un processo preconfezionato e diretto dall'alto. Ma il tema è più vasto, e riguarda direttamente anche il Csm: perché sul tavolo ci sono le promozioni a raffica disposte dal Consiglio per molte delle toghe che in questi anni hanno partecipato a vario titolo alle condanne dell'ex premier; ma anche, specularmente, il destino infausto dei pochi giudici che hanno firmato sentenze di assoluzione. A Milano, per fare un esempio, tutti i giudici che hanno prosciolto Berlusconi hanno dovuto, per un motivo o per l'altro, cambiare aria. Che davanti a questo marasma, al Csm non sappiano più che pesci pigliare lo racconta bene anche il fatto che a dieci giorni dall'udienza ancora non si sa chi saranno i componenti della sezione, cioè i «giudici» di Palamara. Il vicepresidente del Csm, David Ermini, si è già dovuto tirare fuori perché anche il suo nome compare nelle intercettazioni. Piercamillo Davigo è stato ricusato da Palamara per alcune sue dichiarazioni che suonavano, secondo il pm, come una condanna anticipata. L'altro giorno sono stati nominati alcuni membri supplenti, col rischio - denunciato dal membro laico Alessio Lanzi - che si costruisca un tribunale su misura. E insomma ancora non si capisce se tutto finirà con una formalità dall'esito scontato o se davvero il processo diventerà il processo a un sistema: come il processo Cusani fu per i partiti della Prima Repubblica.

Repubblica e il fango su Palamara, Molinari all’assalto dell’ex leader Anm. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Luglio 2020. Prosegue violentissimo “l’assalto” contro Luca Palamara e Cosimo Ferri in vista del loro processo disciplinare che inizierà il 21 luglio al Csm e che, secondo le aspettative, dovrebbe concludersi con l’espulsione dei due dalla magistratura. I primi colpi sono stati sparati venerdì scorso dai magistrati di Area, il correntone di sinistra di cui fa parte Magistratura democratica. «È necessario che le responsabilità specifiche per i fatti emersi vengano affermate con ponderazione, rigore e fermezza e che, nel contempo venga difesa gelosamente la credibilità della magistratura e della giurisdizione che è rimasta estranea a tali deviazioni e che deve poter proseguire a svolgere le proprie funzioni in un contesto di serenità e fiducia», il diktat delle toghe progressiste ai giudici della disciplinare. Domenica è stato il turno del Fatto Quotidiano con l’editoriale del direttore. «Ma che deve ancora fare Cosimo Maria Ferri per essere cacciato dalla magistratura», l’incipit del pezzo di Marco Travaglio il quale, per non farsi mancare nulla, elencava anche le vicissitudini giudiziarie dei fratelli dell’ex sottosegretario alla Giustizia. Ieri, infine, il botto con due articoli su Repubblica: “Un lido in Sardegna per Palamara ma spunta l’amico prestanome”, e “Operazione Confusione. Le manovre dell’ex pm per sfuggire ai suoi giudici”. Nel primo pezzo Palamara viene indicato come “socio occulto”, il titolare è un commercialista romano, di uno stabilimento di fronte l’isola di Tavolara. Dal maxi fascicolo di Perugia sono stati ripresi alcuni passaggi circa l’acquisto da parte dell’ex presidente dell’Anm di una quota per 23mila euro di un chiosco per la vendita di bibite e panini. Episodio senza rilievo penale, come certificato dal gip del capoluogo umbro, in quanto la legge consente ai magistrati la possibilità di acquistare quote societarie. Nulla di illecito, insomma, ma sufficiente per il titolone ad effetto di Repubblica. L’altro articolo, senza citarli espressamente, punta ai giornali, fra cui anche il Riformista, che in questi mesi hanno sollevato perplessità sul modo di conduzione delle indagini. Una strategia per allontanare il processo disciplinare. Fra i temi dibattuti, la raccolta illegittima delle intercettazioni da parte della finanza e la successiva manipolazione del contenuto. Tutto, ovviamente, falso per Repubblica. Il Riformista, invece, ha dato conto di un provvedimento del pm titolare del fascicolo, Gemma Miliani, indirizzato al comandante del Gico della guardia di finanza di spegnere il microfono ogni qualvolta nelle discussioni di Palamara fosse stato coinvolto un parlamentare. Cosa non accaduta. E poi errori di trascrizione come quello della conversazione tra Palamara e l’ex pg della Cassazione Riccardo Fuzio. «Dall’ascolto dell’audio emerge che Palamara e Fuzio discutono delle problematiche insorte a seguito della presentazione dell’esposto presentato al Csm da parte di Stefano Fava (già pm a Roma) nei confronti di Pignatone», puntualizza la difesa di Palamara, sottolineando come «i comunicati di gruppi associativi o gli articoli di giornali» abbiano il «chiaro intento di cercare di influenzare e di anticipare il giudizio della sezione disciplinare». Leggendo il fascicolo di Perugia, si scopre infatti che i rapporti fra Pignatone e Fava non fossero idilliaci. L’elemento scatenante è una richiesta di intercettazioni da parte di Fava, nell’ambito di una indagine per corruzione in atti giudiziari, a carico di avvocati e magistrati, fra cui Francesco Caringella, giudice del consiglio di Stato. Siamo nell’estate del 2016. Pignatone scrive una piccata nota a Fava, per conoscenza all’aggiunto Paolo Ielo. «Rileva che permangono violazione dei criteri organizzativi dell’ufficio che prevedono il visto dell’aggiunto per le nuove intercettazioni». E poi: «Rimangono senza esito le mie richieste, formali ed informali, di essere informato degli sviluppi delle indagini più importanti». Il procedimento è ritenuto da Pignatone di “particolare delicatezza”. L’ex procuratore di Roma ordina allora di «non dare corso alla richiesta e ad attenersi alle regole dell’ufficio». Ielo è d’accordo con il procuratore e stronca l’annotazione della guardia di finanza «piena di affermazioni apodittiche e gronda di condizionali e giudizi probabilistici, assolutamente inidonei a radicare un giudizio di sussistenza di indizi». «Si è in presenza di illazioni e nulla di più», scrive Ielo. «Occorre non solo un controllo critico più intenso delle affermazioni della pg ma a mio giudizio anche una più pregnante direzione della sua attività secondo le prerogative proprie del pm», l’affondo nei confronti di Fava.

Palamara e il lido "occulto" in Sardegna. “Io, prestanome del Pm”: favori e incarichi. Niccolò Magnani su Il Sussidiario il 7.07.2020. Luca Palamara, spunta nuovo “filone” su gestione da proprietario “occulto” di un lido in Sardegna: “sì, sono un prestanome del pm”. Incarichi e presunti favori. Il caso Palamara non riguarda più “solo” presunte corruzioni e nomine pilotate di Procure quando il magistrato ora espulso dall’Anm era consigliere del Csm: secondo due scoop di Repubblica e Corriere della Sera emergono nuove intercettazioni in cui Palamara risulterebbe, in attesa di verifiche in sede di indagine, proprietario “occulto” di un lido in Sardegna tramite un suo fidato “prestanome”. Il possibile nuovo filone del “sistema Palamara” sbarca in una spiaggia vicino ad Olbia, nel lido “Kando Istana Beach” dove pare avesse più di un interesse nella gestione. «Non ha la titolarità di nessun lido in Sardegna, essendosi più modestamente limitato ad acquistare nell’interesse dei figli una piccola quota, per un valore di 23 mila euro, di un chiosco adibito alla vendita di panini, gelati e bibite senza alcuna velleità imprenditoriale e per chi conosce la Sardegna a distanza di circa un’ora di auto da Porto Cervo», hanno spiegato gli avvocati di Palamara al CorSera dopo le intercettazioni emerse su Repubblica il giorno prima. Eppure la storia parte ancora una volta da lontano, dal 2016 quando l’amministratore unico del lido – il commercialista Andrea De Giorgio – diventa effettivo e per “conto” di Palamara. Lo avrebbe ammesso lo stesso De Giorgio alle domande degli inquirenti: «sì, è vero, sono un prestanome di Palamara».

LE NUOVE INTERCETTAZIONI CONTRO PALAMARA. Nel mare magnum delle intercettazioni sullo smartphone del pm romano si sarebbero visti tutti gli scambi per le decisioni da prendere sulla spiaggia sarda: «La somma di denaro necessaria per acquisire la quota, 23mila euro, era stata anticipata per conto del magistrato dal suo amico De Giorgio, come prestanome, al quale Palamara ha restituito nel corso del tempo l’importo di 14mila euro», spiegano le carte della Procura di Perugia riportate dal Corriere della Sera. I dubbi degli inquirenti si fissano sul fatto che non l’intera cifra è stata restituita da Palamara e, parallelamente, vi sarebbero stati diverse “intercessioni” fatte dal magistrato ex Anm presso amici giudici e procuratori: «Il commercialista aveva ricevuto incarichi dai tribunali e dalla procura di Roma […]. In un’occasione ha ringraziato l’amico magistrato per un incarico ricevuto da un altro sostituto procuratore», si legge ancora negli atti allegati all’inchiesta. Gli scambi sui messaggi tra i due sono tutti riferiti a come rendere al meglio quella spiaggia financo ai temi più gestionali e personali («Non è dignitoso avere una spiaggia così. Ti assicuro che la spiaggia libera è dieci volte più ordinata. Trova tu un rimedio perché così è inaccettabile»).

I SOCI DI PALAMARA. Secondo il Corriere della Sera, dalle carte emerge anche un secondo “socio” di Palamara per il Kando Istana Beach, di nome Federico Aureli: in prima battuta, l’uomo interrogato avrebbe prima negato la compartecipazione di Palamara salvo poi riferire «Io penso che le quote sono state formalmente acquistate da Andrea De Giorgio, ritengo però che l’interessamento alla società fosse di Palamara Luca. Nel senso che ritengo che De Giorgio figurasse al posto di Palamara. Fermo restando che gli aspetti contabili venivano gestiti da me insieme a De Giorgio. Penso che le quote, quindi la proprietà del chiosco interessasse a Luca Palamara ma in ogni caso io ho gestito gli aspetti formali e commerciali con Andrea De Giorgio». Anche in questa occasione vi sarebbero state delle informazioni rivelate da Palamara circa vicende giudiziarie della famiglia dell’imprenditore De Giorgio, «[…] mia moglie è stata denunciata dalla controparte ed è iniziato a suo carico un procedimento penale. Il processo è in corso. Sapevo che il pm conosce Luca Palamara», spiega De Giorgio ai pm di Perugia durante l’interrogatorio redatto con ampi stralci dal CorSera. Gli affari sul «Kando Istana Beach» non fanno parte per il momento delle contestazioni penali a Palamara eppure, secondo il giudice di Perugia «emergono rapporti poco trasparenti o, comunque, commistioni di interessi quantomeno sintomatici di un impiego non appropriato della posizione e della qualità di magistrato».

Un lido in Sardegna per Palamara ma spunta l’amico prestanome. Giuliano Foschini il 5 luglio 2020 su La Repubblica. Il titolare della società è un commercialista romano, che secondo i magistrati ha ottenuto incarichi dai tribunali e dalla Procura di Roma. E l’ex leader Anm si interessò di un procedimento penale riguardante la moglie di un altro socio. Comincia in Sardegna, nella meravigliosa spiaggia di Porto Istana a Murta Maria - all'orizzonte si intravede l'isola di Tavolara e a 30 chilometri c'è Porto Cervo - un pezzo della storia del magistrato Luca Palamara tutta ancora da scrivere. È la storia di un chiosco su una delle spiagge più belle di Italia, il Kando Istana Beach, che - così come hanno ricostruito la Guardia di finanza e la procura di Perugia - era di proprietà di un graf...

Un lido in Sardegna per il magistrato Palamara ma spunta l’amico prestanome e segue smentita dei suoi legali. Il commercialista titolare del Kando Beach a Tavolara riceveva incarichi dalla Procura di Roma. Il titolare della società è un commercialista romano, che secondo i magistrati ha ottenuto incarichi dai tribunali e dalla Procura di Roma. E l’ex leader Anm si interessò di un procedimento penale riguardante la moglie di un altro socio. Comincia in Sardegna, nella meravigliosa spiaggia di Porto Istana a Murta Maria – all’orizzonte si intravede l’isola di Tavolara e a 30 chilometri c’è Porto Cervo – un pezzo della storia del magistrato Luca Palamara tutta ancora da scrivere. È la storia di un chiosco su una delle spiagge più belle di Italia, il Kando Istana Beach, che – così come hanno ricostruito la Guardia di finanza e la procura di Perugia – era di proprietà. Il caso Palamara non si sgonfia, ma anzi si arricchisce sempre più di nuovi particolari. Come quello che riporta Repubblica, relativo ad un lido di una spiaggia in Sardegna, tra Tavolara e Porto Cervo, di cui sarebbe proprietario proprio Luca Palamara, l’ex boss di Unicost a processo a Perugia per corruzione, dirigeva attraverso un prestanome, che avrebbe anche ricevuto incarichi presso i tribunali e la Procura di Roma. L’amico di Palamara Andrea de Giorgio, a verbale, stretto dalle domande della Finanza ha dovuto ammettere «Sì, è vero, sono un prestanome di Palamara». Analizzando i messaggi del pm romano i finanzieri si sono imbattuti in questo commercialista che, nell’interrogatorio, lo stesso Palamara ha definito essere «un vero amico». Si conoscono dai tempi della scuola e contavano uno sull’altro, anche nelle situazioni più delicate. «Dalle indagini» si legge negli atti depositati all’inchiesta di Perugia. «è emerso che Palamara sia socio occulto della Kando Beach srl. La somma di denaro necessaria per acquisire la quota, 23mila euro, era stata anticipata per conto del magistrato dal suo amico De Giorgio, come prestanome, al quale Palamara ha restituito nel corso del tempo l’importo di 14mila euro». Il capitale per rilevare il ramo d’azienda lo versa De Giorgio per conto di Palamara e, secondo il suo racconto, solo in parte gli viene restituito. Anche perché Palamara aveva sempre un pensiero per gli amici. «Il commercialista – si legge ancora negli atti allegati all’inchiesta – aveva ricevuto incarichi dai tribunali e dalla procura di Roma». E Palamara sapeva. «In un’occasione ha ringraziato l’amico magistrato per un incarico ricevuto da un altro sostituto procuratore ». Fonte: Repubblica- Affari

Comunicato smentita legali di Luca Palamara. “Non si farà intimorire da comunicati di gruppi associativi o da articoli con funzione anticipatoria di giudizio”. “In data 6 odierna sul quotidiano la Repubblica venivano pubblicati due articoli, il primo dal titolo “Un lido in Sardegna per Palamara ma spunta l’amico prestanome” il secondo dal titolo “Operazione confusione. Le manovre dell’ex pm per sfuggire ai suoi giudici” a firma rispettivamente di Giuliano Foschini e Carlo Bonini. Quanto al primo articolo dal titolo “Un lido in Sardegna per Palamara ma spunta l’amico prestanome” l’articolo nel riportare stralci del provvedimento del GIP del Tribunale di Perugia, ha riferito notizie non vere riguardanti il dott. Palamara e comunque ha omesso di riferire circostanze assolutamente rilevanti per la reale ricostruzione dei fatti in violazione del corretto dovere di informazione da parte del giornalista. Infatti sono destituiti di ogni fondamento i seguenti passaggi del citato brano giornalistico:

“E’ la storia di un chiosco…di proprietà di un gruppo di amici…tra cui Luca Palamara che si è schermato con un prestanome…Andrea De Giorgio che a verbale stretto dalle domande della Guardia di Finanza ha dovuto ammettere “si è vero sono un prestanome di Palamara.…“. A parte l’accostamento suggestivo per adombrare chissà quali malefatte compiute dal dott. Palamara, il giornalista ha tuttavia omesso di riportare nell’articolo le seguenti circostanze assolutamente decisive per la reale ricostruzione degli accadimenti e precisamente che:

a) il dott. Palamara non ha la titolarità di nessun lido in Sardegna come enfaticamente afferma il titolo dell’articolo, essendosi più modestamente limitato ad acquistare nell’interesse dei figli una piccola quota, per un valore di € 23.000, di un chiosco adibito alla vendita di panini, gelati e bibite senza alcuna velleità imprenditoriale e per chi conosce la Sardegna a distanza di circa un’ora di auto da Porto Cervo;

b) si tratta di fatti e vicende ampiamente approfonditi nel corso delle indagini preliminari all’esito delle quali come emerge dal capo di imputazione formulato nell’avviso 415 bis c.p.p. non è stato ravvisato alcun profilo di rilevanza penale da parte dell’autorità giudiziaria nei confronti del dott. Palamara;

c) la legge consente ai magistrati la possibilità di acquistare quote societarie (quello che normalmente avviene nella vita quotidiana quando ad esempio anche i magistrati acquistano azioni di società quotate in borsa, spesso addirittura per importi superiori a quello in questione);

d) in questo caso l’acquisto della quota societaria è avvenuto mediante intestazione formale ed in via fiduciaria al dott. De Giorgio in virtù di un familiare rapporto di amicizia intrattenuto sin dalla nascita con lo stesso;

e) il dott. De Giorgio è stato nominato consulente tecnico non su indicazione del dott. Palamara ma in via del tutto autonoma e per le sue riconosciute capacità professionali da parte dei magistrati titolari dei rispettivi procedimenti in osservanza delle norme sul conferimento degli incarichi professionali;

f) il Presidente della Corte d’appello di Roma con una nota del 5 luglio del 2019 ha escluso qualsiasi interessamento del dott. Palamara su procedimenti giudiziari in corso;

g) il dott.Palamara è stato sempre estraneo alle vicende relative alla moglie dell’Aureli imputata nell’ambito di un procedimento penale avente ad oggetto la mancata esecuzione di un provvedimento del giudice civile come facilmente si può evincere dagli atti depositati dalla Procura di Perugia. Quanto al secondo articolo dal titolo “Operazione confusione. Le manovre dell’ex pm per sfuggire ai suoi giudici” lo stesso ha riferito notizie non vere riguardanti il dott. Palamara. Infatti sono destituiti di ogni fondamento i seguenti passaggi del citato brano giornalistico:

“E’ un interesse, quello di Palamara…. “a sottrarsi dal processo”. La difesa del dott. Palamara in vista delle citate udienze del 16 e del 21 luglio p.v. agisce nella assoluta certezza di poter dimostrare nelle sedi processuali istituzionalmente preposte ad accertare il reale accadimento dei fatti la correttezza personale e professionale del dott. Palamara, senza farsi intimorire allo scopo da comunicati di gruppi associativi o addirittura da articoli di giornali evidentemente mossi dall’intento di interferire e di svolgere una funzione anticipatoria del relativo giudizio. Anzi sin da ora possiamo dire che sarà molto agevole dimostrare l’assoluta inesistenza di qualsiasi adesione ad associazioni massoniche e segrete da parte del dott. Palamara, affermazioni in relazione alle quali riserviamo le più incisive azioni a tutela del nostro assistito;

Per rovesciare i due tavoli quello penale e disciplinare è necessario per Palamara accreditare due circostanze. False entrambe. La prima: che la Guardia di Finanza abbia raccolto illegittimamente le intercettazioni…… La seconda: che la stessa Guardia di Finanza abbia manipolato il contenuto……” In palese violazione del dovere di verità, nell’articolo in questione il giornalista ha omesso di riportare circostanze assolutamente decisive per ricostruire il reale accadimento dei fatti atteso che dagli atti dello stesso procedimento di Perugia emerge che:

a) vi è un provvedimento del 10 maggio del 2019 con il quale il Pubblico Ministero impartisce al colonnello Mastrodomenico del GICO della GDF di spegnere il microfono ogni qualvolta nelle discussioni del dott. Palamara fosse stato coinvolto un parlamentare. Disposizione questa disattesa sul presupposto che gli ascolti avvenivano nelle giornate successive in violazione di quanto stabilito dall’art.68 della Costituzione;

b) nella trascrizione della conversazione tra il dott. Palamara ed il dott. Fuzio in data 21 maggio 2019, il GICO della GDF trascriveva “carabinieroni” anzichè “Pignatone”. Dall’ascolto dell’audio in realtà emerge che  il dott.Palamara ed il dott. Fuzio discutono delle problematiche insorte a seguito della presentazione dell’esposto presentato al CSM da parte del dott. Fava nei confronti del dott. Pignatone, relativamente ai motivi che avevano indotto quest’ultimo a richiedere di astenersi per gli incarichi conferiti da un imputato di un procedimento al di lui fratello Roberto Pignatone;

c) nella giornata del 9 maggio del 2019 le registrazioni delle conversazioni si interrompevano alle ore 16.02 dopo che nel corso di una conversazione il dott. Palamara riferiva al suo interlocutore che la sera stessa sarebbe stato a cena con il dott. Pignatone.” E’ quanto dichiarato dai legali di Luca Palamara.

Giacomo Amadori per ''La Verità'' il 7 luglio 2020. La Repubblica l'anno scorso aprì le danze del caso Palamara con un articolo intitolato «Corruzione al Csm». Lo scoop anticipava un'ipotesi investigativa relativa al pagamento di mazzette in cambio di nomine, congettura che nel procedimento penale in corso a Perugia si è dimostrata priva di fondamento. Eppure quella discesa in campo, ispirata da suggeritori ben informati sulle indagini in corso, contribuì a far saltare la nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma, considerato candidato in controtendenza rispetto all'ex procuratore Giuseppe Pignatone. Raggiunto l'obiettivo, il sommergibile di Repubblica si è inabissato ed è rimasto sott' acqua per circa un anno, nonostante ad aprile siano state depositate dai pm di Perugia 49.000 pagine di chat ben più succulente dei brandelli di informative, a volte solo orecchiate, pubblicate con ardore e sprezzo delle querele un anno fa. Ma in vista dell'udienza stralcio riguardante Luca Palamara del prossimo 16 luglio in cui si dovrà decidere quali intercettazioni salvare e quali distruggere e dell'udienza del 21 luglio davanti alla sezione disciplinare del Csm per Palamara e altri sei incolpati, il sottomarino ha ritirato fuori il periscopio e sparato un paio di missili a salve. Dopo mesi di quasi totale assenza il quotidiano ha spedito un cronista su una spiaggia sarda per indagare su un chiosco di cui Palamara ha acquistato una quota attraverso il commercialista Andrea De Giorgio, il quale avrebbe ricevuto incarichi sospetti da parte del tribunale di Roma. Questo servizio, che non ci sembra in grado di far tremare il modo della magistratura, ha permesso ai cronisti di ribadire quella che ci sembra la loro principale preoccupazione: che l'inchiesta di Perugia e le intercettazioni captate dal Gico non hanno ombre né buchi. Di fronte a ciò gli avvocati di Palamara, Roberto Rampioni, Mariano e Benedetto Buratti, hanno inviato alle agenzie un comunicato così intitolato: «Falsa la notizia del lido in proprietà. Palamara non si farà intimorire da pressioni volte a cercare di manipolare l'esito del giudizio disciplinare del 21 luglio». A proposito del chiosco i legali hanno scritto che «Palamara non ha la titolarità di nessun lido in Sardegna come enfaticamente afferma il titolo dell'articolo, essendosi più modestamente limitato ad acquistare nell'interesse dei figli (all'epoca minorenni, ndr) una piccola quota, per un valore di 23.000, di un chiosco adibito alla vendita di panini, gelati e bibite».  Hanno, inoltre, precisato che dai pm perugini «non è stato ravvisato alcun profilo di rilevanza penale» sulla questione, che «la legge consente ai magistrati la possibilità di acquistare quote societarie» e che il commercialista a cui «in via fiduciaria» è stata intestata la partecipazione è un amico d'infanzia. Quanto agli incarichi i difensori hanno puntualizzato che «il dottor De Giorgio è stato nominato consulente tecnico non su indicazione del dottor Palamara», ma di altri magistrati. Quindi hanno citato una nota del presidente della Corte d'appello di Roma di un anno fa che escludeva «qualsiasi interessamento del dottor Palamara su procedimenti giudiziari in corso». Di fronte al risveglio di Repubblica gli avvocati di Palamara, in vista delle udienze del 16 e del 21 luglio, hanno voluto far presente che il loro assistito intende difendersi «senza farsi intimorire da comunicati di gruppi associativi (le toghe progressiste di Area, ndr) o da articoli di giornali» che, a loro dire, hanno «il chiaro intento di cercare di influenzare e di anticipare il giudizio della sezione disciplinare». Sull'ulteriore allusione a una presunta appartenenza di Palamara ad associazioni massoniche i legali giudicano «agevole» dimostrare «l'assoluta inesistenza di qualsiasi adesione» a logge segrete da parte del loro assistito e annunciano querele. Infine, sul tema degli svarioni investigativi, i difensori hanno fatto presente come sia stata «disattesa» la disposizione della pm Gemma Miliani di spegnere il microfono ogni qualvolta nelle conversazioni di Palamara fosse stato coinvolto un parlamentare. Riguardo alla presunta infallibilità del trojan gli avvocati hanno ricordato che «in data 21 maggio 2019, il Gico trascriveva "carabinieroni" anziché "Pignatone"» e hanno rammentato come «nella giornata del 9 maggio del 2019 le registrazioni delle conversazioni si interrompevano alle ore 16.02 dopo che il dottor Palamara riferiva al suo interlocutore che la sera stessa sarebbe stato a cena con il dottor Pignatone». Prima o poi qualcuno dovrà giustificare l'interruzione di quel servizio di captazione.

Palamaragate fa emergere una magistratura avvelenata da tensioni, spartizioni, ambizioni e litigi. Alberto Cisterna su Il Riformista il 28 Giugno 2020. Come si potrebbe chiamare un luogo con meno di 10.000 abitanti? Un paese o giù di lì. I magistrati italiani in servizio sono circa 9.000. Non molti in una nazione con un tasso di litigiosità tra i più alti in Europa e che patisce la presenza di gravi fenomeni criminali, spesso organizzati in mafie e consorterie di vario genere. Ma le toghe sono comunque abbastanza per dar vita a ben quattro (forse cinque) sigle associative che hanno una loro vivace proiezione in seno all’Associazione nazionale magistrati e al Csm. Gruppi che periodicamente, anzi con una certa frequenza – tra elezioni ai Consigli giudiziari, al Csm, alle Giunte distrettuali dell’Anm e al parlamentino associativo che recentemente ha defenestrato il proprio ex-presidente – si danno battaglia per contarsi e per pesarsi. L’associazionismo in magistratura vanta una storia illustre e battaglie decisive per l’assetto democratico delle istituzioni. Una storia che, però, sembra giunta al proprio epilogo – non da ora – e che fatica a giustificarsi in nome di un pluralismo culturale ormai sbiadito e appannato da troppe prassi condivise. Per essere un modesto paesino di 9.000 abitanti la magistratura italiana galleggia su un tasso di conflittualità altissimo (è di poche ore or sono l’ennesimo ricorso al Tar contro una nomina controversa) e ha rivelato un malcostume purtroppo praticato in molti anfratti. Il risentimento e l’avversione che circola tra un numero non esiguo di toghe ha radici difficili da esplorare e, in qualche caso, si alimenta di palesi ingiustizie e insopportabili protervie. Purtroppo non esiste sede giudiziaria di medie e grandi dimensioni che non consumi nelle proprie mura faide associative e professionali di una certa intensità. Le chat pubblicate in queste settimane, dopo l’oblio di oltre un anno, offrono innanzitutto lo spaccato di un clima nella magistratura italiana avvelenato da tensioni, spartizioni, ambizioni spesso smisurate, da litigi e ripicche senza tregua. Più che la corsa alle poltrone, più dei magheggi tra boss delle correnti, è questo il dato che dovrebbe preoccupare l’opinione pubblica. I magistrati esercitano una funzione delicata che richiede sobrietà, serenità, pacatezza d’animo. Come nessuno si metterebbe nelle mani di un chirurgo che ha appena litigato con l’anestesista o che ha fatto a pugni con un collega, così i cittadini hanno diritto di pretendere per i propri processi una sala operatoria asettica, sanificata da ogni tossina e protesa solo all’accertamento della verità dei fatti. La stragrande maggioranza dei processi civili e penali che si celebrano non ha un rilievo mediatico, spesso non ha neppure un apprezzabile rilievo economico. Tutti questi processi hanno un solo elemento che li tiene insieme: sono importanti per chi attende una decisione, spesso a distanza di anni e spesso dopo aver sborsato molti denari per ottenerla in un’aula di giustizia. E a costoro, alla moltitudine esterrefatta dei cittadini e dei loro avvocati che occorrerebbe volgere lo sguardo in queste settimane per cercare un rimedio efficace a questo vuoto di credibilità che minaccia di ingoiare la magistratura italiana. Sia chiaro la riforma della legge elettorale del Csm o qualche pannicello caldo in tema di porte girevoli tra politica e magistratura (a proposito a oggi i magistrati fuori ruolo per incarichi politici sono 4, un paio di stanze del già piccolo villaggio) nel giro di un decennio potrebbe anche dare qualche risultato e potrebbe contenere il peso delle correnti nell’autogoverno della magistratura. Ma non sembra questa la necessità più impellente. Né lo è il progetto di attuare furiose epurazioni che pagherebbero il prezzo di una certa dose di ipocrisia visto che tutti sapevano e che le toghe, a spanne, si possono distinguere solo tra chi partecipava al mercato e chi ne restava lontano disprezzandone le regole. Anzi, a ben guardare, v’è il rischio che azioni punitive pulviscolari lascino al riparo da sanzioni qualcuna delle toghe altolocate che sono coinvolte nell’affaire Palamara e i cui nomi hanno pur occupato le pagine dei giornali in queste settimane tra esilaranti attese in piazza con tanto di scorta e improbabili segnalazioni amicali di candidati ritenuti ipermeritevoli. Se dovesse davvero arrivare una purga ad ampio compasso si spera almeno che inizi dalle teste coronate, come in ogni rivoluzione che si rispetti. In verità il primo obiettivo, quello più impellente, dovrebbe essere il rasserenare il clima tra le toghe e all’interno della magistratura. Da questo punto di vista l’Anm farebbe forse bene a meditare un’adeguata sospensione dei cicli elettorali interni congelando gli organi statutari e limitando le competizioni a quelle che riguardano i soli organi istituzionali (Consigli giudiziari e Csm). Al contempo, forse, sarebbe opportuno attuare una capillare ricognizione nelle proprie sedi più “calde” per tentare la ricomposizione di un clima di serenità e di collaborazione che la stagione delle chat a rate ha solo ulteriormente esasperato. Questi sono i giorni dell’ira, della resa dei conti, delle probabili chiamate in correità, delle minacce appena sibilate, dei sorrisini malevoli e ammiccanti al pettegolezzo. Un clima davvero poco degno per una Nazione che conta decine di migliaia di morti contagiati, una devastazione economica e sociale imponente e che meriterebbe da una delle principali istituzioni parole e atteggiamenti più composti, rassicurazioni più persuasive e gesti più efficaci. Tra uffici giudiziari in protratto lockdown, cause rinviate, avvocati in subbuglio e dosi quotidiane di pizzini informatici la magistratura è chiamata a uno sforzo ulteriore di impegno e di attenzione verso i cittadini. La peste virale è stata tenuta fuori dai palazzi di giustizia quasi ovunque, ma dentro quelle stanze rischia di allignare per molto tempo un’aria mefitica. I vertici dell’Anm revochino le dimissioni, restino al loro posto e inizino a visitare i lazzaretti in cui si è propagata senza limiti la diceria degli untori e dove servono con dignità la Repubblica tanti eccellenti magistrati. Una vicinanza e un ascolto per uscire dalle mura assediate.

Vittorio Sgarbi a Quarta Repubblica: "Palamara come Buscetta, voi state tranquilli?" Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. Luca Palamara "come Tommaso Buscetta". Vittorio Sgarbi "legge" nella testa dei magistrati e in studio a Quarta Repubblica ospite di Nicola Porro si lascia andare a uno dei suoi classici, clamorosi commenti. "Nella logica dei buoni processi serve un pentito e Palamara è come Buscetta". Insomma, taglia corto il deputato eletto alla Camera con Forza Italia, è giunta "l'ora di Palamaropoli!". Il professore si fa però più serio quando alle intercettazioni di Palamara lega lo scontro tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il pm anti-mafia Nino Di Matteo. "Palamara e Di Matteo dicono che nella magistratura c'è un inquinamento mafioso e stiamo tranquilli?". La risposta può darsela ciascuno di noi. 

Vittorio Sgarbi, il deputato ha ragione nel volere indagare le toghe. Farina condanna la cacciata dall'Aula. Renato Farina su Libero Quotidiano il 27 giugno 2020. Vittorio Sgarbi - stavolta, e non è la prima volta - ha perfettamente ragione. Di più: è stato vittima di un rito barbarico nel cuore stesso della democrazia repubblicana. E con lui a essere stata matata in una arena di vigliaccheria è stato il diritto di dire la verità e il dovere di consentirlo. La cronaca è nota. Ma non è quella che è stata raccontata. Anche chi infatti è benevolo con il critico d'arte e parlamentare, trasferisce l'essenza dell'accaduto sul piano del costume. Come quando si litiga da Barbara D'Urso o da Lilli Gruber: un gioco dove non conta la tensione alla verità ma l'efficacia della battuta o la gravità dell'offesa. Bisogna saltar fuori dal pregiudizio negativo o positivo sul «solito Sgarbi». E osservare quello che ritengo non uno sketch, ma se è stato uno spettacolo appartiene al genere della tragedia. Esagero? Neanche un po'. La vergogna di quel che è accaduto mercoledì a Montecitorio non consiste affatto nelle parole e nei comportamenti di Vittorio Sgarbi, deputato nell'esercizio delle sue funzioni di rappresentante del popolo italiano. L'oscenità sta tutta nell'aver falsificato le sue parole, tramutandone il senso, e averlo perciò sbattuto fuori dall'aula impedendogli di votare un provvedimento infame che allarga all'infinito la possibilità per la magistratura di intercettare chiunque, dovunque e comunque, senza alcun controllo salvo quello della magistratura medesima. Il parlamentare di Ferrara aveva osato l'inosabile. Chiedere un'inchiesta parlamentare non contro la classe politica, o contro un delitto di 40 anni fa, bensì su «magistratopoli, palamaropoli», ovvero sullo scempio dell'onestà e della buona fede del popolo italiano ad opera di una cricca in toga che governa carriere e (a quanto si è udito) sentenze, e che è stata ai vertici dell'Associazione nazionale magistrati, quella che - ha citato correttamente Sgarbi - Cossiga definì «associazione mafiosa». Con una spudorata deformazione, senza avere alcun diritto di interloquire con un collega in dichiarazione di voto, l'onorevole di Forza Italia Giusi Bartolozzi, ex magistrato in Sicilia, ha attribuito a Sgarbi d'aver qualificato come criminali tutti i magistrati. Chi stava dalla parte di Sgarbi (buona parte del centrodestra) non ha contraddetto la deputata che mentiva, mentre grillini e sinistra unanime sono balzati in trecento contro uno addosso a Sgarbi che cercava di far udire il suo non-ho-detto-questo. Lo hanno sommerso di urla. Visto che non lo facevano replicare ed anzi lo inondavano di improperi, ha lanciato invettive, e ha pronunciato, oibò, un sonoro vaffanculo. Dicono anche si sia lasciato andare a parolacce e ingiurie che lui nega di aver profferito (nella registrazione però non si ode l'epiteto «troia» che gli è attribuita nello stenografico della Camera). Fatto sta che appena la canea ha cominciato ha scandire fuori-fuori, immediatamente la presidente Mara Carfagna, per la quale la mia stima resta intatta, ha obbedito e ha letteralmente ripetuto «fuori» cacciandolo dall'aula, con accompagnamento teatrale di commissari che lo tenevano per le mani e per i piedi. Ripeto. Si tende a trattare l'episodio come un fatto di cabaret, tifando alcuni pro e quasi tutti contro Sgarbi, riducendo la cosa a un accidente caratteriale. Si incolpa la sregolatezza linguistica del professore di Ferrara. Molto comodo. È il classico della censura. Usare un frase particolare, che si può vendere all'opinione pubblica come sgradevole, in nome del linguaggio tutto tè e pasticcini che sarebbe in voga in Italia (ma dai), per squalificare ed espellere dall'agorà democratica e civile una denuncia accorata e urgente. Guai a chi tocca il totem, a chi viola il tabù: la degenerazione della magistratura, nei suoi massimi organi rappresentativi (Anm) e di autogoverno (Csm) non può essere nominata. Sgarbi è il migliore - e di gran lunga - oratore a braccio di questa legislatura. Sa alternare e mescolare la raffinatezza al genere retorico dell'invettiva anche salace e veemente, tale da lacerare la camicia o lo chemisier degli avversari di oratoria. L'insulto però all'essenza del Parlamento è quello che è accaduto intorno a lui e contro di lui, per trafiggere e trascinare fuori il dissidente dal pensiero unico. Sgarbi ha avuto la temerarietà di indicare la nudità sporcacciona del re. Ha detto la verità sul potere sommo che si è seduto sull'Italia schiacciandola, e tiene sotto schiaffo minacciando - e quanto accaduto alla Camera ne è la prova - chi non si genuflette. Ci siamo capiti, l'ordine giudiziario ha in mano lo scettro anche in Parlamento. Con abilità mostruosa il centro della questione non è più se e quanto il malaffare sia diffuso nella magistratura, e se non sia il caso di investigarvi da parte di un soggetto terzo (il potere legislativo). Il cuore del problema italiano diventa il vaffa. Il filmato mostra il deputato del Pd Emanuele Fiano correre al banco della Carfagna e ripeterle piano con l'aria di chi ha udito la formula con cui Voldemort dissolve il mondo: «...ha detto "vaffanculo"!». Sul serio. Ho trascritto lo stenografico. Dio mio, ha detto vaffanculo! Qualcuno chiami De Luca con i lanciafiamme. Che razza di ipocrisia. Fiano e i suoi dem così pudichi sono alleati e governano con chi di questa sollecitazione al meretricio posteriore ha fatto l'essenza della sua politica. E adesso diventa pretesto per trasferire nel mondo delle parolacce un giudizio politico e morale sullo scandalo di una magistratura malata.

Sgarbi querela Carfagna e Bartolozzi: “Indignate a comando”. Notizie.it il 26/06/2020. Sgarbi annuncia querela per Carfagna e Bartolozzi dopo essere stato cacciato dal Parlamento. Il video di Vittorio Sgarbi trascinato via dal Parlamento è già diventato un capitolo di storia repubblicana assolutamente da dimenticare che ha indignato tutte le componenti politiche. Ma adesso, il parlamentare e critico d’arte annuncia di non voler restare a guardare ma, anzi, di passare alla controffensiva tanto da aver già comunicato l’intenzione di presentare querela per Mara Carfagna, vicepresidente della Camera, e Giusi Bartolozzi, collega forzista. Così, attraverso la sua pagina Facebook, Sgarbi smentisce le accuse in merito ai presunti insulti rivolti alle due parlamentari: “Le sole parole irripetibili che ho pronunciato all’indirizzo delle due indignate di comodo sono: ridicola alla Bartolozzi e fascista alla Carfagna. Parole perfettamente aderenti ai loro comportamenti”. Vittorio Sgarbi è un fiume in piena e promette guerra alle due parlamentari che lo hanno costretto ad abbandonare l’aula del Parlamento: “Quanto alla Bartolozzi, ex magistrato – continua il critico d’arte -, le ho anche evocato il nome di Berlusconi, solo per ricordarle che si trova in Parlamento proprio grazie alla generosità del Cavaliere, l’uomo più perseguitato d’Italia da certa magistratura”. Sgarbi fa riferimento a quella stessa magistratura che: “Io ho denunciato nel mio discorso alla Camera e che lei ha ciecamente difeso, come se lo scandalo delle chat di Palamara fosse una invenzione. Tra l’altro io a quei magistrati del caso Palamara ho fatto riferimento, e non genericamente alla categoria dei magistrati”. E non mancano le accuse agli indirizzi della Carfagna che Sgarbi definisce soubrette in catene: “Lo so, ricordare ciò che siamo stati è sempre un esercizio faticoso. Ma a lei ribadisco che impedirmi di parlare e votare è un atto fascista. Ma le due indignate a comando cosa fanno? Montano una ignobile strumentalizzazione politica mostrandosi come vittime. Evocano il sessismo pretendendo in quanto donne, una sorta di immunità alle critiche, esercitando, loro sì, una forma di intimidazione nei miei confronti”. Tutti questi motivi spingono Vittorio Sgarbi ad agire per via legali: “Vista la grave diffamazione consumata ai miei danni con accuse false, dovranno portare le prove in un tribunale, il solo luogo in cui si potrà parlare liberamente di ciò che ho detto, visto che il Parlamento è diventato un luogo di censura e di restrizioni. In quella sede si potrà anche ricostruire il percorso che ha portato la Bartolozzi e la Carfagna in Parlamento. In modo che, anche se con anni di ritardo, si possa poi dire: aveva ragione Sgarbi”.

Salvini a processo il 19 ottobre: definì magistratura “cancro da estirpare”. Notizie.it il 25/06/2020. Il 19 ottobre Salvini è atteso a Torino per il processo che lo vede imputato per villipendio nei confronti dell'ordine giudiziario. É slittata al 19 ottobre la data in cui Matteo Salvini dovrà presentarsi al Tribunale di Torino per prendere parte al processo intentatogli: il reato che gli viene contestato è quello di villipendio nei confronti della magistratura a causa di un episodio del 2016 in cui la definì “un cancro da estirpare“. L’udienza ha subito diversi slittamenti per motivi di vario titolo. L’ultima volta i giudici l’avevano fissata per il 2 marzo ma, a causa della chiusura dei tribunali e del fermo delle attività giudiziarie, alla fine non ebbe luogo. Il leader della Lega è dunque atteso lunedì 19 ottobre alle ore 15 insieme al suo legale Claudia Eccher che a marzo aveva ribadito “la piena disponibilità di Salvini a partecipare all’udienza“. L’episodio a cui fanno riferimento le carte del processo risale al 14 febbraio 2016. In tale data il numero uno del Carroccio stava partecipando al congresso regionale della partito tenutosi al palasport di Collegno, in provincia di Torino, per l’elezione del nuovo segretario regionale. Durante il suo intervento pronunciò alcune frasi nei confronti dell’ordine giudiziario che lo stesso ha ritenuto offensive. Riferendosi in particolare ad un’inchiesta sulle spese dei politici in Liguria, Salvini aveva affermato la sua disponibilità a difendere “qualunque leghista indagato da quella schifezza che si chiama magistratura italiana, che è un cancro da estirpare“. Sempre ad ottobre dovrebbe poi affrontare il processo che lo vede indagato per sequestro aggravato di persona in merito al caso Gregoretti. Il Senato, che deve ancora votare l’autorizzazione a procedere per quello relativo alla Open Arms, ha infatti concesso alla magistratura il via libera alle indagini.

Vittorio Feltri su Luca Palamara: "Evviva, sto con lui. Crepi chi gli vuole male". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 23 giugno 2020.  Il magistrato Luca Palamara dicono che sia nei guai essendo stato espulso dal sindacato della sua categoria, l'Anm. Penso che a lui non gliene freghi niente, dato che le associazioni dei lavoratori, siano pure togati, sono importanti per trafficare eppure non decisive. A me personalmente Palamara è simpatico, ha tenuto per il bavero decine di suoi colleghi che pendevano dalle sue labbra e ha agito proprio come i suoi predecessori, mettendo le mani in pasta e talvolta sporcandosele ma non troppo. Senza dubbio la pubblicazione delle intercettazioni riguardanti le sue conversazioni con Tizio Caio e Sempronio hanno suscitato scalpore. Tuttavia non era il caso. L'ex presidente, in fondo, si è comportato come coloro che lo hanno preceduto, influenzando promozioni, favorendo taluni e danneggiando altri. Cose che sono sempre avvenute nell'ambito giudiziario, che non è diverso da quello di ogni altro potere. È noto che nelle corporazioni c'è qualcuno che mena le danze e qualcuno che si muove ubbidendo agli ordini. Tutto ciò non è edificante, ma non rappresenta una novità. Palamara peraltro non arrivò al vertice della Anm per fatalità, bensì mediante elezioni: egli cioè ricevette dei voti che gli consentirono di giungere all'apice. Dov' è lo scandalo? Una considerazione generale. Sappiamo da sempre che l'umanità non è mai pulita al massimo, i filibustieri, i furbi e i mentecatti costituiscono un genere trasversale: esistono personaggi discutibili tra i geometri, tra i medici, tra i muratori e in particolare tra i giornalisti, che ben conosco. Ovvio che anche i giudici, essendo persone in carne e ossa, non sfuggano alla regola: pure tra loro vi è chi non è santo. Palamara, in realtà, facendo pur parte di un ceto fin troppo rispettato, ha adottato una condotta non molto biasimevole, esattamente come la maggioranza di quelli che egli ha manovrato. Non mi risulta opportuno dargli addosso. Del resto, era soltanto un influencer, un tipo intelligente cui una massa si rivolgeva per ottenerne favori. Io gli conferirei un premio, non fosse che per convincerlo a non sputtanare la sua casta che si è già sputtanata abbastanza per conto proprio. Basta leggere certe sentenze e prendere atto di determinati e frequenti errori giudiziari per accorgersene. Palamara ha un aspetto inquietante, con quei capelli corvini e lo sguardo penetrante, ma è intelligente e non ha compiuto nulla di peggio dei suoi compagni di lavoro. Pertanto mi schiero con lui, lo stimo, e mi aspetto che nella sua disgrazia trascini numerosi suoi detrattori, meritevoli di essere sfruculiati. Colpevolizzare lui di aver intrattenuto rapporti di convenienza con i suoi sodali e assolvere chi ha beneficiato di spinte e agevolazioni è una operazione sporca. Viva Palamara e crepino coloro che gli vogliono male. Noi siamo con lui e non con i suoi nemici comunisti. 

Virginia Piccolillo per corriere.it il 20 giugno 2020. «Gravi violazioni del codice etico». Il comitato direttivo dell’Anm, espelle Luca Palamara. Accolta la richiesta dei probiviri in una seduta difficile. Segnata dalla richiesta dell’ex presidente dell’associazione nazionale magistrati di potersi difendere. E dal rifiuto dei colleghi di lasciare parlare, in audizione o tramite una memoria scritta, lui o il suo collega difensore, Roberto Carrelli Palombi. Poi l’illustrazione delle colpe individuate dai probiviri nelle sue condotte: «Si sono collocate inusitatamente quanto indegnamente fuori dalle regole deontologiche». Infine il voto: fuori dall’Anm. Lui protesta.

Palamara: «Nemmeno nell’inquisizione». L’istanza di Palamara è stata ritenuta «inammissibile», in base allo statuto, oltre che «irrituale». Secondo i colleghi l’ex pm avrebbe dovuto parlare solo di fronte ai probiviri, dove invece non si è mai presentato. Non è stato concesso neanche al collega che aveva preso le sue difese nel procedimento di parlare in favore alla sua richiesta. L’ex pm denuncia: «Mi è stato negato il diritto di parola. Nemmeno nell’inquisizione». All’Adnkronos ha affidato il discorso che avrebbe voluto pronunciare. «Volevo il cambiamento ma mi sono lasciato inghiottire dal sistema», avrebbe detto. «Mi son sempre ispirato a un imparziale esercizio della giurisdizione», avrebbe aggiunto. E ancora: «Non farò il capro espiatorio», le «responsabilità politiche per avere accettato le regole del gioco sono discutibili» e sulle nomine dei dirigenti giudiziari avrebbe scandito: «Sono frutto di accordi politici».

Anm decimata. La riunione si è aperta con la presa d’atto di altre dimissioni: quelle di tutti i componenti di Magistratura Democratica che hanno seguito quelle dei 7 componenti di Magistratura indipendente, di Silvia Albano di Area, dell’ex presidente Francesco Minisci e di Bianca Fieramosca di Unicost, due di loro facevano parte della giunta.

Il monito di Mattarella. «Nessun contrasto può giustificare l’abbandono del luogo deputato al confronto» ha detto il presidente dell’Anm Luca Poniz, in apertura del Comitato sul quale pesa il monito lanciato dal capo dello Stato, Sergio Mattarella: «La magistratura recuperi credibilità. Sotto accusa dei probiviri anche i magistrati Lepre, Morlini, Cartoni e Spina che hanno già dato le dimissioni dall’associazione (motivo per il quale il Cdc ha deciso di non esprimersi a riguardo), Criscuoli e il deputato Cosimo Ferri.

La verità di Luca Palamara: “Così funziona il potere esagerato delle Procure”. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Giugno 2020. «Posso affermare tranquillamente che sono stato io a creare il “partito dei pm”». Incontriamo Luca Palamara a Roma in un bar vicino al Csm. Sabato scorso il Comitato direttivo centrale dell’Anm ha deciso di espellerlo dall’associazione di cui è stato per quattro anni il presidente. Nella secolare storia dell’Anm non era mai successo con un suo presidente venisse espulso perché accusato di condotte gravemente lesive nei confronti dei colleghi. Dalle chat si è scoperto che decine di colleghi si rivolgevano a lui, anche quando formalmente era cessato da tutti gli incarichi, per una ottenere una nomina o un posto di prestigio. Da quello che abbiamo capito in questi mesi, la valanga che ha travolto il Csm e la credibilità della magistratura è iniziata con la convulsa successione di Giuseppe Pignatone al vertice della Procura di Roma. La nomina di Michele Prestipino è stata impugnata al Tar del Lazio dagli sconfitti: Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, e Giuseppe Creazzo, procuratore del capoluogo toscano.

Dottor Palamara, perché queste “tensioni” sulla nomina del procuratore di Roma e, in generale, ogni volta che si deve nominarne uno?

«I pm sono i “front runner” della magistratura. A torto o a ragione è così».

Cerchiamo di spiegare il perché.

«Il pm è ruolo di potere grandissimo. Rappresenta la pubblica accusa ma è un magistrato. Con tutte le garanzie e guarentigie del caso.

Autonomo e indipendente…

«Sì. E ha il controllo pieno della polizia giudiziaria. Penso che chiunque comprenda cosa significhi avere il controllo della polizia, dei carabinieri e della guardia di finanza. Vuol dire scegliere a quale forza di polizia far fare le indagini, dettarne i tempi, stabilire i criteri di priorità».

E poi ci sono i giornalisti…

«Il procuratore è l’unico titolato ad avere i rapporti con la stampa. La sapiente gestione degli organi d’informazione assicura la grancassa mediatica e la conseguente visibilità».

Dopo di lei alla presidenza dell’Anm si sono succeduti solo pm…e di ognuno di loro tutti sapevano quali indagini avessero condotto.

«Esatto».

Quando il sistema è definitivamente esploso?

«Si riferisce al potere delle correnti?»

«Nel 2007. Con la riforma dell’Ordinamento giudiziario che introdusse la temporaneità degli incarichi. Un procuratore adesso può rimanere al massimo otto anni, poi deve lasciare».

Il legislatore, conoscendo il potere del pm, ha tentato di arginarlo.

«Questa riforma trasformò i generali in soldati e i soldati in generali. Prima del 2007 una volta nominato procuratore rimanevi fino alla pensione. Con la temporaneità dell’incarico non più. Dopo aver diretto uffici importati molti non hanno voglia di tornare indietro. Oggi “comandi” e domani vai a fare il turno».

Quindi il carrierismo sfrenato è anche frutto di questa legge?

«Certo, soprattutto se si diventa procuratori da giovani. Le aspettative aumentano in maniera esponenziale. Bisogna dirlo chiaramente e non prenderci in giro. A oggi non c’è allo studio alcun sistema diverso per la nomina dei dirigenti».

Le correnti, da luogo di elaborazioni culturale, sono ora soggetti politici che si comportano come tali.

«Vuoi il mio voto? Cosa mi dai in cambio?»

Sì, questo.

«Il sistema è andato in tilt per tutti. Anche per le correnti maggiormente ideologizzate. Ovvio che se devo scegliere un magistrato per un incarico devo anche tenere conto di chi mi ha dato il voto. Cerchiamo di non essere ipocriti».

Dalle chat emerge che le correnti si impegnavano sui territori ma era fondamentale portare a casa “qualcosa”. Altrimenti non si raccoglievano i voti. Si organizzavano, ad esempio, la presentazione dei candidati al Csm all’indomani di qualche voto favorevole. Per dire: hai visto? Grazie alla corrente abbiamo ottenuto tot posti.

«È così».

Perché i magistrati non si ribellano a questo sistema infernale?

«È il sistema».

Non esiste un grande manovratore?

«No. Il sistema è ormai congegnato in questo modo. Il magistrato non ha alternative. Se non sei dentro, sei fatto fuori».

Cosa fare per le prossime elezioni Anm?

«Una candidatura senza liste contrapposte. Dare l’Associazione dei magistrati a chi non è stato nelle correnti».

Lei è accusato di aver “tramato” con i politici. Cosa dice?

«Ci sono tanti magistrati che hanno parenti politici e sono sempre rimasti al proprio posto».

La politica condiziona le nomine?

«Si riferisce a Luca Lotti? Trovate una nomina che è stata fatta su indicazione di Lotti. Al Csm i componenti togati sono il doppio dei laici. Sulle nomine il peso di quest’ultimi è relativo. Per certi incarichi poi, tipo magistrato segretario o ufficio studi del Csm, sono solo le correnti, in base ai rapporti di forza, a decidere».

Comunque lei è indagato per corruzione. Ed è fra le prime “vittime” del trojan.

«Che cosa ha scoperto il trojan? Nulla. Chiediamoci invece come ha funzionato».

Si riferisce alla registrazioni ad intermittenza?

«».

Perché?

«Dovranno spiegarlo».

Sa che il suo destino è segnato?

«Mi difenderò fino alla fine».

Luca Palamara, il signore delle nomine che i colleghi dicono di non conoscere. Paolo Comi su Il Riformista il  23 Giugno 2020. Come funzionava il sistema delle nomine al Csm by Palamara, fresco di espulsione dall’Anm? Per capirlo è sufficiente leggere la chat del pm romano con Giovannella Scaminaci, procuratore aggiunto a Messina. La conversazione fra i due inizia il 20 novembre 2017. «Sono il segretario Upc (Unicost, la corrente di centro di cui Palamara era il ras, ndr) di Messina – scrive Scaminaci – Ha avuto il tuo recapito dal pres. Totaro (Antonino, presidente Tribunale di Messina, ndr). Volevo chiederti, anche da parte sua, se potevi darmi notizie sulla trattazione del posto di presidente sezione del Tribunale di Messina. Il pres insiste molto, visto che si tratta del Riesame ed Assise, ed è molto preoccupato data la delicatezza del posto. Il gruppo potrebbe valorizzare Grimaldi (Maria Eugenia, ndr), molto anziana di servizio e con esperienza giudicante a 360°. Altri aspiranti appaiono troppo giovani e forse non ancora pronti per il ruolo». Immediata la risposta di Palamara: «Ti terrò aggiornata ancora non lo abbiamo in trattazione ma cercherò di anticiparlo il prima possibile». Ed infatti, il 13 dicembre: «Per pst domani dovremmo votare. Io sostengo Grimaldi e spero di portarmi dietro gli altri. Ma Area (il cartello di sinistra, ndr) seguita da Magistratura indipendente (le toghe di destra, ndr) vuole andare su Micali (Massimiliano, ndr). Scaminaci è perplessa: «Se non ci sono accordi che però mi sembrano singolari da parte di Mi che odia il tipo… mah». Palamara: «Morgigni (Aldo, esponente dei davighiani al Csm) dovrebbe essere con me». Scaminaci: «Mi locale sostiene che le esigenze di un piccolo distretto come il nostro non possono incidere sulle scelte dell’autogoverno, in sintesi sopporteranno quella scelta ingoiando amaro. Quindi pst Messina è tutto nelle tue mani per ciò che è possibile». Il 21 dicembre 2017, ancora Scaminaci: «Ho parlato con Grimaldi; sarebbe troppo umiliante non avere neanche il tuo voto. Potresti votarla e poi lei revocherebbe per non farsi comparare in condizioni di minoranza. Poi dobbiamo parlare del resto. Ti devo informare di tutte le vicende che ti serve sapere per dare dei segnali di attenzione di Upc sul territorio messinese. Ne abbiamo bisogno!». Palamara: «Rassicurala che oggi la voterò». Ed infatti: «Pst Messina 5 Micali 1 Grimaldi». Con l’anno nuovo Scaminaci riparte alla carica: «È ora di tornare alle nomine messinesi, anche perché dovrei organizzare un incontro con i candidati Csm e vorrei farlo subito dopo qualche risultato significativo per il gruppo». Questo l’elenco: «Presidente sezione lavoro Tribunale Messina; presidente Tribunale Patti, procuratore aggiunto Messina». Sempre Scaminaci: «Per pst lavoro Messina, Area (Ardituro, Antonello consigliere Csm) ha manifestato gradimento sulla prima in graduatoria (la ns Catarsini Beatrice). Volevo informarti subito non si sa mai cambiassero idea. Fammi sapere se mantengono la parola». E ancora: «Poi dobbiamo parlare di Patti e Messina prima che ne discutiate in Commissione. Devi sapere alcune cose importanti sulle intese esistenti e sulle possibilità ulteriori, prima che altri si muovano». Sapendo che Palamara chatta sull’intero territorio nazionale, il 26 febbraio 2018, Scaminaci scrive: «Ti invio un piccolo promemoria su Messina (nomine). I posti sono tre. La cosa migliore sarebbe trattarli insieme nella medesima seduta. Per pst lavoro la ns. Catarsini è la prima in graduatoria ed è molto stimata. La concorrente è una giovane rampante di Mi (Laura Romeo, ndr) di tredici anni meno anziana ma mi auguro proprio che stavolta non si faccia un’ingiustizia. Sarebbe l’ennesima in favore di Mi e certamente la pagheremmo carissima in termini elettorali. Per Patti dovrebbe esserci accordo sul ns. Cavallo (Angelo, ndr), sempre il più anziano e meritevole dei restanti candidati, su procuratore aggiunto Messina il ns candidato è Di Giorgio (Vito, ndr), meritevole per specificità di funzioni. A Messina abbiamo bisogno di conforto. In mancanza, riprendere a lavorare per il gruppo sarà praticamente impossibile». Passa qualche giorno, e capita l’imprevisto. Sempre Scaminaci: «Su pst lavoro Messina ho saputo che da Reggio (Calabria, ndr) ti hanno segnalato Conti (Fabio, ndr) quale candidato Upc. Debbo dirti che per il distretto di Messina la candidata preferibile è la Catarsini. Intanto fa parte del distretto; poi è una vecchia militante Upc che aveva perso fiducia ed è stata recuperata, quindi la sua nomina sarebbe un importantissimo segnale; infine almeno apparentemente su di lei sarebbe stato raggiunto un accordo con Area (se Ardituro non se lo rimangia). Probabilmente a Reggio, in buona fede, non conoscevano le dinamiche messinesi. Era bene che tu fossi informato». Palamara risponde secco: «Conti ha fatto un doppio errore diplomatico: sia Upc sia Area Reggio». Passa qualche giorno e Palamara scrive a Scaminaci: «Purtroppo in previsione di Patti e Messina ho dovuto cedere sulla Romeo». Il 18 aprile è la notte prima del voto. Palamara scrive: «Domani si vota incrociamo le dita: poi ci togliamo qualche sassolino dalla scarpa». «Cavallo unanime Patti, Di Giorgio unanime Messina», comunica Palamara appena terminato il voto in Commissione: la missione compiuta. «Ci terrei lo comunicassi tu a chi in questi giorni si è molto lamentato», aggiunge soddisfatto il signore delle nomine che i colleghi adesso dicono di non conoscere.

Magistratopoli, così sono nate le correnti che hanno cancellato il merito. Giuseppe Di Federico Il Riformista il 11 Giugno 2020. Le confessioni televisive di Palamara sulle disfunzioni generate dal c.d “correntismo” e la lettura delle intercettazioni che ne documentano la diffusione non dicono nulla che le ricerche sul Csm non conoscessero da più di 40 anni. Peraltro già all’inizio di questo secolo, e ricorrentemente nel corso del suo lungo mandato, il Presidente Napolitano aveva condannato pubblicamente e con parole durissime, quel fenomeno, anche per i suoi collegamenti con la politica, sollecitandone l’abbandono. Nei suoi discorsi in Consiglio ha, infatti, definito le modalità decisorie del Csm come «malsani bilanciamenti tra le correnti» e frutto di «pratiche spartitorie rispondenti a interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici». Il fenomeno dell’influenza delle correnti sui processi decisori del Csm è stato, peraltro, ripetutamente e duramente criticato dalle stesse correnti della magistratura. È quindi una condanna unanime del fenomeno cui non si è dato rimedio anche perché manca la volontà di individuarne le principali cause e di adottare soluzioni efficaci. Varie sono le ragioni del cosiddetto “correntismo” e del perché esso sia da vari decenni una componente rilevante e, a mio avviso, ineliminabile delle modalità decisorie del Csm. La principale ragione deriva dal fatto che al momento di decidere tra le domande, a volte numerose, di trasferimento a funzioni direttive e/o a sedi più gradite, la documentazione ufficiale sui singoli candidati spesso non fornisce ai consiglieri del Csm informazioni utili o sufficienti a scegliere chi tra i concorrenti sia il più meritevole. Ciò dipende in larga misura dal fatto che a partire dagli anni 60 il Csm ha, in vario modo, smantellato tutte le preesistenti e competitive valutazioni di professionalità e ha dato a tutti i magistrati valutazioni positive sulla base dell’anzianità, valutazioni positive che, occorre ricordarlo determinano anche il passaggio da una classe stipendiale a quella di volta in volta più elevata. Le valutazioni negative, di regola solo momentanee, hanno variato tra lo 0,9 e lo 0.5%. Questo è avvenuto nonostante l’articolo 105 della nostra Costituzione preveda espressamente che il Csm debba effettuare le promozioni dei magistrati. Il Csm non ne ha tenuto conto ed ha smesso di farle da cinquanta anni circa. Da allora lo stesso termine “promozioni” non appare più nelle decisioni e nei verbali del Csm. Negli altri paesi dell’Europa continentale ove, come da noi, i magistrati rimangono in servizio per circa 40 anni (ad esempio Germania e Francia), si ritiene necessario, per garantire qualità ed efficienza della giustizia, che i magistrati vengano sottoposti periodicamente a sostantive e selettive valutazioni della professionalità nel corso della lunga permanenza in servizio e solo un numero limitato di loro raggiunge i vertici della carriera. Le graduatorie di merito generate da quelle valutazioni limitano drasticamente la discrezionalità nella assegnazione degli incarichi e nei trasferimenti.  Da noi, invece, l’assenza di sostantive valutazioni e di graduatorie di merito rendono formalmente quasi tutti i nostri magistrati altamente qualificati e di grande diligenza. L’unica graduatoria di merito rimasta è quella basata sugli esami di ingresso in magistratura. Di necessità, quindi, le scelte del Csm sono molto spesso caratterizzate da ampi margini di discrezionalità, e non potrebbero non esserlo. Una discrezionalità che ha generato e consolidato nel tempo il cosiddetto correntismo e le disfunzioni ad esso direttamente collegate sotto almeno tre profili. In primo luogo perché l’assenza di valutazioni di professionalità attendibili e prive di graduatoria di merito da un canto fa molto spesso dipendere il successo dei candidati dall’efficacia con cui vengono appoggiati dai rappresentanti della propria corrente che siedono in Consiglio, dall’altro perché spinge i magistrati a considerare l’appartenenza alle varie correnti come condizione necessaria per ottenere decisioni consiliari a loro favorevoli. In secondo luogo perché le decisioni discrezionali, frutto di appoggi correntizi, sono spesso sorrette, nel dibattito consiliare che le precede, da motivazioni insufficienti e contraddittorie. Cosa che ha generato un numero crescente di ricorsi al giudice amministrativo contro le decisioni del Csm: nei tre anni per cui ho dati certi (ero componente del Consiglio) i ricorsi sono stati complessivamente 777. Sono ricorsi che spesso hanno successo e costringono il Csm a modificare le sue decisioni, il che è sovente accaduto anche con riferimento a incarichi giudiziari apicali (come quelli di Presidente e di Presidente aggiunto della Corte di cassazione, di due presidenti titolari di sezione e del procuratore generale aggiunto della Corte stessa). È un fenomeno che non si verifica in nessun altro paese europeo in cui, come da noi, si prevedono ricorsi al giudice amministrativo (ad esempio in Francia e Germania). In terzo luogo perché l’assenza di elementi di valutazione su cui basare con relativa certezza le proprie decisioni è particolarmente gravosa per i consiglieri laici, i quali per avere informazioni più attendibili sui candidati in lizza non possono che rivolgersi ai consiglieri togati, e finire quindi di necessità coinvolti essi stessi nella morsa del correntismo. Le proposte di riforma avanzate dal Ministro Bonafede non sono certamente in grado di restringere la discrezionalità con cui il Csm gestisce il personale di magistratura e le sue aspirazioni. Né a tal fine egli potrebbe proporre di adottare le stesse soluzioni in vigore nei paesi democratici dell’Europa continentale che non conoscono il correntismo. Proponendo cioè di adottare anche da noi severi vagli di professionalità, graduatorie di merito, e promozioni limitate dal numero di vacanze che si creano ai livelli superiori della giurisdizione. Si tratta di innovazioni per varie ragioni impraticabili anche se giuridicamente possibili (la Costituzione prevede infatti che il Csm effettui le promozioni dei magistrati). Per comprendere l’impraticabilità di una tale proposta basti pensare al solo fatto che il Csm, utilizzando i suoi poteri discrezionali per promuovere i magistrati in base all’anzianità (cosa non prevista da nessuna legge), ha tra l’altro anche consentito a tutti i magistrati italiani di raggiungere i più elevati livelli della retribuzione (più di 8000 euro netti al mese). Toccare questi privilegi in un sistema in cui la magistratura ha da decenni acquisito un incontrastato controllo sulla legislazione che la riguarda è assolutamente impensabile. Aggiungo tre postille.

La prima: nel corso delle mie ricerche sui sistemi giudiziari di altri paesi sono riuscito ad avere informazioni precise sui livelli salariali, ma non in Italia. Non quando ero consigliere del Csm, e neppure successivamente facendo presentare da un parlamentare, l’On. Lehner, una dettagliata interrogazione. La cifra che ho indicato dianzi per le retribuzioni nette negli ultimi anni della carriera l’ho dedotta dalla pubblicazione nel 2008 della busta paga mensile di 7.673 euro netti del Presidente della Corte d’appello di Milano. La cifra un po più elevata da me dianzi indicata (8000 euro) tiene con molta cautela conto del fatto che dal 2008 ad oggi i magistrati hanno ottenuto 4 adeguamenti salariali.

La seconda postilla: una verifica sull’efficacia delle valutazioni sostanziali della professionalità e delle graduatorie di merito come strumento per ridurre la discrezionalità delle scelte fatte dal Csm e con essa anche il correntismo può essere fatta con riferimento ai difficili esami per le promozioni in Appello e Cassazione che si sono tenute fino al 1977, in contemporanea con le promozioni generalizzate effettuate dal Csm a partire dal 1968. Gli 80 vincitori di questi difficili concorsi che avevano sopravanzato i colleghi nella graduatoria del “ruolo della magistratura” fino ad un massimo di 2962 posizioni, hanno sempre visto soddisfatte le loro richieste di incarichi da parte del Csm e nessun ricorso è mai stato presentato contro le loro nomine, nonostante essi abbiano monopolizzato per molti anni le posizioni di vertice sia al livello distrettuale che della Corte di cassazione, cioè le posizioni direttive più ambite. Quel monopolio è caduto solo all’inizio di questo secolo (con la nomina di Nicola Marvulli alla Presidenza della Corte di Cassazione nel 2001 e di Mario delli Priscoli a Procuratore generale della Corte stessa nel 2006), e sono subito iniziati i ricorsi anche per quelle posizioni.

Terza postilla: nella sua determinazione di promuovere tutti i magistrati sino al vertice della carriera il Csm ha sistematicamente valutato positivamente anche la professionalità di magistrati che non hanno svolto funzioni giudiziarie per molti anni, a volte decenni. Con ciò stesso il Csm ha di fatto deciso che neppure l’esperienza giudiziaria è necessaria per valutare positivamente la professionalità dei nostri magistrati. Lo scrivo da molti anni, ma la cosa sembra non interessare nessuno.

Palamara vittima sacrificale per salvare lo strapotere dei magistrati. Fabrizio Cicchitto Il Riformista il 23 Giugno 2020. Sic transit gloria mundi. Nel ‘92-‘94 in Italia prese il potere un nucleo composto dal pool dei pm di Milano, da alcuni direttori di giornali e telegiornali, con annessi cronisti giudiziari: fu quello che uno scrittore francese chiamò “il circo mediatico giudiziario”. Conservarono il potere precedente alcuni signori dei poteri forti economico-finanziari. Entrarono in rampa di lancio per ereditare il potere politico della Dc e del Psi i cosiddetti “ragazzi di Berlinguer” (Occhetto, D’Alema, Veltroni e altri) e fino agli inizi del 1994 tutto filò liscio come l’olio. Malgrado il sistema di Tangentopoli coinvolgesse tutto e tutti, il circo mediatico giudiziario fece le opportune selezioni: Bettino Craxi dovette rifugiarsi in Tunisia, inseguito da avvisi di garanzia, insulti e monetine, successivamente Andreotti si salvò per il rotto della cuffia da una trentina d’anni di galera per l’omicidio Pecorelli e il concorso esterno in associazione mafiosa, gli altri leader di centrodestra della Dc come Forlani e Prandini furono liquidati, mentre la sinistra Dc fu salvata insieme al Pds nel suo complesso. Sembrava che fosse aperta la via della conquista totale del potere da parte degli eredi del comunismo italiano. Passata però la prima fase di euforia, il gruppo dirigente del Pds, si trovò ingaggiato in uno scontro durissimo poi durato vent’anni con Silvio Berlusconi e la sua geniale invenzione di fondare un partito per tutti i centristi, i moderati, i liberali, e i socialisti riformisti, privati del rispettivo partito di riferimento. Per il Pds-Ds-Pd si è trattato di una via crucis, ancor più dolorosa in quanto inaspettata. L’establishment politico costituito da Ciampi, Prodi, Amato, D’Alema, Veltroni, Violante, con il concorso di menti assai raffinate come quelle di Andreatta, Bernabè, De Gennaro, Bassanini, si trovò ingaggiato in una rissa di piazza e di talk show con un personaggio senza il pedigree culturale di lorsignori ma che però costituì un enorme problema a ogni elezione: una volta vinceva lui e il centrodestra e un’altra Prodi e il centrosinistra ma nulla era mai certo e sicuro. Solo nel 2011-2013 a colpi di spread, di azioni giudiziarie che avevano il retroterra adesso evidente a tutti di interpretazioni retroattive della legge Severino, quell’insopportabile contraddittore fu ridimensionato e emarginato, ma fu sostituito da soggetti ancora più insopportabili come i grillini e la Lega nella versione Salvini. Però in parallelo alla sovrastruttura politica partitica malgrado la contestazione berlusconiana il nucleo di potere giudiziario-mediatico costituito da alcune procure, da alcuni direttori di giornali e telegiornali con annessi cronisti giudiziari, ha mantenuto intatto quello che, per usare il linguaggio gramsciano, più che una egemonia è stato un autentico dominio perché dotato di poteri coercitivi e del massimo potere in assoluto, cioè quello di sputtanare la vita delle persone: Borrelli – che diversamente dal suo campiere Di Pietro ha sempre usato un linguaggio forbito – chiamò il tutto “la sentenza anticipata”. Però l’eccesso di potere finisce col dare alla testa anche ai cervelli più sofisticati. Per di più, il livello della classe politica dal 2018 in poi, si è sempre più abbassato, per cui sono arrivati al potere politico anche soggetti come i grillini, che certamente sono degli ultragiustizialisti ma che poi combinano incredibili pasticci nella gestione del potere, a cui inaspettatamente sono stati chiamati: vedi quello che sta combinando Bonafede come ministro di Grazia e Giustizia. Di conseguenza, anche per questo vuoto della politica, un nucleo d’acciaio di pm distribuiti fra le varie correnti dell’Anm, avendo i loro cronisti giudiziari al seguito, avendo sbaragliato tutti gli altri concorrenti nella gestione del potere, sono entrati in rotta di collisione fra di loro. A quel punto, del tutto inaspettatamente, è scoppiato il dramma: emarginato Berlusconi, silenziati e totalmente subalterni per parte loro gli esponenti del Pd, usati e spremuti come limoni i fanatici e le tricoteuses del M5s, ecco che gli unici dotati di un enorme potere sono rimasti i vari signori della guerra, padroni delle procure, che hanno cominciato ad azzuffarsi fra di loro direttamente o per interposto sostituto, non guardando troppo per il sottile, anzi usando addirittura quell’arma segreta, le intercettazioni, non a caso difese da ogni tentativo di regolamentazione, intercettazioni non solo valide per fatti penali, ma ancor più quando riguardano la vita privata dei singoli. La forza dirompente di quest’arma segreta è aumentata in modo esponenziale grazie alla tecnologia, perché a un certo punto si è passati dalla bomba a mano alla bomba atomica, nel senso che con l’uso del trojan è possibile non solo registrare le telefonate, ma anche ogni momento della vita privata dell’intercettato. È così avvenuto che l’immissione del trojan nel telefonino di Palamara ha avuto lo stesso effetto di un contagiato di coronavirus messo in una Rsa. A quel punto non sono emerse solo le telefonate di un “maneggione” che trattava le cariche, ma è andato a finire in piazza tutto un sistema, quello della contrattazione degli incarichi dei magistrati, realizzata fra capi corrente dell’Anm e plenipotenziari delle correnti dei partiti, con il concorso e la consulenza dei cronisti giudiziari. Questo sistema non è stato certamente inventato da Palamara ma è in atto almeno dagli anni Settanta con un degrado successivo perché è avvenuta una crescente estensione della lottizzazione e un forte depauperamento del confronto culturale tra le correnti assai vivo negli anni Sessanta e Settanta. Ora non c’è niente di peggio che quando un potere riservato viene messo in piazza, oppure quando integerrimi padri di famiglia vengono ripresi da un cinefilo mentre insidiano la cameriera. Allora ecco allo stato la condizione della magistratura associata (sia ben chiaro, non di quella inquirente e giudicante che butta l’anima nei processi e nelle inchieste): è in una condizione assai simile a quella dell’Integerrimo signore con l’aggravante che adesso esiste un sistema di intercettazioni che mette in evidenza che quasi a ogni piano del Palazzo dei Marescialli si svolgeva la stessa scena con diversi protagonisti. Non crediamo che il problema possa essere risolto solo intimando ad abbandonare il caseggiato all’infuori o del terzo piano. Fuor di metafora, se la magistratura – parte della quale dagli anni Novanta sta gestendo il potere con una durezza e una arroganza straordinari, anche perché sostenuta da giornali, telegiornali e talk show, – pensa di risolvere il problema intimando a Palamara di abbandonare lo stabile mentre tutti gli altri rimangono al loro posto, fa un gravissimo errore perché non c’è niente di peggio, quando il re è nudo, spiegare invece che si tratta solo di un equivoco. Diciamo tutto ciò perché, al di là delle miserie degli attuali detentori del potere mediatico-giudiziario che si trovano circa nelle stesse condizioni nelle quali essi stessi negli anni Novanta misero una larga parte della classe politica, c’è il problema del ruolo e del prestigio della magistratura che è fondamentale in una democrazia liberale e in uno Stato di diritto. Ora, il pm Di Matteo per vendetta si fa usare da Giletti, altri hanno teso a Palamara una imboscata per una contesa sulla assegnazione della Procura della Repubblica di Roma, non rendendosi conto che in quel modo facevano crollare tutto il Palazzo: al di là di questo e di altro, c’è il problema della magistratura e della sua credibilità. Se dopo aver ridotto, grazie al colpo del ‘92-‘94 la classe politica nelle condizioni che oggi vediamo, avviene la stessa cosa con la magistratura, non sappiamo proprio che fine farà l’Italia. Tutti coloro che oggi dileggiano Giuseppi, non si rendono conto che l’Italia si è dovuta aggrappare a un avvocato di medio livello perché aveva eliminato tutta la classe politica dotata di cultura e di credibilità.

Respinta la richiesta di audizione. Palamara cacciato dall’Anm: “Espulso da chi veniva da me a chiedere aiuto”. Redazione su Il Riformista il 20 Giugno 2020. “Ha commesso gravi e reiterate violazioni del codice etico: è per questo che l’Associazione nazionale magistrati ha decretato l’espulsione del pm romano Luca Palamara, indagato a Perugia per corruzione”. È la prima volta che un provvedimento così drastico viene assunto nei confronti di un ex presidente dell’Anm. “Ognuno aveva qualcosa da chiedere, anche chi oggi si strappa le vesti. Penso ad alcuni componenti del collegio dei probiviri che oggi chiedono la mia espulsione, oppure a quelli che ricoprono ruoli di vertice all’interno del gruppo di Unicost, o addirittura ad alcuni di quelli che siedono nell’attuale Comitato direttivo centrale e che hanno rimosso il ricordo delle loro cene e dei loro incontri con i responsabili Giustizia dei partiti di riferimento“, è l’attacco di Palamara contro i suoi ex colleghi. “Non mi sottrarrò alle responsabilità politiche del mio operato per aver accettato ‘regole del gioco‘ sempre più discutibili. Ma dev’essere chiaro che non ho mai agito da solo. Sarebbe troppo facile pensare questo”. Dichiarazioni presenti nella memoria che avrebbe voluto presentare al Comitato direttivo centrale dell’Anm che all’unanimità questa mattina aveva respinto la richiesta del pm romano Luca Palamara di essere ascoltato. Il parlamentino delle toghe si è poi pronunciato sulla richiesta del collegio dei probiviri di espellerlo dall’Anm, di cui in passato Palamara è stato presidente. “Mi è stato negato il diritto di parola. Nemmeno nell’Inquisizione“, è stato il commento dell’ex pm. Solo qualche giorno fa Palamara aveva chiesto di essere ascoltato per poter chiarire la sua posizione. Ma il Comitato direttivo centrale ha ritenuto che questa audizione non si potesse compiere perché non è previsto dal suo statuto. L’audizione può avvenire solo davanti al collegio dei probiviri, dinanzi al quale Palamara non si è mai presentato.

L’Anm replica a Palamara: «Non lo abbiamo sentito perché nostro statuto non lo prevede». Il Dubbio il 21 Giugno 2020. Con una nota della giunta, l’associazione di cui il pm era stato presidente spiega di aver espulso il collega senza dargli la possibilità di un’ultima autodifesa per coerenza con le norme interne. Ma anche perché «Palamara era stato già ascoltato dai probiviri e non aveva mai risposto sulle cene all’hotel Champagne». «Non lo abbiamo sentito perché il nostro statuto non lo prevede». Punto. L’Anm, come organismo, non ha altro da replicare, per ora, alle nuove bordate dell’uragano Palamara, alle accuse rilanciate dall’ex presidente dell’associazione, in queste ore, dopo esserne stato espulso nella riunione di ieri. Luca Palamara ha pronunciato diverse chiamate in correo nelle conversazioni pubblicate stamattina da Repubblica, dal Fatto e dalla Verità: per esempio nei confronti di Eugenio Albamonte, che ha già annunciato querela, o di Giuliano Caputo, che del “sindacato” delle toghe è attualmente il segretario.«Un giudice dovrebbe essere in grado di leggere lo Statuto di una associazione», si legge dunque nella nota diffusa dalla giunta dell’Anm, «ancora di più quando ne è stato presidente. Il dottor Palamara non è stato sentito dal Cdc», il “parlamentino” dell’associazione, «semplicemente perché lo Statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni». In realtà sembra abbastanza chiaro che la scelta di non accogliere, nella riunione di sabato, la richiesta avanzata da Palamara di poter pronunciare un estremo atto autodifensivo sia derivata da rischio che Palamara potesse sferrare in assemblea le stesse “accuse” lanciate poi dai giornali, con la conseguente trasformazione della riunione in una vera e propria corrida. «Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi, Palamara mente: è stato sentito dai probiviri, e in tutta la procedura disciplinare non hai mai preso una posizione in merito agli incontri con consiglieri del Csm, parlamentari e imputati. E, come lui, gli altri incolpati», incalza, nella propria nota, la giunta dell’ Anm. «Le regole si rispettano, anche quando non fanno comodo». Palamara, sostengono i suoi colleghi, «cerca ora di ingannare l’opinione pubblica con una mistificazione dei fatti: la contestazione riguardava gli incontri notturni all’hotel Champagne e l’interferenza illecita nell’attività consiliare, fatti purtroppo veri, e per questo sanzionati».

«Difesa negata a Palamara». Il difensore del magistrato replica all’Anm. Il Dubbio il 27 giugno 2020. Ecco la lettera inviata ai vertici dell’Anm da Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena e difensore di Luca Palamara nel procedimento dinanzi all’associazione. Di seguito la lettera inviata giovedì ai vertici dell’Anm da Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena e difensore di Luca Palamara nel procedimento dinanzi all’associazione. Carissimo Presidente e carissimi colleghi, ho letto con molta sorpresa ed altrettanta amarezza il Vostro comunicato in data 24.6.2020 tuttora presente sul sito dell’Anm. Non mi sarei aspettato che, in risposta ad una mia intervista al quotidiano il Dubbio che conteneva, tra l’altro, legittime critiche ad una decisione assunta dal C. d. c. con particolare riguardo alle procedure adottate, mi venisse replicato di avere reso affermazioni false. Al di là dei toni utilizzati nei miei confronti che mi sembrano un po’ sopra le righe e non in linea con l’abituale dialettica associativa alla quale da tanto tempo partecipo anche con molti di Voi, mi permetto di rilevare quanto segue. Al contrario di quanto da Voi affermato, nella mia intervista non si dice affatto che la proposta del Collegio dei Probiviri e la delibera del Comitato direttivo centrale si fonda su articoli di stampa; viceversa io ho affermato che il dott. Palamara si è potuto difendere davanti al Collegio dei Probiviri sulla base di una contestazione che faceva riferimento a notizie tratte da articoli di stampa ( nota indirizzata al dott. Palamara a firma del presidente del Collegio del 22.7.2019 prot. 31/ 19/ BDM/ es); non a caso, in quella sede nel corso dell’audizione del dott. Palamara tenutasi in data 2.3.2020, ho eccepito il difetto della contestazione, per la mancata specificazione dei comportamenti attraverso i quali si sarebbero consumate le plurime violazioni del codice etico addebitate allo stesso dott. Palamara ( verbale audizione del dott. Palamara dinanzi al Collegio dei Probiviri in data 2.3.2020). È vero, allora era già stata acquisita da parte del Collegio dei Probiviri l’ordinanza cautelare emessa dalla sezione disciplinare del Csm ed era conosciuta la motivazione della sentenza della Corte di Cassazione con la quale era stato respinto il ricorso proposto dal dott. Palamara; ma di detti atti non vi era alcuna menzione nella suddetta contestazione elevata dal Collegio dei Probiviri al dott. Palamara. Evidenziavo, quindi, che solo attraverso le conclusioni del Collegio ( atto a firma del presidente del Collegio del 2.3.2020 comunicato mio tramite al dott. Palamara solo in data 12.6.2020), quelle contestazioni, inizialmente del tutto generiche e tali da non consentire un’adeguata difesa, si erano poi materializzate nella descrizione dei comportamenti contestati; proprio in ciò, a mio avviso, poteva giustificarsi la richiesta avanzata dal dott. Palamara di rendere dichiarazioni dinanzi al Cdc, richiesta, peraltro, già preannunciata dinanzi al Collegio dei Probiviri. In sostanza, pare evidente che al dott. Palamara è stato negato il diritto di difendersi rispetto a comportamenti questa volta ben dettagliati e circostanziati per come descritti nelle conclusioni dei Probiviri al Cdc. Ed è stata negata anche al sottoscritto la possibilità di intervenire al Cdc per illustrare le ragioni sottese alla richiesta del dott. Palamara; ciò ha determinato la necessità dell’intervista, resa peraltro, nonostante la forte attenzione mediatica alla vicenda, esclusivamente ad un quotidiano particolarmente attento alle problematiche attinenti al funzionamento della Giustizia ed alle attività delle componenti delle associazioni di categoria coinvolte. Mi sembra ancora necessario precisare che il procedimento disciplinare a carico del dott. Palamara dinanzi al Csm non è stato affatto definito, essendosi esaurita solo la fase cautelare ed i rinvii della trattazione del procedimento dinanzi al Collegio dei Probiviri sono stati determinati, come può evincersi dai verbali del Collegio, solo da impedimenti dello scrivente o dello stesso dott. Palamara; solo in data 12.12.2019 era stato chiesto, tra l’altro, di attendere il deposito della sentenza della Corte di Cassazione sul ricorso proposto dal dott. Palamara, la cui trattazione era avvenuta all’udienza del 3.12.2019. Nulla posso dire sulla strategia difensiva del dott. Palamara nel procedimento che lo riguarda pendente dinanzi alla Procura di Perugia e su eventuali acquisizioni di atti da parte dell’Anm; viceversa, come a Voi certamente noto, al dott. Palamara, da quell’Autorità giudiziaria, è stata negata, allo stato, la possibilità di acquisire elementi probatori, a suo dire utili, per chiarire i fatti oggetto di contestazione da parte del Collegio dei Probiviri. Alla luce di quanto fin qui esposto e risultante dagli atti in Vostro possesso e dal testo chiarissimo della mia intervista al quotidiano Il Dubbio, Vi invito a rettificare il contenuto del Vostro comunicato in data 24.6.2020, sicuramente frutto di un fraintendimento delle mie dichiarazioni.

Carrelli Palombi: «Negare a Palamara l’ultima difesa: la scelta scellerata dell’Anm». Errico Novi su Il Dubbio il 24 giugno 2020. Roberto Carrelli Palombi è il collega che ha difeso Palamara dinanzi al comitato direttivo dell’Anm. Roberto Carrelli Palombi è persona elegante. Che sa nascondere con eleganza anche le proprie origini nobiliari ( ha più cognomi di quanto sembri). È stato un leader storico di Unicost, la corrente di Luca Palamara, ma nessuno ha osato sfregiarlo a colpi di intercettazioni. È stato il difensore tecnico di Palamara nel procedimento “deontologico” dinanzi all’Anm, ma si permette di dire, in questa intervista, che si dissocia «profondamente» dalle accuse indiscriminate che ora il suo assistito rivolge all’intera magistratura. È presidente di Tribunale, a Siena, ma non per questo ha pensato di snobbare ( come altri fanno) l’attività associativa. Insomma, Carrelli Palombi è persona sufficientemente libera per dire esattamente quello che pensa. Anche quando definisce così la scelta di negare a Palamara un’ultima difesa dinanzi al “tribunale” che sabato scorso ne ha deliberato l’espulsione dall’Anm: «Scellerata».

Perché scellerata?

«Mi permetto di dirlo a un quotidiano particolarmente sensibile alla tutela del diritto di difesa. Ho assunto la difesa tecnica di Palamara nel procedimento conclusosi dinanzi al comitato direttivo centrale dell’Anm e davvero non trovo un solo ragionevole motivo per negargli la possibilità di parlare per ultimo, come credo dovrebbe spettare a qualsiasi persona accusata in qualunque tipo di procedimento a suo carico».

Partiamo da un dato generale. In un’intervista al Dubbio, Flick ha sostenuto che il codice deontologico è stato ignorato per anni dalla magistratura. C’è il rischio che ora alle sanzioni deontologiche appunto, come per Palamara, si faccia ricorso in una prospettiva da resa dei conti?

«Giovanni Maria Flick è figura autorevolissima. Va data particolare attenzione a quanto dice. A me sembra che negli ultimi anni ci sia stata una scarsa attenzione alla deontologia all’interno della magistratura. Non mi pare che finora la reazione dell’Anm sia stata adeguata. Le proposte che provengono ora dai suoi vertici sono le stesse da me avanzate anni fa nelle vesti di segretario generale di Unicost: riforma elettorale del Csm, limiti al rientro da incarichi politici e fuori ruolo, criteri meglio definiti per orientare le nomine del Consiglio. Non mi pare esaustiva neppure la pur motivata affermazione del presidente Poniz secondo cui esiste in magistratura una questione morale grande quanto una casa: certo che è così, ma davvero riteniamo sia solo colpa di chi recepiva le affannose ricerche di raccomandazione? Forse dobbiamo riflettere anche sul comportamento di chi quelle raccomandazioni chiedeva».

Prima di venire al dunque del Palamara zittito: ma com’è che la magistratura è finita in una spirale simile?

«Guardi che l’esasperata ricerca di occasioni e scorciatoie per la carriera, l’adesione a un gruppo che potesse favorirla, sono fatti non nuovi che risalgono quanto meno al libro “Diario di un giudice” di Dante Troisi, già citato da autorevoli colleghi in questi giorni. Parliamo degli anni Cinquanta. Solo che allora con la carriera c’era in ballo pure un incremento della retribuzione. Oggi, com’è noto, fare carriera non produce vantaggi economici, solo un maggiore prestigio. Credo che un buon antidoto possa consistere nel promuovere una più realistica concezione della carriera dirigenziale. Da consigliere di Cassazione lavoravo tantissimo, ma da quando sono presidente di Tribunale devo fare i conti con un’enorme mole di incombenze che si affianca al lavoro giudiziario al quale il dirigente non può sottrarsi. Anche un magistrato che ricopre un incarico semidirettivo deve nello stesso tempo continuare a fare il giudice e svolgere la funzione di coordinamento della sezione alla quale è assegnato. Se si ha un’idea simile dell’incarico direttivo, forse si perde anche un po’ l’ossessione per la carriera».

Con la scelta di non dare la parola a Palamara, sabato scorso, lo si è di fatto rappresentato come principale responsabile al punto da mettere in ombra le degenerazioni generali?

«Ho definito la scelta scellerata perché non sussisteva alcun ragionevole motivo per impedirgli di parlare. Oltre a ciò, la decisione è stata adottata da un comitato direttivo la cui rappresentatività della categoria si era molto ridimensionata».

A cosa si riferisce?

«Al fatto che l’attuale direttivo è in prorogatio perché l’epidemia ha imposto il rinvio delle elezioni da marzo scorso al prossimo ottobre. E anche perché rispetto all’insediamento di quattro anni fa il comitato stesso ha visto subentrare, in ben 22 casi su 36, i primi dei non eletti, dopo che altrettanti componenti avevano lasciato, per varie ragioni, l’incarico. Spesso chi ora è nel direttivo come subentrato aveva raccolto, nel 2016, non più di una cinquantina di voti, a fronte degli oltre 300 del collega avvicendato. Mi chiedo se una decisione così grave come quella di impedire all’incolpato il diritto all’ultima parola poteva mai essere assunta da un organo dalla così indebolita rappresentatività».

È stato obiettato che lo Statuto non prevede la difesa davanti al comitato direttivo centrale.

«Non la prevede ma neppure la impedisce, in alcun modo. È stato persino impedito a me di rappresentare, come difensore, le ragioni dell’istanza con cui Palamara chiedeva di essere ascoltato».

È grave negare la parola all’avvocato.

«Palamara ha potuto difendersi davanti ai probiviri, è vero. È quanto mi è stato obiettato. Però all’epoca di quella difesa non si poteva disporre che di contestazioni tratte da notizie di stampa, non da atti di un procedimento. Notizie peraltro diffuse in violazione del segreto istruttorio, cioè illegalmente».

Bene.

«Solo dopo, quelle contestazioni sono state rimodulate in fatti materiali, nell’atto conclusivo dei probiviri. Inoltre Palamara avrebbe potuto finalmente parlarne anche per aprire una discussione più ampia sulle responsabilità politiche per quanto emerso dalle indagini di Perugia, responsabilità senz’altro diffuse e non attribuibili a lui in modo unico. Tanto per intenderci: il dottor Palamara non poteva e non doveva essere assimilato a chi promuove un’associazione a delinquere ex 416 codice penale. Ha interpretato in una chiave senz’altro contestabile il ruolo delle correnti, ma certamente non è stato l’unico, negli ultimi anni, ad agire in tal modo. C’ ancora un’altra controdeduzione».

Quale?

«Gli altri magistrati coinvolti nella vicenda contestata a Palamara si sono dimessi prima di ricevere gli addebiti dal collegio dei probiviri, evitando così l’espulsione perché non erano più soci dell’Anm. Luca Palamara, chiedendo di parlare dinanzi al Cdc, si è esposto alla certezza di essere espulso, in quanto pur essendo intenzionato a rassegnare verbalmente, proprio dinanzi al Cdc, le dimissioni dall’Anm, il Comitato legittimamente avrebbe potuto sospendere la procedura di accettazione delle dimissioni fino alla conclusione del procedimento disciplinare, conclusione che non poteva che essere l’espulsione. Si è scelto di non farlo parlare. Sarebbe stato invece giusto concedergli un’ultima ed effettiva difesa, come peraltro è previsto nel procedimento disciplinare a carico dei magistrati dinanzi al Csm».

Lei non discute tanto il merito di tale esito, dunque.

«No, ma siamo magistrati. In tutti i processi, anche in quelli di un’associazione privata come l’Anm, la forma è sostanza. L’accertamento deve avvenire secondo un percorso il più rispettoso possibile delle regole e dei diritti di chi viene accusato, perché il postulato del nostro sistema giuridico è che solo il rigoroso rispetto delle regole del giudizio consente il massimo avvicinamento possibile della verità processuale alla verità storica.

È il giusto processo.

«Sì, il giusto processo».

La giustizia (interna) sommaria delle toghe. Errico Novi su Il Dubbio il 24 giugno 2020. Se la caccia a ogni possibile colpevole, più o meno grande, del cosiddetto caso Procure si traducesse in una sorta di interminabile guerra, sarebbe sì la fine della magistratura per com’è oggi. Nessuna punizione, troppe punizioni. Il dramma della magistratura è il pendolo fra questi due estremi, rischiosissimo perché indefinito. Nel senso che se la caccia a ogni possibile colpevole, più o meno grande, del cosiddetto caso Procure si traducesse in una sorta di interminabile guerra, sarebbe sì la fine della magistratura per com’è oggi. Della sua autorevolezza, del suo protagonismo culturale, probabilmente necessario, del suo governo autonomo e della sua solidarietà interna. Come il ministro Bonafede vuol far presto con la riforma del Csm, così il Csm, il vicepresidente Ermini in primis, vuole accelerare sulle sanzioni. Al punto da ipotizzare l’adozione di provvedimenti amministrativi, quali sono i trasferimenti per incompatibilità, quasi come surrogato provvisorio delle sanzioni disciplinari, tanto potenzialmente numerose da richiedere ancora diversi mesi perché le si possa valutare. È un rischio enorme. La deriva di una giustizia ( interna) sommaria è dietro l’angolo. La strada maestra l’ha indicata Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, in un’intervista pubblicata ieri dal Dubbio. Ha ricordato che esiste un codice etico. E che le violazioni deontologiche non avranno certo la stessa natura di quelle disciplinari, né delle responsabilità penali per le quali Palamara, per esempio, rischia il processo a Perugia. Eppure un eventuale accertato tradimento della deontologia dovrebbe poter costituire, per il magistrato, una minaccia seria. Perché, sempre come ha spiegato Flick, a rigore di norme del Csm potrebbe e anzi dovrebbe avere ricadute sulla carriera. Se anziché trasferire, deportare in massa tutti e 50 i magistrati citati nelle intercettazioni perugine, li si portasse davanti ai probiviri dell’Anm, ci vorrebbero certo tempi non brevissimi, come per le sanzioni disciplinari di Palazzo dei Marescialli. Ma già l’avvio di una valutazione etica sulla condotta di quel magistrato avrebbe fin da subito effetti sulle sue aspirazioni di carriera. Non definitive, ma neppure trascurabili. Sarebbe una strada piu ordinata, logica, coerente. D’altronde, non è detto che si debba per forza essere radiati. Un comportamento semplicemente non ortodosso può costare anche conseguenze meno devastanti, come un richiamo. Non si deve pensare per forza a una giustizia da ayatollah, neppure fra toghe. L’equilibrio, per citare ancora Flick, dovrebbe essere la stella polare. Anche per evitare che la crisi dei magistrati degeneri in una guerra fra bande.

Cosimo Ferri su Luca Palamara: "L'Anm non lo ha fatto parlare perché sa molto più di quanto ha detto". Libero Quotidiano il 23 giugno 2020. “Luca Palamara di cose ne sa, e parecchie. Molte ma molte di più di quelle che ha iniziato a dire”. Cosimo Ferri è uno dei politici finiti nelle intercettazioni, dalle quali è emerso che rappresentava una pedina importante sulla scacchiera di Palamara. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il deputato di Italia Viva ha avvisato la magistratura del pericolo che incombe su di essa: “La verità è che adesso non c’è trojan che tenga. Il pallino è in mano a lui. Resta da vedere se e che cosa Palamara avrà voglia di ricostruire, di dire, di raccontare. Le sue rivelazioni magari aiuterebbero sia la magistratura che la politica a procedere verso una vera separazione dei poteri. Le cose che ha iniziato a dire e i nomi che ha iniziato a fare? Non serve grandissimo fiuto per capire che non siamo neanche all’inizio”. Ferri però non teme per sé stesso: “Palamara ha chiarito che col sottoscritto c’era un rapporto di amore e odio. La parte relativa all’odio, glielo confesso, mi incuriosisce. Se parlasse e facesse i nomi, per esempio, chiarirebbe perché nel 2012 hanno mandato me, che pure ero stato il più eletto della storia dell’Anm, all’opposizione”. Un argomento che Ferri non ha mai affrontato nelle chat con Palamara: “Certe cose non si chiedono”. Infine il deputato renziano ha espresso il suo parere sulla polemica tra il pm romano e il sindacato delle toghe, che lo ha espulso senza concedergli la possibilità di parlare prima del voto: “Si trincereranno dietro lo statuto per giustificare la scelta di non consentirgli di difendersi. Ma da un giudice ci si aspetta che usi il buon senso e la terzietà anche andando oltre lo stato. Io l’avrei fatto parlare. E comunque, che ci sia stata un’accelerazione nella scelta di espellerlo è fuori di dubbio. Da quando ha iniziato a parlare in tv e sui giornali, c’è stata una grande accelerazione”. 

Cosimo Ferri: “Palamara sa molte più cose, se lo faranno parlare qualcuno tremerà”. Il Dubbio il 23 giugno 2020. Per il deputato renziano “Da quando Palamara ha iniziato a parlare in tv e sui giornali, c’è stata una grande accelerazione che ha portato alla sua espulsione”. Di certo Palamara di cose ne sa, e parecchie. Molte ma molte di più di quelle che ha iniziato a dire. Adesso all’Anm si trincereranno dietro lo statuto per giustificare la scelta di non consentirgli di difendersi. Ma da un giudice ci si aspetta che usi il buon senso e la terzietà anche andando oltre lo statuto”. Lo dice intervistato dal Corriere della Sera, Cosimo Ferri, deputato di Italia viva, finito nello scandalo intercettazioni del 2019. ”Parlo da cittadino, non da magistrato o deputato: io – osserva – l’avrei fatto parlare. E comunque, che ci sia stata un’accelerazione nella scelta di espellerlo è fuori di dubbio. Da quando ha iniziato a parlare in tv e sui giornali, c’è stata una grande accelerazione”. E afferma: ”La famiglia, il dolore che possono procurare le intercettazioni sui giornali. Io ho tre figli. Di tredici, undici e otto anni. Ovvio che leggevo i giornali con una certa apprensione, la mattina. La cosa che fa paura a me è la stessa che temo oggi per lui. La famiglia”. ”La verità – sottolinea – è che adesso non c’è trojan che tenga. Il pallino è in mano a lui. Resta da vedere se e che cosa Palamara avrà voglia di ricostruire, di dire, di raccontare. Francesco Cossiga, che non l’aveva in grande simpatia, lo chiamava Tonno Palamara “. “Se fosse vivo oggi, il presidente emerito magari avrebbe iniziato a stimarlo e a spingerlo ad andare avanti con le sue picconate… Sa, le sue rivelazioni magari aiuterebbero sia la magistratura che la politica a procedere verso una vera separazione dei poteri. Chissà se lo farà”. “Non serve grandissimo fiuto – conclude – per capire che non siamo neanche all’inizio”.

Il magistrato Palamara è stato espulso dall’Anm che lo ha giudicato “colpevole” prima del Tribunale…Il Corriere del Giorno il 20 Giugno 2020. Il magistrato Luca Palamara, attualmente sospeso dalle funzioni e dallo stipendio dal Csm, è stato già giudicato “colpevole” dai suo colleghi dell’ Anm, ed espulso dal sindacato dei giudici di cui è stato presidente tra il 2008 al 2012. L’ex pm di Roma imputato di corruzione dalla Procura di Perugia dopo la pronuncia dei probiviri del sindacato dei giudici ha chiesto inutilmente di essere ascoltato , ma i suoi colleghi hanno detto di no perché avrebbero dovuto essere gli stessi probiviri che lo hanno giudicato, e non il Comitato direttivo centrale, ad ascoltarlo. Lapidario il commento di Luca Palamara, mentre aspettava la decisione passeggiando davanti al Palazzaccio di piazza Cavour che ospita la Corte di Cassazione ed al sesto piano la stessa Anm: “Mi è stato negato il diritto di parola, nemmeno nell’Inquisizione“. “La richiesta del collega Palamara di rendere dichiarazioni davanti dal Cdc non è stata accolta ai sensi di Statuto, giacché esso assegna non alla fase decisoria, bensì a quella istruttoria, affidata ai probiviri, l’ascolto dell’incolpato e la possibilità di raccogliere sue memorie e documenti. Di tali facoltà il dottor Palamara ha potuto avvalersi compiutamente in quella sede, venendo convocato allo scopo più volte, come da sue richieste”, spiega una nota del Comitato direttivo centrale dell’ Anm. La riunione si è aperta con la presa d’atto di altre dimissioni: quelle di tutti i sette componenti componenti di Magistratura indipendente più quelle di Silvia Albano di Area, dell’ex presidente Francesco Minisci e di Bianca Fieramosca di Unicost, due dei quali erano membri della Giunta. Palamara ci teneva molto a parlare davanti all’intero parlamentino delle toghe. La sua non sarebbe stata una difesa tecnica sulle contestazioni, ma un discorso il cui senso è riassumibile nella chiusa: “Non farò il capro espiatorio di un sistema”. “Io non ho agito da solo” con queste parole che rappresentano un vero e proprio atto d’accusa nei confronti dei suoi stessi accusatori, l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, ammette di aver “fatto parte del sistema delle correnti, quel sistema che ora mi condanna, spesso mi insulta, perché a torto o a ragione individua in me l’unico responsabile di tutto. Io non mi sottrarrò alle responsabilità politiche del mio operato per aver accettato regole del gioco sempre più discutibili. Ma deve essere chiaro che non ho mai agito da solo. Sarebbe troppo facile pensare questo“. Il magistrato al centro dell’inchiesta che ha coinvolto il mondo delle toghe, rivendica un passaggio fondamentale: non è solo lui l’artefice della degenerazione rappresentata dal sistema delle correnti. “All’inizio ero animato dal sacro fuoco del cambiamento, perché ovviamente anche io mi rendevo conto che era un meccanismo infernale, dal quale però mi sono lasciato inghiottire. Ma ciò non per sete di potere bensì in una logica – che oggi riconosco, comunque, erronea secondo cui il rafforzamento della posizione, mia e del mio gruppo di appartenenza, avrebbe potuto assicurare opportunità di avanzamento di colleghi meritevoli. Ma il fine, ora non posso non ammetterlo, non giustifica mai i mezzi”. “Responsabilità non è soltanto mia”. Nel suo discorso Palamara ribatte: “Le nomine dei dirigenti giudiziari sono il frutto di estenuanti accordi politici. Talvolta essi conducono alla designazione di persone degnissime e meritevoli di ricoprire i posti per cui hanno fatto domanda. Nella consiliatura a cui ho preso parte, sono stati nominati più di mille nuovi dirigenti. E tra essi – alla guida delle Procure di Milano, Napoli, Palermo (solo per citarne alcune) – magistrati di grande valore come Francesco Greco, Giovanni Melillo, Franco Lo Voi“. Palamara ammette che in “alcuni casi le nomine hanno seguito solo logiche di potere, nelle quali il merito viene sacrificato sull’altare dell’appartenenza. Dei risultati virtuosi di quella esperienza consiliare non ho la presunzione di dirmi l’artefice, ma solo un testimone. Degli altri che non hanno risposto a questa logica sento, invece, il peso della responsabilità. Che però non è soltanto mia”. Nel suo discorso Palamara non si difende dalle contestazioni:  “Sugli aspetti deteriori del correntismo e sulle vicende che mi hanno riguardato all‘hotel Champagne devo potermi difendere nella competente sede disciplinare e spiegare quando sarà il momento a tutti i magistrati le mie ragioni e lo stato d’animo che mi ha accompagnato in quei giorni. Non posso farlo oggi perché  per difendermi ritengo di dover utilizzare  tutti gli strumenti processuali che l’ordinamento mette a mia disposizione. Non mi sottrarrò alle mie responsabilità su questi fatti: oggi posso dire che ho sottovalutato le mie frequentazioni di quel periodo perché in me prevaleva l’idea di schivare qualsiasi pericolo e di essere un incorruttibile”. Dichiarazioni queste che contrastano sulle valutazioni dei pm di Perugia, che non la pensano nella stessa maniera mandandolo a processo dinnanzi al Gip...Oggi l’ Anm doveva affrontare anche le espulsioni delle toghe coinvolte nell’inchiesta di Perugia e che si sono già dimesse un anno fa dal Csm. Ma per tre di queste, i magistrati Antonio Lepre e Corrado Cartoni della corrente di Magistratura indipendente e Luigi Spina di Unicost , è stato applicato il “non luogo a procedere”, votato affermativamente dal Comitato direttivo centrale, in quanto le tre toghe si erano già dimessi dall’Anm.  Un vecchio trucco procedurale per non essere espulsi. Il pm milanese Luca Poniz, esponente della corrente di sinistra di Area, che attualmente è al vertice dell’Anm, il sempre più squalificato sindacato dei magistrati, , in apertura del Comitato direttivo centrale che doveva decidere sull’espulsione di Luca Palamara, ha citato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il suo sferzante discorso di giovedì, ricordando le sue parole “Esiste una gigantesca questione morale che riguarda il senso stesso della magistratura” . Paniz è allineato all’ analisi del Capo dello Stato quando ha detto che “la stragrande maggioranza dei magistrati italiani è estranea alla modestia etica” rivelata dall’indagine di Perugia sull’ex presidente dell’Anm Luca Palamara.  L’ attuale presidente dell’ Anm ha subito parlato dell’inchiesta di Perugia, che ha svelato i traffici delle toghe sugli incarichi, e manifestando l’immediata presa di distanza della stessa Anm, ha parlato di “momento difficile“, auspicando un necessario rinnovamento dell’ Associazione dei magistrati. Nonostante tutto ciò Poniz ha detto, “l’ Anm svolgerà comunque il suo compito in modo coerente con la sua tradizione” aggiungendo “un anno dopo, altri pezzi di dialoghi, svelano un diffuso carrierismo e correntismo, le influenze su Csm, le relazioni improprie, che avevamo denunciato subito dopo l’esplosione del caso di Perugia, denunciando la portata sistemica dei comportamenti“. “Adesso – dice Poniz – siamo chiamati tutti a una rifondazione, a partire dalla responsabilità dei singoli. L’Anm, già da tempo e anche al congresso di Genova (ottobre 2019) aveva invitato la politica a intervenire con urgenti riforme. “Abbiamo proposto la modifica del sistema elettorale per garantire la più ampia rappresentatività, viste le critiche feroci sul sistema attuale, di cambiare i criteri per gli incarichi direttivi, due anni per chi dal Csm vuole un posto direttivo, due anni anche per chi è fuori ruolo, no alle porte girevoli dalla politica alla magistratura, criteri rigidamente cronologici per le nomine”.  Riforme che parole i magistrati chiedono, ma che in realtà non vogliono, a partire dalla separazione delle carriere. Fra le toghe da espellere dall’ Anm anche Cosimo Maria Ferri ex esponente di Magistratura indipendente di cui è stato per anni leader, nonché membro togato Csm (fra i più votati) dal 2006 al 2010, deputato eletto nelle liste del Pd, già sottosegretario alla Giustizia nel governo guidato da Enrico Letta ed in quello successivamente guidato da Matteo Renzi, per poi “migrare” ad Italia Viva. Ferri è anche uno dei “protagonisti” delle trattative notturne con il senatore Luca Lotti (Pd) e Luca Palamara per la nomina del procuratore di Roma, partecipando all’ incontro in stile “carbonaro” dell’8 maggio 2019 all’Hotel Champagne, adiacente a Palazzo dei Marescialli (sede del Csm) rivelato dal Trojan inoculato dai tecnici del Gico dalla Guardia di Finanza su disposizione della Procura di Perugia nel cellulare di Palamara. In quel momento il senatore Lotti era indagato dalla procura di Roma per l’inchiesta “Consip“. Tutti i magistrati coinvolti vennero deferiti ai probiviri, e la richiesta di espulsione è stata formulata per tutti, ma la maggior parte di loro si sono nel frattempo dimessi dall’Anm. Non Palamara che passerà probabilmente alla storia della magistratura per essere stato il primo ex presidente dell’Anm ad essere espulso. Ferri per non farsi espellere sostiene di non essere più iscritto all’Anm e di non versare più le quote, venendo smentito dalla segreteria amministrativa dell’ associazione dei magistrati che ha verificato che anche questo mese c’è stata la trattenuta sullo stipendio di Ferri. Marcello Basilico, magistrato di Area che presiede i lavori dell’Anm, ha testimoniato che Ferri nel 2016 a Massa ha votato per le elezioni dell’Anm sostenendo che non era più sottosegretario, ma comunque iscritto al sindacato dei giudici. A questo punto saranno i probiviri a questo punto a decidere per la pressochè certa sua espulsione. Quello che nessuno dell’ Anm ricorda, in particolar modo gli esponenti di Area, è quanti accordi di bottega sono stati raggiunti da loro proprio con la “cricca” di Palamara e le altre correnti sindacali rappresentate al Csm, pur di “piazzare” i loro magistrati, come ad esempio il procuratore di Potenza Francesco Curcio esponente di Area privo dei titoli e requisiti come ha sancito il Consiglio di Stato lo scorso 10 gennaio 2020, la nomina del procuratore Pietro Argentino (Unicost) a Matera concordata con lo scambio per la nomina all’unanimità di Maurizio Carbone (Area) a procuratore aggiunto a Taranto. E potremmo continuare a lungo….

Da adnkronos.com il 20 giugno 2020. Ecco il discorso integrale che il magistrato Luca Palamara avrebbe voluto pronunciare di fronte all''Anm. Il comitato direttivo centrale dell'associazione nazionale magistrati ha negato questa possibilità. L'Andkronos è entrata in possesso del documento e lo riporta integralmente di seguito.

1. Io sottoscritto Luca Palamara, con riferimento alla trattazione del procedimento disciplinare nei miei confronti rappresento quanto segue.

2. Inizio dalla mia vicenda penale. Sono stato originariamente accusato di aver preso € 40.000 per la nomina a Gela del dott. Longo (mai avvenuta perché a Gela venne nominato il dott. Asaro). Per questa vicenda su richiesta del Gico della Gdf di Roma mi è stato inoculato il trojan horse per il reato di corruzione in atti giudiziari e sono stato indagato con gli aw. Amara, Calafiore e con il dott. Longo soggetti con i quali mai ho avuto rapporti nella mia vita. Oggi quell’accusa è caduta perché il trojan non ha trovato fatti corruttivi come correttamente hanno ritenuto i pubblici ministeri ed il gip del procedimento che mi riguarda. Devo rispondere ancora di alcuni viaggi effettuati con Fabrizio Cento fan ti (persona che frequentava mia sorella dal 2006 e con il quale da allora ho intrattenuto un rapporto di amicizia sia in ambito familiare che in ambito istituzionale con magistrati e forze dell’ordine) e dei lavori di rifacimento di un lastrico solare (sul quale pende un contenzioso condominiale) della sostituzione dei vetri di una veranda di 6 mqx3 e di venti coprivasi presso una abitazione non di mia proprietà ma di una persona a me vicina che mi sono limitato ad aiutare in un momento di difficoltà della sua vita. Su questa vicenda per la quale mi viene contestato un asservimento della mia funzione (anche se il gip concorda di non aver mai riscontrato un atto contrario ai doveri di ufficio) mi difenderò nel processo per dimostrare la mia totale estraneità alle residue contestazioni. Le carte del procedimento che mi riguarda sono state depositate ex art. 415 bis c.p.p. contengono ogni notizia utile sulla mia vicenda ed oggi stiamo ancora procedendo all’ascolto di tutti i files audio relativi alle intercettazioni telefoniche e telematiche. Tale ascolto si rende necessario essendo emerse delle difformità tra alcuni audio e la trascrizione dei verbali.

3. Ho iniziato la mia carriera nel 1996. Ho fatto sempre il pubblico ministero: fino al 2007 a Reggio Calabria e poi a Roma. E’ il lavoro che ancora oggi amo e che ho svolto con passione, ispirandomi sempre all’esercizio imparziale della funzione giudiziaria. Se ho svolto il lavoro di inquirente bene o male non spetta a me giudicarlo, metto ovviamente a disposizione i pareri sulle mie valutazioni di professionalità, ma sicuramente l’ho fatto con impegno e abnegazione anche quando sono ritornato a Roma, in quello che ancora oggi considero il mio ufficio e nel quale a parte le ultime dolorose vicende siamo stati sempre una grande famiglia. E come accade nelle migliori famiglie capita di litigare, di non accettare i consigli giusti e nei momenti di rabbia di esternare il proprio malumore a persone estranee per poi pentirti un momento dopo di averlo fatto.

4. Dal 2007 tanti colleghi (forse sbagliando) mi hanno investito di una funzione rappresentativa. In tale ambito ho fatto parte del sistema delle correnti, quel sistema che ora mi condanna, spesso mi insulta, perché a torto o a ragione individua in me l’unico responsabile di tutto. Io non mi sottrarrò alle responsabilità “politiche” del mio operato per aver accettato “regole del gioco” sempre più discutibili. Ma deve essere chiaro che non ho mai agito da solo. Sarebbe troppo facile pensare questo. Quello della rappresentanza è un lavoro totalmente diverso da quello del giudice o del pubblico ministero. Per fare un esempio è lo stesso rapporto che corre tra il leader di una organizzazione sindacale ed il lavoratore che svolge il suo lavoro in una fabbrica. Si viene catapultati in un’altra realtà e personalmente sia la guida dell’ANM che l’attività di consigliere del CSM mi hanno portato ad avere frequenti e costanti rapporti con la politica e con il mondo istituzionale. In questo contesto: non si scrivono sentenze; non si vive nelle anguste stanze che caratterizzano il lavoro del magistrato sommerso dai fascicoli; si passa il tempo a rispondere alle più svariate richieste di quei colleghi che di quel sistema fanno parte; ci si relaziona con gli esponenti degli altri gruppi per trovare estenuanti accordi su chi nominare capo di un ufficio, su chi mandare in cassazione o alla Dna o alla commissione concorso, su come fare comunicati contro questo o quel malcapitato politico di turno. Tutte queste attività - e, in particolare, le nomine dei dirigenti giudiziari - sono il frutto di estenuanti accordi politici. Talvolta essi conducono alla designazione di persone degnissime e meritevoli di ricoprire i posti per cui hanno fatto domanda. Nella consiliatura a cui ho preso parte, sono stati nominati più di mille nuovi dirigenti. E tra essi - alla guida delle Procure di Milano, Napoli, Palermo (solo per citarne alcune) - magistrati di grande valore come Francesco Greco, Giovanni Melillo, Franco Lo Voi. E’ stato il Consiglio superiore del quale ho fatto parte a promuovere un ampio rinnovamento “di genere”, nominando colleghe di valore alla guida delle Corti di Appello di Milano, Venezia, Firenze, Genova (li anche l’incarico di Procuratore Generale è stato conferito ad una donna) e Salerno. E per la prima volta, ad una collega è stato conferito un incarico apicale di legittimità: quello di Presidente del Tribunale Superiore delle Acque. Ma la politica - ce lo ha insegnato un grande intellettuale come Canetti - ha anche un lato oscuro. Fuor di metafora, in alcuni casi le nomine hanno seguito solo logiche di potere, nelle quali il merito viene sacrificato sull’altare dell’appartenenza. Dei risultati virtuosi di quella esperienza consiliare non ho la presunzione di dirmi l’artefice, ma solo un testimone. Degli altri che non hanno risposto a questa logica sento, invece, il peso della responsabilità. Che però non è soltanto mia. Le chat divenute pubbliche, purtroppo, altro non sono che uno spaccato di questa situazione. Non le ho mai cancellate perché mai pensavo che il mio telefono potesse diventare oggetto di un provvedimento di sequestro. Ognuno aveva qualcosa da chiedere, ognuno riteneva di vantare più diritti degli altri, anche quelli che oggi si strappano le vesti, penso ad esempio ad alcuni componenti del collegio dei probiviri che oggi chiedono la mia espulsione, oppure a quelli che ancora oggi ricoprono ruoli di vertice all’interno del gruppo di Unità per la Costituzione, o addirittura ad alcuni di quelli che ancora oggi siedono nell’attuale Comitato direttivo Centrale e che forse troppo frettolosamente hanno rimosso il ricordo delle loro cene o dei loro incontri con i responsabili giustizia dei partiti politici di riferimento. Sarebbe bello che loro raccontassero queste storie. Non devo essere io a farlo. Io ascoltavo sempre tutti, anche gli esponenti della politica, esprimevo le mie opinioni in libertà, forse troppa, e poi decidevo con la mia testa da solo come ho sempre fatto in vita mia senza farmi mai condizionare da nessuno e senza mai barattare alcunché. Su questo sono pronto a sfidare chiunque. All’inizio ero animato dal sacro fuoco del cambiamento, perché ovviamente anche io mi rendevo conto che era un meccanismo infernale, dal quale però mi sono lasciato inghiottire. Ma ciò non per “sete di potere”, bensì in una “logica” - che oggi riconosco, comunque, erronea - secondo cui il rafforzamento della posizione, mia e del mio gruppo di appartenenza, avrebbe potuto assicurare opportunità di avanzamento di colleghi meritevoli. Ma il fine, ora non posso non ammetterlo, non giustifica mai i mezzi.

5. Quanto agli aspetti più “ameni” (eufemismo) della mia vicenda, più che le feste la mia passione sin dai tempi dell’uditorato è stata per il gioco del calcio. In questo ambito abbiamo creato una Rappresentativa di Magistrati Italiani che si è cimentata nel sociale con la nazionale cantanti e la nazionale attori. Siamo andati in terra di mafia, di ndrangheta, nei centri di accoglienza e di recupero tossicodipendenti per dare un nostro contributo insieme a gente dello sport e dello spettacolo che ha voluto unirsi a noi. In questo ambito sono nati contatti e amicizie con questi noti personaggi.

6. Sugli aspetti deteriori del correntismo e sulle vicende che mi hanno riguardato all'Hotel Champagne devo potermi difendere nella competente sede disciplinare e spiegare quando sarà il momento a tutti i magistrati le mie ragioni e lo stato d’animo che mi ha accompagnato in quei giorni. Non posso farlo oggi perché per difendermi ritengo di dover utilizzare tutti gli strumenti processuali che l’ordinamento mette a mia disposizione. Tra questi rientrano anche le questioni processuali attinenti l’utilizzabilità del trojan che insieme ai miei avvocati riteniamo fondamentali in ottica difensiva. Non mi sottrarrò alle mie responsabilità su questi fatti: oggi posso dire che ho sottovalutato le mie frequentazioni di quel periodo perché in me prevaleva l’idea di schivare qualsiasi pericolo e di essere un incorruttibile. L’idea che si potesse pensare il contrario su di me mi ha fatto diventare un animale ferito e questo mi ha portato spesso ad utilizzare espressioni sbagliate verso colleghi con i quali ho sempre avuto rapporti di stima. I fatti poi mi hanno dato ragione. Sono andato in tv perché i giornali un anno fa titolavano: “corruzione al Csm: Palamara accusato di aver preso 40.000 euro e di aver danneggiato il dott. Bisogni nel disciplinare”. Come ho detto con il recente deposito degli atti della Procura di Perugia queste accuse sono ora cadute e la mia certezza di non aver mai commesso alcuna condotta illecita nella mia attività ha ora trovato conforto nella decisione degli stessi inquirenti. Per questo ho ritenuto doveroso un chiarimento pubblico vista l’ondata mediatica che mi ha travolto e visto che dalla lettura delle carte stanno emergendo delle anomalie nell’utilizzo del Trojan che impediscono di avere una visione realmente completa di tutto quello che è realmente accaduto. D’altra parte ritengo imprescindibile per questo CDC l’acquisizione completa degli atti del procedimento penale che mi riguarda anche perchè l’informativa del 10 aprile del 2019 del GICO della GDF fotografa solo una parte del mondo della magistratura essendo limitata all’ascolto delle telefonate tra il sottoscritto e Ton.Ferri, e più in generale tra gli allora esponenti dei gruppi di Unità per la Costituzione e magistratura indipendente.

7. In questo contesto ritengo convintamente di dover chiedere scusa ai tanti colleghi che nulla hanno da spartire con questa storia, che sono fuori dal sistema delle correnti, che ogni giorno “evadono” numerosi fascicoli dietro ai quali si annidano vicende personali complesse e che inevitabilmente saranno rimasti scioccati dalla “ondata di piena” che è montata in questi giorni e che rischia, ingiustamente, di travolgere quella magistratura operosa e aliena dalle ribalte mediatiche che rappresenta la parte migliore di noi. Per loro io sono disposto a dimettermi solo se ci sarà una presa di coscienza collettiva ed insieme a me si dimetteranno anche tutti coloro che hanno fatto parte di questo sistema, per dare oggi la possibilità a tutti quei magistrati che ingiustamente ne sono rimasti penalizzati di attuare un reale rinnovamento della magistratura senza infingimenti, senza più tensioni e senza sterili ed inutili contrapposizioni ideologiche. Spero che i prossimi 36 componenti del Comitato direttivo centrale possano essere questi ultimi e che loro stessi possano difendere l’autonomia della magistratura, bene supremo per tutti. Il d.m. 30 maggio 1996 è il mio concorso e lo ricorderò sempre come il più bel momento della mia vita anche se mi ha portato via i due colleghi a cui tenevo di più e con i quali condividevamo l’orgoglio di essere diventati magistrati della Repubblica italiana soggetti soltanto alla legge. Tutto quello che è accaduto in questo anno non ha nulla a che vedere con l’imparziale esercizio della giurisdizione al quale io sempre mi sono ispirato nel rispetto di tutti i cittadini italiani. Non farò il capro espiatorio di un sistema. Roma 20 giugno 2020, Luca Palamara.

Palamara fa i nomi ed è bufera sulla magistratura italiana. Il Dubbio il 22 Giugno 2020. L’ex presidente Anm denuncia il sistema delle correnti. Giulia Bongiorno gli dà ragione, Albamonte lo querela. C’è chi minaccia querela, chi invece chiede l’azzeramento dell’Anm. Insomma, il caso Palamara trascina come un valanga tutta la magistratura italiana. Soprattutto dopo la deciosione dell’ex presidente dell’Anm coinvolto nello scandalo intercettazioni di “fare i nomi”. “Io mi assumo le mie responsabilità. Ma non posso assumermi quelle di tutti”, ha dichiarato Palamara. Che poi ha aggiunto “Non ho agito da solo: il clientelismo all’interno della magistratura non è certo un problema che ho inventato io. Limitarlo solo a me o a un gruppo associativo significa ignorare la realtà dei fatti, o peggio ancora mentire”. “Io sono andato lì per parlare di fronte a chi mi stava giudicando. È un diritto insopprimibile per chiunque”, ha detto parlando della sua espulsione dall’Anm decisa senza che gli fosse data la possibilità di difendesi. Poi Palamara mette sul piatto i nomi: “Su cinque componenti probiviri Anm, tre li conosco assai bene. Sono stati noti esponenti di altrettante correnti. Tra l’altro, il presidente Di Marco, dalle carte di Perugia, è risultato essere il difensore disciplinare di Giancarlo Longo, il magistrato che, secondo le originarie accuse rivoltemi da Perugia, ma poi cadute, io avrei favorito per la procura di Gela. – ha continuato – C’è Gimmi Amato, che nel 2016 venne nominato procuratore di Bologna secondo i meccanismi di cui tanto si parla oggi. Fermo restando il suo indiscusso valore”. “Viazzi, storico esponente di Md, che ho sempre stimato ma che poi sacrificai per la nomina di presidente della Corte di appello di Genova, a vantaggio dell’alleanza con Magistratura indipendente, che portò a preferire al suo posto la collega Bonavia. ha concluso Palamara – Sono loro per primi i beneficiari del sistema di cui solo io oggi sono ritenuto colpevole”.

Albamonte querela. Il primo a reagire alle parole di Palamara è Eugenio Albamonte: “Questa mattina ho ricevuto mandato da Eugenio Albamonte – ha fatto sapere l’avvocato Paolo Galdieri – per proporre querela nei confronti di Luca Palamara. Quest’ultimo, in una serie di interviste lo ha diffamato parlando di fatti mai avvenuti ed in particolare di non meglio precisate cene tra il mio assistito e l’On. Donatella Ferranti, già presidente della Commissione Giustizia della Camera dei deputati, nelle quali si sarebbe discusso della nomina del Vice Presidente del Csm David Ermini e delle nomine di avvocati generali della Cassazione”. Così in una nota.

Orlando: riforma del disciplinare delle toghe. “Nei prossimi giorni credo si debba riflettere su una seria riforma del disciplinare dei magistrati, sottraendolo al Csm ed istituendo un’apposita corte che si occupi di tutte le magistrature. Credo sia utile lavorare ad una legge costituzionale che vada in questa direzione coinvolgendo tutte le forze parlamentari”, scrive su facebook Andrea Orlando, vicesegretario Pd.

Cicchitto: vogliono far passare per matto Palamara. “Adesso per chiudere il cerchio e omettere la verita’ manca solo far passare Palamara per matto. La verita’ e’ che il trojan e’ stato messo per boicottare la scelta di Viola a procuratore capo di Roma e non per scoprire episodi di corruzione mia esistiti di Palamara. Chi ha usato il trojan ha fatto ricorso alla bomba atomica per colpire un obiettivo molto delimitato e cosi ha distrutto una intera città vale a dire l’intero Csm e le fiamme si stanno spargendo per tutta l’Anm”, ha dichiarato Fabrizio Cicchitto.

Bongiorno: “Palamara dice la verità”. “E’ corretto quello che dice Palamara: i riflettori sono accesi su di lui ma è poco credibile che il problema riguardi solo Palamara”, dichiara la responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno, intervenendo su Radio radicale alla tre giorni organizzata sulla riforma Radicale della giustizia. “E’ verissimo che la stragrande maggioranza dei giudici sono persone per bene,ma un’autoriforma è impossibile perché sarebbe già stata fatta” , ha osservato ancora Bongiorno, che ha poi definito “ridicola” la riforma della giustizia del ministro Bonafede. “Suscita il sorriso che di fronte alle necessarie riforme radicali si risponda con minime modifiche che non impattano su nulla”. “La separazione delle carriere non è più rinviabile- ha aggiunto- A me non basta, vorrei anche la separazione del Csm e il cambiamento dell’accesso in magistratura che oggi non consente una selezione adeguata”.

Luca Palamara punta in alto: "Ricordate le parole di Elisabetta Casellati?", poi fa i nomi del "sistema". Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Luca Palamara è diventato un personaggio mediatico ricercatissimo dopo l’espulsione dall’Anm con annesse polemiche di fuoco con gli ex colleghi togati. In un’intervista rilasciata a Repubblica, il pm romano ha persino tirato in batto Elisabetta Casellati per avvalorare la difesa delle sue posizioni: “Io mi assumo le mie responsabilità, ma non posso assumermi quelle di tutti. Non ho agito da solo. Questo ormai non lo dico solo io, ma anche molti autorevoli commentatori come la presidente del Senato e magistrati di sinistra come Livio Pepino. Riferiscono che il clientelismo all’interno della magistratura non è certo un problema che ho inventato io. Limitarlo solo a me o a un gruppo associativo significa ignorare la realtà dei fatti, o peggio ancora mentire”. Poi Palamara ha fatto nomi e cognomi dei probiviri dell’Anm che, a suo dire, avrebbero usato le correnti per fare carriera: “Su cinque componenti, tre li conosco assai bene. Sono stati noti esponenti di altrettante correnti. Tra l'altro, il presidente Di Marco, dalle carte di Perugia, è risultato essere il difensore disciplinare di Giancarlo Longo, il magistrato che, secondo le originarie accuse rivoltemi da Perugia, ma poi cadute, io avrei favorito per la procura di Gela". E poi c’è “Gimmi Amato, che nel 2016 venne nominato procuratore di Bologna secondo i meccanismi di cui tanto si parla oggi”. Ma non è finita qui, perché Palamara ha lanciato accuse pesanti anche al comitato direttivo centrale dell’Anm: “Mi riferivo ad esempio ai rapporti tra l'allora presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti eletta nel Pd, ed Eugenio Albamonte, pm di Roma e della sinistra di Area, come ad esempio in occasione della nomina del vice presidente del Csm David Ermini o degli avvocati generali della Cassazione”. Fermo restando che per Palamara tutto questo rientra nei “rapporti fisiologici tra magistratura e politica”. 

Da huffingtonpost.it il 21 giugno 2020. Il pm romano Eugenio Albamonte, segretario di Area e in passato presidente dell’Anm, querelerà Luca Palamara, ex presidente dell’associazione magistrati che è stato espulso. Lo annuncia lo stesso avvocato Paolo Galdieri. “Palamara in una serie di interviste rese oggi (a La Repubblica, a firma di Liana Milella, a Il Fatto Quotidiano a firma di Antonio Massari, a La Verità a firma Giacomo Amadori) lo ha diffamato - spiega Galdieri - parlando di fatti mai avvenuti, in particolare di non meglio precisate cene tra il mio assistito e l’onorevole Donatella Ferranti, già presidente della commissione Giustizia della Camera, nelle quali si sarebbe discusso della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini e delle nomine di avvocati generali della Cassazione”. Pochi minuti dopo la notizia dell’espulsione dall’Anm, Palamara - che era andato al Palazzaccio per chiarire la sua vicenda ma, per una norma statutaria, non gli è stata data la parola - aveva detto “non farò il capro espiatorio”. Parlando con Repubblica ha detto: “Trovo fisiologico che chi ha determinate cariche rappresentative nella magistratura interloquisca con la politica. Ma trovo meno condivisibile che ci siano procuratori della Repubblica che vadano a cena con i politici”, facendo, a questo punto, anche il nome di Eugenio Albamonte.

Estratto dell'articolo di Liana Milella per “la Repubblica” il 21 giugno 2020. «Tanto paga per tutto Palamara ». Cacciato dall'Anm, di cui è stato presidente, l'ex pm di Roma sotto inchiesta a Perugia per corruzione parla con Repubblica . E fa i nomi dei colleghi che, a suo dire come lui, tenevano in piedi il sistema delle correnti. Se Palamara è colpevole tutti sono colpevoli.

Perché?

«Perché Palamara non si è svegliato una mattina e ha inventato il sistema delle correnti. Ma ha agito e ha operato facendo accordi per trovare un equilibrio e gestire il potere interno alla magistratura».

Mattarella farebbe un salto sulla sedia se la sentisse parlare di "potere interno".

«La Costituzione ha voluto che la magistratura fosse autonoma e indipendente. Per esercitare questo potere i magistrati hanno scelto di organizzarsi in correnti che nascono con gli ideali più nobili, ma che storicamente hanno poi subito un processo degenerativo...».

... e quindi lei si ritiene non colpevole perché tutti si comportavano così?

«Io mi assumo le mie responsabilità. Ma non posso assumermi quelle di tutti».

(...) Sì, ma la sua è una chiamata di correo. A chi si rivolge?

«Non è così. So che devo rispondere dei miei comportamenti e di quello che è accaduto all'hotel Champagne. Ma, allo stesso tempo, non posso essere considerato solo io il responsabile di un sistema che ha fallito e che ha penalizzato coloro i quali non risultano iscritti alle correnti. A questi magistrati volevo chiedere scusa».

Palamara, non giriamoci intorno. A fronte delle scuse ci sono delle accuse. Chi, tra i probiviri Anm, usava le correnti per fare carriera?

«Su cinque componenti, tre li conosco assai bene. Sono stati noti esponenti di altrettante correnti. Tra l'altro, il presidente Di Marco, dalle carte di Perugia, è risultato essere il difensore disciplinare di Giancarlo Longo, il magistrato che, secondo le originarie accuse rivoltemi da Perugia, ma poi cadute, io avrei favorito per la procura di Gela».

E poi?

«C'è Gimmi Amato, che nel 2016 venne nominato procuratore di Bologna secondo i meccanismi di cui tanto si parla oggi. Fermo restando il suo indiscusso valore».

Amato la chiamava e le scriveva?

«Né più né meno di quello che hanno fatto tutti gli altri».

E ancora?

«Viazzi, storico esponente di Md, che ho sempre stimato ma che poi sacrificai per la nomina di presidente della Corte di appello di Genova, a vantaggio dell'alleanza con Magistratura indipendente, che portò a preferire al suo posto la collega Bonavia».

Che colpe fa a questi tre?

«Di essere loro per primi i beneficiari del sistema di cui solo io oggi sono ritenuto colpevole».

Quindi questi colleghi avrebbero dovuto astenersi?

«Penso ci avrebbero dovuto pensare prima di far parte di quel collegio».

(...) Quanto al mio promemoria, mi riferivo ad esempio ai rapporti tra l'allora presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti eletta nel Pd, ed Eugenio Albamonte, pm di Roma e della sinistra di Area, come ad esempio in occasione della nomina del vice presidente del Csm David Ermini o degli avvocati generali della Cassazione».

 Un momento, lei sta lanciando accuse pesanti. Cosa ci sarebbe stato di compromettente e illegale in questi incontri?

«Io non sto lanciando assolutamente accuse. Io considero tutto questo come rapporti fisiologici tra magistratura e politica per acquisire ulteriori notizie e informazioni rispetto a quanto scritto nei curriculum che spesso sono sovrapponibili».

Ma sarebbero solo questi i nomi o ce ne sono altri?

«È chiaro che ce ne sono tanti altri. I rapporti di frequentazione tra magistrati e politici non li ho certo inventati io».

Lei però incontrando Lotti e Ferri voleva pilotare la scelta del procuratore di Roma...

«Io non avrò difficoltà alcuna a rispondere a questa domanda. Siccome su questi fatti ho un'incolpazione disciplinare potrò farlo però solo in quella sede, perché su questa vicenda i miei avvocati intendono sollevare tutte le problematiche sull'utilizzo del Trojan».

Sta di fatto che lei vedeva sistematicamente Lotti e Ferri e con loro pianificava le nomine. «Ma io non mi sono mai fatto influenzare da nessuno nelle mie scelte...».

Siamo alla megalomania... allora perché li incontrava?

«Perché Ferri era un magistrato che conoscevo da sempre, con cui ho avuto alterni rapporti di amore-odio. Lotti l'ho conosciuto come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, l'ho frequentato con altri magistrati e politici, e anche quando ha cominciato a contare di meno sono rimasto in contatto con lui, né più né meno di quanto avviene con un amico».

Accusa anche i componenti dell'Anm che «forse troppo frettolosamente hanno rimosso il ricordo delle loro cene o dei loro incontri» come scrive nel promemoria? I nomi?

«Se penso a Giuliano Caputo (il segretario dell'Anm di Unicost, ndr) penso a un beneficiato assoluto di questo meccanismo che si trova lì perché Enrico Infante, anche lui di Unicost, era ritenuto troppo di destra. Questi sono gli errori che hanno fatto fallire un sistema facendo prevalere gli accordi tra correnti. Quanto ad altri componenti del Cdc, penso a Minisci, Ferramosca e Salvadori, si tratta di colleghi che certo non hanno disprezzato questo rapporto di cooptazione. Ma oggi mi rendo conto che c'è una magistratura silenziosa che preferisce non affrontare questi problemi. Tanto paga per tutto Palamara».

Sta chiedendo le dimissioni in blocco di tutti?

«Ognuno risponderà alla sua coscienza. Ma non è giusto che io paghi per tutti e che venga strumentalizzata la mia vicenda penale a Perugia».

Si proclama già innocente anche su quel fronte?

«È caduta l'accusa più grave di corruzione per le nomine al Csm. Dimostrerò che non ho mai mercanteggiato la mia funzione e che non ho ricevuto il pagamento dei viaggi, e la mia estraneità ai lavori di sistemazione di una veranda presso l'abitazione di una mia amica».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 21 giugno 2020. L' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati Luca Palamara ieri ha vissuto il giorno più nero della sua carriera: l' espulsione dall' associazione che aveva presieduto. Per l' appuntamento si era preparato un' accorata difesa di quattro pagine, in cui si leggono frasi come questa: «Ognuno aveva qualcosa da chiedere, ognuno riteneva di vantare più diritti degli altri, anche quelli che oggi si strappano le vesti, penso ad esempio ad alcuni componenti del collegio dei probiviri che oggi chiedono la mia espulsione».

Chi sono questi probi viri che si strappano le vesti?

«In particolare mi riferisco a Bruno Di Marco, Giuseppe Amato, detto Jimmy, e Claudio Viazzi Di Marco è un esponente del sistema clientelare catanese, rientra perfettamente nelle logiche clientelari di Unicost, oltre a essere il difensore nel disciplinare di Giancarlo Longo, il mio coindagato nel penale. Quando finiva i disciplinari al Csm, dove faceva il difensore, mi è capitato spesso di trovarlo dentro alle stanze dei giudici».

Viazzi che cosa le aveva chiesto?

«Lui, storico esponente di Md, nulla. Venne fregato quando scegliemmo il presidente della Corte d' appello di Genova. Lì io feci nominare Maria Teresa Bonavia».

Quindi secondo lei aveva il dente avvelenato?

«Non dico questo, io le porto dei dati di fatto».

E Amato, come è diventato procuratore di Bologna?

«Jimmy è un amico, ma con me ha utilizzato quello stesso sistema per cui io sono stato espulso».

Un episodio specifico?

«Oltre a me frequentava in modo assiduo i componenti laici per arrivare all' obiettivo della nomina ed ero io a introdurlo personalmente».

Sono in conflitto d' interessi solo i probiviri? Oggi la segretaria della seduta era Alessandra Salvadori ed è intervenuto ripetutamente il segretario generale Giuliano Caputo. Nel voto contro di lei si è astenuta solo una sua fedelissima, Alessia Sinatra.

«Salvadori e Caputo sono due magistrati che hanno beneficiato del sistema delle correnti e che oggi individuano in me l' unico responsabile».

La Salvadori si era interessata alla nomina del marito, è esatto?

«Forse non se lo ricordava».

Alcuni membri del Cdc, come Bianca Ferramosca e Francesco Minisci, si erano già dimessi da qualche settimana per le chat con lei. Mentre l' ex presidente dell' Anm Eugenio Albamonte, attuale segretario generale di Area, ha assistito al suo processo da dentro all' aula del Cdc al sesto piano della Cassazione.

«Quello di Albamonte è un altro bel capitolo. Come è diventato magistrato segretario del Csm? Come è avvenuto il suo rientro in ruolo alla Procura di Roma?».

Come?

«Non voglio essere impreciso: vada a guardarsi le carte».

Lei parla delle cene e degli incontri «con i responsabili giustizia dei partiti politici di riferimento»: a chi pensa?

«Proprio al "compagno" Albamonte. Come io vedevo Cosimo Ferri lui frequentava la parlamentare del Pd Donatella Ferranti per discutere di nomine come quella dell' avvocato generale della Cassazione Francesco Salzano, uno degli scoop della Verità. Le frequentazioni tra magistrati e politici sono sempre state all' ordine del giorno. C' è poi il discorso, inesplorato, dei rapporti tra procuratori e componenti laici. Questi ultimi vogliono avere il dominio sulle nomine e la dipendenza della magistratura dalla politica è un tema che non è mai stato sviluppato».

Oggi ha detto che neanche ai tempi dell' Inquisizione le avrebbe impedito di parlare.

«Il 3 marzo scorso io sono andato davanti ai probiviri con il mio difensore Roberto Carrelli Palombi. Nell' occasione domandai se mi contestassero i contenuti degli articoli di stampa, perché non capivo le accuse.  

Sottolineai pure che quegli articoli erano basati sui brogliacci delle intercettazioni o su sbobinature mal fatte e spiegai che per potermi difendere avrei dovuto sentire gli audio originali. Che sono molto diversi dalle loro trascrizioni, come sto scoprendo in queste ore. Quando ho sollevato il problema, ho anche anticipato che non avrei reso dichiarazioni quel giorno, ma davanti al Comitato direttivo centrale, dove mi sarei assunto le mie responsabilità. Ma mi è stato impedito».

E poi?

«Complice l' uscita delle chat, c' è stata l' accelerazione per farmi male».

Ma lei si aspettava che non l' avrebbero fatta intervenire?

«Assolutamente no. La storia dell' Anm è una storia di libertà, di idee, di opinioni. Nel 1926 il regime fascista sciolse l' Anm perché c' era chi voleva esprimersi liberamente. Nel mio piccolo, anche a me è stato impedito di parlare».

La mozione per impedire al suo difensore di parlare è stata proposta da Giovanni Tedesco.

«Un imputato che si trova come giudice Tedesco, che non ha bisogno di sentire le ragioni dell' accusato, che cosa deve fare, spararsi? Come fa un giudice a dire di non aver bisogno di sentirmi? Siamo di fronte a un principio di civiltà giuridica. Non avevo chiesto di essere assolto, ma di potermi difendere».

Tedesco ha detto che la fase istruttoria era delegata ai probiviri.

«E se io voglio parlare davanti al mio giudice, che è il Cdc e non i probiviri? A mio giudizio avrei dovuto poter prendere la parola oggi, per il ruolo che ho ricoperto e per la gravità delle contestazioni. A marzo non l' ho fatto perché quel giorno non erano formulate pienamente e chiaramente le contestazioni».

Come si sente l' ex presidente dell' Anm a essere espulso dall' Anm?

«Ho provato un profondo dispiacere, ripensando ai tanti sacrifici fatti in quegli anni da presidente».

Il suo ex collega Antonio Ingroia ha detto che lei era stato scelto dal presidente Giorgio Napolitano come possibile ambasciatore per risolvere il conflitto tra il Quirinale e la Procura di Palermo.

«Di questo argomento preferirei parlare in commissione antimafia, dove sono disponibile a farmi ascoltare».

Uno dei suoi sassolini nella scarpa sembra essere stata la scelta del procuratore di Palermo Franco Lo Voi. Gliela suggerì l' ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone?

«C' era un rapporto molto stretto tra Pignatone e Lo Voi».

Ha parlato di comunicati contro «i malcapitati politici di turno». Si riferiva a Salvini?

«Non solo a lui, è un discorso di carattere generale sulle prese di posizione politiche che in ambito associativo erano frequenti».

Nel discorso che non le hanno fatto pronunciare ha fatto cenno a nomine che hanno seguito solo logiche di potere nelle quali il merito è stato sacrificato sull' altare dell' appartenenza alle correnti, ma che la colpa di queste scelte non era solo la sua. A chi si riferisce?

«A tutti coloro con i quali mi relazionavo per trovare accordi che favorissero la realizzazione di un equilibrio nelle nomine».

I famosi pacchetti?

«Esattamente, che rappresentano l' aspetto più deteriore del correntismo».

Mi fa un esempio?

«Penso alle nomine del Massimario e dei consiglieri della Cassazione o della Direzione nazionale antimafia».

Perché ha scritto di non voler fare il capo espiatorio?

«Perché non posso essere individuato come l' unico responsabile di un sistema che non ha funzionato. Ero uno dei referenti di quel sistema, non il referente. Ogni gruppo associativo aveva il suo Palamara. Ed anche dentro a Unicost le logiche clientelari erano molto diffuse, a prescindere dal mio ruolo. Soprattutto nell' area napoletana e catanese. Ma su questo e molte altre questioni ci sarebbe da scrivere un libro».

Emiliano Fittipaldi per espresso.repubblica.it il 21 giugno 2020. Squadernando le migliaia di chat di Luca Palamara, un fatto sembra chiaro anche al cronista più distratto: il gran visir di Unicost era (e per molti è ancora) uno degli uomini più potenti di Roma. Non solo perché signore indiscusso delle nomine della magistratura italiana, ma pure per essere fondamentale referente dei salotti buoni della Città eterna per questioni giudiziali di ogni tipo e forma. Come  già evidenziato dall'Espresso due giorni fa , la fila davanti allo “Sportello Palamara” è più lunga di quelle della posta all'ora di punta: politici, attori, sportivi, magistrati e – come vedremo – pure vertici dei servizi segreti aspettavano pazienti per un aiuto, un consiglio, una raccomandazione.

Da Zingaretti a Bova fino alla AS Roma: tutti alla corte di Palamara, Mr Wolf della Capitale. Le chat su WhatsApp del pm romano descrivono il sistema di potere del magistrato. Basate su prebende e piaceri. Oltre ai giudici che chiamano per favori e promozioni, tra i referenti ci sono anche vip, politici e ministri. Palamara ottiene una nomina da Zingaretti, fa pressioni per la scorta all'ex titolare del Viminale, intesse rapporti con il dg della Roma Mauro Baldissoni. Palamara è un “facilitatore” dalla rubrica telefonica sterminata, un Mr Wolf infaticabile che risolve problemi H24. Con un modus operandi ben oliato, basato sul classico “do ut des” e sullo scambio di informazioni con il potente di turno. Una merce che nei suk dei palazzi romani ha, da sempre, altissimo valore aggiunto. Perché Luca sarà pure «er cazzaro», come lo chiamano il suo amici e colleghi Giovanni Bombardieri e Massimo Forciniti, ma è fuor di dubbio che nel tempo sia diventato custode dei segreti di mezza città. E di un pezzo importante della classe dirigente del Paese. «Ora il suo regno è finito», chiosano i nemici. È probabile. Ma il pm calabrese indagato a Perugia per una presunta corruzione di funzione in merito ai rapporti con Fabrizio Centofanti (a proposito: nelle chat non c'è traccia del lobbista) ha fatto favori importanti a così tante persone, che sa benissimo che in molti gli devono riconoscenza. Tra i messaggi su WhatsApp più sorprendenti depositati dalla procura umbra qualche settimana fa, ci sono certamente quelli di Alessandro Pansa, ex capo della Polizia e, dal 2016 al 2018, direttore del Dis, il Dipartimento di Palazzo Chigi che coordina le attività operative dei nostri servizi segreti. Pansa scrive a Palamara a partire dal 5 luglio 2017, chiedendo al pm – allora membro del Consiglio superiore della magistratura – informazioni su una pratica di adozione di un bambino bielorusso. Una pratica fatta da un'avvocatessa romana, un fascicolo a cui Pansa sembra tenere molto.

PANSA: «Puoi chiedere qualche informazione sulla vicenda adozione? Pare che si sia fermato l'iter...Mi riferisce l'interessato che al termine del colloquio la dottoressa le aveva detto che la documentazione era sufficiente è che anche la parte dei servizi sociali era definita».

PALAMARA: «Perfetto. Lo comunico subito».

PANSA: «Grazie».

Passa qualche giorno, e il capo degli 007 manda informazioni più dettagliate sull'istanza. Spiega che «da un controllo effettuato in cancelleria e sul terminale la causa (Il numero di ruolo è....) è presso il giudice relatore, la Dottoressa Scribano, in attesa della camera di consiglio». L'ex poliziotto segnala poi il nome di chi ha fatto l'istanza per l'adozione di un bambino nato in Bielorussia, e termina il messaggio con un «Grazie infinite». A settembre 2017, dopo qualche incontro vis à vis, colazione a tre con “Giovanni” «con caffè e cornetti con la crema», messaggi tranquillizzanti del direttore del Dis sulla scorta a cui Palamara tiene molto («per il momento hanno prorogato scorta fino al 30/9 e poi si riesaminerà situazione»), l'epilogo della pratica di adozione sembra positivo.

PANSA: «Estratto della sentenza è agli atti della commissione per le adozioni che ha accettato la domanda. Insomma tutto a posto. Grazie tantissimo da parte di tutta la famiglia».

PALAMARA: «Benissimo!!! Un abbraccio e a presto per festeggiare».

PANSA: «Certo».

Se Pansa bussa allo sportello Palamara per velocizzare la burocrazia per un'adozione, l'ex deputato Ignazio Abbrignani, vicinissimo a Denis Verdini, all'inizio del 2018 chiede invece a Palamara «riscontri in merito al documento che ti ho dato». Sentito al telefono, Abrignani ci racconta che ha conosciuto il pm al «Futbol Club dove lui si allenava». Non ricorda bene il documento, «mi pare fosse un parere su un atto civile che dovevo fare». Se delle conversazioni e chat con politici come Luca Lotti, Cosimo Ferri, Nicola Zingaretti e Marco Minniti abbiamo già dato conto in passato, anche la lista dei magistrati di peso che chiedevano favori al re di Unicost è sterminato. Le chat pubblicate dai giornali nei giorni scorsi stanno terremotando non solo il Csm, ma anche l'Associazione nazionale magistrati, le correnti di sinistra (nemmeno sfiorate dalle intercettazioni pubblicate un anno fa, oggi anche loro protagoniste di mercanteggiamenti vari) e – grazie a chat inedite – pure i vertici dei più importanti uffici giudiziari italiani. A Roma, per esempio, un gip importante come Gaspare Sturzo (finito in prima pagina qualche mese fa perché, a febbraio 2020, ha ordinato alla procura di Michele Prestipino nuove indagini su Tiziano Renzi e altri indagati del caso Consip, respingendo la richiesta di archiviazione degli inquirenti coordinati da Paolo Ielo) sembra in rapporti strettissimi con Palamara. A luglio 2018 Sturzo domanda al potente collega «qualche notizia sulla mia nomina a sostituto procuratore in Cassazione». Poi, dopo due ore, spiega perché sarebbe proprio lui il miglior candidato possibile.

STURZO: «Luca: io ho la settima valutazione altri non mi pare. Ho anche i titoli pubblicati e poi Dda Palermo con pentimento Siino e gestione del processo mafia e appalti. Poi ho coordinato le indagini per cattura Provenzano. Con la catturandi ho preso Benedetto Spera, al tempo nr. 2 dopo Provenzano. Ho fatto parte dell’alto commissario anti corruzione, ufficio legislativo presidenza del Consiglio e gabinetto del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Dei procedimenti Romani quale GIP E GUP non occorre parlarne perché dovrebbero essere noti al CSM PER LA RILEVANZA. Ti voglio solo dire che De Lucia che era con me a Palermo nei procedimenti citati(ma le carte le facevo io) è procuratore della repubblica di Messina. (Mio stesso concorso). Altro collega coassegnatario era Michele Prestipino. Tuo Gaspare». Il tentativo di spostarsi in Cassazione non riuscirà. I rapporti tra i due rimangono comunque ottimi. Tanto che il 29 maggio 2019, quando Repubblica dà conto dell'iscrizione del registro degli indagati di Palamara a Perugia per corruzione (fascicolo girato dal pool di Ielo in Umbria per competenza) scrive un messaggio di stima:

STURZO: «Luca mi dispiace, ti sono vicino e certo ne uscirai a testa alta».

PALAMARA: «Caro Gaspare. È una guerra».

Anche un procuratore capo come Giuseppe Creazzo, diventato celebre dopo le inchieste della procura di Firenze sugli affari dei genitori di Matteo Renzi e sulla Fondazione Open e l'anno scorso in pole per il dopo Pignatone, telefona a Palamara in caso di necessità. «Creazzo ha scritto su WhatzApp a Palamara solo per le necessità che riguardavano il funzionamento del suo ufficio», chiariscono all'Espresso fonti di Viale Guidoni. Vero. Le richieste di velocizzare l'arrivo di un aggiunto appaiono infatti comprensibili («Carissimo Luca, come sai sono rimasto con un solo aggiunto su tre, la situazione è difficile davvero, ti prego di considerare l'opportunità di deliberare presto sul posto messo a concorso fin da marzo 17. Grazie, un abbraccio»), come pure l'ansia sulla calendarizzazione di alcune nomine come quella dei pm Sandro Cutrignelli e Gabriele Mazzotta («Carissimo Luca scusa se ti disturbo ancora ma qui la sofferenza è grande. Puoi dirmi quando va al plenum la nomina di Mazzotta? Grazie», scrive Creazzo il 19 marzo 2018, chiudendo il giorno dopo con un «Grande!!!Grato»). Di diverso tenore, invece, i messaggi che riguardano altri uffici giudiziari. E quelli sulla promozione di colleghi di Unicost, corrente a cui appartiene anche Creazzo. Il 29 marzo 2018 in chat si legge:

CREAZZO: «Grazie per Reggio Calabria. Sono davvero contento. Buona Pasqua».

PALAMARA: «Sono contento Peppe spero che Tommasina (il magistrato Cotroneo, ndr) e Giovanni (il pm Bombardieri, ndr) si possa dare un bel segnale al territorio. Un abbraccio.

CREAZZO: «Avevamo bisogno di uno come Giovanni, serio equilibrato e capace».

Per inciso, sempre il 29 marzo, la mattina del voto su Giovanni Bombardieri, Palamara si preoccupa già di organizzargli il suo “debutto in società” («Il 20 aprile a San Luca farai la prima uscita come procuratore di Reggio Calabria a San Luca. Con me, Cafiero e il capo della polizia»; giratogli la notizia della nomina, Bombardieri risponde con un «Grande Palamara!»). Mentre le chat tra il magistrato e Tommasina Cotroneo, diventata presidente della sezione penale del Tribunale di Reggio Calabria, rischiano di imbarazzare la magistratura calabrese. La Cotroneo parla infatti malissimo di altri colleghi. Come la rivale Tassone, su cui Palamara chiede informazioni di familiari.

COTRONEO: «E poi devo dirti a questo punto delle cose sulla Tassone visto che si deve giocare con le loro carte. È una persona pericolosa e senza nessuna sensibilità istituzionale con un padre pieno di reati fiscali ed una impossibilità di vedere un suo bene in esecuzione immobiliare a Vibo per le pressioni che evidentemente esercita. Lei peraltro a seguito di una causa civile che la vedeva parte soccombente rispetto ad un vicino di casa ha mandato al giudice civile che aveva la causa una foto wapp con le immagini del suo appartamento e sotto scritto "senza parole" stigmatizzando così la decisione di quel giudice. Quest'ultimo ha raccontato tutto a Gerardis che non gli ha detto di relazionare altrimenti a quest'ora la signorina Tassone sarebbe stata sotto procedimento disciplinare. Fagliele sapere queste cose al suo mentore. Non l'hanno mai voluta la Tassone perché conosciuta da tutti come pericolosa per i suoi tratti caratteriali».

PALAMARA: «Sui reati fiscali del padre mi dai qualche elemento in più? Cosa fa il padre?»

COTRONEO: «Non so di preciso. È un personaggio oscuro. Lei non parla mai del padre. Non pervenuto . Qualcosa mi aveva detto la grasso e sulla esecuzione immobiliare dicono in corte. Sarebbe un presidente di sezione pericolosissimo».

Torniamo a Creazzo. Perché il giorno dopo la promozione di Bombardieri, il 30 marzo, un suo messaggio chiarisce bene l'importanza delle correnti per le carriere dei magistrati:

CREAZZO: «Carissimo Luca oggi ho incontrato Cosimo Ferri che mi ha espressamente chiesto chi preferisco per il terzo aggiunto fra i due di MI. Se la scelta si riduce a questa ristrettissima rosa secondo me Dominijanni è meglio per profilo e attitudini e per la circostanza, che ritengo ancor più decisiva, che non appartiene già a questo ufficio al contrario dell’altro e dunque porterebbe un rinnovamento, cosa sempre positiva. Questo è il mio pensiero, per quel che vale, nell'ovvio rispetto di ogni decisione che verrete a prendere. Ciao».

Giancarlo Dominjanni è dunque il prescelto da Ferri. Che però, oltre a essere grande sodale di Palamara e boss di Magistratura indipendente, tre mesi prima era stato eletto deputato alla Camera dei deputati nelle file del Pd. La Suburra della magistratura nazionale prevede – nonostante conflitti d'interesse evidenti tra i poteri dello Stato - che un procuratore capo come Creazzo debba discutere con un politico dei curriculum dei candidati al suo ufficio. Che, almeno in teoria, dovrebbero essere scelti dal Csm solo per puri meriti professionali. Un altra chat, quella tra Palamara e il fratello di Dominijanni Gerardo (anche lui magistrato) chiude il cerchio:

GERARRDO DOMINIIJANNI: «Ciao Luca state trattando in Quinta Commissione aggiunto a Firenze dove MI porta mio fratello Giancarlo. Area (altra corrente di sinistra, ndr) porta Tescaroli o Pesce. Sinceramente che possibilità ha mio fratello?

PALAMARA: «Grande Gerry, secondo me buone. Dobbiamo però trovare giuste convergenze ci aggiorniamo in serata un abbraccio».

Per la cronaca, la partita il 28 luglio 2018 la vincerà Luca Tescaroli, mentre Giancarlo Dominijanni è ancora sostituto a Pisa.

Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2020. «La verità è che adesso non c'è trojan che tenga. Il pallino è in mano a lui. Resta da vedere se e che cosa Palamara avrà voglia di ricostruire, di dire, di raccontare. Francesco Cossiga, che non l'aveva in grande simpatia, lo chiamava Tonno Palamara. Se fosse vivo oggi, il presidente emerito magari avrebbe iniziato a stimarlo e a spingerlo ad andare avanti con le sue picconate Sa, le sue rivelazioni magari aiuterebbero sia la magistratura che la politica a procedere verso una vera separazione dei poteri. Chissà se lo farà. Certo, le cose che ha iniziato a dire e i nomi che ha iniziato a fare? Non serve grandissimo fiuto per capire che non siamo neanche all'inizio». La chiacchierata con Cosimo Maria Ferri era iniziata sotto ben altri auspici. Il deputato di Italia Viva - il terzo nome del tridente, insieme a Palamara e Luca Lotti, finito nelle intercettazioni del 2019, all'alba della grande inchiesta i cui rivoli stanno mettendo in subbuglio la magistratura - usa un tono fermo e cortese per scandire che «io interviste non ne faccio; e poi, mi scusi, ma sto scappando in commissione Giustizia». Dalle ultime dichiarazioni in ordine cronologico dell'ex presidente appena espulso dall'Associazione nazionale magistrati - ieri mattina a Omnibus , su La7 - sono passate poche ore. Nomi e nomine, nomine e nomi. Pedine su una scacchiera di cui Ferri è stato una pedina importante: giovanissimo membro del Csm dal 2006, poi leader di Magistratura indipendente, quindi recordman tutt' ora imbattuto di preferenze alle elezioni dell'Anm del 2012, poi sottosegretario alla Giustizia nei governi Letta, Renzi e Gentiloni. Se Palamara iniziasse a fare i nomi, difficile che «Alt, qui la fermo. Palamara stesso ha chiarito che col sottoscritto c'era un rapporto di amore e odio. La parte relativa all'odio, glielo confesso, mi incuriosisce. Se parlasse e facesse i nomi, per esempio, chiarirebbe perché nel 2012 hanno mandato me, che pure ero stato il più eletto della storia dell'Anm, all'opposizione», ribatte Ferri. Unicost e Area, che con i rispettivi leader Palamara e Cascini avevano guidato l'associazione nel quadriennio precedente, rinnovano il patto ed eleggono Rodolfo Sabelli. Certo, visto che le loro conversazioni negli anni successivi sarebbero tornate ad essere tante e continue - de visu al ristorante o in chat - avrebbe potuto chiederglielo. «Eh no», ribatte il magistrato deputato di Italia Viva, «certe cose non si chiedono. Però sarei curioso di sapere le cose che Palamara avrebbe voglia di raccontare su quel periodo Visto che, ripeto, io venni spedito all'opposizione dell'Anm». La domanda delle domande rimane quasi sospesa nell'aria, mentre Ferri accelera il passo verso l'appuntamento con la seduta della commissione Giustizia. Palamara parlerà oppure no? Siamo all'alba di uno scandalo di proporzioni indefinite oppure nel bel mezzo di un grande bluff? «Questa, in effetti, è una bella domanda», risponde Ferri. Che, per esempio, avrebbe concesso all'ex presidente dell'Anm la facoltà di potersi difendere prima dell'espulsione. «Hanno scelto di cacciarlo senza consentirgli di poter parlare. E adesso sono problemi». Secondo lei, per paura di quello che poteva dire? «Io non ho una risposta a questa domanda. Di certo Palamara di cose ne sa, e parecchie. Molte ma molte di più di quelle che ha iniziato a dire. Vede, adesso all'Anm si trincereranno dietro lo statuto per giustificare la scelta di non consentirgli di difendersi. Ma da un giudice ci si aspetta che usi il buon senso e la terzietà anche andando oltre lo statuto. Parlo da cittadino, non da magistrato o deputato: io l'avrei fatto parlare. E comunque, che ci sia stata un'accelerazione nella scelta di espellerlo è fuori di dubbio. Da quando ha iniziato a parlare in tv e sui giornali, c'è stata una grande accelerazione». C'è anche una questione che riguarda l'uomo, prima ancora che il magistrato. «La famiglia, il dolore che possono procurare le intercettazioni sui giornali. Io ho tre figli. Di tredici, undici e otto anni», scandisce Ferri. «Ovvio che leggevo i giornali con una certa apprensione, la mattina. La cosa che fa paura a me è la stessa che temo oggi per lui. La famiglia».

Giovanni Bianconi per il ''Corriere della Sera'' il 22 giugno 2020. La prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, quella che decide sulla sanzione para-disciplinare dei trasferimento d'ufficio «per incompatibilità ambientale», ha già avviato una ventina di istruttorie preliminari per valutare le posizioni di altrettante toghe che compaiono nelle chat di Luca Palamara. Se gli accertamenti dovessero confermare che le conversazioni e gli argomenti trattati superano soglie di inopportunità e imbarazzo tali da rendere problematico restare nell'incarico ricoperto senza perdere prestigio e credibilità, si potrebbe proporre la rimozione, da sottoporre al plenum dell'organo di autogoverno. Come è accaduto con Cesare Sirignano, già sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, mandato via perché ritenuto coinvolto «nelle intenzioni e nelle strategie» dell'ex pm accusato di corruzione, tra cui il condizionamento della nomina del nuovo procuratore di Perugia; con espressione di valutazioni e giudizi su colleghi che ne hanno determinato un «appannamento dell'immagine di indipendenza ed imparzialità» che non gli consentiva di rimanere in quell'ufficio. Per Sirignano è in corso anche un procedimento disciplinare avviato dalla Procura generale della Cassazione, come per Palamara e i cinque ex componenti del Csm dimessisi dopo che, un anno fa, sono state diffuse le intercettazioni del loro incontro con l'ex pm e due deputati in cui si mettevano a punto le strategie per nominare un procuratore di Roma gradito ai presenti. Decisioni analoghe per altri magistrati potrebbero arrivare per decisione del procuratore generale Giovanni Salvi, che da un paio di mesi ha messo al lavoro un gruppo di sostituti per analizzare tutto il materiale trasmesso dalla Procura di Perugia. Che a conclusione dell'inchiesta  penale è diventato molto più voluminoso: tutte le conversazioni telefoniche e via chat di Luca Palamara, sia quando sedeva al Csm sia dopo. Fino a maggio 2019, quando è venuta alla luce l'indagine a suo carico. L'attuale Csm, rinnovato per quasi un quarto proprio a seguito del «caso Palamara», attende le determinazioni del pg della Cassazione, ma nel frattempo s' è dato nuove regole e nuove procedure per le nomine. Che hanno determinato scelte considerate di prestigio, a volte sofferte ma comunque trasparenti. A volte all'unanimità, o con maggioranze molto ampie; altre volte frutto di divisioni e dibattiti alla luce del sole e schieramenti diversificati, anche trasversali e non predeterminati. Fra queste ultime ce ne sono tre considerate particolarmente importanti proprio perché più o meno direttamente connesse alle vicende di cui è stato protagonista l'ex pm indagato per corruzione. La nomina del pg Salvi, il titolare delle azioni disciplinari prossime venture, è stata decisa il 14 novembre 2019 con 12 voti a favore (i togati di Area e Autonomia e indipendenza più i laici indicati dai Cinque stelle); 4 e 3 sono andati ad altri due candidati, 5 consiglieri si sono astenuti. Michele Prestipino è stato nominato procuratore di Roma, il 4 marzo scorso, con 14 voti al ballottaggio con un altro candidato, raccogliendo il consenso dei togati di Area e Unità per la costituzione, e 3 su 5 dei consiglieri eletti con Autonomia e indipendenza, più i togati di espressione grillina. Più di recente, mercoledì scorso, Raffele Cantone è diventato procuratore di Perugia grazie ai 12 voti espressi dai togati di Area e i sette laici espressione di Cinque stelle, Forza Italia e Lega (l'unico indicato dal Pd, David Ermini, è vicepresidente e di norma non vota). Maggioranze diversificate, a volte persino risicate. Che hanno dato luogo anche alle spesso evocate «spaccature» in seno all'organo di autogoverno, che però al Csm rivendicano come segnale di libertà di espressione: niente a che vedere come accordi di potere e lottizzazioni.

PALAMARA FINGE DI FARE I NOMI MA SONO QUELLI NOTI (PER ORA). Luca Fazzo per ''il Giornale'' il 22 giugno 2020. Che un uomo come Luca Palamara, passato in una manciata di giorni dagli altari del potere alla polvere dell'incriminazione, abbandonato e misconosciuto da tutti quelli che gli baciavano la pantofola, perda alla fine equilibrio e lucidità, fa parte dell'animo umano. Così la reazione apparentemente furibonda di Palamara alla sua espulsione dall'Associazione nazionale magistrati, di cui era stato a lungo presidente e leader indiscusso, rischia di venire letta come un gesto scomposto. Perché in una serie di dichiarazioni Palamara tira in ballo con nomi e cognomi una sfilza di magistrati che finora sono scampati ai guai giudiziari e disciplinari che lo stanno travolgendo: e che lui indica invece come collusi o comunque beneficiari del sistema di spartizione delle cariche giudiziarie da parte del Consiglio superiore della magistratura passato alle cronache come «sistema Palamara». Ma se Palamara, come dice ieri qualcuno, «ha dato fuori di matto», bisogna riconoscere che in questa follia c'è del metodo. Infatti se si esaminano con attenzione i nomi che Palamara squaderna dopo avere promesso «adesso faccio i nomi», si scopre che il pm romano (attualmente sospeso dal servizio) fa solo e soltanto i nomi di magistrati che erano già comparsi negli articoli di stampa che riferivano il contenuto delle chat trovate sul suo telefono dal virus della Guardia di finanza. C'è una sola eccezione: Eugenio Albamonte, una delle «toghe rosse» più in vista d'Italia, esponente dell'ala sinistra di Magistratura democratica. Ad Albamonte, Palamara rinfaccia due vicende: una sono gli incontri con Daniela Ferranti del Pd per scegliere il nuovo vicepresidente del Csm; l'altra, più scomoda, è il passaggio come segretario al Csm e poi il ritorno in Procura a Roma. «Quello di Albamonte è un altro bel capitolo», dice nell'intervista alla Verità, invitando a verificare come avvennero i passaggi. Ma il trattamento riservato ad Albamonte ha una spiegazione: il rientro della «toga rossa» in ruolo avvenne quando Palamara non faceva ancora parte del Csm. E quindi viene citato solo per dimostrare che anche prima di questi anni, i sistemi in voga non erano diversi. Per il resto, Palamara picchia a destra e manca: ricorda che Bruno Di Marco, il presidente dei probiviri che lo hanno espulso, difendeva un magistrato finito in carcere, Giancarlo Longo, siciliano come lui; accusa un altro proboviro, il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, di avere ottenuto il suo posto grazie ai «meccanismi di cui oggi si parla». E poi ce n'è per tutti, da toghe di sinistra come Claudio Viazzi e Francesco Minisci, ex presidente dell'Anm, a giudici di centro come Giuliano Caputo, attuale segretario dell'associazione, o Bianca Ferramosca di Roma, o Alessandra Salvadori di Torino. Colleghi che vengono tirati in ballo da Palamara a volte con le buone, specificando che si tratta di gente di valore; a volte più brutalmente. Un gesto scomposto? Mica tanto. Perché in realtà le rivelazioni di Palamara non rivelano niente. I nomi che detta ai taccuini sono gli stessi che le chat, compulsate in queste settimane da buona parte dei magistrati italiani, avevano già messo in luce. Possibile che non ci sia almeno un caso di nomina «aggiustata», un solo esempio di carriera trattata a forza di lusinghe e promesse, oltre a quelle intercettate dal trojan dell'indagine perugina? Ovviamente no, perché i buchi temporali dell'inchiesta sono enormi: le intercettazioni telefoniche partono il 3 marzo 2019, quando Palamara non fa più parte del Csm da sei mesi; il trojan risale ai messaggi scambiati da Palamara a partire dal 2018. Tutto il prima, i tre anni iniziali di Palamara al Csm, quelli di molte scelte decisive, sono rimasti fuori dall'inchiesta. Ci sono nomine cruciali, e manovre sottobanco: la più clamorosa di tutte, quella che nel 2017 fece inserire da una «manina» la norma che permetteva ai magistrati fuori ruolo di rientrare e venire subito promossi. Se saltassero fuori i dialoghi di quegli anni, sulla magistratura si abbatterebbe un'altra bufera. Sono quelli i veri segreti che oggi Palamara custodisce ancora. E ieri manda un messaggio implicito ma chiaro: «di quelle cose per ora non parlo». Per ora.

Caso Palamara, 20 magistrati coinvolti nelle chat sotto esame del Csm per «incompatibilità». Giovanni Bianconi il 22 giugno 2020 su Il Corriere della Sera. Già avviate le istruttorie preliminari per valutare le posizioni delle toghe. Nelle ultime nomine i segnali di un «nuovo corso». La prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, quella che decide sulla sanzione para-disciplinare dei trasferimento d’ufficio «per incompatibilità ambientale», ha già avviato una ventina di istruttorie preliminari per valutare le posizioni di altrettante toghe che compaiono nelle chat di Luca Palamara. Se gli accertamenti dovessero confermare che le conversazioni e gli argomenti trattati superano soglie di inopportunità e imbarazzo tali da rendere problematico restare nell’incarico ricoperto senza perdere prestigio e credibilità, si potrebbe proporre la rimozione, da sottoporre al plenum dell’organo di autogoverno. Come è accaduto con Cesare Sirignano, già sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, mandato via perché ritenuto coinvolto «nelle intenzioni e nelle strategie» dell’ex pm accusato di corruzione, tra cui il condizionamento della nomina del nuovo procuratore di Perugia; con espressione di valutazioni e giudizi su colleghi che ne hanno determinato un «appannamento dell’immagine di indipendenza ed imparzialità» che non gli consentiva di rimanere in quell’ufficio.

Luca Palamara, la prima pagina del Tempo: "Tonno espiatorio", Franco Bechis accusa l'intera magistratura. Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Un altro titolo ficcante, sarcastico, pungente e cattivo. Si parla del titolo di apertura de Il Tempo di domenica 21 giugno. Un titolo cattivo più che contro Luca Palamara, protagonista della prima pagina, contro tutta la magistratura. Franco Bechis, infatti, sceglie "il tonno espiatorio". Che sarebbe ovviamente Palamara, il riferimento è al celebre sfogo di Cossiga che, in diretta tv, lo apostrofò sostenendo che avesse faccia e cognome da tonno, appunto. Anzi, doppio riferimento: "Non farò da capro espiatorio", ha tuonato Palamara ieri, dopo l'espulsione dall'Anm. Ne segue, "il tonno espiatorio". Tesi che Bechis condivide e rilancia, appunto, per attaccare la magistratura. Recita l'occhiello: "L'Anm caccia Palamara. Che si difende: Pago colpe di tutti. È vero, e i magistrati non possono far finta di niente", conclude.

Luca Palamara "mente e mistifica i fatti": l'Anm lo infilza tra incontri notturni e silenzi colpevoli. Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Non si placa la polemica tra Luca Palamara e l’Anm. Il pm romano è stato espulso dal sindacato delle toghe: un’onta che è stata una prima volta ben poco lusinghiera per un ex presidente e che evidentemente ha lasciato dei segni. Perché il magistrato si è scagliato contro il comitato direttivo centrale, lamentando il fatto che la sua richiesta di essere sentito prima del voto è stata respinta. “Un giudice dovrebbe essere in grado di leggere lo statuto di un’associazione, ancora di più quando ne è stato presidente - è la replica dell’Anm - non è stato sentito dal Cdc semplicemente perché lo statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni”. Poi l’affondo più duro: “Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi, Palamara mente. È stato sentito dai probiviri e in tutta la procedura disciplinare non ha mai preso una posizione in merito agli incontri con consiglieri del Csm, parlamentari e imputati”. Un atteggiamento che accomuna il magistrato con gli altri incolpati, almeno secondo la ricostruzione della giunta dell’Anm. Ma non è tutto, perché il sindacato delle toghe smaschera il tentativo di Palamara di “ingannare l’opinione pubblica con una mistificazione dei fatti: la contestazione riguardava incontri notturni all’hotel Champagne e l’interferenza illecita nell’attività consiliare, fatti purtroppo veri, e per questo sanzionati”. 

Luca Palamara fa i nomi dopo l'espulsione dall'Anm: "Che ci faceva la Ferranti del Pd a cena con Albamonte?" Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Cacciato dall'Anm per lo scandalo intercettazioni, sin da subito Luca Palamara ha minacciato vendetta. "Non farò da capro espiatorio", "farò i nomi". E la toga che insultava Matteo Salvini non ha perso tempo. Inizia a fare nomi, a raccontare il "sistema". Lo fa anche in un'intervista al Fatto Quotidiano, dove tira in ballo subito il Pd. "Quante persone in questi anni sono venute da me a proporsi?", premette. E aggiunge di essere determinato a "dimostrarlo in qualunque sede". Ma a chi si riferisce? "A Eugenio Albamonte e Donatella Ferranti, per esempio. Per quanto mi risulta, si sono frequentati come io ho incontrato Luca Lotti e Cosimo Ferri. Non credo che abbiano parlato solo di calcio". Ritiene insomma che abbiano discusso di nomine negli uffici giudiziari? "Diciamo che non lo posso escludere. Esisteva anche un rapporto tra Ferranti ed il vice presidente del Csm David Ermini: erano compagni di partito". Per intendersi, Albamonte è segretario della corrente Area ed ex presidente dell'Anm. Ferranti invece è un magistrato, ex deputata Pd. "Che facevano a cena insieme Albamonte e Ferranti?", incalza Palamara. Per inciso, la Ferranti nelle chat intercettate di Palamara si interessa una sola volta alla nomina di un ufficio giudiziario: chiede a Palamara, a novembre 2017, di fare da "garante" per Francesco Salzano come avvocato generale. Nessuna richiesta personale. E Palamara, riferendosi a quelle intercettazioni, aggiunge tagliente: "Possiamo escludere non ne abbia parlato con con Albamonte?".

Luca Palamara da Gaia Tortora a Omnibus: "Mi pare di capire che se parla..." Libero Quotidiano il 20 giugno 2020. “Mi pare di capire che se parla Luca Palamara…”. Così Gaia Tortora ha commentato il caso del pm romano, che è stato espulso dall’Anm non senza polemiche. L’ex presidente ha picchiato duro contro il sistema delle toghe, assicurando che non si presterà a ruolo di capro espiatorio. “Non mi sottrarrò alle responsabilità politiche del mio operato per aver accettato regole del gioco sempre più discutibili. Ma deve essere chiaro - ha tuonato Palamara - che non ho mai agito da solo. Sarebbe troppo facile pensare questo”. L’impressione è che se dovesse fare nomi e cognomi, potrebbe provocare un ulteriore terremoto all’interno della magistratura. Proprio per questo c’è una certa attesa per la prossima ospitata televisiva di Palamara, che aveva già annunciato che non sarebbe rimasto in silenzio: quale strumento migliore della tv per offrire la sua versione dei fatti? E allora l’ex presidente dell’Anm sarà proprio dalla Tortora: l’appuntamento è per lunedì mattina, dalle 9.10 ad Omnibus su La7. 

Luca Palamara, l'Anm replica: "Non abbiamo bisogno di capri espiatori ma di riforme". Libero Quotidiano il 20 giugno 2020. S’infiamma lo scontro a distanza tra Luca Palamara e l’Anm, con quest’ultima che oggi ha ratificato l’espulsione dell’ex presidente. Il pm romano, divenuto famoso suo malgrado per le intercettazioni e le chat emerse dall’inchiesta di Perugia, ha attaccato il sindacato definendolo “peggio dell’Inquisizione” per aver respinto la richiesta di essere sentito e avvertendolo che non farà "da capro espiatorio”. Inoltre Palamara si è detto pronto ad assumersi le “responsabilità politiche” del suo operato “per aver accettato ‘regole del gioco’ sempre più discutibili”, ma allo stesso tempo ha chiarito che “non ho mai agito da solo, sarebbe troppo facile pensare questo”. Immediata è arrivata la replica dell’Anm: “Non abbiamo bisogno di capri espiatori, ma di tornare a prendere coscienza della diffusione di comportamenti che dimostrano un modo distorto di formazione del consenso in magistratura, non intorno ad idee e valori ma sulla base di interessi strettamente individuali, nonché su impropri rapporti tra consiglieri o esponenti di correnti e magistrati aspiranti ad un incarico”. Secondo Giuliano Caputo, segretario del sindacato delle toghe, da un lato è necessario un “ripensamento dell’operatività delle correnti” e dall’altro un intervento delle “riforme legislative” che facciano venir meno “gli evidenti spazi all’interno dei quali si sono generate e poi autoalimentate le degenerazioni alle quali abbiamo assistito”. 

Luca Palamara, Vittorio Sgarbi sull'espulsione Anm: "hanno infilzato il tonno, ma tutti i beneficiari delle sue trattative?" Libero Quotidiano il 20 giugno 2020. Vittorio Sgarbi commenta gli ultimi sviluppi riguardanti Luca Palamara, che è diventato suo malgrado il primo ex presidente ad essere espulso dall’Anm. “Ma tutti i beneficiari delle sue ‘trattative’ e mediazioni (da Torino a Palermo) restano al loro posto”, è l’acuta osservazione del critico d’arte. Non a caso il pm romano ha avvertito il sindacato delle toghe che non ci sta a fare da capro espiatorio: “Mi assumo le responsabilità politiche per aver accettato regole del gioco sempre più disponibili - ha dichiarato Palamara - ma sia chiaro che non ho mai agito da solo, sarebbe troppo facile pensare questo”. Fatto sta che i componenti del ‘parlamentino’ hanno accolto la proposta avanzata dal collegio dei probiviri e hanno espulso Palamara per “inaudita gravità dei fatti” legati alla “violazione dei doveri imposti dal codice etico”. Secondo Sgarbi l’Anm non è però esente da colpe: “Hanno infilzato il tonno Palamara, ma tutti gli altri peschi che gli nuotavano attorno?”. 

Guido Crosetto su Luca Palamara espulso: "Troppo facile", l'affondo contro la magistratura italiana. Libero Quotidiano il 20 giugno 2020. Mai scontato né banale. Senza pregiudizi, sempre dritto al punto. Si parla di Guido Crosetto, che dice la sua su Luca Palamara, espulso oggi, sabato 20 giugno, dall'Anm. Il Gigante e fondatore di Fratelli d'Italia cinguetta: I magistrati hanno deciso di fare di Palamara il capro espiatorio", e proprio Palamara ha usato le parole "capro espiatorio". Riprende Crosetto: "Troppo facile. Se Palamara è arrivato a presiedere l’Anm, significa che non era il solo ad usare questi metodi ma che gli altri erano forse più furbi di lui o avevano gli amici giusti. Come direbbe Davigo...", conclude sornione. Il riferimento, tagliente, è alle parole di Piercamillo Davigo, secondo il quale di fatto tutti gli indagati fino a sentenza sono tutti colpevoli. Insomma, tutti colpevoli in magistratura fino a prova contraria? I magistrati hanno deciso di fare di Palamara il capro espiatorio. Troppo facile. Se Palamara è arrivato a presiedere l’ANM, significa che non era il solo ad usare questi metodi ma che gli altri erano forse più furbi di lui o avevano gli amici giusti. Come direbbe Davigo....

Il giudice Savarese lascia l’Anm: “Dopo Magistratopoli ci voleva riflessione, Palamara capro espiatorio”. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 9 Luglio 2020. «Dall’estate 2019 a oggi l’Anm non ha avviato un radicale percorso di approfondimento e ripensamento di certe dinamiche. Perciò ho avvertito la necessità di prenderne le distanze»: parola di Eduardo Savarese, giudice del Tribunale di Napoli che ha ufficializzato il suo addio all’associazione. Nel 2019 cinque magistrati sono stati costretti alle dimissioni dopo le polemiche legate all’incontro durante il quale Lotti, Ferri e Palamara avrebbero discusso delle nomine per le Procure di Roma. Oggi Palamara è di nuovo nell’occhio del ciclone. Che quadro emerge da queste due vicende? «Un quadro avvilente. Gli intrecci con poteri propriamente politici sembrano ramificati ed estesi. Il rispetto del merito è annichilito. La trivialità culturale e morale delle logiche e dei linguaggi intristisce. Il terremoto è cominciato a maggio e giugno 2019 e, a un anno esatto, è ancora in atto. L’Anm ha messo in sicurezza la magistratura che rappresenta reagendo severamente alla prima scossa, ma non avviando un processo chirurgico di verifica dei fatti. Ed è così arrivata alla seconda scossa, dinanzi alla quale l’Anm è rimasta inerte. L’unica conseguenza possibile? Parlo per me: recedere».

Come si spiega il diverso approccio tenuto dall’Anm?

«La disparità di trattamento tra il “sisma 2019” e il “sisma 2020” è per me inspiegabile: anche se si vuole sostenere che i gradi dei due terremoti sono stati differenti, da maggio 2020 a oggi una reazione “di sistema” poteva e doveva iniziare».

Che cosa avrebbe dovuto fare l’Anm?

«Mi aspettavo uno sguardo di prospettiva e di insieme sugli accadimenti emersi allora. L’associazione si è invece limitata invece a circoscrivere un evento che però aveva radici profonde. Siamo magistrati, sappiamo analizzare e valutare i fatti: sarebbe stato importante costituire subito una sorta di commissione interna all’Anm, composta da membri sorteggiati tra tutti i magistrati disponibili: una commissione di inchiesta e anche di “conciliazione” per capire e sanzionare, ma pure per cercare un punto di incontro e cicatrizzare le ferite».

I cinque membri del Csm sono stati processati “in piazza”: nella magistratura c’è una tendenza alla giustizia sommaria?

«La tendenza alla giustizia sommaria è figlia delle passioni umane, da un lato, e del Fato, dall’altro: arriva il momento storico in cui la misura è colma e ci si illude che bisogna liberarsi velocemente del colpevole. I processi di liberazione dai colpevoli richiedono tempo e fatica. Il teologo Bonhoeffer dice che non esiste la grazia a buon mercato. Ecco: non esiste neppure la giustizia a buon mercato».

Il garantismo è finito in soffitta?

«No. Il garantismo non è un valore desueto, almeno nella stragrande maggioranza dei veri giuristi. Ci stiamo tutti domandando molte cose. Spero soltanto che si mantenga viva l’urgenza di fornire o esigere risposte».

L’uso del trojan che si fa nelle indagini ordinarie, oltre che nella vicenda Palamara, la preoccupa?

«Affiorano molte domande sull’uso del trojan. Le risposte arriveranno, spero. E solo allora sarò meno preoccupato».

C’è il rischio che anche Palamara diventi un capro espiatorio e che la magistratura perda l’occasione di rinnovarsi anche stavolta?

«La mancanza di un esame sistemico, fatto da noi magistrati, rischia di introdurre la logica del capro espiatorio e della vittima con due effetti negativi: nulla cambia; chi ha pagato, anche quando abbia pagato giustamente, lamenta di essere stato immolato».

Come valuta l’atteggiamento dei “giornaloni” italiani, rimasti in silenzio davanti a certi fatti? C’è una connessione tra certa magistratura e certi giornali?

«Non sono a conoscenza di connessioni. Nella lettera di recesso mi limito a registrare che il “sisma 2019” si avvantaggia di giornali solerti nel comunicare tutto, mentre col “sisma 2” quegli stessi giornali sembrano affaticati nel seguire la quotidiana cronistoria delle chat».

La credibilità della magistratura è ai minimi storici: come si può salvare?

«Al giudice indipendente e imparziale il diritto è iscritto nel cuore prima ancora che nel cuore della civiltà giuridica occidentale. È più di un diritto umano, è un fondamento. Non tengo il conto dei colleghi che rispettano questo fondamento. È il momento di dedicare tempo e fatica, oltre che ai processi, alla nostra identità e alla giusta, ragionevole, misurata, colta, preparata rappresentanza di questa identità. Vanno bene le proposte di riforma del sistema che stanno circolando, ma serve un percorso culturale capace di portare alla luce quanto siano povere le micro-ambizioni di potere e quanto sia importante il principio secondo il quale i magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni».

Luca Palamara, Nicola Porro: "Espulsione Anm? Chi se ne frega, conta il Csm. Fanno i fenomeni ma i favori li prendevano". Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Nicola Porro nella sua Zuppa quotidiana non si esime dal commentare gli ultimi sviluppi del caso Luca Palamara. Il pm romano è stato espulso dall’Anm, diventando il primo ex presidente della storia ad essere cacciato dal sindacato delle toghe. “E chi se ne frega?”, è la provocazione del giornalista di Rete4: “Capisco che da ex presidente essere espulso è una macchia, ma dal punto di vista sostanziale vale zero. Questo oggi non lo leggo su nessun giornale, il punto è che deve essere espulso dai magistrati, non dai sindacati”. Probabilmente però il Csm non affronterà il caso fino a quando non terminerà il procedimento penale: “Intanto Palamara si vende come capro espiatorio - sottolinea Porro - oggi sui giornali fa i nomi dei probiviri che lo hanno mandato via. Magistrati che fanno i fenomeni e lo attaccano, ma che avevano usato lo stesso meccanismo. Su questo sono dalla parte di Palamara, in Italia è sempre così: i moralisti di oggi sono quelli che ieri prendevano i favori”. Porro però ricorda un dettaglio fondamentale, che non va mai trascurato: “Palamara era al vertice di questo sistema delle correnti, ha fatto le battaglie contro Berlusconi e Salvini. Non era uno dei tanti, ma il capo assoluto di questa situazione”. 

Luca Palamara, Renato Farina e la scomoda verità: "Come un reprobo da sacrificare a buon nome della categoria". Renato Farina Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Con una colonna sonora di sonagli e campanellini per festeggiare la ritrovata purezza, l'Associazione nazionale magistrati (Anm) ha espulso per "gravi e reiterate violazioni del codice etico" il pm Luca Palamara. A deciderlo è stato il direttivo, cioè la crème del sindacato unico delle toghe. Quanto accaduto è sembrato - a vederlo dall'esterno - una riedizione in altri ambiti di una seduta persino un tantino più dignitosa: quella del Gran Consiglio di un certo 25 luglio 1943. E così ieri, gli alti papaveri per preservare le proprie prerogative e giustificarsi davanti al popolo hanno liquidato (usiamo un diminutivo-vezzeggiativo per ragioni di proporzioni storiche) il ducetto del consesso di cui il reprobo era stato osannato presidente. Altri, in riferimento a quanto accaduto, hanno già usato l'immagine del capro espiatorio. Francesco Cossiga avrebbe parlato piuttosto - per assonanza del cognome e per una impressionante somiglianza dello sguardo - di tonno espiatorio, ma siamo lì: comunque lo si chiami è stato un rito decrepito e indecentemente tirannico. Il direttorio o direttivo o comitato centrale, non ci ricordiamo come si chiama, ma ci viene bene usare l'appellativo sovietico, ha infatti deliberato senza ascoltare l'accusato. Condanna in contumacia. Il socio degenere ha cercato di farsi ammettere mentre il politburo era riunito nel Palazzaccio. Non l'hanno fatto entrare. Galileo poté ribattere all'Inquisizione: "Eppur si muove". Palamara - e il genio pisano ci scusi dell'accostamento - non ha potuto neppure alzare davanti agli accusatori i cospicui sopraccigli! Dicono che così recita il regolamento dell'Anm, e che Palamara semmai avrebbe potuto farsi interrogare e difendersi prima, davanti ai probiviri. Accidenti che finezza spirituale, che adesione specchiata alla sostanza del diritto. Siamo sarcastici? Diciamo che non siamo sorpresi da questi metodi, che evidentemente albergano nel profondo dell'ordine giudiziario italiano. Siamo alla cavillosità propria di chi a tutti i costi vuole impedire che l'incolpato vuoti il suo sacco in testa a chi non ha alcuna voglia di farsi sporcare la parrucca immacolata. Se avessero potuto, riteniamo che avrebbero fucilato Palamara a Dongo. Non abbiamo nessuna intenzione di difendere Palamara nel merito. Ha cercato di influenzare (e non da solo!) il corso della giustizia quando nel mirino c'era Salvini, spingendo il procuratore di Agrigento a mettere sotto accusa l'allora ministro dell'Interno per sequestro di persona. Per il resto ci viene da dire un mozartiano "così fan tutte" le toghe entrate nell'orbita del pianeta Palamara come satelliti o meteoriti. La gerarchia dei valori vede sul podio: al primo posto, la carriera mia; al secondo, la soddisfazione di mettere i piedi sulla giugulare dei colleghi; al terzo, un biglietto allo stadio per sé e i propri parenti. Orribile. Logico fosse preferibile per il bene della causa che il nuovi capi dell'Anm non dessero occasione a Sansone di perire con tutti i filistei. I filistei ci tengono a tener su il loro tempio, anche se sputtanato e sconsacrato. Ma il diritto alla difesa dovrebbe essere sacro persino durante i regolamenti di conti dei pescecani. Non abbiamo letto la milionata di intercettazioni che sono confluite nei verbali. Esse sono state raccolte grazie a un metodo che non tutela gli estranei all'indagine: il Trojan è come un missile che ammazza la reputazione delle persone nel raggio di un chilometro intorno al destinatario del procedimento di intercettazione; è un erpice che strappa i segreti a chiunque si aggiri intorno all'indagato, senza riguardo di strappare le mutande a chi passi da quelle parti per caso. In Italia funziona così. E la politica ha fornito quest'arma di distruzione di massa alle Procure. Per ironia della storia, la magistratura è cascata nella sua stessa rete. Per catturare un pesce grosso della medesima razza togata ha disvelato un mondo che il presidente Mattarella ha duramente censurato. Ascoltando Palamara in ogni istante della sua vita (meno quando si è intrattenuto con pesci grossi almeno come lui, cioè Davigo e Pignatone, perché in quel caso il Trojan ha fatto cilecca, misteri della scienza e della tecnica) si è potuto capire come funzionino le carriere dei magistrati, di come i più astuti tra costoro cerchino di aggrapparsi alla toga del capo corrente come un bambino con la sottana della mamma per fregare l'amichetto cattivo. Palamara era il Dominus da cui tutti passavano, a cui centinaia di magistrati si rivolgevano per sorpassare un collega magari bravo ma senza meriti correntizi, o addirittura da far fuori perché non abbastanza nemico del centrodestra. L'espulso di ieri era, nel novero della magistratura organizzata, il ras della fazione considerata di centro-sinistra o moderata. Come tale, essendo quella corrente assai forte e flessibile, Palamara è diventato prima presidente dell'Anm e quindi eletto nel Consiglio superiore della magistratura. Com' è salito a quei vertici? Grazie a quali metodi? Di certo non è la pecora nera circondata da velli nivei di agnelli da latte. Le intercettazioni - quelle che almeno sono state pubblicate sui quotidiani e sui siti internet - non rivelano la bassa etica di un singolo magistrato: lui. Esse manifestano l'esistenza di un sistema. Palamara, oggi trattato come un cane morto dai colleghi che prima lo aizzavano a mordere i loro rivali per un posto a Torino o a Palermo, era il mozzo di una ruota. Il mozzo funziona se ci sono i raggi che lo congiungono al cerchio. E che convergenza di intenzioni e di meccanismi tra il mozzo e i raggi così da far girare la ruota e far muovere la bicicletta. Non è marcio il mozzo e basta. Bisogna cambiare la ruota. Revisionare la bicicletta. Ma la bicicletta non può riformarsi da sé. In democrazia se un potere è marcio, toccherebbe al popolo sovrano. attraverso il Parlamento, provare a risanarlo. Ma con questo Parlamento è impossibile.

«Siamo a un punto di non ritorno». Il pg di Cassazione Salvi chiede il processo disciplinare per 10 magistrati. Il Dubbio il 25 giugno 2020.Il pg Giovanni Salvi, annuncia di aver ha chiesto il processo al disciplinare del Csm per 10 magistrati, per l’incontro avvenuto in un albergo di Roma in cui si discuteva di nomine. La Procura generale della Corte di Cassazione ha concluso la prima fase dell’istruttoria disciplinare a carico dei magistrati coinvolti nel caso Palamara e ha chiesto il processo alla sezione disciplinare del Csm per 10 magistrati, relativamente all’incontro avvenuto in un albergo di Roma in cui si discuteva di nomine ai vertici delle principali procure italiane. Ada annunciarlo, in conferenza stampa, il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. Il giudizio disciplinare è stato chiesto oltre che per Luca Palamara, per i 5 ex togati del Csm dimissionari lo scorso anno, Antonio Lepre, Luigi Spina, Corrado Cartoni, Gianluigi Morlini e Paolo Criscuoli, Cosimo Ferri, l’ex pm romano Stefano Fava, l’ex pm della Dna Cesare Sirignano più due magistrati segretari del Csm, per uno dei quali la richiesta di giudizio disciplinare era già stata avanzata. «Un’interferenza nell’esercizio dell’attività del Consiglio». Questa l’incolpazione che la procura generale della Cassazione ha ritenuto sussistente chiedendo il processo disciplinare in relazione alla riunione all’hotel Champagne in cui si parlava di nomine ai vertici di uffici giudiziari, come emerso dagli atti dell’inchiesta di Perugia. «L’elemento differenziale sta nel fatto che le scelte venivano esposte in relazione a condotte o richieste o tenute rispetto a posizioni processuali, per favorire uno o danneggiare l’altro», spiega il procuratore generale. «Ciò che è successo è irreversibile, ciò che è emerso ha segnato un punto di non ritorno. L’impatto di queste vicende è pessimo ma ora si stanno facendo passi avanti importanti al Csm e all’opinione pubblica direi di guardare con fiducia. C’è stato un grave colpo alla credibilità, e abbiamo tutti desiderio di dimostrare che vogliamo cambiare pagina». Negli atti depositati nell’ambito dell’inchiesta di Perugia  «ci sono conversazioni che riguardano anche alcuni consiglieri, ma dobbiamo fare un lavoro completo, valutare le diverse condotte». Perché quello  della Procura generale è un lavoro incentrato sulla «assoluta correttezza e trasparenza». Salvi parla di «assoluta riservatezza, non per ciurlare nel manico, ma per rispettare le regole» e assicura che non sarà fatto un «calderone» e che per gli incolpati «ci sarà la più ampia possibilità di difendersi». «Faremo il nostro lavoro con serietà, nessun coperchio sopra», seguendo «criteri chiari e trasparenti, che saranno resi pubblici assieme alla conclusione dell’istruttoria». Ma il vaglio della Procura generale sulle chat contenute agli atti dell’inchiesta di Perugia, estrapolate dal telefono di Luca Palamara, è ancora in corso, fa sapere Salvi. Che poi aggiunge: «Su nomi e numeri non è possibile fare anticipazioni ora e nemmeno tra qualche giorno, il lavoro deve essere completato e non ci può essere alcuna comunicazione prima che la persona eventualmente incolpata non ne abbia avuto la legittima conoscenza».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 26 giugno 2020. Sono dieci i magistrati per i quali la procura generale della Cassazione chiederà provvedimenti alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Chi si aspettava grandi nomi, ieri, è rimasto deluso. In una conferenza stampa, voluta dal procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi, indetta alla Suprema corte, sono stati indicati i soliti noti. Togati, come lo stesso Luca Palamara, espulso dall'Anm, indagato per corruzione a Perugia, e i 5 consiglieri del Csm che si erano già dimessi Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre, dopo la scoperta del famoso incontro all'hotel Champagne dell'otto maggio del 2019 in cui si sarebbe tramato, con il deputato Luca Lotti, per la nomina del procuratore capo a Roma. Richiesta di azione disciplinare anche per il deputato, magistrato in aspettativa, di Italia Viva Cosimo Maria Ferri per il quale la procura generale ha chiesto al Csm l'autorizzazione alla Camera per l'utilizzo delle sue intercettazioni. Anche lui era presente allo Champagne. Accuse per le quali rischiano anche «le sanzioni più gravi», come dice in conferenza stampa Giovanni Salvi. Si tratta di una «vicenda di particolare gravità»; quello che è successo «ha segnato un punto di non ritorno» e l'impatto sull'opinione pubblica «è stato pessimo». Perché nomine fatte «sulla base dell'orientamento di corrente» rappresentano una «violazione grave delle funzioni del Csm». Occorre però ora avere «fiducia: il Csm sta compiendo dei passi avanti. Proprio perché è così grave il colpo che ognuno di noi ha subito nella sua credibilità, abbiamo forte il desiderio di mostrare che siamo in grado di voltare pagina», assicura il Pg. In tutto sono 10 le toghe finite a giudizio disciplinare. Le altre quattro hanno posizione «di contorno» a quella vicenda : sono l'ex pm Stefano Fava e Cesare Sirignano (il primo adesso giudice civile e il secondo trasferito d'ufficio per incompatibilità dal Csm ) e due magistrati segretari di Palazzo dei marescialli, questi ultimi con un ruolo minore. E a breve, «certamente prima delle ferie estive», potrebbero essere formalizzate altre azioni disciplinari. L'attesa riguarda i nomi futuri passibili di sanzioni in seguito alla discovery dei messaggi risalenti al 2017 e 2018 che sono state estrapolate dallo smartphone di Palmara. «Non posso anticipare niente, nemmeno tra qualche giorno, perché il lavoro va completato e perché non vogliamo dare comunicazioni prima che le persone eventualmente incolpate abbiano avuto legittima conoscenza attraverso il provvedimento che dovremo notificare», afferma Salvi. Tuttavia il difensore domiciliatario del magistrato Fava ha saputo della richiesta di udienza disciplinare ascoltando via radio la diretta della conferenza stampa. Solo dopo alcune ore è stato consegnato l'atto ufficiale. Al suo fianco ci sono il procuratore aggiunto Luigi Salvato e l'avvocato generale Pietro Gaeta, asse portante della task force, forte di 3 sostituti, istituita un mese fa proprio per valutare la montagna di materiale arrivato dalla procura di Perugia. «È stato un lavoro molto impegnativo, non tanto per la mole di documenti (il contenuto delle chat in larga parte è di carattere privato e non ha nulla a che vedere con possibili ipotesi disciplinari), ma perché sono di difficile lettura per chi non conosce le vicende - spiega Salvi- Per questo è stato necessario elaborare dei criteri di valutazione, che saranno resi pubblici sul nostro sito, quando sarà possibile comunicare l'esito dei nostri lavori». Il tutto in un'ottica di «trasparenza» per l'opinione pubblica e «correttezza» per le persone coinvolte. Tra le chat alcune sono di consiglieri del Csm in carica, ma è presto per dire come finirà. «Lavoreremo con molta serietà e determinazione», conclude. «L'udienza disciplinare sarà il luogo in cui chiarire i fatti e la vicenda», ha affermato ieri Palamara, che ha aggiunto: ero «visto come un punto di riferimento, una persona a cui chiedere consigli», una «sorta di sfogatoio». E infine: «negare che nel rapporto tra politica e magistratura ci siano criticità significherebbe negare la realtà».

Magistratopoli, finisce tutto a tarallucci e vino: solo 10 imputati su 1.000 coinvolti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Giugno 2020. Magistratopoli si avvia alla conclusione. Il Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, cioè il magistrato più in alto nella gerarchia della giustizia, ha annunciato che saranno presi provvedimenti molto severi nei confronti delle toghe che sono state coinvolte nello scandalo. Cioè – uno potrebbe immaginare – nei confronti di un migliaio almeno di magistrati che hanno ottenuto, o chiesto, nomine, spostamenti, favori, prebende, benefit e altro. Giusto? O che hanno scambiato amicizia, intimità, frequentazione con la controparte (cioè i Pm coi giudici e viceversa, magari Pm e giudici dello stesso processo). Giusto? O che hanno usato l’Anm come strumento di potere, o di alleanze, o di strategie. E che forse hanno determinato, di conseguenza, sentenze o rinvii a giudizio non sulla base delle prove e degli indizi ma delle convenienze politiche o di potere, o dei teoremi. Giusto? Beh, i provvedimenti chiesti da Salvi, non sono mille. Sono 10. Riguardano semplicemente quella cena in hotel con Luca Lotti che fu intercettata illegalmente dai Finanzieri romani. Punto. Magistratopoli si chiude qui. Aspettiamo ora di vedere se il Csm accoglierà o no le richieste di Salvi, se si accanirà come richiesto, il più fortemente possibile, sul capro espiatorio designato e sui suoi fratellini (parlo di Palamara, che è stato accusato ingiustamente di corruzione e poi, prosciolto, messo in croce per le sue manovre, allo scopo di farlo pagare per tutti) e se con un gigantesco colpo di spugna chiuderà il caso. Magistratopoli ci ha dimostrato una cosa semplicissima: che in gran parte il funzionamento della magistratura era illegale. È illegale. Non risponde alle leggi ma al potere. E i magistrati – in una percentuale da stabilire, ma di sicuro non piccolissima – non sono leali alla Costituzione (come Mattarella ha esortato a fare) ma alla propria corrente o al proprio capo corrente. Ieri, in una intervista al nostro giornale, Luca Palamara ha spiegato come nacque e come funziona il partito dei Pm. Lo ha detto lui: partito dei Pm. E ha detto “come funziona”, all’indicativo presente, perché è ancora in buona salute quel partito, molto più dei partiti che boccheggiano in Parlamento. Luca Palamara ci ha spiegato, in parole povere, che il sistema giustizia, in Italia, vive nell’illegalità. Molti di noi lo sapevano già da parecchio tempo. Noi usiamo la formula “partito dei Pm”, beccandoci insulti vari, da molti anni. Chiunque fosse in buonafede (quindi non la stragrande maggioranza dei giornalisti giudiziari) sapeva benissimo come funzionavano le cose. Ora nessuno più può far finta di non saperlo. E la reazione qual è? “Se la veda la magistratura”. È un suicidio questo. Non è ammissibile l’idea che la magistratura risolva da se stessa il problema della sua non-credibilità e della situazione di evidente illegalità (a me viene da parlare di eversione) nella quale vive. Non può il Parlamento restare lì a guardare. Si sono formate commissioni di inchiesta, in passato, per fatti infinitamente meno gravi. Questo scandalo è gravissimo, e mette in discussione anni e anni di processi e di sentenze, probabilmente in buona parte teleguidati e ingiusti. È inaudito che non si formi subito una commissione d’inchiesta, che non si azzerino gli incarichi, che non si riduca ai minimi termini il potere delle toghe nel Csm, che non si separino le carriere, che non si azzeri la situazione di illegalità attraverso una amnistia. Sarebbe bello, davvero, se fosse proprio la magistratura, in uno scatto di orgoglio, a chiedere queste cose. Per salvare il suo onore. Per rinascere. La magistratura, se è una cosa seria, deve pretendere che sia una autorità esterna a giudicare, deve rinunciare a giudicarsi da sola. Nessuno può giudicarsi da solo in uno stato di diritto. P.S. se un pentito ha delle cose da dire, sa che fare: va in Procura e parla. Possibile che Palamara da mesi vada dicendo che lui ha tante cose da dire e nessuno vuole ascoltarlo? Lo abbiamo intervistato noi del Riformista, è stato facile. In commissione Antimafia stanno ascoltando mezzo mondo per risolvere gli insulti di Di Matteo a Palamara. E sul gorgo di fango che sta travolgendo la magistratura nessuno ha voglia di sentire i testimoni? Non ditemi che esagero se parlo di regime… 

Carlo Nordio sul caso Palamara: "Un mercato delle vacche collaudatissimo, tutti sapevano. Farà i nomi? Bene" Libero Quotidiano il 25 giugno 2020. "Contiguità politiche, lottizzazioni, accordi tra correnti... Quello che oggi molti autorevoli commentatori definiscono verminaio, mercato delle vacche o sistema mafioso era collaudatissimo, e noto a tutti noi. Alcuni lo hanno denunciato, altri no. Ma tutti sapevamo", Lo ammette Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia. Il magistrato boccia però l'espulsione di Luca Palamara dall'Anm: "Un procedimento stalinista, non gli hanno neppure consentito di parlare. Il vero scandalo poi è che Palamara parlando con un altro pubblico ministero ha convenuto che l'allora ministro dell'interno Matteo Salvini fosse innocente, ma che bisognava attaccarlo. E questo è un peccato mortale per una toga. Nessuno più crederà alla nostra indipendenza", sottolinea in una intervista a Italia Oggi. Nordio poi svela che la logica delle correnti nella magistratura è micidiale: "Personalmente, nonostante all’interno dell Anm avessi molti avversari per le mie idee eretiche, nessuno ha mai cercato di condizionare le mie inchieste, che pure hanno coinvolto, come nel recente caso del Mose, importanti esponenti di destra e di sinistra. Ma se ambisci ai posti cosiddetti apicali la logica correntizia è ferrea. Se si libera una Procura o una Presidenza importante bisogna aspettare che se ne liberino altre tre o quattro. Cosi ogni corrente manda il meglio che ha, e avviene la spartizione. Se poi l'Ufficio è strategico, allora la lotta diventa più cruenta. Ma in genere i candidati sono tutti degni della carica.".Infine chiarisce un particolare sempre sul caso Palamara: "Quando un anno fa scoppiò lo scandalo scrissi in un editoriale che auspicavo che Palamara vuotasse il sacco subito. È un peccato che cominci a fare i nomi solo ora dopo l’espulsione, perché sembra una rappresaglia. Ma i nomi credo li farà, e sarà un bene, perché conosce contiguità politiche e lottizzazioni". Nordio boccia anche la riforma del Csm del ministro Bonafede:  "Peggio del sistema attuale. Le correnti si spartiranno i collegi elettorali in anticipo, faranno accordi di desistenza, insomma si organizzeranno come fecero i partiti nel '94 con l'introduzione dell'uninominale".

«Pochi i giudici a non ottenere benefici da intese tra correnti». Valentina Stella su Il Dubbio il 26 giugno 2020. Cricenti, consigliere della Cassazione: «È un fenomeno diffuso in tutta la magistratura. Palamara doveva essere sentito dall’Anm. Separare le carriere? Sarebbe una misura di garanzia». Non usa mezzi termini per censurare alcuni comportamenti della magistratura e per criticare il suo attuale assetto ordinamentale. Giuseppe Cricenti, magistrato, consigliere della Suprema corte di Cassazione, commenta duramente il caso Csm aperto un anno fa dall’indagine di Perugia su Luca Palamara e altri colleghi.

Consigliere Cricenti si aspettava che sul ruolo delle correnti emergessero elementi così pesanti?

«La realtà non è emersa nella sua vera gravità: si cerca di accreditare l’idea che si tratti di un fenomeno di malcostume di alcuni magistrati o di alcuni gruppi. Invece, è diffuso in tutta la magistratura e sono pochi quelli che possono dirsene esenti o che nel corso della loro carriera non hanno tratto beneficio da un qualche accordo di corrente. Come spesso accade in questi frangenti, allignano moralisti senza morale, che dopo avere partecipato al sistema se ne tirano fuori e additano gli altri».

Le correnti andrebbero sciolte?

«Sono, in astratto, espressione della libertà di associazione, e sarebbe come limitare quest’ultima. Ma non si può negare che si tratta di associazioni dal ruolo oramai anomalo: un organo a rilevanza costituzionale come il Csm è condizionato da associazioni private e non c’è delibera che non risponda a un interesse correntizio. Alcuni di quelli che hanno beneficiato del sistema, anche oggi, ripetono che le correnti erano sorte come fucine di pensiero, luoghi attenti allo sviluppo culturale della magistratura e che solo di recente sono degenerate in sistemi di spartizione degli incarichi. Ma è una mistificazione: precisino allora quale modello culturale hanno visto nascere e coltivare a iniziativa delle correnti. E soprattutto dimostrino che gli adepti di ciascuna corrente hanno adeguato i loro comportamenti alla dottrina di quelle fucine di pensiero».

Al di là delle prerogative statutarie, Palamara andava sentito sabato nel direttivo dell’Anm?

«Andava sentito, certo. È una regola a priori, diremmo, di ogni procedimento sanzionatorio che chi è accusato debba avere la possibilità di dichiarare le sue ragioni».

Il presidente dell’Anm Luca Poniz, in una intervista a questo giornale, ha detto che “la carriera ha fuorviato alcuni magistrati” ma che vanno accantonate le “ipocrisie della politica”, a proposito, per esempio, della scelta dei magistrati nei ministeri.

«Ai magistrati le correnti hanno offerto un certo modello di carriera, fondato sul sostegno del gruppo, piuttosto che sul merito, requisito ritenuto, se non dannoso, perlomeno inutile; hanno imposto l’idea che studiare è un’applicazione del tutto superflua, poiché basta avere amicizie in un gruppo influente. I magistrati si sono adeguati. Dunque, non è la prospettiva di carriera ad aver fuorviato i magistrati. Detto questo, la politica ha poche colpe, se si allude alla scelta dei collaboratori nei ministeri, i quali sono piuttosto indicati dalle correnti che scelti dal ministro per simpatie politiche. A ogni cambio di ministro c’è tendenzialmente un cambio di corrente. Basti verificare a quale corrente, ad esempio, appartengono i diretti collaboratori dell’attuale ministro».

Sabino Cassese ha definito le Procure un “quarto potere” indipendente dalla magistratura stessa.

«È vero. Intanto, a fronte della formale obbligatorietà dell’azione penale, di fatto le Procure scelgono, a volte per fondate ragioni pratiche, a quali notizie di reato dare precedenza e questa scelta è di natura “politica”, incide sugli interessi della collettività e sugli stessi rapporti sociali, lasciando di fatto impuniti determinati fatti illeciti, perseguendone altri. Ed è questa un’azione che sfugge al controllo istituzionale, nella quale le Procure operano con una certa discrezionalità. C’è poi da considerare il ruolo sociale assunto dai pm negli ultimi anni, che è di maggior visibilità e di maggior contatto con l’opinione pubblica: mai visto un giudice delle locazioni diventare il beniamino di una certa quota di popolazione. Fino ad ora, né il Csm né l’Anm hanno assunto decisioni chiare sulla caratterizzazione “populista” che le Procure rischiano di avere: alcuni pm si fanno interpreti delle attese del popolo e in questo modo acquistano un potere che sfugge al controllo della stessa magistratura».

Quale è il suo giudizio in merito alla separazione delle carriere?

«La separazione delle carriere è in primo luogo una misura di garanzia e di adeguatezza istituzionale: di garanzia in quanto la terzietà del giudice passa anche attraverso l’appartenenza di questi a un ordine diverso da quello della parte pubblica. Spesso si denuncia l’“appiattimento” del gip/ gup sulle richieste del pubblico ministero: è in gran parte vero. Ed è un esito di certo condizionato dalla contiguità che l’appartenenza ad un medesimo ordine favorisce. È una misura di adeguatezza istituzionale, anche, nel senso che si tratta di due mestieri diversi e di due ruoli istituzionali diversi. Si obietta che separando i Pm dall’ordine giudiziario si finisca con assoggettarli al potere esecutivo. È ovviamente un’obiezione incongruente: nulla vieta di creare un ordine distinto, con distinto organo di autogoverno».

Cosa ne pensa delle allusioni sul Csm fatte trapelare da De Magistris nella trasmissione di Giletti?

«Il solito argomentare per illazioni: siccome nel collegio della disciplinare c’era il tale che però è anche citato nelle intercettazioni, allora vuol dire che la decisione disciplinare è viziata. Oppure peggio: siccome il tale da me indagato, e poi però assolto, è stato arrestato per altri fatti allora anche la mia indagine era fondata. Da un punto di vista giuridico nessuno si fa suggestionare da queste illazioni, tanto è vero che le sentenze di assoluzione a favore degli indagati di quell’ex pm non saranno di certo messe in discussione, ma l’illazione non è uno strumento retorico innocuo: condiziona i sistemi simbolici di cui fruisce l’opinione pubblica e mina la fiducia nei giudicati».

Il consigliere Csm Sebastiano Ardita, commentando la scarcerazione di Carminati, ha detto che i cittadini non capiranno e occorre una riforma per rendere più semplice il sistema penale. Non le sembra un discorso populista?

«Le procedure italiane, ormai da qualche decennio, producono decisioni formalmente corrette, ma che per l’opinione pubblica risultano assurde e ciò a prescindere da come vengono divulgate. Da un punto di vista teorico, il tema è complesso: appartiene alla tradizione liberale l’idea che la garanzia stia nella forma e non nel contenuto della regola, ma il problema è l’idea distorta che si ha proprio della forma. Da un punto di vista della politica del diritto, è vero che ci sono settori della magistratura inclini a pensare che la giustizia coincida con l’accusa e che basti quest’ultima per fare dell’accusato un colpevole. In questa strategia v’è il sostegno di buona parte dell’informazione. Sicuramente è una forma di populismo giudiziario, ossia di quel modo ritenuto più semplice perché un magistrato possa assumere le vesti di interprete delle esigenze e degli interessi del popolo: quest’ultimo vuole giustizia dei corrotti e dei mafiosi? La semplice accusa soddisfa quel bisogno».

Andrea Reale: «Gruppi di potere privati, le correnti, hanno in pugno la casa di noi magistrati». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 26 giugno 2020. «Il Csm è un organo di garanzia per tutte le toghe, ma chi non fa parte delle correnti abusivamente istituite in Plenum non è tutelato. Abbiamo creato un blog, pronti alla scissione dall’Anm». «Gli estremi per i procedimenti disciplinari ci sono tutti. Mi auguro che vengano istruiti e portati a compimento», dichiara Andrea Reale, gip al Tribunale di Ragusa, fra i promotori del blog toghe.blogspot.com, una piattaforma nata per evidenziare i mali del correntismo in magistratura, commentando le chat dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara.

Dottor Reale, è rimasto sorpreso dalla lettura delle chat? Erano tantissimi i suoi colleghi che si rivolgevano a Palamara per una nomina o un incarico.

«Per nulla. Sono anni che denunciamo, ovviamente inascoltati, queste condotte».

Pensa che oltre al disciplinare ci possano essere anche degli aspetti di rilevanza penale?

«Mi rendo conto che denunciare fatti penalmente rilevanti è complicato e non è facile capire chi poi dovrebbe indagare. Ma comunque penso di si.

Chi è stato indicato per un incarico direttivo in base a queste logiche cosa dovrebbe fare?

«Queste nomine devono essere tutte annullate. C’è un vizio di legittimità dell’atto: violazione di legge o eccesso di potere, se non entrambi. E poi serve massima attenzione alle nomine effettuate “a pacchetto”, tipo la Procura generale della Cassazione o il Massimario».

Spieghiamo per chi non è un magistrato cosa è il “pacchetto”.

«Il Csm aspetta che ci siano un certo numero di posti vacanti in quegli uffici e poi li mette a concorso tutt’insieme. In questo modo i posti vengono assegnati in base ai rapporti di forza fra le correnti».

Il pg della Cassazione Giovanni Salvi ha messo in campo una task force per analizzare le chat.

«Spero che chi sia preposto a tale compito sia avulso da queste dinamiche».

È trascorso oltre un anno da quando lo scandalo Palamara è esploso. È cambiato qualcosa al Csm?

«Nulla. L’ultimo esempio di resilienza è stata la nomina del neoprocuratore di Perugia, votato in maniera compatta dal gruppo di Area, nonostante gli anni trascorsi fuori ruolo, oltre che da tutta la componente laica».

Con alcuni suoi colleghi avevate chiesto lo scioglimento del Csm.

«Era, ed è, l’unica soluzione. Mi rendo conto che possa sembrare imbarazzante per il presidente del Csm, che è il capo dello Stato, ma non penso sia possibile al punto in cui siamo procedere in maniera diversa».

Perché?

«Io, e tanti come me che non sono iscritti a nessuna corrente, abbiamo ormai contezza che questo Csm non è imparziale e trasparente nel suo funzionamento. E le correnti hanno, dopo l’elezione dei componenti togati, costituito abusivamente e, a mio parere, in modo incostituzionale, i cosiddetti gruppi consiliari. Chi non aderisce ad alcuno di essi non può contare sull’organo di garanzia nato a tutela di ciascun magistrato, soprattutto di chi orgogliosamente non intende "appartenere"».

Parole forti.

«Il problema sono i gruppi dentro il Csm. Deve trovarsi un modo, immediato, per tagliare fuori le correnti dal Csm. Sono associazioni di carattere privato che si sono impossessate del Csm. Ed io, ripeto, che non sono iscritto ad alcuna di loro, non sento tutelata la mia autonomia ed indipendenza. Io pretendo che il Csm sia diverso. L’ha ricordato recentemente anche il Capo dello Stato quando ha affermato che si “impone, in modo categorico, che si prescinda dai legami personali, politici o delle rispettive aggregazioni, in vista del dovere di governare l’organizzazione della Magistratura nell’interesse generale”».

Visto che lo scioglimento del Csm e delle correnti non è fattibile, cosa si potrebbe fare?

«Subito il sorteggio per l’elezione del Csm.

Sul sorteggio i suoi colleghi sono contrari.

«Certo che chi oggi ha in mano il Csm e l’Anm è contrario. É ovvio».

Stanno girando diverse proposte.

«Le ho studiate tutte. Ho letto recentemente quella presentata da Area, il cartello progressista. Sono tutti palliativi che non servono assolutamente a nulla. Maggioritario, proporzionale, doppio turno, sono tutte riforme gattopardesche che permetteranno alle correnti di spadroneggiare come fanno ora».

Comunque il dibattito c’è.

«Il dibattito interno, sulle mailing list della magistratura, non ha mai dato frutti. Ora abbiamo questo blog per cercare solidarietà all’esterno. Un’apertura alla società civile: giuristi, accademici, avvocati, giornalisti. Sta dando grandi soddisfazioni. Se pensa che anche un ex presidente della Corte costituzionale si è detto favorevole al sistema del sorteggio».

Torniamo all’Anm: Palamara è stato espulso la scorsa settimana.

«Non avrebbero dovuto pronunciarsi; erano tutti in una situazione di grave conflitto di interessi. Sono stati tutti a contatto con Palamara. Ad iniziare da quelli del suo gruppo che gli hanno votato contro. E poi con quale autorevolezza dopo quello che è successo è stato possibile prendere una decisione del genere?»

Palamara voleva essere sentito ma gli è stato vietato.

«Ecco, infatti. Lo statuto non dice nulla al riguardo. Ma in decine di altri casi esso non è stato rispettato dagli organi esecutivi dell’Anm: penso in materia di convocazione di assemblee generali, o di pubblicità dei bilanci, o di votazioni segrete per la designazione della giunta esecutiva centrale».

Le nuove elezioni per il rinnovo dell’Anm sono fissate a fine anno.

«Ma non servono a nulla. Alcuni, nell’uscente Comitato direttivo centrale, sostengono addirittura che le liste siano chiuse. Io non condivido. In compenso l’alternativa sarebbe da subito costituire un, altra associazione ovvero procedere a una scissione di quella esistente».

Un giudizio sull’Anm di cui lei ha fatto anche parte anni addietro?

«Assolutamente deludente e incapace di una efficace azione sindacale e istituzionale».

Insomma, è scettico sul cambiamento?

«Dall’interno della magistratura il cambiamento è alquanto improbabile. Dall’esterno forse è più verosimile, ma è difficile».

Il processo disciplinare. Magistratopoli, ecco i capri espiatori di Salvi: 10 espulsi (tra cui Palamara) per ripartire. Paolo Comi su Il Riformista il 26 Giugno 2020. Si profila “l’espulsione” dalla magistratura, tecnicamente si tratta della “rimozione dall’ordine giudiziario”, per tutti i partecipanti all’incontro avvenuto la sera dell’8 maggio del 2019 all’hotel Champagne di Roma. Questi i nomi delle toghe coinvolte: l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, gli ex consiglieri del Csm Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre, e Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa e attualmente deputato di Italia viva. Durante il dopo cena, alla presenza di Luca Lotti (Pd), i sette magistrati discussero di alcune nomine di importanti uffici giudiziari, in particolare del futuro capo della Procura di Roma.  Colloqui che configurano una «condotta scorretta nei confronti dei colleghi che correvano per la Procura di piazzale Clodio» e «interferenza nell’esercizio degli organi costituzionali, per l’offensività delle condotte tenute». Espulsione in vista anche per Stefano Fava e Cesare Sirignano. Il primo, ex pm a Roma, autore di un esposto contro l’allora procuratore Giuseppe Pignatone, il secondo, ex sostituto alla Direzione nazionale antimafia, interlocutore privilegiato di Palamara in materia di nomine. Nel disciplinare sono coinvolti anche due magistrati segretari del Csm, ma le loro posizioni non sono state ritenute particolarmente gravi. Non dovrebbero, quindi, perdere il posto di lavoro. Il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, pressato da giorni, ha deciso di dare un segnale forte.  Per la prima volta ieri è stata indetta una conferenza stampa sul tema “delle azioni disciplinari”. Una decisione assolutamente irrituale – le azioni disciplinari nei confronti dei magistrati sono decine ogni mese – che ben descrive il clima che sta attraversando la magistratura italiana. Un clima pesante le cui avvisaglie si sono avute la scorsa settimana con l’espulsione di Luca Palamara dall’Anm. Gli osservatori di piazza Cavour leggono nell’iniziativa di Salvi la volontà di “tranquillizzare” la pubblica opinione che le condanne ci saranno e, al contempo, di mandare un avviso ai “naviganti” delle Procure di smettere con le chat per cercare sponsorizzazioni. È stato lo stesso Salvi ad affermare che questa vicenda «ha segnato un punto di non ritorno, quello che è successo è irreversibile: l’impatto sull’opinione pubblica è stato pessimo ma proprio per questo c’è un gran desiderio di voltare pagina». Il rischio, ora, è che questi magistrati paghino per tutti. Complice l’estate, il Covid-19, la memoria corta, lo scandalo che ha travolto il Csm potrebbe chiudersi con il licenziamento dei magistrati che hanno avuto la “sfiga” di essere registrati dal trojan inoculato nel telefono di Palamara. Quanti sono i magistrati che si trovano in posti di prestigio e che possono giurare di non aver mai cercato “sponde” per essere nominati? Salvi, sul punto, ha anche precisato che l’esame delle chat in cui una pletora di magistrati cerca aiuto da Palamara per un incarico o una nomina è in corso. «Un lavoro impegnativo, non tanto per la mole dei documenti, perché le chat per lo più hanno un carattere privato, quindi senza ipotesi disciplinari, ma sono di difficile lettura rispetto alle vicende di cui si tratta, per cui è necessario valutare i pro e i contro», ha precisato Salvi, sottolineando «criteri chiari e trasparenti» che saranno anche pubblicati sul sito della procura generale”. Aggiunge: «Possiamo anche sbagliare, ma garantiamo la massima trasparenza sui criteri». Sul fronte dei tempi la road map è segnata. Entro l’estate verranno ultimati gli accertamenti, poi sarà il turno della Sezione disciplinare del Csm. Questi i togati che comporranno il collegio presieduto dal laico in quota M5s Fulvio Gigliotti: Piercamillo Davigo, Marco Mancinetti, Giuseppe Cascini, Paola Braggion. Ognuno di loro esponente di una delle correnti della magistratura. È probabile, però, che fra astensioni e ricusazioni il collegio possa subire modifiche. Si pensi, ad esempio, al caso di Mancinetti fra i più assidui chattatori con Palamara e legato dalla comune appartenenza ad Unicost.

Magistratopoli, il caso Cascini: lascia Md per aver chiesto un accredito a Palamara. Paolo Comi de Il Riformista il 7 Agosto 2020. Giuseppe Cascini avrebbe lasciato Magistratura democratica. La notizia, certamente inaspettata, attende solo la conferma del diretto interessato. Sulla decisione, verosimilmente, deve aver pesato la pubblicazione nelle scorse settimane della chat, intercettata nell’ambito dell’indagine di Perugia, con Luca Palamara. Nulla di penalmente rilevante ma messaggi che hanno creato grande imbarazzo nella sua corrente che della questione morale in magistratura ha sempre fatto un vanto. A finire nel mirino, la richiesta di informazioni per l’accredito del figlio nella tribuna vip dello stadio Olimpico e sull’iter del tramutamento del fratello minore Francesco, ora pm a Roma e all’epoca fuori ruolo presso il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della giustizia. All’indomani della pubblicazione della chat, Cascini aveva diffuso una nota sulle mailing list dell’Anm in cui chiariva quanto accaduto, minacciava querele per i giornali che avevano pubblicato i suoi messaggi con Palamara, e ribadiva di non aver mai chiesto favori a nessuno per se o altri. Da sempre esponente di punta della corrente di sinistra delle toghe, dal 2018 è consigliere del Csm. Classe 1965, già sposato con una collega, dal 2008 al 2012 ha condiviso con Palamara il vertice dell’Anm. Era il periodo dello scontro frontale fra politica e magistratura durante il governo Berlusconi. Nel 2014 tentò per la prima volta la candidatura al Csm. Un eccesso di fiducia nelle proprie capacità in quanto la sinistra giudiziaria aveva già due candidature importanti, quella di Fabio Napoleone, storico pm di Milano, e Antonello Ardituro, sostituto anticamorra a Napoli, poi eletti. Un “triplete” di pm di sinistra, i posti per i requirenti al Csm sono quattro, era improbabile. Esploso lo scandalo “Palamara” lo scorso anno, non ha mai rinnegato l’amicizia che lo legava all’ex ras delle nomine. In pieno Covid-19, la scorsa primavera, rilasciò un’intervista a Lucia Annunziata su Rai Tre: «Sono anni che lanciamo un grido d’allarme: questo scandalo getta un discredito sull’intera magistratura, è un problema che riguarda tutta la classe dirigente della magistratura». E poi: «Ho sempre detto che l’autogoverno rischiava di suicidarsi. Abbiamo tutti la responsabilità». Fra i motivi della degenerazione del sistema, i troppi posti apicali: «Su 9mila magistrati ci sono 1.200 dirigenti: è un esercito di generali ed eserciti così raramente vincono le guerre. Dobbiamo ridurre drasticamente il numero di dirigenti. Serve un passo indietro delle correnti rispetto alla gestione del potere. C’è una pressione enorme di parte della magistratura per acquisire incarichi direttivi». Come realizzare questi buoni propositi, però, non è dato sapere. «Le iniziative del ministro Bonafede sulla riforma del Csm vanno in una giusta direzione», aveva poi aggiunto. Pur sapendo, in cuor suo, che la legge di riforma dell’organo di autogoverno delle toghe difficilmente verrà approvata per le prossime elezioni del rinnovo del Csm. Alla presenza del capo dello Stato, nel drammatico Plenum di giugno 2019, si lanciò in un parallelismo con lo scandalo P2, quando gli allora vertici di Magistratura indipendente, la corrente più coinvolta nel Palamara gate, erano finiti negli elenchi di Castiglion Fibocchi. Confronto sopra le righe è duramente criticato da molti. Arrivato al Csm ha preso per mano il suo gruppo uscito con le ossa a pezzi dopo le elezioni del 2018, da sette consiglieri a quattro, e lo ha rilanciato. Ora le toghe progressiste sono cinque e, mai successo prima, sia il primo presidente della Cassazione che il procuratore generale di piazza Cavour sono esponenti di Md. Si è spesso scontrato con i nuovi “alleati”, i davighiani di Autonomia&indipendenza. Fra i temi divisivi il carcere e alcune nomine. Ad iniziare da quella di Raffaele Cantone che ha stracciato il candidato di Davigo, Luca Masini, per il posto di procuratore di Perugia. Da pm a Roma ha avuto buoni rapporti con Giuseppe Pignatone, condividendone i metodi d’indagine. In qualità di procuratore aggiunto ha gestito il processo ex Mafia capitale. Fra due anni tornerà in Procura a Roma dove troverà Michele Prestipino ma non Paolo Ielo, l’altro aggiunto di spicco di piazzale Clodio, in pole position per diventare il nuovo procuratore di Milano. Il primo appuntamento è previsto per ottobre per le elezioni per il rinnovo dell’Anm.

Anm, Palamara adesso rivela: "Le nomine? A cena..." La toga cacciata dall'Associazione nazionale magistrati svela come venivano assegnati gli incarichi ai colleghi. Alberto Giorgi, Venerdì 26/06/2020 su Il Giornale. Luca Palamara ancora e sempre sotto i riflettori. L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, espulso dall’organo, è sotto giudizio disciplinare – peraltro insieme a nove toghe – per l'incontro avvenuto in un hotel di Roma in cui si discuteva di nomine ai vertici delle principali procure italiane. A tal proposito, come scritto nei giorni scorsi, la procura generale della Corte di Cassazione ha concluso la prima fase dell'istruttoria disciplinare a carico dei magistrati coinvolti nel caso Palamara e procure, richiedendo il processo alla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura. Oggi Palamara, intervistato dall’Huffingtion Post, svela quello che era il meccanismo per l’assegnazione degli incarichi ai colleghi. Le nomine, dice, avvenivano a cena. "Dietro ogni nomina c’è una cena. Tante volte, però è successo che le nomine siano state negoziate prima che arrivassero nella loro sede naturale: la quinta commissione del Csm e poi il plenum", racconta candidamente all’HuffPost. "Stabilire quale magistrato mandare in un posto e quale in un altro? In questo caso i partecipanti erano esponenti e Magistratura indipendente e Unicost. Bisogna vedere cosa fanno gli altri gruppi. Presente il manuale Cencelli? (assegnazione di ruoli politici e governativi ad esponenti di vari partiti politici o correnti in proporzione al loro peso, ndr) Ecco, si applica anche alla magistratura. Si spartiscono gli incarichi in base all’appartenenza", prosegue nella chiacchierata con l’HP. "Quante cene o incontri ho fatto dal 2007 ad oggi? Vede, dietro ogni nomina ci sono cene, discussioni, accordi tra correnti. Questo deve essere chiaro: non si muove foglia che corrente non voglia". E la politica? "L’interlocuzione con la politica c’è. Io, ad esempio, quando ero presidente dell’Anm ho incontrato tanti esponenti politici. Ritenevo di dovere parlare con tutti". Questo, insomma, lo spaccato offerto da Palamara. Ma non è finita qui. L’ex presidente dell’Anm, infatti, parla anche delle nomine alla Direzione nazionale Antimafia e per l’esattezza a quella mancata a Nino Di Matteo, sostenendo che è stato penalizzato perché non apparteneva a una corrente. Infine, Palamara chiosa così: "Ci sono tanti magistrati che non hanno mai fatto parte di questo sistema. Non hanno mai usato una corrente per avere un incarico. Ed è a loro che dobbiamo chiedere scusa, oltre che a tutti i cittadini…".

Le cene segrete di Palamara, le toghe rosse e le nomine. "La Verità" pubblica nuove intercettazioni di Palamara, stavolta si parla di una cena organizzata per un pm in cerca di un ruolo prestigioso. Federico Garau, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Nuove sconcertanti rivelazioni sul pm Luca Palamara, finito al centro di una vera e propria bufera dopo la pubblicazione di alcuni suoi messaggi Whatsapp in cui si parlava del leader della Lega Matteo Salvini e della necessità di "attaccarlo". Col proseguire delle indagini, sempre più elementi stanno venendo a galla e mettendo in imbarazzo la magistratura. Il quotidiano "La Verità", il primo a lanciare la bomba con la pubblicazione delle chat, riporta oggi una nuova notizia, parlando di una cena privata a cui parteciparono non solo Palamara e l'amico Cosimo Ferri, ma anche Luigi Birritteri, rappresentante della sinistra giudiziaria all'epoca candidato per entrare a far parte della segreteria generale del Consiglio superiore della magistratura (Csm) ed oggi sostituto Procuratore generale della Corte di cassazione. Stando a quanto riferito da "La Verità", che ha riportando quanto scoperto dagli inquirenti, l'incontro fra i tre magistrati era avvenuto nella serata del 9 aprile 2019. Ad occuparsi dell'evento l'avvocato Giuseppina Rubinetti, conosciuta con il soprannome "Gippy": la cena, infatti, si svolgerà proprio a casa sua, nel quartiere dei Parioli. Il nome della donna, collaboratrice dell'ex vicepresidente del Csm Michele Vietti, era già emerso nel corso di un'altra indagine aperta dalla procura della Repubblica di Roma, spiegano gli investigatori. La cena in onore di "Gigi" (Luigi Birritteri) aveva certamente "finalità propagandistica", proseguono gli inquirenti. Ad avvalorare questa ipotesi, il contenuto di una telefonata avvenuta fra Luca Palamara e Giuseppina Rubinetti. Durante la conversazione, la Rubinetti dice di dover sentire "Gigi". Un nome che, inizialmente, non viene riconosciuto da Palamara, che chiede spiegazioni. "Birritteri non volevamo farla anche con lui?", precisa allora l'avvocato. "Gigi non l'ho sentito eh i miei", risponde allora il pm. "Ma Gigi perché non l'avevo messo nella chat? Però ti ricordi che avevamo detto facciamo una cena per Gigi?", continua la Rubinetti.

Il magistrato sembra tentennare, e replica: "Ma se tu vuoi fare per tirargli la sponda a lui e tutto quanto...". "Esatto!", conferma la Rubinetti.

"Però questo fammi parla' pure con loro... almeno li preparo pure, hai capito?", dice allora Palamara, tirando in ballo anche altre persone. "Gli vogliamo tutti bene oh", aggiunge poi.

La discussione si sposta poi sulla pm Francesca Loy, anch'ella invitata alla cena. "A che ti serve?", domanda Palamara, evidentemente poco contento di quella presenza. La Rubinetti spiega che "stanno sempre insieme loro due e lei è chiaramente molto amica sua".

In un'altra conversazione, stavolta con Cosimo Ferri, Luca Palamara si sfoga: "Gippy vuole portare la Francesca Loy con Birittieri, però quella ce vuole venì a rompere il cazzo sul segretario generale, io direi di non... che dici?".

La cena, dichiarano gli inquirenti, doveva restare riservata, ed il contenuto di una seconda telefonata avvenuta fra Palamara e Ferri in data 9 aprile avrebbe confermato la presenza di Birritteri. "Cosimino, ma stasera non parliamo davanti a Gigi eh... parliamo dopo che ti devo dire un sacco di cose", dice infatti Palamara nel corso della conversazione.

A svelare la natura degli incontri anche alcune scioccanti dichiarazioni di un'amica di Palamara, Adele Attisani. "Non dovete parlare di lavoro... dovete fare le cagate che organizzate voi", dice infatti quest'ultima, parlando al pm. Poi continua, furiosa: "Tutti voi, di questi... di quell'ambiente, capito? Tutto una porcheria, una porcheria... E la prima è quella che organizza, Gippy, che organizza per voi perché è una che cerca di farvi accoppiare, ma fate schifo... siete una categoria schifosa. E meno male che ti rendi conto di quello che fate, meno male che ti rendi conto che fate delle marchette, Gippy vi porta le donne, ciao e non mi chiamare più".

Scambi di messaggi con Luigi Birritteri, riporta "La Verità", erano avvenuti anche nel 2018, quando quest'ultimo incalzava Palamara per essere aiutato a rientrare nella Procura generale della Cassazione.

"Ogni cena una nomina". Intervista a Luca Palamara. Il magistrato espulso dall'Anm racconta il meccanismo che ha governato negli anni l’assegnazione degli incarichi alle toghe. "Sapevo che il sistema non poteva reggere per sempre così. La politica? Dice la sua, ma l'ultima parola spetta alle correnti". Federica Olivo il 26/06/2020 su huffingtonpost.it. “Dietro ogni nomina c’è una cena”. E poi un accordo e una serie di discussioni, in cui la politica prova a fare la sua parte, ma sa che alle correnti spetterà l’ultima parola. Luca Palamara racconta così il meccanismo che ha governato negli ultimi anni l’assegnazione degli incarichi ai magistrati. Soprattutto di quelli più importanti, soprattutto delle procure. Non c’è solo la riunione all’hotel Champagne, è il senso del discorso che il pubblico ministero, oggi sospeso, al centro dell’inchiesta della procura di Perugia sulle nomine delle toghe, fa con HuffPost. Non c’è stata, cioè, solo quella cena con Luca Lotti, Cosimo Ferri e cinque togati del Csm, captata dal trojan installato nel cellulare di Palamara nella notte tra l’8 e il 9 maggio 2019. In quel caso si parlava della designazione del procuratore capo di Roma, quello che sarebbe diventato il successore di Pignatone. Tante volte, però, - dice Palamara - è successo che le nomine siano state negoziate prima che arrivassero nella loro sede naturale: la quinta commissione del Csm e poi il plenum. “Il trojan ha fotografato un accordo tra due gruppi. In questo caso erano Magistratura Indipendente e Unicost. Bisogna vedere cosa fanno gli altri”. E’ il suo modo, ancora una volta, di ricordare che nelle negoziazioni portavano agli incarichi più prestigiosi non giocava da solo. E’ passata quasi una settimana dall’espulsione dall’Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe. E appena una giornata dall’annuncio del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, della richiesta di un provvedimento disciplinare per il magistrato e per altre nove toghe in qualche modo coinvolte nella vicenda che sta travolgendo il potere giudiziario italiano. Palamara racconta la sua versione. “Ha presente il manuale Cencelli?”, dice. “Ecco, noi lo usavamo stabilire gli incarichi, ma assicuro di aver sempre spinto per i più bravi”. Almeno per gli incarichi più importanti, precisa poi.

Lei negli ultimi giorni ha sottolineato più volte di non voler fare da capro espiatorio. Di essere stato parte di un sistema. Perché ha iniziato a parlare ora?

«Perché solo ora sono state depositate le carte della Procura di Perugia, che offrono uno spaccato diverso e quindi mi impongono un dovere di chiarimento. Per raccontare il meccanismo, ordinario, con cui si trattava per scegliere i magistrati da destinare agli incarichi. Il trojan, ferme restando le tutte eccezioni di inutilizzabilità, quando ha registrato la riunione all’Hotel Champagne, ha fotografato l’attività tipica delle associazioni dei magistrati: quella di negoziare gli incarichi. Stabilire quale magistrato mandare in un posto e quale in un altro. In questo caso i partecipanti erano esponenti e Magistratura indipendente e Unicost. Bisogna vedere cosa fanno gli altri gruppi. Ha presente il manuale Cencelli?»  

Certo. 

«Ecco, si applica anche alla magistratura. Si spartiscono gli incarichi in base all’appartenenza»

Un’affermazione che non deve essere molto facile da digerire per un cittadino che ha tutt’altra idea della magistratura. Ma, quindi, non c’è stato solo l’Hotel Champagne? Ci sono state altre cene?

«Vuole sapere quante cene o incontri ho fatto dal 2007 ad oggi? Vede, dietro ogni nomina ci sono cene, discussioni, accordi tra correnti. Questo deve essere chiaro: non si muove foglia che corrente non voglia».

Alla cena di cui stiamo parlando partecipavano due esponenti politici: parliamo di Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa e già leader della corrente Mi, oggi parlamentare) e Luca Lotti. La magistratura dovrebbe essere, è per Costituzione, un potere indipendente. La politica incide nelle nomine?

«Partiamo dal presupposto che il ruolo preponderante lo hanno i magistrati, anzi, le correnti. Ma la politica vuole contare. I laici al Csm vogliono contare. E, lo ricordo, questi ultimi sono eletti dal Parlamento. Dalla politica. Non dimentichiamo che gli ultimi vicepresidenti del Csm sono stati dei politici».

Va bene. Ma fin quando parliamo di discussioni all’interno delle commissioni del Consiglio superiore della magistratura o in plenum è un conto. Fare nomine, e quindi parlarne, è uno dei ruoli dell’organo di autogoverno. Qui, invece, stiamo parlando di riunioni che si svolgevano fuori da Palazzo dei Marescialli.

«Certo, ma l’interlocuzione con la politica c’è. Io, ad esempio, quando ero presidente dell’Anm ho incontrato tanti esponenti politici. Ritenevo di dover parlare con tutti».

Ma, parliamoci chiaro: succede che un politico chieda, le abbia chiesto, di intervenire su una nomina?

«Lo ribadisco, una parte fondamentale nella partita delle nomine la giocano le correnti. Certo, poi spesso l’accordo tra loro non basta. Succede, certamente, che il politico voglia dire la sua sulle nomine. Ma sa bene che l’ultima parola spetta sempre e comunque alle correnti»

Non l’ha mai spuntata la politica?

«Guardi, io sfido chiunque a censire una a una le nomine fatte quando ero consigliere del Csm (2014-2018) e a vedere se ho mai anteposto l’interesse personale o soddisfatto le pretese della politica. Su questo non temo nessun giudizio del pubblico, anzi sono io che lo chiedo. Voglio, però, che sia chiaro: il politico chiede, ma sa che la magistratura è dominata dai rapporti di forza tra le correnti»

Da questo racconto non esce un ritratto edificante dei gruppi delle toghe. Lei dice che era prassi agire così. Ma non ha mai pensato che, continuando di questo passo, prima o poi qualcosa sarebbe esploso?

«Sì, ne ero consapevole. Sapevo che il sistema non avrebbe potuto reggere per sempre così»

E infatti oggi ci troviamo con una magistratura che fatica a riprendersi la credibilità perduta. Ma c’è stato un momento di cesura? Che ha dato l’occasione alle correnti di prendere più potere?

«Sì, c’è un anno da prendere come riferimento: il 2007. Quando si decise che il criterio preminente per le nomine non sarebbe stato più l’anzianità. Non si doveva optare per chi era magistrato da più tempo, ma per chi era più bravo. Ma il punto è questo: chi lo decide chi è più bravo? E da qui il carrierismo, l’attitudine di alcuni magistrati ad autoproporsi ai leader delle correnti. E tutto il resto. Voglio, però, ribadire che almeno per i posti più importanti, quando io ho avuto un qualche ruolo, sono stati scelti i più bravi. Penso a Napoli, a Milano, a Genova. E che non ho mai messo in discussione l’indipendenza della magistratura».

“Tutto il resto” sono i cocci che raccogliamo ora. Nei posti più importanti, dice lei, sono stati scelti i più bravi. In altri casi non è successo?

«Certo, basti pensare alle nomine alla Direzione nazionale Antimafia, ad alcuni incarichi semidirettivi. Il cittadino deve sapere che se ad un certo punto c’erano otto nomine da fare per la Cassazione, si decideva che dovessero essere spartite tra le correnti».

La Dna, dice, si riferisce alla mancata nomina di Di Matteo?

«Esatto. In quel caso è stato penalizzato perché non apparteneva a una corrente».

Non solo lui, immagino.

«Già, ci sono tanti magistrati che non hanno mai fatto parte di questo sistema. Non hanno mai usato una corrente per avere un incarico. Ed è a loro che dobbiamo chiedere scusa, oltre che ai cittadini».

Subito dopo la notizia dell’espulsione dall’Anm (arrivata sabato 22 giugno, ndr) lei ha iniziato a parlare, a chiamare in causa alcuni colleghi. Ma perché farlo ora, dopo più di un anno da quando l’inchiesta è iniziata, e non prima?

«Perché mi sembrava giusto parlare davanti a quello che in quel momento era il mio giudice, il Comitato direttivo centrale dell’Anm. Non mi è stata data la possibilità di farlo e sono stato espulso, decisione che non condivido ma rispetto. Ho ritenuto quindi di spiegare il meccanismo attraverso il quale ho svolto i 15 anni della mia vita associativa. E dovevo riferirmi a dei fatti».

Quindi, in sostanza, ha deciso di fare nomi perché l’Anm non le ha dato modo di difendersi?

«Ho reso pubblico il documento che avrei letto se mi avessero fatto parlare. Non è altro che una ricostruzione dei fatti che potrebbero essere utili alla mia difesa. L’avrei voluto fare davanti al cdc, lo farò nelle altre sedi competenti. Ho voluto rendere noto il meccanismo attraverso il quale ho fatto associazionismo in magistratura negli ultimi 15 anni»

Ieri il pg della Cassazione ha annunciato di aver chiesto l’azione disciplinare nei suoi confronti. A Perugia molto probabilmente dovrà affrontare un processo penale. Cosa si aspetta?

«Intanto faccio presente che l’accusa di corruzione più grave - quella di aver preso 40mila euro per la nomina del procuratore di Gela - non esiste più. Quanto al giudizio disciplinare, avrò modo di chiarire una volta per tutte - e con tutti gli atti a disposizione - come sono andate le cose. Fino ad ora è stato analizzato solo un frammento. Gli audio acquisiti faranno capire come si sono svolti i fatti».

Lasciamo un attimo da parte l’inchiesta di Perugia. Di recente il dottor Di Matteo in audizione alla Commissione Antimafia, ha parlato di un presunto contatto che, nel 2012, il Quirinale avrebbe tentato con la procura di Palermo. Siamo nei mesi del conflitto di attribuzioni per le intercettazioni di Napolitano, giudicate irrilevanti e capitate nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia. Di Matteo, riportando parole di Ingroia, sostiene che dal Colle volevano avvicinare i pm. E che lei avrebbe potuto essere uno dei possibili mediatori. E’ vero?

«Guardi: una cosa è certa. Nella mia vita non ho mai voluto interferire nelle vicende altrui. Sono disposto però ad approfondire la mia attività di quel periodo».

Mi sta dicendo che se la cosa fosse andata avanti, lei avrebbe effettivamente potuto avere un ruolo?

«Sto dicendo che se mi chiameranno nelle sedi opportune a spiegare cosa facevo in quei mesi, lo riferirò»

Palamara ora cambia idea: “Sui magistrati politicizzati Berlusconi aveva ragione”. Il Dubbio il 13 Ottobre 2020. L’ex magistrato appena radiato dal Csm era presidente dell’Anm nel momento in cui lo scontro tra toghe e politica era più aspro. ”L’allarme lanciato da Berlusconi sulla politicizzazione della magistratura? Non era infondato”. Lo dice Luca Palamara, l’ex magistrato appena radiato dal Csm, in un’intervista a ”Le Iene Show”. “Io non sono stato mai contro qualcuno nella mia carriera… Mai… E questo lo dico per tranquillità dei cittadini, io non sono stato un magistrato politicizzato, al di là di quello che può emergere dalle chat ma ho cercato sempre di battermi per l’affermazione di una giustizia giusta”, assicura Palamara, che è stato tra l’altro presidente dell’Anm “nel periodo più acuto” dello scontro tra politica e magistratura ai tempi di Berlusconi. “Assolutamente è stata una fase che sicuramente meriterà di essere approfondita e rivista, anche come dire alla luce di quello che è accaduto – spiega l’ex magistrato – In quell’epoca tanto per fare una battuta ero fortemente alleato con le correnti di sinistra, quando poi c’è stato lo spostamento con le correnti di destra, mi lasci dire che è successo quel che è successo. Quindi nella vita non c’è nulla di immutabile ma bisogna comprendere i fenomeni e le situazioni, anche interne alla magistratura e riflettere su tutto quello che è successo”. “Devo ritenere – precisa Palamara – che questa idea che io potessi in qualche modo fare un accordo che tagliasse fuori la sinistra della magistratura ha sicuramente inciso su quello che è accaduto”. Insomma, “il mio accordo con Ferri è stato fortemente visto come un qualcosa che non andava bene”, cioè l’accordo tra Luca Palamara di Unicost e Cosimo Ferri, “inteso come rappresentante della corrente di destra”, di magistratura indipendente, “anche se era sì, parlamentare”.

Palamara alle “Iene”: «Magistrati politicizzati? Berlusconi aveva ragione. Le correnti dominano». Redazione martedì 13 Ottobre 2020 su Il Secolo d'Italia. «Ancora ritengo che la partita non sia finita… e non lascerò nulla di intentato affinché possa essere scritta veramente la verità di quello che è accaduto». Lo dice Luca Palamara, in un’intervista esclusiva, che andrà in onda stasera, martedì 13 ottobre, in prima serata su Italia1 a Le Iene Show. Palamara dà la sua versione dei fatti ad Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Spiega come – secondo lui – in Italia le nomine dei magistrati sarebbero tutte dettate da logiche di spartizione tra le correnti politiche delle toghe e non dalla meritocrazia. Per la prima volta in tv da quando ha dovuto dismettere la toga, ripercorre tutte le tappe della vicenda balzata agli onori della cronaca negli ultimi mesi. Le intercettazioni telefoniche a sua insaputa durante una cena che l’ha messo nei guai per trovare i voti ad uno dei candidati per il posto di Procuratore a Roma.

E su come funzionano le cose tra i magistrati alle Iene dice: «Chi non appartiene a una corrente è sicuramente penalizzato», dichiara.

«Ci stanno dei casi ma molti rari di cui un non appartenente a una corrente ricopre un incarico perché questo avviene soprattutto per i posti di minore importanza, per i più importanti le correnti sono dominanti».

Palamara spiega come funzionano le nomine. «Chi non appartiene a una corrente è sicuramente penalizzato. Se un candidato non ha l’appoggio delle correnti non riesce a diventare Procuratore della Repubblica». E poi ancora. «Chi partecipa ad un concorso per diventare Procuratore della Repubblica, normalmente lo fa facendo una cosiddetta autorelazione», racconta Palamara. Spiegando che l’autorelazione «spesso diventa una sorta di autoesaltazione del magistrato, dove elencano una serie di titoli che ha ovviamente conseguito in carriera. Chi la fa è normalmente una persona sicuramente titolata». Dal «punto di vista dell’anzianità e del merito. Cioè vuol dire che è uno in grado di poterlo fare altrimenti non è che fa la domanda l’ultimo sprovveduto. È vero – ammette però l’ex magistrato – che in quel momento e quel contesto chi vince deve avere un appoggio delle correnti, se non ha l’appoggio delle correnti non riesce a diventare procuratore della Repubblica».

Se è più importante essere bravo o avere amico Palamara? Palamara «adesso non c’è, diciamo è importante avere come amici gli esponenti delle correnti». Perché «chi è bravo rischia di essere penalizzato se non ha l’appoggio degli esponenti delle correnti, questo ci dice la storia».

«L’allarme lanciato da Berlusconi non era infondato». «L’allarme lanciato da Berlusconi sulla politicizzazione della magistratura? Non era infondato». «Io non sono stato mai contro qualcuno nella mia carriera… Mai… E questo lo dico per tranquillità dei cittadini, io non sono stato un magistrato politicizzato. Al di là di quello che può emergere dalle chat ma ho cercato sempre di battermi per l’affermazione di una giustizia giusta». Assicura Palamara, che è stato tra l’altro presidente dell’Anm “nel periodo più acuto” dello scontro tra politica e magistratura ai tempi di Berlusconi. «Assolutamente è stata una fase che sicuramente meriterà di essere approfondita e rivista. Anche come dire alla luce di quello che è accaduto. –spiega l’ex magistrato – In quell’epoca tanto per fare una battuta ero fortemente alleato con le correnti di sinistra…».

Palamara sulle elezioni di Ermini. «Per le elezioni di Ermini ho interloquito con Lotti, Ferri, Movimento 5 Stelle e Forza Italia». Parlando della nota cena all’Hotel Champagne, Palamara spiega: «La presenza col politico, in questo caso l’onorevole Lotti, è avvenuta anche in altre situazioni, era già avvenuto in passato ad esempio come ho detto era tranquillamente avvenuta in occasione dell’elezione del vicepresidente del Csm». L’elezione, racconta, “si è svolta con la stessa dinamica… Per eleggere un vicepresidente occorre”. E «d’altra parte io ho avuto interlocuzioni anche con gli esponenti del Movimento 5 Stelle». Come «con quelli di Forza Italia, era una prassi dialogare in quell’occasione con chi voleva diventare vicepresidente. Chi diventa presidente deve avere l’appoggio delle correnti, se non lo ha non lo diventa».

Palamara: «Funzionava così». «Funzionava così. Io ho agito in quel sistema. Oggi poi se diventa una situazione diversa, ne prendo atto però fuori dall’ipocrisia, funzionava così bisognava fare degli accordi tra i gruppi per individuare il miglior nome da scegliere, sia per il vicepresidente…». Poi aggiunge: «Le elezioni del vicepresidente hanno funzionato così, presupponevano gli accordi tra i gruppi». Anche prima di Ermini. Le sembra giusto, le sembra equo che lei sia fuori ed Ermini no? «Guardi a me non sembra giusto perché io so di non aver commesso dei fatti illeciti, quindi non mi sembra giusto». E poi ancora: «Io sono sicuro di non aver mai barattato la mia funzione. Di questo sono sicuro, posso aver sbagliato come dire una frequentazione. Posso aver sbagliato un incontro ma quello che facevo era ricercare gli accordi come sempre avevo fatto nella mia attività. Quindi da questo punto di vista è il motivo per cui intendo ovviamente ricorrere e il momento in cui intendo far comprendere veramente quello che è accaduto».

Nomina di Pignatone a Roma. Quanto invece a quando il Csm ha nominato Giuseppe Pignatone procuratore capo di Roma l’accordo si è fatto, assicura Palamara, «assolutamente nei medesimi termini degli accordi tra le correnti». Cioè riunioni tra esponenti. «Chi individua il nome sono solo i magistrati – precisa – La politica, ovviamente, diciamo così dà un indice di ascolto di comprensione di quello che accade perché sono cariche importanti nella vita pubblica del paese e quindi chiaramente non rimane estranea a questi importanti momenti».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 14 ottobre 2020. «Ero fortemente alleato con le correnti di sinistra della magistratura, quando c' è stato lo spostamento verso quelle di destra (al Csm, ndr) è successo quel che è successo». Ovvero l' inchiesta per corruzione della procura di Perugia e il ribaltamento di poteri dentro palazzo dei Marescialli. Questo, almeno, è ciò che ritiene Luca Palamara, ex magistrato espulso il 9 settembre dal Csm. Per i togati che l' hanno giudicato e condannato alla radiazione, la colpa di Palamara è stata quella di aver ordito e «organizzato la strategia sulle nomine» dei vertici delle più importanti procure italiane. Tra tutte quella di Roma diretta dal suo (ex) amico Giuseppe Pignatone. Palamara ex uomo forte di Unicost, la corrente centrista delle toghe, che aveva spostato il baricentro del Csm verso i conservatori di Mi alle ultime elezioni a discapito dei progressisti di Area, non ci sta a fare da capro espiatorio e attacca. Lo fa in una intervista a Le Iene, spiegando che del sistema nomine lui sarebbe stato solo un protagonista e non il protagonista. Questa è la sua narrazione. Perciò in queste vesti si sarebbe adoperato, spiega lo stesso Palamara, per far nominare Davide Ermini nell' incarico che attualmente ricopre di vicepresidente del Csm: «Per la sua elezione ho interloquito con Luca Lotti, Cosimo Ferri, M5S e FI», sostiene l' ex magistrato. Insomma l' accostamento che cerca di fare Palamara è chiaro: alcuni degli attori presenti all' Hotel Champagne, che congiuravano per il nuovo vertice della procura di Roma, che di fatto gli è costato la toga, erano gli stessi che ha consultato per il secondo scranno del Csm: «La presenza col politico, l' onorevole Lotti, è avvenuta anche in altre situazioni, ad esempio in occasione dell' elezione del vicepresidente del Csm. Si è svolta con la stessa dinamica».  C' è poi il capitolo che riguarda Giuseppe Pignatone al comando della più importante procura d' Italia, Roma, dal 2012 al 2019. La sua investitura avvenne «assolutamente nei medesimi termini degli accordi tra le correnti». «Chi individua il nome sono solo i magistrati. La politica, ovviamente, non rimane estranea a questi importanti momenti». E infine Palamara parla della cena con Pignatone e ricorda un fatto. Il famoso trojan installato nel suo smarthpone che non ha registrato la conversazione: «Non ha funzionato. Cosa ci siamo detti quella sera? Se fosse stata trascritta i giornali avrebbero avuto materiale per scriverci sopra».

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 14 ottobre 2020. «L' allarme lanciato da Berlusconi sulla politicizzazione della magistratura? Non era infondato». Fa un po' specie, ha il suono del paradosso, sentire pronunciare questa frase da un magistrato che ha vissuto il suo massimo fulgore nella scia del giudiziarismo antiberlusconiano. Eppure, benvenuto nel club, dottor Palamara. Luca Palamara l' ex magistrato appena radiato dal Csm con l' accusa di aver "pilotato" per interessi personali la nomina del procuratore di Roma, in un' intervista esclusiva andata in onda su Italia1 a Le Iene Show, ha praticamente approfondito un tema - e un dramma - comune a chiunque, di riffa o di raffa, ci sia finito dentro. Il cosiddetto "uso politico della magistratura", il riempimento del vuoto di potere legislativo, l'"incompatibilità" in realtà compatibilissima tra politici e toghe in liaison costituzionalmente inaccettabili. Sicché, Palamara il radiato, il reietto, l' espulso dal sistema di cui era un pezzo pregiato e pietra angolare da presidente dell' Anm, membro del Csm e capo di Unicost, be', ora è un fiume in piena. «Assolutamente è stata una fase (quella dei processi al Berlusca, ndr) che sicuramente meriterà di essere approfondita e rivista, anche, come dire, alla luce di quello che è accaduto» continua il magistrato alle Iene, «in quell' epoca, tanto per fare una battuta, io ero fortemente alleato con le correnti di sinistra, quando poi c' è stato lo spostamento con le correnti di destra, mi lasci dire che è successo quel che è successo. Quindi nella vita non c' è nulla di immutabile ma bisogna comprendere i fenomeni e le situazioni, anche interne alla magistratura e riflettere su tutto quello che è successo». In effetti, nella vita nulla è immutabile. Tranne, parrebbe, il corporativismo d' acciaio di molte toghe. Palamara in tv è un Masaniello carico a pallettoni. Da qui l' invocazione al Berlusconi di cui sopra, al San Sebastiano di Cologno martire trafitto da mille sentenze. Sicché, alla Iena Antonino Monteleone che gli chiede lumi sulla percezione del Berlusconi per anni tacciato di complesso della vittima, Palamara ribadisce: «Bisogna svolgere un serio momento di riflessione sulla storia politico- giudiziaria del paese, per valutare in che modo le nomine e determinati processi abbiano poi influito. È chiaro poi che il tema dell' uso politico della giustizia è un tema presente anche nel dibattito interno alla magistratura». È chiarissimo. Ora anche per Palamara. L' intervista prosegue con varie dichiarazioni che sono altrettanti colpi d' ascia non si sa quanto funzionali. L' ex pm ripercorre tutte le tappe della sua vicenda: dalle intercettazioni telefoniche a sua insaputa durante una cena nella quale, appunto, si discuteva di nomine e voti a favore di un candidato per il posto di Procuratore a Roma («Così funziona la magistratura: nomine, carriere e la lotta tra le correnti, chi non vi appartiene è sicuramente penalizzato. Se un candidato non ha l' appoggio non riesce a diventare Procuratore della Repubblica») alla nomina del vicepresidente del Csm David Ermini («Se ho orchestrato l' elezione di Ermini a vicepresidente del Csm come può Ermini rimanere al suo posto in maniera indifferente? Questo glielo dovrebbe dirglielo lui, non io»); dalla cena col procuratore Pignatone in cui - sostiene sempre Palamara - il trojan sul suo telefono smise stranamente di funzionare («Cosa ci siamo detti quella sera? Se quella telefonata fosse stata trascritta i giornali avrebbero avuto materiale per scriverci sopra...»), fino al segreto di Pulcinella. Cioè quel definitivo «le nomine in magistratura sono frutto di spartizioni e di accordi. Chi non appartiene a una corrente è sicuramente penalizzato». Il che, diciamo così, non illumina alcuna verità inedita, ma che l' affermi un (ex) magistrato fa sempre un certo effetto.

Le Iene il 14 ottobre 2020. Queste sono solo alcune delle clamorose rivelazioni rilasciate da Luca Palamara, l’ex magistrato appena radiato dal Csm, che andranno in onda in un’intervista esclusiva,  in prima serata su Italia1 a “Le Iene Show”. Palamara, parla senza freni da quando è finito nella bufera. Da la sua versione dei fatti ad Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, e spiega come – secondo lui – in Italia le nomine dei magistrati sarebbero tutte dettate da logiche di spartizione tra le correnti politiche delle toghe e non dalla meritocrazia. Lo fa attraverso affermazioni inedite, nell’intervista integrale che segue, all’indomani della radiazione dalla magistratura. Per la prima volta in tv da quando ha dovuto dismettere la toga, ripercorre tutte le tappe della vicenda balzata agli onori della cronaca negli ultimi mesi: le intercettazioni telefoniche a sua insaputa durante una cena che l’ha messo nei guai per trovare i voti ad uno dei candidati per il posto di Procuratore a Roma. La nomina del vicepresidente del Csm David Ermini - per cui Palamara ammette che è stata frutto di un accordo politico siglato con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri, e anche altri esponenti di partiti, come il Movimento Cinque Stelle e Forza Italia. Come si è arrivati alla nomina di Giuseppe Pignatone a capo della procura più importante d’Italia. Quella cena con Pignatone in cui - sostiene - il trojan sul suo telefono smise, guarda caso, di funzionare. Fino ad arrivare agli ultimissimi sviluppi. Luca Palamara, il magistrato da mesi al centro dello scandalo intercettazioni, è colpito da accuse molto gravi: avere pilotato le nomine delle maggiori procure italiane. Non è un pm qualunque, perché in 23 anni di carriera ha rivestito posizioni di rilievo: ex consigliere del Csm (Consiglio Superiore della Magistratura, ndr), l’organo di autogoverno della magistratura, ex presidente di Anm (Associazione Nazionale Magistrati, ndr), l’associazione nazionale cui aderisce circa il 90% dei magistrati italiani, e capo di Unicost, la corrente di centro dei magistrati italiani. E su come funzionano le cose tra i magistrati ci dice: “Chi non appartiene a una corrente è sicuramente penalizzato, - dichiara - ci stanno dei casi ma molti rari di cui un non appartenente a una corrente ricopre un incarico perché questo avviene soprattutto per i posti di minore importanza, per i più importanti le correnti sono dominanti”. A seguire l’intervista integrale:

Iena: Dottor Palamara buongiorno

Palamara: Giorno…

Iena: Come sta? 

Palamara: Abbastanza bene diciamo...

Iena: Come si sente ad aver perso uno dei lavori più intoccabili che esistono in Italia ed essere ad oggi disoccupato?

Palamara: Ancora ritengo che la partita non sia finita… e non lascerò nulla di intentato affinché possa essere scritta veramente la verità di quello che è accaduto. Come si nomina un magistrato in un “posto chiave”.

Iena: La magistratura italiana è salva adesso che quel cattivone di Palamara è fuori?

Palamara: Questo non spetta a me dirlo, io sono sicuro di aver sempre operato nella correttezza e di non aver mai barattato la funzione. Sono consapevole che c’è la volontà di farmi pagare per tutti, ma io questo ovviamente cercherò di evitarlo con tutte le mie forze possibili.

Iena: Quando lei dice io ho pagato per tutti, pagato per tutti, cosa?

Palamara: Questo sistema, diciamo meccanismo spartitorio delle correnti che è venuto fuori e che ha voluto individuare in me l’unico responsabile di un meccanismo che nei fatti, si è dimostrato obsoleto e superato…

Iena: Cioè tutte le nomine in magistratura si fanno attraverso votazioni del CSM, secondo, se uno leggerà le motivazioni della sentenza che l’ha esclusa, le orchestrava tutte lei.

Palamara: Le nomine in magistratura sono frutto di spartizioni e di accordi tra i gruppi associativi che ciò non significa che non portino poi a individuare una persona meritevole, ma quella persona indubbiamente è una persona che fa parte del meccanismo delle correnti.

Iena: Aspetti

Palamara: Però mettiamoci…

Iena: Cioè mi faccia capire una cosa, lei perché esce dalla magistratura, qual è il fatto che le è stato in qualche modo non perdonato?

Palamara: L’accusa che mi viene contestata è che io sono stato a cena con gli onorevoli Lotti e Ferri, quindi essere stato a cena con onorevoli.

Iena: Cioè due deputati del partito democratico, cioè Italia Viva.

Palamara: Del partito democratico, uno dei quali, l’onorevole Lotti era indagato a Roma. Questo.

Iena: E lei che ci faceva a cena con questi?

Palamara: Sotto il profilo dell’opportunità, della presenza dell’onorevole Lotti, già l’ho detto. Io non facevo nient’altro di più o di meno di quello che ho fatto nel corso della mia attività, l’onorevole Lotti l’ho conosciuto nel corso della mia attività istituzionale e come era avvenuto in occasione della nomina del vicepresidente Ermini, dove ho avuto incontri e accordi con gli onorevoli Ferri e Lotti, anche in occasione della nomina del Procuratore di Roma c’era una contrapposizione sul nome del Procuratore Lo Voi, sostenuto dalla sinistra della magistratura, e quello di Viola sostenuto dalla corrente di destra, io cercavo come al solito di individuare il migliore accordo possibile.

Iena: Il migliore accordo possibile, però qua leggendo i giornali cioè lei è sul centro della scena di questa storia da più di un anno e leggendo i giornali dice c’era una combriccola, c’erano i furbetti della, del CSM che pilotavano le nomine…

Palamara: Sì, si assume che quell’incontro dovesse poi servire a fare qualche favore all’onorevole Lotti

Iena: Cioè pilotano la nomina del procuratore di Roma in maniera tale che poi in cambio la posizione di Lotti

Palamara: Infatti di questo non vi è nessuna traccia perché quell’accordo era un accordo tra correnti, tra gruppi associativi, frutto appunto di un trojan che ha poi registrato questo incontro, ma questo incontro è un incontro tra due gruppi associativi quindi dà una fotografia parziale, non sappiamo quello che contestualmente ad esempio avveniva sugli accordi per i nomi degli altri concorrenti, non lo sapremo mai…

Iena: Però a Roma i candidati erano il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, il procuratore capo di Firenze Creazzo e il procuratore capo di Palermo, Lo Voi. Questi tre nomi erano, come dire, papabili per diventare procuratore capo di Roma.

Palamara: In quel momento erano sicuramente i nomi più papabili, il nome di Lo Voi era un nome gradito alle correnti di sinistra, alle quali era inviso il nome del concorrente Viola, alle correnti di destra era invece gradito il nome del procuratore Viola. Questo era lo spaccato con il quale noi ci trovavamo ad operare.

Iena: E Creazzo non piaceva a nessuno?

Palamara: Oltre al nome del procuratore Creazzo che era un nome sostenuto dalla corrente di Unicost ma che in quel momento non riusciva a coagulare i voti né della parte sinistra né della parte destra.

Iena: Lei di che corrente era?

Palamara: Di Unicost. Della corrente di Creazzo.

Iena: Della corrente di Creazzo. Solo che Creazzo aveva compiuto una cosa imperdonabile dall’area di Lotti, dal punto di vista di Lotti, aveva messo in carcere cioè ai domiciliari Babbo Renzi.

Palamara: Sicuramente non per quanto riguarda il lato di Unicost, perché in quel momento noi, e meglio ancora, i consiglieri del CSM, trattavano il profilo professionale del dottor Creazzo come è sempre avvenuto nella sua carriera, che è stata una carriera costellata di soddisfazioni per i posti che ha ricoperto, quindi non venivano in rilievo le attività svolte dal procuratore Creazzo nei confronti di questo o quell’imputato. Veniva in rilievo solo come a maturare e coagulare i voti. La mia preoccupazione era che il procuratore Creazzo non venisse sconfitto, e quindi in quel caso, secondo quella che era stata la mia pregressa attività, bisognava cercare di coagulare dei voti, o con la parte sinistra o con la parte destra, e quell’incontro.

Iena: Cioè se non hai i voti non ti candidi per una posizione, così funziona.

Palamara: Se non hai voti... Per ottenere diciamo la carica bisogna arrivare a 13 voti, al consiglio superiore e per fare 13 voti bisogna avere degli accordi prima di tutto tra i gruppi associativi e poi ovviamente con la componente laica.

Iena: Ma questi voti io li chiedo sulla base di che cosa, su quanto sono bravo, su quanti processi ho vinto, su quanto sono tecnicamente preparato o su quanti amici come Palamara ho?

Palamara: Allora, chi partecipa ad un concorso per diventare Procuratore della Repubblica, normalmente lo fa facendo una cosiddetta autorelazione. Spesso…

Iena: Cioè dice io voglio andare là perché sono bravo.

Palamara: Che spesso diventa una sorta di autoesaltazione del magistrato, dove elencano una serie di titoli che ha ovviamente conseguito in carriera. Chi la fa è normalmente una persona sicuramente titolata.

Iena: Titolata dal punto di vista dell’anzianità?

Palamara: Dal punto di vista dell’anzianità e del merito, cioè vuol dire che è uno in grado di poterlo fare altrimenti non è che fa la domanda l’ultimo sprovveduto. È vero che in quel momento e quel contesto chi vince deve avere un appoggio delle correnti, se non ha l’appoggio delle correnti non riesce a diventare procuratore della Repubblica.

Iena: Ma è più importante essere bravo o avere amico Palamara?

Palamara: Palamara adesso non c’è, diciamo è importante avere come amici gli esponenti delle correnti.

Iena: Però mi faccia capire.

Palamara: Perché chi è bravo rischia di essere penalizzato se non ha l’appoggio degli esponenti delle correnti, questo ci dice la storia.

Iena: La riunione all’hotel Champagne, siete un gruppo di magistrati che fanno parte del CSM, c’è Lotti e c’è l’onorevole Ferri. Ferri in qualche modo fa parte della famiglia della magistratura, perché è un magistrato temporaneamente prestato alla politica. Lotti, cosa rappresenta in quel momento?

Palamara: Allora innanzitutto si è molto favoleggiato su questo incontro, come ho detto…

Iena: Perché dice favoleggiato?

Palamara: Perché si è data l’idea che fosse un incontro segreto, clandestino, di incappucciati, non era nulla di più e nulla di meno che un normale incontro tra persone che si conoscono e che in un dopocena decidono di vedersi anziché nei pressi di casa mia, nei pressi del luogo di residenza di uno dei consiglieri del CSM.

Iena: Ma se parlavate di nomine, perché non vi siete visti dentro il CSM?

Palamara: Perché io…

Iena: Cioè il luogo preposto.

Palamara: Oltretutto io non facevo parte all’epoca del CSM, e perché la tradizione tradizionalmente spesso quando si concludevano i lavori consiliari era prassi abituale vedersi per cena o per dopocena per discutere di quella che era la normale attività, cose che sono sempre avvenute in magistratura. 

Iena: Uno maligno dice però al CSM non poteva entrare Lotti.

Palamara: Però al CSM non poteva entrare Lotti e infatti è vero che sotto al profilo dell’opportunità, la presenza dell’onorevole Lotti con il senno di poi è stata una presenza. 

Iena: Sbagliata.

Palamara: Sicuramente inopportuna. però…

Iena: Però se era inopportuna la presenza di Lotti con voi all’Hotel Champagne, per quale motivo Lotti riesce, cioè dice, poi lei mi dica se è vero o no. Dice: io ho parlato con Mattarella di Lo Voi, dice Lotti, quindi significa che Lotti era un interlocutore non indegno per essere ricevuto al Quirinale ed essere ascoltato su un tema nomine.

Palamara: Ma io sul contenuto di quei colloqui non parlo, perché come penso è stato ampiamente riportato dagli organi di stampa, c’è un’eccezione da parte della mia difesa sulla utilizzabilità, perché sono state captazioni che noi riteniamo non dovessero essere utilizzate per la presenza dei parlamentari, come dice l’art. 68 della costituzione. Posso dire che però la presenza col politico, in questo caso l’onorevole Lotti, è avvenuta anche in altre situazioni, era già avvenuto in passato ad esempio come ho detto era tranquillamente avvenuta in occasione dell’elezione del vicepresidente del CSM.

Accordi, meritocrazia e appartenenza a correnti.

Iena: Cioè l’elezione di fatto del capo politico, dell’organo di governo dei magistrati ha avuto la stessa dinamica mi sta dicendo?

Palamara: Non è un capo politico, è un organo di rilievo costituzionale, però si è svolta con la stessa dinamica…  Per eleggere un vicepresidente occorre.

Iena: Cioè eravate sempre lei, Lotti, Ferri…

Palamara: Occorre, assolutamente, occorre… Come d’altra parte io ho avuto interlocuzioni anche con gli esponenti del Movimento 5 Stelle.

Iena: Scusi l’hanno puni... Scusi lei è fuori dalla magistratura.

Palamara: Come con quelli di Forza Italia, era una prassi dialogare in quell’occasione con chi voleva diventare vicepresidente. chi diventa presidente deve avere l’appoggio delle correnti, se non lo ha non lo diventa.

Iena: Chi ha incontrato dei 5 Stelle lei?

Palamara: Eh ebbi interlocuzioni con i candidati che in quel momento si volevano presentare a diventare presidente del 5 stelle, c’era il consigliere Gigliotti, ma i 5 stelle sostenevano fortemente la candidatura del professor Benedetti, che poi contese fino all’ultimo il posto di vicepresidente all’onorevole Ermini.

Iena: Che però non aveva amico Palamara e quindi segato.

Palamara: No, in quel caso ci fu questo accordo tra il gruppo di Unicost e magistratura indipendente che portò alla nomina del vicepresidente Ermini.

Iena: Quindi?

Palamara: A prevalere diciamo.

Iena: Quindi sulla nomina di ermini rispetto a quella, lei non è colpevole di niente, il fatto di avere… no, mi dica se orchestrato è una parola eccessiva… l’aver orchestrato la nomina di Ermini.

Palamara: Eh.

Iena: A vicepresidente del CSM con Lotti e Ferri.

Palamara: Eh.

Iena: Va bene, lei non è stato punito per quello.

Palamara: Io proporrei una cosa, così per farci… Togliamo la parola orchestrare.

Iena: Tramare.

Palamara: Tramare, diventare stratega.

Iena: Complottare…

Palamara: Funzionava così. Io ho agito in quel sistema. Oggi poi se diventa una situazione diversa, ne prendo atto però fuori dall’ipocrisia, funzionava così bisognava fare degli accordi tra i gruppi per individuare il miglior nome da scegliere, sia per il vicepresidente.

Iena: Scusi il procuratore capo di Roma oggi è Michele Prestipino, come è stato votato?

Palamara: Questo io non lo so, perché non c’ero più ormai nei fatti, quindi...

Iena: Ma ci sarà stata una riunione anche per parlare.

Palamara: Oggi si afferma esserci un nuovo corso che privilegia solo ed esclusivamente il merito, senza fare accordi tra le correnti, questo…Poi voglio dire io ne prendo atto quando c’ero io c’erano gli accordi.

Iena: Ma quando il Csm ha nominato Pignatone procuratore capo di Roma, come si è fatto l’accordo?

Palamara: Assolutamente nei medesimi termini degli accordi tra le correnti.

Iena: Cioè sempre riunioni tra esponenti?

Palamara: Assolutamente.

Iena: E c’era sempre qualche parlamentare che non ci doveva stare anche lì?

Palamara: Ma la politica quando sono nomine importanti comunque come dire, non è che necessariamente deve scegliere la politica, la politica non è in grado di scegliere il nome. Chi individua il nome sono solo i magistrati. La politica, ovviamente, diciamo così dà un indice di ascolto di comprensione di quello che accade perché sono cariche importanti nella vita pubblica del paese e quindi chiaramente non rimane estranea a questi importanti momenti.

Iena: Ma Lotti?

Palamara: Gli accordi li fanno i magistrati.

Iena: Ma Lotti faceva, quando era lì a parlare con i magistrati, faceva gli interessi dei cittadini italiani che vogliono una giustizia migliore o dei cazzi suoi?

Palamara: Questo ovviamente al di là della terminologia non posso essere io a rispondere. io dico che si è trovato presente ad una discussione tra altre persone, rispetto alle quali non aveva nessuna capacità di influire.

Iena: Nessuna capacità di influire?

Palamara: No.

Iena: Ma prima di Lotti?

Palamara: Assolutamente.

Iena: Ma prima di Lotti?

Palamara: Non avrebbe mai potuto influire.

Iena: C’era un magistrato, un politico di destra magari ex magistrato con il quale lei interloquiva con la stessa naturalezza rispetto?

Palamara: Ma io ho sempre avuto un'interlocuzione con la politica.

Iena: Mi dica un nome.

Palamara: Perché la politica non è ma al di là di nome, adesso non, c’è questa tensione che io debba fare… I nomi li farò quando c’è bisogno di farlo, io dialogavo. Dialogavo con la politica di destra, dialogavo con la politica di sinistra perché per me tutte le istituzioni non sono in contrapposizione, ma fanno parte di un’unica famiglia che è lo stato. La magistratura per me è fisiologico che debba interfacciarsi con la politica, non per fare un favore in un processo, perché quello è un reato e io non è che vado a fare reati in pubblico con una persona… Interloquisco, dico, parlo, a lotti come poteva essere a un ministro di destra, la situazione che si sta creando nella magistratura è una convergenza verso il nome di… Questo ho fatto, sempre. e questo ritengo di averlo fatto lecitamente… Oggi mi si dice che così non era.

Iena: Ma qual è lo sfondo, è l’interesse dei cittadini o gli equilibri tra correnti?

Palamara: Gli equilibri tra correnti vengono.

Iena: Prevalenti.

Palamara: Prevalgono, prevalgono ovviamente rispetto a un interesse dei cittadini che però devono sapere che le persone che concorrono a quel posto sono persone sicuramente titolate per farlo.

Iena: Cioè un magistrato bravo e un magistrato meno bravo.

Palamara: Prevalgono dentro la magistratura delle logiche correntizie, le logiche correnti.

Iena: Cioè il meno bravo riesce a fregare quello bravo.

Palamara: Quello che avviene nella politica, quello che avviene nelle aziende pubbliche, quello che avviene nella rai, quello che avviene nei ministeri. ci sono delle cordate, si portano delle persone, c’è una cordata che vuole prevalere sull’altra per affermare un potere interno, questo è quello che avviene nella magistratura…

Iena: Questo è quello che avviene… Ma lei ne parla così con tranquillità… La gente a casa...

Palamara: Non ne parlo con tranquillità.

Iena: Trema, ha paura?

Palamara: La gente non deve tremare perché le persone che concorrono, non sono persone che non sono degne di ricoprire quei posti...sono persone che hanno svolto per tanti anni il lavoro del magistrato e l’hanno svolto pure bene. però è un meccanismo di potere interno che non influisce poi sulla decisione dei singoli cittadini, sulla quale ci sono ben altre problematiche legate all’organizzazione degli uffici.

Iena: Ma lei è sicuro di no alla mancanza di interventi ma se nominiamo i magistrati con l’appartenenza politica, lei è sicuro che questo non abbia un riflesso sulla qualità del servizio offerto ai cittadini?

Palamara: Allora, allora, sull’appartenenza politica dei magistrati, sul riflesso dei processi, io penso che bisogna fare una considerazione seria, cioè non diciamo ci saranno altri luoghi e altre situazioni mi auguro, rispetto alle quali.

Iena: Cioè quando Berlusconi vi accusava di essere politicizzati rispetto alle quali cioè diceva una ca**ata come gli abbiamo sempre rinfacciato noi giornalisti?

Palamara: Allora rispetto alle quali bisogna svolgere un serio momento di riflessione sulla storia politico giudiziaria del paese, per valutare in che modo le nomine e determinati processi abbiano poi influito. è chiaro poi che il tema dell’uso politico della giustizia è un tema presente anche nel dibattito interno alla magistratura.

Iena: Anche nelle sue intercettazioni, Palamara.

Palamara: Anche nel, eeh assolutamente, ne avrò sicuramente modo.

Iena: “Salvini ha ragione, ma lo dobbiamo menare” (con questa frase Monteleone cita una dichiarazione di Palamara, intercettata. ndr).

La politicizzazione della magistratura denunciata da Berlusconi?

Palamara: E non lo dico con, come dire, con disarmante tranquillità. lo dico su quella frase già ho avuto modo di esprimermi, io non sono stato mai contro qualcuno nella mia carriera… Mai… E questo lo dico per tranquillità dei cittadini, io non sono stato un magistrato politicizzato, al di là di quello che può emergere dalle chat ma ho cercato sempre di battermi per l’affermazione di una giustizia giusta.

Iena: Ma lei è stato il presidente della NM nel periodo più acuto?

Palamara: Nel periodo più acuto.

Iena: Dello scontro tra politica e magistratura ai tempi di Berlusconi.

Palamara: Assolutamente è stata una fase che sicuramente meriterà di essere approfondita e rivista, anche come dire alla luce di quello che è accaduto. In quell’epoca tanto per fare una battuta ero fortemente alleato con le correnti di sinistra, quando poi c’è stato lo spostamento con le correnti di destra, mi lasci dire che è successo quel che è successo. quindi nella vita non c’è nulla di immutabile ma bisogna comprendere i fenomeni e le situazioni, anche interne alla magistratura e riflettere su tutto quello che è successo.

Iena: Mi dice che effetto…?

Palamara: Ecco perché chi dice parli, non parlino, io sto solo riflettendo, adesso come un cittadino comune.

Iena: Il Corriere della Sera la accusa un po’ di alludere dire e non dire, lei prima ha detto se parlo io crolla la magistratura.

Palamara: Ma io questa frase non l’ho mai detta, io mi auguro che pure il giornalista del Corriere della Sera possa parlare e farci dire perché Viola non era gradito alla procura di Roma perché considerato uomo di destra di Ferri…

Iena: Questo, lei mi dice, lei sta citando l’inviato del Corriere della Sera che copre diciamo le vicende magistratura, Csm…

Palamara: No vabbè sono fatti emersi nella mia vicenda, ho detto mi auguro anche io di comprendere perché, per quale motivo viola era considerato l’uomo di destra vicino a Ferri…

Iena: Senta possiamo dire che la sua vita… Dovrebbe spiegare proprio il giornalista del Corriere della Sera.

Palamara: Perché c’era stata, questo c’era agli atti di Perugia un’intercettazione nella quale si parla proprio di questo, che c’era una parte dell’ufficio che non gradiva il candidato di destra.

Iena: E giusta cosa gliela fa sapere il collega del Corriere della Sera?

Palamara: Me la fa sapere… Già la sapevo da me perché parlavo con i miei colleghi all’interno dell’ufficio, sapevo bene che la corrente di sinistra non voleva il nome di Viola.

Iena: E che aveva fatto Viola di male nella vita?

Palamara: E questo io non lo so, appunto…

Iena: Ma Viola faceva parte di questo progetto? Cioè lui aveva chiesto di essere sostenuto dalla combriccola…

Palamara: Ma penso che il profilo professionale di viola come di Lo Voi, come di Creazzo e come di Prestipino, proprio per rispondere alla sua domanda dei cittadini, sia un profilo al di sopra di ogni sospetto, siano persone degnissime e per bene che tutte meritavano e avevano i titoli per diventare procuratore di Roma. Come in tutte le cose se deve vincere uno solo, per vincere uno solo, vanno realizzati degli apporti, quello che poi in quel momento si cercava di fare, non per fare favori all'uno o all’altro.

Iena: Senta, uno dei magistrati più intransigenti che l’ha giudicata, si chiama Pier Camillo Davigo ed è stato un magistrato di mani pulite, famosissimo in Italia perché considerato un duro e puro, però proprio il giudice Davigo che l’aveva giudicata aveva votato per viola, all’inizio al CSM. Come avete fatto a convincere Davigo a votare secondo il progetto della combriccola?

Palamara: Questo non me lo deve chiedere a me, non posso rispondere io a questa domanda.

Iena: Ma è lei che ha chiamato Davigo e ha detto vota per Viola?

Palamara: No no, assolutamente, in quei momenti e in quelle occasioni tutti i gruppi organizzati della magistratura sono in movimento per così dire, e quindi ognuno è alla ricerca di un accordo… Eehhh questo non devo essere io a spiegarlo ovviamente…

Iena: Chi ha letto i giornali ha letto che il procuratore, diciamo il grande accusatore, l’avvocato generale dello Stato Pietro Gaeta ha detto di lei, il caso palamara è un unicum nella magistratura… E il livello di condizionamento per l’asservimento della funzione al servizio di interessi diciamo torbidi. un unicum. Cioè, come lei nessuno prima.

Palamara: È un’affermazione che ovviamente non condivido e che sono sicuro nel corso del prosieguo e dei ricorsi di smentire anche documentalmente.

Iena: Cioè lei dice c’era un Palamara prima di me e ci sarà un Palamara dopo di me?

Palamara: Il sistema delle correnti esiste da sessant'anni, è caratterizzato il potere interno della magistratura, ed è un sistema con il quale tutti coloro che hanno ambito alle nomine si sono dovuti confrontare, sono stati fatti addirittura dei cartelli elettorali per coagulare più voti, penso addirittura l’hanno fatto magistratura democratica, le correnti di sinistra, quindi per avere più consenso interno alla magistratura, quindi si figuri se posso pensare che è un discorso che…

Iena: Che significa, cioè i giudici fanno campagna elettorale, vanno a chiedere voti, come funziona…

Palamara: Funziona che dopo le domande, cioè ognuno presenta le domande…

Iena: Cioè io sono un magistrato.

Palamara: C’è un bando di concorso.

Iena: C’è un concorso aperto di procuratore a Bari.

Palamara: Si fa un bando per un posto di procuratore a Bari, e una volta fatto il posto di procuratore a Bari c’è un termine per presentare le domande, le domande possono essere 10, possono essere 15 e una volta che l’hanno presentato, normalmente si tratta di persone che hanno come dire un ottimo curriculum, perché si vinca, come ho detto, bisogna arrivare a 13 voti. Se per arrivare a 13 voti occorre un appoggio delle correnti e della componente laica.

Iena: Ma quindi io che voglio diventare procuratore di bari che faccio, mi prendo la macchina e vado a fare visita ai miei colleghi nelle altre città, li porto a cena, che faccio?

Palamara: Nella normalità funziona così, come esattamente li prendo a cena, prendo la macchina e vado.

Iena: Li faccio entrare nella nazionale magistrati (ride, ndr).

Palamara: Noo questo fa parte diciamo di una cosa. A parte che non c’entra su quello però nella normalità funziona così.

Iena: Se c’è una campagna elettorale.

Palamara: Altre persone, ci sono persone degnissime, che hanno fatto domande senza rivolgersi e chiedere mai favori a nessuno.

Iena: Cioè ma se io voglio prendere un posto e voglio fare questa “campagna elettorale”, cioè vengo a trovare Luca Palamara a Roma perché ho bisogno del suo voto. Che cosa chiedo a Luca… Votami perché?

Palamara: Votami perché appartengo alla corrente, sono titolato, ho i titoli per poter rivestire questo importante incarico. E poi normalmente è un primo passaggio, perché non basta solo questo ma ripeto, occorre l’appoggio della politica intesa come componente laica, occorre l’appoggio delle altre correnti.

Iena: Se il meccanismo di funzionamento delle correnti è come lo dice lei, perché si accaniscono contro di lei?

Palamara: Eh questo… Penso da questo momento in poi che è successo, io ho necessità di ristabilire un momento di verità su quello che è accaduto, anche con riferimento alla mia persona. Devo ritenere che questa idea che io potessi in qualche modo fare un accordo che tagliasse fuori la sinistra della magistratura ha sicuramente inciso su quello che è accaduto.

Iena: Cioè lei dice che…?

Palamara: Il mio accordo con Ferri è stato fortemente visto come un qualcosa che non andava bene.

Iena: Cioè l’accordo tra luca Palamara di Unicost e Cosimo Ferri.

Palamara: Inteso come rappresentante della corrente di destra.

Iena: Di magistratura indipendente.

Palamara: Anche se era sì, parlamentare.

Iena: Cioè eravate destra più centrodestra diciamo.

Palamara: Allora, queste sono categorie sempre di, come dire, difficili da riflettere esattamente con la dinamica politica, però tendenzialmente ripropongono questo schema. La corrente di Unicost è un po’ l’ago della bilancia storicamente della magistratura, essendo una corrente così definita di centro, e come tale può… aver fatto questo.

Iena: Quindi lei è fuori dalla magistratura per aver tentato di condizionare la nomina a procuratore capo di Roma ma non le è stato punito per aver di fatto stabilito chi doveva fare il vicepresidente del Csm, ho capito bene?

Palamara: Sì, esattamente.

Iena: Cioè Ermini lo ha ringraziata quando è stato eletto vicepresidente del Csm?

Palamara: Vabbè io su queste vicende personali non torno, ormai sono pubbliche.

Iena: Cioè sì.

Palamara: ormai ci sono pure delle chat che vengono pubblicate.

Iena: Cioè leggendo le chat.

Palamara: Non lo deve dire a me.

Iena: È pieno di magistrati che la ringraziano.

Palamara: Sì.

Iena: E io mi chiedo, lo ringraziano perché hanno ottenuto un posto che probabilmente avrebbe meritato qualcun altro e quindi bisogna ringraziare il deus ex machina.

Palamara: Il nostro sistema funzionava così, era previsto anche il ringraziamento successivo.

Iena: Perché usa l’imperfetto? Perché non ne fa più parte o perché si è fermato.

Palamara: No, vabbè io per forza mi sono fermato, adesso ovviamente assisto e sono curioso di vedere e auspico che ci sia un sistema migliore avendo di mira prima di tutto l’interesse dei cittadini e una giustizia giusta.

Iena: Qualcosa è cambiato però.

Palamara: Questo è il motivo per cui sono andato poi a fare la conferenza stampa dai radicali.

Iena: No dico i tempi, qualcosa è cambiato rispetto ai tempi in cui si accertano le responsabilità disciplinari perché in tre settimane il suo processo si è aperto e si è chiuso, ora una parte dice, cioè l’accusa Gaeta dice l’abbiamo velocemente perché era sottoposto a una misura che era la sospensione dello stipendio, è quindi nel suo interesse che abbiamo fatto un processo veloce, lei che risponde?

Palamara: Eh che il mio interesse che mi ritrovo fuori è stato un interesse per così dire che poi non c’era diciamo, se fossi rimasto dentro poteva essere mio interesse non rimasto e penso che è un dato di fatto quello che è accaduto.

Iena: Lei che ne pensa del fatto che uno dei giudici che l’ha giudicata sarebbe andato in pensione tra pochissimi giorni, questa cosa ha influito sulla durata del suo processo?

Palamara: Allora non penso che io in questo momento debba essere colui il quale esprima un giudizio su questa vicenda e su questa situazione.

Iena: E se non lo può fare lei chi lo può fare?

Palamara: Eh che devo dire.

Iena: Ormai è fuori.

Palamara: Beh sicuramente è stato un tema di dibattito che è venuto fuori che il 20 ottobre il consigliere Davigo dovesse andare in pensione, questo è venuto fuori nel corso del processo, quindi quanto ha inciso e ha determinato eh questo poi cercheremo di comprenderlo.

Iena: Cioè lei aveva chiesto tanti testimoni e tanti di questi testimoni anzi diciamo.

Palamara: Sono stati ritenuti non ammissibili da questo punto di vista.

Iena: Ma erano inammissibili perché avrebbero dilatato i tempi o perché erano superflui? Perché poi…

Palamara: Per me erano necessari per difendermi rispetto alle accuse che mi venivano mosse questo non è stato, questa mia richiesta non è stata accolta e adesso penso sarà uno dei motivi dei nostri ricorsi.

Iena: Qualcuno a casa dice “Oh ma questi stanno a parla’ da mezz’ora con Palamara ma non gli hanno chiesto la cosa fondamentale, ha preso i soldi per condizionare una nomina secondo le accuse dei procuratori di Perugia”.

Palamara: Questa accusa è caduta, è stata dichiarata infondata da parte degli stessi inquirenti di Perugia, è l’accusa sulla base della quale mi è stato messo il trojan che non ha trovato fatti corruttivi ma fotografato questa cena all’hotel Champagne, quindi io non ho mai preso 40mila euro per una nomina, non ho mai preso 1 euro per nessuna nomina perché quello che ho fatto l’ho fatto solo ed esclusivamente nell’interesse dei magistrati di coloro i quali mi chiedevano di intervenire per le loro ambizioni professionali e personali.

Iena: Ma quando attraverso il trojan hanno scoperto che lei i soldi non li aveva presi che poi cosa serve il trojan, se mai dovevano controllare i conti corrente per scoprire, fare un’indagine patrimoniale per sapere se lei ha preso soldi oltre il suo stipendio no?

Palamara: Questo è tema di oggetto di indagine a Perugia quindi.

Il Trojan e l’indagine di Perugia.

Iena: A Perugia, ci spiega, a chi è a casa, cos’è il trojan? 

Palamara: Il trojan è una sorta virus informatico che ormai viene inoculato nei telefoni e registra, è un registratore acceso nel telefono.

Iena: Come caxxo ha fatto lei a cascarci?

Palamara: Eh eh perché ho sempre agito nella convinzione di non aver mai fatto nulla di illecito e quindi mai ritenevo e pensavo che qualcuno potesse inocularmi il trojan.

Iena: Però nel suo caso ci si è come dire ingegnati per farla cascare in trappola.

Palamara: Sì, sono emerse difficoltà nell'inoculazione tant’è vero che il mio telefono è stato poi bloccato dal gestore e una volta bloccato mi è stato detto di riconfigurarlo e in quell’occasione…

Iena: Cioè le è apparso un popup?

Palamara: Mi è stato bloccato totalmente il telefono, non funzionava più e poi è arrivato un messaggio del gestore.

Iena: Cioè lo stesso telefono che usa adesso.

Palamara: Sì.

Iena: E ce l’ha il telefono? Ce lo fa vedere? È questo telefono qua?

Palamara: Sì.

Iena: cioè lei ha praticamente a un certo punto le è apparso sul display del telefono.

Palamara: Un messaggino del gestore Vodafone.

Iena: Che le diceva?

Palamara: Che mi bloccava il telefono e la comunicazione.

Iena: E questo messaggino che diceva? Clicca qui?

Palamara: Di essere stato contattato per riconfigurare il telefono.

Iena: E quindi lei ha cliccato ok e cosa.

Palamara: Sono stato contattato, il telefono è ripartito infettato diciamo.

Iena: Infettato, da quel momento.

Palamara: Era un registratore vivente.

Iena: Ma continuo?

Palamara: No

Iena: Come no?

Palamara: Eh no.

Iena: Cioè a comando?

Palamara: Pensavamo fosse continuo e invece è un registratore diciamo intermittente che funziona diciamo a momenti.

Iena: Un po’ funziona un po’ non funziona.

Palamara: Un po’ funziona un po’ non funziona.

Iena: Perché quando lei.

Palamara: Si programmano delle registrazioni in parte la mattina, in parte il pomeriggio, in parte la sera e...

La cena con Pignatone

Iena: Sa perché glielo dico, perché io ho letto a un certo punto, ho trovato una sua intercettazione in cui lei dice che quel giorno avrebbe incontrato l’ex procuratore capo di Roma, Pignatone, che era appena andato in pensione e ho detto “Adesso scorro scorro e leggo che cosa”.

Palamara: Quella sera non ha funzionato, non funzionava.

Iena: Quindi non sono io che non l’ho trovata proprio non c’erano.

Palamara: Non ha funzionato, era spento.

Iena: Cosa vi siete detti?

Palamara: Era una cena di commiato rispetto al suo pensionamento.

Iena: Lei la dice così ma se quella cena fosse stata trascritta i giornali avrebbero avuto materiale per scriverci sopra?

Palamara: Si rievocavano un po’ 7, 8 anni di esperienza romana quindi.

Iena: Ma eravate nemici lei e Pignatone?

Palamara: No assolutamente.

Iena: Però voi avete fatto un esposto contro la sua procura.

Palamara: No io non ho fatto nessun esposto, l’esposto è un’iniziativa autonoma di un mio collega d’ufficio, il dottor Fava, sul quale io penso poi in qualche modo bisognerà comprendere quello che è realmente accaduto, le iniziative dei magistrati sono autonome…

Iena: Ma Pignatone era in una situazione di incompatibilità avendo il fratello che difendeva un indagato alla procura di Roma?   

Palamara: Questo era uno dei temi contenuti nell’esposto su questo io penso dovranno rispondere le autorità competenti e direttamente chi l’esposto lo ha presentato.

Iena: Ormai lei è fuori dalla magistratura, sulla base della sua esperienza è opportuno che un procuratore capo.

Palamara: Mi faccia fare i ricorsi, sarò fuori quando finiranno i ricorsi ancora i ricorsi gli voglio fare nella magistratura.

Iena: No dico, se è inopportuno incontrare un deputato indagato, è opportuno avere il fratello che rappresenta gli interessi difensivi di un indagato della stessa procura?

Palamara: Questo ce lo devono dire gli organi competenti visto che è stato un esposto che poi è stato presentato alle autorità competenti.

Iena: Se l’accusa nei suoi confronti di corruzione per aver pilotato una nomina, quindi di aver asservito per denaro le sue funzioni al Csm è caduta, lei a Perugia oggi di cosa è accusato? Sono rimaste delle accuse che riguardano dei miei viaggi con il dottor Centofanti e degli interventi su una veranda a casa di una persona a me estranea, vicina ma estranea nel senso che erano lavori fatti presso la sua abitazione.

Iena: Questa è l’accusa?

Palamara: Sì.

Iena: Quindi lei in questo momento è incensurato, lei è radiato dalla magistratura ma lei non ha...

Palamara: Ci sarà un’udienza preliminare il prossimo 25 novembre 2018 eh del 2020.

Iena: La sua vita è stata sputtanata, lo posso dire? Cioè io ho detto i dettagli della sua vita privata, abbiamo letto tutti i dettagli della sua vita privata, come ci si sente a stare dall’altra parte?

Palamara: Mi viene rinfacciato da molti dice te ne accorgi adesso guarda che funziona così, quando si passa da questa parte fa molto male è inutile che dico che vengono fuori molte riflessioni che prima non c’erano, questo è un dato evidente.

Iena: Tipo?

Palamara: Quindi… e, che la riservatezza delle persone comunque e soprattutto delle persone estranee che non c’entrano niente deve essere tutelata, non può essere calpestata in questo modo, il processo è una cosa ma la riservatezza è un bene che in qualche modo lo stato deve tutelare senza ledere l’interesse pubblico perché è giusto che la gente venga informata.

Iena: Perché così sono, così sono.

Palamara: Però io penso.

Iena: Buoni tutti. Dicevo così sono buoni tutti quando…

Palamara: Così si rischia di mischiare no? Ciò che riguarda il penale, ciò che riguarda il gossip, ciò che riguarda una sorta di vendetta nei confronti delle persone…

Iena: Questa cosa l’ha fatta quasi come un politico diciamo.

Palamara: Io non ho mai, io non ho mai concepito la giustizia così, mai, nemmeno quando ero dall’altra parte, errori ne abbiamo fatti, ne ho fatti sicuramente anche io ci mancherebbe altro però così non è la mia concezione.

Iena: Un errore, un errore che ha fatto lei?

Palamara: Nel corso delle attività si fanno molti errori, ho detto sicuramente… Non avrei fatto partecipare il politico all’incontro sicuramente avrei prestato più attenzione quando facevo le intercettazioni, però questo sono temi che penso che possano essere per me utili per una riflessione più approfondita sul tema della giustizia.

Iena: Ma con la posizione di potere che ha un magistrato come lei, lo stipendio che ha un magistrato come lei, il rilievo sociale e le sue funzioni, ma non si può comprare da solo i biglietti per la Roma?

Palamara: Io ho trascorsi quasi quarantennali sui biglietti della Roma, ne ho comprati talmente tanti.

Iena: Quasi azionista.

Palamara: Che mi conosce... Potrei… Quasi rivendicare qualche quota.

Iena: Però per andare a Barcellona erano introvabili.

Palamara: I biglietti per il Barcellona erano introvabili, in quell’occasione erano introvabili, poi li ho trovati.

Iena: Che cos’era là il magistrato o il papà che vuole fare un regalo al figlio?

Palamara: Entrambe le cose, prevale la volontà di fare un regalo al figlio soprattutto quando come dire non mi sento un tifoso dell’ultima ora ma un tifoso di sempre quindi da questo punto di vista ho poco da rimproverarmi.

Quale futuro per Palamara?

Iena: Quand’è che lei si deciderà a vuotare il sacco?

Palamara: Io voglio dare il mio contributo per una giustizia giusta, quest’idea di vuotare il sacco, di il nome, di il cognome, di l’indirizzo, fa parte di un discorso di miglioramento della giustizia nell’interesse dei cittadini, punto, questo è quello che mi propongo, non tirare le persone dentro, spiegare come e perché sono successe determinate cose, voglio capire perché anche per quanto mi riguarda sono successe determinate cose, da questo punto di vista mi sento di poter mettere a disposizione la mia attività politico-associativa.

Iena: Lei adesso si candida? Che fa?

Palamara: No non è che mi candido, io intanto inizio a fare un discorso penso di impegno pubblico e sociale.

Iena: Che lavoro farà? Che lavoro farà Palamara adesso?

Palamara: Adesso pure io farò le mie riflessioni su quello che sarà il mio futuro quindi ovviamente nella vita ho fatto questo quindi ho studiato diritto, ho scritto di diritto, in quell’ambito, in quel contesto voglio rimanere.

Come è stato nominato a Vicepresidente del Csm David Ermini.

Iena: Lì vede la sua vita?

Palamara: Sì.

Iena: Rimane ancorata la sua vita?

Palamara: Per adesso sì.

Iena: Più di 5 consiglieri del Csm in questa storia si sono dimessi, forse 6, non lo so, si dovrebbe dimettere anche il vicepresidente Ermini?

Palamara: Questo non posso dirlo io, non spetta a me dirlo.

Iena: Se lei ha concorso diciamo ha tramato, come dicono i giornali, come dice l’accusa nei suoi confronti, per scegliere il procuratore capo di Roma ma sempre.

Iena: Dice c’è una questione però, lei la conferma l’esistenza di una questione del genere.

Palamara: L’elezione del vicepresidente hanno funzionato così, presupponevano gli accordi tra i gruppi.

Iena: Cioè anche Legnini prima, per Vietti prima ancora.

Palamara: Assolutamente sì così ha funzionato.

Iena: Così ha funzionato e così funzionerà.

Palamara: Eh adesso.

Iena: Le sembra giusto che lei è sbattuto fuori con un calcio in culo mi permetta dalla magistratura ed Ermini invece sta al suo posto da vicepresidente?

Palamara: Io rispondo di me stesso adesso al di là delle parole.

Da Dagospia il 15 ottobre 2020. Le Iene.it il 15 ottobre 2020. Il Vicepresidente del CSM David Ermini, ai vertici della Magistratura Italiana, risponde all’ex magistrato Luca Palamara, appena radiato, in un’intervista esclusiva in onda questa sera, giovedì 15 ottobre, in prima serata su Italia1 a “Le Iene”. Palamara, attraverso le sue clamorose dichiarazioni, rilasciate due giorni fa, aveva provato a difendersi dall’accusa di aver cercato di pilotare le nomine in alcuni posti chiavi come quello di Procuratore Capo a Roma. Ermini dà la sua versione dei fatti ad Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. A seguire l’intervista:

Iena: Buonasera.

Ermini: Ciao.

Iena: Come sta?

Ermini: Bene.

Elezione di un vicepresidente diversa da nomina di un procuratore

Ermini: No no, non è che non le posso dire nulla, magari, perché io alla fine qualche, dovrò… vorrò dire tutto, mio malgrado non posso parlare perché sento dire tantissime inesattezze, compresa quella vostra che ho letto sulle agenzie di ieri.

Iena: Cioè?

Ermini: Perché avete paragonato l’elezione del vicepresidente su una sua domanda, l’ho letto sulle agenzie, l’elezione di un vicepresidente alla nomina di un procuratore, e sono due cose completamente diverse... perché la nomina del vicepresidente è un accordo, previsto per altro in Costituzione perché, tra togati e laici per cui è un accordo, tra virgolette, politico.

Iena: Però lei ha preso tredici voti per diventare vicepresidente del CSM.

Ermini: Certo, certamente.

Iena: E tredici voti servono al plenum per diventare procuratore di Roma.

Ermini: Mmmh... in realtà servirebbero quattordici perché la maggioranza…

Iena: Però nel caso specifico…

Ermini: Sì ma questo è un numero, che c’entra? Questa è la maggioranza, come in Parlamento ci va la maggioranza… il problema della Procura della Repubblica o di un altro ufficio direttivo, è che l’ufficio.

Ermini: Ad un concorso uno partecipa e deve avere i titoli per farlo, mentre il vicepresidente è un accordo che si fa a livello politico, lei pensi a Rognoni che fu eletto, Rognoni, mentre c’era un governo di centro destra. Però l’accordo che fu fatto qua fu diverso, fu eletto uno che era un esponente sostanzialmente dell’opposizione…

Iena: Quindi lei dice è meno grave se c’è un accordo sulla mia nomina rispetto…

Ermini: Ma non è che è meno grave è così perché è previsto…

Iena: Eh ok.

Ermini: Mentre il direttivo è un concorso, per cui…

Iena: Però sono gli stessi membri del plenum che votano sia la sua elezione che quella del procuratore capo.

Ermini: E certo ma questo lo prevede la Costituzione.

Perché Palamara giudicato subito e gli altri 5 membri del CSM alla cena no?

Iena: Uno è finito subito…uno in tre…

Ermini: No, uno è finito.

Iena: In tre settimane l’avete...

Ermini: Ma gli altri… eh ho capito ma gli altri no…

Iena: Ma perché quello è finito subito?

Ermini: Questo è finito subito perché gli altri sono cinque, questo era, era...e poi c’è....

Iena: E che vuol dire, cinque più uno fa sei…

Ermini: No, qui… e vabbè ora non faccia battute, questo è un, era un, c’era un, da quello che ho capito io non ero nel collegio quindi non mi può far domande su cose che non so, però le posso dire che sul fatto, che Palamara, c’era un procedimento cautelare in corso, quindi dove ci sono procedimenti cautelari e hanno sempre la prevalenza rispetto a quelli dove non ci sono procedimenti cautelari…

Iena: E perché non c’è il cautelare anche per gli altri?

Ermini: Ah questo lo deve chiedere a chi ha l’iniziativa, io, è il Procuratore generale o il Ministro.

Iena: Della Cassazione…

Ermini: Sì.

Per eleggere il Vicepresidente ci vuole accordo politico, per nominare un procuratore ci vuole un concorso per titoli.

Iena: Se Lotti e Ferri sono d’accordo per fare.

Ermini: Lotti e Ferri sono…

Iena: Ermini vicepresidente del CSM.

Ermini: Esatto, sono due.

Iena: Che è un ruolo delicatissimo…

Ermini: Sì certo.

Iena: Di primaria importanza e sono legittimati a farlo.

Ermini: È vero.

Iena: Perché non possono mettere bocca Lotti e Ferri?

Ermini: Perché questo è un accordo tra politici e togati per eleggere una carica istituzionale, e quindi non è un concorso, quell’altro per fare il procuratore e per fare il presidente del Tribunale o della Corte è un concorso! Per titoli le ripeto, l’accordo per il vicepresidente è un accordo tra togati e parlamentari, è sempre stato così. L’accordo…

Iena: Quindi conferma che hanno contribuito Ferri e Lotti per indicare la sua figura? 

Ermini: Guardi se lei avrà, prima di fare questi servizi, avrà letto le mie interviste, io ho sempre detto che Lotti e Ferri erano in Parlamento con me, quindi non è che non ci parlavo, eh, li avevo accanto. Palamara invece io l’ho conosciuto alla fine del mese di luglio, del 2018, due mesi prima che poi io fossi votato vicepresidente, ma è sempre stato così.

Per diventare procuratore ci vogliono i voti delle correnti e i titoli.

Iena: Però per diventare procuratore capo di Roma mi servono i voti delle correnti, o no?

Ermini: Ci vogliono i voti delle correnti ma ci vogliono soprattutto i titoli, perché se non hai i titoli…gliel’ha detto anche Palamara ieri.

Iena: Ok.

Ermini: Adesso, però adesso purtroppo è stato fatto il contrario, ecco quello che non va bene… che invece di utilizzare questa discrezionalità che i magistrati hanno, di dire prevale questo perché è più bravo, prevale questo perché è meno bravo… si è scelto spesso quello che aveva diciamo il maggiore appoggio correntizio. Purtroppo questo è successo, è sotto gli occhi di tutti, e questa cosa qui deve finire.

Come combattere le spartizioni tra correnti?

Iena: E cos’è che si può fare per impedire che in una stanza di albergo 10 persone decidono…

Ermini: Si può fare che le correnti devono dare una cesura netta nei rapporti tra correnti e CSM. Questo è il problema.

Iena: E come si fa? 

Ermini: Io ho una mia idea, il problema è che adesso che succede? È che il magistrato che vuole fare attività all’interno di una corrente, attività associativa

Iena: Politica…

Ermini: Entra.

Iena: Possiamo dire?

Ermini: Politica associativa, diciamo così, entra in una corrente, fa carriera e all’interno della corrente e poi dopo si lancia al Consiglio Superiore. Quando arriva al Consiglio Superiore dovrebbe però interrompere il rapporto diretto con la corrente, perché quando si arriva quassù, tutti si deve essere persone libere.

Iena: Cioè lei mi sta dicendo la promozione dell’ingratitudine, cioè grazie alla corrente che si è arrivato lì, e poi?

Ermini: Eh però scusi, abbia pazienza. Ma quando viene eletto il presidente della Camera, il presidente del Senato, il presidente della Repubblica, viene eletto dai gruppi parlamentari… dai partiti!

Iena: Certo. Poi non vota la fiducia dice, giustamente.

Ermini: No no nel senso, che quando il presidente del Senato, vengono eletti non è che dopo devono rispondere a quelli che hanno votato.

Iena: È chiaro.

Ermini: E lo stesso succede a me, è questo dove c’è stata la rottura diciamo.

Iena: Lei dice “io rispondo al capo dello Stato”.

Ermini: Io rispondo al capo dello Stato e alla Costituzione perché questo è un organo che funziona così, io sono un vicepresidente, rilievo costituzionale, sono il vicepresidente che viaggia e lavora su delega del capo dello Stato.

Ermini è riuscito a chiudere i rapporti con i suoi sponsor politici? 

Ermini: Se lei si legge tutte le intercettazioni e spero che lo faccia, perché con me ad un certo punto si arrabbiano perché dicono…

Iena: “Se deve sveglià Ermini”.

Ermini: No “se devono sveglià”.

Iena: Lo dice Lotti eh!

Ermini: Dicono, mi devo svegliare, dicono che io non, non li seguo.

Iena: Esatto. 

Ermini: Diciamo che non, dicono che non sono grato, che non rispondo… ma perché, perché è ovvio, qui non è un rapporto fiduciario come in Parlamento, non è che c’è una maggioranza e un'opposizione. Una volta che il

vicepresidente è eletto, risponde solo al capo dello Stato. Non ha una maggioranza a cui deve rendere conto. E io non ho mai reso conto a nessuno anzi, quando, lei l’avrà visto in tutte le intercettazioni pubblicate…

Lotti parlò con Mattarella?

Iena: Lotti le ha mai detto che aveva parlato al Presidente Mattarella del tentativo di accordo su Marcello Viola?

Ermini: Io che non parlo con Lotti da un anno e mezzo forse, non mi ricordo, ma insomma più di un anno e mezzo.

Il problema è stato l’introduzione del criterio della discrezionalità.

Iena: Quindi lei si sta facendo carico di dare un impulso a cambiamento di un sistema che va così dal 1948?

Ermini: No, va così soprattutto dal 2007, da quando c’è stata questa discrezionalità che è stata male usata dai magistrati. Questo è il problema, è stata male usata, perché mentre prima c’era l’anzianità tant’è che Falcone purtroppo rimase fuori. Adesso che invece si lavora molto sulla discrezionalità bisogna interrompere.

Iena: Cioè era meglio prima, quasi.... 

Ermini: Meglio prima no, perché fu fatto fuori Falcone, quindi non va bene. Bisogna interrompere il carrierismo, cioè il carrierismo che cos’è? Quando il magistrato utilizza la corrente per potere avere l’appoggio, per potere avere un incarico. Questa è la parte che va chiusa, che deve sparire. Cioè io mi iscrivo a una corrente perché così so che riesco ad avere voti all’interno del consiglio...

Iena: Oggi è così.

Ermini: Io penso che le ultime nomine, se lei le guarda io credo che non sia più così.

Iena: Che non sia più così.

Ermini: Però poi i giudizi li date voi giornalisti perché poi.

Iena: No io non posso.

Ermini: Siete quelli che fate da tramite tra la gente e le Istituzioni quindi i giudizi dateli voi, io penso d’aver contribuito a dare, a fare non soltanto delle nomine, perché poi purtroppo i giornalisti parlano solo delle nomine, qui se fosse stato quà tutto il giorno avrebbe visto quante centinaia di cose si fanno che le persone…

Iena: Le cronache ci hanno abituato a magistrati che si sono anche macchiati di reati con sentenza definitiva.

Ermini: Certo, certo.

Iena: In questo momento Palamara è incensurato.

Ermini: Aspetti, certo.

Iena: Un anno di sospensione dallo stipendio, due anni di sospensione dallo stipendio.

Ermini: Ascolti io personalmente… 

Iena: Ma sono rimasti in magistratura.

Ermini: Io da presidente della sezione disciplinare ne ho radiati diversi in questo periodo, se lei ha la pazienza di andare a vedere, e poi ce ne sono tanti che sono sospesi per la storia dei procedimenti penali. 

Iena: Non per un tentativo di una nomina.

Ermini: Ma ce ne sono tanti che sono…

Iena: Che non è nemmeno andata a buon fine.

Ermini: Ma questo, non mi faccia giudicare su un collegio dove, di cui non facevo parte… 

Iena: Perché lei si è astenuto.

Ermini: Mi sono astenuto perché avevo... 

Iena: Perché era coinvolto Lotti.

Ermini: No, per Lotti, per Palamara, perché Lotti non c’entrava nulla in questa storia. Ma Palamara era quello che, non è un segreto, che la sua corrente…

Iena: Quello, il dottor Palamara, mo siamo arrivati a quello.

Ermini: Eh no, no.

Iena: Già proprio. 

Ermini: No e non mi faccia fare... 

Iena: Già buttato giù dalla rupe.

Ermini: No, era quello nel senso era colui che, va bene? Diciamolo in italiano, era colui che mi aveva incontrato per dirmi che la sua corrente mi avrebbe potuto votare, come consigliere, dopodiché leggendo le intercettazioni ne ha dette tante e poi tante di me, perché si vede che non rispondevo ai suoi desiderata.

Quando la discrezionalità diventa illegale?

Iena: No lui dice, il ragionamento che fa.

Ermini: No ascolti, se lei, ascolti Monteleone…

Iena: Se io vengo cacciato… 

Ermini: No, ascolti…

Iena: Per aver pensato di influenzare la nomina del procuratore di Roma, allora perché.

Ermini: No questo lo ha detto lei, ha fatto la domanda lei, non l’ha detto lui, la domanda gliel’ha fatta lei così, che è una domanda sbagliata.

Iena: Sbagliata la domanda… 

Ermini: Sbagliata, perché glielo ripeto, sono due cose diverse, una cosa è il vicepresidente che è un accordo tra togati e membri, e eletti dal Parlamento.

Iena: Giusto.

Ermini: E l’altro che sono concorsi.

Iena: Sbagliato, nel caso dei concorsi è sbagliato.

Ermini: E certamente che è sbagliato nel caso dei concorsi.

Iena: Però solo perché c’è la discrezionalità, quindi ognuno si muoveva in un solco “legale”.

Ermini: Ah sì, diventa illegale nel momento in cui, nel momento in cui, tu non utilizzi più i parametri che vengono previsti dalle circolari, ma utilizzi il fatto che quello appartiene alla mia corrente e quindi lo favorisco per questo…le dicevo non ho giudicato Palamara, perché lui me ne ha dette così tante che io non valgo.

Iena: Vabbè quello entra nel privato mica nel pubblico.

Ermini: Vabbè comunque capisce che uno legge tutte…

Iena: Lei pure ogni tanto avrà fatto commenti su... 

Ermini: Che io sono una delusione, che io, le ha dette di tutte lasciamo perdere. Però al di là di questo, è chiaro che io a quel punto non ero sereno nel giudicarlo, e perché lo dovevo giudicare potendo avere magari anche un risentimento per quelle cose che aveva detto, ho preferito astenermi. Ma perché così si fa!

Iena: Però quegli altri mica hanno parlato male di lei, gli altri cinque dai quali lei si è astenuto. 

Ermini: Mmh qualcuno sì, legga bene le intercettazioni. 

Iena: Non tutti e cinque però.

Ermini: Vabbè, se il processo è uno ehehe come faccio.

I magistrati fanno politica nell’esercizio delle loro funzioni?

Iena: Ma la gente a casa può stare tranquilla che i giudici non fanno politica con l’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali?

Ermini: Senta, se lo fanno, fanno un errore non solo per la legge, per i cittadini.

Iena: Meritano una radiazione i magistrati che fanno politica? 

Ermini: Se fanno politica e utilizzano la giurisdizione per fare politica meritano di essere sanzionati, non c’è dubbio.

Iena: Con la sanzione massima…

Ermini: Con la sanzione massima, questo dipende dalla Procura, io credo che non sarebbe male ma questo ci vuole una riforma costituzionale che la sezione disciplinare fosse fuori dal consiglio superiore…

Marcello Viola? Una persona assolutamente per bene.

Iena: Possiamo dire che Marcello Viola di questa cosa non ne sapeva niente e che è un magistrato rispettabile?

Ermini: Io non ho mai parlato con...Marcello Viola lo conoscevo da, mi si sente dall’accento, come procuratore generale di Firenze, io non ho mai avuto nessun problema e mi sembra una persona, anzi...

Iena: Assolutamente per bene.

Ermini: È assolutamente.

Iena: Questa cosa gli è piombata addosso in qualche modo la gente dice “ma che ha sto Viola che”.

Ermini: Per me è una persona assolutamente per bene quindi io non…

Iena: Come tutti e tre i magistrati in corsa voglio dire.

Ermini: Ma certo, io per quanto… assolutamente sì.

Iena: Onorevole Ermini, lei è stato gentilissimo.

Ermini: No ma io quando volete, guardate non, non c’è problema, io sono disponibile, mi fate delle domande io vi rispondo perché non ho nulla assolutamente per, ripeto, non posso dire cose che la legge mi impone di non dire… ma per il resto io vi dico tutto quello che volete.

Iena: Grazie.

Ermini: Prego. 

Iena: Grazie mille. 

Ermini: Arrivederci.

Iena: Buonasera.

Giuseppe China per “la Verità” il 22 ottobre 2020. Nell' estate scorsa La Verità ha raccontato le chat tra Luca Palamara e il vicepresidene del Csm David Ermini, così come faranno stasera Le Iene. Nei messaggi tra i due si deduceva che anche dopo l' elezione a vice presidente del Csm, una carica ottenuta grazie ad un accordo tra Palamara e i parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri, lo stesso Ermini e Palamara avevano continuato ad incontrarsi ma Ermini ha sempre smentito, anche in tv, dove la settimana scorsa aveva dichiarato: «Quando si arriva al consiglio superiore si dovrebbe interrompere il rapporto diretto con la corrente, perché quando si arriva quassù, si deve essere persone libere». Palamara, nel secondo round televisivo di stasera, lo smentisce clamorosamente: «Quale interruzione di rapporti? Ci sono stati una colazione a Montemartini. Un pranzo da Mamma Angelina. Una cena a casa mia. Un aereo preso insieme. Un convegno insieme a Milano». L' inviato chiede: «Quindi tutto quello che ha detto Ermini non la convince?». Risposta del pm radiato: «Ripeto, i rapporti sono continuati tranquillamente dopo, gli incontri sono continuati tranquillamente dopo, con l' onorevole Lotti e l' onorevole Ferri ci siamo visti tranquillamente dopo, insieme al vicepresidente Ermini, così come col procuratore generale Fuzio. Sono tutte cose documentate, rispetto alle quali penso c' è ben poco da aggiungere». E di che parlavano? Palamara: «Di tutto, di tutto ciò che riguardava l' attività del Csm [] dal disciplinare fino ai direttivi, fino alle valutazioni di professionalità, fino alle commissioni dei concorsi». E quando si sono interrotti i rapporti con Ermini? Palamara: «Nel mese di maggio, cioè quando la notizia girava, era diffusa negli uffici giudiziari. Chi sapeva che esisteva l' indagine nei miei confronti mi evitava. Chi non lo sapeva c' è cascato con tutte e due le scarpe». Con le Iene Ermini è sembrato in difficoltà: «Ma che terrazza Montemartini, piano terra Montemartini [] vabbè il bar di Montemartini». Poi aggiunge: «Gennaio, è l' ultima volta che io sono stato a cena con Palamara». Si parla anche di un incontro presso il ristorante Mamma Angelina. «Sì un pranzo, no a cena no» è la risposta. Il giornalista lo incalza: «Cena a casa di Palamara». Ermini: «Adesso non mi ricordo». La Iena suggerisce «con De Raho (capo della Direzione antimafia, ndr)». E a Ermini torna la memoria: «Sì a casa di Palamara a gennaio [] È stata l' ultima volta». La Iena prosegue: «Cena a casa, cena fuori, aereo, bar». Ermini: «Eh ho capito, che ci posso fare?». Al giornalista che lo incalza sul motivo della conclusione dei rapporti fra i due, magari da ricercare nell' inchiesta della procura di Perugia, Ermini replica: «No, ma vuole scherzare?! assolutamente. Io ho interrotto i rapporti con Palamara perché non c' era più feeling, perché, venivo criticato anche per gli interventi che facevo anche sotto l' aspetto sostanziale».

“LE IENE” il 22 ottobre 2020. - SCANDALO GIUSTIZIA: PALAMARA ED ERMINI, DUE VERSIONI OPPOSTE. “Quando si arriva al Consiglio Superiore si dovrebbe interrompere il rapporto diretto con la corrente, perché quando si arriva quassù, si deve essere persone libere”  L’EX MAGISTRATO LUCA PALAMARA SMENTISCE: “Quale interruzione di rapporti? Ci sono stati una colazione a Montemartini.  Un pranzo al ristorante Mamma Angelina. Una cena a casa mia. Un aereo preso insieme. Un convegno insieme a Milano”.

Iena: Quindi tutto quello che ha detto Ermini non la convince.

Palamara: Ripeto, i rapporti sono continuati tranquillamente dopo, gli incontri sono continuati tranquillamente dopo, con l’onorevole Lotti e l’onorevole Ferri ci siamo visti tranquillamente dopo, insieme al vicepresidente Ermini, così come col procuratore generale Fuzio. Sono tutte cose documentate, rispetto alle quali penso c’è ben poco da aggiungere.

Iena: E di che parlavate?

Palamara: Di tutto, di tutto ciò che riguardava l’attività del Consiglio Superiore della Magistratura.

Iena: Quindi anche voti da esprimere, anche nomine, anche incarichi eccetera?

Palamara: Si parlava di tutto, dal disciplinare fino ai direttivi, fino alle valutazioni di professionalità, fino alle commissioni dei concorsi, di tutto. Tutto ciò che riguardava la vita del Consiglio Superiore. Oggi ogni quattro anni va valutata l’attività e la carriera del magistrato e quindi anche da quel punto di vista spesso vicende che riguardano i magistrati possono sicuramente incidere.

Iena: E quando si sono interrotti i rapporti con Ermini?

Palamara: Nel mese di maggio, cioè quando la notizia girava, era diffusa negli uffici giudiziari. Chi sapeva che esisteva l’indagine nei miei confronti mi evitava. Chi non lo sapeva c’è cascato con tutte e due le scarpe.

Nuove clamorose dichiarazioni e versioni dei fatti che sembra non coincidano tra David Ermini - Vicepresidente del CSM - e Luca Palamara - ex magistrato, appena radiato - rilasciate ai microfoni di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, in due interviste esclusive in onda questa sera, giovedì 22 ottobre, in prima serata su Italia1 a “Le Iene”.

Dagospia il 22 ottobre 2020. Intervista integrale a Luca Palamara:

Iena: Rieccoci, buonasera.

Palamara: Devo stare con la mascherina.

Iena: Come va? Siamo stati da Ermini e ci ha fatto due tirate di orecchie, la prima dice: “leggete bene le intercettazioni” e la seconda è “non si può paragonare la mia elezione a vicepresidente del Csm con il concorso per procuratore di Roma”. Cioè il gruppetto Palamara-Lotti-Ferri, che ha in qualche modo organizzato la mia elezione, si può fare, è nelle cose. Che Palamara, Lotti e Ferri parlassero del procuratore di Roma, no. 

Palamara: Io ho sempre parlato delle nomine dei procuratori della Repubblica, non era la prima volta che parlavo in quella notte, come ho parlato tante altre volte delle nomine dell’elezione dei Vicepresidenti del Csm. Faceva parte dell’attività correntizia, tanto serviva un accordo per fare il Vicepresidente, tanto serviva un accordo per eleggere un direttivo. 

Iena: Dice sempre Ermini, “se voi leggete le chat capite che io ho immediatamente troncato i rapporti con “la mia corrente”, cioè il gruppo di cui sarei espressione”.

Palamara: Allora io sono sicuro e certo. Dopo la nomina del 27 settembre del 2018, che è stata la nomina del nuovo vicepresidente del Csm sono continuati regolarmente i rapporti di cortesia e direi di stima reciproca con il vicepresidente del Csm, tanto in occasioni conviviali presso la mia abitazione, tanto presso incontri nel gruppo di unità per la Costituzione, l’ultima volta addirittura il 7 maggio del 2019 ci siamo sfiorati a Pristina, in Albania, in occasione di un convegno-incontro organizzato.

Iena: Quindi mi faccia capire, lui ha interrotto i rapporti col gruppo Palamara, il vicepresidente Ermini, sintetizziamo così?

Palamara: Non c’è stata mai nessuna interruzione, come non c’è stata mai come dire nessuna variazione rispetto a quelli che erano gli ordinari rapporti che ci sono sempre stati con noi, nessuna interruzione, mai.

Iena: Però dice Ermini, “loro nelle chat parlavano male di me perché io non rispondevo ai loro desiderata”, dice testualmente.

Palamara: Le mie chat sono pubbliche oramai, trovatemi una volta in cui io parlo male del vicepresidente Ermini.

Iena: Ma quali erano sti desiderata di cui parla Ermini?

Palamara: i desiderata miei come quelli di tutti coloro i quali aspiravano a incarichi direttivi erano quelli di trovare accordi e situazioni rispetto alle quali ben poco poteva fare il vicepresidente del Csm. 

Iena: Ma lei ha notato in qualche modo un affievolirsi della cordialità, che aveva contraddistinto le fasi precedenti alle elezioni di Ermini?

Palamara: Sì, sicuramente nell’ultimo periodo diciamo chi sapeva che esisteva l’indagine nei miei confronti mi evitava, chi non lo sapeva c’è cascato con tutte e due le scarpe. L’ultimo periodo, e parlo di maggio 2019, evidentemente c’era chi lo sapeva e chi non lo sapeva.

Iena: Lui dice “semmai potete accusarmi che io sono un vero ingrato, perché faccio un avviso a tutti, non fidatevi di Ermini” - dice Ermini, però, nessun legame, nessuno scambio di favore, nessuna influenza.

Palamara: Io non ho mai preteso nulla, come sempre mi sono messo a disposizione di chi mi chiedeva di trovare una mediazione per arrivare alla nomina più funzionale allo svolgimento dell’attività Istituzionale.

Iena: Ma perché lei allora gode quando viene eletto Ermini?

Palamara: Eh perché sicuramente ero stato uno dei suoi più fermi sostenitori per la nomina del vicepresidente del Csm, posso dire oggi mal mena incolse. 

Iena: Quindi lei dice, ci siamo visti a cena a casa mia, ci siamo visti a cena fuori, ci siamo visti in giro…

Palamara: Sono continuati regolarmente i rapporti dopo quell’elezione.

Iena: E quand’è che si interrompono?

Palamara: nel mese di maggio sicuramente si interrompono.

Iena: Cioè secondo lei che è successo, un uccellino ha cinguettato?

Palamara: E questo, bisogna trovare l’uccellino, non lo so, l’uccellino e il cinguettio, io non posso...

Iena: però lei ha notato che a maggio è successo qualcosa?

Palamara: Sì c’è stato assolutamente un raffreddamento non solo del Vicepresidente Ermini, ma di tante persone che sicuramente avevano adottato le opportune precauzioni per non rimanere contaminate come poi è capitato a tutti i “malcapitati”, scusate il gioco di parole, che poi si sono dimessi.

Iena: Cioè lei quindi dice che a maggio già c’era più di qualcuno che poteva essere nelle condizioni di essere al corrente che stava per succedere qualcosa.

Palamara: Sì, la notizia girava, era diffusa negli uffici giudiziari.

Iena: Uno dei giudici che l’ha giudicata da domani sarà in quiescenza.

Palamara: Si è inteso a separare la mia posizione rispetto agli altri, quindi diciamo io ho avuto un calendario accelerato.

Iena: Ma chi l’ha decisa questa cosa?

Palamara: La sezione disciplinare. Ha fatto un calendario che poi ha portato alla decisione che sappiamo rispetto alla quale la mia difesa non lesinerà di fare tutte le impugnazioni che sono previste dall’ordinamento.

Iena: Quindi tutto quello che ha detto Ermini non la convince.

Palamara: Ripeto, i rapporti sono continuati tranquillamente dopo, gli incontri sono continuati tranquillamente dopo, con l’onorevole Lotti e l’onorevole Ferri ci siamo visti tranquillamente dopo, insieme al vicepresidente Ermini, così come col procuratore generale Fuzio. Sono tutte cose documentate, rispetto alle quali penso c’è ben poco da aggiungere.

Iena: E di che parlavate?

Palamara: Di tutto, di tutto ciò che riguardava l’attività del Consiglio Superiore della Magistratura.

Iena: Quindi anche voti da esprimere, anche nomine, anche incarichi eccetera?

Palamara: Si parlava di tutto, dal disciplinare fino ai direttivi, fino alle valutazioni di professionalità, fino alle commissioni dei concorsi, di tutto. Tutto ciò che riguardava la vita del Consiglio Superiore. Oggi ogni quattro anni va valutata l’attività e la carriera del magistrato e quindi anche da quel punto di vista spesso vicende che riguardano i magistrati possono sicuramente incidere.

Dagospia il 22 ottobre 2020. Intervista integrale a David Ermini:

Iena: Ermini buonasera, di nuovo.

Ermini: Buonasera.

Iena: Lei ci ha detto “guardatevi bene le chat”.

Ermini: Sì.

Iena: “Leggetele bene e capirete che la ricetta per slegarsi dalle correnti è la mia quella giusta”.

Ermini: No, io ho detto che se voi guardate le chat, all’inizio c’era un grande supporto nei miei confronti da parte di Palamara, di Ferri, se poi lei confronta le chat con le intercettazioni si accorgerà che nel mezzo c’è stato qualcosa che si vede non è andato secondo quello che qualcuno si aspettava.

Iena: Lei ci ha detto “non ho fatto quello”, “non mi sono in qualche modo allineato alla loro desiderata”.

Ermini: Sì, se lei ha letto le chat…

Iena: Quali erano i desiderata?

Ermini: Desiderata era quella di formare, una sorta di maggioranza stabile per cui si decideva sostanzialmente tutto quello che c’era da decidere. Io invece sono profondamente contrario alle maggioranze stabili qui dentro, perché credo che qui ognuno debba decidere secondo la propria coscienza e sull’argomento del momento.

Iena: cioè quando lei viene eletto a settembre 2018 Palamara scrive “godo”.

Ermini: Sì sì ehh me lo ricordo. Non solo, ma nelle intercettazioni dice anche che io sono stato una delusione perché si vede non lo so che cosa si aspettasse… io guardi, dal primo momento ho detto “qui ci togliamo la giacchetta e rispondiamo alla Costituzione e al Presidente della Repubblica”. E così ho sempre fatto!

Iena: Però, c’è da dire che per diversi mesi gli incontri le cene…

Ermini: No no guardi, gli incontri, io ho visto un paio di volte Ferri e Palamara, ho visto una volta a pranzo, a cena mi sembra di esserci stato una volta, ma guardi, quando si è cominciato a parlare di nomine febbraio marzo, io credo l’ultima volta di aver visto Palamara sia stata a gennaio…

Iena: Ad aprile.

Ermini: L’ho visto, no.

Iena: Aprile 2019.

Ermini: No… e dove l’avrei visto...

Iena: No?

Ermini: No ci sono dei messaggi per una partita di calcio...

Iena: No, quella di San Luca dove poi…

Ermini: Sì, no quella è fine maggio, ma prima, c’era qualcos’altro, ma io prima ad aprile non mi pare di aver visto Palamara, però guà... verifichi eh perché…

Iena: Ma può essere che ad aprile, i rapporti, contatti cessano perché qualche uccellino l’ha messa un po’ in guardia?

Ermini: No assolutamente.

Iena: Perché eh… sicuro?

Ermini: Guardi, le lamentele nei miei confronti arrivano fin... da prima…

Iena: Però.

Ermini: Controlli.

Iena: Però diciamo, terrazza montemartini…

Ermini: No che terrazza montemartini, piano terra montemartini.

Iena: Vabbè il bar di montemartini.

Ermini: Novembre… l’ultima volta.

Iena: L’ultima volta a novembre.

Ermini: Sì.

Iena: A casa di Palamara col Procuratore Nazionale.

Ermini: Gennaio.

Iena: Antimafia.

Ermini: Gennaio, è l’ultima volta che io sono stato a cena con Palamara…

Iena: E poi fine…

Ermini: E poi… no, non c’è stata proprio più occasione.

Iena: Quindi non è automatico diciamo il distacco dalla corrente di riferimento.

Ermini: Non è che è stato… non è che è stato…ma guardi, io non ho mai avuto rotture forti o litigate eccetera, io semplicemente, mi sono comportato come ritenevo opportuno comportarmi, come la mia coscienza mi diceva di comportarmi.

Iena: Gennaio 2019 a casa di Palamara con Cafiero de Raho.

Ermini: Sì.

Iena: E poi?

Ermini: E poi basta.

Iena: E perché, cioè là che è successo?

Ermini: Perché non c’è stata più occasione, nessuno… nessuno mi ha chiamato, no nulla…

Iena: Nessuno l’ha più, cioè lei dice i rapporti si sono interrotti perché nessuno.

Ermini: No nessuno...

Iena: Mi ha più chiamato.

Ermini: No erano raffreddati, non c’era… tant’è che ad un certo punto nelle intercettazioni Palamara dice alla moglie “Ermini ormai l’ho perso da tempo”…qualcuno dice” Ermini non va mai dal Presidente”, ma in realtà io dal Presidente ci andavo, spesso, ma non l’ho mai riferito a nessuno, perché non era corretto che lo riferissi…

Iena: Ma secondo lei, è anomalo il fatto che nessuno stia indagando su come è avvenuta la fuga di notizie delle indagini di Perugia?

Ermini: Io se stanno indagando o no, non lo so.

Iena: Se c’è una violazione del segreto investigativo, il Vicepresidente del Csm è al corrente di un’iniziativa giudiziaria in questo senso?

Ermini: Non non… non devo e non posso essere al corrente se c’è un’iniziativa giudiziaria almeno finché non emergesse qualcosa.

Iena: No un’iniziativa giudiziaria per scoprire com’è stata possibile una clamorosa fuga di notizie.

Ermini: Ma questo io sinceramente non lo posso sapere, a noi non ce lo direbbero… a noi ci viene comunicato.

Iena: Uno si può immaginare che se, arriva ai giornalisti la notizia che c’è un’indagine a Perugia…

Ermini: Mh, ma lo vuole dire a me? Mi scusi, abbia pazienza, ma io il 29 o adesso, il 30 di maggio ero in Sicilia, apro il giornale e vedo scritto corruzione al Csm, lei pensa che non mi sia venuto un colpo al cuore?

Iena: Cioè lei mi sta dicendo che gli uccellini che hanno fischiettato vicino alle redazioni di giornali…? qua non ci sono delle…

Ermini: Qua per quanto mi riguarda.

Iena: Barriere.

Ermini: Assolutamente, tant’è che noi lo abbiamo saputo a maggio, a metà maggio, che lui era indagato… che era stato iscritto nel registro noti.

Iena: Quindi lei non ha interrotto i rapporti con Palamara perché ha saputo per una via o per l’altra in via diciamo…

Ermini: No guardi.

Iena: …confidenziale?

Ermini: C’erano stati delle…

Iena: Informale che c’era un’attività di indagine.

Ermini: No, ma vuole scherzare?! assolutamente. Io ho interrotto i rapporti con Palamara perché non c’era più feeling, perché, venivo criticato anche per gli interventi che facevo anche sotto l’aspetto sostanziale, eccetera.

Iena: Cioè senza… perché Palamara dice in qualche modo, qualche voce al Csm sul fatto che io potessi essere intercettato.

Ermini: No assolutamente.

Iena: Ed era al corrente più di un consigliere, per questo glielo.

Ermini: Guardi io sicuramente no.

Iena: Lei sicuramente no.

Ermini: Noi abbiamo saputo a metà maggio.

Iena: Perché ad un certo punto, 21 maggio 2019, Lotti invia un messaggino a Ermini.

Ermini: Sì.

Iena: “David, io non sono un senatore che ti scrive messaggi del cazzo, senza di me non eri lì”.

Ermini: Eh, sì.

Iena: Rispondi “di che cosa voleva parlare Lotti”…

Ermini: Noi, metà maggio riceviamo l’avviso da Perugia che Palamara è indagato, va bene? Eh mi cominciano a telefonare con insistenza, cosa avrebbe pensato lei? Nella mia testa ho pensato che volessero notizie su questa roba che io non potevo e non volevo assolutamente dare, perché era un segreto. E quindi non ho più risposto a nessuno, perché non volevo e non potevo dare notizie su una cosa avevo appreso qua.

Iena: Perché uno dice, prima si vedono, si vedono a Montemartini, si vedono a cena a casa, si vedono a cena fuori…

Ermini: No.

Iena: Si vedono in aereo, si fanno i convegni…

Ermini: Aereo? Aereo dove?

Iena: C’è un messaggino in cui avete preso lo stesso aereo dove Palamara si coordina con la sua segreteria… se vuole glielo leggo.

Ermini: Sì me lo legga perché io non me lo ricordo.

Iena: 18 ottobre.

Ermini: Ah vabbè, 18 ottobre.

Iena: 2018.

Ermini: Ahhh, 18 ottobre quando sono andato al convegno della Coldiretti forse a Milano, sì sì sì.

Iena: 18 ottobre chi posso contattare? Stefania, lei gli risponde.

Ermini: Sì Stefania è la mia segretaria, sì sì sì.

Iena: E poi lei gli scrive “mi mandi un paio di punti per la traccia dell’intervento di domani”.

Ermini: No mi ma, sì sì sì.

Iena: E Palamara risponde “mi hanno assicurato che entro mezz’ora arriva tutto”.

Ermini: Sì sì ho fatto anche una querela per questo, perché uscirono su dei giornali che Palamara mi aveva scritto i discorsi.

Iena: No no qui dice “mi mandi un paio di punti per la traccia dell’intervento di domani”.

Ermini: In realtà…

Iena: Palamara dice “mi hanno assicurato che entro mezz’ora arriva tutto”.

Ermini: Mi hanno assicurato perché mi è arrivato dalla Coldiretti.

Iena: Perfetto.

Ermini: La bozza del…

Iena: In uno dice, il 27 settembre l’elezione.

Ermini: Sì…

Iena: Ad ottobre prendono l’aereo insieme.

Ermini: Sì.

Iena: A novembre cena a casa.

Ermini: No, no no no.

Iena: Cena fuori.

Ermini: Cena a casa cena fuori no, io ho un pranzo mi sembra di averlo visto.

Iena: Da mamma Angelina.

Ermini: Sì un pranzo, no a cena no.

Iena: Cena a casa di Palamara.

Ermini: Adesso non mi ricordo.

Iena: Con De Raho.

Ermini: Sì a casa di Palamara a gennaio.

Iena: Eh quindi dico…

Ermini: È stata l’ultima volta.

Iena: Cena a casa cena fuori, aereo, bar…

Ermini: Eh ho capito, che ci posso fare?

Iena: No dico, dopo settembre e poi improvvisamente cessa tutto.

Ermini: Non cessa tutto, va avanti fino, mi sembra, l’ultima volta l’ho visto a gennaio, che mi ricordi io l’ho visto a gennaio, poi lui m’ha contattato per delle partite quindi i rapporti erano tranquilli.

Iena: Cioè non è che se uno si fa eleggere al Csm e il giorno dopo stacca il telefono, questo è che…

Ermini: Ma infatti, io non ho staccato il telefono, io l’ho incontrato, l’ho visto, ci ho parlato.

Iena: No dico, tronca di netto con una cesoia.

Ermini: Io ho cominciato ad allentare come le dicevo prima, quando mi sono accorto che volevano che ci fosse una maggioranza fissa, bloccata, cosa che a me non andava bene. Questo è stato il momento il cui io ho rallentato i rapporti, perché non volevo essere la persona determinante che stabiliva che un gruppo di magistrati decidesse, in tutto il bene e male.

Iena: Cioè lei ha capito di fare parte di un disegno di altri?

Ermini: Ho capito che con me, che io ero il voto determinante e questo io non lo volevo essere… 

Iena: Perché loro dicono ma voterà, non voterà…

Ermini: Sì lo dicono, non voterà perché nonostante mi dicessero vota non ho mai votato, proprio per non far vedere che c’era questa maggioranza bloccata.

Iena: Però non le è venuto il sospetto quando lei in qualche modo aveva bisogno dei voti in Consiglio, che poi ci avrebbero provato a fare questa cosa?

Ermini: Nooo guardi, i voti in consiglio, è molto più semplice di quello che sembra anche questa, basta spiegarle…quando è venuta fuori la mia candidatura, lei pensi che quella famosa cena che ha riportato il fatto quotidiano a casa dell’avvocato Fanfani, il 25 settembre, a me mi fu detto: “guarda, noi ti votiamo ma non siamo sicuri che tu abbia i voti perché ci sono alcuni di magistratura indipendente che non ti vogliono votare”, quindi io sono arrivato qui, la mattina del 27, senza una minima certezza.

Iena: Però sapeva che Ferri e Palamara stavano lavorando assieme a Lotti per...

Ermini: Sì certo, sì.

Iena: E dico, a lei poi non è venuto il dubbio che questa, come dire, questo attivismo in suo favore avrebbe richiesto…

Ermini: Ascolti.

Iena: Una sua sensibilità.

Ermini: A me il dubbio non mi è venuto.

Iena: Ma come no?

Ermini: Ma lo sa perché? Ma perché mi conosco. Perché io lo so…

Iena: Non vi fidate di...

Ermini: Guardi non vi fidate, se qualcuno si mette in testa di… perché poi qui c’è il problema della riconoscenza, se legge le intercettazioni, si rilegga quella del 27 maggio, che dice che io sono un irriconoscente, che sono stato una delusione dopo tutto quello che ho fatto per lui, ecco, se mi dovete dare un voto per poi richiedermi il conto non mi votate.

Iena: Non mi votate, lei si sta auto, diciamo, per il suo futuro in politica Ermini: Sto tarpando tutte le possibilità.

Iena: hahah ho capito, va bene, no, è che a noi veniva un po’ il dubbio che non è che il Vicepresidente Ermini ad un certo punto, lei ci ha detto guardatevi bene le intercettazioni...

Ermini: Sì sì.

Iena: Uno vede ad un certo punto sparito tutto, non è che Ermini...

Ermini: No perché sparito, guardi, ci sono dei messaggi anche, 7-8 maggio eravamo in Kosovo, Palamara era stato a fare una partita a Pristina, lui mi manda un messaggio, non ci siamo potuti salutare perché non ci siamo incrociati, io ero con una delegazione, per cui non è che il rapporto era interrotto, era soltanto che era, era rallentato perché io non accettavo, io lo so che loro mi criticavano.

Iena: Contavano su di lei.

Ermini: No, loro ad un certo punto hanno cominciato a criticarmi perché non rispondevo, poi si vede anche dalle intercettazioni che avete mandato in onda.

Iena: Cioè Ermini ha fregato Palamara, Lotti e Ferri.

Ermini: Ma non è che ho fregato, è che quando uno assume un incarico istituzionale, deve rispondere alla Costituzione e al Presidente della Repubblica, non può rispondere a Palamara o a qualcun altro…l’unico che ti può mandare via, che ti può sfiduciare, è il Presidente. Non sono i consiglieri. cioè i consiglieri non c’è rapporto fiduciario come c’è in Parlamento. Una volta eletto sei una carica istituzionale punto e basta. Non devi dire grazie o rispondere a chi ti ha eletto, perché sennò si va fuori da quello che è il sistema Istituzionale.

Iena: Che effetto avrà la decadenza del consigliere Davigo sui procedimenti disciplinari a carico degli altri consiglieri di questo scandalo nomine?

Ermini: Guardi, eh adesso deve ricominciare il processo ai cinque.

Iena: A carico dei cinque.

Ermini: Ai cinque...

Iena: Se Palamara non fosse stato radiato, adesso ricominciava anche per Palamara? Se il processo di Palamara avesse avuto…

Ermini: Alcune sì, no.

Iena: Tempistiche più dilatate.

Ermini: Allora o c’è il consenso da parte della difesa all’utilizzo di tutti gli atti oppure alcuni atti andavano ripetuti sicuramente.

Iena: Andavano ripetuti.

Ermini: Certo.

Iena: Perché diciamo che lo stesso collegio che ha letto le prove poi sia quello che emette il verdetto.

Ermini: Esatto, esatto.

Iena: E questa cosa non è una disparità di trattamento perché gli altri cinque avranno un collegio diverso?

Ermini: Ma vuole scherzare, ma sono tutti giudici, cioè i giudici sono tutti uguali, non è che si può scegliere di dire questo giudice è migliore o è peggiore, i giudici, qui siamo un tribunale vero e proprio, è una funzione giurisdizionale per cui tutti i giudici valgono allo stesso.

Iena: Ma se sono tutti imputati della stessa condotta, abbiamo stralciato la posizione dice di quello che aveva la misura cautelare?

Ermini: No no no anche questo è un’altra cosa, a noi sono arrivate già divise. La posizione di Palamara ci è arrivata per conto proprio, la posizione di Ferri per conto proprio, la posizione dei cinque ci è arrivata già unitaria dalla Procura Generale.

Iena: I cinque sono, diciamo, nel pieno delle loro funzioni del loro stipendio, eccetera?

Ermini: Sì sì sì sì.

Iena: Palamara era sospeso dalle funzioni e dallo stipendio, quindi Palamara non poteva fare danni.

Iena: Esatto.

Iena: Gli altri cinque che brigavano…

Ermini: No le spiego…

Iena: Sono operativi diciamo…

Ermini: Lo so, ma voi dovete capire che il Csm non ha potere di iniziativa, il Consiglio Superiore funge solo da giudice, per cui le richieste, le misure cautelari, ce le chiede o il Ministro o il Procuratore Generale. Noi facciamo soltanto i giudicanti, quindi non abbiamo potere di iniziativa, anche come mi ha chiesto l’altra volta dei cinque eh, non è che abbiamo potere noi di chiedere la misura cautelare.

Iena: Però riconosce oggettivamente che la posizione dei cinque è migliore?

Ermini: Ma non lo...

Iena: Sono accusati della stessa cosa.

Ermini: Ma guardi, io non faccio parte dei collegi.

Iena: Ci sarà una pressione mediatica…

Ermini: Non mi faccia…

Iena: Un’attenzione sugli altri cinque…

Ermini: Non mi fa.

Iena: Oggettivamente.

Ermini: Questo non me lo faccia dire a me..

Iena: Eh loro sì, chi ha fatto il processo in tre settimane che non si era mai visto, tre settimane.

Ermini: Io non posso parlare.

Iena: Tra le tante cose di Csm da quando c’è David Ermini.

Ermini: Eh.

Iena: L’onorevole Ermini Vicepresidente.

Ermini: Sì hehe.

Iena: Tra le tante cose nuove c’è questa novità che si è fatto il primo procedimento disciplinare che ha avuto come esito la radiazione in tre settimane. Non è mai successo nella storia del Csm. Mai.

Ermini: Senta, io…

Iena: Tre settimane di processi.

Ermini: Io questo oggettivamente non lo so, non facevo parte del Collegio quindi non posso darle nessun giudizio su quello che ha fatto un altro collega.

Iena: No nessun giudizio, le dico, è successa una cosa straordinaria al Csm.

Palamara: «Al Csm ero forte ma non ero solo: domina la sinistra». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 16 ottobre 2020. «Il meccanismo spartitorio tra i gruppi dell’Anm non è mia invenzione, anche se mi ci muovevo benissimo. Ora si dovrà chiarire perché le correnti progressiste non volevano che viola, uomo di Ferri, venisse a Roma». «Io non sono un corrotto». L’intervista a Luca Palamara inizia così. L’ex presidente dell’Anm, radiato dalla magistratura la scorsa settimana al termine di un “turbo processo” al Csm, prima ancora di rispondere alla prima domanda ha voluto puntualizzare di non aver mai preso soldi in cambio di incarichi. L’iniziale accusa di corruzione, 40mila euro per nominare Giancarlo Longo procuratore di Gela, aveva consentito alla Procura di Perugia di installare il famigerato trojan nel telefono di Palamara. E sulle base delle conversazioni intercettate con il virus spia la Procura generale della Cassazione aveva esercitato l’azione disciplinare.

Dottor Palamara, lei è stato per anni un protagonista della vita associativa, una figura chiave della “politica” interna alla magistratura. La sua capacità di tenere le relazioni l’ha resa un punto di riferimento nella dinamica delle correnti. Erano centinaia, come emerso dalle chat, i magistrati che si rivolgevano a lei per una nomina o un incarico. Al di là delle vicende dell’hotel Champagne, negli anni aveva mai avuto la sensazione che questo suo correre senza mai fermarsi potesse farle rischiare di perdere il controllo?

«Il meccanismo delle correnti non l’ho inventato io. Lo voglio ripetere ancora una volta. Certo, in questo meccanismo io mi muovevo benissimo e sicuramente, a posteriori, posso dire di aver ecceduto».

Crede che la febbre per la carriera e la conseguente corsa alle nomine, radicatasi negli ultimi anni tra i magistrati, dipenda anche dal fatto che la magistratura non aveva più un grande nemico politico? Il fatto cioè che, anche per la fine della contrapposizione con Berlusconi, la dialettica tra magistrati e politica abbia perso molta della sua intensità, potrebbe aver creato tra voi magistrati una sorta di rilassamento, di ripiegamento verso l’interesse personale?

«Può darsi che sia innescata anche una simile dinamica. Però di questo che lei definisce “ripiegamento verso l’interesse personale” io non voglio essere l’unico responsabile. Se il sistema consentiva e consente di fare accordi, spesso definiti “intrighi”, è ovvio che bisogna cambiarlo. Non sono comunque disponibile a pagare per tutti le distorsioni di un sistema che per anni mi ha lasciato carta bianca e poi adesso ha ritenuto di espellermi».

Ha mai notato in altri leader delle correnti qualcosa del genere, cioè un forte coinvolgimento nella politica associativa e nelle decisioni sul Csm?

«Premesso che la magistratura deve essere indipendente, ad oggi nulla impedisce a un magistrato di “far politica” per fare carriera. La vita di un magistrato dipende troppo dalle correnti. E questo è il primo grande tema da affrontare se si vuole recidere il legame distorto tra giudici e gruppi associativi».

C’è qualcuno tra i suoi colleghi che si è particolarmente distinto per mancanza di solidarietà nei suoi confronti, che le è sembrato più ipocrita e traditore” di altri? Ci sono di contro dei colleghi che in questi mesi le sono stati sinceramente vicini, anche a costo di rischiare qualcosa?

«In tanti mi hanno voltato le spalle, ma in tanti, con cui non avevo mai avuto rapporti, si sono avvicinati. Inizialmente mi sono trovato solo poi, però, il clima è cambiato».

Crede che il suo “sacrificio” possa servire ad aprire davvero una breccia nella coscienza della magistratura, e a ritrovare un protagonismo pubblico più legato al prestigio e all’autorevolezza della funzione? O teme di più un esito opposto, ossia che il suo sacrificio diventi il lavacro in cui si perderà tutto lo spirito autocritico della magistratura italiana?

«Io pago molte colpe. Ad esempio di aver promosso, in tempi di governo giallo verde, la nomina del vicepresidente David Ermini, che in quel momento, basta vedere le rassegne stampa di quei giorni, non veniva tollerata perché espressione del Pd».

Lei è stato presidente della Quinta commissione del Csm. La più importante di Palazzo dei Marescialli, quella in cui si decidono i vertici degli uffici giudiziari Paese. Questa commissione, da quanto risulta, è sempre stata presieduta dai magistrati progressisti di Area, un tempo Md, e di Unicost, come lei. Nessuno di Magistratura indipendente, la corrente “di destra”. Come mai?

«È la conferma che la magistratura italiana, per anni, è sempre stata orientata a sinistra. Il tutto con l’avallo dei vari vicepresidenti del Csm, che decidono sulla composizione delle Commissioni».

Torniamo alla serata dell’hotel Champagne. Ma come le è venuto in mente di presentarsi con Luca Lotti?

«È stato un errore. Ma quanto accaduto fotografa solo uno spicchio di quello che è realmente avvenuto. Io ho il dovere di fare una operazione verità su quello che ha preceduto la nomina del procuratore di Roma, sulle ragioni per cui la corrente di sinistra non voleva Marcello Viola e sul perché in quanto uomo di Ferri non poteva venire a Roma».

Certo, è interesse di tutti sapere perché Viola, procuratore generale di Firenze, non fosse gradito. In Toscana va bene, a Roma no.

«Esatto. Io sono molto stanco di questa cultura del sospetto. Io non ho mai fatto alcun patto segreto con Lotti».

Non voleva, allora, garantirgli un salvacondotto nel processo Consip dove è imputato a Roma?

«Occorrono le prove di quello che si afferma».

Un’ultima domanda: parliamo sempre della Procura Roma. E delle “discontinuità” che la nomina di Viola avrebbe rappresentato. Ci sono anche altri casi. Alla Procura di Milano, ad esempio, il procuratore della Repubblica dai tempi del Patto di Varsavia e con il muro di Berlino ancora in piedi è sempre stato un esponente della sinistra giudiziaria. È una coincidenza?

«In Italia ci sono dei Palazzi di giustizia che sono dei santuari inviolabili».

L’INGIUSTIZIA DELLA MAGISTRATURA POLITICIZZATA. Cesare Alfieri il 24 giugno 2020 su L’Opinione delle Libertà. La “giustizia” come la trappola che i giudici politicizzati tendono contro tutti gli italiani che non aggradino loro, personalmente come professionalmente e politicamente. La “giustizia” come la propria clava a disposizione ed arbitrio personali dei “giudici” politicizzati. La giustizia in Italia, in assenza della sua totale riforma, non esiste. Averne il terrore, avere cioè il terrore dei giudici politicizzati non solo è legittimo ma sacrosanto, razionale e giusto. Gli italiani devono avere - così come hanno - paura. Oggi si pensa erroneamente di potere zittire tutto mentre i principali responsabili colpevoli - dolosi - si stracciano le vesti per mantenere posto e stipendio pubblici al Csm come nelle Procure, ma non è così che il grave problema della giustizia ingiusta - che attanaglia il nostro Paese alle fondamenta ostacolandone la riemersione e la crescita possibili - si risolve. Il problema è troppo vasto e complesso, incancrenito, è alla radice. I giudici politicizzati non lo comprendono neanche, a giudicare da ciò che fanno e dicono. Il “sistema”, invocato da Luca Palamara in questi giorni dopo esserne stato il protagonista, sono tutti loro, senza troppi “distinguo” tra chi ne è stato parte attiva e chi lo ha tollerato e sopportato. L’unico rimedio possibile è fare tabula rasa, cancellare il Csm dalla Costituzione, rimandare tutti i giudici a espletare solo e solamente la funzione giudicante, intesa come quella che si eroga nel chiuso delle proprie - solitarie ed isolate (l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziale si sostanzia in questo isolamento e solitudine ) - stanze dei numerosi uffici presenti e disseminati sul territorio italiano. Al contrario oggi, dopo l’ennesimo scandalo in capo ai giudici ed alla magistratura tutta politicizzati, si tenta di zittire e nascondere per andare avanti indisturbati nell’errore. Purtroppo anche chi coordina e dirige la magistratura, in quanto presidente del Csm in qualità di presidente della Repubblica, assiste immobile alla frantumazione dell’Italia stessa. Nel 1990 in Italia, i giudici d’assalto di Mani pulite sono stati lo strumento protagonista attivo della presa del potere politico da parte della sinistra comunista oggi Pd ieri Pci/Pds/Ds/Margherita/eccetera. “Sceso in campo”, Berlusconi, è stato rimpinzato di cause e processi ad opera della magistratura politicizzata. L’assalto si è tramutato in odio contro il centrodestra e i suoi elettori. Gli enti e le istituzioni pubbliche italiane, presidiate dal potere giudiziale e politico sinistro sono state rese inoccupabili ed impercorribili, infrequentabili da parte di qualsivoglia italiano di ideologia diversa. Dal 2011 ad oggi in Italia ha governato e tuttora governa, senza essere stata eletta dagli italiani, sempre la sinistra - governi non eletti Pd Monti, Letta, Renzi, Gentiloni 1 e 2, Conte 2 - oggi Pd/5stelle disperati e pronti a tutto per le proprie poltrone pubbliche. Ecco il deleterio collegamento tra la politica e la ingiustizia targata Pd. Come volete che sia mai imparziale ed equo un giudice politicizzato? Come giudicherà chi è politicamente diverso, e non irregimentato come lui? Impossibile per questi erogare equamente giustizia nei confronti di chi la pensi diversamente. Nel “sistema” che accusa oggi il giudice politicizzato ci sono moltissimi vertici delle procure d’Italia. Fare tabula rasa. Riformare e riportare a giustizia. Lo si può fare in Italia solo andando a votare. Come è evidente, è lo stesso Mattarella a non volerlo. La Costituzione al contrario è chiara sul punto in cui ci troviamo oggi in Italia: in assenza cioè di corrispondenza tra la volontà degli italiani elettori e il Parlamento ed il governo (anche Conte è un non eletto, il presidente della Repubblica avrebbe l’obbligo costituzionale di sciogliere le Camere e indire il voto elettorale portando gli italiani al voto.

Palamara, vita da sospeso: da mesi senza stipendio e con l’assegno alimentare. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 26 giugno 2020. Il destino di Palamara è quello che accomuna tutti i dipendenti della Pubblica amministrazione che, incappati nelle maglie della giustizia, vengono sospesi dalle funzioni e dallo stipendio. Indagato per corruzione a Perugia, recentemente espulso dall’Anm di cui è stato anche il presidente, da ieri, secondo quanto riferito in conferenza stampa dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, anche a forte rischio “rimozione” dall’ordine giudiziario, cioè il licenziamento. Non è certamente un periodo facile per Luca Palamara, il magistrato divenuto, suo malgrado, il simbolo della degenerazione delle correnti in magistratura e della lottizzazione degli incarichi al Csm. In questo contesto non propriamente idilliaco, anche perché risulta sempre più difficile credere che Palamara abbia potuto in questi anni fare tutto da solo, i commentatori dimenticano quasi sempre di aggiungere che da dodici mesi l’ex potente consigliere del Csm è sospeso dalle funzioni e, soprattutto, dallo stipendio. Palamara, con due figli a carico, percepisce infatti solo l’assegno alimentare di circa mille e quattrocento euro. Emolumento dignitoso, certamente, ma che non mette nelle migliori condizioni per affrontare un processo penale. E già: il destino di Palamara è quello che accomuna tutti i dipendenti della Pubblica amministrazione che, incappati nelle maglie della giustizia, vengono sospesi dalle funzioni e dallo stipendio. Il principio di fondo che regola questo istituto è quello di tutelare il buon nome della Pa ed impedire che il malcapitato continui a farsi corrompere come un forsennato. C’è però il rovescio della medaglia, che si traduce nel divieto di svolgere altri lavori durante la sospensione in quanto incompatibili con lo status di dipendente pubblico. Vale la pena ricordare che la sospensione non ha una durata prefissata. Teoricamente può prolungarsi fino alla pensione. Palamara, comunque, è stato “graziato” dai colleghi di Perugia: pur essendo indagato per corruzione i pm non hanno provveduto al sequestro dei conti bancari, un atto che per questo genere di reati avviene di “default”. Il sequestro preventivo è scattato infatti solo qualche mese fa. Il problema potrebbe essere archiviato con un “se l’è cercata”, ma la presunzione di non colpevolezza vale per tutti i cittadini e tutti hanno il diritto di difendersi al meglio. C’è un aspetto positivo, riguarda il procedimento disciplinare che Salvi sta istruendo per rimuoverlo. Ad assisterlo ci saranno Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena, e Stefano Guizzi, consigliere di Cassazione. Chi frequenta la Sezione disciplinare del Csm sa che si tratta di maggiormente esperti nella materia. Al Csm la difesa è “gratis” in quanto i magistrati che svolgono il ruolo di difensore del collega non percepiscono alcun compenso.

Caso Palamara, indagini sulle procure di Trani e Matera. Il Corriere del Giorno il 25 Giugno 2020. La Procura di Perugia ha acquisito da quella di Potenza le dichiarazioni dei pm baresi Lanfranco Marazia e della moglie Silvia Curione, e dell’avvocato Calafiore per fare luce sui rapporti con Amara e Paradiso- La “strana” presenza del figlio del procuratore di Matera Argentino, negli uffici romani di Amara. Dopo le indagini della Procura di Lecce che indaga sui giudici di Trani, e quelle discutibili e controverse della Procura di Potenza il cui procuratore capo Francesco Curcio lo scorso gennaio è stato destituito dal Consiglio di Stato e dovrà quindi essere sostituito, adesso anche la procura di Perugia, che si occupa dell’inchiesta vuole fare chiarezza. Il sostituto procuratore Gemma Miliani della procura umbra ha deciso di fare luce e chiarezza sulle nomine dei capi degli uffici di Trani, Antonino Di Maio, (anche questa revocata dal Consiglio di Stato) e quello di Matera, Pietro Argentino, per cercare di capire se l’ex potente leader di Unicost ed ex presidente dell’ ANM abbia in qualche modo orientato le scelte del Csm a seguito di eventuali “pressioni” esterne. Nel dicembre 2019 il pm Miliani aveva acquisito dalla Procura di Potenza tre verbali di interrogatori effettuati nell’ambito dell’inchiesta che a maggio ha portato al discutibile arresto cautelare del procuratore capo di Taranto, Carlo Maria Capristo, che successivamente essendo ormai prossimo alla pensione ha rassegnato le dimissioni dalla Magistratura. Circostanza che è venuta a galla soltanto recentemente dopo il deposito degli atti. Gli atti che la procura di Perugia ha voluto acquisire sono le dichiarazioni dei pm Lanfranco Marazia e Silvia Curione, rispettivamente marito e moglie, nonchè quelle dell’avvocato Giuseppe Calafiore che erano state coperte da “omissis” e quindi sinora non note . Calafiore è il socio dell’avvocato Amara (nel cui studio legale romano lavora il figlio di Pietro Argentino) che il procuratore di Potenza Curcio aveva ascoltato a Roma nel giugno 2019.

La presenza del figlio di Argentino negli uffici di Amara, emersa dall’ ordinanza di arresto emessa del Gip Daniela D’ Auria del Tribunale di Rom , del 2 febbraio 2018 nei confronti di di Amara, Calafiore e Centofanti.

La Procura di Perugia aveva acquisito dalla Procura di Messina, le dichiarazioni rese dai pm della procura di Trani, aveva acquisito anche, le dichiarazioni sull’ ENI, acquisite dai magistrati siciliani, dei pm tranesi Alessandro Pesce e Antonio Savasta , cioè quelle indagini che i magistrati di Trani avevano condotto, a seguito di una lettera anonima che raccontava di un falso complotto nei confronti dell’amministratore delegato dell’ Eni, De Scalzi, che è emerso era stata preparata dall’ avv. Amara. L’ avv. Calafiore nel suo interrogatorio ha sostenuto che il collegamento di questi fatti sarebbe l’ex procuratore Capristo, insieme a un suo amico, il poliziotto Filippo Paradiso che risulta indagato anche a Roma) il quale secondo le affermazioni della coppia Marazia- Curione sarebbe stato «legatissimo» a Capristo , aggiungendo dei commenti sulle nomine dei magistrati, in particolare di Pietro Argentino a capo della procura di Matera. Per questo motivo la pm Miliani della Procura di Perugia ha acquisito dal Csm anche i verbali di commissione e del plenum che hanno portato alle nomine di Argentino a Matera e di Di Maio a Trani. L’ approfondimento d’indagine della procura umbra è necessaria ad accertare eventuali influenze illecite sulle nomine “pilotate” da Palamara e la sua “cricca” di toghe sporche. Va ricordato che l’avvocato Giuseppe Calafiore ed il suo socio Amara avevano patteggiato davanti al giudice per l’udienza preliminare Alessandro Arturi una condanna a 2 anni e 9 mesi il primo e 3 anni di reclusione il secondo per l’accusa di corruzione in atti giudiziari. I due “faccendieri” erano stati arrestati nel febbraio del 2018 nell’ambito di una operazione congiunta tra le procure di Roma e Messina. Amara aveva iniziato a collaborare con gli inquirenti dopo l’arresto, era considerato il “regista” di una serie di episodi di corruzione per aggiustare sentenze anche davanti ai giudici amministrativi. Amara aveva patteggiato anche per il processo sul “Sistema Siracusa” una pena a 1 anno e 2 mesi in continuazione con la sentenza di Roma. Dai verbali della 5a commissione Csm, quella per gli incarichi e nomine direttive, è emersa però una curiosa coincidenza per la scelta del successore di Carlo Maria Capristo al vertice della Procura di Trani (da cui si trasferì a capo della procura di Taranto). E cioè la presenza tra i candidati di Giancarlo Longo l’ex pm di Siracusa che è stato arrestato e condannato proprio per i suoi rapporti con l’avvocato-faccendiere Amara. L’indagine su Luca Palamara venne avviata proprio a seguito dell’ipotesi, successivamente decaduta, che il magistrato romano avesse preso dei soldi da Amara per favorire la nomina di Giancarlo Longo a procuratore di Gela. Alla luce di tutto ciò si continua a non capire l’operato della procura di Potenza su Carlo Maria Capristo, considerato che nelle indagini al momento non risulta alcun atto “sospetto” commesso dal magistrato mentre alla guida della Procura di Taranto, sulla quale avrebbe competenza la procura lucana, peraltro guidata da un magistrato come Curcio che non aveva i titoli per guidarla! Dietro le quinte in realtà si combatte una dura guerra fra “bande” armate delle correnti della magistratura, uno scontro che sembra non voler finire mai nonostante gli appelli rimasti di fatto inascoltati del Capo dello Stato. Una vera e propria guerra dove i magistrati usano da troppo tempo giornalisti sodali pronti a mettersi al loro servizio permanente effettivo., come denunciato pubblicamente anche dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri.

Lettere anonime e toghe, torna lo spettro a Matera. Accuse incrociate in Tribunale. E incroci con il caso Palamara. Accuse circostanziate di un imprenditore accendono i fari su due magistrati potentini: il plico ora andrebbe alla Procura di Catanzaro. Giovanni Rivelli il 17 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Puntuali come ogni volta. Riparte la stagione della tensione tra toghe e tornano le lettere anonime. A depositarla presso la Procura di Potenza è stato ora il segretario dei radicali lucani Maurizio Bolognetti che questa mattina, alle 11, terrà una conferenza stampa davanti al Tribunale di Matera perché è principalmente di quegli uffici che si parla nelle missive. Missive che si presentano come scritte da un imprenditore che ha paura di ritorsioni ma che, probabilmente, proprio per questo non lo sono. Di contro, invece l’autore è una persona ben informata e che ha accesso anche ad alcune carte, visto che ad una ricostruzione di scenari incredibili se non fantasiosi allega alcuni brogliacci di sms acquisiti nel procedimento che investe l’ex Consigliere del Csm Luca Palamara e atti dello stesso procedimento incardinato presso la Procura della Repubblica di Perugia nei quali si fa riferimento, appunto, a Matera e precisamente alle procedure che ruotarono intorno alla nomina del nuovo Procuratore Capo. Carte, insomma, che un semplice «imprenditore che teme ritorsioni» non si trova abitualmente sulla scrivania. Il plico è ora nelle mani dei Pm guidato dal Procuratore capo di Potenza Francesco Curcio. Che, presumibilmente, avranno davanti a sé due passaggi: il primo è proprio quello di vedere se è possibile, con accertamenti d’urgenza, dare un volto all’anonimo estensore del documento in cui si avanzano accuse pesantissime. Ma il fatto che tra le persone accusate ci siano due magistrati in servizi nel distretto giudiziario lucano potrebbe portare a inviare il plico a Catanzaro, competente per i fascicoli che coinvolgono, come parti lese o indagato, magistrati in servizio in Basilicata. Anche questo un dejavù per la Giustizia lucana. Perché una lettera anonima con accuse a un magistrato, nell’occasione l’allora Pm di Potenza Henry John Woodcock, (insieme al suo «fedelissimo» collaboratore l’ispettore Pasquale Di Tolla) ci fu anche nel 2009 a margine di quella stagione di veleni su e tra gli uffici giudiziari della Basilicata che confluì nell’inchiesta «toghe Lucane”» condotta da Luigi De Magistris. Il 21 di febbraio di quell’anno la lettera arrivò alla Gazzetta, la sua immediata consegna alla polizia consentì di risalire all’ufficio postale di Foggia da cui era stata spedita, di acquisirne le immagini di sorveglianza e individuare chi l’aveva consegnata allo sportello. Fu così che finirono sotto processo un ispettore di polizia e un ex agente del Sisde per un procedimento che si concluse nel 2017 con la prescrizione, ma che portò a una condanna per rivelazione di segreto di un altro magistrato che una copia di quell’esposto consegnato in Procura la avrebbe poi data a un’altra persona. Questo caso, però, è diverso dal precedente. La busta che il postino ha recapitato a casa Bolognetti non ha un’affrancatura di ufficio postale ma due semplici francobolli, e non c’è nemmeno un timbro di annullamento degli stessi che possa portare a identificare il luogo di invio, ma un annullamento con un tratto di penna. Il «timoroso imprenditore», insomma, questa volta sembra aver curato le cose nei dettagli. Così come nei dettagli descrive le trame che denuncia e sulle quali ora Bolognetti chiede di fare accertamenti: facoltosi e munifici imprenditori, interessi petroliferi, incarichi, nomine, contropartite, familiari, avvocati influenti e servizi segreti con prospettate connessione con magistrati siciliani, pugliesi e lucani. Gli ingredienti per una esplosiva storia di complotti ci sono insomma tutti. Come quelli per nuovi accertamenti e sospetti. O per una diffamazione in piena regola. Ancora una volta scenari non nuovi per i tribunali lucani.

Toghe lucane-bis indagati a Potenza quattro magistrati. La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Ottobre 2011. Sono stati fissati per la prossima settimana gli interrogatori dei quattro magistrati coinvolti nell’inchiesta Toghe Lucane-Bis condotta dalla Procura della Repubblica di Catanzaro. Il procuratore aggiunto del capoluogo calabrese, Giuseppe Borrelli, ed il suo sostituto Simona Rossi hanno inviato gli avvisi a comparire per l’ex procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano (ora in pensione), i sostituti procuratori generali Gaetano Bonomi e Modestino Roca e l’ex sostituto procuratore della Repubblica Claudia De Luca (ora in servizio in un’altra sede giudiziaria). Complotti, calunnie e tentativi di delegittimazione di Henry John Woodcock, ex pm di Potenza e ora in servizio a Napoli. È questo lo scenario che emerge dall’inchiesta Toghe Lucane-bis avviata dalla Procura della Repubblica di Catanzaro e che, dopo oltre un anno e mezzo, si avvia verso la chiusura. E prima della conclusione i magistrati del capoluogo calabrese hanno fissato per la settimana prossima gli interrogatori dei magistrati lucani indagati. Il procuratore aggiunto di Catanzaro, Giuseppe Borrelli, ed il suo sostituto Simona Rossi hanno inviato la settimana scorsa gli avvisi a comparire all’ex procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano (ora in pensione), ai sostituti procuratori generali Gaetano Bonomi e Modestino Roca e all’ex sostituto procuratore Claudia De Luca (ora in servizio in un’altra sede). Nell’inchiesta sono coinvolti anche un ex agente del Sisde, poi divenuto cancelliere al tribunale di Melfi (Potenza), Nicola Cervone, tre ufficiali di polizia giudiziaria, un imprenditore ed un autista della Procura generale di Potenza. Agli indagati vengono contestati, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere, violazione della legge sulle società segrete, corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio. Le indagini di Toghe Lucane-Bis hanno avuto inizio dopo alcune lettere di calunnia ai danni di Woodcock inviate dall’ex agente del Sisde Cervone. Ad organizzare il presunto complotto, secondo l’accusa, sarebbe stato Bonomi con la complicità degli altri magistrati della Procura generale di Potenza che sono indagati. Nel febbraio del 2009 fu preparato un esposto anonimo con i tabulati telefonici di Woodcock e quelli della giornalista Federica Sciarelli per accreditare l’ipotesi, che non è risultata veritiera, secondo la quale il Pm forniva notizie riservate alla conduttrice della trasmissione di Rai 3 «Chi l'ha visto?» ed al conduttore di Annozero, Michele Santoro. Il tutto era finalizzato, secondo l’ipotesi accusatoria, ad avviare, da parte della Procura generale di Potenza, verifiche disciplinari nei confronti di Woodcock. Gli inquirenti avrebbero poi acquisito anche alcune intercettazioni tra Bonomi ed esponenti politici e magistrati dell’ispettorato del ministero della giustizia tra cui Gianfranco Mantelli, che effettuerà un’ispezione alla Procura di Napoli disposta dal Ministro dopo la vicenda dell’inchiesta su Gianpaolo Tarantini. Già in passato la Procura di Catanzaro, con l’ex pm Luigi De Magistris, attuale sindaco di Napoli, aveva indagato sull'esistenza di un presunto comitato d’affari del quale avrebbero fatto parte magistrati, politici ed imprenditori lucani. Quell'inchiesta, chiamata Toghe Lucane, si è conclusa il 19 marzo scorso con il proscioglimento dei trenta indagati. 

«Due sono le cose: o la Procura di Catanzaro ce l’ha in modo particolare con la Basilicata, o in Basilicata esiste davvero un potente comitato d’affari che negli ultimi anni ha condizionato le attività giudiziarie ma anche la vita sociale e politica di questa regione». Lo afferma in una nota Don Marcello Cozzi dell’ufficio di presidenza di Libera circa l’inchiesta Toghe Lucane Bis. «Speriamo solo che i magistrati calabresi – aggiunge - sappiano resistere all’inevitabile macchina da guerra che si metterà in moto per affondare e delegittimare come successo con De Magistris e come indubbiamente farà con gli uomini della Squadra Mobile di Potenza e con la sua Dirigente Barbara Strappato che indagando in questa inchiesta come in altre recenti rappresentano per la Basilicata onesta e che vuole la verità un vero e proprio baluardo di libertà. Ora auspichiamo che vengano riaperte alcune pagine di Toghe lucane 1 chiuse troppo in fretta, e che si capisca chi si mosse perchè ciò accadesse. In entrambe le inchieste nomi e personaggi sono sempre gli stessi e chiediamo alla Procura di Catanzaro, magari insieme a quella di Salerno, di fare tutto il necessario per accertare se questo Comitato d’affari ha un legame con l'omicidio di Elisa Claps, se quell'omicidio a sua volta avesse un legame con il duplice omicidio Gianfredi e quale fu il ruolo dei servizi segreti e della criminalità organizzata in entrambi gli avvenimenti». «Siamo convinti – conclude Don Cozzi – che un giorno arriveremo ad accertare la verità e giustizia in terra di Basilicata e finalmente affiancare nomi e volti a quanto già da anni andiamo denunciando».

“Mi auguro che sia venuto il momento di ricostruire a livello giudiziario il grumo di interessi che, in particolare a Roma, è fatto da pezzi di politica, magistratura e istituzioni. Un cancro che se non viene fermato in tempo rischia di diventare metastasi e di fermare quei servitori dello Stato che ancora con coraggio cercano di ricostruire vicende delicate e pericolose”. Così il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, in riferimento all’inchiesta Toghe lucane.

De Magistris: fu «magistratopoli». La Gazzetta del Mezzogiorno il 9 Agosto 2008. Ci sono magistrati non solo fra gli indagati, ma anche fra le persone offese nell'ambito dell'inchiesta «Toghe Lucane» del sostituto procuratore della Repubblica di Catanzaro Luigi de Magistris. C'è anche un capitolo dedicato all'Arma con alti ufficiali che avrebbero minacciato sottoposti per condizionarne le indagini. Ci sono magistrati non solo fra gli indagati, ma anche fra le persone offese identificate nell'ambito dell'inchiesta «Toghe Lucane», in cui il sostituto procuratore della Repubblica di Catanzaro Luigi de Magistris contesta anche il reato di associazione a delinquere a carico di alcune delle 33 persone complessivamente coinvolte. Infatti, secondo il pm, i componenti del presunto sodalizio, tra cui vertici degli uffici giudiziari della Basilicata, un componente del Csm ed uno del ministero della Giustizia, avrebbero tenuto «comportamenti contrari ai doveri di fedeltà, di obbedienza, di onestà, di vigilanza, di imparzialità». In quest'ultimo caso, in particolare, «attraverso - scrive il pm nell'avviso di conclusione indagini - le coperture fornite ai sodali e ai magistrati che non creavano problemi agli interessi dei centri di potere, anche occulti, protetti dal sodalizio, e ostacolando l'attività giudiziaria compiuta dai magistrati che esercitavano le funzioni in ossequio ai principi di uguaglianza di fronte alla legge ed all'obbligatorietà dell'azione penale». Sempre secondo le accuse ipotizzate, il procuratore generale presso la Corte d'appello di Potenza, Vincenzo Tufano, e il sostituto procuratore generale presso la stessa Corte, Gaetano Bonomi, «esercitavano indebita attività di interferenza nei confronti del procuratore della Repubblica di Potenza, Giuseppe Galante, dei sostituti procuratori Vincenzo Montemurro ed Henry John Woodcock, dei giudici per le indagini preliminari, Alberto Iannuzzi e Rocco Pavese, nonchè garantivano illecita copertura, attraverso l'omissione della dovuta attività di vigilanza, ad appartenenti del medesimo sodalizio, quale il sostituto procuratore della Repubblica della Dda di Potenza, nonchè procuratore vicario Felicia Genovese». Secondo quanto scritto nell'avviso, i due «condizionavano procedimenti penali in cui risultavano interessati avvocati a loro vicini; condizionavano la polizia giudiziaria impegnata in indagini delicate e complesse soprattutto per reati contro la pubblica amministrazione ed anche al fine di dirigere le loro attività contro magistrati della Procura della Repubblica di Potenza e di loro collaboratori». Il pm scrive ancora che il sostituto procuratore della Repubblica presso la Dda di Potenza, Felicia Genovese, e suo marito Michele Cannizzaro, direttore generale dell'A.O. San Carlo di Potenza, «garantivano l'esito di procedimenti penali di loro interesse e delle persone di cui erano garanti e offrivano utilità varie attraverso il ruolo di Cannizzaro all'interno della più grande Azienda ospedaliera della Basilicata». Emilio Nicola Buccico, aggiunge De Magistris, «quale avvocato e consigliere del Csm, quale contraprestazione di interventi giudiziari in suo favore e di persone a lui riconducibili, garantiva il suo intervento presso pratiche (disciplinari, para disciplinari, incarichi direttivi e semidirettivi e altri ancora) innanzi al Csm che riguardavano sodali e altri magistrati, nonchè incarichi presso organi costituzionali e il consolidamento di posizioni negli ambienti politici e professionali della Basilicata». Buccico, sostiene il magistrato di Catanzaro, garantiva in particolare interventi di favore presso il Csm nei confronti del presidente del Tribunale di Matera, Iside Granese, con riferimento a un debito che questa aveva cn la Banca popolare del Materano, istituto bancario più volte patrocinato dallo stesso studio legale Buccico; prometteva e faceva avere, inoltre, al sostituto procuratore della Dda di Potenza, Genovese, l'incarico di consulente presso la Commissione parlamentare antimafia». Granese, dal canto suo, «per assicurare l'impunità ad Attilio Caruso, presidente della Banca popolare del Materano - scrive il pm De Magistris - per alcuni fatti illeciti commessi nella gestione del consorzio Anthill e della Ilm srl», avrebbe consentito l'illegittimo fallimento del consorzio; questo nonostante la Granese risultasse «giudice in diverse cause nelle quali era convenuta la Banca, nello stesso periodo in cui il presidente del Tribunale aveva contratto un rapporto di mutuo, a condizioni di eccezionale favore, con lo stesso istituto bancario». Anche all'avvocato e presidente della Camera penale di Matera, Giuseppe Labriola, e al procuratore della Repubblica di Matera, Giuseppe Chieco, è contestato di avere condizionato lo svolgimento di procedimenti giudiziari riguardanti persone loro vicine. Punti di riferimento del sodalizio delineato dal pm sarebbero stati anche, nell'ambito della polizia giudiziaria Pietro Gentili, alto ufficiale dei carabinieri e responsabili della sezione Pg della Procura di Potenza, e Luisa Fasano, dirigente della squadra Mobile della Questura potentina. Ai due è contestato di avere ostacolato appartenenti alla polizia giudiziaria, di avere carpito informazioni riservate, di avere divulgato notizie segrete relative a indagini, di avere condizionato avvocati e persone informate sui fatti. Da ultimo, presso il ministero della Giustizia, il sodalizio avrebbe potuto contare su Vincenzo Barbieri, capo della direzione generale magistrati, per «indirizzare attività di accertamento ispettivo di tipo strumentale, nonchè attività di indebita pressione e condizionamento», contro magistrati impegnati in inchieste delicate, coprendo invece le toghe collegate al sodalizio. Il tentativo di ostacolare le indagini di alcuni magistrati in servizio negli uffici giudiziari di Potenza, sarebbe passato anche da alcuni alti ufficiali dei carabinieri che, secondo le ipotesi investigative contenute nell'avviso di conclusione indagine dell'inchiesta «Toghe lucane», avrebbero minacciato alcuni sottoposti per «costringerli» a rivedere alcune dichiarazioni. La ricostruzione è riportata nell'avviso firmato dal sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro Luigi De Magistris, che ipotizza nei confronti degli alti ufficiali dell'Arma il reato di concorso in abuso di ufficio e minacce a pubblico ufficiale. Per questo, risultano indagati Massimo Cetola, generale dell'Arma dei carabinieri, già comandante interregionale, e ad aprile del 2008 insediatosi come commissario all'Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria; Gaetano Bonomi, sostituto procuratore generale presso la Corte di appello di Potenza; Emanuele Garelli, generale dei carabinieri, già comandante della regione Basilicata; Nicola Improta, colonnello dei carabinieri, già capo di Stato maggiore in Basilicata; Pietro Giuseppe Polignano, tenente colonnello dei carabinieri, già comandante provinciale di Potenza. Secondo il provvedimento firmato da De Magistris, «in concorso tra loro, usavano minaccia nei confronti dei pubblici ufficiali Antonio Angiulli, capitano comandante della Compagnia carabinieri di Potenza, e Salvatore Luciano, tenente comandante del Nucleo operativo e radiomobile della Compagnia di Potenza, consistita nel prospettare procedimenti disciplinari e trasferimenti d'ufficio, poi realizzatisi attraverso il trasferimento del primo a Imperia e del secondo sottoposto a procedimento disciplinare per l'irrogazione della sanzione della consegna di rigore». Sempre secondo l'avviso di conclusione delle indagini, l'obiettivo sarebbe stato quello di «costringerli a ritrattare le dichiarazioni da loro rilasciate al procuratore della Repubblica di Potenza, che non consentivano di realizzare - evidenzia il pm De Magistris - il disegno criminoso perseguito dal sostituto Bonomi in concorso con gli alti ufficiali».

Caos toghe, De Magistris: «I pm di sinistra mi elogiavano solo se indagavo Berlusconi». Mario Landolfi, lunedì 25 maggio 2020 su Il Secolo D'Italia. Il caso Palamara comincia a far vomitare decenni di uso politico della giustizia. E ora tocca a Luigi De Magistris, sindaco di Napoli e già eurodeputato, togliersi il sassolino dalla scarpa. Lui è un altro magistrato finito in politica. A sinistra, ovviamente. Ma la circostanza non gli ha impedito, ieri da Giletti, di sferrare un attacco violentissimo a Giorgio Napolitano e a Nicola Mancino colpevoli, a suo dire, di averlo allontanato da inchieste bollenti quando il prima sedeva al Quirinale e il secondo presiedeva (di fatto) il Csm. Il trait-d’union tra questa sua risalente vicenda e lo squallore giudiziario recente è Francesco Basentini, l’ex-capo del Dap costretto a dimettersi dopo l’uscita dal carcere di mafiosi conclamati causa l’emergenza Covid.

La denuncia di De Magistris a Non è l’Arena. È proprio Basentini, secondo De Magistris, a denunciarlo nel 2007 al Csm. All’epoca, l’attuale sindaco di Napoli era pm a Catanzaro e in questa veste aveva ordinato una perquisizione al procuratore di Potenza. «Scoprendo – ha rivelato nel corso di Non è l’Arena – un grumo di interessi, gli stessi che stanno venendo fuori nel vicenda Palamara». Nel frattempo, però, la denuncia di Basentini aveva attivato il Csm. Lì Mancino e il «mandante Napolitano» si mossero e «io – ricorda De Magistris – fui allontanato da quelle inchieste». E non è finita. Perché a dichiarargli guerra, oltre ai vertici del Csm, furono anche «tutte le correnti». Anzi lo fecero fuori. Il motivo lo ha ricordato il diretto interessato: «Perché fino a quando indagavo su Berlusconi, mi facevano l’applauso. Come cominciai ad indagare a sinistra, mi dissero: ma che fai, indaghi pure a sinistra?». E chi era il capo dell’Anm, il sindacato delle toghe? Proprio Palamara. Quando De Magistris fu allontanato, la prima reazione fu la sua. E per dire che «il sistema ha dimostrato di avere gli anticorpi». A distanza di anni, l’ex-pm Ma De Magistris assapora il gusto della vendetta. E dice: «Ditemi voi se questa è una frase mafiosa o una frase di un magistrato». Giudizio rovente. Ma, ha aggiunto, «mi assumo la responsabilità penale e civile di quello che dico». Per De Magistris, tutto torna: «Basentini va al Dap», per poi essere rimpiazzato da Petralia che nel Csm dell’era Napolitano- Mancino «era componente della prima commissione». La chiusa dell’ex-pm è tutta per il grillino Bonafede: «Il M5S va col grido “onestà onestà” per dare forza ai magistrati coraggiosi, ma informatevi meglio».

Mariateresa Conti per “il Giornale” il 26 maggio 2020. «Fino a quando indagavo su Berlusconi, mi facevano l' applauso; come cominciai ad indagare a sinistra, mi dissero: ma che fai, indaghi pure a sinistra?». È un Luigi de Magistris scatenato quello che domenica sera, ospite di Massimo Giletti a «Non è l' Arena», parla delle vicende di oggi (il caso Di Matteo, i guai del Dap e lo scandalo delle intercettazioni venute fuori dall' inchiesta di Perugia sul caso Palamara) collegandole alle sue vicende personali da pm, quelle che nel 2007 provocarono il suo allontanamento dall' indagine Why not. L'attacco frontale, ma non è una novità perché lo ha sempre detto (nel 2015, quando è stato assolto per Why not, ha parlato di «golpe istituzionale»), è all' ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e all' ex ministro Nicola Mancino, che all' epoca era vicepresidente del Csm. Nuova, però, è la base dei suoi guai indicata dall' ex pm. Un' ammissione: «Fui allontanato per volere di Napolitano e Mancino. Il Csm, Napolitano e Mancino e tutte le correnti mi hanno fatto fuori, perché fino a quando indagavo su Berlusconi, mi facevano l'applauso; come cominciai ad indagare a sinistra, mi dissero: ma che fai, indaghi pure a sinistra?». «Mi assumo la responsabilità penale e civile di ciò che dico», ripete più volte de Magistris. Il siluro contro Napolitano e Mancino arriva parlando di Franco Basentini, l' ex numero uno del Dap nominato dal Guardasigilli Bonafede al posto del pm antimafia Nino Di Matteo e che si è dimesso ai primi di maggio dopo le polemiche sui boss scarcerati per il coronavirus. «Quando è stato scelto Basentini - dice l' ex pm sindaco di Napoli - mi sono meravigliato, perché quando nel giugno 2007 feci una perquisizione al procuratore di Potenza scoprendo un grumo di interessi, gli stessi che stanno venendo fuori nel vicenda Palamara, il buon Basentini ebbe nodo di denunciarmi alla procura di Salerno, e poi quel sistema del ministero della Giustizia, avendo come giudice al Csm Mancino e come mandante Napolitano si mossero e io fui allontanato da quelle inchieste». De Magistris è un fiume in piena: «Quando ci furono magistrati onesti e coraggiosi alla procura di Salerno che cominciarono a indagare su quel sistema criminale e fecero perquisizioni e sequestri ad alcuni magistrati calabresi questi magistrati calabresi controsequestrarono il sequestro di Salerno, che è come dire che le guardie indagano sui ladri e i ladri di mettono a indagare sulle guardie... Napolitano insieme ad altri fecero uscire la guerra tra procure che portò il Csm a trasferire chi? I magistrati di Salerno e il presidente dell' Anm Palamara all' epoca disse: il sistema ha dimostrato di avere gli anticorpi. Ditemi voi se questa è una frase di un magistrato». De Magistris ne ha anche per Dino Petralia, il pm nominato a capo del Dap dopo Basentini: «Petralia ha avuto un ruolo determinante, sempre in quel Csm in cui c' erano Napolitano e Mancino, Petralia era componente della prima commissione del Csm. E allora dico: caro ministro, il M5s va col grido onestà onestà per dare forza ai magistrati coraggiosi, ma informatevi meglio». Infine Nino Di Matteo, l' ex pm della trattativa Stato-mafia che ha intercettato Napolitano e Mancino (intercettazioni illegittime poi distrutte per ordine della Consulta). Nello scontro con Bonafede de Magistris non ha dubbi: «Nino è uno dei magistrati più scomodi del nostro Paese perché ha avuto il coraggio e l' autonomia di fare una delle indagini più delicate, quelle sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra, dove si è arrivati al punto vergognoso di distruggere alcune intercettazioni decisive».

Michele Di Lollo per ilgiornale.it il 19 giugno 2020. Si apre un nuovo capitolo della saga che infiamma in queste settimane il mondo della magistratura. Non bastavano le denunce del consigliere del Csm, Nino Di Matteo, sul caos nomine al Dap. Quando lo stesso Di Matteo per scelta del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, venne surclassato da un altro magistrato, Francesco Basentini. Polemica tirata fuori nel corso di una puntata del programma tv "Non è l’Arena". Gli ultimi sviluppi dimostrano la guerra fredda esistente all’interno della giustizia. E il coronavirus, con la tanto discussa scarcerazione dei boss, sembra aver contribuito a sparigliare nervosamente le carte. Nelle scorse ore Di Matteo è tornato sulla faccenda, facendo riferimento anche alla trattativa Stato-mafia. E ne è venuto fuori l’ennesimo vespaio. Ora interviene, intervistato dall’Adnkronos, l’ex procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia. "Anche in questo caso Nino Di Matteo dimostra di avere buona memoria al contrario del ministro Bonafede, ricordando un episodio da me, peraltro, raccontato. Fu per me stupefacente che in pieno scontro col Quirinale per il famoso conflitto di attribuzioni, il Capo dello Stato, presidente Napolitano, mi mandasse un’ambasciata attraverso il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, con la quale mi chiedeva se si poteva trovare un accordo per evitare il conflitto davanti alla Corte Costituzionale". Ingroia commenta quanto spiegato ieri da Di Matteo durante l’audizione davanti alla Commissione nazionale antimafia parlando del processo sulla trattativa. Quando i pm palermitani andarono a interrogare l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Di Matteo davanti all’Antimafia, presieduta da Nicola Morra, ha spiegato: "Se non ricordo male, a un certo punto nel momento più aspro della polemica dovuta al conflitto di attribuzione, Ingroia, che all’epoca era ancora alla procura di Palermo e conduceva le indagini con noi, disse, a me e all’allora procuratore Messineo, che a Roma aveva incontrato un noto giornalista, il direttore di un noto quotidiano, che gli aveva detto che dal Quirinale volevano sapere se c’era la possibilità di un qualche contatto con la procura di Palermo, per risolvere questa situazione. E in quel caso il punto di collegamento poteva essere sperimentato dal dottor Luca Palamara". Ora al centro delle polemiche davanti la procura di Perugia per l’affare nomine. Di Matteo, a seguito di un riferimento al processo sulla trattativa Stato-mafia, ha richiamato anche le critiche feroci ricevute da tutte le fazioni politiche. Critiche particolarmente virulente nel momento in cui la vicenda si intrecciò con quella delle conversazioni di Napolitano. "Io pensavo che Antonio scherzasse", ha rimarcato Di Matteo. "Fu una cosa estemporanea, ricordo che fece il nome come possibile mediatore di Palamara. In quel momento - ha spiegato Di Matteo - non capivo cosa potesse entrarci con le vicende del procedimento sulla trattativa Stato-mafia e con le rimostranze del Quirinale. Questo è un dato di fatto. Non sono mai più tornato con Ingroia su questa cosa, ma ricordo questo riferimento estemporaneo, credo che il direttore a cui aveva fatto riferimento Ingroia fosse l’allora direttore di Repubblica, Ezio Mauro. Ma Ingroia potrebbe essere più preciso". Ed ecco la replica di Ingroia all’Adnkronos: "La cosa ancor più sorprendente per me fu che fra gli ambasciatori indicati da Napolitano come suoi portavoce per un ipotetico incontro ci fosse proprio il dottor Palamara che, in quanto presidente dell’Anm, avrebbe dovuto essere tutt’al più un portavoce della magistratura. E quindi nostro, e non certo della politica, e cioè del presidente Napolitano. Poi la cosa non ebbe ulteriori sviluppi probabilmente per la mia risposta". "Di fronte, infatti, all’anomalia di tutta la vicenda fu molto chiara la mia posizione espressa al direttore di Repubblica di allora, quando gli dissi che noi alla procura di Palermo rispettavamo sempre le regole, e su questo non poteva esserci alcun margine di trattativa. E sarebbe stato bene che il Quirinale rinunciasse alle proprie posizioni insostenibili. Forse proprio per questo nessuno mi fece più proposte del genere", aggiunge Ingroia. Puntuali arrivano le parole di Mauro: "Ricordo una vista di Ingroia quando ero direttore di Repubblica". Smentisce, però, l'ex procuratore di Palermo sul nome dell’ex presidente Anm: "Nessuno (durante quell’incontro) mi ha mai fatto il nome di Palamara. Un nome che ho scoperto più tardi leggendo le cronache dei giornali e che al momento non conoscevo".

Antonio Amorosi per affaritaliani.it il 25 giugno 2020. Dopo l’intervista di ieri all’ex pm Antonio Ingroia abbiamo chiesto un’intervista anche all’ex direttore de La Repubblica Ezio Mauro. L’argomento è “l’incontro” avvenuto con Ingroia, nel quale, a detta dell’ex pm si sarebbe parlato di un presunto interessamento del Quirinale, guidato allora da Giorgio Napolitano, per “una soluzione” al conflitto d'attribuzione tra Procura di Palermo e Quirinale emerso durante il processo-procedimento sulla trattativa Stato-mafia. Il conflitto sarebbe insorto sulle intercettazioni tra lo stesso Napolitano e l'imputato nel processo ed ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Secondo i pm, l’ex ministro, insediatosi al Viminale nel 1992, sapeva della trattativa e avrebbe mentito sui rapporti tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, intercorsi nei primi anni ’90. Mancino avrebbe fatto varie telefonate e tra queste anche al Quirinale, per sollecitare un intervento di Napolitano al fine di evitare un confronto con l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli. Il Presidente della Repubblica ritenne lese le proprie prerogative e la Consulta gli diede ragione. Gli audio con le conversazioni intercettate vennero poi distrutte con una procedura camerale. Mancino in seguito è stato assolto. L’incontro tra Mauro e Ingroia o i 2 incontri, come sostiene l’ex pm, si sarebbero tenuti nel 2012. Ezio Mauro ci ha ringraziato per l’interessamento ma ha preferito non farsi intervistare. “Avendo già risposto pochi giorni fa non ha altro da aggiungere sulla vicenda in questione”, ci ha scritto la segreteria di redazione de La Repubblica. Peccato non potergli fare delle domande. La questione non è risolta e restano non pochi dubbi sulle parole dell’ex direttore che dà risposte che si smontano da sole. Mauro aveva reagito in precedenza al caso tramite l’agenzia Adnkronos sostenendo che fosse l’ex pm Ingroia a cercare “un canale di comunicazione con il Quirinale”. E che all’epoca non conoscesse Luca Palamara, uno dei possibili mediatori tra Quirinale e Procura di Palermo. Mauro: "Nessuno mi ha mai fatto il nome di Palamara, un nome che ho scoperto più tardi leggendo le cronache dei giornali e che al momento non conoscevo". Ora non si comprende perché un procuratore aggiunto come Ingroia, che seguiva inchieste delicatissime, avesse bisogno del direttore de La Repubblica per contattare il Quirinale! E perché, se avesse voluto, vista anche la riservatezza della questione, doveva farlo sapere al direttore di un giornale, con il pericolo che la vicenda trapelasse. Va bene che il direttore di Repubblica è quasi un’istituzione in Italia ma doverlo contattare per parlare con il presidente della Repubblica sembra eccessivo! Appare altrettanto difficile comprendere come Ezio Mauro non conoscesse, almeno di nome, Luca Palamara, in quel momento presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati. Palamara veniva continuamente intervistato da La Repubblica, tanto più viste le posizioni dello stesso magistrato contro Silvio Berlusconi e le campagne di Ezio Mauro contro il leader di Forza Italia. I due esprimevano lo stesso giudizio negativo. E’ possibile che Mauro non lo conoscesse? Che il direttore di Repubblica non avesse mai sentito il nome del capo dell’Associazione Nazionale magistrati quando appariva quasi tutti i giorni sul suo giornale? Ingroia ha riferito che quel conflitto tra Procura e Quirinale sia stato lo stop più grave a quell'indagine. “Perché”, a detta dell’ex magistrato, “ha costituito un esercizio di un potere legittimo che però è utilizzato come un avvertimento intimidatorio all'interno dello Stato”. E’ un’ accusa, vero o falsa che sia, per quanto attribuita a terzi, molto grave. Il dubbio che ricade su questa vicenda pesa quanto le rivelazioni di Ingroia. “Le amnesie” dell’ex direttore Ezio Mauro o la sua ritrosia a un confronto le amplificano. Non è infatti d’altro canto compito dei giornalisti fare gli intermediari tra istituzioni anche se queste si chiamano presidente della Repubblica, tanto più su un caso che riguarda una trattativa, o presunta tale, tra Stato e mafia. “La magistratura è diventata, complessivamente, non tutta, come ha dimostrato la sentenza della Corte d'Assise di Palermo, ostile nei confronti di quell'indagine, di quella verità, di quelle persone fisiche”, ha detto Ingroia e sarebbe accaduto non solo nel ramo giudiziario, ma anche “negli ambienti politici e giornalistici nel quale, non solo il presidente Napolitano ma anche chi era attorno a lui, avrebbe fatto in modo di arrivare a quel conflitto di attribuzione”.

Quelle intercettazioni erano irrilevanti, per i pm di Palermo. Di Matteo, in audizione, lo ha omesso. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 Giugno 2020. Nel suo intervento davanti alla bicamerale Antimafia, l’allora pm del processo “trattativa” ha rispolverato i tentativi di mediazione del Colle sui colloqui di Napolitano poi “bloccati” dalla Consulta. Peccato che lo stesso Di Matteo abbia omesso di dire che la sua Procura aveva definito inutili quei nastri, salvo cambiare improvvisamente idea. Durante l’audizione di giovedì scorso in commissione Antimafia, il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo ha fatto anche riferimento al periodo più aspro del processo sulla “trattativa” Stato-mafia, quello del conflitto di attribuzioni che l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sollevò alla Corte costituzionale. Oggetto del ricorso, poi accolto dalla Consulta, erano le decisioni che gli allora pm della “trattativa” avevano assunto sulle intercettazioni di colloqui telefonici del Capo dello Stato. Secondo il Quirinale le prerogative del Colle erano state già lese dai magistrati al momento della valutazione sull’irrilevanza penale delle telefonate intercettate.

Palamara è ovunque, pure nel processo trattativa. «Però vi voglio dire anche un’altra cosa – ha dichiarato Di Matteo davanti alla commissione Antimafia –. Se non ricordo male, a un certo punto proprio nel momento più aspro della polemica dovuta al conflitto di attribuzioni, il dottor Ingroia mi disse, a me e all’allora procuratore Messineo, che a Roma aveva incontrato il direttore di un noto quotidiano. Costui gli aveva detto che dal Quirinale gli avevano chiesto se c’era la possibilità di un qualche contatto con la Procura di Palermo, per risolvere questa situazione, e che in quel caso il punto di collegamento poteva essere rappresentato dal dottor Luca Palamara». Sempre Di Matteo, poi, aggiunge che «in quel momento non capivo che cosa potesse entrarci (Palamara, ndr) con le vicende del procedimento trattativa Stato-mafia e con le rimostranze del Quirinale». E ha concluso: «Credo che il direttore cui aveva fatto riferimento Ingroia fosse l’allora direttore di Repubblica Ezio Mauro. Ma Ingroia potrebbe essere più preciso».

Le conferme di Ingroia…Ebbene, Antonio Ingroia, contattato dall’agenzia AdnKronos, conferma tutto. «Fu per me stupefacente che in pieno scontro col Quirinale per il famoso conflitto di attribuzioni – riferisce l’ormai ex pm – il Capo dello Stato, presidente Napolitano, mi mandasse un’ambasciata attraverso il direttore di Repubblica Ezio Mauro, con la quale mi chiedeva se si poteva trovare un “accordo” per evitare il conflitto davanti alla Corte Costituzionale».

…e la smentita di Ezio Mauro. La smentita dell’ex direttore di Repubblica non si è fatta attendere e riferisce l’esatto contrario: «Fu Ingroia a cercare un canale du comunicazione con il Quirinale: ricordo una sua visita quando ero direttore di Repubblica e un colloquio su varie vicende. Ricordo anche un interesse di Ingroia a trovare un canale di comunicazione con il Quirinale». Ricordiamo che la Corte Costituzionale ha dato ragione a Giorgio Napolitano, ordinando la distruzione delle intercettazioni. Ma cosa era accaduto? Nell’ambito dell’allora procedimento penale sulla trattativa Stato-mafia pendente dinanzi alla procura di Palermo, erano state captate conversazioni dell’allora presidente Napolitano nel corso di intercettazioni telefoniche effettuate su utenza di altra persona.

Fu la Procura di Palermo a definire irrilevanti le intercettazioni. Lo stesso procuratore di Palermo, rispondendo alla richiesta di notizie formulata il 27 giugno 2012 dall’Avvocato Generale dello Stato, aveva riferito, il successivo 6 luglio, che, «questa Procura, avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato, non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge». Non solo. Con una lettera al quotidiano la Repubblica pubblicata l’11 luglio 2012, il pm Francesco Messineo ha ulteriormente affermato tra l’altro, sempre con riferimento alle intercettazioni, che «in tali casi, alla successiva distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, sentite le parti».

Il ripensamento dei pm palermitani. Tutto bene quel che finisce bene? Nient’affatto. Arriva il dietrofront. La stessa Procura di Palermo poi decise invece di mantenere le intercettazioni agli atti del procedimento perché esse fossero dapprima sottoposte ai difensori delle parti, ai fini del loro ascolto, e successivamente, nel contraddittorio tra le parti stesse, sottoposte all’esame del giudice ai fini della loro acquisizione. Per questo motivo l’ex presidente Napolitano sollevò il conflitto di attribuzione e la Consulta gli diede ragione. Le intercettazioni in questione erano tra lui e l’ex ministro Nicola Mancino. Quest’ultimo all’epoca indagato per la “trattativa”, processato e infine assolto.

Il dibattito. Cafiero de Raho umilia Di Matteo e gli dà una lezione di riservatezza in diretta tv. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Giugno 2020. Capita che intorno alla mezzanotte il Procuratore nazionale alzi un telefono e smentisca l’icona dell’“antimafia” Nino Di Matteo e tutto il suo partitino di contorno che alberga(va) ogni domenica sera in uno studio di La7. Se sei un magistrato che ama fregiarsi del titolo di “antimafia” e se sei anche convinto di essere il novello Giovanni Falcone, e se partecipi a una riunione riservatissima sulle stragi e poi vai in Tv e spifferi tutto, che cosa significa tutto ciò? Può voler dire solo due cose: o le notizie oggetto della riunione non erano così fondamentali, o la tua vanità personale, la tua quotidiana necessità di esibirti è più importante di tutto il resto. Questa volta la lezioncina su quel che significa (nella vita, prima ancora che nel prestigio del ruolo) riservatezza, ma anche rapporto di fiducia, l’ha impartita al pubblico ministero, oggi membro del Csm, Nino Di Matteo, colui che fu il suo capo per pochi giorni, il procuratore nazionale “antimafia” Federico Cafiero de Raho. L’alto magistrato è stato costretto all’umiliazione di una telefonata notturna alla sede del partitino del suo ex fugace collaboratore alla Commissione stragi, cioè la trasmissione di La7 Non è l’Arena Chiama per precisare, come già fece in un’altra puntata lo stesso Di Matteo e di rimbalzo il ministro Bonafede. Il quale non si è poi più fatto vivo, visto forse il clima a lui non molto favorevole. Ha preferito andare da Vespa, commenta Massimo Giletti, patron della trasmissione e segretario del partitino del pm inventore del processo “trattativa”. Il procuratore Cafiero de Raho sa di non giocare in casa, infatti il conduttore chiarisce subito di non potergli concedere più di due minuti, perché questa parte della trasmissione sta finendo. Naturalmente non sarà così, tanto che dopo di lui potranno parlare a commentare le sue parole tutti gli altri soliti componenti della compagnia di giro che ogni settimana fanno da contorno al loro leader idolatrato, la cui lunga intervista registrata dallo stesso Giletti viene spezzata in modo da farla da protagonista su diversi temi per tutta la serata. Un punto forte è quello del complotto politico che impedirebbe a Nino Di Matteo di trionfare nella carriera politica che meriterebbe. Come accadde a Falcone, si dice, senza il minimo senso del ridicolo e delle proporzioni. Si ricorda quando i complottisti riuscirono a farlo fuori da una Commissione che si chiama “Stragi e mandanti esterni” e che ha nel titolo già la sentenza. Il pool era stato istituito nel 2019 proprio dal Procuratore Cafiero de Raho, Di Matteo era uno dei tre membri. Avevano appunto svolto un paio di riunioni, riservatissime e con la presenza di una serie di procuratori distrettuali, l’ultima delle quali il 15 maggio di un anno fa, quando il 18, tre giorni dopo, Di Matteo andò dal giornalista Andrea Purgatori ad Atlantide (sempre su La7) e spifferò tutto. Questo per lo meno ritenne un suo collega, il quale stava indagando proprio sui punti di cui Di Matteo aveva parlato dai teleschermi e se ne lamentò con Cafiero de Raho. Il quale a sua volta non si limitò a deferirlo al Csm, ma lo sollevò dall’incarico con provvedimento “immediatamente esecutivo”. Nella trasmissione di Giletti l’episodio viene classificato come grave ingiustizia subita dall’attuale membro del Csm a causa del processo “Trattativa Stato-mafia”. Ne ha parlato e per questo motivo, dice il conduttore, Di Matteo fu cacciato dal pool stragi con una mail. Indignazione generale dei membri del partitino. Eh no, corregge subito Cafiero de Raho, non fu quello il motivo. E spiega di aver espulso un chiacchierone esibizionista e spione, anche se ovviamente non usa questo linguaggio. Poi, quasi per farsi perdonare, aggiunge di aver un mese dopo sollecitato un’audizione al Csm per riammettere Di Matteo nel pool, a patto però che lui sottoscrivesse un patto di riservatezza, un po’ come si usa nelle aziende che trattano questioni delicate e segrete. Ma lui, l’aspirante Falcone, rifiutò. È chiaro come vanno le cose nel partito dei pubblici ministeri? Non “cogito ergo sum”. Ma esisto solo se posso esibirmi. E le inchieste vengono dopo. A volte questo è una fortuna. 

La memoria corta… del Procuratore Nazionale Antimafia Cafiero De Raho. Il Corriere del Giorno il 15 Giugno 2020. Ieri sera il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho ha telefonato in diretta da Gilletti, ma oggi nessuno ha protestato e gridato allo scandalo come invece accadde quando giustamente Di Matteo telefonò per precisare che lui non aveva mai condotto alcuna trattativa con il Ministro Bonafede come falsamente affermato dall’esponente grillino Gianrusso, nonostante Cafiero De Raho abbia citato a sostegno delle sue presuntyebragioni, un atto segretato dal CSM come è la sua lettera di protesta per l’intervista rilasciata da Di Matteo, che ha riferito di aver ricevuto da un Procuratore Capo. Ieri sera nell’ultima puntata del programma “NON E’ L’ARENA” condotto da Massimo Gilletti vi è stato un intervento telefonico del Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho che ha cercato di difendere la sua decisione di estromettere a suo tempo il pm Nino De Matteo dal pool investigativo sulle stragi. Il dottor Cafiero De Raho ha dimenticato…. quella sua conversazione intercorsa via chat con Luca Palamara, dopo la sua sconfitta al CSM nella corsa per diventare Procuratore Capo di Napoli, nonostante la sponsorizzazione ricevuta. Il 27 luglio 2017 Palamara scriveva : “Ho lottato insieme a te fino all’ultimo. Persa una battaglia non la guerra”. Cafiero de Raho (anche lui esponente della corrente Unicost, n.d.r.) gli risponde : “Carissimo Luca sono convinto che ancora dobbiamo lottare insieme. Grazie, comunque, per avermi assecondato nella scelta, che non condividevi, di andare avanti ..” E continuano a lottare insieme , infatti, poi viene nominato Procuratore Nazionale Antimafia . Il 26 maggio 2017 Cafiero de Raho rimuove Nino Di Matteo dal pool sulle stragi , e Palamara commenta con Sirignano, sostituto procuratore della Procuratore Nazionale Antimafia : “Grande Federico” (cioè De Raho n.d.r. ) “. E Sirignano gli risponde: ”Luca ma tu non hai capito che Federico rappresenta la nostra forza”. Sirignano come risulta dalle chat si muoveva e faceva pressioni su Palamara per far eleggere come vicepresidente del CSM Gigliotti, consigliere “laico” del CSM in quota M5S al posto di Ermini, (Pd). Ieri sera il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho ha telefonato in diretta da Gilletti, ma oggi nessuno ha protestato e gridato allo scandalo come invece accadde quando giustamente Di Matteo telefonò per precisare che lui non aveva mai condotto alcuna trattativa con il Ministro Bonafede come falsamente affermato dall’esponente grillino Gianrusso, nonostante Cafiero De Raho abbia citato a sostegno delle sue presuntyebragioni, un atto segretato dal CSM come è la sua lettera di protesta per l’intervista rilasciata da Di Matteo, che ha riferito di aver ricevuto da un Procuratore Capo .

Qualcuno ha ancora dei dubbi sul malessere cronico della magistratura italiana ? Come si fa non dare ragione a chi come Salvini chiede lo scioglimento dell’ ANM e del CSM ?

Caso Di Matteo, il procuratore nazionale De Raho ci ripensa: “Revocata l'espulsione dal pool stragi”. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 24/10/2020. Nel maggio dell’anno scorso l'estromissione dopo un’intervista. La decisione a sorpresa alla vigilia della decisione del Csm. Il presidente della commissione antimafia: "Finalmente". Nel maggio dell’anno scorso, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho aveva espulso Nino Di Matteo, all'epoca sostituto della Dna oggi al Csm, dal pool d’indagine sulle stragi. Gli contestava un’intervista ad “Atlantide” sui mandanti occulti delle bombe del 1992. Adesso, Cafiero De Raho ci ripensa e revoca il suo provvedimento, informando il Consiglio superiore della magistratura che intanto aveva aperto un fascicolo sul caso. Il 23 settembre scorso, il procuratore nazionale ha inviato una nota a Palazzo dei Marescialli facendo sapere al Csm che vuole evitare “aggravi procedurali e decisionali in un momento particolarmente delicato per la svolgimento delle funzioni e l’immagine della magistratura”. Motivazione che arriva dopo mesi di riunioni e audizioni sul caso fatte dalla Settima Commissione, la decisione era ormai imminente. Lavoro inutile, la revoca del provvedimento ha bloccato tutto, il Csm ha disposto il “non luogo a procedere”. Risultato, quando Nino Di Matteo ritornerà alla direzione nazionale antimafia dopo l’incarico al Csm potrà riprendere il suo posto nel pool di indagine sulle stragi e i delitti eccellenti. Contro la decisione di Cafiero De Raho erano scesi in campo una novantina di magistrati firmando una lettera aperta. "Ha anticipato temi di indagine", aveva accusato il procuratore nazionale. "Ha tradito la fiducia del suo gruppo di lavoro e delle procure distrettuali impegnate nelle inchieste". Di Matteo si era difeso davanti al Csm ribadendo di aver parlato di questioni note da anni: il ritrovamento, accanto al cratere di Capaci, di un biglietto scritto da un agente dei servizi segreti, e poi anche di un guanto con un Dna femminile. In Tv, il magistrato aveva ricordato pure la scomparsa del diario di Falcone da un computer del ministero della Giustizia e aveva ribadito l'ipotesi che alcuni appartenenti a Gladio abbiano avuto un ruolo nella fase esecutiva della strage del 23 maggio 1992. "Questioni note da anni". Il caso aveva finito per dividere anche il Csm. Ma, ora, quel provvedimento di espulsione non esiste più. Revocato con una lettera, un anno e mezzo dopo. Peraltro, proprio in seguito a quel provvedimento Di Matteo aveva deciso di andare via dalla direzione nazionale antimafia. Il reintegro, almeno sulla carta, di Nino Di Matteo nel pool stragi viene ritenuto un fatto importante dal presidente della commissione parlamentare antimafia: "Finalmente - scrive Nicola Morra su Facebook  - E' il doveroso riconoscimento del valore dell'uomo innanzitutto, dell'inquirente in seconda battuta. Un grande uomo, un grande italiano che non si è mai risparmiato per cercare la verità e fare giustizia contro Cosa nostra, contro tutte le mafie, contro le relazioni fra le mafie e la politica".

Travaglio e Davigo “bocciano” Cantone: “Non ha i titolo per la procura di Perugia”. Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio il 16 giugno 2020. Domani la nomina della procura di Perugia. Una poltrona strategica nel panorama giudiziario in quanto competente per i reati commessi dalle toghe della Capitale. Chi verrà nominato troverà subito un fascicolo rovente: quello a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Raffaele Cantone  “bocciato” dal Fatto Quotidiano. La scorsa settimana era stato Mario Serio, ordinario di diritto privato all’Università di Palermo ed ex componente del Csm; ieri è toccato ad  Antonio Esposito, ex presidente di sezione in Cassazione,  noto alle cronache per essere stato il presidente del collegio che confermò nel 2013 la condanna per frode fiscale a Silvio Berlusconi, stroncare con un editoriale la corsa dello zar anticorruzione verso la Procura di Perugia. Cantone, in estrema sintesi, e a dar retta al giornale di Marco Travaglio, non avrebbe i titoli per aspirare a questo incarico. Ha passato troppo tempo lontano dalle aule dei tribunali.  Se il Csm vuole effettivamente cambiare rotta, affermano i due,  Cantone non può diventare procuratore di Perugia. Gli interventi di Serio ed Esposito sul Fatto, seguono il  duro attacco di Piercamillo Davigo e dei togati di Autonomia&indipendenza, la corrente della magistratura fondata dall’ex pm di Mani pulite, Sebastiano Ardita, Giuseppe Marra, Ilaria Pepe, nei confronti del magistrato voluto da Matteo Renzi a capo dell’Anac. Ad aprile la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm aveva proposto Cantone al Plenum con tre voti (quello del togato Mario Suriano di Area, la corrente di Cantone, e dei laici Alberto Maria Benedetti (M5S) e Michele Cerabona (FI). Due voti a favore dello sfidante, il procuratore aggiunto di Salerno, Luca Masini (quello di Davigo e della togata di Magistratura indipendente Loredana Miccichè. Astenuto il togato Marco Mancinetti di Unicost.“Masini, dopo aver svolto tutta la sua carriera in diversi uffici requirenti, svolge da quasi cinque  anni l’incarico  aggiunto a Salerno. Inoltre  è stato per un lungo periodo anche facente funzioni della Procura di Salerno, che ha gestito in una fase notoriamente caratterizzata da indagini molto complesse”, aveva sottolineato Davigo.“Cantone – aggiunse  – dopo aver svolto il ruolo di sostituto procuratore a Napoli fino all’ottobre 2007, è stato destinato all’Ufficio del massimario e dal 2014 ad ottobre 2019 è stato nominato n. 1 dell’Anac”.Per nominare Cantone procuratore di Perugia bisognerebbe allora non tener conto dei criteri previsti per la dirigenza che puntano a valorizzare “esperienze maturate nel lavoro giudiziario”. Se il Csm vuole riacquistare la credibilità serve “coerenza delle scelte”, puntualizzò Davigo, evitando “soluzioni di continuità” tra gli incarichi fuori ruolo ed il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi. La Procura di Perugia, va ricordato, è strategica nel panorama giudiziario in quanto competente per i reati commessi dalle toghe della Capitale. Chi verrà nominato domani troverà subito un fascicolo rovente: quello a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, indagato per corruzione e coinvolto nello scandalo delle nomine al Csm.

Da blitzquotidiano.it il 17 giugno 2020. Raffaele Cantone è il nuovo procuratore di Perugia. Lo ha nominato il plenum del Consiglio superiore della magistratura, che però sul voto si è diviso. Cantone, ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, tornato in ruolo all’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, ha avuto 12 voti. Prevalendo sull’altro candidato proposto dalla commissione, il procuratore aggiunto di Salerno Luca Masini, che ha ne ha avuti 8. Quattro astenuti. Cantone prende il posto lasciato da Luigi De Ficchy alla guida dell’ufficio che ha competenza sulle inchieste a carico dei magistrati romani e che indaga sul caso Palamara. Nato a Napoli il 24 novembre 1963, il 27 marzo 2014 l’allora premier Matteo Renzi lo propose come presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, nomina confermata dal Parlamento. Il suo mandato sarebbe scaduto a marzo 2020. Entrato in magistratura nel 1991, è stato sostituto procuratore presso il tribunale di Napoli, dove si è occupato principalmente di criminalità economica, fino al 1999. È poi entrato nella Direzione distrettuale antimafia di Napoli, di cui ha fatto parte fino al 2007. Si è occupato delle indagini sul clan camorristico dei Casalesi che hanno portato alla condanna all’ergastolo di boss quali Francesco Schiavone, detto Sandokan. Ma anche Francesco Bidognetti, detto Cicciotto ‘e Mezzanott, Walter Schiavone, detto Walterino. Alla presidenza dell’Anac ha dato forte impulso all’attività per prevenire l’infiltrazione della corruzione negli appalti pubblici e agli interventi sulle operazioni sospette o a rischio. Il Mose, l’Expo, la ricostruzione post terremoto nel centro Italia, la riforma del Codice degli appalti sono solo alcuni degli ambiti su cui l’Anac è intervenuta in questi anni

Cantone nominato procuratore di Perugia, Di Matteo guida l’opposizione. su Il Dubbio il 17 giugno 2020. L’ex presidente dell’Anac prenderà in mano il fascicolo sul caso Palamara. Di Matteo: “Ritengo che non sia opportuno che Cantone vada a dirigere proprio quella procura che è competente su ipotesi di reato commesse dai colleghi che lavorano negli uffici di Roma e che possono investire procedimenti che a vario titolo riguardano i rapporti tra magistrati e politici vicini o appartenenti alla stessa compagine politica decisiva per la nomina all’Anac”. Raffaele Cantone è il nuovo procuratore di Perugia. Lo ha nominato il plenum del Consiglio superiore della magistratura, che però si è diviso. Cantone , ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, tornato in ruolo all’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, ha avuto 12 voti, prevalendo sull’altro candidato proposto dalla commissione, il procuratore aggiunto di Salerno Luca Masini, che ha ne ha avuto 8. Quattro sono state le astensioni. Cantone prende il posto lasciato da Luigi De Ficchy, in pensione da giugno dello scorso anno, alla guida dell’ufficio che ha competenza sulle inchieste a carico dei magistrati romani e che indaga sul caso Palamara. Duro l’intervento del consigliere togato del Csm Nino Di Matteo che ha provato a impedire la nomina di Cantone: “Ritengo che non sia opportuno che Cantone vada a dirigere proprio quella procura che è competente su ipotesi di reato commesse dai colleghi che lavorano negli uffici di Roma e che possono investire procedimenti che a vario titolo riguardano i rapporti tra magistrati e politici vicini o appartenenti alla stessa compagine politica decisiva per la nomina all’Anac”. L’ufficio giudiziario umbro è, come rilevato da Di Matteo, quello competente su eventuali inchieste riguardanti magistrati del distretto di Roma, e, quindi, è titolare dell’indagine sul caso Palamara. Di Matteo, pur manifestando la sua stima nei confronti di entrambi i candidati, non ha negato che Cantone all’Anac “abbia perfezionato la propria professionalità in materia di contrasto alla corruzione, se non altro attraverso i rapporti con le procure”, ma il punto è, ha sottolineato, che “noi abbiamo il dovere di decidere in funzione dell’esigenza di garantire nei confronti dei cittadini l’apparenza di imparzialità: avrei sostenuto – ha aggiunto – la candidatura del dottor Cantone a una procura diversa, ma non a Perugia: l’incarico all’Anac ha una fortissima connotazione politica, una connotazione che si è perfino accentuata, almeno quanto alla sua apparenza, quando per più volte il dott. Cantone è stato indicato come possibile premier della nuova compagine governativa”. Inoltre, Di Matteo ha insistito nel ricordare che il Testo unico sulla dirigenza giudiziaria esige una “prudenziale” valutazione degli incarichi fuori ruolo “in modo che mai possa ingenerarsi nell’opinione pubblica il sospetto di mancanza di imparzialità”. Per queste ragioni, ha concluso il togato indipendente, “ritengo preferibile che venga nominato un procuratore diverso, quale il procuratore Masini che ha sempre saputo coltivare il valore della indipendenza”.

Cantone nominato procuratore di Perugia, il Csm si spacca: Davigo e Di Matteo votano contro. Redazione su Il Riformista il 17 Giugno 2020. L’ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone è il nuovo procuratore di Perugia, quella stessa procura che un anno fa ha svelato il cosiddetto caso Palamara (la procura umbra è competente dei reati contestati ai magistrati romani). La nomina è arrivata però con una netta spaccatura nel voto del Cms: a Cantone, che con la DDA di Napoli ottenne la condanna all’ergastolo di numerosi boss della camorra casertana, sono andati 12 voti, contro gli otto ricevuti dall’attuale procuratore aggiunto di Salerno Luca Masini. Dopo l’addio alla DDA, nel 2007, Cantone è passato agli uffici del massimario della Cassazione, poi alla presidenza dell’Anac, finita ottobre 2019, e infine ritorno alla Suprema corte. A favore di Cantone hanno votato i 5 componenti di Area, i 3 laici di M5S, i 2 Forza Italia e i 2 della Lega. Per Masini si è espresso il gruppo di Piercamillo Davigo, compreso Nino Di Matteo, con 5 voti, oltre ai 3 di Magistratura Indipendente. Si sono astenuti invece i tre componenti del gruppo Unicost e il primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone, mentre il procuratore generale Giovanni Salvi era assente e il vice presidente del Csm Davide Ermini non ha votato. La nomina di Cantone a Perugia, con la riforma del Csm proposta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, sarebbe stata impossibile: una delle norme previste infatti vieta a chi è stato fuori ruolo di candidarsi a incarichi direttivi per 2 anni. Riforma del Guardasigilli che, non essendo stata ancora approvata, permette a Cantone di prendere il posto di Luigi De Ficchy, andato in pensione lo scorso anno. Il dibattito sulla nomina è stato particolarmente infuocato e duro, con posizioni chiare sin dal principio. Nino Di Matteo ha attaccato così la nomina di Cantone: “Ritengo che non sia opportuno che Cantone vada a dirigere proprio quella procura che è competente su ipotesi di reato commesse dai colleghi che lavorano negli Uffici di Roma e che possono investire procedimenti che a vario titolo riguardano i rapporti tra magistrati e politici vicini o appartenenti alla stessa compagine politica decisiva per la nomina all’Anac”, un riferimento chiaro al caso Palamara. A difesa di Cantone invece Mario Suriano, presidente della della Commissione Direttivi e membro della corrente “di sinistra” Area. “Non si può dubitare della indipendenza di Cantone. Dalle chat (il riferimento è all’inchiesta Palamara, ndr) vediamo che Cantone non doveva andare a Perugia secondo persone vicine al presidente del Consiglio che lo nominò all’Anac”.

Cantone conquista la procura di Magistratopoli, Davigo sconfitto. Paolo Comi su Il Riformista il 18 Giugno 2020. La nomina del nuovo Procuratore di Perugia era “la partita” dell’anno a piazza Indipendenza. Una nomina che doveva segnare il “nuovo corso” della magistratura dopo lo scandalo che ha travolto l’organo di autogoverno delle toghe. Basta con la lottizzazione delle nomine by Luca Palamara, valorizzazione del lavoro svolto nei Tribunali e, soprattutto, requisiti molto stringenti per i magistrati che hanno svolto funzioni “fuori ruolo” ed aspirano ad un incarico direttivo. Sono alcuni dei tormentoni ricorrenti dalle parti dell’Anm nuova gestione e al Csm in tema di nomine. Ma non solo: nella riforma della giustizia preparata da Alfonso Bonafede, ad esempio, proprio per premiare i magistrati che per tutta la vita hanno scritto le sentenze, non sarà possibile per chi è stato fuori ruolo presentare domanda per un posto di vertice se non saranno trascorsi due anni dalla fine di tale incarico. L’ufficio di Perugia, poi, è importantissimo in quanto si occupa dei reati commessi dai magistrati della Capitale. Fra i procedimenti in pista di lancio quello a carico di Palamara. Piercamillo Davigo aveva individuato per la Procura del capoluogo umbro il candidato perfetto: Luca Masini, attuale Procuratore aggiunto di Salerno, una toga lontana dai riflettori che per tutta la carriera ha sempre fatto il pm. «Il suo nome non compare in nessuna chat», aveva anche sottolineato l’ex pm di Mani pulite. Davigo si è speso moltissimo per Masini essendone il relatore in Commissione per gli incarichi direttivi.  Sembrava fatta per il procuratore aggiunto di Salerno. Dalla sua parte il Testo unico per la dirigenza che premia l’impegno del magistrato che ha svolto sempre funzioni giurisdizionali. Lo sfidante, Raffaele Cantone, zar anticorruzione voluto da Matteo Renzi, era entrato in un’aula di Tribunale da pm l’ultima volta nel 2007, quando il ministro della Giustizia era Clemente Mastella. Sulla carta, dunque, non c’era partita. Ma Davigo non ha fatto i conti con Giuseppe Cascini, il segretario dell’Anm quando Palamara ne era il presidente e ora capo delegazione di Area, il raggruppamento della anime della magistratura di sinistra al Csm. Con un colpo da maestro Cascini ha catalizzato su Cantone tutti i voti dei laici. Un’impresa che riuscì nella scorsa consiliatura solo a Claudio Galoppi, attuale consigliere del presidente del Senato Elisabetta Casellati e fra i leader di Magistratura indipendente, quando nel 2014, con lo stesso schema, fece nominare Francesco Lo Voi procuratore di Palermo. E poi il capolavoro finale di Cascini: la spaccatura per la prima volta dell’asse laici grillini/Davigo e la formazione di una inedita alleanza fra pentastellati, forzisti, leghisti. Nino Di Matteo, indipendente eletto al Csm nelle liste di Autonomia&indipendenza ha capito subito che la partita si stava mettendo male. «Ritengo – ha esordito in Plenum – che non sia opportuno che Cantone vada a dirigere proprio quella Procura che è competente su ipotesi di reato commesse dai colleghi che lavorano negli uffici di Roma e che possono investire procedimenti che a vario titolo riguardano i rapporti tra magistrati e politici vicini o appartenenti alla stessa compagine politica decisiva per la nomina all’Anac». Poi il colpo finale: «L’incarico all’Anac ha una fortissima connotazione politica, una connotazione che si è perfino accentuata, almeno quanto alla sua apparenza, quando per più volte Cantone è stato indicato come possibile premier della nuova compagine governativa». Tutti i davighiani hanno sparato ad alzo zero contro Cantone. Ad iniziare da Giuseppe Marra che ha affermato che la nomina dell’ex capo dell’Anac «passerà alla storia del Csm: un magistrato che da tredici anni non svolge funzioni requirenti e si ritrova direttamente procuratore distrettuale». Quindi Ilaria Pepe: «Cantone avrà tutti i meriti del mondo» ma ricordiamo che «il suo nome girava, tranne per il soglio pontificio, per tutti gli incarichi pubblici». A supportare Davigo pro Masini, la destra giudiziaria di Magistratura indipendente. La nomina ha immediatamente scatenato i magistrati sulle chat. «Secondo le migliori previsioni, Area, la sedicente sinistra giudiziaria, ha votato compattamente il proprio sodale a capo dell’ufficio perugino, competente guarda caso per i reati commessi dai magistrati romani, senza curarsi della non proprio “chiara” apparenza di indipendenza di Cantone dal potere politico per le ragioni rese plasticamente dal voto in favore di costui da parte di tutti i politici del Csm», ha scritto il giudice veronese Andrea Mirenda. Uno smacco per Davigo che sarà difficile da digerire.

Anna Maria Greco per “il Giornale” il 18 giugno 2020. Targato politicamente o indipendente? Sulla questione si spacca il Csm, prima di nominare Raffaele Cantone nuovo procuratore di Perugia, con 12 voti di Area e laici di M5s, Lega e Forza Italia, contro gli 8 di Magistratura Indipendente e della corrente di Piercamillo Davigo, Autonomia & Indipendenza, che vanno all'aggiunto di Salerno Luca Masini. Non vota il vicepresidente David Ermini, assente in quel momento il procuratore generale Giovanni Salvi. Sarà dunque l'ex presidente dell'Anac, nominato da Matteo Renzi, a dirigere la procura che ha competenza sulle inchieste che riguardano magistrati di Roma, come nel clamoroso caso Palamara scoppiato un anno fa. Un ruolo particolarmente delicato sul quale si astengono i 3 consiglieri e il primo presidente della Cassazione Giuseppe Mammone, tutti di Unicost, la corrente appunto dell'ex presidente dell'Anm indagato. Nelle chat che hanno rivelato il traffico di nomine a Palazzo de' Marescialli e i colloqui con politici renziani come Luca Lotti e Cosimo Ferri, Palamara dice che per nessuna ragione Cantone deve diventare procuratore di Perugia. Nella prima nomina importante dopo la bufera che ha travolto il mondo delle toghe il Csm fa l'opposto e difficilmente è un caso. Con la riforma dell'organo di autogoverno della magistratura del ministro Bonafede, accelerata proprio dall'inchiesta di Perugia, la scelta di Cantone sarebbe stata impossibile, perché prevede che chi è stato fuori ruolo non possa candidarsi a incarichi direttivi per 2 anni. Ma ancora non è legge e nel dibattito infuocato in plenum il presidente della Commissione Direttivi Mario Suriano (Area), relatore della proposta su Cantone, avverte: «Non si può dubitare dell'indipendenza di Cantone. Dalle chat vediamo che non doveva andare a Perugia, secondo persone vicine al presidente del Consiglio che lo nominò all'Anac». Opposta la battaglia di Davigo, da sempre anti-Cantone, convinto che la corruzione non si combatta con la prevenzione di una Autorità «amministrativa», ma con le indagini delle procure. Nino Di Matteo, eletto da indipendente con A&I, dice che Cantone «ha ricoperto un incarico prestigioso di natura politica, visto che la nomina di presidente dell'Anac muove da una delibera del Consiglio dei ministri» ed è inopportuno che «vada a dirigere proprio quella Procura competente sui magistrati in servizio a Roma e su ipotesi di reato che possono riguardare a vario titolo politici o ambienti di potere romano inevitabilmente vicini e connessi a quella stessa compagine politica che fu decisiva nella sua nomina». Si riferisce direttamente alla vicenda Palamara. L'altro argomento usato dai sostenitori di Masini, che nelle chat non viene nominato e ha al suo attivo una carriera da procuratore aggiunto a Salerno negli ultimi 4 anni, è il fatto che Cantone non abbia esperienza direttiva, ma solo di pm a Napoli dal 1999 al 2007, prima di diventare capo di una struttura anticorruzione con 400 persone e oggi al Massimario in Cassazione. Davigo cita il Testo unico della dirigenza che chiede per un incarico come questo l'esperienza da pm: «Masini lo è stato per 17 anni in 5 procure, al nord e nel centrosud, Cantone per 15 anni è stato requirente solo a Napoli e ha smesso da 12 anni, l'Anac non rientra tra le esperienze fuori ruolo indicate dall'articolo 13 del Testo unico». Di Matteo rincara la dose: «A Perugia bisogna garantire l'apparenza dell'imparzialità da fattori esterni che possano influenzare l'attività del magistrato». Per lui, la «colpa» di Cantone è di «essere stato indicato anche come possibile premier». Giuseppe Cascini di Area insiste, ricordando che Raffaele Cantone è stato pure coordinatore del settore penale del Massimario. Ha un pedigree di tutto rispetto. E sarà lui il procuratore di Perugia.

Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “la Stampa” il 18 giugno 2020. La procura di Perugia, quella che indaga sul pm Luca Palamara e sui rapporti tra magistrati e politica, con relativo terremoto nel Csm dove si sono dimessi cinque consiglieri, sarà guidata da Raffaele Cantone […] noto anche per la sua battaglia contro il clan dei Casalesi che gliel'ha giurata al punto tale da costringerlo a girare con la scorta da 17 anni […] […] Nino Di Matteo […] ha appoggiato il procuratore aggiunto di Salerno Luca Masini: «Cantone ha ricoperto un prestigioso incarico politico. Non è dunque opportuno che vada a dirigere proprio quella procura competente sui magistrati in servizio a Roma e su ipotesi di reato che possono riguardare a vario titolo politici o ambienti di potere romano inevitabilmente vicini e connessi a quella stessa compagine politica che fu decisiva nella sua nomina». […]Davigo, relatore della proposta a favore del candidato di minoranza, mette i puntini sulle i: «Di Masini nelle chat non si parla proprio e questo è ancora meglio». […]

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per “il Corriere della Sera” il 18 giugno 2020. […] la nomina di Cantone decisa ieri dal Csm ha diviso l'organo di autogoverno dei giudici: 12 voti per lui, 8 per l'altro concorrente Luca Masini (procuratore aggiunto di Salerno), 4 astenuti. Con Cantone si sono schierati i togati di Area, la corrente di sinistra, e praticamente tutti i laici (3 espressi dai 5 Stelle, 2 da Forza Italia e 2 dalla Lega; il vice-presidente David Ermini non ha votato come di consueto); contro le due correnti Magistratura indipendente e Autonomia e indipendenza, la destra dello schieramento politico-giudiziario; astenuti i «centristi» di Unità per la costituzione. A dare un valore anche politico alla frattura è stato l'intervento di Nino Di Matteo […]: «La presidenza dell'Anac ha una fortissima connotazione politica, di Cantone s' è parlato fino all'estate scorsa come candidato premier, e la Procura di Perugia è titolare di procedimenti che a vario titolo riguardano i rapporti tra magistrati e politici vicini o appartenenti alla stessa compagine politica decisiva per la nomina all'Anac». Tradotto: un magistrato scelto da Matteo Renzi (quando era premier) per guidare l'Anac, e indicato persino per fare il presidente del Consiglio, non può andare a indagare su vicende che riguardano politici legati a Renzi (Luca Lotti, e non solo). […]

Fabrizio Finzi per l'ANSA il 19 giugno 2020. Le inchieste della procura di Perugia sul "caso Palamara" hanno trasmesso l'immagine di "una magistratura china su stessa, preoccupata di costruire consensi a uso interno, finalizzati all'attribuzione di incarichi". Alcuni magistrati - certamente una minoranza - hanno svelato una "modestia etica" tale da far crollare la fiducia dei cittadini nell'intero mondo della Giustizia. E' quindi l'ora di riformare severamente il Consiglio Superiore della Magistratura, di tornare al principio fondamentale di fedeltà alla Costituzione, di trovare uno scatto di reni per far recuperare "credibilità" alla magistratura che rischia, in questa sua caduta d'immagine, la sua autonomia e indipendenza. E' durissimo il "j'accuse" del presidente della Repubblica che non fa sconti alle toghe e, dal suo doppio ruolo di capo dello Stato e presidente del Csm, in un complesso discorso dal Quirinale parla espressamente di "anno difficile" per il mondo della Giustizia. Le conversazioni intercettate - e pubblicate - che hanno messo a nudo distorsioni, brame di potere e ferocissime lotte intestine al Csm, hanno turbato nel profondo Sergio Mattarella che oggi ha efficacemente illuminato le differenze che separano il "correntismo" che infesta l'organo di autogoverno dei magistrati dall'etica e l'attaccamento al dovere che ha pervaso alcuni "servitori dello Stato" uccisi negli anni '80 dal terrorismo e dalla mafia. Commemorando gli anniversari dell'uccisione dei magistrati Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Giudo Galli, Mario Amato, Gaetano Costa e Rosario Livatino, il presidente ha inviato un monito alle toghe di oggi: "la fedeltà alla Costituzione è l'unica fedeltà richiesta ai servitori dello Stato. L'unica fedeltà alla quale attenersi e sentirsi vincolati". Un messaggio che parrebbe scontato ma che invece è necessario inviare per Mattarella, visto che l'inchiesta di Perugia "fornisce la percezione della vastità del fenomeno e fa intravedere un'ampia diffusione della grave distorsione sviluppatasi".  E in tarda serata arriva la reazione dell'ex presidente dell'Anm Luca Palamara: "Chiedo di essere sentito per chiarire i fatti contestati ritengo di dover parlare a tutti e mi pare giusto farlo", ha detto spiegando le ragioni per le quali ha chiesto di essere ascoltato dal comitato direttivo centrale dell'Anm che sabato prossimo si dovrà pronunciare sulla sua espulsione dal sindacato delle toghe. L'espulsione era stata chiesta dai probiviri proprio per le vicende emerse con l'inchiesta di Perugia a carico del magistrato. Sulla stessa lunghezza d'onda del Presidente Mattarella si è espresso il ministro Alfonso Bonafede che ha in mano anche la spinosa riforma della Giustizia: "ogni intervento riformatore che stiamo per portare avanti, dalla riduzione dei tempi del processo alla revisione dell'ordinamento giudiziario, deve mirare a consegnare al cittadino una giustizia, non soltanto più efficiente e celere, ma anche e soprattutto più credibile attraverso il recupero della fiducia nella magistratura". Ma a dare con grande forza il senso della degenerazione che l'ambiente vive in queste settimane è stato il vice presidente del Csm David Ermini: "le garantisco, signor Presidente, che l'abbrutimento etico dell'ordine giudiziario ha nell'attuale Csm l'avversario più tenace e inflessibile. Contrastare ogni scoria correntizia e mantenere l'autogoverno nel solco tracciato dalla Carta costituzionale è già ora e ancor più lo sarà nei mesi a venire il nostro quotidiano assillo", ha assicurato dal Quirinale. Nelle pieghe di questo severo discorso dedicato alla Giustizia il Presidente trova anche spazio per una puntualizzazione che probabilmente non avrebbe mai pensato di dover ripetere a cinque anni dalla sua elezione al Colle. E che suona più o meno così: basta strattonarmi, chiedermi interventi di ogni tipo e genere che esulano dai miei poteri, io non ho la minima intenzione di espanderli sfruttando alcune debolezze della politica. "Si odono talvolta - ha detto Mattarella con un sottile "understatement" - esortazioni, rivolte al Presidente della Repubblica, perché assuma questa o quell'altra iniziativa, senza riflettere sui limiti dei poteri assegnati dalla Carta ai diversi organi costituzionali. In questo modo si incoraggia una lettura della figura e delle funzioni del Presidente difforme da quanto previsto e indicato, con chiarezza, dalla Costituzione". E, soprattutto, non intendeva prima e non lo intenderà neanche nel prossimo futuro "ampliare" i poteri del Quirinale. "Non esistono motivazioni contingenti che possano giustificare l'alterazione della attribuzione dei compiti operata dalla Costituzione: qualunque arbitrio compiuto in nome di presunte buone ragioni aprirebbe la strada ad altri arbitri, per cattive ragioni".

Tensioni nella magistratura, il commento di Palamara: «Le solite rivalità fra calabresi». Scontri interni alla corrente per un posto nel Csm o nell’Associazione nazionale magistrati. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 18 giugno 2020. I giochi di ruolo fra toghe fotografati dall’inchiesta di Perugia non riguardavano solo il Csm, ma anche l’Associazione nazionale magistrati. Il cliché è quello di sempre: tentativi di scalate, lotte interne di potere e per il potere nelle quali, ancora una volta, un ruolo da protagonista è assegnato ai calabresi. Il 24 marzo del 2018, infatti, c’è da eleggere il nuovo presidente dell’Anm. Pochi giorni prima gli ambienti giudiziari sono in fibrillazione per quell’appuntamento che fa il paio con un altro snodo cruciale: il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura in programma a luglio dello stesso anno. Due eventi importanti a distanza di quattro mesi l’uno dall’altro; abbastanza per far sì che, alla vigilia del primo voto, il telefono di Luca Palamara trilla all’impazzata. Il 18 marzo, il suo cellulare è inondato dai messaggi di Marco Mancinetti, giudice a Viterbo, tra i registi dell’operazione che, di lì a poco, porterà il cosentino Francesco Minisci, pubblico ministero nella Capitale, alla guida del sindacato delle toghe. Quella strategia targata “Unicost”, la corrente di cui è leader Palamara, prevede che lo stesso Mancinetti, tre mesi dopo, diventi membro del Consiglio superiore della magistratura, ma quel 18 marzo, gli equilibri sottilissimi che sovrintendono alla buona riuscita del disegno sono messi in crisi da un altro cosentino, Massimo Forciniti. Quest’ultimo, membro in carica del Csm e ormai in scadenza di mandato, avanza delle pretese sulla composizione della giunta di Anm. Chiede un posto per Antonio Saraco, consigliere di Corte d’Appello a Catanzaro, ma in base agli accordi stipulati da Mancinetti le caselle sono già tutte occupate. Forciniti insiste, spiegando che i catanzaresi rivendicano la presenza in giunta dopo i passi indietro operati in favore di altri distretti e a quel punto il magistrato viterbese la prende malissimo, tanto da esternare il proprio disappunto a Palamara. «Mi ricatta sulla vicenda di Saraco che non entra in giunta. Mi ha rotto il cazzo», scrive riferendosi a Forciniti. Il capocorrente tenta di minimizzare, riconducendo il tutto alla «solita rivalità tra calabresi», ma il suo interlocutore non vuole sentire ragioni. Forciniti, infatti, sarà uno dei suoi grandi elettori al Csm visto che è in grado di raccogliere «250 voti» tra i magistrati di Catanzaro e Salerno, ma quattro anni di permanenza in Consiglio lo hanno reso «ancora più forte» al punto da poter «blindare» anche l’elezione di un suo consigliere di fiducia. Mancinetti imputa proprio a Palamara l’ascesa politica del collega – «Dopo quello che ha avuto da te in questo Csm mi scrive quel che mi ha scritto?» – e gli rinfaccia un errore del passato: non aver creato, come da lui auspicato, un’asse con i distretti di Bari e Palermo, facendo così in modo che «le carte buone» finissero in mano «a Catanzaro e Salerno, quindi in mano a Forciniti». Palamara raccoglie lo sfogo e prova ad ammansire Mancinetti – «Ciccino, stai bono» – che, nel frattempo, minaccia il ritiro di Minisci dalla corsa per la poltrona dell’Anm. Nel giro di un quarto d’ora, il capocorrente opera le mosse utili per uscire dall’impasse, tra cui anche l’invio di un sms di rimprovero a Forciniti per il problema creato con Mancinetti. Sei giorni dopo, Francesco Minisci diventa presidente dell’Associazione nazionale magistrati e nella giunta trova posto anche Antonio Saraco. Passa un quadrimestre e il 9 luglio, Marco Mancinetti entra a far parte ufficialmente del Csm con 722 voti che fanno di lui il primo degli eletti fra i magistrati con funzioni giudicanti di merito.

Giustizia, Di Matteo: "Le correnti? Metodo mafioso seguire l’appartenenza per le nomine". L'ex pm, ora al Csm, definisce "devastanti" le scarcerazioni dei mafiosi e critica Anm e Csm perché non hanno difeso lui e i colleghi del processo Stato-mafia. Liana Milella il 14 giugno 2020 su La Repubblica. Nino Di Matteo a 360 gradi sulle correnti della magistratura per il metodo "mafioso" utilizzato nelle nomine, sulle "devastanti" scarcerazioni dei mafiosi avvenute tra marzo e aprile, sulla solitudine sua e dei suoi colleghi dopo le accuse subite per il processo Stato mafia. Drastico il suo giudizio su Cosa nostra che "fa politica". Tant'è che Riina, come riferisce Di Matteo durante l'intervista con Massimo Giletti a "Non è l'arena", dice ai suoi: "Se non avessimo avuto i rapporti con la politica saremmo stati una banda di sciacalli", cioè, chiosa l'ex pm di Palermo, "dei criminali comuni, e ci avrebbero già azzerato". Nessuna risposta invece sulla querelle a proposito dell'incarico di direttore del Dap nel 2018 che lo ha portato allo scontro con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede perché, dice Di Matteo, di quello "parlerò in una sede istituzionale", e cioè giovedi alle 14 di fronte alla commissione parlamentare Antimafia che lo ha convocato.   

Il Csm e le correnti come la mafia. Di Matteo ripete quanto aveva già detto a novembre dell'anno scorso, nella sede dell'Anm, presentando se stesso e la sua candidatura per le elezioni suppletive dell'Anm dopo le dimissioni di cinque consiglieri a seguito dell'inchiesta di Perugia per corruzione sull'ex pm Luca Palamara. "Lo dissi, lo ridirei e lo affermo anche oggi - dice Di Matteo - e cioè che privilegiare nelle scelte che riguardano la carriera di un magistrato il criterio dell'appartenenza a una corrente o a una cordata di magistrati è molto simile all'applicazione del metodo mafioso". Una dichiarazione che già otto mesi fa provocò una durissima reazione. Stavolta Di Matteo mette in guardia i colleghi dal rischio che la magistratura possa rischiare una riforma che la metta sotto "il controllo della politica". Tant'è che dice: "La valutazione del lavoro di un magistrato o le nomine fatte per incarichi direttivi nei confronti di un magistrato condizionate da un criterio dell'appartenenza sono assolutamente inaccettabili". Come se ne esce? "Dobbiamo trovare la forza, necessariamente a tutti costi, di invertire per primi la rotta, prima che invece qualcuno possa approfittare di questa situazione di difficoltà e di mancanza di credibilità della magistratura, per fare riforme che hanno uno scopo che non possiamo mai accettare, quello di sottoporre di fatto la magistratura a un controllo da parte del potere politico". Ovviamente Di Matteo non fa alcun riferimento esplicito alla riforma del Csm su cui sta lavorando il Guardasigilli Alfonso Bonafede, ma è chiaro che si sta parlando di quella.  

Scarcerazioni "devastanti". Molto duro anche il giudizio del magistrato antimafia sulle oltre 200 scarcerazioni di mafiosi avvenute tra marzo e aprile. "Il segnale è devastante dal punto di vista simbolico, e comunque è idoneo il ritorno a casa a produrre effetti concreti pericolosi per il futuro. Un mafioso anche al 41 bis si industria sempre per cercare di fare arrivare, soprattutto se è un capo, le direttive fuori dal carcere ai suoi". E aggiunge: "Figuriamoci se quel mafioso ha avuto la possibilità di tornare a casa".

Palamara e Di Matteo fuori dal pool sulle stragi. L'ex pm parla anche di Palamara e racconta di aver scoperto dalle carte di Perugia il giudizio dell'ex pm su di lui e sulla sua estromissione dal pool sulle stragi quando era in quota alla Procura nazionale antimafia:  "Ho verificato dagli atti di Perugia che il dottor Palamara, prima che avvenisse questa esclusione, si era, diciamo, lamentato del fatto che io facessi parte di questo gruppo. E nel momento in cui venne resa nota la mia estromissione, accolse la notizia, diciamo, con molta soddisfazione. Non devo essere io a dire cosa penso".

Abbandonato da Csm e Anm. Di Matteo non riesce a dimenticare di non aver avuto la solidarietà "né dell'Anm, né del Consiglio superiore della magistratura" che "dimostrarono un pericoloso collateralismo politico" quando lui e i suoi colleghi impegnati nell'inchiesta per la trattativa Stato-mafia furono attaccati per le intercettazioni in cui era stato coinvolto l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. "Quando partì questa indagine - dice Di Matteo - molti pensavano che fosse frutto di una costruzione, di un teorema politico di magistrati un po' fantasiosi. Nel tempo molti si resero conto che l'indagine si riferiva a fatti concreti, che non era frutto di una fantasia, adesso oggetto di una sentenza di primo grado e prima ancora di un decreto di rinvio a giudizio". Ma Di Matteo parla soprattutto di quando esplose il caso delle intercettazioni: "C'è stato un momento in cui, soprattutto dopo la vicenda delle intercettazioni che erano state legittimamente disposte dal gip su nostra richiesta per le utenze in uso al senatore Mancino e alla registrazione di alcune telefonate con il presidente Napolitano, che a noi è stato detto di tutto, siamo stati definiti ricattatori del capo dello Stato, eversori. Quando morì il compianto dottor D'Ambrosio ci chiamarono assassini. In quell'occasione, rispetto a ingiurie e calunnie, non ci ha difeso nessuno. Né l'Anm, né il Csm, che in quel momento dimostrarono un pericoloso collateralismo politico schierandosi per motivi di opportunità dalla parte del potere politico".

(ANSA il 15 giugno 2020) - La scarcerazione dei boss "è un segnale che viene colto dalla maggior parte della popolazione come un segnale quasi di impunità del mafioso o comunque un segnale di speranza anche per chi è stato condannato più volte. Anche il peggiore dei mafiosi ha diritto alla tutela della sua salute ma lo Stato ha il dovere di fare di tutto perché la salute di ciascun detenuto venga tutelata all'interno delle strutture". Lo ha detto a Non è l'arena, su La 7 il magistrato Nino Di Matteo. E a Massimo Giletti che osserva come 500 persone siano tornate a casa, risponde: "il segnale è devastante dal punto di vista simbolico e comunque il ritorno a casa è idoneo a produrre anche degli effetti concreti pericolosi per il futuro. Un mafioso anche al 41 bis si industria sempre per cercare di fare arrivare, soprattutto se è un capo, le direttive fuori dal carcere ai suoi. Figuriamoci se quel mafioso ha avuto la possibilità di tornare a casa".

AdnKronos il 15 giugno 2020. "Quando partì in questa indagine sulla trattativa Stato-mafia molti pensavano che fosse frutto di una costruzione di un teorema politico di magistrati un po’ fantasiosi. Nel tempo molti si resero conto che l’indagine si riferiva anche a dei fatti e concreti non era frutto di una fantasia". "Noi -ha aggiunto- abbiamo avuto difficoltà di tutti tipi, non potevamo non prevederle perché la nostra indagine si indirizzava non solo nei confronti dell’alta mafia ma anche nei confronti di appartenenti di alto livello ad apparati sicurezza all’Arma dei Carabinieri a funzionari di polizia a politici, non potevamo non prevedere che sarebbe stata anche una difficile indagine e che non avremmo avuto il plauso di nessuno e d’altra parte un magistrato non deve assolutamente né pretendere né sperare questo. Però le dico questo c’è stato un momento in cui soprattutto dopo la vicenda delle intercettazioni che erano state legittimamente disposte dal gip su nostra richiesta per le utenze in uso al senatore Mancino e alla registrazione di alcune telefonate con il presidente Napolitano, che a noi è stato detto di tutto siamo stati definiti ricattatori del Capo dello Stato, eversori, quando morì il compianto Dottor d’Ambrosio assassini e in quell’occasione, rispetto a queste affermazioni, che non sono mi consenta di semplice critica ma di ingiuria e calunnia, non ci ha difeso nessuno". "In quel momento Anm e Csm anziché diciamo difendere non Nino Di Matteo ma l’operato dei magistrati che indagavo e non lo avevano fatto in maniera scorretta perché nessuno ha mai detto che abbiamo violato una qualsiasi norma di legge, in quel momento hanno preferito per motivi di opportunità schierarsi dalla parte del potere politico". "Quella è una vicenda istituzionale quello che umanamente ho provato io non conta nulla me lo tengo per me" ha detto il magistrato Nino Di Matteo rispondendo sulla sua mancata nomina al Dap. Certo che mi sono chiesto perché non sono stato scelto, ha aggiunto, "però ripeto e mi sono dato delle spiegazioni ma non sarebbe serio se le spiegazioni le fornissi, perché sono le mie spiegazioni".

(ANSA il 15 giugno 2020) - "Io dissi, lo ridirei e lo affermo anche oggi che privilegiare nelle scelte che riguardano la carriera di un magistrato il criterio dell'appartenenza ad una corrente o ad una cordata di magistrati è molto simile all'applicazione del metodo mafioso". Lo ha detto stasera il magistrato Nino Di Matteo, intervistato a Non e' l'Arena, riguardo alle polemiche che coinvolgono il Consiglio superiore della magistratura. "La valutazione del lavoro di un magistrato o le nomine fatte per incarichi direttivi nei confronti di un magistrato condizionate da un criterio dell'appartenenza sono assolutamente inaccettabili, lo dissi allora lo ripeto ancora e adesso che sono stato eletto al Consiglio superiore della magistratura", ha detto Di Matteo, aggiungendo che "la mia battaglia attuale e futura sarà sempre quella di cercare di dare un taglio netto o di contribuire a dare un taglio netto a questa mentalità". Quanto alle possibili soluzioni, "Più che le riforme serve a mio parere una svolta etica - ha detto il magistrato - un cambiamento vero che deve riguardare la mentalità dei consiglieri ma deve riguardare la mentalità di tutti magistrati. L'appartenenza non può condizionare le scelte, quando si tocca il fondo è il momento buono per ripartire e in questo momento come si sul dire il re è nudo dobbiamo trovare la forza necessariamente a tutti costi di invertire per primi noi la rotta, prima che invece qualcuno possa approfittare di questa situazione di difficoltà della magistratura, di mancanza di credibilità della magistratura per riforme che hanno uno scopo che noi non possiamo mai accettare quello di sottoporre di fatto la magistratura a un controllo da parte del potere politico".

(ANSA il 15 giugno 2020) - "Sono stato estromesso dal gruppo stragi ho poi verificato dagli atti dell'indagine di Perugia che il dottor Palamara prima che avvenisse questa esclusione si era diciamo lamentato del fatto che io facessi parte di questo gruppo stragi entità esterne e nel momento in cui venne resa nota la mia estromissione accolse la notizia diciamo con molta soddisfazione". Alla domanda se questa vicenda sia stata un'ulteriore amarezza, Di Matteo ha risposto "Enorme è chiaro. E' stata enorme perché io ho lavorato per decenni sulle stragi, la vita professionale di molti magistrati ancora più autorevoli ancora prima di me è stata costellata da continue amarezze continue, delegittimazioni e solitudini. Se penso a quello che hanno passato nella loro vita professionale Paolo Borsellino soprattutto Giovanni Falcone penso sempre lo dobbiamo ricordare. La loro soprattutto quella di Giovanni Falcone, del magistrato più stimato nella storia diciamo dell'attività giudiziaria italiana all'estero, la storia in Italia di Giovanni Falcone una storia di continue sconfitte".

(ANSA il 15 giugno 2020) - "Io penso di aver capito una cosa importante tra le altre, e cioè che la vera forza della mafia e soprattutto la vera forza di Cosa nostra sta nella sua capacità storica di intessere rapporti con il potere, con il potere politico, con il potere imprenditoriale economico, purtroppo anche con il potere istituzionale". Lo ha detto il magistrato Nino Di Matteo, intervistato da Massimo Giletti a Non e' l'Arena su La7. Quanto al processo sulla trattativa Stato mafia, Di Matteo ha detto che "quando Riiina venne cercato da uomini dello Stato per il tramite di Vito Ciancimino si convinse che la strategia che aveva iniziato con l'omicidio dell'eurodeputato Salvo Lima e proseguito con l'attentato di Capaci era una strategia che stava pagando, lo Stato piegava le ginocchia" e allora "Cosa nostra capì che era il momento di insistere con quella strategia delle bombe". E allora "sono stati sempre eliminati gli uomini anche dello Stato delle istituzioni e della politica che costituivano diciamo un ostacolo rispetto al mantenimento di uno status quo di una sorta di alleanza nascosta di pacifica convivenza tra Cosa nostra ed il potere. Chi costituiva un ostacolo con il suo rigore con la sua intelligenza con la sua bravura con la sua professionalità veniva colpito e molte volte è stato colpito dalla mafia dopo essere stato isolato e delegittimato dalle istituzioni e dalla politica".

Di Matteo non ritratta: “A volte le correnti usano metodi mafiosi”. Il dubbio il 16 giugno 2020. Lo sfogo del pm: “Durante le indagini sulla trattativa Stato- mafia non abbiamo avuto nessuna tutela da parte del Csm e dell’Anm. Nelle scelte degli incarichi direttivi dei magistrati privilegiare il criterio dell’appartenenza a una corrente è molto simile al metodo mafioso”. Durante le indagini sulla trattativa Stato- mafia non abbiamo avuto nessuna tutela da parte del Csm e dell’Anm. Nelle scelte degli incarichi direttivi dei magistrati privilegiare il criterio dell’appartenenza a una corrente è molto simile al metodo mafioso. Abbiamo toccato il fondo ( dopo la vicenda Palamara, ndr), dobbiamo invertire noi la rotta prima che qualcuno, approfittando della situazione, faccia una riforma che sottoponga la magistratura al controllo da parte del potere politico. Questo, in estrema sintesi, il “Nino Di Matteo pensiero” illustrato durante l’ultima puntata di “Non è l’arena” su La7. Una chiusura con il botto per il programma di Massimo Giletti che ha avuto come ospite d’onore l’ex pm antimafia e ora consigliere del Csm eletto come indipendente nella corrente di Piercamillo Davigo. L’intervento di Di Matteo si è aperto sulla madre di tutti i procedimenti dell’ultimo ventennio: il processo sulla trattativa che attualmente è in corso davanti la Corte d’assise d’Appello di Palermo. «Quando partì questa indagine molti pensavano che fosse frutto di una costruzione, di un teorema politico di magistrati un po’ fantasiosi. Nel tempo si resero conto che l’indagine si riferiva a fatti concreti», ha esordito Di Matteo. «Noi – ha aggiunto – abbiamo avuto difficoltà di tutti tipi, non potevamo non prevederle perché la nostra indagine si indirizzava non solo nei confronti dell’alta mafia ma anche nei confronti di appartenenti di alto livello dell’Arma dei carabinieri, a funzionari di polizia, a politici». E poi l’affondo finale: «C’è stato un momento in cui dopo la vicenda delle intercettazioni di alcune telefonate fra Nicola Mancino con il presidente Napolitano, a noi è stato detto di tutto, siamo stati definiti ricattatori del Capo dello Stato, eversori: in quel momento Anm e Csm, anziché difendere non Nino Di Matteo ma l’operato dei magistrati che indagavano, hanno preferito per motivi di opportunità schierarsi dalla parte del potere politico». Dopo essersi tolto questo “sassolino” dalle scarpe, Di Matteo è tornato sull’attualità e sull’esclusione, prima di essere eletto al Csm, dal pool “mandanti esterni sulle stragi” della Dna per aver raccontato durante una trasmissione televisiva alcuni dettagli di queste vicende giudiziarie. Su questo particolare è intervenuto telefonicamente il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafieho de Raho: «Io volevo reintrodurlo nel gruppo ma volevo la certezza che da quel momento in poi non vi sarebbero state fughe in avanti». E infine, una nuova stoccata, dopo quella dello scorso anno, sulle correnti della magistratura: «Io dissi, e lo direi ancora, che privilegiare nelle scelte che riguardano la carriera di un magistrato il criterio dell’appartenenza a una corrente è molto simile al metodo mafioso. La valutazione del lavoro di un magistrato o le nomine fatte per incarichi direttivi nei confronti di un magistrato condizionati dal criterio dell’appartenenza sono assolutamente inaccettabili». Nessuna replica al riguardo è giunta, fino alla serata di ieri, da parte del Csm e dell’Anm. Tornado all’Anm, è prevista per questa settimana la decisione del Comitato direttivo centrale su Luca Palamara e sui magistrati che parteciparono al dopo cena dell’anno scorso all’hotel Champagne. I probiviri hanno deciso per la loro espulsione. Alcune toghe, per evitare quest’onta, hanno preferito dimettersi prima dall’associazione. Il direttivo, scaduto a marzo, è alla seconda proroga. Presidente del collegio dei probiviri, rimasti in quattro per le dimissioni che hanno falcidiato l’Anm, è il pm Bruno Di Marco che, all’epoca, è stato il difensore per altre vicende, davanti alla sezione disciplinare del Csm, di Giancarlo Longo, il magistrato che raccontò di aver saputo che Palamara aveva ricevuto 40mila euro per la sua nomina a procuratore di Gela. Circostanza smentita dagli inquirenti di Perugia.

Nino Di Matteo a Non è l'Arena: "Dopo le intercettazioni a Napolitano ci è stato detto di tutto, Csm e Anm zitti". Libero Quotidiano il 15 giugno 2020. "Dopo le intercettazioni con Giorgio Napolitano ci è successo di tutto". Il pm Nino Di Matteo, uno degli alfieri dell'inchiesta sui rapporti Stato-Mafia, intervistato da Massimo Giletti a Non è l'Arena ripercorre i giorni caldissimi dello scontro tra Quirinale, Parlamento e Procura di Palermo nel 2012. "Sapevamo sarebbe stata difficile e non avremmo avuto il plauso di nessuno, e d'altronde non è l'obiettivo di um magistrato - premette  Di Matteo a proposito di quelle indagini -, ma dopo le intercettazioni di Mancino e Napolitano ci è stato detto di tutto. Siamo stati definiti ricattatori del capo dello Stato, eversivi, addirittura assassini dopo la morte del compianto D'Ambrosio (il consigliere di Napolitano, ndr). Non critiche, calunnie. E nessuno ci ha difeso, nemmeno Anm o Csm, che in quel momento dimostrarono un pericoloso correlatismo politico".

Nino Di Matteo da Giletti a Non è l'Arena: "Ho saputo che Palamara era molto soddisfatto". Toghe sporche, la rivelazione. Libero Quotidiano il 15 giugno 2020. "Il dottor Luca Palamara fu molto soddisfatto". Il pm Nino Di Matteo, intervistato da Massimo Giletti a Non è l'Arena, racconta cosa accadde un anno fa dopo il suo intervento ad Atlantide di Andrea Purgatori. "Era l'anniversario della strage di Capaci e io mi limitai a riportare una serie di sentenze, senza fornire anticipazioni sulle indagini. Il lunedì mi informarono che ero stato estromesso dal pool che indagava sulle stragi ed entità esterne". Giletti è incredulo. "Sfogliando le carte dell'inchiesta di Perugia - rivela Di Matteo - venni a sapere che Palamara si era molto lamentato per la mia inclusione nel pool, e quando fui estromesso accolse la notizia con grande soddisfazione". "Cosa ne pensa?", chiede Giletti. "Non posso dirlo, ma sicuramente è stata una grande amarezza".

Di Matteo e l’accusa di “metodi mafiosi” ma nessuno apre un’inchiesta. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Giugno 2020. Se un leader di partito, di un qualunque partito, magari sconfitto in un congresso, andasse in tv a dire di aver perso perché sono stati usati metodi mafiosi, che cosa succederebbe? Nel nome del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, un procuratore della Repubblica aprirebbe un fascicolo. Magari con il modello 45, cioè contro ignoti. Ma sentirebbe subito dopo come persona informata sui fatti il leader rancoroso e poi magari, come atto dovuto, manderebbe un’informazione di garanzia al segretario di quel partito. Ci sarebbero titoloni sui giornali, il circo mediatico sarebbe in movimento e quel fatto, quasi sicuramente inesistente, potrebbe portare a un mutamento dell’assetto politico. Tutto ciò non accade se Nino Di Matteo, che pure è riuscito a vincere, con l’aiutino di Piercamillo Davigo, in un’elezione suppletiva del Csm, porta in tv le proprie frustrazioni e arriva a dire che l’uso delle correnti o delle cordate tra magistrati nelle progressioni di carriera è un sistema “mafioso”. È chiaro che il pm reso famoso dal processo “trattativa”, accusando gli altri, parli di sé. Ma solo per autoassolversi e recitare la parte della vittima. È arrabbiato perché non è diventato ministro quando il partito che lo ha sempre osannato, il Movimento Cinque stelle, è andato al governo. È furibondo perché il guardasigilli Bonafede gli aveva promesso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e poi vi ha collocato un Basentini qualunque. Voleva andare a una procura distrettuale “antimafia” e non ce l’ha fatta. Poi gli era arrivato il contentino di un posto nel pool creato dal Procuratore nazionale Cafiero de Raho per indagare finalmente sui “mandanti” delle stragi, quelli che non erano mafiosi ma erano i veri ispiratori delle bombe. Insomma, Berlusconi o giù di lì. Ma anche in quella commissione gli era andata male ed era stato liquidato in pochi giorni. Insomma, se non ci fosse stato l’amico Davigo…Perché sia chiaro che la sua elezione al Csm è pura, è etica, è fuori dalle correnti dei “mafiosi” come Palamara. Il quale, come risulta da qualche chat o da quel diavolo di trojan, era contrario alla sua collocazione nel pool sulle stragi e si è poi compiaciuto del fatto che Cafiero de Raho l’avesse espulso. Ma Palamara, intervistato nello stesso salotto di Giletti in cui Di Matteo, in carne e ossa oppure al telefono o in immagini registrate è il dominus, ha spiegato molto bene come funziona il meccanismo “mafioso”. Non sono nemico di Di Matteo, ha detto, infatti l’ho sostenuto nel 2009 quando voleva andare all’antimafia, ma gli ho preferito altri nel 2016, quando si è ritenuto che altri profili fossero più adatti per il ruolo. Il meccanismo è fatto così. Il fatto che il dottor Di Matteo oggi sia indignato, dopo aver saputo come si sviluppano le carriere dei suoi colleghi, ci è di grande conforto. Supponiamo che negli anni scorsi lui sia stato all’estero e non abbia mai avuto contatti con altri magistrati italiani che lo tenessero informato di quel che succedeva. Ora vuol fare una svolta “etica” tra le toghe. Preferiremmo il termine “culturale”, anche perché lo Stato etico lo vediamo ogni giorno in inchieste come quella di cui il dottor Di Matteo è stato promotore, quello sulla fantasiosa “trattativa” tra lo Stato e la mafia. Ma è anche preoccupato, l’ex pm, perché vede la sua corporazione indebolita dall’immagine che ormai in tanti hanno delle toghe e teme che qualcuno ne approfitti. Qualcuno chi? Beh, il mondo politico, che vorrebbe distruggere l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati e sottoporli al controllo dell’esecutivo. Un bel ragionamento da pubblico ministero, che confonde la parte con il tutto, o il tutto con una singola parte. Perché, neanche nel programma del più entusiasta sostenitore del sistema processuale anglosassone si è mai pensato di toccare l’indipendenza dei giudici, ma semmai di rendere responsabili politicamente i pubblici accusatori. La svolta etica del dottor Di Matteo consisterebbe dunque in questo? Nel rafforzare il partito dei pm, considerando solo loro i veri magistrati, i veri componenti della casta?

Luca Telese per ''La Verità'' il 16 giugno 2020.

Avvocato Taormina, ci spiega cosa ha capito del caso Palamara?

«Che i giornali non hanno spiegato nulla, anzi, hanno confuso le acque».

È sicuro di quello che dice?

«Questa inchiesta ha rivelato un retroscena di una gravità inaudita».

Perché?

«Perché il caso Palamara, unito a quello della vicenda Di Matteo-Bonafede, ci consegna una quadro drammatico della giustizia in Italia».

Ne sta parlando da cittadino o in veste professionale?

«Entrambe le cose, visto che sono indignato come uomo, ma sono al lavoro in quanto avvocato».

Perché, chi difende?

«Glielo dico dopo. Prima le spiego la cosa più importante. Ma a lei pare normale quello che ha detto l'ex presidente dell'Associazione magistrati?».

A che cosa si riferisce in particolare?

«All'affermazione fatta nel programma di Giletti, e caduta nell'indifferenza generale, secondo cui il requisito per fare carriera era l'appartenenza alle correnti! Ma dico, non c'è uno che abbia commentato adeguatamente questa frase?».

Tanti hanno detto che si tratta di un comportamento riprovevole...

«Ma quale riprovevole?».

Di più o di meno?

«Telese, mi meraviglio di lei che da sette settimane, all'Arena, parla solo di questo. Come può sfuggirle?».

Sfuggirmi cosa?

«Qui non stiamo parlando di stile o di etichetta: qui stiamo parlando di un re-a-to».

Dice?

«Mi dia un po' di tempo e le spiego tutto».

Carlo Taormina, 79 anni. Principe del Foro con un debole per le difese difficili, se non impossibili, da Franco Freda a Francone Fiorito, detto Batman. Ex deputato di Forza Italia, poi addirittura sostenitore del Movimento 5 stelle. Un giorno annunciò di essere diventato l'avvocato di Saddam Hussein. Oggi diventa l'avvocato di una delle «vittime» del sistema nomine.

Avvocato, perché collega l'inchiesta su Palamara alla vicenda della nomina di Di Matteo?

«Ho stima e rispetto per Di Matteo. Ci ho parlato recentemente, gli sono grato per quello che ha detto, coraggiosamente, da Giletti».

Ma lei non aveva un'allergia per quelle che chiamavate «toghe rosse»?

«Io? Sono entrato in Forza Italia perché da liberale speravo di cambiare questo Paese. Poi quando ho capito che Berlusconi si faceva solo i cazzacci suoi sono tornato al mio mestiere».

E come ha conosciuto Di Matteo?

«È una storia lunga. Io, in un momento della mia carriera, avrei dovuto difendere Ciancimino».

E poi?

«Poi non ci ho visto chiaro, mi sono tirato indietro, e mi è rimasta l'amicizia con Di Matteo. Curiosa la vita, no?».

E lei crede alla versione del magistrato o del ministro?

«Io so molte cose, alcune delle quali non sono ancora provate, ma le posso fare una domanda?».

Certo.

«Ma se uno non ha nulla da nascondere, davvero lei crede che preferisca passare per quello che sicuramente non è, e cioè uno che ha subito pressioni della mafia?».

E quali?

«Intanto partiamo da un fatto: Di Matteo ha spiegato che il ministro gli ha offerto un posto e poi ha cambiato idea. Che non ha ritirato la sua proposta».

Abbiamo due persone che dicono cose diverse sullo stesso episodio.

«Sì, d'accordo. Ma allora perché Bonafede dopo il suo intervento a l'Arena non lo ha querelato? Io se fossi stato al suo posto l'avrei fatto. Perché non avrei potuto tollerare anche un solo sospetto».

E perché non lo ha nominato, allora, se lei lo sa?

«Ehhhhh... Si possono essere incrociati diversi elementi: il gioco degli sponsor, quello delle raccomandazioni... e così si arriva alla nomina di Basentini».

E quale sarebbe l'elemento di contatto tra la vicenda Di Matteo e quella Palamara?

«Oh Gesù! È grande come una casa, e lei lo ha davanti agli occhi».

Faccia come se fossi miope e me lo chiarisca.

«Noi abbiamo un rigoroso magistrato antimafia a cui si preferisce un anonimo magistrato che nessuno conosce. E poi abbiamo i mafiosi che con queste condizioni alla fine escono dal carcere».

Avvocato, non mi faccia prendere querele.

«E perché mai? Io non parlo di un nesso causale».

E cosa sta facendo?

«Sto mettendo in fila dei fatti».

E questi fatti messi in fila cosa ci dicono?

«Che siccome non ci sono dubbi sulla versione di Di Matteo, e la prova è che il ministro non lo ha querelato, qualcosa ha costretto Bonafede a fare marcia indietro, prendendosi anche la croce».

E perché lei dice che bisogna collegare tutto questo al caso Palamara?

«Perché Palamara, pur cercando di sminuire e attenuare le sue colpe, ne ammette due clamorose che gettano una luce inquietante su come si amministra la giustizia in Italia».

Quali?

«Dice che lui non può più mentire. Cosa che per un presidente dell'Associazione nazionale magistrati è come minimo scandaloso».

E poi?

«Poi c'è l'ammissione ancora più grave: Palamara dice che ogni nomina era governata da un sistema».

E poi?

«Aggiunge che per chi non faceva parte delle correnti era molto improbabile ottenere una nomina».

Lo so, è inquietante sul piano morale.

«No, mi scusi. Questo è un reato sul piano penale».

Lo sta dicendo lei: se parla di piano penale, dovrà essere dimostrato in un'aula.

«Mi perdoni, questo lo dimostrano le interlocuzioni di Palamara. Le sue parole».

Mi spieghi perché.

«E perché la legge, non Carlo Taormina, ci dice che la nomina dei magistrati deve dipendere dalla "valutazione del merito". Non dalla militanza in una qualche corrente sindacale!».

Palamara dice che difficilmente un buon magistrato senza corrente potesse ottenere una nomina importante.

«Ma questa è una violazione di legge! Le chiedo: lei non trova incredibile che questa affermazione sia stata quasi lasciata cadere nel vuoto?».

Visto che sono io che sto intervistando lei, spieghi perché secondo Taormina non si è scavato di più.

«È una cosa che tutti sanno, ma che nessuno vuole ammettere. Il sistema era così radicato che tutti erano coinvolti, anzi. E tutti erano coinvolti perché il sistema fosse garantito».

In che modo?

«Tutti hanno avuto qualcosa».

Tuttavia è grazie a un magistrato che abbiamo conosciuto le intercettazioni e Palamara.

«E io lo considero una mosca bianca, un eroe».

Ma se fosse un reato, di quale reato si tratterebbe?

«Quale? La mia ipotesi è abuso di ufficio. Ma proveranno, faranno di tutto per salvare Palamara».

Perché?

«Perché se, come abbiamo detto tutti, ci intingono il pane, tutti possono subire un ricatto».

Mi faccia un esempio.

«La vicenda di Roma: Davigo vota Viola, come sanno bene i lettori della Verità, come vogliono i renziani».

Lo dice sulla base delle intercettazioni?

«Certo, lo dicono loro nelle intercettazioni, non io. Deve accadere questo, per risolvere i problemi di Lotti».

Questo lo sappiamo.

«Questa per me è corruzione».

Avvocato!

«Guardi che non serve scambio di denaro, basta uno scambio di utilità. È il sistema che ci raccontò Palamara: si reggeva tutto su questo meccanismo di scambio».

Una sua opinione.

«No. È certo».

Un'interpretazione che dovrebbe essere verificata.

«No. È certo. Se io ti offro uno scambio io la chiamo corruzione. Ripeto: anche senza utilità economica».

Dovrà provarlo.

«Ho già i documenti. Ad esempio, quando parlano Palamara e un certo Livio e dicono di una collega: "Finalmente siamo riusciti a cacciarla". E sa perché erano così felici?».

No, perché?

«Perché la collega si occupava di esecuzioni immobiliari. Sa che cosa significa? Milioni di euro di immobili da gestire».

E chi era la collega?

«Una donna integerrima. Per questo doveva saltare. E per questo la finta guerra tra correnti finiva».

Unicost e Area?

«Non solo. Le correnti partono dalla periferia e arrivano fino al Csm, cementandosi nel sistema. È questo che nessuno vuole raccontare, è questo che io dimostrerò difendendo quella magistrata».

E come?

«Questo è il bello. Ho già archiviato è catalogato 45.000 pagine di chat».

Ma lei non era un iper garantista?

«E questo che c'entra?».

Senza il trojan nel telefonino di Palamara lei quelle 45.000 pagine di chat non le potrebbe avere.

«Lo so».

E lei sa anche che senza una ipotesi di reato da cui Palamara è stato prosciolto, lei quelle carte non le avrebbe.

«Lo so bene. Ma siamo in presenza di un'ingiustizia, al cospetto di un'ingiustizia molto, molto più grande».

E quindi?

«Ma che me ne frega!». 

Magistratopoli, altro che P2: l’Anm è la vera loggia eversiva che mina la democrazia. Piero Sansonetti su Il Riformista l'11 Giugno 2020. Il 21 maggio del 1981, quasi 40 anni fa, il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani decise di rendere pubblica la lista dei circa 900 iscritti alla loggia massonica P2, guidata da Licio Gelli. Successe il finimondo. Ministri cacciati dal governo, segretari di partito messi all’angolo, direttori di giornali ed editori in rovina. Era notte quando uscì la lista e in tutte le redazioni furono bloccate le macchine della stampa. Si rifecero le prime pagine, coi titoli a nove colonne e gli editoriali. Poi se ne parlò per anni della P2, ci fu una commissione parlamentare d’inchiesta che lavorò, interrogò, ipotizzò, accusò. Cos’era la P2? Una associazione massonica segreta alla quale erano iscritte molte persone importanti: poliziotti, carabinieri, politici, magistrati, giornalisti, imprenditori. Era trasversale ai partiti. Soprattutto ai partiti di centrosinistra. Cosa sappiamo della P2? Non tantissimo. È stata considerata dall’opinione pubblica il male dei mali e il nucleo golpista della politica italiana. Prove, pochine. Di sicuro si sa che riuscì a impossessarsi del Corriere della Sera, che era il pilastro dell’informazione in Italia. Non è poco. Non è neanche moltissimo. Mi è venuta in mente la P2 pensando allo scandalo di magistratopoli che, nel silenzio quasi generale dei grandi giornali, sta emergendo dalle indagini della Procura di Perugia. Cosa sappiamo di magistratopoli? Qualcosa di abbastanza sicuro. Che c’era (c’è)un sistema segreto – fondato su correnti palesi – il quale disponeva (dispone) quasi interamente del potere giudiziario. Dunque che violava (viola) la legge e la Costituzione. E che, in questo modo, ha distrutto il sistema giustizia e probabilmente ha provocato un numero molto grande di ingiustizie, di inchieste immotivate, di sentenze sbagliate. Questo sistema funzionava (funziona) grazie all’esistenza dell’Anm (l’associazione nazionale magistrati). Cerco di essere più chiaro. Abbiamo saputo che il Csm, cioè l’organo di autogoverno della magistratura, era (è) eterodiretto dalle correnti e dall’Anm. E che le correnti non erano (sono) dei raggruppamenti che si formavano su “idee”, ma semplicemente dei luoghi di organizzazione e di spartizione del potere. Abbiamo scoperto che i capi delle Procure venivano (vengono) scelti non sulla base dei meriti o delle doti di un magistrato, ma dei rapporti tra le correnti e delle regole spartitorie alle quali si era (si è) giunti. Abbiamo scoperto che la gran parte dei magistrati sapeva (sa) che la propria carriera dipende dal sistema delle correnti.E dunque abbiamo anche scoperto che il potere dei Pm (che hanno un peso esorbitante nell’Anm e nel Csm) era (è) enorme e finisce con il condizionare fortemente anche i giudici, visto che anche i giudici sanno che le loro carriere dipendono dal Csm, e quindi dall’Anm (che guida il Csm) e quindi dai Pm e dalla loro organizzazione. Non sto descrivendo un semplice fenomeno di degenerazione. Sto descrivendo, sulla base di fatti e notizie oggettive, un vero e proprio sistema eversivo. La Costituzione dice che il magistrato è sottoposto soltanto alla legge (articolo 101). In questo consiste la sua indipendenza. Invece noi abbiamo saputo che i magistrati italiani sono sottoposti alle correnti e alle correnti devono rispondere. Non alla legge. Che i Procuratori vengono nominati in un gioco di pesi e contrappesi determinati soltanto dal potere e dalla sua spartizione. L’articolo 101 della Costituzione è costantemente violato. E l’Anm, che è il luogo dove essenzialmente si organizzano e vivono le correnti, svolge un ruolo del tutto anticostituzionale, sostituendosi alla legge. L’Anm non è una associazione segreta, era segreta però la parte fondamentale delle attività che svolgeva. L’inchiesta di Perugia ha dimostrato che le cose stanno così, e finora non si è alzato in piedi neppure un magistrato, neppure uno, a dire: non è così, è una calunnia. Nessun magistrato ha definito calunniose le accuse mosse alla magistratura. Cioè, nessuno ha osato mettere in discussione l’illegalità del funzionamento del potere giudiziario. Quando un potere si esprime e funziona in modo illegale, e per di più quando questo potere è in grado di determinare o influenzare pesantemente la vita di un’intera nazione, e di migliaia e migliaia di singoli cittadini, non mi pare che ci sia niente di esagerato nel parlare di eversione. Un potere che funziona così è un potere eversivo. Eversivo in modo simile, ma molto più esteso, al modo nel quale fu organizzato il potere dalla P2, e che portò a deviazioni nel funzionamento della democrazia. Sicuramente le deviazioni prodotte dalla P2 furono infinitamente inferiori a quelle prodotte da magistratopoli. Oltretutto, chiunque si accorge che accanto a magistratopoli c’è giornalistopoli, perché le correnti della magistratura non solo governavano (governano) il pianeta giustizia ma governavano (governano) anche gran parte del pianeta-informazione. Voci autorevoli, come per esempio quella dell’ex magistrato Luciano Violante, hanno denunciato queste cose in modo molto chiaro, ancora pochi giorni fa proprio sul nostro giornale. Se la Loggia P2 fu ritenuta degna di una commissione parlamentare d’inchiesta, come ci si può esimere, ora, dal formare una commissione parlamentare che svolga una inchiesta approfondita sulla magistratura e che prenda dei provvedimenti, e che suggerisca al Parlamento un intervento per spezzare, e rendere impossibile per il futuro, la trama eversiva? Lo chiedo ai partiti. Tutti eh, non solo quelli di opposizione. Che oggi sono davanti al bivio: o tirano su la testa e pongono fine allo stato di sottomissione nei confronti del (corrotto) potere giudiziario, oppure muoiono. Ora uno può anche dire di essere disinteressato alla vita o alla morte dei partiti. Qui però c’è in gioco una cosa più grande: la democrazia. E la libertà. Possiamo offrirle in dono alla nuova P2?

Magistratopoli, parla Gasparri: “Csm è una cloaca, subito commissione d’inchiesta”. Giulio Seminara su Il Riformista il 12 Giugno 2020. «La stavo aspettando». La voce di Maurizio Gasparri, vicepresidente forzista del Senato e parlamentare-polemista di lungo corso, è squillante, quasi da festa. La sua ultima battaglia però non sarà un pranzo di gala: «Dobbiamo applicare la legge Anselmi (la norma contro le società segrete di natura eversiva, ndr) contro l’Anm». Al centro Magistratopoli, lo scandalo che ha coinvolto l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, scoperchiando il vaso di Pandora fatto di ipocrisie e spartizione di potere del nostro ordine giudiziario. «Il palamarismo – è la scudisciata di Gasparri che parafrasa Lenin – è la malattia contagiosa della magistratura».

Senatore, cosa è per lei Magistratopoli?

«Nel 2008 dissi che il Csm era una cloaca e fui pesantemente attaccato, anche da Palamara, all’epoca presidente dell’Anm. Diciamo che il tempo ha rivelato chi tra i due avesse ragione e chi no. Ad ogni modo abbiamo scoperto l’acqua calda: da sempre sappiamo che in magistratura dominano le correnti, a scapito del merito, e che ci fosse una grande sete di potere. In tv Palamara ha rivendicato qualche buona nomina ai vertici di alcune procure, ma lo dobbiamo pure ringraziare? Sembra l’orologio rotto che segna l’ora giusta due volte. A questi problemi aggiungo l’uso della giustizia in chiave politica compiuto da certe toghe: lo scambio in chat tra Palamara e un collega contro Matteo Salvini, che sull’immigrazione “ha ragione ma va combattuto in tribunale comunque” la dice lunga».

Cosa pensa del silenzio da parte di Davigo e Di Matteo sulla questione?

«Di loro non parlo, se no mi querelano. E preferisco lasciare i soldi a mia figlia che a loro. Ma mi rattrista il silenzio dei tanti magistrati onesti, la maggioranza, che tacciono sul sistema Palamara e le tante storture che danneggiano la credibilità della loro professione. Invece parlino, denuncino».

Lei sostiene la proposta del direttore del Riformista Piero Sansonetti di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema magistratura?

«Assolutamente sì, da tempo ritengo che il Parlamento si debba occupare del malaffare interno alla magistratura. L’Anm a furia di trame oscure, lotte di potere, inquinamento della democrazia e finalità eversive ai danni dello Stato è sulla scia della P2. Contro questo sistema dobbiamo ricorrere alla legge Anselmi, istituita proprio contro la P2 ma evocata senza motivo contro le cosiddette P3 e P4. Furono inchieste inutili su gruppi di gente che non contava nulla. Si ricorda il signore (Pasquale Lombardi, ndr) che voleva portare una tanica d’olio in Cassazione come dono a un giudice? Se lui era la P3 allora Palamara e soci sono la “Ptutto”».

Chi dovrebbe fare parte di questa commissione d’inchiesta?

«Tutti i partiti. Anche quella sinistra che per anni ha usato il potere giudiziario come strumento di lotta politica ma che oggi non può più ignorare come una cattiva magistratura rovini la democrazia e la vita di tutti. Dobbiamo usare Magistratopoli per fare pulizia e ridare prestigio alla categoria. Questo scandalo può essere un’opportunità per salvare un sistema in crisi da decenni, soprattutto se riformiamo la magistratura».

Quale riforma immagina?

«Bisogna innanzitutto separare le carriere di pubblici ministeri e giudici, cambiare il sistema elettorale del Csm che finora ha incentivato carrierismi e correntismi a danno del merito, e rendere impossibile il ritorno alla magistratura di chi prima ha lasciato la toga per candidarsi in politica.

E se l’esecutivo, e in particolare il Guardasigilli Alfonso Bonafede, proponesse a breve una riforma della magistratura?

«Con tutto il rispetto per Bonafede, non se ne deve occupare lui ma il Parlamento. Modificando l’ordinamento giudiziario si tocca la Costituzione, c’è bisogno di ampie convergenze e di una discussione plurale che solo le camere possono garantire».

Secondo lei esiste anche Giornalistopoli?

«Anche qui abbiamo scoperto l’acqua calda: da tempo ci sono quotidiani e giornalisti che con la scusa del racconto influenzano la giustizia e fanno politica dentro il Csm. È un cortocircuito con dentro tutti: magistratura, politica e media. Basti pensare al contrappasso che ha colpito lo stesso Palamara: difendeva l’uso e la pubblicazione delle intercettazioni, spesso usate contro il centrodestra, e adesso si è ritrovato sui giornali tutte le sue cose private. Evidentemente ci voleva una vicenda così paradossale per provare a risolvere la situazione».

Antonio Di Pietro e Palamara. "Ci sono due modi per fermare un magistrato". Quarta repubblica, Porro sbianca: "Sta dicendo una cosa gravissima". Libero Quotidiano il 09 giugno 2020. "Un magistrato che vuole essere indipendente può essere fermato in 2 modi: o l'ammazzano o da un altro magistrato". Antonio Di Pietro, ospite in studio a Quarta Repubblica, smantella in pochi minuti la magistratura italiana, alla faccia di Marco Travaglio e Piercamillo Davigo. E anche Nicola Porro sbianca: "Lei sta dicendo una cosa gravissima...". L'ex storico pm di Mani Pulite, commentando lo scandalo che ha travolto Luca Palamara e decine di altri (ex) colleghi, è categorico: "Io sono contrario non solo alle correnti, ma pure all'Associazione nazionale magistrati". "Ma l'Anm è il vostro sindacato, vi difende dalle ingerenze della politica", ribatte Porro. "Appunto. Si ricordi che la magistratura è un potere ed è difesa dalla Costituzione. La politica non c'azzecca niente". La critica di Di Pietro si estende al modo stesso di pensare la magistratura: "Mi preoccupano quei magistrati che fanno già la sentenza prima di accertare i fatti. Una delle persone che stimo di più è Davigo, ma non sempre siamo d'accordo. Io non ho mai usato le intercettazioni, io ero accusato di aver fatto confessare". E su Palamara allarga lo spettro: "Di quale Palamara parla? - chiede ìl fondatore di Italia dei Valori a Porro - Di quello che è stato intercettato o degli altri membri del Csm? Se lui faceva accordi c'erano altri che li facevano con lui. Abbiamo scoperto l'acqua calda!". Un po' come la vecchia storia di Tangentopoli e certi partiti (un nome su tutti, l'ex Pci) per così dire graziati dalle inchieste: "Quelli di sinistra li ho sempre considerati più bravi ad occultare le prove, a quelli di destra alzavo i puff e trovavo i soldi".

Magistratopoli, il "dondolismo" di Marco Travaglio e i Pm che se ne sbattono. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Giugno 2020. In gergo si chiama garantismo a dondolo. Oppure giustizialismo a dondolo. Quando questi due fenomeni sono presenti contemporaneamente si assiste a giravolte politiche talvolta imbarazzanti per un osservatore neutro, considerate invece naturali ed eleganti da gran parte della stampa e del mondo politico italiano. In cosa consiste il garantismo a dondolo, o a pendolo, o a saliscendi? Nell’alternarsi di impeti libertari a improvvise fiammate autoritarie. L’alternanza, in genere, non avviene in modo causale. Funziona così: se un tuo amico finisce sotto accusa da parte della magistratura tu sei garantista, se invece finisce sotto accusa un tuo avversario vieni colto da indignazione forcaiola. Nella politica italiana tutto funziona così. E ancora di più nei giornali italiani. Se si esclude un drappello piccolissimo di giornalisti e di parlamentari, tutti gli altri sono del partito del dondolo. Persino tra i forcaioli più forcaioli vincono in alcune occasioni degli empiti garantisti. Per esempio proprio ieri Il Fatto Quotidiano pubblicava ben due articoli garantisti. Quello di Travaglio, a difesa di Basentini, nel quale si giungeva addirittura ad esprimere opinioni rispettose verso il magistrato di Sassari Riccardo De Vito (quello che ha scarcerato Zagaria, con un provvedimento umanitario e in linea con la legge e la Costituzione) allo scopo di difendere Bonafede e un po’ persino Basentini (ex Dap) dalla furia di Giletti. E poi un altro articolo a difesa del carabiniere Scafarto, nel quale l’articolista si spingeva su posizioni estreme, contestando le intercettazioni e – per la prima volta in dieci anni di vita – spiegando quello che chiunque, se pensa, sa, ma che mai si dice: che le intercettazioni possono essere manipolate a piacere e senza difficoltà (talvolta persino senza dolo) dal Pm. Davvero sorprendente questa ammissione che manda al macero un decennio di tradizioni giornalistiche di Travaglio. (Ammenochè il motivo vero di questa giravolta non sia qualche diffamazione da risarcire, per esempio verso Luca Lotti…). Il “dondolamento” sta raggiungendo vette altissime con la questione coronavirus. La lotta è tra chi sostiene che la colpa di questa epidemia sia del governatore lombardo Fontana e chi pensa che sia invece tutta colpa del premier Conte e del ministro Speranza. Le due posizioni si ritrovano unite su un punto: la caccia all’untore. Se leggete la Colonna Infame di Manzoni, vedrete che gli argomenti sono cambiati solo un po’ rispetto ai giorni della peste del ‘600. Comunque c’è una opinione pubblica, sostenuta dall’establishment, che ritiene che se c’è una epidemia ci sono anche gli untori. E vuole metterli alla ruota della tortura, questi untori, e poi farli squartare dai cavalli in corsa. Successe così anche col terremoto dell’Aquila, qualche anno fa, quando furono processati gli scienziati. La magistratura ci sguazza, in questo clima, e apre indagini su indagini. E se qualche giudice temerario archivia, i sostenitori di Fontana o di Conte – o viceversa – si scagliano contro di lui. Volete sapere perché la magistratura è così potente oggi in Italia ed è riuscita a trasformare questo paese da Stato di diritto a Repubblica delle toghe? Esattamente per questa ragione. Nessuna forza politica (tranne, ma non in modo compatto, Forza Italia e piccole frange del Pd e i radicali) rinuncia al forcaiolismo come strumento di lotta politica. E in queste condizioni vincono sempre i Pm. Che possono anche sbattersene di magistratopoli e continuare a farla da padroni.

Luca Palamara, Maria Teresa Meli: "Esplode la Anm". Dito puntato contro il "marciume della magistratura". Libero Quotidiano il 08 giugno 2020. Prende la mira e apre il fuoco. Si parla di Maria Teresa Meli, la firma del Corriere della Sera, che su Twitter commenta con toni durissimi le vicende che stanno travolgendo la magistratura italiana, da Luca Palamara in giù. "L'Associazione nazionale magistrati sta esplodendo (dimissioni sia in giunta che nel comitato direttivo centrale), e le elezioni per il suo rinnovo sono state rimandate a ottobre - premette -. Il caso Palamara ha terremotato quell'ambiente svelandone il marciume, e la politicizzazione", conclude Maria Teresa Meli, che non fa sconto alcuno.

“La politica codarda ha consegnato il potere ai magistrati”. Parola di Nordio. Il Dubbio l'8 giugno 2020. Per l’ex procuratore di Venezia, “i magistrati sono indipendenti dal potere politico perché questo non li può toccare, ma sono dipendentissimi dall’Anm e dal Csm che hanno in mano carriere, incarichi e promozioni”. “II prestigio della magistratura oscilla da tempo. Con il terrorismo eravamo ai massimi. Poi con il caso Tortora siamo calati. Siamo tornati in auge con Tangentopoli. Oggi siamo al minimo del minimo. E temo che non sia finita”. Lo dice intervistato da Libero, Carlo Nordio, ex procuratore di Venezia a proposito della magistratura. Nordio spiega poi il perchè del legami tra politica e magistratura: “Perché il potere – afferma – è una forte attrattiva, e la politica, debole e codarda, l’ha consegnato a noi su un piatto d’argento, peraltro spalmato di veleno”. Quindi aggiunge che “l’indipendenza e l’autonomia della magistratura sono favole vuote” e “i magistrati sono indipendenti dal potere politico perché questo non li può toccare, ma sono dipendentissimi dall’Anm e dal Csm che hanno in mano carriere, incarichi e promozioni”. “Che il Csm sia l’espressione delle correnti che governano l’Anm e che la spartizione delle cariche fosse procedura consolidata lo sapevano anche le pietre”. E sui magistrati che si comportano in questo modo: “Non mi piacciono, è ovvio. Se lo facessero in mala fede – osserva – ovviamente mi piacerebbero ancora meno, ma credo che la maggior parte sia in buona fede. Cosa moralmente meno grave, ma socialmente più pericolosa, perché chi si ritiene moralmente superiore facilmente sconfina nel fanatismo. E il fanatico fa più danni del delinquente”. “Senza aiutini un giudice non fa carriera”, aggiunge poi Nordio. Come si diventa presidente dell’Associazione nazionale magistrati? Secondo l’ex procuratore veneziano Carlo Nordio “per pura contrattazione correntizia, scambio di favori e di promesse”. E poi: “La Costituzione non lo vieta, e quindi è legittimo” salvo poi affermare che “è estremamente inopportuno e vulnera il principio della separazione dei poteri”.

Scandalo Palamara, il silenzio ci rende tutti complici.  Annamaria Bernardini de Pace Lunedì, 8 giugno 2020 su Affari italiani. Scandalo magistratura, il silenzio dei colpevoli. Io sono come Dacia Maraini: quando mi metto a scrivere, sono felice come se stessi correndo verso il mio uomo amato. Purtroppo oggi penso che invece di fare l’amore, ci guarderemo allibite e indignate, la parola e io, mentre metteremo le mani sotto il lercissimo tappeto della giustizia. Anzi, di certa parte della magistratura. Sono figlia di un magistrato, arrivato alla procura generale a 37 anni, quando poi ha lasciato la magistratura perché ha capito che i suoi colleghi cominciavano a suddividersi in correnti politicizzate. Come ha sempre detto un grande magistrato mio amico e che ho sempre ammirato, non puoi fare questa professione se non sei un uomo libero. E, ormai, se sei libero te la fanno pagare. Quindi, su novemila magistrati di sicuro la maggior parte sono bravi, onesti, preparati, ma gli altri disonorano la giustizia. Che è pur sempre uno dei tre poteri dello Stato. E uno dei principi giuridici basilari dello Stato di diritto e della democrazia è la separazione dei poteri. Gli abusi di potere, la corruzione e l’insulto alla democrazia si hanno quando potere legislativo, potere esecutivo e potere giudiziario si mescolano, anche non solo surrettiziamente, per produrre intrugli d’ogni specie. Come avviene adesso. Il potere legislativo è inesistente, ormai depauperato; il potere esecutivo, ormai, dittatorialmente fa anche le leggi; il potere esecutivo e alcuni settori del potere giudiziario hanno una relazione illecita, pornografica, e neppure tanto clandestina. In questa non democrazia c’è praticamente un despota, con tre corpi e una sola testa. In qualsiasi paese civile del mondo, oggi, malgrado i problemi del covid, si parlerebbe soprattutto dello scandalo magistrati; i giornali sfornerebbero pagine e pagine di intercettazioni, di editoriali colti, di interviste eccellenti. Invece qui niente. Sui grandi quotidiani se ne parla en passant come fosse una notizia di quarta; il Fatto, foglio governativo, difende il sistema stellato, pur essendo scritto da chi una volta era liberale e ora si spreca nel difendere, con grande abilità peraltro, chi è indifendibile. In qualsiasi posto civile, questa tirannia sarebbe combattuta. Dunque, in realtà, viviamo una vera schifezza. È indecoroso per un paese, ancora autoproclamantesi civile, che la giustizia non solo non sia inattaccabile, ma si riveli una fogna puzzolente di giochi di potere, protezioni, strafottenza della legge e dell’onore. A discapito non solo degli italiani in genere, ma soprattutto dei magistrati sani e onesti che vengono coinvolti nel cocktail maleodorante. Loro malgrado. E senza potersi difendere dai despoti che li manovrano. Del resto, criticare l’operato della magistratura vuol dire essere definiti, con disprezzo, berlusconiani, salviniani, fascisti. Come se fosse più inverecondo dell’essere magistrati inadeguati e corrotti. D’altra parte l’intreccio di potere e di sudicie costruzioni tra politica e magistratura, sembra essere – finora – solo con la sinistra. Quale mai può essere la difesa dei maneggioni? Il silenzio. O l’attacco. Ormai non si riesce a parlare più dell’oggetto della questione: se si affronta un tema, si aggredisce subito l’avversario politico, insultandolo. Così non si esamina per nulla il problema, ma si cerca di abbattere chi l’ha proposto. Forse perché fa bruciare la coscienza, il parlarne. Ma è normale che non ci siano centinaia di dibattiti televisivi o sulla carta stampata, per ragionare obiettivamente sugli “obiettivi” di Palamara? “Bisogna fermare Gratteri”, “bisogna fermare Salvini” e nel frattempo escono centinaia di detenuti e boss mafiosi dalle carceri. Col beneplacito di certi svagati magistrati di sorveglianza e del ministero della giustizia. E che dire del ministro coinvolto in una burletta di sfiducia fiduciata? Mille autori televisivi e altrettanti giornalisti non saprebbero creare tanto materiale di confronto e discussione, quanto ne emerge dalle intercettazioni di Palamara e dai fatti che, in un modo o nell’altro, riguardano il mondo della giustizia. Non sono pochi 9.000 magistrati. E moltissimi sono eccellenti. La verità è che non tutti meritano il privilegio di esserlo. Molti sono incapaci, improduttivi, lottizzanti e lottizzati. Sono scelti dal CSM non in base al merito, ma in base agli interessi di chi li sceglie. È ovvio che la magistratura perda di credibilità. Quando poi peraltro le sentenze vengono fatte ad usum delphini o contro il nemico politico. Pensiamo solo all’avvocato di 32 anni precipitato da un parapetto interno del Tribunale di Milano e rimasto paralizzato. Cosa hanno deciso i magistrati, dopo avere indagato, in silenzio, i capi degli uffici giudiziari milanesi? Hanno archiviato e quindi non ci sono né colpevoli né risarcimenti. Ma chi doveva pensare a transennare e avvertire del pericolo per la balaustra bassa? Secondo me i capi degli uffici giudiziari, i quali avevano anche chiesto soldi al Ministero per sistemare. Ma i giudici sono stati “assolti” dai loro colleghi; quando invece per un bimbo precipitato nel cortile della scuola sono state indagate, pubblicamente, maestra e bidella. Vedremo se anche questi giudici saranno garantisti, come gli altri con i loro colleghi, sostenendo che negli spazi usati da tutti non c’è responsabilità di nessuno… Ecco, questo non va bene! Non va bene che ci sia quella che appare una trattativa Stato-mafia e non se ne parli. Non va bene che ci siano gli obbrobri comportamentali dei magistrati, quali appaiono dalle intercettazioni, e non se ne parli. Non va bene che l’azione penale – che è obbligatoria – si attivi e proceda in prevalenza se dà notorietà al PM o se può asfaltare un politico di destra. Non va bene che molti giornalisti, complici e servi del connubio licenzioso e osceno fra magistratura e politica, si muovano solo all’ordine del capo politico o giudiziario di turno, dimentichi anche loro dell’indipendenza. Non va bene che ci sia la censura su tutto questo. Che si reprima lo sdegno per non apparire di destra. Che non si combatta per la democrazia e per dare un senso al nostro voto. Per infrangere il silenzio criminoso. Non va bene. Bisogna ricominciare a pretendere l’etica dello Stato, l’indipendenza dei poteri, la dignità di ciascuno di noi. Continuando a subire, zitti e per quanto arrabbiati, siamo tutti complici.

Da liberoquotidiano.it l'8 giugno 2020. Silvana Ferriero ha scritto una lunga lettera per Luca Palamara, con il quale ha condiviso il tirocinio per magistrati a Roma negli anni '90. Dalla toga appartenente alla Corte d'Appello di Catanzaro è giunta una dura critica all'ex consigliere del Csm, definito "una sorta di pr", abile soprattutto nell'organizzazione delle feste. Una qualità che a quanto pare Palamara ha saputo coltivare nel tempo e che lo ha portato lontano, considerando il ruolo centrale, da "mediatore" come lui stesso preferisce definirlo, che ha svolto per anni all'interno del sistema delle correnti. Di seguito il testo integrale della missiva a firma di Silvana Ferriero. "Leggo sui giornali che durante il passaggio in tv da Vespa avresti espresso un senso di angoscia e disagio per i colleghi non legati alle correnti, ma anche che alla domanda di Vespa sulla possibilità di dimetterti avresti risposto 'non penso alle dimissioni, io amo la magistratura'. Non so se ti ricordi di me e non credo visto che appartengo alla schiera di quelli, per fortuna tanti, che non sono finiti manco per sbaglio nella rete delle tue chat. Eppure noi abbiamo fatto il tirocinio – uditorato, allora si chiamava così – insieme a Roma, siamo dello stesso concorso. Io pure non è che ricordi moltissimo di te durante quell’anno e mezzo trascorso negli uffici giudiziari romani, i pochi ricordi che ho mi ti presentano come uno che organizzava feste, una sorta di pr degli uditori DM 30/05/1996. All’epoca registrai il fatto come un dato sostanzialmente neutro, ero appena approdata in un mondo per me completamente nuovo, le miei energie e la mia curiosità erano convogliate verso il tentativo di capire e di imparare il più possibile di un mestiere di cui non sapevo niente e che mi appariva difficilissimo. Poi arrivò il momento della scelta delle sedi e ognuno di noi prese la sua strada, la mia mi portò in Calabria, a fare il giudice civile, uno di quelli che smazzano carte per dieci ore al giorno, lontani da ogni riflettore e con l’incubo costante dell’arretrato e delle possibilità di incorrere in qualche ritardo nei depositi. Per incidens questo incubo è stato per anni il cavallo di battaglia elettorale di tanti tuoi compagni di corrente, sedicenti paladini in sede disciplinare di tutti quegli sventurati che avessero avuto la lungimiranza di ovviare alla sciagura di incappare in macroscopici ritardi con la provvida adesione alla corrente giusta. Non ricordo dove ti condusse la tua strada nell’immediato, ma so che in seguito fu costellata di tappe che sulla mia mappa non erano neanche segnalate: la presidenza della Anm, l’elezione al Csm. Durante questi anni io sono stata giudice civile di primo grado, giudice penale di primo grado, giudice civile di Corte d’Appello, magistrato di sorveglianza e poi ancora giudice civile d’appello. Ho lavorato assai, con scrupolo, con zelo ma soprattutto con grande passione. Ho lavorato così tanto che alla fine mi sono innamorata di questo lavoro che, in realtà, avevo scelto quasi per caso. Ho amato la ritualità del processo (diversa per il penale e per il civile ma sempre con una sua suggestione), la logica stringente del diritto civile, quella un po’ fantasiosa del diritto penale. Ho amato l’aria che si respira nei palazzi di giustizia, la luce di certe aule in certe ore del giorno, l’atto di indossare la toga. Ho amato il confronto con i colleghi e con il foro, il rapporto speciale con alcuni cancellieri, l’incontro prezioso con una umanità a volte miserabile a volte altissima, ma sempre in qualche modo straordinaria. Ho amato e temuto il potere terribile e formidabile di entrare nella vita delle persone fatalmente legato all’esercizio della giurisdizione. Ho cercato di usarlo con sapienza, con equilibrio, ma soprattutto con rispetto. Ho amato la possibilità che talvolta quel potere fornisce di raddrizzare un torto, di rimettere le cose a posto. Da lettrice compulsiva quale sono ho amato, forse più di ogni altra cosa, la promessa di una nuova storia che mi pareva di intravedere dietro la copertina di ciascun fascicolo che ho sfogliato. Ho amato l’impareggiabile soddisfazione, dopo ore e ore di studio, di essere colta all’improvviso, magari mentre cucinavo o facevo la doccia, dalla spontanea e inaspettata presentazione alla mia mente della soluzione giuridica corretta che stavo cercando. Sono tra i tanti magistrati ai quali lo sfascio prodotto dal correntismo ha provocato solo danni indiretti: non ho mai presentato una domanda per un direttivo o un semidirettivo, quindi la mancanza di uno sponsor non mi ha mai pregiudicato in concreto; non sono mai incappata in vicende disciplinari, quindi la presenza dello sponsor non mi è mai davvero servita. Come si dice? nec spe nec metu. Condivido con molti colleghi la responsabilità di avere consentito con la nostra inerzia a te e a quelli come te di arrivare al punto in cui siamo. Potevamo fare qualcosa? Non lo so, certo non ci abbiamo nemmeno provato. La nostra responsabilità però non è neanche lontanamente paragonabile alla vostra. Il discredito della intera categoria, la rottura forse irreparabile del rapporto fiduciario che dovrebbe esistere tra noi e quel popolo in nome del quale amministriamo la giustizia sono frutto della vostra spregiudicatezza, della vostra insensibilità, della vostra insaziabile e incomprensibile sete di potere. Leggendo molte delle intercettazioni pubblicate una delle domande che mi sono posta più di frequente è stata: ma questi perché hanno voluto fare i magistrati? Che c’entrano loro con l’esercizio della giurisdizione? Che ben venga allora la tua tardiva resipiscenza nei confronti dei magistrati non legati alle correnti, ma per piacere risparmiaci la tua inconcludente professione d’amore per la magistratura. Non ho ancora capito bene che mestiere hai fatto in tutti questi anni, ma so per certo che la magistratura è un’altra cosa".

Ainis: «Il caso Csm scredita ancora di più la giustizia». Errico Novi su Il Dubbio il 9 giugno 2020. «Non mi stupisce lo scarso allarme del Paese di fronte ai tribunali chiusi: la giurisdizione è come una malato grave, se muore si ha un senso di liberazione». «Non ci voleva. Il caso Palamara è uno di quei colpi che inducono rassegnazione. Se c’è poco allarme per la paralisi dei Tribunali, un po’, anzi non poco, dipende anche dalla nuova valanga di intercettazioni sul Csm». Michele Ainis è un costituzionalista e ha una sensibilità quasi pannelliana. Ha un’idea sacra delle istituzioni e nello stesso tempo spirito sufficientemente laico per additarne il declino senza perifrasi. Così, di fronte al silenzio del Paese sui tribunali ancora mezzi chiusi – silenzio rotto solo dagli appelli dell’avvocatura – il professore dell’università Roma 3 ed editorialista di Repubblica intravede il senso diffuso della liberazione da una malattia incurabile.

Cioè, professor Ainis, per gli italiani la giustizia non è curabile?

«Esiste una disillusione forte, molto forte. Lei si immagini l’effetto delle intercettazioni su Palamara, la seconda ondata come sappiamo. Arrivano in un momento in cui l’attenzione, l’attesa dei cittadini è rivolta ad altro, all’epidemia, e anche ai limiti che il sistema sanitario ha scontato per i tanti, troppi tagli, i 37 miliardi di tagli degli ultimi anni, senza i quali forse nelle fasi più acute ce la saremmo cavata meglio. Ora questa è la priorità assoluta, giusto?»

Questo è fuori discussione.

«Ebbene, sa cosa succede nella testa di una persona, di fronte alle udienze quasi del tutto abolite? Scatta la reazione rassegnata di chi sa di un parente malato da tempo che non ce l’ha fatta. Si ha quasi un senso di liberazione, dovuto alla pietà. Ebbene, anche di fronte alla giustizia paralizzata dal covid è come se l’italiano medio avesse pensato “era già ridotta male, ha avuto il colpo di grazia, forse è meglio così”».

Agghiacciante.

«Io ho l’impressione che nelle scelte del governo ci sia stato un riflesso di una simile idea. L’indignazione per l’inadeguatezza delle strutture sanitarie ha indotto la politica a cambiare strada. Di fronte al minore allarme suscitato nel Paese dai tribunali chiusi, si è pensato di poter mettere la questione da parte».

Però mancata tutela dei diritti vuol dire impossibilità di recuperare un credito per chi ne aveva urgente bisogno, o veder compromessa la condizione delle persone più vulnerabili, i minori innanzitutto.

«Certo, è evidente. Ma vede, noi siamo un popolo irriducibilmente litigioso. E la tendenza sembra essersi imposta nel pieno della fase 1 così come ancora si impone adesso. Intanto, abbiamo sopportato forti limitazioni della libertà, inevitabili, ma sarebbe stato legittimo attendersi una altrettanto forte riscoperta del valore della libertà. Piero Calamandrei diceva che la libertà è come l’aria, ti accorgi quanto è importante solo se ti manca. Nel caso dell’Italia invece sembra che i contrasti, per esempio, fra Stato centrale e Regioni siano diventati più importanti di tutto il resto. I protagonisti della scena pubblica sono rimasti assai più impigliati nelle liti che animati dall’ansia di apprezzare la ritrovata libertà. A questo aggiungerei il contributo non proprio positivo, rispetto al valore del diritto, offerto dalla legislazione complicatissima delle ultime settimane, avvitata attorno ai dpcm. Centinaia di pagine, spesso contraddittorie, e spesso contraddette dalle ordinanze regionali. Ecco, dinanzi a tutto questo, a molti italiani il diritto è apparso come uno strumento inutile se non dannoso».

La sfiducia nella giustizia dipende anche dal fatto che i magistrati piacciono solo se emettono sentenze dure? Qualche decisione “garantista”, come la sentenza sulla strage del bus precipitato dalla A16, ha reso i magistrati impopolari?

«Un’altra caratteristica italica è l’umore ondivago. Riguarda molti campi. A proposito delle regioni: si passa dal centralismo al federalismo in un niente. Durante Mani pulite eravamo giustizialisti. Ci si è spostati un po’ verso il garantismo nel ventennio berlusconiano, o almeno lo ha fatto la parte del Paese che tifava per Berlusconi. Adesso mi pare prevalga di nuovo un sentimento manettaro, e una delle cartine di tornasole più recenti è nella vicenda carceri».

Ha trovato insopportabile la rivolta contro i giudici di sorveglianza?

«Mi è sembrato non si sia vista alcuna sensibilità per la questione del sovraffollamento, che certo non è recente ma che di fronte ai rischi legati al covid avrebbe dovuto suscitare qualche preoccupazione in più. E invece ci si è indignati davanti ai 400 detenuti per reati di mafia andati ai domiciliari, senza dare alcun peso a quel dato piccolo piccolo, e cioè che su quei circa 400, i detenuti usciti dal 41 bis erano 3 in tutto. Più che fiducia nella giustizia, c’è aspettativa per una giustizia solo punitiva».

Il caso Palamara è un colpo mortale alla credibilità delle toghe?

«Sarebbe così se avessimo memoria… Non ne abbiamo molta, dimentichiamo tutto e subito, ammesso che anche solo nell’immediato qualcosa si innesti davvero nella percezione. Però, certo, la disillusione di cui ho detto all’inizio è stata aggravata dalle nuove intercettazioni».

E come si può rimettere in piedi un sistema così indebolito?

«Con una riforma radicale del Csm. Che prenda le mosse da una constatazione: di micro interventi ce ne sono stati decine, in materia, ma non è cambiato mai un tubo».

Che intende per riforma radicale?

«Anche il ricorso al sorteggio. Credo che la chiave sia la composizione del Consiglio, eevitare che sia monopolizzata dalle correnti. E sorteggio non significa portare a Palazzo dei Marescialli chiunque».

Limiterebbe il novero dei giudici e pm sorteggiabili?

«Sì, probabilmente andrebbero considerati gli standard di laboriosità, la quantità delle sentenze non tanto in termini assoluti quanto nella percentuale di decisioni ribaltate in appello. Lo so, si tratta di una strada impegnativa, ma cito innanzitutto Voltaire, secondo il quale prima di fare nuove leggi bisogna bruciare quelle che già ci sono. D’altra parte, i francesi sono il popolo delle rivoluzioni».

Proprio le correnti chiedono di riabilitare il criterio dell’anzianità nelle nomine, il meno arbitrario di tutti.

«Pensare di sbarazzarsi delle valutazioni è una pia illusione, sia quando si tratta di studenti sia se dobbiamo scegliere chi nominare presidente di un Tribunale o capo di una Procura. Non è che possiamo affidarci a un criterio fisso, se no tanto vale dire che gli incarichi vanno solo ai pm biondi e alle magistrate con una determinata acconciatura… Deve continuare a esserci una discrezionalità nelle scelte del Consiglio superiore. Discrezionalità, non arbitrio del sovrano, ovvio. Ma stavolta ci soccorre Montesquieu: con il sorteggio, diceva, tutti acquisiscono il diritto di servire la patria. Credo sia giusto dare a tutti il diritto potenziale di diventare componenti del Csm. Il sorteggio è la garanzia della massima eguaglianza».

Luca Palamara, Paolo Mieli: "Un mare di melma sommerge la magistratura. E Bonafede chiarisca su Di Matteo". Libero Quotidiano il 06 giugno 2020. Paolo Mieli si occupa del “mare di melma” che sta sommergendo la giustizia, nel silenzio del governo presieduto da Giuseppe Conte, che è “distratto” dalla pioggia di miliardi che dovrebbe arrivare dall’Europa e dalla prospettiva degli Stati generali per la rinascita che ha creato tensioni all’interno della maggioranza. Nel suo editoriale sul Corriere della Sera, Mieli analizza le due vicende che hanno generato lo scandalo che sta travolgendo l’ordine giudiziario. Quella di Luca Palamara è ormai ben nota e sta facendo tremare il Csm, oltre ad aver richiesto l’intervento di Sergio Mattarella. A distanza di un anno, sono emerse nuove scottanti intercettazioni (racchiuse in circa 60mila pagine) che hanno scoperchiato tutta la vergogna del sistema delle correnti che comanda la magistratura e spartisce le posizioni di potere. Ma parecchie ombre sono rimaste anche sul caso scoperchiato da Nino Di Matteo, magistrato idolatrato a lungo dai 5 Stelle, almeno fino a quando questi non sono andati al governo, “dimenticandosi” completamente di lui. Tutti, tranne Alfonso Bonafede, che nel 2018 gli propose la guida del Dap, salvo poi rimangiarsi tutto nel giro di poche ore per essere venuto a conoscenza di presunte minacce dei boss mafiosi. Finora il ministro grillino non è stato in grado di trovare spiegazioni convincenti al cambiamento di idea su Di Matteo e deve ringraziare soltanto Matteo Renzi, che salvandolo dalla sfiducia ha fatto sì che di questa vicenda si parlasse sempre meno. A far specie a Mieli è il repentino cambiamento del M5S nei confronti di Di Matteo: “Coloro i quali in passato ne avevano fatto oggetto di venerazione, in quel frangente lo avevano abbandonato al proprio destino e avevano difeso il ministro. Qualcuno aveva addirittura ironizzato suggerendo al giudice di guardare meno la tv. Tutti fecero finta di non capire”. Per Mieli a questo punto c’è solo un modo per un cambiamento virtuoso della giustizia italiana: “Si avrà solo quando un magistrato darà battaglia al sistema degenerato alle correnti. A testa alta, mentre è ancora in servizio. Mettendo nel conto che subirà l’ostracismo dei colleghi. Tutti. O quasi”. 

 Magistratura Corrotta, Paese Infetto.

Il Corriere del Giorno il 25 Maggio 2020. Il vero obiettivo della politica sembra essere quello di riconquistare il controllo sul sistema giudiziario italiano che viene gestito ormai da tempo da un’associazione di magistrati all’interno della quale si continuano a verificare scontri e guerre intestine senza esclusioni di colpi, al cui confronto la battaglia politica sembra un gioco per educande... Le chat private di alcuni magistrati che esprimevano giudizi pesanti su Matteo Salvini sono state l’ultimo durissimo colpo alla credibilità della giustizia. Claudio Martelli, ex guardasigilli all’epoca del governo Craxi (1991-1993) ha commentato lo scambio di messaggi tra i magistrati Luca Palamara e Paolo Auriemma: “Da Palamara che cosa vuole aspettarsi? In questa situazione bisognerebbe arrivare a un rimedio decisivo. È del tutto evidente che l’Anm è diventata un’organizzazione che parassita lo Stato e permette di condizionare le scelte del Csm, perché influisce sull’elezione dei suoi membri. Si comporta come un partito politico. Contesta le decisioni del Parlamento, del governo e del ministro della Giustizia ogni due minuti. È un organismo che non si capisce più bene che cos’è, ma che comunque sembra votato a mal fare”. Per Martelli c’è solo una cosa da fare: “L’Anm andrebbe sciolta.Fa del male ai magistrati e alle istituzioni, dunque è una minaccia”. Un commento profetico. Adesso l’Anm, l’ Associazione nazionale dei magistrati, o meglio le correnti interne, sono travolte dal grave contenuto delle intercettazioni, cercando di trascinare con sè anche il Consiglio Superiore della Magistratura. Più di qualcuno chiede il presidente della Repubblica Sergio Mattarella di sciogliere l’attuale Consiglio Superiore della magistratura che egli stesso presiede, di mandare a casa il vicepresidente David Ermini e i suoi consiglieri, nonostante il Capo dello Stato non abbia alcun potere in proposito, e peraltro sia prossimo alla scadenza del suo mandato presidenziale. Pochi ricordano e molti dimenticano che soltanto quasi un anno fa, quando esplose il “caso Palamara” ed il conseguente terremoto che propagò all’interno della magistratura inducendo alle dimissioni dei componenti togati (cioè magistrati) al Csm, era stato lo stesso Mattarella a chiedere un cambio di comportamento, intervenendo in qualità di presidente al plenum del Csm pronunciando parole durissime con le quali chiedeva un “cambio dei comportamenti” sostenendo che “accanto a questo vi è quello di modifiche normative, ritenute opportune e necessarie, in conformità alla Costituzione“. Ruoli diversi, tra magistratura e politica, con quest’ultima che avrebbe dovuto provvedere ad «una stagione di riforme sui temi della giustizia e dell’ordinamento giudiziario». Sei mesi dopo attraverso il deposito degli atti d’indagine sul “caso Palamara” al Giudice delle Indagini Preliminari di Perugia trapelano le intercettazioni acquisite grazie al “trojan” inoculato nel cellulare di Palamara, che coinvolgono anche molti giornalisti di importanti quotidiani nazionali come la Repubblica, la Stampa, il Corriere della Sera, e strani collegamenti (peraltro vietati dalla Legge) di alcuni di loro con delle costole dei “servizi” italiani. “E secondo te io mollo? Mi devono uccidere. Peggio per chi si mette contro“. Con queste parole Luca Palamara la mattina del 23 maggio 2019 nei messaggi inviati al suo collega (anche di corrente) Cesare Sirignano , si mostrava aggressivo e sicuro del fatto suo . La 5a Commissione Incarichi direttivi del Csm aveva appena espresso con il proprio voto i tre candidati per la guida della Procura di Roma, che vedeva in testa risultava Marcello Viola, appoggiato dal gruppo Magistratura Indipendente e reale candidato “occulto” di Palamara, anche se la battaglia finale si sarebbe combattuta al plenum del Csm, e quindi l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati (nonché ex componente del Consiglio) si “armava” contro i membri togati di Area, il cartello che raduna la sinistra giudiziaria più estremista , decisi ad ostacolare la nomina sponsorizzata da Palamara. il quale li definiva con queste parole: «Sono dei banditi, vergognosi». Questa parte del dialogo intercettato è utile per capire quale fosse la posta in gioco per la quale l’ex pm oggi indagato per corruzione si preparava a giocare partita della sua carriera. Tutto ciò è diventato “pubblico” la settimana successiva dal contenuto del decreto di perquisizione con il quale la Procura di Perugia rese di fatto pubbliche le trame occulte con cui Palamara stava “manovrando” la nomina del nuovo procuratore capo di Roma, dall’esterno del Csm , spalleggiato dai deputati del Pd Cosimo Ferri (giudice in aspettativa ma capo riconosciuto di Magistratura indipendente) e Luca Lotti. La rivelazione di quelle trame oscure provocò un vero e proprio “terremoto” all’interno del Csm, con le dimissioni di tre componenti di Magistratura Indipendente e due di Unicost e contestualmente la prima crisi interna all’Anm. La maggioranza a tre fra Area, Magistratura Indipendente ed Unicost si azzerò allorquando Magistratura Indipendente venne accusata di non aver agito con la necessaria fermezza nei confronti dei propri consiglieri che partecipavano alle “riunioni segrete notturne” organizzate dal “trio” Palamara-Ferri-Lotti, e fu così nacque una nuova maggioranza della giunta dell’ Anm composta da Area, Unicost che aveva «epurato» il suo leader Luca Palamara e i due componenti del Csm dimissionari, e i togati di Autonomia e indipendenza guidati da Piercamillo Davigo. Dopo solo un anno siamo punto e capo con la nuova crisi dei nostri giorni. Ma questa volta la rottura è avvenuta tra Area e Unicost, a seguito della chiusura dell’indagine nei confronti di Luca Palamara, per la quale la Procura di Perugia (competente sugli uffici giudiziari di Roma) stati depositati tutti gli atti comprese le intercettazioni. Ma non solo, ci sono anche le chat delle conversazioni su WhatsApp , dal 2017 in avanti,  trovate sul cellulare di Palamara; che all’epoca delle intercettazioni era componente del Csm sino al settembre 2018 e di fatto governava la magistratura raggiungendo spesso e volentieri accordi e alleanze con i togati di “Area” e i laici di centrosinistra, anche perché al fianco di Area aveva già guidato l’Anm, tra il 2008 e il 2012). Un esempio calzante delle manovre dietro le quinte del Csm, fu l’archiviazione del procedimento disciplinare nei confronti del magistrato tarantino Pietro Argentino, accusato dal Tribunale di Potenza e dal Gip di Potenza di aver mentito per coprire le malefatte del collega Matteo Di Giorgio (attualmente in carcere dove sta scontando 8 anni di carcere), subito dopo diventato procuratore capo a Matera, scambiato con la nomina di Maurizio Carbone, ex segretario dell’ ANM, nominato “all’unanimità” (con l’appoggio di Unicost e Palamara) procuratore aggiunto di Taranto al posto proprio di Argentino ! Attualmente nei confronti dei magistrati “scambisti” Argentino e Carbone pende un procedimento dinnanzi alla 1a Commissione del Csm. Le conversazioni di Palamatra con i colleghi della sua stessa corrente (ma non mancano quelli di Area e di Mi), che rivelano e portano alla luce patti e manovre occulte per piazzare questo o quel magistrato nei vari posti, per poi “fotterne” altri , risalgono a quel periodo. Una vera e propria spartizioni di nomine e incarichi decisi con un bilancino correntizio, «espressive di un malcostume diffuso di correntismo degenerato e carrierismo spinto, fino a pratiche di vera e propria clientela», per usare un comunicato firmato da Area che pretendeva delle prese di posizione più rigide da parte di Unicost, e così ha origine la seconda crisi nel sindacato dei giudici. Palamara è stato in realtà un alleato della sinistra giudiziaria sino all’autunno 2018, ed è proprio da questa alleanza inimmaginabile che hanno origine gli attacchi al leader leghista Matteo Salvini in alcune conversazioni private, a cui hanno fatto seguito delle folli aperture di indagini sul leader leghista. Alla fine agosto 2018 il procuratore di Viterbo Paolo Auriemma ex membro togato del Csm e compagno di corrente in Unicost di Palamara manifesta il suo dissenso sull’ inchiesta aperta a carico del ministro dell’Interno, per la vicenda dei migranti trattenuti a bordo della nave Diciotti. Palamara al telefono gli rispondeva: «Hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo». Chi era il mandante ? Probabilmente il PD in cui all’epoca dei fatti militavano Renzi, Ferri e Lotti. Pochi giorni dopo Palamara manda una foto a Francesco Minisci (sempre di Unicost) a quell’epoca presidente dell’Anm, scattata a Viterbo alla festa di Santa Rosalia, che così commenta: «C’è anche quella merda di Salvini, ma mi sono nascosto». Minisci risponde diplomaticamente «Va dappertutto». Qualche mese dopo proprio Minisci a finire “azzoppato” da Palamara, che così scriveva a Sirignano: “Già fottuto Minisci”. Conclusosi il mandato al Csm a fine settembre cambiano alleanze, equilibri e schieramenti fra le correnti dei magistrati.. Perché nel nuovo plenum di Palazzo dei Marescialli (sede del Csm – n.d.r.) la corrente di Area non è più quell’alleato affidabile come prima e soprattutto Palamara ha intuito che non potrà contare sul loro sostegno per l’ambita poltrona di procuratore aggiunto a Roma , lasciata libera dal collega Giuseppe Cascini, da poco eletto al Csm, proprio grazie all’appoggio dell’ex pm che così manovrando aveva preparato una vera e propria staffetta a tavolino. E’ così che ha origine l’alleanza raggiunta da Palamara con la corrente di Magistratura Indipendente guidata dal “nume tutelare” Cosimo Ferri ex magistrato diventato deputato, ben noto per le sue capacità di trasformismo politico, passato dalla corte di Berlusconi , per poi passare con il Pd guidato da Matteo Renzi, che ha recentemente seguito ad Italia Viva). Un’accordo con la politica finalizzato alla nomina del nuovo procuratore capo di Roma e subito dopo di se stesso come procuratore aggiunto. Ma l’inchiesta per corruzione a suo carico ha fatto saltare il “banco”. portando alla luce un anno tutte le manovre dietro le quinte del Csm, l’intreccio delle sue imbarazzanti relazioni e vergognose opinioni. Non mancano gli intenti vendicativi (da buon calabrese…) contro i colleghi di Area. “Bisogna sputtanarli”, gli scriveva Sirignano, magistrato che il Csm ha trasferito la settimana scorsa dalla Procura Nazionale Antimafia, a causa di un’altra intercettazione in cui parlando al telefono con recentemente del suo ufficio e della prossima nomina del nuovo procuratore di Perugia, replicava convinto: «Esatto». L’appello del Capo dello Stato in realtà aggiunge quindi ben poco allo scenario già noto di una continua e mai interrotta spartizione di poltrone ed incarichi in cui il Csm diventa la “centrale operativa” di magistrati eletti che ubbidiscono alle corrente che li hanno candidati ed eletti. Un sistema malato ricordato anche ieri con comunicati e prese di posizione che inducono il Governo e la maggioranza a ricordarsi che così la giustizia non può funzionare, e che occorre intervenire incidendo anche sui meccanismi di nomina del Csm. Qualcuno però dimentica che in questa maggioranza governativa politica siano presenti anche Cosimo Ferri (un magistrato in aspettativa) deputato del Pd ora passato con Italia Viva di Matteo Renzi, e Luca Lotti a lungo il braccio destro dell’ex-premier fiorentino, ora a capo di una propria corrente interna nel Partito Democratico. Al momento però il vero obiettivo della politica sembra essere quello di riconquistare il controllo sul sistema giudiziario italiano che viene gestito ormai da tempo da un’associazione di magistrati all’interno della quale si continuano a verificare scontri e guerre intestine senza esclusioni di colpi, al cui confronto la battaglia politica sembra un gioco per educande...Alquanto improbabile che si arrivi ad una reale riforma ed alla separazione delle carriere dei giudici come sono tornati a chiedere nuovamente anche ieri gli avvocati. La pubblicazione delle intercettazioni che continuano ad essere pubblicare in questi giorni dimostra che l’uso diabolico delle stesse continua ad essere utilizzato anche da parte di coloro che da tempo lo hanno criticato. Adesso più di qualcuno vorrebbe accompagnare alla porta d’uscita l’avvocato fiorentino Davide Ermini, il vicepresidente del Csm (indicato proprio dal Pd di cui è stato deputato ) , l’unico ad essere uscito a testa alta dallo scandalo scoppiato un anno fa, dimostrando di non aver mai ceduto alle pressioni di Lotti, Ferri e del magistrato Palamara i cui comportamenti gli sono costati in via cautelare la sospensione dalla magistratura senza stipendio ed a breve un processo per corruzione. Questa nuova stagione di intercettazioni ha colpito e mandato in pezzi l’Anm. I nuovi scandali hanno riguardato il rapporto tra il Guardasigilli Bonafede, i magistrati del suo staff pressochè tutti dimissionari, intercettati e coinvolti in vari scandali, hanno un filo rosso che li collega fra di loro: l’inchiesta sulla famosa “trattativa” stato-mafia. E tutto ciò fa capire come mai Renzi fu bloccato dal Quirinale (presidenza Napolitano) quando voleva nominare ministro di Giustizia nel suo Governo il magistrato Nicola Gratteri , e spiega la mancata nomina ai nostri giorni del magistrato antimafia Nino Di Matteo a capo del DAP il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E questa la chiamano “giustizia”…

Amnistia per ricreare la fiducia. Palamara "confessa" Magistratopoli: Pm, giudici e sentenze tutto illegale. Piero Sansonetti de il Riformista il 5 Giugno 2020. La credibilità della magistratura è stata rasa al suolo dal Palamara-gate. Sebbene nei grandi giornali prevalga l’omertà. I fatti emergono tutti i giorni e ormai hanno fatto breccia anche in alcune televisioni. Chi l’altra sera ha visto Porta a Porta, e ascoltato attentamente l’intervista al dottor Palamara, non può non essere rimasto basito per le sue parole. È apparsa in tutta evidenza e senza possibilità di smentita la condizione di assoluta illegalità nella quale opera la magistratura. Si è visto con chiarezza che il divorzio tra giustizia e magistratura è completo e antico. E che un pezzo dello Stato repubblicano si è posto volontariamente contro la legge e il diritto. Tra qualche riga proverò spiegare meglio perché. Prima però volevo anticipare una conclusione, che a me sembra inevitabile: si è rotto il patto di fiducia tra cittadini e magistratura. Si è accertato che moltissimi magistrati, che in questi anni hanno perseguito e giudicato migliaia di cittadini, avevano ottenuto il loro incarico in modo non corretto. Si è saputo che in alcuni settori della magistratura era non il diritto ma la collocazione politica, o i rapporti di amicizia, a orientare il giudizio. È chiaro che chiunque è autorizzato a pensare che una parte grande o piccola dei processi che si sono svolti in questi anni, o delle inchieste che si sono avviate, non rispettavano il diritto e possono essere stati inquinati. Il patto di fiducia tra cittadino e magistratura è sgretolato. Per ristabilire le condizioni minime di rilegittimazione della macchina della Giustizia occorre una soluzione politica. Questa soluzione è prevista dalla Costituzione: si chiama amnistia. Più precisamente, amnistia e indulto. Il senso dell’amnistia è esattamente questo: chiudere un capitolo oscuro. Ripartire da zero. L’amnistia più famosa della nostra storia è quella che fu concessa dal governo di unità nazionale nel 1946, firmata da un ministro comunista, e cioè da Palmiro Togliatti: l’amnistia che salvava i fascisti e introduceva un elemento importantissimo di pacificazione e di ricostruzione di un patto che era stato stravolto dal fascismo. Capisco che possa sembrare un eccesso polemico, ma invece non c’è niente di polemico: ci troviamo in una situazione simile. C’è il ragionevole sospetto che molti processi possano essere stati inquinati da logiche che non hanno a che vedere con il diritto. Non si può convivere con questo sospetto. È irragionevole pensare che si possano rifare centinaia di migliaia di processi. L’unica soluzione è un provvedimento di clemenza. Che peraltro, prima ancora che iniziasse il terremoto-Palamara, era stato chiesto da diverse personalità molto autorevoli, a partire dal Papa. Torniamo all’intervista a Porta A Porta. Ha detto Palamara: «Sì, in molti settori della magistratura c’è una propensione per la politica». «Sì, spesso prevale un istinto di corporazione». «…il sistema delle correnti… accordi tra rappresentanti dei magistrati… attività politico associativa… chi va al Csm è indicato dalle correnti, l’organizzazione interna che i magistrati si sono dati è uno strumento di potere… non rivelerò i contenuti della cena con Pignatone… non so perché i trojan funzionavano a intermittenza…». Ho solo copiato qualche frase dai miei appunti. Provo a spiegare cosa se ne deduce. Che l’Anm non è una associazione culturale né un sindacato tecnico: è un luogo dove si distribuisce il potere. Che il Csm è espressione in gran parte (maggioritaria) dell’Anm. Che la magistratura non è un ordine ma una corporazione e che risponde non a principi di giustizia e di legge ma agli interessi della corporazione, che una manina ha cancellato l’intercettazione della cena tra Palamara e Pignatone (nella quale si decise il nome del nuovo Procuratore di Roma), che qualcuno silenziava i trojan quando i magistrati intercettati erano eccessivamente di peso. Oltre a questo c’è qualcosa di più. Palamara ha spiegato che le nomine effettuate dal Csm, compresa quelle dei magistrati di Cassazione, sono state tutte determinate da logiche di corrente. Dunque sono illegali. E ha precisato – per giustificarsi – che però le più importanti, quelle dei Procuratori delle grandi città, hanno anche – anche – tenuto conto della competenza e dei meriti dei nominati. Le altre no. Quante sono le altre? Qualche decina? No: migliaia. Migliaia di nomine irragionevoli e illegali. L’intera geografia della magistratura frutto dell’arbitrio e di logiche di puro potere. Al di fuori della Costituzione. Per riparare all’insieme di queste sopraffazioni occorrerà una riforma da fare in tempi strettissimi, e con l’accetta. Che trovi il modo per riportare sotto controllo un potere uscito del tutto fuori controllo. La riforma del Csm e la separazione delle carriere tra giudici e Pm sono le prime urgenze. Però prima di ogni altra cosa viene l’amnistia. Perché è necessario restituire ai cittadini l’idea che loro, se finiscono nella rete della magistratura, non saranno immediatamente trasformati in merce di scambio in una battaglia di potere. Recentemente è stata presentata alla Camera una proposta di legge costituzionale che riforma l’amnistia e l’indulto. La proposta è depositata dal 2 aprile scorso. Quindi è precedente all’esplodere di Magistratopoli. Ora diventa attualissima. Naturalmente non sarà facile piegare la resistenza dei 5Stelle. I partiti democratico-liberali che fanno parte del governo, però, sono in grado di porre la questione come fondamentale per la tenuta del governo. Non è un problema secondario quello che è sul tappeto. Riguarda il ripristino dello Stato di diritto, della democrazia e della Costituzione.

Palamaragate e il silenzio dei giornali. Dopo Magistratopoli, 9 idee per riportare la legalità tra le toghe. Piero Sansonetti de il Riformista il 4 Giugno 2020. Magistratopoli passerà. Le macchine che cancellano tutto sono già in moto. In particolare, nell’opera di rimozione, sono impegnati i grandi giornali, che seminano silenzi come non facevano da 70 anni. È da quando è nata la repubblica che i giornali non erano così silenziosi e omertosi. Pagine bianche. La ferita per la libertà di stampa è profondissima, non sarà facile rimarginarla. Allora proviamo a fare un po’ d’ordine, prima che cali il silenzio e ci si dimentichi persino il nome di Luca Palamara. Mettiamo per iscritto nove domande alle quali, ne siamo abbastanza certi, nessuno vorrà rispondere.

1 – Se risulta che la gran parte dei procuratori nominati negli ultimi due anni e mezzo (da quando ha iniziato a funzionare il trojan) hanno ottenuto la nomina non sulla base dei propri meriti, della propria sapienza, delle proprie competenze e abilità, ma invece in virtù di piccoli giochi di potere, non è giusto annullare tutte le nomine? Provo ad essere più chiaro, e magari un po’ più rozzo: il voto in Csm con il quale sono stati scelti i procuratori è stato in modo evidente un voto di scambio. Non dico che sia reato (non lo ho mai pensato), ma che valore può avere una nomina ottenuta col voto di scambio?

2 – Se i magistrati hanno chiaramente dimostrato di non sapersi governare, chi deve governare la giustizia e la magistratura? Le intercettazioni ci spiegano senza possibilità di errore che i magistrati approfittano della composizione del Csm, dove dispongono della maggioranza assoluta, per fare mercato di potere e non per amministrare la giustizia. Del resto non si capisce come nella tripartizione dei poteri possa esistere un potere del tutto sciolto da ogni controllo. Diciamo, usando il vocabolario, un potere assoluto. Un potere assoluto non è compatibile con uno stato liberale. E allora non è forse necessario immaginare un Csm che sia estraneo ai giochi di potere della magistratura e che possa esercitare un controllo reale sulla magistratura? Diciamo un Csm composto da giuristi, avvocati, personalità della cultura, magari anche ex magistrati – scelti dal Parlamento con maggioranze molto larghe e con mandato molto lungo – in grado di controllare davvero, e dunque di ridurre, il potere della magistratura.

3 – Quante sentenze emesse in questi anni sono state oggetto di un negoziato tra Pm e giudice? Che vuol dire negoziato? Che se un Pm ha un potere riconoscibile all’interno dell’Anm, o ha fatto parte del Csm e dunque, ragionevolmente, può avere ancora voce in capitolo sulle nomine e sulle carriere dei giudici, come si può pensare che il giudice sia imparziale e non condizionato nel momento in cui deve accettare o respingere una richiesta di quel Pm?

4 – Non è il caso, allora, di annullare tutte le sentenze che sono state emesse in condizioni simili a quelle descritte al punto 3, e di rifare tutti i processi? Di più: non vanno annullati tutti i procedimenti avviati da Pm “sospettabili” di eccesso di potere e tutte le decisioni prese dal Gip che possono avere subito l’influenza dei Pm?

5 – Si può riformare il Csm senza prima decretare la separazione delle carriere? Le intercettazioni dimostrano che attualmente l’articolo 111 della Costituzione, che prevede l’imparzialità e la terzietà del giudice (e quindi anche del Gip) cioè l’equidistanza nei confronti dell’accusa e della difesa, non è rispettato. Gip, giudici, Pm, Procuratori si frequentano, familiarizzano, vanno a cena, fanno “banda” (è una espressione che si trova in una delle intercettazioni) e dunque operano in una situazione di totale illegalità. Ed è una illegalità – realizzata in forma di sopraffazione – che lede drammaticamente i diritti degli imputati. Non è urgente separare le carriere e separare anche i luoghi fisici di lavoro, cioè le procure e i tribunali, e di conseguenza istituire due organi distinti di governo della magistratura? Come può essere terzo un giudice la cui carriera viene determinata da un organismo dove i Pm sono grande maggioranza (l’attuale Csm)?

6 – Il dottor Palamara, recentemente, in Tv – che ormai è uno dei luoghi privilegiati della giurisdizione – ha spiegato che le intercettazioni che lo riguardano sono “decontestualizzate”. E che questo produce pessime interpretazioni. Quindi non hanno valore. Ha ragione. Non è forse vero che sulla base di intercettazioni decontestualizzate sono state emesse tonnellate di sentenze di condanna? Spesso, addirittura, sulla base di intercettazioni non dirette, ma di persone non imputate che, chiacchierando, accusavano l’imputato? Se dobbiamo prendere sul serio le parole di Palamara – e penso che dobbiamo – non dovremmo anche annullare tutte le sentenze pronunciate sulla base esclusiva di intercettazioni?

7 – Se il magistrato – come dice la Costituzione – deve essere sottoposto solo alla legge, l’Anm non è una associazione illegale? Il magistrato, se non è un eroe isolato – ce ne sono, ma non sono la maggioranza – è sicuramente condizionato dall’Anm, che del resto rivendica il suo ruolo e la sua egemonia. E in particolare è condizionato dalla corrente alla quale si è iscritto. Questo è contro la legge. La Anm non è, nelle condizioni attuali, un’associazione sovversiva, che intralcia la democrazia e lo stato di diritto?

8 – Un membro del Csm, e precisamente il togato Nino Di Matteo, ha accusato il ministro della Giustizia di avere preso decisioni politiche e amministrative subendo il ricatto della mafia. Questo, evidentemente, è un reato. La Procura di Roma ha avviato una indagine sul ministro accusato di concorso con la mafia? Oppure contro Di Matteo sospettabile di calunnia? O, ancora, contro lo stesso Di Matteo che per due anni, avendo la notizia del reato del ministro Bonafede, l’ha nascosta?

9 – L’associazione magistrati, attraverso il proprio giornale (Il Fatto Quotidiano) ha avanzato la sua proposta di riforma del Csm: l’idea – in presenza delle prove di una degenerazione della componente togata del Csm – è quella di aumentare questa presenza, eliminando la piccola componente democratica (quella scelta dal Parlamento e quindi dai cittadini). Si può immaginare questa richiesta come una vera e propria proposta, ufficiale, di stabilire il potere assoluto della magistratura (soprattutto della magistratura deviata) e di trasformare lo Stato di diritto in Stato dei Pm?

Luca Palamara intercettato con Klaus Davi, insulti a Massimo Giletti: "Ormai è inguardabile". Libero Quotidiano il 10 giugno 2020. Nelle intercettazioni di Luca Palamara, spunta anche Massimo Giletti. Indirettamente, citato dal pm mentre parla con Klaus Davi, il massmediologo che proprio con Giletti lavorava, prima di abbandonare la trasmissione per passare a Mediaset in veste di opinionista a tutto campo. E così, a novembre del 2018, Palamara scrive a Klaus Davi: "Da quando manchi tu da Massimo non è più la stessa cosa". "In che senso?", rispondeva Davi. E ancora: "Nel senso che Tu davi un tocco in più all’Arena”, ribatteva Palamara". Ma non è tutto. A marzo del 2019 Palamara parla ancora di Giletti, e spara: "Ma Massimo parla sempre degli stessi argomenti. Cosi è diventato impossibile da seguire". Già, Giletti e le sue inchieste sulla magistratura, la sua attenzione a temi "sovranisti" non piacevano più a Palamara. Il quale si sentiva in diritto di "cancellarlo", di bollarlo come "inguardabile". Klaus Davi, da par suo, non risparmiava critiche a Palamara. Agli atti dell'inchiesta di Perugia spuntano anche le prese di posizione del massmediologo, che attaccava Csm, Anm e prefettura per l'organizzazione di San Luca, iniziative di Palamara, definite "una vetrina per promuovere Maria Elena Boschi". Davi era consigliere comunale di San Luca e puntava il dito contro "provincialismo e rozzezza" con cui era stata organizzata la Partita del Cuore. "Farete  la fine di Minniti e della Boschi odiati dalla gente. Te lo dico in tutta serenità come neo eletto consigliere comunale di San Luca. Vi presenterete con il solito codazzo di auto blu, il territorio da questo vergognoso teatro non ricaverà nulla", chiosava tranchant Klaus Davi.

Massimo Giletti contro Fabio Fazio: "Io faccio inchieste, lui intrattenimento". E sui politici in tv: "Quelli di sinistra fanno scelte diverse". Libero Quotidiano l'11 giugno 2020. Come sempre Massimo Giletti non fa sconti e non fa eccezione in un'intervista al Corriere della Sera, in cui il conduttore di Non è l'Arena su La7 fa un bilancio della stagione: "Sono già proiettato al futuro, sono sempre alla ricerca del domani e godo poco il presente, però è stata un'annata straordinaria, abbiamo chiuso con una media del 7% di share", ricorda. Dunque si parla degli scandali legati alla magistratura sollevati in trasmissione, e afferma: "La storia di Alfonso Bonafede conferma che la verità è un'utopia, soprattutto quando tocca il potere dei palazzi". Interessante la risposta di Giletti quando gli chiedono se non ha invitato troppe volte a Non è l'arena Matteo Salvini e Giorgia Meloni: "Farne una questione numerica è riduttivo: i politici di sinistra fanno scelte diverse da quelli di destra, che tendono ad andare più spesso in televisione. Nicola Zingaretti, per dire, è più cauto, anche se da me è venuto due volte. La vera cosa importante è una: le domande che si fanno". Quindi, sulle voci secondo cui la Lega vorrebbe candidarlo a Torino, taglia cortissimo: "Mio fratello ebbe un voto nullo quando ci fu l'elezione di Sergio Mattarella: in famiglia abbiamo già dato". Infine, nel mirino, ci finisce ancora una volta Fabio Fazio, il conduttore di Che tempo che fa. Si parla della tostissima sfida della domenica televisiva, e Giletti spiega: "Con il calcio è acnora più complesso, ma mi sono sempre piaciute le sfide difficili, anche Cairo disse che era una follia, ma io scelsi la domenica per misurarmi con Fazio". Perché? "Misurarsi con i numeri è sempre molto più interessante e stimolante. Quando portai La7 al 13% e battemmo Rai 1 fu una soddisfazione enorme". Poi la domanda: "Le piace Fazio?". La risposta è una cannonata, servita con classe: "Ha tantissimi meriti e un modo di fare tv diverso dal mio: io faccio inchieste, lui fa intrattenimento", spara ad alzo zero.

Nino Luca per corriere.it il 10 agosto 2020. Massimo Giletti vive sotto scorta dei carabinieri da un paio di settimane. Il provvedimento della ministra dell’Interno Lamorgese è arrivato dopo che il giornalista era stato minacciato dal boss mafioso Filippo Graviano. Condannato per le stragi del ‘92 e del ‘93, intercettato l’11 maggio scorso in un carcere di massima sicurezza, Graviano di Giletti e del magistrato Nino Di Matteo diceva: «Il ministro fa il lavoro suo e loro rompono il cazzo». Questa intercettazione ambientale degli uomini del Gruppo Operativo Mobile della polizia penitenziaria era stata rivelata su Repubblica da Lirio Abate, vicedirettore dell’Espresso, nel libro «U siccu - Matteo Messina Denaro: l’ultimo dei capi». Ma perché Graviano ce l’aveva così tanto con Giletti? «La sera del 10 maggio quasi tutti i detenuti al 41 bis erano davanti al televisore», scrive il Gom. Il conduttore su La7 aveva dedicato numerose puntate al provvedimento che aveva rimandato a casa oltre 300 boss mafiosi a causa dell’emergenza coronavirus. E proprio il 10 maggio scorso Giletti aveva fatto la lista dei nomi dei boss che stavano per essere scarcerati. Poi, nel corso di quelle puntate scoppiò anche la polemica sul mancato incarico proprio a Di Matteo alla direzione delle carceri da parte del ministro della giustizia, Alfonso Bonafede. Fu proprio Di Matteo a svelare, nel corso di una telefonata in trasmissione, la sua mancata nomina. «Sono molto dispiaciuto e non posso dire molto. È obbligatorio, non posso sottrarmi», ha detto Giletti raggiunto al telefono. «Solo noto che questo provvedimento della scorta arriva dopo che un quotidiano nazionale ha riportato le parole del libro di Lirio Abate. Perché hanno preso questo provvedimento solo dopo che la notizia è stata pubblicata da un giornale?».

Da "blitzquotidiano.it" il 15 settembre 2020. In giro per le strade di Roma con giubbotto antiproiettile e scorta: così è costretto ad uscire di casa Massimo Giletti, dopo le minacce da parte del boss Filippo Graviano per aver parlato in tv, al suo programma L’Arena, dei detenuti per mafia scarcerati per l’emergenza coronavirus. Il settimanale Diva e Donna ha fotografato il giornalista con la scorta e il giubbotto antiproiettile per le vie di Roma.  Il provvedimento della ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, si era reso necessario in seguito ad una intercettazione di Graviano dell’11 maggio scorso. Nel carcere di massima sicurezza il boss parlava di Giletti e del magistrato Nino Di Matteo: “Il ministro fa il suo lavoro e loro rompono il cazzo”, diceva, riferendosi al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Parole pubblicate dal vice direttore dell’Espresso Lirio Abate, nel libro “U siccu – Matteo Messina Denaro: l’ultimo dei capi” e in seguito riportate da Repubblica. Secondo il Gom, il gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria, “la sera del 10 maggio quasi tutti i detenuti al 41 bis erano davanti al televisore”. Giletti aveva dedicato già alcune puntate al provvedimento del ministro Bonafede che aveva rimandato a casa oltre 300 boss mafiosi per l’emergenza coronavirus. Il 10 maggio Giletti aveva dato una lista di quelli che stavano per essere scarcerati. Nel corso delle puntate era scoppiata anche la polemica sul mancato incarico al pm Di Matteo alla direzione del Dap.

“Che tristezza la parata di Giletti col giubbotto antiproiettile”. Parola di Claudio Fava. Il Dubbio il 19 settembre 2020. Il figlio di Pippo Fava, il giornalista ucciso da Cosa nostra con 5 proiettili alla nuca, commenta la sfilata di Giletti col giubbotto antiproiettile. “Penso alla tristezza infinita di queste foto. Penso ai cento che sono caduti in questi anni senza aver mai (mai!) nemmeno immaginato di indossare un giubbotto antiproiettile per il senso di sobrietà che animava ogni loro gesto, pur sapendo che la loro morte era appesa a un capriccio di cosa nostra. Penso alla miseria di un paese in cui l’esibizione della vita ha preso il posto della vita reale. Da oggi all’antimafia da talk show e fanfare dobbiamo aggiungere quella da giubbotto antiproiettile”. La firma del post è di Claudio Fava e il mittente è Massimo Giletti, il presentatore tv che nei giorni scorsi è stato protagonista di un lungo servizio fotografico sul settimanale scandalistico “Diva”, circondato da quelli che appaiono come poliziotti in borghese e indossando un vistoso giubbotto antiproiettile. Claudio Fava non parla solo da consigliere siciliano, ma da figlio di Pippo Fava, il giornalista e scrittore trucidato dalla Cosa nostra con cinque proiettili calibro 7,65 alla nuca per ordine del boss Nitto Santapaola. Insomma, Fava è uno che la mafia, quella vera, la conosce fin troppo bene. Penso alla tristezza infinita di queste foto. Penso ai cento che sono caduti in questi anni senza aver mai (mai!)…

Massimo Giletti e le puntate sui boss: «Io, la solitudine e la scorta. Abbiamo colpito nel segno». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 10 agosto 2020. Dopo le inchieste sulle scarcerazioni e la rivolta nelle carceri. «Abbiamo toccato qualcosa di molto pericoloso. Ma essere un unicum ti espone, sei un obiettivo. È quello che faccio più fatica ad accettare». A fine maggio il boss Filippo Graviano in carcere si lamenta di quel giornalista che gli sta «rompendo la m...». Ieri la notizia: da due settimane il conduttore di Non è l’Arena è sotto scorta.

Massimo Giletti come ha accolto la decisione?

«Profonda tristezza. Senso di solitudine. Se il Viminale mi assegna la scorta vuol dire che nel mio programma abbiamo toccato qualcosa di grave e molto pericoloso. Ma essere un unicum ti espone. Diventi obiettivo. È quello che faccio più fatica ad accettare».

A quali argomenti pericolosi si riferisce?

«Alle puntate che abbiamo dedicato alle scarcerazioni dei boss mafiosi dopo la rivolta nelle carceri».

È ancora convinto che le due cose siano legate?

«Erano anni che non c’erano rivolte nei padiglioni bassi. Stranamente dopo essere costate diverse vite e oltre 30 milioni di euro di danni, all’improvviso si sono fermate. Non vorrei che nel Paese delle trattative ci sia stato un accordo».

I provvedimenti successivi?

«Non hanno risolto la situazione. Malgrado le nuove norme molti detenuti pericolosi non sono affatto tornati in carcere. E in ogni caso aver lasciato criminali come quelli sul territorio è stato un danno irreparabile. E il fatto che ora io sia un obiettivo significa che le nostre inchieste hanno colpito nel segno. Nonostante qualcuno abbia sostenuto il contrario».

C’è chi ha scritto che era diventato salviniano. È così?

«Ho fatto sempre la mia strada. Non ho mai pensato di dover piacere per forza a chi appartiene ai salotti bene di Roma e ti guarda un po’ con la puzza sotto il naso perché non fai parte degli intellettuali di sinistra. Ma mi è sembrato un alibi banale per non occuparsi dei temi che avevamo sollevato. Se tutti se ne fossero occupati forse ora non avrei bisogno della scorta».

Parla di colleghi o di responsabili istituzionali?

«Dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ancora mi aspetto una presa di distanze da quelle parole di Filippo Graviano, intercettate dal Gom. Mentre a me e al magistrato Nino Di Matteo dava dei rompiscatole, lo lodava dicendo: “Fa il suo lavoro”. E siccome non parliamo di un criminale qualsiasi ma dello stratega politico della mafia le sue parole hanno un peso ben preciso. Quindi non basta fare telefonate private di circostanza. Bisogna prendere una posizione pubblica. Ancora la aspetto. E però...».

E però?

«E però quando un criminale di spessore come Benedetto Capizzi si rammarica che se non ci fossimo stati noi sarebbe tornato a casa, ti fa male pensare che altri colleghi non hanno ripreso le nostre inchieste su quello che è successo davvero, il ruolo dell’ex capo del Dap, Francesco Basentini, il retroscena da noi svelato sulla sua nomina dopo la proposta fatta a Di Matteo».

Deluso da qualcuno?

«Marco Travaglio, giornalista che ho sempre stimato e difeso, ha definito il mio programma un covo di mitomani e siccome ho avuto ospiti come Catello Maresca, Di Matteo, Sebastiano Ardita, Luigi de Magistris, Antonio Ingroia e Sandra Amurri, mi sconforta. Proprio perche Il Fatto Quotidiano è il giornale simbolo dell’Antimafia».

Ci sarà stato anche qualcuno che le è stato di conforto. Chi?

«Mi ha fatto piacere ricevere la telefonata del mio vecchio maestro, Giovanni Minoli».

Anche il presidente della Federazione nazionale della Stampa, Beppe Giulietti, le ha offerto solidarietà a dispetto di chi gli chiedeva di tacere.

«Mi fa piacere la solidarietà. Ringrazio. Ma gli chiederei la gentilezza e il coraggio, visto il ruolo che ha, di dire chi lo ha chiesto. Sarebbe opportuno tirar via i sepolcri imbiancati».

La scorta non è arrivata dopo le parole del boss, ma dopo la loro pubblicazione. Cosa ne pensa?

«È un altro tassello misterioso. Non posso pensare che le istituzioni non sappiano quello che avviene se non lo leggono su un libro o su un giornale. C’è qualcuno che ha tenuto tutto nel cassetto. Se avrà voglia, un giorno me lo spiegherà».

A fine settembre riparte il suo programma su «La7», tornerà su quei temi?

«Molta gente semplice mi dice “vai avanti”. Una nonnetta, giorni fa, in un paesino vicino a Marsala, mi ha chiamato, ha tirato fuori un barattolo di melanzane sott’olio e offrendomelo ha detto a suo nipote: “Questo è un uomo vero”. Credo sia un dovere fare luce su verità in ombra. Mi costerà. Ma non posso tirarmi indietro».

Michela Tamburrino per “la Stampa” il 15 luglio 2020. Non è tanto la minaccia che gli ha lanciato contro un boss mafioso a rattristare Massimo Giletti perché, come ripete oramai a mò di mantra, «chi fa il mio mestiere e lo fa in un certo modo, non può cadere dalle nuvole quando scopre di dare fastidio a chi attacca». Quello che invece non va proprio giù a Massimo Giletti, giornalista e conduttore di Non è l'Arena su La7, dove se la prende con i corrotti e i malavitosi ma anche contro i furbetti del cartellino o chi non rinuncia a prebende, è invece il fragoroso silenzio delle istituzioni su un fatto tanto grave. Giletti riassumiamo l'accaduto. Il boss mafioso Filippo Graviano (lo stesso delle stragi del '92-'93), sapendosi intercettato, ha detto rivolto al boss della 'ndrangheta Maurizio Barillari: «Quell'uomo... di Giletti e quel... di Di Matteo stanno scassando la minchia...il ministro Bonafede, invece, fa il suo lavoro». E questo perché, nel suo caso, lei si era occupato in trasmissione della scarcerazione di 300 boss mafiosi suscitando un giusto putiferio.

Minaccia bella e buona. Paura?

«Sono abituato alle minacce, faccio inchieste giornalistiche su temi delicati, sarebbe sciocco non metterle in conto. Certo, ora è più faticoso».

Dunque?

«Si va avanti. Posso dire che mi ha chiamato il ministro Bonafede. Ne prendo atto e ringrazio. Ma la mia riflessione non cambia».

Parla dell'assenza di comunicazione immediata all'indomani dell'intercettazione?

«Che io debba scoprire di essere minacciato leggendo Repubblica a metà luglio mi sembra un fatto grave. Le autorità competenti avevano sulla scrivania tutti gli elementi utili da fine maggio. Non mi sembra si siano comportati in modo serio».

Il ministro nella sua telefonata le ha parlato dell'ipotesi scorta?

«Le minacce sono pesanti ma su questi aspetti logistici non entro e comunque non se ne è parlato. Sinceramente avrei voluto rivolgergli altre domande. Del resto se ti immergi in certe dinamiche e alzi l'asticella, ti deve anche aspettare che i rischi siano commisurati».

Dalle istituzioni però avrebbe voluto qualcosa di diverso.

«Mi aspettavo che quella parte dello Stato in cui credo si sarebbe comportata in modo diverso. Tutto qui».

Lei era in vacanza?

«Ero fuori ma sono tornato a casa».

Proseguirà nel suo lavoro come prima o apporterà dei cambiamenti?

«Io non sono mai stato abituato a restarmene in mezzo al guado, ho sempre preso una posizione precisa e mai la più comoda. Leggendo quella frase lanciata contro di me dal boss mafioso ho capito parecchie cose, anche il valore che bisogna dare alle cose, al fatto di non tentennare mai. Ma nulla cambierà».

Perciò si va avanti...

«La strada è sempre piena di buche e di asticelle. Bisogna cercare di non cadere nelle buche e di saltare le asticelle. E combattere sempre, l'unica risposta possibile».

Antonio Amorosi per affaritaliani.it il 12 agosto 2020. Il conduttore di “Non è l’Arena” su La7 Massimo Giletti è finito sotto scorta dopo le minacce del boss Filippo Graviano, condannato per le stragi del ’92 e del ’93, e che intercettato in un carcere di massima sicurezza, dopo l'uscita di centinaia di detenuti per l'emergenza Coronavirus, criticava duramente il conduttore per l'attenzione dedicata alla vicenda. Graviano era stato intercettato dopo la puntata della trasmissione nella quale il giornalista aveva letto l’elenco con i nomi dei boss scarcerati per la pandemia, tra cui alcuni al 41 bis. Al tema il conduttore ha dedicato diverse puntate. Al centro le decisioni della Giustizia, del ministero e del ministro Bonafede. Graviano parlava così di Giletti e del magistrato Nino Di Matteo, intervenuto in trasmissione: “Il ministro fa il lavoro suo e loro rompono la mi….a”.

Come stai intanto, anche emotivamente?

“C’è il rammarico che purtroppo quando ci si occupa di inchieste sulla mafia alla fine chi lo fa in modo forte finisce sotto scorta. Le persone che gestiscono il Paese dovrebbero chiedersi come mai accada. E’ normale una cosa del genere? Questa è la domanda che dovrebbero porsi davvero e che va al di là delle emozioni personali che uno può vivere”.

L’ultimo personaggio che ha avuto un grande risalto pubblico per aver ricevuto la scorta è stato Roberto Saviano che di primo acchito disse che non era pienamente consapevole di quello che aveva fatto e che vista la quotidianità che era costretto a vivere forse non lo avrebbe rifatto. Tu rifaresti tutto?

“Eh... non so quando lui ha detto questa cosa. Ho incontrato Saviano, ho visto come si muove, la vita che vive, so che è faticoso. Potrò darti una risposta a questa domanda fra un po' di tempo”.

Hai il merito di aver riproposto alla massa in tv un tema dirimente e forte come la mafia, tu che eri accusato di affrontare questioni troppo leggere e di spettacolo, e la reazione anche di molti colleghi non è stata di riconoscertelo, ma il contrario. Dietro secondo te ci sono anche interessi o solo la cattiva abitudine tutta italiana di sparare su chi ha successo e riesce a diffondere una visione che va oltre quella dei salottini radical chic di sinistra a cui facevi riferimento in un’altra intervista?

“Proprio stanotte ho fatto una riflessione. Mi sono ricordato di quando fui costretto, e risottolineo costretto, a lasciare la Rai, perché ero diventato evidentemente troppo scomodo. Mi è rimasta nella mente una dichiarazione che fece l’allora capo delle Procura di Caltanissetta il dottor Lari che disse che ero stato troppo scomodo perché parlavo di mafia a 4 milioni di spettatori su Rai 1 e che evidentemente pagavo per questo. Quella dichiarazione del procuratore mi lascio così… Mi sono sempre occupato di tematiche di questo tipo, anche quando ero in Rai. Poi dovendo fare 5 ore alterno anche altre situazioni. Qui o si sta da una parte o si sta dall’altra. Questo doppiopesismo di molti giornalisti mi ricorda la questione del periodo Brigate Rosse. Qui ci sono i soliti dubbi. Ma o sostieni una persona o non la sostieni”.

Sappiamo da decenni che la mafia vuole essere invisibile per fare affari. Mi sembra che con queste inchieste sui mafiosi che escono dalle carceri ti sei ritrovato in mezzo a un racconto in cui si mostra che il dietro le quinte di come lavora lo Stato è diverso da quello che si vede. Non è forse questo il problema di quelle inchieste?

“Questo è il punto. Noi abbiamo scoperchiato il cosiddetto vaso di Pandora, cioè abbiamo dimostrato che quello che ci hanno tentato di raccontare non era vero. Che dietro alla rivolta nelle carceri, molto violente, c’erano strategie ben precise che secondo me sono culminata in un accordo sotterraneo… di fare uscire un po' di gente. Accordo tra virgolette ovviamente che però ancora allo stato attuale mantiene fuori ancora molti di questi. Non sono rientrati tutti”.

La trattativa non è mai finita. In pochi hanno subodorato in quello che è accaduto nelle carceri la possibilità che la trattativa tra Stato e mafie se c’è mai stata stia continuando. Tu che ne pensi?

“La parola trattativa in questo Paese non è la prima volta che si usa, quindi se uno ci riflette non si può escludere nulla. Io peraltro dal ministro Bonafede aspetto ancora una presa di distanza dalle parole pesanti di Graviano, io ancora oggi non ho visto una presa di distanza pubblica del ministro dello Stato, quando Graviano disse ‘Giletti e Di Matteo rompono la mi....a e il ministro fa il suo lavoro’. Io sto aspettando e ho chiesto una presa di posizione pubblica in nostra difesa... e sto ancora aspettando e mi stupisce che non sia stata fatta ancora, alla luce di tutto quello che sta succedendo”.

Usiamo una metafora: vediamo la mafia italiana come un’immensa centrale nucleare nel Paese. A combattere e gestire la partita con questa “centrale nucleare” esplosiva, tu come stai vedendo un ministro senza esperienza, ed è sotto gli occhi di tutti, ma votato almeno a parole dalle buone intenzioni?

“Io sono molto deluso. Io non ho visto, se non Virginia Raggi e Barbara Lezzi, prendere una posizione di solidarietà nei miei confronti. I vertici del Movimento 5 Stelle, totalmente, non hanno preso posizione e siccome il M5S ha fatto una campagna in Sicilia contro la mafia questo mi stupisce e mi amareggia. E qualcuno ci dovrà dire perché”.

E su Bonafede?

“Su Bonafede quello che dovevo dire l’ho già detto pubblicamente. Io spero che Bonafede accetti un confronto con me, alla ripresa del programma a settembre. Io confido in un confronto sincero e aperto il 27 (settembre, ndr). Lo invito fin da oggi. I confronti si fanno pubblicamente, non con telefonate private che peraltro il ministro mi ha fatto. Io prendo atto della telefonata privata ma qui la lotta si fa in modo pubblico, senza paura”.

Con tutto quello che è stato reso pubblico per la vicenda dei boss che escono dalle carceri, a quasi 30 anni dalla morte di Falcone e Borsellino, lo Stato sembra ancora non in grado, non dico di distruggere e contrastare ma neanche di gestire la normalità della presenza delle mafie. Chi lo fa vedere diventa lui il problema e viene isolato. Sei stato brutalmente attaccato anche da colleghi giornalisti. Ti è stato dato del propalatore di merda, ripetutamente. Ma non ti sembra che questo sia il sentore di un male profondo da cui proprio non si riesce ad uscire? Siamo ancora lì…“Ognuno risponde alla propria coscienza. Il fatto che sia sotto scorta vuol dire che non propalavo merda e il nostro programma non era un covo di millantatori”.

Ridotto il nostro sistema industriale, il grande bottino italiano è rimasto quello pubblico, che muove la politica. Tutto si gioca sui voti e su come si sposta il consenso. Ora il racconto che tu hai fatto, di quella realtà dietro le quinte, inevitabilmente va a ledere proprio quei salotti che stanno con le mani su quel bottino. Ma non è che non ti si perdona la messa in discussione della loro visione della realtà? E che così facendo i voti poi vadano altrove?

“Io ho sempre pensato di lavorare per fare un prodotto televisivo il più lontano da logiche politiche. Per me quello che conta è fare un buon prodotto televisivo. Che 4 milioni di teste ti guadassero quello era un grosso problema per la politica. E’ la politica che decise di farmi andare fuori dalla Rai. Quindi è possibile tutto. Anche oggi quando noi facciamo 2 milioni di spettatori creiamo pressione con l’effetto strascico degli altri che ne parlano. A me nella vita appartiene solo l’idea di fare un buon prodotto televisivo”.

A sinistra in Liguria sono disperati e stanno candidando a governatore Ferruccio Sansa, un giornalista de Il Fatto quotidiano ma soprattutto una persona per bene. Il problema che si sta presentando è il solito, la presenza nelle liste elettorali di personaggi che fanno da quinta colonna alle mafie. Addirittura alle passate elezioni uno della famiglia Mafodda fece da appoggio a un candidato grillino. Sansa avrebbe posto il problema di un suo controllo ferreo delle liste ma poi non se ne è saputo più niente. Tu cosa gli consiglieresti di fare?

“Io reputo Sansa una persona per bene, un ottimo giornalista, temo però che poi i giornalisti che si sono candidati se ne siano andati dalla politica con grande amarezza e temo che poi la realtà con cui ti confronti e scontri è sempre quella dei voti. E per portare voti in Italia si fanno dei compromessi spesso pericolosi.”

Luca Palamara, l'ex membro del Csm: "Tutti i nomi del suo cerchio magico". Libero Quotidiano il 10 giugno 2020. Su Luca Palamara, l'ex componente del Consiglio superiore della magistratura accusato di corruzione dalla Procura di Perugia, c'è anche qualche verbale d'interrogatorio che aiuta a comprendere alcuni meccanismi nel funzionamento dell'organo di autogoverno dei giudici nella scorsa consiliatura. Lo rivela il Corriere della Sera che cita il caso di un altro ex consigliere, Massimo Forciniti, 53 anni. Forciniti appartiene alla stessa corrente - Unità per la costituzione - di Palamara: "Avevo l'impressione che Palamara, assieme al vicepresidente e altri consiglieri, laici e togati, cercassero di orientare l'attività del Csm. Ritenevo, in sostanza, che tali componenti avessero un canale privilegiato nei loro rapporti, anticipando il loro orientamento su varie pratiche da approvare in Consiglio", rivela nell'interrogatorio con i magistrati di Perugia che indagano. Una sorta di cerchio magico, viene definito dallo stesso Forciniti. "In questo gruppo di persone io consideravo, oltre a Palamara e Giovanni Legnini (il vicepresidente, già deputato pd e sottosegretario del governo Renzi, ndr ), i consiglieri Valerio Fracassi, Paola Balducci e Giuseppe Fanfani (il primo della corrente di sinistra Area, gli altri due laici indicati dal centrosinistra, ndr )". Forciniti ricorda poi ai pm di Perugia che quando stava al Consiglio Palamara aveva buoni rapporti con l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ("L'ho visto in molte circostanze nella sua stanza al Csm"), ma dopo il rientro in Procura non più: "Mi riferì che Pignatone manifestava un atteggiamento di freddezza nei suoi confronti".

Giacomo Amadori e Giuseppe China per ''la Verità'' il 10 giugno 2020. Era un predestinato, un figlio d'arte. Le donne con la toga impazzivano al suo cospetto. Al punto da condividere con lui sogni per cui servirebbe un'analista: «Tu mi abbracciavi, ma poi scappavi via» ha digitato, per esempio, una nota pm antimafia. [] Ma nelle chat di Luca Palamara, oggi scansato da quasi tutti i colleghi, viene fuori ciò che questo magistrato è stato per Roma. Frequentava politici di primo piano come Nicola Zingaretti, Marco Minniti e Luca Lotti (sembrerebbe anche Matteo Renzi, detto M. nelle chat), cantanti, attori (da Antonello Venditti a Raoul Bova), allenatori di calcio (Luciano Spalletti e Claudio Ranieri). Lo zenit di questo re Sole della magistratura si raggiunse il 13 febbraio 2018 quando al Viminale si riunì il gotha delle istituzioni per commemorare suo padre Rocco, morto prematuramente nel 1988, alla vigilia di un bilaterale con gli Stati Uniti. Palamara senior è stato infatti l'uomo che ha gettato le basi per la cooperazione penale e fu il principale consigliere di Bettino Craxi durante la crisi di Sigonella con il governo americano. []Al trentennale della scomparsa intervennero le principali toghe italiane, a partire da Giuseppe Pignatone, diversi componenti del Csm e, a fianco di Palamara, gli allora ministri Marco Minniti e il Guardasigilli Andrea Orlando. [] Ma Palamara non è solo politica. È molto di più. Come rivelano queste storie ancora inedite. [] Noi ci limiteremo a un mero elenco di magistrati (ma a fare la fila non c'erano solo loro): l'avvocato generale in Cassazione Francesco Salzano, i procuratori di Bologna e Tivoli Giuseppe Amato e Francesco Menditto, il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli (in quota Area, il cartello delle toghe progressiste), il capo della Direzione nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, la sua vice Maria Vittoria De Simone, l'ex ministro del governo Monti Filippo Patroni Griffi, i procuratori generali di Ancona e Caltanissetta Sergio Sottani e Lia Sava, l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Francesco Minisci, i presidenti dei tribunali di Perugia, Palermo e Castrovillari Mariella Roberti, Salvatore Di Vitale e Natina Praticò (di Area), il magistrato distaccato al ministero degli Esteri Maria Teresa Covatta (ex moglie di Giuseppe Cascini), il gip dell'inchiesta Consip Gaspare Sturzo, i pm Stefano Pizza, Sergio Colaiocco, Francesco Soviero, Stefano Dambruoso, già parlamentare di Scelta civica, Alessia Sinatra e Antonio Saraco (ex componente della giunta dell'Anm). Altri incontri erano organizzati, come si evince sempre dalle chat, dal giudice napoletano Francesco Cananzi, attuale segretario di Unicost, che fungeva da mediatore, portando i visitatori nella stanza di Palamara. Tra questi c'erano anche Soviero, Catello Maresca e l'attuale presidente del tribunale di Tempio Pausania Giuseppe Magliulo. Uno dei più assidui tampinatori dell'ex consigliere era l'attuale presidente di Unicost Mariano Sciacca, tanto che i Palamara boys immaginarono scherzosamente di mettere «una tassa di stazionamento» nei corridoi del Csm. Palamara tra il 2014 e il 2018 si è comportato come un guardaspalle giudiziario del governo Renzi e del Giglio magico. [] Aveva messo nel mirino il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, colpevole di aver fatto arrestare i genitori dell'ex premier e di volersi trasferire a Roma, dove era indagato l'ex braccio destro di Renzi, Luca Lotti; provò a far da mediatore nei rapporti tra il Giglio magico e la procura capitolina durante l'inchiesta Consip e a difendere il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, titolare dell'inchiesta su Banca Etruria, e Pier Luigi Boschi, il padre della ex ministra Maria Elena. Ma a questo puzzle manca un tassello. Il 31 marzo 2016 Federica Guidi, allora ministro dello Sviluppo economico del governo Renzi, si dimette dopo la pubblicazione di alcune trascrizioni di conversazioni non penalmente rilevanti tra la donna e il suo compagno Gianluca Gemelli, interessato a un emendamento del governo. Il ministro non finisce sul registro degli indagati, ma la Procura di Potenza inizia a convocare i ministri renziani, tra cui la Boschi. Nel pool dei pm titolari dell'inchiesta c'è Laura Triassi che, qualche mese dopo, presenterà una domanda per la poltrona da procuratore capo lasciata libera da Luigi Gay, nel frattempo andato in pensione. Ma al Csm qualcuno deve non aver preso in considerazione qualche titolo della pm, che alla fine ha presentato un ricorso al Tar del Lazio. A marzo 2019, ben tre anni dopo, vince il ricorso. E i giudici amministrativi denunciano «omissioni che appaiono incomprensibili, per la rilevanza delle esperienze, e certamente integrano un importante difetto di istruttoria». Valerio Fracassi, ex capogruppo al Csm della corrente Area, il 6 marzo apprende la notizia e scrive a Palamara: «Annullamento a favore della Triassi! E sai cosa voglio dire. È necessario che Ermini (David, vicepresidente del Csm, ndr) parli con Mattarella (Sergio, il presidente della Repubblica, ndr)». Palamara risponde: «Cose da pazzi. Assolutamente sì». Per pensare di smuovere il presidente della Repubblica sulla nomina della Triassi doveva esserci qualcosa che i Palamara boys valutarono come molto preoccupante. []Palamara doveva essere visto come lo storico armatore Achille Lauro, utile anche per risolvere i problemi economici. Il 17 novembre 2017 il pm catanese Andrea Norzi gli scrive: «Caro Luca, io e mia moglie (Anna Trinchillo) dobbiamo avere la terza valutazione di professionalità dal Csm. Siamo stati nominati nel 2004 e l'hanno già avuta quasi tutti i colleghi del nostro concorso. Siccome è quella con l'aumento e siamo in grave difficoltà economica, potresti controllare e farmi sapere quando dovremmo avere la valutazione dal Csm? Grazie mille». Tre giorni dopo Palamara lo aggiorna: «Norzi: la commissione ha deliberato il positivo riconoscimento il 13 novembre 2017. Deve andare in plenum. Trinchillo pronta deve andare in commissione». Poi si riprende a parlare di calcetto e quando Palamara atterra a Catania, Norzi gli trova un «bravo portiere» e «un ottimo centrocampista». Ognuno fa i favori che può.

Giacomo Amadori per ''La Verità'' il 10 giugno 2020. Le intercettazioni del Csm, sia quelle captate dal trojan che quelle tradizionali, sono ritenute «sensibili» e saranno distrutte su ordine della Procura di Perugia. Quindi avvocati e indagati non potranno avere copia delle bobine, ma potranno solo riascoltarle in apposite stanze messe a disposizione nei Tribunali di Roma (per il trojan) e Perugia (intercettazioni tradizionali) in attesa dell'udienza stralcio in cui potranno chiedere copia delle conversazioni che riterranno indispensabili alla difesa e il termine ultimo in cui dovranno «avere concluso gli ascolti» è il 25 giugno. Ovviamente a queste condizioni difficilmente i consulenti di parte potranno realizzare relazioni tecniche puntuali. La formula con cui il tutto è annunciato è la seguente: «Questo ufficio intende avviare il subprocedimento» previsto dall'articolo 268 del codice di procedura penale «al fine di garantire la riservatezza delle persone sottoposte ad indagini e di altri interlocutori». L'udienza stralcio, una specie di filtro, è stata la controproposta dei pm di fronte alla richiesta degli avvocati difensori di avere tutte le intercettazioni in nome di una sentenza della Cassazione del 2017.I pm Gemma Miliani e Mario Formisano hanno giustificato la decisione di non dare agli indagati copia delle intercettazioni spiegando che «il pubblico ministero può promuovere l'udienza qualora ritenga che tra le conversazioni intercettate ve ne siano alcune rilevanti in termini di tutela di dati sensibili». A parte che una sentenza del 3 maggio del 2019 dice espressamente che «la prova è costituita dalla bobina o dalla cassetta», provare a tutelare adesso la privacy dei soggetti coinvolti è come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. Infatti i dati sensibili circolano da un anno sui giornali, in alcuni casi, prima che fossero nella disponibilità del Csm e delle difese, come dimostrato gli articoli del Corriere della Sera e della Repubblica dell'1 giugno 2019, in cui venivano anticipate notizie coperte da segreto. Inoltre, nel frattempo, sono state divulgate anche le conversazioni dei deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, nonostante l'articolo 68 della Costituzione garantisca l'«inviolabilità delle comunicazioni» dei parlamentari. Invece le loro chiacchiere sono state registrate, trascritte e finite sui media. Recentemente la Corte costituzionale ha deciso di non entrare nel merito di tale scelta dichiarando inammissibile la richiesta di distruzione delle bobine presentata da un singolo parlamentare, in questo caso Ferri. Adesso, però, a voler cancellare tutto sono gli stessi pm perugini. Che ai difensori hanno scritto: «La delicatezza delle conversazioni non Vi sfuggirà certamente». Gli inquirenti sembrano essersene accorti ora che la bontà delle trascrizioni inizia a essere messa in discussione sui giornali. Un anno fa le stesse sbobinature erano state strumentalizzate per distruggere una corrente della magistratura, ribaltare la maggioranza al Csm, favorire alcuni regolamenti di conti tra toghe, ma senza riuscire a inchiodare Palamara al reato per cui era partita l'inchiesta: la corruzione. Per questo il procedimento di Perugia si è trasformato in una vera Caporetto della giustizia. Al punto che, dopo la diffusione di migliaia di chat che raccontano che cosa siano davvero le correnti e come i magistrati facciano carriera, e la prova provata del fallimento del trojan, l'applicazione della cosiddetta legge Spazzacorrotti e l'utilizzo di certi strumenti d'indagine non potranno più essere gli stessi, a patto che l'avvocatura sappia unire le forze e cogliere l'occasione per reclamare un profondo rinnovamento del processo penale. Intanto indagati e legali, in attesa di tempi migliori, sono costretti, soprattutto in vista dei procedimenti disciplinari, a sobbarcarsi maratone di ascolto in scomode stanzette, con occhiuti rappresentanti della polizia giudiziaria appostati alle loro spalle per impedire registrazioni o estrapolazioni di file.Ma da dove nasce la preoccupazione che i protagonisti delle conversazioni possano fare copia degli audio che contengono le loro stesse parole come succede in buona parte dei processi? Ci viene il sospetto che il motivo sia piuttosto banale: in questa storia ci sono di mezzo dei magistrati e tutto il mondo potrebbe scoprire che il re è nudo, in questo caso il trojan usato nell'inchiesta di Perugia. Ovvero un banale programmino che trasforma un cellulare in un microfono che registra le voci di chi ha intorno, ma non, per esempio, quelle degli interlocutori nelle chiamate Whatsapp. A luglio la ditta che aveva in carico l'utilizzo della microspia ha dovuto inviare una relazione alla Procura umbra per giustificare le défaillance del mezzo. I tecnici hanno spiegato che i dialoghi vengono registrati dall'«agente spyware» a blocchi di 5 minuti (chunk) e che tra l'uno e l'altro ci sono 1 o 2 secondi di interruzione. In realtà le difese stanno verificando che gli stop sarebbero stati molto più lunghi e che per certe conversazioni quel buco nero poteva rappresentare un'eternità. Senza contare che a volte il trojan non risultava proprio attivo. Per esempio gli avvocati non hanno trovato le registrazioni del pomeriggio e della sera del 9 maggio, quando ci fu la cena a cui parteciparono l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, Palamara e il giudice Paola Roja con i rispettivi compagni. L'ultima conversazione registrata dal trojan in quella giornata è quella delle 15 e 54 in cui Palamara dice all'amica Adele Attisani che la sera sarebbe andato al ristorante con lo stesso Pignatone e con l'attuale procuratore di Roma Michele Prestipino (che però non partecipò all'evento). Durante la serata il pm sotto indagine si scostò per chiamare un'amica. Quella telefonata sarebbe finita nelle bobine, confermando che il cellulare era attivo e che Palamara lo aveva portato con sé. Peccato che il trojan non abbia registrato nulla.C'è poi il problema delle trascrizioni e della selezione delle intercettazioni. Ieri gli avvocati Roberto Rampioni, Mariano e Benedetto Buratti, i difensori di Palamara, hanno diffuso un comunicato per far sapere che Lotti non pronunciò mai l'ormai celebre frase «si vira su Viola» in occasione dell'incontro con gli allora consiglieri del Csm all'Hotel Champagne del 9 maggio del 2019. Insomma, non ci sarebbe mai stato l'ordine del parlamentare renziano di puntare su Marcello Viola come procuratore di Roma. Per i legali «la frase effettivamente pronunciata da Lotti dopo aver ascoltato il racconto degli altri presenti a quell'incontro sarebbe stata: "vedo... che si arriva a Viola"». Dunque ci troveremmo di fronte a una semplice constatazione. Eppure quella frase «fake» finì nei titoli di molti giornali, bruciando il candidato. All'interno delle informative si trovano altri incredibili errori, come le fantasiose trascrizioni in cui Pignatone diventa «carabinieroni», Perugia si tramuta in «Torino», «persona giusta» in «politico» e via dicendo. Strafalcioni finiti sui giornali e anche, in forma audio, sui siti. Forse per questo adesso i magistrati hanno deciso di non far più uscire i file dal tribunale.Infine secondo le difese negli atti giudiziari non sarebbe stata depositata una coppia di intercettazioni dell'8 maggio tra Palamara e Ferri in cui gli interlocutori prendevano appuntamento per l'incontro allo Champagne. Tali chiamate, se riportate, avrebbero reso irrealistica la versione che la registrazione della riunione con due politici presenti (Lotti e Ferri) sarebbe avvenuta in modo casuale. Mancherebbe anche la trascrizione dei conversari del 29 maggio tra Ferri, Palamara e Paola Balducci, ex parlamentare dei Verdi e consigliere del Csm in quota Nichi Vendola, con ottime frequentazioni tra le toghe progressiste. Nel menù della cena pure in questo caso ci sarebbero state le nomine.Se le bobine verranno distrutte, come richiesto dai pm, tutti i processi disciplinari si baseranno unicamente sulle trascrizioni imperfette e incomplete della guardia di finanza.

Giovanni Bianconi per il ''Corriere della Sera'' il 10 giugno 2020. Oltre a migliaia di intercettazioni e scambi di messaggi, agli atti dell'indagine su Luca Palamara, l'ex componente del Consiglio superiore della magistratura accusato di corruzione dalla Procura di Perugia, c'è qualche verbale d'interrogatorio che aiuta a comprendere alcuni meccanismi nel funzionamento dell'organo di autogoverno dei giudici nella scorsa consiliatura. Ad esempio quello di un altro ex consigliere, Massimo Forciniti, 53 anni, tornato a presiedere una sezione del Tribunale di Crotone dopo l'esperienza a Palazzo dei Marescialli. Nonostante appartenessero alla stessa corrente - Unità per la costituzione - non sempre andava d'accordo con Palamara: «Durante la consiliatura abbiamo avuto degli scontri; dopo, invece, il nostro rapporto è migliorato e lui si è avvicinato alle mie posizioni, sempre in riguardo a questioni di corrente e di organizzazione», ha detto ai pm umbri il 4 ottobre scorso. Durante l'interrogatorio gli inquirenti gli chiedono conto di un messaggio inviato a Palamara il 22 giugno 2018, quando il Csm di cui facevano parte entrambi stava per chiudere i battenti, estrapolato per l'occasione dagli investigatori della Finanza, nel quale Forciniti scriveva: «Grazie al tuo avallo, in questa consiliatura molte cose sono state decise da vicepresidente cerchio magico, non nelle sedi proprie». Che intendeva dire? Risposta: «Non ricordo la ragione contingente per cui scrissi tale messaggio. Posso dire che quando mi riferivo al "cerchio magico" intendevo dire che avevo l'impressione che Palamara, assieme al vicepresidente e altri consiglieri, laici e togati, cercassero di orientare l'attività del Csm. Ritenevo, in sostanza, che tali componenti avessero un canale privilegiato nei loro rapporti, anticipando il loro orientamento su varie pratiche da approvare in Consiglio». Ma chi faceva parte del «cerchio magico» evocato da Forciniti? «In questo gruppo di persone io consideravo, oltre a Palamara e Giovanni Legnini (il vicepresidente, già deputato pd e sottosegretario del governo Renzi, ndr ), i consiglieri Valerio Fracassi, Paola Balducci e Giuseppe Fanfani (il primo della corrente di sinistra Area, gli altri due laici indicati dal centrosinistra, ndr )». Nella chat del 22 giugno 2018, dopo il messaggio sul «cerchio magico» Palamara risponde a Forciniti che anche lui e Maria Elisabetta Alberti Casellati, altra componente del vecchio Csm, avevano ottenuto posizioni di rilievo: «Casellati presidente Senato, tu presidente terza e settima (commissione del Csm, ndr )», ma Forciniti replica piccato: «Nemmeno una presidenza nel quadriennio volevi farmi fare?». Ai pm di Perugia spiega che quando stava al Consiglio Palamara aveva buoni rapporti con l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone («L'ho visto in molte circostanze nella sua stanza al Csm»), dopo il rientro in Procura non più: «Mi riferì che Pignatone manifestava un atteggiamento di freddezza nei suoi confronti». Ma l'interesse degli inquirenti riguarda altre nomine del precedente Csm; in particolare quelle dei procuratori Carlo Capristo a Taranto (arrestato venti giorni fa dai magistrati di Potenza per induzione alla corruzione), Antonino Di Maio a Trani (indagato nella stessa inchiesta) e Pietro Argentino a Matera. Votati da un asse diverso dal «cerchio magico» indicato da Forciniti, che univa Unicost a Magistratura indipendente e ai laici di centrodestra. Di queste nomine i pm di Perugia hanno chiesto lumi anche all'ex vicepresidente Legnini. Che lo stesso 4 ottobre ha ricordato di aver contribuito a far perdere a Capristo la sfida per la Procura generale di Bari, vinta da Anna Maria Tosto «appoggiata da Area e da gran parte dei laici». Dopodiché, quando Capristo corse per Taranto, «la sua candidatura fu sostenuta anche da alcuni consiglieri che non lo avevano votato per la Procura generale... Ovviamente ci fu un impegno di Unicost (la sua corrente, ndr ) molto deciso». Tuttavia, spiega Legnini, «la nomina per cui vi fu un particolare impegno di Palamara fu per il posto di procuratore di Trani.  Palamara sostenne fortemente la nomina del dottor Di Maio, che era stato indicato in precedenza per altri uffici. Ricordo che mentre era in istruttoria la nomina della Procura di Chieti, la mia città, Palamara mi disse che voleva proporre il dottor Di Maio. Io, anche in questa circostanza, fui inflessibile nel senso che pretendevo che venisse nominata la persona più titolata». Poi Argentino fu mandato a Matera, e Legnini rammenta: «Io non ero favorevole, ma lui era fortemente appoggiato da Unicost, Mi, e i laici di centrodestra, lo stesso schieramento che aveva appoggiato il dottor Capristo. Io avevo espresso perplessità su tale nomina in ragione di una vicenda penale pregressa, benché definita a suo favore, i cui fatti si erano svolti proprio in Basilicata».  Di quella decisione si parla pure nell'indagine potentina che ha portato all'arresto di Capristo, amico del funzionario di polizia Filippo Paradiso (inquisito a Roma per traffico di influenze illecite e con buone entrature nel Csm di Palamara) il quale riferì a un altro magistrato pugliese: «È stata durissima ma ce l'abbiamo fatta a fare diventare Argentino procuratore di Matera». Prevalse con 11 voti (Unicost, Mi e i tre laici di centrodestra), e il giorno dopo Palamara scrisse a Forciniti: «Mi giungono notizie pessime di Argentino. Abbiamo sbagliato?». Risposta: «No... lascia stare... non è uno scienziato, ma un lavoratore... non amato dai politici...». «Mi dicono cose turche». «Lascia stare...».

Quel che resta della verità.  Felice Manti il 9 giugno 2020 su Il Giornale. Parafrasando Oscar Wilde, la verità non è una e non è semplice. Che cosa sta succedendo in Calabria? Tutto e niente, come al solito. Mentre la Regione Calabria è impegnata a cancellare i vitalizi vergogna da un giorno (tenendosi stretti quelli che costano 600mila euro al mese e che spesso finiscono a politici nei guai con la giustizia), gli strascichi del Palamaragate arrivano in riva allo Stretto e travolgono tutto. Proprio mentre la politica calabrese, di destra e di sinistra, viene bersagliata da scandali e inchieste. E la ‘ndrangheta, come dico spesso, se la ride. Facciamo un po’ di chiarezza. L’indagine sulla Avr, holding che si occupa della raccolta rifiuti a Reggio Calabria, investe in pieno i principali protagonisti della nuova sedicente Primavera reggina del sindaco Pd Giuseppe Falcomatà, il suo vice Armando Neri e il colonnello dem Antonio Castorina, ma anche il neo assessore regionale Domenica Catalfamo, scelta dalla presidente Jole Santelli. Il garantismo è d’obbligo, ma i dubbi sulla classe politica calabrese restano. Ma anche chi dovrebbe far chiarezza sui comportamenti dei politici, la magistratura, non sempre agisce in maniera specchiata e senza fini politici. Lo dice il centrodestra da anni, lo confermano i brogliacci e i messaggini captati con un Trojan nel cellulare dell’ex leader dell’Anm Luca Palamara (calabrese di Santa Cristina d’Aspromonte), perché non ci facciamo mancare mai niente. Palamara decideva a tavolino le sorti e le carriere dei pm? Possibile. Ma controproducente. Alla fine ha ragione (come fa spesso) Klaus Davi che così aprostrofava Palamara, reo agli occhi del massmediologo di voler strumentalizzare San Luca e la battaglia per la legalità che Davi sta portando avanti con coraggio: «Te lo dico in tutta serenità, come consigliere comunale neo eletto di San Luca – si legge nelle intercettazioni pubblicate dal Dispaccio – se farete il solito codazzo di auto blu e scorte sarà controproducente e il territorio non ne ricaverà nulla… Mentre voi fate la vostra passerella e le partitone muore la Calabria. Vi farete solo odiare come accaduto con Boschi (Maria Elena, nda) e Minniti (Marco, ndr)». È la vigilia della Partita del cuore del 2019, iniziativa che qualche anno prima ebbe il merito di consegnare a San Luca un meraviglioso campo da calcio. È lo stesso evento di cui ho parlato nell’intervista con Alberto Cisterna, giudice di Sorveglianza a Roma e conoscitore degli uffici giudiziari reggini, che ha frequentato quando era all’Antimafia, in cui Cisterna ha detto, senza peli sulla lingua, che l’invasione di campo della politica nella scelta dei pm antimafia è legittima, ma che alcune carriere sono state decise più dai boss che dai politici. E qui il pensiero va a quello che è successo all’ex sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Scopelliti. Perché se si scopre che i giudici che l’hanno condannato sono stati «aiutati» dai suoi principali nemici politici, come lo stesso Marco Minniti, il sospetto cancella l’idea di una sentenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Quando la politica entra dalla porta della magistratura, la verità esce dalla finestra. Cito le parole dell’ex Procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini: «In nessun luogo quanto in Calabria la verità ha vita breve: il fatto è avvenuto da cinque minuti e di già il suo nocciolo genuino è scomparso, camuffato, abbellito, sfigurato, oppresso, annientato dalla fantasia e dagli interessi; il pudore, la paura, la generosità, il malanimo, l’opportunismo e la carità: tutte le passioni, tanto le buone quanto le cattive, precipitano sul fatto e lo fanno a brani. E la verità scompare, mentre si imbavaglia chi abbia il coraggio di adempiere al dovere di dirla». E qui torna in mente il clima di veleni tra toghe che uccise il giudice Giovanni Falcone prima della bomba di Capaci.

Trojan abusivi, vanno usati solo contro la criminalità. Aldo Torchiaro de il Riformista il 5 Giugno 2020. L’Associazione Italia Decide nasce nel 2008 per iniziativa di Giuliano Amato e Luciano Violante, Pier Carlo Padoan e Anna Finocchiaro, Alessandro Campi e Vincenzo Cerulli Irelli, Paolo De Ioanna, Giulio Tremonti, Gianni Letta. L’Associazione – che promuove anche la Scuola per le Politiche pubbliche – opera come collegamento tra le istituzioni, la politica, le amministrazioni, le imprese e il mondo scientifico e culturale, «proponendo analisi – si legge nel loro statuto – per la soluzione dei problemi di fondo del nostro Paese, per guardare al futuro attraverso strategie di medio-lungo periodo».  Tra questi problemi spiccano le difficoltà del sistema decisionale e la esigenza di rafforzare la cooperazione tra pubblico e privato a sostegno di uno sviluppo sostenibile. Presieduta da Alessandro Palanza, ex vice segretario generale della Camera, annovera nel Comitato scientifico nomi di grande peso. Tra questi, quello dell’avvocato Fabio Pinelli. «Va riformato l’abuso d’ufficio, limitando il perimetro e salvaguardando il decisore pubblico se vogliamo che la P.A. torni libera di procedere speditamente nei suoi atti di indirizzo amministrativo», dichiara l’avvocato Pinelli al Riformista. E vogliamo impegnare la politica in un processo propositivo di riforme essenziali per una civiltà giuridica degna di questo nome. Qualche esempio? Lavorare sulla reputazione, perché oggi la compromissione reputazionale è un danno irreparabile e non ancora doverosamente sanzionato dalla legislazione. E scongiurare la barbarie dei dispositivi captativi, i trojan, che devono valere solo ed esclusivamente per le persone che sono oggetto delle indagini. Non si possono utilizzare le intercettazioni nei confronti di persone terze, neppure iscritte nel registro degli indagati, perché rientrano nell’ascolto delle persone indagate. E il trojan deve essere limitato unicamente per contrastare i reati di criminalità organizzata, così come del resto previsto dalle Sezioni Unite che nel 2016 lo avevano ben specificato». Pinelli denuncia invece un aumento progressivo degli ambiti di applicazione dei captatori. «L’ammissibilità delle intercettazioni va contenuta. Oggi da ciascuna conversazione intercettata possono scaturire nuovi filoni di inchiesta, e possono aprirsi fascicoli a ripetizione infinita». Le proposte di Italia Decide mirano a fornire indicazioni giuridiche sostanziate dal parere di esperti e provano a proporre un rimedio per le iniziative giustizialiste in corso. Con Bonafede a via Arenula, c’è da scommetterci, avranno un gran lavoro da fare.

Intervista ad Anna Finocchiaro: “Non esiste un caso Palamara, ma un problema di spartizione delle nomine”. Aldo Torchiaro de il Riformista il 5 Giugno 2020. Anna Finocchiaro ha attraversato, nella sua Sicilia, le tappe importanti della carriera giuridica; laureatasi a 22 anni, è stata Procuratrice al tribunale di Catania fino al 1987. Da lì in avanti, impegno politico a tempo pieno, prima nel consiglio Comunale e poi in Parlamento. È stata due volte ministra, a vent’anni di distanza: la prima volta alle Pari Opportunità con Prodi, nel 1996, l’ultima con Gentiloni, ai Rapporti con il Parlamento, nel 2016. Adesso fa parte del Comitato scientifico e a capo del gruppo di lavoro dedicato a Sistema economico e giustizia per l’associazione “Italia decide”.

Che momento vive la magistratura?

«È un momento non solo difficile ma anche fortemente rischioso, perché l’indipendenza della magistratura deve affermarsi come caposaldo della democrazia. E questa indipendenza vive se si afferma un credito di fiducia e di autorevolezza presso l’opinione pubblica.

Vede analogie con altri momenti?

«Siamo in un momento molto delicato, come non ricordo di averne mai visti in passato. La giustizia cammina sulle gambe degli uomini, e delle donne. Possono esserci momenti di caduta di fiducia ma ciò che si sta oggi maneggiando è un passaggio nel quale è in gioco non solo un valore che appartiene alla magistratura, ma un fatto di civiltà. Quello dell’efficienza giudiziaria e della fiducia dei cittadini nel sistema-Giustizia è uno dei parametri sui quali vengono scrutinati i paesi che vogliono appartenere agli Stati membri dell’Unione. Non è una cosa marginale. Siamo in una partita molto seria».

Priorità per la riforma del Csm?

«È un punto essenziale, e in qualche modo il Csm rappresenta l’autogoverno e l’indipendenza della magistratura. Va fatto un dibattito molto profondo, e non una incursione dal sapore punitivo o peggio, restaurativo».

Basterà la riforma elettorale?

«È uno strumento, ma non basta. Bisogna fare una riforma importante, per rispondere a problemi di questa gravità».

Nella magistratura associata andava così da tempo.

«Non da sempre. Ricordo il peso culturale che avevano le correnti, anche per la formazione dei magistrati, sull’interpretazione da dare alle leggi. Ricordo il dibattito sulla legislazione d’emergenza durante il terrorismo. Ricordo il dibattito sui temi ambientali, tra anime diverse. E il confronto sulla necessità di orientare le interpretazioni secondo la Costituzione. C’era un perché: un pezzo di costruzione della democrazia italiana, della fisionomia giuridica italiana è derivato dalla dialettica di confronto interna alla magistratura associata».

Cosa si è interrotto in questo percorso?

«La Costituzione viene messa con i piedi per terra dai giudici ordinari, attraverso l’interpretazione. Ma se guardo a questa deriva, non mi piace. È un’altra cosa, rispetto alla magistratura associata».

Cosa mi può dire di Palamara?

«Ha creduto di esercitare un ruolo, ma ha ecceduto. Però non esiste un caso Palamara. Esiste un problema di spartizione delle nomine che va cambiato».

Mentre Bonafede festeggia l’abolizione della prescrizione…

«Io la trovo una cosa incivile, francamente. Tutti hanno diritto di sapere in tempi ragionevoli chi è colpevole e chi innocente. È un problema di civiltà. Cosa lo abbiamo scritto a fare nella Costituzione che il processo deve avere una ragionevole durata? Anche perché lo stigma del processo diventa un anticipo della condanna. Il processo oggi è la pena. Ed è contrario al diritto».

Quali sono le proposte di Italia Decide?

«Due priorità: la riforma dell’abuso d’ufficio e della responsabilità contabile. Due questioni che nutrono la cosiddetta “paura della firma”, quel blocco che agisce a livello amministrativo per timore delle responsabilità che ne possono derivare non soltanto per evitare un fatto illecito, ma per timore delle inchieste che possono derivare da una firma. Ed ecco che i funzionari pubblici non si espongono più al punto di non autorizzare spese e interventi necessari, essenziali. Per non sbagliare, tengono la penna in tasca».

Ne ha iniziato a parlare anche il premier Conte.

«È un tema di riflessione sul quale richiamiamo il dibattito pubblico. Ne hanno parlato Conte ma anche Sabino Cassese, Paola Severino… sta finalmente cadendo un tabù. Il nostro Paese necessita di uno sblocco di sistema, non ci possiamo più permettere questa ritrosia alla firma».

Mettiamoci nei panni del funzionario timoroso.

«Sì, guardiamo dentro all’avversione al rischio del pubblico funzionario. Quanto più incerto è il quadro di riferimento del pubblico funzionario, tanto più questa paura diventa elemento sistemico di blocco. E non si dà il via a lavori, a cantieri, ad appalti. E allora dobbiamo precisare cos’è l’abuso d’ufficio: il cittadino deve sapere cosa è lecito e cosa illecito. La prevedibilità della condotta e quindi della sanzione è essenziale, ed è un elemento di garanzia. La condotta illecita del pubblico ufficiale deve realizzarsi in relazione a leggi e regolamenti chiari. Dato che da noi leggi e regolamenti non sono chiari, ecco che l’abuso d’ufficio si moltiplica, diventa una costante».

La burocrazia diventa carceriera di se stessa.

«È un sistema mostruoso, arricchito da principi di soft law: pensiamo ai provvedimenti Anac o a quelli AgCom. Se Anac dice che c’è bisogno di gara anche per appalti sotto soglia, ecco che i funzionari pubblici per timore aderiscono all’indirizzo Anac, complicandosi ulteriormente la vita».

Un cambio di passo necessario.

«Sì, una chiave per liberare il sistema. Se il riferimento costituzionale è quello del buon andamento e della funzionalità della pubblica amministrazione, bisogna attenersi a questo principio. Possiamo immaginare di limitare il perimetro dell’abuso d’ufficio oppure ripristinare l’interesse privato. Perché su cento procedimenti di abuso d’ufficio circa l’80% vengono archiviati o prosciolti. E allora perché bloccare tutto, dalle macchine amministrative a quelle giudiziarie?»

Giacomo Amadori per “la Verità” il 5 giugno 2020. Il prossimo consiglio nazionale di Magistratura democratica si annuncia davvero caldo. Il 13 giugno l' ordine del giorno prevede ampio dibattito sulle chat con il pm indagato Luca Palamara che coinvolgono esponenti del gruppo, a partire dal consigliere del Csm Giuseppe Cascini. Ma saranno sotto osservazione anche altre conversazioni con magistrati di punta dell'area progressista come il procuratore di Milano Francesco Greco, il procuratore generale di Caltanissetta Lia Sava, gli ex consiglieri del Csm Nicola Clivio e Valerio Fracassi. Comunque si può già scommettere che il più sotto pressione sarà Cascini che non solo è diventato procuratore aggiunto di Roma grazie all' intervento a gamba tesa di Palamara, ma che lo ha anche ringraziato per il sostegno dato al fratello Francesco, oggi pm a Roma; senza dimenticare che si è pure rivolto al pm indagato per procacciare al figlio un biglietto gratuito in Tribuna autorità per una partita di Champions League. Cascini da qualche giorno tace nonostante il fuoco amico che lo sta bersagliando. Forse le bordate più pesanti gli sono arrivate dal sindaco di Napoli Luigi De Magistris, pure lui in passato toga di Md: «Su Cascini e Palamara (quando in tandem guidavano l' Anm, ndr) potrei scrivere un libro per quello che ho visto con i miei occhi nel 2007/2008. Era una coppia vincente per fermare i magistrati onesti che indagavano sul sistema. [] Quando Cascini dice "abbiamo difeso l' indipendenza dei magistrati" dice una cosa falsa e io sono testimone». Caso Cascini a parte, nelle discussioni sulla chat dell' Associazione nazionale magistrati si assiste a pubbliche abiure, ma anche a veloci autoassoluzioni. Indicativo il caso di Tiziana Orrù, presidente della sezione lavoro del Tribunale di Roma ed esponente di Md che ha scritto: «La questione morale-etica, ma anche solo estetica deve essere oggi al primo posto di ogni discussione. Tranne i pochi qui presenti non correntizzati, nessuno è assolto, non lo è chi negli anni ha sfruttato il sistema, ma neppure quelli che lo hanno solo osservato». Dopo questo inizio promettente, la toga fa retromarcia e va all' attacco dei colleghi delle altre correnti coinvolti nella prima tranche dello scandalo Csm: «Ma non confondiamo la questione morale con quella penale. All' hotel Champagne si consumavano reati, non semplici accordi sulla scelta dei dirigenti degli uffici. () Le pubblicazioni delle chat altro non sono che il fumo per consentire di urlare tutto il marciume del correntismo sperando che entri tutto nello stesso calderone. Da tutto questo io mi assolvo perché ne sono estranea». La Orrù ha ritirato fuori uno degli argomenti più utilizzati dai giudici di sinistra: allo Champagne c' erano loschi maneggi con due esponenti politici (Cosimo Ferri e Luca Lotti, allora entrambi del Pd), mentre nelle chat assistiamo a pratiche clientelari biasimevoli, ma che non costituiscono reato. Una filippica accalorata che però non ha convinto molti colleghi. Per esempio Giancarlo Cirielli, pm della Capitale e iscritto di Magistratura indipendente (la corrente moderata), le ha risposto ironicamente: «Cara Tiziana il fatto che "all' hotel Champagne si consumavano reati non semplici accordi sulla scelta dei dirigenti degli uffici" e che risulti per quei fatti un procedimento penale a carico di noti presso la Procura di Perugia è una notizia inedita della quale, per quanto mi consta, riferisci tu sola». Ha ragione Cirielli: per i comportamenti dell' hotel Champagne non risultano pendenti procedimenti penali e le ipotesi più gravi di corruzione nei confronti di Palamara sono cadute. Per questo il magistrato si fa sotto: «Delle due l' una. O tu hai notizie privilegiate sulle indagini di Perugia [] oppure il tuo è un espediente per graduare la gravità dei fatti dell' hotel Champagne, rispetto ad altri fatti, secondo il tuo giudizio, meno gravi, che sono emersi in queste ultime settimane». Il sostituto procuratore, a questo punto, prova a smascherare la collega (e con lei molti di coloro che ripetono il suo stesso mantra): «Se il tuo espediente del distinguo serve a giustificare e a sminuire le condotte diffuse di malcostume nell' attribuzione degli incarichi direttivi, non riesco in alcun modo a condividere la tua idea. Se poi il giustificare e lo sminuire quelle condotte di malcostume è finalizzato alla tutela di un singolo gruppo, autoproclamato immune da quei fatti, condivido ancora meno». Ma Cirielli ignora un fatto davvero curioso. Il 21 settembre 2017 la Orrù è stata candidata presidente della sezione lavoro del Tribunale di Roma dalla quinta commissione (quella degli incarichi direttivi e semidirettivi) e ha incassato cinque voti contro uno (assegnato ad Alessandro Nunziata di Mi). I due commissari di Unicost sostennero la Orrù, mentre quello di Mi votò il proprio candidato. Ovviamente le due preferenze del gruppo guidato da Palamara spostarono gli equilibri. Al punto che lo stesso giorno, Glauco Zaccardi, storico dirigente di Md, giudice del lavoro di Roma e attuale capo dell' ufficio legislativo Finanze del ministero dell' Economia, non si trattenne e inviò un messaggio a Palamara: «Grazie per Tiziana Orrù». Siamo abbastanza sicuri che lo abbia spedito all' insaputa della compagna di corrente.

La lettera “pubblica” di un magistrato che svergogna il suo collega Palamara. Il Corriere del Giorno il 9 Giugno 2020. La lettera aperta a Luca Palamara, pubblicata su Facebook da Silvana Ferriero, giudice calabrese che con l’ex-capo dell’Anm indagato a Perugia per corruzione ha condiviso il periodo del tirocinio per magistrati a Roma negli anni ’90. E’ una lettera dura, a dir poco imbarazzante per Luca Palamara. Una lettera che con sdegno prende le distanze da quanto emerso nelle intercettazioni di Perugia. “Leggo sui giornali che durante il passaggio in tv da Vespa avresti espresso un senso di angoscia e disagio per i colleghi non legati alle correnti. Ma anche che alla domanda di Vespa sulla possibilità di dimetterti avresti risposto “non penso alle dimissioni, io amo la magistratura“. “Non so se ti ricordi di me. E non credo – aggiunge la Ferriero rivolta a Palamara– visto che appartengo alla schiera di quelli, per fortuna tanti, che non sono finiti manco per sbaglio nella rete delle tue chat. Eppure noi abbiamo fatto il tirocinio – uditorato, allora si chiamava così – insieme a Roma. Siamo dello stesso concorso”. “Io pure, non è che ricordi moltissimo di te durante quell’anno e mezzo trascorso negli uffici giudiziari romani. I  pochi ricordi che ho – fulmina Palamara la collega – mi ti presentano come uno che organizzava feste, una sorta di Pr degli uditori DM 30/05/1996″. “All’epoca registrai il fatto come un dato sostanzialmente neutro – prosegue Silvana Ferriero rivolta all’ex-capo dell’Anm indagato a Perugia per corruzione – . Ero appena approdata in un mondo per me completamente nuovo. Le mie energie e la mia curiosità erano convogliate verso il tentativo di capire e di imparare il più possibile di un mestiere di cui non sapevo niente. E che mi appariva difficilissimo”. “Poi arrivò il momento della scelta delle sedi. E ognuno di noi prese la sua strada – ricorda la magistrata a Palamara – La mia mi portò in Calabria, a fare il giudice civile. Uno di quelli che smazzano carte per dieci ore al giorno. Lontani da ogni riflettore. E con l’incubo costante dell’arretrato. E delle possibilità di incorrere in qualche ritardo nei depositi. Per incidens questo incubo è stato, per anni, il cavallo di battaglia elettorale di tanti tuoi compagni di corrente. Sedicenti paladini in sede disciplinare di tutti quegli sventurati che avessero avuto la lungimiranza di ovviare alla sciagura di incappare in macroscopici ritardi con la provvida adesione alla corrente giusta”. Non “ricordo dove ti condusse la tua strada nell’immediato. – sottolinea il giudice con amarezza – Ma so che in seguito fu costellata di tappe che sulla mia mappa non erano neanche segnalate. La presidenza dell’Anm, l’elezione al Csm“. “Durante questi anni – elenca Silvana Ferrario – io sono stata giudice civile di primo grado, giudice penale di primo grado, giudice civile di Corte d’Appello, magistrato di Sorveglianza. E, poi, ancora giudice civile d’appello. Ho lavorato assai, con scrupolo, con zelo. Ma soprattutto con grande passione. Ho lavorato così tanto che, alla fine, mi sono innamorata di questo lavoro. Che, in realtà, avevo scelto quasi per caso”. Ho “amato la ritualità del processo (diversa per il penale e per il civile ma sempre con una sua suggestione). – scrive ancora il giudice – La logica stringente del diritto civile, quella un po’ fantasiosa del diritto penale. Ho amato l’aria che si respira nei Palazzi di giustizia, la luce di certe aule in certe ore del giorno- L’atto di indossare la toga. Ho amato il confronto con i colleghi e con il foro. Il rapporto speciale con alcuni cancellieri, l’incontro prezioso con una umanità a volte miserabile a volte altissima. Ma sempre in qualche modo straordinaria”. “Ho amato e temuto il potere terribile e formidabile di entrare nella vita delle persone fatalmente legato all’esercizio della giurisdizione. Ho cercato di usarlo – rivela la Ferrario a Palamara – con sapienza, con equilibrio, ma soprattutto con rispetto. Ho amato la possibilità che talvolta quel potere fornisce di raddrizzare un torto, di rimettere le cose a posto. Da lettrice compulsiva quale sono ho amato, forse più di ogni altra cosa, la promessa di una nuova storia che mi pareva di intravedere dietro la copertina di ciascun fascicolo che ho sfogliato. Ho amato l’impareggiabile soddisfazione, dopo ore e ore di studio, di essere colta all’improvviso, magari mentre cucinavo o facevo la doccia, dalla spontanea e inaspettata presentazione alla mia mente della soluzione giuridica corretta che stavo cercando”. Sono “tra i tanti magistrati ai quali lo sfascio prodotto dal correntismo ha provocato solo danni indiretti. Non ho mai presentato una domanda per un direttivo o un semidirettivo – aggiunge il magistrato – Quindi la mancanza di uno sponsor non mi ha mai pregiudicato in concreto. Non sono mai incappata in vicende disciplinari. Quindi la presenza dello sponsor non mi è mai davvero servita. Come si dice? Nec spe nec metu”. “Condivido con molti colleghi – dice la Ferrario a Palamara – la responsabilità di avere consentito con la nostra inerzia a te e a quelli come te di arrivare al punto in cui siamo. Potevamo fare qualcosa? Non lo so, certo non ci abbiamo nemmeno provato. La nostra responsabilità però non è neanche lontanamente paragonabile alla vostra. Il discredito dell’intera categoria. La rottura, forse irreparabile, del rapporto fiduciario che dovrebbe esistere tra noi e quel popolo in nome del quale amministriamo la giustizia sono frutto della vostra spregiudicatezza, della vostra insensibilità, della vostra insaziabile e incomprensibile sete di potere”. Leggendo “molte delle intercettazioni pubblicate – conclude il giudice svergognando Palamara -, una delle domande che mi sono posta più di frequente è stata: ma questi perché hanno voluto fare i magistrati? Che c’entrano loro con l’esercizio della giurisdizione? Che ben venga allora la tua tardiva resipiscenza nei confronti dei magistrati non legati alle correnti. Ma, per piacere, risparmiaci la tua inconcludente professione d’amore per la magistratura. Non ho ancora capito bene che mestiere hai fatto in tutti questi anni. Ma so per certo che la magistratura è un’altra cosa”.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per ''la Verità'' il 9 giugno 2020. Gianrico Carofiglio, ex magistrato ed ex parlamentare del Pd, è un uomo che non ama la «gente sudata», come ha etichettato, sprezzante, la folla presente alla manifestazione di centrodestra di sabato scorso. E infatti noi lo ricordiamo bello fresco e sorridente alla tavolata con i suoi amici magistrati baresi e con Nichi Vendola, allora governatore della Puglia, in occasione di una festa di compleanno in riva al mare. Perché Gianrico non disdegna pranzi e cene, a patto che siano rinfrescati dalla brezza marina, dall'aria condizionata e abbiano tra gli astanti politici rigorosamente progressisti. Meglio ancora se con a tavola consiglieri del Csm presenti e passati.

Se poi, come Paola Balducci (coindagata di Palamara a Perugia), sono stati entrambe le cose, allora è perfetto. Ma torniamo alla cena di cui si parla nelle chat di Palamara. Il 18 aprile 2019, a pochi giorni dall'esplosione del caso Csm, la Balducci, che aveva fatto parte del parlamentino in quota Vendola sino al settembre 2018, informa Palamara via messaggio: «Incontrato in aeroporto Carofiglio invitato a cena da Fanfani con Ermini, Benedetti e portato dalla Iodice...».

Giuseppe Fanfani è l'ex consigliere del Csm voluto dal Giglio magico (è stato difensore di Pier Luigi Boschi) nella consiliatura 2014-2018. Da lui c'era già stata un'importante cena il 25 settembre 2018, occasione in cui venne sancito con i parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti il patto per far diventare vicepresidente del Csm il parlamentare renziano David Ermini. Che, quindi, frequenterà casa Fanfani anche dopo la nomina. Alberto Maria Benedetti è invece un avvocato genovese (come Beppe Grillo), sbarcato a Palazzo dei Marescialli in quota 5 stelle.

Teresa Iodice, l'accompagnatrice di Carofglio, è magistrato segretario al Csm e fa parte della corrente di Magistratura democratica. C'era anche lei nella celebre foto della festa di compleanno dell'aprile 2007 ai bagni Santos, ritrovo fighetto sulla spiaggia di Savelletri, frazione del Comune di Fasano (tra Bari e Brindisi). Era seduta a capotavola, sorridente, con un paio di occhiali neri tipo aviator. Quell'immagine, pubblicata dal settimanale Panorama, suscitò polemiche perché al pranzo era presente anche il giudice Susanna De Felice, la quale qualche anno dopo avrebbe assolto Vendola, al tavolo del Santos con il compagno canadese Ed, da un'accusa di abuso d'ufficio. Al fianco della donna, sulla destra della tavolata, c'era anche il marito Achille Bianchi, capelli radi e lunga esperienza fuori ruolo, dalla presidenza del Consiglio al ministero dell'Economia e delle Finanze, pure lui citato, come vedremo, nei messaggini di Palamara.

Ma iniziamo dalla Iodice. Tra le carte dell'inchiesta di Perugia c'è anche la sua chat con Palamara, invero piuttosto scarna. Dopo gli auguri per il compleanno e saluti vari, il giorno della notizia dell'inchiesta su Palamara, Iodice scrive al collega: «Ciao, come va? Quando vuoi fare due chiacchiere ci sono. Ti voglio bene». Lui risponde: «Tutto bene tesoro, è guerra». E lei, che parteggia per lo stratega delle nomine, commenta: «Gentaglia». Non sappiamo se riferendosi ai colleghi che indagavano o ai giornalisti o a tutte e due le categorie.

Due anni prima, nel 2017, e con precisione il 26 luglio, è Achille Bianchi a finire in una chat di Palamara. È una conversazione molto accesa, nella quale Palamara inveisce contro Valerio Fracassi: «Dopo che hai avuto Bianchi è una grave scorrettezza quella che mi stai combinando. È un'offesa sul piano personale ciò che stai combinandomi su Roma e con i miei amici».Bianchi in quelle ore stava per essere proclamato procuratore aggiunto di Trani dal plenum, mentre tra gli «amici» di Palamara che sarebbero stati danneggiati da Fracassi c'era l'allora pm di Roma Giuseppe Cascini, oggi consigliere del Csm in quota Md-Area, corrente e cartello di sinistra.

All'epoca era in corsa per un posto da aggiunto a Roma e Palamara, pur essendo leader di un'altra corrente, quella di Unicost, era un suo grande sostenitore (i due avevano diretto insieme l'Associazione nazionale magistrati). Il pm tacciava Fracassi e i vertici di Md di averlo già bruciato nel 2016, negandogli la nomina, e, adesso, di non convocare la quinta commissione, di cui Fracassi era presidente e in cui doveva essere proposta a maggioranza la promozione di Cascini.

A un altro dirigente di Md, Nicola Di Grazia, sempre il 26 luglio, Palamara scrive: «Fagliela fissare (la commissione, ndr) altrimenti lo (Fracassi, ndr) impalo in plenum... E non scherzo».Palamara con Fracassi è una furia: «È un'offesa sul piano personale [], ora farò il matto. Sei stato profondamente scorretto nei miei confronti. E domani non verrò in plenum».Il 27 luglio, come detto, avrebbe dovuto essere il gran giorno di Bianchi, il quale, in passato era già stato in servizio come pm negli uffici tranesi. Nei mesi precedenti aveva ottenuto il consenso unanime della quinta commissione del Csm, ma il plenum aveva rimandato la pratica in commissione per approfondimenti.

Adesso doveva essere la volta buona. Fracassi, via chat, respinge le accuse di Palamara: «Ma che c... dici? Io non sto combinando niente! Tu racconti balle su fantomatiche commissioni di domani che non ci possono essere! E smettila con Bianchi perché mi offendo io». La conversazione degenera. Fracassi: «Scorretto a me non lo dici. Io ho una sola parola e la mantengo. Ora sono io incazzato perché tu combini casini e metti in dubbio l'obesità (qui il consigliere deve aver avuto qualche problema con il T9, ndr) degli altri per uscirne. Sbaglio o hai detto tu che non votavo Cascini?».

Palamara nega: «Mai detto. Io ti ho tutelato sempre e comunque con tutti. E non mi meritavo questo trattamento da parte tua. E ti dico pure riservatamente che ora faccio ultimo tentativo con Cafiero (Federico Cafiero de Raho, in quel momento in corsa per la poltrona da procuratore di Napoli, che alla fine andrà a Giovanni Melillo, già capo di gabinetto del ministro del Pd, Andrea Orlando, ndr). Detto questo, merito di essere trattato così?».

Fracassi: «Che cosa ho fatto? Spiegamelo. Ho solo riferito la verità e anche aggiunto che non è colpa tua il rinvio della commissione. Quindi se mi fai capire bene. Ma avendo una certa età non tollero accuse sulla mia correttezza!».Il 4 giugno 2018 Fracassi e Palamara discutono per un altro posto: «Non fare il solito. Fai votare in commissione il posto di Bari. Poi si può rallentare. Hai fatto votare in tutta fretta il primo e ti avevo chiesto di aspettare».

Palamara: «Il posto è stato pubblicato a marzo. Ci riferiamo a questo, giusto? Se è questo vuoi che lo faccia senza attendere scadenza termini? Che scadono esattamente prossima settimana». Fracassi: «Mi dicono che è pronto! La scadenza riguarda i casi in cui i pareri non ci sono. Quando ci sono si può trattare come mi hai chiesto spesso di fare e come fai tu. Devo rinfrescarti la memoria?». Palamara: «Tranquillizza anche Achille (Bianchi, ndr) su Bari. Non farti pressare». Il problema a quanto risulta alla Verità sarebbe stata una nomina al tribunale del capoluogo pugliese.

Magistratopoli, Palamara: “Gratteri, Greco e Melillo capi grazie al mio sistema”. Tiziana Maiolo de il Riformista il 2 Giugno 2020. Impassibile come un Andreotti, bocca serrata, sguardo fisso. “Io Palamara? Ma ce ne sono mille di Palamara”. Non mille magistrati corrotti (non lo è neanche lui, crediamo), ma mille uomini politici che indossano la toga. Che sono costituiti nel Partito più tradizionale e più potente che esista, quello con le sue correnti, l’ala sinistra e le destra, e il centro che si esercita nella politica dei due forni. Di cui lui è il campione assoluto, regista e attore, direttore d’orchestra di attenta polifonia. Davanti alla porta del suo ufficio c’è sempre la coda di magistrati che senza rossore indossano la veste dei clientes che impetrano un posto al sole. E lui decide, spostandosi un po’ a destra un po’ a sinistra. Sempre con il manuale Cencelli tra le mani. Davanti a un Giletti poco incalzante, eccolo qui finalmente l’ex capo del sindacato delle toghe, il potente membro del Csm che distribuiva promozioni, quello che risolveva problemi, a rilasciare la sua prima intervista a Non è l’arena. Non indossa la toga, quella gliela hanno tolta con la sospensione, ma dice che l’ha nel cuore. Porta sulle spalle 60.000 pagine di intercettazioni e chat che costituiscono Magistratopoli e Giornalistopoli. Ma di questa seconda non si parla mai. Il che la dice lunga sul potere in Italia. Ormai sembra quasi che si abbia meno paura delle manette che dello sputtanamento. E che ormai Travaglio sia diventato il capo di Davigo. Palamara ha un altro modo di procedere. È un politico d’un tempo – banale definirlo democristiano -, di quelli che non si arrabbiano ma tengono il punto. E ti spiegano, con pazienza. Neppure per un attimo accetta di esser definito “il male assoluto”, ma scivola via come un’anguilla quando gli si porge l’ipotesi che la sua incriminazione per corruzione a Perugia possa “far comodo a qualcuno”. Dice e non dice, soppesa le sillabe. Se manda messaggi sono decisamente obliqui. E “innocenti”. Non è infatti indispensabile cogliere un retropensiero malizioso, quando Luca Palamara rivendica a sé (e sarà quasi l’unica volta in cui farà dei nomi) il merito della promozione a Procuratori capo di magistrati famosi, come Francesco Greco a Milano e Nicola Gratteri a Catanzaro, “il meglio degli inquirenti in Italia”. Certo, il meglio, e sarebbe convincente, se subito dopo non desse particolareggiate spiegazioni sulla procedura adottata per arrivare a quel risultato che avrebbe prodotto “il meglio”. Non una parola che attinga al curriculum o alle esperienze sul campo dei concorrenti, ma ancora la fredda chirurgia del manuale spartitorio. Quel che colpisce di questo magistrato, che è difficile ritenere un corrotto (del resto la stessa procura di Perugia ha già lasciato cadere le accuse più pesanti, i 40.000 euro e l’anello prezioso) ma piuttosto un maneggione, è il tono di normalità con cui ci racconta il partito dei Pubblici ministeri. Il partito esiste, spiega, e anche le sue correnti. Le procure sono luoghi di potere, tutti i magistrati ambiscono ad andarci, butta lì. Ma pensa un po’, viene da dirgli. Ma ci andranno i più bravi, speriamo. Ci delude subito: il sistema premia le correnti. Un sospiro, poi: «Io oggi non voglio dire più bugie». Ma forse non le ha mai dette, le bugie. Che bisogno ne aveva, del resto? Era più potente di un ministro, sia al vertice del sindacato che nel vero luogo del potere, il Csm. E quella stanza numero 42, dove si decidevano le nomine, cioè la carriera dei più ambiziosi attraverso cordate, spartizioni, pugnalate e sgambetti, aveva l’incanto di un Palazzo Chigi. E lui stava lì. Che ci potevo fare, domanda e si domanda, se c’erano tante domande per un solo posto, e l’appoggio di un consigliere poteva fare la differenza? Tutti stazionavano, anche a lungo, davanti agli uffici. Vogliamo un po’ moralizzare (cosa che non ha fatto Giletti), davanti a conferme così sconcertanti? Ma tutti questi magistrati avevano di più la testa sul loro lavoro o sulla propria carriera? E ancora: uno come il ministro Bonafede, che insieme ai suoi compari voleva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, ha mai pensato di programmare analoga operazione sul Csm e sul Partito dei Pm? A se stesso Palamara non attribuisce particolari errori, anzi rivendica: c’era un carrierismo sfrenato, e il Consiglio superiore della magistratura ha fatto circa mille nomine, quando c’ero io. Possibile che debba pagare solo io? Se ci sono state sottovalutazioni, dice ancora, io sono stato colpevole di non aver capito che ero indagato, ero come l’oncologo che si ritrova ad avere il cancro. Per il resto tutto normale, normale che il pm Di Matteo non sia stato in un primo momento collocato alla Dda nel 2016 (poi entrerà l’anno dopo) perché si ritenne che altri profili fossero più adatti. Non spiega se l’attuale membro del Csm (che viene considerato poco suo amico) sia stato bocciato per scarsi meriti o per militanza nella corrente sbagliata. Un po’ stridente con la veste del bravo mediatore sempre diplomatico che Palamara si è dato durante tutta l’intervista, è la parentesi su Milano. Quasi un sassolino da togliere dalla scarpa. A quanto pare Francesco Greco non sarebbe stato promosso al vertice della procura perché era il più bravo. Ma solo perché, davanti a tre candidature importanti, il Csm si era spaccato, non si trovava l’accordo, e Palamara aveva fatto il Palamara, cioè l’abile anguilla che sa infilarsi al centro e tirar fuori il coniglio dal cilindro. Ilda Boccassini era sostenuta dalla corrente di sinistra Area, Alberto Nobili aveva il favore dell’area moderata di Magistratura indipendente, così, grazie alla corrente centrista Unicost, che diventerà l’ago della bilancia, il successore di Bruti Liberati fu Francesco Greco. Cui saranno fischiate le orecchie e magari qualche boccone sarà andato di traverso. Un altro baciato dal rospo. Pare siano 84, distribuiti ai vertici della magistratura di tutta Italia. Con il metodo dei mille Palamara.

Caos Procure, Bonafede: «Tra le degenerazioni del correntismo c’è anche il carrierismo». Il Dubbio l'1 giugno 2020. Il ministro della Giustizia: «Basta a logiche spartitorie». «Tra le degenerazioni del correntismo c’è anche il carrierismo. Voglio dire all’Anm che questa riforma non è contro la magistratura. Ma che, al contrario, la facciamo per tutelare i magistrati». Questo il messaggio all’Associazione nazionale magistrati di Alfonso Bonafede, che, in un’intervista alla Stampa, afferma che «il confronto con i giudici è importante. E io mi aspetto collaborazione. Bisogna che trovino una sintesi al loro interno. Il fatto che il presidente dell’Anm sia cambiato ogni anno è il segnale di una logica spartitoria piuttosto che della ricerca di una sintesi». E per quanto riguarda la riforma del Csm, il ministro della Giustizia aggiunge: «Blinderemo la meritocrazia, cambieremo il sistema elettorale e le persone che faranno parte della sezione disciplinare saranno diverse da quelle della commissione nomine. I procuratori capo saranno liberi di stabilire i criteri con i propri progetti organizzativi. Il Csm controllerà che seguano l’ordine impostato da loro stessi». «L’ordinamento prevede la figura del magistrato – dice  -, il cui ruolo è terzo. Deve accertare la verità assicurandosi di tutelare i cittadini. Ecco perché sono contrario alla separazione delle carriere. Rifiuto l’idea di qualcuno che faccia l’accusatore di professione. Per altro la separazione delle carriera di fatto esiste già. Spostarsi da una funzione all’altra è piuttosto complicato e con la riforma rappresenterà un’eccezione».  «Se azzerassimo il Csm, il nuovo verrebbe eletto con le vecchie regole – aggiunge -. Mi sono confrontato con il vicepresidente Ermini. La nostra azione sarà compatta. Mi fido di questo Csm».

L'avvocato Talerico sul "sistema" Palamara: "Sembra aver sentito un pentito di mafia che parla della sua cupola. Magistratura messa a nudo". L'avvocato Antonello Talerico, Presidente Ordine Avvocati Catanzaro, 1 giugno 2020 su lanuovacalabria.it. In magistratura chi non appartiene ad alcuna corrente è tagliato fuori da tutto, rimane senza incarichi e senza protezione anche in caso di procedimenti disciplinari. Sembra di ascoltare un pentito di mafia, che ricorda quali siano i poteri gestiti dalla propria cupola ai suoi accoliti, precisando che il mancato rispetto di alcune logiche comporta l’isolamento, ma in realtà a parlare è un magistrato, uno di quelli che in Italia, negli ultimi anni, ha deciso carriere e figure apicali del potere giudiziario e non solo, parliamo di Luca Palamara (già membro togato del CSM nel 2014), intervistato da Giletti nella solita conduzione della Tv trash a cui oramai partecipano magistrati e ministri dello Stato, con la stessa assenza di freni inibitori degli ospiti delle ben note trasmissioni di Mediaset come “Uomini e donne” di Maria De Filippi. Pezzi di Stato che si ridicolazzano da soli con nonchalance, senza rendersi conto che rappresentano il sistema giustizia ed il suo funzionamento. Le parole di Palamara hanno messo a nudo la magistratura, banalizzando e ridimensionando tutti coloro che oggi ricoprono posizioni di vertice, sol perché appartenenti ad una corrente, anziché ad un’altra. Questo è il sistema “Palamara”, in realtà è il sistema del c.d. “carrierismo” e/o “correntismo” del potere giudiziario, che (s)travolge tutto, tanto da condizionare il contenuto delle Leggi o l’adozione di una riforma (basti pensare che abbiamo un ministro della Giustizia Bonafede che si comporta come un sostanziale uditore del Davigo pensiero).

Lo dice Palamara “la politica delega ampi settori alla magistratura”. Come dire che il potere giudiziario si sostituisce agli altri poteri dello Stato, fino a controllarli per dominarli, attraverso le inchieste e/o le omissioni. Tutto questo fa rabbrividire.

E’ un quadro allarmante quello che ne esce fuori dalle parole del(l’ex) magistrato, che fa ben comprendere la sete di potere di quella parte della magistratura che pensa più alla carriera, che al proprio lavoro e, quindi alla necessità di organizzarsi a sistema attraverso le “correnti” (definite “scorciatoie”), unico strumento per poter raggiungere il potere e le posizioni dove si decide vita e carriera di chiunque. Un sistema che si autoalimenta, in un circolo vizioso e, che trova il suo culmine nel diverso approccio che un magistrato ha quando dinnanzi a sé ha un imputato che oltre ad essere tale è anche un collega, come Luca Palamara, il quale nonostante la manifesta capacità di condizionamento ambientale e la proclività alla “mediazione” per favorire amici e associati per il c.d. carrierismo, rimane in libertà. Ma non è l’unico esempio, basti pensare che ci sono magistrati che vengono mandati dal carcere al convento (nonostante il tentativo di inquinamento delle prove ed una precedente carcerazione), sol perché fulminati lungo il cammino di Santiago, scoprendo così un forte desiderio di fede, tanto da non poter rimanere tra le fredde mura di un carcere. Ma Palamara si definisce eufemisticamente un “mediatore” delle istanze dei consociati, perché l’interesse per la carriera ha alterato ogni equilibrio ed interesse e, lui era l’unico che poteva mettere d’accordo tutti (sistemando tutti…), lo dice con quel suo sorriso…che gli costò qualche appellativo da parte del Picconatore(Cossiga). Ma questo delirio di onnipotenza, espresso da Palamara, è una componente assai diffusa in magistratura (lo conferma l’ex Presidente di Anm), dove la sete di potere ed il desiderio di esercitarlo hanno trovato conferma nella ben nota “chat” tra magistrati diffuse dagli organi di stampa, che denotano un fenomeno assai preoccupante : la magistratura è un potere politicamente orientato e può condizionare le sorti (o la vita) di chiunque, specie nelle inchieste più importanti ed in particolare quelli che coinvolgono politici e magistrati. E’ questo il messaggio più pericoloso e preoccupante del “racconto” di Palamara e, che deve turbare il libero cittadino. La politica è molto vicina ad una parte della magistratura, ed una parte della magistratura è molto vicina ad una parte della politica. In questa osmosi entrambe esaltano il do ut des e, si spalleggiano, in particolare, quando devono spartirsi incarichi e potere, questo è quello che conta. Ma il Palamara pensiero dimostra che esiste la “raccomandazione” per “perorare la causa e/o l’interesse del collega associato alla medesima corrente…”, poiché senza contatti si è penalizzati o discriminati, anche nella cattiva sorte. Non credo ci sarà un bagno di sangue (come ha affermato qualche magistrato “buono”), perché Palamara non farà altri nomi, se dovesse farne la maggior parte di quei magistrati che hanno avuto bende e prebende rischierebbe il posto e, magari anche qualche procedimento penale. Alla fine tutti si metteranno d’accordo perché nessuno si dovrà far male, poiché i beneficiari del “Sistema Palamara” sono tanti e, quindi è meglio tacere. Del resto, l’ex magistrato afferma, senza batter ciglio, che “quelli bravi, ma devono essere i migliori” soltanto eccezionalmente arrivano a ricoprire funzioni di vertice, “ma oggi non posso dire bugie, quindi posso dire che si deve appartenere ad una corrente per ottenere delle nomine”. Ma lo stesso carrierismo sfrenato che ha “consentito” a Palamara di decidere (ndr: mediare…), negli anni d’oro, circa mille incarichi in favore dei fortunati “correntisti” (non di banca), si muove al pari della più becera politica, perché questa è la logica della spartizione dei poteri, ovvero il mercimonio degli incarichi.

Se questo non è un patto scellerato, poco ci manca. Per Palamara, in conclusione, il problema non è ciò che ha fatto (ipse dixit: va contestualizzato… a cosa non è dato di sapere), ma il trojan che hanno utilizzato per captare le sue conversazioni (e, che sono stati fortunati coloro che prima del trojan avevano parlato con lui)! E, pensare che mentre qualcuno accusava l’Avvocatura che invocava la separazione delle carriere, altri operavano per la spartizione degli incarichi e proponevano un processo cartolare senza avvocati e senza contraddittorio, dove a decidere le sorti degli imputati doveva essere unicamente il Giudice, nella speranza che non si trattasse di qualcuno di quelli diversamente orientati. Ma per fortuna che c’è anche una Magistratura sana, quella che lavora e, quella con cui è ancora possibile un confronto tra pari, perché indipendente e autonoma, perché esercita in nome del popolo italiano e, non per conto terzi…o per fini politici. Resta inteso che la Magistratura deve occuparsi del solo potere giudiziario e non anche degli altri poteri, né deve condizionarli o tentare di gestirli, come è capitato di recente con le critiche mosse al Legislatore, anche sulla questione del processo da remoto e, non solo su questo. E’ impensabile che un componente importante del CSM possa affermare che non ci sia tempo di aspettare le sentenze definitive e, che la carcerazione preventiva sia l’unico sistema che possa garantire il “sistema”, ovviamente salvo che l’imputato non sia un magistrato, come Palamara (che sa tutto di tutti), poichè, in tal caso, il giustizialismo di Davigo non può trovare applicazione. Con il dilagare dell’idea di una giustizia valida per gli altri ma mai per sé e, con il pericolo di interventi giudiziari orientati all’utilità per sé e per la propria cordata, dovremmo riflettere sul fatto che siamo tutti esposti, nessuno escluso, ad una mannaia giustizialista perché le regole non esistono più ed i principi possono essere sovvertiti, perché per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano (Giovanni Giolitti).

Magistratura eversiva, il Csm si è sostituito allo Stato e i pm non rispondono alla legge. Alberto Cisterna su Il Riformista il 2 Giugno 2020. Pochi giorni or sono il prof. Serio, docente universitario stimato e già componente del Csm ha censito tra i mali che affliggono la magistratura italiana anche una elefantiaca autoproduzione di regole che il Consiglio ha approntato e affinato negli anni munendosi di poteri pressoché illimitati sulla carriera dei magistrati. Gli strali del professore si sono concentrati sul Testo unico della dirigenza giudiziaria, la Magna Charta per l’attribuzione degli incarichi su cui si esercitano spesso il Tar e il Consiglio di Stato annullando delibere consiliari di varia indole ed estro. Si legge nel suo intervento: «Attualmente, è in vigore per gli incarichi più ambiti un immodestamente denominato, testo unico sulla dirigenza, espressione alquanto pomposa che tradisce il desiderio di equiparazione del Consiglio al legislatore. Ebbene, quella che avrebbe dovuto essere una miniera di regole oggettive capaci di risolvere in modo netto e indiscutibile il conflitto tra più aspiranti, si è rivelata un’autentica trappola a causa della compresenza di decine di disposizioni minute che, isolatamente considerate, spesso vengono contraddittoriamente utilizzate per favorire l’uno o l’altro dei concorrenti, a seconda spesso dell’orientamento correntizio del consigliere o del candidato o di entrambi». Insomma, nulla per cui stare tranquilli. La scelta dei capi degli uffici è fondamentale per l’assetto del servizio-giustizia e manipolarne il corso in vista di interessi privati in qualunque altra amministrazione porterebbe alle manette, anche se – paradossalmente – fossero scelti i migliori: è il metodo a inquinare. Molti dei miasmi velenosi che emergono dalle ultime chat – purtroppo tardivamente cadute nella disponibilità dei giornali rispetto ad altre più tempestivamente propalate in piena indagine perugina a vantaggio di taluno – mostrano come siano proprio queste regole elastiche e plasmabili a consentire vendette, segnalazioni malevoli, sgambetti e, a volte, quelle vere e proprie esortazioni alla persecuzione che animano in taluni casi la lotta per il potere all’interno della magistratura. Indimenticabile l’incitazione di una (ex) toga altolocata al componente del Csm che si doleva di essere incappato in qualche intercettazione di un processo per corruzione: «Certo. Dillo ai tuoi colleghi del Csm» avrebbe sibilato il grand commis aizzando contro il reprobo giudice che non aveva subito censurato l’impiccio. Un «dillo ai tuoi colleghi» che sta a metà strada tra il callido mandato e la viscida sollecitazione, in quella fangosa terra di mezzo in cui allignano le vigliaccate e non solo Buzzi e Carminati. Tolta la pietruzza che, come sempre, nella scarpa duole, ma che un interesse generale deve pur sempre avere se la conversazione è stata pubblicata con tanto di nomi e cognomi, torniamo al discorso molto più elevato che il prof. Serio ha intrapreso.  L’articolo 108 della Costituzione dispone che «le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge» (v. anche art. 102), questo comporta che i poteri del Csm sulla carriera dei magistrati non potrebbero prevedere – come attualmente accade in molti settori – una delega in bianco in favore dell’organo di autogoverno e in fondo a discapito anche dei cittadini. Si pensi, a esempio, al principio di precostituzione del giudice naturale, fissato nella Carta e canone fondamentale della giustizia in tutti gli ordinamenti. La designazione del giudice deve precedere il reato e non seguirlo, sono vietati giudici ad personam. Oggi il suo rispetto è, processualmente parlando, carta straccia in quanto alla fine rimesso alle disposizioni amministrative del Csm che, a propria discrezione, può scegliere un giudice per un solo processo e, se occorre, anche per un solo imputato senza che sia possibile per l’imputato obiettare alcunché. La mancanza di criteri e regole precisi – come ricorda Serio – ha comportato l’espansione a dismisura dei poteri cosiddetti paranormativi del Csm che interviene con propri statuti in qualunque ganglio della vita dei magistrati (dai rapporti parentali all’interno degli uffici ai trasferimenti, dagli incarichi extragiudiziari alle valutazioni di professionalità, dalle nomine all’organizzazione del lavoro, dalle commissioni dei concorsi alle ferie) a prescindere e, troppe volte, a dispetto anche dei radi e lacunosi interventi legislativi. Il Parlamento, con un costante self-restraint ai limiti della colpevole sottovalutazione, ha concesso al Csm una vera e propria delega in bianco sui magistrati che, a quel punto, sono stati sospinti dalla stessa politica a soggiacere al potere delle correnti e dei loro rappresentanti. Sono state ristrette le toghe in un recinto anomico e illegale in cui poi la stessa politica torna a negoziare con gli emissari più smaliziati della corporazione, così dilatando il proprio controllo sulla giurisdizione oltre i limiti costituzionali. Il tutto con buona pace anche dell’articolo 101 della Costituzione che, come noto, pretende che i giudici siano «soggetti soltanto alla legge». Se le norme di legge sull’ordinamento giudiziario sono soppiantate da elastiche delibere, circolari, risoluzioni e testi unici di valenza amministrativa, è evidente che la soggezione dei giudici alla legge risulta filtrata e mediata da quella, ben più temuta, al Csm con ogni inevitabile ricaduta. Comprese quelle che tanto rumore stanno facendo in questi giorni a proposito di politici illustri. Il punto vero è che non si tratta solo di degenerazioni individuali da contenere e reprimere – come taluno ancora si illude che sia – ma della deriva sistemica di un’organizzazione (un ordinamento) che, abbandonata a sé stessa, ha creato una doppia soggezione, alla legge e alle disposizioni dell’autogoverno, con una conseguente doppia morale foriera delle peggiori distorsioni e che ha, oggi, quale contrappeso solo l’enorme patrimonio etico di quasi tutti i magistrati italiani. Lo aveva detto la Corte costituzionale in una memorabile pronuncia (n. 497/2000): «L’applicazione imparziale e indipendente della legge… sono beni i quali, affidati alle cure del Consiglio superiore della magistratura, non riguardano soltanto l’ordine giudiziario, riduttivamente inteso come corporazione professionale, ma appartengono alla generalità dei soggetti e, come del resto la stessa indipendenza della magistratura, costituiscono presidio dei diritti dei cittadini» per poi affermare in modo esemplare da scolpire in ogni aula di giustizia «nel patrimonio di beni compresi nello status professionale (dei magistrati) vi è anche quello dell’indipendenza, la quale, se appartiene alla magistratura nel suo complesso, si puntualizza pure nel singolo magistrato, qualificandone la posizione sia all’interno che all’esterno: nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Consiglio superiore della magistratura». L’orgoglio dell’indipendenza e dell’autonomia da tutelare e da esercitare anche nei confronti del Csm e degli altri magistrati. Un orgoglio che sarebbe ingiusto non riconoscere a tantissime toghe italiane, ma che in troppi hanno dismesso partecipando al saccheggio delle clientele. Un patrimonio troppo importante perché la politica pensi di sbrigare la pratica giustizia con una frettolosa legge elettorale. Se non si ripristina il primato delle legge voluto dalla Costituzione, liberando le spalle ricurve della magistratura dal peso asfissiante dei poteri impliciti del Csm e del rischio di un loro uso distorto, ogni cambio di passo sarà insufficiente e destinato a fallire. Né la giustizia amministrativa può essere rimedio a questo vulnus, alla fine, eversivo della Costituzione.

Palamara non è un caso ma la regola di un sistema marcio, serve riforma radicale. Valerio Spigarelli de Il Riformista il 31 Maggio 2020. La prima cosa da dire è che finiranno per non cambiare nulla se continueranno a raccontarci che Palamara è un caso. Non è vero, non era un caso, era la regola. L’unica cosa singolare delle chat del telefonino che ha sconvolto il mondo della magistratura è il linguaggio da adolescente millennial comprensivo di faccine che utilizzano signori fatti e finiti. Ma forse neppure quello ad essere sinceri: ognuno di noi ha il cellulare pieno di faccine e male parole scambiate senza freni inibitori con amici e conoscenti. Roba che, peraltro, in un Paese serio sarebbe rimasta comunque riservata, e ciò va ribadito tanto per marcare la doverosa distanza da quella stampa “garantista” che bestemmia contro il trojan finché non gli serve a sputtanare il nemico. Così come, mai come in questa occasione, è necessario chiarire che il troian non dovrebbe servire a fare il check up morale di nessuno: neppure di Palamara né della magistratura. Per il resto, quello che racconta quel cellulare, dalla concezione proprietaria della giustizia che è propria della magistratura da decenni, ai rapporti stretti con esponenti politici, per finire con la deriva cencelliana delle correnti, era un segreto di Pulcinella che va avanti da quando Luca Palamara era all’asilo e solo qualche sepolcro imbiancato può raccontare la favola del compagno che sbaglia ma il popolo (cioè la magistratura) non c’entra. Ed è inutile stare lì a fare le orazioni sul fatto che esistono centinaia di magistrati laboriosi e schivi, che non vanno allo stadio o in trattoria coi vip, che non chiamano il capo corrente per avere un posto, che non hanno il giornalista – o il giornale – di riferimento, oppure rapporti stretti col mondo della politica; e infine che non fanno o chiedono raccomandazioni. Certo che esistono, solo che non rappresentano il sistema di potere che si è sedimentato all’interno della magistratura e attorno ad essa. Anche durante la Prima Repubblica c’erano italiani che non cercavano raccomandazioni per evitare il servizio militare o per trovare lavoro. Identicamente c’erano militanti di partito che non avevano a che fare con le tangenti. Però il sistema era quello e lo teneva in piedi la maggioranza degli italiani che, servizio di leva a parte, non è che siano molto cambiati. Checché ne pensino i millenaristi di professione – che da noi hanno sempre una certa, temporanea, fortuna in politica, da Guglielmo Giannini fino a Grillo – la degenerazione di un sistema non riguarda solo la sua classe dirigente ma investe direttamente i rappresentati. Ed allora, con il permesso delle madamime dei media di destra e di sinistra – che sferruzzano articolesse moralisteggianti , o intemerate a favor di telecamera sperando che il trojan non infetti qualche altro cellulare che spiegherebbe le carriere e le miserie loro – il problema, come avrebbe detto Riccardo Lombardi, è che ci vuole “una riforma di struttura”. È la struttura costituzionale ed ordinamentale della magistratura che ha permesso, prima ancora di Tangentopoli, l’esondazione e la deriva di potere dell’ordine giudiziario. Ed è lì che si deve intervenire, non con i pogrom antimagistrati o, peggio, con gli autodafé. Bisogna agire sui capisaldi: struttura e composizione dell’organo di governo autonomo per l’affermazione della terzietà del giudice rispetto alle parti e il contenimento della deriva corporativa dell’organo costituzionale; istituzione di una Alta Corte di Disciplina esterna al Csm; accesso laterale in magistratura di soggetti esterni provenienti dal mondo dell’avvocatura e dell’accademia; ridefinizione dell’obbligatorietà dell’azione penale; divieto di rientro in magistratura dopo esperienze politiche; limitazioni rigide al collocamento fuori ruolo dei magistrati. Roba che presuppone una certa idea della giustizia che purtroppo è estranea alla maggioranza della classe politica, è invisa alla stragrande maggioranza dei magistrati ed è anche ostica alla comprensione della pubblica opinione. Ma, proprio come dicevano i riformisti seri, è dalle modifiche di struttura che nasce una diversa cultura. Anche quando si iniziò a parlare di divorzio ed aborto la società italiana era in maggioranza, a destra e sinistra, del tutto avversa a tali temi. Ci volle un lavoro politico serio, e gente – come Pannella – non disposta a barattare principi per una cadrega, per imporre quelle scelte che a loro volta hanno accompagnato e fatto affermare un diverso sentire fino a farlo diventare proprio della generalità dei cittadini. E su questo il sistema della informazione gioca un ruolo fondamentale. Limitandosi a guardare dal buco della serratura del cellulare di Palamara, oppure fermandosi alla trita retorica dei piagnistei anticasta, la stampa sta perdendo l’ennesima occasione per confrontarsi con una idea liberale della giustizia che gli è sostanzialmente aliena. Così come è estranea non solo, ovviamente, all’ala manettara dello schieramento politico che, oltre ai 5Stelle, comprende una buona fetta della sinistra italiana e i tanti garantisti a dondolo del centrodestra, ma persino quelli che sul garantismo hanno fatto, almeno a parole, un investimento politico, come Italia Viva. Il Renzi che rimprovera a Bonafede la retorica del sospetto, ma poi gli salva la poltrona rivendicando come un merito di aver fatto morire Provenzano in carcere, si dimostra più un campione del peggiore trasformismo democristiano che un erede di Calamandrei, per capirci. Per un dibattito serio su una questione altrettanto seria ci vogliono, poi, interventi istituzionali di pari livello. Giorgio Napolitano ammonì più volte il Parlamento sulla necessità di una riforma strutturale della giustizia, e lo fece perché aveva sotto gli occhi la degenerazione del sistema, la sua inefficienza ed anche i misfatti legati ai rapporti tra il mondo della giustizia e l’informazione che fecero morire di dolore Loris D’Ambrosio. Proprio ieri è intervenuto l’attuale Presidente della Repubblica rammentando di aver già da tempo auspicato una riforma «delle regole di formazione del Csm» ma al tempo stesso rispedendo al mittente gli inviti a sollecitare una legge che preveda “criteri nuovi e diversi” per la formazione di tale organo ricordando che questo compito è affidato al Parlamento. Peccato, è una occasione persa, se avesse agito come il suo predecessore sarebbe stato un passo avanti. Questa vicenda viene da lontano e non è una faccenda di mele marce e raccomandazioni: è una crisi strutturale che va avanti da decenni e richiede interventi di pari livello. Il rischio, infatti, è che tutto si risolva nell’ennesima, truffaldina, instant law, magari sui meccanismi elettorali del Csm. Un’altra di quelle leggine reattive, simboliche e demagogiche, cui ci hanno abituato gli incompetenti al potere che darebbe la magistratura in mano a Davigo e i suoi. Come dire dalla padella alla brace.

Antonio Amorosi per affaritaliani.it l'1 giugno 2020. “Poiché non si poteva trovare la giustizia, si è inventato il potere”, ha scritto il filosofo Blaise Pascal. Si poteva peggiorare la condizione in cui versa la giustizia italiana? Presentata come la risposta del governo allo scandalo del CSM la riforma della magistratura proposta dal ministro Bonafede sembra riuscirci, dando il termometro della prostrazione dello stato di diritto nel nostro Paese. "Il vero e proprio terremoto che sta investendo la magistratura italiana dopo il "caso Palamara" impone una risposta tempestiva delle istituzioni, ne va della credibilità della magistratura, a cui il nostro Stato di diritto non può rinunciare", aveva annunciato giorni fa il ministro. Sono anni che questo Paese attende una riforma seria della giustizia. I lettori potranno rendersi conto di che risposta sia leggendo integralmente il testo pubblicato in esclusiva da Affaritaliani. Il documento la scorsa settimana è stato portato all'esame dei partiti della maggioranza: Movimento 5 Stelle, Pd, Italia viva e Leu. Propagandata come la risposta allo scandalo delle correnti in magistratura, di fatto rinforza il potere proprio delle correnti che col doppio turno nelle elezioni dei componenti del Csm potranno continuare a fare il bello e il cattivo tempo, correnti che nei 24 articoli presentati non sono neanche citate. In più viene ampliato il potere del Consiglio Superiore, quindi sempre delle correnti che lo determinano, e si limita quello dei procuratori capo sui territori. Il Csm potrà esercitare la supervisione e il controllo sul funzionamento degli uffici delle procure, cioè gli organi che sul territorio esercitano l'attività inquirente: l’accusa. I componenti del massimo organo della magistratura verranno sempre decisi dai giochi di potere all'interno delle correnti, se non avverrà una reale riforma, e avranno addirittura il potere di controllo sulle inchieste territoriali, andando a incidere sui criteri di assegnazione dei procedimenti giudiziari e sulle priorità nella trattazione degli affari. Accentrare il potere, anche in funzione disciplinare o paradisciplinare, aumenta la discrezionalità del suo esercizio e lo concentra in poche mani. Non serve citare Pascal né i primordi della dottrina politica o di quella giurisdizionale per capirne le conseguenze. Con questa nuova riforma finisce la cosiddetta piena autonomia concessa ai capi delle procure e quella classica di ogni magistrato dovrà incanalarsi, con ancora più forza, nella scia dell’una o dell’altra corrente del Csm. Non si parla di separazione di carriere tra giudici e pm, anzi nel suo burocratese gli articoli confondono ulteriormente i due ruoli, né vi sono mirabolanti nuovi assetti organizzativi, né riferimenti al merito o a meccanismi di meritocrazia. Il termine “merito” viene citato nel documento ben 7 volte ma non si capisce bene cosa sia. Viene privilegiata solo l'anzianità che resta di fatto l'unico vero criterio di qualità. Se non ci sono altri criteri è normale che i magistrati senza corrente, per quanto meritevoli, continueranno ad essere emarginati ed ignorati, peggio di prima. Molta attenzione invece è riservata al meccanismo di elezione del CSM che avverrà con un doppio turno. I magistrati voteranno in 19 piccoli collegi più 1 centrale, con preferenze multiple, 3, considerando anche le quote rosa. Chi vota più di un nome dovrà metterlo di sesso diverso. “Uno dei diciannove collegi è costituito dai magistrati della Corte suprema di cassazione con funzioni di legittimità, della Procura generale presso la stessa Corte e del Tribunale superiore delle acque pubbliche.  Un ulteriore collegio è costituito dai magistrati collocati fuori ruolo, dai magistrati dell’ufficio del massimario e del ruolo della Corte di Cassazione, dai magistrati della Corte di appello di Roma e della Procura generale presso la medesima Corte e dai magistrati della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo”. Dopo il primo turno di voto, verificato il dato elettorale, si potrà determinare chi vince il secondo, dando inevitabilmente fondo a tutti gli accordi possibili tra correnti. Facile è capire che queste primeggeranno come sempre e il loro controllo sul CSM resterà intatto, come si è letto nelle intercettazioni del caso Palamara. Se il magistrato decide di entrare in politica non potrà tornare indietro a rivestire il vecchio ruolo, se non svolgendo un'attività amministrativa, conservando il trattamento economico. Viene ulteriormente indebolito il ruolo delle forze politiche dentro il CSM, sbilanciando ulteriormente il rapporto tra queste ultime e la magistratura in favore delle toghe. Il Csm poi aumenta nei componenti e il parlamento non potrà più eleggere nessuno nell'organismo che abbia nei cinque anni precedenti ricoperto la carica di deputato, senatore, consigliere regionale e sindaco. La legge non è uguale per tutti, lo sappiamo. Al nostro disastrato stato di diritto, invece di  aggiungere la prosopopea delle grandi riforme a mezzo stampa,  potremmo portare invece alcuni timidi accorgimenti logistici. Primo, incidere a lettere cubitali in ogni aula il monito "ricordatevi di Enzo Tortora" parafrasando il monito che il Doge della Serenissima Repubblica veneta era solito volgere ai giudici dopo la clamorosa condanna a morte di un fornaio al posto di un nobile (parafrasando la leggenda del "povero fornaretto", citata spesso dall’avvocato friuliano Gianberto Zilli). Da cui l’ulteriore leggenda della ‘maledizione del fornaretto’ con la morte di tutti i personaggi coinvolti nella vicenda. Secondo, spostare la frase “la legge è uguale per tutti” dalle spalle dei giudici a davanti agli occhi dei giudici. Chissà che questi due piccoli accorgimenti non facciano meno danni della riforma del ministro Bonafede.

Luca Fazzo per “il Giornale” l'1 giugno 2020. Adesso, se lo incontrassero per strada, probabilmente cambierebbero marciapiede. Ma per anni centinaia di magistrati italiani hanno saputo che il loro destino dipendeva anche e soprattutto da Luca Palamara, ex presidente dell' Anm e leader incontrastato di Unicost, il correntone centrista delle toghe italiane. Adesso Palamara è sotto inchiesta, sospeso dal servizio, a rischio di cacciata dalla magistratura. Ma per anni è stato lui il regista (tutt' altro che occulto) di buona parte delle nomine e delle promozioni. Lo ha fatto negli anni in cui presiedeva l' Anm, lo ha fatto anche quando - nell' ultimo periodo della sua parabola prima del tonfo - non aveva cariche formali. E lo ha fatto soprattutto nei quattro anni, tra il 2014 e il 2018, in cui sedeva nel Consiglio superiore della magistratura, l' organo di autogoverno delle toghe, investito anch' esso in pieno dallo «scandalo Palamara». Può essere impietoso andare ora a ricostruire l' elenco dei magistrati che in quei quattro anni hanno ottenuto grazie a Palamara il posto cui ambivano. Molti di loro, probabilmente, non hanno mai bussato alla sua porta: e comunque il focoso pm romano, oggi impresentabile, allora era riverito un po' da tutti. Ma è una analisi che racconta bene il sistema che governava la spartizione delle nomine. Una spartizione che Luca Palamara gestiva con accortezza - si licet - democristiana, quasi dorotea. Ricostruire quelle votazioni richiede un lavoro certosino, andando a incrociare atti ufficiali del Csm e conversazioni interne alle mailing list e alle chat delle correnti, in cui all' indomani delle decisioni si usava dare conto degli schieramenti. Si scopre che in Italia ci sono, e in posizioni di rilievo, ottantaquattro magistrati che non sarebbero nel posto che oggi occupano se Palamara e i suoi quattro colleghi di corrente avessero puntato su un altro candidato. Da Bolzano a Sassari, da Locri a Treviso, a designare i capi degli uffici giudiziari era il leader di Unicost. In realtà, gli inizi per Palamara - che entra nel Csm nel luglio 2014 con 1.236 voti di preferenza - non sono facili. La corrente di destra, Magistratura Indipendente, nelle urne ha fatto il pieno di consensi. Il Csm ha davanti un compito gigantesco, destinato a scatenare speranze e manovre: rimpiazzare centinaia di capi degli uffici giudiziari, che la riforma del governo Renzi ha spedito in pensione con due anni di anticipo. Non si era mai vista una simile infornata di cariche a disposizione delle ambizioni dei giudici e delle loro correnti. Ma al momento dei primi voti, nel Csm si crea una strana alleanza. Su alcune nomine cruciali, la destra di MI si schiera con Area, la corrente di sinistra; su altre porta dalla sua i consiglieri eletti dal Parlamento. Unicost e Palamara restano tagliati fuori. La sconfitta più cocente è quella sulla Procura di Palermo. Trionfa Francesco Lo Voi, spinto da Magistratura Indipendente. Il candidato di Palamara, Guido Lo Forte, si ferma a cinque voti. Ma Palamara raddrizza la barca in fretta. Ad aiutarlo c' è il malcontento che nella base di Area serpeggia contro l' innaturale alleanza con le destre, che ha costretto la corrente delle «toghe rosse» a digerire alcune nomine in cambio di altre. Palamara si lancia in questo varco, e occupa quasi militarmente il centro del Csm. Da quel momento in poi, si contano sulle dita di un paio di mani le nomine importanti su cui finisce in minoranza. Non si lega a nessun alleato, di volta in volta stringe accordi con la destra o con la sinistra in modo da essere sempre lui a decidere. I magistrati italiani, soprattutto quelli che ambiscono a avanzamenti di carriera, lo capiscono in fretta. Così si spiega l' alluvione di messaggini, di suppliche, di pressioni che piovono in quegli anni sul suo telefono, e che ora sono agli atti dell' inchiesta di Perugia: solo in parte, purtroppo, perché ai primi due anni di chat del regno di Palamara il trojan non è riuscito a risalire. Sta di fatto che in quei mesi Palamara è un fiume in piena. Non c' è una carica che non passi per le sue mani. In molti casi, oltre due terzi, le correnti trovano un accordo, e le nomine passano all' unanimità. Ma negli altri casi si va a scontri, spesso furibondi. E in ottantaquattro casi, ovvero la stragrande maggioranza, a passare è il candidato di Palamara. Oggi sono procuratori della Repubblica, presidenti di tribunale, consiglieri di Cassazione. Gente di destra, di sinistra e di centro che dovrebbe dirgli grazie. Chissà se lo hanno mai fatto.

(ANSA l'1 giugno 2020) - "Identificarmi come male assoluto può far comodo a qualcuno". Lo ha detto l'ex consigliere del Csm Luca Palamara, intervistato da Massimo Giletti. "Gli accordi sulle nomine erano fisiologi, ma non con i politici" . "Sono qui perchè ho il dovere di chiarire. Mi sento e sono uomo delle istituzioni, amo la magistratura, porto la toga nel cuore". "Con Lotti ho commesso un errore di sottovalutazione. Ho sottovalutato il suo ruolo con la procura di Roma". lo ha detto l'ex consigliere del Csm Luca Palmara, riferendosi al fatto che Lotti era indagato dalla procura di Roma. "E' troppo facile dire che sia stato Luca Palamara a fermare Di Matteo. Il sistema delle correnti si accordò su nomi diversi, e quella decisione fu ratificata dal plenum. Una sorta di manuale Cencelli e Di Matteo venne pretermesso". "Mi chiamavano tantissimi colleghi, non per il compimento di atti illeciti. Ma perché ero in grado di mediare". "Ho anticipato il Covid: chi ha attuato il distanziamento sociale con me si è salvato". Lo ha detto l'ex consigliere del Csm Luca Palamara a "Non è l'Arena", riferendosi al fatto che nel suo telefono era stato inserito il trojan. "Nel 2006 c'è stata una grande trasformazione nella magistratura che ha determinato la corsa al carrierismo sfrenato. E i posti in procura sono molto ambiti".

Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” l'1 giugno 2020. «Su Salvini ho usato un' espressione impropria, non volevo offenderlo. Ma quella frase non rispecchia fedelmente il pensiero: è decontestualizzata, volevamo tutelare il pm che indagava». A un anno esatto dal suo interrogatorio davanti ai pm di Perugia, l' ex presidente dell' Anm Luca Palamara parla per la prima volta in tv. Lo fa intervistato da Massimo Giletti a Non è l' Arena su La7. E si difende: «Non sono io il male assoluto. Potrebbe far comodo a qualcuno pensarlo. Sono un uomo delle istituzioni e ho la toga nel cuore». Ma quel trojan, dice, lo ha reso come il Covid: «Chi ha attuato il distanziamento da me si è salvato». Non ha più la barba, nè peli sulla lingua l' ex consigliere Csm, e sottolinea: «Facevo parte di un organo collegiale composto da 27 persone. Ipotizzare che sia solo io, a far convergere tutte le situazioni verso una unica, dà una falsa rappresentazione della realtà». Nega di aver fermato Nino Di Matteo nella corsa a superprocuratore antimafia: «Il sistema di correnti si accordò su nomi diversi e il plenum ratificò, una sorta di manuale Cencelli». E spiega: «Il sistema premia chi appartiene alle correnti e negare che le correnti rappresentino una scorciatoia significa negare la realtà». Non si sottrae alla domanda sulle cene con Lotti: «Ho sottovalutato che fosse indagato». E sulla nomina di Ermini dice: «Il sistema di elezione del vicepresidente prevede un accordo fra correnti». Oltre a Palamara, ieri Non è l' Arena è tornata a occuparsi di Francesco Basentini, ex capo del Dipartimento dell' amministrazione penitenziaria costretto alle dimissioni dopo la bufera per le scarcerazioni dei boss durante l' emergenza Covid. Giletti, documenti alla mano, ha svelato un episodio che è stato al centro dell' attenzione della Procura di Potenza e sul quale lo stesso Basentini è stato ascoltato, come persona informata sui fatti, per cinque ore. Basentini, stando alla ricostruzione, nel febbraio 2019 riceve nel suo ufficio al Dap due persone: l' avvocato Raffaele De Bonis Cristalli (che non sa di essere pedinato per un' inchiesta che lo farà finire in arresto) e Vito Matteo Barozzi, cui fa capo la Cobar, impresa che ha già fatto parlare di sé per appalti finiti sulle cronache giudiziarie: la ricostruzione-scandalo del teatro Petruzzelli e il «pizzo» pagato alla 'ndrangheta per l' allestimento del Museo dei Bronzi di Riace a Reggio Calabria.  Cosa ci facessero quei due nell' ufficio del capo del Dap se lo sono chiesti i pm di Potenza. E visto che Basentini aveva fatto partecipare all' incontro anche l' architetto Barletta che cura gli appalti del Dap, glielo avrebbero chiesto in quel lungo colloquio. Lui avrebbe minimizzato, sostenendo che i lavori nelle carceri vengono affidati dal ministero delle Infrastrutture. «Però - sottolinea Giletti - dopo il decreto Semplificazione anche il Dap può bandire gare». A Palamara Basentini inviò un messaggio: «Luca, ho saputo che oggi la Commissione proporrà Curcio ahimè. Non si riesce a fare proprio nulla per D' Alessio?». «Purtroppo è così», fu la risposta di Palamara. E infatti Curcio ora indaga su quel giallo.

Non è l'Arena, Luca Palamara confessa: "Non posso più dire bugie. Correnti, come funziona la magistratura in Italia". Libero Quotidiano l'1 giugno 2020. Certo, può sembrare il segreto di Pulcinella. Ma sentirlo dire da un magistrato, da Luca Palamara nel caso, fa sempre un certo effetto. Siamo a Non è l'Arena di Massimo Giletti, dove va in onda l'intervista esclusiva al magistrato travolto dalle intercettazioni che, parimenti, stanno travolgendo il Csm. Si parla di magistratura, o meglio delle correnti all'interno della magistratura, da sempre sospettate di decidere i destini della giustizia. Circostanza che Palamara, messo all'angolo da intercettazioni inequivocabili, non può che confermare: "Non ho inventato io il sistema delle correnti - premette -. Identificare me come il male assoluto è un'operazione che fa comodo a qualcuno. Il mio ruolo era quello di mediare all'interno delle correnti", sottolinea. Ma non è finita, perché poi Palamara è ancor più esplicito: "Il sistema premia le correnti. Oggi le bugie non le posso più dire - capitola -. Il sistema delle correnti penalizza chi non appartiene a nessuna di queste. Sono una scorciatoia, non lo si può negare", conclude Palamara. Capito come funziona la magistratura in Italia?

Non è l'Arena, Luca Palamara su "Salvini merda": "Ho sbagliato, ma frase decontestualizzata". Libero Quotidiano l'1 giugno 2020. Che coraggio, Luca Palamara. Per la prima volta in tv, il magistrato ha dato la sua versione dei fatti a Non è l'Arena di Massimo Giletti, su La7 domenica 31 maggio. Che coraggio, perché ha spiegato le frasi su Matteo Salvini, definito nelle intercettazioni una "merda" da attaccare anche se ha ragione, affermando: "Su Salvini ho usato un'espressione impropria, non volevo offenderlo. Ma quella frase non rispecchia fedelmente il pensiero, è decontestualizzata, volevamo tutelare ul pm che indagava". E ancora, aggiunge: "Non sono io il male assoluto. Potrebbe far comodo a qualcuno pensarlo. Sono un uomo delle istituzioni e ho la toga nel cuore". Dunque, Palamara tra le righe avanza una sorta di ipotesi del complotto, sottolineando che "chi ha attuato il distanziamento da me si è salvato". Quindi, Palamara nega di avere fermato la corsa di Nino Di Matteo a super-procuratore antimafia: "Il sistema di correnti si accordò su nomi diversi e il plenum ratificò, una sorta di manuale Cencelli". Il magistrato aggiunge che "Il sistema premia chi appartiene alle correnti e negare che le correnti rappresentino una scorciatoia significa negare la realtà", ammette. Non si sottrae neppure alla domanda sulle cene che ebbe con Luca Lotti: "Ho sottovalutato che fosse indagato", ha concluso Palamara.

Caso Salvini, Palamara in tv: "I pm sono sensibili ai migranti". L'ex consigliere del Csm scoperchia il "sistema della magistratura" dopo lo scandalo: "Non ero l'unico a mediare..." Michele Di Lollo, Lunedì 01/06/2020 su Il Giornale. È, nel bene o nel male, l’uomo del momento. Luca Palamara, ex presidente dell’Anm ed ex consigliere del Csm ha dominato le cronache delle ultime settimane. La stampa gli ha dedicato intere pagine. I commentatori politici ne hanno fatto un protagonista da talk show. E addirittura la piattaforma internet, YouTube, ha fatto il pieno di contatti con i suoi video. E così è stato invitato al programma televisivo "Non è l’Arena", la trasmissione di La7 condotta da Massimo Giletti. Qui Palamara affronta i temi più caldi dello scandalo che sta devastando la magistratura italiana. In diretta tv dice la sua sulle chat del suo telefono rese pubbliche nelle ultime settimane e svela le logiche delle correnti all’interno del Csm e dell’Anm. Racconta il contenuto delle 60mila pagine di intercettazioni e non accetta di essere il capro espiatorio di tutto questo disastro. L’agnello sacrificale di un sistema correntizio che non funziona: il mercato delle nomine. Risponde pure alle domande di Giletti sulla Tangentopoli dell’ordine giudiziario (come l’hanno definita). "Sono qui perché ho il dovere di chiarire tutto. Non ho inventato io le correnti - dice Palamra -. Essere identificato come male assoluto può fare comodo a qualcuno. Io mediavo tra le singole correnti dell'Anm. Non esisteva solo un unico Palamara, esistevano tanti mediatori. Mi chiamavano tantissime persone, avevo una funzione di rappresentanza, ero diventato una figura di riferimento per molti colleghi, ma non per fare cose illecite. E questo ha partorito nomine di magistrati di assoluto livello. Tutti erano frutto di un accordo". L’ex presidente dell’Anm viene incalzato dal conduttore per scoperchiare il vaso di Pandora e fa sapere che "i posti di procuratore della Repubblica sono molti ambiti, sono posti di potere. È vero che il sistema delle correnti penalizza chi non vi appartiene. Negare che le correnti siano una scorciatoia è una bugia. Le correnti della magistratura nel Csm hanno un peso preponderante. Il politico dall’esterno non può incidere sui magistrati, ma questo sistema favorisce una commistione". Questo è un sistema - e Palamara lo ripete più volte nel corso dell'intervista - che ha caratterizzato la magistratura. Quando ci sono tanti curricula diventa difficile scegliere. Ma Palamara spiega che questo non vuol dire demonizzare tutto: "Nei posti più importanti ci sono le persone più importanti. Molti magistrati che sono fuori dai contatti (dalle correnti) viene penalizzato. È il carrierismo sfrenato che ha portato a questo". Gli accordi, quindi, erano fisiologici. Giletti, poi, introduce il discorso "politica". "Ha incontrato Luca Lotti?", chiede il conduttore. "L’ho conosciuto sottosegretario alla presidenza del Consiglio - ammette - Non posso negare le cene. Da parte mia c’è stata una sottovalutazione. Mi sono ritrovato da inquirente a indagato. Ma non mi sono mai sentito onnipotente. La mia attività è stata sempre un’attività di aiuto ai colleghi". Con Pignatone c’è stato un buon rapporto, racconta. Poi alcune cose lo hanno deteriorato. Stesso discorso con Nino Di Matteo. "Io ricordo Di Matteo quando si presentò all’Anm (corrente Unicost). In poco tempo è diventato un pm importante. La storia, per chiarirci, è che non è stato Palamara a fare fuori Di Matteo dall’antimafia nel 2016. Non sono un suo nemico. È uno degli aspetti deteriori del correntismo", dice. Capitolo Matteo Salvini e qui le cose sono tante da dire. "È uscita l’espressione va attaccato, ma è una parola che va circostanziata. È stata un’espressione frettolosa. C’era un dibattito interno alla magistratura molto forte. Ho detto quella frase perché volevo difendere i magistrati. Facevamo quadrato contro la politica. Quello dell'immigrazione è un tema particolarmente sensibile nella magistratura ed è vero che sul tema ci fosse un particolare dibattito politico all'interno. I magistrati andavano tutelati", continua. "La politica delega molto alla magistratura – osserva Palamara - ma così i problemi non si risolvono". Perché Francesco Basentini al Dap invece di Di Matteo? "Basentini è stato sempre vicino alla mia corrente". "Ma come ha fatto a dirigere il Dap?", chiede Giletti. "Non posso dirlo. Non lo so". Palamara risponde, ma qualche mistero su questo scandalo resta. Uno spazio viene dedicato a Piercamillo Davigo, che solo pochi giorni fa aveva attaccato l’ex presidente dell’Anm in tivù. "Posso dire che ho sempre avuto rispetto nei suoi confronti", replica però Palamara. Infine, c'è posto anche per il capitolo vip (come le intercettazioni che riguardano Raul Bova): "Molte intercettazioni tramite trojan hanno travolto tantissime questioni personali. Chi mi ha frequentato in quel periodo è rimasto vittima del virus"." Per chiudere, che cosa ha sbagliato Palamara?", chiede Giletti. "Nella vita si può sempre sbagliare. Ma prima di tutto deve venire il bene della magistratura", conclude.

Palamara in tv: "La politica non incide sulle nomine del Csm". Pubblicato domenica, 31 maggio 2020 da La Repubblica.it L'ex consigliere del Csm, indagato per il cosiddetto "mercato delle toghe", è stato ospite di Massimo Giletti a "Non è l'Arena". "Voglio sfatare che il politico dall'esterno sia in grado di incidere sul procuratore di turno". Così l'ex consigliere del Csm Luca Palamara, indagato per il cosiddetto "mercato delle toghe", nel corso di una lunga intervista alla trasmissione di La7 "Non è l'Arena". "Sono qui perchè ho il dovere di chiarire. Mi sento e sono uomo delle istituzioni, amo la magistratura, porto la toga nel cuore", ha sottolineato. Quanto all'accusa che gli veniva mossa in origine, nell'inchiesta di Perugia, di aver preso 40 mila euro per facilitare una nomina, Palamara ha risposto: "L'accusa originaria è caduta. Gli stessi pm l'hanno fatta cadere nella fase delle indagini preliminari. Il gip ha testimoniato che non c'è nessun atto contrario ai doveri d'ufficio". Nel botta e risposta con Massimo Giletti, l'ex consigliere del Csm ha affrontato gli argomenti principali al centro del caso sul "mercato delle toghe". "Non ho inventato io il sistema delle correnti, quindi identificare me come male assoluto è un'operazione che potrebbe far comodo a qualcuno", ha detto Palamara. A chi fa comodo, "questo non lo dico", ha aggiunto e poi ha spiegato: "Si parla di una rete di Palamara che arriva dappertutto, più semplicemente il mio ruolo era mediare all'interno delle singole correnti, e il Csm è il luogo dove necessariamente occorre mediare per nominare un determinato dirigente di un ufficio". Un sistema "che oggi si sta demonizzando ma che ha prodotto Melillo a Napoli, Gratteri a Catanzaro, Greco a Milano, il fior fiore degli inquirenti in Italia". E ancora: "Il nostro sistema penalizza chi non appartiene alle correnti della magistratura. Il sistema premia chi appartiene alle correnti. Mi chiamavano tantissimi colleghi, non per il compimento di atti illeciti. Ma perché ero in grado di mediare". "Non c'era la volontà di offendere Matteo Salvini", ha detto per chiarire il contenuto di una chat con un collega nella quale aveva scritto "va attaccato", riferendosi al leader della Lega. Palamara ha spiegato che i consiglieri del Csm volevano tutelare i magistrati di Agrigento attaccati per aver indagato l'allora ministro dell'Interno per il caso della Diciotti. Quanto alle frequentazioni con Luca Lotti, ai tempi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Palamara ha ammesso: "Con Lotti ho commesso un errore di sottovalutazione. Ho sottovalutato il suo ruolo con la procura di Roma". Sul caso è intervenuto negli scorsi giorni il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, esprimendo "grave sconcerto e riprovazione per quanto accaduto".

Palamara: «Il sistema delle correnti penalizza chi non ne fa parte». Il Dubbio l'1 giugno 2020. L’ex consigliere del Csm e pm romano, ora sospeso, a “Non è l’Arena”: «Frase su Salvini? Mi dispiace, ma è stata decontestualizzata». «Non ho inventato io il sistema delle correnti, quindi identificare me come male assoluto è un’operazione che potrebbe far comodo a qualcuno». A dirlo, ospite di “Non è l’arena” su La7, Luca Palamara, pm romano, ora sospeso, ed ex Consigliere del Csm indagato a Perugia. A chi fa comodo, «questo non lo dico», ha aggiunto Palamara, che poi ha spiegato: «Si parla di una rete di Palamara che arriva dappertutto, più semplicemente il mio ruolo era mediare all’interno delle singole correnti, e il Csm è il luogo dove necessariamente occorre mediare per nominare un determinanti dirigente di un ufficio». Un sistema «che oggi si sta demonizzando ma che ha prodotto Melillo a Napoli, Gratteri a Catanzaro, Greco a Milano, il fior fiore degli inquirenti in Italia». «Ho anticipato il Coronavirus: chi ha attuato il distanziamento sociale con me si è salvato», ha sottolineato, spiegando che dalle accuse si difenderà in aula con tutti i mezzi che ha a disposizione. «Si è affermato il carrierismo» all’interno del quale «il nostro sistema delle correnti penalizza chi alle correnti non appartiene», ha aggiunto. «Le correnti togate del Csm hanno il peso preponderante – ha spiegato  -, la politica dall’esterno, quindi non parlo alla corrente laica del Csm, ha poca speranza di riuscita senza una convergenza all’interno del Csm. Voglio sfatare l’idea che il politico dall’esterno è in grado di incidere sul procuratore di turno». Subito dopo Palamara ha evidenziato che «la vicenda Falcone-Meli rappresenta ancora lo spartiacque delle nomine», vale a dire se «premiare l’anzianità oppure il merito». Infine ha chiosato: «Mi chiamavano tantissime persone perché avevo una funzione di rappresentanza» ed «ero diventato una sorta di riferimento per molti colleghi, ma non per il compimento di atti illeciti, ma perché attraverso la mi persona si riteneva potesse esserci la mediazione necessaria a smussare gli angoli». «Non c’era nessuna volontà di offendere Salvini» e comunque quella frase «va circostanziata» mentre «si vuole sintetizzare in maniera frettolosa un ragionamento. Quella è una frase decontestualizzata» mentre da altre chat ne emergono altre di segno opposto, ha poi sottolineato, aggiungendo che «nella magistratura associata» il tema dell’immigrazione è sensibile. «Per quanto riguarda l’onorevole Lotti, avevo sottovalutato il suo ruolo e la sua posizione nei confronti della procura di Roma, ritenendo che la stessa fosse totalmente definita in quanto già era stato fatto il rinvio a giudizio», ha poi spiegato. «Mai e poi mai è emersa un’attività di dossieraggio nei confronti dei colleghi della procura di Roma», ha aggiunto Palamara, «ma da parte mia c’è stata una sottovalutazione» dovuta a «un forte stress emotivo ed emozionale di quel periodo». Poi Palamara ha negato di sentirsi «onnipotente», spiegando di essersi sempre messo «al servizio dei colleghi». Più in là, a proposito della bocciatura di Di Matteo al Csm nel 2016, ha precisato: «Smentisco categoricamente di essere un nemico di Di Matteo», per poi aggiungere: «La nomina fu ratificata dal plenum, non fu una nomina di Palamara».

La versione di Palamara: «Le nomine? Una sorta di manuale Cencelli…». Simona Musco su Il Dubbio il 3 giugno 2020. Secondo il magistrato indagato a Perugia, gli accordi sono «fisiologici per individuare una persona». E le chat – 60mila in totale – rappresentano solo una piccola parte della verità, sintetizzata alla meno peggio, a volte decontestualizzata, banalizzata. Le nomine seguono la logica del manuale Cencelli: se appartieni ad una corrente fai carriera, altrimenti ti tocca sgomitare o essere talmente bravo da non poter rimanere fuori. Si potrebbe riassumere così l’intervista di Luca Palamara a Massimo Giletti di domenica sera. Con la pacifica ammissione dell’esistenza di un metodo interno alla magistratura, che dal 2006 si sarebbe ammalata di «carrierismo», portando alle degenerazioni che oggi rendono inevitabile una riforma del Csm. Palamara tenta di mettere ordine nella vicenda, non un sistema di corruzione – l’accusa è caduta – ma comunque un sistema, che determina le sorti delle procure. La precisazione è d’obbligo: ai posti di vertice, afferma Palamara, ci finiscono comunque i più bravi. Quindi i cittadini possono stare tranquilli. Ma se i più bravi sono fuori dalle correnti ed estranei alla loro logica, allora la salita è più faticosa, se non impossibile. «Mi sento e sono uomo delle istituzioni, amo la magistratura, porto la toga nel cuore», esordisce l’ex consigliere del Csm, ex presidente di Anm e pm sospeso. «Non ho inventato io il sistema delle correnti, identificare me con il male assoluto è una posizione che potrebbe far comodo a qualcuno» ma non vera, ripete. Non fa i nomi di coloro che avrebbero potuto trarne vantaggio, ma la cosa rimane sullo sfondo. Anche perché Palamara spiega un meccanismo comune a tutte le correnti: rivolgersi al proprio referente al Csm per ottenere un posto, un ruolo dirigenziale, una promozione. Una storia non certo nuova, aggiunge. «Il mio ruolo era quello di mediare all’interno delle singole correnti, il Csm è il luogo dove necessariamente occorre fare una determinata mediazione per nominare un dirigente di un ufficio. Oggi si sta demonizzando tutto questo – sottolinea -, però vorrei far notare che questo sistema ha prodotto Francesco Greco a Milano, Gianni Melillo a Napoli, Nicola Gratteri a Catanzaro, Giuseppe Amato a Bologna. Stiamo parlando del fior fiore degli inquirenti in Italia», che Palamara usa come scudo a garanzia della bontà delle sue scelte. La politica, però, non c’entra nulla: «voglio sfatare questa idea che il politico dall’esterno è in grado di incidere sul procuratore di turno», giura, è solo il Csm a decidere, nella stanza 42, dove avviene la mediazione. E Luca Palamara «è parte di un organo collegiale, ipotizzare che sia solo Luca Palamara a far convergere tutto verso un’unica situazione sicuramente è un’operazione che oggi dà una falsa rappresentazione della realtà». Una realtà che passa attraverso uno snodo cruciale: la riforma del 2006- 2007, che stravolse la magistratura, portando all’introduzione del carrierismo. «I posti, soprattutto quello di procuratore, sono molto ambiti, perché sono posti di potere», aggiunge. Insomma, tutto ruota, in definitiva, attorno a quello. «Negare che le correnti siano una scorciatoia – sottolinea – significa dire una bugia e oggi io le bugie non le posso più dire». C’erano «tanti Luca Palamara», tanti mediatori, ma «dire che è un mercato delle vacche non risponde alla realtà». Gli accordi sono «fisiologici per individuare una persona». E le chat -60mila in totale – rappresentano solo una piccola parte della verità, sintetizzata alla meno peggio, a volte decontestualizzata, banalizzata. Come la famosa chat con l’invito ad attaccare l’allora ministro Matteo Salvini, al quale Palamara ha già chiesto scusa. «C’erano altrettanti messaggi di segno opposto», dice per smarcarsi, pur riconoscendo l’inadeguatezza di quel linguaggio. L’intento, spiega, era difendere la magistratura, sotto attacco proprio per aver indagato Salvini. Che, dal canto suo, non gradisce la spiegazione. «Dichiarazioni surreali – taglia corto – è urgente una riforma vera della Giustizia». Giorgia Meloni definisce «gravissime» le parole di Palamara, chiedendo una riforma sui criteri composizione del Csm e dimissioni dei magistrati coinvolti nello scandalo». E Maurizio Gasparri avverte: «non daremo tregua a questa gente».

Luca Palamara a Porta a porta, Bruno Vespa lo processa e lo inchioda: come fa un leghista ad andare sereno davanti a un magistrato? Libero Quotidiano il 04 giugno 2020. Bruno Vespa mette sotto torchio Luca Palamara a Porta a porta. Il magistrato al centro dello scandalo intercettazioni va in studio a Raiuno e mette in scena una a tratti grottesca autodifesa totale. Il padrone di casa, però, ribatte colpo su colpo mettendo in evidenza le contraddizioni del pm, le storture del sistema e gli scivoloni "politici" che emergono dalle chat. A Vespa basta una sola domanda, in fondo, per inchiodare Palamara: come fa un militante della Lega ad andare sereno dinanzi ad un magistrato?". L'ex presidente dell'Anm e membro del Csm parla di "disagio" e "senso di angoscia" per i magistrati estranei al sistema delle correnti, poi però difende a spada tratta il proprio ruolo-chiave in quel sistema: "Le correnti esistono dagli anni Settanta in magistratura. È l’organizzazione interna che i magistrati si sono dati. Notoriamente nascono come un fenomeno di pluralismo culturale, soprattutto negli anni Settanta con due origini molto marcate: un’idea corporativista e una più aperta al sociale e più progressista. Nel corso del tempo sono diventate strumenti di potere. Tutto ciò che avviene all’interno della magistratura passa attraverso le correnti. Si va al Csm e all’Anm se si è indicati dalle correnti. Nel mio Csm ci fu una sfida: quella di mettere ai vertici degli uffici giudiziari più importanti i più meritevoli e penso che su questo l’obiettivo è stato raggiunto. Dove il sistema non funziona è sulle altre situazioni: come si accede in Cassazione, ai posti semidirettivi, ad esempio... Lì è vero, chi non fa parte di correnti è penalizzato". Bella scoperta, tant'è vero che Vespa lo incalza: "Lei però ha messo un amico suo, Riccardo Fuzio, nel ruolo più importante, quello di pg della Cassazione: "Sceglierlo al posto di Giovanni Salvi fu una scelta contrastata e difficile - si arrampica sugli specchi Palamara -. Ci fu un accordo che si strinse con le correnti di destra. Fu una scelta di campo molto coraggiosa e forte". Il capolavoro arriva sulla parola fatidica: "Pensa alle dimissioni?", chiede Vespa. "No, amo la magistratura, la porto nel cuore, conto di poter chiarire tutto". 

Anna Maria Greco per “il Giornale” il 4 giugno 2020. Per la seconda volta, da Bruno Vespa dopo Massimo Giletti, Luca Palamara va in tv per raccontare la sua versione dello scandalo che ha travolto, con lui, tutta la magistratura. Chiede scusa, non solo sul sistema delle nomine correntizie ma anche sull' uso politico di inchieste e intercettazioni. Vuole ribaltare il tavolo, insinuare sospetti sull' origine dell' inchiesta di Perugia e sull' uso del Trojan «a intermittenza» che ha ascoltato le sue conversazioni, far tremare chi condivideva con l' ex presidente dell' Anm e poi consigliere del Csm (ora sospeso) la spartizione delle poltrone come l' orientamento delle indagini dei pm per colpire leader di governo, come recentemente Matteo Salvini e ben prima Silvio Berlusconi. «Crescendo s' impara e l' ho scontato sulla mia pelle, per la legge del contrappasso», dice a Porta a Porta, quando Vespa gli chiede della sua campagna antiberlusconiana e del peso delle intercettazioni per mettere alle strette il Cavaliere. Il conduttore gli fa vedere un filmato del 2011, in cui gli contesta duramente proprio la strumentalizzazione di certe conversazioni, scelte e pubblicate per colpire questo o quel politico. E lui, che oggi si trova nei panni degli antichi avversari con tutte le chat sbattute sui giornali, in poche parole ammette di essersi ricreduto sul circuito mediatico-giudiziario. «Che ci sia un problema mediatico per le inchieste se lo dicessi lo direi riferito a me. Ma potrei citare Luigi Ferraioli, che nel 2012 denuncia le storture di un processo che vede i pm protagonisti e la diffusione di carte prima che siano state notificate agli indagati. Questo non è più un processo penale ma un processo che si svolge in altra sede». Ai tempi caldi del leader di Forza Italia a Palazzo Chigi Palamara era presidente del sindacato dei giudici, tra il 2008 e il 2012, come capo della centrista Unicost che si era alleata con la sinistra di Area e Giuseppe Cascini era segretario. Da poco le correnti nate negli anni '70 sono cambiate, spiega Palamara, da «fenomeno di pluralismo culturale», con «un' idea corporativista e una più aperta al sociale e più progressista, sono diventate strumenti di potere», così «si va al Csm e all' Anm se si è indicati dalle correnti» e gli altri sono «penalizzati» su tutte le nomine. È anche una reazione alla riforma Castelli, con la gerarchizzazione delle procure che ha dato più potere ai capi, al contrario delle intenzioni. Servono amici ai posti giusti e le toghe accantonano il criterio dell' anzianità per nascondere dietro al merito una maggiore discrezionalità di scelta. Il mea culpa di Palamara è esplicito. «Provo disagio e un senso di angoscia, non solo verso le persone comuni ma verso i tanti magistrati che ogni mattina si alzano per lavorare e sono totalmente estranei al sistema delle correnti. È il sistema delle correnti, a iniziare dal sottoscritto, che deve chiedere scusa». Però, lui che è in attesa di un rinvio a giudizio e di un processo disciplinare, dice di non volersi dimettere. «No, amo la magistratura, la porto nel cuore, conto di poter chiarire tutto». Ma per lui l' inchiesta qualche cosa di strano ce l' ha. «I fatti dicono che ci sono state anomalie sul funzionamento e intermittenze del Trojan stesso». Sistema spia che giustificato da un' accusa di corruzione già caduta, per il pm romano, e che non funziona in certe occasioni, come la cena del 9 maggio 2019 per la pensione di Giuseppe Pignatone, procuratore di Roma. E sull' inchiesta relativa alla Banca Etruria, con la famiglia di Maria Elena Boschi, allora e tuttora fedelissima di Matteo Renzi, nessuna ammissione: «Non ho mai fatto favori a nessuno».

Il sistema delle correnti fa orrore se boccia Di Matteo ed è virtuoso se premia Gratteri, ma è lo stesso. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 3 Giugno 2020. Parte malissimo, come d’altronde avevamo preventivato, la “riforma del Csm” che il Governo sta approntando sulla scia di quanto emerso, nell’ostentato stupore ipocrita dei più, dalla indagine della Procura di Perugia. Non poteva essere diversamente. Se ci si ostina a non voler vedere e comprendere ciò che emerge davvero dalla pesca a strascico del trojan installato nel telefono di uno dei magistrati più in vista e più influenti della governance associativa e istituzionale della Magistratura italiana, il risultato non potrà che essere il solito intervento gattopardesco, che nulla cambia ed anzi, in questo caso, addirittura cambia in peggio. Ha ben ragione Luca Palamara quando mette subito in chiaro, nella sua recente intervista televisiva, che quel “sistema delle correnti”, un sistema condiviso e praticato dalla intera magistratura italiana, ha insediato tutti, ma proprio tutti i vertici degli uffici giudiziari italiani. Non è che il sistema fa orrore se non nomina Di Matteo alla Procura anti-mafia, ed è virtuoso se nomina Gratteri alla Procura di Catanzaro: è lo stesso nell’un caso e nell’altro, prendere o lasciare. O dobbiamo immaginare che la nomina del dott. Davigo a Presidente di Sezione della Corte di Cassazione sia avvenuta in virtù di una epifania dello Spirito Santo? Se ad una carica concorrono più magistrati con profili di carriera grosso modo comparabili, la scelta esprimerà necessariamente una opzione “politica”; altrimenti si faccia un test attitudinale, e chi fa più punti vince. D’altronde, qualunque libera associazione di persone si articola in correnti (di pensiero o di interessi, non importa), una inerzia semplicemente ineliminabile. Ora si vuole tornare a valorizzare l’anzianità, ma non fu questa la ragione per la quale si gridò allo scandalo per la scelta di Meli anziché di Giovanni Falcone? Il Ministro Bonafede pensa di risolvere la questione modificando il sistema elettorale. Ci dovrebbe spiegare allora cosa lo autorizzi a pensare che l’abolizione del collegio unico nazionale indebolisca il peso delle correnti, ma non lo rafforzi in modo decisivo il ballottaggio al secondo turno. Se si vuole affievolire il dominio correntizio, bisogna semmai rafforzare, non demagogicamente indebolire, la presenza della componente non togata del Consiglio, che per inciso risulta, e non a caso, totalmente assente ed ininfluente nelle dinamiche scoperchiate dal trojan. Parificare il numero dei togati e dei laici, eccola una soluzione sensata. Ma la magistratura italiana la aborre, dando fiato alle trombe della immancabile, pretestuosa difesa della “indipendenza della Magistratura”, che in verità non ha dato di sé una prova commendevole, sciamando senza freni tra ristoranti notturni e cene organizzate con geometrica potenza politico-giudiziaria. Ma da questo punto di vista la magistratura italiana, certamente nei suoi vertici politici ed istituzionali, ma anche nel consenso elettorale che la sorregge, è irredimibile, e come se niente fosse invoca, sempre in nome della famosa sua indipendenza, “l’auto-riforma”, che significa una riforma scritta dal legislatore sotto sua dettatura. D’altronde, l’idea è quella: il Parlamento sarà pure democraticamente eletto, ma è popolato da attentatori della indipendenza della magistratura: giù le mani dagli “eletti” (nel senso questa volta mistico del termine). La soluzione del problema, caro Ministro, sta altrove. Quello disvelato dal trojan è lo spettacolo di un potere divenuto incontrollabile, irresponsabile, onnivoro. Una Procura della Repubblica, si dice, vale un Ministero. Errore, molto ma molto di più! Una Procura può fare e disfare Governi, Giunte regionali, Sindaci, partiti politici, Pubbliche Amministrazioni, aziende pubbliche e private, solo iscrivendo – o non iscrivendo – nel registro degli indagati le persone giuste. Nella cultura giustizialista di questo Paese la giurisdizione si esaurisce nella indagine, anzi nemmeno, nella ipotesi di indagine. La sentenza, quella del giudice, quella che ci dirà infine se l’indagine fosse giusta o sbagliata, fondata o infondata, non interessa a nessuno, ed anzi quando assolve induce al sospetto. Non conta nulla il giudice, in questo Paese. Conta il Pubblico ministero, ed infatti i magistrati italiani (contenti loro, verrebbe da dire) eleggono da sempre ai propri vertici i Pubblici Ministeri, che pure rappresentano il 20% scarso dell’elettorato togato, i quali in tal modo governano la giurisdizione, orientando le nomine ai vertici degli uffici, condizionando il potere disciplinare, decidendo i distacchi dei fuori ruolo presso l’esecutivo (ministero di Giustizia in primis). Perciò la soluzione è una sola: separazione delle carriere tra Pm e Giudici, doppio Csm, fine dei distacchi presso l’esecutivo. Esattamente le cose che questo Governo non farà mai, e contro le quali la magistratura italiana combatterà la partita della vita. In nome della propria indipendenza, naturalmente.

Piccini e picciotti, piddini e pizzini. Silenzi e parole del compagno Palamara. Francesco Storace de Il Secolo d'Italia lunedì 1 giugno. Per Zingaretti il compagno Palamara è molto meglio di Mattia Feltri. Ci ha fatto fare le ore piccole ed è riuscito a non fare neppure un nome della politica. Il direttore di Huffington Post è molto più coraggioso col Pd e ci ha raccontato di piccini e picciotti, di piddini e pizzini. Mentre Luca Palamara è stato ospite ieri sera di Massimo Giletti e non ha detto neppure una parola delle sue trame col Pd. Magari, se Zingaretti avrà visto la trasmissione – l’ha vista, l’ha vista…. – si sarà interrogato su quanto sia inutile dilettarsi sul Corriere della Sera a sproloquiare sul piano di rinascita nazionale (che fantasia, lo stesso linguaggio di Licio Gelli) senza scrivere una sola parola di magistratura rossa da cancellare. Però, tutto sommato se l’è cavata. Né Palamara né Giletti hanno tirato fuori i nomi rossi e grossi dello scandalo delle intercettazioni sulle manovra nella magistratura. Ma sull’omertà di stampa che non può durare a lungo Zingaretti non si illuda. Il massacro – motivatissimo – è appena cominciato. Da sinistra. Con Mattia Feltri che sull’Huffington Post li ha fatto neri, quelli del Piddi’, che ha definito piccini piccini. “C’è un problema e Orlando, Zingaretti e Legnini fanno un po’ finta di niente. Ma il Partito democratico esprime il vicepresidente del Csm da sei anni e sta a Palazzo Chigi dal 2013”. Di più: “Il segretario Nicola Zingaretti, intervistato dalla Repubblica, alla domanda risponde che serve una stagione riformista, e auspica che in queste ore si affronti l’urgenza, e bibì e bibò. Il niente politico. Il niente strategico”. E ancora: “Il doppiopesismo, il collateralismo coi magistrati e le loro inchieste, il senso di superiorità, la grazia burbanzosa nel cascare dal pero, l’inclinazione a discutere della moralità altrui”. Un commento su Twitter tra i tanti: “Splendido articolo. E sono un elettore del pd da sempre”. L’articolo di Mattia Feltri pare abbia scatenato scenate autentiche al Nazzareno. E qualche amico garbato da quelle parti si trova sempre che ti spiffera tutto. Dicono che Zingaretti volesse stracciare in mille pezzi quanto aveva letto. Poi gli hanno spiegato che non si può fare con i media online. Ma nel Pd si litiga lo stesso. E si è sfogato duramente col suo vice Andrea Orlando, che da ex guardasigilli le conosce bene le storie del fantastico mondo di Luca Palamara. Ma anche se ogni tanto bipolareggia, Orlando ha buona memoria e non dimentica di aver sistemato più di qualcuno a via Arenula su input di Zingaretti. Ad esempio, la moglie di un importante pezzo da novanta della macchina regionale. (Dobbiamo ricordarci di parlarne prossimamente). Lite poi degenerata con Legnini per altre incredibili intercettazioni. “Bella figura ci hai fatto fare, e in Abruzzo hai pure perso”. Ancora parli, Nicola?, si perde come l’eco la frase pronunciata dall’ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura… Ovviamente, smentiscono sempre fino a che questa roba sarà confermata dalle prossime intercettazioni. Ma loro fischiano per aria. Proprio Zingaretti fa sempre così. Non vuole parlarne, non sia mai dovesse essere chiamato a giustificare una dozzina di milioni di mascherine. Ora il compagno Palamara non c’è più. Anche se va in tv e pure lui parla d’altro.

PALAMARA-GATE – CONGIURE, FESTE E VIAGGI DELLE TOGHE ROSSE CON LEGNINI: boss PD e vice di Mattarella al CSM. Fabio Giuseppe Carlo Carisio il 2 Giugno 2020 su Gospanews.net. Finalmente, dopo decenni di accuse vaghe o difficili da documentare, le cospirazioni delle famigerate Toghe Rosse vengono a galla per saziare quella sete di giustizia che arde nelle gole bramose di verità ancor più che in quelle affamate di vendetta politica. Ecco perché con questo reportage apriamo un nuovo ciclo d’inchieste sullo scandalo PalamaraGate che sta facendo perdere l’esigua credibilità alla magistratura italiana, violentata da una storia di infami depistaggi persino sulle stragi di alcuni giudici come Giovanni Falconi e Paolo Borsellino (meno lontani di quanto possa sembrare dagli scandali attuali come vedremo presto…). Uno stillicidio di intercettazioni ha spalancato il vaso di Pandora di corruzioni giudiziarie e losche trame tali da travolgere e lordare di tremendi sospetti persino il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), l’organo di governo e sorveglianza di quei giudici e pubblici ministeri che, come rammentato nell’altro articolo, hanno segnato la storia politica italiana negli ultimi 20 anni. Gli inviti a sciogliere tale istituzione lanciati dai partiti di opposizione al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, presidente di diritto del CSM, hanno sortito un suo ambiguo comunicato in cui di fatto allarga le braccia in un gesto di conclamata impotenza che appare ancor peggiore del suo già lungo e imbarazzante silenzio. Oggi, 2 giugno 2020, anziché la festa, bisognerebbe celebrare la morte della Repubblica Italiana, già nata sotto le cattive stelle di presunti brogli elettorali nel referendum per l’abrogazione della monarchia del 1946 e dell’Unità d’Italia perpetrata tramite la Spedizione dei Mille ordita dalla Massoneria Britannica (vedi articolo su Garibaldi). Non si può infatti parlare solo di “complotti” tra esponenti del Partito Democratico (PD) e magistrati in relazione alle ultime rivelazioni di un progetto per screditare Matteo Salvini, leader della Lega, in merito alla spinosa e delicatissima questione della nave Diciotti, epifenomeno simbolico di quell’emergenza migranti ormai epidemica da anni per le coste della penisola italica. Poiché Salvini era Ministro dell’Interno quando fu bersagliato attraverso un’inchiesta giudiziaria che lo costrinse a ricorrere all’immunità parlamentare suscitata da un attacco politico pianificato addirittura dall’ex vicepresidente del CSM Giovanni Legnini, già sottosegretario in due Governi PD, il nome tecnico di quel piano è “congiura” come ben ricorda l’enciclopedia Treccani. “Patto segreto, e per lo più confermato da giuramento, fra persone che s’accordano a rovesciare l’ordinamento di uno stato e chi lo rappresenta”.

Un intrico di messaggini privati tra politici e magistrati, intercettati dalla Guardia di Finanza nelle indagini per corruzione in atti giudiziari nei confronti del sostituto procuratore romano Luca Palamara, partorirono una presa di posizione del CSM contro Salvini per la sua decisione di ritardare lo sbarco dell’imbarcazione coi clandestini in seguito al quale scaturì l’inchiesta per sequestro di persona nei confronti dell’ex Ministro. Si salvò dal processo grazie all’immunità parlamentare ma così finì sotto “ricatto politico” degli alleati di governo del Movimento 5 Stelle tanto da indurlo alcuni mesi dopo a presentare una mozione di sfiducia contro il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Dopo la crisi Conte tornò al Governo, su incarico del presidente Mattarella, grazie agli stessi parlamentari dei 5 Stelle che si allearono con i Democratici del PD che avevano criminalizzato pubblicamente il Ministro dell’Interno per la gestione delle politiche migratorie. Tutto ciò sarebbe soltanto normale conflittualità politica se non fosse stato innescato da un componente del CSM come Legnini che avrebbe avuto il compito di vigilare sui comportamenti imparziali dei magistrati e invece pare essersi comportato come il direttore d’orchestra di una banda di toghe rosse, nonostante il suo ruolo. In qualità di vice presidente, infatti, è delegato per consuetudine a guidare il Consiglio Superiore della Magistratura dal Capo dello Stato che ne è presidente di diritto. Ancora più inquietante è ricordare (come profeticamente accennato nel precedente articolo prima di queste nuove sconvolgenti rivelazioni) che proprio il nome dell’ex vicepresidente dell’organismo di governo della magistratura è emerso nell’ambito di un’altra inchiesta culminata con addirittura l’arresto di due magistrati e che era un affiatato collaboratore di Palamara tanto da sceglierlo come compagno di viaggio per una missione ufficiale in Argentina…

IL PALAMARAGATE IN SINTESI. Nel maggio 2019 scoppia lo scandalo da noi ribattezzato PalamaraGate. Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (sindacato di categoria) grazie ai voti della sua corrente UNICOST, ex componente del CSM viene inquisito per corruzione in atti giudiziari perché sospettato dalla Procura di Perugia di aver ricevuto soldi e regalie per insabbiare l’inchiesta nei confronti di un imprenditore amico. Ma nell’ambito delle intercettazioni avviate dai militari del GICO (Gruppo Investigativo Criminalità Organizzata) della Finanza inoculando un trojan nel telefono di Palamara si scoprono cose ancora più gravi. Il magistrato, poi indagato e sospeso dalle funzioni senza stipendio, fece riunioni private con altri colleghi ed esponenti del Partito Democratico in cui si discusse su come pilotare le nomine in alcune Procure strategiche come Perugia (titolare dell’inchiesta su lui stesso) e Roma, dove è pendente un’indagine per favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio sull’ex ministro Luca Lotti, braccio destro dell’ex segretario PD Matteo Renzi, in relazione ad alcune soffiate su una maxi-inchiesta per tangenti nel CONSIP, la società governativa che gestisce gli appalti miliardari dell’amministrazione pubblica. Lotti è tra i protagonisti di quegli incontri in un hotel romano cui partecipò anche Cosimo Maria Ferri, giudice in aspettativa, ex sottosegretario col PD e oggi deputato in questo stesso schieramento. Palamara andò nel panico e cercò in ogni modo di avere anticipazione sui contenuti delle indagini a suo carico ed avrebbe ricevuto alcune “spiate” da autorevoli colleghi del CSM come l’allora Procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio e il consigliere Luigi Spina, entrambi indagati e indotti alle dimissioni come altri tre componenti dell’organismo dei magistrati (Fuzio in realtà chiese il prepensionamento). Un’ondata di fango travolse Palazzo dei Marescialli, sede del CSM, nel maggio scorso nonostante il tentativo del presidente Mattarella di elogiare il PG Fuzio per attenuare la portata dello scandalo. La vicenda si andò affievolendo anche perché la Corte di Cassazione si pronunciò sulle intercettazioni col trojan ritenendole utilizzabili nei confronti di Palamara ma non nei confronti dei coindagati per le rivelazioni dei segreti d’ufficio per i soliti cavilli giuridici all’italiana. A distanza di 12 mesi, però, il 22 aprile scorso, la Procura di Perugia ha depositato gli atti nei confronti del principale imputato per la notifica della chiusura delle indagini e, all’interno di essi, centinaia e centinaia di messaggi tra toghe rivelati in anteprima dal quotidiano La Verità. Tra i quali quelli sconcertanti di Legnini.

LE CHAT SCOTTANTI DI LEGNINI. «La prima chat intercettata riportata da La Verità è della sera del 24 agosto 2018. Legnini scrive a Palamara: “Luca, domani dobbiamo dire qualcosa sulla nota vicenda della nave. So che non ti sei sentito con Valerio (il consigliere del Csm in quota Area Valerio Fracassi – ndr) Ai (Autonomia e indipendenza – ndr) ha già fatto un comunicato, Area (la corrente di sinistra delle toghe – ndr) è d’accordo a prendere un’iniziativa Galoppi idem (il consigliere del Csm Claudio Galoppi – ndr). Senti loro e fammi sapere domattina”» scrive l’agenzia ANSA in merito al caso della nave Diciotti per cui finì sotto inchiesta Salvini. Palamara risponde: “Ok, anche io sono pronto. Ti chiamo più tardi e ti aggiorno”. E Legnini: “Sì, ma domattina dovete produrre una nota, qualcosa insomma”. Un minuto dopo Palamara scrive a Fracassi: “hai parlato con Gio (Giovanni Legnini – ndr)?… che dici, che vogliamo fare?”. I due si danno appuntamento per l’indomani. A metà mattina sul cellulare di Palamara arriva questo messaggio Whatsapp (non si dice da chi): “Dobbiamo sbrigarci! Ho già preparato una bozza di richiesta. Prima di parlarne agli altri concordiamola noi”. Secondo quanto scrive La Verità a questo punto parte un giro di consultazioni per l’approvazione della bozza e nel pomeriggio del 25 agosto agenzie e giornali online battono la notizia che quattro consiglieri del Csm (Valerio Fracassi, Claudio Galoppi, Aldo Morgigni e lo stesso Palamara) chiedono che il caso Diciotti sia inserito all’ordine del giorno del primo plenum del Csm, sollecitando un intervento del Consiglio “per tutelare l’indipendenza della magistratura e il sereno svolgimento delle attività di indagine” a fronte di “interventi del mondo politico e delle istituzioni” che “per provenienza, toni e contenuti rischiano di incidere negativamente sul regolare esercizio degli accertamenti in corso”. Poco dopo, sempre secondo la ricostruzione de La Verità, Legnini dichiara che l’istanza sarà trattata nel primo comitato di presidenza, aggiungendo che “il nostro obiettivo è esclusivamente quello di garantire l’indipendenza della magistratura e il sereno svolgimento delle indagini e di ogni attività giudiziaria”. Una tesi smentita da un articolo del Primato Nazionale: «Come se non bastasse, riporta sempre La Verità, Legnini e Palamara, all’epoca dei fatti entrano in contatto anche direttamente con il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, che ha aperto il fascicolo su Salvini per sequestro di persona. “Carissimo Luigi ti chiamerà anche Legnini siamo tutti con te un abbraccio”, gli scrive Palamara. Immediata la risposta: “Grazie. Mi ha già chiamato e mi ha fatto molto piacere”».

LA REAZIONE DI SALVINI E MATTARELLA. Inevitabile la dura reazione del leader della Lega Matteo Salvini contro “le trame di Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm e sottosegretario di due governi a guida Pd, per far intervenire il Consiglio Superiore della Magistratura a supporto delle indagini sullo sbarco degli immigrati dalla nave Diciotti”. Nel precedente articolo, infatti, avevamo già riportato altre intercettazioni da cui emergeva la palese volontà di Palamara di attaccare l’allora Ministro dell’Interno che hanno indotto nei giorni scorsi Salvini e l’alto leader dell’opposizione di centrodestra Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, a chiedere lo scioglimento del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma il Capo di Stato Sergio Mattarella ha risposto con inconcludente diplomazia come riportato dall’ANSA: «Per quanto superfluo va chiarito che il Presidente della Repubblica si muove – e deve muoversi – nell’ambito dei compiti e secondo le regole previste dalla Costituzione e dalla legge e non può sciogliere il Consiglio Superiore della Magistratura in base a una propria valutazione discrezionale». «Per quanto gravi e inaccettabili possano essere considerate, sull’intera vicenda sono in corso un procedimento penale e procedimenti disciplinari e qualunque valutazione da parte del Presidente potrebbe essere strumentalmente interpretata come una pressione del Quirinale su chi è chiamato a giudicare in sede penale o in sede disciplinare» aggiunge la nota di Mattarella. La chiosa finale del Quirinale ventila il rischio di impunità per tutti in caso di azzeramento del CSM: «È appena il caso di ricordare che un eventuale scioglimento del Consiglio Superiore della Magistratura comporterebbe un rallentamento, dai tempi imprevedibili, dei procedimenti disciplinari in corso nei confronti dei magistrati incolpati dei comportamenti resi noti, mettendone concretamente a rischio la tempestiva conclusione nei termini previsti dalla legge».

PROPAGANDA PD TRA LE TOGHE ROSSE. «Si trattò di un intervento doveroso, che rientra nelle competenze del Csm, svolto esclusivamente a tutela dell’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato, e che rifarei esattamente negli stessi termini» ha replicato nei giorni scorsi Giovanni Legnini, confutando ogni complotto politico tra Dem e toghe ma scordandosi di quando nel 2016 era intervenuto per censurare un componente del CSM, l’ex Gip a Palermo Piergiorgio Morosini, che si permise di criticare il Referendum di Matteo Renzi per un «rischio di democrazia autoritaria». «Sono inaccettabili gli attacchi a esponenti di governo e parlamento. Noi pretendiamo rispetto per le nostre funzioni, ma per farlo dobbiamo prima di tutto assicurare rispetto ai rappresentanti dei poteri dello Stato» dichiarò allora Legnini a Repubblica prima di cambiare opinione, due anni dopo, per attaccare Salvini sul caso Diciotti in un contesto di cospirazione politica come emerge oggi da altre intercettazioni. Tra l’altro in una vicenda in cui ci fu un’aspra divergenza di vedute tra il pm Patronaggio che istruì la pratica e il procuratore competente per territorio che chiese il proscioglimento dell’allora ministro. «A sgretolare la difesa di Legnini è una chat in cui il consigliere del Csm, Nicola Clivio, appare titubante di fronte alla strategia dell’allora vicepresidente di Palazzo dei Marescialli. “Ma Giò (si riferisce a Giovanni Legnini ndr) si candida per Abruzzo. Sarebbe importante saperlo visto l’aria che tira”, chiede Clivio a Palamara il 24 agosto 2018. La risposta di Palamara non tarda ad arrivare: “Ancora incertezza”» scrive invece Il Giornale. «A quel punto Clivio ribatte: “Ok. Perché lui ci chiede di dire qualcosa sulla storia della nave e noi lo facciamo volentieri ma poi non si deve dire che lui comincia così la sua campagna elettorale. Chiaro lo schema?”. Palamara chiarisce meglio la situazione con due messaggi: “Esatto lo chiede a tutti anche a noi. Gli ho detto che ci devo riflettere Deve essere una riflessione di tutti”. E ancora: “Per farlo occorre: 1. Richiesta di tutti noi, 2. Coperta anche dai nuovi… Altrimenti la nostra diventa una cacchetta…”». L’avvocato Legnini, 61 anni, originario della provincia di Teramo (Abruzzo) è un compagno storico all’interno della sinistra essendo transitato attraverso tutte le trasformazioni dal Partito Comunista Italiano fino al PD da cui è stato nominato Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del Ministri nel Governo Letta (2013-2014) e Sottosegretario del Ministero dell’Economia nel Governo Renzi (2014), ruolo che ha però ricoperto per pochissimi mesi in quanto l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo fece entrare nel CSM come consigliere laico grazie al voto di ben 524 parlamentari. Il 30 settembre 2014 è stato quindi nominato vicepresidente con 20 voti a favore, 3 schede bianche, una nulla e una dispersa (voto ad altro candidato). Ha tenuto questo incarico fino al settembre 2018 quando ha ceduto il posto ad un altro collega del PD per poi candidarsi senza successo alla Presidenza della Regione Abruzzo. Sarà quindi nominato dal governo di sinistra nel ruolo attuale di Commissario per la Ricostruzione del Terremoto di L’Aquila. Dal momento dell’incarico al CSM diventa indipendente in politica ma, come provano le intercettazioni, rimane al centro degli intrighi tra toghe e Dem fino alla fine del suo mandato durante il quale esplodono sui media le varie indagini sui genitori dell’ex premier Matteo Renzi per bancarotte fraudolente e false fatturazioni in cui viene implicato un imprenditore finito in manette in un’altra inchiesta su giudici corrotti tra i cui atti comparirà ancora il nome di Legnini per una festa nel quartiere più sfarzoso di Roma.

LA FESTA AL PARIOLI COL PM POI ARRESTATO. «C’è un’inchiesta per corruzione in atti giudiziari che parte da Trani, passa per Firenze e torna di nuovo in Puglia. A Lecce. E da qui si proietta nelle stanze del potere: Palazzo Chigi e il Consiglio superiore della magistratura. L’indagine ha come protagonisti un magistrato, l’ex pm di Trani trasferito a Roma, Antonio Savasta, e un imprenditore, Luigi Dagostino, socio del padre dell’ex premier Matteo Renzi. Il reato ipotizzato è uno scambio tra i due: da una parte Savasta che ritarda un’indagine su Dagostino, dall’altra Dagostino che porta il magistrato dall’allora sottosegretario Luca Lotti, a Palazzo Chigi, e poi a una festa romana, ai Parioli, a cui partecipava il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini». Il racconto non giunge da un giornale di destra ma da uno di sinistra: Repubblica. Lo scrisse il 29 giugno 2018. Un anno prima che scoppiasse il PalamaraGate portando alle dimissioni di cinque membri del CSM e poi trascinandone altri nel fango dei sospetti con le rivelazioni di questi ultimi giorni sulle loro conversazioni inquietanti per uno stato democratico. «Nell’incartamento arrivato in Puglia c’è la ricostruzione di una storia cominciata tra il 2014 e il 2015, quando Savasta cerca un modo per farsi trasferire da Trani. E Dagostino, per il tramite di un avvocato barlettano amico di Savasta, Ruggiero Sfrecola, gli organizza due incontri che gli possono essere utili. Il primo a Palazzo Chigi, con l’allora potente sottosegretario alla Presidenza, Luca Lotti» riferisce ancora Repubblica in merito al pm poi trasferito a Roma, dove è stato arrestato per aver preso soldi anche da un altro imprenditore (Flavio D’Introno) per evitargli una condanna per usura. La Procura di Lecce ha chiesto per Savasta una condanna a 10 anni nel gennaio scorso durante il processo con rito abbreviato.

IL GIUDICE ARRESTATO PER L’AFFARISTA DEI RENZI. Della vicenda, sempre nel 2018, s’era già occupato il quotidiano La Verità, con un’intervista della giornalista Ilaria Proietti a Giovanni Legnini il quale aveva replicato indignato: «Sono molto arrabbiato per questa vicenda. Non solo per la mia onorabilità, ma soprattutto per il rispetto che si deve al Consiglio, la cui immagine di garanzia ed imparzialità in alcun modo può essere appannata. Ho evitato accuratamente in questi 4 anni qualunque incontro conviviale con magistrati sottoposti a procedimenti disciplinari o interessati a decisioni del Consiglio riguardanti la loro carriera. Ciò era un mio dovere perché del corretto funzionamento del Csm sono responsabile». Allora, però, non si erano ancora dimessi il procuratore generale Riccardo Fuzio e il consigliere Luigi Spina per rivelazione di segreto d’ufficio avendo spifferato al collega Palamara informazioni riservatissime sulle indagini a carico di quest’ultimo avviate dalla Procura di Perugia. Proprio in virtù del loro ruolo all’interno de CSM, interessato per i risvolti disciplinari della questione, i due magistrati erano venuti a conoscenza del fascicolo: ma non del trojan inoculato dagli investigatori della Finanza nello smartphone di Palamara che consentì di intercettare anche le confidenze di Fuzio e Spina mettendoli nei guai. Ciò ha assunto notevole gravità proprio perché negli incontri di Palamara per manipolare le nomine nella Procura di Roma comparve anche l’ex giudice Ferri, ora deputato Dem, e l’ex ministro Lotti, indagato per il caso CONSIP insieme al padre di Renzi che era segretario del PD che sostenne in Parlamento la nomina di Legnini a componente del Consiglio Superiore della Magistratura. L’incontro al Parioli con l’imprenditore Dagostino e il magistrato Savasta, entrambi poi arrestati, fu decisamente minimizzato dallo stesso Legnini come risulta dalle dichiarazioni riportate dal media locale Il Capoluogo.

«Si trattò di una cena in piedi a casa di un giornalista mio ex collaboratore, alla quale parteciparono una trentina di persone. In alcun modo sapevo della presenza né di Dagostino né del dottor Savasta. Non li conoscevo e nessuno mi aveva informato della loro presenza, altrimenti di sicuro non sarei andato. Non parlai con loro, se non per i convenevoli di presentazione. Lo stesso Savasta ha dichiarato al vostro giornale che lo salutai con freddezza». Il pm fu poi trasferito a Roma con provvedimento del CSM (delibera del Plenum del 18-1-2017) come da lui richiesto «al fine di rimuovere la eventuale situazione di incompatibilità» dopo una precedente dura istanza del Procuratore Generale di Cassazione, a sua volta poi inguaiatosi per aiutare Palamara. Va doverosamente precisato che a Legnini non è mai stata fatta alcuna contestazione né di carattere penale né disciplinare per quel convivio quantomeno inopportuno. Fino a prova contraria bisogna quindi credere che Legnini non avrebbe avuto fino ad allora una conoscenza diretta di Dagostino che invece era in strettissima confidenza con i genitori di Renzi al punto da coinvolgerli in un affare per un outlet per poi compensarli con una maxi-parcella per una consulenza da 160mila euro, ritenuta dall’autorità giudiziaria fittizia e pertanto attribuita a false fatturazioni che nell’ottobre 2019 sono costate loro la condanna a un anno e 9 mesi nel Tribunale di Firenze. Entambi futono citati anche negli atti per l’arresto di Savasta e di altri professionisti: «Secondo quanto contenuto nell’ordinanza, l’avvocato Sfrecola riceveva dall’imprenditore Luigi Dagostino, re degli outlet ed ex socio di Tiziano Renzi e Laura Bovoli, soldi da dividere con Savasta che stava appunto indagando per false fatturazioni relative proprio alle imprese di Dagostino e che avrebbe poi aggiustato le indagini a suo favore, commettendo “plurimi atti contrari ai doveri d’ufficio”» scriveva Il Fatto Quotidiano in relazione a quattro tangenti per un totale di 53mila euro. Ma ciò sarebbe ovviamente avvenuto a totale insaputa di Legnini che non si è mai confrontato con Palamara nemmeno sul caso di Lotti, in apprensione per la scelta del nuovo procuratore di Roma dove era pendente l’inchiesta sul Consip in cui è indagato. Ciò nonostante la stretta collaborazione che li portò ad andare insieme in Argentina per una missione di rappresentanza del CSM per una riunione col Ministro della Giustizia German Garavano presso l’Ambasciata d’Italia alla presenza dell’ambasciatore Teresa Castaldo, e alla Corte Suprema di Giustizia, dal Presidente Riccardo Lorenzetti. «La trasferta si è conclusa con la visita al “Consejo de la Magistratura del Poder Judicial de la Nacion” dove il Vice Presidente Legnini e i Consiglieri Morosini e Palamara hanno presentato i punti cardine dell’autoriforma del CSM, evidenziando i punti di contatto tra Consiglio italiano e argentino e hanno offerto un sostegno concreto nelle attività di formazione dei magistrati» recita il resoconto pubblicato il 29 settembre 2016 sul sito ufficiale di Palazzo dei Marescialli. L’esito di quell’autoriforma, com’è ormai tristemente noto, fu il PalamaraGate che ha indotto quattro componenti del CSM a dimettersi e il PG Fuzio al prepensionamento per le conseguenze dell’inchiesta su Palamara per corruzione in atti giudiziari e influenza illecita in relazione ad alcune nomine. «Era un magistrato molto influente ed era il capo di fatto di una corrente. Sulle decisioni importanti, spesso siamo stati in disaccordo. Ma io ho conosciuto un altro Palamara, non certo quello delle conversazioni che sono state rese pubbliche, che mi hanno sorpreso e amareggiato nei toni e nei contenuti» dichiara oggi Legnini nel tentativo di prendere le distanze da un’altra chat imbarazzante tra i due. Legnini lo ha infatti invitato ad attivarsi per “orientare la linea del gruppo” di Repubblica. «Vorrei contestualizzare – si difende arrampicandosi sui vetri Legnini in un intervista ripresa da Libero Quotidiano – Siamo al 29 maggio del 2019, Repubblica aveva raccontato i primi esiti dell’inchiesta di Perugia. Palamara si diceva oggetto di una sorta di congiura. E io sbagliai a credergli. Mi chiese come potesse far emergere la sua versione. Mi sembrava un uomo distrutto e mi dichiarai disponibile ad aiutarlo. Ma certamente ho usato una frase infelice». «Giovanni Legnini è un uomo di parte, che ha utilizzato il ruolo istituzionale di vicepresidente del Csm per aizzare i pm contro l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. È sconcertante quanto emerge dalle intercettazioni pubblicate da La Verità. A questo punto, Legnini lasci immediatamente il ruolo di commissario straordinario per la ricostruzione. Ha contribuito a demolire la credibilità del Csm, stia lontano dalle nostre regioni». Hanno invece scritto in una nota i parlamentari Riccardo Marchetti, commissario Lega Marche, Virginio Caparvi, segretario Lega Umbria, Francesco Zicchieri, segretario Lega Lazio e Luigi D’Eramo, segretario Lega Abruzzo. Ma alla fine, secondo il diretto interessato, sembra soltanto il festival delle frasi infelici. Peccato che di mezzo ci sono inchieste giudiziarie che interessano politici del PD, altre il loro avversario della Lega e altre ancora che coinvolgono magistrati pronti a sfoderare la loro anima da toga rossa, a trascorrere ore a studiare strategie per attaccare Salvini sui migranti o a riunirsi segretamente per pilotare le nomine nelle Procure che avevano in mano i fascicoli scottanti. In mezzo a questa bufera di scandali il vicepresidente del CSM, come pure il presidente Mattarella, non si accorse di nulla ed il 27 settembre 2018 lasciò l’incarico per fare posto al suo successore Davide Ermini, anche’egli avvocato, anch’egli ex deputato del Partito Democratico in una perfetta linea di successione politica interna all’organismo di sorveglianza sulle toghe, sempre più rosse. Ormai soprattutto di vergogna. Fabio Giuseppe Carlo Carisio

Quella rissa delle toghe in chat "Ius soli? Così vince la destra..." Luca Palamara intercettato dal trojan mentre scrive al magistrato Paolo Auriemma. Il capo della procura di Viterbo: "È una marchetta al Pd". Michele Di Lollo, Mercoledì, 03/06/2020 su Il Giornale. Il caso Palamara continua a far discutere. Dalle intercettazioni delle chat dell’ex capo dell’Anm si evidenziano dettagli anche su una questione prettamente politica: lo ius soli. I messaggi certificano quanto il pm si interessasse alla questione. Nelle conversazioni con il collega Paolo Auriemma (capo della procura di Viterbo) - scrive La Verità - si parla di ius soli, quella legge che dovrebbe garantire la cittadinanza a chi non ce l’ha: gli immigrati. Luca Palamara difende la scelta del Pd di puntare su questa legge, attaccando Auriemma che si dice contrario a un’eventuale sanatoria. "A Paolo, non solo contro Renzi, ora anche leghista! Eh no questo è troppo". Auriemma piccato replica: "Sei favorevole? Qual è la ragione politica?". Palamara risponde: "Una sola, integrazione". È il 2 luglio 2017. Da circa un mese il dibattito è molto acceso nei Palazzi della politica. Il 15 giugno, infatti, erano scaduti i termini per la presentazione degli emendamenti alla proposta di legge (spinta a tutta forza dalla sinistra) per il diritto di cittadinanza agli stranieri e, nei giorni in cui il trojan infilato dagli investigatori perugini nello smartphone di Palamara è attivo, sulla stampa non si parlava d’altro. Ma torniamo alle intercettazioni. Auriemma scrive: "Oggi il sacerdote leggendo la prima lettura di domani ha detto che il profeta Ezechiele era ospitato, ma nello stesso tempo dava qualcosa e non si limitava a chiedere. Integriamo a colpi di legge gente che mette il cappuccio alle donne? Che non le fa studiare? Che non ha avuto l’illuminismo. Prima si integrassero poi si vede. Dell’integrazione non gliene frega niente a nessuno è una marchetta del partito democratico che fa sapendo che ha perso voti per conquistare quelli dei genitori dei minori che sono cresciuti in Italia". Mancinetti replica: "Parole su cui riflettere...". Auriemma e Palamara anche in un’altra chat tornano sui temi di stretta attualità, come l’indagine per stragi di mafia del 1993. Silvio Berlusconi è indagato. Auriemma commenta: "Non bastava lo ius soli. Pure la strage per far vincere la destra. Con il contributo di Di Matteo". Palamara si interessa alla questione Berlusconi e chiede il nome del procuratore di Firenze: "Forse lo ricordi tu Paolo". Ma Auriemma gli risponde: "Non è colpa del procuratore di Firenze, ma di Palermo che ha mandato il fascicolo (Nino Di Matteo). Spero che il procuratore di Firenze affronti questa pagliacciata rapidamente". Posta nella chat il link a un articolo di Repubblica su Berlusconi indagato per le stragi di mafia del 1993. Il servizio giornalistico riporta le intercettazioni del boss Giuseppe Graviano che, finite in un fascicolo aperto a Firenze, evocano il leader forzista come mandante. Torna anche sullo ius soli, ma non risparmia un colpo a Nino Di Matteo. Di Matteo all’epoca era ancora un pm della procura di Palermo. E fu lui, come abbiamo scritto, a segnalare all’ufficio giudiziario fiorentino il verbale ritenuto la chiave per riaprire le indagini che erano già state fatte, ma senza risultati concreti. Auriemma scrive: "Comunque lo ius soli bastava da solo a fare perdere le elezioni alla sinistra. Ora anche le indagini per mafia: un vero suicidio".

No alla ricusazione del giudice. Schiaffo al magistrato anti Salvini. Patronaggio indagato per abuso d'ufficio: respinta la sua richiesta. Luca Fazzo, Mercoledì 03/06/2020 su Il Giornale.  Brutte notizie per Luigi Patronaggio, il procuratore di Agrigento divenuto famoso dapprima per avere incriminato l'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini per la vicenda della nave Diciotti; e più recentemente perché la chat dell'inchiesta sul Csm hanno rivelato come la solidarietà espressa dai colleghi a Patronaggio avesse come principale movente e obiettivo la necessità di «attaccare Salvini». Chi allora criticava il procuratore agrigentino venne così accusato dal Csm di voler insidiare la libertà della magistratura. Ora però si scopre che lo stesso Patronaggio ha fatto ricorso nei mesi scorsi a uno dei pochi strumenti che la legge consente a un indagato per ribellarsi al magistrato che deve giudicarlo: la ricusazione, ovvero la richiesta della sua sostituzione quando ha dimostrato di avercela su con lui o di averlo già dichiarato colpevole anzitempo. Ma la Corte d'appello di Caltanissetta nei giorni scorsi gli ha dato torto su tutta la linea: il giudice sta facendo solo il suo mestiere, Patronaggio si rassegni. Il procuratore di Agrigento infatti si trova indagato per abuso d'ufficio insieme ad un folto gruppo di colleghi in seguito alla denuncia di un avvocato siciliano, Giuseppe Arnone. Vicenda assai complicata e assai siciliana, ultimo scampolo di una valanga di denunce spiccate da Arnone contro magistrati di diverse procure, e che hanno portato solo negli ultimi due anni a aprire circa centocinquanta fascicoli. Arnone, ex comunista, poi ambientalista, poi grillino, ora non si sa, da Patronaggio venne messo in galera nel novembre 2016 con l'accusa di estorsione, poi sconfessata dal riesame e dalla Cassazione. Arnone disse che era una manovra dei poteri forti, con in testa l'ex ministro Alfano. L'ennesima denuncia di Arnone viene però proposta anch'essa per l'archiviazione dalla Procura di Caltanissetta. Arnone prova ad opporsi, Patronaggio e gli altri cercano di impedirglielo. Il giudice preliminare David Salvucci, a sorpresa, gli dà ragione e mette mano al fascicolo, invitando il procuratore e i suoi coindagati di discolparsi. Non l'avesse mai fatto: Patronaggio lo ricusa accusandolo di avere prodotto una «ordinanza abnorme», sintomo di «un convincimento anticipato e arbitrario sulla esistenza di indizi di colpevolezza che ne minano l'indipendenza di giudizio e la terzietà». Risposta della Corte d'appello di Caltanissetta: non è vero niente.

Così Palamara difendeva il collega sotto inchiesta. Le manovre del magistrato per far nominare l'amico di Unicost, coinvolto in un'indagine. Luca Fazzo, Mercoledì 03/06/2020 su Il Giornale. Le fughe di notizie, come è noto, sono un vizio storico della giustizia italiana. A scandalizzarsi, in genere, sono solo gli indagati e i loro avvocati. Ai magistrati, tranne poche eccezioni, in genere va bene così. Ma c'è una storia, nelle chat dell'inchiesta sul Csm, che racconta invece di una fuga di notizie andata di traverso a Luca Palamara, ex segretario dell'Associazione nazionale magistrati e, all'epoca dei fatti, influente membro del Csm. A fare da sfondo alla indignazione di Palamara, c'è una brutta storia che ha investito in pieno la sua corrente nella ricca e tranquilla Cremona: le manovre per conquistare la poltrona di presidente del tribunale. Tra gli aspiranti, il giudice Tito Preioni, sostenuto da Palamara. Ma l'appoggio del leader di Unicost a Preioni non basta. Così ecco una curiosa trasferta a Roma in cui Preioni viaggia in compagnia di un altro giudice: il suo amico Giuseppe Bersani, che in quel momento presiede pro tempore il tribunale. Ad accompagnarli e a pagare tutte le spese del viaggio, l'avvocato Virgilio Sallorenzo, cui Bersani affida da sempre numerosi e ben remunerati incarichi professionali. Il terzetto va a trovare un amico di Sallorenzo, l'avvocato Antonio Villani: che è soprattutto l'ex socio di studio di Paola Balducci, politica dei Verdi, in quel momento anche lei membro «laico» del Csm. E la Balducci viene portata a cena, con un solo obiettivo: convincerla a portare anche il suo voto su Preioni. La missione fallisce, perché al momento del primo voto la Balducci vota l'altra candidata, Anna Di Martino. La partita è ancora aperta, ma prima che la pratica approdi al plenum del Csm scoppia un pasticcio: il Corriere della sera rivela che la Procura di Venezia sta indagando sull'avvocato Sallorenzo e sui due giudici cremonesi per corruzione in atti giudiziari, perchè «con l'intervento di mediatori esterni che offrono alle toghe magari alle stesse toghe dalle quali ricevono gli incarichi professionali opportunità di accesso e di interlocuzione diretta con consiglieri del Csm in vista del voto». Per il gruppo di Palamara è una brutta botta, perché Bersani è organico ad Unicost: lo spiega bene il 17 maggio 2018, un mese prima dello scandalo, lo stesso Palamara a una tale Silvana, spiegando di avere votato «Preioni amico del nostro Bersani, a sua volta amico di Morlini»: cioè di Gianluigi Morlini, il consigliere del Csm che sarà poi travolto dalle intercettazioni. La corrente di sinistra, Area, fa un comunicato stigmatizzando i fatti di Cremona. Ma a quel punto Palamara e il suo amico Massimo Forciniti vanno su tutte le furie. «Il tuo amico Morlini cosa consiglia di rispondere ad Area su Tito Praioni?» «Parlane con la Balducci» «O vogliamo parlare del collega di Trani?»: è una frase brutale, Palamara medita di vendicarsi rendendo nota la vicenda della nomina nel tribunale pugliese, assai controversa, di un giudice di sinistra. E poi, ancora Palamara: «Però quelli di Area sono veramente scorretti» «Amici tuoi» «Loro a che titolo sapevano che Preioni era indagato? Chi glielo ha detto?» «Appunto» «Sono indeciso se fare un esposto alla Procura della Repubblica sulla fuga di notizie su Preioni ora mi sono rotto i coglioni». Peccato che una settimana prima dello scoop del Corriere, Palamara e i suoi sapessero già tutto: «Ciao Luca, immagino che tu abbia saputo di Preioni (e di Bersani, e di altro). Forse sarebbe il caso di fargli considerare una exit strategy dignitosa», gli scrive il suo amico Vittorio Masia. Ma Palamara si guarda bene dal rendere nota la vicenda: la libertà di stampa va bene solo fin quando non ci vanno di mezzo gli amici.

Procura: ogni magistrato si fa carico di oltre 2.700 fascicoli ma la politica non reclama. In arrivo Siani ma se ne va Chiappani. Scritto Sabato 15 febbraio 2020 da Leccoonline. Laura Siani, classe 1976, nata a Sesto San Giovanni ma cresciuta nel nostro territorio è il nuovo sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Lecco. Dopo l'esperienza maturata a Lodi e dopo aver trascorso gli ultimi due anni a Palermo, da metà marzo prenderà servizio in città, andando a riempire la “casella” lasciata libera dalla collega Silvia Zannini, trasferitasi a Parma dall'estate scorsa, la cui mancanza è stata tamponata solo da inizio gennaio con una applicazione da Monza per tre giorni la settimana (con l'invio del dottor Carlo Cinque), ora già revocata. L'arrivo della dottoressa Siani completerà così l'organico, dopo le partenza della dottoressa Cinzia Citterio sostituita dalla dottoressa Giulia Angeleri dopo alcuni mesi di vacanza del posto nonché del dottor Nicola Pretetori “rimpiazzato” dal dottor Andrea Figoni affianco all'ormai memoria storica dell'Ufficio, il dottor Paolo Del Grosso, elemento di continuità di un team rivoluzionato nell'arco di un biennio, chiamato a breve probabilmente a prendere provvisoriamente in mano le redini, vista la preannunciata partenza del Procuratore Capo Antonio Angelo Chiappani, pronto a migrare in quel di Bergamo.

“Per tre quarti d'anno (circa 9 mesi) abbiamo lavorato e stiamo lavorando ancora oggi con tre sostituti, ovvero con il 25% in meno della forza lavoro” ha sottolineato quest'ultimo, tracciando una panoramica dell'anno giudiziario appena concluso, con dati riferiti al periodo 1 luglio 2018 – 30 giugno 2019, ricordando altresì come da tempo ormai Lecco indossi la maglia nera quanto a rapporto PM/popolazione, con un sostituto procuratore ogni 84.345 abitante, a ranghi completi, con un rapporto dunque fascicoli/magistrati (conteggiando anche lui stesso) pari a 2.193 iscrizioni a testa, valore che si impenna a 2.741 casi ciascuno vista la scopertura attuale. L'unico “rinforzo” è garantito da 5 vice procuratori onorari che si occupano della gestione di buona parte delle udienze dinnanzi al Giudice di Pace (90 giornate da coprire in un anno) e delle monocratiche (265 giornate) a cui si aggiungono poi quelle collegiati (71 giornate), quelle camerali davanti al GIP/GUP (83 di cui 74 preliminari). “La situazione è difficile ma, nonostante ciò, abbiamo garanto la presenza a oltre 500 giornate d'udienza trattando tra fascicoli noti, ignoti e atti non costituenti reato 9.000 nuove iscrizioni. Lascio immaginare come si lavora e i ritmi dei sostituti. Ma Lecco si sa è una città che non si vuole molto bene per molte cose. E anche noi non godiamo di grande considerazione anche perché non rompiamo le scatole a chi può disporre di potere” l'amara considerazione del numero uno, da leggersi come autocritica ma anche e soprattutto come ulteriore grido d'aiuto a quella politica che, in tutti questi anni, nulla ha portato a casa per la Procura di Lecco. “Due anni fa il CSM aveva previsto l'assegnazione di un quinto sostituto ma il ministro – era Orlano – aveva bocciato la proposta. Adesso è in corso una rivisitazione delle piante organiche e ancora si prevede un quinto elemento. Vedremo”. Ringraziando dunque i suoi sostituti e il personale amministrativo (con sole 21 unità tra segreterie dei magistrati e uffici per il pubblico, oltre a 10 unità della sezione di polizia giudiziaria), il dottor Chiappani non ha però nascosto come, con soddisfazione, si sia registrata una ulteriore contrazione delle pendenze (-4.35%): “era negli obiettivi della Procura avere un numero di procedimenti definiti superiore rispetto a quelli entranti. L'obiettivo è stato centrato”. Ed ora si guarda con apprensione alle nuove incombenze introdotte dal così detto “codice rosso” - qui l'articolo con i numeri nel dettaglio – ma anche alla nuova Legge sulla crisi d'impresa che entrerà in vigore a metà 2020. “Inciderà sul lavoro della Procura e dei professionisti – avvocati e commercialisti – ed implicherà una crescita culturale per la città” ha anticipato il Capo, ben consapevole della laboriosità del territorio con il conseguente peso sull'Ufficio. Basti pensare ai 60 fallimenti decretati tra luglio 2018 e giugno 2019, con 9 istanze sottoscritte dai sostituti che hanno altresì richiesto sequestri per equivalente per un importo pari a circa 15 milioni di euro. 41 le nuove iscrizioni per reati fallimentari e societari, in allarmante aumento rispetto all'anno precedente (31) con ulteriori 2 casi di ipotizzato falso in bilancio. In crescita anche – negli stessi 12 mesi – i reati in materia tributaria (+23%, da 90 a 111 fascicoli) con il manifestarsi di forme più articolate di frode fiscale, per le quali sono state richieste e ottenute misure cautelari patrimoniali oltre a casi di omesso versamento d'imposta nonostante l'aumento della soglia di punibilità. Su quest'ultimi chiara la posizione di Chiappani: “ci sono sì filibustieri ma sono anche reati indicatori della mancanza di liquidità: l'imprenditore preferisce pagare le banche e i fornitori per non vedersi tagliato fuori, lasciando indietro ritenute e Iva”. Al cospetto dei giudici, storie di questo tipo, in effetti, sono all'ordine del giorno (o quasi) con nomi anche illustri nel panorama lecchese, finiti a dover giustificare in Aula i mancati pagamenti.

Morta la pm Laura Siani, aveva 44 anni. Choc a Lecco, indagini in corso. Il Messaggero Martedì 2 Giugno 2020. Dramma a Lecco. È stata trovata morta la scorsa notte nella sua abitazione in centro, il sostituto procuratore Laura Siani, 44 anni, in servizio alla Procura di Lecco dalla scorsa primavera. In base ai primi rilievi, l'ipotesi più plausibile con le circostanze, sembra essere quella di un gesto volontario. Sul posto si sono portati subito i Carabinieri di Lecco, con il tenente colonnello Claudio Arneodo e il capitano Alessio Zanella insieme all’ex procuratore capo Antonio Chiappani (trasferito nelle scorse settimane alla Procura di Bergamo) e i sostituti procuratori Andrea Figoni e Giulia Angeleri. Il magistrato era figlia del noto musicista Dino Siani, scomparso nel 2017 e noto al grande pubblico, nonché sorella di Giorgio Siani, ex sindaco di Mandello. Prima di arrivare a Lecco era stata in servizio a Palermo e prima ancora a Lodi. La salma è stata trovata la scorsa notte su segnalazione di un vicino di casa. Sono intervenuti il procuratore capo Antonio Chiappani con i suoi più stretti collaboratori e i carabinieri. Sono ancora in corso indagini per risalire alle esatte modalità e cause dell'accaduto. La pm Laura Siani, nativa di Sesto San Giovanni (Milano)  durante il servizio alla Procura di Lodi aveva lavorato a importanti inchieste come quella sulla turbativa d'asta che aveva coinvolto pubblici amministratori della città Lodigiano. A Lodi si occupò infatti dell'indagine che portò nel 2016 all'arresto dell'allora sindaco del Pd Simone Uggetti con l'accusa di turbativa d'asta per un bando relativo all' assegnazione della gestione delle piscine comunali. Uggetti, condannato nel novembre del 2018 in primo grado a 10 mesi di reclusione e 300 euro di multa, è in attesa del processo di appello. È stata la moglie dell'allora procuratore di Sondrio, Fabio Napoleone magistrato consigliere del Csm, che dopo l'esperienza in Valtellina è ora sostituto procuratore generale a Milano. Negli ultimi mesi il lavoro del magistrato si era concentrato anche su una presunta banda di finti dietologi che, in un'associazione di Cruillas, in cambio di denaro avrebbero prescritto cure dimagranti a base di integratori alla frutta e alle erbe. Una truffa stimata in circa 130 mila euro e che, secondo l'accusa, avrebbe messo a rischio anche la salute di chi pensava di perdere peso velocemente e senza grandi sacrifici.

Da laprovinciadilecco.it il 3 marzo 2020. Laura Siani era stata sposata con Fabio Napoleone, ex procuratore a Sondrio e poi consigliere del Csm. Il magistrato era arrivato a Lecco da Palermo, dopo aver lavorato a Lodi: aveva collaborato all’inchiesta che aveva portato all’arresto del sindaco del capoluogo Simone Uggetti con l’accusa di turbativa d’asta. 

Barbara Gerosa per il “Corriere della Sera” il 3 marzo 2020. «L' ultima volta che l' ho vista era serena e solare. Felice perché finalmente era riuscita ad andare dal parrucchiere e aveva cambiato taglio di capelli. Non riesco a darmi pace per non aver compreso che dietro a quel sorriso celava forse un grande dolore». Antonio Chiappani, procuratore capo di Lecco, fresco di trasferimento a Bergamo dove assumerà l' incarico tra qualche giorno, ha gli occhi lucidi. Corre mille volte con la mente alla scena terribile che si è trovato davanti lunedì sera, quando il corpo senza vita di Laura Siani, 44 anni, magistrato in forza alla Procura cittadina dall' inizio di marzo, è stato rinvenuto nell' appartamento al primo piano di una palazzina nel centro del capoluogo lariano dove viveva da pochi mesi: morta probabilmente già da qualche giorno, il decesso risalirebbe alla notte tra venerdì e sabato. Al momento l' ipotesi seguita dagli inquirenti, per le modalità del ritrovamento del cadavere, sembra essere quella di un gesto volontario. Sulla salma è stata disposta l' autopsia: la Procura di Brescia, chiamata ad occuparsi del caso trattandosi della scomparsa di un pubblico ministero della Procura di Lecco, ha aperto un fascicolo. Non una lettera, una telefonata, nulla che potesse lasciar presagire una simile tragedia. A fare il macabro rinvenimento è stato un collega di Laura Siani, il magistrato Paolo Del Grosso, preoccupato perché da giorni non riusciva a mettersi in contatto con lei. Questa mattina la pm sarebbe dovuta comparire in aula per l' udienza di rinvio a giudizio degli indagati nell' inchiesta per il crollo del ponte di Annone Brianza. Dovevano trovarsi per discutere del procedimento, ma da venerdì scorso non rispondeva più al cellulare. Così Del Grosso lunedì sera ha bussato alla sua porta. Davanti alla mancata risposta ha chiesto le chiavi alla proprietaria di casa, ma l' appartamento ero chiuso dall' interno. Allora ha sfondato una finestra ed è entrato. Per la donna non c' era più niente da fare. Nata a Sesto San Giovanni, era figlia del noto musicista e compositore Dino Siani, scomparso nel 2017, e sorella di Giorgio Siani, ex sindaco di Mandello del Lario. Cresciuta sul lago era tornata a Lecco dopo aver lavorato negli ultimi due anni a Palermo dove aveva coordinato importanti inchieste con la Direzione investigativa antimafia. Ancora prima a Lodi si era occupata dell' indagine che ha portato all' arresto del sindaco Simone Uggetti con l'accusa di turbativa d' asta per un bando relativo all' assegnazione della gestione delle piscine comunali. È stata la moglie dell' ex procuratore di Sondrio, Fabio Napoleone, magistrato consigliere del Csm, che dopo l' esperienza in Valtellina, è ora sostituto procuratore generale a Milano. Non aveva figli. «Una vita dedicata al lavoro. Ci ha lasciato un dolore irreparabile», le parole di Chiappani.

 “Eccessivo mandarlo a San Vittore”, al Csm è scontro sulle manette. Il consigliere dem Fanfani attacca la Procura, poi fa retromarcia. Grazia Longo il 12 Maggio 2016 su La Stampa. Tra annunci, proclami e dietrofront, è stata una giornata rovente quella di ieri al plenum del Consiglio superiore della magistratura sul caso dell’arresto del sindaco di Lodi. Dopo un primo intervento in cui il consigliere laico Pd Giuseppe Fanfani aveva bollato come «ingiustificato ed eccessivo» l’arresto del sindaco (anch’egli Pd), in un secondo momento ha fatto marcia indietro. «Non chiederò l’apertura di una pratica sui magistrati che hanno indagato a Lodi» ha spiegato l’ex sindaco di Arezzo e parlamentare Pd, ribadendo però di non «aver mai immaginato di chiedere che il Csm entrasse sul merito dei provvedimenti giurisdizionali». Fanfani ha tuttavia rivendicato quanto inizialmente dichiarato: «Sostenere pubblicamente che un magistrato fa bene è un dovere; ma è un dovere anche dire che possa sbagliare. Io riconfermo tutto quello che ho scritto». A rendere rovente la polemica, le critiche da sinistra. I sei consiglieri togati di Area (vicini a Magistratura democratica e Movimento per la giustizia) hanno accusato Fanfani di «un’indebita interferenza sull’autonomia e sulla serenità dei magistrati». E ad inasprire la battaglia c’é poi una coincidenza «familiare»: uno dei magistrati di Area, Fabio Napoleone, è l’ex marito della pm Laura Siani che ha indagato sul sindaco di Lodi. Secondo Area comunque le affermazioni di Fanfani «sono incomprensibili e istituzionalmente inaccettabili. La definizione di arresto ingiustificato e comunque eccessivo, senza peraltro conoscere i contenuti della indagine e sulla base delle notizie di stampa, per di più adombrando possibili interventi dello stesso Consiglio superiore della magistratura, appare una indebita interferenza sulla autonomia e sulla serenità dei magistrati e rischia di delegittimare il loro impegno nella trattazione di un delicato procedimento per la natura delle incolpazioni e la qualità dei soggetti coinvolti». Contro il consigliere laico dem anche l’ex ministro alla salute del governo Monti Renato Balduzzi: «Non è compito del Csm, e in particolare della sua Prima Commissione, prendere posizione su singoli provvedimenti giurisdizionali e tantomeno interferire con vicende giudiziarie in corso. L’organo costituzionalmente previsto per il governo autonomo dell’ordine giudiziario ha la missione di garantirne l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, perno dello Stato costituzionale di diritto Stima». A gettare acqua sul fuoco ci pensa, invece, il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. Il quale rivolge «un grazie a Giuseppe Fanfani per aver fatto chiarezza sul contenuto delle sue precedenti dichiarazioni sulla vicenda di Lodi precisando la sua intenzione di non chiedere un intervento del Csm». Quanto ai toni accesi del dibattito, Legnini intravede un’occasione dialettica. «Non mi piace un Csm imbalsamato - osserva -, ma vivo e plurale, capace di intervenire per rafforzare la cultura della giurisdizione senza mai interferire sui procedimenti in corso». Considerazione per sottolineare che il Csm è vincolato su questo piano dalla stessa Costituzione.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 2 giugno 2020. Nelle chat estrapolate dal cellulare di Luca Palamara, Silvio Berlusconi non è più il piatto forte come lo era stato tra il 2008 e il 2011 quando lui era premier e Palamara presidente dell' Associazione nazionale magistrati. Ora il posto di Berlusconi nel cuore delle toghe è stato preso da Matteo Salvini. Ma in qualche messaggino il vecchio Silvio compare ancora. Per esempio, nel luglio del 2017 quando il vicepresidente dell' Anm Antonio Sangermano, ex pm del caso Ruby, rilascia un' intervista al Giornale contestando la retroattività della legge Severino nei confronti di Berlusconi. Il passaggio che manda in tilt i magistrati è il seguente: «Silvio Berlusconi è sulla scena politica, è un leader di levatura obiettiva scelto dal popolo, e io credo che spetti agli elettori decidere il suo destino politico. A me sembra evidente che la legge Severino è una legge che produce effetti penali, e che quindi in base alla Costituzione non potesse venire applicata retroattivamente». Palamara in quel momento è il più potente consigliere del Csm ed esponente di punta di Unicost (anche se è stato per anni iscritto al gruppo progressista di Magistratura democratica, Md), la stessa corrente di Sangermano. E commenta così le dichiarazioni del collega con il presidente dell' Anm Francesco Minisci: «Ho letto l' intervista, passaggio sulla Severino incomprensibile. Anzi inspiegabile». Minisci: «Addirittura incredibile». Palamara: «Deve chiarire due punti: giudizio politico su Berlusconi; Severino». Minisci: «Io l' ho chiamato e gliel' ho detto che quei passaggi non mi sono piaciuti». I due non hanno gradito neanche il passaggio sui «nuovi diritti» e in particolare sulle adozioni per le coppie gay, in cui Sangermano ha affermato: «La famiglia in Italia ha un quadro normativo invariato: è l' unione tra un uomo e una donna tendenzialmente finalizzata alla riproduzione. Discriminare è sbagliato, ma nemmeno si può assimilare tutto». Minisci è tranchant: «Non abbiamo bisogno di Sangermano». Palamara: «Sì, ma dovevamo affondarlo noi. Non Area (cartello delle sinistre delle toghe, ndr)». Anche il gip Tommasina Cotroneo è fuori di sé: «Il fatto è molto grave» e il «riferimento a Berlusconi è di una gravità inaudita. Delegittima tutto il gruppo e mina la credibilità guadagnata negli anni». Invece il procuratore Paolo Auriemma è stupito per il cancan: «Ma che ha detto Sangermano?». Palamara preannuncia l' effetto di un suo intervento: «Fra poco si dimette». Auriemma, dopo aver letto il giornale, commenta: «Sinceramente l' intervista non mi sembrava così scandalosa come sembra a te () i toni erano pacati e i giudizi personali, palesemente personali. Io personalmente sono totalmente disgustosamente contrario a unioni omosessuali che portino in una prospettiva futura a richiesta di adozione. Sono favorevole alla liberalizzazione delle droghe leggere in determinati limiti (a cui Sangermano si era detto contrario, ndr). Ma qui non entriamo in quello a cui crediamo o a cui non crediamo. Qui abbiamo a che fare con la libertà di chi parla quando tutti dicono cazzate. Uno di noi non può neanche parlare?». Palamara non ci vede più: «Mai saputo che anche tu fossi berlusconiano e di destra () la destra di Unicost è in leggera estinzione». Auriemma: «Io non sono berlusconiano e di destra, ma chiunque può dire qualsiasi stronzata e non viene redarguito mentre invece lo dice uno dei nostri che addirittura Berlusconi lo ha messo sotto processo e viene stigmatizzato come uno che difende Berlusconi. Pensa se non lo aveva messo sotto processo». Palamara diventa minaccioso: «Fai tu. Non dare idea che sei in perenne conflitto con me». Il 27 luglio i problemi di Palamara sono completamenti diversi e gli capita persino di dare ragione all' ex premier. È preoccupato per la trasferta in Russia della Nazionale di calcio dei magistrati. Lui e il collega della Dna Cesare Sirignano ce l' hanno con il giovane pm Matteo Campagnaro che dovrebbe mandare i documenti per la trasferta, ma che evidentemente non l' ha ancora fatto. Sirignano si lamenta: «Ancora niente». Palamara: «Uccidiamo questo Campagnano (sic, ndr)? Troppo coglione per essere vero». Sirignano: «Mi ha rotto e sto incazzato nero». Palamara: «Dillo a me». Sirignano: «Ora però 'sti coglioni non devono più essere chiamati». Palamara: «Mai più». Poi riprende: «Uccido Campagnano. Mandalo affanculo». Sirignano: «Ha ragione Berlusconi». Palamara: «Sì, assolutamente sì. Una categoria di matti da legare». Qui il riferimento è a un' intervista rilasciata da Berlusconi nel 2003, quando aveva detto che per fare il magistrato «devi essere mentalmente disturbato». Il 31 ottobre 2017 esce sui siti la notizia dell' ennesima iscrizione di Berlusconi per le stragi del 1993 e il solito Auriemma sbotta: «Non bastava lo ius soli. Pure la strage per far vincere la destra. Con il contributo di Di Matteo (Nino, consigliere del Csm e pm palermitano, ndr)». Il 15 maggio 2018 Liana Milella di Repubblica scrive un articolo contro la riabilitazione di Berlusconi, mettendo nel mirino le «toghe moderate» che l' avevano concessa. Il consigliere del Csm Rosario Spina suggerisce una pratica a tutela delle colleghe. Trovando Palamara contrario: «L' apertura di una pratica a tutela finirebbe solo per drammatizzare una situazione che va addormentata () peraltro finiremmo per scontrarci con la libertà di stampa con ovvie critiche che sarà difficile fronteggiare dal punto di vista mediatico». Infine, su una chat di gruppo di un anno fa a sconcertare i magistrati è un articolo di Italia Oggi intitolato «I giudici si allungano le ferie». C' è chi vede nel servizio un attacco al Csm, chi propone di scrivere al giornale e chi invita alla calma. Valerio Savio, ex vicepresidente dell' Anm in quota Md, vede la destra all' orizzonte: «Ricordiamoci che è in Parlamento una riforma costituzionale che porta al 50% i laici in Csm. Sono d' accordo con chi ha detto che è un attacco al Consiglio. Tempi difficili. Pensate se a Natale ci ritroviamo una maggioranza Lega-Meloni-Berlusca». Fabiana Corbo, giudice romano: «Mala tempora». Il pm Alberto Galanti: «Berlusca lo cestinano, non gli serve più». Savio: «Cestinano? E se lo mandano al Quirinale?». Gaspare Sturzo, gip della capitale: «Ma dai Valerio ti prego». Savio: «Co' questi pensi al peggio, e indovini. Ma io lo faccio per esorcizzare, non ho mai fatto tredici». Annalisa Marzano, gip pure lei: «Questa notizia della riforma costituzionale è terrificante!». Marco Patarnello, magistrato di sorveglianza di Md: «Non mandano Berlusconi al Quirinale, ma la Alberti Casellati. Perché questo lo possono fare. Mandare Berlusca no». Ma il nome del fondatore di Forza Italia tra i magistrati può persino ispirare un sorriso. Come quando Francesco Mollace, procuratore generale della Corte d' appello di Roma, sprona Palamara: «Teniamo duro. Come disse Rocco Siffredi a Berlusconi».

Luciano Moggi: "Anche io sono vittima di Luca Palamara". Libero Quotidiano il 02 giugno 2020.

Luciano Moggi nasce a Monticiano il 10 luglio 1937. Dirigente di Roma, Lazio, Torino, Napoli e Juventus, vince sei scudetti (più uno revocato), tre Coppe Italia, cinque Supercoppe italiane, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea, una Coppa Intertoto e una Coppa Uefa. Dal 2006 collabora con Libero e dal 13 settembre 2015 è giornalista pubblicista.

Aspettando il campionato, approfitto per parlare del dottor Luca Palamara, che il presidente della Repubblica Francesco Cossiga ebbe a definire «faccia da tonno». Ho davanti il post su Twitter in cui il magistrato pare rammaricarsi per alcune cose fatte, tra le quali lo sputtanamento del prossimo mediante intercettazioni relative a faccende private e intime non attinenti ai processi. Questo signore ha ammesso nel corso della trasmissione di Massimo Giletti Non è l'Arena che la sua fama cominciò con il processo Gea-Calciopoli. Chi si ricorda come Palamara si scagliava contro la "cupola del calcio" non può che sorridere pensando a come l'uomo si muoveva da presidente dei magistrati, interessandosi anche alla politica nazionale, ambito nel quale non mi sono mai sognato di far nulla. Adesso che legge il suo nome dove e come non vorrebbe, l'uomo pare quasi un pentito. Troppo tardi. Quando uno nasce quadro però, non può morire tondo. Tant'è che il nostro sostiene di non aver niente di cui vergognarsi.

INDAGINE AD ALTA VISIBILITÀ. Eppure io non posso scordare l'astio che percepivo in lui, quella voglia matta di stravolgere la carriera di chi al calcio aveva dedicato una vita, quasi a voler dimostrare che il più forte era lui. Quando mi indagava, Palamara era un pm sconosciuto, che ancora doveva assurgere agli onori della cronaca, base di partenza per la scalata ai vertici della carriera. Gli avvenimenti che lo stanno travolgendo, oltre a confermare che il tempo è galantuomo, mi fanno sospettare che egli nella sua indagine non avesse mancato di considerare che mettere sotto processo il calcio gli avrebbe garantito una straordinaria visibilità. Il processo alla Gea coinvolse non solo me ma anche dei ragazzini, colpevoli soltanto di essere figli di padri celebri, che tutto potevano fare tranne che delinquere, fare violenza privata ed estorcere: perché queste erano le accuse.

ACCUSE RESPINTE. Io fui indagato per la gestione degli arbitri, che nulla c'entrava con la Gea (e infatti l'accusa cadde miseramente durante il processo) ma la mia presenza garantì la spettacolarizzazione del giudizio. Le accuse furono respinte dal tribunale ma Palamara non ne risentì e l'onda di quel processo lo proiettò nell'Olimpo dei magistrati, fino a farlo diventare presidente dell'Anm. Obiettivo centrato. Lo Stato italiano ha speso tanti denari per un processo finito nel nulla, ma la sua fama lo ha fatto diventare il punto di riferimento di tanti giudici, come si può leggere nelle carte del suo deferimento. Malgrado tutto però io, non essendo malpensante, ho sempre avuto fiducia nella giustizia, perché il cattivo comportamento di uno non va messo in conto ai tanti. Voglio dare un consiglio a Palamara. Certe volte l'uomo trova il suo destino sulla strada intrapresa per evitarlo. Contrapporsi a ciò che ci fa fare la vita porta danni collaterali spesso devastanti. È quel che sta accadendo a questo magistrato, per cui lui calza a pennello il detto «chi di spada ferisce di spada perisce». Anche se i tonni non hanno la spada. 

Magistratura, quei piccini del Pd. Mattia Feltri Direttore HuffPost il 30/05/2020. Mattarella parlava anche a voi sulla giustizia. C'è un problema e Orlando, Zingaretti e Legnini fanno un po' finta di niente. Ma il Partito democratico esprime il vicepresidente del Csm da sei anni e sta a Palazzo Chigi dal 2013. Tocca dire le cose dal lato brutto da cui non si rimedia: così non funziona più. Il doppiopesismo, il collateralismo coi magistrati e le loro inchieste, il senso di superiorità, la grazia burbanzosa nel cascare dal pero, l’inclinazione a discutere della moralità altrui, presupposta per autocertificazione la propria, non andavano bene nemmeno prima, per niente, hanno contribuito a intossicare la vita politica italiana, ma perlomeno erano gestiti da Massimo D’Alema o Walter Veltroni, uomini strutturati, cresciuti a scuole politiche serie, capaci di usare la testa e il vocabolario, e a cui non era facile far fronte. L’esibizione del Partito democratico negli ultimi giorni, davanti alle intercettazioni pubblicate dalla Verità, è stata più piccina che esecrabile. Insomma, saltano fuori membri togati del Csm (il sacro luogo dell’autogoverno della magistratura) impegnati a riconoscere le ragioni di Matteo Salvini indagato in Sicilia per gli sbarchi negati, e tuttavia a dargli pubblicamente addosso per convenienza politica; salta fuori il vicepresidente dello stesso Csm, Giovanni Legnini, del Pd, in tour telefonico con i capi delle correnti per sollecitargli un documento di solidarietà al procuratore e dunque di distanza da Salvini; salta fuori, ancora, il colloquio fra un paio di pm (uno è il solito Luca Palamara) in cui viene esplicitato il dubbio di chiunque, che Legnini non stesse ubbidendo a elevate incombenze istituzionali, ma a più dozzinali esigenze di consenso. C’è qualche problema, no? No. Si fa finta di niente. Mani in tasca e fischiettare. Il segretario Nicola Zingaretti, intervistato dalla Repubblica, alla domanda risponde che serve una stagione riformista, e auspica che in queste ore si affronti l’urgenza, e bibì e bibò. Come se non fosse lui il segretario di un partito al governo. Come se il Pd non esprimesse il vicepresidente del Csm da sei anni, e come se il Pd non stesse a Palazzo Chigi dal 2013, escluso il solo (osceno) anno di interregno grilloleghista. Su Huffington si prova a sentire Andrea Orlando, ex ministro della Giustizia, e il medesimo Legnini. Il primo storicizza (gulp!) perché magari altre volte se ne sono viste di peggiori, comunque è ora di affrontare la questione in modo sistemico, Salvini strumentalizza, Legnini ha fatto il suo, tanti saluti; il secondo assicura sull’impeccabile sé stesso, e riconosce giusto che l’uso del trojan - il mostruoso virus inoculato nei telefonini per intercettare ventiquattro ore su ventiquattro, anche a telefonino spento - forse è leggermente da ripensare, ora che ci è finito in mezzo lui (ne parli col suo segretario Zingaretti, magari, o coi suoi alleati a cinque stelle, che insieme lo hanno approvato tre mesi fa, e non riescono a produrre una legge sull’utilizzo e la diffusione delle intercettazioni). Al cospetto dei baratti da mercato di Wuhan per le nomine, allo svilimento del ruolo e della dignità di un’istituzione altissima, alle telefonate da comari, alla gestione fallimentare, agli intrecci da ballatoio, un’alzata di spalle pare sufficiente. Si conta sulla distrazione generale. Urge mandare a processo il sequestratore Salvini e farne uscire dalla porta sul retro il premier Conte, che adesso serve alla ditta e dunque serve immacolato. Il niente politico. Il niente strategico. La stessa burbanza di sempre, ma senza le spalle larghe e la capacità di mondo. Finché non arriva Sergio Mattarella (santo subito). Basta l’elenco di sostantivi e aggettivi: grave sconcerto, riprovazione, degenerazione, inammissibile commistione fra politici e magistrati, costume inaccettabile, affermazioni gravi e inaccettabili. Cari Zingaretti, Orlando, Legnini eccetera, a chi pensate fossero indirizzate quelle parole? A Palamara? E basta? O anche a voi? Non è il caso, dopo tre decenni a nascondersi dietro un irrisolto senso di superiorità, intellettuale e morale, e a giocarsi le inchieste di procura per degradare l’avversario non sapendo innalzare sé, di mettersi a fare un po’ di normale, semplice, dignitosa politica, per quanto si può?

Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 31 maggio 2020. Che triste cosa non avere mai ricevuto neppure una telefonata, un sms, un emoticon a forma di “smile” da Luca Palamara. Proprio da lui, magistrato attualmente al centro delle più turbolente cronache giudiziarie, fra intercettazioni e dubbi sulla condotta esatta che proprio un uomo di legge dovrebbe assumere. Sciocchezze, andiamo piuttosto alla polpa, al vero polmone  narrativo e spettacolare che questa nostra storia, decisamente romana, restituisce, tra gli attici del centro storico e le altane del limitrofo quartiere Prati che unisce Palazzaccio e piazzale Clodio. Come non intuire che occorre esclusi, di più, divorati dalla sensazione di avere negato l’accesso a un mondo meravigliosamente, come dire, magico, antropologicamente periscopico in assenza di un Palamara? Non sarà proprio come entrare nella villa esclusiva di “Eyes Wide Shut” di Kubrick attraverso la parola d’ordine “Fidelio”, ma quasi. Guardi Luca Palamara, ne contempli la gioia di vivere perfino in senso sportivo, calcistico, mondano, e subito ti viene da pensare che sarebbe meraviglioso possedere tra gli amici veri uno esattamente come lui, un po’ Bruno Cortona del “Sorpasso” e un po’ proprio se stesso, Luca, sì, Luca Palamara, membro togato del Consiglio Superiore della Magistratura. Eccolo che giunge sotto casa tua, chiama dalla strada, un colpo di clacson e poi, “… dai, scendi!”. E tu: “Per fare cosa?” E lui, Luca, di rimando: “Tu non ti preoccupare, vieni con me e vedrai”. Sarebbe splendido poter condividere i giorni, altrimenti ostaggio del tedio, con Palamara, perfino da seduti sul sedile posteriore, osservandolo nelle sue soste, mentre conversa, cellulare in mano, che verve! Sono sicuro che improvvisamente, grazie a Luca Palamara, Roma ci apparirebbe fantasmagorica, così come non avresti mai immaginato dal tempo di Via Veneto con Re Faruk. Un mattatore, l’ho detto, un vero uomo di mondo, altro che un semplice magistrato paludato, così come erano d’obbligo, almeno un tempo, immaginarli: severa grisaglia, bifocali di tartaruga e cellometallo, talvolta perfino il cinto erniario, casa e tribunale, faldoni e, nel migliore dei casi, un piatto di schiaffoni con pajata da “Checco er Carettiere”, giusto la domenica, doverosamente insieme alla famiglia. No, uscendo insieme a Luca Palamara, avresti la sensazione di quanto è cambiata da allora la magistratura, e, ripeto, soprattutto quanto sia bella Roma. Non è escluso neppure che, in giro con lui, si possano addirittura incontrare delle amiche meravigliose, giovani signore che, metti, pensavi esistessero soltanto nei documentari di “Donnavventura”, cappelli di Alviero Martini, colpi di sole al vento, donne da sponsor appaltato unicamente a Rete4. Il racconto del quotidiano telefonico di Luca Palamara ti fa immaginare, che so, ville con piscina all’Olgiata oppure ad Ansedonia, e se una volta lì scopri di non avere il costume, ecco che l’amico ti trae d’impiccio: “Tranquillo, ne ho sempre due!” E un attimo dopo - splash! - perfino l’Infernetto o Vigna Stelluti sembrano trasfigurarsi in un quadro di David Hockney, meglio molto meglio di come un Malagò possa offrirti, sempre come suggestione narrativa. E ancora: “Sai, Luca, a me piace quell’attrice, quella bionda col diastema che fa la pubblicità del formaggino…” E lui: “Che problema c’è, la invitiamo per la prossima partita benefica della nazionale magistrati”. Ora che ci penso, la persona che, per verve e talento umano contagiosi, sento di assimilare a Luca Palamara era un poeta straordinario che anni e anni fa abitava in piazza Santa Croce in Gerusalemme, davanti alla chiesa che custodisce i chiodi del supplizio di Cristo, lui si chiamava Riccardo Panaccione, e attraverso i suoi occhi a bordo della sua Citroen, Roma sembrava addirittura che luoghi si illuminassero al suo passaggio; chi non vorrebbe avere un amico com’era Riccardo? E lo stesso magari vale per Luca Palamara. Se in serata c’è il concerto, tipo, di Antonello  Venditti o di Ringo Starr, e, disdetta, i biglietti sono esauriti, ecco che in un attimo la mente di Luca si fa fluorescente, e i biglietti saltano fuori, perché lui sa sempre a chi rivolgersi, davvero il minimo per gli uomini di mondo; e un attimo dopo anche la città si illumina, cominciando dagli attici di Monti Parioli, e in controluce, dalla strada, sembra perfino di intravedere alcune splendide donne, in tutto simili a quelle dello spot della Compagnia delle Indie, che ballano, così da via Gramsci a Mostacciano, da piazza Bainsizza a lungotevere della Vittoria, dove abitava Moravia, dove hanno girato anche il capolavoro di Sorrentino dedicato a Roma, posto che Luca Palamara li surclassa tutti, i personaggi di quel film, compreso Lello Cava, cioè il personaggio di Carlo Buccirosso, il più scafato. E dire che fino a una ventina di anni fa per “Sistema Palamara”, sempre a Roma, si intendeva un modo di costruire nel modo più semplice e rapido, come ben illustrava un video pubblicitario trasmesso dal canale privato, TeleAmbiente, in sottofondo la musica di Ennio Morricone per “C’era una volta in America”. Ingenuo, chi non comprende che la vicenda Palamara trascende le aule dei Palazzi di Giustizia, trascende perfino la demagogia, l’antigiustizialismo, lo stesso sentimento kafkiano, così come ogni riflessione degna di Leonardo Sciascia tra “Todo modo” e “Il contesto”, e la corruzione del potere giudiziario, al contrario racconta Roma nella sua sostanza eterna. Se, appunto “La grande bellezza” era un plastico in scala della irredimibilità dell’Urbe, una semplice maquette, il racconto di Palamara proietta la città a grandezza naturale.

Palamara salvò così al Csm l’amico Rossi, pm di Banca Etruria e consulente di Letta e Renzi. Roberto Frulli mercoledì 3 giugno 2020 su Il Secolo d'Italia. Fra le chat dell’inchiesta di Perugia che riguardano Luca Palamara, l’ex-consigliere del Csm indagato per corruzione, ci sono anche quelle, pubblicate oggi da “La Verità“, che attengono al caso del procuratore di Arezzo Roberto Rossi, all’epoca dei fatti titolare dell’inchiesta sul crac di Banca Etruria. “Durante la consiliatura del Csm 2014-2018 – racconta La Verità – uno dei casi più scabrosi fu la pratica per incompatibilità ambientale che riguardava il procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, all’epoca titolare dell’inchiesta sul crac di Banca Etruria”. ”Il procedimento – ricostruisce il quotidiano nel suo scoop – fu aperto quando si seppe che il magistrato era consulente del Dipartimento Affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi (era arrivato con Enrico Letta ed era stato confermato da Matteo Renzi)”. Rossi, spiega il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, “aveva fatto parte della giunta esecutiva centrale dell’Anm quando Luca Palamara ne era presidente e il pm indagato a Perugia per corruzione, da vero amico, riuscì a far chiudere la pratica dopo una lunga battaglia”. Le cose cambiarono, prosegue La Verità, “quando Palamara lasciò il Csm“. Nell’ottobre del 2018, infatti, “il nuovo consiglio rinviò la sua conferma a procuratore. E, un anno dopo, con Piercamillo Davigo relatore, l’istanza venne bocciata”. A raccontare come andarono realmente i fatti e lo scontro che si consumò nella penombra del Csm, secondo la versione de La Verità, è Pierantonio Zanettin, deputato di Forza Italia. All’epoca, consigliere azzurro del Csm, Zanettin nella consiliatura precedente, aveva sollevato il problema del conflitto d’interessi di Rossi. “La pratica Rossi è stato uno dei miei cavalli di battaglia”, spiega Zanettin a La Verità. “Chiesi io l’apertura del fascicolo – ricorda Zanettin – quando, nel dicembre 2015, uscì un’agenzia che svelava che Rossi, titolare dell’inchiesta sulla Popolare dell’Etruria, era ancora un consulente del governo”. ”Noi lo chiamammo in Prima Commissione. Quella che si occupa di trasferimenti per incompatibilità. E lui ci disse che non conosceva la famiglia Boschi“, svela Zanettin. Da qui la scelta di andare verso l’archiviazione. “Demmo un parere favorevole all’archiviazione della pratica”, racconta ancora Zanettin. “Ma, a ridosso del plenum, venne fuori lo scoop su Panorama da cui apprendemmo che Rossi aveva indagato più volte Boschi. E che, quindi, non poteva non conoscerlo. E che a difenderlo era stato Giuseppe Fanfani. Che, in quel momento, era consigliere del Csm”. ”Riaprimmo subito il caso. – ricorda Zanettin. – E Rossi ci venne a dire che non aveva capito la domanda. E che, comunque, non aveva conosciuto personalmente Boschi senior“. Poi Zanettin, nel suo colloquio con la Verità, aggiunge un particolare. “Dopo aver risentito Rossi giungemmo a una travagliatissima archiviazione. Si trattava di un’archiviazione “vestita”, nel senso che conteneva diversi rilievi. Ma Palamara e il suo gruppo fecero passare una serie di emendamenti in aula per cancellarli tutti”. ”Io, alla fine – ricostruisce Zanettin – fui l’unico a votare contro l’archiviazione. Mentre i due relatori, Piergiorgio Morosini e Renato Balduzzi, e altri sette, si astennero perché erano state sbianchettate le critiche“. Quanto ai rilievi cancellati, Zanettin rivela: “Avevamo evidenziato che Rossi, mentre era consulente di Palazzo Chigi, aveva tenuto per sé, senza condividerlo con altri colleghi come da buona prassi, il fascicolo sul crac della Popolare aretina. Un’inchiesta che avrebbe portato all’iscrizione sul registro degli indagati di Boschi senior. E di questi possibili profili di incompatibilità Rossi non aveva informato il Csm“. “Palamara, interveniva sempre per difendere Rossi“, chiosa Zanettin nel colloquio con la Verità. “Litigai diverse volte con lui. In uno di questi scontri dissi a Palamara che lo proteggeva perché erano entrambi di Unicost. E lui si indignò rivendicando la sua autonomia. Ma oggi le chat mi danno ragione”. “Soprattutto laddove – scrive La Verità – Palamara afferma che anche se Rossi aveva fatto “cazzate su cazzate”, bisognava “salvarlo”….”.

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 28 agosto 2020. Dai cascami del crac di Banca Etruria e delle polemiche sul ruolo di Pierluigi Boschi, padre dell'ex ministra Maria Elena, riemerge con un colpo di scena un caso inedito nella storia della magistratura italiana: la defenestrazione del procuratore di Arezzo Roberto Rossi, reo di aver indagato sulla banca cara alla più renziana tra i renziani mentre era consulente di Renzi a Palazzo Chigi. Sconfitto al Tar, Rossi ha vinto il primo round in Consiglio di Stato e ora chiede di essere reintegrato. Rossi è un magistrato toscano. Nel 2013 (governo Letta) viene nominato consulente del Dipartimento per gli affari giuridici di Palazzo Chigi, guidato da un collega, Carlo Deodato, conosciuto tempo prima a Grosseto. Incarico di un anno per dare pareri via mail su testi di legge in materia penale, senza interloquire con premier e ministri. Il Csm autorizza. Nel 2015, dopo che Renzi ha sostituito Letta, l'incarico viene rinnovato per un altro anno. Nel frattempo, nel 2014, Rossi è stato nominato dal Csm all'unanimità procuratore di Arezzo. E sulla scorta delle ispezioni di Bankitalia ha avviato l'inchiesta su Banca Etruria. A fine 2015 cessa la consulenza con Palazzo Chigi. Dopo tre mesi apre una nuova indagine su Etruria, coinvolgendo i membri del Cda compreso papà Boschi. L'accusa di conflitto di interessi finisce al Csm e viene archiviata dopo aver ascoltato tutti i magistrati coinvolti, gli avvocati e il prefetto. Anche la Procura generale della Cassazione non ravvisa illeciti disciplinari. Nel 2018 Rossi, come da prassi, chiede la riconferma come procuratore. Generalmente disposta dal Csm in automatico, senza nemmeno discutere. Tanto più se, come per Rossi, sia il Consiglio giudiziario a livello locale, sia la commissione dello stesso Csm (per due volte) sia il ministro Bonafede hanno dato l'ok. Ma al momento di chiudere la pratica in plenum il Csm ci ripensa, avanzando dubbi su «indipendenza e imparzialità» di Rossi. E Bonafede ritira il suo ok, esprimendo critiche su «credibilità, autorevolezza e indipendenza» in riferimento alla gestione delle indagini su Etruria. Alla fine il Csm vota la «non riconferma». La delibera, scritta da Piercamillo Davigo, sottolinea che la consulenza con Palazzo Chigi da gratuita era diventata retribuita (con compenso «prima irrisorio, poi raddoppiato»); che era «inopportuna» perché Rossi si era autoassegnato «fascicoli connotati da particolare delicatezza proprio in relazione al committente (Etruria e Renzi, ndr) dell'incarico medesimo»; che il procuratore non aveva informato con trasparenza il Csm, inducendo «nell'opinione pubblica il sospetto» di comportamenti «compiacenti» con il giglio magico renziano e con ciò «compromettendo il requisito dell'indipendenza da impropri condizionamenti». Oltre allo spettro di Maria Elena Boschi, sul caso Rossi aleggia quello di Luca Palamara. Entrambi appartengono alla corrente Unicost. Egemone sia nel 2014, quando il Csm aveva nominato Rossi procuratore, sia nel 2018, quando si apprestava a confermalo. Perdente nel 2019, dopo l'esplosione dello scandalo Palamara, quando lo ha bocciato. Fatto sta che negli ultimi mesi, mentre il Csm pubblica il bando per il suo successore, Rossi, degradato a sostituto procuratore, fa ricorso lamentando «una distorsione mediatica» che ha alimentato l'idea di «un conflitto di interessi inesistente». Rivendica le cinque indagini su Banca Etruria, più numerose e rapide che per gli altri crac bancari, di cui alcune già sfociate in condanne. E quanto a papà Boschi, di averlo mandato a processo per bancarotta nel filone sulle consulenze (un altro è stato recentemente archiviato). Sconfitto in primo grado al Tar, ora Rossi ha ottenuto dal Consiglio di Stato una vittoria, sia pure parziale in via cautelare. L'udienza di merito è fissata nel 2021. Ma nel frattempo chi deve fare il procuratore di Arezzo e gestire i processi su Banca Etruria? Secondo fonti giudiziarie, Rossi avrebbe già scritto alla Procura generale, invocando un immediato (e clamoroso) reintegro. Questione delicata, non esistono precedenti. Interpellato, Rossi non ha voluto confermare né commentare.

Da affaritaliani.it il 3 marzo 2020. "Ma così indebolisce Renzi". A scrivere questa frase sarebbe stato, secondo quanto scrive La Verità, Luca Palamara il 4 dicembre 2017, quando l'allora procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, gli fece sapere attraverso un comune amico di essere pronto a lasciare l'inchiesta su Banca Etruria che coinvolgeva Pier Luigi Boschi, papà di Maria Elena. Secondo quanto scrive il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, Palamara era "il trait d'union tra Luca Lotti, uno degli indagati, Matteo Renzi e l'allora capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone". Con Palamara che avrebbe detto: "Mi acquieterà solo quando Pignatone mi chiamerà e mi dirà che cosa è successo con Consip, perché lui si è voluto sedere a tavola con te, ha voluto parlare con Matteo, ha creato l'affidamento e poi mi lascia con il cerino in mano. Io mi brucio e loro si divertono". Sempre secondo quanto scrive la Verità, nel febbraio del 2019 "Palamara si era interessato anche dell'arresto dei genitori di Renzi. Aveva condiviso e commentato l'ordinanza con un collega ("A Roma non avrebbero dato nessuna misura" era stato il commento dell'interlocutore). A un'impiegata del Csm aveva riferito la provenienza correntizia del pm che aveva chiesto l'arresto". Secondo la Verità, sarebbe esistito un forte legame tra Palamara e Rossi, con il primo che "va su tutte le furie" dopo l'apertura di una commissione d'inchiesta sulle banche e una lettera del secondo al presidente della commissione, Pier Ferdinando Casini, in cui si sostiene di "aver fornito le informazioni richieste dai parlamentari e aver annuito, quando gli è stato chiesto se i membri del Cda potessero essere indagati". L'ex consigliere del Csm scrive al suo consigliere: "Se non fosse per Roberto Rossi sarei molto ottimista". Il consigliere gli chiede: "Che c'entra Rossi con pg?". E Palamara avrebbe replicato: "C'entra perché crea solo casini con quella audizione, indebolisce Renzi". Secondo quanto scrive Giacomo Amadori il "problema è il contraccolpo che dalla vicenda potrebbe subire Renzi, in quel momento segretario del Pd". A ottobre del 2018, conclude la Verità, Palamara commenta così lo slittamento del voto per la conferma di Rossi a procuratore al quale concorreva anche Alessio Lanzi, laico in quota Forza Italia e accusatore dello stesso Rossi. "Con Lanzi sarebbero stati cazzi amari per voi", gli avrebbe scritto Fuzio. E Palamara: "Appunto. Cosa assurda. Si sta togliendo sasso dalla scarpa". Fuzio: "Rossi ha fatto cazzate su cazzate non nel merito, ma nel modo di comportarsi". E Palamara: "Lo so, ma bisogna salvarlo". Cosa che poi non accadrà, conclude la Verità.

Giacomo Amadori e Simone Di Meo per “la Verità” il 3 marzo 2020. Quello di due anni fa fu un giugno davvero caldo per il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Al momento dell' insediamento si ritrovò, infatti, nella scomoda posizione di testimone nell' esplosiva inchiesta sulle mazzette per lo stadio della Roma, indagine che dopo due giorni avrebbe portato all' arresto dell' imprenditore Luca Parnasi e del presidente dell' Acea Luca Lanzalone, professionista legato a doppio filo al mondo 5 stelle. Per lui quella da Guardasigilli fu davvero un' iniziazione traumatica. E le chat allegate agli atti dell' indagine per corruzione a carico di Luca Palamara aprono nuovi squarci su quei giorni e aiutano a rileggere, sotto un' altra ottica, anche alcune polemiche di oggi. I messaggini più interessanti sono quelli tra l' ex pm della Capitale e Maria Casola, giudice del lavoro a Napoli distaccato nella Capitale come capo dipartimento per gli Affari della giustizia. Una delle quinte colonne ministeriali di Palamara. È l' 11 giugno 2018, e il governo Lega-M5s si è insediato da poco più di una settimana. Ci sono tutti i posti di sottogoverno da assegnare. «Ma Pignatone ambisce a incarichi ministeriali?» gli scrive lei. «Io penso siano solo le solite ridde di voci su tutti», risponde il boss di Unicost. «E com' è che viene spesso?» insiste Casola. Palamara si incuriosisce: «Con Bonafede o Cesqui (Elisabetta Cesqui, ex capo di Gabinetto del ministro Andrea Orlando ed esponente di punta della corrente di sinistra di Magistratura democratica, ndr)?». Il giudice partenopeo: «Non lo so da chi va. So che passa nel corridoio. Ma non lo dire ti prego». La spiegazione di Palamara è interlocutoria: «Ci sono questioni che lui aveva aperte con il ministero su vari fronti... Però nulla toglie che possa parlare anche di altro». Dopo qualche giorno, i due si risentono e l' allora consigliere del Csm spiega: «Quanto a Pigna (la voce dell' incarico ministeriale, ndr) era totalmente infondata». Lo conferma anche la Casola che aggiunge un dettaglio: «Sì, sì era venuto per indagine... Ma Bonafede rischia di saltare secondo te?». Palamara è sibillino: «Delicata». I due magistrati fanno riferimento al procedimento per la costruzione del nuovo impianto calcistico dei giallorossi. Il nome del Guardasigilli, seppur non indagato, emergeva ripetutamente nel fascicolo e nel verbale della stessa sindaca della Capitale, Virginia Raggi. Proprio l' 11 giugno, quando la Casola scrive a Palamara, Pignatone e l' aggiunto Paolo Ielo si presentano in via Arenula per sentire a sommarie informazioni il neo ministro. Dalle carte risulta questo solo incontro, nonostante la capa del Dag avesse chiesto perché Pignatone venisse così «spesso». «Lanzalone [] aveva [] la nostra fiducia e per tale ragione è stata presentata alla sindaca» racconta il ministro all' ex capo della Procura di Roma. «Io stesso partecipavo alle riunioni sullo stadio [] Lanzalone ha dato una serie di consigli legali [] originariamente si occupava solo dei problemi connessi ai profili risarcitori relativi a un' eventuale revoca della decisione della costruzione dello stadio». Un catenaccio che deve aver fatto sudare il povero Bonafede. Due giorni dopo la stesura di quel verbale Lanzalone finisce ai domiciliari per corruzione insieme con Parnasi e altri soggetti. Chissà che fifa blu avrà assalito il Guardagilli. Che si trova ad affrontare una tale prova del fuoco da neofita. Va sottolineato che proprio negli stessi giorni, con Pignatone che cammina «nel corridoio» e pone domande, facendo sentire il peso del suo carisma e del suo potere, il ministro decide di scaricare uno dei magistrati di riferimento dell' universo grillino, quel Nino Di Matteo che, a Palermo, aveva avuto una difficile convivenza proprio con Pignatone procuratore aggiunto. Una coincidenza temporale, sicuramente. Fatto sta che, ultimamente, Di Matteo ha rivelato che Bonafede gli aveva offerto la direzione del Dap salvo poi scegliere a sorpresa Francesco Basentini che si dimetterà per lo scandalo dei boss scarcerati durante l' emergenza coronavirus. Basentini era sostituto procuratore a Potenza ed era iscritto a Unicost, la corrente di Pignatone e Palamara. Come emerge dal resto delle chat dell' indagine di Perugia. Il 20 giugno, una settimana prima della nomina ufficiale, Casola chiede: «Di Matteo?». Palamara anticipa: «Niente». La donna domanda ancora: «Basentini che corrente è?». Il pm di Roma spiega: «È del nostro concorso vicino a noi bravo ragazzo cugino di Speranza di Leu molto amico di Pucci. Che lo ha voluto». In quel mese di giugno del 2018 le nomine di via Arenula scatenano gli appetiti dei magistrati di tutta Italia e il povero Fofò prova a riempire le caselle con la sua agenda, a onor del vero, piuttosto spoglia. C'è una chat tra Palamara e l'amico procuratore Paolo Auriemma che ben descrive il clima di quei giorni: «Se ho capito bene Ariolli (Giovanni, consigliere della Cassazione, ndr) sta chiedendo curricula a magistrati per vedere chi deve essere mandato al ministero e questo lo sta facendo perché glielo ha chiesto Fabrizio Di Marzio (pure lui consigliere della Cassazione e docente universitario) al quale lo ha chiesto Conte (Giuseppe, in quel momento neo premier, ndr)». In effetti Di Marzio viene considerato un magistrato molto vicino al presidente del Consiglio. Ma nel giugno del 2018 Conte è ritenuto un burattino nelle mani dei vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini. E infatti tra le toghe viene considerata una strada più efficace quella che raggiunge il grillino doc Bonafede tramite il futuro vicecapo di gabinetto Leonardo Pucci. Continua Auriemma: «Di Marzio è una persona che con piacere non frequento. Per altro stamattina mi ha detto Roberto Rossi (ex procuratore del caso Banca Etruria, ndr) che il collega di Arezzo (Pucci, ndr) sta facendo delle resistenze ad andare come capo di gabinetto perché è persona seria e consapevole e capisce forse di non essere in grado». In sostanza Bonafede, che aveva deciso di non mettere il ministero unicamente nelle mani degli uomini di Pier Camillo Davigo e Di Matteo, scegliendo anche magistrati di altre correnti, non riesce a trovare toghe di primo piano pronte alla bisogna. Pucci si sarebbe tirato indietro e il Guardasigilli sarebbe stato costretto a ripiegare su Fulvio Baldi, sostituto pg della Cassazione diventato famoso, nel 2016, per aver chiesto l' assoluzione nel processo Mediatrade per Fedele Confalonieri e Piersilvio Berlusconi. Baldi, dopo quasi due anni, verrà travolto dalle chat e dalle conversazioni con Palamara.

Attilio Bolzoni per “la Repubblica” il 2 giugno 2020. Si sono impossessati della sua memoria, lo invocano, il suo pensiero è violentemente conteso. Si sono impadroniti della sua storia e ancora dopo trent' anni la scaraventano con cinismo nella mischia di oggi, a volte per attaccare avversari e a volte solo per difendere se stessi. Tutti che si considerano "gli eredi" di Giovanni Falcone anche nel grande mercato delle toghe che, popolato da trafficanti di favori e scambi, si spartiscono incarichi giudiziari come un bottino. E sempre e comunque nel nome di "Giovanni" e di "Paolo". È stato un diluvio di ipocrisie questo 23 maggio di celebrazioni appena passato, incattivito dallo scandalo che sta trascinando in un gorgo pezzi di magistratura, che si abbatte vergognosamente sulla Anm e sul Consiglio Superiore, un dare e un avere, trattative, ogni tanto anche qualche ricatto. Avvilente spettacolo che va in scena intercettazione dopo intercettazione e talk show dopo talk show. Falcone e Borsellino, Borsellino e Falcone. «Io, che ero il cognato, lo chiamavo e continuo a chiamarlo dottor Falcone, tutti quelli che lo chiamano per nome non fanno altro che lucrare su di lui perché non hanno altro da dire e da esibire, è diventata una pessima abitudine quella di evocare la figura di quei due uomini per costruire la propria immagine», ci dice Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, la moglie di Falcone assassinata anche lei a Capaci. Da giovedì scorso Morvillo è ufficialmente in pensione, ultimo incarico procuratore capo della repubblica di Trapani: «Anche Palamara che lo ricorda nell' anniversario avrebbe fatto meglio a tacere, proprio lui che era al centro di quelle trame». Il riferimento è a un tweet del 23 maggio: «Da Giovanni Falcone c' è solo da imparare ogni giorno..». Finzione, una fazione di magistratura schiacciata sulla retorica, sui riti. Ma mai, mai, che qualcuno di tutti coloro che si si gloriano di avere ricevuto per grazia divina l'"eredità" di Giovanni Falcone si sia soffermato nemmeno per un momento sulla "diversità" dell' uomo e del magistrato. «La verità è che il dottore Falcone è stato fottuto dalle correnti della magistratura e sicuramente non una sola volta », dice ancora Alfredo Morvillo. Più il tempo scorre e più Giovanni Falcone sembra un italiano fuori posto in Italia. Dell' Italia di allora e dell' Italia di oggi. Ma sarebbe sbagliato - e non solo ingeneroso - caricare su Palamara tutto il peso di un suk così largamente frequentato e avvelenato dagli spericolati giochi delle correnti. Quelle stesse correnti che hanno isolato e umiliato Falcone da vivo, quelle stesse correnti che nel corso degli anni in suo nome hanno "sistemato" i propri uomini nei posti chiave. Anche ai vertici dell' Antimafia giudiziaria, la procura nazionale antimafia. Patti. Combine. C' è qualcosa di profondamento falso e di grottesco in questa corsa nell' appropriarsi sottobanco dell' esistenza di quei giudici uccisi nel 1992, sfruttando proprio quel gioco grande che ha "sacrificato" Falcone, che ne ha mortificato le idee, che ha cercato di distruggere la sua passione civile, il suo talento investigativo. Nella primavera dell' 88, nonostante l' eccellente prova che aveva dato si sé, il Csm preferisce nominare al suo posto Antonino Meli, un anziano magistrato che nulla sapeva di mafia. Poi Falcone si candida a Palazzo dei Marescialli e viene implacabilmente bocciato. Poi ancora è in pole position per diventare procuratore nazionale antimafia ma - proprio alla vigilia della sua morte - il Consiglio Superiore sceglie Agostino Cordova. Tra una sconfitta giudiziaria e l' altra deve dirigere l' Alto Commissario per la lotta alla mafia, ma ancora volta lo scavalca un altro magistrato, Domenico Sica. Rischiava - obiettavano i suoi "amici" di oggi - di diventare una sorta di zar dell' Antimafia. Su questo giornale, Mario Pirani, racconta qualche giorno dopo Capaci l' odissea di Falcone ricordando l' Aureliano Buendìa di Cent' anni di solitudine, che in vita aveva combattuto trentadue battaglie e le aveva perse tutte. La verità è che la politica e le correnti della magistratura non lo volevano da nessuna parte. «Da morto preferiscono celebrarlo senza chiedersi mai chi, oltre alla mafia, l' ha fatto saltare in aria», dice suo cognato Morvillo.

Magistratura e spartizioni. Quando Giovanni Falcone fu silurato dai professionisti dell’antimafia. Valter Vecellio su Il Riformista il 4 Giugno 2020. Tra le molte cose che il pubblico ministero romano Luca Palamara dice nel corso della sua “audizione” alla trasmissione Non è l’Arena di Massimo Giletti, una sembra “scivolare”, e invece merita una riflessione. E invece, proprio oggi che un po’ tutti parlano di riforma radicale della giustizia, utile sarebbe non smarrire la memoria. Non fosse altro per acquisire una volta tanto la consapevolezza che i partiti politici spesso hanno cercato di usare magistratura e inchieste; ma molto spesso sono stati i magistrati, superando i loro singoli orientamenti, a fare “partito”, di volta in volta utilizzando chi si prestava al “gioco”. Palamara, nella trasmissione di domenica scorsa, parla della bocciatura da parte del Consiglio superiore della magistratura di Giovanni Falcone, candidato all’Ufficio Istruzione di Palermo. Gli viene preferito, con il criterio dell’anzianità, Antonino Meli. Peccato che in precedenza quella “regola” non venne applicata: il posto di procuratore a Marsala è dato (giustamente), per meriti a Paolo Borsellino, nonostante in corsa ci fosse un altro magistrato, con pratica “minore” di antimafia, e però maggiore anzianità. È questo, nell’essenza, il quesito posto da Leonardo Sciascia con il famoso articolo sui Professionisti dell’antimafia: regole come pelle di zigrino, che si allungano o si accorciano a seconda della bisogna. Palamara osserva che anche in quell’occasione, in seno al Csm, si vota secondo logiche (s)partitorie, come del resto quasi sempre avviene. Per Meli, votano (voto palese, con dichiarazione di voto pubblica. Chi come chi scrive quel giorno è lì: ricorda bene la tensione e i vari magheggi nelle stanze attorno all’aula del Plenum intitolata a Vittorio Bachelet): Francesco Mario Agnoli, Giuseppe Borrè, Antonio Buonajuto, Giuseppe Cariti, Felice Di Persia, Vincenzo Geraci, Nicola Lapenta, Sergio Letizia, Marcello Maddalena, Umberto Marconi, Franco Morozzo Della Rocca, Elena Paciotti, Sebastiano Suraci, Gianfranco Tatozzi. Maddalena: magistrato in Torino, di orientamento conservatore-giustizialista, da sempre buon amico di Marco Travaglio (hanno anche scritto un libro a quattro mani, Meno grazia, più giustizia). Di Persia: uno di quei magistrati saliti alla ribalta per via dell’affaire Tortora; eletto al Csm anche sull’onda di quell’inchiesta.

Giuseppe Borrè ed Elena Paciotti: militano entrambi in Magistratura Democratica, la corrente di sinistra dell’Associazione nazionale magistrati. Paciotti, scaduta dal Csm è candidata ed eletta dal Pci al Parlamento europeo. Questo per non smarrire la memoria, tenere presente chi sono e cosa fanno gli “attori” di quegli anni; e anche per ricordare come di volta in volta si componevano e scomponevano i “fronti”. A favore di Falcone, votano: Antonio Abbate, Massimo Brutti, Pietro Calogero, Giancarlo Caselli, Fernanda Contri, Vito D’Ambrosio, Mario Gomez D’Ayala, Stefano Racheli, Carlo Smuraglia, Guido Ziccone. Si astengono: Bartolomeo Lombardi, Cesare Mirabelli (all’epoca vicepresidente del Csm), Renato Papa, Erminio Pennacchini, Vittorio Sgroi. Quattordici voti contro; dieci voti a favore; cinque astenuti. Se non solo Geraci (componente del pool antimafia palermitano), ma anche i due di Magistratura Democratica avessero votato Falcone, il risultato si sarebbe ribaltato: undici contro, tredici a favore. Ma almeno, come si è detto, il voto, le dichiarazioni di voto, le “trame” dietro quel voto, sono pubbliche. Chi ha vissuto quel giorno, può raccontarlo. Falcone – e qui si entra in una vicenda ancora più grave della precedente – per la corrente dei Verdi si candida al Csm. Viene sonoramente bocciato. Dai suoi colleghi, che non sono il ristretto “sinedrio” del Csm. Sono i suoi colleghi: quelli con cui lavora gomito a gomito ogni giorno, lo conoscono, sanno chi è, cosa fa, cosa intende fare. Nel segreto dell’urna, vigliaccamente, senza dichiarare voto a favore o contrario, lo accoltellano alle spalle. Quei colleghi che lo hanno accoltellato nel segreto dell’urna non sono certo migliori di quelli che a viso aperto lo hanno bocciato al Csm. Il marcio (se così lo si vuol definire) di oggi viene da lontano; un verminaio esteso e consolidato. Dunque si crocifigga pure Palamara; gli si faccia pagare anche quello che attiene alla sua sfera privata, e che non ha alcuna rilevanza penale. Nessun problema. Ma che nessuno sia così ipocrita, tra i tanti magistrati e giornalisti, da dire: non sapevo, ignoravo, sono sorpreso. Questo, proprio, no.

Separazione delle carriere, Caselli dovrebbe rileggere Falcone…Gian Domenico Caiazza, Beniamino Migliucci su Il Riformista il 27 Luglio 2020. Sul Corriere del 15 luglio scorso è apparso un articolo del Dott. Giancarlo Caselli dal titolo “Carriere separate, le ragioni di un no”. L’ex pubblico ministero sostiene che il dibattito sulla separazione delle carriere si inserisce in una strategia per mortificare la magistratura e sterilizzare, se non impedire, l’esercizio indipendente della giurisdizione, nascondendo così un tentativo di “limare le unghie della magistratura”. Prescindendo dal fatto che la magistratura non dovrebbe, mai, né affilare, né mostrare le unghie, tali considerazioni costituiscono una accusa strumentale, quanto infondata, abbandonata ormai anche dai più strenui oppositori della riforma ordinamentale, e tradiscono l’intendimento di non affrontare laicamente il merito di una questione importante non per magistrati o avvocati, ma per la giustizia e l’intera comunità. Le obiezioni mosse dal Dott. Caselli alla proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare promossa dall’Unione delle Camere Penali Italiane, attualmente in discussione in Parlamento, sono sostanzialmente due, anch’esse note quanto superate. La prima consiste nell’affermare che il Pubblico ministero finirebbe, inevitabilmente, sotto il potere esecutivo e ne sarebbe condizionato; la seconda nella circostanza che i magistrati inquirenti, separati dai Giudici, verrebbero a godere di un inedito ed esagerato potere. In merito al primo rischio ipotizzato, basterebbe leggere la proposta in esame in Parlamento per sfatare quella che ormai può considerarsi una leggenda metropolitana e rendersi conto che il Pubblico ministero conserverebbe la propria autonomia e indipendenza, rimanendo saldamente inserito nell’ordine giudiziario, a sua volta autonomo e indipendente dal potere politico. Per quanto alla paventata possibilità di un eccessivo quanto incontrollato potere dei Pubblici ministeri, capace di competere e condizionare il potere politico, determinando, con un semplice avviso di garanzia, dimissioni di ministri o cadute di governi, in grado di impedire la promulgazione di leggi invise e di occupare spazi strategici all’interno dei ministeri o dell’amministrazione, o di sfruttare il consenso ottenuto con le proprie indagini per entrare in politica, non è già ciò che avviene ed è sotto gli occhi di tutti? Le recenti vicende che hanno riguardato la magistratura hanno dimostrato ancora una volta come, non a caso, i posti più ambiti fossero i vertici delle Procure più importanti e le ragioni sono intuibili. Iscrivere o non iscrivere una notizia di reato, ritardarne l’iscrizione per questo o quel diverso titolo di reato, conferisce un potere di condizionamento che non poteva sfuggire alla politica, il tutto con evidenti ricadute anche sulla separazione dei poteri, minata, altresì, dalla commistione tra politica e magistratura che si realizza attraverso i magistrati fuori ruolo, chiamati a svolgere funzione con valenza politica o amministrativa. Altro che rischi connessi alla riforma in discussione che, invece, contiene una serie di norme che, con la riforma del Csm e la modifica della obbligatorietà dell’azione penale, costituiscono un antidoto alle degenerazioni del sistema, evitando, tra l’altro, che i Giudici debbano dipendere nel disciplinare, o per le promozioni, dalle valutazioni dei Pubblici ministeri, come oggi avviene. Non solo. Chiedere l’effettiva applicazione dell’art. 111 della Costituzione che prevede un Giudice imparziale e terzo, proprio per garantire la parità delle parti, serve ad eliminare una anomalia tutta italiana, tenuto conto che i Paesi che hanno adottato il sistema accusatorio hanno attuato la separazione delle carriere. Il potenziamento del ruolo del Giudice consentirebbe di eliminare lo squilibrio tra inquirenti e giudicanti, perché il “controllato” (il Pm) ha preso il sopravvento sul “controllore” (il Giudice), tanto che le indagini, e non solo nell’immaginario, hanno assunto un peso e un’importanza maggiore persino delle sentenze, pregiudicando, tra l’altro, il principio costituzionale della presunzione di innocenza. Rafforzare il Giudice, quale garante dei diritti, conservando l’autonomia e l’indipendenza del Pm, non può essere considerato punitivo per la magistratura. La riforma, al contrario, accrescerebbe il prestigio della giurisdizione conferendole nuova e compiuta legittimazione. Un Giudice distinto da chi accusa e chi difende sarebbe anche percepito come effettivamente terzo e le sue decisioni acquisterebbero maggiore autorevolezza e sarebbero accettate, proprio perché la terzietà assicura e certifica la imparzialità della decisione. Molti magistrati, contrariamente a quello che si ritiene, non sono avversi a tale riforma, tra questi, ci piace ricordare, Giovanni Falcone, giustamente evocato quando si parla di lotta alla mafia, ma trascurato, se non censurato, quando l’argomento riguarda la separazione delle carriere. Questo diceva il Giudice Falcone: «Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e delle stesse carriere dei magistrati dal Pm non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il Pm, arbitro della controversia il Giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del Pm dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti, rispetto a quelle giudicanti, nell’anacronistico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura» (Fondazione Giovanni Falcone, Giovanni Falcone, interventi e proposte 1982 / 1992).

Magistratopoli, parla Giuseppe Ayala: “Csm verminaio, Falcone capì tutto 30 anni fa”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 3 Giugno 2020. Giuseppe Ayala, Pm antimafia per anni affiancato al pool di Falcone e Borsellino, dall’alto dei 75 anni appena compiuti ha ancora tanta voce, quanta memoria. “The voice”, lo chiamava Falcone: «Tu sei la Voce, ma la canzone la scriviamo insieme». E poi andavano a far cantare gli imputati, nelle aule di giustizia in cui Ayala teneva le requisitorie. «Nell’aula bunker del maxi processo rimasi chiuso dentro per otto giorni e otto notti: per sicurezza dovevo rimanere blindato». Una storia di magistratura in prima linea, negli anni roventi dello scontro frontale con Cosa Nostra. «Ero un Pm competitivo, dicevano di me Borsellino e Caponnetto. E posso dire di non aver mai perso un processo». In quegli anni, nessuna comparsata televisiva. Una passione civica mai sopita lo porterà invece a Roma, dove è stato parlamentare quattro volte: due alla Camera e due al Senato. Oggi è vicepresidente della Fondazione Giovanni Falcone e gira le scuole per portare la memoria della sua guerra alla mafia.

Che cosa sta succedendo alla magistratura?

«Non conoscevo da vicino i modi di fare di certi personaggi rappresentativi del Csm. Ma sostengo da anni che il Csm è il peggior nemico dei magistrati. Il ministro della Giustizia Vassalli una volta disse: «Ogni Csm riesce ad essere peggiore del precedente». E questi tempi non fanno eccezione. È emerso un verminaio».

Non è sorpreso, quindi.

«Diceva Giovanni Falcone nel 1988: «Se i valori dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura sono in crisi, questo dipende in maniera non marginale dalla crisi che da tempo investe l’associazione dei giudici, rendendo l’Anm un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi. Le correnti dell’Anm si sono trasformate in macchine elettorali per il Csm e quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata in seno all’organo di governo della magistratura con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica». Io non ho l’autorevolezza di Falcone, ma penso la stessa cosa».

Che cosa le ha insegnato la sua esperienza politica?

«I tre poteri di Montesquieu devono rimanere indipendenti, la confusione e la debolezza della politica implicano il rafforzamento del potere giudiziario, e non è mai un bene. Se le istituzioni fossero forti, autorevoli, indiscutibili, chi esercita altre funzioni tornerebbe nel suo alveo».

E lei quando decise di passare dalle aule giudiziarie a quelle del Parlamento?

«Giorgio La Malfa mi telefonò e mi disse di andarlo a trovare. Ero con Falcone, che volle accompagnarmi. Mi chiese di candidarmi alla Camera, chiesi 24 ore di tempo per riflettere. Aspettavamo l’ascensore, Falcone mi disse: «Sai quali sono le scommesse che si perdono sicuramente? Quelle che non si accettano». Il suo incoraggiamento fu decisivo: rientrai nell’ufficio di La Malfa, dicendogli: «Le 24 ore sono passate. Accetto». Ma non ho mai preso la tessera di un partito, perché un magistrato non deve prendere tessere di partito».

Anche perché i partiti dei magistrati sono le correnti, come insegna Palamara.

«Io non voglio difendere Palamara, me ne guardo bene. Ma in questa vicenda lui ci è incappato perché aveva il trojan nel telefono, ma penso che altri Palamara ce ne sono. E chissà quanti. Lo strapotere delle correnti è un problema strutturale. Ma tengo anche a dire che la magistratura è fatta da donne e uomini che ogni giorno vanno a svolgere il proprio lavoro con serietà e sobrietà».

Ha notizia di altri casi Palamara?

«Non voglio fare nomi, ma anni fa sostenni che ci sono dei colleghi che facendo i magistrati, seguono una carriera parallela. Usano la carriera di magistrato per assumere ruoli di potere. Sto pensando a un nome che non farò, ho certamente in mente qualcun altro alla Palamara. E potrei mettere giù un elenco. Non c’era solo Palamara, ma diciamo che si era conformato bene a questa logica della carriera parallela».

Lei ha letto la bozza di riforma?

«Ho letto questo discorso del sistema elettorale; con priorità di genere e ballottaggio. È una sperimentazione; la cosa peggiore nella vita è stare fermi, poi non è detto che sia la soluzione migliore. Io ho parlato con qualche collega, tutti si aspettano un intervento tempestivo e efficace».

Lo auspicano a bassa voce.

«Non parlano perché in fondo hanno subìto. Ma tutti vogliono che cada questo sistema».

La corruzione è fisiologica, quando troppo potere si cristallizza sempre nelle stesse mani.

«Esattamente. Quando gestisci troppo potere e troppo a lungo e diventi di fatto il referente di chi vuole condizionare la vita pubblica e le porte della corruzione si aprono».

Che rapporto avevano Falcone e Borsellino con la magistratura associata?

«Paolo (Borsellino, ndr) era militante autorevole di Magistratura Indipendente, l’area più conservatrice. Ma di giochi di potere di questo genere non ne sognava neanche di notte. Era una persona trasparente e pulita che credeva molto nei valori altissimi del magistrato. Falcone era meno impegnato nelle aree associative, anche se per la verità insieme demmo vita a una corrente che chiamammo I Verdi. Non per attenzione all’ambiente, ma perché casualmente il foglio su cui avevamo scritto i principi fondamentali era verde. Era un impegno di rottura, che poi si trasformerà nel tempo nella corrente di Area. Non ci impegnammo però poi molto, anche perché eravamo sin troppo occupati con il lavoro quotidiano per dedicarci a queste attività».

Come ogni anno, nell’anniversario di Falcone tutti si riscoprono suoi buoni amici. Anche la politica. Ma lui in realtà da che parte stava?

«A me e Falcone ci chiamavano Toghe Rosse. Avevamo una sensibilità di sinistra ma né Falcone né io abbiamo mai votato Pci. Avevamo votato tutti e due Pri. Quando io mi candidai nel 1992 alla Camera con i Repubblicani, fui spronato e sponsorizzato da Falcone. La famosa fotografia in cui Falcone e Borsellino sorridono insieme, spalla a spalla, è stata scattata dal fotografo Tony Gentile al comizio del Pri di Palermo che facemmo per lanciare la mia candidatura».

Falcone aveva rapporti stretti con la politica?

«Nessuno in particolare, era un elettore repubblicano convinto, come dicevo: un ammiratore di Ugo La Malfa. Non intrattenne mai rapporti, e tantomeno chiese favori. Abbiamo convissuto per dieci anni, lo so con certezza. Con il ministro della Giustizia Claudio Martelli andava d’accordo, più per ragioni istituzionali che per simpatia politica».

Sulle commistioni di affari tra mafia e politica avevate lavorato anni.

«Il mandato d’arresto per Ciancimino lo avevamo firmato io e Falcone. I cugini Salvo, che erano i due uomini più ricchi e potenti della Sicilia, legati a Salvo Lima, su mia richiesta sono stati arrestati con mandato emesso da Giovanni Falcone. Che poi fu addirittura accusato da esponenti dei movimenti antimafia, con un esposto firmato al Csm, di nascondere nel cassetto le prove del rapporto tra mafia e politica. Puttanata gigantesca che però gli provocò una grande amarezza. Nei cassetti di Giovanni non c’era nulla di nascosto: quando adottavamo una iniziativa, avevamo gli elementi che in dibattimento portavano alla sentenza di condanna. Non facevamo cose per finire sui giornali. E la storia parla per noi: i processi li abbiamo vinti tutti».

I tempi sono cambiati, le luci della ribalta piacciono a tutti.

«Oggi c’è una sensibilità mediatica di alcuni magistrati. Comparire sui giornali e andare in tv piace a molti, con alcuni giornalisti tengono ad avere rapporti tali per garantirsi quel successo mediatico cui tengono. Falcone era l’opposto. Noi non abbiamo mai fatto un comunicato stampa. Lavoravamo con la riservatezza dovuta al nostro ruolo, al riparo dai giornalisti».

A proposito: Saverio Lodato, L’Unità di Palermo, ha rivelato una confidenza di Falcone…

«Ho visto che dopo trentun anni ha ricordato che Falcone, con cui si davano del lei, gli avrebbe riferito un sospetto, una cosa così riservata, facendogli il nome di Contrada come mente dietro all’attentato dell’Addaura. Sarà vero ma non ci credo. Mi suona strano, per l’accortezza di Giovanni».

Che idea si è fatto di Contrada?

«Anni prima del 1989, Contrada mi venne a trovare in ufficio. Giovanni mi mise in guardia: “Accura a Contrada”, mi disse in siciliano. Quando Contrada andò a processo venni ascoltato, e lo raccontai».

Quindi le riserve di Falcone su Contrada c’erano.

«Sì. Da molto prima dell’Addaura».

Andiamo a via D’Amelio. «Dopo Falcone e Borsellino, il terzo sarà Ayala», si disse.

«Mi fu detto esplicitamente da livelli istituzionali molto alti, e infatti non le dico dall’attentato di via D’Amelio in poi quali misure di sicurezza furono prese. Mi fu sconsigliato di andare a Palermo. Le rare volte in cui andavo, con volo di Stato da Roma, trovavo ad attendermi due elicotteri: io dovevo scegliere all’ultimo su quale salire, senza dirlo prima a nessuno. In volo, gli elicotteri dovevano seguire sempre percorsi diversi, una volta sul mare, un’altra sull’interno. Cambiò tutto il protocollo di sicurezza, e funzionò».

Con Falcone e Borsellino le misure non furono così attente.

«Ci furono dei buchi incredibili nella rete di sicurezza. Dentro Palermo per andare al Palazzo di giustizia ogni giorno ci facevano cambiare percorso, poi per prendere l’aereo si andava dritti a Punta Raisi con l’unica strada esistente. Una volta Falcone fu profetico, eravamo in macchina insieme e mi disse: «Ma se ci fanno un attentato qui, in autostrada?» – ed ebbe anche quella volta ragione. E per Borsellino, che aveva l’abitudine di andare a trovare spesso l’anziana madre, è assurdo che nessuno abbia pensato di mettere un presidio di protezione lì in via D’Amelio».

Che successe quando lei arrivò, tra i primi, in via D’Amelio il giorno dell’attentato?

«Stavo a duecento metri, arrivai subito, con la scorta. Fu uno choc incredibile, tra fuoco e fiamme mi ritrovai tra le gambe un corpo carbonizzato: era Paolo Borsellino. Presi la sua borsa dalla macchina e la consegnai a un ufficiale dei Carabinieri».

L’agenda rossa però da lì in poi è scomparsa.

«Io di una sua agenda rossa non sapevo neanche l’esistenza».

È diventata un’icona. Un simbolo. Forse anche un mito.

«Se ne è parlato moltissimo, ma non ne sapevo niente. Paolo Borsellino nel 1986, tre anni prima di morire, diventò Procuratore della Repubblica di Marsala. Tornò a Palermo a fine 1991 o inizio 1992. Dunque fino a poco prima non ci eravamo frequentati, non conoscevo i suoi oggetti personali. Comunque ognuno di noi ha la sua agenda con i propri impegni, ma posso dire una cosa per certo: nessun grande magistrato affida tutti i suoi segreti a un’agendina. Esistono archivi, schedari, fascicoli. E Paolo era puntuale e meticoloso: appena appurava qualcosa lo andava a riferire a chi di competenza o aggiornava gli atti di indagine».

Giovanni Falcone aveva una sua agenda riservata?

«Aveva un’agenda con gli appuntamenti, come la avevo io. Una volta doveva andare a New York, dove in aeroporto vendono a buon prezzo il profumo preferito di mia moglie, “Tatiana” di Diane Von Funstenberg. Un profumo che a Palermo non si trova facilmente. Gli chiesi di farmi la cortesia di comprarmi un paio di confezioni e Giovanni annotò “Tatiana” sulla pagina, alla data di New York. Pensai: se succede qualcosa, se smarrisce l’agenda, chi la trova immaginerà subito che c’era un’amante con questo nome ad aspettarlo. Le agende sono fatti privati».

Oggi nell’agenda di certi magistrati ci sono invece gli studi televisivi.

«C’è una propensione alla notorietà, oggi, che noi non conoscevamo. Una bella intervista a Davigo, che spara cose forti, ci sta. Capisco che tiri su gli ascolti. Ma questo non giova alla magistratura. A noi insegnavano che la riservatezza è una dote fondamentale per chi vuole far bene questo mestiere. Piercamillo è un uomo molto intelligente che si è andato radicalizzando, negli anni. Questa sua frase per cui «non vanno aspettate le sentenze» è una frase che non devi dire, se fai il magistrato».

Forse non la devi neanche pensare.

«Non la devi neanche pensare, ma men che mai dirla. Poi è vero che in Italia manca il controllo sociale, che il senso civico è spesso scarso. Il mio sogno è che l’amore per la giustizia sia tanto diffuso da portare all’autocontrollo, a un senso più alto di responsabilità e del pudore. Se la politica recupera dignità e riesce a selezionare meglio la classe dirigente, lo strapotere giudiziario si arresta».

Chi è Giuseppe Ayala, braccio destro di Giovanni Falcone. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 3 Giugno 2020. Giuseppe Ayala è nato a Caltanissetta nel 1945. Sostituto procuratore della Repubblica, ha coadiuvato a lungo il pool antimafia. Fu pubblico ministero al primo maxiprocesso, diventando poi Consigliere di Cassazione. Grande amico e braccio destro di Giovanni Falcone, ha raccontato così il primo incontro con il giudice poi ammazzato dalla mafia a Capaci. «Alfredo Morvillo, il magistrato fratello di sua moglie Francesca, ci presentò nel 1981. Eravamo al Palazzo di giustizia di Palermo, dove bevemmo un caffè. Due chiacchiere e la simpatia fu immediata. Da lì iniziò un’intensa frequentazione: almeno un paio di volte la settimana ci vedevamo a cena con le mogli». Poi dalla conoscenza scattò l’ora della collaborazione sul campo. «Abbiamo iniziato a lavorare insieme – ha raccontato Ayala – dopo l’omicidio Dalla Chiesa. Eravamo quattro pm a seguire l’innovatore, perché Falcone è stato soprattutto questo. Non chiese nuove norme, ma utilizzò quelle esistenti in modo diverso. Gli accertamenti bancari, per esempio: la droga non lascia tracce, ma i soldi sì, diceva. Poi ci furono i contatti diretti con i giudici stranieri. Grazie alle sue indagini Falcone godeva di una vasta credibilità internazionale. Prima di lui le rogatorie internazionali avvenivano in modo burocratico. Lui, invece, viaggiò, conobbe i colleghi stranieri, avviò un felice scambio di informazioni. E ciò dette grandi risultati». Fu poi la volta del salto in politica, caldamente consigliato dall’amico Falcone. «Nel 1992 – è il racconto di Ayala – Falcone mi convinse ad accettare la candidatura in Parlamento, offertami da Giorgio La Malfa. Quando fu ucciso l’onorevole Salvo Lima, ai primi di maggio del 1992, ero in campagna elettorale. Mi chiama Falcone: «ci vediamo domani sera a casa mia anche con Paolo (Borsellino, ndr), ce la fai a venire?» Ci siamo riuniti noi tre soli. Abbiamo compreso che quell’omicidio era l’apertura di una stagione di omicidi e se ne intuiva il seguito. In quella sede, sia Paolo che Giovanni mi dissero: tu ti salverai se eletto in Parlamento, perché non sarai più ritenuto pericoloso, sarai uno dei mille parlamentari, e loro questo tipo di omicidi non li fanno per vendetta ma per fermarti nella tua azione. Eletto alla Camera dei deputati nel 1992, poco prima dell’omicidio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino del pool antimafia (pool col quale Ayala era stato interlocutore presso la Procura della Repubblica insieme con Alberto Di Pisa, Vincenzo Geraci, Domenico Signorino, e Giusto Sciacchitano), diventando deputato nelle file del Partito Repubblicano italiano, passando poi ad Alleanza Democratica, con cui ha confermato il seggio alla Camera dei deputati nel 1994. Dopo la scomparsa di AD aderì al progetto dell’Unione Democratica di Antonio Maccanico con la quale fu eletto al Senato nel 1996 ma poi in corso di legislatura passò tra i Democratici di Sinistra, partito con il quale venne eletto senatore nel 2001 fino al 2006. Sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia dal 1996 durante il governo Prodi I, l’incarico gli fu riconfermato anche nei successivi governi D’Alema I e II, fino al 2000. In pensione dal 2011, Ayala oggi gira le scuole d’Italia per raccontare la mafia ai ragazzi. Ma ricordi e riflessioni di quella terribile stagione sono stati raccolti anche in tre saggi: La guerra dei giusti, scritto in collaborazione con Felice Cavallaro (1993), Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino, 2009, e Troppe coincidenze. Mafia, politica, apparati deviati, giustizia: relazioni pericolose e occasioni perdute (2012), tutti e tre editi per i tipi di Mondadori.

Intercettazioni e stranezze. Magistratopoli, il mistero del trojan di Palamara che non ha intercettato Davigo…Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Giugno 2020. I trojan sono uno strumento di indagine nuovo, logico che non sempre funzionino bene. O forse no. Forse funzionano benissimo. Cosa è successo al trojan del povero Luca Palamara? Ha intercettato tutto e tutti e ha riferito agli inquirenti. Pagine e pagine per trascrivere ogni più piccolo e insignificante colloquio. Anche quello col suo meccanico di fiducia. Ci sono volute 60mila pagine per riportare l’enorme mole di lavoro del trojan. Il quale pare sia sensibilissimo, e registri anche i sospiri, se si tratta di ascoltare, ad esempio, esponenti politici. Di Ferri e Lotti sappiamo tutto. Persino che non solo facevano riunioni, ma addirittura che le facevano di notte, e di notte – si sa – non si discute, si trama. Però il trojan si chiude a riccio e non vuol sentire niente se invece di un politico o di un magistrato antipatico, l’interlocutore di Palamara è un magistrato importante o molto importante. E così succede che Palamara si sta preparando per andare a cena con Pignatone, il Procuratore di Roma, per decidere chi sarà il suo successore e come sarà possibile imporlo, e il trojan, all’improvviso, si rompe. Non intercetta. Una serata di riposo. Le toghe travolte dallo scandalo Magistratopoli propongono un’autoriforma perché temono interferenze. E Davigo? Beh, è lui stesso a raccontare che una sera a un dibattito incontra per caso il dottor Palamara. Gli chiede quale sia l’autobus migliore per tornare in albergo e Palamara gli offre un passaggio in macchina. Lo intercettano? Davigo dice: non c’è traccia. Dunque? Si è rotto un’altra volta il trojan? Mannaggia. Vabbè, succede. Volete sapere quand’è che Davigo ha incontrato per caso Palamara? Alla presentazione di un libro di Davigo presentato da Palamara. C’erano i manifesti coi due nomi stampati belli grandi: DAVIGO e PALAMARA. Però probabilmente Davigo non lo sapeva che quella sera lì si sarebbe presentato proprio il suo libro e proprio con Palamara. Sono le cosiddette presentazioni a sua insaputa…

Magistratopoli, l’intercettazione sparita tra Davigo e Palamara. Paolo Comi su Il Riformista il 2 Giugno 2020. Sono innumerevoli le conversazioni, anche con il proprio meccanico o il ristoratore di fiducia, intercettate lo scorso anno a mezzo del virus trojan inoculato nel telefono dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Tuttavia di taluni incontri non vi sarebbe alcuna traccia di registrazione. Fra questi, l’incontro fra Palamara e Piercamillo Davigo. È stato lo stesso togato del Csm a riferire la notizia. «Non ci sono intercettazioni contro di me», ha dichiarato Davigo alla trasmissione Piazza Pulita su La7 la scorsa settimana. L’episodio è stato poi ripreso da Massimo Giletti domenica sera a Non è l’Arena, sempre su La7. A quale circostanza si riferiva? Il 9 aprile del 2019 Davigo aveva presentato il suo libro In Italia violare la legge conviene al circolo delle Vittorie di Roma. Con lui, leggendo la locandina dell’evento, l’avvocato Antonio Galletti, presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma, il giudice di Cassazione Davide Lori e, appunto, Luca Palamara. «Io una sera – ha ricordato Davigo a Corrado Formigli – sono andato a fare un dibattito, a presentare un libro che avevo scritto a Roma e non sapevo che tra i relatori era stato invitato anche Palamara». E poi: «Andando via ho chiesto che mezzo pubblico passasse e lui si è offerto per un passaggio in macchina: io immagino che lui avesse il trojan». Da qui, la precisazione che «non ci sono intercettazioni contro di me». E in effetti quanto riferito da Davigo corrisponde al vero, dato che il gip di Perugia Lidia Brutti autorizzò il 22 marzo del 2019 l’utilizzo del trojan. Il 26 marzo successivo la Procura di Perugia chiese all’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, ottenendola, l’autorizzazione ad utilizzare le apparecchiature della Rcs (la società milanese leader delle intercettazioni telefoniche) installate presso la sala ascolto di piazzale Clodio. I pm umbri specificarono che le apparecchiature dovevano essere utilizzate per la registrazione mentre l’ascolto sarebbe stato effettuato dalla pg mediante remotizzazione. Le intercettazioni furono condotte dai finanzieri del Gico. All’epoca il Nucleo della Finanza era comandato dal colonnello Paolo Compagnone. Fra i suoi collaboratori, il colonnello Gerardo Mastrodomenico. Compagnone diventerà poi il comandante provinciale della Gdf di Roma, sostituendo il generale Cosimo Di Gesù. Al posto di Compagnone, il colonnello Gavino Putzu. Mastrodomenico, invece, sarà trasferito a Messina con l’incarico di comandante provinciale. Alcuni di loro avevano lavorato con Pignatone in Calabria e Sicilia. Come mai nemmeno una frase sarebbe stata registrata nel tragitto, breve o lungo che sia, dal circolo delle Vittorie fino alla dimora romana di Davigo? Le possibili riposte sono due: Palamara non aveva con se il telefono (il trojan registra anche se il telefono è spento) o i finanzieri non avevano attivato il dispositivo. Il trojan, infatti, per funzionare deve essere acceso da remoto. Un’altra circostanza di non “funzionamento” è durante la cena del 9 maggio fra Palamara e Pignatone. Il trojan registra tutto perfettamente fino alle ore 16 per poi “assopirsi” fino al giorno successivo. Quando Palamara parlava con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti il trojan, invece, era sempre accesso con ottima acustica. La sera prima, l’8 maggio, durante il dopo cena all’hotel Champagne, registrò anche i sospiri di Paolo Criscuoli, il togato di Magistratura indipendente costretto poi alle dimissioni, che durante tutta la serata non proferì verbo.

Pignatone sotto assedio: preso a bastonate per inchiesta Palamara e scaricato da Travaglio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Giugno 2020. Alle volte anche i potenti, i potentissimi, ricevono delle bastonate. In genere si riprendono in fretta. Però quando le bastonate sono tante, e arrivano tutte insieme, e da direzioni diverse, è un problema. In questi giorni Giuseppe Pignatone, il magistrato (l’ex magistrato) più potente d’Italia, il dominus della giustizia italiana negli ultimi dieci anni, sta prendendo parecchie bastonate. Ieri è arrivata l’ultima: le motivazioni con le quali la Cassazione ha smontato il processo Mafia-Capitale. Nel senso che ha negato che ci fosse traccia di mafia, nei delitti vari – essenzialmente estorsioni e tangenti – che furono l’oggetto del processone. Su Mafia-Capitale, Pignatone e i suoi – compreso l’attuale procuratore di Roma Michele Prestipino – hanno costruito la loro fama e il loro prestigio. Oggi la Cassazione dice che questo prestigio era usurpato. E che l’errore – diciamo così – degli inquirenti fu marchiano. Non era mafia. Del resto chiunque abbia seguito un po’ quel processo poteva accorgersene sin dal primo momento. Anche se poi i giornalisti non lo scrissero, ma lo sapevano. I politici non lo dissero, ma potevano saperlo. Se non ricordo male ci furono pochissimi giornali e giornalisti che osarono criticare Pignatone deus, ricordo il Foglio e ricordo il giornale che dirigevo all’epoca, che si chiamava Il Garantista. Mi pare basta. Non è che noi fossimo dei grandi investigatori, solo che avevamo imparato cosa volesse dire la parola mafia e avevamo letto qualche dichiarazione e qualche libriccino di Giovanni Falcone. Bastava per capire che Mafia-Capitale era una invenzione pura. Sostenuta dal circolo dei Pignatoniani collegato al circolo dei giornalisti, guidato, come spesso accade, da quelli dell’Espresso e del Fatto.  A che serviva inventarsi la mafiosità inesistente di un gruppetto di estorsori? A due cose. Fama, innanzitutto, e iscrizione gratuita al Club dell’antimafia professionale (una delle lobby più potenti d’Italia, anzi, probabilmente di gran lunga la più potente); e poi semplificazione delle indagini. Se c’è l’accusa di mafia il Pm è molto facilitato, può con semplicità bypassare ogni sorta di garanzia che la legge ordinaria assicura all’imputato, può incarcerare in gran facilità, isolare, indurre con una certa disinvoltura a confessioni vere o fasulle. Il doppio binario della giustizia, che aggira i principi della Costituzione, serve a questo. Ed è una delle ragioni per le quali ormai si cerca di ottenere dai Gip la “modalità mafiosa” anche per un divieto di sosta.

Il crollo del teorema di Mafia-Capitale – che comunque, in un Paese appena un pochino pochino normale dovrebbe costare qualcosina, in termini di credibilità e di carriera, agli investigatori pasticcioni che quel teorema hanno inventato – non è l’unico schiaffo preso da Pignatone in queste ore. Ce ne sono altri due. L’inchiesta Palamara e il definitivo abbandono di Travaglio. L’inchiesta Palamara ha dei punti oscuri per quel che riguarda Pignatone. Il punto oscuro principale è il silenziamento del trojan ogni volta che lo stesso Palamara stava per incontrare Pignatone. Anche quel giorno nel quale andò a cena – pare – per vedere come sistemare la successione alla Procura di Roma. Pignatone voleva il suo delfino, cioè Prestipino, che però non aveva i voti sufficienti in Csm perché il gioco delle correnti portava altrove. (Però alla fine Prestipino fu). Palamara no, voleva Viola, ma era disposto a discutere. Discussero, spiati a loro insaputa dal trojan traditore, ma quel giorno il trojan non tradì. Abbiamo scritto queste cose circa un mese fa, i grandi giornali però non ci hanno dato retta. I grandi giornali, si sa, prendono gli ordini ciascuno da una diversa corrente della magistratura, qualcuno anche contemporaneamente da un paio di correnti, e se quelli delle correnti gli intimano il silenzio, loro silenziano… Ora però le notizie stanno filtrando. E Pignatone non è contento. Non si sa cosa si dissero lui e Palamara durante quella cena, però si sa che la corrente di Palamara, che era per Viola, alla fine votò il candidato di Pignatone. Poi escono altre voci. Pare che Pignatone abbia incontrato il ministro Bonafede varie volte – risulta dalle chat di Palamara – e pare che l’abbia incontrato anche subito dopo la famosa proposta di Bonafede a Di Matteo per il Dap. Siccome – si sa – tra Di Matteo e Pignatone buon sangue non corre, viene il dubbio che Pignatone non abbia espresso un parere favorevolissimo alla nomina di Di Matteo. È possibile che le cose siano andate così? È possibile che sia stato Pignatone deus a far cambiare opinione a Bonafede? C’è il rischio che queste cose emergano, se la commissione parlamentare antimafia invece di cazzeggiare si decidesse ad ascoltare Di Matteo sulle sue accuse sanguinose a Bonafede? E poi – collegato a tutto ciò – c’è la questione Davigo. Davigo si è fatto bello dichiarando che sebbene lui abbia fatto un lungo percorso in auto con Palamara in un giorno d’aprile, il trojan non trasmise niente di compromettente. Infatti non fu trascritto nulla. Prova della sua purezza. Già, ma Davigo – che è un magistrato e un consigliere del Csm quindi deve essere ed è informato – sa benissimo che il trojan fu inoculato a maggio, e quindi ad aprile non c’era. Ha bluffato. Gli succede spesso. Ma cosa c’entra Davigo in questa vicenda di Pignatone? Beh, andate a guardare come sono andate le cose per la nomina di Prestipino a Procuratore di Roma. Davigo è per Viola, per la discontinuità. Cioè per uno che non sia legato a Pignatone e al vecchio gruppo. E lancia anche il suo giornale – dico Il Fatto di Travaglio – nella crociata sulla discontinuità. Prestipino no, Prestipino no, Prestipino no. Però a un certo punto… Cosa succede a un certo punto? Non si sa. Neanche i trojan lo raccontano. Certo è che Davigo in prima persona propone la candidatura di Prestipino. Mette i suoi uomini a disposizione di Pignatone. Ma – sorpresa – i suoi uomini si ribellano. Ardita e Di Matteo si dissociano da Davigo che alla fine si trova da solo – in rottura con la sua corrente – a votare per Prestipino. Ha avuto qualcosa in cambio o è stata proprio una fulminazione ideologica? Chi lo sa. C’entra qualcosa il rinvio della sua pensione e la necessità di poter disporre di un po’ di voti in Csm? Francamente non credo. E allora? Poi c’è l’ultimo capitolo, quello che riguarda Travaglio che ora ha preso coraggio e ha iniziato a picchiare anche lui su Pignatone. Addirittura, con un mesetto di ritardo, si è accorto del trojan che non funzionava quando appariva il nome del Pignatone deus. In realtà a Travaglio Pignatone non è mai stato simpatico. Però un po’ lo temeva. Se ora non lo teme più qualcosa vorrà dire. P.S. Detto tutto ciò, Prestipino l’ho conosciuto in Calabria. Penso che sia un ottimo magistrato. Un magistrato ottimo che ha ottenuto la nomina con metodi pessimi.

Storia di Raffaele Marino, assolto dopo 10 anni di gogna e ignorato dal Csm. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 4 Giugno 2020. Dieci anni senza pace. Intercettato, indagato, accusato di legami con la camorra e processato. Di pari passo con la vicenda penale che l’ha visto protagonista, Raffaele Marino ha dovuto affrontare un procedimento disciplinare nel quale si condensano tutti i mali del Csm: la guerra tra correnti, la lottizzazione delle Procure, il gioco dei veti che consente soltanto agli “amici” di ottenere gli incarichi desiderati. Ed è proprio questo il caso dell’attuale sostituto procuratore generale di Napoli al quale Palazzo dei Marescialli continua a negare il ruolo di procuratore aggiunto, pur dopo la definitiva assoluzione in Cassazione e l’archiviazione disciplinare. L’ultimo no risale a due settimane fa. Una circostanza paradossale di cui il magistrato, per anni membro della Dda partenopea, parla per la prima volta al Riformista: «Non voglio rendermi complice, tacendo, di questo sistema di spartizione degli incarichi». È il 2010 quando Marino, all’epoca procuratore aggiunto a Torre Annunziata, viene intercettato nell’ambito di un’inchiesta sui rapporti tra un carabiniere, suo ex collaboratore, e un imprenditore. Il magistrato è stato invitato a un convegno al quale il collega Luigi Cannavale gli ha però sconsigliato di partecipare. Il motivo? L’avvocato che ha sollecitato la partecipazione di Marino all’evento è piuttosto chiacchierato. Il capo dei pm di Torre chiede informazioni al suo collaboratore che successivamente, travisando la realtà, riferisce all’imprenditore: «Il procuratore mi ha detto che il nostro amico avvocato è sotto inchiesta». Così, nel 2013, la Procura di Roma contesta a Marino la rivelazione del segreto d’ufficio e il favoreggiamento aggravati dalla collusione con la camorra, senza che mai comparisse la voce del procuratore nelle conversazioni intercettate. «Ho combattuto la criminalità per anni – osserva Marino – Sono stato minacciato, ho avuto due auto di scorta. Eppure sono stato additato come fiancheggiatore della camorra. Ho provato vergogna: qualcuno voleva farmi sentire sporco». Nel 2014 scatta il rinvio a giudizio e il Csm, in via cautelare, trasferisce Marino a Pistoia. Nel 2017 il Tribunale di Roma lo condanna per rivelazione del segreto d’ufficio, ma lo assolve dalle accuse di favoreggiamento e camorra. Marino chiede al Csm la revoca del trasferimento o l’attenuazione della misura disciplinare. E invece no: Palazzo dei Marescialli lo spedisce a Salerno come giudice civile. Di lì a poco arriva il terzo schiaffo. Ad aprile 2018 la Corte d’appello di Roma assolve il pm anticamorra anche dall’ipotesi di rivelazione perché il fatto non sussiste. Il Csm revoca il trasferimento di Marino e le carte vengono trasmesse alla quinta commissione, chiamata a restituire al magistrato le funzioni direttive e cioè riassegnargli l’incarico di procuratore o di aggiunto. Il relatore della pratica è Luca Palamara «con il quale – precisa Marino – non ho mai avuto contatti in relazione alla vicenda disciplinare». Ma perché il Csm prende tempo? Qualcuno, a Palazzo dei Marescialli, sembra temere che Marino occupi una casella destinata ad altri. Arriva il parere all’ufficio studi: al magistrato va assegnata una sede tra Torre e Napoli. Niente, la commissione non si pronuncia. Poi è Palamara a comunicare al difensore di Marino che quest’ultimo sarà inviato come aggiunto in sovrannumero a Torre. A quel punto, però, il plenum del Csm deve ratificare la decisione. I tempi si allungano ancora. «Ardituro – aggiunge Marino – mi disse che un consigliere della Presidenza della Repubblica per gli affari giudiziari aveva effettuato dei rilievi sull’ordine del giorno del plenum». Secondo l’alto funzionario del Quirinale, infatti, la legge non contempla il sovrannumero per i magistrati con funzioni direttive. Marino non si arrende e, in alternativa a Torre, chiede Napoli. Niente da fare. Anzi, a settembre 2018 arriva l’ennesima doccia fredda: «Ardituro aveva saputo da quello stesso consigliere del Quirinale che contro la mia assoluzione era stato presentato ricorso per Cassazione – spiega Marino – A che titolo quel funzionario era venuto in possesso di quell’atto prima di me che ero il diretto interessato? E come mai il procuratore generale aveva presentato un ricorso in Cassazione palesemente inammissibile?». Sei mesi più tardi la Cassazione conferma definitivamente l’assoluzione di Marino che riceve un aut-aut: «Ardituro mi disse che mi avrebbero potuto assegnare solo alla Procura generale di Napoli, anche perché il vecchio Csm stava per scadere e i tempi si sarebbero ulteriormente allungati». Palazzo dei Marescialli non lascia scelta: o Marino si accontenta di quell’incarico o resta a Salerno. Il paradosso è che, mentre il magistrato chiede legittimamente di essere nominato aggiunto di Napoli, viene bandito un concorso per la nomina di tre di queste figure: qualcuno non vuole che sia lui ad affiancare Giovanni Melillo alla guida dei pm partenopei. Passa ancora un anno, Marino viene ascoltato dalla quinta commissione del Csm ma, a metà maggio, riceve un rifiuto che sa di beffa: non gli può essere assegnata Torre, perché non è previsto il sovrannumero per gli incarichi direttivi, né Napoli, perché bisogna superare un concorso. Eppure quel concorso Marino l’ha superato da anni e non potrebbe sostenerne altri perché è prossimo alla pensione. «Il Csm ha fatto di tutto pur di non decidere – conclude Marino – Una situazione desolante». E le correnti? Dal 2013 l’ex pm anticamorra non ne fa più parte, pur essendo stato segretario napoletano di Magistratura Democratica negli anni Novanta: «A differenza di altri ho mantenuto un doveroso riserbo. In cambio ho ricevuto un silenzio assordante».

Magistratopoli, uno schifo così non l’avevo neanche immaginato. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 26 Maggio 2020. No, non è il mio album di famiglia, quello che sto sfogliando con un po’ di disgusto e che racconta storie di giornalisti e magistrati. Il disgusto è dovuto prima di tutto al fatto che si tratta di intercettazioni, cioè di colpi alle spalle nei confronti di persone che intrattengono conversazioni personali. Mi dà fastidio leggerle, è un’intrusione nei fatti altrui. Il secondo motivo dei miei sentimenti così negativi è dato dalla volgarità d’animo che emerge dal mondo della magistratura più politica e sindacalizzata. Che nel “mondo dei Palamara” si svolgessero intrallazzi, tradimenti, complotti e attacchi alla giugulare, non so perché, ma non mi stupisce. Noi lo chiamiamo il “Partito dei pm”, e ovviamente non riguarda solo il dottor Luca Palamara, che in questa storia, soprattutto nella sua parte giudiziaria, è forse più vittima che carnefice. Ma forse l’abbiamo nobilitato, il “mondo dei Palamara”, dandogli la denominazione di partito. Forse la parte più inedita di queste conversazioni carpite da uno strumentino che si chiama trojan e che ricorda metodi da Ovra, non è la lotta politica, furibonda, che si svolge tra magistrati alla vigilia elettorale delle nomine, ma proprio la volgarità. La risata grassa, il darsi di gomito come fanno certi uomini al passare di una bella ragazza di cui non è il viso la parte che interessa. La bella ragazza di queste intercettazioni sul “mondo dei Palamara” è proprio il giornalista. Leggere quel che i togati dicono tra loro sul mondo dell’informazione, sullo spregiudicato uso che loro ne fanno e intendono farne, è ancora più imbarazzante di quanto non sia apprendere quante volte si vedono e si sentono e concordano gli articoli da far uscire i pubblici ministeri con i loro amici cronisti. Io stessa ho svolto per molti anni la mia attività di giornalista al Palazzo di giustizia, in gran parte a Milano, un poco anche a Roma. Anzi, ho cominciato a scrivere su un giornale proprio come cronista giudiziaria. È normale che nel posto di lavoro, nel luogo dove vai ogni giorno si costruiscano rapporti, nascano amicizie. A volte anche storie d’amore. Poi va anche detto che la prima fonte delle notizie che riguardano la giustizia è il magistrato, il pubblico ministero, per la precisione. Poi naturalmente ci sono gli avvocati, le forze dell’ordine, i cancellieri, i segretari, eccetera eccetera. Ma il pubblico ministero è il dominus, la bocca della verità, il miele di ogni cronista giudiziario. E ogni pm sa di contare qualcosa solo nel momento in cui i giornalisti cominciano a bussare alla sua porta, e sa di esser diventato un divo quando si sposta nei corridoi del palazzo di giustizia inseguito dal codazzo dei cronisti. Ricordo, molti anni fa, un pubblico ministero arrivato dal sud d’Italia. Era serio e riservato. Poi un giorno, un suo collega con cui avevo preso ad avere un po’ di confidenza, mi raccontò che quel magistrato aveva appuntamento con un sarto. “Sai, gli aveva confidato, ora dovrò vestirmi meglio, perché con questa nuova inchiesta che sto conducendo dovrò incontrare i giornalisti”. Mi aveva fatto tenerezza, ma anche un po’ paura, quasi un certo mondo stesse per cambiare. Cambiò davvero tutto, con gli anni di Tangentopoli e l’arrivo di Di Pietro, nel 1992, mentre io mi avviavo a fare un altro mestiere in Parlamento e lasciavo definitivamente il Palazzaccio di Milano. Cambiò tutto, e oggi ci risiamo, daccapo. Leggere le conversazioni tra giornalisti, alcuni dei quali famosi, e un magistrato intercettato, conoscere le loro trame per orientare l’informazione per un verso piuttosto che per l’altro, e i siluri tra colleghi e le spiate, tutto questo lascia sconcertati. Ma fa venir voglia di scappare a gambe levate senza poter nascondere il disgusto per il chiacchiericcio volgare tra magistrati. Quando dicono che quel giornalista lì è uomo dei servizi segreti, che quell’altro è legato ai poteri forti, che quella è avvicinabile, e si chiedono se non sia meglio scavalcare il cronista e puntare ai vertici del quotidiano. Per quale scopo? Per rendere l’informazione prigioniera una volta di più del potere giudiziario. E il giornalista è posto in totale passività, come l’inconsapevole bella ragazza che passava per strada davanti a un gruppo di maschi voraci. No, non è il mio album di famiglia. Ho fatto la cronista giudiziaria per tanti anni, sono stata amica di molti magistrati e di avvocati. Sempre con reciproco rispetto. Uno schifo così non l’avevo neanche immaginato. Però voglio proprio raccontarvela questa storia di giornalisti e magistrati che ho visto e vissuto da molto vicino per vari decenni.

La settimana nera della giustizia. E quelle nubi nere sopra il Csm…. Il Dubbio il 25 maggio 2020. Dall’azzeramento dell’Anm, alle intercettazioni dei magistrati contro Salvini, iniziano i sette giorni più difficili per la giustizia italiana. A poco meno di un anno di distanza dallo scandalo che investi’ Luca Palamara e il Csm, è di nuovo bufera sulla giustizia. Nuove intercettazioni, nuove accuse, le dimissioni di intere aree dalla giunta dell’Anm, la protesta della Lega per le critiche espresse in una chat da alcuni giudici contro Matteo Salvini. Una situazione di caos e veleni che torna e che fa dire al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che “il terremoto che sta investendo la magistratura italiana impone una risposta tempestiva delle istituzioni”. E il Guardasigilli ripropone la necessita’ di una riforma del Csm. Una riforma chiesta nuovamente anche dal Pd, che per voce di Walter Verini ritiene “importante” la volonta’ di Bonafede: “questo il Pd aveva chiesto per contribuire ad archiviare le degenerazioni correntizie che, come vediamo in queste ore, hanno investito la magistratura”. La vicenda, ovviamente, viene seguita con attenzione anche dal Quirinale. Sergio Mattarella, in base alla Costituzione, presiede il Csm e già un anno fa tenne un durissimo discorso per chiedere, nel pieno dello scandalo: “Quel che e’ emerso, da un’inchiesta in corso, ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile”. Nel suo intervento del 21 giugno, il Capo dello Stato incalzò le toghe: “Oggi si volta pagina nella vita del Csm. La prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficolta’ e fatica di impegno. Dimostrando la capacita’ di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione”. Allora, e in pochi mesi, si dimisero cinque consiglieri sui 16 togati del Csm. A Mattarella giunsero diverse sollecitazioni a sciogliere l’organo di autogoverno delle toghe ma il Presidente fece capire che uno scioglimento avrebbe bloccato il processo di riforma, agevolato l’elezione di un nuovo Csm sempre con le vecchie regole (contestate da quasi tutto l’arco costituzionale) e bloccato i procedimenti disciplinari appena avviati. Situazione analoga a quella attuale, in realtà: lo scioglimento azzererebbe le azioni disciplinari in corso, la cui iniziativa, va ricordato, è in capo al Guardasigillli e al Procuratore generale della Cassazione. Perché se l’ultima bufera è recente, i provvedimenti disciplinari, e in alcuni casi anche quelli giudiziari, sono invece gia’ aperti proprio per le toghe finite nuovamente nella tempesta. E dunque solo la sopravvivenza dell’attuale Csm garantirebbe una loro conclusione. Lo scioglimento, poi, e’ una extrema ratio prevista solo in caso il Csm sia impossibilitato a funzionare (per mancanza del numero legale dei componenti o, secondo alcuni costituzionalisti, per insanabili contrasti con altri poteri dello Stato), un evento talmente eccezionale da non essersi mai verificato dalla data della sua istituzione.

Quando Cossiga mandò i carabinieri al Csm. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Novembre 2019. “Ma certo che mandai i carabinieri!”. Mi disse Cossiga quando diventammo amici: “Mandai un generale di brigata con un reparto antisommossa, pronti a irrompere nel palazzo dei Marescialli”. Oggi fa impressione riascoltare nelle registrazioni la voce del “matto” Cossiga quando attaccava lo strapotere di alcuni magistrati e lo faceva spavaldamente come un Cyrano de Bergerac, odiato da tutti nel 1985 – trentaquattro anni fa – quando invece aveva ragione. Il Consiglio superiore della magistratura si è recentemente infangato con l’inchiesta di Perugia che ci ha fatto assistere in diretta al mercato delle procure, alla vendita del diritto.Tutto già parte di un vizio d’origine contro cui oggi pochi hanno il fegato di combattere. Cossiga mi aveva invitato a fare colazione al Quirinale. C’era il meglio del giornalismo di sinistra a inzuppare il cornetto nel cappuccino di quelle stanze mentre Cossiga raccontava. A quei tempi era ministro dell’interno Oscar Luigi Scalfaro, che sarebbe diventato il suo successore e il suo principale nemico. Ricorderemo ancora Scalfaro quando, assestando il colpo dell’asino a Cossiga dimissionario, urlò stentoreamente in aula “Viva il Parlamento!” come se lui fosse stato il Parlamento. Allora era ministro degli interni e quando Cossiga decise di far intendere chi comandasse sugli abitanti del Palazzo dei Marescialli (di stile fascista, curiosamente decorato con teste di Mussolini con l’elmetto), il ministro del Viminale disse di sì. Dissero di sì anche i comunisti che poi si scatenarono contro Cossiga. Erano con lui il giudice costituzionale Malacugini e il senatore Perna, capo del gruppo comunista al Senato. I membri del Csm allora pretendevano di comandare come terza camera dello Stato, in barba della Costituzione. Volevano colpire il presidente del Consiglio Bettino Craxi che aveva polemizzato sulle inchieste seguite all’assassinio del giornalista socialista del Corriere della Sera Walter Tobagi, ucciso dalla Brigate Rosse, che Craxi considerò sempre interne ai salotti milanesi di sinistra. Il Consiglio superiore della magistratura è l’organo di autogoverno dei magistrati, i quali godono di una autonomia prossima all’extraterritorialità, salvo poi trasformare tanta autonomia in un mercato di interferenze e abusi talmente terrestri da produrre fatti come quelli messi a nudo dall’inchiesta di Perugia che hanno inferto alle istituzioni delle ferite probabilmente non rimarginabili. L’organo di autogoverno fu concepito come massimo baluardo del servizio pubblico della giustizia- e non come privilegio degli operatori togati della giustizia – allo scopo di garantire ai cittadini un servizio di assoluta indipendenza da poteri esterni a cominciare da quelli politici. Il presidente del Csm è il Capo dello Stato, ma è una carica solo formale perché chi comanda è il vicepresidente del CSM. Cossiga ingaggiò nel 1985 un braccio di ferro istituzionale in cui, malgrado i suoi colpi, alla fine fu lui ad essere disarcionato. La sua battaglia contro il vicepresidente Giovanni Galloni (un radicale rappresentante storico della sinistra cattolica che detestava apertamente tutto ciò che Cossiga rappresentava) espose Cossiga ad un vero massacro mediatico. Le camionette dei carabinieri erano a piazza Indipendenza. I carabinieri in assetto antisommossa, con gli elmetti calati in testa, pronti a sfondare il portone se solo il presidente Cossiga, in quanto Capo dello Stato, lo avesse ordinato. La carica non avvenne, il portone restò integro, ma lo schieramento delle forze che rappresentavano lo Stato – i carabinieri in questo caso – contro un ridotto nelle mani di chi si riteneva di essere separato dallo Stato, in quanto organo separato dello Stato, rappresentò uno schieramento concreto, militare, non diverso – per qualità istituzionale – a quello che lo Stato rinunciò ad opporre nel 1922 alla marcia su Roma di Mussolini. Non che esista una comparazione tra la marcia su Roma e il conflitto affrontato da Cossiga, ma restano i comuni termini di una difesa anche militare contro l’eversione. Cossiga individuò nell’arroganza di un ristretto gruppo di magistrati la formazione di un potere insurrezionale “ultroneo” rispetto a quelli previsti dalla Costituzione e dunque un nucleo eversivo. Il punto allora era politico: il Csm usurpava il diritto – non contemplato tra le sue funzioni – di muovere critica o censura alle parole o alle azioni del presidente del Consiglio dei ministri. Cossiga sospese la delega a Galloni, cioè lo degradò sul campo strappandogli le spalline, sia pure temporaneamente. E dopo aver disarmato quello che riteneva il leader di una corrente eversiva, impose che si prendesse atto di un punto fermo: l’organo di autogoverno dei magistrati è soltanto l’organo di autogoverno dei magistrati e mai, in alcun modo, un potere dello Stato. Come invece pretendevano allora le correnti politiche dell’Anm che Cossiga accusava di usurpazione contro lo Stato.

Carmelo Caruso per “il Giornale” il 28 maggio 2020.

«Il problema della giustizia non è un problema di correnti e non si risolve neppure con la separazione delle carriere fra giudici e pm. Il problema della giustizia è un problema di uomini. Cosa chiediamo ai giudici? La correttezza, l'imparzialità. È questa la giustizia».

A Franco Coppi, professore emerito di Diritto Penale, principe del foro, avvocato che ha difeso Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi, Gianni De Gennaro, domandiamo se è possibile fidarsi ancora della magistratura dopo il caso Palamara. Sono passati anni dal suo primo processo. I suoi sono ottantadue. Avrebbe paura di farsi giudicare da questa giustizia?

«Indipendentemente da quello che stiamo leggendo in questi giorni, avrei paura comunque. Sì, avrei paura di farmi giudicare dalla giustizia italiana. Faccio mie le parole di un vecchio criminalista. Se mi accusassero di aver rubato la Torre di Pisa, scapperei immediatamente».

Lo diceva Francesco Carrara. Mi ritrovo». Al telefono, Luca Palamara, già consigliere del Csm, ex presidente dell' Anm, diceva che «Matteo Salvini è una merda. Va fermato». Parlano così i nostri magistrati?

«Tolta la toga, i magistrati tornano uomini. Questo è purtroppo anche il loro vocabolario».

Si può consegnare il giudizio a uomini che agivano in maniera tanto incontrollata e disinvolta? Professore, come può un imputato, e non parliamo solo di un leader politico, non provare spavento?

«La sensazione è infatti quella dello sconcerto e dello sconforto profondo. Quella che sta emergendo è un' idea antagonista all' idea che dobbiamo avere del giudice. Quelle parole addolorano e avviliscono».

In passato ha parlato di degrado, di giustizia impazzita. Sta collassando la nostra civiltà giuridica?

«Si sta perdendo il rigore. Scende il livello dell' avvocatura, della magistratura. Non so dire quando è cominciato tutto, ma so che è un processo in atto, una congiura verso l' abbassamento. La giustizia è in crisi. Per Francesco Carnelutti la crisi è il momento culminante della malattia. Dopo viene la convalescenza. Ma la malattia va curata. Deve essere curata».

Si può parlare di sporcizia, di commercio di cariche, anzi, parlando della sacralità della giustizia, si può dire che c' è stata simonia all' interno del Csm?

«Si può qualificare con i termini che si ritengono più appropriati. Sporcizia può essere sicuramente uno di questi. Per quanto riguarda le cariche e il mercimonio, non mi meravigliano i tentativi perché li collego all' istituto della corrente. Fino a quando ci saranno correnti inevitabile sarà la corsa a piazzare gli appartenenti».

Il presidente dimissionario dell' Anm, Luca Poniz, ha parlato di «disegno per colpire la magistratura». A essere colpiti dai comportamenti - che siamo sicuri non sono di tutti i magistrati - siamo noi. E però, dicono che i colpiti sono loro.

«Posso anche io fare l' elogio dei giudici e ricordare quanti ottimi ce ne siano. Alla fine, questa è la prova che ci sono giudici, pm che riescono a guardarsi dentro. Ma che esista un disegno per colpire la magistratura, ebbene, mi sembra un' affermazione priva di senso. Ci vuole estrema cautela, evitare toni enfatici».

In televisione è andato in onda uno scontro mai visto fra il ministro della Giustizia e un componente del Csm come Nino Di Matteo. È questa la cautela?

«È stato qualcosa di inopportuno. Ha sgomentato pure me. Non si possono liquidare problemi così importanti in quattro battute. È accaduto».

Per risolvere la più grave crisi della magistratura si parla nuovamente di separare le carriere. È dello stesso avviso?

«Ho maturato la convinzione che non serve neppure questo. Se oggi giudice e pm sono fratelli, separandole sarebbero cugini. Una volta immessi in magistratura andrebbero invece valutati continuamente, verificate le loro condotte. Questo andrebbe fatto».

Dunque neppure abolire le correnti?

«Non si impedirà comunque ai magistrati di riconoscersi in alcune idee comuni. Non è questo lo scandalo, ma la correttezza del giudice, l' imparzialità».

È necessario sciogliere il Csm?

«Bisogna vagliare con prudenza ogni singolo comportamento, senza farci prendere dall' isteria, evitando di generalizzare. Solo valutando con serenità si potrà stabilire se sarà opportuno lo scioglimento, girare pagina e ricominciare».

A distruggere l' immagine di alcuni magistrati sono le intercettazioni che, in molte occasioni, hanno distrutto le esistenze degli imputati. È un contrappasso?

«È impensabile rinunciare alle intercettazioni. Ma è giusto disciplinare il loro impiego, fare in modo che il loro utilizzo non vada al di là della ricerca della verità. Servono solo se aiutano a formare il giudizio e non a sporcare le esistenze».

È sicuramente il legale che tutti gli italiani conoscono. Da avvocato riuscirebbe a difendere ancora la giustizia?

«Avrei argomenti buoni. Sarei capace di farlo malgrado sia una povera giustizia».

Berlusconi: «Le toghe rosse? Non dimenticate quello che mi hanno fatto dal ’94 e il golpe del 2011».  Fulvio Carro venerdì 29 maggio 2020 su Il Secolo d'Italia. Le toghe rosse? I complotti? Per Berlusconi nessuna sorpresa. «Non mi ha fatto arrabbiare. Anzi è stata un’ulteriore conferma della politicizzazione di una parte della magistratura. Negli ultimi trent’anni, da ordine dello Stato è diventata un potere dello Stato, che ha addirittura sottomesso a sé gli altri poteri, il potere esecutivo e il potere legislativo. Ha paralizzato la democrazia in Italia, eliminando dalla vita politica gli eletti del popolo non appartenenti alla sinistra, per dare il potere appunto alla sinistra che aveva perso le elezioni». Silvio Berlusconi risponde a Paolo Del Debbio durante la trasmissione Dritto e Rovescio. «È successo con l’eliminazione del pentapartito nel ‘92-‘93, con me nel ‘94 e nel 2011. Poi di seguito, nel 2013», ricorda il Cav, «con una condanna infondata e incredibile, per frode fiscale, che mi ha escluso dal Parlamento. Mi ha addirittura tolto il diritto di voto e sono certo che sarà posta nel nulla dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo».

Le chat di "fuoco" delle toghe: "Sì, facciamo campagna per Pd". La conversazione tra Clivio e Palamara inchioda Legnini sul caso Salvini. Quei messaggi sulla nave Diciotti e la candidatura dell'ex vicepresidente del Csm. Federico Giuliani, Venerdì 29/05/2020 su Il Giornale. Magistrati agguerriti, pronti a colpire l'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini in ogni modo possibile: chat dopo chat, la rete di potere orchestrata da Luca Palamara assume una forma sempre più nitida. Da quanto emerge dalle ultime conversazioni pubblicate dai media, anche l'ex vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, avrebbe partecipato alle manovre di Palamara per attaccare il segretario del Carroccio sulla questione inerente alla nave Diciotti. Legnini, scrive il quotidiano La Verità, prova così a difendersi dal fuoco incrociato: "Si trattò di un intervento doveroso, che rientra nelle competenze del Csm, svolto esclusivamente a tutela dell'indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato, e che rifarei esattamente negli stessi termini. Si trattò di un intervento doveroso, che rientra nelle competenze del Csm, svolto esclusivamente a tutela dell'indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato, e che rifarei esattamente negli stessi termini". I messaggi pubblicati, insomma, "non hanno nulla a che vedere" con la vicenda Palamara. E la loro pubblicazione ne decontestualizzerebbe il significato. Ma a sgretolare la difesa di Legnini, sottolinea ancora La Verità, è una chat in cui il consigliere del Csm, Nicola Clivio, appare titubante di fronte alla strategia dell'allora vicepresidente di Palazzo dei Marescialli. "Ma Giò (si riferisce a Giovanni Legnini ndr) si candida per Abruzzo. Sarebbe importante saperlo visto l'aria che tira", chiede Clivio a Palamara il 24 agosto 2018. La risposta di Palamara non tarda ad arrivare: "Ancora incertezza".

La chat tra Clivio e Palamara. La conversazione prosegue. A quel punto Clivio ribatte: "Ok. Perché lui ci chiede di dire qualcosa sulla storia della nave e noi lo facciamo volentieri ma poi non si deve direi che lui comincia così la sua campagna elettorale. Chiaro lo schema?". Palamara chiarisce meglio la situazione con due messaggi: "Esatto lo chiede a tutti anche a noi. Gli ho detto che ci devo riflettere Deve essere una riflessione di tutti". E ancora: "Per farlo occorre: 1. Richiesta di tutti noi, 2. Coperta anche dai nuovi...Altrimenti la nostra diventa una cacchetta...". Il 25 agosto, cioè un giorno dopo, quattro capigruppo firmano la nota ispirata da Legnini. Quella nota diffusa dallo stesso ex vicepresidente del Csm evidenzia come l'obiettivo dei magistrati fosse quello di "garantire l' indipendenza della magistratura e il sereno svolgimento delle indagini e di ogni attività giudiziaria, senza invadere il campo di valutazioni e decisioni che spettano al potere esecutivo e a quello giudiziario". Legnini e Palamara, aggiunge La Verità, entrano in contatto anche con il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, niente meno che il titolare del fascicolo su Salvini. "Carissimo Luigi ti chiamerà anche Legnini siamo tutti con te un abbraccio", gli scrive Palamara. Anche in questo caso la risposta è pressoché immediata: "Grazie. Mi ha già chiamato e mi ha fatto molto piacere".

Maurizio Gasparri ha pronto il dossier anche su Pignatone e Legnini: "Strani confronti con Palamara". Libero Quotidiano il 28 maggio 2020. Maurizio Gasparri ha intenzione di chiedere spiegazioni sui comportamenti dell'ex capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone e su Giovanni Legnini, ex vicepresidente del Csm. Il senatore di Forza Italia vuole capire il loro ruolo nella vicenda che vede accusato per corruzione l'ex Pm Luca Palamara. “Da quanto si legge in nuove intercettazioni si leggono strane affermazioni di Pignatone. L'allora Procuratore di Roma si interessava di audizioni e attività del Csm. Sembra incoraggiasse alcune scelte e ne temesse altre che, a lui non gradite, poi in effetti il Csm non adottava", spiega Gasparri. "Sto presentando in Parlamento un ampio dossier riguardante le attività di Pignatone. A che titolo si confrontava con Palamara su nomine e su decisioni del Csm? Perché si informava su questioni che poi si intrecciavano con le attività della Procura. Gasparri punta l'attenzione anche sul ruolo svolto dall'ex vicepresidente del Csm e politico del Pd Giovanni Legnini. “Per quanto riguarda poi il ruolo di persone come Legnini ed altri, credo che qualche valutazione ulteriore si imponga. Anche in relazione alle funzioni che l'attuale governo gli ha affidato per la ricostruzione (è commissario per le aree colpite dal terremoto nel Centro Italia, ndr). Bisogna attraversare in maniera nitida la vita delle istituzioni per svolgere dei rilevanti ruoli pubblici. Invece qui c'è molta opacità che riguarda membri del passato Csm, lo stesso Legnini, il consueto Palamara ed altri ancora. Il Csm irrompe su vicende di cronache riguardanti l'immigrazione e, ammantandosi di un ruolo di garanzia, sembra, sottolinea sembra, voler condizionare attività giudiziarie e non solo”, conclude il senatore Gasparri.

Nordio su caso Palamara: bassezza ripugnante, magistratura devastata, puerili le critiche dell’Anm. Redazione giovedì 28 maggio 2020 su Il Secolo d'Italia. L’ex-procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio non fa sconti ai suoi ex-colleghi travolti da caso Palamara. E neanche al sindacato delle toghe. Quell’Associazione Nazionale Magistrati. Che esce a pezzi dalle intercettazioni sulla vicenda Palamara. Le sue sono critiche severe a quella parte della categoria che infanga il lavoro di magistrati perbene e onesti. “No, non mi aspettavo una simile livello di bassezza – ammette con amarezza Nordio. – Da magistrato l’ho trovato ripugnante. E grave se un giudice si pronuncia per l’assoluzione di una persona che ritiene colpevole. Ma se auspica la condanna di uno che ritiene innocente è un sacrilegio“. Il riferimento dell’ex-procuratore aggiunto di Venezia e alle intercettazioni dell’inchiesta di Perugia. E, in particolare, alla frase in cui Luca Palamara, ex-consigliere del Csm indagato per corruzione, diceva al suo interlocutore che sull’immigrazione bisogna “attaccare” Salvini a prescindere dalle sue ragioni. Quanto a ciò che può fare il presidente della Repubblica di fronte a tale scenario, Nordio la vede così . “Dal punto di vista strettamente costituzionale non può fare altro. Ma penso che una “moral suasion” riservatamente possa e debba farla “. Dalla vicenda messa in luce dall’inchiesta di Perugia, la magistratura, secondo Nordio, “ne esce devastata. E lo dico con dolore. Perché un magistrato resta sempre tale. Anche quando, come me, è in pensione da tre anni”. “Aggiungo che l’impatto della vergogna che sta emergendo è attutito dalla presenza dell’epidemia che pone ben altri problemi – spiega Nordio. – Ma quando il Coronavirus sarà risolto, e l’economia riprenderà a girare, la questione giustizia si ripresenterà gravissima. E queste vicende non saranno dimenticate”. ”Spero – auspica l’ex-procuratore aggiunto di Venezia – che la parte maggioritaria e sana della magistratura abbia il coraggio di ammettere che occorre una riforma radicale. Che – rimarca – spetta al Parlamento e non all’autogoverno delle correnti. Se poi il parlamento abbia il coraggio di farla, è un’altra storia”. Infine, l’auspicio di Nordio è che “Palamara faccia un gesto intelligente e responsabile. Racconti adesso tutto. Per filo e per segno. Racconti i suoi rapporti con i colleghi, con i politici e i giornalisti. Faccia nomi e cognomi. Tanto lo sa che è tutto intercettato. E prima o poi emergeranno”. È “un auspicio che formulai già l’anno scorso – ricorda Nordio -, quando scoppiò lo scandalo. Ne uscirà di certo un quadro deplorevole. Ma almeno eviterà uno stillicidio suicida”. Ma c’e un altro aspetto che l’ex-procuratore aggiunto mette in rilievo. Le intercettazioni del caso Palamara “hanno contato abbastanza” nel voto della giunta del Senato che ha respinto la richiesta di rinvio a giudizio di Matteo Salvini per il caso Open Arms. “Mandare a giudizio Salvini dopo quella rivelazioni imbarazzanti di Luca Palamara sarebbe stato fargli un regalo politico”. “E il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, è molto sensibile a questo aspetto – aggiunge Nordio. – Ha salvato, al momento del voto di sfiducia, il ministro Alfonso Bonafede. Pur avendogli dato dell’incapace. Solo per evitare una crisi di governo. Ed ha anche avuto l’onestà di ammetterlo”. Per Nordio, però, “l’aspetto vergognoso riguarda i grillini, che hanno votato, come nel caso Gregoretti, contro Salvini. Pur avendone condiviso la responsabilità politica nelle scelte di allora”. ”Ricordo che Giuseppe Conte, in quanto Primo Ministro – ricostruisce così Nordio quel passaggio – aveva la direzione di indirizzo politico del governo. E, quindi, era corresponsabile dell’operato del suo ministro dell’Interno”. Non “solo – prosegue Nordio -, se avesse ritenuto che Salvini stesse commettendo un reato, avrebbe avuto il dovere giuridico di impedirlo. Non avendolo fatto, sarebbe stato responsabile di concorso per omissione ai sensi dell’articolo 40 del codice penale. E quanto, secondo me, eccepiranno i difensori di Salvini nel processo pendente a Catania, per la Gregoretti – avverte. – Ammesso che non venga archiviato prima”. Nordio poi evidenzia che, in caso di rinvio a giudizio, Salvini “avrebbe rischiato un processo. Ma dubito si sarebbe risolto con una condanna”. ”Conviene a tutti archiviare questa storia – spiega Nordio. – In primo luogo perché le accuse sono infondate. Si può infatti dissentire dalle decisioni di Salvini (e del governo di allora) sui migranti. Ma il ministro ha esercitato un suo potere”. ”Altrimenti, secondo la tesi accusatoria, dovremmo incriminare Conte per sequestro di 60 milioni di italiani per ben tre mesi”. Ma per Nordio, inoltre, “dopo le intercettazioni sconcertanti di Palamara”, quelle in cui dice che bisogna comunque “attaccare” Salvini, “ogni giudice può diventare suspectus perché si è capito che quando c’è di mezzo la politica anche i magistrati possono non esser tanto imparziali. Se Salvini fosse processato, in quella sede rievocherebbero queste pagine buie di una parte della magistratura. Meglio soprassedere”. Infine la stoccata all’Anm, il sindacato delle toghe. E la questione delle nomine al Csm, un mercato delle vacche, al momento. Per ridare credibilità al Csm e liberare la magistratura dalle correnti “c’è un solo modo – avverte l’ex-procuratore aggiunto – il sorteggio. Che già esiste nell’amministrazione della giustizia”. ”Basti pensare che la Corte d’Assise che può condannarti all’ergastolo è composta, nella sua maggioranza, proprio da giurati sorteggiati tra il popolo – elenca Nordio. – Così come sono sorteggiati i membri del Tribunale dei ministri, quelli, per intenderci, che hanno voluto mandare a giudizio Salvini“. “Naturalmente – aggiunge – il sorteggio per il Csm dovrebbe avvenire dentro un paniere composto di magistrati di alto grado, di avvocati membri dei consigli forensi e di docenti universitari di materie giuridiche. Tutte persone, per definizione, intelligenti e competenti”. Quanto alle critiche rivolte dall’Anm al sistema del sorteggio, Nordio chiarisce il concetto. “Le critiche suonano più o meno così: che nessuno si farebbe operare da una persona presa a caso tra i passanti. Quindi rispondo che si tratta di enfatiche banalità. O meglio, di puerili ipocrisie”. ”Banalità – dice il magistrato – perché il sorteggio dovrebbe avvenire tra persone qualificate. E ipocrisie perché l’Anm non vuole perdere il potere immenso che ha”. Sul punto, Nordio aggiunge anche qualche dettaglio. “Il Csm decide del destino dei singoli magistrati, promozioni, incarichi, ecc. Il che, tra l’altro, non li rende né autonomi né indipendenti. Perché dipendono dai giochi correntizi. Il Csm, infatti, è l’espressione delle correnti, come il Parlamento lo è dei partiti”. ”Se togli alle correnti il potere di far le liste dei candidati – ragiona Nordio – togli loro il giocattolo. E le riconduci al rango di semplici contenitori di opinioni. La politica lo sa. Ma non ha il coraggio di intervenire perché è intimorita”. Infine, sul fatto che l’elezione dei togati al Csm è prevista dalla Costituzione, Nordio replica così. “Verissimo. L’unica obiezione seria è che occorrerebbe una riforma costituzionale. Ma la Costituzione non è il Vangelo. E comunque prevede la possibilità di una sua revisione. E sono certo che se risorgessero i Padri costituenti, davanti a questo schifo sarebbero i primo a cambiare le regole del Csm”.

Magistratopoli, tutti sapevano ma fingevano di non vedere….Giuliano Cazzola su Il Riformista il 28 Maggio 2020. Un filosofo del secolo scorso sosteneva che era sciocco svegliarsi al mattino e stupirsi di essere le stesse persone che si erano coricate la sera prima. Un simile abbaglio capita anche alle comunità che, periodicamente, si scandalizzano fino a farne un’ossessione, quando diventano noti fatti, costumi, episodi, prassi che passavano da anni sotto i loro occhi, da cui magari erano indirettamente coinvolti, ma non venivano sbattuti in prima pagina. È ormai evidente che, per essere preso in considerazione, un caso deve passare più volte sugli schermi televisivi. Vogliamo fare qualche esempio? Verrebbe da chiedersi se esista ancora un Paese di nome Venezuela che mesi or sono, a causa di conflitti molto aspri tra governo e opposizione, era tra le prime notizie del telegiornale. Anche con riguardo all’epidemia, le notizie stanno perdendo di intensità ben oltre la reale dimensione dei fatti. Abbiamo avuto un tempo in cui tutti morivano di Covid, a prescindere da precedenti gravissimi stati di salute. Adesso si gioca coi dati dei decessi come con il tavolino e le tre carte all’esterno delle stazioni delle grandi città. Per un paio di giorni i tg annunciano che, nella martoriata Lombardia, vi è un calo dei decessi. Poi, nel fine settimana, il loro numero aumenta di nuovo perché – spiegano le autorità – vengono aggiunte le certificazioni dei decessi che nei giorni precedenti non erano state trasmesse perché non ancora pervenute. Come se nel cuore della Pianura Padana i postini si spostassero a cavallo. Questi defunti “in ritardo” – come se fossero anime morte, non conteggiate nel momento in cui hanno reso l’anima al Signore – vengono messi da parte anche nel giorno in cui arriva la notizia ufficiale del loro decesso. Ma a che cosa serve tutta questa premessa? Sembrerà strano ma intendiamo parlare dell’ordinamento giudiziario nei giorni in cui il caso Luca Palamara si arricchisce di intercettazioni a strascico che non solo mettono in difficoltà l’ex presidente dell’Anm, ma un sacco di altre persone che venivano coinvolte (libero telefono in libero Stato) nei suoi traffici dedicati a pratiche antiche come il mondo: piazzare i “magnanimi lombi” di sodali sulle poltrone dalle quali si amministra la giustizia. E, ovviamente, per poterlo fare occorrevano accordi di spartizione tra le correnti della magistratura, sapendo che una mano lava l’altra e ambedue, insieme, lavano il viso (considerazioni molto pertinenti in tempi di epidemia). Luca Palamara non è l’origine di una pratica intrallazzona che ha contagiato la sacralità dell’Olimpo della Magistratura. È – per dirla con un linguaggio in uso a Palazzo dei Marescialli – “uno che è stato beccato”; ha fatto tante telefonate di troppo, che lo hanno messo nei guai insieme agli interlocutori – politici o colleghi – con i quali trattava per distribuire incarichi, sulla base di un simil-manuale Cencelli, tra le diverse correnti dell’Associazione nazionale magistrati. Nel suo caso, “galeotte” furono le intercettazioni, un metodo di indagine ormai abusato anche per scoprire i ladri di polli. Un metodo che ha consentito al kombinat tra Procure e media di condannare alla gogna il presunto imputato prima ancora di chiudere formalmente le indagini e rinviarlo a giudizio. Probabilmente ha avuto sfortuna perché si è preso la libertà di cenare con Luca Lotti ovvero col braccio destro di Matteo Renzi, la cui famiglia era al centro di un’indagine che aveva determinato persino un conflitto tra Procure. In sostanza, si era intrufolato, per caso, in una vicenda che stava, allora, al centro della battaglia politica. Così le intercettazioni delle sue telefonate hanno d’improvviso illuminato la penombra degli affaires del Csm. Ma quando viene allo scoperto ciò che tutti sanno, ma fingono di non vedere, è il momento opportuno per sollevare uno scandalo. La legge del contrappasso ha voluto che l’Anm entrasse in crisi come accadde al sistema politico ai tempi di Tangentopoli (ovviamente nessun paragone tra le due vicende) e che Gian Carlo Caselli avvertisse il pericolo di una vendetta della politica come risposta alle tante umiliazioni patite negli ultimi decenni. Ma non succederà nulla, perché Palamara ha un ottimo strumento di difesa: aprire i dossier delle carriere di tanti suoi colleghi e dimostrare che lui non ha fatto niente di diverso da quei patti tra correnti che hanno governato l’ordinamento giudiziario. Quanto al potere politico, c’è un ministro della Giustizia che si lascia insultare da un pm membro del Csm e replica, in risposta ad una mozione personale di sfiducia che trae origine da quegli insulti, come un cagnolino bastonato dal suo padrone in toga. Si è fatto un gran parlare del ‘’salvataggio’’ di Alfonso Bonafede da parte di una maggioranza compatta. Eppure, non ci si poteva attendere altro. Non tanto per evitare la crisi di governo, quanto piuttosto perché su certe linee strampalate di politica giudiziaria tutto il governo è d’accordo. Il decreto contro le scarcerazioni, che rappresenta l’ultima raffica dell’abiezione manettara, l’hanno preteso più o meno tutti i partiti e non solo di maggioranza.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 28 maggio 2020. C'è un nuovo caso Baldi che scuote via Arenula. Perché oltre all'ormai ex capo di gabinetto del guardasigilli Alfonso Bonafede, c'è anche un altro togato Unicost in un ruolo centrale del ministero della Giustizia che aveva, con il pubblico ministero Luca Palamara, rapporti strettissimi. Si tratta di Liborio Fazzi, e il ruolo che oggi ricopre lo pone in una condizione estremamente delicata. Fazzi è infatti l'attuale reggente dell'ispettorato generale. Insomma è il capo degli investigatori del ministero che, per legge, promuove l'azione disciplinare nei confronti di pm e giudici. L'iter prevede che l'ispettore generale comunichi al guardasigilli le sue conclusioni. Quest'ultimo poi decide se promuovere la richiesta di sanzioni in seno al Csm. Ebbene Fazzi, e il suo gruppo di lavoro stanno, in questi giorni, analizzando le carte dell'inchiesta di Perugia. Perciò stanno valutando eventuali azioni da intraprendere nei confronti di magistrati che hanno avuto rapporti sconvenienti con Palamara. Tuttavia in quelle chat sono presenti conversazioni confidenziali tra Palamara e lo stesso Fazzi. Ecco, per esempio, cosa diceva l'attuale ispettore al pm Palamara il 22 novembre del 2017: «Luca ben fatto. Adesso chiudi il cerchio con Reggio e diventi il mio riferimento assoluto». Dal tenore delle conversazioni lo stesso Fazzi sembrava essere molto interessato e coinvolto alla logica della lotta tra correnti. In un altro sms, infatti, l'ispettore generale rimprovera Palamara. È il 24 novembre del 2017: «Luca, Messina si sta spargendo la voce della possibilità che si perda in comparazione con la Tarsia, sta succedendo un casino qui rischiamo di perderci Messina perché già Ardita sta cavalcando questo cavallo». «Tranquilizza», la replica di Palamara. «Ok», ribatte Fazzi. «Ci ho parlato, non molliamo la situazione», rassicura sempre il pm. Poche ore più tardi è di nuovo l'attuale ispettore generale a scrivere. Propone al collega della stessa corrente centrista un accordo su alcune nomine: «Luca, Mi pronta a votare Samperi se proposto e sostenuto da Unicost. Perché non portare sia Tommasina che Samperi con Mi. Capisco che per il primo grado potranno esserci tre proposte. Ma può finire come per Palmi, perché a favore di Unicost. Perché non ci provi?». «Certo che ci provo», scrive Palamara. Due giorni dopo Fazzi è però un fiume in piena: arrabbiatissimo con il pm romano, scrive: «Caro Luca giusto per comunicarti che a Messina grazie alle scellerate ed irresponsabili scelte di questo Csm scompariremo, evidentemente doveva andare così. Quando sono arrivato in consiglio ho lasciato un distretto di 80 voti. Oggi arriva a poco meno di 30. Dopo la trombata di Samperi finirà tutto. Complimenti!». Un mese dopo la frattura tra i due sembra essere sanata. E sempre l'attuale ispettore generale a inviare per primo il messaggio. Lo fa augurando un buon Natale e complimentandosi per un'altra operazione del pm in seno al Csm. «Carissimo - scrive Fazzi - tanti auguri di un sereno Natale e felice inizio anno. ps: l'operazione Fuzio mi è piaciuta, se è opera tua complimenti». Questa la risposta del pm: «Buona Natale caro Liborio, ricambio con affetto. Sì Liborio, è stato il mio grande successo, che però condivido con tutti voi». «Ottimo», ribatte un soddisfatto Fazzi. Il 15 maggio scorso era stato costretto a dimettersi il capo di gabinetto del ministro Bonafede, Fulvio Baldi, toga di Unicost come Palamara e Fazzi. Le conversazioni non erano penalmente rilevanti, ma politicamente imbarazzanti. Ecco alcune delle frasi che a Baldi, appena due settimane fa, sono costate la poltrona in via Arenula. Palamara lo chiamava «Fulvietto» e lo contattava per ottenere favori nel Ministero. Gli suggeriva magistrate da sistemare negli staff nei ministeri. E Baldi rispondeva: «Te la porto qua, stai tranquillo, perché è una considerazione che ho per te, un affetto che ho per te e lo meriti tutto». E se Palamara era perplesso Baldi lo rassicurava: «Se no che cazzo li piazziamo a fare i nostri?». Per «nostri», con molta probabilità, si intendono i magistrati di Unicost.

Lanciafiamme per il Consiglio della magistratura. Di che diavolo blatera questo governo e la sua maggioranza quando annuncia seraficamente una "riforma" del Consiglio superiore della magistratura? Riformare vuol dire migliorare nei dettagli. Paolo Guzzanti, Sabato 30/05/2020 su Il Giornale. Di che diavolo blatera questo governo e la sua maggioranza quando annuncia seraficamente una «riforma» del Consiglio superiore della magistratura? Riformare vuol dire migliorare nei dettagli. Ma questo Csm, per l'immagine che dà di se stesso grazie alle inchieste di altri magistrati, meriterebbe di essere raso al suolo col lanciafiamme per aver fallito nell'unico suo compito: garantire ai cittadini utenti il bene primario dell'imparzialità nel servizio pubblico della Giustizia, che non è diverso - se non per o delicatezza e complessità - dal Servizio postale o della Difesa. L'imparzialità risulta invece calpestata da decenni come indicano le prove ricorrenti generate da inchieste occasionali: a vantaggio di alcuni politici, ma alla faccia e alle spalle del cittadino. Il Consiglio superiore non è un privilegio dei magistrati ma degli utenti che pretendono di essere giudicati da servitori dello Stato inattaccabili non soltanto dalla corruzione, ma anche dalle influenze di partiti, lobby e corporazioni. Invece, i cittadini scoprono, inchiesta dopo inchiesta, che alcuni magistrati (ovviamente non tutti, ma bastano e avanzano) usano i privilegi di cui noi cittadini li abbiamo dotati per servirci meglio, come beni di libero scambio svendendo proprio l'autonomia che noi abbiamo imposto come condizione primaria del servizio che da loro ci attendiamo. Il sistema è dunque marcio: non da oggi e lo sappiamo tutti. Dunque, va azzerato e rifatto da capo, con la precauzione di applicare al delitto il castigo.

Vittorio Sgarbi su Luca Palamara: "Altro che Tangentopoli, le "mani sporche" dei magistrati tra raccomandazioni e intrecci politici". Libero Quotidiano il 29 maggio 2020. Le chat di Luca Palamara sono la testimonianza delle “mani sporche” dei magistrati che si raccomandano a vicenda per fare carriera. È la tesi di Vittorio Sgarbi, che ha registrato un video in cui riflette a lungo sullo scandalo che sta travolgendo la giustizia e in particolare il Csm. “Ora i giudici - ha dichiarato il critico d’arte - devono avere il coraggio di parlare delle loro mani sporche tra aiuti, raccomandazioni e intrecci con i politici”. Su Palamara a vederci lungo era stato Francesco Cossiga, dato che in diretta televisiva l’ex capo di Stato definì il magistrato una “faccia da tonno”. Ora la magistratura ha toccato un punto così basso che, secondo Sgarbi, riabilita persino la politica dei tempi di Tangentopoli: “Qui la faccenda è molto più grave, parliamo di magistrati che poi devono giudicare gli altri. Che orrore, e vogliono pure rimanere lì. A casa tutti, la magistratura va rifondata su persone che siano in grado di vedere le responsabilità vere e non quelle politiche”. 

Da corriere.it il 29 maggio 2020. «Per quanto superfluo va chiarito che il Presidente della Repubblica si muove - e deve muoversi - nell’ambito dei compiti e secondo le regole previste dalla Costituzione e dalla legge e non può sciogliere il Consiglio Superiore della Magistratura in base a una propria valutazione discrezionale». È quanto ricorda una nota del Quirinale sul Csm e sull'inchiesta che ha coinvolto il giudice Luca Palamara. In riferimento alle vicende inerenti al mondo giudiziario, assunte in questi giorni a tema di contesa politica, «il Presidente della Repubblica ha già espresso a suo tempo, con fermezza, nella sede propria - il Consiglio Superiore della Magistratura - il grave sconcerto e la riprovazione per quanto emerso, non appena è apparsa in tutta la sua evidenza la degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati» si legge nella stessa nota. Per il Capo dello Stato è necessaria una riforma del Csm ma «se i partiti politici e i gruppi parlamentari sono favorevoli a un Consiglio Superiore della Magistratura formato in base a criteri nuovi e diversi, è necessario che predispongano e approvino in Parlamento una legge che lo preveda: questo compito non è affidato dalla Costituzione al Presidente della Repubblica ma al Governo e al Parlamento». Governo e Gruppi parlamentari hanno annunziato iniziative in tal senso e il Presidente della Repubblica auspica che si approdi in tempi brevi a una nuova normativa. «Risulterebbe, peraltro, improprio un messaggio del Presidente della Repubblica al Parlamento - prosegue la nota - per sollecitare iniziative legislative annunciate come imminenti. Al Presidente della Repubblica competerà valutare la conformità a Costituzione di quanto deliberato al termine dell’iter legislativo, nell’ambito e nei limiti previsti per la promulgazione». Un intervento del Quirinale sul caso delle intercettazioni tra magistrati che attaccavano Salvini era stato sollecitato dall’ex ministro degli interni e da altri esponenti politici, ma ora la nota di Mattarella taglia corto: «Il Presidente della Repubblica, come ha già fatto in passato, tornerà a esprimersi nelle occasioni e nelle sedi a ciò destinate, rimanendo estraneo a dibattiti tra le forze politiche e senza essere coinvolto in interpretazioni di singoli fatti, oggetto del libero confronto politico e giornalistico». E riguardo alle frasi finite al centro della polemica ,«per quanto gravi e inaccettabili possano essere considerate, sull’intera vicenda sono in corso un procedimento penale e diversi procedimenti disciplinari e qualunque valutazione da parte del Presidente della Repubblica potrebbe essere strumentalmente interpretata come una pressione del Quirinale su chi è chiamato a giudicare in sede penale o in sede disciplinare».

Mattarella: “Inaccettabili frasi dei pm” contro Salvini. Il Corriere del Giorno il 29 Maggio 2020. Mattarella manifesta il suo sconcerto per la “degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati”. “Rispetto e credibilità incrinati. Riformare il Csm, ma spetta al Parlamento”. “Il Presidente della Repubblica si muove – e deve muoversi – nell’ambito dei compiti e secondo le regole previste dalla Costituzione e dalla legge e non può sciogliere il Consiglio Superiore della Magistratura in base a una propria valutazione discrezionale”. Lo si legge nella nota della Presidenza della Repubblica che arriva dopo che sono state pubblicate alcune chat di Luca Palamara in cui si attaccava Matteo Salvini per la vicenda di Nave Diciotti. Sconcerto e riprovazione da parte di Sergio Mattarella per l’inammissibile commissione tra politici e magistrati per lo scandalo che coinvolge la magistratura. Una nota del Quirinale spiega: “In riferimento alle vicende inerenti al mondo giudiziario, assunte in questi giorni a tema di contesa politica, il Presidente della Repubblica ha già espresso a suo tempo, con fermezza, nella sede propria – il Consiglio Superiore della Magistratura – il grave sconcerto e la riprovazione per quanto emerso, non appena è apparsa in tutta la sua evidenza la degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati”. ​ Il Presidente della Repubblica ha, in quella stessa sede, sollecitato modifiche normative di legge e di regolamenti interni per impedire un costume inaccettabile quale quello che si è manifestato, augurandosi che il Parlamento provvedesse ad approvare una adeguata legge di riforma delle regole di formazione del CSM. ​Una riforma che contribuisca – unitamente al fondamentale e decisivo piano dei comportamenti individuali – a restituire appieno all’Ordine Giudiziario il prestigio e la credibilità incrinati da quanto appare, salvaguardando l’indispensabile valore dell’indipendenza della Magistratura, principio base della nostra Costituzione. ​Per quanto superfluo va, peraltro, chiarito che il Presidente della Repubblica si muove – e deve muoversi – nell’ambito dei compiti e secondo le regole previste dalla Costituzione e dalla legge e non può sciogliere il Consiglio Superiore della Magistratura in base a una propria valutazione discrezionale. ​Il CSM, a norma della Costituzione, conclude il suo mandato dopo quattro anni dalla sua elezione e può essere sciolto in anticipo soltanto in presenza di una oggettiva impossibilità di funzionamento, condizione che si realizza, in particolare, ove venga meno il numero legale dei suoi componenti. Qualora ciò avvenisse il Presidente della Repubblica sarebbe obbligato dai suoi doveri costituzionali a convocare, entro un mese, nuove elezioni dell’intero organo, ovviamente secondo le regole vigenti per la sua formazione. L’attuale CSM, rinnovatosi in parte nella sua composizione, non si trova in questa condizione ed è impegnato nello svolgimento della sua attività istituzionale. ​Se i partiti politici e i gruppi parlamentari sono favorevoli a un Consiglio Superiore della Magistratura formato in base a criteri nuovi e diversi, è necessario che predispongano e approvino in Parlamento una legge che lo preveda: questo compito non è affidato dalla Costituzione al Presidente della Repubblica ma al Governo e al Parlamento. ​Governo e Gruppi parlamentari hanno annunziato iniziative in tal senso e il Presidente della Repubblica auspica che si approdi in tempi brevi a una nuova normativa. Risulterebbe, peraltro, improprio un messaggio del Presidente della Repubblica al Parlamento per sollecitare iniziative legislative annunciate come imminenti. Al Presidente della Repubblica competerà valutare la conformità a Costituzione di quanto deliberato al termine dell’iter legislativo, nell’ambito e nei limiti previsti per la promulgazione. ​Per quanto attiene alla richiesta che il Presidente della Repubblica si esprima sul contenuto di affermazioni fatte da singoli magistrati contro esponenti politici va ricordato che, per quanto gravi e inaccettabili possano essere considerate, sull’intera vicenda sono in corso un procedimento penale e diversi procedimenti disciplinari e qualunque valutazione da parte del Presidente della Repubblica potrebbe essere strumentalmente interpretata come una pressione del Quirinale su chi è chiamato a giudicare in sede penale o in sede disciplinare: la giustizia deve fare il suo corso attraverso gli organi e secondo le regole indicate dalla Costituzione e dalle leggi.  È appena il caso di ricordare, infine, che un eventuale scioglimento del Consiglio Superiore della Magistratura comporterebbe un rallentamento, dai tempi imprevedibili, dei procedimenti disciplinari in corso nei confronti dei magistrati incolpati dei comportamenti resi noti, mettendone concretamente a rischio la tempestiva conclusione nei termini previsti dalla legge.​ ​In merito alle vicende che hanno interessato la Magistratura, il Presidente della Repubblica, come ha già fatto in passato, tornerà a esprimersi nelle occasioni e nelle sedi a ciò destinate, rimanendo estraneo a dibattiti tra le forze politiche e senza essere coinvolto in interpretazioni di singoli fatti, oggetto del libero confronto politico e giornalistico».

DAGONOTA il 30 maggio 2020. D’Accordo: nessuno può pretendere che Mattarella travalichi i suoi compiti costituzionali, impugni la frusta e si metta a cacciare i mercanti dal tempio della giustizia. Il Capo dello Stato e Presidente del CSM ha ragione quando scrive, nella nota licenziata dal Quirinale, che non può sciogliere quel suk puzzolente di intercettazioni che è diventato il Consiglio Superiore della Magistratura con il ciclone Palamara. Ma nello stesso tempo, Mattarella sbaglia delegando al Parlamento la riforma di un CSM piombato in una fogna a cielo aperto. Se lo scioglimento del Csm sarebbe un atto autoritario, il presidente della Repubblica può permettersi invece di essere autorevole usando la “moral suasion”, che in politica è un invito a correggere o rivedere determinate scelte o comportamenti, da una personalità a cui è unanimemente riconosciuta autorevolezza. Ecco, Mattarella intanto usi subito la sua autorevolezza per far dimettere il vicepresidente del CSM David Ermini. Gli altri consiglieri seguiranno e, una volta venuto a meno il numero legale dei suoi componenti, il Capo dello Stato avrà campo libero per una riforma che “contribuisca a restituire appieno all'Ordine giudiziario il prestigio e la credibilità incrinati”.

Luca Palamara, Nicola Porro contro Mattarella: "Bolla di ipocrisia del Quirinale, solo con i magistrati di sinistra". Libero Quotidiano il 30 maggio 2020. "Trovo incredibile la bolla di ipocrisia del Quirinale". Nicola Porro commenta così l'intervento di Sergio Mattarella, che dopo una settimana ha rotto il silenzio sulle intercettazioni riguardanti Luca Palamara: il presidente della Repubblica ha sostenuto di non poter sciogliere il Csm, che può essere riformato solo dal Parlamento. "Io ho una domanda semplice per Mattarella - continua il conduttore di Quarta Repubblica - perché un anno fa, quando le intercettazioni hanno riguardato cinque membri del Csm di centrodestra, gli avete fatto un mazzo così e si sono dovuti dimettere? Mentre ora che le intercettazioni riguardano due magistrati di sinistra, questi non si dimettono". Porro offre anche la sua personale risposta: "Cambiando quei cinque, il Csm è diventato di sinistra, mentre cambiando questi due il Csm diventerebbe di nuovo equilibrato. Se indagano uno di destra è colpevole - chiosa il volto noto di Rete4 - se indagano uno di sinistra si parla di garantismo, di Csm che non si può sciogliere: tutte pippe". 

Luca Palamara, Matteo Salvini e l'intercettazione con il gip Pilato: "Indovina chi è il giudice?", "Grande". Libero Quotidiano il 30 maggio 2020. “Indovina chi è il presidente del tribunale per i ministri di Palermo? Io”. Così il gip Fabio Pilato scriveva a Luca Palamara, che rispondeva compiaciuto con una sola parola: “Grande”. Il giudice però sembrava nutrire qualche remora: “Insomma… un casino”, ma il suo interlocutore gli consigliava di “mantenere nervi saldi” e Pilato si correggeva: “Casino giuridico. Per il resto sono freddo come uno squalo… Mi salva il fatto che nella mia carriera mi sono occupato di tutto”. Infine l’offerta di aiuto da parte di Palamara: “Io sono sempre con te un abbraccio forte”. A riportare questa conversazione, avvenuta nelle ore calde delle accuse a Matteo Salvini sul caso della nave Diciotti, è La Verità, che continua imperterrita la sua crociata contro la magistratura politicizzata, pubblicando le chat private allegate agli atti dell’inchiesta di Perugia in cui Palamara è coinvolto per presunta corruzione. In pratica è stato aggiunto un altro tassello alla squallida vicenda che vede i magistrati coalizzarsi contro quella “merda” di Salvini, colui che “ha ragione ma va attaccato”. Pilato si era poi rifatto vivo con Palamara il 29 agosto: “Luca dimenticavo… quando hai tempo puoi dirmi come ottenere i precedenti del trib min romano sui casi Pisanu e Maroni?”. Il pm aveva promesso di occuparsene, dopo un paio di giorni il gip era tornato alla carica: “Caro Luca buongiorno, hai novità per i due precedenti giurisprudenziali?”. Non è nota la risposta di Palamara (a patto che ci sia stata), ma di certo c’è che il 18 ottobre il tribunale dei ministri presieduto da Pilato ha archiviato parte dell’inchiesta a carico di Salvini, trasferendo il resto dell’incartamento a Catania, città in cui nel frattempo era attraccata la Diciotti. 

Giuseppe China per “la Verità” il 29 maggio 2020. Il consociativismo togato emerge prepotente nelle chat allegate all' inchiesta di Perugia a carico di Luca Palamara, accusato di una presunta corruzione per i suoi rapporti con l' imprenditore Fabrizio Centofanti. Esponenti - di rilievo e in cerca d' autore - della corrente di sinistra della magistratura (Area) si interfacciavano con il pm romano sulle più disparate questioni. Emblematico lo scambio di messaggini con Valeria Piccone (Md) che gli scrive: «Mi aiuti a trovare casa?... Non posso più vivere al Fleming». Palamara sembra quasi spiazzato dalla richiesta: «Sì certo nei limiti in cui posso». In realtà, l' allora consigliere del Csm e capocorrente di Unicost può molto. Come ben sanno quelli che a lui si rivolgono per avere informazioni e consigli su trasferimenti e promozioni, e per contare su un amico nell' organo di autogoverno dei magistrati. Negli atti spunta, tra gli altri, pure il nome di Lia Sava, procuratore generale a Caltanissetta e già citata (non indagata) nelle informative sull' ex boss di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, condannato per associazione per delinquere e corruzione a 14 anni di carcere. Il 23 dicembre 2017, la Sava digita: «Caro Luca, non siamo più riusciti a sentirci. Volevo solo dirti che ho revocato la domanda per Potenza (avendo compreso che l'orientamento della commissione è altro) e ho inserito altre domande relative al prossimo bando». Tra queste, Caltanissetta appunto. Dopo un po', Palamara si fa vivo e le suggerisce: «Buongiorno Lia puoi far depositare il tuo parere per Caltanissetta? Se riesci nella giornata di oggi». Lei si attiva immediatamente: «Ho parlato con Consiglio giudiziario. Il parere lo inseriranno entro domani mattina. Ti aggiorno grazie infinite». Il 29 marzo, Palamara esulta: «Fatta!!!!!». La Sava diventerà capo della Procura generale a Caltanissetta, la terza donna in Italia a ricoprire questo importante incarico: «Meraviglioso! Grazie Luca! Infinite». Nei messaggini troviamo anche il nome di Luca Tescaroli, procuratore aggiunto a Firenze dal luglio 2018. Di lui, Palamara dice, il 31 gennaio 2018: «Faccio in tempo a far vincere Tescaroli sia chiaro... Se passa è solo per me». Dalla chat con Francesco Minisci, presidente dell' Anm, sappiamo che sarebbe stato proprio il futuro procuratore aggiunto toscano a cercare un contatto con il potente consigliere di Unicost. «Ti chiamerà Tescaroli per sue domande pendenti» (ottobre 2017), scrive Minisci a Palamara. Due giorni dopo, sempre Minisci ribadisce: «Chiamalo Tescaroli, sennò pensa che non gli vogliamo dare confidenza». Incrociare le agende dei due magistrati non è facile, e solo a novembre Palamara riesce a confermare all' aspirante procuratore aggiunto la possibilità di organizzare un incontro. Dello stesso periodo è anche il messaggio che Palamara riceve dall' ex procuratore di Milano, Edmondo Bruti Liberati: «Vorrei chiederti alcune informazioni. Quando ti posso chiamare senza disturbo?». Bruti Liberati fu protagonista, durante la consiliatura del Csm 2014-2018, di un durissimo scontro con il suo aggiunto, Alfredo Robledo, poi trasferito a Torino per incompatibilità ambientale. Di quella sentenza disciplinare, Palamara fu estensore. E sempre riguardo a Robledo, c' è il messaggio di Marco Ghionni a Palamara nei giorni in cui il Csm era chiamato a confermare o meno l' incarico semidirettivo del procuratore aggiunto a Torino. «Luca vedi che cosa vogliamo fare con Robledo; a mio parere non c' è alcuna necessità a non lasciare pubblica la delibera!». Alla fine, il Consiglio superiore deciderà di degradare Robledo a pubblico ministero aprendo così, di fatto, la porta alla sua successiva decisione di lasciare la magistratura. Tra i togati di Area che scambiano messaggi con Luca Palamara c' è il suo collega di Roma Mario Palazzi, che insieme all' aggiunto Paolo Ielo, deve essere sentito in merito al procedimento disciplinare del Csm nei confronti di Henry John Woodcock sul caso Consip. «L' 1 luglio parto in missione in Ecuador per conto del ministero», scrive il pm Mario Palazzi, «e torno il 7. Che fate sentite Paolo (Ielo, ndr) il 5 e poi me dopo?», Palamara: «Ok intanto facciamo Paolo». Qualche giorno più tardi Palazzi comunica: «[] Domani non potrò esserci, ho già inviato una giustificazione. Se sarà ancora necessario sentirmi dal 30 luglio in poi sarò sempre disponibile». Tra gli altri esempi di consociativismo emerge quello di Rossella Calia Di Pinto che spinge in tutti i modi un' altra collega, nell' orbita di Area: «Ciao Luca, quando potresti incontrare al Csm Giulia Pavese di Trani di cui ti ho parlato a Siena e che aspira al posto di presidente tribunale Chieti o Pisa?». Il giorno prima del voto Palamara alla sua interlocutrice spiega: «Rossella [] il problema è che su Chieti si sta raggiungendo in commissione una convergenza sul nome di Guido Campli il che crea problemi sul nome di Giulia Paese (Pavese, ndr) fortemente portata da Area». Non può mancare chi cerca un posto al ministero di Giustizia: è il caso di Maria Teresa Covatta, ex moglie del leader di Area, Giuseppe Cascini. «Carissima Maria Teresa ho riparlato con Betta e sono in attesa di riparlare con Orlando». Stanno parlando di Andrea Orlando, all' epoca Guardasigilli dem, e del suo capo di gabinetto, Betta Cesqui, esponente di spicco di Md. Un mese dopo Covatta digita: «Caro Luca ho saputo che quasi certamente l'incarico cui aspiravo non mi sarà assegnato».

Magistratopoli, spunta summit tra Palamara e Pignatone per proclamare Prestipino. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Maggio 2020. Esisteva un piano per ricattare Giuseppe Pignatone e alcuni magistrati che aspiravano al suo posto? Nei brogliacci dell’inchiesta di Perugia che ha terremotato il Csm spunta una frase inquietante: «L’unico che non è ricattabile è Viola (Marcello, procuratore generale di Firenze, ndr)». La terribile affermazione, mai valorizzata fino ad oggi, viene pronunciata lo scorso maggio dal pm Luigi Spina, all’epoca consigliere del Csm in quota Unicost, durante un colloquio, intercettato dal Gico della guardia di finanza, con il collega di corrente ed ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Siamo alla vigilia della scelta del nuovo procuratore di Roma. Per Giuseppe Pignatone l’8 maggio è l’ultimo giorno di lavoro a piazzale Clodio. Il Csm ha fretta e vuole procedere subito con la nomina del suo successore. Per abbreviare i tempi si decide di non effettuare le audizioni degli aspiranti. Anche Piercamillo Davigo è d’accordo. Sono giorni frenetici. I candidati per la Procura più importante d’Italia, quella che vale due o tre Ministeri, sono tredici. Oltre a Viola ci sono i procuratori di Firenze e Palermo, Giuseppe Creazzo e Francesco Lo Voi. Viola e Lo Voi sono esponenti di Magistratura indipendente, la corrente di destra, Creazzo è invece di Unicost. Fra i concorrenti c’è anche Michele Prestipino, aggiunto alla Procura di Roma e da sempre stretto collaboratore di Pignatone, prima a Palermo e poi a Reggio Calabria. Spina e Palamara si sentono e si vedono spessissimo. Ogni loro incontro è registrato tramite il trojan che ha infettato il cellulare di Palamara su ordine della Procura di Perugia che indaga l’ex capo dell’Anm per corruzione. Uno di questi colloqui, quello in cui comunicherà a Palamara dell’arrivo del fascicolo di Perugia al Csm, costerà a Spina l’incriminazione per il reato di violazione del segreto d’ufficio. Ma torniamo al colloquio fra Spina e Palamara sul successore di Pignatone. La conversazione, leggendo la trascrizione della finanza, è concitata. Spina riferisce di incontri avuti con alcuni magistrati a proposito della nomina del nuovo procuratore di Roma. Da quanto emerge non tutti sarebbero convinti di Viola, preferendo altri candidati. «Voi mettete uno che rischia di essere ricattato come è stato ricattato Pignatone», è stata allora la risposta di Spina a questi colleghi incerti sul nome del procuratore generale di Firenze. Viola, va comunque ricordato, è sempre stato all’oscuro di tutto, come emerso dalle indagini di Perugia.

A quale ricatto si riferisce l’ex togato del Csm e chi ne sarebbe l’autore? Spina, dopo essersi dimesso, è ora procuratore facente funzioni di Castrovillari. Non sappiamo se la Procura di Perugia gli abbia chiesto di spiegare queste sue affermazioni. Durante il colloquio fra i due, poi, emerge anche il piano dei “nemici” di Area, la corrente di sinistra che nella scorsa consiliatura faceva asse con Unicost. Questo lo schema, secondo Spina, delle toghe progressiste: «Lo Voi a Roma e Prestipino a Palermo». Per Area si tratterebbe di un ritorno sui propri passi, visto che nel 2014 osteggiò in tutti i modi la decisione di mandare Lo Voi a Palermo. La nomina venne contestata da Guido Lo Forte e Sergio Lari. In primo grado il Tar diede ragione a quest’ultimi, ma il Consiglio di Stato ribaltò la decisione confermando Lo Voi al proprio posto. La sentenza a Palazzo Spada fu firmata dal presidente Riccardo Virgilio e da Nicola Russo. Il primo è stato indagato e il secondo è finito in carcere a seguito di un’inchiesta della Procura di Roma (e di Messina) su una sospetta compravendita di sentenze organizzata dall’imprenditore Piero Amara, il creatore del “sistema Siracusa”. Il 9 maggio del 2019, comunque, Palamara fa sapere che cenerà al ristorante romano Mamma Angelina con Pignatone e Prestipino. La cena non è stata registrata dagli investigatori della finanza. La sera prima, nella saletta dell’hotel Champagne, si era svolto l’ormai celebre incontro con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, e alcuni consiglieri del Csm. Il 28 maggio la quinta Commissione del Csm, competente per gli incarichi direttivi, voterà per Viola. Per lui quattro preferenze, una ciascuna per Creazzo e Lo Voi. Il 29 maggio Repubblica e Corriere della Sera pubblicheranno il primo di numerosi articoli sul “mercato delle nomine al Csm”. La campagna di stampa provocherà nelle settimane successive le dimissioni di cinque consiglieri e il cambio di maggioranza a Palazzo dei Marescialli. Il resto è cronaca: la nomina di Viola verrà annullata e il Csm a marzo, in piena emergenza Covid-19, sceglierà quindi Prestipino come nuovo procuratore della Capitale.

Luca Fazzo per “il Giornale” - Estratto il 29 maggio 2020. Faide, amicizie, manovre. E persino trattative così inconfessabili da vergognarsene anche davanti ai propri figli. Il mondo che ruotava intorno a Luca Palamara, il pm romano divenuto il simbolo dell' inchiesta sul marcio in magistratura, racconta anche questo: con Palamara che per ricevere degli interlocutori, tra cui il deputato del Pd Cosimo Ferri (oggi passato a Italia viva) sfratta di casa i familiari. «Senti ti volevo dire domani sera eh se faccio una cosa ristretta da me non è che potete uscì tutti no? Te Lavinia e Rocco potete uscire dico un po’?», scrive Palamara alla moglie il 17 aprile 2019. Poi, più prosaicamente, c' è anche la preoccupazione per le spese del convivio: «Che cosa posso fare le pizze o un piatto di pasta ma la pasta poi diventa un casino.. che cosa si può fare di pronto senza pagà tanto...». Ma a quel punto si innesca una crisi domestica quasi drammatica per Palamara: non da parte della moglie ufficiale ma della compagna, Adele Attisani.

Attisani: «Comunque devi sparire tu perché in questi momenti non ci sei nemmeno e Legnini non è ormai nessuno perché non è che ci lavori insieme».

Palamara: «Senti Adele però ascoltami un attimo».

Attisani: «Quindi non è che devi discutere di lavoro capito».

Palamara: Adele Adele ascolta un attimo».

Attisani: «Non dovete parlare di lavoro, dovete fare le cagate che organizzate voi».

Palamara: «Adele mi ascolti Adele mi ascolti un attimo...».

Attisani: «Perché organizzate delle cagate capito ti dovresti vergognare tutti voi di questi di quell' ambiente capito tutto una porcheria una porcheria».

Palamara: «Hai ragione hai ragione sono d’accordo con te».

Attisani: «E la prima è quella che organizza. G. che organizza per voi perché è una che cerca di farvi accoppiare ma fate schifo siete una categoria schifosa e tu mi lasci sola.. sapevi che io arrivavo stasera».

Palamara: «No Adele non lo sapevo e tu delle persone non disponi così dopo che ti ho telefonato quattro volte tu mi hai detto che tornavi tardi».

Attisani: «Ah non lo sapevi ma come non lo sapevi ma stai scherzando».

Palamara: «Ti invito a smetterla a dire queste cazzate non te lo consento più chiaro».

Attisani: «Per me devi sparire per me devi sparire ok adesso ascoltami bene e fate queste troiate hai capito? e meno male che ti rendi conto di quello che fate meno male che ti rendi conto che fate delle marchette, G. fa le marchette e vi porta le donne. Ciao e non mi chiamare più».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 29 maggio 2020. Il procedimento contro Ciro Grillo e tre suoi amici, accusati di violenza sessuale da una ragazza italonorvegese, procede a rilento, anche a causa del Covid-19. A fine agosto, mentre nasceva il nuovo governo, a Grillo junior e ai suoi compagni vennero sequestrati i cellulari. A gennaio il procuratore di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, ha ricevuto dal suo consulente la relazione sulle chat e i video contenuti nei telefonini dei ragazzi. Una perizia di cui non è trapelata nemmeno una parola. Ma se Capasso, esponente della corrente moderata di Magistratura indipendente, è stato straordinario nel blindare il procedimento e i contenuti degli smartphone, di cui dopo quasi un anno si sa poco o nulla, il procuratore sardo deve oggi fare i conti con il grande risalto mediatico che sta avendo un altro processo, quello di Luca Palamara, ex potentissimo consigliere del Csm. Infatti nelle carte del procedimento perugino spunta la chat che ha condiviso con Palamara. Il primo messaggio tra i due risale al 31 ottobre 2017, quando Capasso è pm a Latina e l' interlocutore è membro del parlamentino dei giudici. Il procuratore sardo, juventino sfegatato, dà inizio a un insistente «corteggiamento» per convincere il romanista Palamara ad andare a Torino con lui ad assistere alla sfida tra bianconeri e giallorossi del 23 dicembre 2017. Capasso la prima volta scrive dopo una vittoria della squadra capitolina contro il Chelsea: «Caro Luca, stasera, da buon italiano, ho fatto un gran tifo per una bellissima Roma. Chissà magari riuscirò a trascinarti nel mio stadio per vedere assieme "la partita"...». Palamara risponde: «Verrò sempre con grande piacere e ti aspetto presto». Inizia il pressing di Capasso: «Allora mi attivo... partita e cena al ristorante dello Stadium. Tribuna Cento dove saremo ospitati. E vinca il migliore, Var permettendo. Un saluto affettuoso». La Tribuna Cento è il top: ha i posti più centrali e vicini al campo e, come si legge sul sito della Juve, «oltre ad una posizione privilegiata su poltrone di altissimo comfort» mette «a disposizione servizi di catering di altissimo livello in un ristorante esclusivo». Questi posti valgono circa 350 euro l' uno e vengono acquistati dalle aziende che li mettono a disposizione di clienti e personalità. Il 5 novembre Capasso ricorda a Palamara la sua preziosa offerta: «Il 23 dicembre ho due inviti per una grande partita in primissima fila preceduta da un eccellente pranzo al ristorante dello Stadium. Poco prima di Natale [] Ps se vuoi, ma dubito, ho anche due inviti per la fila posizionata proprio dietro la panchina della squadra locale». Praticamente un bagarino. Il tutto in tripudio di emoticon. Palamara: «Grazie. Mi organizzo e ti faccio sapere». Il 6 dicembre il procuratore sardo ripropone la mercanzia: «Caro Luca se sei pronto il 23 ci attende una grande partita. E in una posizione adeguata. Previa cena al ristorante interno». Palamara cincischia: «Grazie Gregorio un abbraccio e ci sentiamo inizio prossima settimana». Arriva l' antivigilia di Natale e Capasso è un tifoso solo: «Caro Luca sto andando a Torino...Attendevo con piacere un tuo cenno, ma mi rendo conto che il 23 dicembre non è agevole spostarsi e soprattutto lasciare a casa moglie e magari figli. Speriamo di organizzarci per una prossima, importante occasione». Il 31 gennaio Palamara gli scrive: «Contento?». Capasso: «Certo che sì Luca. Grazie per il sostegno. Quando vuoi ci vediamo. Per qualunque cosa, partite comprese». Di che cosa parla Palamara? Quel giorno non ci sono state partite, ma il riferimento potrebbe essere alla notizia che compare pochi giorni dopo su un giornale locale: il Tar del Lazio ha annullato il provvedimento relativo alla nomina di procuratore aggiunto di Latina di Carlo Lasperanza, accogliendo il ricorso presentato proprio da Capasso, che aveva partecipato al concorso. Successivamente i due commentano le partite della Roma e la cavalcata Champions dei giallorossi. Il 24 aprile, invece, affrontano per la prima volta il tema delle nomine: «Se riusciamo giovedì plenum!!!» fa sapere Palamara, con riferimento all' incarico da procuratore a Tempio Pausania del collega. «Magari. Ma è stata finalmente approvata in commissione?», replica Capasso. Palamara: «Sì, caro. Proprio ora». Capasso: «Grazie Luca. Non dico altro». Palamara lo solletica: «Questa estate giro in barca». Capasso: «Ovvio. E calcetto...». Palamara il 9 maggio dà la conferma all' amico: «Plenum!!!». Capasso: «Grazie caro Luca ce l' abbiamo fatta. Io spero di festeggiare pure stasera (è prevista Juventus-Milan di Coppa Italia, ndr)». In estate i due si scambiano una serie di messaggi per organizzare una cena in Sardegna. Si ritrovano il 22 agosto e verso le 10 di sera Palamara gira a Capasso il numero di cellulare del capo di gabinetto del ministro Alfonso Bonafede, Fulvio Baldi, di cui probabilmente hanno parlato tra una portata e l' altra. Il 23 Capasso commenta: «Bella serata caro Luca e piacere di essere stati assieme. Se vuoi andare al Lamante dell' Oasi di Sabaudia fammi sapere». Lamante è il beach club dell' elegante hotel Oasi di Kufra, in provincia di Latina, dove evidentemente Capasso ha i giusti agganci. Il 6 settembre il neoprocuratore si rifà vivo: «Avrei bisogno di una cortesia, se puoi. Domattina dovrei essere a Roma ed avrei urgente bisogno di parlare con la Fabbrini (Barbara, capo dipartimento dell' organizzazione giudiziaria al ministero della Giustizia, ndr) che non conosco personalmente. Se tu la conosci e puoi in qualche modo mettermi in contatto con lei ti sarei grato. [] Se ritieni che sia meglio potrei anche chiamare Baldi ma dovresti comunque anticiparglielo tu». Verso sera Palamara risponde: «Grande Gregorio ti aspetta domani alle 11.15». Capasso: «Grazie caro. Vado e poi ti chiamo per vederci [] riservatamente che se mi beccano». Il 13 settembre Capasso informa Palamara di essere rimasto con un solo sostituto procuratore in organico e di essersi rivolto alle commissioni del Csm competenti: «Vedi un attimo che si può fare» è il suo invito. A fine settembre Palamara sbarca in Sardegna. Il programma prevede giro alla Tavolara, arrampicata e cena con esponenti delle forze dell' ordine. Tra ottobre e novembre i due provano a organizzare un nuovo incontro conviviale sull' isola con Cosimo Ferri, parlamentare renziano ed ex capo della corrente di Mi. L' occasione per la «grande cena», in cui festeggiare l' ammissione di Capasso a un «corso riservato ai dirigenti degli uffici giudiziari» si presenta il 23 novembre. Da quel momento, a giudicare dalla chat, i rapporti si raffreddano e nel 2019 Capasso e Palamara si scambiano un solo messaggio, a tema calcistico.

Palamara, la confessione dei magistrati in chat: "Sapevamo di fare campagna per il Pd". Libero Quotidiano il 29 maggio 2020. Lo scoop della Verità, che ha raccontato le sue manovre con i magistrati di sinistra per attaccare il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, sulla questione della nave Diciotti, hanno provocato una scialba difesa d'ufficio dell'ex vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Lo scrive lo stesso quotidiano che riporta le parole dell'esponente del Pd: "Si trattò di un intervento doveroso, che rientra nelle competenze del Csm, svolto esclusivamente a tutela dell'indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato, e che rifarei esattamente negli stessi termini poiché mi sono sempre battuto per affermare le reciproche sfere di autonomia tra magistratura e politica. I messaggi oggi (ieri, ndr) pubblicati non hanno nulla a che vedere, dunque, con la vicenda Palamara". Che cosa è successo con la Diciotti è noto, ed è noto pure che dopo qualche mese, Legnini scenderà senza successo in campo per le regionali in Abruzzo alla guida di una coalizione di centrosinistra. Sempre grazie alle chat acquisite dai pm di Perugia sia Legnini che Palamara entrano in contatto con il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, titolare del fascicolo su Salvini. Ma per Legnini, conclude la Verità, tutto questo è "decontestualizzato" e "fuorviante". 

Luca Palamara. Francesco Storace contro Nicola Zingaretti: "Dice di aver letto le carte, come le ha avute?". Ar.Mo. su Libero Quotidiano il 29 maggio 2020. Tra i numeri della rubrica telefonica di Luca Palamara, il consigliere del Csm sospeso dall’incarico la scorsa estate in seguito all’inchiesta sulle nomine pilotate dei procuratori nazionali, uno di quelli che ricorre maggiormente è quello appartenente al presidente della Regione Lazio e segretario del Pd Nicola Zingaretti. Ieri i consiglieri regionali leghisti hanno chiesto un consiglio straordinario per chiedere conto al governatore di questa familiarità, emersa dalle intercettazioni che la Procura di Perugia ha ordinato sul telefono cellulare di Palamara. Il leader leghista Matteo Salvini, definito da Palamara «una m...»in alcune telefonate, ha ringraziato i suoi consiglieri. «Sono certo che il presidente e leader del Pd non ha nulla da nascondere e che quindi chiarirà facilmente tutti gli interrogativi», ha detto l’ex ministro dell’Interno. Nel frattempo Zingaretti ostenta tranquillità. Intervistato da Repubblica, che gli chiedeva se si rimproverasse per tutti quei minuti passati al telefono con il magistrato oggi indagato, il segretario dem non ha ammesso ripensamenti. «Francamente no», ha risposto. «Conosco Palamara da quando era presidente dell’Anm e posso dire con assoluta serenità di avere avuto sempre rapporti impostati sull’assoluta correttezza e rispetto dei ruoli, come del resto emerge da tutte le carte». Una notazione, quest’ultima, che ha insospettito il direttore del Secolo d’Italia Francesco Storace: «Zingaretti già conosce “tutte le carte”. Senza essere indagato. Miracoli della giustizia. Le fa avere anche alla pubblica opinione?». Storace, che ricorda anche l’incarico ricoperto in Regione Lazio dalla moglie di Zingaretti (un incarico da dirigente esterno ricoperto dal 2015 al 2017), conclude: «Zingaretti dice di stare a posto e di aver avuto rapporti corretti. E se lo dice lui nessuno si permetta di dubitarne neppure un po’. Però la curiosità di sapere di che cosa parlavano nel corso di tanti colloqui accertati dagli inquirenti resta tutta. Dai, fatecele vedere “tutte le carte” che conosce solo il non indagato Zingaretti e non qualsiasi cittadino». Le chat finora rese pubbliche attestano quantomeno una grande amicizia tra i due uomini, che spesso si accordavano per appuntamenti in bar o ristoranti di Roma. Nel marzo 2018, dopo la vittoria di Zingaretti alle regionali laziali, Palamara gli scrive: «Grande Nicola grande vittoria!! Ripartiamo da qui tutti insieme!».

Luca Palamara, Milella intervista Bruti Liberati: "Voltare subito pagina", dopo che entrambi sono stati intercettati. Libero Quotidiano il 30 maggio 2020. Liana Milella intervista Edmondo Bruti Liberati. Si parla di Davigo, del caso Palamara e dell’intervento del presidente Mattarella, ma è curioso che sia l’intervistatrice che l’intervistato sono finiti nel calderone delle intercettazioni delle conversazioni private di Luca Palamara. Se la giornalista aveva già risposto in precedenza a chi ipotizzava che il pm fosse il Deus ex machina di molte trame editoriali di Repubblica, l’ex procuratore capo di Milano doveva ancora parlare pubblicamente delle intercettazioni che lo riguardano. “Bisogna voltare subito pagina”, ha dichiarato Bruti Liberati, che ha poi definito “giuste e sagge” le parole di Sergio Mattarella, che ieri ha escluso lo scioglimento del Csm (non ci sono le condizioni) ma ha invitato con decisione il governo e tutti i gruppi parlamentari ad approvare in tempi brevi una nuova normativa, se realmente intendono riformare il sistema giudiziario. Inoltre Bruti Liberati ha dichiarato che “è un fatto che magistrati in posizione di rilievo si compiacciono della rete di relazioni che hanno intessuto”: per questo “occorre fare chiarezza” sulle “deprecabili interferenze su nomine e trasferimento”.

Luca Palamara, nelle intercettazioni spunta Edmondo Bruti Liberati. L'sms: "Vorrei chiederti alcune informazioni". Libero Quotidiano il 29 maggio 2020. Tutti in ginocchio da Luca Palamara. Anche le toghe rosse. Il potere dell'ex presidente Anm e membro del Csm era tale, come risulta dalle intercettazioni, che in fila per chiedergli un aiuto (di qualsiasi tipo) c'era anche Edmondo Bruti Liberati, storico ex procuratore di Milano. Nell'ottobre 2017, riporta la Verità, l'ex capo di Ilda Boccassini scriveva un sms al collega di questo tenore: "Vorrei chiederti alcune informazioni. Quando ti posso chiamare senza disturbo?". Impossibile non ricordare come in quei mesi fosse accesissimo lo scontro in Procura tra Bruti Liberati e il suo procuratore aggiunto Alfredo Robledo. Non a caso, con Palamara parla di Robledo anche Marco Ghionni: "Luca vedi che cosa vogliamo fare con Robledo; a mio parere non c'è alcuna necessità a non lasciare pubblica la delibera!". Alla fine, il Csm degraderà Robledo a pubblico ministero. Certo, qualcuno con Palamara si prendeva forse delle libertà eccessive, come Valeria Piccone, di Magistratura democratica, che sembra implorarlo: "Mi aiuti a trovare casa?... Non posso più vivere al Fleming". Risposta un po' spiazzata: "Sì certo nei limiti in cui posso".

Giuseppe China per “la Verità” il 28 maggio 2020. Nella vasta rete di contatti di Luca Palamara fatta di magistrati, attori, uomini di sport e semplici Vip non mancano ovviamente i politici. Soprattutto di centrosinistra. Oltre ai contatti con Nicola Zingaretti, Marco Minniti e il Giglio Magico, l' ex leader di Unicost, indagato a Perugia per corruzione, scambiava messaggi pure con Beatrice Lorenzin e Francesco Boccia. A meno di due settimane dalla conclusione dell' incarico a ministro della Salute della Lorenzin, Luca Palamara viene invitato alla presentazione del libro Per salute e per giustizia. «Ciao, martedì presento quella che non si può definire una "fatica letteraria"», digita l' ex esponente del Nuovo centrodestra, «ma un libretto di viaggio tra le sfide affrontate e da affrontare per la sanità e la scienza italiana, che ho scritto, tra una stazione e l' altra, durante le tante visite alle strutture sanitarie del Paese». Indicato il luogo della presentazione conclude: «Mi farebbe molto piacere averti con noi. Serata informale, divulgativa e spero stimolante!». Palamara non conferma la presenza, però rilancia alla sua maniera: «Organizziamo presto e stiamo a cena insieme?». «Siii», risponde entusiasta l' ex ministro, che qualche giorno più tardi torna alla carica: «Se puoi ti ricordo oggi la presentazione del libro [] alle 18.30!». L' ex consigliere del Csm non replica, dunque non sapremo mai se sia presentato all' evento. L' unica certezza è rappresentata dal fatto che Luca Palamara era molto ricercato dai politici. Infatti nel novembre 2018 è l' attuale ministro degli Affari regionali e delle autonomie che invia al suo interlocutore un video di campagna elettorale per la segreteria del Partito democratico. Un filmato di due minuti circa in cui Francesco Boccia trascorre parte della sua giornata al mercato di Scampia a Napoli e nella parte alta dell' inquadratura c' è scritto «aporteaperte», rafforzato dall' hashtag. Con molta probabilità questo video non ha suscitato grandi entusiasmi in Luca Palamara, visto che non replica. Ma Boccia non demorde e qualche giorno più tardi mira dritto al punto: «Ciao, ti mando un po' di informazioni utili per sostenere la mia candidatura al congresso!». Nel resto del testo si leggono tre link: il primo che invita all' iscrizione online al Partito democratico, il secondo è la locandina di un evento «che sto organizzando» su diritti e innovazione e infine il sondaggio sulle primarie, «che dà l' idea di una partita sempre aperta». Peccato che questa sollecitazione di Francesco Boccia cada nel vuoto. Oltre ai politici finisce nel calderone delle intercettazioni anche l' ex prefetto Mario Morcone, già candidato a sindaco di Napoli con una lista civica sostenuta da Pd e Sel. Al quale il pm di Roma, in occasione di una celebrazione al Viminale, scrive: «Caro Mario grazie ancora di tutto e per aver contribuito a realizzare questa per me indimenticabile giornata». Dopo un paio di mesi Palamara sembra avere ancora bisogno del suo aiuto: «Scusami Mario se ti disturbo attendo tue notizie per organizzarmi, atteso che al momento hanno sospeso il servizio un caro saluto».

"Mi puoi aiutare a trovare casa?". Le folli richieste dei magistrati. L’ex capo dell’Anm, Luca Palamara, era subissato di messaggini. Grazie a lui c’è chi ottiene una casa nuova e chi conquista magicamente un posto in procura. Michele Di Lollo, Venerdì 29/05/2020 su Il Giornale. Nuovi sviluppi emergono dalle chat legate all’inchiesta su Luca Palamara. Esponenti della corrente di sinistra della magistratura si confrontavano con l'ex capo dell'Anm su tutto. C’è chi è in cerca di un’abitazione, chi di un posto al ministero della Giustizia. L’ex consigliere del Csm, come ricostruito dalla Verità, può molto. Si rivolgono a lui per avere informazioni e consigli su trasferimenti e promozioni. Negli atti spunta il nome di Lia Sava, procuratore generale a Caltanissetta (non indagata). Il 23 dicembre 2017 scriveva: "Caro Luca, non siamo più riusciti a sentirci. Volevo solo dirti che ho revocato la domanda per Potenza e ho inserito altre domande relative al prossimo bando". Tra queste, Caltanissetta appunto. La risposta di Palamara è chiara: "Buongiorno Lia puoi far depositare il tuo parere per Caltanissetta? Se riesci nella giornata di oggi". Lei si attiva immediatamente. Il 29 marzo, Palamara esulta: "Fatta!!!!!". La Sava diventerà capo della procura generale a Caltanissetta. Nelle chat troviamo anche il nome di Luca Tescaroli, procuratore aggiunto a Firenze. Di lui, Palamara dice: "Faccio in tempo a far vincere Tescaroli sia chiaro... Se passa è solo per me". Dello stesso periodo (2018) è anche il messaggio che Palamara riceve dall’ex procuratore di Milano, Edmondo Bruti Liberati: "Vorrei chiederti alcune informazioni. Quando ti posso chiamare senza disturbo?". Bruti Liberati è protagonista di un duro scontro con il suo aggiunto, Alfredo Robledo, poi trasferito a Torino per incompatibilità ambientale. Di quella sentenza disciplinare, Palamara è protagonista. Tra i togati di Area (corrente di sinistra della magistratura) che scambiano messaggi con Palamara c’è anche il suo collega di Roma, Mario Palazzi, che insieme all’aggiunto Paolo Ielo, deve essere sentito in merito al procedimento disciplinare del Csm nei confronti di Henry John Woodcock sul caso Consip. "Il primo luglio parto in missione in Ecuador per conto del ministero e torno il 7. Che fate sentite Paolo il 5 e poi me dopo?", scrive Palazzi. Palamara: "Ok intanto facciamo Paolo". Qualche giorno più tardi Palazzi comunica: "Domani non potrò esserci, ho già inviato una giustificazione. Se sarà ancora necessario sentirmi dal 30 luglio in poi sarò sempre disponibile". Tra gli altri esempi di consociativismo emerge quello di Rossella Calia Di Pinto che spinge in tutti i modi un’altra collega, nell’orbita di Area: "Ciao Luca, quando potresti incontrare al Csm Giulia Pavese di Trani di cui ti ho parlato a Siena e che aspira al posto di presidente tribunale Chieti o Pisa?". Il giorno prima del voto Palamara risponde: "Rossella il problema è che su Chieti si sta raggiungendo in commissione una convergenza sul nome di Guido Campli il che crea problemi sul nome di Giulia Paese (Pavese, ndr) fortemente portata da Area". Gli esempi sono molti. Tutti chiedono informazioni e favori a Palamara. Ora queste chat di fuoco sono al centro del mirino delle indagini.

Si allunga l'elenco. Il Gip Sturzo ci ha fatto causa. Redazione su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. Si allunga l’elenco dei magistrati che hanno fatto causa al Riformista. Ci è giunta la notizia che anche il Gip Gaspare Sturzo ha avviato la richiesta di risarcimento danni nei nostri confronti perché si sente diffamato – se abbiamo capito bene – dalla pubblicazione sul Riformista di alcune intercettazioni dell’affare Palamara nelle quali lui sembrava chiedere un aiuto dell’ex capo dell’Anm per lo sviluppo della sua carriera. Gaspare Sturzo ha citato in giudizio l’editore Alfredo Romeo e il direttore Piero Sansonetti. Chi è Sturzo? È il Gip che nel 2017 ordinò l’arresto di Alfredo Romeo (poi cancellato dalla Cassazione) e successivamente, nella vicenda delle indagini su Consip, ha respinto la richiesta di archiviazione del procedimento, sempre contro Romeo (e altri), che era stata avanzata dalla Procura, e in particolare da Pignatone, Ielo e Palazzi.

Magistratopoli, spunta il nome di Gaspare Sturzo: il Gip del caso Consip chiedeva raccomandazioni a Palamara. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Maggio 2020. Proprio lui, Gaspare Sturzo, l’incorruttibile! Sapete chi è? Beh, il nome è noto, perché il fratello di suo nonno era un sacerdote ed è stato il fondatore della Dc. Scrisse nel marzo del 1919 il famoso appello agli uomini Liberi e forti che poi è il pilastro attorno al quale fu costruito il popolarismo italiano. Anche Gaspare presiede una associazione che porta il nome di quel manifesto. Liberi e Forti. E però stavolta sembra che libero libero non fosse… Ieri l’Espresso online ha pubblicato un altro pacchetto delle intercettazioni del Palamara-gate, e stavolta Gaspare Sturzo non fa una gran figura. Chiede al solito potentissimo Palamara una raccomandazione per diventare sostituto procuratore in Cassazione. Non so se è un reato, ma è una brutta cosa. Si lamenta perché il suo compagno di corso, Luigi Argan, ha ottenuto una nomina importante e lui ancora niente. Domanda a Palamara se ha notizie e poi, in un messaggio Whatsapp, illustra tutti i suoi meriti professionali. Dice di aver lavorato a Palermo all’antimafia, di aver partecipato al pentimento di Siino (ministro delle finanze di Cosa Nostra) di avere guidato il processo “mafia appalti” (che per la verità non è mai stato fatto) di essere tra quelli che hanno catturato Provenzano e poi soprattutto di avere lavorato a Roma come Gip e come Gup e spiega che di questo non c’è bisogno neanche di parlare «Perché dovrebbero essere noti al Csm per la loro rilevanza». Questa cosa del suo lavoro come Gip e Gup a Roma, chissà perché, è scritto tutto con lettere maiuscole, come per sottolinearne l’aspetto decisivo. E cosa avrebbe fatto di così rilevante, da Gip, da sopravanzare per clamore e merito persino la cattura di Provenzano? Beh, un po’ questa storia la conosco. Perché riguarda il mio editore, cioè Alfredo Romeo. Pensavo che fosse una cosa minore nella storia giudiziaria di questi ultimi anni, ma invece Sturzo sembra farla pesare come vicenda molto importante. Forse non importante dal punto di vista giuridico, evidentemente importante dal punto di vista politico. E così nota – pare – agli addetti ai lavori, da non aver bisogno neppure di essere descritta. La storia, per quel che ne so, è questa. Sturzo è il Gip che firmò l’ordine di arresto per Alfredo Romeo. Nel 2017. All’apice del caso Consip. E in questo modo riuscì a portare l’inchiesta Consip a Roma, togliendola a Napoli. Io ho letto l’ordine di arresto. È una lettura un po’ inquietante. L’idea è che Romeo è colpevole ed è un maledetto corruttore per il semplice motivo che non si fa intercettare e non si riescono a trovare prove contro di lui. Se uno non si lascia intercettare e non semina prove è chiaro che ha qualcosa da nascondere. E se un Pm lo sospetta di corruzione per avere vinto tre gare d’appalto della Consip avendo fatto l’offerta migliore, è evidente che va imputato per corruzione. L’ordine d’arresto non lo ho letto solo io, lo hanno letto i giudici della Cassazione. Che lo hanno annullato perché del tutto infondato. Il bello della giustizia italiana è questo: possono anche darti ragione, ma tu comunque devi pagare. Sei mesi di galera, le gare annullate, e i processi che non finiscono mai. I Pm avevano chiesto a Sturzo di archiviare il processo contro Romeo, perché non ci sono indizi. E Sturzo ha respinto la richiesta dei Pm. Ha detto: se gli indizi non ci sono, cercateli. Prima o poi li troverete. E perché? Sempre per quella ragione: Romeo spesso smetteva di parlare al telefono con gli interlocutori e gli dava un appuntamento da qualche parte. Ieri leggendo le intercettazioni delle telefonate tra Palamara e Sturzo mi è venuta in mente proprio questo ragionamento di Sturzo. Perché ci sono vari scambi di messaggi nei quali Sturzo chiede a Palamara di vederlo, e ottiene un appuntamento in un certo luogo e a una certa ora. E perché mai – dico – non scrive direttamente su Whatsapp il motivo del colloquio? Un giudice uguale a lui lo incriminerebbe subito, non vi pare… Sturzo sarà pure Libero e Forte, sarà incorruttibile, però come molti altri magistrati chiede raccomandazioni. E fa capire che lui ritiene di avere i titoli per una promozione proprio per l’opera meritoria nell’affare Consip. Con l’arresto di Romeo, evidentemente, e poi con il rifiuto di archiviare deve aver reso un servizio a qualcuno. Vorrebbe il corrispettivo. Certo la vicenda Consip resta una vicenda misteriosa. Piena di ombre, di cose non dette. Tempo fa ci occupammo di alcune carte dalle quali risultava che l’amministratore di Consip, Luigi Marroni, e il capo della commissione dei concorsi, Francesco Licci, si confessavano che era necessario non assegnare gli appalti a Romeo, anche se aveva vinto le gare. E poi decidevano di mettere in cantiere “una strategia per Il Fatto Quotidiano”. Per giorni e giorni abbiamo chiesto ai colleghi del Fatto Quotidiano di spiegarci se poi questa strategia di Consip si fosse realizzata. E quale fosse. E quali risultati avesse portato. Niente: silenzio. Chissà se stavolta il dottor Sturzo, invece, vorrà risponderci e spiegarci perché la sua azione su Consip e l’arresto di Romeo avrebbero dovuto essere premiati con la nomina a sostituto procuratore in Cassazione. Temo che non avremo mai queste risposte. Così come temo che nessuno vorrà affondare il coltello in questo scandalo che ci sta mostrando il volto vero della magistratura e del giornalismo giudiziario italiano. È un volto molto brutto. Difficile che qualcuno possa smentire: la magistratura italiana che esce dal Palamara-gate è una organizzazione di potere che non ha nessuna relazione e nessun interesse per la giustizia. La competenza di cui dispone sulla giustizia è solo un mezzo per espandere il proprio potere e le possibilità di vessazione. E il giornalismo giudiziario, del tutto privo di indipendenza, è solo uno strumento delle Procure, che accetta il suo ruolo subalterno con baldanza e saccenteria. I grandi giornali hanno ignorato per settimane e settimane le intercettazioni. E oggi i giornalisti che sono stati coinvolti nelle intercettazioni per il loro rapporti speciali coi Pm, continuano a non rendere conto di niente e a scrivere fingendo che non sia successo nulla. A voi sembra un paese libero questo? Sembra un paese libero quello dove detta legge una magistratura che ammette di voler colpire Salvini anche se lo ritiene innocente e ammette di aver bastonato Berlusconi per ragioni politiche? E vogliamo andare a cercare perché colpendo Mastella fecero cadere il governo Prodi? Qualcuno ha voglia di prendere atto del fatto che una parte consistente e molto attiva della magistratura italiana ha svolto in questi anni un ruolo eversivo, in modo molto più sfacciato di quanto fu fatto, ad esempio, 50 anni fa al tempo del “Piano Solo” e del tentato golpe del Sifar?

Caso Consip, Sturzo il Gip al quale piaceva perder tempo e voleva lo scalpo di Renzi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Febbraio 2020. Quindi sono gli avvocati che cercano di rallentare le indagini, e poi i processi, e poi intasano tutto con i loro ricorsi e i controricorsi, e lo fanno per ottenere la prescrizione. L’avete sentita dire cento volte questa cosa, no? Anche in Tv, l’avete letta sui giornali, sui social. E a forza di ripeterla, ripeterla, una cosa è come se diventasse vera. Se chiedete a cento persone se è così, almeno un’ottantina vi risponderanno: sì, sì, è così, tutta colpa degli avvocati. Allora seguitemi un attimo, attenti alle date. C’è un’ipotesi di reato che risale al 2016. Una inchiesta che parte proprio nel 2016 e si conclude due anni dopo con una richiesta da parte del Pm di archiviazione. I Pm non hanno trovato reati. Il Gip però non è d’accordo, respinge la richiesta di archiviazione e chiede un po’ di tempo per pensare a cosa fare. Pensa, pensa, pensa, un mese, due, tre, quattro: quindici mesi. Dopo 15 mesi di pensieri, sebbene l’inchiesta dei Pm dimostri che non c’è uno straccio di prova di colpevolezza, il Gip ha la bella idea di chiedere un supplemento di indagini. Gli è servito quasi un anno e mezzo di meditazione per chiedere un supplemento di indagini. Ha detto al Pm – che aveva chiesto l’archiviazione – di cercare ancora per 90 giorni. Poi, se il Pm gli ripeterà che non ha trovato nulla, forse sarà lui stesso a decidere l’imputazione coatta, e probabilmente, per fare questo, gli saranno necessari ancora 15 o 16 mesi. Non è un caso ipotetico, quello che ho raccontato. È il caso di una delle inchieste Consip. Il Pm in questione è il Pm romano Mario Palazzi, un magistrato piuttosto noto e molto esperto. Il Gip che gli ha rimandato indietro la richiesta di archiviazione è Gaspare Sturzo, magistrato dal nome celebre, in Italia, perché è il nipote del fondatore del Partito Popolare e della Democrazia Cristiana. Sturzo, lunedì sera, ha respinto la richiesta di archiviazioni di Palazzi avanzata nell’autunno del 2018 e ha preteso nuove indagini sugli indiziati (tra gli altri il padre di Renzi, Luca Lotti e Alfredo Romeo) e anche su Denis Verdini e un gruppetto di suoi amici che indiziati non erano. Gli avvocati degli imputati in questa vicenda hanno potuto fare ben poco. Chi si è impegnato a fondo per intralciare la velocità della giustizia è stato solo ed esclusivamente il Gip. Bisognerà che l’Anm, o i magistrati eccellenti, come Davigo, o i legislatori dei 5 Stelle, tengano conto di questa vicenda. Ora il Pm Palazzi dovrà comunque, quasi un anno e mezzo dopo aver chiuso la sua indagine, ricominciare daccapo, riprendere in mano le carte, forse interrogare nuovi testimoni, e probabilmente dovrà lasciare per strada altre inchieste alle quali stava lavorando. Che magari cadranno in prescrizione…Come si spiega questo corto circuito e questo simil-suicidio della stessa magistratura, che poi protesta e chiede che sia bloccata la prescrizione per impedire agli avvocati di ritardare i processi? Forse si spiega con una sola e brevissima parolina magica: Renzi. Il bersaglio è quello, e quel bersaglio spiega tante cose. Tra le vittime di questa inchiesta dai tempi infiniti, diciamolo subito, c’è il nostro editore, Alfredo Romeo. Che da diversi anni è stato coinvolto nei vari rivoli dell’inchiesta Consip. E ha anche scontato diversi mesi di detenzione. Quando poi tutto sarà finito potremmo forse fare un calcolo approssimativo dei danni provocati da queste inchieste alle sue aziende. E l’entità dei danni sarà tanto maggiore quanto più sarà lunga la durata delle inchieste. Proviamo a prendere il caso Romeo e a moltiplicarlo – ad esempio – per dieci o per cento, quanti sono gli imprenditori che finiscono in una inchiesta giudiziaria simile e che poi si concluderà nel nulla: otterremo un risultato pari a diversi miliardi di danni. Forse uno o due punti di Pil. Non ci credete? È così, una delle ragioni della stagnazione o della recessione dell’economia italiana sta lì: nella burocrazia giudiziaria, nella macchina del sospetto che si è alimentata in tutti questi anni di politica, di populismo, di giustizialismo. Ora ve la racconto la storia delle indagini su Alfredo Romeo, come risulta dalle carte che il Gip Gaspare Sturzo ha potuto esaminare. L’accusa del Gip – che qui ha assunto una funzione di vero e proprio pubblico ministero aggiunto – è la seguente. L’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, avrebbe ricevuto pressioni da due diverse persone in nome di due diverse aziende che partecipavano a una delle gare d’appalto della Consip. Anno 2016, mese aprile. Una di queste persone è l’ex parlamentare Ignazio Abrignani, il quale avrebbe sostenuto l’azienda Cofely, legata – si dice – a Denis Verdini. L’altra persona è Carlo Russo, presunto amico di Tiziano Renzi e che avrebbe sostenuto l’azienda di Romeo. Su che base il Gip-Pm sostiene questa tesi? Sulla base di alcune dichiarazioni rilasciate da Luigi Marroni durante alcuni interrogatori. In una prima dichiarazione Marroni dice di avere ricevuto pressioni a favore della Cofely dall’ex parlamentare Abrignani, e pressioni da Russo a favore di un’altra azienda della quale non ricordava il nome. In un successivo interrogatorio Marroni sostiene ancora di non ricordare il nome dell’azienda raccomandata da Russo, ma esclude che fosse quello dell’imprenditore Romeo. Su questa base si è deciso di indiziare di reato Romeo e ora anche Verdini e gli altri. Non però Marroni. Ora, francamente, questa è una circostanza difficilissima da spiegare dal punto di vista della logica formale. Se uno sostiene che si è svolta una gara, che questa gara l’ha vinta Romeo, che per vincerla ha influenzato o corrotto l’amministratore delegato della Consip, cioè Marroni, e se si decide, su questa base – e sulla base di un teorema privo di uno straccio di indizio – di procedere contro Romeo che ha corrotto Marroni, ma come diavolo si fa a non procedere anche contro Marroni e la Consip? Dopodiché, naturalmente, si possono raccontare anche tante altre cose che non stanno nell’inchiesta. Per esempio si potrebbe fare questa domanda: è vero che il figliastro di Marroni gestisce insieme al figlio di Verdini un ristorante di gran successo a Roma? Voi – giustamente, direte: e cosa c’entra questo con il caso Consip? Niente, amici, proprio niente. Per questo l’ho scritto. Per continuare a seguire la logica del Gip Sturzo. Fondata sul sospetto, sul sospetto, sul sospetto. Posso avere un sospetto anch’io?Ho il sospetto che tutto questo ambaradam privo di senso, e che serve solo a intasare la macchina della giustizia e la Procura romana, abbia un unico obiettivo, e vi ho già detto qual è. Il padre di Renzi, e poi Renzi. È politica: tutto qui. La giustizia c’entra zero. Però – devo dire, così, senza nessun riferimento ai fatti – sia De Gasperi che don Sturzo, quando dicevano “politica” intendevano una cosa molto più seria.

Il Fatto Quotidiano assume il ruolo di ufficio stampa del Gip Sturzo: “Ha chiesto solo una volta raccomandazione a Palamara”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Maggio 2020. Il Fatto Quotidiano ieri polemizzava con noi per questa storia delle intercettazioni che hanno annientato l’immagine della magistratura italiana. E un po’ (un bel po’) anche quella del giornalismo. Ci rimproverava tre cose. Primo, di avere un editore e di dichiararlo sempre. Secondo, di esserci sempre rifiutati di pubblicare tonnellate di intercettazioni delle quali i nove decimi prive di qualunque valore penale, e di limitarci a riprendere le polemiche, e a giudicarle, dopo che sono esplose. Terzo, di avere accusato il Gip Gaspare Sturzo di aver chiesto una raccomandazione al Pm Palamara per essere promosso a sostituto procuratore in Cassazione; mentre, invece – spiega il Fatto, assumendo il ruolo di ufficio stampa di Sturzo – nei colloqui tra Palamara e Sturzo si parlava in genere di cose amene e solo una volta – una volta sola – Sturzo ha chiesto una raccomandazione per essere promosso in Cassazione. Bene. Andiamo con ordine. Sì, siamo editi da Alfredo Romeo, e sempre lo dichiariamo quando parliamo di lui. Sarebbe bello se anche il Fatto, quando parla di Davigo&Di Matteo ci avvertisse che quelli sono gli editori. No? Vabbé, ognuno ha il suo stile. Secondo. È vero anche che noi siamo contrari alla pubblicazione delle intercettazioni, specie quelle coperte da segreto, che in genere il Fatto pubblica, sebbene la cosa sia del tutto illegale, perché le riceve da Pm, altrettanto illegali e molto manovrieri, i quali le regalano ai giornalisti per segare le gambe a qualche politico o qualche magistrato nemico. In genere innocente. Il mestiere di segare le gambe per conto terzi – in genere agli innocenti – non ci è mai piaciuto. Spesso le intercettazioni le riceviamo anche noi. Però non facciamo ricettazione, non è nei nostri costumi. E quindi non le pubblichiamo. Neanche se nelle intercettazioni si parla di Travaglio. Terzo. È vero anche questo: nelle intercettazioni pubblicate dall’Espresso risulta una sola richiesta di raccomandazione da parte di Sturzo a Palamara. Noi purtoppo non sapevamo che è previsto dai codici che si possa chiedere almeno una volta una raccomandazione al Pm di fiducia, per questo ci siamo un pochino indignati. E non sapevamo neanche che è permesso sbandierare come merito l’arresto immotivato (così ha decretato la Cassazione) di una persona (Romeo, cioè il nostro editore), evidentemente eseguito per fare un piacere a qualcuno. Dopodiché, naturalmente, ciascuno è autorizzato a fare giornalismo come crede. Nessuno obbliga il Fatto, che ha pubblicato sempre tonnellate di intercettazioni, a pubblicarne tonnellate anche stavolta. È chiaro che è un diritto costituzionale del giornalista di non pubblicare notizie o intercettazioni sgradite. Se stavolta le intercettazioni travolgono la magistratura (cioè la ditta: non solo per il Fatto, per il quale più che la ditta la magistratura è il divino, ma per quasi tutti i giornalisti di giudiziaria) è ovvio che molti, o quasi tutti, decidano di non pubblicarle o di pubblicarne poche poche. Tantomeno è obbligatorio pubblicarle se riguardano addirittura gli stessi giornalisti. Che bisogno c’è di tirarsi addosso merda da soli? C’è Raul Bova, c’è Venditti, c’è il principe Giannini…

P.S.1 Non so se è irrispettoso rivolgersi addirittura a Giovanni Bianconi, il re dei giornalisti giudiziari. Palamara in una intercettazione lo accusa di essere legato ai servizi segreti. Non è proibito, ma è bene saperlo. È vero? È una calunnia? Sarà il caso di chiedere una smentita a Palamara? Comunque la notizia ha un suo interesse: pensate se avessero detto che Giorgia Meloni o Teresa Bellanova sono agenti dei servizi, che finimondo! Perché allora Bianconi non smentisce, non spiega? E perché addirittura né lui, né il suo giornale, ne quasi nessun altro tra i grandi giornali ha pubblicato questa notizia? Può darsi che sia un modo più moderno di intendere il giornalismo, questo della reticenza, ma non mi convince tanto.

P.S.2 Mi costa ammetterlo, ma qui l’unico che è sempre coerente è Belpietro. Io non sopporto il suo sovranismo, il suo leghismo, il suo populismo, il suo giustizialismo, e il suo intercettazionismo. Però bisogna ammettere che non guarda in faccia a nessuno. Pubblica, pubblica tutto. Proprio al contrario di noi che non pubblichiamo mai niente.

Le toghe travolte dallo scandalo Magistratopoli propongono un’autoriforma perché temono interferenze. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Maggio 2020. Gian Carlo Caselli dice che è “urgente” l’autoriforma della magistratura. Perché? Cito testualmente: «Per evitare o per giocare d’anticipo rispetto a proposte che potrebbero essere non di riforma, ma di vendetta nei confronti della magistratura, da parte di chi non ha troppo gradito la sua attività indipendente». E come si fa a giocare di anticipo ed evitare che gli “esterni” mettano becco in vicende (cioè il proprio potere) che devono restare di pura competenza della stessa magistratura? Cito ancora testualmente: «Offrendo la massima collaborazione agli organi competenti, a partire dal ministro». A me pare che in questa dichiarazione, forse appena un po’ ingenua, di uno degli esponenti della magistratura (oggi in pensione) che ne ha rappresentato al meglio la storia degli ultimi 25 anni (e cioè l’ex Procuratore di Palermo e di Torino ed ex esponente del Csm) ci sia la chiave di volta per capire bene, senza pregiudizi, cosa sia esattamente questa crisi devastante scoppiata con il caso Palamara.  Caselli in pochissime parole esprime quattro concetti, limpidamente. I primi due sono concetti – diciamo così – tattici. Il terzo è strategico. Il quarto è “di corporazione”. Vediamoli. Primo: giochiamo di anticipo se vogliamo evitare una riforma. L’idea è chiarissima, se la riforma ce la facciamo da soli sarà una riforma che ci è congeniale. Vantaggiosa. Se invece lasciamo che sia il Parlamento a mettere le mani sulla Giustizia, rischiamo di restare fuori, e di dover subire una riforma radicale. Secondo concetto (ancora tattico): per ottenere questo risultato dobbiamo allearci ora (“urgentemente”, dice Caselli) con il ministro. Non c’è bisogno di spiegare il perché. Il ministro Bonafede è espressione politica della magistratura e si trova in una condizione di forte condizionamento da parte del partito dei Pm. E in più gode dell’appoggio dei 5 stelle che, anche loro, sono sostanzialmente l’espressione parlamentare dei Pm. Bisogna sfruttare questo momento, perché se cambia la maggioranza, e cambia il ministro, si rischia. Terzo concetto, strategico. Cosa bisogna salvare? Caselli lo dice: l’indipendenza. Ma quale indipendenza, esattamente? Quella che è emersa dalle tonnellate di intercettazioni realizzare e distribuite dalla Procura di Perugia: l’indipendenza della magistratura da qualunque controllo e da qualunque criterio di selezione al suo interno; e anche dal diritto. Per indipendenza si intende non “indipendenza” nel giudizio (questa è del tutto smentita dalle intercettazioni) ma indipendenza del proprio potere. E questo è il quarto concetto: evitare la riforma nel senso di evitare una riforma che riduca il potere incontrollato dei Pm e delle correnti. Del resto è evidente, scorrendo le varie proposte che vengono soprattutto dal duo Travaglio-Bonafede (scherzosamente, ma non tanto, nei giorni scorsi abbiamo ipotizzato che Travaglio sia il ministro e Bonafede il sottosegretario), che nessuna idea di riforma immaginata dal partito dei Pm (e dunque anche dall’attuale maggioranza di governo) intacca minimamente il potere dei Pm né quello delle correnti. Il partito dei Pm che oggi appare scompaginato dallo scandalo – sebbene sia in buona parte protetto dalla grande stampa – vuole che non siano nemmeno prese in considerazione le proposte di riforma reale della magistratura. Per esempio la separazione della carriere, per esempio la responsabilità civile, per esempio la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, per esempio la riduzione della possibilità di arresti preventivi, per esempio una ragionevole riforma/riduzione delle intercettazioni che ormai stanno infestando l’Italia e facendola assomigliare sempre di più alla Germania comunista degli anni Settanta o alla stessa Italia di Mussolini. Caselli in pochissime righe ha sintetizzato la strategia del partito dei Pm. Che è uscito, sì, indebolito dallo scandalo ma, paradossalmente, spostato su posizioni più giustizialiste di prima. Il ritorno di un esponente davighiano al vertice dell’Anm, i nuovi patti tra correnti per evitare il ribaltone, l’alleanza di ferro, omertosa, con i grandi giornali che a questo punto sono diventati una specie di succursale del “Fatto”, cioè dell’organo ufficiale del partito dei Pm, tutto questo è un avviso di burrasca, cioè di peggioramento, non di miglioramento, del clima da stato autoritario in mano ai Pm. Il consigliere di Area, Cascini, che è stato appena sfiorato dalle intercettazioni, anche lui ieri ha parlato, per scongiurare la fine dell’Anm e per spiegare, con toni molto diversi da quelli di Caselli, come sia necessaria una riforma profondissima di tutto il sistema. Ha ragione Cascini. Non so però se si rende conto di un fatto ovvio, elementare: la degenerazione del sistema è dovuto – come sempre accade – a due fatti molto semplici: l’aumento sconsiderato dei poteri delle Procure e la chiusura in casta della magistratura. Quando si usa la parola autoriforma, si intende esattamente questo: siamo casta, siamo “bramini”, guai se qualcuno immagina di poterci avvicinare. I non magistrati, “ i Dalit”, o i “Paria” restino lontani. E invece, caro Cascini è esattamente il contrario: o i Dalit si ribellano e dicono basta alla casta, e voi accettate di perdere una parte considerevole del vostro potere incontrollato, che è un potere sulle vite umane, o la magistratura sarà sempre più un luogo di corruzione e di sopraffazione, e l’Italia sempre meno un paese democratico. Autoriforma è una parola insensata. Per farlo capire bene a voi: è come se un imputato chiedesse l’autoprocesso…

Anm nella bufera, ne approfittano i soldati di Davigo. Paolo Comi su Il Riformista il 26 Maggio 2020. Era difficile immaginare una fine più ingloriosa per l’attuale giunta dell’Anm. Dopo la pubblicazione dell’ennesima chat di Luca Palamara con importanti esponenti del “parlamentino” delle toghe, il presidente Luca Poniz, pm di Milano ed esponente della corrente di sinistra Area, ed il segretario Giuliano Caputo, pm a Napoli e membro di Unicost, hanno deciso che fosse giunto il momento di calare il sipario. Le dimissioni sono arrivate questo fine settimana al termine di un’assemblea durata circa dieci ore dove ognuno ha rinfacciato all’altro di aver posto in essere “prassi distorte” e “degenerazioni” correntizie. Quella che doveva essere la giunta della riconciliazione fra le correnti della magistratura, con la rotazione annuale della segreteria nazionale, verrà dunque ricordata come la giunta travolta dal “Palamaragate”. Con un finale di coda a sorpresa: se il primo presidente era stato Piercamillo Davigo, il “commissario liquidatore” sarà probabilmente un davighiano di stretta osservanza, il giudice bresciano Cesare Bonamartini. Ma come si è arrivati alle dimissioni? È necessario tornare al maggio del 2019 quando gli ormai ex vertici dell’Anm fecero, come si usa dire, “i conti senza l’oste”. Esploso il caso Palamara, defenestrarono l’allora presidente del sindacato delle toghe Pasquale Grasso, esponente di Magistratura indipendente, la corrente coinvolta con alcuni rappresentanti al Csm negli incontri con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti dove si discuteva di nomine. Cacciato Grasso e Mi dalla giunta, la triade Area, Unicost e davighiani pensò di aver risolto tutti i problemi. Inizialmente la scelta sembrava aver dato loro ragione, anche perché la vicenda Palamara era finita nel dimenticatoio, visto che i grandi giornali che avevano cavalcato lo scandalo smisero di parlarne. Il “ribaltone” al Csm, dove nel frattempo si era creata una maggioranza diversa da quella uscita dalle elezioni del 2018, aveva poi chiuso il cerchio. Questo fino a qualche giorno fa, quando il quotidiano La Verità ha iniziato la pubblicazione delle chat whatsapp di Palamara. Centinaia di contatti che hanno svelato una scenario molto diverso da quello di maggio del 2019, evidenziando gli strettissimi rapporti di Palamara con i vertici di Area e Unicost nella spartizione degli incarichi. Una lottizzazione a testa basta che è costata anche il posto al capo di gabinetto del Ministero della giustizia Fulvio Baldi. Colloqui “squallidi e mortificanti”, come fatto trapelare ieri dal Quirinale con un articolo sul Corriere della Sera. La giunta era scaduta lo scorso marzo, poi a causa del Covid-19 la proroga a giugno. Le elezioni, salvo sorprese, sono previste ad ottobre. La fine della giunta arriva nella settimana nella quale è prevista la ripartenza del tavolo a via Arenula per la riforma della giustizia e del Csm. Un tavolo dove i magistrati si presenteranno senza un interlocutore legittimato e autorevole.  Le toghe di Mi, che hanno chiesto l’anticipo delle elezioni a luglio, si sono nel frattempo tolte qualche sassolino dalle scarpe. «Il bilancio è disastroso: è passato un anno dai fatti della primavera 2019 e la giunta Poniz, impegnata in un’incessante elaborazione senza costrutto, non ha avanzato una sola proposta concreta per combattere quelle degenerazioni del correntismo, o del carrierismo, per cui (in teoria) era nata», si legge in una nota della segreteria nazionale delle toghe di destra. La memoria torna allora all’ultimo congresso dell’Anm di Genova dove Poniz cambiò idea sulla riforma della prescrizione voluta da Bonafede: prima avversata, poi accolta con entusiasmo. I maligni fecero notare che dietro il cambio di rotta dell’Anm sulla prescrizione ci fosse stata la promessa di Bonafede di mandare in soffitta la riforma del Csm con la previsione del sorteggio dei suoi componenti. Un cavallo di battaglia dei grillini. Sorteggio che adesso, a distanza di sei mesi, sarà riproposto da Bonafede.

Il clan Davigo punta al ribaltone, dopo il Csm caccia all’Anm. Giorgio Spangher su Il Riformista il 29 Maggio 2020. La pubblicazione delle intercettazioni telefoniche e delle comunicazioni tra magistrati ha riaperto il dibattito su vari aspetti patologici della giustizia in questo Paese. Il dato si inserisce in un momento di grave crisi delle stesse istituzioni e dei soggetti che agiscono in materia. Ad memoriam: questioni legate alla governance del Cnf; perdita di credibilità del Ministero della Giustizia e della struttura dirigenziale del Ministero; criticità gestionali dell’emergenza Covid-19 e questione penitenziaria; opacità degli atti del Consiglio Superiore della Magistratura; precarietà della dirigenza dell’Associazione nazionale magistrati. Difficilmente nella storia della Repubblica si è assistito ad una simile “tempesta perfetta”. Nel conseguente dibattito tra i protagonisti e i comprimari naturalmente rifluiscono molte considerazioni a vasto raggio, sicuramente pertinenti, in quanto connesse alle indicate criticità. Sotto la lente di ingrandimento finiscono naturalmente – come da risalente elemento – il correntismo, accentuato nel caso di specie da una più accentuata gestione dall’esterno delle dinamiche del Csm sulle nomine negli incarichi direttivi e più in generale sulle pratiche sensibili, senza trascurare le procedure disciplinari; l’occupazione da parte dei magistrati delle posizioni rilevanti nei ministeri; il più generale fenomeno del fuori ruolo; il carrierismo dei magistrati dopo l’esaurimento delle attività consiliari; il ruolo esponenziale degli uffici di procura, oggetto di vere e proprie spartizioni, unitamente ai vertici delle funzioni giudiziarie, le lottizzazioni da manuale Cencelli delle varie posizioni interne ed esterne al Consiglio Superiore; il collateralismo con la politica e da ultimo anche con gli organi di informazione e i giornalisti. Tornano naturalmente alla ribalta dalle varie parti interessate le proposte di riforma. Si tratta di un dato ciclico: un autentico replay di quanto detto e sentito in occasione della diffusione delle prime intercettazioni riguardanti la stessa vicenda. Riforma urgente del Csm e dell’ordinamento giudiziario; disciplina del fuori ruolo; collocazione fuori del Consiglio di un organo disciplinare; separazione delle carriere. Si moltiplicheranno i dibattiti, le proposte di legge, le iniziative. Qualche altra “carriera” sarà arrivata a fine corsa. Su alcune si attiverà il silenziatore. Convergenze, divergenze, ricerca di soluzioni equilibrate, rinvii, si moltiplicheranno. Gli ultimi episodi, tuttavia, si prestano anche a una lettura che seppur in una logica di potere, non possono essere ritenute estranee anche alla cultura della giurisdizione. La partita che si sta giocando riguarda gli equilibri di potere dentro la magistratura, già evidenziati nelle elezioni suppletive dei consiglieri del Consiglio Superiore, che hanno modificato gli equilibri e i rapporti di forza usciti dalle originarie elezioni dei consiglieri togati. A menti anche non troppo raffinate non può sfuggire il fatto che la diffusione delle ultime intercettazioni si collochi a cavallo del contrasto tra un procuratore antimafia e il ministro di Giustizia, alla successione del direttore del Dap, alla dimissione del capo di gabinetto del Ministero, alle decisioni del Consiglio sul fuori ruolo e sulla collocazione di un magistrato antimafia. Ne è scaturita la “crisi” dell’Associazione nazionale e la richiesta di una corrente di anticipare la verifica elettorale, fissata per l’autunno. Dimissioni dei vertici, congelamento della situazione. La novità è data dal comportamento delle altre correnti, più o meno tutte coinvolte e la presa di distanza – espressa con estrema durezza – da quella che aveva chiesto la verifica elettorale. È naturale in tutte le logiche ispirate e governate dai rapporti di forza che si cerchi di approfittare delle debolezze altrui e che chi è in difficoltà debba guadagnare tempo, spostando l’attenzione sulla riforma del Consiglio (che difficilmente si vedrà per l’autunno). Non è difficile ipotizzare che l’onda emotiva determinata dallo spaccato che emerge dalle intercettazioni possa determinare orientamenti ispirati e ricalcati da istanze moraleggianti, spostando – come nelle elezioni suppletive – gli equilibri del parlamentino dei magistrati. Una delle giustificazioni “nobili” del correntismo viene ricondotta alla diversità culturale delle varie correnti in relazione al ruolo e alla funzione della giurisdizione nelle dinamiche sociali. In effetti è questo l’obiettivo mediato di quanto sta succedendo e succederà. Di questo bisogna essere da subito consapevoli e di questo – al di là della spartizione – sono consapevoli quelli che hanno congelato la situazione. Tuttavia, lungi dal riguardare solo i magistrati, l’approccio alle modalità con cui esercitare la giurisdizione riguarda gli avvocati – sicuramente – che ne sono consapevoli, ma anche i cittadini, che rischiano di guardare il dito e non la luna.

Luca Palamara, Paolo Mieli e il Csm: "Ma quale riforma, al governo di sinistra non importa. Mandiamoli a casa". Libero Quotidiano il 25 maggio 2020. “C’è un governo di sinistra, e non gliene importa nulla: sanno che da almeno una trentina d’anni le cose stanno così e sanno che resteranno per un’altra trentina”. Secondo Paolo Mieli non cambierà nulla sul fronte giustizia, nonostante la fiducia sia ai minimi storici dopo il cortocircuito che l’ha colpita, non risparmiando anche una parte di politica e giornalismo. Le intercettazioni del caso Palamara, che sono penalmente irrilevanti, hanno però scoperchiato tutto il marcio della magistratura, ma Mieli è molto pessimista e non crede che avverranno grandi cambiamenti. “Chi per l’ennesima volta dice che ci vuole una riforma del Csm - ha dichiarato in un’intervista a Huffington Post - è come chi vuol trovare le coperture di una legge di stabilità annunciando di voler lottare contro gli evasori. È una fase buttata lì, ero bambino e già si parlava di grandi riforme”. Per Mieli c’è quindi un solo modo per fare pulizia totale: “Mandarli tutti a casa. Magari anticipando l’elezione Csm, perché no, anche attraverso il sorteggio. Qualsiasi cosa è meglio di questo verminaio”. 

Alessandro Sallusti contro Claudia Fusani a Quarta Repubblica: "Palamara, rivincita di 20 anni di sofferenze". La gela in diretta. Libero Quotidiano il 26 maggio 2020. Per Alessandro Sallusti è arrivato il momento di godere. Ospite insieme al direttore del Giornale a Quarta Repubblica è Claudia Fusani, una delle firme più note di vari quotidiani e siti dell'universo della sinistra italiana. Il caso delle intercettazioni di Luca Palamara, che lasciano ipotizzare una magistratura evidentemente orientata politicamente (in questo caso, contro Matteo Salvini), la mette in palese imbarazzo. "Il magistrato è anche un uomo che può avere un pensiero!", spiega la giornalista, ricordando ai telespettatori come "la magistratura ha una storia per cui i magistrati hanno ritenuto negli anni un diritto ad avere un proprio pensiero che non va confuso con il loro lavoro". Tutto molto bello, ma in quelle intercettazioni si parlava di un'inchiesta, non di opinioni politiche. Senza dimenticare, come ha spiegato Sallusti, che quella frase contro Salvini "è stata detta da uno che un uomo molto potente all'interno della magistratura".  E di fronte alla goffa difesa d'ufficio della Fusani, che  cerca di smontare il peso di quelle parole, Sallusti ha gioco facilissimo nel ricordare alla collega le contraddizioni evidenti della sua parte politica: "Sentire la Fusani dire queste cose è una rivincita di 20 anni di sofferenza, perché avete sempre detto che le intercettazioni facevano fede! Chi di trojan ferisce di trojan perisce, o sono tutte prove di reato o sono tutte prove di pensiero". Gioco, partita, incontro. 

Luca Palamara, Francesco Cossiga nel 2008: "Faccia da tonno, l'Anm è un'associazione mafiosa". Libero Quotidiano il 25 maggio 2020. Le intercettazioni di Luca Palamara hanno generato un cortocircuito senza precedenti nella giustizia. In particolare è ai minimi storici la fiducia nei magistrati, ma sul pm dal quale tutto è partito c’è chi ci aveva visto lungo. Siamo nel 2008 e l’allora ministro Clemente Mastella si è appena dimesso per un’inchiesta giudiziaria a suo carico: Palamara è ospite di Maria Latella a Sky Tg24, dove pontifica sul ruolo della magistratura e sulle dimissioni del guardasigilli, almeno fino a quando non irrompe Francesco Cossiga. L’ex capo dello Stato telefona in diretta e asfalta il pm in pochi minuti: “Ha la faccia da tonno. La faccia intelligente non ce l’ha assolutamente. In questi anni ho visto tante facce e le so riconoscere”. Poi l’affondo più duro in chiusura: “L’associazione nazionale magistrati è un’associazione sovversiva e di stampo mafioso”. A distanza di 12 anni, l’Anm è sul punto di crollare. 

Otto e Mezzo, un'impensabile Lilli Gruber: "Ma non è che alla fine Silvio Berlusconi sulla giustizia aveva ragione?" Libero Quotidiano il 25 maggio 2020. "Ma non è che alla fine scopriremo che Silvio Berlusconi aveva ragione?". Sembra strano ma vero Lilli Gruber, durante la puntata di Otto e Mezzo, ha spezzato una lancia a favore del leader di Forza Italia: "Lui la giustizia la voleva riformare". In questi giorni infatti è scoppiato lo scandalo dei togati e sono emerse intercettazioni tra Luca Palamara, ex presidente dell'Anm, e altri magistrati a dir poco da brividi. Oltre ai "consigli" su chi promuovere, è emerso anche il nome di Matteo Salvini su cui Palamara con i suoi si pronunciava così: "Anche se ha ragione dobbiamo dargli torto". Insomma, altro che giustizia.

Toghe intoccabili. Non illudiamoci. Li hanno beccati con le mani nella marmellata e provano a fare retromarcia per salvare almeno la faccia. Alessandro Sallusti, Mercoledì 27/05/2020 su Il Giornale. Li hanno beccati con le mani nella marmellata e provano a fare retromarcia per salvare almeno la faccia. Scoperto, grazie alle intercettazioni, l'inciucio tra politica e magistratura per fare fuori per via giudiziaria Matteo Salvini, la maggioranza si è inventata un modo per negare l'autorizzazione a processare il leader leghista per il caso Open Arms, la nave carica di immigrati alla quale l'allora ministro dell'Interno aveva negato l'attracco. La decisione, presa dalla giunta del Senato, dovrà ora essere confermata dall'Aula nelle prossime settimane, ma tutto lascia intendere che questa volta Salvini non finirà (ingiustamente) alla sbarra. Il piano dei suoi nemici però resta in piedi, dato che il Senato, prima che l'intrigo delle toghe fosse svelato, aveva già autorizzato un analogo processo per il precedente caso della nave Diciotti (che si svolgerà a ottobre). Il fatto che ieri in commissione i senatori della sinistra abbiano comunque votato «sì» al processo (sapendo che non sarebbero stati maggioranza) dice quanto profondo e diffuso sia il cancro della giustizia politicizzata e della politica giustizialista. Neppure davanti alla realtà dei fatti - un importante magistrato che ammette «Salvini non ha commesso reati ma dobbiamo colpirlo» scatta un sussulto di onestà e dignità: non una parola di biasimo per gli amici magistrati che hanno tentato non solo di inguaiare un innocente, ma addirittura di prendere per i fondelli il Senato della Repubblica. E noi dovremmo credere che gente così sia sincera quando sostiene di volere riformare la giustizia? Ma quando mai questi molleranno la loro arma migliore, quella con cui - sia pure dopo vent'anni di tentativi - sono riusciti ad azzoppare Silvio Berlusconi e tornare per vie traverse (non certo elettorali) al governo del Paese? Non illudiamoci, lo scandalo che sta emergendo è da considerarsi solo un incidente di percorso, uno spiacevole imprevisto. Faranno un po' di fumo ad uso allocchi e poi tutto tornerà esattamente come prima. Perché in questo Paese puoi anche chiudere la gente in casa per tre mesi, ma guai a toccare anche solo di striscio chi ti può aiutare a modificare in corsa un risultato elettorale sgradito. Cioè guai a toccare i magistrati.

Palamara non era solo, l’ex presidente Anm rispondeva a un sistema. Alberto Cisterna su Il Riformista il 27 Maggio 2020. Nel 2011 un libro importante di Federico Varese (Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori, Einaudi), spiegava che ciò che sposta e radica le mafie verso altre regioni non è una primordiale volontà di dominio, ma una robusta ed esigente domanda di illegalità che proviene dalla società. Una tesi ovviamente andata di traverso ai seguaci della teoria del contagio, dell’immagine di un centro-nord immacolato, occupato dalla prepotenza mafiosa. Le mafie, secondo lo studioso di Oxford, si limitano a strutturare la domanda di illegalità; guarda caso la sanno, come dire, “organizzare” bene. Niente domanda, niente mafia.  Non è indolore passare dalla prospettiva della domanda di protezione (Gambetta) a quella della domanda di illegalità (Varese) perché comporta anche una realistica presa d’atto del degrado complessivo della società da Lampedusa ad Aosta, anzi da Malta ad Amsterdam. Consumata la premessa e sicuro del fatto che il direttore avrà dato all’articolo un titolo che mette in correlazione mafia e magistratura, si potrebbe sbrigare la pratica ricordando che un autorevole magistrato, solo pochi mesi or sono, aveva esplicitamente denunciato che tra le toghe si fa «carriera solo con le correnti, ma sono criteri vicini al metodo mafioso». Un punto di vista già sperimentato, quindi, che ha suscitato una valanga di polemiche e che sarebbe superfluo riproporre, se non fosse. Se non fosse che il profluvio di chat e di telefonate che scorre dal telefono di Luca Palamara e che è finito (ancora in parte) sui giornali, richiama alla mente lo schema di Federico Varese. È inevitabile chiedersi quanto la domanda di illegalità che, per anni e quotidianamente, si indirizzava supplice, ammiccante, adulante verso il cellulare del magistrato abbia avuto un ruolo determinante nelle condotte che così tanto scandalo suscitano in irriducibili benpensanti e finti moralisti. La questione, invero, si declina in due diverse direzioni.

Primo: non bisogna saper far di conto per immaginare che se Luca Palamara riusciva a portare a casa così tanti successi – sia quando era componente del Csm che dopo – una rete di consenso dentro e fuori quell’istituzione lo ha costantemente ascoltato e appoggiato. Sarebbe interessante andare a riprendere i singoli incarichi, le singole delibere cui si riferiscono le chat e controllare con quanti voti siano state approvate, con quali maggioranze e quali opposizioni, quali i pacchetti di nomine in cui si inserivano. Quei pacchetti, ferocemente stigmatizzati finanche dal Quirinale, che costituiscono il metodo per tradurre in risultati le aspettative delle toghe più ambiziose. Immaginare che, da solo, il reprobo potesse mettere in soggezione la complessa compagine di toghe e politici che compone il Csm è difficile a credersi. Certo lo crederanno gli immancabili farisei, ma voler imporre un simile punto di vista a tutti è operazione da regime militare o da sciocchi. La questione non è di poco conto per il futuro della magistratura italiana. Lo avevamo già detto: se il processo a Perugia dovesse arrivare in dibattimento c’è da attendersi un bagno di sangue con tante toghe nello scomodo ruolo toccato al povero Forlani, torchiato a Milano e immortalato con la bava che solcava la bocca resa secca dall’imbarazzo. È una prospettiva credibile se l’imputato vorrà puntare l’indice sul sistema e ritagliarsi il ruolo di uno dei tanti collettori della domanda di illegalità che si è impadronita di settori non marginali della magistratura italiana. Una gigantesca chiamata in correità con tutti i beneficiari e aspiranti beneficiari che dovrebbero giustificare perché mai sottoponessero proprio a Palamara aspirazioni, angosce, feroci pettegolezzi e veleni contro rivali, veri o presunti. Ancora peggio tutti chiamati a spiegare quale fosse la percezione del sistema delle nomine e quali i collettori avversari che sostenevano i loro competitor. Messo in questi termini è difficile sostenere che esista un affaire Palamara. Molto più corretto sarebbe immaginare che quanto scoperto sia il sintomo di una malattia che affligge una parte della corporazione e che, con coraggio, il presidente, allora appena nominato, dell’Anm aveva riassunto in termini chiari: «esiste un problema di carrierismo; è una delle ragioni delle degenerazioni e non è coerente con le nostre funzioni». Opinione recentemente ripresa in un’intervista «fin quando ai magistrati sembra interessare più la carriera che il lavoro, il problema c’è».

Secondo: questa analisi è dirompente, è un j’accuse spietato che getta un fascio di luce su un profilo sinora tenuto in ombra. Agita il più inquietante dei dubbi. Quanto ha influito il mercato delle carriere sul lavoro giudiziario, sulle indagini, sulle fughe di notizie, sugli agguati agli avversari, sulle inchieste ai politici invisi o semplicemente nella soluzione di una controversia condominiale rimessa a un giudice perennemente alla ricerca di un contatto, di un appoggio, di una rassicurazione. Per fortuna la stragrande maggioranza della magistratura italiana non ha nulla a che vedere con questi dubbi e con queste angosce. È quella maggioranza che, talvolta, inciampa nella domanda di protezione dall’aggressione di agguerriti rivali, ma che non è incline ad alcuna domanda di illegalità. Tuttavia il problema è ineludibile e il corpo giudiziario deve essere immediatamente bonificato dai troppi malanni che l’affliggono. Prima di metter mano a riforme parziali e insufficienti sarebbe giusto mettere in campo una seria e autorevole commissione d’inchiesta parlamentare che – al di là del codice penale e di quello disciplinare – chiarisca cosa è effettivamente successo e quali siano i rimedi da adottare su larga scala. In tanti, tantissimi magistrati ne sarebbero grati, figuriamoci il Paese.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 27 maggio 2020. Non si era mai visto prima: da ieri in Cassazione una task force di magistrati scende in campo per punire i colleghi finiti nel gorgo del caso Palamara. Mentre anche al Csm, su richiesta dei consiglieri laici della Lega, viene aperta una pratica sulle intercettazioni uscite dalle chat dei magistrati. Di fronte alla dimensione sterminata del materiale accumulato, e al numero di toghe che dovranno finire sotto tiro, il procuratore generale della Cassazione ha disposto che a occuparsi del caso non sia un solo sostituto, ma una intera squadra, per analizzare una per una le intercettazioni e i messaggi scoperti dalla Guardia di finanza grazie al telefonino di Luca Palamara, ex presidente dell' Anm e ex membro del Csm. A prendere la decisione è stato Giovanni Salvi, che alla carica di procuratore generale è arrivato grazie allo scandalo: il suo predecessore, Riccardo Fuzio, si è dovuto dimettere proprio in seguito alle sue intercettazioni con Palamara. Prima di dover lasciare, Fuzio aveva già avviato l' azione disciplinare contro lo stesso Palamara e contro gli ex membri del Csm che si sono dovuti dimettere per i rapporti col collega (Cartoni, Criscuoli, Lepre, Morlini e Spina). Nei confronti del solo Palamara, in attesa dell' esito del procedimento disciplinare, è già scattata la sospensione dal lavoro e dallo stipendio. C' è poi il caso di Cosimo Ferri, deputato di Italia Viva ma anche magistrato in aspettativa, anche lui intercettato spesso insieme a Palamara e sotto procedimento disciplinare: aveva chiesto che la Corte Costituzionale dichiarasse inutilizzabili le sue conversazioni per violazione dell' immunità parlamentare, ma ieri la Consulta ha dichiarato inammissibile il suo ricorso. Adesso, però, tocca a tutti gli altri: i magistrati di tutta Italia i cui contatti irrituali con Palamara non sono stati ascoltati in diretta durante le indagini del giugno 2019, ma ricostruiti a ritroso grazie alle chat conservate nel cellulare dell' indagato. É una mole di materiale che il pg della Cassazione ieri quantifica in «decine di migliaia di sms e chat», pur specificando che si tratta di messaggi «in larga parte di contenuto estraneo all'oggetto delle procedure». Vero, la Procura di Perugia ha depositato e mandato in Cassazione praticamente tutto quanto trovato nel telefono, compreso materiale privato privo di qualunque valenza sia penale che disciplinare. Però, in questo mare di conversazioni, ci sono quelle che un significato ce l' hanno, grave ed esplicito, e riguarda le manovre sottobanco e i mercanteggiamenti per promozioni e trasferimenti negli uffici giudiziari più importanti d' Italia: trattative cui partecipano esponenti di tutte le correnti, nessuna esclusa, della magistratura italiana. Ora Salvi e i suoi sostituti dovranno valutarle una per una, e decidere quali siano - linguaggio a parte - peccati veniali, e quali non siano in alcun modo perdonabili. Non sarà facile, ma Salvi promette: faremo in fretta.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 27 maggio 2020. Il «caso Palamara» approderà in Parlamento. Ce lo porterà l'onorevole renziano Cosimo Ferri, che s' era rivolto alla Corte costituzionale ritenendo violate le sue prerogative di deputato quando ha scoperto di essere stato intercettato negli incontri e nei dialoghi via chat con il magistrato indagato per corruzione. Ferri è un giudice in aspettativa, e la Procura generale della Cassazione ha avviato anche nei suoi confronti l' azione disciplinare a causa delle trame imbastite un anno fa per pilotare dall'esterno del Consiglio superiore della magistratura la nomina del procuratore della Capitale, e altri presunti illeciti. Lui ha sollevato davanti alla Consulta un conflitto di attribuzione tra poteri, sostenendo che le intercettazioni seppure indirette nei suoi confronti sono illegali e quindi inutilizzabili, ma i giudici costituzionali l' hanno dichiarato inammissibile: non spetta al singolo deputato rivolgersi alla Corte, bensì al presidente della Camera su mandato dell' assemblea. Dunque Ferri porrà la questione prima alla Giunta per le autorizzazioni e poi all' aula di Montecitorio, per bloccare l' utilizzo di quelle intercettazioni nel suo procedimento disciplinare. I dialoghi registrati dalla microspia inserita nel telefono di Palamara, assieme alle chat conservate nell' apparecchio sequestrato dai pubblici ministeri di Perugia, sono l' architrave del procedimento per corruzione a carico dell' ex componente del Csm e delle azioni disciplinari connesse (sulle quali il procuratore generale Giovanni Salvi si appresta a prendere le prime decisioni, dopo aver messo al lavoro una squadra di sostituti per esaminare tutti gli atti arrivati da Perugia da pochi giorni). Poi ci sono le relazioni e i contatti extra-giudiziari dell' ex pm, che spaziano da politici a personaggi dello sport, da esponenti degli apparati statali a personaggi dello spettacolo. Ma le conversazioni con i colleghi sono un' antologia di manovre e pratiche spartitorie, soprattutto al capitolo nomine ai vertici degli uffici giudiziari, che va persino oltre le logiche correntizie. Come dimostra proprio il tentativo del duo Ferri-Palamara di scegliere il procuratore di Roma. Il deputato era talmente interessato alla questione che il 29 aprile 2019 scrive a Palamara (uscito dal Csm da oltre sei mesi) di aver chiamato una segreteria per sincerarsi quali documenti mancassero su uno dei candidati in lizza, per far andare avanti la pratica. E spiega: «Deve farlo il consiglio direttivo della Cassazione, da noi non passa proprio», e non si capisce a che cosa si riferisca quel «noi», visto che Ferri è un deputato. Per due volte Palamara entra in agitazione per emendamenti che propongono di spostare l' età del pensionamento dei magistrati a 72 anni, che avrebbero fatto slittare gli avvicendamenti che gli interessavano: «Se fosse vero saltano Procure Roma e Perugia ... ne sai qualcosa??», scrive allarmato a Ferri. E ancora: «Ma è concreta? Speriamo di no. Sarebbe una sciagura». Dei movimenti del deputato sulle nomine c' è traccia pure in un messaggio del procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo a Palamara, nel maggio 2018, quando ancora era al Csm: «Oggi ho incontrato Cosimo Ferri che mi ha espressamente chiesto chi preferisco per il terzo aggiunto fra i due di Magistratura indipendente», vale a dire la corrente di cui Ferri è stato ed è rimasto leader. Creazzo dà una valutazione su attitudini e provenienza di uffici e conclude: «Questo è il mio pensiero, per quel che vale, nell' ovvio rispetto di ogni decisione che verrete a prendere». Di altro tenore, invece, sembrano le indicazioni che il magistrato emiliano Gianluigi Morlini inviava al consigliere Palamara (della sua stessa corrente, Unità per la costituzione) sugli incarichi da distribuire nella sua regione: il 25 novembre 2017 gli manda un elenco di sette posti (dal presidente del tribunale di Piacenza ai procuratori di Forlì e Ferrara, passando per altri incarichi), affiancati ai nomi da piazzare e il grado di rilevanza di ogni specifica nomina: «assolutamente», «molto importante», «dobbiamo parlarne, è importante che sia nostra», lasciandogli libera scelta su alcuni: «Fai tu». Il 17 dicembre è Palamara che chiede a Morlini: «Presidente sezione lavoro Bologna, che dici?». Risposta: «Caro Luca, come ti dicevo te lo lascerei come "scambio": S. è Magistratura democratica storico, la V. è un' altra talebana di Md, il terzo non lo conosco». A luglio 2018 c' è passaggio del testimone: Morlini viene eletto al Csm nelle liste di Unicost e Palamara, che ne è appena uscito, lo coinvolge negli incontri con Ferri (e Lotti, in almeno un' occasione) per l' eterodirezione della nomina del procuratore di Roma. Morlini s' è dimesso dal Consiglio lo scorso anno ed è uno degli ex consiglieri finiti sotto indagine disciplinare. Quando sedeva al Csm, erano decine i colleghi, non solo del suo gruppo, che esigevano nomine contando sull' appoggio di Palamara, che tentava di accontentare tutti. Alla fine del 2017 l' attuale procuratore di Terni Alberto Liguori, magistrato calabrese, insiste perché venga ribaltato un voto espresso in commissione per la presidenza di una sezione del tribunale di Cosenza: «Parti subito con qualcuno di Area, poi con i laici di sinistra e i membri di diritto... Fatti valere». Palamara risponde: «Fino in fondo... E sarà l' antipasto». «Così mi piaci, salutami Renzi». Ancora Palamara: «A Ciccio, li sfondo, lo sai».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 27 maggio 2020. Luca Palamara, trattato oggi dalla stampa progressista come un appestato, sino a un anno fa era un ospite fisso dei migliori salotti della sinistra. Era persino pronto a scendere in campo con il Pd, come confermano alcune chat, sia alle elezioni legislative del 2018 che a quelle Europee del 2019. Partiamo da una conversazione del 7 novembre 2018. Il magistrato Cosimo Ferri, che aveva già fatto il gran salto nel partito di Renzi, comunica a Palamara: «Prossima settimana incontro con Luca. E Matteo». Poi sottolinea: «Luca più operativo ieri. Ti ha scritto e risposto». Il 14 novembre c'è un altro significativo messaggio di Ferri: «Ho avuto lungo chiarimento con Luca. Organizza lui caffè. Con M». Dove Matteo sembra diventare M. Ferri continua: «Ho ribadito anche due obiettivi. Aperto su entrambi: sul primo non dà, però, garanzie perché non ne parlo (parli, ndr) con Zingaretti?». Probabilmente Lotti non poteva assicurare un posto sicuro alle europee del 2019. Il riferimento al segretario del Pd non è casuale. Infatti lui e Palamara sono in stretti rapporti. «Grande Nicola, grande vittoria!! Ripartiamo da qui tutti insieme!» scriveva la toga al politico dopo la vittoria alle regionali del marzo 2018. La discussione sulla discesa in campo di Palamara avviene, però, in una fase di grande confusione. A fine ottobre 2018 Lotti era sul punto di essere rinviato a giudizio nell' ambito dell' inchiesta Consip e Renzi si stava apprestando a sfidare alle primarie proprio Zingaretti. La pazza idea di scendere in politica Palamara l'aveva già accarezzata quando era consigliere del Csm. Tanto che l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, il 22 dicembre 2017, gli scrive: «Ho visto l'inizio del tuo intervento (al Csm, ndr). Grazie per la citazione, ma è un peccato seriamente che tu abbia deciso a ragione di non andare ora in politica». In quel momento Palamara e Pignatone vanno d'amore e d'accordo e hanno incontrato insieme l'allora sottosegretario Lotti. A voler credere alle intercettazioni del pm sotto inchiesta i tre avrebbero affrontato anche il tema Consip. Per esempio, nel maggio 2019, Palamara, infuriato per le decisioni della Procura, da intercettato, dice a Lotti: «Mi acquieterò solo quando Pignatone mi chiamerà e mi dirà che cosa è successo con Consip, perché lui si è voluto sedere a tavola con te, ha voluto parlare con Matteo, ha creato l'affidamento e poi mi lascia con il cerino in mano. Io mi brucio e loro si divertono». In un' altra conversazione Palamara, a proposito di Pignatone e Renzi, afferma: «Prima gli parava il culo e poi glielo mette al culo». Dunque le indagini sulla centrale acquisti dello Stato non hanno messo in difficoltà solo Lotti e Renzi, ma anche i loro referenti dentro al Csm. A un certo punto i problemi del Giglio magico lambiscono pure Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm in quota Pd ed ex sottosegretario dei governi Letta e Renzi. Nella primavera del 2018 viene sentito dalla Procura di Firenze come persona informata dei fatti per un suo incontro con l' imprenditore Luigi Dagostino (condannato con i genitori di Renzi in un processo per false fatture) e con il pm pugliese Antonio Savasta, successivamente arrestato per corruzione in atti giudiziari. Dagostino, dopo aver portato Savasta nell' ufficio di Lotti, lo presenta anche a Legnini nel corso di una cena organizzata da un suo dipendente. Ma non è solo quell' appuntamento conviviale a mettere in difficoltà il vicepresidente. In un' altra conversazione del maggio 2019 Palamara riaffronta la questione Consip con Legnini. Ricorda un incontro al bar del 5 luglio 2018 con Giuseppe Cascini, allora procuratore aggiunto di Roma e oggi consigliere del Csm: «Là ho capito che stava a sfuggi' de mano la cosa di Woodcock» commenta Palamara. Il riferimento era al procedimento avviato dalla sezione disciplinare presieduta dallo stesso Legnini contro Henry John Woodcock (titolare del fascicolo Consip sino al Natale del 2016). Da che cosa il pm capì che la vicenda stava andando fuori controllo? Da alcuni strani discorsi: «E quando mi è venuto a di' di te Giova' eh e là ho capito che questi erano proprio la rete». Il riferimento, a quanto risulta alla Verità, è a un' intercettazione tra Legnini e l' ex ministro Paolo Cirino Pomicino, trasmessa da Napoli alla Procura di Roma, una conversazione il cui contenuto avrebbe reso Legnini incompatibile con il procedimento disciplinare. Pomicino ci conferma che un dialogo un po' sopra le righe (almeno da parte sua) ci fu: «Ho parlato con Legnini di Woodcock non meno di 2-3 anni fa. Fu un incontro casuale. Ragionammo sulla situazione disastrata della giustizia. Gli dissi di quando Woodcock mi sentì come persona informata dei fatti e mentre stavo parlando mi fece mettere una microspia in macchina. Purtroppo per loro io vendetti l' auto e gli investigatori continuarono a intercettare un signore che non c' entrava nulla. Questo era il livello delle indagini di Woodcock». Palamara, riferendosi all' intercettazione, dice a Legnini: «Il processo Woodcock non è stato fatto per 'sto motivo». Il candidato mancato del Pd era anche un frequentatore di Maria Elena Boschi. A testimoniarlo la chat di Palamara con Giovanna Boda, all' epoca stretta collaboratrice della ex sottosegretaria a Palazzo Chigi. Nel novembre 2017, Palamara, oltre alla sua possibile discesa in campo, sta organizzando anche una partita evento a San Luca, in provincia di Reggio Calabria.

La Boda informa il pm: «Ho appena parlato con lei. Lei ha solo un dubbio NON sulla partita, ma sulla sua presenza. Se mi chiami quando puoi ti spiego tutto e procediamo. Intanto la partita la possiamo fare comunque e poi lei decide all' ultimo momento se venire o meno».

A febbraio sempre la Boda scrive: «Per vostro incontro lei propone domani alle 13 al Majestic saletta Chopin riservata per voi due. Ok per te? Vuole parlarti». Poi esclama: «Siamo una squadra!». Il giorno dopo Palamara chiede: «Era contenta?». Boda: «Lei sì! Mi ha detto: ci voleva questo incontro! Tu sei contento? È andata bene?». Il 27 marzo, dopo le elezioni del 4, la Boda gli dà appuntamento: «Alle 10.30 domani siamo da lei». Risposta: «Considera che alle 18,30 devo muovermi».

Boda: «Ok allora ci aggiorniamo a domani tanto dobbiamo aspettare di vedere cosa succede». Palamara: «Ma noi superiamo ogni ostacolo». Boda: «Sì!!!! Vediamo e poi ci muoviamo». Palamara: «Non molliamo niente». Qualche ora dopo Palamara la informa: «Ho cazziato Paola (Balducci, consigliera del Csm, ndr) anche se è colpa di Giovanni (Legnini, ndr). È una cazzata di Giovanni». Infine, la Boda, dopo una manifestazione, esulta: «Evviva la nostra rete del Bene!!!».

Luca Palamara intercettato, voleva candidarsi col Pd? "Caffè con Matteo Renzi e incontro con Maria Elena Boschi". Libero Quotidiano il 27 maggio 2020. A far emergere i gusti politici di Luca Palamara non bastavano le intercettazioni con altri togati contro Matteo Salvini ("Bisogna dargli contro anche se ha ragione", ndr). Nelle chat del pm indagato per corruzione, spunta anche un vero e proprio endorsement. Secondo quanto riportato da La Verità, Palamara sarebbe stato pronto a scendere in campo a fianco del Pd. “Prossima settimana incontro con Luca (Lotti). E Matteo (Renzi)”, scriveva Cosimo Ferri, allora deputato dem nel partito dello stesso Renzi, il 7 novembre 2018. E ancora, giusto una settimana dopo: "Ho avuto lungo chiarimento con Luca. Organizza lui caffè. Con M”. Ma le conversazioni non finiscono qui: “Ho ribadito – proseguiva Ferri - anche due obiettivi. Aperto su entrambi: sul primo non dà, però, garanzie perché non ne parlo (parli, ndr) con Zingaretti?”. Possibile, infatti, che Luca Lotti non potesse garantire un posto sicuro alle europee del 2019. Ma tutto ha avuto inizio ben più in là nel tempo, più precisamente nell'ottobre 2018 e, ancor prima, nel 2017 quando Palamara parlando con l'allora procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, diceva: “Ho visto l'inizio del tuo intervento. Grazie per la citazione, ma è un peccato seriamente che tu abbia deciso a ragione di non andare ora in politica”, gli scriveva quest'ultimo. Rapporto però destinato a incrinarsi nel maggio 2019 quando il pm se l'era presa per le decisioni della Procura: “Mi acquieterò solo quando Pignatone mi chiamerà e mi dirà che cosa è successo con Consip, perché lui si è voluto sedere a tavola con te, ha voluto parlare con Matteo, ha creato l'affidamento e poi mi lascia con il cerino in mano. Io mi brucio e loro si divertono”, si sfogava con Lotti. I rapporti tra Palamara e la sinistra sono ben maggiori. Il magistrato aveva incontrato anche Maria Elena Boschi. A darne la conferma una chat con Giovanna Boda, all'epoca dei fatti collaboratrice della stessa Boschi. "Ho appena parlato con lei. Lei ha solo un dubbio NON sulla partita, ma sulla sua presenza. Se mi chiami quando puoi ti spiego tutto e procediamo. Intanto la partita la possiamo fare comunque e poi lei decide all'ultimo momento se venire o meno” replicava Bonda a Palamara nel 2017 in occasione di una partita evento in provincia di Reggio Calabria. Poi il riferimento si fa sempre più esplicito: “Per vostro incontro - precisava la Boda - lei propone domani alle 13 al Majestic saletta Chopin riservata per voi due. Ok per te? Vuole parlarti”. E ancora: “Siamo una squadra!”, con tanto di punto esclamativo. Passano 24 ore e Palamara chiedeva a Boda se la sua interlocutrice fosse rimasta contenta. Risposta di Boda: “Lei sì! Mi ha detto: ci voleva questo incontro! Tu sei contento? È andata bene?”.

Luca Palamara "è solo la punta dell'iceberg": inchiesta parlamentare sulle cene con Pignatone e il Pd "miracolosamente indenne". Libero Quotidiano il 30 maggio 2020. “Luca Palamara è solo la punta dell’iceberg di un sistema in cui una minoranza di magistrati detta legge”. Ne è convinto Maurizio Gasparri, che è pronto a rappresentare in Parlamento l’esigenza di una “commissione di inchiesta sulla magistratura e sulle sue interferenze con la vita politica e sull’assenza di trasparenza nelle scelte e nelle procedute seguite dal Csm”. Per il senatore di Forza Italia è “clamoroso” lo scarso rilievo che le intercettazioni stanno avendo dal punto di vista mediatico, eppure sono tanti i punti oscuri che stanno emergendo. “Leggiamo ad esempio - continua Gasparri - l’attivismo dell’allora procuratore di Roma Pignatone. Sempre presente e attento in queste intercettazioni nel valutare e giudicare designazioni e nomine. Leggiamo in queste ore anche di cene in cui Pignatone si accompagnava con persone che avrebbe fatto meglio a non frequentare perché implicate in giudizi relativi ad inchieste svolte dalla stessa procura. Ma questi che hanno brandito il concetto del conflitto d’interessi lo hanno mai applicato a se stessi?”. Inoltre Gasparri sostiene che l’inchiesta parlamentare deve puntare soprattutto “sulla procura di Roma e sulle persecuzioni che ha subito in passato Silvio Berlusconi. A Roma il Pd risulta miracolosamente indenne da conseguenze gravi. Sia nel passato che nel presente. Del resto quando leggiamo le relazioni tra Palamara e Zingaretti con auguri e felicitazioni telefoniche, capiamo molte cose. Su questo deve indagare il Parlamento - chiosa il vicepresidente del Senato - e chi si opporrà compirà un atto illecito contro il quale mi batterò in tutte le sedi. Non avranno né sconti né tregua”. 

Estratto dell’articolo di Antonio Massari per “il Fatto quotidiano” il 30 maggio 2020. […] Sottoposta all' incrocio di circa tremila chat, migliaia di intercettazioni telefoniche e persino di un trojan, che ha trasformato il suo telefono in una microspia potenzialmente attiva h24, la vita di Luca Palamara è un puzzle dove ogni minuto rappresenta una tessera da incastrare. […] C'è però una cena che nessun trojan ha intercettato. È quella dello stesso 9 maggio 2019 in cui Palamara e con il suo procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che è appena andato in pensione e fu dedicata al suo commiato dalla procura. Ve n'è traccia ovunque, a spulciare le carte dell' inchiesta, ma alla fine, bisogna dedurne, poiché Pignatone non ha particolari guarentigie, il trojan non deve aver funzionato. […] Siamo certi che nulla di penalmente rilevante, tantomeno imbarazzante, sarebbe emerso dalle loro conversazioni in una cena di commiato tra amici. Ma il trojan di Palamara, che ha intercettato magistrati di ogni ordine e grado, quella sera fece cilecca.

Magistratopoli, Pignatone sapeva che Palamara era intercettato? Paolo Comi su Il Riformista il 30 Maggio 2020. Giuseppe Pignatone sapeva che il suo ex pm Luca Palamara era intercettato dalla Procura di Perugia? L’interrogativo sorge leggendo un’istanza della Procura del capoluogo umbro e riascoltando l’intercettazione del 28 maggio 2019, il giorno prima che il quotidiano Repubblica titolasse a tutta pagina sulla “corruzione” al Csm, fra Palamara e il deputato dem Luca Lotti. Andiamo con ordine. È il 26 marzo del 2019 quando la Procura di Perugia chiede all’allora procuratore di Roma l’autorizzazione ad utilizzare le apparecchiature della Rcs (la società milanese leader delle intercettazioni telefoniche) installate presso la sala ascolto di piazzale Clodio. Nella nota, firmata dal procuratore aggiunto del capoluogo umbro Giuseppe Petrazzini, si specifica che l’attività di intercettazione verrà svolta nell’ambito del procedimento penale n. 6652 del 2018. Il procedimento è quello a carico di Palamara, il cui nome non compare nella richiesta. Petrazzini specifica poi che le apparecchiature verranno utilizzate per la registrazione mentre l’ascolto verrà effettuato dalla pg mediante remotizzazione. La pg delegata è il Nucleo di polizia economico-finanziaria (Gico) della guardia di finanza di Roma. Nella stessa data Pignatone accoglie la richiesta e autorizza. All’epoca il Nucleo del finanza è comandato dal colonnello Paolo Compagnone. Fra i suoi collaboratori, il colonnello Gerardo Mastrodomenico. Compagnone il 9 settembre successivo diventerà poi il comandante provinciale della gdf di Roma, sostituendo il generale Cosimo Di Gesù. Al posto di Compagnone, il colonnello Gavino Putzu. Mastrodomenico, invece, sarà trasferito a Messina con l’incarico di comandante provinciale. I nomi di Di Gesù e Mastrodomenico si riaffacciano il 28 maggio del 2019. Luca Palamara è a cena con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. Il trojan inoculato nel telefono dell’ex n. 1 dell’Anm registra la serata. Sono giornate cruciali. In Commissione incarichi direttivi del Csm è stato votato Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, nuovo procuratore di Roma, posto vacante dall’8 maggio per il pensionamento di Pignatone. «C’è il Gico …. il Gico…. i due del Gico…. quelli che dipendono da Di Gesù e da Mastrodomenico … che sono gli uomini del Pigna …», esordisce Palamara. Il pm parla dell’indagine aperta a Perugia (rivelata a settembre del 2018 dal Fatto Quotidiano) nei suoi confronti. Palamara ricorda allora a Lotti un episodio che risale al dicembre del 2017. Il pm romano, in quel periodo consigliere del Csm, si era recato al Comando generale dell’Arma dei carabinieri dove alloggiava Pignatone. Dopo aver parlato di tale “Fabrizio” (verosimilmente Centofanti, imprenditore conosciuto anche da Pignatone, arrestato a febbraio del 2018, e che per la Procura di Perugia avrebbe corrotto Palamara con viaggi e soggiorni) i due si salutano. «Vado a chiama’ l’ascensore… ancora mi ricordo…», prosegue Palamara. «Stavo pigiando il coso dell’ascensore… mi fa… “puoi rientrare un attimo?”… E stavo andando via… “ti devo dì una cosa, ma tu sei stato fuori a Fonteverde (l’hotel Fonteverde di San Casciano dei Bagni in provincia di Siena, per l’accusa uno dei soggiorni pagati da Centofanti, ndr) co… una persona (verosimilmente Adele Attisani, ndr )?”». Palamara: «Faccio “sì, perché?”… ha detto “no, perché… è uscito fuori da alcuni accertamenti che abbiamo fatto”, gli ho detto “e allora…? cioè, adesso andiamo a vedere pure con chi vado a dormì o chi esco?”… ho detto “facciamo attenzione”… “tu non ti preoccupà che quei due tanto sanno che devono fa”». I due, nella ricostruzione di Palamara, sarebbero allora i due ufficiali della finanza Di Gesù e Mastrodomenico. Palamara e Pignatone, come è emerso, si frequentavano anche fuori dall’ufficio. Questo giornale, ieri, ha riportato un’intercettazione del 9 maggio 2019 nella quale Palamara comunica di avere un appuntamento a cena con Pignatone e Michele Prestipino, lo scorso marzo nominato poi nuovo procuratore di Roma. Di quanto accaduto quella sera, però, non vi è traccia negli atti di Perugia.

“Palamara sapeva tutto. Pignatone, Sabelli e Ardituro lo informavano”, le rivelazioni di Fava. Paolo Comi su Il Riformista l'8 Luglio 2020. Che Luca Palamara fosse “attenzionato” era ormai un fatto notorio alla Procura di Roma fin dall’inizio del 2018. Il classico “segreto di Pulcinella”. Lo conferma Stefano Fava, già pm a Roma e ora giudice a Tivoli, nell’interrogatorio davanti ai pm di Perugia Gemma Miliani e Mario Formisano, titolari del fascicolo a carico dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati per il reato di corruzione. «Vengo a sapere del coinvolgimento di Palamara nell’indagine nei mesi di gennaio/febbraio del 2018», esordisce Fava, all’epoca assegnatario dell’indagine che riguardava Fabrizio Centofanti, l’imprenditore ed ex portavoce dell’Esercito italiano in Kossovo, che secondo l’accusa sarebbe stato il corruttore del ras delle nomine al Csm. La fonte di Fava è Paolo Ielo, procuratore aggiunto a Roma e capo del dipartimento reati contro la Pubblica amministrazione di cui Fava faceva parte. L’indagine riguarderebbe alcune utilità (viaggi e soggiorni alberghieri, ndr) che Centofanti avrebbe corrisposto nel tempo a Palamara. Fava riferisce allora a Ielo che si dovrà astenere. Essendo Palamara in quel momento consigliere del Csm, la competenza è radicata presso la Procura di Roma. Ielo all’osservazione di Fava risponde che “siamo tutti nella stessa barca” in quanto Palamara era conosciuto a Roma, soprattutto dal procuratore Giuseppe Pignatone. Ielo però rassicura Fava dicendo che la prima di queste utilità è del 2011 e quindi la competenza sarà della Procura di Perugia: in quell’anno infatti Palamara non era ancora stato eletto al Csm ma era uno dei sostituti a piazzale Clodio. A maggio Ielo comunica a Fava che All’informativa è stata trasmessa a Perugia. «L’informativa che è stata depositata dalla guardia di finanza sui rapporti fra Palamara e Centofanti l’abbiamo mandata a Perugia», afferma Ielo. La nota è stata firmata dai tre aggiunti della Capitale. Oltre a Ielo, anche da Giuseppe Cascini e Rodolfo Sabelli. Cascini qualche settimana più tardi sarà eletto consigliere del Csm in uno dei quattro posti che spettano ai pm a Palazzo dei Marescialli. Qui capita la prima “anomalia”. L’informativa a differenza di casi analoghi non viene scansionata e quindi Fava non può leggerla. Non risulta agli atti del procedimento aperto nei confronti di Centofanti e non è inserita al Tiap (Trattamento informatico atti processuali, un applicativo sviluppato dal Ministero della giustizia con la scannerizzazione degli atti che i pm possono consultare, ndr). Le modalità di comunicazione degli atti tra i magistrati contitolari del procedimento era il deposito che la pg, in questo caso la guardia di finanza, effettuava nella segreteria di Ielo, precisa Fava. La segreteria di Ielo poi inseriva il tutto al Tiap. Questa volta non avviene. Fava tiene a precisare che comunque la cosa non gli interessava e di non aver chiesto a nessuno cosa effettivamente contenesse il fascicolo. A settembre del 2018 il Fatto Quotidiano dà la notizia dell’indagine a carico di Palamara, raccontando dell’esistenza di un procedimento a Perugia. Fava conosce Palamara dalla metà degli anni 90. Nati in paesi molto vicini della provincia di Reggio Calabria, si conobbero quando erano giovani magistrati ed entrambi prestavano servizio in Calabria. Palamara afferma di aver elementi per confutare quanto emerso nell’articolo. E, prosegue Fava, entra nel merito di quanto contenuto nel fascicolo, e cioè le utilità ricevute che sarebbero consistite, appunto, nei soggiorni alberghieri e nei viaggi. Il discorso sul punto con Fava risulta molto difficile in quanto quest’ultimo, come detto, ignora il contenuto del fascicolo a differenza di Palamara. Da pm esperto Fava, trattandosi di utilità, dice però a Palamara che gli investigatori verosimilmente avranno fatto degli accertamenti acquisendo le schede alberghiere e l’analisi dei movimenti delle carte di credito dell’ipotetico corruttore. Fava non entra nei dettagli non sapendo se si tratta di una indagine sui bonifici o sulle carte di credito. Ma come fa invece Palamara a sapere tutte queste cose? Fava dice che erano i colleghi ad informare Palamara di cosa stava accadendo. Interrogato dal pm, Fava mette a verbale parole esplosive. «A me (cioè Palamara, ndr.) ha fatto i nomi di Ardituro, ha fatto il nome di Sabelli, ha fatto il nome di Pignatone come persone che con lui avevano avuto interlocuzioni su quest’indagine». Parliamo cioè dell’allora procuratore di Roma, dell’aggiunto Rodolfo Sabelli e di Antonello Ardituro, collega di Palamara al Csm dal 2014 al 2018 e ora pm a Napoli. Non deve essere stato facile per Palamara: tutti tranne lui sapevano esattamente cosa stava accadendo. A dire il vero nelle indagini penali, come per il marito tradito dalla moglie, il diretto interessato è sempre l’ultimo a saperlo. Certamente è sorprendente, se fosse vero, che un procuratore comunichi a un proprio sostituto, al momento all’oscuro di tutto, che a suo carico si stanno facendo accertamenti. Ed ancora più sorprendente che questa informazione sia arrivata anche in altri uffici giudiziari, come il caso di Ardituro a Napoli. Da quanto risulta, Pignatone, Sabelli e Ardituro non sono mai stati sentiti dai pm di Perugia su questa circostanza.

Le rivelazioni di Fava: “Palamara era l’uomo di Pignatone al Csm”. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Luglio 2020. Proprio mentre Cosimo Ferri si è dimesso dall’Anm che avrebbe dovuto giudicarlo nell’ambito dell’affaire intercettazioni, Luca Palamara fa ricorso contro l’espulsione dal parlamentino dei magistrati. E arrivano nuove importanti indiscrezioni. Palamara e Pignatone «per circa dieci anni sono stati in ottimi rapporti», riferisce l’ex pm della Procura di Roma, Stefano Rocco Fava, durante l’interrogatorio davanti ai colleghi di Perugia che indagano sull’ex presidente dell’Anm. La rottura del loro rapporto per Fava sarebbe avvenuta verso la fine del 2018, allorquando Palamara aveva cessato l’incarico di consigliere del Csm ed era tornato a piazzale Clodio come sostituto. Incarico che, nelle intenzioni del magistrato romano, sarebbe stato provvisorio dato che l’obiettivo era quello di diventare procuratore aggiunto. Fava precisa però che Palamara non gli ha mai indicato i motivi di questa rottura. Una rottura apparentemente inspiegabile alla luce di quello che Palamara era solito riferire a Fava. «In ambito Csm Palamara si rendeva promotore delle richieste di Pignatone per tutte le nomine», afferma Fava, riportando le confidenze del collega. «So che per circa dieci anni sono stati in ottimi rapporti, già quando lui era a Reggio Calabria», puntualizza ai pm di Perugia. Palamara, va ricordato, era il presidente della Quinta commissione del Csm. La Commissione più importante di Piazza dei Marescialli, quella che si occupa degli incarichi direttivi. Nella scorsa consiliatura, complici alcune riforme legislative che hanno abbassato l’età pensionabile dei magistrati, il Csm ha proceduto a oltre mille nomine, un record assoluto da quando esiste l’organo di autogoverno della magistratura. Dalla lettura delle chat di Palamara è emerso che molte di queste nomine sono state in qualche modo “pilotate”. Fava ricorda anche che fu Palamara «a chiedermi di presentare la domanda per aggiunto», dal momento che «lui si poteva interessare». La proposta venne però respinta da Fava. E veniamo alle parti più rilevanti. «Palamara non mi ha mai chiesto nulla e non mi ha sollecitato a presentare una denuncia nei confronti di Ielo (Paolo, procuratore aggiunto a Roma, per Palamara il responsabile delle proprie vicissitudini giudiziarie, ndr)», riferisce Fava ai pm umbri Gemma Miliani e Mario Formisano. E «non mi ha mai chiesto nulla di Centofanti (Fabrizio, indagato da Fava nell’ambito di un fascicolo di cui era assegnatario e soggetto cardine nell’indagine di Perugia contro Palamara, ndr)». «Centofanti – scrivono i magistrati umbri – da tempo operava come “lobbista”, aveva svolto attività di lobbying per conto di importanti gruppi imprenditoriali, nelle sedi politico/istituzionali. In tale ambito operativo aveva mirato ad accrescere la propria capacità di influenza intessendo una rete di relazioni con rappresentanti di varie istituzioni e con soggetti a loro volta portatori di interessi di importanti gruppi di pressione, alcuni dei quali avevano svolto tale ruolo in modo disinvolto e talora illecito». L’attenzione dei pm di Perugia è proprio sul rapporto, iniziato nel 2008, fra Centofanti e Palamara. Una relazione «inquinata da interessi non confessabili». Nella tesi investigativa gli inquirenti contestano a Palamara l’articolo 318 codice penale nella formulazione introdotta dalla legge Severino del 2012, «corruzione per esercizio della funzione». Il reato svincola la punibilità dalla individuazione di uno specifico atto ricollegandola al generico «mercimonio della funzione». Insomma, Palamara quando era al Csm sarebbe stato a libro paga di Centofanti. E qui torna ancora Pignatone. Scrive infatti Fava in una annotazione «che il 24 novembre 2016 il capitano Silvia Di Giamberardino, alla presenza dei marescialli Michele Iammarone e Cristian Amori, all’epoca in servizio presso il Nucleo speciale di polizia valutaria della guardia di finanza (delegati all’indagine nei confronti di Centofanti, ndr), mi ha comunicato che i rapporti fra lui (Centofanti) e Pignatone sono “molto stretti”, che sono sono stati visti molte volte a cena anche alla presenza del generale della guardia di finanza Minervini (Domenico, già comandante interregionale dell’Italia centrale, condannato nel 2017 per corruzione, ndr), che il generale Minervini trascorre tutte le estati un periodo di vacanza presso l’hotel Tramontano in Sorrento di proprietà della famiglia Iaccarino cui appartiene, per linea materna, la moglie di Centofanti Andrea (fratello di Fabrizio), ufficiale della guardia di finanza». E poi che «Pignatone era stato tra gli invitati al matrimonio di Andrea Centofanti». Andrea Centofanti sarà poi arrestato a Genova per concussione in danno di un notaio.

Chat Palamara, il Pd chiedeva ai giudici di attaccare Salvini. Dalle chat di Palamara emergono altre indiscrezioni. La conversazione con il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e le trame per incastrare Salvini. Federico Giuliani, Giovedì 28/05/2020 su Il Giornale. Una sorta di campagna stampa orchestrata alla perfezione per colpire Matteo Salvini, all'epoca dei fatti ministro dell'Interno. Scorrendo le varie chat di Luca Palamara, sembrerebbe proprio che l'obiettivo principale di alcune toghe e di una parte della politica fosse quello di togliere dalla scena il segretario del Carroccio. Secondo quanto ricostruito dal quotidiano La Verità, il tema dello sbarco della nave Diciotti a Catania sarebbe stato utilizzato come grimaldello per far barcollare Salvini, il quale aveva "ragione" ma, in quel delicatissimo momento, andava attaccato a spada tratta. A orchestrare la campagna contro il ministro sarebbe stato il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini, tra l'altro sottosegretario di due governi guidati dal Pd.

La conversazione tra Palamara e Legnini. Riavvolgiamo il nastro e cerchiamo di ricostruire la vicenda. Il 24 agosto 2018, scrive ancora La Verità, Legnini contatta il consigliere Palamara: "Luca, domani dobbiamo dire qualcosa sulla nota vicenda della nave. So che non ti sei sentito con Valerio (il consigliere del Csm in quota Area, Valerio Fracassi, ndr). Ai (Autonomia e indipendenza, ndr) ha già fatto un comunicato, Area (la corrente di sinistra delle toghe, ndr) è d' accordo a prendere un' iniziativa Galoppi idem (il consigliere del Csm Claudio Galoppi, ndr). Senti loro e fammi sapere domattina". È il preambolo a una conversazione che, come vedremo, ha uno scopo ben preciso. La risposta di Palamara non si fa attendere: "Ok, anche io sono pronto. Ti chiamo più tardi e ti aggiorno". A quel punto, sottolinea sempre nella sua ricostruzione dei fatti La Verità, Legnini insiste: "Sì, ma domattina dovete produrre una nota, qualcosa insomma". A quel punto Palamara scrive a Fracassi: i due si incontrano il giorno successivo. Il pm riceve quindi un messaggio: "Dobbiamo sbrigarci! Ho già preparato una bozza di richiesta. Prima di parlarne agli altri concordiamola noi". La bozza deve essere approvata al più presto. Le firme, decidono Palamara e Fracassi, saranno inserire "in ordine alfabetico". Arriviamo al 25 agosto, quando le agenzie battono una notizia che non può passare inosservata: quattro consiglieri di Palazzo dei Marescialli, fra cui Palamara, chiedono di inserire il caso migranti all'ordine del giorno del primo plenum del Csm. Nel documento si legge che "la verifica del rispetto delle norme è doverosa nell'interesse delle istituzioni". "Gli interventi a cui abbiamo assistito, per provenienza, toni e contenuti rischiano di incidere negativamente sul regolare esercizio degli accertamenti in corso. Riteniamo che sia necessario un intervento del Csm per tutelare l' indipendenza della magistratura e il sereno svolgimento delle attività di indagine", prosegue il documento. Legnigni, in un altro comunicato, scrive che l'istanza sarà trattata nel primo comitato di presidenza. "Il nostro obiettivo è esclusivamente quello di garantire l' indipendenza della magistratura", aggiunge. L'accerchiamento di Salvini è completato. Ma, anche tra le stesse toghe, qualcuno alza un sopracciglio. Emblematico il messaggio del procuratore di Viterbo, Paolo Auriemma, a Palamara: "Non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell' Interno interviene perché questo non avvenga". Palamara tira dritto: il segretario del Carroccio va "attaccato". "Indagato per non aver permesso l'ingresso a soggetti invasori. Siamo indifendibili. Indifendibili", conclude Auriemma.

Salvini: "Situazione gravissima". L'oggetto delle chat tra giudici, Matteo Salvini, esce allo scoperto e commenta così quanto è avvenuto: "Dopo gli insulti e l’ammissione “Salvini ha ragione ma va attaccato”, oggi La Verità pubblica altre incredibili intercettazioni, che svelano la natura di alcune iniziative dei magistrati contro il sottoscritto". "Emergono le trame di Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm e sottosegretario di due governi a guida Pd, per far intervenire il Consiglio Superiore della Magistratura a supporto delle indagini sullo sbarco degli immigrati dalla nave Diciotti – rincara la dose Salvini -.In quell’occasione, da quanto ricostruisce La Verità, quattro consiglieri del Csm (tra cui Luca Palamara che mi definiva “m...”) invocavano l’intervento del Csm - così come ordinato da Legnini - per difendere “l’indipendenza della magistratura” che io avrei messo in pericolo". "Un attimo dopo, Legnini rispondeva pubblicamente che l’unico obiettivo era assicurare “l’indipendenza della magistratura”, confezionando il messaggio (immediatamente rilanciato dal sito di Repubblica) di una magistratura al di sopra delle parti e preoccupata perché il ministro Salvini osava difendere l’Italia e pretendeva di bloccare gli sbarchi rifiutando l’accusa di essere un sequestratore", conclude l'ex ministro dell'Interno. Salvini lancia quindi un appello al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: "Sono sicuro che il Capo dello Stato non resterà indifferente: ne va della credibilità dell’intera Magistratura italiana, la situazione è ormai intollerabile e occorrono interventi drastici, rapidi e risolutivi, per il bene del Paese".

Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 27 maggio 2020. Un vorticoso fluire di «abbracci», «congratulazioni», «sei grande», «ti voglio bene» scambiato, tra un plenum e l' altro, con una moltitudine affettuosa di vip, volti noti, calciatori e amanti dello sport. Non era solo il punto di riferimento di magistrati in carriera, Luca Palamara. Ma tra inviti allo stadio e biglietti per il tennis, convocazione per le partite di beneficenza e incontri sportivi, dalle chat dell' ex capo dell' Anm emerge una rete di rapporti che travalica le aule di giustizia e non ha nulla a che vedere con l' inchiesta penale. E anche da lì, talvolta, venivano richieste di favori. Così, tra i messaggini agli atti - spesso di congratulazioni per incarichi ottenuti, oppure vuoti di contenuti - troviamo mescolati i contatti istituzionali (dai generali Giovanni Nistri, Mario Parente, Tullio Del Sette e Giuseppe Zafarana a Gianni De Gennaro , Alessandro Pansa e il prefetto Morcone ) con quelli politici (Nicola Zingaretti, Marco Minniti, Francesco Boccia, Andrea Orlando, Cosimo Ferri, Luca Lotti, Nitto Palma, Maria Elena Boschi, Daniele Frongia, Marcello De Vito e Beatrice Lorenzin), con giornalisti famosi, vip e star dello sport e dello spettacolo. Ci sono cantanti come Claudio Baglioni e Antonello Venditti , e poi attori: oltre a Raoul Bova e l' attrice Anna Kanakis . Luca Zingaretti viene invitato da Palamara a «una iniziativa su Borsellino». Accetta. Ma lì l' imprevisto: «Questo sta leggendo gli stessi brani che leggo io!!!!», lamenta l' attore in un WhatsApp. «Per fortuna non lo ascolta nessuno», lo rassicura lui. E l' attore concorda: «Tanto ha letto di m...». Lui fa da tramite tra i due mondi: e all' attore Marcorè scrive: «Carissimo Neri, miei colleghi di Bologna volevano mettersi in contatto con te per invitarti ad un evento. Posso dargli il tuo recapito?». Ma è lo sport l' amore dell' ex pm. E anche lì tesse la sua tela. Chiede i biglietti del tennis a Luigi Abete : «Avevo piacere di venire in questa settimana a vedere gli internazionali». Invita Raffaele Cantone (ma lui declina) e altri colleghi a una partita con cantanti e attori «contro la violenza sulle donne». Invia gli auguri a Giovanni Malagò, appena nominato commissario straordinario della Lega Serie A: «In bocca al lupo per questa nuova avventura». E viene bersagliato di richieste dall' ex calciatore della Roma Giuseppe Giannini , con cui a volte gioca a padel: «Pensavo che se l' Italia non passa per andare al Mondiale sicuramente prenderanno Ancelotti e magari potrei fare parte dello staff». Palamara non dice mai di no: «Ci si può lavorare». Poi Giannini torna alla carica: «Leggevo che anche Corradi è riuscito a entrare in Federazione come assistente dell' Under 17, ma non riusciamo proprio a parlarci domani?». E ancora: «Ho parlato ieri con Fabbricini mi ha detto che incontrava Costacurta e mi riferiva, mi ha confermato che tutti gli allenatori di Leandro sono in scadenza se a te capita di incontrare Giovanni». Palamara: «Già fatto». Con Venditti va allo stadio e quando non si vedono per «un pomeriggio di burraco e poi cena», parlano di politica o di Roma («Mattarella uno di noi», «Perché non ci compriamo Higuaín?» gli scrive il cantante). A Claudio Ranieri , che il 7 marzo 2019 ha appena accettato l' incarico di allenatore della Roma, scrive: «Forza Claudio !!!!». E con Eusebio Di Francesco , appena esonerato , si rammarica: «Caro Eusebio purtroppo siamo incredibilmente bravi a bruciare tutto e anche le cose più belle. Un abbraccio forte e grazie per tutto quello che hai fatto certo che per te il bello deve ancora venire». Il 5 novembre 2019 scrive a Vincenzo Montella : «Siamo tutti contenti se vieni a Roma un abbraccio!!!!». E al neo allenatore dell' Inter Luciano Spalletti , alla vigilia di una partita all' Olimpico, scrive : «Appartengo a quelli che saranno felici di riaverti qui a Roma, dove hai dimostrato di essere il più forte».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 30 maggio 2020. C'è un problema di opportunità in merito ad alcuni membri delle due istituzioni deputate a richiedere le azioni disciplinari, in seno al Csm, per i magistrati che hanno avuto rapporti da verificare con il regista delle carriere dei togati, il pm Luca Palamara. Almeno tre magistrati, uno all'ispettorato generale e due alla procura generale di Cassazione hanno scambiato messaggi confidenziali con Palamara. Si tratta di togati tutti appartenenti ad Unicost. Dalle carte dell'inchiesta di Perugia, da dove fioccano chat e intercettazioni, escono fuori rapporti stretti tra i pg Valentina Manuali, Gigi Birritteri e Palamara. Mentre l'ispettorato generale, all'interno del ministero della Giustizia, è retto da Liborio Fazzi. Fazzi è il capo degli investigatori del guardasigilli che, per legge, promuove l'azione disciplinare nei confronti di pm e giudici e, nel 2017, scriveva così a Palamara: «Luca ben fatto. Adesso chiudi il cerchio con Reggio e diventi il mio riferimento assoluto». Ma se del capo degli ispettori di via Arenula si era già scritto nei giorni scorsi, degli altri due togati ancora non era emerso nulla. Ecco cosa scriveva Manuali, da poche settimane nominata pg e all'epoca pm a Perugia, a Palamara il 26 gennaio 2019. «Ciao Luca ho fatto domanda per aggiunto a Perugia non vorrei che la sanzione mi pregiudichi. So che Unicost romana ha un peso importante. Tu che più di ogni altro sai quanto sia stata ingiusta e per me dolorosa, mi daresti una mano?». «Cara Valentina - replica Palamara - io non potrò che sostenere le tue ragioni». «Grazie se hai occasione di parlarne con Mancinetti (attuale consigliere al Csm, che siede al disciplinare, ndr) con il quale poi parlerò anche io. Ma tua hai sicuramente un peso maggiore». Infine la Manuali conclude in questo modo la conversazione: «Ok grazie allora ci teniamo in contatto. Tu sei una voce autorevole, a presto». Ecco, invece, gli scambi di messaggi tra il pm e Luigi Birritteri. Quest'ultimo chiede a Palamara un aiuto per essere nominato pg. È il 17 settembre del 2018: «Luca ho deciso di rientrare, mi ricordi chi presiede la quarta comm?». «Ne abbiamo discusso proprio ora, la presiede Pontecorvo. Ti chiamo in serata», replica il pm. «Dovrebbe andare ovviamente tutto liscio - scrive Birritteri - grazie mille». E ancora, aggiunge l'attuale pg di Cassazione: «se mi dai anche tu una mano ti ringrazio». «Assolutamente sì», la risposta di Palamara. «Obrigado, dicono i brasiliani» sostiene Birritteri. Passa una settimana e di nuovo i due si sentono per messaggio. Si decide quel giorno la nuova nomina in Cassazione. «Caro Luca sai se si riesce a portare oggi la mia pratica con art 70?». «Sì viene oggi, delibera riammissione». «Perfetto, grazie mille speriamo vada liscio» sostiene sempre Birritteri. «Deliberato», scrive Palamara. «Con rientro alla pg e unanimità? Grazie mille Luca», afferma entusiasta il magistrato. «Oggi veniva solo per la riammissione in ruolo», risponde Palamara. E infine Birritteri: «Ok dunque alla terza con il nuovo consiglio, grazie mille». Intanto, sempre alla procura generale di Cassazione, prenderà posto Fulvio Baldi il magistrato che, appena due settimane fa, si era dimesso dalla sua poltrona di capo di gabinetto al ministero della Giustizia per i rapporti strettissimi con Palamara. Il pm lo chiamava «Fulvietto» e lo contattava per ottenere favori nel Ministero. Gli suggeriva magistrati da sistemare negli staff nei ministeri. E Baldi rispondeva: «Te la porto qua, stai tranquillo, perché è una considerazione che ho per te, un affetto che ho per te e lo meriti tutto».

Luca Palamara, le intercettazioni s'ingrossano: i nuovi nomi tra Cassazione e ministero della Giustizia. Libero Quotidiano il 30 maggio 2020. Almeno tre magistrati, uno all'ispettorato generale e due alla procura generale di Cassazione, hanno scambiato messaggi confidenziali con Luca Palamara. Lo si capisce leggendo le carte dell'inchiesta di Perugia, dove si evidenziano rapporti stretti tra i pg Valentina Manuali, Gigi Birritteri e Palamara. Lo scrive il Messaggero. Mentre l'ispettorato generale, all'interno del ministero della Giustizia, è retto da Liborio Fazzi. Fazzi è il capo degli investigatori del guardasigilli che, per legge, promuove l'azione disciplinare nei confronti di pm e giudici e, nel 2017, scriveva così a Palamara: "Luca ben fatto. Adesso chiudi il cerchio con Reggio e diventi il mio riferimento assoluto".  La Manuali invece a Palamara il 26 gennaio 2019 scriveva: "Ciao Luca ho fatto domanda per aggiunto a Perugia non vorrei che la sanzione mi pregiudichi. So che Unicost romana ha un peso importante. Tu che più di ogni altro sai quanto sia stata ingiusta e per me dolorosa, mi daresti una mano?". Altri scambi di messaggi evidenziano i favori tra Palamara e Luigi Birritteri. Quest'ultimo: "Se mi dai anche tu una mano ti ringrazio". "Assolutamente sì", la risposta di Palamara. "Obrigado, dicono i brasiliani", risponde scherzando Birritteri. Intanto, sempre alla procura generale di Cassazione, prenderà posto Fulvio Baldi il magistrato che, appena due settimane fa, si era dimesso dalla sua poltrona di capo di gabinetto al ministero della Giustizia per i rapporti strettissimi con Palamara. Il pm lo chiamava Fulvietto e lo contattava per ottenere favori nel Ministero. 

Csm ai piedi di Bonafede, il ministro fa promuovere Raffaele Piccirillo a suo capo di gabinetto con un cavillo. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Giugno 2020. Autonomia e indipendenza dai poteri dello Stato? Tutto archiviato. Se Alfonso Bonafede ordina, il Csm “obbedisce”. Nel consueto silenzio dei grandi giornali, la scorsa settimana il Csm ha dato prova di essere in questo momento il migliore “alleato” del ministro della Giustizia. La notizia riguarda la nomina del magistrato Raffaele Piccirillo, al posto del collega dimissionario Fulvio Baldi, come nuovo capo di gabinetto del numero uno di via Arenula. La vicenda merita di essere raccontata dall’inizio. Piccirillo, dal settembre del 2014 al giugno del 2018, ha ricoperto l’incarico di direttore generale della Giustizia penale e poi di capo del Dipartimento affari di giustizia. Insediatosi Bonafede, rimane vittima dello spoil system e rientra in ruolo al Massimario della Corte di cassazione. Dopo anni passati al vertice dell’amministrazione della giustizia, tornare alla “massimazione” delle sentenze non deve essergli sembrato molto qualificante e infatti passano pochi mesi e presentata domanda per sostituto procuratore generale della Cassazione. Un ruolo ambitissimo e di grande potere in quanto titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei colleghi. Per i nove posti di sostituto pg le domande sono decine. Il Csm, dopo una attenta valutazione dei cv, il 7 maggio 2020 scioglie la riserva e lo nomina. Normalmente passano alcune settimane prima che un magistrato venga trasferito. In questo caso è diverso visto che il procuratore generale Giovanni Salvi mette fretta in quanto ha bisogno di energie fresche per valutare le posizioni delle centinaia di magistrati che chattavano come dei forsennati con l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Il 21 maggio Piccirillo “prende possesso” in anticipo in Procura generale. È il primo. Gli altri otto colleghi arriveranno dopo dieci giorni. Neppure il tempo di guardare le chat che il 25 maggio arriva la chiamata da Bonafede. Per poter essere collocato “fuori ruolo” ci sono alcuni parametri da rispettare. Il più importante riguarda la scopertura dell’ufficio dove si presta servizio che «non deve essere superiore al 20%». Quella della Procura generale supera tale valore. Come si può fare allora per non scontentare il ministro della Giustizia più filo pm della storia? Ecco dal cilindro del Csm il codicillo provvidenziale contenuto nella circolare sui “trasferimenti dei magistrati, conferimento di funzioni e destinazione a funzioni diverse da quelle giudiziarie”. Art. 106 comma 4: “Eccezionalmente il Csm si riserva di valutare la possibilità di concedere il collocamento fuori ruolo in ragione del rilievo costituzionale dell’organo conferente e della natura dell’incarico che il magistrato è chiamato a ricoprire”. Ma le sorprese non sono finite. Perché il fuori ruolo di Piccirillo è votato con convinzione dai magistrati di Md-Area, il cartello di sinistra, la sua corrente di appartenenza, che da sempre si batte per lo stop fra politica e magistratura. Quello di capo di gabinetto, va ricordato, è l’incarico più politico che esista per un magistrato, essendo un posto dove il requisito principale è la piena condivisione della linea politica del ministro. E qui entra in ballo Giuseppe Cascini, il capo della delegazione di Area al Csm, con una motivazione alquanto sorprendente, tratta dal successivo resoconto delle toghe progressiste su questa nomina. La richiesta deve essere accolta, scrivono i togati di Area, per «sussistenza di un interesse oggettivo dell’amministrazione della giustizia, in relazione alle ricadute positive dello svolgimento dell’incarico per l’esercizio della giurisdizione; tanto più considerando quanto importante è la presenza, in tale incarico, non di un funzionario proveniente da altra amministrazione bensì di un magistrato, portatore della cultura e della conoscenza della giurisdizione, nonché della propria autonomia ed indipendenza». Quindi ben venga per le toghe di sinistra la “colonizzazione” del Ministero della giustizia da parte dei magistrati. Con buona pace degli avvocati delle Camere penali che vorrebbero la fine di questa consuetudine in spregio al principio di separazione dei poteri. Per la cronaca hanno votato contro l’incarico a Piccirillo i davighiani Sebastiano Ardita, Nino Di Matteo e Ilaria Pepe, i laici in quota Lega Emanuele Basile e Stefano Cavanna, il togato di Mi Antonio D’Amato ed il laico di Forza Italia Alessio Lanzi. Astenuti Piercamillo Davigo e l’altro davighiano Giuseppe Marra e le togate di Magistratura indipendente Paola Braggion e Loredana Miccichè.

Ministero di Giustizia. Salta un’altra toga di Unicost. Il CSM diventa più “debole”… Il Corriere del Giorno il 31 Maggio 2020. Liborio Fazzi, magistrato della corrente di Unicost come Baldi e Palamara, tornerà a fare il “vice” sperando che il prossimo nuovo capo degli ispettori lo confermi nella carica. Di fatto si tratta di un riposizionamento in quanto Fazzi era soltanto “reggente” dell’incarico che è scoperto da tempo. ROMA – Dopo le precedenti dimissioni di Fulvio Baldi da capo di Gabinetto del guardasigilli “salta” a causa dei suoi rapporti stretti con il pm Luca Palamara un altro magistrato nel ministero di via Arenula Liborio Fazzi, capo degli ispettori ministeriali, in passato membro anche lui del Csm. Liborio Fazzi, magistrato della corrente di Unicost come Baldi e Palamara, tornerà a fare il “vice” sperando che il prossimo nuovo capo degli ispettori lo confermi nella carica. Di fatto si tratta di un riposizionamento in quanto Fazzi era in realtà soltanto “reggente” dell’incarico che è scoperto da tempo. Ed il ministro Bonafede taceva…Infatti all’ormai ex capo degli investigatori del Ministero era stato assegnato un incarico forse troppo delicato, cioè quello di porre all’attenzione del Ministro di Giustizia la relazione su eventuali azioni disciplinari da intraprendere nei confronti dei magistrati che avrebbero richiesto favori a Palamara, tutto ciò nonostante Fazzi vantasse un ottimo rapporto con il pm romano. “Luca ben fatto adesso chiudi il cerchio con Reggio e diventi il mio riferimento assoluto” scriveva Liborio Fazzi a Palamara nel novembre del 2017. Dal contenuto delle conversazioni acquisite grazie alle intercettazioni disposte dalla Procura di Perugia, Fazzi sembrava essere coinvolto e molto interessato alla logica spartitoria vigente tra le varie correnti della magistratura. Addirittura Fazzi rimproverava Palamara con un un altro sms. “Luca, Messina si sta spargendo la voce della possibilità che si perda in comparazione con la Tarsia, sta succedendo un casino qui rischiamo di perderci Messina perché già Ardita sta cavalcando questo cavallo“. Successivamente scriveva complimentandosi con Palamara per un’altra “operazione” al Csm. “Carissimo tanti auguri di un sereno Natale e felice inizio anno. L’operazione Fuzio mi è piaciuta, se è opera tua complimenti“. Palamara gli rispondeva: “Buon Natale caro Liborio. Sì Liborio, è stato il mio grande successo, che però condivido con tutti voi”. Crea più di qualche imbarazzo al Csm la posizione di Marco Mancinetti, magistrato, uomo forte di Unicost che oggi siede al Csm, proprio alla sezione disciplinare, organismo che ha il compito delicato di dover giudicare i colleghi che avrebbero richiesto aiuti a Palamara. Un ruolo complicato che diventa conflittuale quando si apprende che gli stessi giudicanti hanno avuto, con Palamara, rapporti confidenziali. Sopratutto quando emerge che proprio Mancinetti si scambiava numerosi sms, con Palamara soprattutto in relaione alle nomine dei togati. Ecco cosa Mancinetti scriveva il 21 novembre 2017, prima delle elezioni al Csm in cui si è candidato, a Palamara : “Da adesso in poi mi devi ascoltare, almeno per questi sei mesi su Roma non ho paura di perdere altri voti ma almeno usciamo dall’equivoco con molta gente e ce la togliamo dalle palle“. Questa la risposta di Palamara : “assolutamente ti faccio girare elenco posti, partiamo da 4 pst Roma” cioè i Presidenti di Sezione del Tribunale di Roma. Il rapporto tra i due magistrati di Unicost è franco e diretto. Mancinetti ad un certo punto si sentiva ignorato nelle scelte dell’amico Palamara da adottare a Palazzo dei Marescialli, e gli scriveva: “Ma tu vuoi condividere le scelte o no? Se fai da solo, inutile discutere. Quando c’erano Auriemma e Fuzio (ex membri di Unicost al Csm per Unicost) hai voglia quanto hai deciso tu da fuori». Successivamente il “togato” Marco Mancinetti diventa più esplicito, con un messaggio del 21 dicembre 2017 : “A me prendi per il culo come un ragazzino ? “. Ma alla fine i due magistrati di Unicost riuscivano a trovare un accorso. Siamo al 14 febbraio 2018: “Annalisa d’accordo nel prendere direttore generale statistica, che è molto importante ed è l’unica rimasta. Così intanto rimane al Dog e poi si vede. Fai interlocuzione subito sennò ci fottono anche questa” messaggia Mancinetti. “Ok“, gli risponde Palamara che chiede al collega amico: “Lo Sinno o Cambria domani?“. “Al civile Lo Sinno“, gli risponde Mancinetti. Palamara si sarebbe persino interessato al figlio di Mancinetti per l’ammissione con test alla facoltà di medicina. Piccolo particolare: Anna Maria Soldi madre del ragazzo in questione è l’ex moglie di Mancinetti ed anche lei è un magistrato, sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione, cioè dell’organo che dovrebbe attivare le azioni disciplinari sul caso Palamara. E questa sarebbe la magistratura indipendente di cui parla il togato del Csm Piercamillo Davigo, ormai prossimo alla pensione ? A noi in realtà sembra solo tanta “monnezza” sotterranea finalmente emersa, che ci ricorda tanto la “terra dei fuochi” in Campania! E come si fa a restare indifferenti e silenti quando il capo dello Stato Sergio Mattarella, che è anche il Presidente del CSM si lava le mani e gira la patata “bollente” nelle mani del Parlamento?

Anche il capo degli 007 va da Palamara: tra adozioni e prebende ecco il suk di Mr. Wolf. Nelle chat spuntano le richieste dell'ex capo della Polizia e del Dis Alessandro Pansa in merito a una pratica per l'adozione di un bambino. Il procuratore capo di Firenze: «Ho parlato con Ferri. Devo scegliere tra due di Magistratura indipendente». Il gip di Roma Sturzo prima si auto-promuove per un posto e poi, quando il pm viene indagato a Perugia dopo l'inchiesta dei suoi colleghi di Roma gli scrive: «Sono certo che ne uscirai a testa alta». Emiliano Fittipaldi il 27 maggio 2020 su L'Espresso. Squadernando le migliaia di chat di Luca Palamara, un fatto sembra chiaro anche al cronista più distratto: il gran visir di Unicost era (e per molti è ancora) uno degli uomini più potenti di Roma. Non solo perché signore indiscusso delle nomine della magistratura italiana, ma pure per essere fondamentale referente dei salotti buoni della Città eterna per questioni giudiziali di ogni tipo e forma. Come  già evidenziato dall'Espresso due giorni fa , la fila davanti allo “Sportello Palamara” è più lunga di quelle della posta all'ora di punta: politici, attori, sportivi, magistrati e – come vedremo – pure vertici dei servizi segreti aspettavano pazienti per un aiuto, un consiglio, una raccomandazione. Palamara è un “facilitatore” dalla rubrica telefonica sterminata, un Mr Wolf infaticabile che risolve problemi H24. Con un modus operandi ben oliato, basato sul classico “do ut des” e sullo scambio di informazioni con il potente di turno. Una merce che nei suk dei palazzi romani ha, da sempre, altissimo valore aggiunto. Perché Luca sarà pure «er cazzaro», come lo chiamano il suo amici e colleghi Giovanni Bombardieri e Massimo Forciniti, ma è fuor di dubbio che nel tempo sia diventato custode dei segreti di mezza città. E di un pezzo importante della classe dirigente del Paese. «Ora il suo regno è finito», chiosano i nemici. È probabile. Ma il pm calabrese indagato a Perugia per una presunta corruzione di funzione in merito ai rapporti con Fabrizio Centofanti (a proposito: nelle chat non c'è traccia del lobbista) ha fatto favori importanti a così tante persone, che sa benissimo che in molti gli devono riconoscenza.

SPIONI E ADOZIONI. Tra i messaggi su WhatsApp più sorprendenti depositati dalla procura umbra qualche settimana fa, ci sono certamente quelli di Alessandro Pansa, ex capo della Polizia e, dal 2016 al 2018, direttore del Dis, il Dipartimento di Palazzo Chigi che coordina le attività operative dei nostri servizi segreti. Pansa scrive a Palamara a partire dal 5 luglio 2017, chiedendo al pm – allora membro del Consiglio superiore della magistratura – informazioni su una pratica di adozione di un bambino bielorusso. Una pratica fatta da un'avvocatessa romana, un fascicolo a cui Pansa sembra tenere molto.

PANSA: «Puoi chiedere qualche informazione sulla vicenda adozione? Pare che si sia fermato l'iter...Mi riferisce l'interessato che al termine del colloquio la dottoressa le aveva detto che la documentazione era sufficiente è che anche la parte dei servizi sociali era definita».

PALAMARA: «Perfetto. Lo comunico subito».

PANSA: «Grazie».

Passa qualche giorno, e il capo degli 007 manda informazioni più dettagliate sull'istanza. Spiega che «da un controllo effettuato in cancelleria e sul terminale la causa (Il numero di ruolo è....) è presso il giudice relatore, la Dottoressa Scribano, in attesa della camera di consiglio». L'ex poliziotto segnala poi il nome di chi ha fatto l'istanza per l'adozione di un bambino nato in Bielorussia, e termina il messaggio con un «Grazie infinite». A settembre 2017, dopo qualche incontro vis à vis, colazione a tre con “Giovanni” «con caffè e cornetti con la crema», messaggi tranquillizzanti del direttore del Dis sulla scorta a cui Palamara tiene molto («per il momento hanno prorogato scorta fino al 30/9 e poi si riesaminerà situazione»), l'epilogo della pratica di adozione sembra positivo.

PANSA: «Estratto della sentenza è agli atti della commissione per le adozioni che ha accettato la domanda. Insomma tutto a posto. Grazie tantissimo da parte di tutta la famiglia».

PALAMARA: «Benissimo!!! Un abbraccio e a presto per festeggiare».

PANSA: «Certo».

TUTTI IN FILA PER UN POSTO. Se Pansa bussa allo sportello Palamara per velocizzare la burocrazia per un'adozione, l'ex deputato Ignazio Abbrignani, vicinissimo a Denis Verdini, all'inizio del 2018 chiede invece a Palamara «riscontri in merito al documento che ti ho dato». Sentito al telefono, Abrignani ci raccomta che ha conosciuto il pm al «Futbol Club dove lui si allenava». Non ricorda bene il documento, «mi pare fosse un parere su un atto civile che dovevo fare». Se delle conversazioni e chat con politici come Luca Lotti, Cosimo Ferri, Nicola Zingaretti e Marco Minniti abbiamo già dato conto in passato, anche la lista dei magistrati di peso che chiedevano favori al re di Unicost è sterminato. Le chat pubblicate dai giornali nei giorni scorsi stanno terremotando non solo il Csm, ma anche l'Associazione nazionale magistrati, le correnti di sinistra (nemmeno sfiorate dalle intercettazioni pubblicate un anno fa, oggi anche loro protagoniste di mercanteggiamenti vari) e – grazie a chat inedite – pure i vertici dei più importanti uffici giudiziari italiani. A Roma, per esempio, un gip importante come Gaspare Sturzo (finito in prima pagina qualche mese fa perché, a febbraio 2020, ha ordinato alla procura di Michele Prestipino nuove indagini su Tiziano Renzi e altri indagati del caso Consip, respingendo la richiesta di archiviazione degli inquirenti coordinati da Paolo Ielo) sembra in rapporti strettissimi con Palamara. A luglio 2018 Sturzo domanda al potente collega «qualche notizia sulla mia nomina a sostituto procuratore in Cassazione». Poi, dopo due ore, spiega perché sarebbe proprio lui il miglior candidato possibile.

STURZO: «Luca: io ho la settima valutazione altri non mi pare. Ho anche i titoli pubblicati e poi Dda Palermo con pentimento Siino e gestione del processo mafia e appalti. Poi ho coordinato le indagini per cattura Provenzano. Con la catturandi ho preso Benedetto Spera, al tempo nr. 2 dopo Provenzano. Ho fatto parte dell’alto commissario anti corruzione, ufficio legislativo presidenza del Consiglio e gabinetto del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Dei procedimenti Romani quale GIP E GUP non occorre parlarne perché dovrebbero essere noti al CSM PER LA RILEVANZA. Ti voglio solo dire che De Lucia che era con me a Palermo nei procedimenti citati(ma le carte le facevo io) è procuratore della repubblica di Messina. (Mio stesso concorso). Altro collega coassegnatario era Michele Prestipino. Tuo Gaspare». Il tentativo di spostarsi in Cassazione non riuscirà. I rapporti tra i due rimangono comunque ottimi. Tanto che il 29 maggio 2019, quando Repubblica dà conto dell'iscrizione del registro degli indagati di Palamara a Perugia per corruzione (fascicolo girato dal pool di Ielo in Umbria per competenza) scrive un messaggio di stima:

STURZO: «Luca mi dispiace, ti sono vicino e certo ne uscirai a testa alta».

PALAMARA: «Caro Gaspare. È una guerra».

TRA CORRENTI E DOSSIERAGGI. Anche un procuratore capo come Giuseppe Creazzo, diventato celebre dopo le inchieste della procura di Firenze sugli affari dei genitori di Matteo Renzi e sulla Fondazione Open e l'anno scorso in pole per il dopo Pignatone, telefona a Palamara in caso di necessità. «Creazzo ha scritto su WhatzApp a Palamara solo per le necessità che riguardavano il funzionamento del suo ufficio», chiariscono all'Espresso fonti di Viale Guidoni. Vero. Le richieste di velocizzare l'arrivo di un aggiunto appaiono infatti comprensibili («Carissimo Luca, come sai sono rimasto con un solo aggiunto su tre, la situazione è difficile davvero, ti prego di considerare l'opportunità di deliberare presto sul posto messo a concorso fin da marzo 17. Grazie, un abbraccio»), come pure l'ansia sulla calendarizzazione di alcune nomine come quella dei pm Sandro Cutrignelli e Gabriele Mazzotta («Carissimo Luca scusa se ti disturbo ancora ma qui la sofferenza è grande. Puoi dirmi quando va al plenum la nomina di Mazzotta? Grazie», scrive Creazzo il 19 marzo 2018, chiudendo il giorno dopo con un «Grande!!!Grato»). Di diverso tenore, invece, i messaggi che riguardano altri uffici giudiziari. E quelli sulla promozione di colleghi di Unicost, corrente a cui appartiene anche Creazzo. Il 29 marzo 2018 in chat si legge:

CREAZZO: «Grazie per Reggio Calabria. Sono davvero contento. Buona Pasqua».

PALAMARA: «Sono contento Peppe spero che Tommasina (il magistrato Cotroneo, ndr) e Giovanni (il pm Bombardieri, ndr) si possa dare un bel segnale al territorio. Un abbraccio.

CREAZZO: «Avevamo bisogno di uno come Giovanni, serio equilibrato e capace».

Per inciso, sempre il 29 marzo, la mattina del voto su Giovanni Bombardieri, Palamara si preoccupa già di organizzargli il suo “debutto in società” («Il 20 aprile a San Luca farai la prima uscita come procuratore di Reggio Calabria a San Luca. Con me, Cafiero e il capo della polizia»; giratogli la notizia della nomina, Bombardieri risponde con un «Grande Palamara!»). Mentre le chat tra il magistrato e Tommasina Cotroneo, diventata presidente della sezione penale del Tribunale di Reggio Calabria, rischiano di imbarazzare la magistratura calabrese. La Cotroneo parla infatti malissimo di altri colleghi. Come la rivale Tassone, su cui Palamara chiede informazioni di familiari.

COTRONEO: «E poi devo dirti a questo punto delle cose sulla Tassone visto che si deve giocare con le loro carte. È una persona pericolosa e senza nessuna sensibilità istituzionale con un padre pieno di reati fiscali ed una impossibilità di vedere un suo bene in esecuzione immobiliare a Vibo per le pressioni che evidentemente esercita. Lei peraltro a seguito di una causa civile che la vedeva parte soccombente rispetto ad un vicino di casa ha mandato al giudice civile che aveva la causa una foto wapp con le immagini del suo appartamento e sotto scritto 'senza parole' stigmatizzando così la decisione di quel giudice. Quest'ultimo ha raccontato tutto a Gerardis che non gli ha detto di relazionare altrimenti a quest'ora la signorina Tassone sarebbe stata sotto procedimento disciplinare. Fagliele sapere queste cose al suo mentore. Non l'hanno mai voluta la Tassone perché conosciuta da tutti come pericolosa per i suoi tratti caratteriali».

PALAMARA: «Sui reati fiscali del padre mi dai qualche elemento in più? Cosa fa il padre?»

COTRONEO: «Non so di preciso. È un personaggio oscuro. Lei non parla mai del padre. Non pervenuto . Qualcosa mi aveva detto la grasso e sulla esecuzione immobiliare dicono in corte. Sarebbe un presidente di sezione pericolosissimo».

Torniamo a Creazzo. Perché il giorno dopo la promozione di Bombardieri, il 30 marzo, un suo messaggio chiarisce bene l'importanza delle correnti per le carriere dei magistrati:

CREAZZO: «Carissimo Luca oggi ho incontrato Cosimo Ferri che mi ha espressamente chiesto chi preferisco per il terzo aggiunto fra i due di MI. Se la scelta si riduce a questa ristrettissima rosa secondo me Dominijanni è meglio per profilo e attitudini e per la circostanza, che ritengo ancor più decisiva, che non appartiene già a questo ufficio al contrario dell’altro e dunque porterebbe un rinnovamento, cosa sempre positiva. Questo è il mio pensiero, per quel che vale, nell'ovvio rispetto di ogni decisione che verrete a prendere. Ciao».

Giancarlo Dominjanni è dunque il prescelto da Ferri. Che però, oltre a essere grande sodale di Palamara e boss di Magistratura indipendente, tre mesi prima era stato eletto deputato alla Camera dei deputati nelle file del Pd. La Suburra della magistratura nazionale prevede – nonostante conflitti d'interesse evidenti tra i poteri dello Stato - che un procuratore capo come Creazzo debba discutere con un politico dei curriculum dei candidati al suo ufficio. Che, almeno in teoria, dovrebbero essere scelti dal Csm solo per puri meriti professionali.

Un altra chat, quella tra Palamara e il fratello di Dominijanni Gerardo (anche lui magistrato) chiude il cerchio:

GERARRDO DOMINIIJANNI: «Ciao Luca state trattando in Quinta Commissione aggiunto a Firenze dove MI porta mio fratello Giancarlo. Area (altra corrente di sinistra, ndr) porta Tescaroli o Pesce. Sinceramente che possibilità ha mio fratello?

PALAMARA: «Grande Gerry, secondo me buone. Dobbiamo però trovare giuste convergenze ci aggiorniamo in serata un abbraccio».

Per la cronaca, la partita il 28 luglio 2018 la vincerà Luca Tescaroli, mentre Giancarlo Dominijanni è ancora sostituto a Pisa.

Giovanni Bianconi per il ''Corriere della Sera'' il 25 maggio 2020. «E secondo te io mollo? Mi devono uccidere. Peggio per chi si mette contro». Esattamente un anno fa, la mattina del 23 maggio 2019, Luca Palamara si mostrava determinato e combattivo nei messaggi inviati al suo collega (anche di corrente) Cesare Sirignano. La commissione Incarichi direttivi del Consiglio superiore della magistratura aveva appena votato i tre candidati per la guida della Procura di Roma, e in testa risultava Marcello Viola, sostenuto dal gruppo Magistratura indipendente e candidato occulto di Palamara. Ma la battaglia finale si sarebbe combattuta al plenum del Csm, e l' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati (nonché ex componente del Consiglio) affilava le armi. Soprattutto contro i togati di Area, il cartello che raduna la sinistra giudiziaria, intenzionati a ostacolare la nomina sponsorizzata da Palamara. Che li apostrofava così: «Sono dei banditi, vergognosi». È un frammento di dialogo che aiuta a comprendere la posta in gioco per la quale l' ex pm oggi indagato per corruzione si preparava alla partita della sua vita. Svelata una settimana più tardi dal decreto di perquisizione con cui la Procura di Perugia rivelò non solo l' inchiesta a suo carico, ma pure le trame occulte con cui Palamara stava pilotando dall' esterno del Csm la nomina del nuovo procuratore della capitale, insieme ai deputati del Pd Cosimo Ferri (giudice in aspettativa ma capo riconosciuto di Magistratura indipendente) e Luca Lotti. La scoperta di quelle manovre provocò - oltre al terremoto nel Csm, con le dimissioni di tre componenti di Mi e due di Unicost - la prima crisi all' interno dell' Anm: il governo a tre Unicost- Area-Mi- si sfaldò perché Mi fu accusata di non aver reagito con sufficiente fermezza contro i propri consiglieri coinvolti nelle «riunioni segrete notturne» col trio Palamara-Ferri-Lotti, e nacque una nuova giunta sostenuta da Area, Unicost (che invece aveva «epurato» il suo leader e i due componenti del Csm dimissionari) e i davighiani di Autonomia e indipendenza. Un anno dopo siamo daccapo, nuova crisi. Stavolta la rottura è tra Area e Unicost, perché chiusa l' indagine a carico di Palamara sono stati depositati tutti gli atti raccolti dagli inquirenti. Comprese le chat dei dialoghi WhatsApp contenute nel cellulare di Palamara, dal 2017 in avanti; cioè quando Palamara sedeva al Csm (fino a settembre 2018) e governava la magistratura facendo spesso accordi e alleanze con i togati di Area e i laici di centrosinistra (anche perché al fianco di Area aveva già guidato l' Anm, tra il 2008 e il 2012). Risalgono a quel periodo le conversazioni con i colleghi della sua stessa corrente, ma anche di Area e di Mi, che svelano patti e manovre per piazzare questo o quel magistrato nei vari posti, e «fotterne» altri; spartizioni di nomine e incarichi «espressive di un malcostume diffuso di correntismo degenerato e carrierismo spinto, fino a pratiche di vera e propria clientela», per dirla con il comunicato firmato da Area. Che chiedeva prese di posizione più radicali da parte di Unicost, e da qui è nata la seconda crisi nel sindacato dei giudici. Fino all' autunno 2018, quindi, Palamara è stato un alleato della sinistra giudiziaria, e anche da questo derivano gli attacchi al leader leghista Matteo Salvini in alcune conversazioni private. Quando a fine agosto 2018 il procuratore di Viterbo Paolo Auriemma (compagno di corrente, pure lui ex Csm) si schiera al fianco del neoministro dell' Interno finito sotto inchiesta per via dei migranti trattenuti a bordo della nave Diciotti , Palamara gli risponde: «Hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo». Pochi giorni dopo manda una foto dalla festa di Santa Rosalia a Viterbo all' allora presidente dell' Anm (sempre di Unicost) Francesco Minisci, e commenta: «C' è anche quella merda di Salvini, ma mi sono nascosto». Minisci risponde con un neutro «Va dappertutto». Qualche mese dopo sarà lui a finire nel mirino di Palamara, che scrive a Sirignano: «Già fottuto Minisci». A fine settembre, terminata l' esperienza al Csm, le alleanze e gli schieramenti cambiano. Perché nel nuovo Consiglio Area non è più l' alleato per lui affidabile di prima; e soprattutto ha capito che non lo sosterrà per l' agognata poltrona di procuratore aggiunto a Roma (lasciata libera dal neo consigliere Giuseppe Cascini, da poco nominato proprio con l' appoggio dell' ex pm che in questo modo aveva preparato la staffetta). Nasce così l' alleanza con Mi e Cosimo Ferri (già berlusconiano, ora transitato dal Pd a Italia Viva), che doveva portare alla nomina del nuovo procuratore di Roma e poi di se stesso come vice. Ma l' inchiesta per corruzione ha fatto saltare tutto. Scoperchiando un anno fa le trame extra-consiliari, e oggi il resto delle sue multiformi relazioni e opinioni. Compresi i propositi di vendetta contro i colleghi di Area. «Bisogna sputtanarli», gli scriveva Sirignano, che il Csm ha appena trasferito dalla Superprocura antimafia, per un' altra intercettazione in cui parlava con Palamara del suo ufficio e della nomina del nuovo procuratore di Perugia. E lui replicava convinto: «Esatto».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 25 maggio 2020. Le toghe progressiste sono ferme all' hotel Champagne. Per loro ciò che è successo in un paio di dopocena in un alberghetto dietro alla stazione Termini è uno sfregio alla magistratura non paragonabile a quanto sta emergendo in queste settimane dalle chat del pm Luca Palamara. Gli incontri notturni allo Champagne di cinque consiglieri del Csm con Palamara e due parlamentari della Repubblica per discutere di nomine sono un vulnus senza confronti. L' eterodirezione degli incarichi da parte della politica una vergogna molto più grave del suk di nomine e altre prebende che affiora dal cellulare sequestrato allo stesso Palamara. Dimenticano, però, che decine di loro restano per anni fuori ruolo con incarichi al ministero della Giustizia e che una loro esponente, Donatella Ferranti, si è preoccupata delle nomine di più di un giudice anche quando era parlamentare e presidente della commissione Giustizia. Nei giorni scorsi avevamo scoperto che il 4 marzo 2018, in uno dei suoi ultimi giorni da deputata, la Ferranti aveva segnalato a Palamara il giudice Eugenio Turco: «Ha uno specifico interesse per presidente sezione Viterbo [] Ti manderà sms direttamente perché ha sciolto sue perplessità []», aveva digitato. Adesso abbiamo trovato l' sms che riscontra quanto scritto dalla Ferranti. È un messaggio di Turco, sempre del 4 marzo: «Carissimo (Palamara, ndr) ho visto che Roma è stata già assegnata. Ora per Viterbo sono molto interessato». Nei comunicati di Area non troviamo nessun riferimento a questa vicenda. Evidentemente troppo Champagne toglie lucidità. Non si leggono neanche prese di posizione chiare su consiglieri o ex consiglieri del Csm in quota Area come Valerio Fracassi, Nicola Clivio e Giuseppe Cascini (quello che cercava il biglietto gratuito dello stadio per il figlio in tribuna autorità), tutti e tre coinvolti in chat imbarazzanti con Palamara, come un altro campione delle toghe progressiste, l' attuale capo del Dap Dino Petralia. Le loro condotte non sembrano appassionare i vertici di Area che sabato, pur censurando le «degenerazioni correntizie», hanno continuato a distinguere le vicende odierne da quelle dell' hotel Champagne («Che in nessun modo ci hanno coinvolto», hanno puntualizzato). Ieri, nell' ennesimo comunicato, hanno ribadito che le annunciate dimissioni dalla giunta esecutiva centrale (Gec) dell' Associazione nazionale magistrati non sono un' ammissione di correità. Anzi. Quelli che emergono dalle chat sono comportamenti esecrabili, ma «diversi da quelli che giustificano le dimissioni di componenti del Csm», hanno sottolineato. Purtroppo per loro la corrente centrista di Unicost, che stava con Area nella Gec, ha avuto l' ardire di assimilare le vicende di un anno fa a quelle attuali e di chiedere a tutti «una seria e profonda autocritica». Un appello interpretato da Area come un segnale di cedimento rispetto alla «posizione di fermezza» assunta un anno fa di fronte alle riunioni dello Champagne. Sul punto le toghe di sinistra non ammettono tentennamenti, nemmeno da parte degli alleati: «Per questo e solo per questo il presidente Luca Poniz e il gruppo di Area Dg (Democratica per la giustizia, ndr) si sono visti costretti a fare un passo indietro». Ma questa attività di spaccatura del capello sta dividendo la base. Il 21 maggio l' assemblea della sezione di Reggio Calabria di Area ha registrato meno certezze: «Il senso di disorientamento e sconcerto che pervade l' animo della gran parte di noi non è sufficientemente rappresentato dal documento del coordinamento nazionale di Area». si legge in una nota. Secondo i partecipanti «i comportamenti individuali di alcuni magistrati, anche appartenenti al gruppo di Area [] creano un problema per l' immagine di imparzialità e di trasparenza della magistratura italiana». La ricetta per tornare a essere credibili è la seguente: «Sono necessari un confronto leale, sincero e responsabile con i nostri rappresentanti al Consiglio e un' autocritica reale che, affrontando seriamente il nodo dei rapporti impropri non giustificati da motivi istituzionali, non si traduca in una scontata autoassoluzione [] è necessario che ciascun magistrato e, ancor più, chi guida i gruppi associativi adotti comportamenti responsabili e deontologicamente corretti». Anche tre candidate di Area per il rinnovo del consiglio giudiziario del distretto di Napoli (Gabriella Nuzzi, Annalaura Alfano e Gloria Sanseverino) hanno stigmatizzato l' autoindulgenza della loro corrente e annunciato il ritiro dalla corsa per il seggio: «Dopo la diffusione, nelle ultime settimane, delle notizie su fatti inediti emersi dalle indagini della Procura di Perugia, il coordinamento nazionale di Area Dg ha emesso un comunicato auto assolutorio mentre Magistratura democratica ha scelto di restare in silenzio. Invece, secondo noi, i fatti che stanno emergendo [...] hanno assunto dimensioni di tale gravità ed estensione da aver coinvolto anche magistrati che rappresentano la magistratura progressista». Le tre segnalano la «degenerazione etica» di un sistema di potere che, a loro giudizio, avrebbe «contaminato anche settori» dei giudici di sinistra. Se il documento ufficiale di Area «rivendica una discontinuità» rispetto al passato, alle tre signore sembra che le vicende emerse dalle indagini e «alcune scelte recenti per importanti incarichi direttivi appaiano avvenire, al contrario, nel segno delle stesse logiche del passato». Le magistrate condannano l' ipocrisia dei loro dirigenti: «Non basta fare proclami sui valori, puntare il dito contro gli altri, quando poi, in realtà, si nasconde la polvere sotto al tappeto nel momento in cui dovremmo, invece, farci carico della questione morale in magistratura». Una riflessione che porta all' inevitabile passo indietro: «È pertanto, con profonda amarezza, ma anche consapevoli del fatto che non possiamo rappresentare gruppi che sembrano aver smarrito la propria identità originaria, che abbiamo deciso di ritirare la nostra disponibilità a candidarci».

Paolo Vites per ilsussidiario.net il 25 maggio 2020. “Non siamo più da 40 anni in uno stato di diritto, c’è un conflitto di poteri, non c’è più la Costituzione, è una guerra per bande a cui i magistrati partecipano”. Così ci ha detto in questa intervista Frank Cimini, ex giornalista del Mattino di Napoli che ha seguito le cronache di Tangentopoli e che ora ha un blog, giustiziami.it. Siamo davanti al rischio dello scioglimento della giunta dell’Associazione nazionale magistrati dopo la pubblicazione di una serie di intercettazioni telefoniche che coinvolgono anche la corrente progressista delle toghe. Si sono già dimessi il presidente della corrente di Area e il segretario di quella di Unicost, restano solo quelle di Autonomia e Indipendenza. Tutto si fa risalire allo scandalo cosiddetto delle vacche, ci ha detto ancora Cimini, che vede coinvolto il magistrato Luca Palamara, il quale non è che uno capro espiatorio: “La magistratura oggi è una forza politica per conto suo senza appartenenze di partito. Si muove per accrescere il suo potere nella politica, questa è la vera lezione di Mani Pulite che nessuno vuole capire”.

Cosa sta succedendo? Perché si parla di scioglimento di Anm e chi comanda?

«Comanda la magistratura associata, quella maggiormente politicizzata. Si sta rivelando una situazione di grande caos, temo per loro che la cosa stia sfuggendo di mano. Probabilmente per noi cittadini è perfino bene che questo accada. Ci sono state tante, troppe forzature».

Ad esempio?

«Già quando è scoppiato lo scandalo del mercato delle vacche (il cosiddetto scandalo in seguito alle intercettazioni telefoniche del magistrato Luca Palamara, ndr) la cosa alla fine è stata dimenticata grazie all’aiuto dei giornali, che l’hanno silenziata e zittita. Si scopre oggi, da quei pochi giornali che hanno pubblicato le intercettazioni telefoniche, che anche i giornalisti giudiziari ci sono dentro fino al collo».

Come mai?

«Dalle parole che si sentono si vede che c’è un rapporto di complicità, si mettono d’accordo su quello che devono scrivere, parteggiano per l’uno o per l’altro. Questo finisce per inquinare tutto».

Il caso Palamara viene indicato come il momento da cui è scaturito tutto. È così?

«Sì, è stato l’inizio. Non so se sarà condannato, benché abbia delle colpe; le accuse più gravi sono cadute. Non si è cioè in grado di dimostrare la corruzione. Lui comunque è il capro espiatorio. Viene usato da tempo per scaricare tutto su di lui. Non siamo davanti a un caso Palamara, ma un caso magistratura».

Come si è arrivati a questo punto e quale corrente influenza di più quanto succede nel Consiglio superiore della magistratura?

«Fino ad adesso l’uomo forte del Csm è Davigo. Più che la sua corrente è lui, però ha un problema. A ottobre compie 70 anni e deve andare in pensione. Lui dice che essendo un incarico elettivo ha diritto a portarlo a termine, ma essendo stato eletto in quanto magistrato non può restare».

Perché non vuole lasciare?

«Non vuole andare via perché se si dimette subentra un collega che non la pensa come lui. Questo è un vero scandalo di cui non si parla. La colpa non è solo sua, ma le autorità di controllo, gli organismi istituzionali hanno il dovere di chiarire questa cosa. Non si può aspettare ottobre, il caso riguarda gli equilibri del Csm. Quello che sta succedendo adesso non dipende dal solo Davigo ma da quello che si permette a Davigo di fare».

La gente si chiede se la magistratura è influenzata dalla politica o è una forza politica autonoma. Come stanno le cose?

«È una forza politica per conto suo senza appartenenze. Si muove per accrescere il suo potere nella politica, questa è la vera lezione di Mani Pulite che nessuno vuole capire o accettare. La magistratura con Mani Pulite è diventata da ordine giudiziario a potere giudiziario incontrollato e incontrollabile».

Ci spieghi.

«Con Mani Pulite la magistratura deve riscuotere i crediti che ha acquisito negli anni di piombo, vuole comandare; mentre la politica è sempre più debole. Quando la politica è debole comandano il capitalismo finanziario, i grandi gruppi, e i magistrati. In questo caos non c’è nessuna forza politica che dica ai magistrati: siete come noi, anzi siete peggio di noi».

E perché questo accade?

«Perché i politici vengono eletti, i magistrati invece vincono dei concorsi e hanno un potere smisurato che nessuno riesce a controllare».

Cosa dovrebbe fare il capo dello Stato, che da Costituzione presiede il Csm?

«Il capo dello Stato brilla per il suo silenzio. Parlando alla commemorazione di Falcone e Borsellino ha detto banalità, acqua fresca. Lui in questo momento è il capo supremo, dovrebbe intervenire e invece si limita a far trasparire dai quirinalisti il suo malumore. Non basta. Presiede il Csm, ha il dovere di parlare. Aveva parlato tempo fa dicendo di cambiare registro, ma il registro non è cambiato. Dovrebbe intervenire e indicare delle soluzioni».

Ritiene sia un problema caratteriale o politico?

«Ma no, lui fa così perché non sa cosa fare. Poi ci sono i suoi collaboratori in materia di giustizia che dalle intercettazioni si capisce che prendono parte alla baruffa, sfruttano il loro potere per intervenire e il caos aumenta. Dovrebbe mandarli tutti a casa».

Come valuta in questo frangente la posizione di David Ermini, vicepresidente del Csm?

«Anche lui non fa una bella figura. Le correnti non hanno da tempo più nulla del loro carattere originario di confronto fra idee, sono organismi di potere, si condizionano le une con le altre. È una sorta di asilo Mariuccia, si dispiacciono per non essere stati invitati a una cena».

Siamo ancora in uno Stato di diritto?

«No, non siamo da 40 anni in uno stato di diritto. C’è un conflitto di poteri, non si osserva più la Costituzione, è una guerra per bande a cui i magistrati partecipano».

Chi può mettere fine al potere delle correnti interne all’Anm?

«È difficile capirlo a questo punto. Tutte le correnti hanno le loro responsabilità non si vede una via di uscita anche perché Mattarella tace. La responsabilità politica è tutta sua, dovrebbe dire qualcosa e invece fa finta di niente».

Luca Poniz (Anm): “A troppi magistrati interessa più la carriera che il lavoro”. Il Corriere del Giorno il 25 Maggio 2020. “Serve chiarezza” dice al Corriere: “Non lascio certo per responsabilità nel caso Palamara, ma per tutelare l’Anm. Siamo indisponibili a qualsiasi giunta”. “Mi sono dimesso non certo per responsabilità nella vicenda emersa dalle intercettazioni di Luca Palamara, perché non ne ho. Ma perché per affrontarla non ci sono più le condizioni. Innanzitutto la coesione. La timida reazione di Unicost riguardo alle presunte conversazioni di magistrati di quella corrente con Palamara ci ha fatto capire che non ci sono i presupposti né per affrontare la questione morale, né per fare nulla”. Sono le parole di Luca Poniz presidente dimissionario dell’Anm in un’intervista rilasciata al quotidiano Corriere della Sera. “Abbiamo chiesto e ottenuto le dimissioni di consiglieri Csm, e del procuratore generale di Cassazione. Certo non abbiamo potere legislativo, ma di proposta. E dopo le prime intercettazioni ne abbiamo fatte alcune importanti al ministro della Giustizia. – continua Poniz – E poi sulla riforma del Csm e sui meccanismi di elezione. Sugli incarichi apicali: nessuno dopo averlo ottenuto ora vuole tornare a fare il semplice sostituto come prevede la Costituzione. E appena nominato può addirittura concorrere a un altro”. “Fin quando ai magistrati sembra interessare più la carriera che il lavoro, il problema c’è. Questo l’ho detto dall’inizio del mio mandato. Ma per questo serve uno sforzo diffuso di coraggio e un’assunzione di responsabilità collettiva – aggiunge Poniz parlando poi delle correnti – L’unico che riuscì a ottenerlo fu il regime fascista. Queste smemoratezze sono pericolose. Noi ci siamo dimessi anche per tutelare l’Anm, che non rischia nessuno scioglimento”. “Il rapporto con la politica è già disegnato nelle regole del Csm, con le componenti togata e laica. La relazione dovrebbe esaurirsi lì. Due magistrati possono certamente vedersi a cena e parlare di nomine, ma non può avere voce una persona esterna al Csm – continua Poniz – Si discute molto dei togati, ma non ci si preoccupa che negli anni la componente togata ha espresso candidati molto più vicini alla politica di quanto fosse in passato. Il presidente della Repubblica ha ben individuato gli indici per il ripristino della legalità”. E in merito alle intercettazioni Poniz conclude affermando che “quando avrò padronanza completa di quello che è avvenuto ne parleremo a lungo. Noi abbiamo chiesto quelle chat e i colloqui intercettati, ancora prima che venissero pubblicate sui giornali, ma non ce li hanno mandati. Lo abbiamo chiesti perché come Anm siamo una potenziale parte lesa. Mi chiedo a quale titolo l’abbiano avuta i giornalisti”.

Csm, ecco le intercettazioni che inguaiano il procuratore generale Riccardo Fuzio. Fuzio, procuratore generale della Cassazione, parla con Palamara: sul nuovo capo della procura di Roma «bisogna lavorare sui numeri». Il giudice svela all'amico indagato le notizie sull’inchiesta di Perugia: «Ci stanno le cose con Adele…e il viaggio a Dubai…se favorivi Longo, ti arrestavano». Emiliano Fittipaldi l'01 luglio 2019 su L'Espresso. Riccardo Fuzio è uno dei più importanti magistrati italiani. Procuratore generale della Cassazione, e dunque membro di diritto del Consiglio superiore della magistratura, è intervenuto duramente nello scandalo che ha travolto l'organismo di autogoverno delle nostre toghe. È Fuzio, capo della sezione disciplinare, che qualche giorno fa ha infatti chiesto la sospensione facoltativa dalle funzioni (e dallo stipendio) di Luca Palamara, il pm di Roma indagato dalla procura di Perugia per corruzione e protagonista dei dopocena carbonari con alcuni giudici del Csm e politici del Pd (Luca Lotti e Cosimo Ferri). Incontri organizzati per discutere (e orientare) sia le nomine dei capi delle procure italiane (in primis quella di Roma) sia dei dossieraggi contro i magistrati che avevano causato guai giudiziari a Palamara. È ancora Fuzio, nell'atto di incolpazione a carico di cinque togati del Csm, che ha attaccato il renziano Lotti, imputato nella Capitale per il caso Consip, affermando che «si è determinato l'oggettivo risultato che la volontà di un imputato abbia contribuito alla scelta del futuro dirigente dell'ufficio di procura deputato a sostenere l'accusa nei suoi confronti». Lo tsunami che si è abbattuto sulla giustizia italiana, però, è pieno di paradossi. E così adesso lo stesso accusatore rischia di finire trascinato nello scandalo. I giornali due settimane fa avevano già dato conto di un incontro tra lo stesso Fuzio e Palamara, avvenuto il 27 maggio, e di un'intercettazione tra Palamara e Luigi Spina, ex membro del Csm in cui il secondo spiegava al primo che Riccardo Fuzio, in un sms mandato dall'estero, gli aveva detto di riferire a Luca «di non fare niente...quando torno lo chiamo». Fuzio non s'è scomposto, ed è rimasto al suo posto. Ora però l'Espresso ha letto le trascrizioni integrali di un altro rendez vous tra Fuzio e Palamara. In cui il procuratore generale della Cassazione sembra svelare all'amico pm notizie riservate sull'inchiesta di Perugia che lo riguarda, e discutere dell'esposto di Stefano Fava (pm amico di Palamara e adesso indagato per favoreggiamento) contro i colleghi Paolo Ielo e Giuseppe Pignatone. Non solo. Fuzio e Palamara ragionano anche del risiko delle nomine dei procuratori capo della Capitale e di Perugia. Come membro del Csm, il procuratore generale della Cassazione nei giochi di Palamara conta molto: il suo voto (o la sua astensione, come ipotizza di fare all'amico il magistrato indagato) nel plenum del Csm può essere decisivo. Così i due discutono nei dettagli delle preferenze che i candidati più forti (Viola, Creazzo e Lo Voi) potrebbero prendere nel plenum. E di quali strategie migliori usare per accordare le varie correnti. «Il problema sintetizza Fuzio a Palamara – è lavorare sui numeri. Questo è il problema». Andiamo con ordine, partendo dal principio. Sono le 22 del 21 maggio scorso. Il Gico della Guardia di Finanza ascolta, tramite il trojan inoculato nel cellulare di Palamare la conversazione  tra Palamara e “Riccardo”, che gli investigatori identificano con Fuzio. Quest'ultimo accenna con l'indagato dell'esposto di Fava appena arrivato al Csm contro Ielo e Pignatone, parla senza remore dei guai giudiziari del magistrato, e di presunti conflitti d'interesse del fratello di Pignatone con Piero Amara.

«Non ho capito» comincia Riccardo «Mi avete detto prima di farlo presto, ora che facciamo presto...perché si sono spaventati di questo fatto che può venire fuori uno sputtanamento su di te...nessuno me l'ha detta questa storia di Fava, perché Fava è fermo...»

PALAMARA: «E cioè mi devi fare capire, ora fammi capire tutto...Perché io...se c'ho da preoccuparmi...ma tu l'hai letto? Le carte che dicono?»

RICCARDO: «Per questa cosa che ho detto...è una cosa che invece era nota a tutti perché non solo...ma era...a patto che la nota è indirizzata a quattro persone della procura e quindi tra questi sta Cascini (Giuseppe, membro del Csm ndr) e lui sa bene di questa cosa qua...però se ne tiravano fuori...“no, ma io non sapevo”...

PALAMARA: «Ma chi cazzo ohhh»

RICCARDO: «Però io a lui (presumibilmente Cascini, o altro membro del Csm ndr) l'ho rassicurato, gli ho detto guarda...e lui mi ha rassicurato...quando dicono, ma l'informativa...è chiaro che l'informativa è partita, poi bloccata... “non si può”...»

PALAMARA: «Su Pignatone gli ho detto pure: “Ma che sta a dì oh...ma che cazzo sta a dì?”...ma lui...ma che il fratello di Pignatone prende i soldi da lui (Amara, ndr) questo non lo sconvolge fammi capì? Si preoccupa solo di me lui...ma che cacchio di ragionamento è?»

RICCARDO: «Ma il fratello di Pignatone pigliava i soldi da Amara?»

PALAMARA: «Eh»

RICCARDO: «Cioè, ma lui gli atti...»

PALAMARA: «Eh ho capito ma bisogna spiegargli la situazione se no così che facciamo? Oggi è venuto Bianconi a dirmi che sono arrivate le carte da Perugia...chi glielo ha detto oh? E lui non può fa così...cioè, quando gli servono i voti...»

Fuzio ascolta attentamente l'amico indagato per corruzione. Dice di aver spiegato a qualche collega del Csm che la storia di Palamara è diversa da come la raccontano i pm perugini, «...“perché non conoscete la realtà...» ecita Fuzio «”Guarda i passaggi sono questi e quindi tu mi devi dire come un anno non esce nulla...la mossa della tempistica come pensate di gestire? Voi ritenete che questa tempistica sia contro Luca?” Evidentemente non sappiamo come vogliono gestire questa cosa...se vuole essere un condizionamento...poi non potevo dire chiaramente Viola non Viola...».

Palamara è assai preoccupato dell'informativa dei pm di Perugia. Come è noto, al centro delle accuse di corruzione ci sono i suoi rapporti con Fabrizio Centofanti. Quest'ultimo avrebbe fatto favori di vario tipo a Palamara, che in cambio di viaggi e altre utilità avrebbe venduto all'imprenditore la sua funzione di magistrato.

PALAMARA: «Perché almeno l'unico modo per controbattere l'informativa è poter darle l''archiviazione, se no che cazzo faccio giusto? Però rimane l'informativa che mi smerda...nessuno gli dice questa cosa qui, questo è gravissimo...qualcuno glielo deve dire, cioè o gli dici chiaro, sennò veramente io perdo la faccia...mi paga il viaggio, l'informativa non l'ho mai letta, non si sa di che importo si parla...qual è l'importo di cui si parla? Si può sapere?

RICCARDO: «mahhh»

PALAMARA: «Cioè io non so nemmeno quanto è l'importo di cui parliamo»

RICCARDO: «Si...ci stanno le cose con Adele (cara amica di Palamara a cui, secondo le accuse, Centofanti compra un anello, e regala soggiorni ndr)

PALAMARA: «Cioè...almeno tu...ma le cose con Adele...»

RICCARDO: «E il viaggio a Dubai...»

PALAMARA: «Viaggio a Dubai...Quant'è? Ma quanto cazzo è se io...allora...»

PALAMARA: «E di Adele...cioè in teoria...va bè me lo carico pure io...quanto..quant'è, a quanto ammonta?»

RICCARDO: «Eh...sarà duemila euro».

Duemila euro. Esattamente la cifra contestata dai pm umbri per l'acquisto di un presunto anello da parte di Centofanti per Adele Attisani. I due poi parlano delle relazioni pericolose tra lo stesso Palamara, gli imprenditori Pietro Amara e Giuseppe Calafiore e il pm corrotto Giancarlo Longo (che ha detto a verbale come Palamara avrebbe avuto 40 mila euro da Amara e Calafiore per favorire la sua nomina a procuratore di Gela).

PALAMARA: «Io che cazzo ne so Riccà...ma io non ho assolutamente...che c'entro io...»

RICCARDO: «..era Longo o...»

PALAMARA: «A sì certo...e ma io...l'abbiamo condannato...cioè, ma io non ho...»

RICCARDO: «E Longo l'avete condannato?»

PALAMARA: «Certo...non ha mai fatto...certo gli ho detto, che faccio? Le faccio. Non le ho mai fatte perché la mia linea è stata quella di fare il processo a Scavoli, di fare il processo alla Righini, li ho fatti tutti...quindi non mi sono mai accanito...cioè non è che sono andato...cioè tu dici che non dovevo proprio vedè le carte lì...

RICCARDO: «No no no»

PALAMARA: «Eh..ero consigliere...»

RICCARDO: «Da quelle carte...che Longo le spulciava...»

PALAMARA: «Il collegamento Centofanti-Longo, sì, ma io...cioè...era un rapporto...io dovevo giudicare Longo non...(incomprensibile, ndr) se avessi favorito Longo!»

RICCARDO: «Sì, ti arrestavano»

PALAMARA: «Allora mi arrestavano».

Il procuratore generale della Cassazione e Palamara parlano poi delle nomine. Leggendo le trascrizioni, sembra di essere a un suk, un mercato delle vacche. Con Fuzio che dà più di un consiglio, e con la coppia che si mette a fare i conti sulle possibili decisioni del plenum del Csm in merito alle votazioni finali. Ipotizzando scenari diversi e alleanze tra Unicost, la corrente di centro di cui Palamara è re indiscusso, Magistratura indipendente, quella più spostata a destra, e Area, la corrente di sinistra.

RICCARDO: «...Cascini a un certo punto...non vuole...non vuole Lo Voi»

PALAMARA: «Ma è chiaro...sa che ci sto io sopra...»

RICCARDO: «Perché neanche loro...allora dice...a questo punto sono iniziati di teatri, ma alla catanese...io gli ho spiegato...dico guarda...il problema è questo, che loro mettono subito...calano le braghe su Creazzo...però, se tiene, è chiaro che...si può anche non sfidare...»

PALAMARA: «Unicost...Area o Uni...cioè tu dici...»

RICCARDO: «no: Unicost – MI»

PALAMARA: «E come fai? Se non...»

RICCARDO: «Portano...portano Creazzo, dopo vogliono Viola»

PALAMARA: «E Area?»

RICCARDO: «A quel punto Area si toglie...può anche votare...ti dirò di più...»

PALAMARA: «Lo Voi?»

RICCARDO: «No...può votare Creazzo, ma a questo punto se loro sono d'accordo con i movimenti (intende verosimilmente la corrente Movimento per la Giustizia, ndr)...questa cosa, cioè il ritardo può anche...questo, che anche se votano Creazzo pure quattro noi, cinque e quattro nove...MI, Area e...e i tre grillini votano Viola, si va in plenum e a quel punto non esce...

PALAMARA: «Appunto»

RICCARDO: «Oppure devono entrare...devono rimanere in tre per fare il ballottaggio»

PALAMARA: «Ma noi dobbiamo...c'abbiamo il consenso, è l'unica cosa, come al solito a quel punto, per salvare il gruppo, cade su di te...ma pure, puoi tenere su Creazzo? In plenum? Come fai? Ce la potresti fare, diglielo a Crini, ma succede un macello se perde con l'astensione tua e vince Viola, è peggio ancora...perché se io dico, non hai capito..se io dico...noi facciamo Viola a Roma tramite l'astensione di Riccardo...va bene, è il gioco delle parti, loro lo sanno e stiamo a posto e tu, io...potresti fare»

RICCARDO: «Cinque e quattro nove»

PALAMARA: «Vanno 5 di Unicost...quattro i Ara...e sono nove, Cerabona dieci...bisogna vedè che cosa fa Ermini...Si astiene giusto?

RICCARDO: «Ermini si dovrebbe astenere»

PALAMARA: «Ermini si dovrebbe astenere, almeno quello...visto che mo' è scandalizzato da me, dalla cosa e tutto quanto che fa? Allora se tu ti astieni non può mai vincere Creazzo...»

Palamara e Fuzio continuano a fare calcoli. Il procuratore generale della Cassazione dice che «Giglioti è quello che mi ha fatto tradire la Grillo», e che «il problema è lavorare sui numeri, questo è il problema». Palamara è ottimista, e chiude dicendo che «da stasera, cambia tutto».

Luca Palamara intercettato con Luigi De Ficchy, il magistrato "telecomandato e influenzabile" che indagava su di lui. Libero Quotidiano il 25 maggio 2020. Tra coloro che comunicavano con Luca Palamara, sia tramite l'applicazione Whatsapp che mediante chiamate vocali, c'era anche il procuratore di Perugia, Luigi De Ficchy. Quest'ultimo, fino al giugno 2019, ha tra l'altro condotto un indagine proprio sul pm Palamara. In un'intercettazione telefonica risalente al 16 maggio 2016 - rivela La Verità -, Palamara etichetta De Ficchy come un "telecomandato" nonché "influenzabile" per via dei suoi presunti rapporti con alcuni personaggi coinvolti in varie inchieste. I contatti tra Palamara e De Ficchy proseguono fino al 15 giugno. Il procuratore di Perugia risponde di non ricordare i tempi e che comunque "questo non significa niente". Alla domanda del perché intratteneva rapporti così intensi con Palamara, De Ficchy risponde che "era un collega, è normale che ci siano state delle conversazioni. Lui aveva rapporti con tutto il mondo. In certi uffici è normale. Adesso pure questo diventa un problema?". In merito alla presunta chiacchierata sull'inchiesta di Perugia, De Ficchy perde la pazienza: "Sicuramente non è stato informato da me. Mi perdoni, chiudiamo questa conversazione, lei parla con De Ficchy, se lo ricordi".

Palamara parlava anche con il giudice che indagava su di lui. Tra coloro che comunicavano con Palamara c'era anche il procuratore di Perugia, Luigi De Ficchy. Quest'ultimo, fino al giugno 2019, ha condotto un indagine proprio sullo stesso Palamara. Federico Giuliani, Domenica 24/05/2020 su Il Giornale. Le chat con cui il pm Luca Palamara attaccava il leader della Lega, Matteo Salvini, hanno scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora. Secondo quanto riferito dal quotidiano La Verità, tra coloro che comunicavano con Palamara, sia tramite l'applicazione Whatsapp che mediante chiamate vocali, c'era anche il procuratore di Perugia, Luigi De Ficchy. Quest'ultimo, fino al giugno 2019, ha tra l'altro condotto un indagine proprio sul pm Palamara. Riavvolgiamo il nastro e cerchiamo di mettere insieme tutti i tasselli del mosaico. I contatti della chat depositata agli atti prendono il via il 6 febbraio 2018. Quel giorno la Procura di Roma arresta Fabrizio Centofanti, un imprenditore amico sia di De Ficchy che di Palamara. Tutto si interrompe il 15 giugno 2018, quando l'informativa riguardante i rapporti tra lo stesso Palamara e Centofanti era già arrivata a Perugia.

Le conversazioni e la difesa di De Ficchy.  Ebbene, in un'intercettazione telefonica risalente al 16 maggio 2016, Palamara parla con il pm Steafno Fava ed etichetta De Ficchy come un "telecomandato" nonché "influenzabile" per via dei suoi presunti rapporti con alcuni personaggi coinvolti in varie inchieste. Stiamo parlando del commercialista Maurizio Sinigagliesi, nome citato da Fava nell'intercettazione, e, appunto, Fabrizio Centofanti, presunto corruttore di Palamara. Fava chiede a Palamara "fino a quanto si è lasciato coinvolgere su questa cosa", riferendosi a De Ficchy. La risposta del pm è chiara ed emblematica: "Totale, e te lo sto dicendo, totale De Ficchy conosce benissimo Fabrizio". In un altro passaggio, si parla dell'arresto di Centofanti: "De Ficchy, dall'8, quando lo avete arrestato, quel febbraio del 2018, veniva ogni venerdì [] per parlarmi". Il pm spiega nel dettaglio: "In prima di Genar (fonetico) e poi di Centofanti e del perché lo avevano arrestato e perché è una brava persona e tutto quanto [] e poi mi rompeva sempre che voleva, ti ho detto, quelle carte da Tivoli, che lo riguardavano [] carte che io gli do va bene?". Il riferimento è a un'inchiesta giornalistica riguardante una fuga di notizie. I contatti tra Palamara e De Ficchy proseguono fino al 15 giugno. Il procuratore di Perugia risponde di non ricordare i tempi e che comunque "questo non significa niente". Alla domanda del perché intratteneva rapporti così intensi con Palamara, De Ficchy risponde che "era un collega, è normale che ci siano state delle conversazioni. Lui aveva rapporti con tutto il mondo. In certi uffici è normale. Adesso pure questo diventa un problema?". In merito alla presunta chiacchierata sull'inchiesta di Perugia, De Ficchy perde la pazienza: "Sicuramente non è stato informato da me. Mi perdoni, chiudiamo questa conversazione, lei parla con De Ficchy, se lo ricordi".

 “Nessuno, neanche l’Anm può chiedere gli atti sul caso Palamara”. Il Dubbio il 24 maggio 2020. Anm e Area avevano chiesto gli atti riguardanti il magistrato coinvolto nello scandalo nomine per evitare nuove imbarazzanti fughe di notizie. Ma i legali di Palamara dicono no. “Anche la Anm sembra prevedere il futuro. Attualmente non vi è stata nei confronti del nostro assistito, Luca Palamara, l’esercizio dell’azione penale ed è ancora sua facoltà richiedere di essere ascoltato e di sollecitare l’archiviazione. L’Anm, dunque, non riveste alcuna delle qualità previste dal codice per poter accedere agli atti”. Lo affermano gli avvocati Roberto Rampioni e Mariano e Benedetto Buratti, difensori del pm di Roma Luca Palamara. La replica arriva dopo la richiesta, prima delle sue dimissioni, dell’ex presidente dell’Anm Luca Poniz che chiedeva di poter conoscere nel dettaglio il fascicolo della procura di Perugia su Luca Palamara: “Abbiamo chiesto gli atti il 4 maggio scorso prima che su alcuni giornali venissero pubblicati stralci di conversazioni – ha ricordato – Non abbiamo ricevuto risposta per cui giovedì scorso abbiamo nominato un difensore che ha già interloquito con la procura”. Una richiesta reiterata anche dai magistrati di Area: “E’ necessaria l’integrale e pubblica conoscenza degli atti del fascicolo di Perugia”, la cui richiesta è stata avanzata dall’Anm come persona offesa, perché così “sarebbe interrotta l’operazione in atto che mira a screditare più che a informare”, avevano sottolineato i magistrati di Area. “Rispetto alle recenti cronache, ribadiamo di esserci schierati contro le degenerazioni correntizie e che l’attuale autogoverno si è sempre impegnato a prendere le distanze da tali pratiche”, ricorda Area aggiungendo: “Constatiamo il proseguimento di operazioni mediatiche per accreditare la falsa idea secondo cui le vicende dell’albergo Champagne coinvolgerebbero tutti i gruppi della magistratura”, tentativo che Area respinge perché “quelle vicende in nessun modo ci hanno coinvolto”. “Non ci esimiamo dall’assunzione di responsabilità”, chiariscono le toghe progressiste, perché “abbiamo sempre riconosciuto che il nostro gruppo non è stato in passato estraneo a certe pratiche, ma rivendichiamo di aver intrapreso, ben prima dei fatti di maggio scorso, un rinnovamento”. Adesso, concludono, è necessaria “una riflessione di tutta la magistratura”, e “collaboreremo con Anm e tutti i gruppi disponibili al cambiamento” perché “l’autogoverno torni ad essere di e per tutti e non ostaggio di correnti e potentati trasversali che a maggio cercavano di soggiogarlo e oggi cercano una improbabile rivincita”.

Terremoto nell’Anm dopo il caso Palamara, si dimettono presidente e segretario. su Il Dubbio il 23 maggio 2020. La decisione presa dagli interi gruppi di Area (di cui fa parte Poniz) e di Unicost (di cui fa parte Caputo) di uscire dalla Giunta. Dopo quasi 10 ore di Comitato direttivo centrale, hanno rassegnato le dimissioni il presidente dell’Anm, Luca Poniz, e il segretario generale, Giuliano Caputo. All’ordine del giorno c’era la mozione con la quale Magistratura indipendente chiedeva l’anticipo a luglio delle elezioni del Comitato (fissate per il 18, 19 e 20 ottobre prossimi dopo il primo rinvio legato all’emergenza coronavirus), motivandolo con la pubblicazione di alcune conversazioni del “caso Palamara” che avrebbero di fatto delegittimato la Giunta coinvolgendo alcuni suoi componenti. La discussione è andata avanti a lungo e ha visto emergere posizioni sempre più distanti, con la decisione degli interi gruppi di Area (di cui fa parte Poniz) e di Unicost (di cui fa parte Caputo) di uscire dalla Giunta. Nella votazione finale l’anticipo delle elezioni è stato respinto (19 no, 7 sì e 8 astenuti) mentre il Cdc è stato aggiornato a lunedì 25 maggio alle 19. Con le dimissioni dei componenti di Area e Unicost, la giunta rischia lo scioglimento. I gruppi si sono dati 48 ore di tempo per tentare una ricomposizione che consenta di arrivare a ottobre, quando si voterà (il 18, 19 e 20).

La posizione di Magistratura Indipendente. Magistratura indipendente, gruppo che aveva lasciato la giunta unitaria lo scorso anno, aveva chiesto che si votasse prima ritenendo «delegittimata» l’attuale giunta, già in regime di proroga dopo lo slittamento del voto, originariamente previsto a marzo, a causa dell’emergenza sanitaria, e denunciando la mancanza di una presa di posizione netta di quanto emerso dalle ultime intercettazioni, nelle quali compaiono i nomi di esponenti di Area, rispetto a quanto accaduto un anno fa, con lo scandalo sulle nomine e la bufera che ha travolto il Csm. Un’accusa respinta con forza dal presidente Luca Poniz che ha rivendicato «una posizione politica chiara» e replicato che «Mi non ci può incalzare su una presunta contraddizione». La segretaria di Magistratura Indipendente, Paola D’Ovidio, ha negato che ci sia stato «lo stesso rigore» e ha invece denunciato «un metodo diverso» nella gestione delle situazioni, citando a esempio il mancato coinvolgimento dei probiviri sui fatti recenti, al contrario di quanto accaduto a maggio dello scorso anno, quando tutti i magistrati coinvolti furono deferiti davanti al collegio. Da parte sua il segretario, Giuliano Caputo, ha sottolineato che «quanto emerso ora è molto diverso da quanto accaduto lo scorso anno, ma sono fatti che noi non ignoriamo».

La posizione di Area. È necessaria «l’integrale e pubblica conoscenza degli atti del fascicolo di Perugia», la cui richiesta è stata avanzata dall’Anm come persona offesa, perché così «sarebbe interrotta l’operazione in atto che mira a screditare più che a informare». A sottolinearlo sono i magistrati di Area. «Rispetto alle recenti cronache, ribadiamo di esserci schierati contro le degenerazioni correntizie e che l’attuale autogoverno si è sempre impegnato a prendere le distanze da tali pratiche», ricorda Area aggiungendo: «Constatiamo il proseguimento di operazioni mediatiche per accreditare la falsa idea secondo cui le vicende dell’albergo Champagne coinvolgerebbero tutti i gruppi della magistratura», tentativo che Area respinge perché «quelle vicende in nessun modo ci hanno coinvolto». «Non ci esimiamo dall’assunzione di responsabilità», chiariscono le toghe progressiste, perché «abbiamo sempre riconosciuto che il nostro gruppo non è stato in passato estraneo a certe pratiche, ma rivendichiamo di aver intrapreso, ben prima dei fatti di maggio scorso, un rinnovamento». Adesso, concludono, è necessaria «una riflessione di tutta la magistratura», e «collaboreremo con Anm e tutti i gruppi disponibili al cambiamento» perché «l’autogoverno torni ad essere di e per tutti e non ostaggio di correnti e potentati trasversali che a maggio cercavano di soggiogarlo e oggi cercano una improbabile rivincita».

Claudio Martelli, proposta estrema dopo le chat togate contro Salvini: "Anm parassita lo Stato, va sciolta". Libero Quotidiano il 23 maggio 2020. Tra intercettazioni, dimissioni e scarcerazioni la giustizia italiana ha probabilmente toccato uno dei punti più bassi della sua storia. Le chat private di alcuni magistrati che esprimono giudizi pesanti su Matteo Salvini sono state l’ultimo durissimo colpo alla credibilità della giustizia. Claudio Martelli, ex guardasigilli ai tempi del governo Craxi (1991-1993) ha commentato lo scambio di messaggi tra Luca Palamara e Paolo Auriemma: “Da Palamara che cosa vuole aspettarsi? In questa situazione bisognerebbe arrivare a un rimedio decisivo. È del tutto evidente che l’Anm è diventata un’organizzazione che parassita lo Stato e permette di condizionare le scelte del Csm, perché influisce sull’elezione dei suoi membri. Si comporta come un partito politico. Contesta le decisioni del Parlamento, del governo e del ministro della Giustizia ogni due minuti. È un organismo che non si capisce più bene che cos’è, ma che comunque sembra votato a mal fare”. Come si risponde ad una situazione del genere? Per Martelli c’è solo una cosa da fare: “L’Anm andrebbe sciolta. Fa del male ai magistrati e alle istituzioni, dunque è una minaccia”. 

Giustizia, giunta Anm a rischio scioglimento dopo le dimissioni delle correnti Area e Unicost. Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 da La Repubblica.it. La giunta dell'Associazione nazionale magistrati ora rischio lo scioglimento. Dopo la pubblicazione delle ultime intercettazioni che coinvolgono anche la corrente progressista delle toghe, Area- nell'ambito dell'inchiesta che ha travolto l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara - la Giunta dell'associazione è ora a uno passo dallo scioglimento. Oggi si sono dimesse a corrente di Area e quella di Unicost, con il presidente Luca Poniz e il segretario Giuliano Caputo. La riunione delle toghe è durata oltre nove ore e il parlamentino è stato aggiornato a lunedì per trovare un accordo su nuovi equilibri o per ricompattare la Giunta. All'interno della Giunta  al momento resta solo la corrente di Autonomia e Indipendenza. Domani i gruppi faranno valutazioni interne per capire come proseguire e vedere se c'è una nuova maggioranza o equilibri tali per cui una nuova giunta possa traghettare l'Anm fino alle nuove elezioni a fine ottobre. Il consiglio del comitato direttivo centrale dell'Anm è stato convocato per lunedì, alle 19.

Le mire di Palamara  e le trame tra correnti: «Non mollo, mi devono uccidere». Pubblicato domenica, 24 maggio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. «E secondo te io mollo? Mi devono uccidere. Peggio per chi si mette contro». Esattamente un anno fa, la mattina del 23 maggio 2019, Luca Palamara si mostrava determinato e combattivo nei messaggi inviati al suo collega (anche di corrente) Cesare Sirignano. La commissione Incarichi direttivi del Consiglio superiore della magistratura aveva appena votato i tre candidati per la guida della Procura di Roma, e in testa risultava Marcello Viola, sostenuto dal gruppo Magistratura indipendente e candidato occulto di Palamara. Ma la battaglia finale si sarebbe combattuta al plenum del Csm, e l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati (nonché ex componente del Consiglio) affilava le armi. Soprattutto contro i togati di Area, il cartello che raduna la sinistra giudiziaria, intenzionati a ostacolare la nomina sponsorizzata da Palamara. Che li apostrofava così: «Sono dei banditi, vergognosi». È un frammento di dialogo che aiuta a comprendere la posta in gioco per la quale l’ex pm oggi indagato per corruzione si preparava alla partita della sua vita. Svelata una settimana più tardi dal decreto di perquisizione con cui la Procura di Perugia rivelò non solo l’inchiesta a suo carico, ma pure le trame occulte con cui Palamara stava pilotando dall’esterno del Csm la nomina del nuovo procuratore della capitale, insieme ai deputati del Pd Cosimo Ferri (giudice in aspettativa ma capo riconosciuto di Magistratura indipendente) e Luca Lotti. La scoperta di quelle manovre provocò — oltre al terremoto nel Csm, con le dimissioni di tre componenti di Mi e due di Unicost — la prima crisi all’interno dell’Anm: il governo a tre Unicost- Area-Mi- si sfaldò perché Mi fu accusata di non aver reagito con sufficiente fermezza contro i propri consiglieri coinvolti nelle «riunioni segrete notturne» col trio Palamara-Ferri-Lotti, e nacque una nuova giunta sostenuta da Area, Unicost (che invece aveva «epurato» il suo leader e i due componenti del Csm dimissionari) e i davighiani di Autonomia e indipendenza. Un anno dopo siamo daccapo, nuova crisi. Stavolta la rottura è tra Area e Unicost, perché chiusa l’indagine a carico di Palamara sono stati depositati tutti gli atti raccolti dagli inquirenti. Comprese le chat dei dialoghi WhatsApp contenute nel cellulare di Palamara, dal 2017 in avanti; cioè quando Palamara sedeva al Csm(fino a settembre 2018) e governava la magistratura facendo spesso accordi e alleanze con i togati di Area e i laici di centrosinistra (anche perché al fianco di Area aveva già guidato l’Anm, tra il 2008 e il 2012). Risalgono a quel periodo le conversazioni con i colleghi della sua stessa corrente, ma anche di Area e di Mi, che svelano patti e manovre per piazzare questo o quel magistrato nei vari posti, e «fotterne» altri; spartizioni di nomine e incarichi «espressive di un malcostume diffuso di correntismo degenerato e carrierismo spinto, fino a pratiche di vera e propria clientela», per dirla con il comunicato firmato da Area. Che chiedeva prese di posizione più radicali da parte di Unicost, e da qui è nata la seconda crisi nel sindacato dei giudici. Fino all’autunno 2018, quindi, Palamara è stato un alleato della sinistra giudiziaria, e anche da questo derivano gli attacchi al leader leghista Matteo Salvini in alcune conversazioni private. Quando a fine agosto 2018 il procuratore di Viterbo Paolo Auriemma (compagno di corrente, pure lui ex Csm) si schiera al fianco del neoministro dell’Interno finito sotto inchiesta per via dei migranti trattenuti a bordo della nave Diciotti, Palamara gli risponde: «Hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo». Pochi giorni dopo manda una foto dalla festa di Santa Rosalia a Viterbo all’allora presidente dell’Anm (sempre di Unicost) Francesco Minisci, e commenta: «C’è anche quella merda di Salvini ma mi sono nascosto». Minisci risponde con un neutro «Va dappertutto». Qualche mese dopo sarà lui a finire nel mirino di Palamara, che scrive a Sirignano: «Già fottuto Minisci». A fine settembre, terminata l’esperienza al Csm, le alleanze e gli schieramenti cambiano. Perché nel nuovo Consiglio Area non è più l’alleato per lui affidabile di prima; e soprattutto ha capito che non lo sosterrà per l’agognata poltrona di procuratore aggiunto a Roma (lasciata libera dal neo consigliere Giuseppe Cascini, da poco nominato proprio con l’appoggio dell’ex pm che i questo modo aveva preparato la staffetta). Nasce così l’alleanza con Mi e Cosimo Ferri (già berlusconiano, ora transitato dal Pd a Italia Viva), che doveva portare alla nomina del nuovo procuratore di Roma e poi di se stesso come vice. Ma l’inchiesta per corruzione ha fatto saltare tutto. Scoperchiando un anno fa le trame extra-consiliari, e oggi il resto delle sue multiformi relazioni e opinioni. Compresi i propositi di vendetta contro i colleghi di Area. «Bisogna sputtanarli», gli scriveva Sirignano, che il Csm ha appena trasferito dalla Superprocura antimafia, per un’altra intercettazione in cui parlava con Palamara del suo ufficio e della nomina del nuovo procuratore di Perugia. E lui replicava convinto: «Esatto».

La barbarie delle intercettazioni, Magistratopoli apre gli occhi a Pm e giornalisti. Deborah Bergamini su Il Riformista il 26 Maggio 2020. Io sono molto orgogliosa del “mio” giornale: in perfetta solitudine nei giorni scorsi abbiamo annunciato lo scoppio di Giornalistopoli. Non abbiamo pubblicato le tonnellate di intercettazioni del caso Palamara, non abbiamo fatto i nomi dei colleghi giornalisti che compaiono in quelle trascrizioni (e parecchi nostri lettori hanno detto che abbiamo sbagliato a non farli) e i cui comportamenti denotano un vassallaggio nei confronti di certi pm che è davvero triste, ma abbiamo detto che il re è nudo: a suon di conversazioni carpite si è disvelata nei dettagli l’architettura di quel circuito mediatico-giudiziario che da Mani Pulite in poi, rafforzandosi sempre di più, ha influenzato e talvolta predeterminato il processo democratico in ogni suo rivolo, producendo una commistione fra poteri che l’ipocrisia si ostina a definire inammissibile, ma che è praticata massicciamente. Un’architettura fondata su un’alleanza di ferro fra alcuni pm e alcune firme giornalistiche, nota certo a tutti, ma mai vista prima d’ora in tutte le sue pieghe, e oggi finalmente evidente. Così si capisce di cosa ha paura la politica da trent’anni a questa parte. Così si capisce come può capitare, al politico sgradito, di esser fatto fuori, che si tratti di Berlusconi o Renzi o Salvini. E così si capisce perché la politica, di qualunque colore, è diventata pusillanime e quindi inutile. È positivo che alcuni altri giornali – evidentemente liberi – in questi giorni ne parlino. Ed è positivo che una larga parte della magistratura sia costernata, indignata, dai fatti emersi in questi giorni e stia lavorando con responsabilità per voltare pagina. Dentro la magistratura, come dentro il giornalismo, come dentro la politica, come dentro la vita, il Bene e il Male albergano sempre assieme in un eterno scontro che a volte si fa abbraccio e quindi per prima cosa bisogna spazzare via la tentazione di generalizzare. Ma davvero penso che questa possa essere l’occasione storica per fare un passo avanti. E per questo mi piacerebbe che i giornali che contano, le testate gloriose, non facessero finta di nulla ma anzi si rendessero per prime protagoniste di un tentativo di cambiamento. Parlo di quelle che negli anni si sono accreditate di più nell’indefesso lavoro di andare a snidare i politici e i loro traffici (veri o presunti) grazie all’accesso a materiale investigativo secretato o a intercettazioni. Lo hanno fatto talmente tanto che le intercettazioni da mero strumento di indagine sono diventate nel tempo un consolidato strumento politico secondo una modalità tollerata ma intollerabile che ha prodotto solo macerie da trent’anni a questa parte. Non ci siamo dimenticati, vero, dell’invito a comparire recapitato al presidente del Consiglio Berlusconi a mezzo Corriere della Sera mentre ospitava una riunione internazionale sulla criminalità organizzata a Napoli nel 1994? Non so quante persone – e quanti politici – sono stati travolti dalla pubblicazione di intercettazioni sui maggiori giornali italiani. Un numero incalcolabile. Anche io, nel mio piccolo, sono fra queste. E poco importa se le varie tesi accusatorie ipotizzate a corredo delle intercettazioni poi si rivelino inesistenti. I processi veri oggi si fanno sulle pagine dei giornali, non nei tribunali, e quando le sentenze arrivano è troppo tardi. Avendo vissuto l’esperienza in prima persona posso assicurare che ben poco esiste di più incivile di questa modalità per fare i conti col nemico di turno o per rendere realistico uno stereotipo, un pregiudizio. Le intercettazioni hanno di bello che si possono selezionare a piacimento, usarle come tanti piccoli pezzi di carta per costruire il collage che si ha in testa. Possono raccontare mille realtà diverse in base a come sono ritagliate, e tutte quelle realtà possono essere plausibili. In più, hanno di bello che registrate su un bel file digitale e schiaffate su internet acquisiscono il dono dell’eternità: possono risalire a 15 anni prima ma fissate in quel modo sembrano sempre fresche come uova di giornata, congelando così per sempre anche la presunta colpa del malcapitato. È una barbarie, diventata ghiotta normalità qui da noi, unico caso al mondo. Ne hanno beneficiato alcuni pm per le loro carriere e il loro potere? Certo. Ma ne hanno beneficiato molto anche i giornali e questa è la novità di questi tempi: finalmente si capisce che anche tante carriere di giornalisti e tante copie di giornali vendute sono il frutto di questa perversa abitudine, spesso scudata da quello che chiamiamo diritto di cronaca o addirittura diritto di critica. Contro questa deriva combatto da molti anni, si può dire che stia alla base della mia scelta di fare politica e sono contenta che si stia aprendo uno squarcio nella più perniciosa delle collusioni e delle ipocrisie del cosiddetto mondo dell’informazione. Era facile prevedere che chi di intercettazione ferisce di intercettazione perisce, perché l’ascolto e la pubblicazione degli affari altrui sono come il miele, golosissimo ma ci si può rimanere incollati. E oggi tocca alla magistratura e al giornalismo fare i conti con un costume del quale hanno beneficiato insieme. Sarebbe stato bello che per coerenza, viste le tante persone messe tragicamente alla berlina in questi anni, i giornali che contano avessero usato lo stesso criterio – il diritto di cronaca – anche per i loro giornalisti rimasti impigliati nelle maglie di questo sistema. Invece no. Ecco perché sono la vera casta. Perché possono praticare un sistema di autotutela di cui la politica non dispone più, essendosene lasciata spogliare da Mani Pulite in poi. Quando ero all’inizio della mia attività politica feci una battaglia perché la pubblicazione di intercettazioni fosse ascritta al reato di ricettazione: in fondo di questo si tratta, trarre profitto da materiale acquisito illecitamente. Fui attaccata duramente da alcuni miei colleghi giornalisti, anche importanti. Dissero che ero una cretina e che volevo censurare il diritto di cronaca. Invece volevo evitare che si arrivasse alla situazione perversa in cui purtroppo ci troviamo, cominciando a trattare la pubblicazione di intercettazioni per quello che spesso è: un’illegalità. E comunque una pratica incostituzionale. Quella battaglia la persi, così come molte altre. Oggi mi piacerebbe che ci tenessimo stretta l’occasione di vincere, invece, una battaglia di civiltà che possa progressivamente condurci verso una fase nuova della nostra storia nazionale e che possa lasciarsi alla spalle l’eredità di Mani Pulite: coltivo la speranza che si possa ricondurre l’uso delle intercettazioni al perimetro rigido entro cui deve restare, e cioè quello dello strumento investigativo, troncando ogni legame di interesse col mondo mediatico. So che è come far rientrare il dentifricio dentro il tubetto, praticamente impossibile. Ma so anche che non esiste riforma della giustizia che non affronti questo tema. Se non riportiamo questa pratica nell’alveo giusto, se non guardiamo in faccia l’aberrazione sistematica che si è prodotta e continuiamo a far finta di nulla perché ci riteniamo al riparo dal rischio di finirci in mezzo, produrremo più manipolazione, più sovvertimento del processo democratico e più ministri della giustizia che anziché rinsaldare i principi basilari del diritto, pensano a piazzare dei trojan nei nostri telefoni con la promessa di garantire più etica per tutti.

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per “l’Espresso” il 26 maggio 2020. Scorrendo le centinaia di chat del magistrato Luca Palamara, indagato per una presunta corruzione, l'impressione finale è che la Capitale sia afflitta da una malattia. Definita cent'anni fa da Sigmund Freud “coazione a ripetere”, quella tendenza incoercibile e «del tutto inconscia a porsi» dice la Treccani «in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze». Palamara e il mondo di sopra e di sotto che lo cerca su WhatsApp è, in effetti, l'ennesima incarnazione del facilitatore nostrano. L'ennesimo Mr Wolf, stavolta vestito con la toga, che risolve problemi a colleghi, ministri, politici, attori e potenti assortiti. La riproposizione millenial dell'immortale “A Fra' che te serve”, frase con cui il costruttore Gaetano Caltagirone negli anni '70 rispondeva al telefono all'andreottiano Franco Evangelisti, sempre a caccia di piaceri e finanziamenti per la sua corrente. Intrappolata nel Giorno della marmotta, dove tutto ricomincia daccapo tra P2, P3 P4 e la novella P5, Roma osserva con preoccupazione crescente il nuovo scandalo scoppiato un anno fa. Se a maggio 2019 le conversazioni tra il pm di Unicost e due deputati del Pd (Luca Lotti e Cosimo Ferri) in merito alle nomine dei capi delle procure più importanti d'Italia aveva terremotato il Csm, stavolta i messaggini rischiano di travolgere altri esponenti della magistratura, e imbarazzare importanti esponenti politici. Al netto della rilevanza penale delle vicende che è tutta ancora da dimostrare (nessuno tranne Palamara risulta indagato), la vicenda mostra relazioni opache tra magistrati di correnti di destra e sinistra. È condita da incontri segreti e riservati, più richieste di prebende di ogni tipo, biglietti per lo Stadio compresi. Un fiume di conversazioni che disegnano – come hanno scritto ieri tre giudici napoletane annunciando sdegnate la candidatura per le elezioni del Consiglio giudiziario - la degenerazione «sviluppatasi nella magistratura negli ultimi dieci anni, dove un sistema di potere, messe da parte idealità e impegno culturale, offre ai magistrati la sola miserabile prospettiva di costruire per sé e per gli amici una carriera fondata sullo scambio reciproco di favori, sul privilegio e la rendita di posizione, attraverso la creazione di un reticolo oscuro di rapporti interpersonali». Una Suburra mefitica, insomma. Ora, è noto che le chat (depositate qualche settimana fa dai giudici di Perugia) tra Palamara e i suoi interlocutori hanno già portato alle dimissioni del capo di gabinetto del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, e che ieri i vertici dell'Associazione nazionale magistrati abbiano deciso di fare un passo indietro dopo le ultime rivelazioni su inauditi e violenti scontri correntizi. Meno conosciute, invece, sono altre relazioni pericolose del pm in forza alla procura di Roma, boss di Unicost e re indiscusso delle nomine, che ripropongono non solo il tema della riforma del Csm, ma anche quello dei rapporti tra politica e giudici, e tra giudici e imprenditori. Andiamo con ordine, partendo dalla politica. Nelle chat Palamara – oltre ad affermare che Matteo Salvini va «attaccato anche se (sui migranti, ndr) ha ragione» - sembra legato soprattutto ad esponenti del Partito democratico. Il segretario Nicola Zingaretti, per esempio, riceve a marzo 2018, dopo la vittoria alle Regionali, un sms di congratulazioni: «Grande Nicola grande vittoria!! Ripartiamo da qui tutti insieme!», risponde con un «Grazie!!!». Il 23 maggio 2019, alla vigilia delle Europee, al leader che dice «se perdo avrò molto tempo libero», Palamara replica invece con un poco bipartisan: «E noi ti vogliamo molto occupato». Le chat tra i due - depositate dai giudici umbri e dunque consegnate agli avvocati difensori - partono dal marzo 2019 e si interrompono il 29 maggio 2019, giorno in cui Repubblica dà per la prima volta conto delle indagini di Perugia sui rapporti tra Palamara e l'imprenditore Fabrizio Centofanti (Zingaretti, quel giorno, propone comunque al giudice di incontrarsi la settimana successiva). In quei 14 mesi, il pm e il politico si vedono per caffè, cene e appuntamenti ai bar romani dell'Auditorium o di Montemartini. Non sappiamo i temi di discussione. Grazie ai messaggi sappiamo, però, che Zingaretti organizza a ottobre 2018 un incontro tra Palamara e il commissario straordinario Nicola Tasco, capo di un Istituto regionale di studi giuridici controllato dalla Regione Lazio, l' “Arturo Carlo Jemolo”. Spulciando le chat tra Palamara e Tasco, si scopre pure che il pm è stato nominato a fine novembre 2018 membro del Consiglio scientifico dell'organismo, specializzato in formazione e nell'organizzazione di convegni e seminari. I maligni ipotizzano oggi che Zingaretti, indagato a luglio 2018 dalla procura di Roma insieme a Centofanti per un presunto finanziamento illecito, volesse così ingraziarsi un importante pm della procura romana chiamandolo dall'Istituto. Se è un fatto che la notizia dell'indagine, poi archiviata, è stata data pubblicamente da questo settimanale nel marzo del 2019, dalla Regione spiegano che Palamara fu cooptato nell'organismo regionale non perché amico di Zingaretti, ma perché considerato da tutti un autorevole ex membro del Csm, già in passato presidente dell'Anm. L'Espresso ha verificato, comunque, che i membri del Comitato scientifico dello Jemolo non prendono né stipendi né gettoni di presenza. Palamara con i dem ha un rapporto speciale. Un anno fa agli occhi dei cronisti apparsero scandalose – tra le tante intercettazioni pubblicate dell'inchiesta di Perugia – soprattutto quelle con Luca Lotti. L'ex renziano era stato registrato dalla Guardia di Finanza a discettare impropriamente di nomine apicali delle procure nazionali, compresa quella di Roma. E a brigare per danneggiare la reputazione del pm Paolo Ielo, giudice anticorruzione che ha dato il via all'inchiesta su Palamara (inviata poi a Perugia per competenza) e che tempo prima aveva mandato proprio Lotti a processo per favoreggiamento nel filone della fuga di notizie del caso Consip. «Inaccettabile interferenza», commentarono opinionisti e politici, tanto che l'ex sottosegretario a Palazzo Chigi di Renzi da allora si è autosospeso dal Partito democratico. Altrettanto discutibili, oggi, appaiono pure le chat tra Palamara e Marco Minniti. Tra luglio 2017 e novembre 2018, Luca Palamara, membro del Csm, e Marco Minniti, allora influente ministro dell'Interno, si sentono infatti più volte. Lo fanno in occasione delle nomine importanti della magistratura. In particolare, discutono durante le elezioni al Csm del nuovo procuratore di Napoli. A luglio del 2017 c'è una sfida a due, tra Giovanni Melillo e Federico Cafiero De Raho. La spunterà il primo, che dal ministero della Giustizia (Melillo era stato capo di gabinetto di Andrea Orlando) tornerà in trincea contro la camorra. De Raho invece, all'epoca procuratore capo di Reggio Calabria, forte dell'esperienza sullo Stretto durante la quale ha fatto emergere i tentacoli della masso'ndrangheta, finirà qualche mese dopo alla procura nazionale antimafia. Minniti, da politico e rappresentante dell'esecutivo, dovrebbe stare lontano dalle nomine giudiziarie come Superman dalla Kryptonite. Invece nelle conversazioni sul cellulare sembra imbastire precise strategie con Palamara, pm e capocorrente di Unicost. Che, se ha in chiara antipatia Salvini, con il suo predecessore sembra andare d'amore e d'accordo.

Palamara: «Situazione su Cafiero ancora in evoluzione ma faticosissima spero trovare ultima mediazione a dopo».

Minniti: «Perfetto. Grazie».

Palamara: «Fallito anche ultimo tentativo. Oramai si vota a breve».

Minniti: «Ok. Grazie».

Palamara: «Melillo 14. Cafiero 9. Votato ora».

Minniti: «Perfetto. Cerchiamo adesso di salvare il soldato de Raho. Il risultato in qualche modo lo consente».

Palamara: «Sì il mio intervento in plenum è stato in questo senso».

Minniti: «Perfetto. Lavoriamoci».

Non sappiamo come abbiano “lavorato” i due, ma è certo che il 7 novembre 2017 , alla vigilia della nomina di De Raho alla procura nazionale antimafia, Minniti e Palamara si riscrivono.

Palamara: «Domani Cafiero andrà all'unanimità. Un caro saluto».

Minniti: «Eccellente. Un forte abbraccio».

Detto delle chat sulle nomine, di cui aveva già accennato il Fatto Quotidiano, c'è un dialogo dell'aprile 2018 utile a comprendere i rapporti di assoluta fiducia tra il magistrato delle nomine e l'allora ministro Minniti. In realtà, ministro “uscente”: le elezioni del 4 marzo erano passate da un mese, ma il governo giallo-verde non è al tempo ancora in carica. Palamara si rivolge dunque a lui quando la prefettura gli sospende il servizio di protezione. Da qual giorno non avrebbe più avuto più la scorta: per Palamara rinunciarci non è fatto contemplabile.

Palamara: «Buongiorno Marco ci tenevo ad informarti che da questa mattina mi è stato sospeso il servizio di protezione non essendo stata concessa al momento ulteriore proroga».

Minniti: «Ok Adesso vedo».

Il Viminale è il dicastero da cui dipendono di servizi di protezione delle persone a rischio. Palamara, due minuti dopo aver chiesto a Minniti di attivarsi per riottenere la scorta, vuole essere sicuro, e scrive con un copia e incolla pure a Giorgio Toschi, ex comandante generale della Finanza.

Palamara: «Buongiorno Marco ci tenevo ad informarti che da questa mattina mi è stato sospeso il servizio di protezione non essendo stata concessa al momento ulteriore proroga».

Toschi: «Purtroppo sono stato informato, anche se mi dicono che sono in attesa di ulteriori (e favorevoli) decisioni. Un abbraccio».

L'Espresso ha contattato Palamara, che ha spiegato che – nonostante le richieste – alla fine non è riuscito a riottenere l'agognata scorta. Il telefono di Palamara squilla a tutte le ore. E le chat su Facebook e WhatsApp sparano notifiche senza sosta. Si tratta soprattutto di colleghi che chiedono raccomandazioni, che implorano favori, che disegnano strategie per nomine e poltrone. Il Mr Wolf in toga promette a tutti, smista sollecitazioni, ammansisce chi protesta, vezzeggia coloro che possono essergli utili. Ma ogni tanto, oltre a quelli politici, balzano fuori a sorpresa rapporti extragiudiziali. Con vip e imprenditori. C'è la chat con l'attore Raul Bova, che nel 2017 – dopo essere stato condannato in primo grado a un anno e sei mesi per una presunta dichiarazione fraudolenta in materia fiscale – chiede a Palamara di «indagare su questa sentenza, un'ingiustizia senza precedenti. Tutti assolti tranne me...ti chiedo di verificare se ho meritato una condanna così dura. Così mirata. È stata considerata una manovra premeditata? Sono sotto choc» (Palamara s'affretta a dirgli che gli «farà sapere, ma devi reagire: non è perso nulla»). C'è, soprattutto, il rapporto finora inedito con Mauro Baldissoni, direttore generale dell'AS Roma. Palamara è un tifoso sfegatato: conosce Claudio Ranieri e Luciano Spalletti, ma per vedere i campioni della sua Roma è a Baldissoni che chiede biglietti per l'Olimpico. Non solo per le partite casalinghe, ma anche per quelle in trasferta. Il do ut des è però sempre dietro l'angolo: quando la procura di Roma e il procuratore aggiunto Ielo aprono l'inchiesta su Luca Lanzalone e il costruttore Luca Parnasi e sulle presunte mazzette intorno al progetto del nuovo Stadio della Roma, Baldissoni (che sarà poi sentito come testimone) sa che può contare sull'amico. Palamara, a marzo 2018, pensa però solo ad andare in tribuna.

Palamara: «Buongiorno Mauro scusami la seccatura ma ho promesso a mio figlio di portarlo a Barcellona e sto trovando difficoltà a reperire due biglietti. Attendo tue un caro saluto».

Qualche giorno dopo, si capisce dal tono del messaggio che il desiderio è stato probabilmente esaudito.

Palamara: «Grazie Mauro è stato qualcosa di epico e di indimenticabile ed il fatto di esserci stati a Barcellona ha reso tutto ancora più bello un abbraccio a presto».

Baldissoni: «Grazie Luca».

Due giorni dopo, però, Palamara chiede un altro favore. Vuole andare pure in Inghilterra.

Palamara: «Buongiorno Mauro la seccatura te la chiedo nei limiti del possibile anche per Liverpool sempre con mio figlio grazie come sempre».

Baldissoni: «Non sarà facile Luca. Vediamo.

Una settimana dopo, Palamara insiste: «Mauro scusami avevo provato a cercarti perché mi ha chiamato Luca (di chi si tratta? forse Lanzalone, ndr?) che mi ha detto che viene a vedere la partita a Liverpool e ci teneva ci fossi anche io. Non voglio metterti in difficoltà se c'è ancora possibilità aspetto un tuo riscontro io sono con mio figlio».

Non sappiamo se alla fine il pm sia riuscito a partire per godersi il “Never walk alone” e le sciarpate dell'Anfield, ma di sicuro due mesi dopo, il 13 giugno 2018 (giorno degli arresti di Parnasi e Lanzalone) è lui a chiedere informazioni al magistrato. Che lavora a pochi metri di distanza dagli inquirenti che hanno condotto l'inchiesta. Invece di dichiararsi indisponibile, il magistrato propone subito un incontro privato.

Baldissoni: «Luca, ma cosa è successo su Parnasi? C'è davvero sostanza?»

Palamara: «Buongiorno Mauro in giornata o anche domani ci vediamo per un caffè?»

Baldissoni: «Sono a Roma. Dimmi tu».

Palamara: «Alle 11 caffè palazzo Montemartini saletta interna?»

Baldissoni: «Ok. Un po' prima».

Il giorno dopo il dg della Roma manda un articolo di giornale che riporta le parole di Ielo, che sottolineano come l'AS Roma «è fuori da questa storia». Baldissoni, però, deve essere sentito come testimone.

Baldissoni: «Solo per ricordarti le parole di Ielo ieri. Noi non consideriamo viziato nessun atto».

Palamara: «Mauro lo vedo domani e ti dico».

Baldissoni: «Ok. Spero di parlarci il prima possibile. Vorrei capire che dire a tutti gli investitori americani tra l'altro...

Forse Baldissoni vuol parlare con Ielo, o con i vertici della procura? Il giorno dopo, Baldissoni viene certamente ascoltato dagli uffici guidati al tempo da Giuseppe Pignatone. Solo come testimone.

Palamara: «È rimasto molto soddisfatto per oggi e di te».

Baldissoni: «Sono contento. Gli ho detto che resto a loro disposizione se gli serve qualche chiarimento. Con piacere. Anche informalmente».

Palamara: «Ok. Ci prendiamo caffè nei prossimi giorni».

Nelle settimane e nei mesi successivi, i due amici si incontrano più volte. Probabile che Baldissoni sia preoccupato dagli sviluppo dell'inchiesta, e che il pm che gli chiede i biglietti possa essere un buon aggancio per avere informazioni di prima mano. È un fatto che Ielo, sentito dall'Espresso, neghi di aver mai dato a Palamara qualsiasi dettaglio sull'inchiesta, su Baldissoni o chiunque altro. «Palamara non lo sentivo né incontravo da mesi», ha detto. Lo scandalo del Mr Wolf, che il suo collega Massimo Forciniti chiama amichevolmente “er cazzaro”, a un anno dalla pubblicazione delle prime carte della procura di Perugia non accenna a spegnersi. «Qui rischia di venire giù tutto, è davvero una Suburra», ripetono i magistrati che allibiti leggono chat e intercettazioni. Sarà. Ma in molti contano sulla coazione a ripetere che affligge tutto il Paese. Perché è statisticamente assai probabile che presto anche questo tsunami verrà dimenticato, che nulla cambierà, e che ricominceremo a indignarci di nuovo al prossimo scandalo.

Intercettazioni, Raoul Bova  e la chat con Palamara: «Ti prego indaga sulla sentenza». Pubblicato domenica, 24 maggio 2020 su Corriere.it da Virginia Picolillo. Nella lunga fila di richieste di aiuto a Luca Palamara, l’ex consigliere Csm finito al centro dello scandalo delle nomine pilotate di magistrati, a sorpresa, c’è anche quella dell’attore Raoul Bova. Dalle carte di Perugia, tra le chat intercettate c’è’ anche la loro corrispondenza. « Ti prego di indagare su questa sentenza, la trovo un’ingiustizia senza precedente. Tutti assolti tranne me», si legge in un WhatsApp inviato il 25 luglio 2017 alle 10 e 03 dall’attore a Palamara che, alle 10.18, cerca di rincuorarlo: «Non finisce qui. non bisogna mollare ora». E alle 10.21 gli assicura: «Sono veramente rammaricato». Ma perché l’icona del cinema italiano chiedeva aiuto all’ex capo dell’Anm? L’attore protagonista del film campione d’incasso, «Scusa ma ti chiamo amore», era incappato in una brutta vicenda giudiziaria. La procura di Roma aveva chiesto la sua condanna a un anno di carcere con l’accusa di aver evaso 680mila euro al fisco nel quinquennio 2005-2010. Gli veniva contestata un’irregolarità relativa al quinquennio 2005-2010 nei conti della sua società Sammarco Srl. I messaggini tra i due depositati dalla procura di Perugia risalgono al giugno precedente. Il 30 Bova lo invita «alla serata che ti dicevo». Palamara risponde che sta «cercando di organizzarsi». E rilancia con un «aperitivo il 3». Chiudono con un caffé per il 4 luglio. Ma Bova insiste: «Fammi sapere per il 9 Per organizzare l’ospitalità. Sarà una serata molto bella e come rappresentante delle istituzioni sarebbe un segno tangibile e di speranza per chi vuole credere nella legalità». Il 5 luglio però esce la notizia della richiesta del ok alla condanna per evasione e Raoul scrive a Palamara alle 17.56: «Come al solito i giornalisti. Non si smentiscono mai». L’ex pm risponde: «Purtroppo una piaga»...Il 25 luglio del 2017 arriva la condanna. E l’attore chiede l’intervento di Palamara. All’invito a «indagare» l’ex pm risponde: «Non finisce qui. Non bisogna mollare ora». E alla controreplica di Bova: «Valsecchi ha avuto quello che voleva», Palamara tenta di rassicurarlo: «La partita non è finita. Sono sicuro che la tua onestà alla fine verrà fuori”. Ma dieci minuti dopo l’artista insiste: «Ma ti chiedo di verificare se ho meritato una condanna così dura. Così mirata. È stata considerata una manovra premeditata. Sono sotto shock. Ma in tutto questo il commercialista non ha alcuna responsabilità?». Il magistrato risponde: «Ti faccio sapere ma devi reagire non è perso nulla». Nei giorni successivi alla condanna, Palamara si informa delle sue condizioni e gli dà consigli. «Vorrei scrivere pubblicamente qualcosa, mi stanno annullando molti contratti», gli chiede preoccupato l’attore. «Fallo dicendo che rispetti la decisione ma che ancora si tratta di un procedimento non definitiva nella condizione che riuscirà a dimostrare la totale estraneità ai fatti», risponde il magistrato il 28 luglio del 2017. Due giorni dopo il comunicato è pronto e Raoul Bova glielo sottopone: «Preciso che ho sempre pagato il dovuto e non sono stato condannato né per evasione fiscale né per altri reati ma condannato in primo grado soltanto per un contratto tra me e la mia società di immagine produzione perché ritenuto non idoneo dalla sezione penale, mentre altri giudici tributari lo hanno considerato a tutti gli effetti valido. Sono colpevole solo di non essermi laureato in economia non essere stato in grado di tenermi da solo la contabilitá (...) Non smetterò di vivere nel rispetto delle regole del prossimo di aiuto, di aiutare chi ha bisogno, e non me ne andrò anche se qualcuno lo vorrebbe, da questo paese che amo». «Volevo in tuo parere», conclude. E Palamara risponde: «Ci sentiamo in serata».

Palamara, l'unico a rifiutare le richieste dei suoi uomini è stato Neri Marcorè: intercettazioni, un retroscena clamoroso. Libero Quotidiano il 31 maggio 2020. C'è chi è stato capace di dire no agli uomini di Luca Palamara. Tra le centinaia di intercettazioni sulle toghe rosse, spunta pure quella del magistrato "progressista" di Bologna Mimmo Truppa, che si era rivolto all'ex capo dell'Anm e membro del Csm perché voleva incontrare Neri Marcorè. L'attore era in città con il suo spettacolo Tango del calcio di rigore e Truppa scrive a Palamara: "Ciao Luca, ho provato a mandare un mess a Neri Marcorè e non mi ha risposto. Tu lo conosci? Posso chiamarlo?". "Sì chiamalo certo, gli dici di me e della nazionale magistrati", risponde subito il boss di Unicost secondo quanto riportato da La Verità. Anche Sergio Sottani, procuratore generale ad Ancona, partecipa all'assedio e scrive a Palamara: "Per il convegno al torneo di Riccione Mimmo ha cercato Marcorè al numero che ci hai dato ma non ha mai risposto. Hai consigli al riguardo? Buona giornata". E Palamara, dopo pochi giorni, scrive di persona all'attore: "Carissimo Neri, i miei colleghi magistrati di Bologna volevano mettersi in contatto per invitarti a un evento. Posso dargli il tuo recapito? Un caro saluto e spero di vederti presto". Marcorè risponde con cortesia: "Caro Luca, dagli pure la mail e se posso volentieri: a presto, spero anch' io, scarpini o meno". Alla fine l'incontro a Riccione salta: "Oggi ho incontrato Neri Marcorè, ringrazia dell'invito ma purtroppo non riesce a essere a Riccione per impegni che già aveva preso", comunica Palamara a Truppa. A volte capita.

Fabio Amendolara per “la Verità” il 31 maggio 2020. La toga progressista Mimmo Truppa da Bologna, relatore ai congressi targati Magistratura democratica e ai convegni su intercettazioni e diritto alla riservatezza, si era rivolto allo stratega del Csm, Luca Palamara. Non per le solite lotte tra correnti o per carrierismo. Gli scrive perché voleva incontrare l' attore Neri Marcorè. In quei giorni l' attore, regista e imitatore portava a Bologna il suo Tango del calcio di rigore, uno spettacolo che parte dalla finale dei Mondiali del 1978. Il 25 giugno, all' Estadio Monumental di Buenos Aires, l' Argentina deve vincere a tutti i costi contro l' Olanda. Seduto in tribuna c' è il generale Jorge Videla, che ha orchestrato il Mondiale come strumento di propaganda politica affinché il mondo si dimentichi delle Madri di Plaza de Mayo. La toga progressista, che è anche appassionata di calcio e indossa la maglietta della nazionale magistrati, si muove e scrive a Palamara. «Ciao Luca, ho provato a mandare un mess a Neri Marcorè e non mi ha risposto. Tu lo conosci? Posso chiamarlo?». Palamara risponde pochi secondi dopo: «Sì chiamalo certo, gli dici di me e della nazionale magistrati». Truppa è felicissimo: «Ok, grazie mille!». Ma Marcorè non deve aver risposto alle chiamate e ai messaggi della toga. E Sergio Sottani, procuratore generale ad Ancona, scrive a Palamara: «Per il convegno al torneo di Riccione Mimmo (Domenico Truppa, ndr) ha cercato Marcorè al numero che ci hai dato ma non ha mai risposto. Hai consigli al riguardo? Buona giornata». Palamara risponde che avrebbe provato a contattarlo. Qualche giorno dopo, infatti, è Palamara che scrive direttamente a Marcorè: «Carissimo Neri, i miei colleghi magistrati di Bologna volevano mettersi in contatto per invitarti a un evento. Posso dargli il tuo recapito? Un caro saluto e spero di vederti presto». Marcorè risponde: «Caro Luca, dagli pure la mail e se posso volentieri: a presto, spero anch' io, scarpini o meno». Il messaggio si chiude con un' emoticon che fa l' occhiolino. Palamara copia il messaggio dell' attore e lo gira a Sottani. Smile incluso. Nelle chat intercettate c' è ancora qualche messaggino a Palamara per ricordargli di fare pressing sull' attore. Alla fine però l' incontro di Riccione non va a buon fine. Palamara fa sapere al collega: «Oggi ho incontrato Neri Marcorè, ringrazia dell' invito ma purtroppo non riesce a essere a Riccione per impegni che già aveva preso». Sottani risponde: «Me lo aveva comunicato per email. Grazie Luca».

Giustizia, Palamara prova a difendersi: "Rammaricato, frasi non sono il mio reale pensiero".

In un messaggio inviato a Matteo Salvini, l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara ha spiegato "di aver sempre ispirato il mio agire al più profondo rispetto istituzionale al senatore". Gabriele Laganà, Sabato 23/05/2020, su Il Giornale. In enorme difficoltà dopo le polemiche scatenatesi sui contenuti delle chat dei magistrati contro Matteo Salvini, Luca Palamara, il giudice al centro della vicenda, ha inviato un messaggio al leader della Lega chiedendo scusa per le sue improvvide affermazioni. "Sono profondamente rammaricato dalle frasi da me espresse- ha scritto Palamara secondo quanto riporta oggi "La Verità" - e che evidentemente non corrispondono al reale contenuto del mio pensiero, come potranno testimoniare ulteriori conversazioni presenti nel mio telefono". Il giudice, inoltre ha voluto specificare "di aver sempre ispirato il mio agire al più profondo rispetto istituzionale che è mia intenzione ribadire, anche in questa occasione, al senatore Salvini". Nelle conversazioni tra giudici che sono state rese note, non ci sarebbero solo attacchi contro Salvini. Parlando con l'ex membro laico del Csm, Paola Balducci, Palamara non nascondeva apprezzamenti sulla statura politica del leader della Lega. "A parte lui non c'è... non ci sono le figure, ci sono pezzetti". Il caso Palamara è emerso dopo la pubblicazione da parte de La Verità di alcune intercettazioni dell’ex presidente dell’Anm. In una chat su Whatsapp, alcune toghe ammettevano che Salvini non stava facendo niente di sbagliato ma ciononostante doveva comunque essere attaccato senza pietà. Il quotidiano ha reso pubblici i contenuti di alcune chat risalenti al 2018 in cui alcuni magistrati parlano dell’allora ministro dell’Interno. La chat più citata vede coinvolti il procuratore capo di Viterbo Paolo Auriemma e Luca Palamara. Il primo rivolgendosi al suo interlocutore si dice molto dubbioso su quanto sta accadendo in quei difficili giorni d'agosto di due anni fa: ''Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell'Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco cosa c'entri la Procura di Agrigento”, aveva scritto Auriemma quando di Salvini si parlava soprattutto per la chiusura dei porti per bloccare l'arrivo degli immigrati.In fondo al messaggio Whatsapp la raccomandazione di non diffondere il contenuto del testo. La risposta di Palamara arriva quasi subito: ''Hai ragione. Ma adesso bisogna attaccarlo''. La discussione va avanti con il procuratore capo di Viterbo che sottolinea come potrebbe essere un pericoloso boomerang continuare ad attaccare Salvini sull'immigrazione. "Comunque è una cazzata atroce attaccarlo adesso perché tutti la pensano come lui. E tutti pensano che ha fatto benissimo a bloccare i migranti che avrebbero dovuto portare di nuovo da dove erano partiti. Indagato per non aver permesso l’ingresso a soggetti invasori. Siamo indifendibili. Indifendibili". In un altro colloquio citato da alcuni giornali, il leader leghista viene chiamato "quella merda di Salvini" da Palamara. In altri messaggi, con interlocutori diversi, è ancora Palamara ad essere protagonista. Il giudice, infatti, esprime tutto il suo disagio di fronte all'eventualità di incontrare pubblicamente Salvini. Nel frattempo, si fa inviare i pdf delle sentenze del processo di Umberto Bossi e Francesco Belsito. Infine vi è anche un’altra chat tra lo stesso Palamara e Bianca Ferramosca, componente della giunta esecutiva Anm. Quest'ultima, nel novembre 2018, se la prende con i colleghi che hanno dato ragione a Salvini sull'allora dl Sicurezza, componenti di una cordata ''pericolosissima''. Le telefonate a cui fa riferimento sono diverse e oggi il quotidiano Libero ne ha pubblicato di nuove. In quella dell’11 aprile 2019, ad esempio, si riassume bene la maggioranza al Csm prima di quella attuale. La giornalista Milella sottolinea come l'Anm sia a guida "Mi-Unicost-laici di centrodestra, quindi “secondo me le nomine che si faranno saranno tutte nomine influenzate da questa faccenda qua no". Palamara replica spiegando come sia "chiaro che siamo in una consiliatura che è figlia o meglio ancora che sta in una fase storia dove Area era più numerosa e Area non disdegnava nella maniera assoluta gli accordi con MI e in particolar modo con la Casellati basta che ti riprendi qualche articolo tuo dell'epoca e ci fai il copia e incolla e te lo ritrovi ok? Essendo mutata la situazione è chiaro che il consiglio è il luogo dove si formano maggioranze Area ha molto tra le virgolette lucrato nella precedente consiliatura oggi che partita vuole svolgere? Nella vicenda Ermini non si è sporcata le mani adesso che arriva il momento decisivo quello delle nomine che posizione prenderà?". Il giudice ha aggiunto che non "possono andare dagli elettori e dire guarda che io non ti ho portato a casa a te perché hanno ancora gente importante da sistemare che gli dicono non c'è l'hai? Come direbbe Bruti è la corrente bellezza è così e vale per tutti e vale per loro". La stesso Palamara ha rimarcato che la partita vera inizia adesso" perché la partita vera inizia con Roma, c'è una grande attenzione su Roma perché viene dopo l'era Pignatone dopo tante cose e Roma comunque ha un effetto domino". Milella concorda sul fatto che Roma sarà la prima decisa. A quel punto Palamara dice che "comunque Roma o non prima cioè Roma c' è il problema di Lo Voi se viene Lo Voi, Prestipino va a Palermo". Milella, inoltre, spiega che nel suo pezzo, se riesce a farlo, dominerà la notizia dell’accordo Mi- Unicost "e faranno man bassa di posti e io ti metto già a Torino". Poi un altro scambio di battute con Palamara che chiede: "Mettimi a Roma e stai buona" e Milella che ribatte: "Se mandano te a Torino che sei sotto il livello di anzianità loro potrebbero pure fare la mossa di mandare Cantone da qualche parte in modo da non fare i cattivi capito? Poi alla fine fanno pure un piacere a questo governo che glielo levano dai coglioni". Infine, il giudice dice: "Appunto sì". Poco più di un mese dopo, esplode il caso Palamara. Il 29 maggio 2019 Milella chiama il giudice e riferisce che ha saputo dell'articolo leggendolo alle ore 01.30 di notte e dice di aver sbagliato a non averlo chiamato prima, ma a lei non avevano detto nulla dal suo giornale. Se avesse chiamato prima"l'avremmo scritta, ma non in questo modo". Due giorni dopo Milella chiama Palamara e lo avvisa che la giornalista Maria Elena Vincenzi sta andando sotto casa sua e gli dice che devono parlarne bene dell’intervista. Inoltre, sempre il 29 maggio Amadori parla con Palamara affermando che tramite il giudice "vogliono far saltare Viola". Ha notato che è lo stesso Gico di Roma a svolgere le indagini e si domanda come mai De Ficchy utilizzi la stessa pg. Continua asserendo che Paolo Ielo avrebbe detto ad un consigliere del Csm che teneva in pugno De Ficchy per delle intercettazioni relative a un commercialista indagato. Amadori riferisce che ha saputo che le carte inviate a Perugia erano firmate da Ielo, Sabelli e Cascini e che gli stessi tre sono stati nominati dal suo consiglio grazie anche ai voti di Unicost. Il 29 maggio 2019 Palamara parla con Legnini sulla necessità di riequilibrare gli articoli che sono usciti con Repubblica e domanda se si può chiedere a Liana. Legnini spiega che è possibile ma "Liana conta poco la dentro" mentre "Claudio Tito conta .. il tema è orientare il gruppo, adesso Repubblica su un linea diversa". "Io non so il Fatto Quotidiano- aggiunge- adesso La Verità, su cosa virerà perche la loro posizione è contro Pignatone”. Lo stesso Legnini afferma che “c'è una operazione di orientamento” e garantisce di poter parlare con Repubblica in quanto “ho rapporti al massimo livello dimmi tu. Riflettici”. Palamara ammette che con Claudio Tito esiste un rapporto e Legnini infine dice: "lo conosci bene e allora parla con lui deve passare la linea della vendetta nei tuoi confronti". Piero Sansonetti ha lanciato un durissimo affondo contro quelle che ha chiamato le "grandi firme” della cronaca giudiziaria italiana che compaiono nelle intercettazioni della procura di Perugia che indaga, fra gli altri, sull'ex consigliere del Csm Luca Palamara."Non sorprende, almeno a me, che i grandi giornali siano agli ordini, non subalterni, ma agli ordini, dei pm. A me sorprende il silenzio, che su questa vicenda non sia uscito nulla: la notizia è questa. Eppure dentro ci sono i nomi più prestigiosi", ha dichiarato il giornalista.

Da liberoquotidiano.it il 23 maggio 2020. Prosegue lo scandalo sulle chat dei magistrati contro Matteo Salvini. Per l'occasione Luca Palamara, giudice al centro della vicenda nonché ex presidente dell'Anm ed ex membro del Csm, ha inviato un messaggio di scuse al leader della Lega. "Sono profondamente rammaricato dalle frasi da me espresse - scrive - e che evidentemente non corrispondono al reale contenuto del mio pensiero, come potranno testimoniare ulteriori conversazioni presenti nel mio telefono". Aggiungendo "di aver sempre ispirato il mio agire al più profondo rispetto istituzionale che è mia intenzione ribadire, anche in questa occasione, al senatore Salvini". Nelle conversazioni emerse tra i togati spuntano anche apprezzamenti da parte di Palamara sulla statura politica dell'attuale leader della Lega. Un apprezzamento condiviso anche dall'ex membro del Csm Paola Balducci. Eppure sono difficili da dimenticare gli insulti a Salvini rivolti tra Luca Palamara e il capo della Procura di Viterbo Paolo Auriemma (il leader della Lega "va fermato", parole dello stesso Palamara).

Salvini: “Il silenzio degli indecenti su quegli attacchi della magistratura contro di me”. Il Dubbio il 25 maggio 2020. “Più delle frasi di Palamara mi ha impressionato il silenzio vergognoso e complice dei media italiani. Trovo che sia una complicità silenziosa. È una vergogna, ma ci sono abituato”. “È il silenzio degli indecenti”. Usa una frase forte il leader della Lega Matteo Salvini per bollare il comportamento dei media sulla vicenda delle intercettazioni dalle quali è emerso un attacco alla sua persona da parte di alcuni magistrati, tra i quali l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. “Più delle frasi di Palamara – afferma – mi ha impressionato il silenzio vergognoso e complice dei media italiani. Timidi trafiletti sui giornali, qualche secondo dei telegiornali. Se le stesse parole (”Ha ragione, siamo indifendibili, ma il ministro va attaccato” è il senso, ndr) fossero state indirizzate a un ministro del Pd o del M5s oggi ci sarebbero processi, indignazione, speciali dei tg, caschi blu. Trovo che sia una complicità silenziosa. È una vergogna, ma ci sono abituato”. Per il leader della Lega “il problema non è Salvini, ma il cittadino italiano. Che da oggi ha il diritto di pensare che non sarà giudicato in base alla legge ma in base alle simpatie e al colore politico. Ringrazio La Verità per lo scoop a nome dei 20.000 innocenti passati per il carcere, anche se quell’incapace del ministro Bonafede sostiene che in galera vanno solo i colpevoli. La giustizia va riformata e quando torniamo al governo ci concentriamo su questo”. Una riforma che, ad avviso di Salvini, va fatta “per ristabilire i diritti degli italiani perbene. Un anno fa due bambini di 11 anni sono stati falciati dal Suv guidato da un mafioso ubriaco e drogato. Al processo, la richiesta è di 10 anni, significa che il colpevole fra tre anni è fuori. La vita di due bambini vale tre anni di pena? Mi sembra agghiacciante. E la riforma la organizzeremo con la magistratura e l’avvocatura”. “I miei rapporti con Zaia e Giorgetti? Leggo anch’io le favole. Con Giorgetti ci sentiamo tutti i giorni. Sono orgoglioso di come Zaia ha gestito l’emergenza in Veneto e di come Fontana, stando nell’epicentro della prima ondata, ha saputo tenere duro”, spiega poi Salvini. “Nonostante le speranze di molta stampa siamo compatti – ribadisce il leader della Lega – . La nostra forza è nei cittadini, nei territori. E nella voglia degli italiani di cambiare passo. Le minestrine di Conte non bastano più”.

Matteo Salvini sputtanato forse ora capisce cosa ha passato Berlusconi da quando è entrato in politica. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Maggio 2020. Chissà se Matteo Salvini ha finalmente capito che cosa è successo a Berlusconi, dal giorno in cui è entrato in politica. E chissà se Attilio Fontana ogni tanto la notte ha l’incubo del tritacarne in cui era finito un suo predecessore di nome Roberto Formigoni. E se uno dei due, o tutti e due, pensa “ma io sono diverso”, vuol dire che non ha capito niente. In Italia, innocenza e colpevolezza sono spesso concetti vuoti e insignificanti, soprattutto nel Paese con la magistratura più politicizzata del mondo. Non c’era bisogno di accedere al pozzo senza fondo delle intercettazioni del “caso Palamara” per sapere che, sotto lo scudo ipocrita dell’obbligatorietà dell’azione penale, il Partito dei pm fa esattamente quel che i magistrati dicono tra loro quando non sanno di essere spiati. Dire cioè, per esempio, che il ministro dell’interno ha comportamenti corretti e condivisibili nei confronti dell’immigrazione clandestina ma che lo si deve comunque attaccare per motivi politici, non è molto diverso da un concetto dal sen fuggito qualche anno fa all’ex procuratore di Milano Saverio Borrelli. Stiamo parlando di una persona di buona reputazione e considerata da molti molto per bene. Pure, un po’ di anni dopo le indagini dette di “Mani Pulite” da lui condotte, lui ebbe a rammaricarsi perché dopo la distruzione per via giudiziaria di interi partiti e un’intera classe dirigente, il risultato elettorale, e quindi politico, aveva deluso le sue aspettative. Nel 1994, dopo tangentopoli, non aveva vinto Occhetto, ma Berlusconi. «Se lo sapevo non avrei venuto», disse il bambino dell’indimenticabile Guerra dei bottoni. Così ecco Borrelli nel 2011, quando chiese scusa per il «disastro seguito a Mani Pulite». «Non valeva la pena – disse- buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale». Non facevano giustizia, ma politica. Oggi Matteo Salvini si indigna, con molte ragioni, perché le dichiarazioni dei magistrati-politici contro di lui vengono pubblicate proprio alla vigilia del processo per la vicenda della nave Gregoretti, e della decisione della Giunta (martedi prossimo) sul caso Open Arms. Ma commette un grave errore politico, in cui non sarebbe mai cascato Silvio Berlusconi. Sono indignato – avrebbe dovuto dire il leader della Lega – prima di tutto perché ormai i processi si fanno tutti con le intercettazioni e con il loro deposito in edicola. Poi avrebbe potuto aggiungere: sono solidale con tutte le persone, miei colleghi o semplici cittadini, che oggi come ieri sono sputtanati dopo che le loro conversazioni, anche private e prive di alcun rilievo penale, sono state sbattute in pasto a un’opinione pubblica addestrata a sbranare. Poi, ma solo poi, avrebbe fatto bene a chiedere un “processo giusto” (che “giusto” non può essere perché deciso a tavolino da un trappolone politico in Senato) per sé e a domandarsi se il presidente Mattarella, capo del Csm, non avesse nulla da ridire. Cosa che ha fatto, anche se con modesta soddisfazione. Si dice sempre che, della malagiustizia, così come delle brutte malattie, ci si rende conto solo quando ti cascano addosso o almeno vicine. È umano. Ma chi fa politica, chi è leader, deve anche saper andare un po’ più in là del proprio naso, saper progettare e studiare. E anche storicizzare. Andare a lezione dal professor Giuseppe Di Federico, per esempio, o almeno leggere qualcuno dei suoi libri. Domandarsi per esempio, quando stai con qualche ragione dalla parte del rapinato che spara per legittima difesa, se sia giusto chiedere che il rapinatore vada sbattuto in cella e poi sia buttata la chiave, o se anche quest’ultimo, pur se delinquente, non abbia invece diritto a un giusto processo. Ma intanto è successo anche qualcosa d’altro, in questi giorni, che, almeno sul piano politico, è un po’ come una bomba caduta vicino a Matteo Salvini. Più o meno come quando la brutta malattia non capita a te, ma a un tuo parente stretto. E magari pensi che non avresti dovuto buttare quel bollettino postale che chiedeva un contributo per la ricerca. La bomba è scoppiata giovedi nell’aula di Montecitorio, ma era come se l’esplosione avesse frantumato un po’ di vetri a Palazzo Lombardia, sede della Regione. Certo, il luogo scelto dall’oscuro deputato grillino per strillare contro il sistema sanitario lombardo e fare una pasticciata confusione tra pubblico e privato, è stato selezionato per poter avere una certa eco. Ma sarebbe bastato leggere ogni giorno e poi giorno dopo giorno il Fatto quotidiano e seguire le dichiarazioni di un ex assessore milanese del Pd per capire che non è solo il Movimento cinque stelle (al nord inesistente) ad aver messo gli occhi sul boccone grosso. Le elezioni regionali in Lombardia non sono imminenti, ma non dimentichiamo che il presidente Formigoni fu costretto a lasciare il suo ruolo con un certo anticipo. E non sono solo i politici a fare progetti. Per questo, se Matteo Salvini frequentasse qualche Buon Maestro, dovrebbe tenere d’occhio gli uffici del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano. Il procuratore Francesco Greco è una persona per bene. Ma anche Borrelli lo era. E i fascicoli aperti stanno un po’ troppo aumentando. Ci sono quelli sulle case di riposo, dove non è successo niente di strano, se non, come è capitato in tutta Italia, per il fatto che sono state chiuse troppo tardi le porte ai parenti degli ospiti. E chi andava dentro e fuori ha portato il contagio. Alcuni di questi congiunti si sarebbero probabilmente lamentati il giorno in cui fosse stato loro impedito di incontrare i loro cari, ma oggi fanno i Comitati e le denunce che impongono (ah, l’obbligatorietà!) l’apertura di indagini. Poi c’è la famosa decisione della Regione Lombardia, proprio uguale a quella del Lazio (Zingaretti ha dato qualche istruzione in più) per chiedere alle Rsa, quasi tutte private, salvo quelle, come il Pio Albergo Trivulzio di Milano, gestite dal Comune, di ospitare pazienti Covid convalescenti. Probabilmente sono state richieste imprudenti, tanto che molte Rsa, come ad esempio il Pat, hanno rifiutato. Certo, i morti tra gli anziani sono stati tanti. Persone fragili e di età molto elevata, come sono ormai quelle, in famiglie che ricorrono sempre più spesso all’assistenza domiciliare, che vengono ricoverate nelle Rsa. Una tragedia. Ma sono stati commessi reati? Difficile. Ma c’è un nuovo fascicoletto che andrebbe tenuto d’occhio, negli uffici della Procura di Milano. Ed è quello sulla costruzione del nuovo reparto di terapia intensiva, oggi per fortuna poco utilizzato, costruito in tempi record nei vecchi padiglioni della Fiera di Milano. Con fondi privati, al contrario di quanto gridato a Montecitorio dal peone grillino. Che cosa c’è da indagare? Non sappiamo. Ma, caro Matteo, non basta indignarsi e protestare. Quel che è già successo ieri a Berlusconi come a Formigoni, potrebbe capitare ancora domani. Perché prima del ’94 era capitato a Craxi e a Forlani e a tanti amministratori locali. Non erano peggio di voi, te lo garantisco. E moltissimi sono stati assolti, dopo anni e anni di sputtanamento e di angoscia.

Carlo Tarallo per “la Verità” il 23 maggio 2020. Luca Palamara per il pallone che rotola ha sempre avuto una passione smisurata, e non solo: da giovane e semisconosciuto pm di Roma, dieci anni fa, condusse il filone romano dell' inchiesta su «Calciopoli», quello legato al ruolo della Gea, la società di procuratori sportivi di cui erano titolari l' ex dg della Juve, Luciano Moggi, e suo figlio Alessandro. Ma non c' è solo tanto, tanto calcio, nelle chat Whatsapp di Palamara, che, a quanto si legge dalle conversazioni, ha un rapporto di amicizia con il capo dello sport italiano, il presidente del Coni, Giovanni Malagò. I due si incrociano non di rado, in particolare al circolo canottieri Aniene, di cui Malagò è presidente onorario, e allo stadio Olimpico, dove il pm è un habitué della tribuna autorità. Il 9 ottobre 2018, Malagò viene eletto membro del Comitato olimpico internazionale a titolo individuale. La votazione avviene a Buenos Aires, Malagò ottiene 66 voti su 74. Alle 17.35, Palamara invia a Malagò un messaggio di congratulazioni: «Complimenti per la nomina!!! Un abbraccio a presto per festeggiare», scrive il magistrato; «Grazie Lucaaa», risponde Malagò. In quelle stesse settimane, l' allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il leghista Giancarlo Giorgetti, sta facendo inserire nella legge di bilancio una profonda riforma dello sport italiano. Giorgetti crea una nuova società governativa, la Sport e salute Spa, che ha il compito di gestire le attività legate al sociale e alla scuola, nonché il 90% dei contributi pubblici al settore, compresi i finanziamenti alle Federazioni. Un provvedimento che svuota la cassaforte del Coni, la Coni servizi. Malagò è una furia, tenta in ogni modo di ostacolare la riforma, senza successo. Il 15 novembre 2018, mentre infuria la bufera, Palamara scrive a Malagò: «Sono con te!!! Un abbraccio forte»; «Grazie Luca», risponde Malagò, «ps siamo alla follia»; «Purtroppo è proprio così», concorda Palamara, «una situazione surreale». La resistenza di Malagò alla riforma è strenua: il ras dello sport italiano tenta di coinvolgere addirittura il Cio, ma Giorgetti va avanti per la sua strada. L'8 dicembre 2018 la Camera approva la legge di bilancio 2019, che contiene la riforma dello sport voluta da Giorgetti. Palamara scrive a Malagò, il tono del messaggio è indignato: «Una vergogna assoluta che supera ogni limite», sentenzia il magistrato, «sono senza parole», risponde Malagò. «Che vergogna però» insiste Palamara. «Pazzesco», commenta Malagò. Il 29 maggio 2029, quando Palamara viene indagato per corruzione, Malagò fa sentire all' amico la sua vicinanza: «Un pensiero... un abbraccio sportivo più che mai», scrive il presidente del Coni al magistrato, che risponde: «Ti avevo detto che era una guerra... così è, ma io la combatto un abbraccio forte». «Ne sono sicuro», commenta Malagò. La passione di Palamara per il calcio è dimostrata anche dalla sua agenda, e dall' amicizia con la quale si scambia messaggi, ad esempio, con Luciano Spalletti. Il 25 agosto 2017 è la vigilia di un Roma-Inter molto particolare: Spalletti torna all' Olimpico da allenatore dell' Inter, dopo aver lasciato la panchina dei giallorossi al termine della stagione precedente, dopo un estenuante braccio di ferro con Francesco Totti. «Io appartengo a quelli», scrive Palamara all' allenatore toscano, «che saranno felici di riaverti qui a Roma dove hai dimostrato di essere il più forte. Un caro saluto a presto». «Grazie Luca, vi voglio bene», risponde Spalletti. Il 21 novembre 2018, Palamara scrive di nuovo a Spalletti: «Grande Luciano come stai? I miei colleghi neroazzurri di Milano vorrebbero invitarti a un convivio che stanno organizzando, come possono mettersi in contatto con te? Un abbraccio e spero di vederti presto. Con affetto Luca». «Tu sei il capo», risponde Spalletti, «quando il capo chiama noi siamo a disposizione. Dagli pure il mio numero e dicono di te poi si trova il modo di incastrare tutto. Con altrettanto affetto e stima. Forza Inter».

Antonio Amorosi per affaritaliani.it il 9 settembre 2020. Non si è neanche riaperto il Csm che questa mattina il componente del Consiglio Superiore della Magistratura Marco Mancinetti si è dimesso per il cosiddetto "scandalo Palamara". E’ il sesto del plenum a lasciare ed è un esponente della stessa corrente Unicost di Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm che per anni ha deciso il ruolo di decine e decine di magistrati in base agli accordi fra correnti. "Ho ricevuto pochi minuti fa la notifica dell'azione disciplinare nei miei confronti”, ha spiegato il togato questa mattina, riporta l’Ansa, “da parte della Procura generale per fatti inerenti alle attività amministrative svolte dalla precedente consiliatura, sulla base delle chat da me intrattenute con Luca Palamara. Pur non essendovi alcun automatismo di legge, ho già rassegnato le mie dimissioni nelle mani del Vice Presidente del Consiglio superiore della Magistratura, per senso istituzionale e per evidenti ragioni di opportunità, nel pieno rispetto delle attività della Procura generale e nella convinzione di poter offrire ogni chiarimento nella sede competente". Il leader nazionale di Unicost si sarebbe interessato al figlio di Mancinetti che nel settembre 2017 scriveva: “Allora ti do i dati di mio figlio (…)”. “Ok”, rispondeva Palamara. Alcune ricostruzioni, smentite prontamente da Mancinetti che ha minacciato querele, sostengono che i dati sarebbero serviti per l’iscrizione del ragazzo ad un test di ammissione ad una Facoltà universitaria. Nelle chat si discute delle quote di iscrizione alla corrente e dei fatti più disparati riguardanti le nomine dei colleghi che si ritiene più o meno preparati o allineati alla propria idea di magistratura. Nel febbraio 2018 Mancinetti si esprime così su un collega: “Cmq leggendo nota di… ce da ridere. Lo dovete asfaltare è un matto”. Palamara: “Si è vergognosa”. Ma Mancinetti interviene anche in favore di colleghe. Nel dicembre 2017 commenta il ruolo di una di queste che fra l’altro è segretario del Csm: “Lei è libera di fare quello che vuole (è più legata ad un altro magistrato,ndr) ma sta lì a 2200 euro al mese in + da 5 anni con i voti di Unicost Roma. Questo è intollerabile. Lei se ne deve andare da lì”. Nelle chat, Palamara e Mancinetti si chiamavano affettuosamente "ciccino". Ma Mancinetti litiga anche con Palamara per il mancato invito ad una cena. Mancinetti: “Io mai invitato. Ma questo è un affronto grave. E anche tu non ti sei comportato da amico. Ma va bene così”. Palamara: “No Marco scusami ma non sono d’accordo. E siccome come dici tu le cose possiamo dircele in faccia quella di ieri sera è una colpa che io non mi prendo. Sono stati a Capri dove io non c’ero e lei (riferendosi ad un altro magistrato, nrd) ha fatto invito. A tutte le cene che lei fa (puoi chiedere conferma ad Emilia) vengo chiamato sempre e comunque”….”E su una cosa io non ho dubbi: di essermi comportato sempre da amico”. Ma Mancinetti ammette di essere molto arrabbiato con Palamara. Il quadro si ricompone in fretta. Anche perché il potere espresso e che si legge nelle chat richiede unità di intenti tra chi la pensa allo stesso modo. Oggi i favoriti di Palamara e company sono procuratori della Repubblica, presidenti di tribunale, consiglieri di Cassazione, decidono della vita delle persone e non è poco.

Simone Di Meo per “la Verità” il 23 maggio 2020. Ottenere un invito dalla signora dei salotti (di giustizia) romani era sinonimo di successo. Non riceverlo voleva dire precipitare nel girone dell' irrilevanza. Il potere delle cene è un capitolo poco battuto del legal thriller sul Csm che emerge dalle carte dell' inchiesta di Perugia, che vede indagato l' ex boss di Unicost, Luca Palamara. E con lui l' ex consigliera laica Paola Balducci, eletta in quota Sel, anche se sarebbe più corretto dire in quota Nichi Vendola, nella consiliatura 2014-2018. Entrambi accusati di corruzione per i disinvolti rapporti con il discusso imprenditore-lobbista Fabrizio Centofanti. Avvocato, docente universitario, ex assessore regionale in Puglia, Paola Balducci è l' organizzatrice instancabile di ambiti incontri mangerecci che diventano terreno di scontro addirittura all' interno delle correnti della magistratura. Come dimostra l' aspro scambio di battute tra Palamara e il collega Marco Mancinetti, oggi a Palazzo dei Marescialli. È il 18 ottobre 2018, e Mancinetti si sfoga con Palamara: «Ieri sera la Balducci ha fatto una cena non invitando me solo tra i neo consiglieri. Tu eri presente giusto?». L' amico risponde: «Sì, ero presente ma a me aveva detto invito era stato fatto a tutti e che non c' eri tu e Morlini (il consigliere dimissionario Gianluigi Morlini, ndr)». Mancinetti spiega: «Morlini perché impossibilitato io mai invitato. Ma questo è un affronto grave. E anche tu non ti sei comportato da amico. Ma va bene così». L' ex presidente dell' Anm prova a difendersi: «No Marco scusami ma non sono d' accordo [] Sono stati a Capri dove io non c' ero e lei ha fatto invito». Mancinetti però sbotta: «È una vergogna... Pignatone (il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ndr), Baldi (probabilmente si tratta dell' ex capo di Gabinetto del ministro della Giustizia, Fulvio Baldi, ndr), Basentini (il riferimento è forse a Francesco Basentini, ex capo del Dap, ndr)... delegittimazione totale del consigliere di Roma e fai pure tu la vittima dell' ingiustizia... va bene prendo atto». Palamara rintuzza: «[...] Rispondo dei miei comportamenti non di quelli altrui. A casa mia invito io. A casa degli altri no». Il pm sott' inchiesta è ospite fisso agli appuntamenti mondani della collega consigliera e da lei «festeggio mio compleanno [] con Pigna (Giuseppe Pignatone, ndr), [] Legnini (l' allora vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, ndr) [] e altri pochi ma buoni amici». Legnini lo ritroviamo in un altro Whatsapp, inviato da Palamara a Riccardo Fuzio (pg della Cassazione dimessosi dopo l' avviso di garanzia per rivelazione di segreto nel procedimento di Perugia): «Domani vieni a pranzo da me perché ho invitato Balducci e Legnini che è a Roma?». Accade talvolta che, invece di invitare, la consigliera si autoinviti a casa degli altri. Come capita, il 23 dicembre 2018, a Palamara, che subito scrive alla mamma: «Cosa dico alla Balducci?». La donna gli chiede: «Vuole venire... A che ora?... A pranzo?». Lui conferma: «Sì». Che l' avvocato abbia un carattere da perfetta pr, lo conferma pure il pm di Siena Aldo Natalini (lo stesso che archiviò l' inchiesta per la misteriosa morte del manager Mps, David Rossi) che racconta al capocorrente di Unicost: «Ciao Luca, l' altro giorno ho conosciuto Paola Balducci (che in realtà avevo già conosciuto qui a Siena alla serata lounge del congresso Anm): si è messa a chiacchierare con me... di Siena... dei miei progetti futuri... un soggettone! Le ho detto che sono tuo ex uditore ed era contentissima». Natalini rammenta - con tanto di emoticon sorridente - una scenetta che suscita l' ilarità di Palamara. «Un tipo un po'... esuberante diciamo... C' era anche Francesco Greco (il procuratore di Milano, ndr) e l' ha baciato... nella foca (sic, ndr) l' ha baciato in bocca... Lui imbarazzatissimo!... Eheh...». Il rapporto di amicizia tra Luca e Paola è intenso, e quando il pm sott' inchiesta riceve la notizia della imminente pubblicazione di un articolo sulla possibile inchiesta di Perugia, a lei si rivolge. È il 26 settembre 2018, e Palamara la avvisa: «Domani fatto (Il Fatto Quotidiano, ndr) mi ammazza». La Balducci: «Ma arrivi che succede? Non mi fare preoccupare ti hanno visto con qualcuno?». Palamara: «Sui rapporti tra me e Centofanti». Lei: «Di nuovo?».

Lui: «Per farmela pagare per Ermini (la nomina a vicepresidente del Csm di David Ermini, ndr)... E per Consip... Parlerà anche di Pigna (Pignatone, ndr)». Lei: «Male ovviamente». Lui: «Di una cena». E lei: «Ma che ne sanno?». Succede che i due discutano inoltre di politica. La Balducci, che è espressione del centrosinistra, esprime apprezzamento per l' allora ministro dell' Interno, Marco Minniti («Travolge tutti»), ricevendo analogo giudizio dal suo interlocutore («È bravo») e concludendo così: «Mito». I due si trovano d' accordo pure su Matteo Salvini. Parlando di possibili leader in circolazione, Palamara stronca Zingaretti («Non lo è nemmeno Nicola ancora...»), ma promuove il capo leghista come unico profilo politico riconoscibile («a parte lui non c' è... non ci sono le figure... ognuno ha pezzetti di cose»). E la Balducci si dice d' accordo.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 23 maggio 2020. A noi le intercettazioni non sono mai piaciute perché vengono trascritte alla carlona e tradiscono spesso il pensiero degli intercettati. Ma in questo caso che attiene ai rapporti spesso stretti tra magistrati e giornalisti, ci pare doveroso informare i lettori di cosa avviene a loro insaputa: fra toghe e cronisti è normale si instauri un clima di rispettosa collaborazione, non è di questo che ci scandalizziamo. Il problema è un altro. Quando pm e giornalisti diventano compari di merenda e intrecciano relazioni tese a incidere sulla corretta informazione, disinteressata, allora è bene che il pubblico sappia con chi ha a che fare. È il motivo per il quale, violando principi ai quali crediamo, rendiamo noto un rapporto della Guardia di Finanza relativo a conversazioni tra uomini di giustizia e uomini della stampa, da cui si evince l' esistenza di una sorta di sodalizio che, se non è sporco, non è neanche pulito. Non è una novità che i redattori di giudiziaria pur di avere qualche dritta su vicende tribunalizie siano disposti a compiacere le fonti primarie in cambio di soffiate. Ciò avviene da sempre. È accaduto anche a me di fare l' occhiolino a qualche investigatore per ottenere notizie riservate, per cui non mi metto ora a recitare la parte dell' anima candida. Tuttavia c' è un limite oltre il quale non si può andare onde non creare una sorta di complicità indigeribile. Chi ha voglia di leggere il resoconto presente in questa prima pagina si renderà conto che siamo di fronte a una sorta di inquinamento che non giova né ai miei colleghi scribi né agli amministratori della giustizia. Quando poi apprendiamo che un alto rappresentante del potere giudiziario, parlando a ruota libera, ammette che Matteo Salvini sul blocco navale aveva ragione, però va comunque perseguito per questioni ideologiche, ci cascano le braccia e non soltanto quelle. E la nostra fiducia, già scarsa, in chi emette sentenze in nome del popolo italiano va completamente a farsi benedire.

GIORNALISTI E MAGISTRATI, COMPAGNI DI MERENDE. Telefonate e chat pubblicate da “Libero Quotidiano” il 23 maggio 2020.

11 aprile 2019. Telefonata in cui si riassume bene la maggioranza al Csm prima di quella attuale Rosso-Bruna. Poi nomine.

Milella: L' Anm è a guida MI ed Unicost, c' è un Csm dove Mi.

Palamara: No c' è pure Area.

Milella: vabbè, si, voglio dire al Csm domina quest' alleanza Mi-Unicost-laici di centro destra, quindi secondo me le nomine che si faranno saranno tutte nomine influenzate da questa faccenda qua no.

Palamara: almeno te non mi fare che non conosci la storia della magistratura cioè è chiaro che siamo in una consiliatura che è figlia o meglio ancora che sta in una fase storia dove Area era più numerosa e Area non disdegnava nella maniera assoluta gli accordi con MI e in particolar modo con la Casellati basta che ti riprendi qualche articolo tuo dell' epoca e ci fai il copia e incolla e te lo ritrovi ok? Essendo mutata la situazione è chiaro che il consiglio è il luogo dove si formano maggioranze () Area ha molto tra le virgolette lucrato nella precedente consiliatura oggi che partita vuole svolgere? Nella vicenda Ermini non si è sporcata le mani adesso che arriva il momento decisivo quello delle nomine che posizione prenderà?

Milella: Che posizione prenderà?

Palamara: Non è che possono andare dagli elettori e dire guarda che io non ti ho portato a casa a te perché hanno ancora gente importante da sistemare che gli dicono non c' è l' hai? Come direbbe Bruti è la corrente bellezza è così e vale per tutti e vale per loro.

Milella: Si Palamara: Tu devi fare un pezzo reale adesso inizia la partita vera, perché la partita vera inizia con Roma, c' è una grande attenzione su Roma perché viene dopo l' era Pignatone dopo tante cose e Roma comunque ha un effetto domino.

Milella: Roma sarà la prima decisa.

Palamara: comunque Roma o non prima cioè Roma c' è il problema di Lo Voi se viene Lo Voi, Prestipino va a Palermo.

Milella: il mio pezzo, se riesco a farlo, domina l' accordo MI Unicost e faranno man bassa di posti e io ti metto già a Torino...

Palamara: Mettimi a Roma e stai buona Milella: se mandano te a Torino che sei sotto il livello di anzianità loro potrebbero pure fare la mossa di mandare Cantone da qualche parte in modo da non fare i cattivi capito? Poi alla fine fanno pure un piacere a questo governo che glielo levano dai coglioni.

Palamara: appunto si Esplode il caso Palamara 29 maggio 2019 Milella chiama Palamara e riferisce che ha saputo dell' articolo leggendolo alle ore 01.30 di notte e dice di aver sbagliato a non averlo chiamato prima, ma a lei non avevano detto nulla dal suo giornale. Se avesse chiamato prima "l' avremmo scritta, ma non in questo modo".

31 maggio 2019. Milella chiama Palamara e lo avvisa che la giornalista Maria Elena Vincenzi sta andando sotto casa sua e gli dice che devono parlarne bene dell' intervista 29 maggio 2019 Amadori parla con Palamara. Dice che tramite Palamara vogliono far saltare Viola. Ha notato che è lo stesso GICO di Roma a svolgere le indagini e si domanda come mai De Ficchy (procuratore di Perugia, ndr) utilizzi la stessa pg. Continua asserendo che Paolo Ielo avrebbe detto ad un consigliere del Csm che teneva in pugno De Ficchy per delle intercettazioni relative a un commercialista indagato. Amadori riferisce che ha saputo che le carte inviate a Perugia (sul conto di Palamara, ndr) erano firmate da Ielo, Sabelli e Cascini e che gli stessi tre sono stati nominati dal suo consiglio grazie anche ai voti di Unicost.

7 maggio 2019 Bianconi chiama Palamara per fissare un incontro. Nessuna trascrizione Colloqui nei giorni successivi fra Palamara Lotti e Ferri: Trascrizione "Bianconi è la cassa di risonanza del gruppo di potere attuale".

16 maggio 2019 Palamara parla con Stefano Fava (pm a Roma) "Bianconi è legato ai servizi".

29 maggio 2019 Palamara parla con Legnini sulla necessità di riequilibrare gli articoli che sono usciti con Repubblica Palamara: e tu dici che con Liana lo posso fare?

Legnini: si ma Liana conta poco la dentro Palamara: no Claudio Tito.

Legnini: Claudio Tito conta .. il tema è orientare il gruppo, adesso Repubblica su un linea diversa . Io non so il Fatto Quotidiano adesso La Verità, su cosa virerà perche la loro posizione è contro Pignatone.

Palamara: esatto Legnini: quindi c' è una operazione di orientamento Palamara: e allora devo parlà pure con Repubblica...

Legnini: se vuoi parlo io , ho rapporti al massimo livello dimmi tu. Riflettici.

Palamara: io con Claudio Tito ho un rapporto.

Legnini: lo conosci bene e allora parla con lui deve passare la linea della vendetta nei tuoi confronti.

Il procuratore Gratteri ha detto che 400 magistrati sono corrotti. Ho atteso tre mesi, possibile che nessuno voglia vederci chiaro? di Valter Vecellio su Italia Oggi n. 116, pag 5 del 19/05/2020. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri da anni è impegnato in una dura azione di contrasto contro una delle più feroci mafie esistenti, la calabrese 'ndrangheta. Vittima di una quantità di minacce e intimidazioni, vive una vita impossibile: movimenti limitati, l'«onere» di una sorveglianza che lo rende forse perfino più carcerato dei delinquenti che assicura alla giustizia. Spesso assume posizioni discutibili, ma questo è nell'ordine delle cose: ci mancherebbe che opinioni e comportamenti non possano essere passati al vaglio del confronto e della critica. Certi suoi atteggiamenti richiamano alla memoria il prefetto Cesare Mori, ma non per questo non si deve essere grati per quello che fa. Non è su questo però che si vuole richiamare l'attenzione. Il 9 febbraio scorso il dottor Gratteri è ospite di In mezz'ora, la trasmissione curata e condotta da Lucia Annunziata. Dice cose di un certo peso, che neppure un radicale critico della magistratura ha adombrato; e infatti quelle affermazioni sono rilanciate dalle agenzie; tra l'altro: «In magistratura c'è un problema di corruzione… Possiamo parlare del 6-7%, non di più… Grave, terribile, inimmaginabile, impensabile, anche perché guadagniamo bene. Io guadagno 7.200 euro al mese, si vive bene, quindi non c'è giustificazione, non è uno stato di necessità, non è il tizio che va a rubare al supermercato per fame. Si tratta di ingordigia…». Ci si aspettava una reazione di qualche tipo, una sdegnata levata di scudi, oppure conferme o richieste di chiarimenti. Sono trascorsi tre mesi, un tempo sufficiente di attesa. Niente. Eppure come dice il dottor Gratteri, è cosa grave, terribile. Colpisce quel «non di più». Al mare magnum di internet abbiamo posto la seguente domanda: quanti sono i magistrati italiani? Varie fonti li quantificano tra i 7 e i 9 mila. Si prenda la cifra più bassa. Il 6-7% stimato dal dottor Gratteri corrisponde a circa 400-450 magistrati. Altro che «non di più». È cifra enorme. Il dottor Gratteri non parla di multe non pagate o «bagatelle» simili, su cui non si dovrebbe comunque passar sopra trattandosi di magistrati; parla di «corruzione». Vale a dire: «condotta di un soggetto che in cambio di denaro oppure di altre utilità e/o vantaggi agisce contro i propri doveri ed obblighi». Art. 318 del Codice Penale: «Il Pubblico Ufficiale che, per l'esercizio della sua funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da uno a sei anni». A questo punto, inevitabili le domande. Il Consiglio Superiore della Magistratura si è attivato per sapere se quanto dichiarato dal dottor Gratteri corrisponde a verità, su quale studio, statistica o informazione, si basa una così grave denuncia? Se non si è attivato, perché? Analoga domanda al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Sì? No? In caso negativo, perché? Ai parlamentari tutti, di maggioranza e di opposizione: nessuna «curiosità» da parte di nessuno? Anche una semplice interrogazione a risposta scritta. Oppure va bene così: che il 6-7% dei magistrati, «non di più», sia corrotto? L'Associazione Nazionale dei Magistrati, infine. Risulta che circa il 90%dei magistrati sia iscritto all'Anm. Dunque una buona fetta di quel 6-7%. Anche a tutela di quella maggioranza che corrotta non è, niente da dire? O la denuncia del dottor Gratteri ha un suo fondamento, e allora non la si può lasciare cadere; oppure si ritiene che le sue siano affermazioni senza fondamento; in questo caso, in qualche modo, ne dovrebbe rispondere. O no?

Magistratura e corruzione, Renato Farina: "Quelle frasi di Nicola Gratteri già a febbraio", ora si capisce tutto.  Renato Farina su Libero Quotidiano il 22 maggio 2020. Forza, cari fratelli magistrati d'Italia, rivoltate un po' anche il vostro calzino. Ci sembrate un pochino timidi nel prendere sul serio un sano desiderio di autoriforma. Come avete già lavato e rilavato da circa tre decenni i calzini degli altri, specie dei politici e degli imprenditori, al punto che spesso la calza l'avete bucata causa l'uso dello stivaletto cinese, ora magari dirigetevi con la consueta moderazione e sobrietà a dare una spazzolatina anche ai pedalini vostri. Non è un appello ironico. Abbiamo bisogno di veder documentato da fatti e risultati che l'articolo 3 della Costituzione, che predica uguaglianza, vale anche all'interno dell'ordine giudiziario, il quale non è affatto al di sopra di ogni sospetto. Fate presto, l'allarme sociale ormai riguarda anche la affidabilità non più soltanto dei poteri legislativo ed esecutivo (i quali sono sottoposti comunque al vaglio elettorale) ma anche di quello relativo alla Giustizia, che non è sottoposto ad alcun giudizio tranne quello dei suoi associati.  Il solo modo di rimediare alle brutte figure che i vostri leader - dirigenti sindacali o membri del Csm o distaccati nei ministeri - hanno fatto rivelando grazie ad un Trojan (uno solo, e guarda che casino) di che maneggi grondi il vostro mondo, è fare bene e imparzialmente il vostro dovere di controllo della legalità, controllando i peli sullo stomaco che le toghe rese trasparenti dalle intercettazioni hanno rivelato. Non è che questa idea l'abbiamo pescata nel vaso della lotteria parrocchiale. Si tratta di trasformare in ipotesi investigativa la denuncia fatta da uno tra i procuratori più eminenti e coraggiosi, Nicola Gratteri, che dirige l'ufficio inquirente di Catanzaro. Non è fresca questa requisitoria pubblica: fu pronunciata il 9 febbraio, su Rai 3, da Lucia Annunziata. Il procuratore anti- 'ndrangheta per eccellenza non fu generico. Diede i numeri: «In magistratura c è un problema di corruzione. Possiamo parlare del 6-7%, non di più. Grave, terribile, inimmaginabile, impensabile, anche perché guadagniamo bene. Io guadagno 7.200 euro al mese, si vive bene, quindi non c'è giustificazione, non è uno stato di necessità, non è il tizio che va a rubare al supermercato per fame. Si tratta di ingordigia». Subito dopo, Gratteri e le sue parole sparirono dai mass media, nessun magistrato corse in tivù o organizzò conferenze stampe per annunciare: rivolteremo le toghe come calzini. Allora parve non una notizia generale di reato, ma un'intemerata, una esagerazione, e fu imbalsamata subito. A differenza della gara di emulazione che di solito si scatena tra le varie procure quando si apre un filone ad alto tasso di visibilità mediatica, stavolta zero. Eppure non erano fanfaluche campate in aria. Poche settimane prima, era stato aperto un fascicolo per corruzione in atti giudiziari, con aggravanti mafiose, riguardante un giudice della Corte di appello del medesimo Tribunale calabrese. Era una pratica isolata? Nessun fermento sotto le toghe.

CALABRIA E PUGLIA.  Restammo delusi, ma anche silenti: non bisogna schiacciare la coda dell'ermellino. Vista però l'autorevolezza della fonte non ci era parsa una illazione, e ce l'annotammo. In questi ultimi giorni, dopo l'arresto e l'apertura di fascicoli per reati corruttivi riguardanti i vertici delle Procure in due sedi giudiziarie pugliesi, Taranto e Trani, quell'allarme ci sembra addirittura una notizia data in anticipo. Coraggio, signori della Corte e delle Procure, esplorate nelle cantine dei Palazzi di giustizia. Gratteri non è un igienista maniaco, se parla sa, e se invece ritenete stia diffamando una istituzione dello Stato, indagatelo.

BESTIA RARA. Ci rendiamo conto che il Procuratore calabrese è una bestia rara. Non si era mai vista una toga famosa che individuasse il marcio entro gli orli della propria divisa. Nella storia d'Italia degli ultimi trent' anni è stata la politica il campo privilegiato di rastrellamento delle patate marce (quasi tutte). Non rifacciamo qui la storia di Mani pulite. Ci piace ricordare che l'ordine giudiziario comunicò allora il suo intendimento di farsi avanguardia del popolo per realizzare la "rivoluzione italiana" (definizione del procuratore generale di Milano, Giulio Catelani). Uno tra i più brillanti pm utilizzò proprio l'espressione per cui si trattava di "rivoltare l'Italia come un calzino". Vorremmo la stessa determinazione nel bonificare la palude della giustizia, senza bisogno di intercettazioni sputtananti e suicidi in carcere. Non devono farla franca i giudici corrotti Se Gratteri ha ragione si tratta del 6-7 per cento del totale. Si tratta di 400-450 delinquenti impuniti che fanno mercimonio del bene più delicato e sacro che esiste: la libertà dei cittadini.

Rinascita Scott, Gratteri: «Processo fuori Calabria sarebbe una sconfitta». Una tenda per l'udienza preliminare. Il procuratore di Catanzaro in Commissione Antimafia parla di una tensostruttura pronta per luglio, ma «un minuto dopo si inizi a pensare all’aula bunker definitiva». Riforma della giustizia e sovraffollamento delle carceri gli altri temi discussi in audizione. Il Quotidiano del Sud l'11 giugno 2020. «Non è possibile che in Calabria non ci sia un’aula bunker o un tribunale che possa ospitare il processo a seguito della maxi inchiesta sulla ‘ndrangheta denominata “Rinascita Scott”, si tratta di 475 imputati e oltre 400 avvocati. Nelle ultime ore si sta cercando una soluzione, ma è da più di un anno che la stiamo chiedendo. Il processo potrebbe forse svolgersi a Palermo, Napoli o Roma: in tal caso sceglieremmo Roma, ma sarebbe una grande sconfitta per lo Stato. Sarebbe la prima volta nella storia della Repubblica che un processo di mafia non si celebra nel territorio del commesso reato». Così il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, ascoltato in Commissione Antimafia, che spiega: «quando si tratta di processi di mafia è importante il messaggio. Fare quel processo fuori dalla regione, dal punto di vista del messaggio, sarebbe devastante». «Siamo arrivati all’ultimo momento e speriamo di trovare una soluzione, visto che il processo parte a luglio. Purtroppo – ha aggiunto Gratteri – era stata sottovalutata la cosa ed era mancato l’impegno da parte dello staff del ministro Bonafede. Ora il ministero ha convocato la Protezione Civile, pare che sia disponibile a montare una tenda al carcere Catanzaro. Noi siamo per fare l’udienza preliminare in una tensostruttura». L’obiettivo di Gratteri resta però quello di avere un’aula bunker per il distretto di Catanzaro. «Il sindaco di Catanzaro ha messo a disposizione qualsiasi palazzetto dello sport e ce ne sta uno attaccato al campo di calcio del Catanzaro: questa è un’opzione aperta. Poi ce ne è un’altra che mi convince ancora di più – ha sottolineato Gratteri – dietro al Tribunale dei minori c’è un campo di calcio mai usato e una struttura del Dap con stanze mai usate, sedie e tavoli coperti da plastica, bagni servizi e cablaggio e fogne: lì si potrebbe costruire l’aula bunker stabile per il Distretto Catanzaro». «Credo che questa sia la soluzione meno costosa e più utile», ha proseguito. Quindi ok alla tendostruttura perché «sarebbe pronta per la prima udienza a fine luglio per fare il processo “Rinascita-Scott” – ha osservato – ma non ci dimentichiamo che, un minuto dopo, si inizia a pensare all’aula bunker definitiva». In Commissione Antimafia Gratteri ha affrontato anche altre tematiche. A parte le «minacce» ci sono anche «disegni di delegittimazione di Gratteri, fare dossieraggio su Gratteri, indebolirlo mediaticamente. Molte volte notizie vengono costruite ad arte per indebolirmi sul consenso perché quello che li manda ai pazzi è la credibilità che mi sono costruito. Ma io ho le spalle larghe e i nervi di acciaio». «Ci sono delle persone che abbiamo indagato – ha spiegato – che sono molto, ma molto preoccupate della mia presenza a Catanzaro, di questa nuova gestione. Quando sono arrivato ho trovato un arretrato di fascicoli fermi da 16 anni, in un anno ho ridotto gli arretrati di 14 anni, sono venuti a lavorare anche di sabato e domenica». Poi, un passaggio sul caos procure italiane: «La mamma di tutte le riforme è quella del Csm: creare un sistema tale per cui le correnti o sindacati abbiano meno poteri», ha affermato Gratteri. «Se è necessario si cambi anche la Costituzione», ha aggiunto sottolineando che bisognerebbe prevedere «collegi come quelli per il parlamento europeo, per macro-aree: si eliminano i magistrati con arretrati spaventosi, con procedimenti penali e disciplinari e poi si sceglie a sorteggio». Infine, il capitolo carceri: «Con quattro carceri da 5mila posti si risolve il problema del sovraffollamento – ha dichiarato – È possibile che non si possano costruire quattro carceri? Così si finisce di parlare di affollamento, di amnistia, di indulto. Quando saremo un Paese che non vive ogni giorno di emergenza?».

Gratteri e il sogno di diventare più famoso di Falcone: vuole aula bunker per un maxiprocesso che ancora non c’è…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Giugno 2020. Il processo non c’è. Ma lui vuole l’aula-bunker, la vuole grande, la vuole a Catanzaro. Il procuratore Nicola Gratteri si sta agitando perché non trova in Calabria gli spazi per la celebrazione del maxiprocesso del secolo, quello che lo renderà più famoso di Giovanni Falcone. Peccato però che il processo non ci sia. Non c’è ancora la decisione del gup e neanche le sue richieste, ma solo un avviso di chiusura delle indagini. Senza contare gli indagati che potrebbero chiedere il rito abbreviato, quindi non in aula. Ma lui: saremo in più di seicento in quell’aula, lamenta, con quasi cinquecento imputati. Imputati? Ma quali imputati? Per ora ci sono solo indagati. Teoricamente, nell’udienza preliminare, il giudice potrebbe anche non rinviare a giudizio nessuno. Proprio nei giorni scorsi il tribunale del riesame di Catanzaro ha demolito un altro importante pezzettino del famoso trenino di lego con cui il dottor Gratteri vuole ricostruire la Calabria dopo averla demolita con le sue inchieste. Sono stati infatti scarcerati i soci di un’impresa che gestiva tavole calde, la Dafne srl, cui era stato contestato il reato di «intestazione fittizia aggravata dal metodo mafioso». La condotta di coloro che erano finiti in manette è definita nel provvedimento del tribunale «integerrima e legittima». Abbattuti e ricostruiti. Purtroppo per il procuratore, di demolito finora ci sono solo i suoi scenografici blitz e le sue indagini approssimative. Se la memoria non ci inganna, dei 125 arrestati nell’inchiesta “Marine”, quella con cui l’intrepido avrebbe sgominato la mafia di Platì, solo 8 furono alla fine i condannati. Per non parlare del processo “Circolo formato”, dopo che era stata incarcerata l’intera classe politica di Gioiosa Jonica e la città commissariata, in cui gli imputati furono tutti assolti. E vogliamo parlare dell’operazione “Metropolis”, quella che avrebbe distrutto la ‘ndrangheta della Locride, e che si concluse con 3 condannati delle decine di persone che erano finite in carcere? Con questo pedigree alle spalle, il procuratore Gratteri si è lanciato nel dicembre del 2019 nel blitz del secolo, quello definitivo che dovrebbe portarlo infine alla realizzazione del sogno di equiparare (o forse sorpassare, non si sa mai) la fama di Giovanni Falcone: il maxiprocesso in Calabria. I numeri sono imponenti, all’inizio: 416 indagati, di cui 334 arrestati, 13.500 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare (di cui 250 pagine solo per elencare i capi di imputazione), con 5 milioni di fotocopie dell’ordinanza trasportate nella notte da un ufficio all’altro. Qualcosa di epocale. Anche se, come lui lamenterà, la notizia non resterà sulle prime pagine dei giornali che per pochi giorni. Ma già nel mese di gennaio 68 arrestati saranno scarcerati e molte imputazioni ridimensionate, come quella dell’avvocato Giancarlo Pittelli, non più indiziato di essere a tutti gli effetti un mafioso, ma solo uno da “concorso esterno”. La solita aria fritta, cioè. Ma il procuratore si prende molto sul serio. E molto sul serio deve averlo preso anche il presidente della Corte d’Appello di Catanzaro il quale, fin dall’anno scorso avrebbe scritto – lo dice lo stesso Gratteri – al ministro Bonafede per lamentare l’assenza di aule-bunker in Calabria. Sembra quasi, a sentire queste notizie, che questi alti magistrati non conoscano l’esistenza del codice di procedura penale del 1989, i cui principi sono totalmente incompatibili con il concetto di maxiprocesso. Quello famoso sulla mafia istruito da Falcone era stato il frutto di indagini condotte con il sistema inquisitorio, quindi con criteri opposti al sistema anglosassone cui, sia pur timidamente, si ispira il nostro regime accusatorio, che prevede la prova si formi in aula. L’antitesi dei reati associativi, che legano gli imputati tra loro e portano poi all’impossibilità, per tribunali e corti d’assise, di giudicare con cognizione di causa ogni singolo imputato, rispettando il principio costituzionale per cui “la responsabilità penale è personale”. Comunque pare che il ministero abbia inutilmente offerto a Gratteri e ai suoi estimatori l’aula di Rebibbia, che è stata sdegnosamente rifiutata. La parola d’ordine è: il maxiprocesso alla ‘ndrangheta deve restare in Calabria. Ma esiste un maxiprocesso? O meglio: esiste un processo? 

Terremoto a Reggio Calabria, pubblicate le intercettazioni fra Palamara e altri giudici , critiche dei PM  anche a Gratteri per una intervista  “E’ matto”.  Mario Modica su spotandweb.it il 6 Giugno 2020. Un vero e proprio tsunami sta investendo la Procura di Reggio Calabria e tutta la magistratura calabrese. Un giovane giornalista reggino, Claudio Cordova, mette a segno uno scoop mettendo nell'angolo testate come La Repubblica, Corriere e la Stampa che pure possono contare su corrispondenti locali . In queste ore sul sito del giornalista escono clamorose intercettazioni fra Luca Palamara e i magistrati della Procura reggina. Un fuoco di fila di insulti e di giudizi ingenerosi snocciolati dai giudici sui propri colleghi dove non mancano considerazioni critiche anche su pm in prima linea  come Nicola Gratteri,  Gaetano Paci, ma anche Federico Cafiero de Raho “è come tutti i napoletani” si legge in un’intercettazione. Citazioni anche per Dino Petralia, nominato   a capo del Dap dal ministro Bonafede  del quale Cordova riporta alcuni giudizi critici sui colleghi. Dal giudice Tommasina Cotroneo, il presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria, Luciano Gerardis, viene definito “vigliacco e ipocrita”. Mentre per il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, quelle dette dal collega Nicola Gratteri in un’intervista sarebbero “le solite cazzate”. Rivalità, rancori, veri e propri asti che avranno sicuramente conseguenze ora che la compatibilità ambientale fra giudici appare seriamente compromessa.Lo scoop è stato ripreso stamattina dal Quotidiano del sud, che però sceglie curiosamente di pubblicare solo un parte del copioso materiale riguardante le critica di Palamara a Nicola Gratteri espresse in un chat col procuratore Capo Bombardieri. Ma il silenzio degli organi di stampa nazionali non potrà durare a lungo poiché i giudizi espressi dai vari pm sui propri colleghi rendono palesemente incompatibili ambientalmente alcune figure. E Il Csm, già pericolante per la cattiva gestione della vicenda Palamara, dovrà rapidamente battere un colpo  Cordova, che annuncia nuove rivelazioni, ha vinto il prestigioso premio “Letizia Leviti” creato dai giornalisti di Sky all’indomani della morte per tumore dell’inviata del network di Murdoch nonché il premio Paolo Borsellino .

Le intercettazioni di Palamara: «Gratteri è matto, va fermato». La rivalsa con Bombardieri a Reggio. Salvini: «Dopo di me, Palamara e soci insultavano anche il procuratore». Marco Cribari il 6 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Non stupisce più di tanto che il mondo del lavoro sia attraversato da risentimenti, gelosie, delazioni e dispetti tra colleghi; caratteristiche proprie di un po’ tutti i gruppi sociali, comprese le scolaresche. Fa un certo effetto, però, apprendere che le stesse dinamiche scandiscano i rapporti tra magistrati e che, spesso e volentieri, siano anche decisive per determinarne in positivo le carriere. È anche questo lo spaccato desolante che affiora dalle chat di Luca Palamara intercettate e finite agli atti dell’inchiesta di Perugia. Una sequela infinita di messaggini, scambi di battute e di allegati dal contenuto penalmente irrilevante, ma spesso sopra le righe, e che oltre a essere rappresentativi di un sistema di potere, lo sono anche dal punto di vista del costume. Molteplici, in tal senso, i richiami alla Calabria. Palamara, ad esempio, non era amico di Nicola Gratteri. Non lo era per niente. Dal calderone delle chat emerge, infatti, tutta la sua avversione nei confronti del procuratore di Catanzaro. Il 12 aprile del 2018, tanto per dirne una, l’ex potentissimo guru di Anm invia al calabrese Massimo Forciniti, anche lui membro del Csm, un link che rimanda a una dichiarazione resa da Gratteri alla stampa a proposito di alcuni magistrati calabresi del passato che, a suo dire, non sarebbero stati «degni» di indossare la toga. «Purtroppo è un matto vero» commenta Palamara, aggiungendo che «però va fermato, non può continuare così». L’articolo viene condiviso anche con Giovanni Bombardieri che risponde con una risata. «Le solite cazzate» aggiunge, «Sta diventando patetico» gli fa eco l’amico. E giù ancora a ridere. È il procuratore aggiunto di Catanzaro, dunque braccio destro di Gratteri, ma il 29 marzo di quell’anno, la quinta commissione del Csm lo propone all’unanimità nel ruolo di procuratore di Reggio Calabria. La triangolazione si ripete: Palamara invia un messaggio a Forciniti – «Gratteri muore» – e poi scrive anche al diretto interessato: «Gratteri è svenuto?». Bombardieri ride ancora e pensa di chiamare direttamente il suo superiore per saggiarne la reazione. «Chiamalo cazzo» si ingolosisce il suo capocorrente, «è la cosa più importante». Tentazioni bullizzanti a parte, c’è un’altra cosa che preme a Palamara: sapere se «Cz ha indagini in corso su distretto Rc». Non a caso, la Procura di Catanzaro è competente a indagare sul conto delle toghe di Reggio Calabria. Palamara vuole quell’informazione, per farne cosa non si sa, e non è chiaro neanche se riuscirà a ottenerla. Poi comunica a Bombardieri che la sua prima uscita da procuratore di Reggio sarà il 20 aprile a San Luca durante una manifestazione alla quale sarà presente pure lui insieme a Cafiero de Raho e al capo della polizia. Nel frattempo, le agenzie battono la nota che ufficializza la sua promozione; Luca inoltra il dispaccio in chat e il neoprocuratore esulta: «Grande Palamara!». E Gratteri intanto? Agli atti dell’inchiesta ci sono anche alcuni messaggi tra lui e il dominus dell’Associazione nazionale magistrati. A settembre del 2017 c’è qualcosa che assilla il procuratore, ma Palamara lo rassicura: «Saneremo la situazione di Catanzaro». Gratteri gli rappresenta di aver scritto a Giovanni Legnini, a quel tempo ancora vicepresidente del Csm. «Hai fatto bene» è la sua risposta, ma del resto Palamara ne era già al corrente. A informarlo dell’intervento operato da Gratteri presso Legnini e anche nei confronti dell’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ci ha pensato due giorni prima ancora Forciniti. Anche secondo lui Gratteri «ha fatto bene» a operare quella mossa perché «tanto noi non gli abbiamo garantito un cazzo».

La reazione di Salvini. «Sapere che certi “magistrati” (Palamara e soci) volevano fermare sia me che il bravo procuratore antimafia e anti-‘ndrangheta Nicola Gratteri mi fa arrabbiare, ma mi dice anche che stiamo facendo entrambi un ottimo lavoro contro i criminali. Per me è una medaglia. Avanti tutta! P.S. ma qualcuno si dimetterà mai?». Lo dice il leader della Lega Matteo Salvini, commentando le intercettazioni di Luca Palamara (pubblicate dal Quotidiano) che di Gratteri scriveva: «Purtroppo è un matto vero però va fermato, non può continuare così».

Giustizia nel caos. Bombardieri come Palamara: su Gratteri commenti caustici. Da Iacchite l'8 Giugno 2020. Se da uno con la faccia da tonno come Palamara ti puoi aspettare di tutto, e non per dar ragione a Lombroso ma nel suo caso per attitudine al malaffare, da uno con la faccia da bravo ragazzo come Bombardieri, certe espressioni caustiche nei confronti di chi pensavamo fosse un suo caro amico come Nicola Gratteri, proprio non ce l’aspettavamo.

Sì, sapevamo delle assidue frequentazioni con il suo capo corrente Palamara. Ma abbiamo sempre pensato che tali contatti si limitassero a discussioni riguardanti l’attività dell’Anm. Noi, ingenui, abbiamo sempre visto il dottor Bombardieri come il bravo magistrato della porta accanto. Una persona perbene che con coscienza e serietà svolge il suo delicato lavoro di magistrato impegnato nella pericolosa lotta contro la masso/mafia. Un magistrato serio e preparato, impegnato solo a lavorare e lontano anni luce dalle rozze dinamiche tipiche dei luoghi di lavoro: pettegolezzi, maldicenze e malignità come principale attività lavorativa. Insomma, l’amico perfetto di cui ti puoi fidare in una procura infestata da talpe, spie, corrotti e chissà cos’altro. E Bombardieri sembrava, almeno ai nostri occhi ingenui, l’amico perfetto di Gratteri. L’amico che ti vuole bene. Che ti copre le spalle e che ti avverte se sei in pericolo. E invece, a leggere quello che Bombardieri dice nelle chat con Palamara, su Gratteri, scopriamo un Bombardieri che non t’aspetti. In una conversazione sulla famigerata chat, Palamara e Bombardieri commentano l’ennesima comparsata in Tv di Gratteri dove aveva parlato di alcuni magistrati calabresi del passato che, a suo dire, non sarebbero stati «degni» di indossare la toga. Dice Bombardieri: “Le solite cazzate di Gratteri”. Replica Palamara: “ormai sta diventando patetico”. Il tutto accompagnato da fragorose risate dei due. Ridono di Gratteri che reputano un poveraccio disperato e inascoltato che ripete a menadito sempre la stessa cosa. Una sorta di matto del paese. E’ evidente che c’è del disprezzo in questa loro conversazione. Non sono risatine derivanti da qualche gaffe di Gratteri, sono risate caustiche che lasciano capire una sola cosa: l’amaro e cattivo sbeffeggio tipico degli infidi ipocriti: davanti faceva l’amico, e dietro le coltellate a na lira. Pensare Bombardieri calato in questa viscida sottocultura ci ha lasciato con l’amaro in bocca. Possiamo solo immaginare lo stato d’animo di Gratteri che con Bombardieri ha condiviso lavoro, inchieste e segreti. Ma non finisce qui. A confermare la cattiveria delle sue espressioni un’altra conversazione in chat: Bombardieri, dopo aver saputo da Palamara di essere stato nominato procuratore capo di Reggio Calabria, è tentato a chiamare Gratteri per prenderlo in giro, ma anche per saggiare la sua reazione per la nomina appena ricevuta. Dice Palamara a Bombardieri, commentando la nomina e sempre ridendo: «Gratteri è svenuto? Chiamalo cazzo, così lo facciamo morire dall’invidia». E Bombardieri che ascolta ridendo di gusto alle cattiverie di Palamara su Gratteri, alla fine dice: “grande Palamara”. Più chiaro di così si muore. Bombardieri, anche se dalle sue parole non si configura nessun reato, ne esce a pezzi. Una figura di merda colossale di fronte a tutta l’Italia. Il finto amico che nessuno vorrebbe mai incontrare. Quello che stupisce da queste conversazioni, oltre alla gratuita cattiveria, è un Bombardieri che asseconda Palamara su ogni cosa, anche quando dice che Gratteri ripete sempre le stesse cazzate sui magistrati corrotti, segno evidente che per Bombardieri il problema Luberto, Petrini, e chissà quanti altri, non esiste. La corruzione a Catanzaro, e non solo, dove lui ha lavorato fino a qualche anno fa, è una invenzione dei magistrati di Salerno. È questa la cosa grave che emerge dalle parole e dall’atteggiamento di Bombardieri. Per lui alla Dda di Ctanzaro andava tutto bene. Nonostante sparissero fascicoli e documenti scottanti. Chi l’avrebbe mai detto di Bombardieri! Certo è che Gratteri si sta dimostrando un grande incassatore. Nel senso che: come fa a sopportare la presenza e la vicinanza di determinati soggetti, che “sfoggia” sempre con entusiasmo e lodi alle tante conferenze stampa dopo qualche operazione, nonostante la consapevolezza delle loro malefatte? Ce lo siamo chiesti per anni con Luberto sempre al suo fianco in tante conferenze stampa, salvo poi scoprire che a denunciare Luberto a Salerno è stato lo stesso Gratteri. Chissà se ha fatto la stessa cosa con Bombardieri, magari segnalandolo al Csm. Perché se è vero che non è reato schernire malamente un collega, è anche vero che da questa conversazione i motivi per una sanzione disciplinare ci sono tutti. Vedremo.

Giustizia nel caos. Gratteri “risponde” a Palamara: non siamo mai stati amici! Da Iacchite il 7 Giugno 2020. Sperava nel covid-19 Palamara. Sperava che l’emergenza sanitaria si protraesse fino al punto da far dimenticare agli italiani la sua faccia che tutti, oramai, associano alla malagiustizia. La faccia da tonno di Palamara descritta da Cossiga nel memorabile scontro televisivo avvenuto nel 2008 negli studi di Sky – è evidente che Cossiga sapeva già nel lontano 2008 chi aveva di fronte, tant’è che si “permette”, oltre alle offese personali a Palamara, di dire: «l’Anm è una associazione a delinquere di stampo mafioso» – sperava non solo nella rimozione dalla memoria collettiva della sua faccia da mafioso (come dice Cossiga), ma soprattutto sperava di veder distrutte le sue famigerate chat e insabbiata l’ inchiesta che lo riguarda. Ma così non è andata, perché la tenacia dei pm di Perugia, dove Palamara risulta indagato per corruzione, non ha permesso che tutto finisse, come si usa in Italia quando si tratta di appartenenti a potenti caste come quella dei magistrati, a tarallucci e vino. Non è bastata l’emergenza sanitaria per far scomparire il suo bel faccione da corrotto dall’immaginario collettivo, e l’argomento “corruzione magistrati”, nella fase tre della pandemia, è ritornato sulla bocca di tutti. Per fortuna. Tant’è che oggi, più di ieri, il  suo bel faccione da tonno è associato da tutti alla corruzione, alla mala giustizia, allo stato deviato, e all’infame venduto per eccellenza. Il male assoluto. Ed è proprio questo che ha fatto scattare la molla nelle branchie del tonno: Palamara non ci sta a passare per il Totò Riina della magistratura. Anche perché, sempre secondo le sue branchie, in questa situazione è facile addossare su di lui la colpa di tutti i mali della magistratura. Tutto il marcio esistente nella magistratura è frutto del suo continuo intrallazzare su ogni cosa: nomine, sentenze, inchieste. È questo il messaggio che è passato. Ed è questo messaggio che Palamara deve smontare. Quantomeno nell’immaginario collettivo. E vai allora con le partecipazioni televisive. Palamara sa bene che prima ancora che nella aule dei tribunali in Italia i processi si fanno in Tv. E di sciacalli in Tv disposti ad ospitarlo con la promessa di scottanti rivelazioni, ce ne sono tanti. Lo show può iniziare, e Palamara si presenta davanti agli “spettatori”, oltre che con la sua faccia da tonno, con la più classica delle scuse italiche: “cosi fan tutti”, cosi ho fatto anche io. Della serie: siccome in Italia sono tutti corrotti, ergo, è normale essere corrotti. E poi il sistema delle nomine lottizzate dalle correnti non l’ho inventato io. Questo sistema, dice Palamara esiste da sempre, tant’è che anche la nomina del procuratore capo della Dda di Catanzaro Gratteri, è avvenuta con il mio sistema. Come a dire: io mi sono interessato di tutti, non solo degli amici degli amici, tant’è che mi sono interessato anche dell’amico (che non è però amico degli amici ma solo amico mio) Gratteri, quindi se ho sbagliato con gli altri, ho sbagliato anche quando ho avallato la nomina dell’amico Gratteri. Una furbata che secondo le branchie del tonno avrebbe dovuto metterlo al riparo: tirare (impropriamente) dentro Gratteri non solo come “cliente” del sistema, ma addirittura come suo amico, aveva per Palamara uno scopo preciso ed un messaggio chiaro per tutti: “attenzione che Sansone potrebbe morire insieme a tutti i filistei”. Sembrava avercela fatta il tonno, l’esempio di Gratteri aveva iniziato ad attecchire nell’immaginario collettivo… ma si sa che Gratteri è duro a morire e la risposta a Palamara, il cui scopo è quello di fare di tutta l’erba un fascio (tutti colpevoli, nessun colpevole), non si è fatta attendere. E puntuali come un orologio svizzero spuntano sulla stampa alcune conversazioni estratte della famigerata chat di Palamara. “Purtroppo è un matto vero… – dice Palamara di Gratteri nella chat a Forciniti –. Però va fermato, non può continuare così”. Parole chiare che definiscono in maniera inequivocabile che Palamara non è certo amico di Gratteri così come voleva far credere in Tv. Anzi, dal tono usato è un chiaro nemico di Palamara, altro che “cliente” del sistema. È uno che dà fastidio ai suoi traffici. E che va addirittura fermato. Il tonno è scivolato sulla classica buccia di banana. Più che portargli i benefici sperati, l’aver tirato dentro i suoi loschi affari Gratteri, lo ha definitivamente messo ko. Un ko tecnico che arriva dalle sue stesse parole. Una vera e propria confessione. Ma una cosa va detto, però, a difesa del tonno. L’espressione usata “va fermato” non si riferisce all’attività di Gratteri in merito ad inchieste o indagini scottanti in corso, ma piuttosto alla sua attività da starlet della Tv. E lo dimostra il seguito della conversazione di Palamara con Bombardieri, nella quale si parla palesemente delle comparsate di Gratteri in Tv dove altro non fa che parlare male dei colleghi e gettare fango sull’Anm. È questa sua attività che va fermata, non le inchieste e le indagini, anche perché, e lo diciamo da sempre senza nulla togliere all’onestà e alla rettitudine di Gratteri, di inchieste ad alti livelli sulla masso/mafia portate avanti da Gratteri ancora non se ne sono viste. Perciò non c’è niente da fermare!

Il pm partigiano ignorò gli insulti a Gasparri. Il senatore di Fi: «Con me Albamonte negligente. Farò un'interrogazione». Chiara Giannini, Domenica 07/06/2020 su Il Giornale. Simpatizzante dei partigiani, ma a detta del senatore Maurizio Gasparri (Forza Italia), anche «negligente». È questo il profilo che emerge di Eugenio Albamonte, il magistrato che indaga su CasaPound. «I fatti risalgono al 2014 - racconta il politico - quando presentai una denuncia in cui raccoglievo in maniera dettagliata e documentata 3-400 messaggi di insulto che mi erano arrivati sui social. Molti dei profili erano chiaramente riconoscibili, ma non avendo notizie, dopo qualche tempo decisi di chiamare, attraverso la Batteria del Viminale, il procuratore capo di Roma Pignatone». Il quale gli promise di informarsi. «Mi richiamò - prosegue Gasparri - e mi disse il numero pratica e che di queste vicende si occupava l'allora sostituto procuratore Eugenio Albamonte, che era quello a cui venivano affidate le indagini su questi reati informatici. Aggiunse che, però, al momento non aveva notizie. Devo dire che non ho più saputo niente e che il magistrato non mi ha mai chiamato per essere ascoltato». Il senatore chiarisce che sa per esperienza «che il più delle volte la magistratura dice che il problema è risalire ai motori di ricerca perché i messaggi viaggiano nel mondo. Ma è un pretesto - aggiunge - perché in realtà quando il personaggio non è gradito non si fanno indagini. Ci sono politici di centrodestra che per un retweet sono stati lapidati». E tiene a dire: «Ne deduco, alla luce dell'articolo del Giornale di ieri, che Albamonte non ha indagato perché non sono dell'associazione partigiani o del comitato antifa che sfascia le vetrine in America. Non lo so. Ricordo che una volta, essendo parte lesa, sono stato ricevuto da un procuratore aggiunto la cui stanza - dice ancora - era costellata di gagliardetti dell'Olp e di altre organizzazioni palestinesi«. E continua: «Nulla di illecito, ma mi sembrava di stare in un comitato di al-Fatah e non negli uffici della Procura. Ho l'impressione che Albamonte non abbia indagato perché io gli faccio schifo e quindi riteneva giusto che mi insultassero. Se lavora per i cittadini come ha lavorato per me, poveri cittadini». Annuncia quindi «un'interrogazione all'attuale ministro per denunciare la mancata indagine e capire se vogliono prendere dei provvedimenti disciplinari nei confronti di un magistrato negligente perché prevenuto» nei suoi confronti.

Il Trojan per il reato che non c’è continua a distruggere carriere sfiorate dal caso Palamara. Giulia Merlo su Il Dubbio il 22 maggio 2020. Il virus spia nel cellulare della potente toga di Unicost, Luca Palamara, ha fatto franare le mura del Csm e insinuato la regola del sospetto nel corpaccione prima impenetrabile della magistratura. Ma, ironia amara, il Trojan sarebbe da considerarsi utilizzato illegittimamente, almeno ex post, perchè l’accusa di corruzione è caduta. Cade l’ipotesi accusatoria in forza della quale era stato disposto, ma la sua potenza distruttrice continua. Non a caso si chiama Trojan horse e prende il nome da una delle tecniche di guerra più note e meno onorevoli dell’antichità, che fece cadere con l’inganno la città di Troia. Il virus spia nel cellulare della potente toga di Unicost, Luca Palamara, ha fatto franare le mura del Csm e insinuato la regola del sospetto nel corpaccione prima impenetrabile della magistratura. Ma, ironia amara, il Trojan sarebbe da considerarsi utilizzato illegittimamente, almeno ex post, perchè l’accusa di corruzione è caduta. Ricostruendo i passaggi, l’indagine contro Palamara era fondata sull’ipotesi di corruzione e, vista l’estensione dell’uso dei Trojan anche ai reati contro la Pubblica amministrazione, i magistrati perugini avevano “infettato” il cellulare dell’indagato. Tutto legittimo, dunque. Peccato che, zome i legali di Palamara hanno confermato, «Le più gravi forme di corruzione originariamente ipotizzate sono escluse» dalla Procura di Perugia, «infatti, il pm Luca Palamara non è più accusato di aver ricevuto somme di 40 mila euro per nominare Giancarlo Longo come procuratore di Gela o per danneggiare Marco Bisogni nell’ambito del procedimento disciplinare che lo vedeva coinvolto». Nel frattempo, però, la captazione, la relativa trascrizione e successiva pubblicazione sulle principali testate giornalistiche delle intercettazioni ha prodotto conseguenze devastanti all’interno dell’organo di autogoverno della magistratura ( cinque consiglieri si sono dimessi) oltre alla rivelazione dei rapporti di forza tra correnti della magistratura e la loro contiguità con la politica. Ultime vittime della pubblicazione degli atti, infine, sono stati il capo di gabinetto del ministro della Giustizia ( la toga di Unicost Fulvio Baldi, dimessosi) e ieri il pm della procura antimafia Pasquale Sirignano. Il prodigio diabolico delle nuove norme sull’utilizzo dei Trojan, però, è che nonostante la caduta dell’ipotesi di reato “portante” – le intercettazioni rimangono perfettamente utilizzabili per reati diversi dai quelli per i quali ( non) si procede. E grazie a queste i pm hanno indagato su ulteriori ipotesi di reato a carico di soggetti terzi ( che però per quei reati non avrebbero potuto essere intercettati). Ecco dunque una perfetta ipotesi di doppio cavallo di Troia: basta un vettore ( un reato per il quale i Trojan sono previsti, non importa se poi non sussistente) perchè il virus spia porti alle comunicazioni non autonomamente intercettabili di altri, da cui si ricavano poi autonome e ulteriori notizie di reato. Chi giudicherà il caso Palamara non potrà che valutare solo le restanti e meno gravi ipotesi di reato a carico del magistrato. Ma per chi è già stato travolto ( togati del Csm, giornalisti, altri magistrati, capi di gabinetto) sarà ben magra consolazione.

Davigo a DiMartedì ma Floris non gli chiede nulla, e il Pm si esibisce contro il Riformista. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Maggio 2020. Piercamillo Davigo ieri è andato in Tv e ha detto che ci ha querelato. Leggeremo attentamente la querela. Proveremo a difenderci. Non è la prima volta che qualcuno di noi viene querelato da un magistrato. Alcuni magistrati hanno la querela facile, anche perché sanno che saranno giudicati da loro colleghi e immaginano che i loro colleghi daranno loro ragione. Così come di solito i Gip obbediscono senza discutere ai Pm. Di solito: attenzione a quel “di solito”. Non vuol dire “sempre”. Talvolta ci sono giudici indipendenti e preparati e seri che non danno ascolto all’ordine di corporazione e giudicano secondo diritto e coscienza. In quei casi, di solito, i magistrati perdono la causa. Alcuni di loro, e ho l’impressione che Davigo sia tra loro, pensano che il diritto di critica spetti sì ai giornalisti, ma debba limitarsi alla critica ai politici ed eventualmente agli intellettuali o agli imprenditori. E agli avvocati, si capisce. Ma non ai magistrati stessi, perché i magistrati – di nuovo: si capisce – devono giudicare e quindi non possono essere giudicati e quindi neanche criticati. Di più: non è giusto dare informazioni su di loro perché se queste informazioni danneggiano il loro prestigio, oggettivamente, danneggiano il prestigio dell’istituzione, cioè della legge, e questa è una operazione disfattista e anarchica da condannare. Se vuoi dare informazioni sui magistrati, benissimo, puoi: ma che siano informazioni positive, edificanti. Che ci vuole? Così Davigo ci ha querelato. Perché noi abbiamo raccontato di un emendamento presentato da Fratelli d’Italia, e poi di un altro emendamento, presentato dal Pd, al decreto liquidità, nei quali si proponeva di spostare in avanti di due anni il limite di età e l’obbligo di pensione per i magistrati. Noi, forse un po’ arditamente e spingendoci ben oltre le nostre competenze, osavamo chiedere cosa diavolo c’entrasse l’età di pensione dei magistrati con il decreto liquidità. E notavamo, con grande impertinenza, che comunque quell’emendamento, se approvato, avrebbe permesso a Davigo, che compie 70 anni a ottobre e deve a quel punto andare in pensione, di rinviare tutto di due anni, e in questo modo si sarebbero salvati anche gli equilibri interni al Csm che attualmente si regge su una maggioranza “rosso bruna” (in gergo politico vuol dire patto tra estrema sinistra ed estrema destra a saltare il centro) che dispone di un solo voto in più dell’opposizione, voto che verrebbe a mancare col pensionamento di Davigo perché il suo successore, cioè il primo dei non eletti, è un esponente di una corrente centrista, e quindi vanno all’aria baracca e burattini. Davigo è andato su tutte le furie, ha detto che lui neanche sapeva di quell’emendamento. Noi gli abbiamo creduto. Gli abbiamo giurato che noi crediamo sempre a quelli che dicono “lo hanno fatto a mia insaputa”. Credemmo anche all’ex ministro Scajola, quando i giornali lo impallinarono. Non siamo come quei giudici feroci che hanno mandato in esilio Craxi, per esempio, sulla base della teoria del “non poteva non sapere…”. Davigo – abbiamo scritto – poteva non sapere. E dunque? Niente da fare, Davigo è irremovibile: ci querela. Dice che non è mai esistito questo emendamento? No, dice di non sapere se sia mai esistito. Dice che lui non compie 70 anni a ottobre? No, questo lo ammette: li compirà. Dice che di conseguenza non andrà in pensione? No, o almeno non precisamente questo dice. Dice però, indignato, che lui non è stato il mandante dell’emendamento. Ma noi non lo abbiamo mai scritto che era il mandante. E quindi – dico – dice che a ottobre toglie il disturbo? No, annuncia che si batterà per restare in Csm anche se non sarà più magistrato e la legge dice che quel posto spetta a un magistrato e dunque lui ne ha perduto i diritti perché – sostiene – è invece suo diritto costituzionale restare in Csm per quattro anni di fila. Quindi, se abbiamo capito bene, dice – questo sì – che anche se non sapeva niente del fatto che Fdl e Pd stavano provando a salvarlo con un emendamento, lui , comunque, a salvare il seggio al Csm ci tiene. Magari, allora, i nostri sospetti – per quanto irrispettosi e forse per questo illegali – non erano del tutto infondati. Insomma, Davigo ieri è andato in Tv a dire che ci ha querelato. E poi ha detto altre cose un po’ singolari, tipo che in detenzione preventiva in Italia ci vanno solo i senza casa e quelli beccati in flagrante e gli assassini seriali. E che all’estero ci va molta più gente. E che lui non può pronunciarsi sullo scandalo di magistratopoli, o sullo scandalo Di Matteo-Bonafede, o su altre questioni simili perché lui fa parte della commissione disciplinare del Csm e quindi potrebbe essere chiamato a giudicare, e chi giudica non può avere già espresso pubblicamente dei giudizi. È vero. Mi ricordo che queste cose le scrissi, personalmente, un paio d’anni fa quando Davigo partecipò a una votazione, in disciplinare, su Woodcock, sebbene in una intervista, molto prima di essere chiamato al giudizio in disciplinare, avesse giurato sull’innocenza di Woodcock. Sì: lo scrissi. E lui anche quella volta annunciò querela. Però quella querela non è mai arrivata. Se arriverà, porterò in giudizio a mia difesa Davigo stesso e le frasi che ha pronunciato ieri in Tv, da Floris. Sulla questione del carcere preventivo, chissà chi gliele ha fornite quelle informazioni. Le persone in attesa di giudizio, in Italia, sono mediamente 20 mila, in alcuni periodi anche di più. Un migliaio di senza tetto, d’accordo, una decina beccati in flagrante e diciamo quattro assassini seriali… Gli altri, circa 18,986? Beh, nessuno gliel’ha chieste queste cose. Nessuno gli ha chiesto se era vero o no l’emendamento pro-Davigo, nessuno gli ha chiesto – visto che parla sempre di quel che succede all’estero – se conosce molti magistrati di altissimo ruolo, come il suo, che passano le giornate in Tv. Come mai? Beh, questa è una questione che riguarda più noi giornalisti che i magistrati. I magistrati si limitano ad approfittare di condizioni di favore. Noi giornalisti, in genere, organizziamo le trasmissioni, quando ci sono i magistrati, cercando di invitare solo interlocutori – per carità autorevolissimi – che non hanno nessuna posizione critica verso i magistrati, o perché sono proprio giornalisti pro-procure, o perché sono giornalisti che si occupano di altre materie e sanno solo un po’ di giustizia. È così con Davigo, con Gratteri, con Di Matteo e con tanti altri della piccola schiera dei magistrati che stanno più in Tv che in tribunale. La minuscola pattuglia dei giornalisti o dei politici garantisti – tranne che in poche trasmissioni che fanno eccezione – sono sempre esclusi se c’è un magistrato in giro. Chissà perché. Magari perché le Tv hanno paura anche loro delle querele. Magari perché l’amore dei giornalisti per i magistrati è insopprimibile.

Davigo come Jon Snow, le vicende del Csm più avvincenti del Trono di Spade. Rinaldo Romanelli, Giorgio Varano su Il Riformista il 22 Maggio 2020. Il “nuovo corso” del Csm è ormai diventato di gran lunga più avvincente perfino della fortunata serie tv “Il trono di Spade”, e si candida a colmare il vuoto che questa ha lasciato. Dopo la puntata con Di Matteo, eccone un’altra con un diverso componente del Csm. Il Consigliere Davigo l’altra sera in tv ha dato dimostrazione di quanto i principi di “Autonomia e Indipendenza” – non a caso è il nome della corrente di cui è fondatore e leader – possano essere esaltati fino a renderli universali e quindi valevoli anche al di fuori dell’esercizio della giurisdizione. Autonomia e indipendenza, in primo luogo da ogni contraddittorio qualificato. In televisione ha annunciato, con il consueto monologo davanti a volti accondiscendenti ed estasiati, che quando dopo l’estate cesserà le sue funzioni di magistrato per raggiunti limiti di età permarrà comunque nell’incarico di Consigliere togato del Csm. Autonomia e indipendenza, da ogni condizionamento che potrebbe derivare dalle sue dichiarazioni a un organo di rilievo costituzionale qual è il Csm, che dovrà trattare ad ottobre la sua pratica di decadenza per raggiunti limiti di età. Egli ha ritenuto, appunto, che la televisione fosse il luogo più idoneo ove parlarne. Autonomia e indipendenza, anche da ogni ordinario canone di ragionamento giuridico. Ha affermato che quando andrà in pensione come magistrato non lascerà il ruolo di Consigliere, salvo decisioni diverse del Csm (e ci mancherebbe pure…), perché l’art. 104 Cost. stabilisce che i Consiglieri durano in carica 4 anni. Non si comprende quale possa essere il collegamento tra la durata ordinaria del mandato e la perdita dei requisiti per la permanenza nella carica. Se il dott. Davigo avesse ragione, tutte le ipotesi di decadenza dei Consiglieri previste dalla legge istitutiva del Csm sarebbero incostituzionali. Tuttavia, per lui il mandato dura sempre quattro anni, “a prescindere”, come direbbe Totò. Autonomia e indipendenza da un principio costituzionale inderogabile: tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. E l’esercizio delle funzioni giudiziarie è, per legge, requisito necessario per la permanenza nella carica del componente togato del Consiglio superiore della magistratura. Autonomia e indipendenza dalle decisioni della magistratura stessa, posto che il tema della permanenza in carica di un Consigliere togato che ha cessato l’esercizio delle funzioni in magistratura è stato già affrontato e risolto dalla magistratura amministrativa, con un principio tanto ovvio quanto invalicabile. L’esercizio delle funzioni giudiziarie è da considerarsi requisito necessario per la permanenza nella carica di componente togato del Consiglio superiore della magistratura. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, secondo il quale il magistrato che nel corso della carica di consigliere togato del Csm cessi dalle funzioni giudiziarie (anche per raggiunti limiti d’età) non potrà, in caso di mancate dimissioni volontarie, che essere dichiarato decaduto dalla predetta carica. Autonomia e indipendenza, rispetto all’organismo di cui si è parte. Il dott.Davigo ha spiegato in tv le sue ragioni per la permanenza in carica nell’organismo di cui è parte. A questo punto v’è d’augurarsi che il Consiglio Superiore della Magistratura affronti la questione senza attendere ottobre o la prossima puntata della saga in tv. Autonomia e indipendenza, rispetto al procedimento disciplinare. Infatti, il consigliere togato del Csm cessato dalle funzioni giudiziarie per sopraggiunti limiti d’età, che continuasse a ricoprire la carica di consigliere, si troverebbe in una posizione di immunità dal procedimento disciplinare come magistrato, pur essendo stato eletto in ragione di tale funzione, e dunque non potrebbe più operare nei suoi confronti la previsione di decadenza automatica dalla carica di consigliere, che scatta necessariamente ogniqualvolta sia comminata, all’esito del procedimento disciplinare, una sanzione più grave dell’ammonimento. Numerose ragioni di opportunità politica, di trasparenza, di ristabilimento dei rispettivi ruoli imporrebbero il subentro a ottobre del secondo degli eletti con una presa di posizione chiara del Csm già nei prossimi giorni, anche per consentire al magistrato che subentrerà di non lasciare il suo incarico attuale senza un minimo di preavviso, con conseguenti problemi per l’ufficio. Vedremo se invece ci toccherà aspettare di vedere in tv la prossima puntata della saga. 

Napoli, il sindaco de Magistris accusa: "Se non appartieni a una corrente della magistratura non fai carriera e non ti salvi in un processo disciplinare". Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 da La Repubblica.it. "Se non appartieni non ti salvi nel processo disciplinare, se non appartieni ad una corrente non arriverai mai a fare il procuratore della Repubblica, il procuratore nazionale Antimafia, il presidente del tribunale". Lo ha detto il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, a radio24 interpellato dai conduttori su magistratura e politica. Dopo aver ricordato la propria vicenda professionale da ex magistrato, il primo cittadino si è soffermato sul ruolo delle correnti all'interno della magistratura spiegando che "quando lo chiedi ti dicono che le correnti nascono, ed è vero, come pluralismo di opinioni all'interno della magistratura e anche questo è vero perchè non tutti hanno la stessa testa, ognuno ha il proprio profilo culturale, filosofico e anche politico con la "p" maiuscola. Ma - avverte - altra cosa è, invece, se tu devi appartenervi per fare carriera o per essere protetto se fai qualcosa di negativo o se ti devono colpire". "Io, ad esempio - ricorda De Magistris - rimasi isolato, perchè non solo ero estraneo a qualsiasi ambiente esterno alla magistratura, ma avendo indagato sui magistrati questo non mi è mai stato perdonato. Non solo volevano che non uscissero fuori le cose ma non volevano nemmeno lavare i panni sporchi in famiglia. Quando segnalai tutto al Csm, la coltellata finale arrivò proprio da lì. Basta vedere le cronache di questi giorni - ha poi concluso - per capire cosa è diventato".

Magistratopoli, parla Carlo Verna: “Esamineremo telefonate tra giornalisti e Pm”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 23 Maggio 2020. Il mass media più potente oggi si chiama trojan. Non è una testata registrata ma un formidabile broadcaster: tutto ciò che capta viene pubblicato e dibattuto in televisione. Tutto o quasi, perché quando il meccanismo va in cortocircuito, perché riguarda il mondo dell’informazione e in particolare alcune firme dei grandi quotidiani, il pudore e i distinguo hanno la meglio. E al feroce impeto del “pubblicare sempre, pubblicare tutto”, subentra l’improvvisa scoperta della “non rilevanza”. Verso se stessi. È bastato un trojan, inserito tramite un escamotage studiato dal Gico della Guardia di Finanza nel telefono di Luca Palamara, ex consigliere Csm ed ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, ed apriti cielo: i verbali depositati presso la Procura di Perugia ci restituiscono impietose immagini di confidenzialità tra alcune Procure e alcune redazioni, senza soluzione di continuità. A dispetto di quanto avviene di solito, e della clamorosa complicità che trapela dalle carte tra grandi firme e Palamara, non ne troviamo alcuna traccia nel dibattito pubblico.  Chiediamo cosa ne pensa il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna. Giornalista Rai che prima di fare il giornalista indossava la toga. Da avvocato.

Ha letto le intercettazioni sui giornalisti che parlavano con Palamara?

«Veramente no. Ma lei mi ha fatto venire la curiosità. Le leggerò».

In effetti, troviamo verbalizzati rapporti di prossimità, per non dire di complicità.

«Il “giro di nera”, agli inizi della mia carriera, era fatto di telefonate quotidiane alle fonti di informazione che per la cronaca locale sono commissariati e comandi dei Carabinieri, e poi a salire… A volte si finisce per stabilire rapporti di amicizia, succede tra cronisti di giudiziaria e magistrati. E succede anche che al fine di ottenere notizie, a volte la fonte viene blandita».

Qui leggiamo di una prestigiosa firma di “Repubblica” che avvisa di corsa Palamara, mettendolo in guardia perché c’è un’altra giornalista che lo starebbe per raggiungere per strappargli una dichiarazione. Non è proprio il “giro di nera”.

«Se fosse confermato, penso dovrebbe riunirsi ed esprimersi il Comitato di Redazione di Repubblica, chiederne conto all’interessata e poi investire del caso il Consiglio di Disciplina del Lazio».

Iniziamo con i distinguo. Se Palamara fosse stato messo in guardia dall’arrivo di una giornalista da un parlamentare, invece…

«Preferisco che se ne occupino i consigli di disciplina. Prenderemo in esame questa roba e gli uffici procederanno».

Si può fare giornalismo facendo il gazzettino delle procure, limitandosi a pubblicare intercettazioni?

«L’intercettazione è un mezzo invasivo su cui va fatta una riflessione seria. Ma è un mezzo di investigazione. Il giornalista ha l’obbligo di pubblicare tutto ciò che è rilevante, se ne viene a conoscenza, quando siano notizie comprovate e di interesse sociale».

Vale anche se ad essere intercettati sono i giornalisti?

«Vale anche per i giornalisti stessi, certo. Se quel che dicono in una intercettazione è rilevante dal punto di vista pubblico».

Ma qui veniamo al secondo problema. Chi decide cosa è rilevante socialmente? I giornalisti stessi. E quando sono intercettati il conflitto di interessi esplode.

«Esiste una coscienza professionale, alla quale faccio appello. Il giornalista deve rimanere terzo, tra la fonte e il pubblico dei lettori, soprattutto quando si parla di giustizia».

I giornali possono vivere senza diventare gazzette delle procure?

«Sarebbe auspicabile. Il bravo giornalista è quello che non cede a farsi megafono ma studia, domanda, approfondisce».

Questo non avviene quando si diventa troppo familiare con una fonte.

«Cosa che può accadere e va valutata caso per caso. La “nobilitate” si fa valere quando la fonte prova ad andare al di là del mero rapporto informativo».

In Italia si continuano a celebrare quattro gradi di giudizio, il primo è il processo mediatico.

«Il processo mediatico è un male per questo Paese. Siamo d’accordo. Ci vuole molta responsabilità. Certo, se dessimo solo la notizia della condanna definitiva, non pubblicheremmo quasi più nulla».

Rimane che c’è troppa commistione.

«Non vorrei sparare giudizi sui cronisti della giudiziaria. Certo è che molti sollevano questa questione. Ai colleghi ripeto: “Magis amica veritas”, la più grande amica di tutti sia sempre la verità».

È favorevole alla separazione delle carriere tra magistrati e giornalisti?

«(Ride) Questa è una cosa che dite voi».

Esistono anche troppe fabbriche dei dossier.

«È chiaro. Smentirei la realtà, se lo negassi. E spesso sono caratterizzati da fuoco amico. Casi di cronaca hanno dimostrato che c’è sempre una parte che trama contro l’altra».

Vale anche per i giornalisti?

«Vale per tutti».

E i giornalisti poco corretti vengono sanzionati puntualmente?

«Non sono del parere che non si possa querelare un collega. Se qualcuno per danneggiarti mischia il vero con il verosimile e il falso, quello va sanzionato in tutte le sedi. Anche civili e penali».

Che clima c’è tra i giornalisti?

«C’è tanto veleno nella categoria. Su questo nessuno ha la ricetta. Un clima imbarbarito dalle interazioni in Rete: prevalgono insolenza e ignoranza, anche tra i colleghi giornalisti. Il giornalista sui social alle volte dà il peggio di sé. A tutti ricordo: il giornalista è giornalista sempre, qualunque tipo di comportamento è sanzionabile. Noi incarniamo la professione 24 ore al giorno».

Come è cambiato il giornalismo in questi anni?

«Dobbiamo far capire alla gente dove sta la verità. La nostra funzione è oggi ancora più importante, in un mondo disintermediato. Io dico che i professionisti dell’informazione seri, servono più di ieri. Troppi si autoproclamano media indipendenti senza averne esperienza e competenza».

E sulla giustizia si finisce spesso per dare il peggio.

«Ricordo il libro del grande Vittorio Roidi: Coltelli di carta. Possiamo uccidere la dignità delle persone, con i nostri articoli. Stiamo attenti, stiamone distanti. Nel momento in cui interveniamo su un momento così delicato della vita di una persona come quello in cui va a processo e può perdere la libertà personale, dovremmo avere la delicatezza di parlarne come se si parlasse di noi stessi. La nostra coscienza è arbitro, e va azionata come non mai».

Sulle sanzioni disciplinari contro certi titoli l’OdG ha battuto un colpo.

«Ho pungolato il Consiglio di Disciplina. Abbiamo fatto un’operazione dicendo che come ente pubblico a carattere associativo dobbiamo difendere il buon nome della categoria dei giornalisti. E abbiamo dato mandato a una avvocatessa, Caterina Malavenda, di calcolare se anche noi tutti singoli iscritti abbiamo sùbito danni dalla condotta di Feltri, con riferimento alla campagna discriminatoria contro i meridionali».

Come si ridà dignità a questa professione?

«Ci sono molti interventi urgenti. Occorre un nuovo quadro normativo, siamo nel 2020 con una legge del 1948. La legge sulle iniziative giudiziarie temerarie deve riprendere il suo iter, interrotto dal virus a febbraio. E poi c’è una questione ordinamentale importante: noi siamo vigilati dal Ministero della Giustizia. Può un potere di controllo sottostare al Ministero della Giustizia, come in Iran? È una norma che esiste dal 1963, ma è sbagliata. E va cambiata con urgenza».

Tante battaglie, e Verna è a fine mandato.

«Finisco il mandato e non penso di ricandidarmi, largo ai giovani. Lascio a verbale tante battaglie e qualche iniziativa. A Feltri ho imposto un aut-aut: esiste l’art.21 ma anche l’art.3, che vieta ogni discriminazione. Ed esiste la legge Mancino, in primis per noi che scriviamo. Il Consiglio della Campania ha radiato il conduttore sportivo che aveva fatto una telecronaca sessista. In Piemonte una insegnante scrisse cose orrende su un agente di polizia morto, “uno di meno”. Si scoprii che era anche giornalista pubblicista, il Consiglio di disciplina del Piemonte l’ha radiata».

Renato Farina e la figuraccia della magistratura: "Si è strappata la gonna e ha mostrato le gambe pelose". Renato Farina su Libero Quotidiano il 21 maggio 2020. Magistratopoli? Non esageriamo. La parola oltretutto fa schifo, ci ha stufato. Però, senza bisogno di esibire la citazione completa di Emilio Fede, viene proprio naturale constatarlo: che figura di... Nonostante tutto però nessuno incide la corazza della sua onnipotenza. Se mai dovesse verificarsi nell'ordine giudiziario un ribaltamento come quello che ha fatto passare la politica dalla Prima alla Seconda Repubblica, anche lì l'autore sarà lo stesso: le toghe, stavolta però nei panni dei sicari di sé stesse. Cominciamo dalla cronaca di ieri per constatare che la magistratura - intendiamo quella militante e caporiona - ha lasciato al suo posto il povero fantaccino, il guardasigilli Alfonso Bonafede. Costui aveva due mozioni contro, ma l'arci-mozione, la super-mozione invisibile ma pesante come le tavole del Sinai l'aveva piazzata da giorni l'unico potere vero e sovra politico che ci sia da noi. Cioè quella specie di Gigante di Rodi che nella variante italica indossa la toga. Ecco, qui il discorso si fa interessante. Il complemento di luogo è la novità. Finora è stato insieme banale e inutile denunciare che il piedone del gigante in toga sia uso calpestare campi che la Costituzione gli precluderebbe. Dirlo è ormai un vezzo, che non scalfisce il tran tran. Invece è sempre stato vietato alludere anche con delicatezza alla cancrena inesorabile del potere che corrompe l'umana specie e dunque anche l'etnia tribunalizia. Ancora un paio di mesi fa, se accennavi anche solo a questa possibilità di malattia organica dell'ordine giudiziario, qualcosa di non bello ti capitava, e non solo nel senso di un'opinione avversa. Come dice Travaglio contro chi dissente dal pensiero forcaiolo: paura eh? Paura sì.

GIGANTE DI RODI. Ma c'è un fatto nuovo, la magistratura infilando il Trojan nelle cavità di uno dei suoi più eminenti capoccia, si è strappata la gonna, e ha mostrato gambe pelose. E qui diventa utile ricordare la storia del Gigante di Rodi: aveva i piedi di argilla. E chi ha in mano il martello che ha già spiaccicato la classe politica, e che si chiama intercettazioni a strascico, è il Gigante che se lo sta dando sui piedi. Per ora l'arto estremo si è solo scheggiato. Ma qualche altro colpo suicida, e magari parte un'altra epoca della giustizia in Italia. In questi mesi, settimane, giorni con un crescendo in cui più che Rossini c'entrano le osterie, le intercettazioni che le toghe si sono fatte tra loro, hanno svelato un mondo che la plebe assocerebbe alla parola bordello. In chi ci ha messo il naso hanno suscitato lo stesso stupore che le lascivie della Monaca di Monza provocarono tra le orsoline. Nessun crimine, nel nostro caso, a occhio e croce. Ma gli sbudellamenti tipici delle guerre intestine. Del resto sono accadimenti caratteristici di ogni tribù e di qualsiasi clero. Nel caso specifico, si è capito come non sia tanto strano se alcune denunce finiscono nei cassetti e altre in bella vista per il comodo dello sputtanamento a mezzo stampa. Cosa non si fa per la carriera mia e dell'amico.

ROTTO L'INCANTESIMO. Queste costumanze da casba algerina sono state discretamente tenute a volume bassissimo. Non sono faccende che ispirano fiducia nel popolo. Il quale beveva come oro colato l'idea della immacolata imparzialità dei magistrati anche nella selezione dei migliori. Ieri noi abbiamo rotto l'incantesimo. Il re ha lo stomaco con un pelo lungo un palmo. E nessuno lo può più negare. Il fatto è che una volta gli scotennamenti e gli smutandamenti di pm del Sud contro quelli del Nord, di giudici della corrente di sinistra contro i compari della fazione di destra, erano coperti da una omertà fenomenale. Chi aveva provato a ribellarsi all'andazzo e a svelare gli intrighi della casta ermellinata per occupare i posti più ambiti, era stato subito liquidato e incriminato con ipotesi di reato fantasiose (ad esempio il pm Francesco Misiani, che provò negli anni 90, ad alzare il velo sulle "toghe rosse" essendo una di loro). Lo spettacolino imbastito ieri al Senato, con la pantomima dei giorni precedenti, voleva trasferire la biancheria sporca e piuttosto insanguinata della guerra tra toghe nel solito stanzino della politica, riducendola a una zuffa tra partiti. Calcolo sbagliato. Noi non ci caschiamo. Ehi, oggi l'unica vera guerra in corso è nei viluppi intestinali della Gigantessa (correggiamo qui il genere al femminile per rispetto della magistratura). Non è solo questione delle indagini e degli arresti che Filippo Facci ha raccontato ieri riguardanti i vertici di due Procure della Repubblica pugliesi. Quello è il bubbone-reato.

IL NUOVO GIOCHINO. Ma il vero gran teatro è la vita quotidiana dei magistrati, quelli che contano e dirigono la carriera dei colleghi, offerta come oggetto dello stesso voyeurismo finora indotto nei confronti dei politici. Non è un bel vedere, e ne vedremo ancora. Ma nella magistratura questo scoperchiarsi di vasi infetti non ha prodotto alcun moto di autoriforma. Da quando Bonafede ha dotato i pm del nuovo meraviglioso giocattolo, il Trojan, che registra qualunque sospiro anche del passante che ti chiede l'accendino, non si tengono più. È bastato il Trojan infilato nell'intimità di un solo pm di grossa tonnellaggio per aprire una gigantesca scatola di tonno Palamara. Un editorialista bravo qui citerebbe la ybris da Eschilo a Euripide, a noi pare più consono alla statura dei personaggi quali risultano dalle intercettazioni citare un rozzo proverbio popolare: chi causa del suo mal pianga sé stesso. Il problema è che i magistrati non hanno nessuna intenzione di piangere su sé stessi, ma nonostante tutto di far piangere ancora noi, con una giustizia che in nessun modo intende rinunciare alle sue prerogative di lentezza e di galera preventiva. E così i magistrati, grazie alla manina dei giallo-rossi hanno salvato il loro ministro pupillo, pur avendogli fatto prendere un pedagogico spavento. In fondo va bene a tutti l'Alfonso, somiglia tanto allo Spumarino Pallido dei racconti di Guareschi.

E’ scoppiata Magistratopoli, ma stampa e tv tacciono per servilismo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Hanno arrestato un magistrato, e noi partiamo dall’idea che sia innocente. Come molti politici, molti calabresi o siciliani, molti architetti, imprenditori, operai, idraulici e medici. Succede spessissimo che una persona arrestata sia innocente. E quando uno viene arrestato e poi si scopre che è innocente, e che quindi gli è stato arrecato un danno gravissimo che ha sfregiato la sua vita, quando succede questo è l’unico caso, nel vivere civile, in cui nessuno viene chiamato a pagare per l’errore. È un errore ammesso. Se un medico sbaglia lo si stanga, se sbaglia un magistrato, spesso, lo si promuove. Il magistrato arrestato si chiama Carlo Maria Capristo, è un magistrato di altissimo grado, un Procuratore, ha una lunga carriera alle spalle. È accusato di un reato molto grave: non di avere aggiustato una sentenza o un procedimento, favorendo un imputato, ma dell’esatto contrario: di avere fatto pressioni su un Pm perché mettesse nei guai degli innocenti. Cioè di avere abusato dolosamente del suo potere per vessare persone per bene. Questo è l’unico caso (la presenza del dolo) nel quale anche un magistrato può essere processato. Il dolo viene considerato particolarmente grave quando è a favore di un imputato, in quel caso si finisce proprio in cella, perché si viene considerati traditori della funzione punitiva della magistratura. Se il dolo invece viene esercitato “contro” un imputato, il reato è considerato un po’ meno grave e quindi si ricorre agli arresti domiciliari. L’arresto domiciliare di questo Procuratore, e le indagini avviate su un altro Procuratore (quello di Trani) che sarebbe stato in qualche modo suo complice, avviene proprio nei giorni dello scandalo Csm. Cioè mentre su alcuni giornali (pochi) vengono pubblicate paginate di messaggi e intercettazioni realizzate sul cellulare di Luca Palamara (ex capo dell’Associazione Magistrati ed ex membro del Csm) grazie all’uso di quel maledetto aggeggio che è il Trojan. Cioè un virus informatico che trasforma il tuo cellulare in una centralina di spionaggio come quelle che si usavano nella Rdt ai tempi del regime comunista. Le intercettazioni pubblicate sui giornali hanno raccontato delle lotte tra correnti della magistratura e hanno scatenato nuove lotte fratricide. Il Partito dei Pm, che in questi 25 anni è stato – in genere senza farsi notare – un pilastro del sistema politico, nel nostro paese – capace di influenzare sia le scelte politiche sia, largamente, la selezione dei gruppi dirigenti – improvvisamente si è frantumato. Anche grazie agli scontri che si sono aperti nei 5 Stelle (che sono la rappresentanza parlamentare del partito dei Pm) e alla furia fratricida nelle correnti più reazionarie e giustizialiste delle toghe. Ora possiamo tranquillamente dire che ci troviamo di fronte a un fenomeno che – usando un vecchio linguaggio giornalistico – potremmo chiamare “Magistratopoli”. Come la vecchia Tangentopoli. Come allora, a creare il fenomeno non sono tanto i reati, che – francamente – soprattutto in questa occasione o non ci sono o sono minimi – ma il clima che si è creato: un inseguirsi di sospetti, accuse, vendette, e la conseguente perdita verticale di autorità morale. La magistratura si è mostrata finalmente al pubblico per quel che realmente è: il luogo di esercizio di uno straordinario potere, politico – e persino fisico – sulla società italiana, che però pretende invece di essere un luogo di moralità e di etica pubblica. Cos’è in realtà la magistratura: in un’enclave intoccabile, che impone le sue leggi a se stessa, che lottizza, che patteggia, che commercia favori, posti, Procure e naturalmente molto potere. Qual è la differenza tra Magistratopoli a Tangentopoli? C’è una differenza fondamentale, che può determinare un esito di questo scandalo ben diverso dall’esito che, negli anni Novanta, portò alla demolizione della Prima Repubblica, cioè del cinquantennio più produttivo e democratico della storia d’Italia. La differenza è semplice: è la stampa, bellezza. Negli anni Novanta la stampa e la televisione si schierarono a corpo morto con i magistrati. Trascinarono dalla loro parte anche molti imprenditori, che concessero il loro appoggio ai Pm in cambio, semplicemente, dell’impunità. Da allora, l’informazione, in Italia – soprattutto quella dei grandi giornali e delle Tv – è diventata in larghissima misura subalterna alle Procure. Spesso al servizio vero e proprio delle Procure, in una funzione del tutto ancillare. Oggi questa storia dell’informazione pesa. E se allora l’informazione si schierò contro Tangentopoli, oggi non sembra per niente intenzionata a schierarsi contro magistratopoli. La maggior parte dei mezzi di informazione tace, non riporta le notizie, sembra allo sbando di fronte allo sciogliersi del partito di riferimento (il partito dei Pm). Persino nel racconto dell’arresto del magistrato a Taranto, ieri, gli online dei grandi giornali erano reticenti in modo clamoroso. Il Corriere aveva confezionato un titolo che sembrava uno scherzo: “Ai domiciliari un magistrato: è accusato di contatti con le Alte Sfere”. E il reato? Boh. Non sono sicurissimo che il titolo fosse esattamente questo, lo cito a memoria, perché a una certa ora del pomeriggio il titolo è sparito del tutto. Su Repubblica un titolo appena appena un po’ meno reticente c’era, anche a sera, ma non certo tra i primi titoli. Cosa avrebbero fatto i grandi giornali se avessero arrestato un ministro? Ve lo immaginate? Eppure chiunque sa che un Procuratore è ben più potente di un ministro. Non solo, ma – a occhio – dovrebbe essere quello che arresta, non quello che si fa arrestare. Il problema non è un problema marginale. L’assenza, in Italia, di un giornalismo vero e attendibile, come c’è negli altri paesi, e soprattutto la totale – totale – assenza di un giornalismo indipendente dal potere e soprattutto dal potere della magistratura, crea uno squilibrio formidabile nel sistema dei contrappesi che garantisce la tenuta di una democrazia. E sta portando dei danni forse irreversibili allo Stato di diritto.

Giustizia, adesso i magistrati si arrestano tra di loro: i nemici delle toghe ormai sono loro stesse. Filippo Facci Libero Quotidiano il 20 maggio 2020. Evitare di scrivere «il più pulito ha la rogna» non è un problema: il vero problema è farvi leggere questo articolo, cioè non farvelo mollare dopo due righe dopo che avrete mormorato che «ormai i magistrati si arrestano tra di loro»: che è vero, beninteso, il potere politico ormai non è più antagonista della magistratura ma solo gregario (succube, nel caso dei grillini) e la lotta togata si è fatta intestina. Ma questa è materia che interessa poco. Magistrati che arrestano altri magistrati: ogni volta si parla di anonimi funzionari dello Stato che sono dotati tuttavia dei più grandi poteri (tra questi togliere la libertà e sequestrare un'attività, bloccare conti bancari, congelare intere esistenze) ma che restano gente che la maggioranza di voi non avrà probabilmente sentito nominare, perché nessun cittadino li ha mai eletti, nessuno di loro va in tv, raramente concedono interviste a meno che ci sia qualche passerella in cui esibire qualche condanna popolare. Se vi giunge nuovo il nome di Carlo Maria Capristo (noto però a Taranto, e vedremo perché) magari si può anche titolare che è stato arrestato nientemeno che un Procuratore Capo della Repubblica. Ma la carica non basta, anche se è stato arrestato per un reato gravissimo come corruzione in atti giudiziari (l'hanno messo ai domiciliari: tra i magistrati vige una certa etichetta) e con lui sono stati coinvolti anche un ispettore di Polizia e tre imprenditori. È indagato anche il procuratore di Trani Antonino di Maio, e l'inchiesta risale a un anno fa, portata avanti dalla Procura di Potenza. Azzardiamo una sintesi, ossia l'accusa. Tre imprenditori cercarono di convincere un giovane magistrato della Procura di Trani a chiudere alcune indagini per usura e quindi avviare il processo contro un imprenditore senza che ce ne fossero i presupposti - questa la pista - e solo perché gli interessati avevano un obiettivo preciso: ottenere i soldi e i benefici di legge che conseguono allo status di «vittima di usura», che in Italia è praticamente un mestiere. Il pm però non ha chiuso nessuna indagine e, anzi, ha raccontato tutto alla sua procura: che però, a quanto pare, ha incredibilmente chiesto l'archiviazione. Il fascicolo poi è stato avocato dalla Procura generale di Bari ed è stato trasmesso alla Procura di Potenza (tutti balletti di competenza, quando dei magistrati indagano su altri magistrati) che circa un anno fa ha avviato delle indagini. Ieri la svolta: tutti arrestati, con le accuse a vario titolo di tentata induzione indebita a dare o promettere utilità, e poi falso e truffa. Ora ripetiamola con nomi e cognomi: tre imprenditori pugliesi che sono i fratelli Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo (si chiamano così, come ciò che hanno ottenuto) hanno cercato di indurre la pm Silvia Curioni (Trani) a perseguire per usura un certo Giuseppe Cuoccio; questi fratelli miravano ai vantaggi patrimoniali della posizione processuale di parte presunta offesa e aspirante parte civile con l'applicazione della legge a sostegno delle vittime di usura e relativi benefici del caso. Per riuscire nel loro intento ecco entrare in scena il procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo, che secondo i magistrati potentini sarebbe l'organizzatore di una corruzione in atti giudiziari che utilizzava un poliziotto («notoriamente suo alter ego» e «uomo di fiducia», Michele Scivattaro) per fare pressioni sulla pm di Trani, questo «abusando della qualità di procuratore della Repubblica di Taranto, superiore gerarchico del marito della pm Curioni, ossia di Lanfranco Marazia, che a Taranto prestava servizio come pm». In pratica le avrebbe fatto capire che avrebbe esercitato «fini ritorsivi» e ostacolato la carriera del marito, «visto che aveva già dimostrato nel 2017 di essere capace di farlo», scrivono i pm. Ovviamente a Taranto è scoppiato un casino, anche perché Capristo è quello che si era scontrato con la proprietà dell'Ilva (ora ex Ilva) ad apparente tutela della salute dei cittadini: insomma, da una parte aveva un suo seguito, dall'altra (se è vero) pare che trafficasse mica poco. Capristo comunque, secondo l'accusa, avrebbe mandato dalla pm di Trani Silvia Curioni il «suo» poliziotto ed esercitato pressioni facendole rammentare che a Trani (dov' era stato procuratore capo) manteneva ottimi rapporti in particolare col neo procuratore capo Antonino Di Maio, capo di lei e di suo marito. Anche Di Maio ora è indagato per abuso d'ufficio. Capristo e l'ispettore sono anche «gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso» perché l'ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari anche se in realtà se ne restava comodamente a casa, o svolgeva incombenze per conto del procuratore. Dalle immancabili intercettazioni, secondo i gip di Potenza, emerge «l'esistenza di un centro di potere a Trani» denominato "i fedelissimi", che include pubblici ufficiali e soggetti privati tra cui l'imprenditore Gaetano Mancazzo, definito «uno del club». Tutti legati a Capristo. Parentesi: ricordiamo che Trani è la stessa procura in cui operavano i magistrati Savasta e Nardi, arrestati per corruzione nei mesi scorsi per altre vicende. Altra parentesi: Capristo era già indagato per abuso d'ufficio a Messina in ordine al cosiddetto «sistema Siracusa», una presunta organizzazione accusata di pilotare decisioni del Consiglio di Stato. I fatti su cui indagano in Sicilia risalgono a quando Capristo era capo procuratore a Trani e riguardano anche un altro famoso depistaggio: quello dell'inchiesta sulle tangenti Eni. A Trani era giunto un esposto anonimo sulla vicenda che Capristo non inviò però ai colleghi di Milano (competenti) ma a Siracusa, doveva aveva dei giri tutti suoi. Ecco, l'articolo è finito, e i cronisti in genere non scrivono mai tutto quello che sanno: ma questa volta è proprio così. Abbiamo capito solo che è un troiaio, e che avrà un seguito. 

Giovanni Bianconi e Virginia Piccolillo per il ''Corriere della Sera'' il 20 maggio 2020. C' è un'intercettazione, scrive il giudice che ha ordinato l'arresto del procuratore di Taranto (ex di Trani) Carlo Capristo, che svela «l'esistenza di un centro di potere a Trani denominato "i fedelissimi" capace non solo di influenzare le scelte di quella Procura, ma anche di coinvolgere altre istituzioni». Il 26 aprile 2018, uno dei principali collaboratori di Capristo, il cancelliere in pensione Domenico Cotugno dice al telefono: «Io servivo a lui... lui serviva a me... insieme abbiamo fatto una forza che... te ne dico una! Abbiamo messo in cottura il presidente della Repubblica una volta... lo abbiamo messo in cottura che dovevamo fare una certa manifestazione...». Un accenno che potrebbe riferirsi a una visita del capo dello Stato Sergio Mattarella del 2017, o al suo predecessore Giorgio Napolitano che a suo tempo intervenne su una ispezione ministeriale. Oppure una millanteria. Poi Cotugno prosegue. «Quello (Capristo, ndr ) ti fa impazzire perché è un vulcano... ora che per esempio hanno nominato il presidente del Senato... Casellati... che è un' amica nostra... gli telefonai, gli dissi "hai mandato un messaggio?"... vedi che quella la Casellati quando stava al Csm gli fece la relazione perché lui doveva andare a Bari. E devi vedere che bella relazione...». Oltre a questo colloquio registrato, agli atti dell' indagine di Potenza - ma anche di quelle collegate di Messina e Perugia sulla presunta corruzione di altri magistrati: inchieste diverse in cui ricorrono gli stessi nomi - gli indizi sul «centro di potere» collegato a Capristo passano dal suo amico Filippo Paradiso, di cui parla l' avvocato messinese Giuseppe Calafiore. Arrestato per corruzione assieme al collega Piero Amara e all' imprenditore Fabrizio Centofanti nel febbraio 2018, con pena successivamente patteggiata, il legale dice in un interrogatorio del 6 giugno 2019: «Attualmente è nell' entourage del ministro Salvini. Paradiso veniva quasi quotidianamente nel nostro studio, vive di pubbliche relazioni tant' è che l' appuntamento tra il pm Longo legatissimo ad Amara e a me (e arrestato con loro due anni fa, ndr ) e la Casellati, all' epoca al Csm, è avvenuto tramite Paradiso. Amara mi spiegava che Capristo era legatissimo a Paradiso, e questo legame si estrinsecò anche in occasione della nomina di Capristo a procuratore di Taranto. Immagino, o meglio deduco, che Paradiso si sia relazionato, anche, con la Casellati a tale scopo, atteso che certamente Paradiso conosceva la Casellati». Il funzionario di polizia è attualmente indagato dalla Procura di Roma per traffico di influenze illecite, e di lui ha parlato la ex pm di Trani Silvia Curione, titolare dell' inchiesta che Capristo voleva pilotare, secondo l' accusa, a suo piacimento. Ricorda un incontro di inizio 2016: «Nel presentarci Paradiso, a casa sua, Capristo disse che era suo amico. Quest' ultimo ci disse, parlando della Procura di Taranto, che l'allora facente funzione Pietro Argentino aveva ottime probabilità di diventare procuratore capo a Matera». Il marito della Curione, Lanfranco Marazia, anche lui magistrato, aggiunge: «Paradiso, spinto da Capristo che aveva evidenziato come Argentino era rimasto amareggiato perché non aveva avuto alcun voto in Commissione (del Csm, ndr ) per diventare procuratore di Taranto, disse che avrebbero profuso il massimo impegno per fare diventare Argentino procuratore a Matera. Parlava al plurale». A luglio 2017, Argentino fu nominato dal Csm procuratore di Matera, con 11 voti. Tra cui quelli di Maria Elisabetta Alberti Casellati e di Luca Palamara. Gli atti su Capristo (compresi i verbali di Amara, che nega quanto riferito da Calafiore, e dello stesso procuratore di Taranto, che nega anche parte di ciò che ha detto Amara) sono finiti agli atti dell' indagine perugina sull' ex componente del Consiglio superiore della magistratura indagato per corruzione. Secondo l' accusa veniva pagato con viaggi e altre regalie da Centofanti, l'amico di Amara e Calafiore, in cambio del «mercimonio della funzione» di componente del Csm. Nell' interrogatorio a Palamara, i pm umbri hanno chiesto notizie di Filippo Paradiso, e l' indagato ha risposto: «L'ho visto più volte sia con Centofanti che con altri consiglieri del Csm con cui si accompagnava, anche di rilievo».

 “Io, pm antimafia, rischio la carriera per un’intercettazione”. Il Dubbio il 21 maggio 2020. Cesare Sirignano rischia il trasferimento dalla Dna perché è stato coinvolto nel caso Palamara: “Ho dato tutto me stesso nella Dna, non posso tollerare che sia in discussione la mia integrità”. ”Il mio trasferimento sarebbe ingiusto, e mi farebbe perdere la fiducia nella giustizia. Per 7 minuti di conversazione verrebbe bruciata la mia vita professionale, 26 anni di sacrifici”. Il pm della direzione nazionale antimafia Cesare Sirignano, si è difeso così, in un intervento durato oltre due ore, davanti al plenum del consiglio superiore della magistratura che discute del suo trasferimento d’ufficio per incompatibilità funzionale e ambientale a seguito di alcune sue conversazioni, emerse dalle intercettazioni agli atti dell’inchiesta della procura di Perugia, con Luca Palamara. ”Ho commesso errori ma non quelli che mi sono contestati, è una vicenda paradossale” ha detto Sirignano. ”Ho dato tutto me stesso nella Dna, non posso tollerare che sia in discussione la mia integrità”, ha sottolineato. ”I presupposti alla base della richiesta di trasferimento sono infondati, lo dicono le carte”. In plenum la prima commissione ha portato sue diverse proposte: una che chiede il trasferimento di Sirignano e l’altra che propone l’archiviazione. Dopo Sirignano è intervenuto il suo difensore, il procuratore generale di Potenza Armando D’Alterio, ed è stata chiesta l’acquisizione da parte dei consiglieri di ulteriore documentazione. La discussione nel merito è stata rinviata a domani. Per illustrare le due delibere su cui i consiglieri saranno chiamati a esprimersi, sono intervenuti i due relatori. Per la proposta di maggioranza, che propone il trasferimento, il togato di Area Giovanni Zaccaro ha sottolineato che ”il Csm tutela la giurisdizione, anche a fronte di condotte dei singoli che appannano l’autonomia della magistratura e la diffusione dei messaggi fra Palamara e Sirignanoha compromesso l’immagine di un ufficio importantissimo come quello della Dna dando la impressione che sia eterodirigibile”. Concetta Grillo, di Unicost, relatrice della proposta di archiviazione, ha sostenuto che “il procedimento amministrativo di trasferimento richiede che il magistrato, nella sede da lui occupata, non possa più esercitare le funzioni con immagine di piena indipendenza e imparzialità. Nel caso in esame, al contrario, il capo dell’ufficio ha escluso che il buon funzionamento della Dna sia mai venuto meno e che la sua affidabilità esterna sia mai stata intaccata dalla vicenda”. Nel corso della discussione era stata anche chiesta dal togato di Unicost Michele Ciambellini la sospensione del trasferimento, in attesa del procedimento disciplinare, proposta messa ai voti e respinta a maggioranza. Per Ciambellini “bisogna garantire l’indipendenza dei magistrati anche nei confronti del Csm, soprattutto in questo momento storico. Ma nessuno dei fatti attribuiti a Sirignano è stato provato con le garanzie che spettano a chi rischia un provvedimento gravemente sanzionatorio. Sirignano ha una carriera specchiata di 26 anni in magistratura, che sarebbe ingiustamente pregiudicata da una decisione sbagliata”. Contrario alla sospensione e favorevole al proseguimento della procedura di incompatibilità il togato di A&I Sebastiano Ardita, che ha sottolineato che ”vi è un nucleo minimale di coincidenza tra i contestati in base all’articolo 2 e la contestazione disciplinare” e che va discusso il merito senza nessuna sospensione.

Liana Milella per la Repubblica il 20 maggio 2020. Raffaele Cantone procuratore di Perugia? "Da evitare assolutamente". Scrive così, in un messaggio whatsapp del 5 febbraio dell' anno scorso, Luca Palamara a Cosimo Maria Ferri. Da un parte il king maker delle nomine marcato Unicost. Dall' altra l' ex leader di Magistratura indipendente, allora deputato del Pd poi passato con Renzi. Lo stesso che giusto oggi, davanti alla Corte costituzionale, chiederà che non si possano usare le sue intercettazioni, quelle con il Trojan del maggio 2019, perché è un parlamentare, quindi protetto dall' obbligo del via libera di Montecitorio. La Consulta dirà solo se questo conflitto d' attribuzione è ammissibile o no, ma certo è che Ferri ha iniziato individualmente la sua battaglia che poi potrebbe anche diventare un vessillo di tutta la Camera. Sull' onda delle coincidenze, la Corte si pronuncerà proprio nel giorno in cui al Csm il plenum dovrà a sua volta decidere se merita il trasferimento d' ufficio un pm della Procura nazionale antimafia, Cesare Sirignano, che al telefono con Palamara cercava a sua volta di piazzare un suo candidato al vertice della procura di Perugia. Già, Perugia, ufficio giudiziario divenuto ormai una sorta di grande tribunale dove si gioca la credibilità della magistratura italiana e del Csm che dovrebbe scegliere, in modo imparziale, senza pressioni di sorta, e solo in base all' effettiva professionalità, dove piazzare gli uomini giusti. Facile immaginare che proprio la procura di Perugia sia particolarmente sotto i riflettori. Ormai siamo quasi giunti al plenum - si dovrebbe tenere tra la prima e la seconda settimana di giugno - che dovrà decidere se dare il ruolo di procuratore a Raffaele Cantone, tornato alla Suprema Corte dopo la presidenza dell' Anac, oppure all' attuale procuratore aggiunto di Salerno Luca Masini. Anche questo uno scontro durissimo, Magistratura indipendente e Davigo per Masini, Area per Cantone, Unicost ancora al balcone. E qui ecco che spunta questa chat del 5 febbraio. Dove Ferri chiede a Palamara "ma Cantone ha fatto domanda". Lui replica "ma per dove?". E Ferri: "Perugia, lo sapevi?". Palamara: "Assolutamente no.

E Sottani (Sergio Sottani, allora procuratore generale ad Ancona) non mi ha mai parlato di Cantone".

E subito dopo Palamara aggiunge: "Da evitare assolutamente". Questa chat parla da sé. Inutile chiosarla.

Sirignano: «Ho combattuto per anni i clan della camorra ora non meritavo la gogna». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 23 maggio 2020. Intervista a Cesare Sirignano, ex membro della Dna trasferito dal Csm per incompatibilità ambientale. Fatali i dialoghi con Palamara. «Ma lei capisce che io per ventisei anni ho sacrificato la mia vita e la mia famiglia? Lo sa che sono sotto scorta da dodici anni per aver sempre lavorato a testa alta?». Cesare Sirignano è una toga in prima linea contro la camorra. Più volte minacciato di morte, il magistrato napoletano con le sue indagini ha portato all’arresto di numerosi esponenti di punta del clan dei casalesi. Giovedì scorso è stato trasferito dalla Dna, dove prestava servizio dal 2015, per «incompatibilità ambientale». Il Csm ha deciso che erano venuti meno i requisiti per la sua permanenza alle dipendenze del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho. Sirignano dovrà ora indicare a Palazzo dei Marescialli una rosa di sedi dove andare. Ad essergli stati fatali sono stati i colloqui con l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Colloqui, contenuti nel fascicolo di Perugia aperto nei confronti del pm romano, finiti a più riprese sui giornali e che hanno anche costretto recentemente alle dimissioni del capo di gabinetto del ministro della Giustizia. «Sirignano – secondo il Csm – non si è limitato a condividere con Palamara critiche aspre nei riguardi di questo o quel collega (Nino Di Matteo e Barbara Sergenti, ndr) del suo ufficio» ma le ha inserite «in un disegno volto a mettere le pedine nei posti giusti e a condizionare gli assetti nell’ufficio». Ad iniziare dalla nomina del nuovo procuratore di Perugia. Questa intervista è stata effettuata prima che il Csm decidesse il trasferimento di Sirignano con un voto a larghissima maggioranza, ventuno voti favorevoli a fronte dei tre espressi dai togati di Unicost che chiedevano di archiviare il procedimento. Per evitare possibili strumentalizzazioni e polemiche l’intervista viene pubblicata oggi.

Dottore, come sta?

«Da otto mesi sto affrontando questa gogna».

Il Csm vuole trasferirla dalla Dna per “incompatibilità ambientale”.

«Potevo andarmene io in prevenzione un anno fa (procedura con cui il magistrato chiede autonomamente di essere trasferito di sede, facendo quindi venire meno l’incompatibilità ambientale, ndr) e non l’ho fatto. Se avessi chiesto il trasferimento di ufficio ero già al primo di anno di quattro (quattro anni è il periodo minimo di permanenza in un ufficio affinché il magistrato possa essere legittimato a presentare una domanda di trasferimento, ndr) prima di andarmene da qualche altra parte».

Perché non lo ha fatto allora?

«È una battaglia di giustizia. Perché deve essere chiaro quello che è stato il mio comportamento. Mi vengono contestate cose che non esistono».

Possiamo ricostruire la vicenda?

«».

L’accusano di aver “manovrato” con Palamara per l’assegnazione di incarichi. Ad esempio c’è la vicenda di Giuseppe Borrelli, allora aggiunto a Napoli e ora procuratore di Salerno.

«Su Borrelli si è creato un corto circuito. Lo conoscevo da anni, ho sempre avuto stima della sua storia professionale».

Lei voleva che Borrelli diventasse il procuratore di Perugia per agevolare Palamara?

«Borrelli aveva un suo interesse personale. Aveva coltivato per anni rapporti con tutti quelli che ora stanno sul banco degli imputati. Io, senza alcun interesse, per garantire la sua imparzialità davanti a Palamara che aveva espresso invece dei dubbi, mi trovo ad affrontare questa situazione di cui non sapevo nulla.

Quindi nessuna manovra per favorire Borrelli?

«Io ho sempre e solo agito per garantire che Borrelli venisse considerato una persona per bene. Senza altri fini».

Ma lei queste cose le ha spiegate ai suoi colleghi al Csm?

«In questi mesi ho fatto ben quattro audizioni al Csm per spiegare come stavano effettivamente le cose».

E allora dov’è il problema?

«Borrelli aveva paura di essere coinvolto nei rapporti con le correnti. Rapporti che molti seguono. Mi investiva quotidianamente delle sue ansie e delle sue preoccupazioni».

Dopo che furono pubblicate le prime intercettazioni fra lei e Palamara, lo scorso maggio, Borrelli decise di incontrarla e di registrare il colloquio.

«Durante questo colloquio Borrelli ricevette la telefonata di una giornalista che fornì una ricostruzione diversa di quanto avevo detto su di lui a Palamara. E presentò un esposto che travisava quanto effettivamente accaduto. Sul contenuto dell’esposto si è aperta la procedura di trasferimento a mio carico».

Quindi lei non voleva che Borrelli diventasse procuratore di Perugia dove era in corso l’indagine contro Palamara?

«Non c’è cosa più falsa di questo mondo! E si capisce dalla trascrizione del colloquio che ebbi con Borrelli. La trascrizione, poi, è avvenuta perché l’ho voluta io. Infatti ho fatto presente che quanto era scritto nell’esposto, una sintesi, era diverso dal contenuto della registrazione. Ho poi depositato altri messaggi e Borrelli ha chiarito meglio l’accaduto quando la pratica per la sua nomina a Salerno era tornata in Commissione per gli incarichi direttivi».

La pubblicazione dei colloqui che Palamara aveva con centinaia di magistrati hanno messo in luce quello che, comunque, tutti immaginavano: il potere delle correnti nella scelta dei capi degli uffici.

«È un sistema che non ho contribuito a creare né a mantenere e della cui esistenza ho preso semplicemente atto. Io ho sempre fatto il magistrato con passione. È vero che ho affermato che se non hai l’appoggio della tua corrente non puoi aspirare a incarichi di rilievo, ma la responsabilità di questo sistema, che sarebbe ipocrita negare, ripeto, non è certo la mia».

Spera in un ripensamento del Csm?

«Confido in una valutazione obiettiva dell’intera vicenda. Io non mi sono mai sottratto. Mi hanno accusato di millantare, insinuando ogni genere di accuse. Io, voglio dirlo ancora una volta, ho grande rispetto per le istituzioni, sono un magistrato, e mi difendo nelle sedi deputate».

Molto chiaro.

«Posso dire un cosa?»

Prego.

«Io ho fatto la guerra ai clan in questi anni, non ha mai fatto le “trastole” (azioni poco chiare in dialetto napoletano, ndr) per garantire impunità o fare indagini nei confronti di chi non le merita».

Ma se il Csm dovesse trasferirla?

«Sarebbe un sacrifico e una battuta d’arresto a cui, però, non ho voglia di credere».

Invece…

Quelle chat che inguaiano le toghe: ''Salvini? Ha ragione ma va attaccato''. In una chat su Whatsapp certe toghe sapevano che Salvini non stava facendo niente di sbagliato. Il leghista doveva comunque essere attaccato senza pietà. Federico Giuliani, Giovedì 21/05/2020 su Il Giornale. Quando era ancora ministero dell'Interno, nel 2018, Matteo Salvini veniva quotidianamente attaccato dai giudici per il suo operato sui migranti. Eppure, oggi, è emerso un fatto quanto mai clamoroso: quelle stesse toghe che in pubblico puntavano il dito contro il segretario della Lega, in privato sapevano benissimo che l'ex ministro non stava facendo niente di male. Il quotidiano La Verità svela le carte in tavola e accende i riflettori su come, in una chat su Whatsapp, certe toghe ammettessero che sì, Salvini non stava facendo niente di sbagliato ma che doveva comunque essere attaccato senza pietà. Tanti i protagonisti della vicenda, a cominciare da Paolo Auriemma, capo della Procura di Viterbo, e Luca Palamara, leader della corrente di Unicost.

Attaccare Salvini. Auriemma, rivolgendosi a Palamara, è molto dubbioso su quanto sta accadendo in quei torridi giorni d'agosto di due anni fa: ''Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell'Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco cosa c'entri la Procura di Agrigento''. In fondo al messaggio Whatsapp la raccomandazione di non diffondere il contenuto del testo. La risposta di Palamara arriva quasi subito: ''Hai ragione. Ma adesso bisogna attaccarlo''. Queste, e molte altre chat, sono agli atti dell'inchiesta che ha scosso le fondamenta del Csm. La discussione va avanti, sottolinea ancora La Verità, e Auriemma è dubbioso: potrebbe essere un pericoloso boomerang continuare ad attaccare Salvini sull'immigrazione. Anche perché ''tutti la pensano come lui'', ''tutti pensano'' che abbia ''fatto benissimo a bloccare i migranti''. Già, perché in quel periodo il ''Capitano'' è nel mirino dei pm siciliani. Auriemma è titubante: ''Indagato per non aver permesso l'ingresso a soggetti invasori. Siamo indifendibili. Indifendibili''. In altri messaggi, con altri interlocutori, Palamara esprime tutto il suo disagio di fronte all'eventualità di incontrare pubblicamente Salvini e, nel frattempo, si fa inviare i pdf delle sentenze del processo di Umberto Bossi e Francesco Belsito. Insomma, a tenere unite, per dieci anni, le toghe rosse di Area e Palamara sarebbe il conflittuale rapporto con il centrodestra. Per finire, in una chat tra Palamara e Bianca Ferramosca, componente della giunta esecutiva Anm (Associazione nazionale magistrati), quest'ultima, nel novembre 2018, se la prende con i colleghi che hanno dato ragione a Salvini sull'allora dl Sicurezza, componenti di una cordata ''pericolosissima''.

Sergio Mattarella al telefono con Matteo Salvini: "Quella merda", le chat dei magistrati e le ombre sulla giustizia. Libero Quotidiano il 21 maggio 2020. C’è stata una telefonata cordiale tra Sergio Mattarella e Matteo Salvini sul caso delle chat di alcuni magistrati che esprimono giudizi pesantissimi sull’allora ministro dell’Interno. Il capo dello Stato non poteva rimanere indifferente dinanzi ad una vicenda di una gravità inaudita: Salvini ha espresso lo stupore per le rivelazioni del quotidiano La Verità, la preoccupazione per la situazione economica e anche l’amarezza per gli attacchi pesanti e strumentali di alcuni parlamentari della maggioranza di governo nei confronti della Lombardia.  Inoltre il leader leghista ha preannunciato l’invio di una lettera: “L’avversione nei miei confronti è evidente - scrive Salvini - al punto che uno dei magistrati, pur riconoscendo le ragioni della mia azione politica, individuava nella mia persona un obiettivo da attaccare a prescindere. Intenzione che veniva condivisa da altri magistrati”. Tra le frasi più forti emerse dalle intercettazioni: “Ha ragione ma ora bisogna attaccarlo”, “c’è quella m***a di Salvini, ma mi sono nascosto”. Alla luce di ciò e con all’orizzonte l’udienza preliminare presso il tribunale di Catania, dove l’ex ministro sarà chiamato a rispondere dell’ipotesi di sequestro di persona, la fiducia nei confronti della magistratura vacilla più che mai. “Tutto ciò intacca il principio della separazione dei poteri - sottolinea Salvini - e desta in me la preoccupazione concreta della mancanza di serenità di giudizio tale da influire sull’esito del procedimento a mio carico”. 

“Attaccare Salvini”. Le chat dei magistrati contro l’ex ministro dell’Interno. Il Dubbio il 22 maggio 2020. Nelle chat tra i magistrati Palamara e Auriemma gli attacchi contro il leader leghista che si chiede: “Con quale serenità mi giudicheranno?”. Le chat dei magistrati contro Matteo Salvini diventano un caso politico: “Toghe contro di me? Con quale serenità verrò giudicato?”, si chiede giustamente il leader della Lega Matteo Salvini che dovrà rispondere  dell’accusa di sequestro di persona perché  mentre era ministro dell’Interno impedì per più di tre giorni lo sbarco di 116 persone tratte in salvo nel Mediterraneo centrale dalla nave della Marina militare Gregoretti.  E poi, si chiede ancora Salvini, “con quale serenità potrà esprimersi la Giustizia? Il Capo dello Stato ritiene normali questi toni?”.

Le chat tra magistrati. ‘Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell’Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco cosa c’entri la Procura di Agrigento”, chiedeva Paolo Auriemma, capo della Procura di Viterbo. La risposta di Palamara arriva quasi subito: ”Hai ragione. Ma adesso bisogna attaccarlo”. Le chat, sono agli atti dell’inchiesta di Perugia sul caso Palamara e che ha scosso le fondamenta del Csm. Per finire, in una chat tra Palamara e Bianca Ferramosca, componente della giunta esecutiva Anm quest’ultima, nel novembre 2018, se la prende con i colleghi che hanno dato ragione a Salvini sull’allora dl Sicurezza, componenti di una cordata ”pericolosissima”.

La difesa di Nicola Morra. “Sono d’accordo con il senatore Salvini, che ha riportato quanto scritto da un quotidiano oggi: è assolutamente inammissibile, seppure in chat private, che magistrati giudichino un ministro come è stato giudicato. Un magistrato è sempre parte di un corpo terzo, c’è pur sempre una distinzione netta tra poteri”. Lo ha detto il senatore del M5S, Nicola Morra intervenendo in aula, dopo l’informativa del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. “Ma è altrettanto vero che il senatore Salvini ha indicato delle soluzioni per la fase emergenziale che materialmente non sono nelle nostre disponibilità”, ha aggiunto Morra.

Chat magistrati contro Salvini. Orlando: «Spaccato non bello, ora riformiamo il Csm». Il Dubbio il 22 maggio 2020. Le chat dei magistrati contro Salvini sono diventate un caso politico. Orlando: «Non emerge uno spaccato particolarmente bello. Io credo che ci sia una seria riflessione da fare». «Ho letto con attenzione, dopo la segnalazione di Salvini. Francamente non erano i magistrati che indagavano su Salvini e non siamo di fronte a una chat nella quale si valutano questioni di carattere politico generale». Comincia con questa premessa il ragionamento dell’ex ministro della Giustizia e attuale vice segretario del Pd Andrea Orlando che, intervistato a Radio Anch’io su Radio 1, torna sul tema delle chat delle toghe contro Salvini. Ma dopo una mezza assoluzione dei magistrati, Orlando aggiunge: «Non emerge uno spaccato particolarmente bello. Io credo che ci sia una seria riflessione da fare, e su questo sono d’accordo con Salvini, su come riformare il Consiglio superiore della magistratura, perché credo che sinceramente ci siano dei meccanismi che sono emersi che vanno affrontati». Le chat dei magistrati contro Salvini sono diventate un caso politico: «Toghe contro di me? Con quale serenità verrò giudicato?», si è chiesto il leader della Lega, che dovrà rispondere in tribunale dell’accusa di sequestro di persona, quando, in qualità di ministro dell’Interno, impedì per più di tre giorni lo sbarco di 116 persone tratte in salvo nel Mediterraneo centrale dalla nave della Marina militare Gregoretti. L’ex ministro tira in ballo il Presidente della Repubblica, che è anche capo del Csm, organo di autogoverno delle toghe. E tra i due, ieri, è intercorsa una telefonata, durante la quale Salvini preannunciandogli l’invio di una lettera – ha espresso il proprio stupore per le rivelazioni del quotidiano “La Verità” e la preoccupazione per la situazione economica e l’amarezza per i pesanti attacchi di alcuni parlamentari della maggioranza di governo nei confronti della Lombardia duramente colpita dalla tragedia del Covid- 19. «Le intercettazioni pubblicate documentano come l’astio nei miei riguardi travalichi in modo evidente una semplice antipatia. In tal senso è inequivocabile il tenore delle comunicazioni dei magistrati intercettate. Come noto, a ottobre inizierà l’udienza preliminare innanzi al Gup presso il Tribunale di Catania ove sono chiamato a rispondere dell’ipotesi di sequestro di persona per fatti compiuti nell’esercizio delle mie funzioni di ministro dell’Interno, in linea con l’azione di governo tesa al contrasto dell’immigrazione clandestina – scrive Salvini -. Non so se i vari interlocutori facciano parte di correnti della magistratura o se abbiamo rapporti con i magistrati che mi giudicheranno, tuttavia è innegabile che la fiducia nei confronti della magistratura adesso vacilla». Nelle chat tra magistrati, tirate fuori ancora una volta dagli atti depositati a Perugia sul caso che vede coinvolto l’ex presidente dell’Anm ed ex componente del Csm Luca Palamara, Paolo Auriemma, capo della Procura di Viterbo, esprime un giudizio tranchant sull’ex ministro. «Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell’Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco cosa c’entri la Procura di Agrigento», chiedeva Auriemma. La risposta di Palamara arrivò quasi immediatamente: «Hai ragione. Ma adesso bisogna attaccarlo». Inoltre, in una chat tra Palamara e Bianca Ferramosca, componente della giunta esecutiva Anm, quest’ultima, nel novembre 2018, se la prende con i colleghi che hanno dato ragione a Salvini sull’allora dl Sicurezza, componenti di una cordata «pericolosissima». A prendere le difese di Salvini anche il suo ormai storico nemico Nicola Morra, grillino a capo della Commissione Antimafia. «Sono d’accordo con il senatore Salvini – ha detto intervenendo in aula, dopo l’informativa del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte -, è assolutamente inammissibile, seppure in chat private, che magistrati giudichino un ministro come è stato giudicato. Un magistrato è sempre parte di un corpo terzo, c’è pur sempre una distinzione netta tra poteri».

"Solita ipocrisia dei magistrati. Difendono solo i loro privilegi". L'ex pm: "Corporazione conservatrice che attacca chi chiede riforme liberali. La lottizzazione esiste da anni". Stefano Zurlo, Venerdì 22/05/2020 su Il Giornale.

Siamo alle solite.

«Solo che adesso i protagonisti delle intercettazioni sono i magistrati e questo crea grande imbarazzo. Scopriamo ora che anche dentro la corporazione togata c'è un alto tasso di ipocrisia».

Carlo Nordio, uno dei più noti pm d'Italia, oggi in pensione, ha letto i brani riportati dal quotidiano La verità: le manovre e le trame che Luca Palamara e altre toghe, poi risucchiate dall'inchiesta di Perugia, conducevano con grande disinvoltura.

Nordio, è stupito?

«Per niente. È da 25 anni che denuncio questo malcostume: la lottizzazione e gli scambi di favori fra le diverse correnti che convivono nell'Anm».

Palamara e gli altri decidevano chi far sedere su questa o quella poltrona.

«Lo sanno tutti che i meccanismi sono questi. Semplificando, potremmo dire che tutti trattavano con tutti».

Una pratica mortificante che imita il lato peggiore della politica?

«Intendiamoci: spesso per incarichi importanti vengono scelte persone di primissima qualità, tecnici del diritto di grande preparazione, ma si passa sempre o quasi attraverso mediazioni estenuanti e la stanza di compensazione delle correnti che sono ovunque. Specialmente al Csm».

Ma come se ne esce?

«Anche su questo versante è da un quarto di secolo che predico la soluzione più semplice: l'elezione per sorteggio dei membri del Csm».

Il sorteggio non svilirebbe la carica?

«L'obiezione è una colossale sciocchezza. Ovviamente non si sorteggerebbe il primo che passa per la strada, ma seguendo alcuni criteri ragionevoli».

Per esempio?

«Restringendo la rosa ai magistrati di Cassazione».

Torniamo alle intercettazioni.

«E mi faccia ripetere per l'ennesima volta che è una barbarie vedere sui giornali testi che dovrebbero rimanere segreti».

Ma così non si nasconde all'opinione pubblica quel che accade dietro le quinte?

«Eh no, così si ferma l'inciviltà. Questi brani sono selezionati senza alcun contraddittorio fra le parti, non ne conosciamo il contesto e non sappiamo nemmeno con che tono sono state pronunciate quelle parole. Si tratta di materiale carico di suggestioni, appetibile ma scivolosissimo. Quante volte abbiamo letto pagine che sembravano sentenze di condanna e invece erano il frutto di fraintendimenti, equivoci, errori grossolani».

Adesso ci imbattiamo in giudizi sorprendenti su Salvini. Ci volevano le microspie per venire a sapere che i pensieri delle toghe non sono poi così politicamente corretti come appaiono in pubblico?

«È la solita ipocrisia che alberga nella mia categoria. Nei congressi fuoco e fiamme, in privato un linguaggio assai diverso».

C'è di più. Auriemma aggiunge: «Non capisco cosa c'entri la procura di Agrigento», ma Palamara respinge la critica e detta la linea dura: «Hai ragione, ma bisogna attaccarlo».

«La magistratura è una corporazione conservatrice che attacca la politica, quasi sempre il centrodestra ma qualche volta pure il centrosinistra, quando la politica prova a eliminare o ridurre privilegi non giustificati e varare riforme liberali».

Qui c'è di mezzo anche un processo e un'accusa gravissima: sequestro di persona.

«Ho sempre sostenuto che quell'accusa non stava né in cielo né in terra e quel capo d'imputazione diventa ancora più incredibile oggi, dopo che il capo del governo ha sequestrato in casa sessanta milioni di italiani per il Coronavirus. Ma, naturalmente, non voglio nemmeno immaginare che qualcuno abbia puntato il dito contro Salvini in malafede: sarebbe un sacrilegio».

In conclusione, la giustizia ruzzola nella polvere delle intercettazioni ma il ministro resta in sella.

«Il centrodestra ha sbagliato bersaglio: le scarcerazioni dei boss sono opera dei magistrati di sorveglianza, non di Bonafede. Resta l'obbrobrio della prescrizione e la responsabilità politica della gestione scriteriata delle carceri».

Gli affari della magistratura, una piovra in stile Toga Nostra che avvelena la giustizia e offende la Costituzione. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 20 Maggio 2020. «La prima regola del Fight club è non parlare del Fight club», è vero. Ma quando il cronista ne viene a conoscenza è suo dovere parlarne. E allora va raccontato che quel geniaccio incorreggibile di Claudio Velardi, con la fondazione Ottimisti e Razionali, virus o non virus, va avanti organizzando incontri digitali riservati. A porte chiuse ma a mente aperta. Ieri si è tenuto quello per ragionare di giustizia, con Maria Elena Boschi che ha interloquito per due ore con un riservato parterre de rois. C’era con lei Lucia Annibali, deputata di Italia Viva che rappresenta il partito in commissione Giustizia alla Camera; l’avvocato Claudio Botti; Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali; Alberto Cisterna, Presidente della XIII sezione civile del Tribunale di Roma; il deputato di Forza Italia Enrico Costa; Franco Debenedetti, ineffabile opinion maker del pensiero lib-lab e graffiante editorialista; Giuseppe Fornari, Founding partner di Fornari & Associati; Andrea Ketoff, direttore generale di Assomineraria; lo storico Paolo Macry; il magistrato Andrea Mirenda; Enrico Napoletano Founder di Napoletano, Ficco & Partners; il deputato azzurro Antonio Palmieri; il presidente di Asja, Agostino Re Rebaudengo; il parlamentare di Forza Italia e avvocato Francesco Paolo Sisto, il Senior Vice President del Government Affairs di Leonardo, Michelangelo Suigo; il presidente del dipartimento Giustizia della Fondazione Luigi Einaudi, Pierantonio Zanettin; il presidente e Ad di Utopia, Giampiero Zurlo e infine il direttore de Il Riformista, Piero Sansonetti. A questi protagonisti del dibattito, che hanno incrociato le loro voci, ha fatto da moderatore il padrone di casa, Velardi. Punto di partenza, una analisi condivisa del pietoso stato in cui versa il sistema giustizia in Italia, alla vigilia della mozione di sfiducia verso il ministro più contestato nella storia di via Arenula, Alfonso Bonafede. La sua poltrona traballa e sarebbe già venuta giù, dopo gli innumerevoli scandali dell’ultimo anno, se a Bonafede (che è capo delegazione Cinque Stelle nell’esecutivo) non fosse legato mani e piedi il premier Conte e l’intero governo. Ed ecco che “Giustizia da rifare” mette insieme, in una tavola rotonda virtuale e riservata, ottantatré partecipanti. «Il tema della giustizia è una delle principali emergenze nazionali. Cosa si può fare per cambiare?», chiede Velardi ai convenuti. Occorrerebbe una rivoluzione in termini di competenze, e un ritorno alla legalità vera, quella prevaricata da un sistema che prende forma nel corto circuito dei magistrati che intercettano altri magistrati, corrompendo l’un l’altro nel tentativo di addossare capi di imputazione inesistenti a vittime che diventano colpevoli per un giro di interessi privati. E con un verminaio-Anm in cui trame, promozioni, esclusioni e affari pecuniari si sovrappongono del tutto a quella che dovrebbe essere la professione impermeabile per antonomasia. Un sistema tentacolare di potere, una piovra in stile Toga Nostra avvelena la giustizia e offende la Costituzione: proprio mentre l’incontro di “Giustizia da rifare” si riunisce, nell’anniversario della scomparsa di Enzo Tortora, pezzi di magistratura ne incarnano il titolo, in un profluvio di veleni sotterranei degni della penna di Sciascia. Il sistema giustizia non ha mai riscontrato tanta impopolarità nel Paese, con una gestione che tutti concordano essere fallimentare. Gian Domenico Caiazza si rivolge alla politica, ma fa qualche distinguo sul metodo della mozione di sfiducia individuale. «Non ho mai creduto nell’istituto della sfiducia personale, a meno che non sia accaduto un fatto gravissimo, eccezionale, che attenga a una condotta personale. Non riesco a capire nel caso di Bonafede come si possa distinguere tra le responsabilità del ministro e le responsabilità dell’intero governo. Non so come si possa distinguere nel giudizio l’operato del ministro da quello della maggioranza che lo sostiene. O discutiamo dell’intera politica in materia di giustizia del governo o non colgo il senso di discutere di Bonafede», dice il rappresentante degli avvocati. «Le mozioni di sfiducia sono due, di segno opposto e contrastante – ricorda Caiazza – che partono da ragionamenti diversi e in larga parte incompatibili. A me sembra un pasticcio, una vicenda parlamentare alla quale guardiamo con indifferenza e perplessità». Entrando nel merito «la mozione della Bonino, che condivido in ogni singola virgola, mette sotto accusa la politica di due anni del ministro, a partire da quella del governo precedente, condivisa dalla Lega. Sulla base del ragionamento della Bonino si deve dimettere tutto il governo, non il ministro, e questo vale anche, per diverse e contrapposte ragioni, per quella di Lega e Fratelli d’Italia, le cui conseguenze – conclude – dovrebbero pure essere le dimissioni dell’intero governo». «La macchina della giustizia non ce la fa», introduce Napoletano. Ma siamo alla ripresa dopo il lockdown, e l’amministrazione giudiziaria non riparte. Gli uffici non sono sanificati, il personale non è pronto. Neppure quel minimo sindacale che si dava per scontato, alla prova della riapertura, è presente. Claudio Botti: «Il comparto giustizia è stato molto malamente gestito durante la crisi Covid, un disastro totale. Il populismo giudiziario ha portato all’asfissia di sistema. La riforma della prescrizione è un suicidio, con i processi che iniziano e che non finiranno mai più. Smaterializzare i fascicoli non significa smaterializzare il processo penale». Francesco Paolo Sisto accusa il governo e il ministro Bonafede di «metodo di dolosa incompetenza. Diritto penale del consenso e non della ragione. La battaglia deve essere una battaglia di riappacificazione dei cittadini con la giustizia». Enrico Costa, responsabile del dipartimento giustizia di Forza Italia: «Il Decreto sulle intercettazioni ha modificato l’art. 114 del codice di procedura penale consentendo esplicitamente la pubblicizzazione del testo delle ordinanze di custodia cautelare», un assurdo. E poi affonda su Bonafede e su chi ne tenta una maldestra difesa, in maggioranza. «Il Pd è affetto dalla sindrome di Stoccolma verso chi da due anni ha messo sotto scacco il Parlamento con le sue norme giustizialiste. Un commovente sentimento di subordinazione politica nei confronti di Bonafede, che oggi i Dem esprimono attraverso una serie di minacce a coloro che in maggioranza fossero tentati di votare la sfiducia. Più il Guardasigilli li maltratta, più lo difendono. Tutte le posizioni sono legittime, ma almeno smettano di declamare i principi della giustizia liberale e del giusto processo». Per Alberto Cisterna sussiste un problema procedurale inaffrontato, con la riforma del processo penale da rifare. «Abbiamo un processo interamente scritto e uno totalmente orale». Andrea Mirenda, magistrato, prova a tracciare l’identikit del giudice “davvero imparziale, terzo, indipendente”. E parla di una «questione morale immensa in magistratura, legata alla questione delle nomine». Piero Tony, il magistrato che ha dato alle stampe Io non posso tacere, contro la gogna giudiziaria e gli eccessi di certi colleghi, invoca una riforma di sistema complessiva. Pierantonio Zanettin parla della “necessaria managerialità dei dirigenti”, provando a distinguere tra magistrati capaci e incapaci ed indicando i modelli che funzionano. Piero Sansonetti è netto: «C’è un attacco violentissimo in corso allo Stato di diritto. Bisognerà vedere chi vince e chi perde». In chiusura, è di nuovo la Boschi a prendere la parola per trarre la sintesi. «Bisogna scongiurare la possibile deriva verso il populismo: la durata irragionevole dei processi, l’invivibilità delle carceri, le misure populiste su prescrizione e intercettazioni ci dicono che è in gioco una grande battaglia di civiltà giuridica». Ma prima di salutare i convenuti, Boschi aggiunge: «Esiste un problema nella gestione del Ministero che è sotto gli occhi del mondo. Ma esiste anche una figura, quella del presidente del Consiglio, che è incaricato di armonizzare le posizioni e valorizzare anche la nostra posizione garantista». E proprio ieri nel tardo pomeriggio Boschi è entrata a Palazzo Chigi per incontrare Conte. Oggi in Senato la mozione che metterà in discussione Bonafede andrà in votazione a partire dalle 9.30. La discussione generale dovrebbe concludersi alle 11 e alle 11.05 è prevista la replica del ministro in diretta Rai. Quindi avranno luogo le dichiarazioni di voto, sempre in diretta Rai. Alla fine delle dichiarazioni di voto si svolgeranno le votazioni.

·         Magistrati alla sbarra.

Frank Cimini per "giustiziami.it" il 19 settembre 2020. Negli anni 90 nemmeno la Mondadori di Silvio Berlusconi impegnato in un duro conflitto con la magistratura che dura ancora oggi accettò di tradurre “Italian guillotine” scritto da Stanton H. Burnett e Luca Mantovani uscito negli Stati Uniti e punto. La lacuna è stata colmata solo adesso da Aracne edizioni, 345 pagine, 18 euro. “Da libero cittadino trovo intollerabile che i miei connazionali vengano privati del diritto di conoscere riflessioni riguardanti l’Italia indipendentemente dal loro contenuto e da chiunque le abbia formulate“ scrive Marco Gervasoni nella prefazione. E il problema è proprio questo. Per oltre 20 anni l’opinione pubblica è stata privata della conoscenza di una riflessione molto critica su una importante operazione politico-giudiziaria. Questo sia chiaro comunque la si pensi. Chi scrive queste poche righe per esempio non crede che Mani pulite fu un colpo di Stato ma semplicemente la vicenda di una magistratura che andò all’incasso del credito acquisito anni prima quando tolse le castagne dal fuoco per conto della politica risolvendo la questione della sovversione interna. Le carcerazioni preventive al fine di ottenere confessioni ma soprattutto chiamate di correo, i due pesi e due misure dell’indagine sono un fatto ormai acclarato anche se all’epoca fummo in pochi a parlarne e a scriverne oltre che additati come “amici dei ladri”. La  corruzione c’era e come anche prima del 1992 ma le procure in testa quella di Milano facevano finta di non vederla. Perché evidentemente non era ancora il momento. L’ora ics scattò nel momento in cui la politica si indebolì e le toghe le saltarono al collo gridando “adesso comandiamo noi”. E comandano ancora adesso. Basta vedere come la categoria sta chiudendo la vicenda del CSM con il capro espiatorio Luca Palamara il quale avrebbe fatto tutto da solo. Contribuendo però per esempio alla nomina di 84 colleghi al vertice di uffici giudiziari. 84 complici tutti assolti in via preventiva perché se no si rompe il giocattolo. ”La ghigliottina italiana” è assolutamente da leggere. Vale per chi allora c’era e per chi non c’era. Per cercare di trarne utili lezioni per il futuro. ()

Caso Palamara, inizia il processo alla magistratura italiana. Errico Novi Il Dubbio il 15 Settembre 2020. Inizia oggi pomeriggio davanti alla sezione disciplinare del Csm il processo dell’anno alla magistratura. Anzi, come scriveva ieri la Stampa, la “Norimberga” togata. Sul banco degli imputati Luca Palamara, ex presidente Anm e per anni potente leader della corrente di centro Unicost. Inizia oggi pomeriggio davanti alla sezione disciplinare del Csm il processo dell’anno alla magistratura. Anzi, come scriveva ieri la Stampa, la “Norimberga” togata. Sul banco degli imputati Luca Palamara, ex presidente Anm e per anni potente leader della corrente di centro Unicost. Con lui, se il collegio dovesse riunire i procedimenti, anche i cinque ex consiglieri del Csm che parteciparono a maggio 2019 all’incontro con i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, in cui si discusse di nomine di importanti uffici giudiziari. Fra tutti, la Procura di Roma. La posizione di Ferri in quanto parlamentare è al momento al vaglio delle Sezioni unite della Cassazione. Dall’udienza di oggi si dovrebbe dunque capire quale “linea” prenderà il Csm in questa vicenda che ha terremotato la magistratura e che continua, con la costante pubblicazione dei messaggini inviati a Palamara dai colleghi, a riservare sorprese. Stefano Giame Guizzi, consigliere di Cassazione e difensore di Palamara, è intenzionato a chiedere il congelamento del processo fino a quando non sarà entrato in carica il prossimo Csm. Quindi fino al 2022. Gli attuali giudici sarebbero troppo coinvolti nell’accaduto, dovendo giudicare coloro che fino al giorno prima erano stati compagni di banco all’interno della sala Bachelet di piazza Indipendenza. Il secondo punto delle difese riguarda l’utilizzabilità delle intercettazioni. Tutte le accuse che sono state mosse dalla Procura generale della Cassazione a Palamara — ad iniziare dal tentativo di discredito nei confronti dell’allora procuratore Giuseppe Pignatone e dell’aggiunto Paolo Ielo — e ai cinque ex consiglieri, si basano essenzialmente su quanto carpito tramite il trojan inoculato nel telefono dell’ex numero uno dell’Anm. Sul punto va ricordato che il trojan era stato inserito dai magistrati di Perugia per scoprire la tangente di 40mila euro che sarebbe stata data da alcuni faccendieri a Palamara affinché nominasse Giancarlo Longo procuratore di Gela. Tale accusa però è venuta meno. Sono stati gli stessi pm umbri al momento della notifica della chiusura delle indagini a togliere l’imputazione. Le captazioni con i parlamentari, sottolineano le difese, non erano affatto casuali. Palamara prendeva sempre appuntamento prima di incontrare Ferri. La Procura generale è di diverso avviso e ha chiamato a testimoniare i finanzieri che hanno proceduto all’ascolto. Il punto nodale, in caso questi scogli tecnici venissero superati, è quindi la lista testi. Palamara, in particolare, ha presentato una maxi lista di circa 130 testimoni. Fra questi, politici, capi di correnti, parlamentari, ex vicepresidenti del Csm. La difesa ha però già fatto sapere che valuterà uno "sfoltimento". I tanti testi di Palamara si spiegano in un solo modo: da sempre i consiglieri del Csm avevano interlocuzioni con esponenti politici e capi delle correnti per le nomine. Il sistema Palamara sarebbe allora sempre esistito. Se la disciplinare effettuerà dei tagli consistenti, è chiaro che la linea difensiva di Palamara andrà rivista. Il processo si apre in un clima sempre più incandescente. La scorsa settimana le dimissioni a sorpresa del togato Marco Mancinetti, esponente di Unicost, ora sotto disciplinare proprio a causa della chat con Palamara. E poi la mai sopita querelle sulla cessazione dal servizio di Piercamillo Davigo. Il 20 ottobre il magistrato compirà settant’anni, età massima consentita prima della pensione. Davigo, a quanto sembra, intenderebbe rimanere, giacché il mandato di consigliere scade fra due anni.

Sul fronte associativo, infine, va segnalata la presentazione di una nuova lista per le prossime elezioni in programma a ottobre per il rinnovo dell’Anm. Si chiama “Articolo 101”. Fra i cavalli di battaglia, il sorteggio per l’elezione dei componenti togati del Csm, la rotazione degli incarichi, la massima attenzione alla “questione morale” in magistratura.

Il monito. Il Csm diventa sovranista e la politica se ne frega. Luigi Compagna su Il Riformista il 24 Settembre 2020. Se non la storia, almeno la cronaca, si sperava imponesse, dopo l’emergere del caso (o meglio del sistema) Palamara, una nuova composizione del Consiglio superiore della Magistratura. Benché riformisti a parole, nei fatti i partiti di maggioranza non hanno voluto che fosse così. Ci si affida a una sorta di sovranismo del Csm e ad un “autogoverno” insensibile a ogni profilo di garanzie costituzionali. Il Csm ha fretta di chiudere fra le mura domestiche ogni questione evocata dal cosiddetto caso Palamara. Il Parlamento non ha nessuna intenzione di affrontarne le implicazioni. Eppure mai come ora l’organismo è parso tanto indegno della presidenza del Capo dello Stato. Il procedimento fulmineo – e se possibile senza testimoni – che in queste settimane il Csm vorrebbe praticare sembra ispirato pregiudizialmente a tutela di quei colleghi di Palamara che con lui amavano pronunciarsi sugli incarichi di vertice della magistratura italiana. Insomma, la corporazione prima di tutto, poi la Costituzione! Il che (lo ha ricordato Paolo Mieli sul Corriere della Sera dell’altro ieri) ha finito con l’incastrare il procedimento di Palamara perfino nell’enigma del pensionamento di Piercamillo Davigo. Tutto in questa vicenda sembra miserabile, soprattutto senza alcuna considerazione della priorità del dettato costituzionale sulla legislazione ordinaria. Certo la commistione con la politica si era già fatta esplicita da tempo. E proprio grazie e in seno al Csm. Si pensi alle correnti dell’Associazione nazionale magistrati e al divenire di tali correnti il collettore principale dell’elezione al Consiglio superiore. Invano alla Costituente Piero Calamandrei e Giovanni Leone, ma non solo loro, avevano insistito sui rischi di un Csm fondamentalmente corporativo. La preoccupazione di un “corpo chiuso e ribelle” evocata allora da Calamandrei avrebbe dovuto implicare il venir meno di quell’assurda pretesa di garantire all’ordine giudiziario la maggioranza dei due terzi dei componenti del Consiglio. Nel 2004 in Senato, insieme all’amico Antonio Del Pennino, proponemmo come modello di composizione per il Csm quello previsto per la Corte costituzionale, con un terzo dei componenti eletto fra tutti i magistrati, un terzo dal Parlamento fra professori ordinari in materia giuridica e avvocati, e un terzo nominato dal Presidente della Repubblica, sia tra coloro che fossero eleggibili dal parlamento, sia tra i magistrati ordinari. Quel che si è andato affermando è un mondo in cui il diritto si muove lontano dalla legislazione, ancorato all’arbitrio della giurisdizione. Non più mero lettore, ma vero e proprio creatore della norma, il magistrato tende ormai a sentirsi “giudice”, forte di straordinarie condizioni di indipendenza e assenza di controlli del suo operato e delle sue responsabilità. Dentro e fuori il vincolo professionale si è diffusa l’idea che la magistratura possa farsi Stato da sé e guardando a sé. La scelta del Csm di risolvere esso stesso, il più presto possibile, le questioni legate alla vicenda Palamara, e quindi negandole, si commenta da sola. Ma l’abdicazione in materia di Governo e Parlamento rende fin troppo onore al “sovranismo” del Csm.

Amnistia per tutti i magistrati. La Cassazione salva i raccomandati di Palamara: era “autopromozione”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Settembre 2020. C’è una circolare della Procura generale della Corte di Cassazione – dunque una solennissima circolare – che stabilisce che per un magistrato chiedere una raccomandazione a Palamara non è reato. Non è neanche illecito disciplinare. È semplice “autopromozione”. Si chiama così. Se ho capito bene “autopromozione”, per i magistrati, equivale a quello che per i politici viene definito “traffico di influenze” (dai 1 anno a 4 anni e mezzo di prigione) o addirittura corruzione (dai 4 ai 10 anni). L’autopromozione però non è a doppio senso: non è reato per chi dovesse chiedere e ottenere un favore da Palamara (e diventare Procuratore o Aggiunto o presidente di tribunale), è reato invece per Palamara che riceve e accoglie o respinge l’autopromozione. Come conseguenza di questa circolare, il processo a Palamara dovrà svolgersi – come si sta svolgendo – evitando le indagini, dal momento che i reati e gli illeciti non esistono, o comunque sono cancellati dall’Amnistia-Salvi. Il processo deve limitarsi a proclamare la condanna di Palamara e il suo allontanamento dalla magistratura. In Italia, nel passato – prima che fosse approvata la riforma costituzionale del 1993 che praticamente le ha impedite – ci sono state molte amnistie. In genere però erano provvedimenti di clemenza erga omnes, come si dice in latino, cioè che riguardavano tutti gli imputati, non solo una categoria. L’unica amnistia “parziale” che si ricordi è quella molto famosa del 1946, scritta e curata dal ministero della Giustizia dell’epoca che si chiamava Palmiro Togliatti ed era il capo del Pci: amnistiò i fascisti. Fu un gesto clamoroso e servì a ricostruire un clima di riconciliazione, dopo la guerra civile. I fascisti però, prima di essere amnistiati, furono sconfitti (alcuni di loro anche fucilati). I magistrati invece ottengono una amnistia da eterni vincitori. Chi è stato sconfitto sono i cittadini: gli imputati. Quando si dice “amnistia tombale” si intende questa cosa qui: nella tomba ci finiscono gli imputati.

Colpo di spugna del Pg. Palamara unico colpevole, amnistia per chi gli chiedeva (e otteneva) poltrone e favori. Paolo Comi su Il Riformista il 24 Settembre 2020. È arrivata “l’amnistia”. Solo, però, per i magistrati che chattavano con Luca Palamara alla ricerca di una nomina o di un incarico. Ne dà notizia il sito toghe.blogspot.com, la piattaforma creata dai magistrati “non correntizzati”, che ha pubblicato i passaggi salienti delle linee guida redatte dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi per la verifica di eventuali profili disciplinari a carico dei colleghi “chattatori”. Le toghe che hanno intasato di messaggi il telefonino dell’ex presidente dell’Anm da questa settimana, dunque, possono dormire sonni tranquilli. Tutti perdonati ad iniziare, per esempio, dal pm Marco Mescolini che per perorare la sua nomina a procuratore di Reggio Emilia chiamava Palamara “il re di Roma”. La scriminante è rappresentata dall’attività di “self marketing”, cioè l’autosponsorizzazione del magistrato con i consiglieri del Csm. «L’attività di autopromozione – scrive Salvi – effettuata direttamente dall’aspirante, anche se petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti o la prospettazione di vantaggi elettorali, non può essere considerata in violazione di precetti disciplinari». Il motivo, sempre secondo Salvi, sarebbe dovuto al fatto che l’attività di self marketing «non essendo ‘gravemente scorretta’ nei confronti di altri è in sé inidonea a condizionare l’esercizio delle prerogative consiliari». Nessuna punizione, neppure un “buffetto”, per il magistrato “petulante” a caccia di raccomandazioni. Anzi, un bel colpo di spugna sulla montagna di chat che hanno creato in questi mesi più di un imbarazzo. Dal momento che la Procura generale è l’ufficio che condivide col ministro della Giustizia l’iniziativa disciplinare, vale a dire l’esercizio dell’accusa, sarebbe da accogliere con favore “l’anelito garantista”, commentano le toghe sul blog, stigmatizzando il fatto che Salvi abbia voluto lanciare un “salvagente” a tutti i magistrati chattatori che per perorare i propri meriti si erano rivolti direttamente al consigliere amico, piuttosto che affidarsi solo al proprio cv. Vale la pena ricordare che i comuni cittadini quando vengono sorpresi a brigare con l’assessore o col direttore di turno finiscono direttamente al gabbio. Secondo “l’indulgente” procuratore generale, il self marketing rientrerebbe nel necessario bagaglio professionale di ogni magistrato aspirante ad un incarico direttivo: se lo fa il collega allora anche il competitore è legittimato a farlo, anzi deve. Il richiamo al “vantaggio elettorale” sarebbe improprio in quanto il consigliere destinatario delle pressioni non è rieleggibile. «Quel vincolo elettorale, semmai, proviene dal passato e l’auto-promozione del petulante è legittimata da un patto precedentemente sancito, espressione di un sistema che, v’è da credere, ne esce incredibilmente rafforzato», puntualizzano sul blog. «È una scorrettezza gravissima – aggiungono – specialmente se riferita ad un magistrato. Ed è anche violazione di specifiche regole di condotta implicite nella regolamentazione dei concorsi». Quale sarà, allora, il destino dei magistrati «che conformemente alla disciplina si limitano a presentare la domanda e si astengono dal sollecitare rapporti diretti ed amicali con la commissione esaminatrice?». Se i petulanti magistrati devono essere assolti, perché allora condannare Palamara che raccoglieva le premure? La domanda è d’obbligo dopo aver letto la nota di Salvi. Ed a proposito di Palamara, ieri sono stati sentiti al Csm i finanzieri, ad iniziare dal colonnello Gerardo Mastrodomenico, ex comandante del Gico di Roma, che hanno condotto le indagini nei suoi confronti. Abbiamo eseguito gli ordini, hanno detto in coro, prendendo le “distanze” dai pm Gemma Miliani e Mario Formisano titolari del fascicolo. Furono i pm a voler inserire il trojan nel telefono di Palamara, hanno ricordato. «Palamara era il referente di tantissimi magistrati da Palermo a Milano in tema di nomine», ha detto in particolare Mastrodomenico, sottolineando che ai pm umbri vennero inviate, senza fare alcuna selezione, tutte le conversazioni intercettate fra l’ex presidente dell’Anm ed i colleghi. «Erano conversazioni che non c’entravano nulla con il capo d’imputazione a carico di Palamara», ha aggiunto il colonnello. Ma i pm le vollero ascoltare lo stesso.

L'insabbiamento di Magistratopoli. Magistratopoli, tutto insabbiato: paga solo Palamara, i Pm non ammettono le loro colpe. Alberto Cisterna su Il Riformista il 24 Settembre 2020. La parabola associativa di Luca Palamara si è conclusa con un voto plebiscitario. L’Assemblea plenaria delle toghe ha confermato l’espulsione del proprio ex presidente più illustre e famoso con 111 voti a favore e uno solo contro. Nulla di inatteso. In questi giorni la decapitazione associativa della toga era stata data come inevitabile e a nulla è, infatti, servito il discorso – dicono a braccio – con cui il dottor Palamara ha tentato di convincere i propri colleghi a ribaltare il voto. Un giudizio, quello invocato innanzi alla base associativa della magistratura italiana, che tuttavia in principio non doveva essere apparso come inutile o scontato all’ex presidente il quale, fino a un certo punto, avrà anche pensato che le toghe fossero disposte a riconoscere – addirittura collettivamente e pubblicamente – la condizione della magistratura italiana e delle carriere dentro di essa. Non sapremo mai in quale momento questa speranza è svanita e quando si è fatta strada la lucida consapevolezza che nessuno avrebbe potuto fargli scampare la ghigliottina associativa. Non sapremo mai quando gli ultimi tentativi di chiamare alla conta i propri fedelissimi e proni clientes di un tempo (il voto assembleare era aperto a tutti i circa 9.000 iscritti all’Anm) sono andati incontro a un fallimento totale e quando il dottor Palamara si è reso conto del terribile vuoto e della sua completa solitudine tra le fila, prima in larga misura inneggianti e plaudenti, della magistratura italiana. La parabola umana è identica a tante altre e per questo non sarebbe il caso di spargere troppe lacrime sul corpo nudo del re deposto. Se non fosse. Se non fosse per quel voto solitario e anonimo che, in una arena totalmente ostile, si è espresso contro quella espulsione in un rigurgito non sapremo mai, ancora una volta, se di amicizia o di riconoscenza o di semplice solidarietà umana. Un voto contro 111. Poco, troppo poco alla luce del vasto consenso che circondava Palamara prima di commettere l’errore di impicciarsi di una nomina pesante senza aver capito che aveva impugnato il coltello dalla parte della lama. Molto, tuttavia, se si pensa a ciò che quel voto porta con sé; se si ragiona sulla possibilità che tanti voltagabbana e tanti muti spettatori di questa vicenda hanno di identificarsi in quel singolo voto che li scagiona e ne alleggerisce le colpe. Un voto contro, dietro e dentro il quale ciascuno potrà cercare la propria giustificazione e rivestire la propria indulgente assoluzione. Appare chiaro che il dottor Palamara non ci pensava proprio a portare sul banco degli imputati il sistema i cui riti ha officiato al massimo livello, sperava piuttosto che il sistema – seduto sullo scranno del giudice – l’avrebbe perdonato e si sarebbe mostrato indulgente. Si era illuso che il sistema ammettesse spudoratamente la propria esistenza e si consegnasse, così, alla furia riformatrice dei propri detrattori. Quindi è vero, a occhio e croce, che la toga espulsa non voleva e non vuole alcuna Norimberga o alcuna purga collettiva, la cornice resta forse più modesta: appellandosi al voto segreto dei propri pari c’era la speranza che i tanti anni di militanza e di esercizio massiccio del potere generassero un moto di vicinanza, se non di riconoscenza. Quanto bastava per una riabilitazione politica prima di un giudizio disciplinare ampiamente in salita e sin troppo scontato nei suoi esiti stando a quel che si legge ogni giorno. Perso il giudizio politico, compromesso quello disciplinare, resta l’ultima istanza del processo penale a Perugia. Un circuito interamente in mano alle toghe italiane con i propri difetti, ma anche con i propri grandi meriti, per fortuna del dottor Palamara. I magistrati di Perugia hanno coraggiosamente scoperchiato il pentolone ribollente e putrido del carrierismo e degli agguati che troppe volte ne hanno macchiato le sorti. In aula non ci sarà il sistema, ma come nella caverna di Platone se ne scorgeranno le ombre. Poco, ma meglio di niente.

Vietato interrogare i magistrati per salvare il sistema. Il CSM mette il bavaglio a Palamara: cancellati 127 testimoni, l’ex presidente Anm deve essere unico capro espiatorio. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Settembre 2020. Al Consiglio superiore della magistratura i testi della difesa non sono graditi. Come previsto dal Riformista già lo scorso 15 luglio, è stata integralmente cestinata la lista dei 133 testimoni di Luca Palamara. Il collegio della sezione disciplinare, che sta processando l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, li ha ritenuti irrilevanti e non attinenti agli episodi oggetto delle contestazioni. Palamara, si ricorderà, è accusato di aver tramato per screditare l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo, e di aver cercato di influenzare le nomine di alcuni uffici giudiziari, incontrando a maggio del 2019 in un albergo i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque consiglieri del Csm. Il magistrato romano, sospeso dalle funzioni e dallo stipendio da oltre un anno, aveva chiamato a testimoniare ministri, ex presidenti della Corte costituzionale, procuratori, politici, ed anche i due più stretti collaboratori di Sergio Mattarella: il magistrato Stefano Erbani, consigliere per gli affari giuridici, e l’ex deputato del Pd Francesco Saverio Garofoli, consigliere per le questioni istituzionali. Nelle intenzioni di Palamara costoro avrebbero dovuto raccontare il modo in cui le correnti della magistratura si spartiscono a Palazzo dei Marescialli le nomine e gli incarichi. Una prassi risalente nel tempo che “giustificherebbe”, quindi, l’incontro in questione. Testimonianze scomode che il Csm ha preferito non sentire. Troppo alto il rischio che gli italiani venissero a conoscenza del fatto che l’Organo di autogoverno della magistratura, presieduto dal Capo dello Stato, sia in balia di associazioni di carattere privato. Molto meglio continuare a credere che gli incarichi vengano dati ai migliori. Ammessi, dunque, su richiesta della Procura generale della Cassazione, solo i finanzieri del Gico della guardia di finanza che hanno svolto le indagini a carico di Palamara su delega della Procura di Perugia. Il primo a testimoniare sarà il generale Gerardo Mastrodomenico, ufficiale molto stimato all’epoca proprio dal procuratore Pignatone. Gli accordi fra politici e magistrati ci sarebbero stati, a detta di Palamara, anche per la scelta del vice presidente del Csm. L’ultimo caso, in ordine di tempo, riguarderebbe l’attuale numero due di Palazzo dei Marescialli, David Ermini (Pd). Palamara, esponente di punta della corrente centrista della magistratura e ras indiscusso delle nomine al Csm, nel 2018 aveva rotto lo storico patto con la sinistra giudiziaria per allearsi con le toghe di destra di Magistratura indipendente, di cui Ferri era il leader ombra. Ermini venne preferito all’avvocato milanese Alessio Lanzi di Forza Italia dopo una cena a casa di Giuseppe Fanfani, ex consigliere laico del Csm e vicino a Maria Elena Boschi. La sinistra giudiziaria, invece, aveva fatto accordi con i grillini, e quindi con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, e avrebbe voluto come vice di Mattarella il professore pentastellato Alberto Maria Benedetti. L’alleanza fra la sinistra giudiziaria e Bonafede si è intensificata nell’ultimo periodo. Sarà una coincidenza ma attualmente i dirigenti di via Arenula, ad iniziare dal capo di gabinetto e per finire al capo del Dap, sono tutti esponenti dei gruppi progressisti della magistratura. E sono di Magistratura democratica anche il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Stefano Giame Guizzi, consigliere di Cassazione e difensore di Palamara, ha molto insistito, allora, sull’esistenza da anni degli accordi fra le correnti della magistratura e la politica. Per supportare tale assunto, ha citato anche un’intervista al Foglio del 2016, mai smentita, dell’ex consigliere del Csm Giorgio Morosini, toga di Md. «La politica entra (al Csm) da tutte le parti. Sponsorizzazioni da politici, liberi professionisti, imprenditori: mi tocca assistere alla scelta di candidati che per competenze e curriculum non meriterebbero quel posto», disse Morosini, confermando quindi anni prima la tesi di Guizzi. Ma oltre alla discussione sui testi, ieri è stato affrontato anche il tema dell’ammissibilità delle intercettazioni effettuate nei confronti di Palamara con il trojan, relative all’incontro di maggio, su cui si basa il procedimento disciplinare. L’utilizzo del trojan da parte della guardia di finanza, ha affermato Guizzi, era dettato «dalla necessità di monitorare le discussioni sulle future nomine di uffici direttivi tra Palamara e Ferri». Perché la finanza sentisse questa “necessità”, in una indagine per corruzione a carico di Palamara, resta un mistero.

Non solo Il Riformista. Paolo Mieli sul Corriere rompe il silenzio su Palamaragate e caso Davigo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Settembre 2020. Il Corriere della Sera ieri ha pubblicato un articolo di fondo – come si diceva una volta – di Paolo Mieli che risulta una frustata in faccia alla magistratura e al suo sistema di potere. Mieli si occupa del caso Palamara e poi del caso Davigo, e racconta di come la magistratura italiana abbia deciso di respingere l’occasione per rimettersi in discussione, e per autoriformarsi, e di come un’icona della magistratura d’assalto, qual è Davigo, al momento sia all’assalto solo della sua propria poltrona di consigliere del Csm. Naturalmente in questo riassunto che ho fatto dell’articolo c’è un pochino di mia interpretazione. Ma non tanta, e non c’è forzatura. Mieli ripercorre tutte le tappe del caso-Palamara, fino al processo davanti al Csm che si è aperto nei giorni scorsi, in modo molto oggettivo e rigoroso; descrive il rifiuto del Csm di ascoltare i testimoni chiesti da Palamara a sua difesa, perché ritenuti imbarazzanti per l’istituzione magistratura; e poi racconta della decisione di Piercamillo Davigo di opporsi al proprio pensionamento (previsto dalla legge) e di come questa decisione abbia comunque costretto il Csm a stringere al massimo i tempi del processo contro Palamara in modo da concludere prima che Davigo compia i 70 anni. (Non era ancora mai successo nella storia dei processi, almeno nel dopoguerra, che un processo qualsiasi dovesse concludersi necessariamente prima del compleanno di un giudice, così come non era mai successo che i giudici fossero possibili testimoni). L’articolo di Mieli costituisce una assoluta novità. Pone fine al silenzio omertoso dei grandi giornali di fronte allo scandalo clamoroso di magistratopoli. Certo, è solo un piccolo articolo (per la verità ce n’era stato già uno un paio di mesi fa, sempre di Mieli, ma meno esplicito), e però è firmato da uno dei nomi più prestigiosi tra quelli dei collaboratori del giornale e comunque rompe, almeno per un giorno, la congiura del silenzio. Fino a oggi i giornali italiani sono stati tutti allineati e coperti e hanno rispettato l’ordine di scuderia impartito dal partito dei Pm, e cioè l’ordine di ignorare lo scandalo. In questa direzione hanno marciato compatti, senza neanche un piccolo scarto, dietro il capofila, e cioè il Fatto di Travaglio. Anche la politica è stata piuttosto silenziosa. Con l’eccezione – timida, ma pur sempre eccezione – di un paio di interventi del presidente della Repubblica. Il Presidente aveva chiesto rigore nel processo, aveva raccomandato di non guardare in faccia a nessuno. Non è stato ascoltato. Forse ci ha ripensato. Anche il Procuratore generale della Cassazione aveva fatto questa raccomandazione. Poi, quando siamo arrivati al dunque, è passata la consegna del silenzio. Diceva il Conte zio: “Sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire…”. E questa frase ora la ripetono tutti ai vertici della magistratura. Rivolti al reverendo Csm. Dicono: risolviamo il caso Palamara e chiudiamo prima che emerga in tutta la sua evidenza il metodo illegale e feudale con il quale la magistratura gestisce il potere al suo interno, condizionando in modo pesante la scelta degli incarichi direttivi, e talvolta predeterminando le stesse sentenze. Forse questo di magistratopoli è lo scandalo più grave della storia della Repubblica. A differenza di tutti gli altri scandali però è coperto dalla stampa. L’uscita coraggiosa, anche se molto solitaria, di Paolo Mieli, vuol dire che l’omertà è rotta? O Mieli, come talvolta gli accade, è e resta una rara avis, e la stampa italiana continuerà ad essere, più o meno, una adunata di funzionari direttamente dipendenti del partito dei Pm? P.S. Come riferisce nell’articolo il nostro Paolo Comi, la magistratura italiana è andata a votare e ha deciso l’epulsione dall’Anm (Associazione nazionale magistrati) del reprobo Palamara. La magistratura ormai sembra tutta presa solo da questo problema: allontanare il più possibile Luca Palamara da se stessa. Affermare l’idea che il metodo della manovra per gestire la macchina della giustizia fosse una cosa che riguardava solo e strettamente Palamara. È triste tutto questo. Un po’ meno triste quando scopriamo che su circa 9000 aventi diritto hanno partecipato a questa votazione 110 magistrati. Gli altri 8mila e 890? Da una parte ci consola l’idea che il partito dei Pm, alla fine, controlli poco più di un centinaio di persone. Vuol dire che, in fondo, la magistratura è piena di gente normale e per bene. Ci atterrisce però l’altra idea: che queste cento o duecento persone siano in grado di dominare l’intera magistratura, di condizionarla, di modellarla, senza che i loro colleghi si ribellino.

Paolo Mieli per il “Corriere della Sera” il 21 settembre 2020. In principio fu, la sera dell'8 maggio 2019, un incontro malandrino all'Hotel Champagne di Roma. C'erano cinque magistrati che, assieme ai deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, discussero in modo probabilmente improprio di nomine ai vertici di importanti procure. Di lì in poi un curioso trojan - che intercettava con modalità intermittenti - mise agli atti una gran quantità di altrettanto impropri scambi d'opinione, tra Palamara e altri suoi amici togati. Ne nacque una tempesta. Oltre un terzo dei consiglieri del Csm dovette lasciare l'incarico allorché furono riconosciute le loro voci captate dal trojan. Alcuni, non identificati, tremano tuttora. Ascoltate le registrazioni, il magistrato Nino Di Matteo disse che quel modo di trattare sottobanco l'affidamento di incarichi gli ricordava i «metodi mafiosi». Un suo collega, Giuseppe Cascini, osservò che mercanteggiamenti del genere gli facevano tornare alla mente «i tempi della P2». Sembrava fosse giunta l'ora del giudizio universale. Ma siamo pur sempre in Italia e, a poco a poco, abbiamo dovuto arrenderci alla costatazione che si è proceduto (e si procederà) alla maniera di sempre. E che a pagare il conto per quei tramestii sarà il solo Luca Palamara ex potentissimo capo dell'Associazione nazionale magistrati, ora abbandonato da tutti (quantomeno dagli ex colleghi). Per quel che riguarda poi l'annunciata riforma di purificazione della magistratura che, dopo la scoperta di quel verminaio, sembrava improcrastinabile - pulizia che fu sollecitata in più occasioni persino dal Capo dello Stato - se ne sono perse le tracce. Nel procedere contro Palamara gli ex colleghi del Csm per un bel po' di tempo se la sono presa comoda. Più che comoda. Adesso invece, all'improvviso, mostrano di aver fretta e di voler giungere rapidissimamente alla sentenza che segnerà la conclusione del procedimento disciplinare contro di lui. Si tratterà quasi sicuramente di un verdetto di condanna che porterà, con identica probabilità, alla espulsione di Palamara all'ordine giudiziario. Allo stesso modo con cui lo stesso Palamara è stato cacciato dall'Associazione nazionale magistrati. Palamara, per difendersi, avrebbe voluto poter provare che non era il solo a compiere quel genere di manovre. In effetti ancora oggi non è chiaro dove si collochino i confini tra l'operato suo e quello dei suoi colleghi (quantomeno una parte di loro). Possibile che Palamara decidesse da solo gli incarichi delle procure di mezza Italia? E che il suo modo di trattare con i vertici della politica fosse sconosciuto agli altri magistrati? Palamara ritiene di poter dimostrare che tutti (o quasi) sapevano e si comportavano come lui. Sarebbe stato interessante poter assistere a una pubblica discussione su questi temi, avendo a disposizione il tempo necessario ad ascoltare un consistente numero di testimoni qualificati. Qui però si è fortuitamente inserito il «caso Davigo». Che c'entra Davigo? L'ex pm di Mani pulite, dal 2018 consigliere del Csm, è entrato a far parte del collegio disciplinare che si occupa del caso in questione. Ma il 20 ottobre prossimo Davigo compirà settant' anni e, a norma di legge, quel giorno stesso dovrebbe essere collocato a riposo. Lasciando anche il Csm? Neanche per idea, è la sua risposta: il posto che si è conquistato al Csm ha una durata di quattro anni, perciò- pensione o non pensione- lui ha intenzione di restare in carica fino al 2022. La corrente di sinistra «Magistratura democratica» - per voce di un suo rappresentante, Nello Rossi - ha criticato la posizione di Davigo. Critiche a cui Davigo ha risposto con un'alzata di spalle: è vero - ha riconosciuto - che il magistrato deve essere «in funzione» nel momento in cui è eletto al Csm, ma - ha poi aggiunto - non è detto da nessuna parte che se, dopo qualche tempo, va in pensione, debba contestualmente rinunciare alla carica conquistata. Rossi e quelli di Md gli hanno fatto osservare che nel caso «da ex» commettesse scorrettezze, non sarebbe esercitabile nei suoi confronti alcuna azione per violazioni del codice disciplinare. Ma nessuno ai vertici del Csm ha raccolto queste obiezioni. Certo, è curioso che un caso del genere si affacci - per la prima volta nella storia della magistratura italiana - proprio adesso. Tra l'altro che potesse sorgere questa complicazione non era imprevedibile: il dottor Davigo nel momento in cui è entrato nell'organismo ristretto che si occupa di Palamara era evidentemente a conoscenza del fatto che il prossimo 20 ottobre avrebbe compiuto settant' anni talché, come tutti i suoi colleghi, sarebbe stato collocato a riposo. Considerati i pro e i contro di questo singolare intrico, avrebbe potuto cedere il passo a un collega con meno anni di lui e in questo modo il problema non si sarebbe neanche posto. Ma, evidentemente, Davigo ha preferito essere presente di persona a Palazzo dei Marescialli in questo delicato frangente della vita della magistratura italiana. Desidera poter assistere direttamente al confronto con Palamara. Ed essere tra coloro che valuteranno le decisioni da assumere contro di lui. Anche a costo di sfidare la «legge dell'età». A questo punto però si pone un problema. Palamara, che tra l'altro aveva cercato (senza successo) di portare Davigo sul banco dei testimoni, potrebbe approfittare di questo garbuglio per provare a mandare gambe all'aria l'intero procedimento a suo carico sollevando, dopo il 20 ottobre, eccezioni sulla presenza tra i suoi «giudici» dell'ex pm di Mani pulite. Ed ecco che allora si è escogitata una soluzione. L'uomo della cena all'Hotel Champagne - dopo essere rimasto a bagnomaria per un anno e mezzo - verrà adesso giudicato in un lampo. Veloci, veloci, veloci. Si cercherà di giungere alla sua più che probabile decapitazione prima che sia scoccata l'ora del compleanno di Davigo. Non c'è spazio per i centotrenta testimoni di cui Palamara aveva chiesto la convocazione. Del resto gli erano già stati negati quasi tutti, diciamo pure tutti (almeno per quel che riguarda magistrati). Il processo interno al Csm deve essere rapidissimo. Gli altri magistrati pizzicati dal trojan, verranno «trattati» in tempi successivi quando ormai nessuno presterà più attenzione a questa torbida storia. Spiace che le cose siano andate in questo modo. Ci sono procedimenti giudiziari in cui il dibattimento vale davvero molto e un'accurata, attenta escussione dei testi conta forse più della sentenza finale. E questo è uno di quei casi. Va detto infine che non è un bene venga emessa una dura sentenza anche contro il peggiore dei presunti malfattori, senza che gli sia stata data la possibilità di difendersi. In particolar modo quando l'imputato appare condannato in partenza. Va infine aggiunto che con questo genere di procedimento, fulmineo e senza testimoni, ci toccherà rinunciare a capire se c'erano - e, nel caso, chi erano - i colleghi di Palamara che, assieme a lui e a qualche parlamentare, decidevano irritualmente gli incarichi apicali della magistratura italiana. Peccato. Certo, contro Palamara ci saranno altri processi. A cominciare da quello di Perugia. Ma per i modi in cui viene giudicato dal Csm, è difficile immaginare che nel prossimo futuro le cose andranno in modo radicalmente diverso.

Il processo sul Palamaragate. Il processo a Palamara va chiuso in fretta, il Procuratore generale della Cassazione Salvi mette il bavaglio a Paolo Mieli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Settembre 2020. Sembra che il Csm voglia bruciare i tempi e trasformare il processo a Luca Palamara in una gara di velocità. Tipo Berruti e Mennea. Addirittura le voci dicono che si vorrebbe chiudere tutto nella prossima seduta di lunedì, o al massimo martedì. Condanna all’unanimità e chiuso lì. Perché? Beh, naturalmente c’è di mezzo la questione della pensione di Davigo, della quale abbiamo parlato nei giorni scorsi (cioè la scadenza del 20 ottobre quando Davigo, suo malgrado, dovrà lasciare la magistratura) ma soprattutto c’è la determinazione a non lasciare a Palamara né lo spazio né il tempo per difendersi, perché si teme che la difesa di Palamara possa comportare l’emergere di molto molto fango dai tombini ben chiusi della magistratura, e coinvolgere anche molti nomi eccellenti oltre che il sistema in sé. Quindi: correre, correre, correre. Questo è l’ordine che viene da tutte le parti. Anche dall’alto? Beh, spesso gli ordini vengono dall’alto. Mentre i consiglieri del Csm si organizzano per liquidare in tempi lampo il reprobo Palamara (unico reprobo riconosciuto), il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, calca la ribalta e si assume in prima persona le responsabilità dell’operazione “Palamara-speedy”. Nei giorni scorsi aveva scritto e diffuso una circolare nella quale spiegava che l’autopromozione dei giudici presso i togati del Csm che dovranno poi decidere le loro promozioni, non è una attività proibita. E che dunque non vanno aperte indagini sul comportamento di chi ha tentato – spesso con successo – le arrampicate di carriera. Affermando così il principio che i magistrati non sono semplici cittadini ma cittadini superiori. Lo stesso identico comportamento può senz’altro essere considerato “traffico di influenze” o “voto di scambio” per un esponente politico (il quale può eventualmente essere arrestato, se non è protetto dall’immunità, e detenuto anche per alcuni anni in attesa di processo) ma non per un magistrato il quale invece dispone di un diritto speciale a far figurare le influenze esercitate o richieste come puro e semplice candido self marketing. Ieri Salvi è intervenuto di nuovo. Non su La7, come in genere fa il collega Nicola Gratteri (del quale abbiamo parlato ieri su queste colonne, un po’ stupiti per la spavalderia con la quale alterna la sua funzione di Pm a quella di showman in Tv) ma dalle colonne del Corriere della Sera. Il Corriere appartiene sempre allo stesso gruppo editoriale di La 7, ma pretende, di solito, un grado di cultura un po’ più alto. E non mi pare che ci siano dubbi sul fatto che Giovanni Salvi, effettivamente, sul piano culturale e anche della preparazione giuridica sia su un piano diverso da quello di Gratteri. Sul Corriere però ha espresso concetti anche decisamente più aggressivi di quelli del Procuratore di Catanzaro. Ha spiegato che nelle 60mila pagine delle intercettazioni del telefono di Palamara non ci sono reati di altri magistrati. Non è reato, né illecito disciplinare, se Pm e giudici vanno a cena insieme sulle stesse terrazze, non è reato, né illecito, chiedere a Palamara di essere promossi, non è reato né illecito fare accendere o spegnere il trojan a seconda di chi sta vicino a Palamara in quel momento, non è reato né illecito disciplinare organizzare Procure e tribunali (e probabilmente anche sentenze) sulla base dei rapporti di forza tra le correnti. Ammenochè…Ammenochè tutto ciò non si svolga nell’Hotel Champagne. Ecco, questa – ha spiegato Salvi sul Corriere, rispondendo all’articolo dell’altro giorno di Paolo Mieli (primo, e unico finora, articolo critico verso la magistratura apparso sulla grande stampa) – è l’unica eccezione. I conciliaboli all’Hotel Champagne vanno puniti severamente, quelli sì e solo quelli. Perché? Perché a quei colloqui hanno partecipato Ferri e Lotti che sono due politici. Salvi ci spiega che un Pm può tranquillamente andare a cena col giudice che dovrà decidere il suo processo, ma non con un politico. E che se è andato a cena col politico non c’è bisogno di prove del suo reato (dice proprio così) ma bastano le intercettazioni. Perché le intercettazioni all’Hotel Champagne sono sufficienti per condannare, anche senza processo, e quelle fuori dall’Hotel Champagne, anche se molto più gravi, non servono nemmeno a far partire una inchiesta? L’unica spiegazione logica è che le intercettazioni all’Hotel Champagne erano illegali (non si può intercettare un parlamentare) mentre le altre erano legali. Non sto mica scherzando, eh. L’idea che la vera giustizia sia l’illegalità è una idea che ormai dilaga.

L'intervento sul garantismo del Corsera. Paolo Mieli ha rotto il silenzio su Palamara, ma il Corriere è sempre stato succube della magistratura. Giuseppe Di Federico su Il Riformista il 26 Settembre 2020. Caro Direttore, ho molto apprezzato il tuo articolo “Magistratura da buttare: lo vede anche Mieli”, articolo ove tu ti dichiari lieto e sorpreso che sul Corriere della Sera si sia finalmente “rotto il silenzio su magistropoli” e che Paolo Mieli abbia scritto un articolo sulle vicende del caso Palamara che nella sostanza è “una frustata in faccia alla magistratura e al suo sistema di potere”.  Non so se le intenzioni di Mieli fossero così drastiche ma è comunque vero che le reticenze del Corriere sulla corporazione dei magistrati e la sua accortezza nell’evitare di pestarle i piedi non riguarda solo il caso Palamara ma è nel dna di quel giornale. Lo dico non solo come lettore quotidiano del Corriere ma anche per esperienza personale. Ricordo solo due episodi che inducono a qualche riflessione.

Il primo. Nel lontano 1986 scrissi quattro articoli molto critici sul Csm e l’Associazione nazionale magistrati e li mandai al direttore del Corriere della Sera, Piero Ostellino. Erano quattro articoli conclusi ma strettamente collegati tra di loro, ragion per cui al termine dei primi tre articoli avevo scritto: “continua”. Ostellino li pubblicò subito, il 4, 5, 6 e 7 marzo 1986, come editoriali di spalla. Pubblicò anche la indicazione “continua” alla fine dei primi tre articoli. Non solo, Ostellino mi telefonò per complimentarsi e mi disse che avrebbe desiderato conoscermi di persona. Una decina di giorni dopo, trovandomi a Milano per le mie ricerche sulla giustizia, gli telefonai e mi ricevette subito. Tra le altre cose Ostellino mi disse che la Procura della Repubblica di Milano aveva comunicato al suo cronista giudiziario, Paolo Graldi, che una ulteriore pubblicazione di miei scritti sul Corriere avrebbe fatto venir meno il flusso di informazioni che la Procura gli forniva per i suoi articoli. Ostellino non mi disse certo che non avrebbe più pubblicato i miei articoli. Non ce n’era bisogno. Terminò così la mia esperienza di editorialista del Corriere.

Il secondo. Alcuni anni dopo, nel periodo di Tangentopoli scoprii che uno degli editorialisti del Corriere, di cui per ovvie ragioni non faccio il nome, nutriva le mie stesse preoccupazioni per le gravi violazioni dei diritti civili che si stavano verificando ad opera della Procura di Milano. Si trattava certo di informazioni meritevoli di essere comunicate ai lettori di quel giornale. Gli chiesi perché non avesse scritto niente a riguardo. Mi rispose che non poteva. Avrebbe pregiudicato il suo rapporto di collaborazione col giornale. Mentre è vero che dopo il 1986 io non ho più scritto sul Corriere è altrettanto vero che più volte giornalisti del Corriere si sono rivolti a me per avere informazioni e dati delle mie continue ricerche sulla giustizia sul piano nazionale ed internazionale.

Verso la fine del 2003 quando ero componente del Csm, un noto giornalista del Corriere, Gian Antonio Stella, utilizzò in un suo articolo i miei dati sulle molteplici attività extragiudiziarie dei magistrati, un problema di cui mi ero occupato ricorrentemente da molti anni segnalando la sua incompatibilità con l’indipendenza della magistratura e col corretto funzionamento della divisione dei poteri. Fino ad allora i miei scritti a riguardo non avevano mai suscitato un interesse pubblico, ma solo l’irritazione dell’Anm. L’importanza del giornale che li pubblicava e la notorietà dell’editorialista sollevarono un interesse pubblico che le mie varie pubblicazioni in materia non avevano mai avuto. Venne organizzato un convegno a Roma (dall’Associazione giovani avvocati) sulle attività extragiudiziarie dei magistrati e venne invitato a parlare anche Stella che, col suo articolo, aveva suscitato il pubblico interesse sull’argomento. Al dibattito parteciparono nomi di rilievo dell’avvocatura e della magistratura e tra essi anche lo stesso presidente dell’Anm, Bruti Liberati. L’evento non generò certo nessuna riforma ed il problema permane a tutt’oggi. Fu comunque una chiara indicazione di quanto interesse per le riforme potrebbe suscitare un importante giornale quale il Corriere se decidesse di dedicare con continuità più attenzione alle disfunzioni che derivano da un assetto giudiziario come il nostro ove un’indipendenza di stampo marcatamente corporativo prevale su quelle forme di responsabilità che caratterizzano le magistrature degli altri Paesi a consolidata democrazia. Credo fosse questo il messaggio che tu volevi trasmettere nell’articolo in cui rendi merito a Mieli per aver interrotto il silenzio del Corriere su “magistropoli”, ed è anche la ragione per cui ho appezzato il tuo scritto.

Una postilla sul convegno che seguì la pubblicazione dell’articolo di Stella nel dicembre 2003. Nel suo intervento l’allora Presidente dell’Anm ed autorevole esponente di Magistratura democratica Bruti Liberati, rimproverò, tra l’altro, a Stella di aver erroneamente scritto che io, oltre ad essere componente del Csm, ero anche direttore dell’Istituto di ricerca sui sistemi giudiziari del Cnr. Era cosa che lui da tempo sapeva benissimo essere vera, ma nelle sue intenzioni quello era il modo per sollevare pubblicamente il problema della mia presunta incompatibilità a ricoprire il ruolo di consigliere del Csm ed ottenere la mia espulsione. Efficienza operativa e disciplina sono una caratteristica della dirigenza di Magistratura democratica. Infatti, senza alcun ritardo, la mattina dopo il componente togato del Csm Giuseppe Salmè esponente di quella corrente, che non aveva partecipato al convegno e che da tempo conosceva il mio doppio ruolo, mi fece sapere che avrebbe formalmente chiesto che la commissione per la verifica dei titoli proponesse all’assemblea del Csm la mia espulsione per incompatibilità in base alle norme vigenti. In commissione l’iniziativa del consigliere Salmè non incontrò i favori della maggioranza della commissione proponente perché le altre correnti non ritenevano conveniente promuovere la mia espulsione. Non era quindi questione da decidere nel merito in base al diritto, era sufficiente non decidere. Due riflessioni su questo episodio. Esso indica ancora una volta come il Consiglio costituisca “il braccio armato” dell’Anm e delle sue correnti, un braccio armato che è pienamente efficace se le correnti sono tutte d’accordo. La seconda è che di fatto io, per ironia della sorte, sono stato beneficiato dal sistema delle correnti: se tutte le correnti avessero ritenuto conveniente la mia espulsione, diritto o no, sarei stato espulso.

Niente ricerca della verità, è pericolosa. Processo a Palamara non si farà: nessuno ha il diritto di processare la magistratura, neanche la magistratura. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Settembre 2020. La Procura generale della Cassazione è intervenuta pesantemente nel processo del Csm a Luca Palamara e ha chiesto che siano tagliati via 127 testimoni della difesa su 133. Comunque che non sia chiamato a testimoniare nemmeno un magistrato. Eppure tutta la difesa di Luca Palamara, si sa, consiste nel far raccontare ai suoi colleghi come funzionavano le nomine e il controllo della magistratura da parte delle correnti e del partito dei Pm. È chiaro che queste cose non possono raccontarle i cinque ufficiali della Finanza ammessi al banco dei testimoni. Non possono perché loro non sanno niente di come si nomina un Procuratore, o un aggiunto, o un presidente di tribunale, ed eventualmente di come si patteggia una sentenza favorevole al Pm in cambio della nomina di un giudice. La Procura generale ha chiesto al Csm di affermare un principio che resti saldo come il cemento. Il principio che nessuno può processare la magistratura, nemmeno la magistratura. Il Csm ha accolto la tesi del Procuratore generale e ha seppellito il processo a Palamara. Il processo non ci sarà, a nessuno interessa sapere come vanno le cose in magistratura, Palamara deve essere condannato ed espulso dalla magistratura perché solo così si salva il silenzio e l’onore. A questo punto sarebbe giusto e normale, in un normale Paese democratico, che intervenisse il Parlamento, nominasse una commissione di inchiesta con tutti i poteri di indagine, e iniziasse a interrogare tutti e 127 i testimoni chiesti da Palamara e rifiutati dalla Procura generale e dal Csm. Il Parlamento ha questo potere. Non possiede nessun altro strumento per contrastare o almeno contenere le arroganze e le sopraffazioni della magistratura, e difendere i cittadini. Lo farà? Non credo. Intanto il povero Luca Palamara, capro espiatorio di professione, dopo essere stato per anni il punto di riferimento delle correnti dei Pm, è costretto ad affrontare un processo di tipo sovietico. Nel quale è evitato qualunque tentativo di accertare la verità, sono cancellati tutti i diritti della difesa, e il massimo a cui può aspirare è la richiesta di clemenza della Corte. In Unione Sovietica la clemenza della corte non ci fu mai. Non ci sarà neppure questa volta. C’è da tremare – tutti noi: tutti noi – di fronte a questa prova di forza, di autoritarismo, di totalitarismo, che la magistratura italiana sta offrendo al Paese e al mondo. P.S. Ma la stampa? La stampa protesta, critica, denuncia? Oh beh, la stampa: che domanda cretina….

Il calendario fissa la sentenza il 16 ottobre. Processo Palamara, si va verso la farsa: il 16 ottobre la sentenza per la radiazione. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Settembre 2020. Il Consiglio superiore della magistratura ha deciso: per Luca Palamara serve un “turbo” processo. Dopo aver rigettato tutte le questioni preliminari poste dalla difesa dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, la sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli ha anche stravolto il calendario che era stato comunicato a luglio e che prevedeva udienze almeno fino alla fine dell’anno. Il nuovo calendario, comunicato martedì scorso, prevede udienze per le prossime tre settimane e la sentenza il 16 ottobre. Tempistiche che nulla hanno a che vedere con il processo, tanto per fare un esempio, a Ferdinando Esposito, figlio di Antonio, il presidente della sezione feriale della Cassazione che nel 2013 condannò in via definitiva Silvio Berlusconi, e nipote di Vitaliano, già procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Il processo al dottor Ferdinando Esposito, giudice penale a Torino ed ex pm della Procura di Milano, iniziò nel lontano 2014 e ad oggi, per condotte illecite asseritamente commesse nel 2011, la disciplinare del Csm non ha neppure fissato l’udienza per le conclusioni. Certamente a piazza Indipendenza avranno, come sempre del resto, una spiegazione al fatto che alcuni processi a distanza di un decennio dai fatti sono ancora in corso ed altri che, invece, vengono definiti in poco più di un anno da quando il procuratore generale ha esercitato l’azione disciplinare. Tralasciando per un momento ogni valutazione su come la sezione disciplinare presieduta dal vice presidente del Csm David Ermini organizza i calendari d’udienza, l’accelerazione del processo Palamara giustifica più di un sospetto. Secondo i ben informati delle dinamiche togate, il dibattimento sprint potrebbe avere due spiegazioni. Una è quella di concludere il dibattimento prima del pensionamento di uno dei giudici, e cioè di Piercamillo Davigo, previsto per il 20 ottobre. L’altra è quella di avere una sentenza alla vigilia delle elezioni per il rinnovo dell’Associazione nazionale magistrati, in calendario il 21 e 22 ottobre. Il turbo calendario fissato dalla sezione disciplinare rende molto difficile che siano ammessi i circa 130 testimoni della lista testi di Palamara. Le più rosee previsioni dicono che i testimoni ammessi saranno al massimo dieci. Naufraga, dunque, la linea difensiva di Palamara che puntava ad affermare che il sistema della lottizzazione delle nomine non lo aveva creato lui. Nella lista dei testimoni figuravano politici, ministri, ex vice presidenti del Csm, capi delle correnti della magistratura, procuratori. E poi i consiglieri del Quirinale Stefano Erbani e Francesco Saverio Garofani. Oltre al segretario generale del Csm Paola Pieraccini che Palamara aveva chiamato a rispondere sulle fughe di notizie avvenute lo scorso anno a proposito dell’indagine di Perugia. Nella lista figurava anche Piercamillo Davigo. Per quanto riguarda l’esito, la radiazione dell’ordine giudiziario è ormai quasi certa. La Procura generale è intenzionata a chiedere il massimo della pena. E a ciò si deve aggiungere la forte e continua moral suasion del Quirinale sulla necessità di un “cambio di passo”. Diverso, invece, il destino dei cinque consiglieri del Csm che erano coinvolti nella cena all’hotel Champagne con Palamara e i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri e da cui è nato tutto. Il loro processo avrà un calendario diverso ed inizierà solo quando sarà concluso quello di Palamara. Aver tenuto un bassissimo profilo, essere tornati in ruolo senza tanti problemi, ed essersi subito dimessi dall’Anm per evitare ulteriori polemiche e strumentalizzazioni sarà certamente valutato positivamente dalla disciplinare. Salvo, quasi certamente, anche Cosimo Ferri. Palamara, a differenza loro, aveva deciso di indossare l’elemetto e lanciarsi in una battaglia persa in partenza. Ad assisterlo in questa missione impossibile, Stefano Giame Guizzi, consigliere di Cassazione, e uno dei massimi esperti di disciplinare. Di quelli coinvolti nel “Palamaragate” sarà probabilmente l’unico a pagare. Ma la sua condanna sarà necessaria per salvare la credibilità della magistratura, in caduta verticale da tempo. Domani mattina, comunque, la prima udienza del turbo processo a Palazzo dei Marescialli.

Alla vigilia dell’espulsione parla difensore di Palamara: «Domani l’Anm liquida il suo ex capo, è stato un processo indecoroso». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 18 settembre 2020. Parola a Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena e difensore di Palamara davanti all’Anm. «Non voglio partecipare a un evento gestito in maniera indecorosa da parte dell’Associazione nazionale magistrati», dichiara al Dubbio Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena e storico esponente di Unicost, la corrente di centro della magistratura, alla vigilia dell’assemblea generale che dovrà decidere sul destino di Luca Palamara. Lo scorso 20 giugno il comitato direttivo centrale dell’Anm aveva deciso di espellere Palamara per indegnità, a seguito di quanto emerso nelle intercettazioni disposte dalla Procura di Perugia. Nel mirino, in particolare, le interlocuzioni per le nomine dei capi di importanti uffici giudiziari, emerse nell’incontro del 9 maggio 2019 presso l’hotel Champagne di Roma, con alcuni politici, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. Contro l’espulsione, il magistrato, che dell’Anm era stato anche presidente, ha presentato ricorso. La discussione e la decisione, inappellabile, si terrà domani a Roma in un ambiente assai particolare: l’aula magna della Pontificia università San Tommaso D’Aquino Angelicum. Carrelli Palombi aveva fornito inizialmente assistenza tecnica a Palamara davanti ai probiviri dell’Anm quando venne aperto il procedimento. In occasione del direttivo di luglio, il pm romano aveva anche chiesto, senza successo, di essere ascoltato. «Non esistevano motivi seri per non consentire a Palamara di prendere la parola: potevano espellerlo lo stesso ma dovevano comunque ascoltare le sue ragioni», puntualizza amaro Carrelli Palombi. «Non c’è stata – aggiunge – e non c’è la volontà di affrontare una seria analisi di quanto accaduto». Carrelli Palombi, dopo trent’anni di associazionismo giudiziario, ha dunque deciso di «farsi da parte». Il tema, incandescente, è sempre lo stesso: il “sistema” delle nomine dei capi degli uffici con in primo piano il ruolo delle correnti nelle scelte del Csm. «Ma figuriamoci se tale sistema poteva basarsi solo sulle asserite “malefatte” di Palamara», prosegue il presidente del Tribunale di Siena. «Palamara avrà pure tutte le colpe della terra, penali e disciplinari, ma l’Anm doveva fare delle valutazioni “politiche” e non cercare di risolvere tutto con la ricerca del facile capro espiatorio». Lo scenario emerso dalle chat di Palamara è quello di decine di magistrati che si rivolgevano all’ex pm romano, allora potente presidente della commissione Incarichi direttivi del Csm, per ottenere promozioni. Non solo ruoli da dirigente, ma anche gli ambiti posti al Massimario della Cassazione, alla Procura generale presso la Suprema corte, all’Ufficio studi del Csm. E poi i ben pagati “fuori ruolo” presso il ministero della Giustizia. «Dalle intercettazioni e dalle chat emerge che erano coinvolti in tanti; anzi, eravamo coinvolti in tanti, mi ci metto anche io», precisa Carrelli Palombi, secondo il quale «serve una rifondazione dell’Anm dopo aver fatto tutti un passo indietro». Precisamente andrebbe «azzerato questo sistema che non ha portato a grandi risultati, pur considerando la qualità delle persone che sono state scelte negli anni per gli incarichi. Volevo già proporre questo tema al congresso dell’Anm di Genova ( svoltosi a dicembre 2019, ndr), una inutile parata non rappresentativa, ma mi è stato impedito», ricorda, sottolineando come «i magistrati silenziosi e meno disposti a partecipare all’Associazione sono sempre di più». E poi c’è anche il tema del “turboprocesso” a Palamara davanti alla sezione disciplinare del Csm. Stamani è prevista la prima udienza dibattumentale. La sentenza è attesa per il 16 ottobre. Il collegio ha fissato un calendario da record: tutte le udienze della disciplinare da qui al 16 ottobre saranno dedicate solo al processo a Palamara. «Lascia perplesso un tour de force simile deciso prima ancor che si sappia quali testi debbano essere ammessi o meno: capisco che ci sia di mezzo da questione  “Davigo”, ma le cose che ha scritto Nello Rossi (direttore della rivista di Md, Questione Giustizia, ndr) sul pensionamento di Davigo le avevo dette io anni prima. Come Unicost, infatti, non candidammo al Csm un autorevole avvocato generale dello Stato che sarebbe andato in pensione durante la consiliatura».

La richiesta della Procura della Cassazione. La radiazione di Palamara serve a salvare la casta delle toghe…Piero Sansonetti su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. È stato il processo meno garantista, forse, di tutta la storia dei processi del dopoguerra. Anche se solennemente svolto davanti al Csm. C’era un colpevole designato, c’era il rifiuto di far sfilare i suoi testimoni, c’era una giuria composta da molti personaggi coinvolti nel “delitto”, e le prove a carico erano interamente costituite da intercettazioni in gran parte illegali. Un pasticcio staliniano. Per il resto niente di nuovo. Il rappresentante del Procuratore generale della Cassazione ha chiesto come previsto la massima pena per Luca Palamara, ex Dio delle toghe italiane, oggi Satana, e cioè la radiazione dall’Ordine giudiziario. Indegno, infame! La Procura generale della Cassazione lo ha accusato di aver tramato per influire sulla nomina del procuratore di Roma e anche del Procuratore di Perugia e di averlo fatto in combutta con uomini politici (Lotti e Ferri) e poi anche di aver tentato di infangare alcuni suoi colleghi. Cioè di aver fatto esattamente tutte quelle cose che nella magistratura italiana si fanno abitualmente da molti anni. Oggi ci sarà la sentenza. Di condanna, come è ovvio che avvenga in un processo dove sono stati eliminati i diritti della difesa e proibito ogni approfondimento, per evitare il rischio che saltino fuori un po’ troppe magagne della magistratura. il Palamara-gate dimostra senza possibilità alcuna di errore che tutta la struttura della magistratura e le sue gerarchie sono costruite in modo clientelare e illegale e sono sotto il controllo dall’Anm, cioè dal partito dei Pm. Di conseguenza dimostra la situazione di sostanziale illegalità nella quale vivono i palazzi di giustizia e della quale sono vittima migliaia e migliaia di imputati. La decisione della casta è quella di chiudere tutto, con la cacciata di Palamara dalla magistratura e con la proclamazione del principio che la casta, per definizione, non si tocca. E la legalità? Sì, vabbé, la legalità…

Giovanni Bianconi per corriere.it l'8 ottobre 2020. «Chiediamo la sanzione massima, cioè la radiazione dall’ordine giudiziario». Si conclude così la requisitoria della Procura generale della Cassazione nel processo disciplinare a Luca Palamara, davanti al «tribunale» del Consiglio superiore della magistratura. «Non si chiede un giudizio etico», precisa il vice-procuratore generale Pietro Gaeta, «ma una valutazione della particolare gravità dei fatti. L’incolpato ha tentato di condizionare la nomina al vertice del più grande e più importante ufficio giudiziari italiano, la Procura di Roma, per interessi personali, e in più voleva condizionare la nomina del procuratore di Perugia per ottenerne uno che potesse garantire interventi di vario genere nei confronti dei magistrati romani».

Il vertice all’hotel Champagne. Non solo; a Palamara si contesta anche un’opera di «denigrazione e delegittimazione sistematica, attivata su più fronti» verso alcuni colleghi. La vicenda per cui l’accusa ha chiesto l’espulsione dalla magistratura dell’ex componente del Csm ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati è quella dell’ormai famosa riunione all’hotel Champagne di Roma, la sera del 9 maggio 2019, tra cinque consiglieri allora in carica del Csm, lo stesso Palamara e i deputati Cosimo Ferri (magistrato anche lui) e Luca Lotti (imputato nel processo Consip proprio su iniziativa della Procura di Roma). In quella riunione, secondo il vice-procuratore Gaeta e il sostituto procuratore generale Simone Perelli, Palamara non ha agito secondo il solito sistema di spartizione delle nomine tra le correnti dei magistrati, ma ha organizzato in qualità di sceneggiatore, organizzatore e regista una per pilotare la nomina del procuratore di Roma in base a «interessi diversi e convergenti, condizionando il corretto funzionamento e la fisiologica interlocuzione istituzionale. C’è stata un’indebita manipolazione dei meccanismi istituzionali, in forma occulta e con soggetti esterni al Csm aventi un diretto interesse particolare alle nomine».

Il verdetto in serata. Interessi dello stesso Palamara, che dopo la scelta del procuratore indicato da lui e gli altri partecipanti alla riunione, aspirava ad essere nominato procuratore aggiunto sulla base dello stesso disegno e delle stesse alleanze; di Ferri, che dall’esterno voleva essere e apparire il «king maker» di una delle decisioni più rilevanti che il Csm era chiamato a prendere, e di Lotti, i qualità di imputato in un processo che la stessa procura avrebbe dovuto portare avanti dopo la richiesta di rinvio a giudizio. «Qui non siamo alla spartizione delle nomine tra gruppi correntizi», ha detto il sostituto pg Perelli, «ma al sovvertimento delle regole dello Stato di diritto. Altro che porto delle nebbie, siamo al porto delle tenebre!». Nel pomeriggio parlerà la difesa di Palamara, ed è possibile che il magistrato incolpato – dopo aver scelto di non rispondere alle domande del procuratore generale basate sulle intercettazioni dei dialoghi intercettati nella riunione del 9 maggio – faccia delle dichiarazioni spontanee a propria discolpa. Poi la sentenza, che a questo punto dovrebbe arrivare in serata.

Il pg della Cassazione: “Rimuovere Palamara dalla magistratura”. La difesa: “Prosciogliere Luca Palamara da tutti gli addebiti contestati”. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno l'8 Ottobre 2020. La rimozione dall’ordine giudiziario. E’ la sanzione, la più grave prevista , chiesta dalla procura generale della Cassazione per Luca Palamara. A formulare la richiesta al collegio della sezione disciplinare del Csm è stato l’avvocato generale Pietro Gaeta. Nella sua arringa il magistrato Stefano Giaime Guizzi difensore di Luca Palamara, uno dei magistrati più qualificati ed esperti di questioni disciplinari al Csm ha chiesto di prosciogliere Luca Palamara da tutti gli addebiti contestati, o in alternativa “se si dovesse comminare una sanzione sia applicata la sospensione per due anni stante la pendenza del processo penale”. Per i magistrati della procura generale della Cassazione, che ha sottolineato l’assoluta “gravità degli illeciti’’, l’ex presidente dell’ ANM Luca Palamara ha messo in atto ‘’condotte molteplici e plurioffensive’’quale ‘’organizzatore regista e sceneggiatore della strategia’’ messa in atto, per la quale ha avuto un ‘’ruolo primario“. L’accusa ha chiesto di espellere Luca Palamara dalla magistratura. La Procura Generale della Cassazione puntando alla sanzione massima nel processo in corso davanti alla Sezione disciplinare del Csm in cui l’ex presidente dell’Anm, già sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e sotto inchiesta per corruzione a Perugia, deve rispondere dei suoi comportamenti nei confronti dei colleghi che concorrevano per un posto in diverse procure. L’avvocato generale ha sostenuto che Palamara inoltre ‘’non ha fornito elementi idonei ad attenuare la gravità delle accuse’’ e “non ha interloquito con il suo giudice naturale’’. ‘’Almeno tre soggetti estranei alla funzione istituzionale, per interessi personali hanno pilotato e promosso la nomina del procuratore di Roma, dell’aggiunto e programmato quella di un atto ufficio giudiziario “, ha detto Pietro Gaeta nella sua requisitoria, ricostruendo quanto accaduto all’hotel Champagne di Roma (che ha cessato la sua attività ! n.d.r. ) adiacente al Csm, nel corso dell’udienza al processo disciplinare Luca Palamara che discusse in quella riunione di nomine con Cosimo Ferri e Luca Lotti e 5 magistrati del Csm, che si sono dimessi dal Consiglio Superiore della Magistratura a seguito dell’esplosione del caso. Un incontro  in cui il pm romano e i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri “per differenti ma cospicui interessi personali hanno pilotato e promosso la nomina” del procuratore capitolino e di un aggiunto, oltre che “programmato la nomina del direttivo di un altro ufficio giudiziario, quello di Perugia“. ’’Non si è trattato di una interlocuzione fisiologica né di una interlocuzione istituzionale tra magistrati e politici, né dell’interlocuzione tra componente togata e laica, prevista nel Csm’’, ha sottolineato Gaeta. "Proprio perché esiste un perimetro previsto dalla Costituzione, questa riunione esorbita in maniera evidente da questo perimetro". Si tratta dunque a giudizio dell’avvocato generale della Cassazione, di "un modello totalmente alterato" e l’incontro "si colloca fuori da qualsiasi schema legale". Nel corso della sua requisitoria a Palazzo dei Marescialli, il sostituto Pg della Cassazione Simone Perelli ha dichiarato che sui vertici della procura di Roma e di Perugia c’era un “disegno occulto e inconfessabile” e l’ obiettivo era “selezionare candidati che avrebbero dovuto sovvertire le regole dello stato di diritto“. A concludere la requisitoria dell’accusa è stato il sostituto Pg della Cassazione Perelli, che aumenta il carico delle accuse: Palamara mirava ad un “procuratore di Perugia addomesticato, che doveva assecondare il sentimento di rivalsa suo e di Lotti nei confronti di Paolo Ielo (attuale procuratore aggiunto a Roma, ndr). Condotta di una gravità inaudita“, respingendo le argomentazioni della difesa: “Non vale invocare il mantra della spartizione correntizia“. Sui vertici della Procura di Roma dove secondo l’accusa si mirava a garantire “discontinuità” con la gestione di Giuseppe Pignatone, e di Perugia si era in presenza un “disegno occulto e inconfessabile” e l’ obiettivo era “selezionare candidati che avrebbero dovuto sovvertire le regole dello stato di diritto”. Durante l’udienza si è discusso anche dei tempi adottati per il procedimento disciplinare, ritenuti dalla difesa e da una parte della stampa troppo brevi . Secondo il rappresentante della procura di Cassazione Gaeta, non c’è invece alcuna forzatura dei tempi, nessuna compressione dei suoi diritti di difesa,  e quindi nessuna volontà di far diventare il pm romano, un “capro espiatorio” ed il suo processo la “tacitazione della cattiva coscienza della magistratura”, al fine “sacrificarne uno per salvarne mille”. Gaeta ha respinto tutto ciò che ha definito “bolle mediatiche” e che rappresentano per il lavoro svolto dal suo ufficio accuse “insostenibili”. In particolare ha respinto l’accusa di aver compresso i diritti di Luca Palamara opponendosi alla lista dei 130 testimoni, presentata dalla difesa, giudicandola “avventata e strumentale per non far emergere posizioni involgenti altri magistrati” rivendicando il rigoroso rispetto delle regole anche sull’utilizzazione delle intercettazioni della riunione all’ Hotel Champagne. Quella conversazione fu captata in modo “assolutamente casuale”, non si sapeva della presenza dei due parlamentari. Intercettazioni che però sono state utilizzate. Nella precedente udienza il magistrato Stefano Giaime Guizzi difensore di Luca Palamara, uno dei magistrati più qualificati ed esperti di questioni disciplinari al Csm, aveva ricordato e contestato le fughe di notizie apparse sul quotidiano La Repubblica a firma di Carlo Bonini, contestando che “Non c’è serenità per affrontare il giudizio. Questi dubbi non sono stati ritenuti fondati” aggiungendo “Il vulnus è che non ci sia consigliere del Csm che non si sia espresso pubblicamente su questa vicenda. C’è chi ha paragonato il metodo Palamara al metodo mafioso, chi ha stabilito parallelismo con la P2. Tutte queste circostanze unite al fatto che i componenti del Csm sono indicati come persone offese. Io non conosco caso in cui il giudice sia anche persona offesa di quella vicenda. Non c’è serenità per affrontare giudizio”.

“Prosciogliere Luca Palamara da tutti gli addebiti contestati“. E’ stata la richiesta conclusiva avanzata dalla difesa di Palamara, alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. “Dissento dalla richiesta del pg della sanzione massima” ha spiegato Stefano Giaime Guizzi, chiedendo che “se si dovesse comminare una sanzione sia applicata la sospensione per due anni stante la pendenza del processo penale“. Guizzi ha anche anticipato che Palamara in merito all’utilizzo delle intercettazioni valuterà se “questo non costituisca materia di un possibile ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo” riferendosi alle intercettazioni con i deputati Lotti e Ferri che non dovevano essere utilizzate in quanto c’è la “possibile violazione dell’articolo 68 della Costituzione, visto che è stato intercettato anche il parlamentare Cosimo Ferri, entrato nel perimetro dell’indagine sin dai primi atti”. “Riteniamo quindi che il tema dell’utilizzabilità delle intercettazioni non sia chiuso e questo potrebbe portare Palamara davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo’”, ha aggiunto Guizzi, durante l’arringa. E’ molto probabile che il magistrato inquisito, dopo aver scelto di non rispondere alle domande del procuratore generale proprio in quanto basate sulle intercettazioni dei dialoghi intercettati nella riunione del 9 maggio, nell’udienza che si svolgerà domattina, faccia delle dichiarazioni spontanee. Poi la sentenza, che a questo punto dovrebbe arrivare anche domani.

La richiesta della Procura della Cassazione. La radiazione di Palamara serve a salvare la casta delle toghe…Piero Sansonetti su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. È stato il processo meno garantista, forse, di tutta la storia dei processi del dopoguerra. Anche se solennemente svolto davanti al Csm. C’era un colpevole designato, c’era il rifiuto di far sfilare i suoi testimoni, c’era una giuria composta da molti personaggi coinvolti nel “delitto”, e le prove a carico erano interamente costituite da intercettazioni in gran parte illegali. Un pasticcio staliniano. Per il resto niente di nuovo. Il rappresentante del Procuratore generale della Cassazione ha chiesto come previsto la massima pena per Luca Palamara, ex Dio delle toghe italiane, oggi Satana, e cioè la radiazione dall’Ordine giudiziario. Indegno, infame! La Procura generale della Cassazione lo ha accusato di aver tramato per influire sulla nomina del procuratore di Roma e anche del Procuratore di Perugia e di averlo fatto in combutta con uomini politici (Lotti e Ferri) e poi anche di aver tentato di infangare alcuni suoi colleghi. Cioè di aver fatto esattamente tutte quelle cose che nella magistratura italiana si fanno abitualmente da molti anni. Oggi ci sarà la sentenza. Di condanna, come è ovvio che avvenga in un processo dove sono stati eliminati i diritti della difesa e proibito ogni approfondimento, per evitare il rischio che saltino fuori un po’ troppe magagne della magistratura. il Palamara-gate dimostra senza possibilità alcuna di errore che tutta la struttura della magistratura e le sue gerarchie sono costruite in modo clientelare e illegale e sono sotto il controllo dall’Anm, cioè dal partito dei Pm. Di conseguenza dimostra la situazione di sostanziale illegalità nella quale vivono i palazzi di giustizia e della quale sono vittima migliaia e migliaia di imputati. La decisione della casta è quella di chiudere tutto, con la cacciata di Palamara dalla magistratura e con la proclamazione del principio che la casta, per definizione, non si tocca. E la legalità? Sì, vabbé, la legalità…

(ANSA il 9 ottobre 2020) - Luca Palamara è stato radiato dalla magistratura. La Sezione disciplinare del Csm lo ha condannato alla sanzione massima prevista, accogliendo la richiesta della Procura generale della Cassazione . Palamara è il primo ex consigliere del Csm ed ex presidente dell' Associazione magistrati ad essere rimosso dall'ordine giudiziario.

Sandra Fischetti per l'ANSA il 9 ottobre 2020. Con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri ha "pilotato la nomina del procuratore di Roma" e ha messo in atto una strategia per arrivare a un procuratore di Perugia "addomesticato", agendo come i suoi interlocutori per puri "interessi personali" e con ciò concretizzando "un indebito condizionamento" delle funzioni del Csm.Con l'aggravante di aver così permesso a Lotti,che era imputato nell'inchiesta Consip della procura di Roma, di interloquire e concorrere alla scelta del dirigente dell'ufficio giudiziario che lo aveva messo sotto accusa. Al processo disciplinare a Luca Palamara i rappresentanti della procura generale della Cassazione descrivono così alcuni dei comportamenti di "elevatissima gravità" che non consentono più a Luca Palamara di continuare a indossare la toga. Per lui l'avvocato generale Pietro Gaeta e il sostituto Pg Simone Perelli chiedono convinti la sanzione massima e irreversibile: la rimozione dai ranghi della magistratura. Una batosta per il pm romano, già sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. La sua difesa non demorde e pensa di portare la battaglia sino alla Corte europea dei diritti dell'uomo, sulle intercettazioni che sono alla base di questo processo e del procedimento penale di Perugia dove è imputato di corruzione. La sentenza potrebbe arrivare già domani dopo le repliche di accusa e difesa e le dichiarazioni spontanee di Palamara, che parlerà per la prima volta. Al centro del giudizio disciplinare c'è la ormai nota riunione del 9 maggio del 2019, in cui Palamara, i due parlamentari e cinque consiglieri del Csm - che si sono poi dimessi - discussero, secondo l'accusa, la strategia per le nomine. Una vicenda che, hanno sostenuto i rappresentanti della procura generale, costituisce un "unicum" nella storia della magistratura proprio per la presenza di soggetti completamente "estranei" al Csm e portatori di interessi "personali"(quello di Palamara rispetto alla procura di Roma era essere nominato aggiunto) e insieme di un "disegno occulto", a partire dalla scelta di un procuratore che segnasse una "discontinuità" con la gestione dell'ex procuratore Giuseppe Pignatone. Non fu una "fisiologica interlocuzione istituzionale" tra rappresentanti il Csm e politici, hanno sostenuto Gaeta e Perelli, ma una riunione "fuori da ogni schema legale". Tant è che si pianificò anche la nomina del procuratore di Perugia: Palamara sapeva di essere indagato da quell'ufficio e cercava un procuratore "che doveva assecondare il sentimento di rivalsa suo e di Lotti nei confronti di Paolo Ielo", procuratore aggiunto a Roma. Opposta la lettura dei fatti di Stefano Guizzi, difensore di Palamara, certo che il suo assistito vada assolto perchè può avere avuto condotte inopportune ma mai illecite come le strategie di discredito nei confronti di colleghi che gli vengono contestate. Quanto alla riunione all'hotel Champagne se è vero che la presenza di Lotti fu "gravemente inopportuna", l'uomo politico "non fornì alcun contributo decisorio, perchè non vi era alcun accordo blindato sulla procura di Roma". Furono invece pienamente legittime le interlocuzioni con i consiglieri del Csm di Palamara e Cosimo Ferri, in quanto entrambi riconosciuti leader delle correnti. Anche perchè la scelta del capo di una procura "dipende anche da valutazioni politiche". E' per questo che Guizzi ritiene un "grave vulnus" per i diritti di difesa il taglio drastico deciso dai giudici della lista di 133 testimoni, che serviva non a dire 'tutti colpevoli, nessun colpevole' ma a dimostrare che queste sono le prassi in tema di nomine .La battaglia a Strasburgo sarà comunque sulle intercettazioni che non potevano essere utilizzate visto che hanno coinvolto un parlamentare.

LIANA MILELLA per repubblica.it il 9 ottobre 2020. Luca Palamara è fuori dalla magistratura. Per lui c'è la "rimozione", la pena più severa prevista dalla giustizia disciplinare. Lo hanno deciso al Csm i giudici laici e togati della sezione disciplinare dopo tre ore ore di camera di consiglio. La difesa aveva chiesto l'assoluzione o solo due anni di sospensione in attesa della sentenza del processo di Perugia in cui l'ex presidente dell'Anm (2008-2012), ex consigliere del Csm (2014-2018), ma soprattutto potente leader di Unicost, la corrente di centro delle toghe, è imputato di corruzione. "Porto e porterò sempre la toga nel cuore. "Sono consapevole di aver pagato io per tutti, per un sistema che non funziona, che è obsoleto e superato", ha detto Luca Palamara in conferenza stampa. Palamara ha rinunciato alle ultime dichiarazioni davanti al collegio che pure aveva annunciato di voler fare. "Il mio avvocato è stato bravissimo, basta così" gli hanno sentito dire. Mentre, per la procura generale della Cassazione, ha confermato le accuse il sostituto procuratore generale Simone Perelli che con l'avvocato generale Pietro Gaeta non ha certo fatto sconti a Palamara, il cui comportamento è stato definito di "una gravità inaudita". Il difensore di Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, ha chiesto che quella della disciplinare non fosse "una sentenza politica", ma nel merito dei fatti. Palamara era in aula al momento del verdetto, letto dal presidente del collegio Fulvio Gigliotti, laico indicato da M5S. Con lui, a giudicare Palamara, sono stati: il laico della Lega Emanuele Basile, e i giudici Piercamillo Davigo di Autonomia e indipendenza, Elisabetta Chinaglia di Area, Paola Maria Braggion e Antonio D'Amato di Magistratura indipendente. Uscendo dal Csm Palamara ha detto solo: "I valori che mi hanno portato a essere magistrato - equità, senso civico, amore per la giustizia - sono gli stessi che connoteranno il mio operato da oggi in poi". Poi non ha aggiunto altro, ma ha annunciato che parlerà alle 16 dalla sede del Partito Radicale in via di Torre Argentina, un luogo che considera rappresentativo per le sue future battaglie, a partire dal ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, dove Palamara lamenterà non solo il taglio dei testimoni richiesti (sei rispetto a 133), ma anche il diniego sull'inutilizzabilità delle intercettazioni che, a suo avviso, coinvolgendo due parlamentari, non potevano essere registrare. Ma perché Palamara ha subito la più grave condanna che, dal 2009 a oggi, è stata adottata solo per 20 toghe per lo più finite sotto processo penale? Lo hanno spiegato i procuratori Gaeta e Perelli. Che lo hanno accusato di "comportamenti di elevatissima gravità" e di "voler condizionare, in modo occulto, l'attività istituzionale del Csm". Con l'obiettivo di manipolare le competizioni e pilotare quindi i vincenti per la corsa a importanti procure italiane, Roma in primis, con i suoi aggiunti, e poi Perugia. Lo stesso Palamara aveva presentato domanda per diventare procuratore aggiunto proprio a Roma. I fatti sono quelli della sera all'hotel Champagne, l'8 maggio del 2019, quando Palamara s'incontra con Luca Lotti, deputato del Pd, e Cosimo Maria Ferri, anche deputato del pd in quel momento poi passato con Renzi. Con loro ci sono anche cinque consiglieri del Csm, Luigi Spina e Gianluigi Morlini di Unicost (il secondo presidente della commissione per gli incarichi direttivi), Corrado Cartoni,  Antonio Lepre e Paolo Criscuoli, di Magistratura indipendente. Un Trojan messo dalla procura di Perugia registra tutte le conversazioni. E rivela che, secondo la procura della Cassazione, l'obiettivo era quello di far nominare come capo della procura di Roma Marcello Viola, che era ed è tuttora procuratore generale a Firenze. Ai danni degli altri concorrenti, Giuseppe Creazzo procuratore di Firenze e Franco Lo Voi capo della procura di Palermo. Ma la strategia mirava anche a mettere gli "uomini giusti" anche al vertice della procura di Perugia, e infine delegittimare il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo.

Il Csm ha radiato Luca Palamara dalla magistratura. Il Corriere del Giorno il 9 Ottobre 2020. La sezione disciplinare lo ha condannato alla massima sanzione. Annunciata una conferenza stampa nel pomeriggio. La difesa: ‘Non è una sentenza politica” ed espresso “massimo rispetto” per la decisione. Una sentenza a nostro parere più mediatica che giuridica, per non portare alla luce e mettere in discussione antichi vizi, usi e costumi dell’intera magistratura, e delle sue varie rappresentanze correntizie, presenti nell’Anm e nel Csm. L’ex presidente dell’ Associazione Nazionale Magistrati Luca Palamara ex consigliere del Csm, è stato radiato dai ruoli della magistratura. La Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura lo ha condannato alla sanzione massima prevista, accogliendo la richiesta della Procura generale della Cassazione .  Palamara ha lasciato il Csm senza fare dichiarazioni, annunciando una conferenza stampa per le 16 di oggi presso la sede del Partito Radicale.  A margine del verdetto ha rilasciato una stringata dichiarazione all’AdnKronos: “I valori che mi hanno portato ad essere magistrato – equità senso civico e amore per la giustizia – sono gli stessi che connoteranno il mio operato da oggi in poi”. La sentenza è arrivata dopo una camera di consiglio durata due ore e mezza. Erano stati ieri i rappresentanti della procura generale della Cassazione a chiedere la sanzione massima – impugnabile davanti alle Sezioni Unite della Cassazione – accusando Palamara soprattutto di aver “pilotato” per interessi personali la nomina del procuratore di Roma e contestandogli una strategia di discredito a danno del procuratore aggiunto Paolo Ielo. La vicenda al centro del processo è la riunione notturna all’hotel Champagne del 9 maggio del 2019, nella quale secondo l’accusa Palamara, cinque consiglieri del Csm (tutti dimessi e ora a processo disciplinare) e i parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri discussero le strategie sulle future nomine ai vertici delle procure. Riunione intercettata grazie ad un trojan nel cellulare di Palamara, che era finito sotto inchiesta a Perugia dove è imputato per corruzione. Palamara ha cercato di difendersi anche con interviste e dichiarazioni tese a dimostrare di non aver commesso niente di strano ed illegale, sostenendo di essersi semplicemente adeguato al ruolo esercitato dalle correnti della magistratura nella spartizioni dei posti, che ad onore del vero ci sono sempre state e sempre ci saranno, praticate all’interno dell’organo di autogoverno dei giudici. L’ormai ex-magistrato aveva chiesto alla Sezione disciplinare del Consiglio nel tentativo legittimo di sostenere la propria tesi difensiva, di poter introdurre ed ascoltare 133 testimoni, fra i quali presidenti emeriti della Corte costituzionale, magistrati, ex ministri e politici di ogni partito, per portare alla luce nel processo disciplinare a suo carico l’intero sistema delle correnti e di gestione del Csm. Ma tutto ciò come facilmente prevedibile non gli è stato consentito. Il “palazzo delle toghe” si è blindato. La Procura generale della Cassazione ed il Csm hanno ritenuto invece che i testi citati dalla difesa esorbitassero dal perimetro delle contestazioni, limitate ai discorsi registrati quella notte e ad alcune altre conversazioni intercettate attraverso il virus trojan inoculato nel telefono cellulare di Palamara a seguito dell’indagine penale aperta a Perugia, dove l’ex-magistrato è imputato di corruzione, che di fatto l’ha fatto diventare una microspia inconsapevole. Nel corso delle udienze della sezione disciplinare, guidata dal giurista laico (nominato dal M5S) Fulvio Gigliotti, sono stati ascoltati come testimoni solo gli investigatori della Guardia di Finanza che avevano intercettato i dialoghi tra Palamara ed i cinque ex consiglieri togati, con i parlamentari Ferri, Lotti nell’incontro notturno all’hotel Champagne di Roma, dove tra l’8 e il 9 maggio 2019 si pianificavano le nomine incriminate, più un altro paio di testimoni. Le altre registrazioni e soprattutto le famose chat (60.000 pagine) di Palamara con centinaia di suo colleghi, intercorse tra il 2017 e il 2019, quando era al Csm ed al vertice della sua corrente, Unicost-Unità per la costituzione , sono state escluse dal giudizio. “Abbiamo applicato le norme e le regole che ogni giorno applicano i magistrati in tutta Italia“, ha affermato nel chiedere la condanna il vice-procuratore generale Pietro Gaeta, rappresentante dell’accusa. Il magistrato Stefano Giaime Guizzi, difensore di Luca Palamara ha risposto “assolutamente no“ alla domanda se la pronuncia del Csm sul suo assistito sia una sentenza politica, ed ha anche espresso “massimo rispetto” per la decisione, in attesa dei ricorsi che certamente ci saranno, fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo come già annunciato. Palamara ed il suo difensore hanno sostenuto l’inutilizzabilità delle intercettazioni, considerate illegittime perché coinvolgevano due deputati coperti dall’immunità parlamentare, ma la Sezione disciplinare le ha considerate pienamente utilizzabili, in quanto casuali . Un punto fondamentale questo su cui proseguirà la battaglia legale di Palamara, per tentare di ribaltare il verdetto del Csm che l’ha portato fuori dalla magistratura, e cercare di dimostrare di essere stato trattato come un capro espiatorio sacrificato per salvare l’intero “sistema” delle toghe. Una sentenza a nostro parere più mediatica che giuridica, per non portare alla luce e mettere in discussione antichi vizi, usi e costumi dell’intera magistratura, e delle sue varie rappresentanze correntizie, presenti nell’Anm e nel Csm. Adesso il Csm dovrà valutare ancora varie posizioni di altri magistrati, a partire da tutti gli ex consiglieri del Csm che hanno partecipato alla riunione all’hotel Champagne con Palamara, Lotti e Ferri, e decidere se sanzionarli o no. Da risolvere la “questione morale” che ha coinvolto l’intero sistema di gestione del potere giudiziario nella sua interezza. Come ha ricordato Palamara alcuni mesi fa: “Non ho agito da solo. Ero parte di un sistema”. Un sistema che vige tuttora e prolifera, all’interno del quale non si intravedono verginità morali.

Il Csm lo radia per salvarsi la faccia. Liquidato un Palamara se ne fa un altro, ecco perché è stato radiato il re delle nomine. Paolo Comi Il Riformista l'8 Ottobre 2020. Da oggi pomeriggio, è una certezza, i problemi che affliggono da anni la magistratura italiana, ad iniziare dalla lottizzazione degli incarichi da parte delle correnti, saranno tutti risolti: Luca Palamara, l’ex potente presidente dell’Associazione nazionale magistrati, sarà radiato dalla sezione disciplinare del Csm. Il processo a suo carico è stato rapidissimo: meno di un mese. Un record assoluto. Chi ha avuto modo di parlare con Palamara in questi giorni l’ha sentito sereno. E non è una frase di circostanza. Palamara da tempo aveva capito che il suo destino era segnato. Ha provato a difendersi, assistito dal consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi, uno dei magistrati più esperti di questioni disciplinari al Csm. Una difesa a 360 gradi che ha sollevato anche diverse eccezioni di costituzionalità. Ma tutto è stato vano. Quello che è successo non poteva essere archiviato con un semplice “buffetto” da parte della disciplinare del Csm, normalmente ben predisposta nel perdonare i magistrati che inciampano in qualche illecito. Il danno di immagine è stato senza precedenti per poter chiudere un occhio. Riavvolgiamo, dunque, il nastro di questi mesi. Tutto inizia a settembre del 2018. Sono gli ultimi giorni al Csm per Palamara. Il magistrato è potentissimo. Capo delegazione di Unicost, il correntone di centro delle toghe, ha ricoperto l’incarico di presidente della Commissione per gli incarichi direttivi di Palazzo dei Marescialli nel quadriennio delle oltre 1000 nomine. Complice l’abbassamento dell’età pensionabile voluto dal governo Renzi, tanti magistrati sono andati via. Il Csm per coprire i posti vacanti ha lavorato a pieno regime, trasformandosi in un “nominificio”. Il Fatto Quotidiano pubblica la notizia che a Perugia è aperto un fascicolo nei suoi confronti. È un brutto colpo. Palamara è proiettato verso incarichi di prestigio, come del resto tutti i consiglieri uscenti. Lui punta a diventare aggiunto alla Procura di Roma. Il procedimento di Perugia non gli impedisce, però, di continuare la sua attività preferita: le nomine. Il vice presidente del Csm David Ermini, ad esempio, è una sua creatura. È stato Palamara a far convergere i voti sul responsabile giustizia del Pd, bruciando il professore di Forza Italia Alessio Lanzi e il laico pentastellato Alberto Maria Benedetti, appoggiato dalla sinistra giudiziaria. Il primo errore è questo. Abbandonare le toghe progressiste per puntare sui colleghi di Magistratura indipendente, il gruppo di destra. Uno sgarro che certi ambienti non gli perdonano. Il fascicolo di Perugia era nato da una nota trasmessa dalla Procura di Roma che stava indagando su Fabrizio Centofanti, un faccendiere tipico del sottobosco capitolino. Centofanti aveva avuto un’idea geniale. Sponsorizzare i convegni dei magistrati. In questo modo è riuscito ad “agganciare” decine di toghe, dal Consiglio di Stato alla Corte dei Conti. Oltre ad offrire cene a base di vino bianco ghiacciato e crudi di pesce ai magistrati, Centofanti paga a Palamara dei soggiorni termali in Toscana e alcuni viaggi in località esotiche. I pm di Perugia vogliono capire il perché. Acquisiscono le dichiarazioni di Giancarlo Longo, un pm che aspirava a diventare procuratore di Gela. Longo, che patteggerà una condanna per corruzione a cinque anni, riferisce di aver saputo che due professionisti avrebbero dato 40mila euro a Palamara per questa nomina. I pm di Perugia decidono allora, nella primavera dello scorso anno, di intercettare Palamara. Prima tradizionalmente e poi con il trojan. Le indagini vengono affidate al Gico della guardia di finanza di Roma comandato dal colonnello Gerardo Mastrodomenico, un ufficiale fra i fedelissimi del procuratore Giuseppe Pignatone. A maggio del 2019 Pignatone deve andare in pensione. Per la prima volta ci sono i numeri per un cambio a Roma. Perché, bisogna saperlo, alcuni uffici giudiziari sono da sempre appannaggio di magistrati appartenenti alla stessa corrente. A Milano, ad esempio, i procuratori capo da oltre trent’anni sono tutti di Magistratura democratica. Ovviamente sarà una coincidenza. A Roma pare fatta per Marcello Viola, toga di Magistratura indipendente e procuratore generale a Firenze. Una manina mai identificata, una settimana prima del voto in Plenum, fa filtrare ai giornali le intercettazioni dell’incontro avvenuto la sera fra l’8 ed il 9 maggio all’hotel Champagne di Roma, un albergo di terza categoria vicino alla stazione Termini dove era solito alloggiare Cosimo Ferri. Ferri e Palamara avevano organizzato questo incontro a cui parteciperanno cinque consiglieri del Csm e Luca Lotti. Si discute di nomine. Fra cui, appunto, Roma. Dopo la pubblicazione della notizia dell’incontro sui giornali, Palamara viene perquisito ma non arrestato, sorte che sarebbe capitata a chiunque fosse accusato per i medesimi reati. L’indagine di Perugia ha la prima discovery. I giornali, tre per la precisione, Corriere, Repubblica e Messaggero, pubblicano a puntate stralci di questo incontro. La notizia costringe alle dimissioni tutti i consiglieri coinvolti. Paolo Criscuoli è l’unico che resiste. Dopo la pausa estiva tenterà di entrare in Plenum ma gli verrà impedito da alcuni togati. Non si è mai saputo chi. La nomina di Viola viene annullata e al Csm si consuma il ribaltone. Autonomia&indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo raddoppia la sua rappresentanza. Il nuovo procuratore di Roma sarà Michele Prestipino, magistrato di fiducia di Pignatone. E poi c’è lui. L’Iphone di Palamara con le sue chat. Un assedio quotidiano. Anche a notte fonda. Si scoprirà che erano centinaia i magistrati che si rivolgevano a lui per un incarico, un fuori ruolo, un direttivo. Un caso celebre è quello di Marco Mescolini, futuro procuratore di Reggio Emilia che arriva ad inviare a Palamara una bozza di parere di nomina che il Csm dovrà poi votare. Tutti i beneficiati del “sistema” Palamara sono adesso scomparsi e sono al sicuro. Il procuratore generale Giovanni Salvi ha sdoganato “l’auto promozione”. Nessuna sanzione per il magistrato che “anche in modo petulante” chiama il consigliere per attività di self marketing. Palamara fino ad oggi non ha raccontano nulla di quel sistema. Forse per timore della propria incolumità personale o forse perché sperava che non parlando si sarebbe salvato. Non è stato così. Sarebbe interessante, invece, conoscere come sono avvenute in questi anni le nomine degli uffici giudiziari più importanti del Paese. Se ci sono state trattative sottobanco con la politica, baratti, fascicoli archiviati e tenuti in sonno da parte degli aspiranti prima di passare all’incasso a Palazzo dei Marescialli. Palamara tutte queste cose le sa. Deve trovare il coraggio per una operazione verità. La Repubblica, non il quotidiano, gli sarà riconoscente per sempre.

La grande ipocrisia della rimozione di Palamara.  Maurizio Tortorella il 9/10/2020 su Panorama. La «rimozione», in psicoanalisi, è la cancellazione di un ricordo che causa troppa sofferenza. La mente non sopporta un'immagine, un momento del passato, così la seppellisce in un angolo buio della coscienza. Il termine «rimozione», nella sua accezione psicoanalitica, descrive perfezione anche che cosa sia accaduto oggi al Consiglio superiore dalla magistratura, che per l'appunto ha deciso di rimuovere Luca Palamara dalla magistratura: la pena più severa (e inusitata) prevista dalla giustizia disciplinare. Dentro quel Csm, oggi la magistratura (e di conserva la politica, che alla magistratura ormai regge la coda) ha deciso in realtà di rimuovere insieme con Palamara un problema fastidioso, o meglio la sua immagine, con un'ipocrisia degna dell'ottavo cerchio dell'inferno dantesco, il girone degli ipocriti. Sulla sorte di Palamara hanno deciso i giudici laici e togati del Csm dopo appena tre ore di camera di consiglio. La difesa dell'ex magistrato aveva chiesto l'assoluzione, o al massimo due soli anni di sospensione, in attesa della sentenza del processo di Perugia in cui l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati (dal 2008 al 2012), ex consigliere del Csm (dal 2014 al 2018), ma soprattutto potente leader di Unità per la Costituzione, Unicost, la corrente di centro delle toghe, da quasi due anni è imputato di corruzione. La procura generale della Cassazione ha confermato le accuse: il sostituto procuratore generale Simone Perelli e l'avvocato generale Pietro Gaeta hanno accusato Palamara di «comportamenti di elevatissima gravità» e di «voler condizionare, in modo occulto, l'attività istituzionale del Csm», di cui faceva parte. L'obiettivo della manovre del reietto era manipolare le competizioni e pilotare la corsa alle più importanti procure italiane, a partire da quella di Roma con la sostituzione di Giuseppe Pignatone, andato in pensione nel 2019 (e dove lo stesso Palamara aveva presentato domanda per diventare procuratore aggiunto), e poi quella di Perugia. In realtà, Palamara non è un mostro, non è un alieno, non è un corpo estraneo alla magistratura. Palamara oggi paga per un sistema che non ha creato lui, ma al quale ha efficacemente e potentemente aderito come centinaia di suoi colleghi. Da decenni magistrati (quelli onesti, e ce ne sono parecchi), giuristi, avvocati, ma anche pochi politici avveduti e qualche innocuo cronista che si occupa di politica giudiziaria, denunciano l'osceno «mercato delle vacche» che si pratica ormai impunemente al Csm. Da decenni si sa che le nomine agli uffici superiori troppo spesso vengono inquinate da squallidi accordi di corrente, da interessi incrociati, da manovre sommerse, da amicizie e da inimicizie personali. Da decenni lo si dice e lo si scrive, lo si denuncia, senza però che mai nulla accada. Mai. I ministri della Giustizia s'insediano e dicono: «Ora serve una riforma del Csm». Poi, quando va bene, si adeguano all'andazzo. In certi casi ci hanno anche sguazzato allegramente. Poi, un bel giorno, capita che un magistrato che ha fatto parte del Csm ed è per di più il potente esponente di una corrente, venga casualmente intercettato mentre parla e «chatta» sul suo cellulare con decine di altri magistrati, che lo chiamano perché sono tutti interessati a fare carriera o (più meschinamente) vogliono bloccare la carriera del vicino di scrivania. E capita che quel magistrato si metta a parlare e chattare liberamente, perché è potente e si sente anche impunito e intoccabile, esattamente come capita a molti degli appartenenti alla sua stessa corporazione. E capita che anche tutti quelli che lo chiamano con lui parlino usando lo stesso linguaggio. Sul filo di quelle conversazioni, intercettate sul cellulare di Luca Palamara (e pubblicate da pochissimi giornali, come La Verità, perché la stragrande maggioranza dei media è parte dello stesso ottavo girone infernale di cui sopra), si sono letti atti di nepotismo, correntismo, carrierismo, tanti «ismi» che formano un mix velenoso, capace d'inquinare la giustizia e la stessa giurisdizione. Ma lo stesso accade, di sicuro, su decine, centinaia di altri telefonini. Ogni giorno. Insomma, così fan tutti. Ma allora, perché deve pagare soltanto uno? Quanti sono gli altri Palamara che ogni giorno giocano con le nomine delle Procure, forse anche e più di quello che oggi viene «rimosso»? Soprattutto, perché dentro il Csm non si è voluto scavare nel marcio del sistema, approfittando dell'occasione offerta dal caso Palamara, e perché quel sistema è stato lasciato inalterato? Via, nessuno è disposto a credere che tutti i magistrati che hanno avuto la fortuna di non incappare nelle chat di Palamara siano altrettante candide verginelle...Per tutto questo, ancor più di quel che si è letto nelle pagine e pagine delle intercettazioni del Palamara «rimosso», scandalizza l'ipocrita decisione del Csm, che prima ha rifiutato di ascoltare i testimoni che il magistrato incolpato avrebbe voluto chiamare alla sbarra, perché potessero raccontare quel che era effettivamente accaduto (e tutto quel che c'era da sapere), e poi ha deciso di chiudere velocemente la pratica con una veloce ghigliottinata. In realtà, è la magistratura degli ultimi 20 anni che meriterebbe la radiazione. E ha pienamente ragione Palamara, quando grida: «Sono consapevole di aver pagato per tutti, per un sistema che non funziona, che è obsoleto e superato». La speranza è che ora parli. Che dica tutto. E anche molto di più.

Il Csm fa fuori Palamara, ma la giustizia resta malata. Andrea Amata, 10 ottobre 2020, su Nicolaporro.it. L’ex presidente dell’Anm Luca Palamara è stato rimosso dall’ordine giudiziario. Così hanno sentenziato i giudici della disciplinare del Csm, accogliendo le tesi accusatorie della Procura generale di Cassazione. Nel dispositivo della condanna si fa riferimento alla “rimozione dall’ordine giudiziario”, dichiarando l’ex pm di Roma “responsabile di tutti gli illeciti”. La Procura generale della Cassazione lo ha incriminato di aver ordito un sistema per condizionare la nomina del Procuratore di Roma e di Perugia attraverso la complicità di uomini politici (Luca Lotti del Pd e Cosimo Ferri di Italia Viva). L’accusa, inoltre, ha addebitato a Palamara il tentativo di screditare alcuni colleghi. Il dibattimento si è concluso in poco meno di tre settimane, in controtendenza ai tempi biblici della giustizia “lumaca” che impiega anni per raggiungere una definizione processuale. Nel Palamaragate è mancato un momento complessivo di verità affinché si indagasse sul marciume correntizio interno alla magistratura con le degenerazioni di un sistema spartitorio sulle nomine. Tant’è che la sezione disciplinare del Csm, presieduta dal laico di estrazione M5s Fulvio Gigliotti, ha scremato l’audizione dei testimoni citati da Palamara, circa 133, preferendo soffermarsi sull’incontro dei “congiurati”, avvenuto l’8 maggio 2019 all’hotel Champagne di Roma, fra l’ex Pm di Roma, cinque consiglieri del Csm e i deputati Ferri e Lotti. Una premura sospetta del Csm nel liberarsi della figura scomoda di Palamara, che ha gravi responsabilità nell’aver architettato la sagra delle nomine, ma la corruzione è un reato che si consuma fra il corruttore e il corrotto, mentre con la radiazione dall’ordine giudiziario dell’ex presidente dell’Anm pare che in lui si incorporino entrambe le figure della relazione illecita. Giusto che Palamara paghi per le sue colpe senza, tuttavia, generare l’ipocrisia che la sua espulsione sia un toccasana sufficiente nel percorso riabilitante per la credibilità della magistratura. Il corpo dei togati è stato liberato da quello che può definirsi un’entità bacata, ma i mali endemici alla magistratura erano preesistenti a Palamara e probabilmente a lui sopravviveranno perché non si è avuto il coraggio di andare in profondità di un sistema patologico che premia le appartenenze correntizie, svilendo la dedizione della maggioranza dei togati estranei ai circuiti della rappresentanza ideologica. Non vorremmo che il processo a Palamara si fosse limitato a condannarne uno per salvare tutti nella velleitaria teoria che nell’ex presidente del sindacato dei togati si concentrassero tutte le colpe di un sistema che aveva delle connivenze diffuse nella magistratura. A Palamara è stato negato un compiuto diritto di difesa, escludendo dal banco della deposizione il lungo elenco di testimoni indicati dai suoi legali come se ci fosse stato il timore che potesse emergere un esteso quadro di degrado con una chiamata di correità generalizzata. Gli abusi di Palamara hanno evidenziato un’illegalità diffusa che ha tessuto una rete clientelare come mezzo di selezione degli incarichi distribuiti agli affiliati dell’Anm. Giusto condannare Palamara, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga lo schernì attribuendogli «una faccia da tonno», ma insabbiando l’accertamento delle plurime complicità, partecipi delle perversioni del sistema correntizio, si rischia di lasciare liberi di pinneggiare gli squali del carrierismo giudiziario: i simboli dello stato dei…”dritti”. Andrea Amata, 10 ottobre 2020

Palamara rimosso dalla magistratura: «Pago solo io, ma presto racconterò la verità». Simona Musco su Il Dubbio il 9 Ottobre 2020. La sentenza del Csm: l’ex presidente dell’Anm radiato dalla magistratura. «Da oggi parte la mia battaglia con il Partito Radicale per una giustizia giusta». «Pago io per tutti». Luca Palamara non è più un magistrato, rimosso da quel Csm di cui è stato parte e nel cui seno si sarebbe reso «infaticabile organizzatore, sceneggiatore e regista della strategia» per arrivare alle nomine ai vertici delle Procure di Roma e Perugia, secondo l’avvocato generale della Cassazione Piero Gaeta. La polvere è stata nascosta sotto il tappeto: il sistema, con la sua condanna, sarebbe stato distrutto. Perché un sistema, per il Csm, non esiste. Ma per l’ex presidente dell’Anm la partita non è chiusa: dicendosi non disposto a vestire il ruolo della vittima, annuncia di voler accogliere l’invito del Partito Radicale – che lo ha ospitato per la conferenza stampa con la quale ha commentato la sentenza pronunciata dai colleghi – per la creazione di una Commissione d’inchiesta in grado di fare luce sul mondo della magistratura. Dove a ragionare su nomine e logiche correntizie, spiega, non sarebbe stato solo lui. «Sarò in grado di fare i nomi delle persone con cui ho parlato di nomine, anche dei politici, non solo Lotti, non solo quelli del Pd», spiega. Con occhi segnati e voce pacata, Palamara annuncia ricorso. Prima alle Sezioni Unite della Cassazione, poi, se necessario, alla Cedu. Ma il processo alla magistratura, intanto, si sposta fuori dalle aule. «La mia nuova esperienza mi ha fatto maturare idee nuove e diverse, che prima non avevo», dice parlando di separazione delle carriere, tema sul quale nella sua vita da magistrato era orientato su un secco “no”. «Prima avevo una visuale dei problemi della magistratura, la visuale di chi esercita il terribile potere di giudicare, che spesso travolge fatti, persone e situazioni», sottolinea. La prospettiva ora è diversa, al punto da abbracciare le battaglie del Partito Radicale, contro il quale prima stava dall’altra parte della barricata: «Riflettiamo sul perché un fascicolo va avanti e un altro no», aggiunge parlando con i giornalisti. Non fa nomi – promettendo di farli a tempo debito -, ma descrive un sistema che «ha tagliato fuori coloro che non facevano parte». Un fatto «oggettivo», quello del mercato delle nomine, «piaccia o non piaccia», di cui lui non sarebbe stato l’unico protagonista.

"Porto e porterò sempre la toga nel cuore". Palamara fatto fuori dal Csm col processo-farsa: “Ho pagato io per tutti”. Rossella Grasso e Giacomo Andreoli su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. “Porto e porterò sempre la toga nel cuore essendomi sempre ispirato ai principi di una giustizia giusta”. Così Luca Palamara ha commentato a caldo, durante una conferenza stampa, la decisione dei giudici della disciplinare del Csm che hanno accolto le tesi accusatorie della Procura generale di Cassazione e hanno deciso che l’ex presidente dell’Anm va rimosso dall’ordine giudiziario. “Sono consapevole di aver pagato io per tutti, per un sistema che non funzionava, che nei fatti si è dimostrato obsoleto e superato – ha continuato Palamara – So che pago io per tutti che è esistita una magistratura silenziosa di tanti che mi hanno chiesto di andare avanti e non vengono allo scoperto”. Nel processo disciplinare, “il dottor Palamara aveva chiesto di difendersi depositando una lista di testi di 133 persone. Non gli è stato consentito. Non gli è stato consentito di difendersi provando”. Lo ha detto Giuseppe Rossodivita, legale di Luca Palamara, parlando alla stampa. “La prova è assolutamente mancata nel processo che ha portato alla radiazione di Palamara”, ha aggiunto. “È un modo di procedere purtroppo molto utilizzato nelle aule di tribunali quello di avere un parametro di riferimento del materiale probatorio molto molto traballante e lasco pur essendo più che sufficiente, secondo la giurisprudenza, per arrivare a sentenze che vanno a incidere pesantemente sulla vita delle persone”, ha aggiunto Rossodivita. Durante la conferenza stampa Palamara, visibilmente provato, ha detto di essere intenzionato a ricorrere tanto alle Sezioni unite, quanto, dovesse esserci bisogno, alla Corte europea dei diritti dell’uomo. “23 anni di carriera ispirati ai principi della magistratura, messa in discussione per una cena con un parlamentare – ha continuato Palamara – ribadisco che non ho mai fatto nessun accordo con nessun parlamentare”. “Il sistema delle correnti nei fatti si è dimostrato obsoleto e superato – ha continuato Palamara –  Io i politici li ho frequentato nel corso della mia attività. Per me il relazionarmi con la politica era funzionale alla tematica che stavo affrontando. Non ho mai barattato la mia funzione per fare un favore al politico di turno”. Si è scagliato contro il il sistema delle correnti in Italia: “Non l’ho inventato io – ha detto – Domina la magistratura da circa 40 anni e ha avuto sostenitori e forti critici all’interno della stessa magistratura. Indubbiamente ha penalizzato i non iscritti alle correnti anche sul versante delle nomine”. Continua a professare la sua innocenza e non ha intenzione di arrendersi. Spiega che di cene con politici ne ha fatte tante ma questo era sempre in virtù del suo lavoro e delle tematiche che andava ad affrontare. “Non solo Lotti – dice – I nomi dei politici che ho incontrato li farò, ma deve tutto essere documentato e circostanziato. Io sarò in grado di dire e documentare con chi mi sono trovato a parlare di nomine con politici diversi da Lotti. Di cene ne ho fatte tantissime”. A chi gli chiede se è pentito di qualcosa risponde: “La parola pentimento è una parola che faccio fatica a metabolizzare. Dal punto di vista dell’opportunità politica posso dire che la partecipazione di Lotti era meglio che non ci fosse ma è una partecipazione che in alcun modo ha alterato la nomina del procuratore di Roma”. E rimanda al mittente l’accusa di “fare la vittima” e dice: “Non voglio assolutamente assumere il ruolo di vittima, state tranquilli, così come non voglio abbattermi rispetto a quello che è accaduto oggi, il mio impegno sarà di battermi per la verità”. “La magistratura ha bisogno di uomini coraggiosi. Ci siamo difesi nel processo, sempre. Siamo stati sempre presenti in un processo che ha contingentato le udienze in 10 giorni. Questa è la mia risposta di rispetto e di ossequio delle istituzioni”.Il partito Radicale intanto chiede una Commissione di inchiesta sull’affaire Palamara. “Ci attiveremo con i capigruppo di Camera e Senato perchè ci sia una risposta a questa nostra richiesta” ha detto il segretario del partito Maurizio Turco.

La nuova vita dell'ex Presidente dell'Anm. L’accusa di Palamara: “Pago io per tutti, da indagato ho capito molte cose…” Paolo Comi su Il Riformista il 10 Ottobre 2020. «Mi iscrivo al Partito Radicale». La nuova vita di Luca Palamara, da ieri ex magistrato, inizia nella sede del Partito Radicale. Terminato il processo disciplinare al Csm che ha sancito la sua rimozione dall’ordine giudiziario, Palamara si è recato ieri pomeriggio nella storica sede di piazza Argentina a Roma per rispondere in una conferenza stampa improvvisata alle domande dei giornalista e per mandare dei segnali ai tanti colleghi che fino al giorno prima gli chiedevano favori ed ora fanno finta di non conoscerlo. «Porto e porterò sempre la toga nel cuore», ha esordito visibilmente emozionato l’ex presidente dell’Anm ed ex zar indiscusso delle nomine a Palazzo dei Marescialli. «Mi ha sempre contraddistinto – ha proseguito – l’equità, il senso civico e la legalità, valori che metto ora a disposizione del Partito Radicale». Dopo aver affermato di essere pronto a ricorrere alla Corte dei diritti dell’Uomo per veder garantiti i propri diritti, Palamara ha iniziato a togliersi qualche sassolino dalle scarpe, lanciando messaggi ai “naviganti” delle Procure. «La mia carriera è stata messa in discussione per una cena con un parlamentare» senza che ci fosse alcuna «traccia di nominare un procuratore che potesse aggiustare i processi». Riferimento alla cena avvenuta all’hotel Champagne di Roma l’8 maggio del 2019 in presenza del deputato dem Luca Lotti, ex ministro dello Sport ed imputato a Roma nel processo Consip. Secondo l’accusa, infatti, Palamara avrebbe brigato con alcuni consiglieri del Csm per nominare il procuratore generale di Firenze Marcello Viola a procuratore della Capitale al posto di Giuseppe Pignatone, all’epoca appena andato in pensione. Viola, una volta nominato, avrebbe quindi dovuto aiutare Lotti nella sua vicenda giudiziaria. L’accusa, però, non ha mai portato alcuna prova di questo accordo. E neppure che Viola fosse a conoscenza di ciò. «Conosco bene i rapporti fra politica e magistratura negli ultimi venti anni avendo svolto un ruolo da protagonista», ha aggiunto Palamara, toccando l’argomento delle correnti. «Pago per tutti, per un sistema che non funziona, un sistema obsoleto che penalizza i non iscritti. I segretari delle correnti entrano Csm e danno disposizioni su chi nominare», ha affermato, puntualizzando che non ha comunque voglia di «passare per vittima». «Ho sempre frequentato politici, era funzionale per le tematiche che dovevo affrontare». E poi, «il sistema delle correnti domina la magistratura da circa quaranta anni. Vive di accordi prevalentemente fatti a sinistra con Area (il potente gruppo progressista della magistratura di cui fa parte Magistratura democratica, ndr). Quando ci sono stati spostamenti a destra sono venuti fuori i problemi». Non poteva mancare un accenno al famigerato trojan «che ha raccontato solo quello che è avvenuto durante la cena dell’hotel Champagne. Una foto parziale». La pubblicazione delle chat che raccontavano degli accordi sulle nomine «hanno molto infastidito all’interno della magistratura e mi duole aver letto che ho assunto una difesa che non dovevo». Una stoccata, dunque, ai colleghi che, come detto, hanno preso immediatamente le distanze. Come nelle migliori tradizioni, il meglio è arrivato al termine della conferenza stampa. «Sono in grado di raccontare degli accordi avuti con i politici per le nomine e di tante situazioni simili, e sono pronto a mettere a disposizione il materiale che ho in mio possesso». Nella nuova veste di aderente al Partito Radicale, infine, Palamara ha toccato due moloch: la separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione penale, considerati “un mantra in magistratura”. «Da indagato ho capito tante cose», ha quindi concluso.

La radiazione a tempo record. Il giorno più nero del CSM: Palamara cacciato, ma chi trafficava con lui resta…Paolo Comi su Il Riformista il 10 Ottobre 2020. L’esito era abbondantemente scontato: Luca Palamara è stato radiato dalla magistratura. La sentenza della Sezione disciplinare del Csm nei confronti dell’ex presidente dell’Anm è arrivata ieri mattina al termine di un “turbo processo” dove erano stati tagliati tutti i testimoni della difesa e dove erano state dichiarate ammissibili le conversazioni di Palamara con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri, intercettate con il trojan, senza prima attendere la decisione del Parlamento. Se il dibattimento è stato sprint, la camera di consiglio non è stata da meno: poco di due ore. Il processo, durato appena tre settimane, ha segnato dunque un record per la disciplinare del Csm, caratterizzata da ben altre tempistiche. L’avvocato generale dello Stato Pietro Gaeta, che rappresentava la pubblica accusa, rispondendo a questa obiezione durante la sua requisitoria aveva sostanzialmente detto che si trattava di una fake news in quanto essendo Palamara sospeso cautelarmente dal servizio il processo doveva per forza concludersi in tempi rapidi. Dalle informazioni in possesso de Il Riformista lo scenario è però diverso. Anche in presenza di magistrati che hanno riportato pesanti condanne penali, e non era il caso di Palamara, trascorrono anni prima di giungere a una sentenza di radiazione dall’ordine giudiziario. Ma tant’è. Sulla carta l’ex presidente dell’Anm ha la possibilità di fare ricorso alle Sezioni unite della Corte di Cassazione. Ma anche a piazza Cavour l’esito, salvo improbabili colpi di scena, pare scontato, con la conseguente conferma della sentenza del Csm. «Non è l’esito di un procedimento disciplinare degno di questo nome, è piuttosto un esorcismo», ha commentato a caldo Giandomenico Caiazza, presidente delle Camere Penali. Il sospetto, anzi, la quasi certezza, è che la magistratura abbia voluto chiudere quanto prima la pratica Palamara ed il Palamaragate per tentare di recuperare davanti all’opinione pubblica un’immagine quanto mai compromessa. Alla domanda se si fosse trattato di una sentenza “politica”, il difensore di Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi, ha risposto diplomaticamente di no. Guizzi, terminando la sua arringa difensiva, aveva citato un passaggio del libro del giurista Salvatore Satta Il mistero del processo in cui era descritta l’udienza avvenuta a Parigi nel 1792 durante la Rivoluzione francese a carico del maggiore Bachmann, guardia svizzera del Re. La scena è quella dei sanculotti che invadono l’aula venendo prontamente bloccati dal giudice Lavau che gli intima di “rispettare la legge e l’accusato che è sotto la sua spada”. «Si sente dire in giro che la vostra sarà una sentenza politica e ciò per le ripercussioni che l’eventuale decisione diversa dalla rimozione di Palamara potrebbe determinare nell’ordine giudiziario e nei rapporti con gli altri poteri dello Stato: mi rifiuto di crederlo, sono convinto del contrario», aveva affermato Guizzi. Per poi aggiungere: «Sono certo che sarà frutto solo della vostra autonoma e indipendente capacità di giudizio io sono un giudice e quindi so». A nulla sono valse le ricostruzioni alternative fornite dalla difesa di Palamara, secondo cui la presenza del deputato dem Luca Lotti la sera del 9 maggio all’hotel Champagne fosse per incontrare il magistrato romano che aveva presentato la candidatura all’Authority della Privacy. Nessun patto oscuro per nominare il procuratore generale di Firenza Marcello Viola alla Procura di Roma. Anche perché l’accusa non ha mai affermato e neppure ipotizzato che Viola fosse il promotore di questi accordi o fosse a conoscenza di questi accordi che venivano discussi nel corso della riunione all’hotel Champagne. Si sarebbe trattato, insomma, di una nomina a sua insaputa per poi “sistemare” il processo di Lotti, imputato nell’indagine Consip. Mistero, infine, su cosa abbia fatto cambiare idea da parte dei davighiani a proposito di Viola, inizialmente votato in Commissione incarichi direttivi dallo stesso Piercamillo Davigo. Il pm antimafia Sebastiano Ardita, togato davighiano al Csm, aveva incontrato a pranzo Viola la mattina del 9 maggio. La circostanza, passata sotto silenzio, è emersa solo ieri. Con l’espulsione di Palamara il destino dei cinque consiglieri che hanno partecipato pare segnato. Difficile un metro di giudizio diverso. L’unica speranza per i cinque ex togati è di cercare di prendere tempo e sperare di essere giudicati da un Csm diverso, quando il clamore mediatico sarà scemato e la vicenda Palamara un lontano ricordo.

Palamara radiato dagli altri Palamara custodi nel sistema degli intrallazzi. Il suo caso  analogo agli  altri che hanno portato alla luce contrattazioni, favori, pressioni e mercati di influenze fra alcune toghe  e alcuni politici. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. L’hanno messo in coma giudiziario, Palamara. E da ieri come giudice non esiste più: è nella sua bara di cristallo come una barbuta Biancaneve e non può più muoversi né fiatare. Un trattamento perfetto. In questo modo il Consiglio Superiore della Magistratura ha risolto il proprio caso, nel quale il CSM è tutto: giudice ma prima di tutto imputato, testimone e corte suprema, senza far torto a nessuno, tranne che alla verità. Verità che non sfugge a nessuno: il sistema con cui il CSM funziona è stato più volte portato alla luce da giudici che indagavano su altri giudici, come nel caso di Palamara. Ma il problema non è Palamara, il problema è il sistema che va sotto la sigla del Consiglio Superiore della magistratura, che provvede a tutte le scelte e i compiti di indirizzo della magistratura. È la sua testa politica che avrebbe lo scopo di tutelare la Giustizia mettendola al riparo dalle intrusioni e dalle pressioni della politica, per poter garantire al cittadino sentenze non pilotate da altri interessi che non siano quelli della Giustizia stessa. Invece, il caso Palamara oggi e altri casi analoghi negli anni scorsi hanno portato alla luce un sistema di contrattazioni, favori, pressioni e mercati di influenze fra alcuni magistrati e alcuni politici. Dunque, l’emersione del “caso Palamara” è stato prima di tutto l’emersione del caso CSM e delle sue anomalie. E per questo il CSM, di fronte al caso Palamara che si sarebbe trasformato in un processo al Consiglio stesso, ha agito in modo tale che un tale processo non avvenisse e che tutto l’apparato difensivo e testimoniale del giudice incriminato non potesse arrivare in aula. Come? Sbarazzandosi in un colpo solo dell’imputato.

RIDOTTO AL SILENZIO. E dunque la sentenza è stata più che una condanna a morte, perché Palamara è stato cacciato dal corpo della Magistratura e allo stesso tempo ridotto al silenzio. L’imputato, come ricorderete, era stato vittima di intercettazioni Trojan che lo avevano beccato mentre in allegra socialità discuteva con altri suoi colleghi e con un paio di deputati i destini di alcune procure. Una a te, una a me, una a mamma che son tre. Tutto regolare. Le Procure – abbiamo dovuto imparare negli anni – si assegnano secondo una consultazione amicale politica a forma di cupola, in cui chi può si sceglie il giudice che gli fa comodo e chi non può s’attacca.

NON SIAMO IN PRUSSIA. Tutti conosciamo la vieta e l’edulcorante storia del “giudice a Berlino”. Bè’, noi non siamo in Prussia e il “sistema Palamara” aveva dimostrato – per iniziativa di altri giudici inquirenti, quelli di Perugia – che la nomina dei capi delle Procure avviene di norma per intrallazzo, amicizia politica, do ut des o come dicono (sbagliando) gli inglesi qui pro quo. In italiano : io ti do una cosa a te e tu mi dai una cosa a me, e stiamo pace. Povero Palamara. Lui, se abbiamo capito bene, era un giudice disciplinato e correntizio, faceva quel che gli dicevano di fare, si stava accuorto, trattava e faceva patti. Embè? Dov’è il canchero? No si fa forse così in Italia? ; ci fu un tempo, presidente del Consiglio superiore della magistratura il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, in cui il suddetto Cossiga, stufo degli atti di ribellione del CSM di allora, chiamò l’Arma dei carabinieri, si fece passare il comandante generale e gli disse di spostare in piazza Indipendenza, dove ha sede la casa madre del Palazzo dei Marescialli., un reparto antisommossa con manganelli, armi e gas lacrimogeni. Poi affrontò il vice presidente del CSM (quello che comanda davvero) il democristiano Giovanni Galloni e lo minacciò di intervento militare in nome della legge. Cossiga è morto da dieci anni e l’abbiamo celebrato proprio in questi giorni. Un giorno, il povero Palamara era ospite da Maria Latella con quell’aria un po’ sgraziata e barbuta e Latella fece intervenire per telefono Cossiga il quale si rivolse al suo ospite e gli disse (lo potete rivedere su Youtube): “Lei, giudice Palamara non gode della mia stima. Io non credo che lei sia un buon giudice e inoltre il suo nome evoca quello di una specie di tonno pregiato. Vede? La sto offendendo”. Palamara impassibile mormorava: “Prendo atto signor Presidente, che cosa devo dire”. “E infatti – diceva Cossiga – lei non può dirmi niente, ma se vuole può querelarmi. Lei lo sa, sì, Palamara, che può querelarmi, vero?”. E così via. Lo fece nero. Palamara, poveretto, non fiatò. E non ha fiatato neanche ieri quando lo hanno buttato fuori dall’ordine dei magistrati che pareva il capitano Dreyfus quando lo degradarono davanti al reggimento disposto in quadrato: spezzata la spada, calpestato il kepì, via le mostrine. Così, lui, Palamara: cacciato come un cane. Col marchio della vergogna. Ormai, che Palamara abbia tutti i torti che l’intercettazione ha messo in piazza, lo sappiamo.

L’INTERCETTAZIONE. Sappiamo anche che quell’intercettazione era inutilizzabile senza il consenso della Camera perché coinvolge un deputato. Ma sta tutto lì. E il povero Palamara, non contento della disgrazia che gli era capitata fra capo e collo avendo fatto quello che fanno tutti, ebbe la malauguratissima idea di dire che era forse ora di raccontare in quale clima e con quali pressioni si erano svolti i processi contro Silvio Berlusconi. Allora si è sentita la lama della mannaia piombare giù lungo gli scalmi della ghigliottina e zàc, la testa col barbone cadere nel paniere. Aveva parlato del frutto proibito: la massa incredibile e mai vista dei processi contro Berlusconi con cui quell’uomo politico da quando è sceso in politica è stato trascinato sui banchi degli imputati più di quaranta volte. Palamara aveva detto proprio ciò che si sarebbe dovuto temere come un cecio sotto la lingua. E l’aveva spiato. Ma in che mondo credeva di essere. E a quel punto, in un disperato tentativo di muoia Sansone con tutti i filistei, il povero Palamara aveva avuto la bell’idea di stilare un listone di testimoni, tutti giudici come lui, che avrebbero dovuto sfilare davanti alla barra del tribunale del Consiglio superiore per confermare le malefatte di Palamara aggiungendo ciascuno gli altri nomi, il contesto, i mandanti e insomma quella cosa in Italia protetta dal WWF che è la verità. Era proprio pazzo quel brav’uomo: aprendo di cavallo aveva scoperto il re ed è stato subito scacco matto: ah, sì? Tu vorresti nientemeno che chiamare i tuoi testimoni? E poi li fai parlare? E pensi così di sputtanare il sistema? Ma con chi credi di avere a che fare? E gli hanno spiegato con i disegnini sul quaderno ciò che gli sarebbe capitato: non avrebbe nessun processo con testimoni, ma soltanto una sentenza fulminea, secca, definitiva e irreversibile: la condanna a morte del suo nome come giudice e la sua cacciata per sempre dai ruoli. E così è stato: Palamara vista la disgrazia puramente casuale che gli era caduta fra capo e collo, sapendo di essere come gli altri o comunque non peggio e che il sistema funziona con le sue regole, aveva pensato come in un romanzo di Victor Hugo di arrivare alla scoperta finale della verità, alla chiamata di correo, alla catarsi della giustizia e sognava di pronunciare una grande orazione che avrebbe concluso dicendo: “Se io sono colpevole, colleghi giudicanti, tutti siamo colpevole voi per primi”. Ma, come abbiamo visto, col cavolo che gli hanno permesso di esibirsi in questo pezzo di teatro. L’hanno cacciato come un cane, senza dargli la possibilità di difendersi dimostrando che la pressione ambientale era uguale per tutti, gli hanno impedito di esercitare realmente la sua difesa e di passare all’attacco e gli hanno semplicemente tagliato la testa, spedendolo nel limbo di casi collaterali della giustizia italiana, anticamera del dimenticatoio. Povero Palamara, povero giudice italiano, divorato come un tonno di scarsa qualità per aver agito come molti altri nella sua stessa condizione. Ha fatto da capro espiatorio perché certamente non era innocente, ma ha pagato per aver osato minacciare il sistema rivelando tutto quel che sapeva, con prove e testimoni.

Rischia di saltare il disciplinare per i cinque ex togati del Csm. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 24 agosto 2020. Iniziato il “processo” ai magistrati coinvolti nella cena all’Hotel Champagne. Il difensore di uno degli incolpati: giudizio nullo per tardività. Il collegio deciderà il 5 novembre. Terminato il “turbo processo” a Luca Palamara, ieri è stato il turno di quello a carico dei cinque ex consiglieri di Palazzo dei Marescialli, Antonio Lepre, Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli e Corrado Cartoni, che parteciparono con l’ex presidente dell’Anm al “celebre” dopo cena all’hotel Champagne di Roma. I cinque magistrati, come si ricorderà, incontrarono nell’albero romano i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. Fra gli argomenti di discussione, la nomina del nuovo procuratore di Roma. Lotti, all’epoca, era già imputato a piazzale Clodio in uno dei filoni del processo Consip. L’udienza di ieri davanti alla sezione disciplinare del Csm è stata dedicata alle questione preliminari. Il procuratore aggiunto presso il Tribunale di Napoli Nord, Domenico Airoma, difensore del pm Antonio Lepre, ha chiesto di sospendere il processo disciplinare e trasmettere gli atti alla Corte costituzionale. Secondo il difensore del pm della Procura di Paola, va sollevata questione di legittimità in relazione alle norme che prevedono la facoltà del ministro della Giustizia di esercitare l’azione disciplinare nei confronti di consiglieri del Csm nell’esercizio delle loro funzioni. «Secondo me – ha detto Airoma – non è consentito, ed è un grave rischio, che il ministro vada a sindacare le condotte dei componenti del Csm. Serve tutelare il Csm come organo di autogoverno». Il difensore di Spina, pm a Castrovillari, l’avvocato Donatello Cimadomo, ha invece sottolineato la nullità della richiesta di giudizio disciplinare, per ‘ tardività’, rispetto a uno dei capi di incolpazione. Tesi condivisa anche dal professore bolognese Vittorio Manes, che difende il giudice di Reggio Emilia Morlini. I tre difensori hanno, poi, accennato al tema, già sollevato a suo tempa dalla difesa di Palamara, dell’utililizzabilità delle intercettazioni effettuate con il trojan inserito nel cellulare dell’ex presidente dell’Anm. Il collegio, presieduto dal laico. Filippo Donati, dopo la camera di consiglio, ha comunicato che tutte le questioni preliminari saranno affrontate nella prossima udienza, fissata per il pomeriggio del 5 novembre. In quella sede, anche la Procura generale della Cassazione presenterà le sue osservazioni sulle istanze sollevate dai difensori. All’udienza di ieri erano presenti solo Spina e Morlini. Rinnovata, infine, la composizione del collegio disciplinare. Dopo il pensionamento di Piercamillo Davigo, il posto dell’ex pm di Mani pulite è stato preso da Carmelo Celentano.

DAGONOTA il 23 ottobre 2020. Essì, la magistratura ha cambiato musica. A Roma, il nuovo capo della Procura di Roma, Michele Prestipino è cresciuto nell’ombra di Giuseppe Pignatone che è passato direttamente dalla “bocciatura” definitiva in Cassazione di “Mafia Capitale” alla Presidenza del Tribunale del Vaticano. Ora ha fra le mani il caso Marogna-Becciu. Vorrà riscattarsi dalla sconfitta sul caso “Buzzi-Carminati”? O la povera coppia di fatto Marogna-Becciu sarà solo gli obiettivi mediatici utili a coprire la vasta rete di intrecci dentro e fuori il Vaticano? Lo “sfottò” continuo e pubblico di Salvatore Buzzi, tornato libero, ha raggiunto un livello poco sopportabile, e il nuovo capo della Procura di Roma non attende l’ora di affrancarsi dal modello del suo predecessore: collegialità, delega, passo indietro rispetto al rapporto con la politica, svuotando i cassetti dei tanti dossier ancora in attesa di essere ripescati. Il caso Palamara, cresciuto dentro gli assetti precedenti del CSM e degli incroci con molte procure italiane ma soprattutto quella romana, ha talmente incrinato la credibilità della magistratura italiana, che la voglia di riscatto di molti procuratori è tale da ricominciare una stagione di inchieste e di sentenze esemplari (vedi a breve Eni e vedi l’altro ieri MPS/Profumo: a proposito, quali saranno le conseguenze di questa sentenza di primo grado all’interno di Leonardo? Qualcosa già si muove, esternamente ed internamente). Inoltre la stessa aria di cambiamento che si comincia a respirare alla Procura di Roma, la si comincerà a respirare presto in altre Procure importanti. Il nuovo CSM sarà foriero di scelte e novità che faranno aprire i cassetti un po’ ammuffiti di Milano, Palermo, per citare solo due tribunali. Attendiamoci poche inchieste mediatico-spettacolari ma più rilevanti, insieme a diverse sentenze esemplari. La Magistratura vuole dimostrare la propria autonomia rispetto agli altri poteri.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 29 ottobre 2020. Palamara? E chi lo conosce? Ora che all' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati è stata tolta la toga di dosso, cacciato per indegnità dopo un processo lampo davanti al Csm, non si trova un solo giudice in Italia disposto ad ammettere di essergli stato amico. Peccato che nei meandri dell' indagine della Procura di Perugia, analizzando le tonnellate di chat succhiate dal telefono di Palamara dal trojan della Guardia di finanza, si possa ricostruire un documento sorprendente e - per alcuni aspetti - imbarazzante. Sono i messaggi che piombano sullo smartphone del pm romano nel giorno che dà il via al putiferio: il 29 maggio 2019, quando per la prima volta sui giornali viene rivelata l' esistenza dell' indagine contro di lui. Da un capo all' altro della penisola, giudici e pubblici ministeri sommergono Palamara di dichiarazioni di stima, di solidarietà, di affetto: a volte pacatamente, a volte sfiorando quasi il ridicolo, i colleghi fanno sapere al loro leader che stanno dalla sua parte contro la «macchina del fango» che lo ha preso di mira. Tra i firmatari c' è qualche nome noto, e pure un paio di miracolati dal «sistema Palamara», le nomine spartite tra le correnti. Ma la maggioranza sono magistrati-massa, la base elettorale del grande tessitore di alleanze e di accordi. «Siamo con te!», gli scrivono. Nei mesi successivi, uno dopo l' altro, spariranno tutti. Centottanta messaggi nell' arco di poche ore: ribolle di affetto, nella lunga giornata primaverile, il cellulare di Palamara. A leggerli col senno di poi, ci sono casi eclatanti, come il presidente di tribunale che scrive: «Ti sono umanamente vicino, le notizie a orologeria quasi mai sono casuali. Sono sicuro che andrà tutto bene». Beh, è lo stesso giudice che qualche mese dopo tuonerà: «Palamara deve farsi da parte!». Ma in quelle ore la fiducia verso il leader sotto tiro è granitica. «Ciao, per me è spazzatura», fa sapere una giudice. «Ho imparato a conoscerti e a stimarti in questi anni - scrive dalla Sicilia un procuratore della Repubblica - e ti confermo la mia vicinanza anche in questa circostanza! Sono certa che tutto si chiarirà e allora festeggeremo». Un pm pugliese: «La macchina del fango è sempre pronta quando devono far fuori i migliori. È dura ma ne uscirai a testa alta». Ci sono sprazzi quasi lirici: «Richiama tutte le forze e le energie che ritenevi di avere perso, affronta il nuovo scenario, recita il ruolo, cerca di interpretarlo in armonia con la tua essenza, credi nel tuo futuro, esercita la mente, mantieni l' identità». Più concreta la dirigente di una sezione meridionale dell' Associazione magistrati: «Sono grandi carognate». Anche due procuratori della Repubblica settentrionali accorrono in sostegno di Palamara: «Tu lo sai - scrive uno dei due, da una città della bassa lombarda - che x me sei sempre il più grande di tutti , vero?». Molti si lanciano già nelle ipotesi sui motivi dell' attacco: e se c' è chi sta sul generico, «l' invidia arriva a livelli assurdi, è la stagione dei veleni», c' è anche chi entra più nei dettagli. «Hanno strumentalizzato una notizia nota da mesi per influenzare esclusivamente la nomina alla procura di Roma», scrive un giovane giudice della Capitale. «Nessunissimo dubbio - aggiunge un altro collega - sull' onestà e rettitudine di Luca che conosco da tempo immemorabile prima del nostro ingresso in magistratura; la tempistica la dice lunga: in vista delle imminenti nomine, i soliti noti hanno messo in moto la scontata macchina del fango». Il più tortuoso: «Non so quanto siano i sinistri o varie convergenze" anche di presunti amici. Ora ti dico: guarda avanti, il tempo è galantuomo». Sarebbe impietoso liquidare ora questi messaggi come casi di piaggeria: perché vi si leggono preoccupazione ed affetto sinceri. «Fratello ti voglio ancora più bene, ti abbraccio forte», scrive uno, mentre una collega porge a Palamara la sua spalla, «se hai bisogno di parlare io ci sono». C' è persino chi si preoccupa dei guai domestici, «chiarirai tutto anche in famiglia», e chi si rivolge più in Alto: «Ti sono vicina con l' affetto di sempre e prego per te». A stranire è semmai quanto accade dopo, la velocità con cui i sodali del 29 maggio svaniscono nei mesi successivi. A dire il vero, il giorno stesso degli articoli uno dei messaggi contiene una facile profezia: «Molti ti volteranno le spalle, ma io ci sarò», scrive un giudice del nord.

L’erede di Davigo al Csm? Tramava con Palamara…Paolo Comi su Il Riformista il 27 Ottobre 2020. Con l’uscita di scena, contro la sua volontà, di Piercamillo Davigo, dalla scorsa settimana il posto dell’icona di Mani pulite al Csm è stato preso da Carmelo Celentano, il primo dei non eletti. Sconosciuto al grande pubblico, Celentano, sostituto procuratore generale in Cassazione, è stato per anni uno dei fedelissimi dell’ex zar delle nomine Luca Palamara, recentemente radiato dalla magistratura. Entrambi di Unicost, la corrente di centro, i due si sono messaggiati per anni. In particolare, Celentano sponsorizzava i colleghi che aspiravano a una nomina, chiedendo di essere costantemente aggiornato sullo stato delle pratiche. «Ho parlato con Salzano (Francesco, ora avvocato generale in Cassazione, ndr), lo ho tranquillizzato per il futuro e gli ho detto che lo avresti chiamato. Se gli dai la prospettiva dei prossimi posti sarà sereno», scrive Celentano a novembre del 2017. Palamara risponde: «Ho parlato con Salzano, è tutto ok». «Votato Salvato (Luigi, ndr) unanime», esordisce qualche settimana più tardi Palamara. «Sei fondamentale come sempre. È tutto nelle tue mani. Per questo sono tranquillo», replica Celentano. «Volevo notizie su PAT (procuratore aggiunto, ndr) Trapani; alcuni colleghi mi parlavano di Rossana Penna attualmente a Trapani, che a detta di Area (la corrente di sinistra, ndr) se la dovrebbe contendere con Marzella (Carlo) ora a Palermo. Oltre a questo mi hanno ricordato di Pst (presidente sezione, ndr) Padova. Se puoi chiamami», scrive Celentano nella primavera del 2018. «PAT Trapani ancora non trattata. Per PST Padova lo metto prossima settimana», risponde Palamara che da zar delle nomine aveva il potere di decidere anche l’ordine cronologico dei posti da assegnare. «Scusa caro Luca, potresti aggiornarmi sulla situazione di Rossana Penna per procuratore aggiunto Trapani e procuratore aggiunto Bergamo? La dovrei sentire domani. Un abbraccio», ancora Celentano. «Bergamo ti spiego tutta situazione a Milano. Per aggiunto Trapani trattiamo prossima settimana con PAT Palermo», risponde Palamara. «Martusciello – prosegue Celentano – voleva notizie su Lagonegro, gli ho detto che tu mi hai detto che già sapevi tutto e che la situazione è un po’ complicata». E poi: «Come sta messo Raffaele Frasca per PS (presidente di sezione, ndr) Cassazione? Ce la fa? Avvisami quando sai qualcosa». All’indomani del voto per il rinnovo del Csm, a luglio del 2018, Celentano, non eletto, è furente: «Come vedi mi hanno venduto per un pugno di voti». E subito Palamara: «È una cosa vergognosa e assurda: non riesco ad accettare quello che è accaduto. Avevamo fiutato il pericolo di Davigo. Io non accetto che un elettore di Unicost lo abbia votato!!! E non lo accetterò mai. Voglio dirti che ti voglio bene e che ti sono e ti sarò sempre vicino. Solo chi cade può rialzarsi e ancora più forte!!! Un abbraccio». Rincuorato dal messaggio dello zar, Celentano scrive: «Caro Luca, ti ringrazio per l’affetto che ricambio immutato! Io so riconoscere le persone che hanno testa e cuore come te. Abbiamo tuttavia entrambi la necessità di far crescere davvero il gruppo, liberandolo da qualche bassezza che la magistratura non merita. E su questo conto ancora una volta su di te e su pochi altri. Un abbraccio sincero». Dopo aver chattato come un forsennato con Palamara, Celentano sarà adesso il “giudice di se stesso”, essendo stato destinato a coprire il posto di Davigo anche alla sezione disciplinare del Csm. Dopo essere stato fra i più stretti collaboratori del titolare dell’azione disciplinare, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, Celentano giudicherà adesso l’attività svolta dal suo momentaneamente “ex” ufficio. Quando fra due anni terminerà il mandato al Csm, infatti, Celentano dovrà far ritorno a piazza Cavour. Si poteva evitare questa “incompatibilità d’ufficio”? Certo. Al posto di Davigo alla disciplinare poteva andare Loredana Miccichè, già giudice in Cassazione. Sulla non scelta della togata pare (il condizionale è d’obbligo) abbia pesato nei giorni scorsi una sua intervista al quotidiano Il Giornale in cui manifestava perplessità sul modo in cui era stato condotto il turbo processo a Palamara.

Palamara silura l’erede di Davigo: “Celentano mi pressava per le nomine”. Paolo Comi su Il Riformista il 28 Ottobre 2020. «Carmelo Celentano? È un ottimo cuoco. Ricordo che ogni volta che mi invitava a cena a casa sua il livello qualitativo delle portate era altissimo. Ricordo anche, però, che tutte le cene si concludevano sempre allo stesso modo: con sue continue e pressanti richieste per sistemare questo o quel magistrato». Così Luca Palamara all’indomani dello scoop del Riformista che ha pubblicato alcuni fra i tantissimi messaggi contenuti nella sua chat con Celentano, sostituto procuratore presso la Procura generale della Cassazione e attuale consigliere del Csm dopo essere subentrato, dalla scorsa settimana, al posto del pensionato Piercamillo Davigo. Dalla lettura di questi messaggi, tutti agli atti del procedimento penale pendente a Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Anm e di cui è in corso l’udienza preliminare, emergeva una strettissima e pressante interlocuzione di Celentano con Palamara per avere informazioni su nomine, tempistiche, e quant’altro riguardasse i colleghi che aspiravano ad un incarico. Secondo la recente circolare del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, il capo di Celentano, si trattava comunque di attività lecite, senza alcuna rilevanza disciplinare. Il pg nelle scorse settimane aveva, infatti, sdoganato per i magistrati l’attività di self marketing, svolta in proprio o “esternalizzata” ad altri colleghi, come nel caso di Celentano. I messaggi fra Celentano e Palamara, come tutti quelli contenuti nelle altre chat dell’ex capo dell’Anm, sarebbero da mesi all’esame della task force istituita da Salvi a piazza Cavour. Nonostante le rassicurazioni di Salvi sulla correttezza dell’auto promozione togata, il primo a intervenire in maniera critica dopo la lettura dello scoop del Riformista era stato sulla propria pagina Fb Andrea Mirenda, giudice di sorveglianza a Verona, neo eletto al Consiglio giudiziario di Venezia con Articolo 101, il gruppo delle toghe “anticorrenti”. Celentano è anche componente della Sezione disciplinare del Csm. Quindi “giudice dei giudici”. La Sezione, si ricorderà, che sta ora giudicando i cinque ex togati coinvolti nella cena con lo stesso Palamara all’hotel Champagne dello scorso anno quando si discuteva del futuro procuratore di Roma. Anche il collega di Articolo 101, Andrea Reale, gip a Ragusa e da poco eletto all’Anm, tramite mail aveva chiesto chiarimenti a Celentano sul contenuto di tali messaggi. Da quanto appreso, Celentano avrebbe confermato di aver messaggiato con Palamara e di aver chiesto, su sollecitazione dei colleghi, informazioni sullo stato delle pratiche che li riguardavano, preoccupandosi anche del loro “profilo umano”. La risposta non ha convinto il giudice Mirenda: “A che titolo si informa? Quale legittimazione aveva per chiedere ragguagli, informazioni, raccomandazioni, anche di tipo ‘umanitario’”? Il paragone, in automatico, è con tutti gli altri cittadini della Repubblica che non hanno il privilegio di indossare la toga. «Se un privato avesse interferito senza averne titolo in un procedimento amministrativo volto a conferire incarichi, appalti, concessioni a quali responsabilità si sarebbe esposto?». La risposta Mirenda non la fornisce ma ci permettiamo di fornirla noi: la prigione. Celentano, nella sua risposta, ha preso anche le distanze da Palamara. Una “pia bugia” sarebbe quanto dichiarato da Palamara sul fatto che i colleghi di Unicost non avessero votato per lui alle ultime elezioni per il Csm, preferendogli invece Davigo, poi eletto in maniera plebiscitaria. Sempre Palamara: «Un consigliere ha l’obbligo di raccontare la verità. Celentano mi accusa di aver detto una bugia. Se intende riferirsi al fatto che una parte del gruppo di Unicost di Roma di cui facevo parte aveva votato per Loredana Miccichè (togata di Magistratura indipendente, poi eletta insieme a Davigo per i due posti destinati ai giudici di legittimità al Csm, ndr) a suo danno, gli rispondo di averlo votato convintamente e di averci sempre messo la faccia». «Anche se non ho mai condiviso il metodo della cooptazione con il quale venne la sua candidatura – prosegue infine Palamara -auguro buon lavoro al consigliere Celentano. Sono personalmente contento che abbia coronato la sua aspirazione».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 29 ottobre 2020. A giugno questo giornale aveva pubblicato la chat del sostituto procuratore generale della Cassazione, Carmelo Celentano, con Luca Palamara, il kingmaker delle nomine, radiato dalla magistratura il 9 ottobre. Nel 2018 Celentano era risultato il primo dei non eletti alle elezioni per il Consiglio superiore della magistratura a causa del plebiscito in favore di Pier Camillo Davigo, da lui definito sarcasticamente in campagna elettorale «il pensionando». Adesso lo stesso Celentano è entrato al Csm proprio al posto di Davigo, spedito ai giardinetti dal voto del plenum del parlamentino dei giudici. Il neo consigliere è stato subito piazzato nella sezione disciplinare, che durante il giudizio lampo contro Palamara era stata stravolta. Un blitzkrieg che aveva costretto alla panchina pezzi da novanta come Giuseppe Cascini e il vicepresidente David Ermini. Adesso il cerino è passato nelle mani di Celentano che dovrà giudicare i colleghi spediti davanti al disciplinare dalla Procura generale della Cassazione per quelle chat in cui, però, compare a sua volta. Palamara giustifica così con La Verità la scelta del vecchio compagno di corrente: «La designazione di Celentano come candidato di legittimità della Cassazione per Unità per la costituzione è frutto di un meccanismo di cooptazione interno alle correnti e rispondeva alla necessità di trovare un punto di equilibrio con l' area napoletana di Unicost». La notizia della nomina del consigliere chattante ha incendiato la mailing list delle toghe e ha costretto Celentano a rispondere a chi lo chiamava in causa. Un' arrampicata sugli specchi di cui non era difficile immaginare lo stridore di unghie in sottofondo. Per lui i messaggi a Palamara non erano altro che innocenti «richieste di informazioni, nei limiti di quanto ostensibile, sullo stato di alcune pratiche che riguardavano colleghi del mio ufficio, o degli uffici di legittimità» oppure «sullo stato di pratiche di colleghi da me conosciuti, anche da poco e neppure vicini al gruppo che mi sosteneva elettoralmente, i quali mi avevano contattato chiedendo mere informazioni sui tempi di trattazione». Una specie di Urp a disposizione di colleghi vicini e lontani.  Celentano, nella sua autoassoluzione, specificava un altro sprone ai suoi interventi: «Mi preoccupavo, nel rispetto delle decisioni prese o da prendere, del profilo umano che coinvolgeva le persone che si erano sentite forse ingiustamente pretermesse, nella convinzione che fosse opportuno anche da parte del consigliere comprenderne lo stato d' animo». Quasi un ruolo da psicologo, verrebbe da dire. Come quando spiega a Palamara di aver «tranquillizzato» Francesco Salzano, appena stoppato dal Csm nella sua corsa ad avvocato generale, e lo invita a rasserenarlo a sua volta con la «prospettiva dei prossimi posti». Ma la mail di Celentano ai colleghi serve soprattutto a prendere le distanze da Palamara: «Notoriamente le nostre posizioni associative erano distanti su molti temi, inclusa la forte critica all' attività di quella consiliatura, critica che io svolgevo in pubblico ed in privato, nelle più svariate materie». Divergenze che non emergono nei messaggi e tanto meno nell' ultimo scambio tra i due, dopo la sconfitta di Celentano nella corsa al Csm. Palamara: «Carissimo Carmelo ancora adesso a mente fredda non riesco ad accettare quello che è accaduto. È necessaria una profonda riflessione ancora di più dopo "lo schifo" (non trovo altre parole) dell' intervista di oggi sul Fatto (di Marco Travaglio a Davigo, il vero nemico dei due, ndr). Tu hai lucidità politica e permettimi di dire io e te (ricorda il mio ultimo intervento al congresso) avevamo fiutato il pericolo Davigo. Io non accetto che un elettore di Unicost lo abbia votato! E non lo accetterò mai». Celentano: «Ti ringrazio per l' affetto che ricambio immutato! Io so riconoscer e le persone che hanno testa e cuore come te. Abbiamo tuttavia entrambi la necessità di far crescere davvero il gruppo, liberandolo da qualche bassezza che la magistratura non merita. E su questo conto ancora una volta su di te e su pochi altri». Una corrispondenza di amorosi sensi che martedì Celentano ha liquidato come «saluti finali "politici"» che si collocano «in un contesto di naturale umanità, direi reciproca, in cui entrambi consapevolmente abbiamo detto due "pie bugie"». La replica di Celentano ha fatto infuriare diversi magistrati, tra questi Felice Lima, il quale, di fronte alle giustificazioni del collega, si è lanciato in una pesante invettiva: «La cosa veramente impressionante è che soggetti come questo qua stanno alla Procura Generale della Cassazione. [] le condotte di questo Celentano, ove le chat fossero autentiche e le dichiarazioni di Palamara ai giornalisti vere, non riguarderebbero solo la promozione di se stesso, benedetta dal Salvi (Giovanni, procuratore generale della Cassazione, ndr) come opera pia, ma anche interessi di altri. Ergo, immagino che Salvi, con l' aiuto di Salzano (il collega «tranquillizzato» da Celentano, ndr) starà svolgendo approfondite indagini per scoprire la verità e, se del caso, mandare il Celentano a giudizio dinanzi al Celentano stesso! Hanno davvero la faccia come altre parti anatomiche! E la magistratura è oggettivamente indifendibile!». A giugno avevamo raccontato di un incontro avvenuto nell' ottobre del 2017 al Csm tra Palamara, Celentano e l' avvocato generale Luigi Salvato (un altro dei pm che hanno indagato su Palamara & c.), questi ultimi in corsa per candidature e nomine. Ma quello non fu il solo appuntamento tra i tre. Palamara ricorda «le discussioni con Celentano sull' assetto della procura generale anche alla presenza di Riccardo Fuzio (ex pg della Cassazione, ndr) e di Salvato» presso il suo ufficio al Csm. «Ricordo bene anche le discussioni con i colleghi Massimo Forciniti e Pina Casella (mentore di Celentano)» continua il magistrato radiato, «sull' assetto interno della corrente di Unicost presso la sua abitazione». Incontri conviviali che comprendevano nel menù anche le nomine. Come sottolinea Palamara, che forse di quei banchetti ricorda ancora l' Alka-seltzer: «Carmelo prepara primi prelibati, ma purtroppo venivano resi indigesti dalle solite tediose discussioni sulla distribuzione dei posti tra gli appartenenti alle correnti». Del resto nelle chat il suo interesse per la materia balza all' occhio. Come quando si informa sulle decisioni per i posti di procuratore aggiunto di Trapani e di Bergamo o di presidente di sezione del tribunale di Padova. Mentre chiede incontri e aggiornamenti, Celentano dà l' impressione di essere un fan di Palamara. Come quando gli scrive: «Il tuo intervento è stato perfetto». Oppure: «Sei fondamentale come sempre». O ancora: «Sei la nostra speranza». O dove definisce di «significato politico inestimabile» la nomina di Fuzio. Sino all' apoteosi: «È tutto nelle tue mani. Per questo sono tranquillo». Nel marzo 2018 è fiducioso per la sua elezione al Csm: «Siamo una squadra molto efficace insieme». A luglio, dopo la sconfitta, sprofonda: «Come vedi mi hanno venduto per un pugno di voti». Qualche tempo dopo, disgustato, lascia Unicost. Adesso è arrivato il risarcimento. Con tanto di contrappasso. Davigo fuori e lui dentro. Nonostante le chat.

Le chat pubblicate dal Riformista. L’assalto degli uomini di Davigo a Celentano: è socio di Palamara, deve lasciare. Paolo Comi su Il Riformista il 30 Ottobre 2020. Carmelo Celentano – forse – farebbe meglio a tornare al suo ufficio in Cassazione. Dopo lo scoop di questa settimana del Riformista che ha pubblicato alcuni dei messaggi che il neo consigliere del Csm si scambiava con l’ex potente presidente dell’Anm Luca Palamara, sono tanti i magistrati che ritengono sia opportuno che Celentano lasci Palazzo dei Marescialli. La presa di posizione più forte è quella delle toghe del gruppo di Autonomia&indipendenza, la corrente fondata da Piercamillo Davigo e di cui Celentano ha preso il posto al Csm dallo scorso 20 ottobre, ultimo giorno di servizio per raggiunti limiti di età dell’ex pm di Mani pulite. I davighiani fanno appello al senso istituzionale di Celentano, già sostituto procuratore generale in Cassazione, affinché faccia proprie, prima possibile, determinazioni rispettose degli alti compiti ai quali è stato chiamato». Il motivo è da rintracciare nella ormai micidiale chat di Palamara che descrive «comportamenti perfettamente in linea con il diffuso sistema clientelare di recente disvelatosi in modo chiaro». Erano tantissimi i messaggi che i due, esponenti di primo piano di Unicost, si scambiavano. «Ho parlato – scriveva Celentano – con Salzano (Francesco, ora avvocato generale in Cassazione, ndr), lo ho tranquillizzato per il futuro e gli ho detto che lo avresti chiamato. Se gli dai la prospettiva dei prossimi posti sarà sereno», scrive Celentano a novembre del 2017. Palamara risponde: «Ho parlato con Salzano, è tutto ok». «Votato Salvato (Luigi, ndr) unanime», esordisce qualche settimana più tardi Palamara. «Sei fondamentale come sempre. È tutto nelle tue mani. Per questo sono tranquillo», replica Celentano. «Volevo notizie su PAT (procuratore aggiunto, ndr) Trapani; alcuni colleghi mi parlavano di Rossana Penna attualmente a Trapani, che a detta di Area (la corrente di sinistra, ndr) se la dovrebbe contendere con Marzella (Carlo) ora a Palermo. Oltre a questo mi hanno ricordato di PST (presidente sezione, ndr) Padova. Se puoi chiamami», scrive Celentano nella primavera del 2018. «PAT Trapani ancora non trattata. Per PST Padova lo metto prossima settimana», risponde Palamara che da zar delle nomine aveva il potere di decidere anche l’ordine cronologico dei posti da assegnare. «Scusa caro Luca, potresti aggiornarmi sulla situazione di Rossana Penna per procuratore aggiunto Trapani e procuratore aggiunto Bergamo? La dovrei sentire domani. Un abbraccio», ancora Celentano. «Bergamo ti spiego tutta situazione a Milano. Per aggiunto Trapani trattiamo prossima settimana con PAT Palermo», risponde Palamara. «Martusciello – prosegue Celentano – voleva notizie su Lagonegro, gli ho detto che tu mi hai detto che già sapevi tutto e che la situazione è un po’ complicata». E poi: «Come sta messo Raffaele Frasca per PS (presidente di sezione, ndr) Cassazione? Ce la fa? Avvisami quando sai qualcosa». Palamara, contattato dal Riformista aveva ricordato che Celentano lo invitava spesso, prima di essere candidato al Csm, a cena e che lo pressava con richieste per sistemare questo o quel magistrato. Celentano ha confermato di aver messaggiato con Palamara e di aver chiesto, su sollecitazione dei colleghi, informazioni sullo stato delle pratiche che li riguardavano, preoccupandosi del loro “profilo umano”. Leggendo la chat, però, il sostituto pg della Cassazione non si informava solo dei destini dei colleghi ma anche degli assetti del Consiglio superiore della magistratura. Ad iniziare dall’ufficio del Segretario generale, l’ufficio più importante di Palazzo dei Marescialli, quello che ha i rapporti con il Quirinale. Il 6 giugno del 2018 scrive Celentano a Palamara: «È in plenum la pratica vice segretario? Sai che fa Riccardo (Fuzio, procuratore generale della Cassazione, all’epoca il suo capo, ndr)?». Palamara: «Stiamo discutendo ora. Riccardo già si è espresso come Comitato di presidenza (composto dal vice presidente del Csm, dal primo presidente della Cassazione e, appunto, da Fuzio, ndr). Che ha portato in plenum Fiorentino (Gabriele, di Magistratura democratica, ndr). «Quindi in favore di Fiorentino?», aggiunge Celentano. «Sì», la risposta di Palamara. Il giudice Andrea Reale, neo eletto all’Anm per articolo 101, il gruppo “anticorrenti” aveva chiesto a Celentano chiarimenti sul suo comportamento. Dopo la prima risposta di quest’ultimo, Reale aveva replicato aggiungendo: «Potremmo dire a tutti i magistrati che è lecito, anche sotto il profilo deontologico, contattare direttamente un consigliere del Csm per chiedere notizie su colleghi del proprio ufficio, o degli uffici di legittimità, oppure sullo stato di pratiche di colleghi da loro conosciuti e di preoccuparsi del profilo umano dei richiedenti con i componenti del Consiglio?». E poi: «È consentito da oggi che circa 10.000 magistrati contattino i sedici consiglieri togati per chiedere notizie sulle pratiche degli altri 9.999? O sussiste, in questo genere di condotte, un profilo deontologicamente rilevante?». «Da consigliere è pronto a fornire la sua utenza cellulare a tutti i magistrati italiani che vogliano interessarsi delle pratiche di un loro collega amico?», aveva quindi aggiunto Reale. Difficile che il diretto interessato risponda nuovamente.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 31 ottobre 2020. Il Consiglio superiore della magistratura lo ha mandato in pensione e lui ha annunciato ricorso al tribunale amministrativo del Lazio, lamentando di non aver ricevuto «un cenno» da parte del presidente Sergio Mattarella (per una partita a briscola?). Ma adesso scopriamo che proprio il giorno in cui il plenum del parlamentino dei giudici lo ha sbullonato dalla poltrona, Piercamillo Davigo ha lanciato alle sue spalle una piccola bomba a mano, l' ultimo mistero dell' ex campione di Mani pulite. Infatti il 19 ottobre Davigo è stato sentito, su richiesta dei legali di Luca Palamara, come persona informata dei fatti negli uffici della Procura di Perugia, al cospetto anche del procuratore Raffaele Cantone. Gli avvocati Roberto Rampioni, Benedetto e Mariano Buratti, nell' ambito delle loro indagini difensive, stanno investigando da tempo sulle reali dinamiche dietro alla candidatura del pg di Firenze Marcello Viola a procuratore di Roma, sulle fughe di notizie sull' inchiesta del loro assistito e sull' esposto dell' ex pm Stefano Fava contro il suo vecchio capo, Giuseppe Pignatone. Come abbiamo raccontato nei mesi scorsi, Fava ha già raccontato i retroscena di un suo pranzo romano con i due consiglieri del Csm della corrente di Autonomia & indipendenza Davigo e Sebastiano Ardita. Era la fine di febbraio o l' inizio di marzo 2019. All' appuntamento era presente anche un pm romano, Erminio Amelio, il quale, sempre a Perugia, ha dichiarato: «Ardita faceva parte di una corrente nuova e ambiva a coinvolgere colleghi che non fossero schierati per altre correnti, pertanto, valutai di presentargli il collega Fava, che era estraneo a logiche correntizie». Lo stesso Fava avrebbe approfittato dell'occasione per discutere con i commensali delle «divergenze di vedute all' interno del suo ufficio e, in particolare, dei possibili conflitti d'interessi che aveva segnalato tra il procuratore e alcuni indagati», tre dei quali in rapporti economici con il fratello Roberto. Legami di cui Ardita si sarebbe detto a conoscenza. Tanto da consigliare a Fava la lettura del libro Gli intoccabili di Saverio Lodato e Marco Travaglio, in cui si raccontava come un altro indagato (l'ex governatore siciliano Totò Cuffaro) di Pignatone avesse scelto come consulente il fratello del procuratore, Roberto. Fava ha dichiarato ai difensori di Palamara che entrambi i consiglieri «giudicarono la vicenda di indubbia rilevanza» e gli avrebbero detto che «meritava approfonditi accertamenti da parte del Csm». Motivo per cui Fava, a fine marzo, presentò un esposto. Nel mese di maggio Ardita gli avrebbe comunicato che la segnalazione era arrivata alla Prima commissione, di cui faceva parte e che, pertanto, non era opportuno che i due continuassero a sentirsi per telefono. I loro contatti sarebbero continuati, ma solo tramite Amelio. Davigo a Perugia ha confermato gli incontri conviviali con Fava, Amelio e Ardita (i quattro avevano condiviso anche una cena in un locale siciliano intorno al dicembre 2018 e Davigo, nell' occasione, era afono) e questi appuntamenti, a suo dire, sarebbero stati organizzati dallo stesso Ardita, il quale aveva rappresentato la necessità di fare campagna acquisti visto che la corrente di A&i era debole su Roma. Davigo ha anche specificato che prima di quelle riunioni non conosceva né Fava, né Amelio. L' ex pm di Mani pulite ha anche detto di non rammentare che si fosse parlato dell'«esposto contro Ielo» (da lui così definito, con riferimento al procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo) e anzi lo ha escluso poiché si fida di poche persone e Ielo è una di queste e quel nome avrebbe certamente destato la sua attenzione. In realtà quando si svolse il pranzo romano l' esposto non esisteva ancora. La difesa di Palamara ha chiesto a Davigo se dopo l' uscita delle intercettazioni sui giornali abbia o meno parlato con Ardita dei fatti riguardanti l' esposto. Il testimone, prima di rispondere, ha premesso che per una parte di quell' episodio avrebbe dovuto eccepire la sussistenza del segreto d' ufficio. Il procuratore di Perugia, Cantone, ha domandato a quale segreto facesse riferimento, ma Davigo non ha dato ulteriori spiegazioni, lasciando di sasso gli interlocutori, colpiti da questo ultimo mistero. L' unica possibile spiegazione è che il riferimento fosse alle discussioni nelle camere di consiglio relative al disciplinare cautelare dello stesso Fava o a quello di Palamara. Anche se non si capisce perché Davigo non potesse farne cenno. L' ex presidente della terza sezione penale della Cassazione ha anche dichiarato di aver rimproverato energicamente Ardita poiché lo aveva visto chiudersi per molto tempo nella stanza con Antonio Lepre, uno dei consiglieri coinvolti nella vicenda dell' hotel Champagne e della nomina di Viola, e gli avrebbe detto: «Ma ti rendi conto che questo può essere un elemento di chiamata in correità?». Ma di quale reato non è chiaro. A Perugia l'ex consigliere del Csm ha voluto precisare di aver sempre contestato i metodi delle correnti e, in particolare, le cosiddette nomine a pacchetto per la Corte di Cassazione. Per questo sarebbe stato sempre distante dalle posizioni di Palamara. Non ha spiegato, tuttavia, il motivo del suo voto in favore di Viola in quinta commissione. A questo punto gli è stato richiesto per quale motivo, nonostante non lo stimasse particolarmente, avesse accettato che Palamara fosse tra gli «oratori» alla presentazione romana di un suo libro, avvenuta il 9 aprile 2019. Davigo ha risposto di aver saputo della presenza di Palamara con poco preavviso e non ha saputo indicare chi avesse organizzato l' incontro. In realtà lo stesso Palamara aveva ricevuto l' invito a marzo e addirittura copia della locandina dell' evento il 2 aprile, un manifesto in cui la foto dell' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati era quasi più grande di quella di Davigo. Possibile che quest' ultimo non l' avesse vista? Ieri abbiamo provato a domandarlo al diretto interessato. Ma il magistrato in pensione ci ha liquidato con cinque parole: «Non ho dichiarazioni da fare».

 Il suo cellulare è un vero pozzo di san Patrizio. Far fuori Palamara non assolve tutti: nessun magistrato è innocente. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'1— 1 Novembre 2020. “È la toga, bellezza! La toga! E tu non ci puoi far niente! Niente!” L’ultima minaccia di Palamara-Bogart più che un potente moto dell’animo, pare veleno distillato goccia a goccia, ma ugualmente liberatorio. Così, nella storia italiana di toghe, intrighi e merletti, è il veleno a farla da padrone, giorno dopo giorno. Due toghe sono state stracciate quasi in simultanea, e hanno segnato un’ apparente sospensione del loro potere politico, quella di Luca Palamara prima e pochi giorni dopo quella di Piercamillo Davigo, che ha interpretato prima il ruolo del carnefice e poi quello della vittima. Non saranno seppellite dal silenzio, le due toghe stracciate, questo è sicuro. Perché la scimmia della politica (che loro chiamano toga, ma fa lo stesso), quando ce l’hai sulla spalla, non ti molla più. E i due paiono i fantasmi che da diversi palcoscenici arrivano di notte a tirare i piedi, beffardi e sarcastici, ai loro ex laudatores trasformati in giuda. L’uscita di scena (provvisoria, di sicuro) di Piercamillo Davigo è entrata come il coltello nel burro nel magico mondo delle manette, con il tradimento di Nino Di Matteo, l’allievo insolente, che ha reso verde di bile prima Marco Travaglio e poi il suo piccolo emulo Gaetano Pedullà. Con i drink forcaioli della domenica sera di Giletti rovinati forse per sempre. Ma Luca Palamara-Humphrey Bogart è forse quello che si diverte di più. Non gli basta aver gridato “il re è nudo”, e aver ormai sbriciolato qualunque fiducia i cittadini potessero ancora avere nei confronti della magistratura e della giustizia, mai così bassa dai tempi di Enzo Tortora e del referendum che ne seguì. Adesso sta letteralmente levando la pelle, uno a uno a tutti i suoi ex, amici e nemici. E, ne siamo certi, non è ancora finita. Il suo cellulare è un vero pozzo di san Patrizio. Basta infilarci la mano e tirar fuori il bottino. Quel diavolo di Paolo Comi con le sue rivelazioni ha reso il Riformista la lettura più avida nelle aule di giustizia e nelle sedi del sindacato delle toghe. Qualche nome è già stato fatto, altri ne verranno. Una cosa appare certa: anche i magistrati più capaci e più stimati non sono arrivati al loro posto ai vertici della magistratura per meriti ma per raccomandazioni. Da ora in avanti, un po’ come (si parva licet) fossimo a prima e dopo cristo, nessuno crederà più al fatto che l’ermellino sia una conquista realizzata con lo studio e il sudore. Quando dal pozzo del dottor Palamara (che pare più nutrito del famoso armadio pieno di scheletri di cui si favoleggiava disponesse Giulio Andreotti) escono le suppliche, gli intrighi e i ricatti, e frasi che farebbero arrossire per rudezza il mondo della politica, quel che viene da pensare è il voto di scambio, quello che il codice punisce severamente assimilandolo all’associazione mafiosa. La radiografia è impietosa, e le disgrazie che hanno investito la persona prima ancora della toga del dottor Palamara in seguito alla famosa partouze politica tenuta di notte in un albergo per decidere sul procuratore capo di Roma, dicono molto di più della famosa nudità del re. Raccontano per esempio l’uso del tempo. Quanti minuti e ore e giornate ha trascorso quel tal sostituto procuratore per essere eletto al Csm? E quanti colleghi ha ricattato nel corso della sua campagna elettorale, magari con un uso accorto e sapiente del proprio ruolo nel consiglio giudiziario? E poi, una volta raggiunto il suo scopo, quanti altri colleghi ha dovuto sostenere in sfibranti campagne elettorali per poter poi diventare capo di qualche cosa e in qualche luogo? Da qualche anno è stato introdotto nel codice penale un nuovo reato che si chiama “traffico di influenze”. Sono le vecchie raccomandazioni, di cui gli uomini politici della prima repubblica non si sono mai vergognati, anche se le chiamavano segnalazioni. Ora ci sono chat e mail e sms e whatsapp e telegram e molto altro. E c’è anche il reato. Ma le toghe hanno l’immunità. Perché, proprio dopo la lettura delle chat di Palamara con il dottor Celentano, il chiacchierone che stressava il suo amico a cena e durante le sedute del Csm e poi ha preso il posto di Davigo, è intervenuto a dare la benedizione niente di meno che il procuratore generale della Cassazione. Giovanni Salvi ha detto che la segnalazione, cioè la raccomandazione ( o l’auto-raccomandazione), insomma il traffico di influenze non è peccato. Non sappiamo se sia ancora reato. Un altro cambiamento, questa volta culturale, si sta sedimentando nella mentalità e nel linguaggio delle toghe. Questa volta saccheggio un articolo di qualche giorno fa di Luca Fazzo sul Giornale, il quale a sua volta aveva pescato nel glossario dei messaggi inviati dai suoi colleghi a Palamara il 29 maggio 2019, quando era diventata pubblica la notizia delle indagini che lo coinvolgevano presso la procura di Perugia. Ho estratto solo alcuni termini e li metto in fila: inchiesta a orologeria, spazzatura, macchina del fango, carognata, invidia, stagione dei veleni, tempistica. Vi ricorda niente, cari signori delle toghe?

Giacomo Amadori per “la Verità” l'1 novembre 2020. Le indagini difensive degli avvocati di Luca Palamara hanno aggiunto un importante tassello al filone investigativo sulle fughe di notizie che hanno distrutto l' inchiesta sulla presunta corruzione del magistrato radiato. Il segretario generale del Csm Paola Piraccini, ascoltata in Procura a Perugia su richiesta dei legali di Palamara (Roberto Rampioni, Benedetto e Mariano Buratti), ha riferito informazioni fondamentali sul punto. Così la vulgata che le notizie provenissero da fonti del Csm è stata spazzata via definitivamente. Partiamo dall' inizio o quasi. Tra il 27 e il 28 maggio 2019 inizia a circolare insistentemente la notizia (come conferma una conversazione registrata dal trojan) che due giornali, La Verità e Il Fatto quotidiano, stanno per pubblicare l' imbarazzante storia dell' esposto presentato due mesi prima al Csm dal pm romano Stefano Fava contro l' ex capo Giuseppe Pignatone. Forse per questo, qualcuno dà un' accelerazione alla pubblicazione dello scoop dell' inchiesta di Perugia su Palamara, in quel momento ancora coperta dal segreto istruttorio. Solo dopo quelle prime fughe di notizie gli inquirenti umbri decidono di inviare un cd al Csm con le intercettazioni dell' hotel Champagne, considerando evidentemente le trattative per la nomina del procuratore di Roma Marcello Viola inquinate da illeciti disciplinari. Ma, come detto, la misteriosa gola profonda dei giornalisti non può essere un membro di Palazzo dei marescialli. Infatti la Piraccini ha riferito che il 29 maggio, di prima mattina, venne avvertita dal vicepresidente del Csm David Ermini delle prime pagine dedicate dai quotidiani al caso Palamara e all' esposto di Fava. In quel momento i due si trovavano in visita agli uffici giudiziari di Catania e decisero di tornare nella Capitale, annullando la visita a Napoli del giorno successivo. La Piraccini ritirò personalmente la sera del 30 maggio il plico che le venne consegnato da un carabiniere, come conferma il visto sul registro della posta. Dunque è impossibile che le fughe di notizie, almeno quelle dei primi tre giorni, siano partite dal Csm. «Su questo non c' è il minimo dubbio. Le carte di cui hanno parlato i giornali il 29 e il 30 maggio noi le abbiamo ricevute, e le ho ritirate io personalmente, il 30 alle ore 19 (scandisce il numero, ndr). E non c' erano le captazioni del trojan che sono arrivate successivamente» spiega la Piraccini. A questo punto il cerino resta in mano ai magistrati di Perugia, a quelli di Roma che stavano condividendo informazioni con i colleghi umbri e alla polizia giudiziaria, in questo caso gli uomini del Gico della Guardia di finanza. Ma ricostruiamole queste fughe di notizie. Tra l' 8 e il 9 maggio le Fiamme gialle intercettano la famigerata riunione dell' hotel Champagne, in cui risulta chiaro che Palamara, i parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri hanno discusso con cinque consiglieri del Csm della nomina del procuratore di Roma. In quella serata la corruzione di cui è sospettato Palamara non emerge in nessun modo. Eppure il giorno dopo il procuratore Luigi de Ficchy decide che è arrivato il momento di informare il Csm dell' iscrizione per corruzione di tre magistrati finiti sul registro degli indagati alcuni mesi prima: Palamara, Giancarlo Longo e Francesco Musolino. La notizia, a quanto risulta dagli atti, è nuda e cruda. C' è solo lo stato del procedimento: «Indagini preliminari». C' è anche scritto: «Si allega annotazione di pg della Guardia di finanza di Roma che ha dato origine al procedimento». Si tratta di 37 pagine che ricostruiscono le presunte regalie dell' imprenditore Fabrizio Centofanti (frequentatore dello stesso de Ficchy) a Palamara. Quindi dal 9 al 30 maggio sera, le notizie in possesso del Csm erano solo queste. Eppure il 28 maggio La Repubblica e Il Corriere della sera sembrano già essere a conoscenza delle vicende dell' hotel Champagne, sebbene dalla Procura di Perugia non sia ancora partito nulla in direzione del Palazzo dei marescialli. Il 29 maggio La Repubblica titola «Corruzione al Csm», parlando di mercato delle toghe. Palamara deve ancora essere perquisito per corruzione. Ma il giornalista dimostra di essere molto più avanti e collega la vicenda alla nomina del procuratore di Roma, definita «un mercato dei pani e dei pesci». Parla anche di «giochi che entrano nel vivo» e di cui è «protagonista» Palamara, «magistrato indagato a Perugia». Poi l' articolo, facendo riferimento a fantomatiche «qualificate fonti del Csm», accende un faro sull' asse di Palamara con Ferri e con il «convitato di pietra» Lotti. Cioè i presunti complottardi dello Champagne. E cita gli asseriti nemici della squadretta, in primis quel Paolo Ielo, ampiamente citato nelle intercettazioni. Anche Il Corriere della sera pare informatissimo. Addirittura collega già nel titolo il fascicolo su Palamara alla nomina del successore di Pignatone: «Un' inchiesta per corruzione agita la corsa alla Procura di Roma». Il giornale informa i lettori che l' indagato Palamara «è uno dei protagonisti di trattative e cordate che si stanno delineando al Csm, ma anche nei palazzi della politica». Rivela pure che «nelle stesse ore» dell' arrivo dell' informativa su Palamara al Csm, «ha ripreso improvvisamente fiato l' esposto che un pm romano ha inviato contro l' ex procuratore Giuseppe Pignatone e un aggiunto». Anche questo emergeva nelle intercettazioni e, per una strana coincidenza, come abbiamo anticipato, gli articoli dei due principali quotidiani italiani sullo scandalo Palamara escono proprio lo stesso giorno in cui La Verità e Il Fatto danno notizia dell' esposto, con l' effetto (casuale o voluto?) di oscurare quest' ultima vicenda o almeno di metterla sotto una luce sinistra. Passano 24 ore e, quando le carte non sono ancora giunte al Csm, Il Corriere fa sapere che «negli atti dell' inchiesta perugina» emergono «tracce» sulla partita «politico-consiliare» per la Procura di Roma e svela gli «incontri notturni» dei pedinati: «Durante questa inchiesta sono venuti alla luce incontri dello stesso Palamara con politici e magistrati che sarebbero serviti a gestire la partita per portare alla guida della Procura romana l' attuale procuratore generale di Firenze Marcello Viola». E La Repubblica? Rivela che ci sono «quattro nomi iscritti al registro degli indagati dell' inchiesta sulla corruzione e le nomine al Csm». E aggiunge: «La storia dunque cammina». O forse deve camminare. E in fretta, per far saltare la nomina di Viola, il candidato procuratore in pectore. Per questo l' esposto di Fava nell' articolo diventa «una formidabile arma di manipolazione che la Procura di Perugia si prepara a illuminare». E in effetti quella stessa mattina il pm scopre di essere indagato e riceve un invito a comparire. L' articolista conclude con un messaggio ai naviganti: «L' indagine è arrivata a un punto dove evidentemente nessuno prevedeva arrivasse. Staremo a vedere. Siamo al primo atto. Ma il tempo si è messo a correre». Dopo quegli scoop i pm sono costretti a uscire allo scoperto, ordinando perquisizioni, interrogatori e inviando nuovi documenti al Csm. Il 30 maggio la Piraccini riceve il decreto di perquisizione nei confronti di Palamara e l' avviso a comparire per due altri magistrati, Fava e il consigliere del Csm Luigi Spina, accusati di aver informato (i reati contestati sono la rivelazione di segreto e il favoreggiamento) Palamara dell' arrivo dell' informativa inviata il 9 maggio. Nel decreto di perquisizione si scopre finalmente perché Longo e l' ex presidente dell' Anm siano indagati: il secondo avrebbe percepito 40.000 euro per far nominare procuratore il primo (accusa poi caduta). Ma, lo ribadiamo, queste notizie, che diventano ostensibili solo il 30 maggio, erano già state ampiamente annunciate sui giornali. Dopo l' arrivo delle prime carte al Csm, i cronisti perdono il freno e, sebbene nel decreto di perquisizione di Palamara, a pagina 14, si faccia solo un generico riferimento al coinvolgimento di «parlamentari», il 31 maggio, La Repubblica e Il Corriere citano i nomi di Lotti e Ferri e gli appuntamenti con Palamara e Spina. Con tanto di date. Addirittura Il Corriere titola: «Quegli incontri con Lotti e Ferri sulle nomine». E parla di «vendetta contro Pignatone». L'1 giugno, dopo aver evocato «qualificate fonti investigative» La Repubblica fa l' ennesimo scoop svelando le intercettazioni che «fulminano» i consiglieri del Csm Corrado Cartoni e Antonio Lepre, entrambi presenti allo Champagne. Inoltre, il giornalista anticipa le mosse della Procura come se facesse parte della polizia giudiziaria: «I modi dei "carbonari", il tenore dei loro conversari non devono essere edificanti se è vero, come è vero, che la Procura di Perugia, riservandosi eventuali future valutazioni penali, si prepara a trasmettere a Palazzo dei marescialli gli atti relativi a questo passaggio dell' inchiesta, perché il Consiglio valuti gli aspetti disciplinari». L' articolo è stato scritto il 31 maggio. Le carte sono state effettivamente spedite al Csm il 3 giugno. Dopo le dichiarazioni della Piraccini, a quanto ci risulta, la difesa di Palamara sta valutando la possibilità di presentare un esposto per fare chiarezza sulle incredibili fughe di notizie di fine maggio e inizio giugno 2019.

Magistratopoli, siamo alla fine o è solo l’inizio del Palamaragate? Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. Giustizia è fatta? Con la rimozione dall’ordine giudiziario del primo consigliere del CSM e del primo ex Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) della storia repubblicana, alcuni vorrebbero farlo credere. E forse molti ci crederanno. O faranno finta di crederci. Quello che penso invece io sul “caso Palamara” e della mia unica sorpresa per chi si è sorpreso, candendo o facendo finta di cadere dal pero, l’ho scritto in altri due miei articoli qualche mese fa. Non volendo ripetermi, chi vuole può leggerseli sul Riformista: qui e qui. L’unica giustizia – e solo parziale – mi sembra essere però stata fatta – e dopo oltre 12 anni –  al Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga. Le cui roventi parole, chissà perché, sono rimaste sinora inascoltate. Senza che nessuna Procura della Repubblica, neppure quelle tra le più proattive e globalmente competenti, abbia ravvisato una pur minima notitia criminis da approfondire in quello che l’ex Presidente del CSM aveva affermato pubblicamente, con indiscutibile chiarezza, in uno storico intervento telefonico, il 16 gennaio 2008, nello studio di Sky Tg 24. Dove era ospite Luca Palamara, allora Presidente dell’ANM, per commentare le dimissioni rassegnate quel giorno dall’allora Guardasigilli, Clemente Mastella, in seguito agli arresti domiciliari cui era stata sottoposta la moglie. L’ex Presidente dell’Anm, colto di sorpresa dalla durissima arringa del Presidente emerito nei suoi confronti, che lo definiva persino “faccia di tonno”, provò ad abbozzare un “mi sembra offensivo”. Ma Cossiga rilancia: “Sì, sì, è offensivo e mi quereli, mi diverte se mi querela e perché non mi querela? I nomi esprimono la realtà, lei si chiama Palamara e ricorda benissimo l’ottimo tonno. La battaglia contro la magistratura è stata perduta quando abbiamo abrogato le immunità parlamentari che esistono in tutto il mondo e quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato i pantaloni sotto dettatura di quella associazione tra il sovversivo e lo stampo mafioso che è l’Associazione nazionale magistrati”.

Palamara sgrana gli occhi e cerca un sostegno nella conduttrice. Ma nessuno ha avuto il coraggio di prendere l’iniziativa di chiedere conto a Francesco Cossiga della gravità di quelle affermazioni. E tanto meno di fare chiarezza su accuse di una gravità inaudita che, se provate, avrebbero meritato ben altre attenzioni di quelle dedicate a moltissimi altri fatti di cronaca «mediatico-giudiziaria» che ci hanno assuefatto da una trentina d’anni ad oggi. Ma siamo il Paese dell’ipocrisia dell’azione penale obbligatoria. Che funziona a seconda della convenienza o meno, soprattutto sul piano mediatico-giudiziario, di chi la vuole esercitare. Invito quindi tutti a riascoltare oggi la buon’anima del Presidente Cossiga, per meglio capire l’ipocrisia di tanti soloni che leggeremo (e anche di quelli dei quali leggeremo solo il loro silenzio) sulla stampa nelle prossime ore. “Sono consapevole di aver pagato io per tutti, per un sistema che non funzionava, che nei fatti si è dimostrato obsoleto e superato – ha detto Palamara oggi alla conferenza stampa organizzata dal Pratito radicale –. So che pago io per tutti, che è esistita una magistratura silenziosa, di tanti che mi hanno chiesto di andare avanti e non vengono allo scoperto”. Comincio quindi ad avere grande pena, ed anche un po’ di simpatia, per Palamara. Apparente vittima di una macchina di cui è stato il macchinista. E apprezzo il partito Radicale che, in coerenza con i propri valori di sempre, ne ha ospitato la conferenza stampa, chiedendo anche una Commissione di inchiesta. É la fine dell’affaire Palamara o siamo solo all’inizio? Poiché, come disse Ernst Junger, “la speranza conduce più lontano della paura”, noi continuiamo a sperare. Sperando di non doverci accontentare del solito caprio espiatorio gattopardesco.

Il verdetto già deciso. Prima trafficavano con Palamara, ora lo condannano. Paolo Comi su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. Ancora ventiquattro ore per conoscere il destino di Luca Palamara. La sezione disciplinare del Csm, al termine di un’udienza fiume, ha rinviato la decisione a questa mattina. Il dibattimento è stato comunque rapidissimo, meno di tre settimane. Il Palamaragate poteva essere l’occasione per far luce sul sistema delle nomine e sulla spartizione degli incarichi da parte delle correnti della magistratura. Di diverso avviso la disciplinare di Palazzo dei Marescialli, presieduta dal laico in quota M5s Fulvio Gigliotti, che tagliando fin da subito tutti i testimoni richiesti dalla difesa di Palamara, aveva fatto subito intendere che non era il caso di andare oltre. Meglio evitare sorprese e limitarsi a quanto accaduto la sera dell’8 maggio del 2019, quando Palamara, insieme a cinque consiglieri del Csm, aveva incontrato all’hotel Champagne di Roma i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. Appassionata è stata la difesa dell’ex presidente dell’Anm da parte del consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi. Il magistrato, valorizzando per la prima volta delle conversazioni intercettate e mai trascritte prima, aveva fornito una lettura molto diversa di quanto accaduto quella sera. Luca Palamara voleva essere nominato all’ufficio del Garante della privacy in quota Pd. Era questo il motivo per il quale incontrava Luca Lotti. La Camera, all’epoca, avrebbe dovuto proporre due nomi da scegliere fra i circa duecentocinquanta che avevano avanzato la candidatura. Non c’è mai stato alcun patto “occulto” per nominare il procuratore generale di Firenze Marcello Viola alla Procura di Roma e nessuna strategia per screditare gli altri candidati, come il procuratore del capoluogo toscano Giuseppe Creazzo. E nessuna strategia per mettere in cattiva luce il procuratore aggiunto della Capitale, Paolo Ielo. L’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio era totalmente all’oscuro che Palamara, Ferri e i cinque consiglieri del Csm, poi dimessisi, avrebbero discusso di nomine. Nella lettura “alternativa” di Guizzi emerge “l’auto promozione” di Palamara. L’ex zar delle nomine, dopo aver sempre fatto favori, chiedeva dunque un favore per un incarico molto ambito. Guizzi nella sua arringa ha ricostruito tutti i passaggi che portarono poi la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm a votare Viola come successore di Giuseppe Pignatone. Voto che, come noto, venne poi annullato all’indomani della pubblicazione sui giornali dell’incontro di quella sera. Resta un mistero su chi passò la velina e fece così saltare la nomina di Viola. Su Viola si cercava una convergenza fra le correnti , ha aggiunto Guizzi. Mario Suriano, togato di Area e componente della Commissione per gli incarichi apprezzava molto il pg di Firenze ma non poteva votarlo perché amico di Cosimo Ferri, leader storico di Magistratura indipendente. I maggiori problemi venivano da Unicost, la corrente di Palamara. Piercamillo Davigo, invece, era favorevole alla nomina di Viola a Roma. E, comunque, ha aggiunto Guizzi, non c’era nulla che impedisse un colloquio fra Lotti, Ferri e Palamara. La scelta degli incarichi direttivi è un atto politico, ha più volte sottolineato Guizzi, non si limita all’esclusiva valutazione dei curricula e le correnti giocano un ruolo di primo piano. Per la procura generale rappresentata dall’avvocato generale della Cassazione Pietro Gaeta e dal sostituto pg della Cassazione Simone Perelli, Viola, che è sempre stato all’oscuro di tutto, avrebbe dovuto invece intervenire nell’indagine a carico di Lotti. Un procuratore “compiacente”. La presenza di Lotti quella sera, ha infine concluso Guizzi, era anche per capire come mai il vice presidente del Csm David Ermini avesse preso le distanze. Ermini era stato scelto da un accordo fra Unicost e Mi con la supervisione di Lotti. Si notava un cambiamento. Fra i motivi ipotizzati, un condizionamento da parte di Donatella Ferranti, magistrato di Cassazione ed ex presidente dem della Commissione giustizia a Montecitorio. Sul tema dell’utilizzabilità delle intercettazioni Guizzi ha ventilato la possibilità di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo: «Il nostro non è un gioco illusionistico per far sparire fatti, ma abbiamo posto il problema delle intercettazioni nella consapevolezza che si deve giungere alla verità nel rispetto delle regole processuali e costituzionali».

Carlo Nordio sulla radiazione di Luca Palamara: "Un processo stalinista e sommario, come nel fallito colpo di Stato contro Hitler". Libero Quotidiano il 10 ottobre 2020. "Un processo stalinista". Così Carlo Nordio liquida la radiazione di Luca Palamara, ex consigliere del Csm e numero uno dell'Associazione nazionale magistrati. Non solo perché la sentenza contro Palamara riporta al passato l'ex magistrato: "Ricorda - si legge nelle colonne del Giornale - quella del generale Friedrich Fromm che condannò e fece fucilare von Stauffenberg con processo sommario, sperando che non lo coinvolgesse" nel fallito colpo di Stato contro Hitler, "poi però non la fece franca neanche lui". Ma Nordio è in buona compagnia. Anche l'ex pm non ha dubbi su Palamara "utilizzato come capro espiatorio". Sembra che il pensiero nei confronti dell'ex consigliere del Csm sia unanime e non conosca fazione politica. A domandarsi se solo Palamara pagherà "per un sistema che si prestava alle sue macchinazioni" anche il pentastellato Nicola Morra. "Qualcuno - gli fa eco Enrico Costa di Azione - pensa di far credere agli italiani che il solo unico esclusivo problema della magistratura si chiamasse Palamara e che, eliminato lui, restino solo purissimi esempi di etica e dirittura morale? D'ora in avanti le correnti, che oggi si sono autoassolte, continueranno ad imperversare, complice la finta riforma del Csm presentata da Bonafede".

Pietro Senaldi, Luca Palamara e la sua nuova carriera: "Dopo la radiazione farsa, non è ancora finita". Pietro Senaldi Libero Quotidiano il 12 ottobre 2020.  Colpirne uno per assolverne cento. La radiazione dell'ex presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, Luca Palamara era un finale scontato. Prove inconfutabili ne hanno dimostrato la gestione clientelare e politicizzata delle nomine delle più alte cariche dei tribunali e procure. Lo sapevano tutti da decenni, fin da quando durante il processo Tortora, metà anni '80, l'avvocato Della Valle, futuro vicepresidente azzurro della Camera, denunciò in aula la giustizia spettacolo e le sue trame di potere. Le intercettazioni delle conversazioni di Palamara con colleghi e politici, nemesi delle toghe, hanno impedito che questa volta si facesse finta di nulla. Esse però sono solo l'inizio dello scandalo. Più imbarazzante dei colloqui tra giudici emersi è non tanto l'esito, previsto, del procedimento disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura nei confronti dell'ex presidente dell'Anm, bensì il suo svolgimento. Palamara ha chiamato a sua difesa 133 testimoni, un esercito in grado di sputtanare il sistema. Se i magistrati avessero voluto fare pulizia al loro interno, avrebbero colto l'opportunità per avviare un processo di trasparenza, sanguinoso e infamante, ma che alla fine avrebbe potuto restituire un po' di credibilità al terzo potere dello Stato, la cui popolarità è scesa a quotazioni bassissime presso l'elettorato. Invece il Csm si è affrettato a chiudere il giudizio in tempi record, non ascoltando nessuno, praticamente neppure l'imputato, che forse in Cina o Turchia avrebbe avuto un procedimento più equo. Un raro spettacolo di denegata giustizia con cui la corporazione in toga si illude di mettere una pietra tombale sui propri peccati e offrire una parvenza di diritto all'opinione pubblica.

È solo ingenuità? - Il grande ex procuratore Carlo Nordio ha scritto sul Messaggero che Palamara si è difeso ingenuamente; non ha invocato misericordia, come si usa di fronte alle corti staliniste, e la sua lo era, ma neppure puntato davvero l'indice contro i suoi giudici. Si è limitato ad accuse generiche, sostenendo di essere parte di un ingranaggio e interprete di uno spartito corale, una sorta di presidente Arlecchino servo di duecento padroni in toga. Tutto vero, ma non ha fatto nomi e cognomi, e perciò Nordio lo invita a vuotare il sacco «per evitare il perdurare di un'atmosfera di sospetto che continuerà a gravare su tutta la magistratura, che davvero non se lo merita». Non abbiamo nulla da insegnare a Nordio, ma gli confidiamo un sospetto che il suo cuore da procuratore non riesce a suggerirgli. Palamara è spalle al muro ma non si difende, o lo fa poco e male. Dubitiamo per ingenuità. La sua conferenza stampa ricorda il discorso di Craxi in Parlamento, durante Mani Pulite, quando accusò tutti di essere come lui. Anche il leader socialista non fece nomi e cognomi. Non intuì quel che sarebbe successo, forse voleva tenersi una via di fuga o un'arma di ricatto. Così, i 133 testimoni inascoltati di Palamara sono altrettanti proiettili puntati alle tempie dei suoi giudici pronti a sparare.

Le responsabilità - L'ex leader dell'Anm è tutt' altro che uno sprovveduto, altrimenti non sarebbe arrivato a capo dei giudici prima dei 40 anni. Tutti lo conoscevano e l'ex presidente Cossiga ebbe a insultarlo pubblicamente, accusandolo di essere un trafficone. I magistrati lo scelsero come spiccia-faccende e lui onorò l'incarico perfettamente, tanto che a 45 anni fu premiato e nominato membro togato del Csm. Della sua carriera lampo è responsabile tutta la magistratura. Colpa in eligendo e in vigilando, dicono i tecnici: fu scelto e lasciato libero di agire, o più probabilmente agì in armonia con tutti. Ci sono tanti incarichi e altrettante poltrone che un ex magistrato di grido, ancorché radiato, può ricoprire. La testa di Palamara è rotolata sotto la furia giustizialista mediatica, e non poteva andare diversamente. Adesso o l'interessato parla, e allora è davvero finito, ma avrà la soddisfazione di trascinarsi nella fossa i suoi detrattori. Oppure sceglierà di avere una nuova vita, difficilmente come gestore di un chiosco ai Caraibi. In ogni caso, peggio di lui, solo la categoria alla quale apparteneva. La farsa non è certo finita.

Premio Stalin al Csm. Anm è un’associazione di clan incostituzionale, Palamaragate ha scoperchiato sistema corrotto e illegale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Ottobre 2020. Se esistesse ancora il premio Stalin (che temo sia stato abolito nel 1956) l’edizione del 2020 avrebbe un vincitore sicuro: il Csm. Cioè l’organo di autogoverno della magistratura, presieduto dal presidente della Repubblica. Il Csm ha celebrato in un tempo brevissimo, e quindi battendo ogni record di rapidità, il processo disciplinare a Luca Palamara, che in passato è stato uno degli dei della magistratura italiana: lo ha svolto senza accettare i testimoni a difesa, senza prove, fondandosi su pochissime intercettazioni ottenute coi Trojan (sono state accettate solo le intercettazioni illegali), negando ogni diritto della difesa e rifiutandosi di svolgere una inchiesta su ciò che Palamara ha denunciato, e cioè un sistema corrotto che domina la magistratura, ne stabilisce le gerarchie, determina la distribuzione dei poteri e – purtroppo – anche l’esito di molti processi, facendo strame dei diritti degli imputati e dell’esigenza di diritto e verità. Il Csm in fondo è stato abbastanza sincero. Non ha negato che il motivo vero per il quale si è decisa la condanna di Palamara non è tanto quella cenetta alla quale ha partecipato anche l’on.Lotti, e che dunque metteva a repentaglio il principio della separazione tra politica e magistratura (principio che viene violato, ad occhio, un paio di volte al giorno, diciamo dal 1947…); ma è il disdoro che Palamara con la sua condotta e soprattutto con la sua linea di difesa ha gettato sulla magistratura. Cosa ha fatto Palamara? Ha parlato male dei suoi colleghi, ha offerto le prove che centinaia di loro avevano brigato per ottenere scatti di carriera e posti di potere, ha messo in luce un’incredibile commistione di interessi che unisce e condiziona Pm e giudici, spesso protagonisti degli stessi processi, ha mostrato come il potere giudiziario non è nelle mani di una magistratura libera, professionale e indipendente ma di una organizzazione incostituzionale, e cioè l’Anm, che è l’assemblea dei magistrati dominata dalle correnti e che garantisce, in modo persino dichiarato, la non autonomia di Pm e giudici. Questo è quello che il Csm, cioè – diciamo così – la corporazione delle toghe (soprattutto dei Pm) o se vogliamo essere ancora più precisi la “casta delle toghe” non ha potuto accettare e questa è la ragione per la quale ha deciso di espellere con grida di infamia Luca Palamara e di assolvere tutti gli altri. È intervenuto persino il Procuratore generale della Cassazione, nei giorni scorsi, per dire: se i magistrati si autopromuovevano niente di male. Traffico di influenze? Può darsi: ma chiunque capisce – deve aver pensato il Procuratore – che il traffico di influenze non è un reato, è una invenzione della componente forcaiola della magistratura e della politica, e quindi vale per tutti ma non per chi l’ha inventato. Di sicuro non per i magistrati. Ora, chiuso il Palamara-gate è chiusa anche magistratopoli? Diciamo le cose come stanno: magistratopoli, sebbene ignorata dai giornali – perché i giornali sono parte integrante dello scandalo – è il più grande scandalo politico del dopoguerra. La Lockheed era robetta, riguardava al massimo un paio di ministri che oltretutto, probabilmente, erano anche innocenti. Tangentopoli ha coinvolto solo una parte dei politici, e oltretutto lo ha fatto in modo evidentemente persecutorio, visto che l’80 per cento degli indiziati è stato assolto e molti sono stati condannati senza prove. Qui invece parliamo di un gigantesco fenomeno di corruzione – da nessuno negato – che ha stravolto le regole di funzionamento della magistratura, ne ha cancellato l’indipendenza, le ha imposto il giogo di organizzazioni private (lobby, clan, dite come volete: le correnti) e ha reso illegale l’intero sistema giudiziario italiano, probabilmente condizionando e violentando migliaia e migliaia di sentenze, passate, presenti e – al punto in cui sono le cose – anche future. Come fa il Parlamento a non intervenire? La magistratura si è rifiutata di svolgere un’inchiesta su se stessa. Il Parlamento ha il dovere – non l’occasione, dico: il dovere, l’assoluto dovere civico – di istituire una commissione di inchiesta, con tutti i poteri della commissione di inchiesta, per scoprire cosa è successo davvero. La prima cosa da fare, ad esempio, è ascoltare i 130 testimoni che Palamara aveva chiamato al banco e che il Csm ha rifiutato di ascoltare. Non c’è nessuna ragione di dividersi, in questo caso, tra sinistra e destra. La divisione, al massimo, può essere quella tra onesti e disonesti. Onesti senza H questa volta. Perché non è una questione di propaganda alla Casaleggio, ma un vero problema di lealtà alle istituzioni. Chi si dovesse opporre a una commissione di inchiesta sarebbe un traditore della democrazia.

Da "ansa.it" il 19 settembre 2020. Diventa definitiva l'espulsione per gravi violazioni del codice etico di Luca Palamara dall' Associazione nazionale magistrati, di cui è stato presidente negli anni dello scontro più duro con il governo Berlusconi. L'assemblea generale degli iscritti al sindacato delle toghe, riunita a ranghi ridottissimi ( un centinaio i presenti a fronte di 7mila soci) ha confermato il provvedimento del 20 giugno scorso del Comitato direttivo centrale dell' Anm, bocciando il ricorso del pm romano sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e imputato a Perugia per corruzione. Solo 1 voto a favore del ricorso. "L' Anm a cui pensa Luca Palamara "non esiste più e questo è un buon risultato". Così il presidente del sindacato delle toghe Luca Poniz ha concluso gli interventi all'assemblea generale dei magistrati, che si deve pronunciare sul ricorso dell'ex pm romano contro la sua espulsione. Il riferimento è a un'intercettazione in cui Palamara diceva che l'Anm, di cui lui è stato presidente, non conta più nulla. "Se intendeva dire che dopo di lui l' Anm svolge un altro ruolo, non di autocollocazione, sono contento "ha aggiunto Poniz, rivendicando all'attuale gruppo dirigente il fatto di essere intervenuto su questa vicenda "senza reticenze e paura". "Da magistrato e da cittadino che crede profondamente nel valore della giustizia equa ed imparziale ribadisco che le decisioni devono essere rispettate. Con altrettanta forza ribadisco di non aver mai barattato la mia funzione. Auguro buon lavoro all'Anm nell'auspicio che torni ad essere la casa di tutti i magistrati". Così Luca Palamara ha commentato la decisione dell'Anm di espellerlo. Luca Palamara in mattinata è stato ascoltato dall'assemblea dei magistrati iscritti all'Anm sul ricorso che ha presentato contro la sua espulsione dal sindacato delle toghe - di cui è stato presidente- per gravi violazioni del codice etico. Lo ha deciso la stessa assemblea. "La mia funzione non l'ho venduta né a Lotti, nè a Centofanti nè a nessuno", ha precisato dubito il magistrato. "Chiedo di essere giudicato serenamente", ha proseguito, parlando all'assemblea dell'Anm. "Sono qui perchè penso che prima vengano gli interessi di tutti, della magistratura, dei colleghi che mio malgrado sono stati travolti", ha dichiarato assicurando di non aver mai voluto sottrarsi al giudizio dell'Anm e ai processi. "Il confronto con la politica sulle nomine è sempre esistito", ha sottolineato il magistrato intervenendo anche sulla famosa riunione all'Hotel Champagne per la nomina del Procuratore di Roma: "Non era un incontro clandestino", ha detto. "Sono stato travolto e nella fiumana mi sono perso, ma non mi sento di essere stato moralmente indegno", ha assicurato.

Palamara espulso dall’Anm, il pm: “Rispetto la decisione ma torni ad essere la casa di tutti i magistrati”. Redazione su Il Riformista il 19 Settembre 2020. L’Associazione nazionale magistrati conferma l’espulsione del pm Luca Palamara dal sindacato delle toghe, per gravi violazioni etiche. Erano 130 gli accreditati, 113 i votanti, dei quali 111 hanno votato per la conferma dell’espulsione contro cui il pm aveva presentato ricorso. Un voto contrario e una scheda bianca. “Da magistrato e da cittadino che crede profondamente nel valore della giustizia equa ed imparziale ribadisco che le decisioni devono essere rispettate. Con altrettanta forza ribadisco di non aver mai barattato la mia funzione. Auguro buon lavoro all’Anm nell’auspicio che torni ad essere la casa di tutti i magistrati”. Così Luca Palamara ha commentato a caldo la decisione dell’Anm di espellerlo. Palamara, è accusato di aver tramato per screditare l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo, e di aver cercato di influenzare le nomine di alcuni uffici giudiziari, incontrando a maggio del 2019 in un albergo i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque consiglieri del Csm. Il suo ricorso contro la decisione presa a luglio è stato vano, così come le parole di autodifesa che stamane ha rivolto all’assemblea: “Non ho mai venduto la mia funzione, sono stato travolto ma non mi sento moralmente indegno”. È la prima volta, nella storia del sindacato delle toghe, che un magistrato che ne è stato presidente viene espulso. L’assemblea dell’Anm convocata oggi con, al primo punto proprio il ricorso del pm di Roma contro la sua espulsione deliberata dal direttivo nello scorso luglio, ha preso una posizione netta a favore della massima sanzione per Palamara, il quale aveva anche sollecitato di rinviare il voto, in attesa che la disciplinare del Csm, davanti alla quale è sotto procedimento, sciolga la riserva sull’utilizzabilità delle intercettazioni agli atti di Perugia. “Chiedo di essere giudicato serenamente e chiedo a tutti di leggere gli atti”, ha detto all’assemblea, la quale, però, si è subito opposta a qualsiasi slittamento.

Il “siete tutti coinvolti” di Palamara alle toghe dell’Anm che lo hanno espulso. Il Dubbio il 19 settembre 2020. L’Anm conferma l’espulsione di Luca Palamara. Ma lui: “Il confronto con la politica sulle nomine è sempre esistito”. “Il confronto con la politica sulle nomine è sempre esistito”. Sono le ultime parole con cui Luca Palamara ha “salutato” l’Anm. Una sorta di “siete tutti coinvolti” pronunciato poco prima che l’assemblea dell’Anm confermasse la sua espulsione dal sindacato delle toghe. E parlando della famigerata riunione all’hotel Champagne sulla nomina del procuratore di Roma, Palamara ha chiarito: “Gli incontri non erano clandestini e l’hotel Champagne non è un posto per nascondersi né ho mai venduto la mia funzione, né a Lotti, né a Centofanti, né a nessuno”. Insomma, un intervento accorato e per certi aspetti drammatico quello del magistrato al centro del ciclone sul caos procure: “Non mi sono mai sottratto e non mi sottrarrò né dai procedimenti né in tutte le cose in cui sarò chiamato”, ha continuato. “Ma chiedo di essere giudicato serenamente”. “Sono qui – ha aggiunto Palamara – perché penso che prima venga l’interesse di tutti, della magistratura, di recuperare la fiducia dei cittadini, e l’interesse dei colleghi che mio malgrado sono stati travolti”. Palamara ha anche tenuto a ricordare che il Csm non si è ancora pronunciato sulla utilizzabilità o meno delle intercettazioni effettuate nel corso delle indagini delle indagini della Procura di Perugia.

L’Anm conferma l’espulsione di Palamara. L’assemblea dell’Anm ha comunque confermato l’espulsione di Luca Palamara dal sindacato delle toghe: l’assemblea ha quindi respinto il ricorso del magistrato – che dal 2008 al 2012 e’ stato presidente dell’associazione – contro l’espulsione deliberata lo scorso giugno nei suoi confronti dal direttivo Anm in relazione ai fatti emersi dagli atti dell’inchiesta di Perugia. Su 130 accreditati, hanno votato in 113: 111 i voti favorevoli alla conferma dell’espulsione di Palamara e solo uno contrario, mentre una scheda e’ risultata bianca. “Da magistrato e da cittadino che crede profondamente nel valore della giustizia equa ed imparziale ribadisco che le decisioni devono essere rispettate. Con altrettanta forza ribadisco di non aver mai barattato la mia funzione”, ha dichiarato PAlamara dopo il voto di espulsione. “Auguro buon lavoro all’Anm nell’auspicio che torni ad essere la casa di tutti i magistrati”.

Il sollievo di Poniz: l’Anm di Palamara non esiste più. “L’Anm a cui pensa Palamara non esiste piu’: oggi l’Anm non pensa alle carriere ma alla tutela dei colleghi”. Cosi’ Luca Poniz, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ha concluso il dibattito relativo alle dichiarazioni che Luca Palamara ha voluto rivolgere all’assemblea del sindacato delle toghe: “Abbiamo avuto il privilegio di sentirlo e per questo lo ringrazio – ha detto Poniz – ma la sua fuga con telecamere al seguito mi ha impedito di fargli una domanda: cosa intendeva dire quando diceva che voleva mettere paura ai colleghi che si opponevano alla sua domanda? E cosa intendeva dicendo che l’Anm non conta un c.? Se intendeva dire che dopo di lui l’Anm ha svolto un altro ruolo, sono contento – ha concluso Poniz – perche’ e’ un primo, buon risultato”.

Luca Palamara, Filippo Facci: "Cosa c'è dietro all'espulsione", scomoda verità sulla magistratura. Libero Quotidiano il 20 settembre 2020. «Qual è la notizia?», «Hanno espulso Palamara dal sindacato unico, come si chiama, l'Associazione magistrati», «Ma no, figurati, quello si sa, l'espulsione è del 20 giugno», «Ma lui aveva fatto ricorso», «Appunto: ieri l'hanno respinto»; «Chi l'ha respinto?»; «L'assemblea dell'Associazione magistrati», «Ah, capirai», «Forse la notizia è quella che per il suo processo disciplinare, quello al Csm, lui aveva chiesto la convocazione di 133 testimoni ma gliene hanno accettati solo 6», «Ma no, pure quello è sui giornali dell'altro ieri», «E allora qual è la notizia?». La notizia è che le notizie, a forza di diluirle e spezzettarle con aggiornamenti continui, si perdono e vengono a noia: il famoso «quadro d'insieme» va a ramengo. La vera notizia, quindi, è di ieri, di domani, perché è di questo tempo della storia italiana: non ha scadenza. È questa: la magistratura è uno strapotere che non rende conto a nessuno e che non lo farà neanche stavolta; la notizia (di ieri) è che hanno fatto fuori un singolo e indifendibile magistrato per non far esplodere ulteriormente lo scandalo della magistratura italiana; l'hanno fatto fuori dall'Associazione magistrati (sindacato unico, come nelle dittature) di cui lo stesso Palamara è stato il più giovane presidente dal 2008 al 2012 (a 39 anni) e peraltro l'hanno fatto fuori nonostante non sia stato ancora processato: né sotto il grottesco profilo disciplinare (al Csm) né al processo dove è indagato per corruzione (a Perugia) e in cui non è neppure imputato: hanno solo chiesto il rinvio a giudizio. La notizia è che il corporativismo mafioso della magistratura italiana (ripetiamo: mafioso, come metodo, come omertà) è più potente di qualsiasi politica vecchia e nuova, dei prima o seconda o terza Repubblica, perché sotto la giurisdizione della magistratura c'è tutto, al di sopra non c'è nulla. Non viviamo propriamente in una democrazia, e non ci viviamo più da molto tempo: è sufficiente, come notizia? Serve un giorno particolare, per scriverlo?

COSA È ACCADUTO. Poi, se volete, parliamo della puntata di oggi, anche se nessuno di voi - come è giusto - ricorderà tutte le puntate precedenti, annegate nel tempo e nel Covid. Ecco qua: già espulso il 20 giugno, Palamara aveva fatto ricorso e ieri appunto l'hanno respinto. Ha solo ottenuto di essere ascoltato: «Il confronto con la politica sulle nomine è sempre esistito», ha detto, «e ribadisco che le decisioni devono essere rispettate. Ribadisco di non aver mai barattato la mia funzione. Auguro buon lavoro all'Anm nell'auspicio che torni ad essere la casa di tutti i magistrati». Bravo Palamara, che la terra ti sia lieve. Dopodiché l'impresario funebre, pardon, il presidente del sindacato delle toghe, Luca Poniz, ha chiuso gli interventi: «l'Anm a cui pensa Palamara non esiste più, e questo è un buon risultato». Poi ha fatto riferimento a un'intercettazione in cui lo stesso Palamara aveva detto che l'Anm non conta più nulla: «Se intendeva dire che, dopo di lui, l'Anm svolge un altro ruolo, non di autocollocazione, sono contento». L'ha detto senza ridere: ai funerali non sta bene). Palamara a dire il vero aveva detto anche altro, ieri: «Sono stato travolto, ma non sento di essere stato moralmente indegno. Fino al 2008 ho fatto lo scribacchino di atti, poi la mia posizione nella vita politico-associativa mi ha dato un altro ruolo. Ho vissuto un'altra vita, una vita di rappresentanza, se ho fatto bene o male non posso dirlo io».

IL MEDIATORE. Riassunto delle puntate precedenti: tra il 2019 e il 2020 si è lentamente saputo del ruolo di mediatore tra correnti della magistratura che Palamara orchestrava, dei metodi di assegnazione nell'assegnazione di incarichi di rilievo (tipo procuratore capo) e durante un'intervista spiegò testualmente: «Non ho inventato io le correnti. Essere identificato come male assoluto può fare comodo a qualcuno. Io mediavo tra le singole correnti dell'Anm. Non esisteva solo un Palamara, esistevano tanti mediatori. Mi chiamavano tantissime persone, avevo una funzione di rappresentanza, ero diventato una figura di riferimento tutti erano frutto di un accordo». E ancora: «I posti di procuratore capo sono posti di potere, è vero che il sistema delle correnti penalizza chi non vi appartiene: negare che le correnti siano una scorciatoia è una bugia Il politico dall'esterno non può incidere sui magistrati, ma questo sistema favorisce una commistione». Tutte cose che in realtà avevamo già capito grazie alle intercettazioni del suo telefono col famoso sistema Trojan. Ma è lo scenario della magistratura di potere a essersi rivelato un troiaio, al punto che le inchieste hanno scosso anche il Csm e portato alle dimissioni di diversi consiglieri coinvolti. Poi c'è pure che Palamara è stato indagato perché avrebbe messo a disposizione il suo ruolo in cambio di viaggi e regali, ma tutto sommato è la parte che ci interessa meno. Dall'inchiesta viene fuori di tutto sul cuore della magistratura intesa come terzo potere che mette in ombra gli altri due, di tutto sui giornali trattati come cani da diporto: ed è stata pubblicata solo una parte delle intercettazioni. È tutta la magistratura che sembrava andare sotto processo, e che lo dovrebbe. Tutto un sistema bacato e irriformato. Ma la Sezione disciplinare del Csm, al processo-farsa che attende Palamara, ha ammesso solo 6 testi. Si profila la radiazione dell'ordine giudiziario, poi avanti tutti come prima. Cacciato un Palamara se ne fa un altro.

Processo solo a Palamara o ai traffici sulle nomine? Il Csm rinvia la decisione. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 20 settembre 2020. Momenti di grande tensione ieri mattina a Palazzo dei Marescialli nel processo disciplinare a carico di Luca Palamara. L’udienza era dedicata all’ammissione delle prove documentali e per testi. Questo procedimento, come noto, si basa quasi esclusivamente sul contenuto delle intercettazioni effettuate con il trojan da parte del Gico nell’ambito dell’indagine della Procura di Perugia per corruzione a carico dell’ex presidente dell’Anm. Punto nodale è la conversazione fra Palamara, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque consiglieri del Csm avvenuta la sera del 9 maggio del 2019 all’hotel Champagne di Roma, e avente a oggetto le nomine di importanti uffici giudiziari. Fra le accuse a Palamara, quella di avere “condizionato” le scelte dell’organo di autogoverno della magistratura. Il consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi, difensore del pm romano, ha articolato il proprio intervento contestando l’utilizzabilità delle risultanze di tale attività intercettiva. Fra i motivi in punto di diritto, la mancata indicazione del luogo di svolgimento dell’attività criminosa, prevista per i reati contro la Pa, la mancata indicazione, nel decreto autorizzativo del gip di Perugia, della programmazione delle registrazioni da effettuare, l’insussistenza delle ragioni di urgenza e l’utilizzazione di impianti esterni a quelli della Procura. Guizzi ha poi definito illecite le captazioni effettuate quando erano presenti con Palamara dei parlamentari. Non si sarebbe trattato di incontri “occasionali” ma programmati per tempo, e per i quali era necessaria l’autorizzazione del Parlamento. La Procura generale della Cassazione si è opposta. Il collegio, invece, si è riservato di decidere sull’utilizzabilità delle intercettazioni. Nel frattempo è stata disposta la loro trascrizione. Al riguardo, poi, lunedì prossimo il Tribunale di Perugia dovrà pronunciarsi sia in relazione alle modalità di utilizzo del trojan, sia per l’avvenuta intercettazione di parlamentari senza autorizzazione della Camera. Se tali intercettazioni dovessero venire dichiarate inutilizzabili, tale inutilizzabilità, ha spiegato Guizzi, sarebbe "erga omnes", quindi non solo per Ferri e Palamara ma anche per i cinque ex togati del Csm sotto procedimento disciplinare. Sul fronte dei testimoni la difesa di Palamara aveva chiesto che fossero ammessi in 133. Si trattava di politici, alti magistrati, capi di correnti della magistratura. Lo scopo era quello di dimostrare che l’interlocuzione fra politici e magistrati in tema di nomine dei vertici degli uffici è sempre esistita. Le nomine sono atti “politici” ha ricordato Guizzi e dovrebbero essere “sottratte” al giudice amministrativo. Di diverso avviso il collegio ( presieduto dal laico indicato dal M5S Fulvio Gigliotti) secondo il quale le contestazioni riguardano solo cosa accadde durante l’incontro di maggio, col tentativo di Palamara di screditare l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Il collegio ha ammesso solo i finanzieri del Gico che effettuarono gli ascolti, “riservandosi” di valutare l’ammissione di altri testimoni. Un segno, forse, della presenza di vedute non del tutto convergenti all’interno della sezione disciplinare. Dallo scioglimento della riserva discenderà anche il carattere del procedimento disciplinare a Palamara: mero accertamento delle responsabilità legate alla cena dell’hotel Champagne o valutazione commisurata sulle prassi generalmente adottate in quella e in precedenti consiliature del Csm? La sentenza è prevista per il 16 ottobre, ma prima si dovrà capire lungo quale percorso il collegio intenda arrivarci. Sempre la sezione disciplinare ha assolto due giorni fa, per “scarsa rilevanza del fatto”, Doris Lo Moro, magistrata fuori ruolo in servizio presso il ministero della Giustizia ed ex senatrice pd. Lo Moro aveva partecipato “sistematicamente e con continuità” all’attività del partito, “in particolare come componente dell’Assemblea nazionale”.

La difesa: "Intercettazioni inutilizzabili". Processo Palamara, la "tagliola" della sezione disciplinare del Csm: ammessi solo 6 testimoni su 133. Redazione su Il Riformista il 18 Settembre 2020. Sono solamente sei i testimoni ammessi per ora dalla Sezione disciplinare del Csm al processo disciplinare nei confronti dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. I sei testi, che saranno sentiti nella prossima udienza convocata il 23 settembre, sono tutti appartenenti alla polizia giudiziaria. Tra questi c’è il generale della Gdf Gerardo Mastrodomenico, e poi Fabio Del Prete, Fabio Di Bella, Roberto Dacunto, Gianluca Burattini e Duilio Bianchi. La gran parte erano stati chiesti dalla difesa, due dalla procura generale della Cassazione. Come ampiamente previsto, la procura generale della Cassazione aveva chiesto di respingere quasi in blocco i 133 testi che aveva presentato la difesa di Luca Palamara. Secondo la procura generale i 133 testimoni erano ‘’inammissibili’’ perché “non pertinenti né rilevanti” rispetto ai fatti contestati: la difesa di Palamara aveva chiesto di ascoltare politici, ministri, ex vice presidenti del Csm, capi delle correnti della magistratura, procuratori. E poi i consiglieri del Quirinale Stefano Erbani e Francesco Saverio Garofani. Oltre al segretario generale del Csm Paola Pieraccini che Palamara aveva chiamato a rispondere sulle fughe di notizie avvenute lo scorso anno a proposito dell’indagine di Perugia. Nella lista figurava anche Piercamillo Davigo. Nell’udienza tenuta questa mattina la procura generale, rappresentata dal sostituto pg Simone Perrelli e dall’avvocato generale Pietro Gaeta, aveva chiesto di ammettere solo cinque rappresentanti della polizia giudiziaria: il generale del Gico della Guardia di Finanza Gerardo Mastrodomenico, il maresciallo Roberto Dacunto, e altri tre. Sulla "tagliola" dei testimoni il difensore di Palamara, Stefano Guizzi, aveva sottolineato di poter rinunciare solo ai cinque ex consiglieri del Csm e non agli altri perché Palamara rischia la “sanzione massima”. L’avvocato aveva rimarcato in particolare la necessità di ascoltare il vice presidente del Csm Davide Ermini e i consiglieri Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. Il legale dell’ex presidente dell’Anm ha precisato di non voler fare del processo la “Norimberga della magistratura, né lanciare nessun j’ accuse, ma capire le dinamiche del Csm. Se si accusa Palamara di trame occulte, bisogna capire se le procedure che portano alla nomina del vice presidente passano attraverso interlocuzioni solo tra consiglieri o anche con i cosiddetti capi correnti”. La difesa dell’ex pm di Roma, sospeso da oltre un anno, ha chiesto quindi l’inutilizzabilità delle intercettazioni contenute tra gli atti dell’inchiesta di Perugia. Il difensore di Palamara, l’avvocato Stefano Guizzi, ha ricordato infatti che lunedì prossimo il tribunale di Perugia dovrà pronunciarsi sulle trascrizioni, sia per le modalità di utilizzo del trojan che per l’intercettazione del deputato di Italia Viva Cosimo Ferri, senza l’autorizzazione della Camera. Per l’ex pm di Roma si annuncia un processo lampo: la sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli ha anche stravolto il calendario che era stato comunicato a luglio e che prevedeva udienze almeno fino alla fine dell’anno. Il nuovo calendario, comunicato martedì scorso, prevede udienze per le prossime tre settimane e la sentenza il 16 ottobre. Per quanto riguarda l’esito invece, la radiazione dell’ordine giudiziario è ormai quasi certa. La Procura generale è intenzionata a chiedere il massimo della pena.

Caso Palamara, tutte valide le intercettazioni. Via libera dal gip di Perugia. Saranno integralmente trascritte, anche quelle tra l'ex componente del Csm e i parlamentari Lotti e Ferri. Liana Milella il 21 settembre 2020 su La Repubblica. Con una lunghissima ordinanza, il gip di Perugia Lidia Brutti ha ammesso tutte le oltre 200 intercettazioni del caso Palamara e ne ha ordinato l’integrale trascrizione. Una decisione che va certamente incontro alla linea della procura, retta da Raffaele Cantone, che con i sostituti Gemma Milani e Mario Formisano era presente all’udienza stralcio in corso da luglio. Il via libera di fatto conferma la legittimità delle stesse intercettazioni, comprese quelle realizzate a maggio 2019 tramite un Trojan, un virus inoculato direttamente nel cellulare dell’ex pm ed ex componente del Csm Luca Palamara. Che da luglio è ufficialmente imputato di corruzione per una decina di viaggi effettuati in 5 anni per un importo di 6.900 euro riconducibili all’imprenditore Fabrizio Centofanti e per la ristrutturazione di una veranda a casa di una sua amica. È caduta invece l’accusa più grave di corruzione relativa a 40mila euro che l’ex pm avrebbe ricevuto per una nomina. Ma la decisione soddisfa in parte anche lo stesso Palamara che con il suo collegio di difesa aveva chiesto la trascrizione di un centinaio di ascolti ritenendone lacunosa la versione fornita dalla Gdf, mentre la procura ne aveva chiesti altrettanti. Per la nuova trascrizione sono stati nominati dal gip due commissari della polizia scientifica di Roma, per cui  le operazioni si svolgeranno nella Capitale. Benedetto Buratti, il difensore di Palamara, si è riservato di nominare a sua volta un proprio perito di parte. Le operazioni cominceranno il 2 ottobre e gli esperti avranno 90 giorni per completare il loro incarico. Il 25 novembre comincerà l’udienza preliminare. La decisione del gip Brutti però boccia la linea di Palamara della illiceità delle trascrizioni delle intercettazioni con i parlamentari Luca Lotti del Pd e Cosimo Maria Ferri di Italia viva, in quanto, secondo l’ex presidente dell’Anm appena espulso definitivamente dal sindacato dei giudici, il pm di Perugia aveva scritto alla polizia giudiziaria di interrompere le registrazioni qualora fossero presenti dei parlamentari. Ma questo non avvenne l’8 maggio 2019, quando ci fu l’incontro all’hotel Champagne di Roma tra Palamara, Lotti, Ferri e cinque consiglieri del Csm attualmente in carica per pilotare la scelta del nuovo procuratore di Roma. Palamara, proprio per quegli ascolti, è sotto processo disciplinare al Csm, dove ha ugualmente contestato la regolarità e ammissibilità delle intercettazioni. Ma il gip Brutti, a Perugia, ha ritenuto che quell'incontro con la presenza dei parlamentari non fosse prevedibile e di conseguenza il captatore non potesse essere spento. Quindi le intercettazioni rappresentano una prova e possono essere trascritte. In settimana prosegue il processo disciplinare al Csm dove, dei 133 testi richiesti da Palamara, ne sono stati ammessi solo sei, tra cui gli stessi ufficiali della Gdf che hanno lavorato al processo. La tabella di marcia delle udienze è molto accelerata e la decisione potrebbe arrivare prima del 20 ottobre, quando Piercamillo Davigo, uno dei giudici della Disciplinare, compie 70 anni. E quindi come magistrato va in pensione. È aperta la questione della sua possibilità di restare componente togato. La commissione per la verifica dei titoli ha chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato. Ma, per evitare possibili contestazioni su un’eventuale decisione negativa su Davigo, la sezione disciplinare vuole andare al verdetto prima del suo pensionamento. 

Intercettazioni in pasto ai media. Da Palamara a Suarez: Raffaele Cantone e il protagonismo della Procura di Perugia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Settembre 2020. Arriva Cantone e la Procura di Perugia diventa caput mundi. Arriva Cantone e d’un colpo si comincia a intercettare tutto e tutti. E a pubblicare. Arriva Cantone e improvvisamente, nel Paese in cui pochi ormai, persino i giornalisti e gli scrittori, conoscono bene la lingua italiana, tutti si fanno maestri e censori perché un ragazzo uruguayano ben pagato per tirare calci al pallone pretende la cittadinanza pur sbagliando i congiuntivi. Arriva Cantone e si sveglia anche la dormiente Federcalcio per non essere da meno. Insomma, Mister Cantone, I suppose. L’uomo che ha sbaragliato (scavalcato, secondo due ricorrenti) pubblici ministeri con molti più anni di carriera nelle funzioni requirenti per conquistare il vertice della procura della repubblica di Perugia, mettendole addosso riflettori degni di illuminare il Palazzo dell’Anticorruzione da lui presieduta fino a poco tempo fa. L’uomo che eredita una banale inchiesta sull’Università per stranieri con beghe tra rettori, tra bilanci passati e presenti, e la trasforma in un evento mediatico di livello planetario. Scandalo! L’attaccante del Barcellona, l’uruguayano Luis Suarez sarebbe stato favorito con una speciale sessione d’esame e risposte a domande preconfezionate per superare l’interrogazione di lingua italiana, necessaria per poter avere la cittadinanza. Siamo alla vigilia di un ingaggio da parte della Juve, la quale ha in seno già due giocatori stranieri e non può averne tre. C’è dunque fretta di questo esame, di questo risultato positivo, di questo timbro per far diventare Suarez cittadino italiano. Si mobilitano in tanti per aiutarlo, ma i tempi sono stretti e la Juve alla fine rinuncia. Ma intanto…Una valanga di intercettazioni si riversa sui giornali, nelle tv e sui social. È questa è la seconda novità, dopo quella di un nuovo vertice di procura già illuminato dalle telecamere prima ancora che abbia preso servizio. La novità è che gli uffici giudiziari di Perugia, già sopraffatti dall’inchiesta penale che vede imputato il magistrato Luca Palamara, si trova all’improvviso a dover godere (o subire) un nuovo protagonismo. Con la guardia di finanza a registrare e la solita manina a diffondere le solite frasi spezzettate e poi abilmente ricucite che gridano a gran voce la colpevolezza di tutti gli indagati all’interno dell’università. Non solo per abuso d’ufficio, ma addirittura per corruzione. E chi sarebbero i corruttori? I dirigenti della Juventus, a occhio. Ma non pare siano indagati. Così come pare non lo sia lo stesso Suarez. Sempre a occhio, questa della corruzione pare poco credibile. Mazzette per fingere che il calciatore coniughi bene i congiuntivi? O le famose “altre utilità”, quelle che vengono contestate ai politici, magari sotto forma di biglietti omaggio in tribuna per qualche partita? Qui si corre il rischio che non ci si trovi davanti a un “esame farsa” come leggiamo da tutte le parti, ma a un’inchiesta-farsa. Non è che per caso lei, dottor Cantone, vede corruzione ovunque? Così come di una grande farsa pare tutta questa leggenda dei cittadini stranieri che devono dimostrare di conoscere bene la nostra lingua. Ora, l’italiano è una lingua meravigliosa, è la quarta tra quelle più studiate nel mondo, ha dato la parola a poeti e scrittori, è nell’olimpo della storia. Ci sono istituti prestigiosi, come l’Accademia della crusca, che hanno il compito di preservarla e valorizzarla. A volte hanno qualche cedimento, come su quel “se stesso” ormai ovunque scritto con l’accento, ma tengono il punto con onore. Il problema è però che ormai tanti nostri giovani non conoscono più la nostra lingua. Qualcuno dice che è colpa degli insegnanti ex sessantottini, altri criminalizzano i genitori che non si occupano dei bambini, non parlano loro e li abbandonano davanti al televisore o all’Ipad. Altri ancora ce l’hanno con il linguaggio da smartphone, con tutti quei K al posto del CH e la X invece del per. Sarà. Resta il fatto che ormai gli unici da cui pretendiamo che conoscano bene la lingua italiana sono i nostri ospiti stranieri. Matteo Salvini, quando era ministro dell’interno, ha inserito in uno dei suoi decreti l’obbligo della conoscenza della lingua italiana per poter ottenere la cittadinanza. Penso che abbia fatto bene. Saper parlare come parlano gli altri nel Paese in cui vai a vivere e saper farti capire, è la prima forma di integrazione. È la comunicazione, la rottura dell’isolamento. Ma non deve diventare un’ossessione. Conosco, anche molto da vicino, persone che sono in Italia da vent’anni, o anche trenta, perfettamente inserite e che mai vorrebbero vivere altrove, ma che per loro fortuna hanno avuto la cittadinanza prima dei decreti Salvini. Non perché non conoscano la lingua italiana o non la sappiano parlare. Ma perché, pur cavandosela benissimo rispetto alle loro esigenze e al tipo di lavoro che svolgono, magari avrebbero qualche difficoltà davanti a una commissione d’esame. Se Luis Suarez è stato agevolato nel sostenere il suo esame, lo vedremo. Da lui tutto sommato ci si sarebbe aspettato, nel caso in cui l’ingaggio con la Juventus fosse andato a buon fine, che tirasse bene in porta, pur non sottovalutando il fatto che anche i calciatori non li vorremmo analfabeti. Ma considerando anche che la richiesta di cittadinanza italiana da parte di qualcuno che può dar lustro al nostro calcio, come anche, e meglio ancora, alla nostra architettura, alla nostra musica, alla nostra arte, per noi dovrebbe essere un onore. E non un gesto da ripagare con le inchieste giudiziarie e la pubblicità negativa. Indaghi pure quindi, in osservanza al principio dell’obbligatorietà, dottor Cantone, sul fatto che qualcuno può aver dato una mano a un grande calciatore facendogli pissi pissi nell’ orecchio per suggerirgli le risposte giuste. Ma si ricordi che non tutto è reato, non tutto è corruzione. E lei, signor Luis Suarez, anche se ormai ha superato l’esame, la studi la lingua italiana. È bellissima.

Estratto dell'articolo di Antonello Massari per “il Fatto quotidiano” il 27 settembre 2020. Chi comanda davvero nella Procura di Perugia? […] Partiamo dalle dichiarazioni del procuratore capo Raffaele Cantone […] Le "ripetute fughe di notizie". "Sono indignato per quanto successo finora", dichiara Cantone, "faremo in modo che tutto questo non accada più. Le indagini saranno riprogrammate in modo da garantire la doverosa riservatezza". […] La riservatezza […] investe gli unici due attori sulla scena dell'inchiesta: la Procura (Cantone stesso, i pm titolari dell'indagine, il giudice delle indagini preliminari) e la polizia giudiziaria delegata per le indagini (la Guardia di Finanza, partendo dal Nucleo di polizia economico finanziaria di Perugia per arrivare, salendo la scala gerarchica, fino al Comando generale). Ne discende che le fughe di notizie possono partire o dalla Procura o dalla Gdf. […] a chi si riferisce? […] Cantone ha […] scelto di comunicare questa posizione all'esterno del suo ufficio. Segno che, proprio all'esterno […] ha individuato l'origine delle soffiate. […] Danneggiano […] l'immagine di Cantone e la credibilità della sua leadership in Procura. Dove peraltro s' è insediato neanche 90 giorni fa. La prova s' è avuta leggendo i giornali di ieri. Ventiquattro ore dopo le sue dichiarazioni […] Cantone s' è ritrovato su più di un giornale altre due o tre frasi virgolettate, prese da un'informativa riservata, […] che molto spiegano sullo scontro in atto: […] qualcuno ha ignorato l'aut aut di Cantone. […] chi comanda a Perugia? A meno di tre mesi dal suo insediamento, per Cantone, quella sull'esame di Suarez, è la prima inchiesta di impatto nazionale. E, proprio alla sua prima inchiesta, si vede costretto a inseguire le fughe di notizie. […] Sulla sua scrivania, peraltro, non c'è soltanto l'inchiesta sull'esame di Suarez. Basti pensare al futuro processo […] per corruzione a Luca Palamara. Aggiungiamo che ha ottenuto la trascrizione della mole di intercettazioni effettuate dal Gico della Gdf di Roma (anche e soprattutto attraverso il trojan che registrava Palamara) che potrebbero riservare più di una sorpresa. […] Forse la domanda giusta non è chi comanda a Perugia. Il punto è un altro: qualcuno, in possesso di notizie riservate, fuori dalla Procura, vuole indebolirlo pubblicamente. Chissà perché.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 26 settembre 2020. L'inchiesta più mediatica del momento, quella sull'esame di lingua italiana del bomber Luis Suarez, suscita qualche perplessità anche in chi juventino non è. Innanzitutto, come capita spesso, gli avvocati difensori hanno letto alcune intercettazioni ancora coperte da segreto sul quotidiano che da mesi fa da ufficio propaganda della Procura di Perugia per il caso Palamara. Anche le firme sono le stesse e questo un po' immalinconisce. Ma la cosa sembra non aver intristito noi soli. Ieri pomeriggio, il neo procuratore Raffaele Cantone, «indignato per quanto successo finora», ha improvvisamente annunciato, via agenzia, di aver deciso di «bloccare da oggi a tempo indeterminato tutte le attività investigative () per le ripetute violazioni del segreto istruttorio», e di voler aprire presto un fascicolo «per accertare eventuali responsabilità». Una cosa mai audita: indagini fermate per l'incapacità di proteggerne la segretezza. Dopo un'ora e mezza è arrivata, però, la seguente precisazione: «Le indagini in corso "saranno tutte riprogrammate in modo da garantire la doverosa riservatezza"». Quindi il procuratore ha fatto sapere che l'inchiesta «riprenderà nei prossimi giorni con tutti gli accertamenti ritenuti necessari dagli inquirenti per chiarire la vicenda». Insomma il «blocco a tempo indeterminato» è durato lo spazio di 45 minuti. Alle 19 e 04 l'ultimo monito attribuito a un Cantone in versione a metà tra Jacques de La Palice e Vujadin Boskov: «Atti devono diventare pubblici solo quando previsto dalla legge». Il procuratore è assurto all'aspirato soglio sull'onda dell'inchiesta Palamara. Dalle intercettazioni infatti emergeva che il pm indagato per corruzione non nutrisse grande simpatia per l'ex presidente (in quota Renzi) dell'Autorità anticorruzione o per lo meno che avesse in mente altri candidati per l'ambita poltrona. Alla fine il posto lo ha ottenuto lui, nonostante non facesse l'inquirente dal 2005 e avesse, a dire dei suoi avversari e dei consiglieri del Csm che non lo hanno votato, meno titoli dei suoi competitori. Che in effetti hanno fatto ricorso al Tar. Uno di questi è il procuratore aggiunto di Salerno Luca Masini (sconfitto lo scorso 17 giugno con un combattuto 12 a 8), il quale contesta ai consiglieri di aver scelto Cantone per il suo ruolo nell'Autorità anticorruzione, nonostante si tratti «di un'attività estranea all'esercizio della giurisdizione» e di non aver tenuto conto della sua esperienza sul campo. Ma ha fatto ricorso anche Gaetano Paci, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, neppure preso in considerazione dalla competente quinta commissione del Csm. Quella di Paci, si legge nel ricorso presentato dal magistrato di origine palermitana, è una esclusione «illogica» e «contraddittoria», in «violazione» della normativa. La stessa commissione, infatti, elogia il profilo professionale di Paci, «prevalente» rispetto a Cantone per esperienze organizzative esercitate in ambito giudiziario. Paci è stato a capo della Dda di Reggio Calabria, mentre Cantone non ha mai esercitato questa funzione nei suoi 15 anni da pm. Dopo è passato al Massimario della Cassazione e all'Anac. «Le ragioni addotte dalla Commissione» per preferire Cantone «si fondano sul servizio prestato dal vincitore quale presidente di un organo di nomina politica, l'Anac» sostengono i difensori di Paci. Cantone è un grandissimo tifoso del Napoli e anche se in passato parlò di «caccia alle streghe alla Juve» e disse che il problema dell'Italia non poteva essere «la curva della Juve», resta indimenticabile una prima pagina del Corriere dello sport con le sue dichiarazioni da ultrà, dopo che al Napoli era stato squalificato per tre giornate il bomber Gonzalo Higuain: «Devono ridarci Higuain» si leggeva in prima pagina tra virgolette. E poi: «Cantone critica il giudice sportivo: "Meritava al massimo due turni. Un altro regalo alla Juve"». Sarà per questo che ieri mattina non tutti si sono stupiti nel vedere gli avvocati della Juventus Luigi Chiappero, uno dei più noti e stimati penalisti italiani, la sua collaboratrice Maria Turco, e l'amministrativista Brunella De Blasio, sfilare tra due ali di giornalisti, prima di entrare in Procura per essere ascoltati come testimoni. Il viso tirato e contrariato di Chiappero era più eloquente di una conferenza stampa. È chiaro che i difensori potessero essere sentiti, non diciamo a Torino o a Roma, ma, per esempio, in una caserma della Guardia di finanza. Un riguardo istituzionale che spesso si riserva ai politici, ma che gli inquirenti, evidentemente, non hanno ritenuto di concedere ai tre legali. Offrendo ai media l'imperdibile foto opportunity di Chiappero davanti alla Procura. Dopo qualche ora, il procuratore Cantone si è però affrettato a stigmatizzare «l'assembramento dei mezzi d'informazione» e ha promesso di fare «in modo che tutto questo non accada più». Resta lo scivolone che potrebbe concedere degli alibi a chi, nel mondo juventino, intravede nuvolette di fumus persecutionis, dopo l'inchiesta sull'infiltrazione della 'ndrangheta dentro alla curva bianconera. Una sindrome da fortino assediato che si aggrava in chi ricorda che il viceprocuratore federale della Federcalcio che potrebbe prendere in mano il fascicolo perugino è quel Marco Di Lello, che da deputato portò in commissione antimafia, dove era segretario, un'intercettazione «fantasma» sulla Juventus, in cui Andrea Agnelli mostrava di essere a conoscenza dei precedenti penali di alcuni tifosi. Ma, come detto, la conversazione segnalata da Di Lello non emerse dagli atti dell'inchiesta. Agnelli fece questo durissimo comunicato: «C'è stata sicuramente qualche irregolarità nella vendita dei biglietti, ma in questi due anni abbiamo assistito a uno spettacolo molto spiacevole, fatto anche da un'indagine della commissione Antimafia nella quale si citano intercettazioni che i fatti hanno dimostrato essere inesistenti. E abbiamo assistito alla scena, ai limiti se non oltre il conflitto di interessi, dei fratelli Di Lello (Massimo e Marco, ndr), entrambi avvocati nello stesso studio legale che porta il loro nome, con uno dei due fratelli che firma la relazione di indagini della procura federale sulla Juventus e l'altro, allora deputato, che fa il relatore del pur meritorio comitato Mafia e sport della commissione Antimafia». Di Lello minacciò querela. C'è infine il caso del pm Paolo Abbritti, titolare del fascicolo insieme con Gianpaolo Mocetti, che ci collega direttamente al caso Palamara. Infatti come abbiamo già scritto sulla Verità, l'ex presidente dell'Anm considerava Abbritti il suo cocco («È un ragazzetto proprio nostro, fidato»). Palamara ha chiesto di poter utilizzare nei procedimenti che pendono sulla sua testa i messaggi scambiati con Abbritti su Telegram, chat criptata.In particolare quelli con cui veniva pressato per allontanare da Perugia il procuratore aggiunto Antonella Duchini, accusata di corruzione. All'epoca Palamara sapeva già di essere sotto indagine in Umbria e si riteneva incompatibile. In un'intercettazione ambientale aveva riferito a un amico che Abbritti, «una volta», avrebbe ammesso: «Sì, è arrivata questa cosa, non so di che si tratta però». Ma c'è una conversazione in cui Palamara fa anche capire di aver avuto informazioni precise sulle contestazioni che lo riguardavano: «E Abritti, permettimi di dirtelo, è un pezzo di merda, (inc. le) che mi ha detto, ah ma tu non mi hai detto che hai fatto il viaggio a Dubai? Ah Paolo ma che cazzo ti devo dire? quello che faccio a te lo devo dire? ma che cazzo vuoi?». Infine Palamara ha citato, pure, un altro colloquio che avrebbe avuto con il pm perugino: «Paolo, guarda che se c'è qualcosa, io non posso fare questo processo alla Duchini». E la risposta sarebbe stata questa: «No, tu fallo tranquillamente, non c'è niente, non c'è niente». Alla fine della conversazione Palamara si era detto pronto a scrivere un memoriale con cui «vanno a fini' tutti in galera», avendo come prova «i messaggi di Paolo qua». Quelli di Telegram, dove Abbritti, all'epoca molto vicino al procuratore Luigi De Ficchy, chiedeva informazioni, anche a nome del capo, sul procedimento contro la collega Duchini. Il 27 luglio 2018 Abbritti scrive su Telegram a Palamara: «Firenze (che indaga sulla Duchini, ndr) ci chiede se entro lunedì verrà sciolta la riserva sul cautelare (da parte del Csm, ndr). Devono decidere se impugnare ordinanza gip». Nel capoluogo toscano il giudice aveva respinto la richiesta di misura cautelare interdittiva nei confronti della Duchini. Palamara risponde: «Relatore deve depositare provvedimento perché lo sta scrivendo appena deposita ti avverto. Un abbraccio». Abbritti: «Grazie mille ti abbraccio forte». Il 3 agosto arrivano le buone notizie. A mezzogiorno Palamara invia questo messaggio: «Aggiorna il tuo capo». Abbritti: «Ha depositato?». Palamara: «Sì». Abbritti: «Trasferimento ad Ancona? Si può avere?». Passano dieci minuti e il sostituto procuratore umbro comunica: «Avvisato il capo. Molto contento. Ti ringrazia. Un abbraccio forte». Dopo alcune nomine e prima che venisse depositata la decisione sulla Duchini, Abbritti aveva scritto a Palamara anche questo sms: «Intanto ti ringrazio per questo. So che avevi tante pressioni». Adesso le pressioni rischia di averle Abbritti: un fascicolo come quello sulla Juve non capita sul tavolo tutti i giorni.

Il Palamaragate e il processo. Il trojan è illegale, ma fa niente: acquisite intercettazioni dell’incontro Palamara-Lotti. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Settembre 2020. Il giorno del Gico al Csm è arrivato. Saranno sentiti oggi pomeriggio a Palazzo dei Marescialli i finanzieri che hanno condotto, su delega della Procura di Perugia, le indagini nei confronti dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Si tratta degli unici testimoni ammessi dalla Sezione disciplinare che, la scorsa settimana, ha cassato con un tratto di penna gli altri 127 testimoni richiesti dalla difesa di Palamara. Il drappello delle fiamme gialle sarà comandato dal colonnello Gerardo Mastrodomenico, attuale comandante provinciale di Messina. Mastrodomenico era, fino allo scorso anno, il comandante della seconda sezione del Gico di Roma. Ufficiale da sempre di strettissima fiducia del “Pigna”, alias Giuseppe Pignatone, come disse una volta Palamara a Luca Lotti, fu colui che firmò l’informativa della svolta nell’indagine di Perugia, spostando il tiro sul sistema delle nomine a piazza Indipendenza. In particolare, è stato Mastrodomenico ad evidenziare nell’informativa il ruolo di Palamara come top player nell’attribuzione degli incarichi. Ed è stato sempre lui quello che “attenzionò” i rapporti fra il magistrato romano e il collega Cosimo Ferri, deputato di Italia viva, ex Pd, e leader storico della corrente di destra, Magistratura indipendente. Nell’informativa indirizzata ai pm umbri Mario Formisano e Gemma Miliani, Mastrodomenico evidenzia che le captazioni effettuate sul telefono di Palamara hanno consentito di rilevare che l’ex presidente dell’Anm fosse «effettivamente in grado di gestire ed orientare i voti espressi dai magistrati appartenenti all’associazione Unicost che di altre associazioni di magistrati». I rapporti fra Palamara e Ferri durante il periodo di “monitoraggio” sarebbero stati caratterizzati da non ben definiti “elementi di opacità”. Nell’ informativa, infatti, non è ben evidenziato in che cosa consista tale “opacità”. A supporto delle sue affermazioni, Mastrodomenico produce il resoconto dettagliato di un servizio di “ocp” (osservazione, controllo e pedinamento) effettuato da una squadra di quattro finanzieri nei confronti dei due magistrati in occasione di una cena, avvenuta il 10 aprile del 2019, al prestigioso ristorante di pesce della Capitale, Il San Lorenzo. L’evento conviviale venne organizzato dal notaio Biagio Ciampini di Teramo. Fra i partecipanti, oltre a Palamara e Ferri, l’ex vice presidente del Csm Giovanni Legnini, il magistrato della Corte dei Conti Andrea Baldanza, attuale vice capo di gabinetto del Mef, l’ex consigliera del Csm Paola Balducci. Tutti immortalati nel dossier fotografico prodotto dai finanzieri appostati con i teleobiettivi nella centralissima via dei Chiavari. Ascoltato Mastrodomenico, sarà il turno dei marescialli Roberto Dacunto, Gianluca Burattini e dell’appuntato Fabio Del Prete. Erano loro quelli che accendevano e spegnevano il trojan. La difesa di Palamara, rappresentata dal consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi, punterà a dimostrare che gli incontri fra i due magistrati non erano mai casuali ma sempre programmati per tempo. Non essendoci quindi “casualità”, l’intercettazione con il trojan non poteva essere effettuata in ossequio alle prerogative di Ferri in quanto parlamentare. Era stata la stessa pm Gemma Miliani ad ordinare con una nota formale al capo del Gico di spegnere il trojan quando Palamara si fosse trovato con dei parlamentari. Nota che invece venne disattesa. La prevedibile risposta dei finanzieri sarà che questi ascolti venivano effettuati “a posteriori” e non nell’immediatezza dell’ascolto. Quindi, ad esempio, dell’incontro con Palamara, Ferri e Lotti all’hotel Champagne, che poi determinò il terremoto al Csm, i finanzieri si sarebbero accorti solo “a cose fatte”. A smentire tale tesi, i messaggi che Palamara e Ferri si scambiavano per fissare i loro appuntamenti. Le attività di ascolto non vennero effettuate, come prevede la norma, presso la sala ascolto della Procura, ma, dopo aver remotizzato gli apparati, direttamente presso la sede del Gico di Roma in via Talli. Un aspetto evidenziato da Guizzi e sul quale i finanzieri, che chiesero di essere autorizzati dai pm umbri, dovranno fornire spiegazioni.

Palamara, altro giallo: quelle anomalie sul trojan che potrebbero far crollare tutto. Errico Novi su Il Dubbio il 29 settembre 2020. I giudici dovranno decidere se il trojan è stato usato, come si adombra nella relazione, in modo irregolare. Nel caso, franerebbe l’intero castello, di accuse e di punizioni purificatrici. Non ha parlato di tutto. Non delle intercettazioni, almeno nel loro dettaglio, non ha spiegato in tutti i particolari la cena all’hotel Champagne del 9 maggio 2019, il palcoscenico fatale disvelato dal trojan. Ma Luca Palamara neppure si è nascosto, nell’udienza del procedimento disciplinare al Csm dedicata proprio all’esame della sua figura di incolpato. Semplicemente, la difesa dell’ex presidente Anm ritiene improprio offrire al collegio giudicante — presieduto da Fulvio Gigliotti e segnato dalla presenza, tra gli altri giudici, di Piercamillo Davigo — informazioni su un materiale che, in teoria, potrebbe anche rivelarsi non utilizzabile. Sulla “prova regina” sia del processo a Palazzo dei Marescialli sia dell’indagine penale di Perugia, Palamara ha infatti chiesto di valutare la perizia tecnica di un proprio consulente. I giudici disciplinari hanno dato l’ok. E venerdì prossimo dovranno decidere se il trojan è stato usato, come si adombra nella relazione, in modo irregolare. Nel caso, franerebbe l’intero castello, di accuse e di punizioni purificatrici. Palamara ha comunque parlato in generale del suo rapporto con Luca Lotti, del fatto che la presenza del deputato alla cena del 9 maggio non sarebbe stata connessa alle pressioni su Palazzo dei Marescialli affinché nominasse Viola quale successore di Pignatone: «Non ho stipulato alcun accordo con Lotti per indicare a Roma un procuratore che dovesse agevolarlo nelle sue vicende processuali», cioè nel filone Consip che vede coinvolto l’ex sottosegretario. In teoria il destino del giudizio disciplinare sembrerebbe segnato, e ancora più compresso nelle tempistiche: dal 16 ottobre, il giorno della discussione finale e della sentenza è stato ieri ufficialmente anticipato a giovedì 8. Vuol dire che in 10 giorni la magistratura completerà probabilmente l’esecuzione capitale nei confronti del predestinato. Il calendario è ora più puntuale. Eppure si dovrà prima fare i conti con l’iniziativa assunta dal consigliere di Cassazione che assiste l’ex capo dell’Anm, Stefano Giaime Guzzi: ha ottenuto che fosse messa agli atti la perizia di parte. È stata accolta anche una richiesta della Procura generale, rappresentata dall’avvocato generale della Cassazione Pietro Gaeta: prima di valutare le ombre avanzate dalla perizia, dovrà riascoltare il direttore della società, Rcs, che ha materialmente effettuato le captazioni. Secondo Guizzi, le analisi condotte dal perito della difesa fanno emergere incertezze sulla regolarità del procedimento di archiviazione dei colloqui “catturati” dal trojan. Che non sarebbero confluiti direttamente nei server della Procura di Perugia, come impone la legge. Aspetto non irrilevante riguardo la riservatezza della fatale indagine perugina. Quelle captazioni erano sì legittimamente autorizzate dal gip umbro, ma il Tribunale ancora non si è pronunciato, con l’eventuale rinvio a giudizio, sulla consistenza dell’accusa che fa da presupposto a quell’autorizzazione, i reati corruttivi ipotizzati dai pm di Perugia ( che nulla c’entrano con la nomina alla Procura di Roma). Qualora l’ex capo Anm fosse prosciolto dal gup, non decadrebbe, certo, la legittimità delle intercettazioni. Eppure resterebbe più un’ombra relativa al fatto che le sole conseguenze processuali dei colloqui tra Palamara e decine di colleghi finirebbero per consistere nell’incolpazione disciplinare al Csm. È evidente come proprio tale paradosso renda cruciale l’accertamento sulle garanzie di riservatezza assicurate durante l’acquisizione, da parte del Gico, delle conversazioni scoperte col virus spia. Sono aspetti delicatissimi. Sui quali la sezione disciplinare del Csm scioglierà la riserva presto. Sentito mercoledì il dirigente della Rcs, l’ingegnere Duilio Bianchi, deciderà appunto venerdì se le intercettazioni avevano seguito un percorso regolare, cioè sicuro: dal cellulare di Palamara direttamente, come da articolo 268 del codice di rito, al server della Procura. Poi si arriverà a giovedì 8 ottobre, in tempo per pronunciare la sentenza Palamara ben prima che, con il congedo di Davigo, ci debba interrogare sulla legittima presenza nel collegio da parte dell’ex pm di Mani pulite. Anche se quel tarlo sul senso delle intercettazioni minacciato da un non impossibile proscioglimento a Perugia, avrebbe forse dovuto indurre il Csm a sospendere il processo disciplinare fino alla decisione del gup. Chissà che la fretta non si spieghi anche con tale, possibile corto circuito. Al di là di quanto sia fondata la contestazione che potrebbe costare a Palamara l’addio alla toga ( è già sospeso da funzioni e stipendio, da un anno ormai) resta il vero enigma dell’intera vicenda: se l’ex capo Anm non fosse responsabile, penalmente, dei reati di corruzione che erano i soli a poter giustificare l’installazione del trojan sul suo cellulare, è davvero accettabile far pagare solo ( o quasi) a lui gli scambi di favori sulle nomine, le pressioni e le strategie tra Csm e capicorrente, che senza quel trojan, forse “immotivato”, sarebbero rimaste, nella percezione comune, come abitudine diffusa nell’intero ordine giudiziario?

«Le captazioni su Palamara? Finivano ai gestori telefonici e poi in Procura…». Disciplinare al Csm, il fornitore del “trojan” non allontana le ombre Il Dubbio l'1 ottobre 2020. «Nessun espediente per far sparire i fatti: vogliamo solo che siano inseriti in una corretta cornice processuale». È questo il commento a caldo rilasciato ieri dal consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, difensore di Luca Palamara, al termine della seconda testimonianza dell’ingegnere Duilio Bianchi, della società milanese Rcs, che ha fornito alla Procura di Perugia gli apparati e i programmi per svolgere le intercettazioni a carico dell’ex presidente dell’Anm. Ad iniziare dal temibile “trojan horse”, il software che trasforma il cellulare in un microfono. A decidere di risentirlo era stato lunedì scorso il collegio della sezione disciplinare del Csm, presieduto dal laico Fulvio Gigliotti, dopo che la difesa di Palamara aveva presentato una relazione tecnica, affidata a un perito della Procura di Roma, contenente una serie di riscontri che smentivano quanto dichiarato da Bianchi. Punto centrale l’ubicazione del server dove venivano “raccolti” gli ascolti. Le intercettazioni effettuate con il trojan non sarebbero state convogliate sul server della Procura capitolina, dopo che era stata disposta la remotizzazione da parte di Perugia, ma su un altro server. Piazzale Clodio sarebbe stato insomma solo un “client”. Un particolare tecnico che, secondo Guizzi, renderebbe inutilizzabili le intercettazioni su cui si basano gran parte delle contestazioni disciplinari a Palamara. Bianchi ha ricordato che «il software del trojan è stato interamente prodotto dalla società Rcs» e che erano state «garantite inaccessibilità e non modificabilità dei dati». I quali «confluivano direttamente dal captatore al server della Procura di Roma» attraverso «le reti dei gestori», che hanno avuto una funzione di mero transito, ha puntualizzato Bianchi. Il trojan, è stato nuovamente ricordato, veniva acceso «direttamente dalla polizia giudiziaria con una interfaccia su web». Rcs, dunque, non avrebbe svolto alcuna attività. «Abbiamo evidenziato il nostro punto di vista», ha aggiunto Guizzi, sottolineando come a questo punto la sezione disciplinare «abbia tutti gli elementi per effettuare la corretta valutazione». E la decisione, da parte del collegio, sulla utilizzabilità o meno degli ascolti è attesa per domani. La settimana prossima, invece, terminerà il processo: la discussione, secondo la richiesta della Procura generale, si svolgerà in maniera unitaria con l’ascolto della pubblica accusa e della difesa, di seguito, l’ 8 ottobre.

Processo a Palamara troppo veloce: rischio annullamento. Errico Novi su Il Dubbio il 17 Settembre 2020. Il turbocalendario del Csm: sentenza il 16 ottobre. Udienze a raffica e testi esclusi pur di chiudere prima che Davigo (giudice dell’ex leader Anm) lasci la magistratura. Il punto è Davigo. Resta al Csm? Resta consigliere e quindi giudice disciplinare di Palamara anche dopo il 20 ottobre, giorno in cui compirà 70 anni e si congederà dalla magistratura? L’incognita ha indotto Palazzo dei Marescialli a una forsennata accelerazione sul procedimento a carico dell’ex leader Anm: sentenza il 16 ottobre anziché, com’era stato previsto, a dicembre. Pur di non sciogliere ora il nodo sulla permanenza in Consiglio dell’ex pm del Pool, il collegio disciplinare si espone al rischio di un clamoroso flop. Vale a dire di una corsa così sfrenata da lasciare la sentenza sotto la scure dell’impugnazione e addirittura di un annullamento. Il pg Giovanni Salvi ha prefigurato la sanzione più severa, l’espulsione di Palamara dall’ordine giudiziario. Plausibile o meno che sia l’ipotesi, già il modo in cui si pensa di arrivarvi pare claudicante. Alla difesa di Palamara potrebbe bastare un ricorso alle sezioni unite della Suprema corte. E se pure andasse male, difficilmente la Corte europea dei Diritti umani potrebbe ignorare le doglianze all’incolpato. Il ritmo che martedì sera la sezione disciplinare ha deciso di imprimere al calendario è «sorprendente», per usare un aggettivo di Stefano Giaime Guizzi, il magistrato di Cassazione che difende Palamara nel “processo” al Csm. Con l’ordinanza dell’altro giorno (emessa insieme con quelle di rigetto di varie eccezioni degli incolpati) il collegio ha fissato 11 udienze in 20 giorni lavorativi. Si riprende domani, si va avanti il 23, 28, 29 e 30 settembre, poi tour de force a ottobre fino alla sentenza fissata per il 16. Procedimenti a carico degli altri cinque incolpati (tutti togati che si sono dimessi dall’attuale consiliatura) posticipati a partire dal 23 ottobre. Tutto per lasciare campo libero al solo “disciplinare” di Palamara. Occupata ogni possibile casella del calendario per la quale Guizzi non avesse già preannunciato impedimenti. Gli capitasse da preparare un appunto per il presidente della sua sezione al Palazzaccio (la terza penale), dovrà lavorare di notte. Ma le 11 udienze in 20 giorni potrebbero non bastare: Palamara già a luglio aveva chiesto di sentire 133 testi. «Non vogliamo affatto la Norimberga della magistratura», spiega Guizzi, «c’è bisogno di un approfondimento probatorio intenso perché solo così si può verificare non solo se vi siano state le interferenze addebitate a Palamara, ma anche quale sia stata la loro eventuale gravità». La logica del magistrato che difende il pm romano è semplice: «Come per tutti gli organi costituzionali, anche nel caso del Csm la disciplina sul suo funzionamento è piuttosto rarefatta. Ci si deve basare sulle consuetudini. E solo se si ricostruiscono le prassi, non solo della consiliatura in corso ma anche di alcune delle precedenti, si può stabilire se le condotte del dottor Palamara siano state effettivamente devianti. O se si inseriscano invece nel solco di prassi consolidate». Chiarissimo. Ora, poniamo pure che domani, quando il collegio disciplinare si riunirà di nuovo, la lista testi venga tagliata, Guizzi si chiede «fino a che punto sia legittima una riduzione». Se, pur di arrivare, costi quel che costi, a sentenza il 16 ottobre, si esagera, è evidente che si lascerebbe alla difesa di Palamara un materiale fantastico per una successiva impugnazione della condanna. Ricorso facile facile alle sezioni unite o, in extrema ratio, alla Cedu. E nei gradi di giudizio superiori, la tesi dell’inderogabile necessità, per la difesa, di un approfondimento dibattimentale più ampio troverebbe probabilmente ascolto. Così, pur di evitare che una presenza di Davigo nel collegio disciplinare anche successiva al suo congedo dalla magistratura offra motivo per eccepire la nullità del giudizio, si rischia di veder impugnata la sentenza per la compressione dei diritti di difesa. Un’astensione dell’ex pm del pool avrebbe risolto tutto. Ma non c’è stata, nonostante Palamara la reclamasse. Già se si fosse certi dell’imminente uscita di Davigo dal Csm, la prospettiva sarebbe meno indecifrabile. Ma di certezze in merito non se ne hanno, se non rispetto alla determinazione del consigliere nel reclamare il proprio diritto a restare in carica (come riferito in altro servizio del giornale, ndr). Certo è paradossale che un enigma legato al più intransigente dei magistrati possa pregiudicare il processo nei confronti del collega che, per gli amanti dei capri espiatori, incarna tutte le possibili deviazioni dell’ordine giudiziario.

Giacomo Amadori e Giuseppe China per “la Verità” il 29 settembre 2020. L' esame di Luca Palamara davanti alla sezione disciplinare del Csm è stato un vero corpo a corpo tra il pm sospeso e l' avvocato generale Piero Gaeta. Ieri il sostituto procuratore sotto inchiesta ha voluto togliersi alcuni macigni dalle scarpe, ma non ha inteso rispondere nel merito sulle conversazioni intercettate all' hotel Champagne, dove con cinque consiglieri del Csm e gli onorevoli Luca Lotti e Cosimo Ferri si parlò di nomine e in particolare di quella della procura di Roma. Palamara ha detto che prima di discutere di quelle conversazioni vuole attendere la pronuncia della Camera dei deputati sulla loro utilizzabilità. Su tutto il resto Palamara ha dato battaglia. «Io di passare per un corrotto traffichino davanti a voi non ci sto» ha detto, ricordando come sia caduta «l' accusa più infamante» che gli era stata contestata, cioè quella di aver intascato 40.000 euro per sostenere la nomina a procuratore di Gela di uno dei candidati. Parimenti, a giudizio di Palamara, non è possibile ipotizzare che lui possa aver barattato la propria funzione per accordarsi con Lotti, imputato a Roma, per la nomina del procuratore della Capitale. L' ex consigliere del Csm ha assicurato che non si sarebbe messo mai contro il suo ufficio per «salvare Lotti», tanto meno contro il procuratore aggiunto Paolo Ielo, a cui è legato da «un rapporto di stima» e per la cui nomina si sarebbe speso. Palamara ha, però, ammesso che nel 2016, quando Lotti è stato iscritto sul registro degli indagati per l' inchiesta Consip, c' è stato un cortocircuito. «Io lo frequentavo da prima. Era notorio che lo facessi, l' ho frequentato a cena con il procuratore Pignatone (Giuseppe, ndr), con personaggi delle istituzioni. Perché era legato, quando era sottosegretario alla presidenza del consiglio, a temi e questioni che attenevano il nostro mondo». Ma nel 2016 è finito sotto inchiesta: «E allora mi sono posto il problema della frequentazione dell' indagato. E me lo sono posto stando lì, dove oggi siete voi (era consigliere del Csm, ndr). Nella mia consiliatura discutemmo di tre casi che riguardavano il tema della frequentazione dell' indagato: il primo riguardava la famosa questione Giancarlo De Cataldo-Salvatore Buzzi». L' incolpato ha citato anche la vicenda dei rapporti dell' imprenditore Antonello Montante (condannato a 14 anni di reclusione) con i magistrati di Caltanissetta e Palermo e il caso dell' ex esponente di Md Paolo Mancuso, azzoppato nella carriera perché pizzicato ad andare a caccia con presunti camorristi (però per lui non vennero ammesse le intercettazioni e venne prosciolto dal Csm). Durante il disciplinare Palamara ha mandato diversi messaggi al vertice del Csm: «Con l' onorevole Lotti c' è stato un rapporto di frequentazione che è continuato ancor di più soprattutto in occasione della nomina dell' attuale vicepresidente del Csm (David Ermini, ndr)». In vista di quella votazione «sicuramente si sono intensificati i rapporti di conoscenza» e «la frequentazione tra me l' onorevole Lotti e l' onorevole Cosimo Ferri». Insomma se si è creata la «cricca dell' hotel Champagne», l' occasione è stata l' elezione di Ermini, anche se «l' onorevole Lotti non c' entra nulla con presunti accordi sulla nomina del procuratore di Roma». E qui è arrivata un' altra stoccata: «Per quanto riguarda il procuratore di Roma agli atti del fascicolo di Perugia troverete numerosissime intercettazioni nelle quali già da febbraio-marzo 2019 si parla normalmente - come è sempre avvenuto - di ipotetiche, presunte trattative di accordo tra i gruppi associativi. In particolar modo tra quello di Unicost e Magistratura indipendente, ma se dovessi negare che all' interno dell' ufficio di Roma io non affrontassi le medesime questioni con i miei colleghi di Area, direi sicuramente una bugia». Una questione affrontata in un altro passaggio dell' esame: «Poteva capitare di uscire con dei colleghi di Mi una settimana. Nella settimana successiva di organizzare delle uscite con i consiglieri di Area, quando per esempio c' erano delle nomine che interessavano maggiormente a loro. Potrei citare le vicende relative alla procura di Milano, alla Scuola superiore, alla Corte d' appello di Bari». Palamara ha anche ricordato di quando la sua corrente e Area avevano mandato all' opposizione Mi e Ferri. Poi i rapporti con il parlamentare di Italia viva si erano ricomposti («Le amicizie in comuni ci hanno riavvicinato»). In particolare in vista della nomina del vicepresidente del Csm: «Le interlocuzioni iniziarono già nel mese di luglio, quando il Parlamento elesse gli attuali membri laici. C' era già stata discussione all' interno del Partito democratico per la nomina del componente laico [] tra il nome del professor Luciani e il nome dell' onorevole Ermini». Che, grazie alla strana alleanza tra Ferri e Palamara, è diventato vicepresidente. Ma a mandare all' aria il nuovo assetto è stata la candidatura di Marcello Viola a procuratore di Roma. «Era ritenuto uomo di Ferri. Non di Lotti. Di Ferri». Una cosa che alla componente di Area dentro a Palazzo Clodio proprio non andava giù. Anche se per Palamara, l'«imputato» Lotti, dall' arrivo di Viola non avrebbe potuto trarre beneficio: «Cosa può fare un nuovo procuratore, una volta esercitata l' azione penale? Va dal gip e dice "ho sbagliato", cancello la richiesta di rinvio a giudizio?». Il famigerato dopocena dello Champagne «fu una di quelle occasioni nelle quali tra il martedì e il giovedì, eravamo soliti frequentarci con i consiglieri che componevano allora il Csm». Incontri a cui si univa ogni tanto anche Lotti e non solo lui. Il magistrato e l' ex ministro si davano appuntamento via Whatsapp oppure da centralino a centralino. «Questo era il modo di contattarci. Quella sera capitò che c' era un incontro prefissato e io gli dissi: "Se vuoi ci puoi raggiungere"». Il legame con Lotti si era rinforzato quando questi era diventato ministro dello Sport e Palamara era il capitano della rappresentativa di calcio dei magistrati. L' incolpato con i colleghi ha tenuto a sottolineare che, a proposito del «ruolo e dello status» di Lotti, quest' ultimo «si trovava in una situazione simile anche in occasione e della nomina del vicepresidente del Csm» e che dell' ex sottosegretario aveva «parlato ogni giorno con il procuratore Giuseppe Pignatone». Morale: se era infrequentabile per lui, avrebbe dovuto esserlo anche per chi, invece, è andato a presiedere il parlamentino dei giudici grazie al suo sostegno.

La bomba sganciata all'udienza disciplinare. Palamara chiama in causa il Csm: “Chi di voi è la talpa di Repubblica?” Paolo Comi su Il Riformista il 16 Settembre 2020. È caccia alla “talpa” che informò a maggio dello scorso anno i giornali degli incontri di Luca Palamara con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. L’ex presidente dell’Anm ha deciso di passare al contrattacco e ieri, in apertura dell’udienza disciplinare a suo carico, ha depositato una durissima memoria in cui ricostruisce quanto accaduto fino a oggi, ponendo interrogativi al collegio che dovrà decidere del suo futuro professionale. La sua rimozione dall’ordine giudiziario è, infatti, sempre più probabile alla luce delle ultime incolpazioni da parte della Procura generale della Cassazione. Tutto inizia con un articolo a firma di Carlo Bonini apparso sul quotidiano La Repubblica il 29 maggio 2019 ed intitolato “Il mercato delle toghe: un patto per prendere la Procura di Roma”. Nel lungo articolo veniva effettuata una particolareggiata ricostruzione dell’incontro, svoltosi la sera del 9 maggio precedente all’hotel Champagne di Roma, alla presenza di Palamara, Lotti, Ferri e cinque consiglieri del Csm. Fra gli argomenti di discussione, le nomine di alcuni importanti uffici giudiziari, ad iniziare dalla Procura della Capitale post Giuseppe Pignatone. Bonini, in due passaggi, aveva scritto che la conoscenza giornalistica di quei fatti sarebbe derivata da “diverse e qualificate fonti del Csm”. All’epoca le indagini a carico di Palamara erano in pieno svolgimento. Il trojan inoculato nel suo telefono e che registrò l’incontro era stato attivato da qualche settimana. I pm di Perugia, titolari del fascicolo, cercavano risconti alla maxi mazzetta di 40mila euro che sarebbe stata data al magistrato romano per la nomina, poi non avvenuta, di Giancarlo Longo a procuratore di Gela. I riscontri delle “captazioni” erano a conoscenza, nell’ordine, del Gico della Guardia di Finanza che materialmente procedeva agli ascolti, dei pm di Perugia e, appunto, dei vertici del Csm. I magistrati umbri avevano trasmesso a Palazzo dei Marescialli le prime risultanze già agli inizi di maggio del 2019. Chi potrebbe, allora, essere d’aiuto nella caccia alla talpa? La risposta la fornisce lo stesso Palamara: il segretario generale del Csm Paola Pieraccini. «Al fine di accertare la veridicità, o meno, di tale circostanza», la dottoressa Pieraccini, magistrato di Cassazione, dovrà riferire «sulle verifiche eventualmente disposte per riscontrare se vi sia stata, o meno, tale propalazione verso la carta stampata». La condotta del magistrato, prosegue Palamara, sarebbe «suscettibile di integrare, almeno astrattamente, se non il delitto di rivelazione di segreto d’ufficio, quantomeno l’illecito disciplinare consistente nella “violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione” ove fosse stata, in ipotesi, realizzata da appartenenti all’ordine giudiziario».

Magistratopoli, rischio processo farsa per Palamara: verrà radiato rapidamente o verranno ascoltati i 100 testimoni? Palamara era già stato vittima in passato di una fuga di notizia. Era accaduto nel periodo in cui era n. 1 dell’Anm ed il Csm stava valutando la sua posizione disciplinare per fatti relativi alla sua attività di pm a Roma. Che il Csm fosse un “colabrodo” era comuque stato lo stesso procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio ad affermarlo in alcune occasioni. Il segretario generale del Csm è una figura chiave a piazza Indipendenza, interfacciandosi direttamente con il Quirinale. Per settimane Repubblica, Corriere e Messaggero pubblicarono atti d’indagini di Perugia. E non risulta che siano state aperte indagini per verificare la fuga di notizie. Palamara è poi tornato sulla mancanza di serenità dell’attuale Csm che deve giudicarlo. Il magistrato ha ricordato il ruolo avuto nell’accordo politico che portò all’elezione dell’attuale vice presidente David Ermini (Pd). La nomina venne decisa durante una cena presso l’abitazione dell’avvocato Giuseppe Fanfani (Pd), ex membro laico del Csm nella consiliatura 2014/2018. Fu Palamara a convincere i togati di Magistratura Indipendente, fino a quel momento orientati a votare il professore milanese Alessio Lanzi (Forza Italia) a convergere sull’ex responsabile giustizia dei dem. La scelta di Ermini causò la rottura dello storico patto di Unicost, la corrente di Palamara, con la sinistra giudiziaria di Area che aveva, con l’avallo del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, puntato sul grillino Alberto Maria Benedetti. I componenti del Csm avrebbero poi già espresso “reiterate prese di posizione sull’indagine”. Tutte contro di lui. Un membro del Consiglio avrebbe parlato di “metodo mafioso”. Un altro di nuova P2. Anche Ermini “avrebbe fatto valutazioni che non lasciano dubbi”. Ieri è stato il giorno delle questioni preliminari. Ad assistere Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi. La disciplinare ha respinto. Prossima udienza a fine mese.

Anna Maria Greco per ''il Giornale'' il 16 settembre 2020. Questo Csm non è imparziale, chiedo che a giudicarmi sia quello nuovo. Luca Palamara va a Palazzo de' Marescialli e gioca spericolatamente la sua carta, alla prima udienza di fronte alla sezione disciplinare, ponendo una questione di costituzionalità che dovrebbe essere sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione, dopo una valutazione degli atti. Sarebbero illegittime le norme che, appunto, non gli consentono di sottrarsi al verdetto di un Csm su cui pesa un «legittimo sospetto». L'ex presidente dell'Anm, sotto processo anche a Perugia per corruzione, vorrebbe arrivare fino alla Corte costituzionale e in una memoria accusa di pregiudizio nei suoi confronti troppi consiglieri, suoi ex colleghi in quel Csm dove è deflagrato lo scandalo degli accordi correntizi sulle nomine, rivelato dalle sue chat intercettate. Ma l'avvocato generale della Cassazione Pietro Gaeta giudica subito la richiesta inammissibile, «eccentrica» e «manipolativa», tesa a «differire l'esercizio della giurisdizione a un giudice che non c'è». E, alla fine la sezione disciplinare concorda: «Non ricorrono i presupposti. La questione è non rilevante e manifestamente infondata». Dunque, gli atti non saranno rimessi alla Cassazione e si andrà avanti così, tra mille ombre. Rimangono gli avvertimenti e i messaggi inviati da Palamara nella memoria presentata dal suo avvocato, Stefano Guizzi. L'ex leader di Unicost denuncia «le reiterate prese di posizione di numerosi membri del Csm, taluni persino componenti del collegio chiamato a giudicare della responsabilità disciplinare del sottoscritto, sulle vicende relative all'incontro della notte tra l'8 e il 9 maggio 2019 presso l'Hotel Champagne in Roma». Denuncia che, nel plenum straordinario di giugno, il suo caso fu paragonato allo scandalo della P2 e che una corrente delle toghe lo abbia legato anche alla vicenda delle presunte dichiarazioni a Silvio Berlusconi del defunto Amedeo Franco, membro del collegio che confermò in Cassazione la condanna per frode fiscale dell'ex premier. Denuncia le fughe di notizie, attribuite da Repubblica a «diverse e qualificate» fonti interne a Palazzo de' Marescialli. Sottolinea che nelle accuse contro di lui e 5 consiglieri dimissionari del Csm (Gianluigi Morlini, Luigi Spina, Antonio Lepre, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli) alcuni dei componenti dell'attuale Csm «vengono individuati come vittime del comportamento gravemente scorretto addebitato agli incolpati». Cita gli atti giudiziari che considerano il suo ruolo determinante per l'elezione del vicepresidente David Ermini, insieme ai parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti, per dimostrare che questo Csm non può avere serenità di giudizio nei suoi confronti. Guizzi sostiene anche che nel processo disciplinare va affrontato il nodo delle intercettazioni, in cui compaiono anche parlamentari. Questione del trojan, già sollevata da Ferri di fronte alla Consulta. Siamo solo all'inizio, ma il processo disciplinare più clamoroso degli ultimi anni si preannuncia ricco di colpi di scena.

Palamara: “Questo Csm non è imparziale, si rinvii” . Ma la sezione disciplinare dice no.

Dall’ex pm accuse pesanti ai componenti di Palazzo dei Marescialli e anche al vice presidente Ermini. “Sia la Consulta a decidere se questo può essere il mio giudice”. Ma dopo un’ora di camera di consiglio la risposta è negativa. Liana Milella il 15 settembre 2020 su La Repubblica. Palamara rifiuta il suo giudice, il Csm. Vuole che tutto torni in Cassazione, alle sezioni unite, e poi da queste alla Consulta, per un rinvio al futuro Csm. Ma la sezione disciplinare respinge la sua istanza dopo un’ora di camera di consiglio. E il suo processo va avanti. Secondo la richiesta dell’ex pm invece “non si può celebrare un procedimento nello stesso luogo dove ci sono vittime e colpevoli”. Per questo chiede di non essere giudicato disciplinarmente dall’attuale Consiglio. In quanto l’atteggiamento di palazzo dei Marescialli, e quindi il futuro giudizio, non potrebbero essere “imparziali” come invece dovrebbero essere. Se la Cassazione avesse accolto la sua istanza, che però il sostituto procuratore generale Pietro Gaeta ha subito definito “inammissibile perché vuole differire l'esercizio della giurisdizione a un giudice che non c'è”, Palamara  s’impegnava sin d’ora a non accettare “l’eventuale decadenza del processo disciplinare” nei prossimi due anni.  L’ex pm di Roma, imputato a Perugia per corruzione, si presenta alle 14 e trenta davanti alla sezione disciplinare del Consiglio e deposita una memoria di 35 pagine con cui chiede che sia lo stesso Csm a rimettere gli atti del processo disciplinare in corso alle sezioni unite della Cassazione perché sollevino una questione di legittimità costituzionale sul fatto che le attuali norme dell'ordinamento non prevedono che possa essere richiesta la "rimessione del giudizio alla sezione disciplinare della consiliatura successiva a quella in atto". Ma la risposta dello stesso Csm è negativa. Bisogna ricordare subito, prima di entrare nel merito delle accuse di imparzialità fatte da Palamara, che già Cosimo Maria Ferri (deputato oggi renziano, prima Pd), sotto inchiesta disciplinare anche lui per l’incontro all’hotel Champagne di Roma con altri consiglieri del Csm, assieme a Palamara e Luca Lotti (deputato Pd) per influire sulla nomina del nuovo procuratore di Roma, ha già chiesto e ottenuto l’8 luglio scorso di andare alle sezioni unite della Cassazione. Ma torniamo alle accuse di Palamara e alle sue ragioni per spostare nel tempo, e di fronte ad altro giudice, il suo processo disciplinare, in cui è difeso dal consigliere della Cassazione Stefano Giaime Guizzi. Palamara sostiene che i componenti dell’attuale Csm avrebbero già espresso “reiterate prese di posizione sull’indagine”. Tutte contro di lui, a suo dire. Un membro del Consiglio avrebbe parlato di “metodo mafioso”. Anche David Ermini, l’attuale vice presidente, “avrebbe fatto valutazioni che non lasciano dubbi”. Sulla sua colpevolezza, s’intende. Anche consiglieri del Csm subentrati ai cinque dimissionari avrebbero pronunciato giudizi sul caso. In plenum, accusa Palamara, “sono stati fatti paragoni con la P2”. E il suo caso, scrive nella memoria, “sarebbe stato accostato a quello del giudice Franco e di Berlusconi”. E si chiede: “Come potrei stare sereno davanti a questo giudice?”. Chiede di ascoltare la segretaria generale del Csm. Da queste considerazioni, secondo Palamara, nasce la constatazione di un Csm già orientato nel giudizio contro di lui. L’ex pm si chiede anche “come mai i media abbiano saputo dell’incontro all’hotel Champagne”. E la sua conclusione è perentoria: via da questo Csm il mio processo. Che, va detto, potrebbe comportare la sua espulsione dalla magistratura, così come a luglio è stato cancellato dall’Anm di cui è stato presidente ai tempi degli scontri con Berlusconi. Peraltro sarà l’assemblea generale degli iscritti, sabato 19 a Roma, a valutare il suo ricorso contro l’espulsione.  

Csm rigetta l’istanza di ricusazione di Palamara. Che avverte: "Dubbi su serenità di Ermini. Eletto grazie a me, Lotti e Ferri". Il Fatto Quotidiano il 15 settembre 2020. Il pm simbolo dell'inchiesta che imbarazzato il mondo della magistratura voleva che il suo giudizio disciplinare sia rimesso alle Sezioni Unite della Cassazione perchè valutasse se sollevare una questione di incostituzionalità alla Consulta. Palazzo dei Marescialli rigetta la richiesta. Nella memoria depositata il pm sotto inchiesta lancia avvertimenti al vicepresidente del Csm. La Sezione disciplinare del Csm ha respinto le nuove istanze di ricusazione dei giudici che si stanno occupando del processo disciplinare a carico di Luca Palamara (sospeso dalle funzioni e dallo stipendio) e di 5 ex consiglieri del Csm, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Luigi Spina, Antonio Lepre e Gianluigi Morlini, tutti accusati di un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei colleghi e di interferenza nell’attività del Csm. Al centro dell’accusa per tutti c’è la famosa riunione all’hotel Champagne del 9 maggio del 2019, intercettata grazie a un trojan nel cellulare di Palamara, imputato a Perugia per corruzione. In quella sede non istituzionale, secondo la contestazione, il gruppo discusse con i politici Cosimo Ferri e Luca Lotti le strategie sulle future nomine ai vertici delle procure, a partire da quella di Roma. Una condotta giudicata particolarmente grave dalla Procura Generale della Cassazione, che rappresenta l’accusa nel processo, anche perché Lotti all’epoca era già imputato nel processo romano Consip. In precedenza Palamara aveva ricusato Davigo, ma l’istanza era stata respinta. Mentre per Ferri -che aveva ricusato i componenti laici Stefano Cavanna (Lega) e Michele Cerabona (Forza Italia) – il processo è stato sospeso, in attesa che si pronuncino le Sezioni Unite della Cassazione. “Non ricorrono i presupposti della disciplina della rimessione” ha stabilito il collegio dei giudici, che oltretutto ritiene la questione di incostituzionalità sollevata “non rilevante e manifestamente infondata“. Secondo Palamara, invece, il processo disciplinare dove essere rimesso alle Sezioni Unite della Cassazione perchè valutassero se sollevare una questione di incostituzionalità alla Consulta. La vera novità della giornata, a Palazzo dei Marescialli, è contenuta nella memoria depositata dall’ex presidente dell’Anm: “Dalla messaggistica estratta dal telefono cellulare dello scrivente, acquisita agli atti dell’inchiesta svolta a carico del sottoscritto dalla Procura di Perugia, è emerso il ruolo che il sottoscritto, e con il medesimo, anche gli onorevoli Cosimo Maria Ferri e Luca Lotti, ha avuto nell’accordo politico che portò all’elezione dell’attuale Vice-Presidente del Csm David Ermini (in particolare, all’esito di una cena presso l’abitazione dell’Avv. Giuseppe Fanfani, ex membro laico del Csm nella consiliatura 2014/2018, circostanza sulla quale la difesa dello scrivente ha articolato prova per testi, chiedendo l’escussione sia dell’On. Ermini che dell’Avv. Fanfani), se ne trae una ragione di più per dubitare dell’effettiva serenità con cui codesta Ill.ma Sezione Disciplinare potrà assumere le proprie ‘libere determinazionì giudicare i fatti per cui oggi è giudizio”. Insomma, citando gli atti giudiziari in pratica Palamara ammette di essere stato fondamentale per l’elezione di Ermini, ex deputato del Pd, al vertice di Palazzo dei Marescialli. E dunque oggi il Csm guidato da Ermini potrebbe non essere sereno.

La storia di quella cena è stata raccontata dal Fatto Quotidiano: il 19 settembre l’ex membro laico del Csm Fanfani scrive a Palamara: “Confermo martedì ore 21 a casa mia cena riservata. Io te Cosimo e David”. Pochi minuti dopo Palamara gli risponde: “Ok un abbraccio”. Una settimana dopo, il 25 settembre, Fanfani ricorda a Palamara il suo indirizzo romano. Anche Ferri ha confermato di aver partecipato a quella cena ma, a differenza di Ermini, esclude che si sia parlato della nomina del vicepresidente del Csm. Due giorni dopo, Ermini ottiene tra le polemiche i voti per il secondo scranno più alto di Palazzo dei marescialli. Oggi quell’elezione rischia di bloccare il più importante processo disciplinare degli ultimi anni.

Magistratopoli, Palamara al contrattacco: “Questo Csm non è imparziale, processo col prossimo Consiglio”. Redazione su Il Riformista il 15 Settembre 2020. Colpo di scena sulla vicenda giudiziaria che coinvolge l’ex pm di Roma ed ex presidente dell’Anm Luca Palamara. La sua difesa ha infatti chiesto, con una memoria di 35 pagine depositata nel corso dell’udienza davanti alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, la questione di costituzionalità. “Si trasmettano gli atti alle sezioni unite della Corte di Cassazione – sono le parole del difensore Stefano Giaime Guizzi davanti alla sezione disciplinare del Csm presieduta da Fulvio Gigliotti -, affinché sollevino la questione di legittimità costituzionale”. “Su questa vicenda sono stati espressi interventi in ogni sede”, sottolinea ancora Guizzi, secondo il quale il modo in cui l’affaire Palamara è emerso ed è stato reso pubblico, e il modo in cui se ne è parlato in oltre un anno di inchiesta, “ha turbato la libertà di determinazione dell’intero organo“. L’ex pm di Roma imputato a Perugia per corruzione ha chiesto che sia lo stesso Csm a rivolgersi alla Consulta per rinviare il giudizio disciplinare al futuro Consiglio, che sarà eletto nel 2022. Nella sua memoria inoltre Palamara attacca frontalmente il vicepresidente del Csm, l’ex deputato Pd David Ermini: “ Dalla messaggistica estratta dal telefono cellulare dello scrivente, acquisita agli atti dell’inchiesta svolta a carico del sottoscritto dalla Procura di Perugia, è emerso il ruolo che il sottoscritto, e con il medesimo, anche gli onorevoli Cosimo Maria Ferri e Luca Lotti, ha avuto nell’accordo politico che portò all’elezione dell’attuale Vice-Presidente del Csm David Ermini (in particolare, all’esito di una cena presso l’abitazione dell’Avv. Giuseppe Fanfani, ex membro laico del Csm nella consiliatura 2014/2018, circostanza sulla quale la difesa dello scrivente ha articolato prova per testi, chiedendo l’escussione sia dell’On. Ermini che dell’Avv. Fanfani), se ne trae una ragione di più per dubitare dell’effettiva serenità con cui codesta Ill.ma Sezione Disciplinare potrà assumere le proprie ‘libere determinazioni giudicare i fatti per cui oggi è giudizio”. Netta l’opposizione del pg Pietro Gaeta, secondo il quale si tratta di “un’istanza manifestatamente inammissibile“. La difesa del pm ha chiesto inoltre che il nodo intercettazioni, di cui Guizzi sottolinea l’inutilizzabilità, sia affrontato come questione preliminare.

SABATO ANM DECIDE RICORSO CONTRO ESPULSIONE – Il ricorso di Palamara contro la delibera di espulsione dall’Anm del 20 giugno scorso si terrà invece sabato 19 settembre all’assemblea generale dei soci dell’Associazione nazionale magistrati, presso l’Aula Magna della Pontificia Università San Tommaso D’Aquino Angelicum.

 Da leggo.it il 25 agosto 2020. La procura di Perugia ha chiesto il rinvio a giudizio per l'ex consigliere del Csm Luca Palamara accusato di diversi episodi di corruzione. Stesso provvedimento per l'imprenditore Fabrizio Centofanti, l'amica del magistrato Adele Attisani e Giancarlo Manfredonia, titolare di un'agenzia di viaggi. La richiesta di rinvio a giudizio è stata formalizzata dal procuratore Raffaele Cantone e dai sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano. L'inchiesta è quella che ha scosso il Csm, portando alle dimissioni di diversi consiglieri, per le intercettazioni di colloqui in cui con esponenti politici discutevano delle nomine al vertice delle procure, a cominciare da quella di Roma. Intercettazioni telefoniche e telematiche (con il trojan) in merito alle quali il gip di Perugia, in un'apposita udienza, si è riservato di decidere quale far trascrivere. Decisione che sarà comunicata il 21 settembre quando si tornerà in aula per la nomina del perito per le trascrizioni. A Perugia Palamara è finito sotto inchiesta per i suoi rapporti con Centofanti, cui - secondo l'accusa - avrebbe messo a disposizione le sue funzioni di magistrato in cambio di viaggi e regali. L'imprenditore avrebbe anche pagato lavori nell'abitazione di Attisani, che deve rispondere di essere stata istigatrice delle presunte condotte illecite e beneficiaria in parte delle utilità.

La procura di Perugia chiede il processo del magistrato Palamara per corruzione. Il Corriere del Giorno il 26 Agosto 2020. Il processo è stato chiesto anche per il lobbista Centofanti e per la stessa Attisani ( presunto corruttore e istigatrice/beneficiaria della corruzione) oltre che per Giancarlo Manfredonia, titolare di un’agenzia di viaggi, accusato di favoreggiamento per aver manipolato i documenti di una vacanza incriminata. Con la richiesta di rinvio a giudizio per “corruzione” per l’esercizio della funzione (pena da 3 a 8 anni), la Procura di Perugia ha tracciato una prima linea nello scandalo che un anno fa travolse il Consiglio superiore della magistratura, provocando le dimissioni di sei membri togati su 18. Secondo il nuovo procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone, già a capo dell’ ANAC l’ Authority Anticorruzione, il magistrato Luca Palamara, da componente del Csm, era “a disposizione” dell’imprenditore e lobbista Fabrizio Centofanti, in cambio di regali, viaggi, benefit vari e lavori edilizi di cui usufruivano sia l’ex magistrato e la sua famiglia, ma anche l’amica-amante Adele Attisani. La richiesta di rinvio a giudizio ( art. 415 bis) è stato firmato lo scorso 18 agosto dal procuratore Cantone, arrivato a Perugia a fine giugno, e dai pm Mario Formisano e Gemma Miliani, titolari del fascicolo d’indagine partita nell’autunno 2018 da una segnalazione della Procura di Roma. Le investigazioni hanno fatto cadere l’iniziale e più grave contestazione di corruzione per atti del Csm contrari di doveri d’ufficio (nomine di capi di uffici, procedimenti disciplinari). Una decisione questa che depone sicuramente a favore della difesa di Palamara. Rimane quindi in piede la generica corruzione funzionale, introdotta nel 2012 dalla legge Severino per punire chi fa «mercimonio della funzione» slegata dal compimento di specifici atti ma connessa al ruolo in sé. Fu il lobbista Centofanti tra il 2013 e il 2017 a pagare secondo i pm per Palamara e compagnia, circa 70 mila euro. Sette viaggi (Dubai, Ibiza, Londra, Favignana, San Casciano dei bagni ) che Palamara fece con l’amica Adele Attisani e tre vacanze (Madonna di Campiglio, Sardegna e Madrid, dove la Roma giocava in Champions) con la sua famiglia. Sarebbe stato sempre Centofanti a pagare trattamenti per la Attisani nella beautyfarm del Grand Hotel di via Veneto, spostamenti con autisti personali da e per l’aeroporto di Fiumicino e trasporto di mobili da Roma a Locri, ed a farsi carico di ristrutturazioni (23mila euro) , lavori impermeabilizzazione di terrazze e fioriere , manutenzione dell’impianto elettrico e di videosorveglianza (22mila euro), realizzazione di coprivasi in alluminio e di una tapparella (11mila) nella casa della Attisani. Un cifra incompatibile per i pm con una normale amicizia e sintomatica, come ha argomentato il Gip Lidia Brutti lo scorso marzo motivando il sequestro preventivo, definendolo una relazione «inquinata da interessi non confessabili». Il processo è stato chiesto anche per Centofanti e per la stessa Attisani ( presunto corruttore e istigatrice/beneficiaria della corruzione) oltre che per Giancarlo Manfredonia, titolare di un’agenzia di viaggi, accusato di favoreggiamento per aver manipolato i documenti di una vacanza incriminata. Un punto questo a favore dell’accusa. Gli avvocati, Mariano e Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, della difesa di Palamara, respingono le accuse: “Nessun pagamento da Centofanti”. Dovranno però adesso provarlo in giudizio ed annunciano fuochi d’artificio sulle indagini difensive, in l’udienza preliminare per “chiarire anche la questione dei lavori edilizi“. Palamara è sospeso un anno fa dalle funzioni e stipendio, ed è sottoposto anche a processo disciplinare dinanzi al Csm. La grave accusa rivoltagli dalla Procura generale della Cassazione è l’interferenza nell’attività del Csm, per le trame sulle nomine captate dal trojan inoculato nel suo cellulare dalla stessa Procura di Perugia. La difesa di Palamara ha chiesto di convocare 133 testimoni. In attesa del secondo round perugino, le udienze del Csm riprenderanno a settembre. L’inchiesta che ha rivoluzionato gli equilibri correntizi interni del Csm, portando alle dimissioni di diversi consiglieri, per le intercettazioni di colloqui in cui con esponenti politici discutevano delle nomine al vertice delle procure, a cominciare da quella di Roma. Intercettazioni telefoniche e telematiche (con il trojan) in merito alle quali il gip di Perugia, in un’apposita udienza, si è riservato di decidere quale far trascrivere. La sua decisione verrà comunicata il prossimo 21 settembre quando si tornerà in aula per la nomina del perito per le trascrizioni. Una scelta a sorpresa invece quella fatta dal magistrato Luigi Spina, ed ex membro del Csm, “sodale” di Palamara, accusato di avergli rivelato notizie riservate sull’indagine perugina. Spina per evitare un imbarazzante processo, ha chiesto la messa alla prova ai servizi sociali, una maniera per espiare le condanne nata per i minori e talvolta usata dai magistrati condannati, come ad esempio l’ex pm Matteo Di Giorgio della Procura di Potenza (9 anni e mezzo di carcere) per espiare la colpa in modo soft lasciando estinguere il reato. Saranno invece le Sezioni Unite della Cassazione a decidere se due giudici disciplinari potranno processare Cosimo Ferri e intanto al Csm il giudizio è sospeso. Il magistrato prestato alla politica e deputato di Italia viva, coinvolto nel caso Palamara, ha ricusato i laici di Palazzo de’ Marescialli Stefano Cavanna (Lega) e Michele Cerabona (Forza Italia) e il tribunale delle toghe ha disposto la trasmissione degli atti alla Suprema corte.

Ferri, in realtà, intendeva ricusare tutti i componenti della sezione disciplinare in carica fino al 9 maggio del 2019 e, in subordine, voleva l’invio degli atti alla Consulta sulla legge sull’ordinamento giudiziario del 2006. La sospensione del giudizio al Csm non riguarda Palamara, finito con altri 5 e ex togati di fronte alla disciplinare e sotto processo per corruzione a Perugia. Anche lui aveva ricusato Piercamillo Davigo, suo giudice al Csm, citandolo come testimone ma senza successo, malgrado dalla corrente di Md un esponente storico come Nello Rossi avesse sostenuto che l’ex pm di Mani pulite non poteva rimanere nel suo ruolo visto che a ottobre va in pensione. “La sinistra ha una forte capacità di orientamento della magistratura e a volte ti viene anche da pensare che la stampa non sia libera“, ha detto Palamara alla sua prima uscita in pubblico, in una serata a Sabaudia. L’ex presidente dell’Anm ha aggiunto: “Mi sono pentito, se tornassi indietro non rifarei le stesse cose“.

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 26 agosto 2020. Luca Palamara, da componente del Consiglio superiore della magistratura, era «a disposizione» dell'imprenditore e lobbista Fabrizio Centofanti, in cambio di regali, viaggi, benefit vari e lavori edilizi di cui usufruivano sia l'ex magistrato e la sua famiglia, sia l'amica Adele Attisani. Chiedendone il rinvio a giudizio per corruzione per l'esercizio della funzione (pena da 3 a 8 anni), la Procura di Perugia traccia la prima linea nello scandalo che un anno fa travolse il Csm, provocando le dimissioni di sei membri togati su 18. L'atto è stato firmato il 18 agosto dal procuratore Raffaele Cantone, arrivato a Perugia a fine giugno, e dai sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano, titolari dell'inchiesta partita nell'autunno 2018 da una segnalazione della Procura di Roma. Le investigazioni hanno fatto cadere l'iniziale e più grave contestazione di corruzione per atti del Csm contrari di doveri d'ufficio (nomine di capi di uffici, procedimenti disciplinari). Un punto per la difesa. Resta la generica corruzione funzionale, slegata dal compimento di specifici atti ma connessa al ruolo in sé, introdotta nel 2012 dalla legge Severino per punire chi fa «mercimonio della funzione». Secondo i pm, tra il 2013 e il 2017 fu il lobbista Centofanti a pagare sette viaggi (Favignana, San Casciano dei bagni, Ibiza, Londra, Dubai) che Palamara fece con l'amica Adele e tre (Madonna di Campiglio, Sardegna e Madrid, dove la Roma giocava in Champions) con la sua famiglia; a pagare per la Attisani trattamenti nel centro estetico del Grand Hotel di via Veneto, spostamenti con autisti personali da e per l'aeroporto di Fiumicino e trasporto di mobili da Roma a Locri; a farsi carico di ristrutturazioni nella casa della Attisani: impermeabilizzazione di terrazze e fioriere (23mila euro), manutenzione dell'impianto elettrico e di videosorveglianza (22mila euro), realizzazione di coprivasi in alluminio e di una tapparella (11mila). In tutto Centofanti avrebbe speso, per Palamara e compagnia, circa 70 mila euro. Per i pm cifra incompatibile con una normale amicizia e sintomatica, ha scritto il gip Lidia Brutti a marzo motivando il sequestro preventivo, di una relazione «inquinata da interessi non confessabili». Il processo è stato chiesto anche per Centofanti e per la stessa Attisani ( presunto corruttore e istigatrice/beneficiaria della corruzione) oltre che per Giancarlo Manfredonia, titolare di un'agenzia di viaggi, accusato di favoreggiamento per aver manipolato i documenti di una vacanza incriminata. Un punto per l'accusa, insieme alla scelta a sorpresa fatta da Luigi Spina, magistrato ed ex membro del Csm, sodale di Palamara accusato di avergli rivelato notizie riservate sull'indagine perugina. Per evitare un imbarazzante processo, Spina ha chiesto la messa alla prova ai servizi sociali. Istituto nato per i minori e raramente usato dagli adulti (tantomeno da magistrati) che fa espiare la colpa in modo soft estinguendo il reato. «Nessun pagamento da Centofanti» è la linea difensiva di Palamara. I cui avvocati, Mariano e Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, annunciano per l'udienza preliminare fuochi d'artificio delle indagini difensive per «chiarire anche la questione dei lavori edilizi». Sospeso un anno fa da funzioni e stipendio, Palamara è sottoposto anche a processo disciplinare dinanzi al Csm. La grave accusa rivoltagli dalla Procura generale della Cassazione è l'interferenza nell'attività del Csm, per le trame sulle nomine captate dal trojan inoculato nel suo cellulare dalla stessa Procura di Perugia. Palamara ha chiesto di convocare 133 testimoni. Le udienze del Csm riprenderanno a settembre, in attesa del secondo round perugino.

Dopo il ciclone Palamara, la messa alla prova piace anche alle toghe. Il caso di Luigi Spina. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 27 agosto 2020. L’ex consigliere del Csm Luigi Spina, indagato dalla Procura di Perugia nell’ambito del caso Palamara, ha chiesto la messa alla prova, un istituto nato nel 2014 a tutela dei minori, utilizzato per non lasciare “macchie” sul casellario. L’ex consigliere del Csm Luigi Spina, attuale procuratore facente funzioni di Castrovillari (Cs) ed indagato dalla Procura di Perugia per rivelazione del segreto nei confronti dell’ex numero uno dell’Anm Luca Palamara, ha chiesto nei giorni scorsi la messa alla prova. I pm umbri titolari dell’indagine Mario Formisano e Gemma Miliani hanno già dato, con il visto del procuratore Raffaele Cantone, parere favorevole. Esce, dunque, di scena il primo degli indagati eccellenti nell’inchiesta che lo scorso anno terremotò l’organo di autogoverno delle toghe, causando le dimissioni di ben cinque consiglieri di Palazzo dei Marescialli. Spina era accusato di aver informato Palamara che la Procura di Perugia lo aveva iscritto nel registro degli indagati per il reato di corruzione. Il magistrato aveva appreso la notizia in quanto all’epoca era componente della Prima commissione del Csm. L’atto era pervenuto a Palazzo dei Marescialli da Perugia in forma “secretata”. Analoga informazione era stata fornita dal pm di Piazzale Clodio, anch’egli poi indagato per rivelazione del segreto, Stefano Rocco Fava. Spina e Fava avevano comunicato a Palamara anche l’avvenuto deposito di un esposto, redatto dallo stesso Fava, contro il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e contro il procuratore aggiunto Paolo Ielo relativo a loro incompatibilità e mancate astensioni nella conduzione di alcune indagini. Palamara aveva successivamente ricevuto anche dal procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio l’informazione della sua avvenuta iscrizione a Perugia per il reato di corruzione. La posizione dell’ex pg è stata però al momento stralciata. La notizia dell’indagine di Perugia a carico di Palamara era stata riportata da Fatto Quotidiano a settembre del 2018, pochi giorni prima che terminasse la scorsa consiliatura del Csm. Spina, già gip del Tribunale di Potenza, è stato per lungo un esponente di primo piano di Unicost, la corrente di centro delle toghe. Nel 2018 era stato eletto al Csm con 1770 voti. Esploso lo scandalo a maggio dello scorso anno, fu il primo a dimettersi. I vertici di Unicost, il presidente Mariano Sciacca e il segretario Enrico Infante, successivamente uscito dal gruppo, appresa la notizia dell’indagine, diramarono un duro comunicato. “Sin da oggi ci riserviamo, in caso di successivo processo, la costituzione di parte civile a tutela dell’immagine del gruppo, gravemente lesa. Parimenti chiediamo alle istituzioni di intervenire tempestivamente”, il contenuto della nota. Con la messa alla prova il procedimento sarà dunque sospeso e Spina verrà affidato all’ufficio di esecuzione penale esterna ( Uepe) per lo svolgimento di un programma di trattamento che preveda delle attività obbligatorie. Ad esempio, l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità, consistente in una prestazione gratuita in favore della collettività, lo svolgimento di condotte riparative, volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato. Il programma può prevedere l’osservanza di una serie di obblighi relativi alla dimora, alla libertà di movimento e al divieto di frequentare determinati locali, oltre a quelli essenziali al reinserimento dell’imputato e relativi ai rapporti con l’ufficio di esecuzione penale esterna. E’ previsto un minimo di ore da effettuare al giorno. Concluso il trattamento, l’Uepe trasmette al giudice le risultanze. Non c’è una affermazione di responsabilità ed il reato viene quindi dichiarato estinto per l’esito positivo della prova. Nato nel 2014, inizialmente previsto per i minori, è utilizzato per non lasciare “macchie” sul casellario. Può essere chiesto una sola volta e per reati che abbiano una pena non superiore ai quattro anni. Le sezioni unite della Cassazione hanno stabilito che il limite sia calcola solo sulle fattispecie base, escluse le aggravanti. Non avere alcuna condanna potrà essere per Spina un fattore positivo in vista del procedimento disciplinare al Csm. Procedimento che, ironia della sorte, era stato iniziato proprio da Riccardo Fuzio. La prima udienza davanti alla sezione disciplinare è fissata per il prossimo 15 settembre. Con Spina ci saranno anche gli altri quattro consiglieri del Csm che si era dimessi lo scorso anno, nessuno di loro è indagato, e Palamara. L’ex presidente dell’Anm ha chiesto l’ammissione di oltre 100 testimoni. Sospeso, infine, il giudizio per Cosimo Ferri.

Palamara va a processo, ma il reato non c’era…Paolo Comi su Il Riformista il 27 Agosto 2020. Insomma, Luca Palamara, ex presidente dell’Anm e zar delle nomine al Csm, venne sottoposto ad intercettazione telefonica a mezzo di “captatore informatico” per un reato che non è mai esistito. Nella richiesta di rinvio a giudizio, firmata l’altro giorno dai pm di Perugia Mario Formisano e Gemma Miliani, con il visto del neo procuratore Raffaele Cantone, non c’è alcun riferimento ai 40mila euro che sarebbero stati dati da due professionisti, gli avvocati siciliani Giuseppe Calafiore e Piero Amara, a Palamara quando egli era presidente della Commissione per gli incarichi direttivi di Palazzo dei Marescialli, in cambio della nomina di Giancarlo Longo a procuratore di Gela. Eppure nel decreto firmato dal gip del capoluogo umbro Lidia Brutti, con cui il 22 marzo del 2019 si autorizzava il Gico della guardia di finanza all’utilizzo del trojan, la dazione della super mazzetta a Palamara aveva già trovato “un primo riscontro obiettivo” e per questo motivo era indispensabile procedere con tale mezzo di ricerca della prova. Gli effetti dell’utilizzo del trojan per un reato che non è esistito sono noti. Fra le tante conversazioni registrate, quella avvenuta all’hotel Champagne di Roma nel maggio dello scorso anno con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, la cui pubblicazione comportò le dimissioni dei cinque consiglieri del Csm che avevano preso parte all’incontro. Dimissioni che modificarono poi gli equilibri fra le correnti a piazza Indipendenza. Questo “piccolo” particolare è stato omesso ieri dal Corriere della Sera, da Repubblica e dal Messaggero, i tre quotidiani che all’epoca con grande enfasi diedero la notizia dell’incontro nell’albergo romano. Tornando alla tesi investigativa della Procura di Perugia, a Palamara viene contestato l’articolo 318 codice penale nella formulazione introdotta dalla legge Severino del 2012, “corruzione per esercizio della funzione”. Il reato svincola la punibilità dalla individuazione di uno specifico atto, ricollegandola al generico “mercimonio della funzione”. Palamara quando era al Csm sarebbe stato dunque “stipendiato” da Centofanti in cambio di favori. «Centofanti – avevano scritto i magistrati umbri – da tempo operava come ‘lobbista’, aveva svolto attività di lobbying per conto di importanti gruppi imprenditoriali, nelle sedi politico/istituzionali. In tale ambito operativo aveva mirato ad accrescere la propria capacità di influenza intessendo una rete di relazioni con rappresentanti di varie istituzioni e con soggetti a loro volta portatori di interessi di importanti gruppi di pressione, alcuni dei quali avevano svolto tale ruolo in modo disinvolto e talora illecito». L’attenzione dei pm di Perugia si era incentrata sul loro rapporto, una relazione che sarebbe stata “inquinata da interessi non confessabili”. Quello che è emerso con tutta evidenza, invece, è l’assedio che Palamara subiva quotidianamente da parte dei suoi colleghi che aspiravano a essere nominati procuratori o presidenti di Tribunale. Il Riformista ha raccontato nelle scorse settimane due casi, uno accaduto nel distretto di Messina e uno in quello di Bologna, che illustrano il funzionamento del sistema delle nomine by Palamara. Il modus è identico: i referenti locali di Unicost, la corrente di Palamara, “segnalavano” via chat allo zar degli incarichi i nominativi dei magistrati da promuovere. Le nomine erano indispensabili per rafforzare la corrente sul territorio ed accrescerne il consenso. Giovannella Scaminaci, pm di Messina, scriveva a Palamara: «È ora di tornare alle nomine messinesi, anche perché dovrei organizzare un incontro con i candidati Csm e vorrei farlo subito dopo qualche risultato significativo per il gruppo». E quindi l’elenco: «Presidente sezione lavoro Tribunale Messina (Beatrice Catarsini), presidente Tribunale Patti (Angelo Cavallo), procuratore aggiunto Messina (Vito Di Giorgio)». «A Messina abbiamo bisogno di conforto. In mancanza, riprendere a lavorare per il gruppo sarà praticamente impossibile», la puntualizzazione di Scaminaci. Questa la risposta di Palamara: «Purtroppo in previsione di Patti e Messina ho dovuto cedere sulla Romeo (Laura, concorrente di Catarsini, ndr)», per poi aggiungere: «Ci terrei lo comunicassi tu a chi in questi giorni si è molto lamentato». A Bologna il compito di segnalare era affidato a Roberto Ceroni: «Grandissimo Luca, abbiamo per caso novità sui nostri presidente Piacenza (Brusati), procuratore Parma (Russo) e presidente Sezione Rimini (Corinaldesi)? Il Distretto freme…». E poi: «Sia la Russo che Mescolini (candidato procuratore a Reggio Emilia, ndr) attendono nostre notizie. Ci siamo spesi molto. Mi raccomando». «Si tratta di posti sui quali mi si chiede costantemente aggiornamento e che per noi rivestono importanza assoluta», la postilla di Ceroni. «Carissimo Roberto tutto sotto controllo», «fatte queste però voglio festa per me!!!», la risposta di Palamara una volta ottenuto il risultato. I davighiani di Autonomia&indipendenza hanno chiesto la scorsa settimana che vengano avviate azioni disciplinari a carico dei magistrati che hanno beneficiato del sistema Palamara.

La Caporetto delle toghe ma la politica non sa che fare. Alberto Cisterna su Il Riformista il 18 Luglio 2020. La partita sulla giustizia si sta disputando in un acquitrino mefitico. Non che prima i giocatori brillassero di far play o che il campo fosse immune da buche e trabocchetti. Anzi. Dal caso Tortora in poi – da oltre 30 anni – la disputa sui temi della giurisdizione è stata un susseguirsi di agguati mediatici, di piccoli e grandi scandali, di incarcerazioni e scarcerazioni eccellenti, di assoluzioni e condanne da prima pagina. Sia chiaro: nulla di particolarmente doloroso o di irreparabile. Scaramucce, qualche insulto, qualche bastonata a casaccio, ma convinti i duellanti che niente di irreversibile sarebbe accaduto e che nessuno rischiava di perdere davvero. Anche oggi sarebbe facile dire: “nihil sub sole novum”. Perché questo, in effetti, sembra l’atteggiamento di molti dei protagonisti in questi mesi. In tanti pensano che, a ben guardare, non c’è nulla di (più) grave (del solito), che anche questa buriana passerà e che si tornerà a guerreggiare come prima, acconciando le trincee al meglio, sistemando un cecchino qua e là per sparare a qualche sprovveduto che si avventurasse nella “terra di nessuno” del dialogo, ma sempre guardandosi bene dal dare troppo filo da torcere al nemico. Una classica guerra di posizione che, come tutte le ostilità di lunga durata, consente enormi rendite per entrambi i contendenti. Giustizialisti irriducibili e garantisti à la page avrebbero avuto ben poco di cui campare se, di colpo, lo scontro avesse avuto fine e se le armi fossero state deposte in nome di un’equilibrata riforma della macchina giudiziaria.  Oggi, come altre volte, l’intento è quello di acconciare una soluzione, di trovare un “tavolo di accomodamento” come direbbero in Sicilia. In genere per attenuare le polemiche e per scrollarsi di dosso le troppe critiche non vi era nulla di più utile che una bella sequenza di convegni, congressi, documenti, confronti televisivi, articoli di stampa, esortazioni autorevoli. Insomma tanti auspicano che sia solo l’ennesimo scontro in una guerra a bassa intensità in cui molti hanno troppo da perdere e pochi hanno troppo da guadagnare. Perché, come i fatti dimostrano, nessuno vuole davvero tagliare i ponti, nessuno auspica una netta separazione tra giustizia e politica, nessuno intende veramente ergere muri. I pontieri delle due parti sono all’opera da decenni, sono i mediatori degli incarichi fuori ruolo, delle nomine, delle leggine all’acqua di rosa. Sono quelli su cui converge il sostegno delle toghe e dei loro (sedicenti) avversari. Se non fosse. Se non fosse che tutta questa ammuina si fonda sulla capacità dei contendenti di orientare – a fasi alternate e secondo le necessità – la pubblica opinione sospingendola a destra e manca in un moto pendolare continuo che dura da un paio di decenni. In altre parole, le toghe saranno pure cattive, ma non troppo, ma non tutte. Poi, al prossimo scandalo, alla prossima ingiustizia, alla prossima vittima da risarcire, la scoperta che di quelle toghe non si può fare a meno per ripristinare l’ordine infranto dal reo. E’ così da decenni. Avanzate e arretramenti con le cadenze di un metronomo regolato a convenienza. Finora tutto bene. Qualche riformetta, qualche piccolo aggiustamento, qualche graffio alla carrozzeria lucente della fuoriserie giudiziaria. Ma nulla di decisivo e nulla cui non possa porsi rimedio con un prossimo governo con cui stringere legami e patti. Però ora si insinua pericolosa l’impressione che si sia andati d’improvviso ai tempi supplementari e che la clessidra stia rapidamente dissipando la sabbia a disposizione. Avanza il timore che la lunga guerra di trincea potrebbe esaurirsi in fretta e i contendenti iniziano a dar segni di un’ansia sinora mai veramente messa in mostra. Hanno forte la sensazione gli strateghi dei due campi che, questa volta, potrebbe ingaggiarsi una battaglia decisiva per le sorti del conflitto istituzionale e politico che si consuma sui temi della giustizia penale. Si badi bene: pure Stalingrado o Midway furono battaglie decisive anche se poi sono occorsi anni per giungere alle fine.

Si sta profilando, inaspettato, un lento ma inesorabile mutamento dei rapporti di forza tra magistratura e politica, un capovolgimento tra assedianti e assediati con le toghe chiamate a rendere conto non di questa o quell’ingiustizia o di questo o quel fallimento investigativo, ma di una complessiva gestione della giustizia. Con il paradosso che la Caporetto del fronte togato ha colto del tutto alla sprovvista l’altra parte della barricata incapace di far altro che dolersi e lamentarsi di qualche asserita ingiustizia patita, ma del tutto priva di una visione complessiva della nuova situazione che si sta venendo a consolidare.  Galli della Loggia, a proposito, ha adoperato parole chiare e condivisibili quando ricorda che i magistrati sono investiti da un «giudizio ingiustamente sommario, se si vuole, ma inevitabile dal momento che la gravità dei fatti cancella fatalmente i pur necessari distinguo» (Corriere della sera del 29 giugno). Non si tratta più di separare le toghe perbene da quelle disoneste, né di dolersi dell’incidenza di qualche scandalo su una pubblica opinione, paternalisticamente descritta come «disorientata e sgomenta», quanto di prendere atto che si sta sedimentando e amplificando un sentimento di complessiva messa in stato d’accusa della corporazione che esige – nell’interesse degli stessi giudici – una risposta rapida e risolutiva. L’idea di una restaurazione che porti indietro le lancette dell’orologio a prima dell’affaire Palamara e dei suoi recenti corollari è possibile alla sola condizione che si ceda alla tentazione di una guerriglia strada per strada, ossia di adoperare la massa delle informazioni disponibili per criticare questa o quella nomina, questo o quell’inciucio, questo o quel processo. Chi ha interesse a ciò ha i mezzi a disposizione per far valere le proprie ragioni e molti lo faranno (ben tre ricorsi contro la designazione del procuratore di Roma sono un evento senza precedenti, o quasi, nella storia del Csm). Compito di chi ha a cuore il destino dei cittadini nelle aule di giustizia – la sola cosa che conti, ben prima delle carriere dei giudici e delle parcelle degli avvocati – è quello di denunciare che un intero modello di regolamentazione della giustizia mostra crepe insanabili e che i Costituenti hanno compiuto un’opera, al tempo sublime, ma che tuttavia non ha retto all’urto dell’evoluzione sociale e politica della magistratura in Italia. Senza questa visione le acque, separate dallo scandalo, torneranno a chiudersi sui fondali limacciosi e tutto si placherà, come sempre. Un grande esperto in pensione di analisi strategica alla domanda su cosa ne pensasse delle vicende di queste settimane ha risposto: «il problema non è capire cosa abbia fatto Palamara, ma comprendere chi o cosa ne abbia preso il posto». Troppo pessimista. Troppo umano.

Processo Palamara: no alle ombre, si faccia spazio alla verità. Alberto Cisterna su Il Riformista il 17 Luglio 2020. La scorciatoia è facile e c’è chi, reso scomposto dall’imbarazzo, l’ha già percorsa con qualche interessata sortita giornalistica. Alimentare il timore che la lunga lista di testimoni (133), predisposta dal dottor Palamara in vista del processo disciplinare, sia il prologo di una gigantesca chiamata in correità, è il modo migliore per tentare di affossare del tutto la difesa dell’incolpato e ridurla in cenere in quattro e quattr’otto. Una bella pietra tombale sullo scabroso affaire su cui scolpire un epitaffio adeguato al caso, ad esempio L’uomo che volle farsi re (John Huston, 1975). Quale modo migliore per coalizzare in massa contro l’ex-presidente dell’Anm le principali istituzioni del Paese, i politici più avvezzi alle interlocuzioni con le toghe, i titolari dei più importanti uffici di procura (come si diceva, di giudici se ne vedono pochini in questa sciarada di carriere) che far credere loro di essere chiamati a rispondere di chissà quali malefatte commesse sulle note del reprobo pifferaio magico delle correnti. È certo una possibilità e, per qualcuno dei menzionati nella lista, forse anche un rischio effettivo. Ed è pure la tesi di persone sicuramente perbene ed esenti da qualunque interesse a celare la verità. Peppino Caldarola, già direttore de L’Unità, ha scritto di recente: «La vicenda Palamara è inquietante. L’elenco dei “famosi” che lui chiama in soccorso, o per complicità, sembra descrivere un’associazione che, se fosse stata di destra, avremmo chiamato con l’ennesimo numero accanto alla sigla P2». È un giudizio che non si può condividere sino in fondo, perché tra quei nomi si scorgono quelli anche di vittime eccellenti del sistema spartitorio che hanno pagato la loro estraneità a quella razza padrona con torti e ingiustizie di vario genere. Per tentare una lettura un po’ più elaborata di quella lista occorre partire da una premessa, forse didascalica e noiosa, ma inevitabile: ossia che si tratta di un atto processuale. Nel processo penale, sulle cui movenze è regolato quello disciplinare, la lista dei testimoni a discarico è il principale atto della difesa. È il cuore della strategia difensiva. Il nocciolo duro e lo snodo di ogni possibilità di assoluzione. Su quei, in genere pochi, fogli di carta, spesso, si perde e si vince. Non serve, la lista, a consumare vendette o a mandare segnali, mira piuttosto a vincere seguendo un percorso, impostando la confutazione dell’incolpazione e delle prove portate dell’accusa. Da questo punto di vista la mescolanza di carnefici e vittime del sistema spartitorio che il dottor Palamara vorrebbe squadernare innanzi alla Disciplinare pone una scelta drammatica per chi dovrà decidere: o si chiude la bocca all’incolpato non ascoltando neppure un testimone oppure diviene difficile setacciare tra nome e nome senza dare l’impressione che si voglia mantenere taluno esente da imbarazzi e scaraventare altri sul proscenio di un processo che sarà sotto gli occhi di tutti i media. Una sorta di vittimizzazione secondaria, così la chiamano gli esperti, difficile da digerire. Non solo l’ingiustizia patita, ma anche la probabile gogna della testimonianza pubblica con tutte le sue asperità e i suoi trabocchetti. Un danno d’immagine non trascurabile. Due opzioni di cui la difesa del dottor Palamara avrà ben calcolato gli effetti: nel primo caso sa l’incolpato che sarà difficile pronunciare una sentenza di condanna che sia esente da censure da portare subito dopo innanzi alla Cassazione o alla giustizia europea per la compressione del diritto di difesa; nel secondo caso si sfrutterà il vantaggio di assumere la testimonianza di chi ha subito un torto per evocare la responsabilità dei correi assenti. Un vero e proprio processo contumaciale in danno di persone che, comunque, non avranno potuto esporre il proprio punto di vista o fornire la propria versione dei fatti. Un vero incubo processuale che interpella la moralità e la professionalità dei giudici disciplinari al livello più alto, poiché certamente nessuno vorrà macchiarsi dell’accusa di aver celebrato un processo sommario, ma neanche qualcuno vorrà portare il fardello di una Norimberga delle toghe dai tempi imprevedibili e dagli esiti incalcolabili. L’accelerazione che la vicenda ha subito dopo la seconda – meno selettiva e interessata della prima – pubblicazione di chat lascia presagire un epilogo ravvicinato e rapido della vicenda. Ma nulla è scontato. Al di là dei proclami al rinnovamento morale, alla palingenesi etica, al soprassalto deontologico (roba sostanzialmente inutile in un corpo lacero e infetto che attende cure da cavallo), il processo è la sede insostituibile e irrinunciabile per l’accertamento dei fatti da cui muovere per la conseguente riforma della magistratura italiana. Sarebbe una iattura terribile se proprio le toghe mandassero alla pubblica opinione anche solo un segnale di preoccupazione o, peggio ancora, di paura verso il processo Palamara. Tra i testimoni si scorgono nomi di toghe che attraversano in lungo e in largo la penisola incitando i cittadini alla collaborazione con la giustizia, a testimoniare, a denunciare. Sarebbe curioso che, ora, chiamati al dovere di dire la verità assumessero atteggiamenti scomposti e riottosi, al limite dell’omertà. Già l’Anm – con ragioni formalmente corrette, ma rimaste poco comprensibili ai cittadini – ha negato al proprio ex-presidente di discolparsi prima di essere espulso. Ora il Csm è vocato a una scelta complessa e per giunta nell’esercizio della sua funzione più alta, quella giurisdizionale visto che, si badi bene, le sentenze disciplinari sono pronunciate, tutte, in nome del Popolo italiano. E a quel popolo ogni decisione dovrà apparire, come sempre, legittima, equa, imparziale, priva di condizionamenti, presa nel solo interesse della verità. Si può lasciare l’incolpato a briglie sciolte, dandogli modo di spargere sale sulle ferite vive della corporazione e, così, di attentare alla carriera di teste coronate o alla memoria di ex satrapi. Un rischio effettivamente incombente e non solo ipotetico. Oppure si può arginarne la frenesia locutoria fino ai limiti della paralisi con il rischio di spingerlo al gesto eclatante di rinunciare a ogni testimonianza in nome di una verità che – si direbbe troppo facilmente – si vuole oscurare per tenebrose connivenze. Nella solitudine della decisione ogni organo di giustizia è chiamato a operare scelte che siano rispettose della Costituzione secondo cui «la giustizia è amministrata in nome del popolo» (articolo 101) e di nessun altro interesse o soggetto. Nel farlo si dovrà evitare che vadano alla gogna persone che non possono difendersi o che testimoni siano costretti a deporre contra se (in spregio del divieto di porre domande autoincriminanti, art. 198, comma 2, c.p.p.), ma sarebbe tragico se la verità, ogni verità, bussasse invano al portone di palazzo dei Marescialli.

Csm, da Palamara "strategia di discredito" sui colleghi Creazzo e Pignatone. Pubblicato venerdì, 17 luglio 2020 da La Repubblica.it. Un comportamento "gravemente scorretto" con "strategia di discredito" su alcuni colleghi: come il procuratore di Firenze, Creazzo, come l'allora vertice di piazzale Clodio, Pignatone, o il suo aggiunto, Paolo Ielo. Così la Procura generale della Cassazione, guidata da Giovanni Salvi, descrive la condotta di Luca Palamara, il pm (ora sospeso) - ed ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, attualmente indagato a Perugia per corruzione -  nell'atto di incolpazione con cui ha chiesto alla sezione disciplinare del Csm di fissare il processo a carico del magistrato. Palamara dovrà presentarsi davanti al 'tribunale delle toghe' martedì prossimo, 21 luglio, per la prima udienza. E' il processo per il quale Palamara annuncia di volersi difendere punto su punto, presentandosi una lista di ben 133 testi. L'aggressiva strategia, stando agli atti, aveva per bersagli il procuratore della Repubblica di Firenze Giuseppe Creazzo, che aveva presentato domanda per l'incarico di capo della Procura di Roma, e il procuratore aggiunto della capitale, Paolo Ielo e l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Tra i capi di incolpazione stilati dal Pg della Cassazione Salvi, dei quali deve rispondere Luca Palamara  anche quello della "strategia di danneggiamento" verso il procuratore Creazzo "correlata ad esigenze di Luca Lotti", l'ex ministro renziano e attuale parlamentare dem - interlocutore abituale dell'ex presidente dell'Anm - a sua volta sotto inchiesta a Roma per l'inchiesta Consip, le indagini inizialmente radicate a Napoli che avevano scompaginato il giglio magico renziano. Contro Creazzo si volevano "enfatizzare", tramite "dossier" - è lo scenario che descrive l'accusa -  "vicende ipoteticamente ostative" alla nomina di Creazzo a Roma, vicende che potevano essere in grado di spostarlo da Firenze: proprio per favorire, secondo la ricostruzione accusatoria, l'allora indagato Lotti. Ma, sul punto, Palamara si difende obiettando che all'epoca per l'ex ministro Lotti si era già chiusa la fase delle indagini preliminari, e il suo status era mutato da quello di indagato ad imputato. 

Lodovica Bulian per “il Giornale” il 26 luglio 2020. Corruzione nell' esercizio della funzione, corruzione in atti giudiziari e violazione del segreto d' ufficio. Con un invito a comparire il 29 luglio davanti ai magistrati della procura di Perugia. Si aggrava la posizione di Luca Palamara che a settembre andrà anche a processo disciplinare davanti al Csm, dove mira a trascinare un centinaio di esponenti della magistratura per dimostrare che «così fan tutti». Ma intanto prosegue l' inchiesta per corruzione dei magistrati umbri ed emergono nuovi elementi nell'accusa all' ex presidente dell' Anm ed ex leader della corrente centrista Unicost. A Palamara viene contestato il segreto di ufficio in cui è coinvolto anche un altro magistrato romano, l' amico Stefano Fava, già indagato a Perugia. I due avrebbero manovrato per screditare la reputazione dell' ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e del suo aggiunto Paolo Ielo per gestire la sua successione e nominare chi di loro gradimento. E l'avrebbero fatto, secondo gli inquirenti, utilizzando a questo fine due quotidiani, il Fatto e La verità. Scrivono i magistrati che «i due pm violando i doveri inerenti alla propria funzione rivelavano ai giornalisti notizie di ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete». Secondo l'accusa, Fava che era il titolare del fascicolo su Piero Amara, ex legale esterno dell' Eni, «con l'aiuto e l'istigazione di Palamara» fa sapere ai cronisti dei quotidiani che l' avvocato era indagato per frode fiscale e bancarotta. E racconta anche di aver chiesto per Amara misure cautelari negate invece da Pignatone. Sulle motivazioni del diniego Fava aveva inviato un esposto al Csm. E poi c'è il filone mezzi e «viaggi»: Palamara avrebbe ricevuto tra il 2018 a 2019 due scooter da parte del titolare della Aureli Meccanica Federico Aureli, suo socio nel chiosco comprato in Sardegna attraverso, ipotizzano i pm, un prestanome. E sempre Aureli gli avrebbe anche pagato delle multe prese con quei mezzi. Un modo per sdebitarsi per l' interessamento del magistrato a un processo in cui sarebbero state coinvolte la moglie e la madre al tribunale di Roma. E poi ci sono quattro week end trascorsi dall' ex pm tra 2011 e il 2018 a Capri in un lussuoso hotel, con la moglie, con la famiglia e con una amica. Soggiorni a cinque stelle, fino a duemila euro per pochi giorni, offerti dal titolare della società a cui fa capo l' albergo. I legali di Palamara precisano: «Nella giornata di giovedì è stato notificato al nostro assistito avviso a comparire: e oggi è stato pubblicato sugli organi di stampa! Tuttavia, i fatti sono ampiamente noti a questa difesa e riguardano notori e consolidati rapporti di amicizia risalenti nel tempo (nel caso di Capri si tratta addirittura di inviti per un totale di 6 notti nell' arco di dieci anni ed in occasione di ricorrenze). È intenzione di Palamara quella di chiarire tutti i fatti oggetto di contestazione compresa la sua totale estraneità alle notizie pubblicate sul Il Fatto e La verità relativamente alle vicende dell' esposto di Fava contro Ielo e Pignatone per la mancata astensione nel procedimento penale nei confronti dell' avv.Amara a causa dei rapporti professionali tra quest' ultimo ed il prof. Roberto Pignatone. È ferma intenzione del nostro assistito per evitare inutili e pretestuosi stillicidi e per sgombrare il campo da possibili ed ulteriori contestazioni su asserite utilità ricevute».

Luca Palamara rivelò segreti al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio: "Campagna calunniosa contro l'avvocato Amara". Libero Quotidiano il 25 luglio 2020. Altri dettagli che inguaiano Luca Palamara e imbarazzano Marco Travaglio. Già, perché Repubblica dà conto di un retroscena relativo alla campagna condotta contro Giuseppe Pignatone dall'ex membro del Csm dal Fatto Quotidiano e dalla Verità. In questo contesto, sul giornale di Travaglio venga raccontato, scrive Repubblica, "in chiave calunniosa il conflitto nato all'interno di piazzale Clodio sul fascicolo di Piero Amara, avvocato coinvolto in un giro di corruzione in atti giudiziari. Secondo quanto scritto nell'invito a comparire della Procura di Perugia, "i due pm (Palamara e Fava, ndr) violando i doveri inerenti alla propria funzione, rivelavano ai giornalisti dei quotidiani Il Fatto Quotidiano e La Verità notizie di ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete". La più classica fuga di notizie dalla procura, insomma. E - toh che caso - tra i destinatari c'era proprio Travaglio, direttore del più celebre gazzettino delle procure, alias Il Fatto Quotidiano...

"Il Fatto" faceva da casella postale per le manovre in toga di Palamara & Co. Avviso a comparire per il pm: notizie riservate girate ad hoc al quotidiano. Lodovica Bulian, Domenica 26/07/2020 su Il Giornale. Corruzione nell'esercizio della funzione, corruzione in atti giudiziari e violazione del segreto d'ufficio. Con un invito a comparire il 29 luglio davanti ai magistrati della procura di Perugia. Si aggrava la posizione di Luca Palamara che a settembre andrà anche a processo disciplinare davanti al Csm, dove mira a trascinare un centinaio di esponenti della magistratura per dimostrare che «così fan tutti». Ma intanto prosegue l'inchiesta per corruzione dei magistrati umbri ed emergono nuovi elementi nell'accusa all'ex presidente dell'Anm ed ex leader della corrente centrista Unicost. A Palamara viene contestato il segreto di ufficio in cui è coinvolto anche un altro magistrato romano, l'amico Stefano Fava, già indagato a Perugia. I due avrebbero manovrato per screditare la reputazione dell'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e del suo aggiunto Paolo Ielo per gestire la sua successione e nominare chi di loro gradimento. E l'avrebbero fatto, secondo gli inquirenti, utilizzando a questo fine due quotidiani, il Fatto e La verità. Scrivono i magistrati che «i due pm violando i doveri inerenti alla propria funzione rivelavano ai giornalisti notizie di ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete». Secondo l'accusa, Fava che era il titolare del fascicolo su Piero Amara, ex legale esterno dell'Eni, «con l'aiuto e l'istitigazione di Palamara» fa sapere ai cronisti dei quotidiani che l'avvocato era indagato per frode fiscale e bancarotta. E racconta anche di aver chiesto per Amara misure cautelari negate invece da Pignatone. Sulle motivazioni del diniego Fava aveva inviato un esposto al Csm. E poi c'è il filone mezzi e «viaggi»: Palamara avrebbe ricevuto tra il 2018 a 2019 due scooter da parte del titolare della Aureli Meccanica Federico Aureli, suo socio nel chiosco comprato in Sardegna attraverso, ipotizzano i pm, un prestanome. E sempre Aureli gli avrebbe anche pagato delle multe prese con quei mezzi. Un modo per sdebitarsi per l'interessamento del magistrato a un processo in cui sarebbero state coinvolte la moglie e la madre al tribunale di Roma. E poi ci sono quattro week end trascorsi dall'ex pm tra 2011 e il 2018 a Capri in un lussuoso hotel, con la moglie, con la famiglia e con una amica. Soggiorni a cinque stelle, fino a duemila euro per pochi giorni, offerti dal titolare della società a cui fa capo l'albergo. I legali di Palamara precisano: «Nella giornata di giovedì è stato notificato al nostro assistito avviso a comparire: e oggi è stato pubblicato sugli organi di stampa! Tuttavia, i fatti sono ampiamente noti a questa difesa e riguardano notori e consolidati rapporti di amicizia risalenti nel tempo (nel caso di Capri si tratta addirittura di inviti per un totale di 6 notti nell'arco di dieci anni ed in occasione di ricorrenze). È intenzione di Palamara quella di chiarire tutti i fatti oggetto di contestazione compresa la sua totale estraneità alle notizie pubblicate sul Il Fatto e La verità relativamente alle vicende dell'esposto di Fava contro Ielo e Pignatone per la mancata astensione nel procedimento penale nei confronti dell'avv.Amara a causa dei rapporti professionali tra quest'ultimo ed il prof. Roberto Pignatone. È ferma intenzione del nostro assistito per evitare inutili e pretestuosi stillicidi e per sgombrare il campo da possibili ed ulteriori contestazioni su asserite utilità ricevute».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 26 luglio 2020. «Quelle fughe di notizie hanno rovinato l'inchiesta». Il pm di Perugia Mario Formisano il 9 luglio scorso è stato molto onesto con il cronista. Ma il riferimento non era allo scoop della Verità sull'esposto dell'allora pm Stefano Fava contro il suo vecchio capo Giuseppe Pignatone, bensì alle notizie pubblicate dalla Repubblica e dal Corriere della sera sul caso Csm nel maggio-giugno 2019. Ma purtroppo le indagini su quegli scoop procedono a rilento e dopo oltre un anno pare che non sia ancora stata individuata la manina che passò ai quotidiani notizie riservatissime sull'inchiesta, costringendo i pm alla discovery del fascicolo attraverso un decreto di perquisizione. Chi scrive è stato sentito due settimane fa come persona informata dei fatti per l'articolo pubblicato il 29 maggio 2019 sulla vicenda dell'esposto, anche se, all'epoca dei fatti contestati, non conosceva né Fava, né Palamara e ha appreso la notizia della denuncia da fonti diverse dagli indagati. Formisano, tra una domanda e l'altra, ha ammesso, come detto, la gravità delle altre fughe di notizie, ma intanto lui e la collega procedono celermente su quella collegata all'esposto di Fava. L'accusa, come ha anticipato ieri sempre la premiata ditta Repubblica-Corriere della sera, è che l'ex pm romano e Palamara, in concorso tra loro, «rivelavano ai giornalisti dei quotidiani Il Fatto quotidiano e La Verità notizie d'ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete». Fava le conosceva essendo contenute in un fascicolo di cui era stato titolare e Palamara lo avrebbe istigato a portarle a conoscenza dei due giornali. Ci assale un dubbio: la Procura di Perugia ritiene più urgente scoprire chi abbia spifferato informazioni riservate che riguardavano un procedimento capitolino, piuttosto che individuare chi abbia «rovinato» la propria inchiesta? I segreti che Fava avrebbe rivelato sono questi: l'iscrizione dell'avvocato Piero Amara in un procedimento per frode fiscale e bancarotta; la richiesta da parte dello stesso Fava dell'arresto per Amara, su cui Pignatone non aveva apposto il visto; una seconda richiesta di misura cautelare nei confronti di Amara per autoriciclaggio, che, anche in questo caso, il procuratore non controfirmò; la notizia che durante una perquisizione ai danni di Amara era stata recuperata documentazione che dimostrava come l'Eni, attraverso una società terza, avesse fatto pervenire ad Amara. Riassumiamo: viene accusato di aver favorito Amara attraverso le fughe di notizie chi aveva provato per ben due volte e inutilmente a farlo arrestare e non chi si era rifiutato per due volte di mettergli le manette. Palamara, che verrà ascoltato il prossimo 29 luglio dai pm Gemma Miliani e Formisano, è accusato di corruzione per l'esercizio della funzione e corruzione in atti giudiziari (anche se non è indicato il magistrato che avrebbe accettato di alterare la decisione) per una storia già raccontata in anteprima dalla Verità il 17 luglio scorso. L'ex presidente dell'Anm si sarebbe interessato a un procedimento che riguardava madre e moglie dell'amico Federico Aureli, da cui «indebitamente riceveva utilità consistite nella disponibilità di almeno due scooter [] e nel pagamento di multe levate mentre egli utilizzava tali motoveicoli». Ma c'è anche una seconda contestazione e riguarda quattro soggiorni a Capri del valore complessivo di 6890 euro effettuati tra il 2011 e il 2018 con la famiglia e con una amica in un lussuoso albergo di proprietà della società Artesole, di cui è titolare l'imprenditore Leonardo Ceglia Manfredi. In più Palamara avrebbe usufruito di due passaggi in auto con chauffeur costati 305 euro. In questo caso Palamara si sarebbe interessato alla causa di separazione del fratello di Ceglia Manfredi, Goffredo. Inoltre a casa di Palamara sono stati trovati dagli investigatori un verbale di verifica fiscale e un altro di ispezione in materia di igiene pubblica nei confronti della Artesole. Le chat tra Leonardo Ceglia Manfredi e Palamara sono molto lunghe e più che di corruzione in atti giudiziari i due discettano, come vitelloni attempati, di cene e week end in località esclusive, ma pure di calcio e donne. Comunicazioni tra bon vivant, ma soprattutto, pare di capire, tra amici. In un messaggio dell'ottobre 2017 i due sembrano fare riferimento a una causa: «Mio fratello mi pressa. Vorrebbe far promuovere un accordo». Il 19 giugno 2018 sempre Leonardo Ceglia Manfredi scrive a Palamara: «Ho sentito anche Vale (marito di un magistrato, ndr) allora vogliamo fare il week end 6-8 (luglio, ndr) a Capri». È uno dei soggiorni sotto inchiesta. I fratelli Ceglia Manfredi, in un procedimento per false comunicazioni sociali (per aver esposto nei bilanci «dati non corrispondenti a quelli reali»), sono stati difesi dagli stessi avvocati di Palamara e nel marzo 2019 il pm Francesco Cascini, fratello di Giuseppe, consigliere del Csm (entrambi sono finiti nella chat di Palamara) ha chiesto l'archiviazione, con il visto del procuratore aggiunto Rodolfo Sabelli. Ieri gli avvocati di Palamara Roberto Rampioni, Mariano e Benedetto Buratti hanno replicato con un duro comunicato sugli articoli di Corriere e Repubblica che hanno dato la notizia e hanno annunciato per l'interrogatorio del 29 un colpo di scena. «Nella giornata di giovedì è stato notificato al nostro assistito avviso a comparire: e oggi è stato pubblicato sugli organi di stampa» hanno puntualizzato, evidenziando il solito filo diretto tra inquirenti e redazioni. Per loro i soggiorni a Capri vanno collegati ai «notori e consolidati rapporti di amicizia risalenti nel tempo». Quindi hanno annunciato «l'alba di un nuovo giorno»: «È intenzione del dottor Palamara quella di chiarire il prossimo 29 luglio tutti i fatti oggetto di contestazione compresa la sua totale estraneità alle notizie pubblicate sul Fatto quotidiano e La Verità, relativamente alle vicende dell'esposto di Fava []. È ferma intenzione del nostro assistito, per evitare inutili e pretestuosi stillicidi e per sgombrare il campo da possibili ed ulteriori contestazioni su asserite utilità ricevute, anche quella di chiarire tutte le vicende inerenti richieste di interessamento per le nomine che nel corso degli anni gli sono state avanzate nell'ambito della sua attività consiliare e di esponente della magistratura associata e risultanti dalle chat acquisite al procedimento». Dunque, mentre i pm di Perugia puntano a incastrare Palamara, come un Al Capone qualunque, per l'utilizzo gratuito di due motorini e per quattro soggiorni in hotel (sette notti in totale), molto probabilmente dovranno prendere atto di nuove notizie di reato. Partendo da quelle chat che sono state inviate al Csm, ma su cui la Procura umbra non ci risulta abbia aperto alcun filone d'indagine.

In tanti promossi grazie all'ex leader di Unicost. Magistratopoli, pm servi di Palamara: “Sei il re di Roma”. Paolo Comi  su Il Riformista il 15 Agosto 2020. «Pal sei il re di Roma». Pal non è James Pallotta, fino al mese scorso l’italo-americano presidente della A.S. Roma, ma Luca Palamara, il signore indiscusso delle nomine al Csm. A pronunciare questa frase nell’estate del 2018 è il pm Marco Mescolini, nominato quell’anno, contro ogni previsione della vigilia, procuratore di Reggio Emilia. Mescolini, un giovane magistrato che ha appena raggiunto la quarta valutazione di professionalità e la cui unica esperienza significativa come pm è quella di essere stato sostituto nella città emiliana, ha sbaragliato la concorrenza di colleghi più anziani e blasonati che aspiravano a quell’incarico. Ad iniziare da Alfonso D’Avino, procuratore aggiunto a Napoli, che sarà costretto ad accontentarsi della Procura di Parma, una seconda scelta. L’autore del miracolo è sempre lui, Palamara, un tempo ras di Palazzo dei Marescialli, adesso indagato a Perugia per reati assortiti contro la Pa e scaricato da tutti i colleghi. Nel 2017 la situazione per Unicost, il correntone di centro di cui Palamara è stato il capo supremo, in Emilia è drammatica. Area, il raggruppamento delle toghe di sinistra, sta facendo da tempo man bassa di incarichi. Le toghe di Unicost sono scoraggiate e rischiano di disertare le urne in vista delle elezioni per il rinnovo del Csm. L’alert viene lanciato dal pm di Bologna Roberto Ceroni, uno dei pretoriani di Palamara nella città delle due torri. Palamara, dopo aver ascoltato il grido di dolore del collega, accetta la sfida e decide di scendere in campo come solo lui sa fare. La “lista della spesa” è lunga. Oltre a Mescolini, Ceroni indica un elenco di colleghi di Unicost che devono essere sistemati: Gianluca Chiapponi punta a diventare procuratore a Forlì, Stefano Brusati, presidente del Tribunale di Piacenza, Silvia Corinaldesi (che poi si candiderà al Csm, senza venire eletta, in segno di discontinuità con la gestione Palamara, ndr), presidente di sezione del Tribunale di Rimini, Lucia Russo, procuratore aggiunto a Bologna. «Si tratta di posti sui quali mi si chiede costantemente aggiornamento e che per noi rivestono importanza assoluta», scrive con tono fermo Ceroni. Palamara, da vero top player delle nomine, tranquillizza l’interlocutore, avvertendolo però che la battaglia a piazza Indipendenza sarà lunga e difficile. Non tutti i colleghi segnalati da Ceroni, pare, abbiano un cv all’altezza del ruolo a cui aspirano. «Dobbiamo blindare la motivazione, altrimenti rischia», scrive infatti Palamara a Ceroni riferendosi a Mescolini.  «Orco boia!», gli risponde, da vero emiliano, Ceroni. «Marco (Mescolini) lo sto blindando per Reggio Emilia (…) stesso discorso per la Russo che ha problemi», sottolinea allora Palamara. Come i veri fuoriclasse, Palamara prende i suoi colleghi per mano e li conduce alla vittoria. Cioè alla nomina tanto desiderata: solo Chiapponi alla fine resterà al palo. Mescolini, in tutto ciò, forse non fidandosi di Ceroni, inizia nel frattempo a stalkerare con i messaggi Palamara. L’ansia di non farcela è tremenda. «Quando puoi aggiornami… tanto io sono sempre in udienza con quel deficiente del presidente del tribunale (Cristina Beretti, ndr) che fissa pure il 3 aprile…. comunista….», gli scrive qualche mese prima di essere nominato. Fino al liberatorio: «Pal sei il re di Roma». La pubblicazione delle nuove chat di Palamara sta suscitando in queste ore un terremoto nella placida Reggio Emilia. L’attacco più duro è venuto da Sabrina Pignedoli, europarlamentare reggiana del M5s. «Schifo, ribrezzo e pena, sì forse è la pena che prevale per questi poveri mendicanti di incarichi», scrive Pignedoli in un post su Fb, domandandosi «che fine ha fatto quella frase utopica “la legge è uguale per tutti”?» Marco Eboli, portavoce di Fratelli d’Italia a Reggio Emilia, ha chiesto invece le “dimissioni” per Mescolini. Ma che qualcosa di “anomalo” ci fosse nelle nomine dei magistrati emiliani negli ultimi anni era però già emerso. Giovanni Bernini, ex assessore di Forza Italia al Comune di Parma, prima che venissero pubblicate le chat di Palamara, aveva scritto nel 2018 un libro profetico dal titolo “Storie di ordinaria ingiustizia” in cui raccontava dettagliatamente la lottizzazione degli incarichi in Emilia. Fabrizio Castellini, direttore della Voce di Parma, settimanale che da anni si interessa di queste vicende, interpellato al riguardo ha dichiarato: «Sono decenni che denunciamo inascoltati la spartizione fra le correnti dell’Anm degli incarichi nella nostra regione. Abbiamo anche fatto segnalazioni al Ministero della giustizia e alla Procura generale della Cassazione. Ovviamente è stato solo tempo perso». I nomi fatti da Ceroni, comunque, dovrebbero essere oggetto di valutazione ai fini disciplinari da parte della “task force chat” istituita dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi.

“Io promosso senza aiuti”, però ringraziò Palamara…Stefano Brusati su Il Riformista il 21 Agosto 2020.

Preg.mo Direttore. Le scrivo in merito all’articolo apparso sul suo giornale nella giornata del 15/8 con il titolo “Emilia: Pm servi di Palamara” in cui compare il mio nome. Lo faccio perché, riservata ogni altra iniziativa, intendo contestare alcune, a mio avviso, gravi affermazioni che compaiono in detto articolo. La mia domanda per l’incarico direttivo di Presidente di Tribunale di Piacenza non ha nulla ma proprio nulla a che vedere con la vicenda del conferimento dell’incarico di Procuratore della Repubblica di Reggio Emilia e di Procuratore della Repubblica di Parma. E ci tengo massimamente a tale distinzione. Non posso accettare di essere, di fatto, inserito fra i “tanti promossi grazie all’ex leader di Unicost”, per la semplice ragione che sono stato nominato Presidente del Tribunale di Piacenza dal Csm con delibera unanime dopo che, sempre all’unanimità, la competente Commissione mi aveva proposto per detto incarico. Nessun ricorso è mai stato proposto avverso detta delibera. Nell’articolo si parla del dott. Ceroni che – se non ho inteso male- nella sua veste di “uno dei pretoriani di Palamara nella città delle due torri…” avrebbe “indica(to) un elenco di colleghi di Unicost che devono essere sistemati”, e in detto elenco compare anche il mio nome, il tutto dopo la affermazione che “la lista della spesa è lunga”. Contesto anche dette gravi affermazioni in quanto:

- l’unica “lista della spesa” che conosco è quella che uso per fare acquisti in salumeria o dal fruttivendolo. Nulla sapevo delle iniziative del collega Ceroni al quale non ho mai chiesto di raccomandare la mia domanda.

-non avevo alcun bisogno di essere “sistemato” in quanto – al momento della mia domanda- ricoprivo il prestigioso incarico di Presidente della Sezione Lavoro della Corte di Appello di Bologna che – grazie anche ai colleghi componenti della stessa - ho portato (mi permetta l’immodestia) a risultati qualitativi/quantitativi di assoluta eccellenza ed oggetto di unanime apprezzamento. Ed anche per questo ero stato onorato dal Presidente della Corte di Appello con la nomina, altrettanto prestigiosa, di Vicario dello stesso.

Contesto anche la altrettanto grave affermazione secondo la quale “Palamara prende i suoi colleghi per mano e li conduce alla vittoria”. Ovviamente non sono mai stato condotto per mano dal dott. Palamara né mai l’ho chiesto. Nello sterminato elenco delle chat scaricate dal telefono cellulare del dott. Palamara (e diffuse più o meno lecitamente) non ne troverà nessuna da me spedita o ricevuta. E lo stesso dicasi per le telefonate. Men che meno troverà traccia di contatti personali. A sostegno della mia domanda ho confidato esclusivamente sul mio curriculum professionale, sui titoli previsti, sui risultati raggiunti nei vari Uffici Giudiziari in cui ho lavorato. È, se vuole, a Sua completa disposizione. Ho atteso serenamente la decisione del Csm con la altrettanto serena convinzione (chi mi conosce può confermare pienamente) che in caso negativo non l’avrei mai impugnata anche perché i prestigiosi incarichi di Presidente della Sezione Lavoro della Corte di Appello di Bologna e di Vicario del Presidente di detta Corte continuavano a darmi grandi gratificazioni professionali ed umane. Lo stesso comportamento l’ho tenuto anche con riferimento alla concomitante domanda di conferimento dell’incarico di Presidente del Tribunale di Modena, che è stato assegnato – con delibera dello stesso Csm e su proposta della medesima Commissione – ad un degnissimo collega e non ho mai neppure pensato che il suo noto impegno in MD/Area possa avere anche solo parzialmente influito su detta nomina. Chiedo, quindi e cortesemente, la pubblicazione di questa mia lettera per una più completa ricostruzione dei fatti e a tutela della mia reputazione personale e professionale e di trentasei anni di più che specchiata attività come Magistrato.

Risponde Paolo Comi: Prendiamo atto delle sue precisazioni. La invitiamo, comunque, a rivolgersi al dott. Roberto Ceroni e al dott. Gianluigi Morlini, esponenti di primo piano di Unicost, il gruppo al quale lei aderisce, affinché spieghino – pubblicamente – le ragioni del pressante interessamento “motu proprio” a conforto di una domanda che non aveva bisogno di alcuna segnalazione in quanto i titoli allegati, tutti prestigiosi, sarebbero bastati di per sé soli ad ottenere il meritatissimo incarico di presidente del Tribunale di Piacenza. Il dott. Roberto Ceroni, referente di Unicost nel distretto di Bologna, segnalò il suo nome al dott. Luca Palamara, all’epoca presidente della Commissione per gli incarichi direttivi del Csm e capo delegazione di Unicost a Palazzo dei Marescialli, per ben sei volte in circa due mesi. “Su Brusati non possiamo perdere. Il gruppo ne pagherebbe le conseguenze”, scrisse, alla vigilia del voto del Csm sulla sua domanda, Ceroni a Palamara. Secondo il codice etico dell’Anm, che lei conoscerà molto bene avendo per anni svolto un ruolo di primo piano nell’associazionismo giudiziario, quando il dott. Marcello Matera è stato il segretario generale di Unicost, “Il magistrato che aspiri a promozioni, a trasferimenti, ad assegnazioni di sede e ad incarichi di ogni natura non si adopera al fine di influire impropriamente sulla relativa decisione, né accetta che altri lo facciano in suo favore”. P.s. Perché subito dopo essere stato nominato presidente del Tribunale di Piacenza ringraziò calorosamente Luca Palamara? Ricorda? Era il 31 marzo.

 “Nomine di Magistratopoli vanno annullate, sono illecite”, l’atto di accusa del giudice Andrea Reale. Paolo Comi su Il Riformista il 20 Agosto 2020. Quando lo scorso anno vennero pubblicati per la prima volta sui giornali i colloqui aventi ad oggetto le nomine di importanti Procure fra l’ex pm romano Luca Palamara, alcuni consiglieri del Csm e i parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti, la reazione fu di generale indignazione. Ben cinque consiglieri del Csm, che avevano preso parte a quegli incontri, furono costretti alle dimissioni. Anche l’allora presidente dell’Anm Pasquale Grasso si dovette dimettere e al Csm si creò una nuova maggioranza. Tutt’altro scenario dopo le ultime pubblicazioni delle chat di Palamara, in cui viene disvelato apertamente il sistema degli accordi fra le correnti per l’assegnazione degli incarichi direttivi. La stampa in Italia è come certa magistratura: non è perfettamente libera. Ci sono dinamiche lampanti che evidenziano un fastidioso “doppiopesismo”.

Andrea Reale, gip al Tribunale di Ragusa, è fra i creatori del blog toghe.blogspot.com, uno spazio virtuale in cui i magistrati “senza casacca” denunciano i mali del correntismo in magistratura.

Giudice Reale, ha notato il silenzio dei “giornaloni” sulle ultime chat di Palamara?

«Si. I quotidiani che lo scorso anno diedero enorme risalto alla notizia di Palamara che brigava per nominare alcuni procuratori, adesso tacciono».

Un silenzio strano?

«Gli stessi quotidiani che hanno crocifisso i consiglieri che hanno partecipato alla riunione presso l’hotel Champagne oggi sono assolutamente in silenzio davanti al disvelamento pubblico del sistema di cui l’hotel Champagne è solo la punta dell’iceberg».

Leggendo la chat di Palamara non vi è dubbio alcuno su come funzionava il sistema….

«A tutte le conversazioni poi sono seguite nomine apicali secondo logiche correntizie».

L’ultima in ordine di tempo è quella di Marco Mescolini, poi nominato procuratore di Reggio Emilia. Il M5s ne chiede le dimissioni, il Pd lo difende.

«È la prova che esistono rapporti “discutibili” fra politica e magistratura. I politici che intervengono a difesa di condotte eticamente riprovevoli di un magistrato esercitano una indebita interferenza e dimostrano una faziosità sospetta, soprattutto perché a difesa di comportamenti indifendibili».

Palamara, da presidente della Commissione per gli incarichi direttivi, era subissato di telefonate e messaggi di colleghi che premevano per essere nominato. È normale?

«Il magistrato non lo deve mai fare. È scritto nel codice etico».

È un illecito?

«È un “evidente” illecito deontologico. Non è possibile intercedere o far intercedere alcuno con il consigliere che decide sulle nomine. È una prassi che deve definitivamente cessare».

Chiedere informazioni?

«Aver brigato solo per velocizzare l’iter della pratica rientra nel sistema delle correnti da denunciare ed espellere dal funzionamento del Csm. Lo ha detto anche il presidente della Repubblica».

E dal punto di vista disciplinare?

«Il problema è se la nomina ha causato un danno a coloro che non sono stati nominati. In quel caso credo ci possano essere illeciti disciplinari e anche penali».

Palamara ai suoi interlocutori ripeteva sempre: “Stai tranquillo, ti blindo la motivazione (con cui il magistrato viene nominato al Csm, ndr). Ci spiega cosa significa?

«(Ride) Non ci sono catenacci e porte blindate al Csm. Si parla sempre di discrezionalità in tema di scelte. La nomina blindata è un ossimoro, anzi un abuso. Se esiste discrezionalità si devono valutare tutti i candidati. Se avviene la “blindatura” vuol dire che la nomina è già predestinata e sono stati esclusi tutti gli altri candidati».

Ed è un illecito?

«È contro la legge».

Cosa si deve fare ora? Mi riferisco a quelli che sono stati nominati in questo modo.

«Un annullamento d’ufficio o un qualsiasi altro meccanismo che impedisca di mantenere il posto a chi lo ha ottenuto tramite una condotta illecita, anche se solo sotto il profilo deontologico».

Dopo lo scandalo dello scorso anno, le correnti a Palazzo dei Marescialli sono sempre al loro posto.

«Già, i gruppi al Csm sono tutti lì. Ancora oggi se un magistrato non appartiene ad un gruppo è escluso dalle nomine».

Si sente penalizzato?

«Ovvio. Tutti i magistrati, anche chi non è iscritto a una corrente, ha il diritto di poter partecipare a un concorso per una nomina o un avanzamento. E invece, nulla».

Rammarico?

«Che le istituzioni di garanzia, compreso il capo dello Stato, ancora non abbiano allontanato i gruppi consiliari dall’Organo di autogoverno dei magistrati. A tutela di tanti altri magistrati che non hanno tessere in tasca».

Arriva al Senato il caso del pm di Reggio Emilia che grazia il Pd. Mentre il "soccorso rosso"arriva in aiuto al magistrato Marco Mescolini dopo le polemiche scaturite un seguito alle intercettazioni tra lo stesso e Palamara, alcuni parlamentari di Forza Italia chiedono chiarezza al ministro della Giustizia. Chiara Giannini, Venerdì 21/08/2020 su Il Giornale. Mentre il «soccorso rosso», con la Cgil che gli esprime solidarietà, arriva in aiuto al magistrato Marco Mescolini dopo le polemiche scaturite un seguito alle intercettazioni tra lo stesso e Palamara, alcuni parlamentari di Forza Italia chiedono chiarezza al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. I senatori Gasparri, Aimi, Moles, Perosino, Rizzotti, Ferro, De Siano, Paroli, Barboni, Papatheu, Galliani, Floris e Pagano hanno presentato, infatti, un'interrogazione al Guardasigilli affinché spieghi il contenuto di alcune delle intercettazioni. Mescolini aspirava, all'epoca in cui furono fatte le registrazioni, al ruolo di capo della Procura di Reggio Emilia, poi ottenuto. «Reggio Emilia - spiegano i senatori - era l'epicentro degli interessi malavitosi del clan ndranghetista contro il quale proprio il pm Marco Mescolini diresse le indagini i sfociate nel processo Aemilia». E ricordano che «già nel maggio 2019 è stato pubblicato il libro di Giovanni Paolo Bernini in cui l'ex assessore di Parma poi indagato, processato e assolto dalle accuse formulate, con grande risalto mediatico, dal pm Mescolini, denunciava gravissime anomalie nella conduzione delle indagini e poi della pubblica accusa nel maxi processo Aemilia». Nel libro sono state pubblicate molte intercettazioni che coinvolgevano esponenti nazionali e locali del Partito Democratico. I senatori chiedono quindi di sapere «perché, a fronte delle intercettazioni in cui si parla di appalti pubblici, di voti, di richieste di favori, non siano stati emessi avvisi di garanzia o richieste di arresto nei confronti degli esponenti del Pd, ma solo di esponenti del centrodestra. E se alla luce delle intercettazioni con Palamara e dei fatti esposti non si ritenga di avviare una azione disciplinare nei confronti di Mescolini».

Ora i 5Stelle chiedono la testa del pm antimafia Mescolini: «Chiese favori a Palamara». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 19 agosto 2020. Secondo i grillini deve lasciare l’incarico di procuratore ma il Pd lo difende a partire da Delrio: «Basta gossip su telefonate private usate in modo strumentale». La recente pubblicazione integrale, da parte di alcuni quotidiani fra cui il Resto del Carlino, della chat fra l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara ed il pm bolognese Roberto Ceroni ha scatenato l’ennesima polemica sul sistema delle correnti in magistratura e sulla “lottizzazione” degli incarichi delle toghe. A finire nel mirino, questa volta, il procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini. Un “insolito” asse fra M5s, Fd’I e Forza Italia è arrivato a chiederne questa settimana le dimissioni. Nella chat, risalente al 2018 e confluita nell’ormai famosissimo fascicolo di Perugia aperto a carico di Palamara per corruzione, Ceroni, esponente di Unicost, segnalava al magistrato romano alcuni nomi di colleghi di corrente, poi tutti nominati dal Csm tranne uno, per degli incarichi direttivi e semi direttivi nel distretto di Bologna.Fra questi nomi c’era quello di Marco Mescolini, sostituto a Reggio Emilia e titolare dell’indagine “Aemilia” sulle infiltrazione della ‘ndrangheta nella città del Tricolore.Mescolini, che agli inizi della carriera era stato anche il consigliere giuridico, durante l’ultimo governo Prodi, del vice ministro dell’Economia Roberto Pinza, aveva fatto domanda nel 2017, insieme ad altri quattordici colleghi, per diventare il procuratore di Reggio Emilia.L’interlocuzione, come rivelato in questi giorni dai media, fra Palamara, storico leader di Unicost e nel 2018 presidente della Commissione per gli incarichi direttivi a Palazzo dei Marescialli, e Ceroni fu molto intensa e durò diversi mesi, terminando con la nomina di Mescolini, avvenuta a luglio di quell’anno, poche settimane prima della scadenza della scorsa consiliatura del Csm.I modi e i tempi di questa interlocuzione, ritenuta irrituale, sono stati duramente stigmatizzati dagli esponenti del M5s di Reggio Emilia. I pentastellati,  fino alla pubblicazione della chat, avevano sempre elogiato l’operato dei pm emiliani e di Marco Mescolini nel contrasto ai fenomeni mafiosi nella loro città.Ben sette fra parlamentari ed europarlamentari del M5S, fra cui la vice presidente della Camera Maria Elena Spadoni e l’ex presidente della Commissione giustizia della Camera Giulia Sarti, hanno chiesto a Mescolini di chiarire i suoi rapporti con Palamara. L’europarlamentare grillina Sabrina Pignedoli, che in passato ha anche scritto dei libri sull’indagine “Aemilia”, ha usato parole forti definendo  “mendicanti di nomine” i magistrati. “Perché fra tutte le Procure d’Italia Mescolini doveva essere nominato a Reggio Emilia?”, si domandano i pentastellati. Da chiarire, poi, una frase, “è importante per tutto”, utilizzata da Mescolini per perorare la sua nomina con Palamara: “Cosa si intende con quel tutto?”. “E’ un decennio che Palamara agisce indisturbato. Nessuno si è accorto di niente? Agiva per conto di qualcuno?”, gli altri interrogativi dei parlamentari Cinquestelle.A difesa di Mescolini, invece, i vertici del Partito democratico di Reggio Emilia.Per difendere Mescolini il Pd ha diramato nella serata di martedì una nota. Fra i firmatari, l’attuale sindaco Luca Vecchi, il suo predecessore Graziano Delrio, ora capogruppo dem alla Camera, i presidenti dell’Assemblea provinciale e della Provincia di Reggio Emilia Gigliola Venturini e Giorgio Zanni,“I democratici italiani e reggiani sono abituati ad avere rispetto del lavoro dei magistrati, che è un lavoro lento e difficoltoso rispetto al quale non è possibile assistere alla stregua di tifosi”, premettono i dem, secondo i quali “è inaccettabile attaccare i magistrati, alimentando una cultura del sospetto strumentale ed orientata a minarne la credibilità, a maggior ragione laddove gli stessi abbiano ricoperto un ruolo di primo piano nella lotta ai mafiosi nella nostra terra”. “Riuscirà per una volta la politica a non commentare inchieste e gossip giudiziari sulla base di conversazioni telefoniche private?”E poi la stoccata al voltafaccia degli esponenti locali del Movimento con cui governano insieme a Roma: “Lascia inoltre basiti chi fino a ieri inneggiava l’operato della Procura di Reggio Emilia, salvo oggi mettere in discussione la caratura etica e morale dei suoi protagonisti”. L’onorevole piacentino Tommaso Foti, vice capo gruppo di Fd’I alla Camera, ha chiesto il trasferimento del procuratore di Reggio Emilia ed una ispezione alla Procura, precisando che Palamara e Mescolini hanno il dovere di spiegare quanto prima le affermazioni “criptiche” utilizzate nella chat. Marco Eboli, portavoce di Fd’I a Reggio Emilia e   Giovanni Bernini, responsabile Enti locali per Forza Italia a Parma,  hanno infine organizzato un evento, che si terrà venerdì prossimo nel centro di Reggio Emilia, dal titolo  “Il caso Mescolini”.“Ho intenzione di chiedere a Raffaele Cantone, il procuratore di Perugia che indaga su Palamara, di essere ascoltato sulle nomine dei magistrati in Emilia Romagna”, ha affermato Bernini. “La chat di Mescolini per spingere la sua nomina è vergognosa”, ha poi aggiunto. E sempre da Forza Italia, con il senatore Maurizio Gasparri, è stata annunciata una interrogazione urgente al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sulla vicenda.

Nicola Gratteri a Pietro Senaldi: "Mi hanno detto che Napolitano non mi ha voluto ministro perché pm troppo caratterizzato". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 29 settembre 2020. C'è un magistrato che è riuscito a diventare famoso pur non cavalcando le correnti, anzi denigrandole pubblicamente. Naturalmente anche lui è un pm, ma atipico; al punto che viene accusato di essere un giustizialista non dai politici ma dai propri colleghi. Nicola Gratteri sta provando a fare con la 'ndrangheta in Calabria quello che Borsellino e Falcone tentarono con la mafia a Palermo. Ha la fortuna, a differenza dei due procuratori siciliani, che il governo e l'opinone pubblica si limitano a ignorarlo, anziché mettergli i bastoni tra le ruote.

Procuratore, in che stato è la giustizia italiana e quali sono i suoi mali?

«Non gode di ottima salute e sta attraversando un momento difficile. Quando si vivono certe situazioni bisogna avere la capacità di individuare rimedi e soluzioni. Sostengo da sempre che si devono realizzare, nel rispetto della Costituzione, le riforme necessarie per rendere sconveniente delinquere. Bisogna andare avanti nella informatizzazione del processo penale, strada intrapresa da tempo, divenuta fondamentale soprattutto ora, in tempi di distanziamento sociale e cautele sanitarie, e modificare una serie di norme che nulla aggiungono e molto tolgono».

Se potesse cambiare o introdurre qualcosa per far girare meglio il sistema, cosa sceglierebbe?

«Bisogna eliminare le formalità che nulla aggiungono in termini di reale difesa all'indagato/imputato. Ad esempio, oggi è possibile per il pm fare richiesta di giudizio immediato cautelare - con eliminazione della fase dell'udienza preliminare - solo nell'ipotesi di misura detentiva (carcere o arresti domiciliari) non anche se un soggetto è sottoposto alla misura dell'obbligo di presentazione alla Procura generale, se anche l'indagato ha già avuto piena cognizione di tutti gli atti in quanto vi è stata comunque una discovery completa. Tale limitazione andrebbe rivista. Questa è una delle tante piccole riforme che potrebbero velocizzare il processo penale».

Il mal funzionamento della giustizia è una delle piaghe dell'Italia, ma i più grandi oppositori di ogni riforma sono i magistrati: perché il malato rifiuta la cura?

«Io non credo che i magistrati come categoria si oppongano alle riforme. Credo solo che, quali operatori del settore, ben sanno quali sono le modifiche necessarie e quali no, e sopratutto quali cambiamenti non migliorano, anzi peggiorano, la situazione. A questa cura verosimilmente ci si oppone».

La riforma spetterebbe ai politici, ma questi sono sotto schiaffo delle inchieste: come può un politico riformare la giustizia, a meno che non sia San Francesco?

«Come si riforma ogni ambito della vita sociale e politica. Bisogna sedersi attorno a un tavolo e discutere le riforme necessarie avendo come unico obiettivo quello di migliorare il sistema giudiziario. E poi smettiamola con questa storia dei politici sotto schiaffo: se uno non ha nulla da temere, non ha ragione di preoccuparsi. Il migliore giudice di ciascuno di noi è la sua coscienza».

Si dice che i magistrati, e i procuratori in particolare, siano il potere più forte in Italia attualmente, concorda?

«Non direi. A meno che non si voglia accreditare l'idea che ci siano magistrati capaci di sedersi a tavolino per mettere in piedi inchieste con finalità politiche. Non mi risulta. Non escludo che qualcuno abbia potuto anche farlo. Ma non penso che ci siano magistrati che la mattina si alzino con l'idea di rovesciare un governo o mettere in crisi una coalizione».

I suoi più grandi denigratori sono magistrati: perché molti colleghi la attaccano?

«Questo lo deve chiedere a loro, non a me. Preferisco soffermarmi su quanti, magistrati e non, mi incoraggiano invece ad andare avanti coerentemente per la mia strada».

Cosa risponde a chi la accusa di giustizialismo?

«Rispondo che non è vero; non sono mai stato a favore di una giustizia "rapida e sommaria". Ritengo solo che l'Italia si meriti un sistema giudiziario capace di garantire la certezza della pena. Non possiamo pensare di vivere in un mondo abitato solo da gente buona e onesta. Sarebbe bello. Mi piace però pensare a un mondo in cui non sia conveniente delinquere. Chi commette un reato deve sapere che esiste una pena. E quella pena bisogna espiarla. Credo ovviamente all'idea della riabilitazione, soprattutto di chi si rende responsabile di reati ordinari, un po' meno per i mafiosi. Ma anche i mafiosi hanno la possibilità di redimersi, scegliendo di collaborare con la giustizia».

Buona parte delle persone che ha arrestato nella maxi retata è stata liberata: ha sbagliato qualcosa?

«Vorrei specificare, per chi non conosce il codice, che il pm chiede l'applicazione di misure di custodia cautelare a un giudice terzo, che può accogliere o rigettare la richiesta sulla base di quanto viene posto in valutazione. Il pm chiede, il giudice applica. La scarcerazione poi non significa automaticamente riconoscere l'estraneità dell'indagato rispetto all'ipotesi di reato contestata; in molti casi viene fatta una diversa valutazione in merito alle esigenze cautelari, ma questo è un discorso che non è possibile affrontare in termini astratti».

È vero che il Csm può determinare le carriere di chiunque e gli stessi magistrati sono intimiditi dalla cupola che li governa?

«Non ho mai fatto parte di alcuna corrente e sono estraneo alle logiche di cui parla. Non nascondo però il fatto che ci siano magistrati che sono riusciti a fare carriera grazie alla loro appartenenza al mondo delle correnti che erano nate con tutt' altra finalità. Il correntismo è uno di quei mali che andrebbero estirpati».

Perché non ha mai aderito a nessuna corrente?

«Proprio per la degenerazione che c'è stata delle correnti».

Come ha fatto allora a fare una carriera così brillante?

«Questo è un suo giudizio. Quando ho scelto Catanzaro, non mi pare che ci fosse tanta concorrenza. Oggi Catanzaro è diventata una sede appetibile, ma fino a qualche anno fa, pochi avrebbero fatto domanda per fare qui il magistrato. La mia carriera è fatta di indagini che hanno contributo a combattere un fenomeno insidioso, ricco e potente come la 'ndrangheta».

Cosa pensa dello scandalo Palamara?

«Ho letto molte cose che mi hanno ferito. Compreso commenti sul mio conto che non mi sarei mai aspettato di leggere. Mi auguro che il caso Palamara possa servire a fare luce sul correntismo. Palamara non è stato l'unico magistrato a servirsi delle correnti. Spero che questa vicenda possa fare da monito per evitare che certe cose si ripetano».

A cosa è dovuto il crollo di credibilità e autorevolezza della magistratura?

«Il magistrato dev' essere, sempre e comunque, al di sopra di ogni sospetto. E poi, come si dice: fa più rumore un albero che cade piuttosto che una foresta che cresce. Nonostante gli scandali, ci sono tantissimi magistrati che ogni giorno fanno il proprio dovere con abnegazione e professionalità».

La sovraesposizione mediatica aiuta o danneggia l'immagine dei magistrati?

«Dipende. Se si riferisce alla mia, di esposizione mediatica, le posso dire che ritengo utile e necessario fare conoscere il fenomeno della 'ndrangheta. Proprio perché se ne è parlato troppo poco negli anni passati, essa è potuta diventare l'organizzazione criminale più potente e forte al mondo».

Perché le inchieste sui politici, anche di secondo piano, hanno una eco mediatica di molto superiore alle sue sulla 'ndrangheta?

«Non saprei. La lotta alle mafie non è mai stata una priorità politica nel nostro Paese. Forse è il momento che lo diventi, perché con le mafie non è più possibile convivere. Quando si parla di mafie, si deve tenere conto di quella zona grigia che alimenta la forza e il potere delle mafie».

Che differenza c'è tra l'attuale 'ndrangheta e la mafia?

«La 'ndrangheta ha sempre cercato di mantenere un profilo basso. Fino a vent' anni fa, era considerata una mafia stracciona e niente più.»

E rispetto alla camorra raccontata da Gomorra?

«La 'ndrangheta non è mai entrata nell'immaginario collettivo. Non ci sono film o serie televisive che l'abbiano saputa raccontare, descrivere, analizzare».

È un problema più grave il malcostume politico o il dilagare della criminalità organizzata?

«Sono due facce della stessa medaglia. Nella voce sulla criminalità organizzata che io e il professor Nicaso abbiamo scritto per l'enciclopedia Treccani, abbiamo fatto una riflessione che mi aiuta a risponderle: ci può essere corruzione senza mafia, ma non c'è mafia senza corruzione. Per combattere le mafie, bisogna arginare il malcostume politico, la corruzione e i centri di potere in cui gli interessi dei clan e delle caste si intersecano».

Se dovesse fare una radiografia della 'ndrangheta in Italia, cosa direbbe?

«È la mafia più ricca e potente. Ma non è mai stata un agente patogeno che dal Sud ha infestato il Nord. Al Nord ha trovato le stesse condizioni che l'hanno fatto crescere al Sud: imprenditori e politici che l'hanno scambiata per un'agenzia di servizi».

Nel processo accusa e difesa sono realmente sullo stesso piano o, come lamentano gli avvocati, la bilancia pende a favore delle procure?

«Io non credo che il processo sia squilibrato. Ma sul punto sarebbe auspicabile un confronto - sereno e leale - che potrebbe aiutare a risolvere qualunque tipo di problema».

Perché allora è contrario alla separazione delle carriere: quali effetti negativi avrebbe, non aiuterebbe invece a fare chiarezza?

«Perché la separazione delle carriere non comporta alcun vantaggio ma solo svantaggi, e non solo in termini di cultura della giurisdizione, ma anche in termini di arricchimento e di sviluppo professionale. Non si deve sperare che le carriere non vengano separate, si deve anzi sperare il contrario e avere sempre più pm che hanno fatto i giudici e sempre più giudici che hanno fatto il pm. Io rivedrei anche le attuali limitazioni, almeno in parte, perché solo questa versatilità può avvicinare le parti del processo e al contempo assicurare una crescita professionale che, invece, verrebbe irrimediabilmente inibita da una separazione delle carriere».

Perché Napolitano non l'ha voluta al governo e perché invece Renzi la voleva così tanto?

«Bisognerebbe chiederlo a Napolitano. Mi è stato riferito che mi avrebbe definito un magistrato troppo caratterizzato. Non ho mai capito cosa volesse dire».

Che idea si è fatto delle accuse di Di Matteo a Bonafede, arrivate due anni dopo i fatti?

«Non so nulla al riguardo. Di Matteo avrà avuto le sue ragioni. Forse ha scelto il luogo sbagliato. Forse sarebbe opportuno riprendere il dialogo».

Che senso ha un'indagine parlamentare o ministeriale sulle scarcerazioni dei boss: non è questo vero giustizialismo?

«Tutt'altro. Bisogna capire come e perché in un determinato momento si è ritenuto di scarcerare detenuti al 41bis per inviarli in zone del Paese caratterizzate da un altissimo numero di contagi. Qualcosa non ha funzionato».

Che idea ha del processo per sequestro di persona a Salvini e delle intercettazioni dove due procuratori dicevano che non c'è reato ma il leghista va processato perché è un rivale politico?

«Non conosco nel dettaglio questo dialogo a cui fa riferimento. Se il contenuto è esattamente questo dovranno dare spiegazioni su quanto affermato perché si tratta di affermazioni che danneggiano l'intera magistratura».

Quanto è politicizzata la magistratura italiana?

«Come in ogni ambito della vita sociale, anche nella magistratura ci sono mele marce. Ma non credo ci sia una forte politicizazzione della categoria. Il problema è che bastano pochi per rovinare molti».

Si servono più i giudici dei politici o i politici dei giudici?

«Questo lo deve chiedere ai magistrati - se ne conosce - che vanno dai politici per chiedere favori personali».

 “La magistratura non ha mai avuto nessun fine politico!” Parola di Gratteri. Il Dubbio il 28 settembre 2020. Il procuratore di Catanzaro Gratteri dimentica Tangentopoli e Mafia capitale e quel giorno che disse: “Smonteremo la Calabria come un trenino Lego”. La magistratura non ha mai condizionato la politica. Parole e musica del procuratore di Catanzaro Gratteri al quale, probabilmente, devono essere sfuggite giusto un paio di inchieste giudiziarie che negli ultimi 30 anni hanno cambiato il corso della politica italiana. A partire dal ’92, anno d’inizio di Tangentopoli: l’inchiesta che ha messo i ferri ai polsi a un’intera classe dirigente e archiviato la prima Repubblica. Per finire con Mafia Capitale, l’indagine che avrebbe dovuto smascherare il controllo dei clan su Roma e il famigerato terzo livello — quello dello scambio politico-mafioso — salvo poi finire con un nulla di fatto. O quasi. Un nulla di fatto solo giudiziario, però. Perché sul piano politico quell’inchiesta ha determinato la caduta di un sindaco eletto dai romani e la nascita della giunta Raggi. Senza dimenticare la frase rubata all’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara: «Dobbiamo attaccare Salvini». Insomma, a Gratteri deve essergli sfuggito qualcosa, comprese le parole che lui stesso pronunciò nel corso di una conferenza stampa tenuta dopo un centinaio di arresti (e sì, l’Italia è quel posto in cui i magistrati indicono conferenze stampa): «Smonteremo la Calabria come un treno dei Lego e la rimonteremo», disse il procuratore di Catanzaro con fare vagamente comiziesco. Ma Gratteri è convinto dell’assoluta “innocenza” delle toghe e insiste: «Non possiamo accreditare l’idea che ci siano magistrati capaci di sedersi a tavolino per mettere in piedi inchieste con finalità politiche. Non mi risulta», ha infatti spiegato a Libero. «Non escludo che qualcuno abbia potuto anche farlo, ma non penso che ci siano magistrati che la mattina si alzino con l’idea di rovesciare un governo o mettere in crisi una coalizione». E poi: «Smettiamola con questa storia dei politici sotto schiaffo, se uno non ha nulla da temere, non ha ragione di preoccuparsi». Poi il procuratore di Catanzaro interviene sulla questione della separazione delle carriere. E lì non solo Gratteri è contrario ma auspica sempre più pm che diventino giudici: «La separazione delle carriere non comporta solo svantaggi, e non solo in termini di cultura della giurisdizione, ma anche di arricchimento e sviluppo professionale. Non si deve sperare che le carriere non vengano separate, ma avere sempre più pm che hanno fatto i giudici e sempre più giudici che hanno fatto i pm».

Gratteri influencer e la sua buona fede…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 29 Settembre 2020. C’è da credere che Nicola Gratteri sia perlopiù in buona fede. Il procuratore della Repubblica di Catanzaro è in buona fede quando, rispondendo a una domanda di Lilli Gruber sui toni violenti del dibattito pubblico, risponde che chi fa opinione deve stare attento a come parla perché «ognuno di noi abbiamo un seguito». È in buona fede perché con quel suo italiano un po’ così crede davvero che compito del magistrato sia di «fare opinione», e che per farla sia legittimo lasciarsi andare a requisitorie social contro i giornali che non concedono abbastanza spazio alle sue iniziative e non assumono il verbo opposto secondo cui la politica in Calabria è una montagna di merda, che è quello che a Gratteri invece piace e di cui infatti non si lamenta quando lo ripropone sul suo profilo Twitter. È in buona fede, questo magistrato che in televisione si occupa di fondi europei, di liste elettorali, di droga, di figli che bestemmiano, quando dimostra di credere veramente che sia “fisiologico” dover assistere agli innumeri casi di detenzione ingiusta registrati ogni anno in questo Paese, perché dopotutto si tratta del costo inevitabile della guerra alla corruzione e alle mafie. E non è in mala fede quando, a fronte dei tanti provvedimenti di scarcerazione disposti nei confronti dei troppi coinvolti nell’ultimo rastrellamento giudiziario da lui ordinato, spiega che un conto sono le esigenze cautelari e un altro conto sono le responsabilità: che significa che magari non bisognava arrestarli, ma vedrete che qualche mascalzonata l’han fatta. E pace se, in un sistema civile, non andare in galera senza motivo e prima del processo dovrebbe costituire un diritto forte, non una speranza travolta da una retata della rivoluzione giudiziaria che smonta come un giocattolo un pezzo d’Italia. Diversamente, è più difficile riconoscere a Gratteri anche solo un pizzico di buona fede quando spiega che «bisogna smetterla con questa storia dei politici sotto schiaffo», perché «se uno non ha nulla da temere, non ha ragione di preoccuparsi» (così, ieri, in un’intervista resa al direttore di Libero, Pietro Senaldi). Perché qui occorre intendersi. O questo influencer di Telecinquestelle (aka La7, ma Gratteri è notoriamente guest star un po’ dappertutto) non sa che politici e cittadini comuni sono affidati alle cure di giustizia anche quando non avrebbero proprio nulla da temere, se non appunto la giustizia che li fa a pezzi: e allora dovrebbe dare un’occhiata alle statistiche che raccontano quella vicenda a lui sconosciuta; oppure lo sa, come dovrebbe saperlo chiunque non sia esclusivamente fedele alla teoria ministeriale secondo cui “gli innocenti non finiscono in carcere”: e allora a quella sua dichiarazione non si può attribuire nemmeno il candore un po’ osceno con cui l’innocenza in galera è trattata come l’effetto collaterale di una politica repressiva ben poco intelligente. Nei due casi, ci sarebbe ragione di preoccuparsi altroché.

Palamara ammette: «È vero, la sinistra orienta la magistratura». E aggiunge: «Mi sono pentito». Gianluca Corrente lunedì 3 agosto 2020 su Il Secolo D'Italia. «La magistratura è in evoluzione, bisogna essere realisti. È composta da 9mila persone che nei fatti sono una comunità. Ed è indubbio che la sinistra ha una forte capacità di orientamento della magistratura». Ad affermarlo è Luca Palamara, nell’intervista con il direttore del giornale online Giulio Gambino durante la terza serata del TpiFest. «A volte ti viene da pensare che la stampa non sia libera, è importante l’indipendenza della stampa così come quella della magistratura. Ho grande fiducia che la generazione dei giovani possa dare al paese una stampa libera». «Se tornassi indietro non rifarei le stesse cose», aggiunge. «Eviterei questo meccanismo di relazioni. Sarei molto più netto su reiterate e numerose richieste di raccomandazione che hanno caratterizzato la mia persona in quegli anni. Mi sono pentito». Ci tiene però a sottolineare che «ci sono più Palamara per ogni correnti. E sono coloro che negli anni hanno ricevuto incarichi politici associativi». È stato preso «il mio telefono. Se fossero state ascoltate le conversazioni di miei omologhi si potrebbe avere visione più globale di quello che è realmente accaduto. Dovrebbero essere ascoltati per una visione meno parziale, perché esiste un altro pezzo». «Per le chat sul mio telefono, dico che contengono affermazioni improprie. Già più volte da quelle affermazioni io per primo ho preso le distanze. Ma tengo a dire che quando si scrive sulle chat spesso lo si fa in via confidenziale, in forma stringata, in forma sintetica. E soprattutto lo si fa nella convinzione del caposaldo della libertà e segretezza delle nostre comunicazioni», aggiunge Palamara. «Prendo le distanze da quelle che contengono contenuti impropri su svolgimento dell’attività politica. Ho esercitato una carica rappresentativa che come tale mi imponeva di interfacciarmi con il mondo della politica e delle istituzioni. Ho frequentato uomini politici di entrambi gli schieramenti. Determinati giudizi sono frutto di situazioni contingenti che come tali devono essere contestualizzati. Il mio nome, Palamara, può essere fatto solo per definire processo giusto e imparziale».

PALAMARA: “LA SINISTRA ORIENTA LA MAGISTRATURA”. Da tpi.it  il 4 agosto 2020. “La magistratura è in evoluzione, bisogna essere realisti, la magistratura è composta da 9mila persone che nei fatti sono una comunità. È indubbio che la sinistra ha una forte capacità di orientamento della magistratura. A volte ti viene da pensare che la stampa non sia libera, è importante l’indipendenza della stampa così come quella della magistratura. Ho grande fiducia che la generazione dei giovani possa dare al paese una stampa libera”. Lo ha detto il magistrato Luca Palamara nel corso dell’intervista con il direttore di TPI.it Giulio Gambino durante la terza serata del TPIFest!, a Sabaudia. “Se tornassi indietro non rifarei le stesse cose, eviterei questo meccanismo di relazioni e sarei molto più netto su reiterate e numerose richieste di raccomandazione che hanno caratterizzato la mia persona in quegli anni, mi sono pentito”, ha aggiunto Palamara, che è sotto inchiesta a Perugia. “Il mio è un ruolo che rischia di inghiottirti, che ti esaspera e ti fa perdere il contatto con la realtà e rispetto al quale la mia capacità relazionale si favoriva. Stiamo parlando di un meccanismo di individuazione del miglior dirigente sulla base di un accordo. In magistratura così come in politica e nei giornali. In Italia tutte le nomine avvengono su questa base”. Poi Palamara ha spiegato: “Non bastano solo le carte, spesso i curriculum sono sovrapponibili. Bisogna raccogliere maggiori informazioni e raggiungere accordi per favorire la situazione migliore perché se nel sistema delle correnti ogni corrente dice ‘io devo mettere uno qui e io uno lì”.

Filippo Facci per ''Libero Quotidiano''  il 4 agosto 2020. Quando una «notizia» era nota ma fa notizia lo stesso, è segno che fa parte delle grandi ipocrisie nazionali, della verità sottaciute, dei «si sa ma non si dice», spesso la si relega a berlusconata tipo «le toghe rosse» eccetera. Quindi, se un magistrato d'un tratto dice pubblicamente che «la sinistra orienta la magistratura», occorre subito vedere chi è, perché l'ha detto, se è da ritenersi credibile. Nel caso, il magistrato è Luca Palamara (intervistato durante un festival del sito Tpi, a Sabaudia) il quale è un ex componente del consiglio superiore della magistratura (Csm) che è stato il più giovane presidente dell'Associazione nazionale magistrati. Quindi è credibilissimo: e allora perché ha parlato? Risposta: perché è sputtanato, o come si dice: non ha più niente da perdere. Sappiamo che Luca Palamara l'anno scorso è stato indagato per corruzione, compravendite di sentenze e fuga di informazioni, e che dalle intercettazioni fatte col sistema trojan è venuto fuori un trojaio. Eppure, anche ai più navigati, sentir dire pubblicamente che «la sinistra orienta la magistratura» fa ancora avere un modesto soprassalto, e perché? Forse perché continua a sembrare grave, anomalo, distorcente l'equilibrio che dovrebbe caratterizzare il magistrato ma nondimeno il politico che lo orienta. Oppure, retrospettivamente, perché sappiamo che a una magistratura di sinistra non esiste una corrispondente magistratura di destra, o meglio: ciascuno ha le sue idee, ma chi cerca di trasfonderle nella professione togata è quasi sempre di sinistra. In altre parole, esistono migliaia di magistrati (circa novemila, nel penale) che si fanno gli affari propri e cercano solo di fare il proprio lavoro, ma tra essi c'è una minoranza che si muove in una logica di potere, e queste logiche sono e rimangono di sinistra perché presuppongono un ruolo sociale della magistratura che possa contribuire al cambiamento della società. Il «campionato» del potere si gioca solo a sinistra: è così che magistrati di mentalità anche di destra (pensate a Piercamillo Davigo) li ritroviamo a giocare nella logica delle correnti togate, quelle che si spartiscono posti e potere. Ma non esistono correnti veramente di destra: sono tutte e comunque in un campo di gioco che è dall'altra parte, l'unico disponibile: la differenza è che un tempo era una logica di sinistra incernierata ideologicamente coi partiti, oggi i partiti sono soltanto dei fragili appoggi appigli perché la magistratura militante consolidi un potere che non restituisce, ed è solo suo. La magistratura milita in se stessa, ed è soggetto politico a se stante. Certo, le correnti «Area» e Magistratura democratica» sono considerate più di sinistra, «Unità per la costituzione» più di sinistra-centro, «Magistratura indipendente» più di centro-sinistra: ma ripetiamo, a destra non c'è nulla, solo lavoratori privilegiati (e ben lieti di essere globalmente difesi dal sindacato unico, l'Associazione magistrati) oppure ci sono cani sciolti che però difficilmente finiscono sui giornali per inchieste e arresti clamorosi (di politici, in genere) e difficilmente si spartiranno poltrone e incarichi. E i partiti? Che c'entrano? Ormai niente: i partiti fanno capolino solo nella facoltà di candidare tizio o caio tra i consiglieri laici del Csm o altre cariche elevate. Non ci sono più le toghe rosse: nella notte della giustizia, tutti i gatti sono grigi. Il magistratura fa politica da sola, non essendo peraltro eletta dal popolo.

ARRESTI A DESTRA, CUORE A...Poi vabbeh, ci sono tanti magistrati di sinistra che sono stati eletti a sinistra (in Parlamento o altrove) dopo aver arrestato a destra. Gli esempi sarebbero tanti: pensate solo a Felice Casson, Gerardo D'Ambrosio, Luciano Violante. L'elenco - che comprende anche tanti magistrati minori - lo facciamo un''altra volta. E non c'è solo la sinistra delle poltrone e degli scranni: c'è un passato che reclama. Francesco Greco a 33 anni fu schedato dai servizi segreti perché collaborava alla rivista clandestina Mob, ricolma di esponenti della sinistra eversiva anche collegati con la colonna brigatista Walter Alasia. Un altro magistrato come Antonio Bevere, che in Cassazione fu relatore della sentenza che confermò la teorica galera per Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, era stato un «pretore d'assalto» dedito a sanare le ingiustizie di classe. Ci sono attempati e serafici magistrati che inneggiavano alla rivoluzione proletaria e a un uso alternativo del diritto. Non è un segreto. Cecilia Gandus, giudice del primo processo Berlusconi-Mills, da giovane non era certo di destra. E Ilda Boccassini, ancora nel 1987, fu sospesa da «magistrato di turno esterno» perché firmò un appello a favore di Potere Operaio. La corrente di Magistratura democratica lamentava che il Pci non fosse abbastanza di sinistra: ma è preistoria, ne è passato di piombo sotto i ponti. Il campionato però è rimasto a sinistra. In quale partito si candidò il destrorso Antonio Di Pietro, alla fine? E il presidente della Puglia, il piddino Michele Emiliano, che peraltro non si è ancora dimesso da magistrato? Quale partito difese Luigi De Magistris in tutti i suoi pasticci da magistrato? E Alberto Maritati, che fece arrestare il socialista Rino Formica prima di divenire senatore e sottosegretario per i Ds? L'elenco è lungo, la memoria è corta. Ieri il magistrato Palamara ha detto «la sinistra orienta la magistratura», domani - anzi, oggi - è un altro giorno.

Legali di Palamara contro il direttore della Stampa: «Guarda che si traffica pure sulle nomine dei giornalisti». Errico Novi su Il Dubbio il 26 luglio 2020. Dagli avvocati dell’ex leader Anm, replica non proprio esemplare, quanto a eleganza, all’editoriale firmato oggi sul quotidiano torinese da Massimo Giannini: «Omette di considerare che le modalità deprecabili non riguardano solo la magistratura ma anche il resto della Pa e le testate giornalistiche». Be’, la toccano piano. Proprio piano. Da un passaggio, in apparenza minore, della lunga replica diffusa oggi contro il direttore della Stampa, Giannini, gli avvocati di Luca Palamara lasciano intuire che la loro strategia difensiva continuerà ad essere quella del “chi è più pulito c’ha la rogna”. E la faccenda non  riguarda solo le chiamate di correità, più o meno allusive, pronunciate dal loro assistito nella ormai sterminata sequenza di interviste che continua a rilasciare. E allora: il collegio difensivo dell’ex presidente Anm controdeduce punto per punto il cahier de doleances evocato da Massimo Giannini nell’editoriale pubblicato oggi sul quotidiano torinese. Dalla secca smentita sulle «sentenze pilotate in cambio di scooter» alla generale prassi della «spartizione di poltrone» fra magistrati. Fino a una nota frivola, in fondo, di colore più che moralistica, capace però di accendere la scintilla nell’arringa dei legali: il direttore della Stampa parla infatti a un certo punto di «partite in tribuna d’onore». Non l’avesse mai fatto. Perché pare proprio agganciata alla più trascurabile delle “attenzioni” l’impennata degli avvocati di Palamara: «Il direttore de La Stampa, muovendo dalla premessa di dimostrare che il “baco è più incistato di quel che crediamo”, ha omesso però di riportare nell’articolo delle fondamentali informazioni. In particolare», scrivono i difensori,  «con riferimento alla ‘spartizione delle poltrone’ ha indotto il lettore a ritenere che le modalità deprecabili siano solo del mondo della magistratura omettendo ad esempio di considerare le modalità di effettuazione delle nomine negli altri settori della pubblica amministrazione, nelle aziende di Stato e nelle testate giornalistiche».

Ecco qua: Palamara, per interposto collegio difensivo, estende la chiamata di correo pure a noi giornalisti.

«Si può legittimamente criticare il sistema di selezione di cui ha fatto parte il dott. Palamara e asserire che esistono modi migliori e più efficaci per raggiungere l’obiettivo di dare ai vari settori le menti migliori per ruoli apicali, ma è pura demagogia scagliarsi tout court contro il potere e contro una sola persona», proseguono nella loro replica al vetriolo gli avvocati dell’ex leder Anm. Che si soffermano poi su quel particolare chissà perché più stuzzicante di altri, i biglietti in poltronissima: «Con riferimento alle partite in tribuna d’onore ha invece indotto il lettore a ritenere che la presenza di un magistrato ad una partita di calcio sia sinonimo di mediocrità e di baratto omettendo però di indicare tra gli altri anche i nominativi dei giornalisti beneficiari dei biglietti omaggio e presenti nella Tribuna Autorità in occasione delle partite della A.S. Roma».

Eccolo, alla fine, il dispettuccio. Però, una domanda sorge spontanea: siamo proprio sicuri che sparare a raffica per dimostrare che, appunto, non si salva nessuno, sia davvero della migliore strategia difensiva? O non rischia di diventare essa stessa un autogol, come forse sono stati tanti piccoli atti in apparenza solo maldestri attribuiti al pm dalle famigerate intercettazioni?

Hotel di lusso e moto, nuovi guai in vista per Palamara. La procura ha notificato a Palamara due avvisi di garanzia per corruzione in atti giudiziari e violazione di segreto. Alberghi e scooter in cambio di favori. Michele Di Lollo, Sabato 25/07/2020 su Il Giornale. Nuovi guai in vista per Luca Palamara. La procura di Perugia gli ha notificato altri due avvisi di garanzia per corruzione in atti giudiziari e violazione di segreto. Al centro, un hotel di lusso e l’uso di due scooter. Per un ammontare di diverse migliaia di euro. I fatti ritenuti illeciti dagli inquirenti riguardano alcuni soggiorni a Capri e l’uso di almeno due moto. Si tratta di due fascicoli per ora separati dall’indagine principale che potrebbero però confluire nello stesso eventuale processo. L’albergo pagato al magistrato dal proprietario della struttura è uno degli hotel più esclusivi dell'isola dei Faraglioni. Qui Palamara è rimasto per diverse giornate. Si tratta di quattro soggiorni: uno con la moglie nel 2011, uno con l’intera famiglia nel 2012 e due con un’amica nel 2017 e 2018. Il valore della presunta corruzione ammonterebbe a poche migliaia di euro. Per l’esattezza a 6.840 euro, ai quali l’accusa somma i 305 spesi per la macchina con autista per lo spostamento dalla stazione di Napoli all’imbarco. Perché questi favori? Secondo gli inquirenti tutto girerebbe intorno all’interessamento del magistrato per vicende legali che riguardavano un fratello del proprietario dell’hotel e la sua società. Stando a quanto racconta il Corriere della Sera, a casa di Palamara, lo scorso anno, gli agenti della guardia di finanza trovarono un verbale di verifica fiscale alla società e uno di ispezione di igiene pubblica. Poi il capitolo moto. Si tratta in questo caso del proprietario di una concessionaria, socio di Palamara nella società Kando Beach che gestisce l’omonimo bar sulla spiaggia sarda di Porto Istana, nella quale un commercialista amico di Palamara compare come "prestanome in via fiduciaria" del magistrato. A quest’ultimo il proprietario della concessionaria avrebbe garantito l’uso di due Yamaha, un X-Max 400 e X-Max 300, tra il 2018 e il 2019, nonché il pagamento delle multe fatte mentre lui utilizzava tali veicoli. Agli investigatori l’imprenditore ha spiegato che è sua abitudine prestare agli amici alcune moto in prova e che i soldi per le contravvenzioni prese da Palamara gli sono stati restituiti dal magistrato. Tuttavia, i pm Gemma Milani e Mario Formisano, insieme al procuratore di Perugia Raffele Cantone, la pensano diversamente. Secondo una loro ricostruzione, in cambio di favori il magistrato si sia interessato al buon esito di un processo che riguardava i parenti del venditore. Tutto viene ricostruito dalle intercettazioni. L’imprenditore aveva affermato: "Ho riferito a Palamara che mia moglie aveva una vicenda giudiziaria, ma mai ho chiesto a Luca di intervenire". Gli inquirenti non sono convinti di questa storia. La corruzione non sarebbe avvenuta per il generico "esercizio della funzione" di consigliere del Csm, bensì per favorire la parte di un processo. Insomma, altri problemi in vista in vista per il magistrato più chiacchierato di Italia. Qualcosa che farà discutere.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2020. Ai viaggi, gli alberghi e i lavori a casa di un'amica si aggiungono un hotel di lusso e l'uso di due scooter di grossa cilindrata. Per Luca Palamara, l'ex componente del Consiglio superiore della magistratura ed ex pubblico ministero a Roma inquisito per corruzione, arrivano nuove accuse. La Procura di Perugia gli ha notificato due avvisi di garanzia (con invito a presentarsi per l'interrogatorio) per corruzione in atti giudiziari e violazione di segreto. Le «utilità» ricevute dal magistrato, ritenute illecite dagli inquirenti, sono alcuni soggiorni a Capri e l'uso di almeno due moto, comprensivo del pagamento delle contravvenzioni. Si tratta di due fascicoli per ora separati dall'indagine principale ormai chiusa, ma che potrebbero confluire nello stesso eventuale processo. In questo caso la corruzione non sarebbe avvenuta per il generico «esercizio della funzione» di consigliere del Csm, bensì per «favorire la parte di un processo»; indirizzare le «controversie legali» che interessavano due imprenditori amici di Palamara. La violazione di segreto, invece, in concorso con l'altro ex pm romano Stefano Fava, riguarda la rivelazione di notizie pubblicate da due quotidiani il 29 maggio 2019 su un esposto presentato dallo stesso Fava al Csm contro l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il procuratore aggiunto Paolo Ielo. Stavolta l'albergo pagato al magistrato dal proprietario della struttura, Leonardo Ceglia Manfredi, è l'hotel Punta Tragara di Capri, uno dei più esclusivi dell'isola, dove Palamara è stato per sette notti, divise in quattro soggiorni: uno con la moglie nel 2011, uno con l'intera famiglia nel 2012 e due con l'amica Adele Attisani (coindagata nel procedimento principale quale «istigatrice e beneficiaria in parte delle utilità») nel 2017 e 2018. Valore complessivo della presunta corruzione: 6.840 euro, ai quali l'accusa somma i 305 spesi per la macchina con autista per lo spostamento dalla stazione di Napoli all'imbarco. La contropartita, secondo gli inquirenti, sarebbe stato l'interessamento del magistrato per vicende legali che interessavano un fratello di Ceglia Manfredi e la sua società; a casa di Palamara, lo scorso anno, gli investigatori della Guardia di finanza trovarono un verbale di verifica fiscale alla società e uno di ispezione di igiene pubblica. L'amico degli scooter, invece, è Federico Aureli, già titolare della concessionaria Aureli Moto, socio di Palamara nella società Kando Beach che gestisce l'omonino bar sulla spiaggia sarda di Porto Istana, nella quale il commercialista Andrea De Giorgio compare come «prestanome in via fiduciaria» del magistrato. Al quale Aureli avrebbe garantito l'uso di due Yamaha, un X-Max 400 e X-Max 300, tra il 2018 e il 2019, nonché «il pagamento delle multe levate mentre egli utilizzava tali motoveicoli». Ai pm l'imprendore ha spiegato che è sua abitudine prestare agli amici alcune moto in prova, e che i soldi per le contravvenzioni prese da Palamara gli sono stati restituiti dal magistrato. Ma i pm Gemma Milani e Mario Formisano, insieme al neoprocuratore Raffele Cantone, la pensano diversamente; ritengono che in cambio di moto e saldo delle multe il magistrato si sia interessato «al buon esito del processo penale nei confronti di Novelli Giovanna e Pellizzoni Patrizia». Sono la madre e la moglie di Aureli, imputate in un procedimento a Roma e assolte in primo grado. «Ho riferito a Palamara che mia moglie aveva una vicenda giudiziaria, ma mai ho chiesto a Luca di intervenire», ha riferito Aureli. Tuttavia messaggi e conversazioni al tempo delle udienze, insieme a testimonianze e atti raccolti nelle perquisizioni eseguite dai finanzieri, hanno convinto i pm del contrario. «Come si chiama moglie Aureli?», chiese Palamara, via whatsapp alle 23,52 del 27 giugno 2018, a De Giorgio che rispose: «Chi cazzo lo ricorda il nome... Sto a letto». Palamara insisteva: «È importante». La risposta arrivò il mattino seguente, e l'ex pm trasmise il nome al collega Paolo Auriemma, estraneo al procedimento contro le due signore. Nei giorni scorsi i pm di Perugia lo hanno interrogato, prima di comunicare le nuove accuse al magistrato inquisito per corruzione.

Estratto dell’articolo di Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica” il 25 luglio 2020. […] Infine, la contestazione di rivelazione del segreto d'ufficio che coinvolge anche un altro ex magistrato romano, Stefano Fava, già indagato e oggi in servizio a Latina. Si tratta della "manovra" che, nella primavera del 2019, i due pubblici ministeri concepiscono per sporcare l'immagine dell'allora Procuratore Pignatone (di cui vogliono condizionare la successione) e del suo aggiunto Paolo Ielo. La manovra prevede che sul "Fatto" e "la Verità", quotidiani che, per ragioni opposte e a loro modo convergenti, stanno facendo (e continueranno a fare) campagna contro Pignatone e l'ipotesi di una continuità nella guida della Procura di Roma, venga rivelato e raccontato in chiave calunniosa il conflitto nato all'interno di piazzale Clodio sul fascicolo di Piero Amara, avvocato coinvolto in un giro di corruzione in atti giudiziari e consulente di Eni. Si legge infatti nell'invito a comparire della Procura di Perugia: «I due pubblici ministeri (Palamara e Fava ndr.) violando i doveri inerenti alla propria funzione, rivelavano a giornalisti dei quotidiani Il Fatto Quotidiano e La Verità notizie di ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete». Secondo l'accusa, Fava, titolare del fascicolo su Piero Amara, e «con l'aiuto e l'istigazione di Palamara » racconta ai cronisti che l'avvocato era indagato per bancarotta e frode fiscale. Di più: Fava svela ai due giornali che lui aveva chiesto due misure di custodia cautelare per l'avvocato ma che l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone non aveva apposto il visto per ragioni che avrebbero avuto a che fare con un imbarazzo inconfessabile. E che, durante le perquisizioni, era stata recuperata documentazione che dimostrava come la società calabrese Napag era stata utilizzata per riciclare denaro che l'Eni aveva fatto pervenire ad Amara: 25 milioni di euro. Gli articoli furono pubblicati dal Fatto e dalla Verità alla fine di maggio del 2019. E riferivano pedissequamente la versione imbeccata da Palamara e Fava. Delle nuove accuse, ora, Palamara dovrà rispondere davanti ai magistrati: l'interrogatorio è fissato per il 29 luglio. Il giorno dopo si terrà, sempre a Perugia, l'udienza stralcio sull'utilizzo delle intercettazioni captate con il trojan e il gip dovrà decidere quali utilizzare nel processo.

Italo Carmignani e Egle Priolo per “il Messaggero” il 30 luglio 2020. Sotto torchio per oltre otto ore, fino a notte fonda. Per rispondere delle nuove accuse di corruzione e violazione del segreto istruttorio. «Non ha veicolato nessun esposto e per il resto ha chiarito rapporti di amicizia, quasi familiari, con gli imprenditori. Lo scooter? Preso in prestito per un periodo limitato di tempo e le multe pagate direttamente o restituendo i soldi». Così, nel resoconto dei suoi legali, l' ex consigliere del Csm Luca Palamara ha risposto - dalle tre di ieri pomeriggio alle domande del procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone e dei sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano. Arrivato in procura a piedi, accompagnato dai suoi avvocati, indossava giacca e polo blu. Prima di entrare, neanche una parola. Ma che per Palamara non sarebbe stata una passeggiata è stato chiaro dopo le prime quattro ore di interrogatorio: «Ci vorrà ancora tempo», ha detto chiaro e tondo Cantone affacciandosi fuori dagli uffici di via Fiorenzo Di Lorenzo, sede della procura perugina. E il tempo se lo sono preso davvero tutto i magistrati perugini, dopo aver aggiunto tre contestazioni all' iniziale accusa di corruzione per viaggi e ristrutturazioni in cambio di favori per cui oggi l' ex presidente dell' Anm si presenterà in aula per l' udienza stralcio davanti al giudice Lidia Brutti. Il gip deve decidere quali intercettazioni telefoniche trascrivere, compresa quella che riguarda i colloqui di Palamara con Cosimo Ferri e l' ex ministro Luca Lotti. Ma intanto, appunto, la procura ha aperto due nuovi fascicoli a carico di Palamara: la più recente accusa di corruzione è relativa a quattro weekend trascorsi tra il 2011 e il 2018 con la moglie, la sua famiglia e Adele Attisani (già indagata come «istigatrice delle condotte delittuose» nel procedimento principale) in un albergo di lusso a Capri in cambio secondo la procura di favori al fratello dell' imprenditore proprietario dell' hotel. Secondo i magistrati di Perugia, poi, l' ex pm avrebbe ricevuto tra il 2018 e l' aprile 2019 due scooter dal titolare di Aureli Meccanica e pure il pagamento di alcune multe. Anche in questo caso per la procura si tratterebbe di un favore in cambio di un presunto interessamento in un processo che vedrebbe coinvolte madre e moglie del proprietario degli scooter. Tutti particolari che i legali dell' ex pm (ora sospeso e senza stipendio) hanno contestato ben prima dell' interrogatorio di ieri: gli avvocati Mariano e Benedetto Buratti e Roberto Rampioni hanno spiegato come le ultime accuse siano relative a «consolidati rapporti di amicizia risalenti nel tempo». E comunque nelle otto ore e mezza di interrogatorio, Palamara ha chiarito come non ci sia stata «nessuna interferenza: tutte le udienze si sono tenute con regolarità». L'ulteriore fascicolo sull'accusa di violazione di segreto - in concorso con l' altro ex pm romano Stefano Fava riguarda invece la rivelazione di notizie circa un esposto presentato dallo stesso Fava al Csm contro l' ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il procuratore aggiunto Paolo Ielo, nell' ambito della battaglia per la successione alla procura romana, per quel «mercato di toghe» per cui Palamara è sotto procedimento disciplinare. In questo caso, nel mirino c' è la riunione del 9 maggio 2019 all' hotel Champagne per parlare di nomine ai vertici degli uffici giudiziari di Roma ma anche di Perugia, come emerso dalle conversazioni intercettate dal trojan inoculato nel cellulare di Palamara e di cui si parlerà oggi in aula, dopo la memoria presentata dai suoi legali e la risposta veemente della procura. La battaglia è solo iniziata.

Palamara interrogato per otto ore in procura: "Le multe pagate e i weekend a Capri? Frutto di amicizie di vecchia data". Pubblicato mercoledì, 29 luglio 2020 da Maria Elena Vincenzi su La Repubblica.it. L'ex consigliere del Csm accusato di corruzione e rivelazione del segreto d'ufficio respinge le accuse, il suo avvocato: "Abbiamo chiarito tutto, mai interferito con altri processi". Era quasi mezzanotte quando l'ex consigliere del Csm Luca Palamara ha lasciato l'ufficio dei pm che lo accusano di corruzione. Otto ore di interrogatorio per rendere conto di tre nuove contestazioni: la rivelazione del segreto d'ufficio verso due quotidiani, in concorso con il collega Stefano Fava, e alcuni episodi di corruzione. Uno riguarda l'uso di due scooteroni di Federico Aureli, titolare di un concessionario, e il pagamento di numerose multe che l'ex presidente dell'Anm avrebbe preso con quel mezzo. L'altra imputazione ha a che fare con quattro weekend a Capri, tra il 2011 e il 2018, nel lussuosissimo hotel Punta Tragara, omaggio del titolare Leonardo Ceglia Manfredi. Sia le moto sia i soggiorni, secondo l'accusa, sarebbero stati offerti a Palamara in cambio di un suo interessamento a processi che coinvolgevano parenti dei suoi generosi amici. "Abbiamo chiarito tutto - ha detto il legale di Palamara, Benedetto Marzocchi Buratti, lasciando gli uffici giudiziari - precisando che si tratta, per quello che riguarda Ceglia Manfredi e Aureli di amicizie di vecchia data. Addirittura i figli del mio assistito chiamano Aureli "zio". Gli scooter erano in Sardegna a disposizione degli ospiti, li ha usati Palamara come tanti altri. E in nessuno dei due casi il dottor Palamara ha interferito con processi che riguardavano loro parenti, come peraltro precisato dal presidente della Corte d'Appello di Roma Luciano Panzani nella sua relazione". Infine la rivelazione del segreto d'ufficio: i pm Gemma Miliani e Mario Formisano accusano Palamara e Fava di avere veicolato informazioni riservate a "Il Fatto Quotidiano" e "La Verità". La vicenda è quella dell'esposto inviato al Csm da Fava in cui quest'ultimo accusava l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il suo aggiunto Paolo Ielo di non aver vistato le sue richiesta di custodia cautelare per l'avvocato Piero Amara a causa di interessi personali. "Anche su questo - ha concluso il legale - abbiamo dimostrato come nei giorni della pubblicazione dell'articolo Palamara non abbia avuto alcun contatto coi giornalisti di quelle testate".

Italo Carmignani ed Egle Priolo per ''Il Messaggero'' il 31 luglio 2020. Luca Palamara ha spiegato per otto ore mercoledì, ma non è detto che la procura perugina gli abbia creduto. Anzi. Otto ore fino a notte inoltrata per contestare le nuove accuse che la squadra di Raffaele Cantone muove all' ex pm: la violazione del segreto istruttorio sull' esposto presentato dall' ex pm Stefano Fava al Csm contro l' ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l' aggiunto Paolo Ielo, più due casi di corruzione per quei quattro weekend trascorsi tra il 2011 e il 2018 in un albergo di lusso a Capri in cambio di favori al fratello dell' imprenditore proprietario dell' hotel e i due scooter che Palamara avrebbe ricevuto tra il 2018 e l' aprile 2019 dal titolare di Aureli Meccanica con tanto di pagamento di alcune multe. Anche in questo caso per la procura si tratterebbe di regalie in cambio del suo interessamento in un processo che vedrebbe coinvolte madre e moglie del proprietario degli scooter. Otto ore di serrata partita a ping pong, tra contestazioni precise, mirate e quelle carte che per i sostituti procuratori Gemma Miliani e Mario Formisano rappresentano prove granitiche. L' ex consigliere del Csm ha risposto punto per punto: i viaggi deluxe a Capri con la famiglia, la moglie e l' amica Adele Attisani? Frutto di «rapporti di amicizia decennale con Leonardo Ceglia Manfredi (titolare della srl proprietaria del Punta Tragara, cinque stelle da 500 euro al giorno, ndr) e nessun interessamento su procedimenti che riguardano lui o i suoi familiari», ribattono i legali. Gli scooter? Solo un mezzo «a disposizione degli amici in Sardegna, preso in prestito per un periodo limitato di tempo e le multe pagate direttamente o restituendo i soldi». La comunicazione del nome della moglie dell' imprenditore al pm romano che seguiva il caso? Nessuna interferenza, ma solo «un interessamento» per conoscere le novità sul procedimento delle parenti di un amico praticamente fraterno. L' accusa sull' esposto invece ha sollevato questioni interne al Csm, dinamiche interne alla procura di Roma, nell' ambito della successione a Pignatone, con quella fuga di notizie contestata dai legali dell' ex presidente dell' Anm perché «le notizie uscite sui giornali erano già note». E non fossero bastate le otto ore di mercoledì («Poi vedremo gli sviluppi», ha vaticinato la difesa), ieri mattina Palamara si è trovato di nuovo davanti ai pm perugini e al gip Lidia Brutti, che deve decidere quali intercettazioni trascrivere nell' ambito del procedimento principale che vede l' ex pm indagato sempre per corruzione per le ristrutturazioni e altri viaggi (da Favignana a Londra fino a Dubai) regalati secondo la procura per favori all' imprenditore Fabrizio Centofanti. Più strateghi che sfibrati, gli avvocati hanno rinunciato a presentare eccezioni davanti al gip all' acquisizione delle intercettazioni, comprese quelle parlamentari che vedono coinvolti anche Cosimo Maria Ferri, deputato di Italia viva e giudice in aspettativa, e l' ex ministro Luca Lotti, entrambi non interessati dal procedimento perugino. «Per quanto riguarda le intercettazioni che coinvolgono i parlamentari riteniamo che sia competente la Camera dei deputati», ha detto però al termine dell' udienza l' avvocato Benedetto Buratti. Tutto rinviato quindi al 21 settembre per la nomina del perito. Data utile per la difesa per studiare tutte le carte, ma anche perché successiva al 15, quando inizia il procedimento disciplinare (con il Csm che ha già detto no alla ricusazione di Piercamillo Davigo) sul cosiddetto mercato delle toghe e il «sistema delle correnti» in magistratura. Per quelle nomine pilotate, è l' accusa, a Roma come a Perugia. Dove, però, dopo il terremoto nel Csm, l' ha spuntata proprio Cantone.

Giacomo Amadori per “la Verità” l'1 agosto 2020. «Ormai sono come Severino Citaristi, lo storico tesoriere della Democrazia cristiana». Con i suoi legali l' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati Luca Palamara non perde il gusto per la battuta dopo l' arrivo di quattro nuove incolpazioni inviate dalla Procura generale della Cassazione per le celeberrime 49.000 pagine di chat intrattenute con decine di colleghi e non. Citaristi è famoso per l' infinito numero di avvisi di garanzia che gli vennero notificati durante Mani pulite. «Ma a quante incolpazioni arriverò? A cento?» ha provato a sdrammatizzare con i suoi legali. Interpellato dalla Verità l' avvocato Benedetto Buratti ci ha confermato la notifica delle nuove incolpazioni. Accompagnando la notizia con questo commento: «Tuttavia il quadro rischia di rimanere parziale basandosi esclusivamente sulle chat contenute nel telefono del dottor Palamara ed impedendo in questo modo il raffronto con i messaggi contenuti nei telefonini di altri esponenti del Consiglio superiore della magistratura». Purtroppo per Palamara i pm di Perugia hanno sequestrato solo il suo smartphone. Per questo nella rete della Procura generale della Cassazione, guidata da Giovanni Salvi, sono rimasti invischiati solo i magistrati che hanno intrattenuto comunicazioni ambigue con la toga sotto indagine.

Tra quelli raggiunti dalle nuove notifiche e accusati di gravi scorrettezze c'è Valerio Fracassi, già capogruppo di Area (il cartello delle toghe progressiste) nel Csm nella scorsa consiliatura. Fracassi è finito nei guai per una chat di cui questo giornale ha dato conto sia sull' edizione cartacea che su quella online. Lui e Palamara sono accusati di illecito disciplinare, il primo in qualità di consigliere del Csm, il secondo come presidente della quinta commissione, quella che si occupa dell' assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi. Il messaggio di Fracassi che ha innescato l' incolpazione è datato 12 febbraio 2018: «Ti prego di non pubblicare il posto di pst (presidente di sezione del Tribunale, ndr) Brindisi che è quello in cui tornerò. Il decreto di pensionamento del collega che è andato via non è stato notificato. E comunque è una pubblicazione destinata alla revoca. E non mi sembra uno scandalo mantenere un posto in cui tra qualche mese per legge tornerò anche in soprannumero». Alla richiesta Palamara risponde così: «Ciccio su questo lo sai che hai un fratello». Fracassi: «Mi dicono che nell' elenco predisposto per la pubblicazione c' è pst Brindisi. Per favore parla con Iacovitti e fallo togliere prima che parta l' istruttoria». Palamara: «Provvedo subito». Passa mezz' ora e l' ex presidente dell' Anm informa il collega: «Già servito Ciccio. L' ho fatto togliere». Adesso i due «cicci» sono incolpati. E nell' atto di incolpazione si legge proprio che Fracassi otteneva da Palamara «di espungere dai posti di imminente pubblicazione quello di presidente di sezione del Tribunale di Brindisi () ufficio poi effettivamente ricoperto alla fine del mandato consiliare ()». Fracassi, dopo la pubblicazione dell' articolo della Verità, inviò una mail ai colleghi in cui spiegava la sua versione: «Io "dovevo" tornare lì (posto di provenienza) "anche" in soprannumero (dunque nessuna promozione). Qualunque amministrazione seria non copre il posto, appena liberatosi e a pochi mesi dal mio rientro in ruolo». Per lui indire un bando sarebbe stato uno sbaglio, con conseguente rischio di revoca. «La faccenda era stata già spiegata all' amico Palamara che assicurava di aver compreso. E invece se n' era dimenticato. Nella concitazione del momento è stato usato il messaggio che più poteva recepire l' interlocutore per una questione che non era un "favore", ma evitare un errore». La Procura generale deve averla pensata diversamente.

Un altro magistrato che è rimasto impantanato nelle chat con Palamara, è Stefano Pizza, esponente di Unicost, oggi pubblico ministero a Roma. In questo caso la grave scorrettezza è quella ai danni della collega Arianna Ciavattini, finita nel mirino per aver chiesto l' assoluzione di Elismo Pesucci, ex sindaco di Campagnatico, politico di cui Pizza aveva ottenuto l' arresto preventivo quando lavorava a Grosseto. Il nocciolo della questione viene riportata in numerosi messaggi Whatsapp, intercorsi tra il 27 ottobre 2017 e il 10 giugno 2018: la Ciavattini ha un passato da militante nei giovani di Forza Italia, la madre è stata eletta con il partito di Berlusconi in Provincia e l' imputato è pure lui un forzista. Per la Procura generale Palamara e Pizza «ponevano in essere () reiterati e gravi comportamenti scorretti nei confronti della dottoressa Ciavattini, sostituto presso la Procura di Grosseto, consistiti in un' attività di "intenso dossieraggio", vale a dire di raccolta di informazioni, relazioni di polizia giudiziaria, documenti, articoli di stampa sulla pregressa attività politica svolta dalla predetta in epoca antecedente al suo ingresso nei ruoli della magistratura, nonché di quella svolta dalla madre, Doretta Guidi, ed ancora di raccolta di informazioni sui suoi rapporti con la polizia giudiziaria, con gli avvocati del Foro, sulle conclusioni da lei adottate in vari processi, al fine di screditare la predetta predisponendo una raccolta di tale materiale che veniva posto a disposizione dapprima dal dottor Pizza e poi dal dottor Palamara di alcuni giornalisti non meglio identificati» al fine di «screditare» la Ciavattini. Non riuscendo nell' intento di far pubblicare gli articoli, «detto materiale formava oggetto di un esposto anonimo predisposto e inviato, sulla base dei messaggi scambiati, dal dottor Pizza, previo accordo con il dottor Palamara» alla prima commissione del Csm, alla Procura generale della Cassazione e al consiglio giudiziario della Corte d' Appello di Firenze «al fine di sollecitare questi organi () nei confronti» della Ciavattini.

La Procura generale ha fatto le pulci anche al vecchio capo dell' ufficio, l' ex pg Riccardo Fuzio oggi in pensione, per cui spese parole di elogio anche Sergio Mattarella al momento del congedo. E così Fuzio e Palamara sono stati incolpati per le presunte trame ai danni di Maria Giuseppina Fodaroni, sostituto procuratore generale della Cassazione che all' epoca era stata incaricata del procedimento disciplinare contro Giuseppe Campagna, presidente della sezione civile del Tribunale di Reggio Calabria e compagno di squadra nella rappresentativa magistrati di Palamara. Quest' ultimo il 3 maggio 2018 scrive a Fuzio: «Foderoni (sic, ndr) oggi male». Risposta: «Disciplinare? Chi? Giubilaro?». Palamara: «Campagna. Ci tengo moltissimo. Te lo avevo detto. Pre istruttoria». Fuzio: «Non mi ha riferito». Palamara: «Fatti dire da lei». Fuzio: «Ma come mai fissato così presto?». Palamara: «Non lo so. Lo ha sentito oggi». Il giorno dopo Palamara torna alla carica: «Hai novità? Domenica dobbiamo fare il punto su tutto. Sarà settimana calda». Fuzio: «La Fodaroni è sparita». Palamara: «Appunto. Recuperala». Il 21 maggio il magistrato sotto inchiesta sbotta: «Ma 'sta cazzo di Foderoni dove l' avete trovata?». E Fuzio gli propone una chiacchierata a quattr' occhi davanti a «una pizzetta» del bar Florian. Due mesi dopo Palamara riscrive: «Ti ricordi Foderoni Campagna?». Fuzio: «Risolto. Lo scrivo io. Già parlato anche con Salvato». Palamara: «Bene». C' è, infine, in attesa delle prossime, l' incolpazione per la chat con l' albergatore sardo Edoardo Grillotti assillato da un procedimento civile giunto in Cassazione contro la Regione. Pare di capire che queste prime quattro incolpazioni siano solo l' inizio di una nuova slavina che rischia di minare ulteriormente la credibilità del sistema giudiziario.

Magistratopoli, Palamara "inguaia" Pignatone: gli presentò il lobbista Centofanti. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Luglio 2020. Fu molto probabilmente Luca Palamara a presentare il lobbista Fabrizio Centofanti all’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. La circostanza pare emergere dall’inchiesta di Perugia che vede l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati indagato per corruzione. Una conoscenza, quella di Centofanti, che rischia di mettere in grande imbarazzo Pignatone il quale, dopo essere andato in pensione lo scorso anno per raggiunti limiti di età, è stato nominato da Papa Francesco presidente del Tribunale supremo pontificio. Il fatto che Palamara possa aver presentato Centofanti a Pignatone, il condizionale è d’obbligo, potrebbe dunque essere il motivo che causò la rottura dei rapporti fra i due magistrati. Rapporti che erano sempre stati, come spesso ricordato da Palamara, di strettissima collaborazione e stima reciproca. Secondo i pm umbri Gemma Miliani e Mario Formisano, Palamara sarebbe stato a “libro paga” di Centofanti. Per lui l’accusa è di “corruzione per esercizio della funzione”. Il lobbista, classe 1972, avrebbe pagato per anni viaggi e soggiorni in Italia e all’estero al magistrato romano.Il primo pagamento per questi viaggi risalirebbe, come si legge nel capo d’imputazione della Procura di Perugia, al 2011. Palamara era allora presidente dell’Anm. Tre anni più tardi sarebbe stato eletto, nelle liste della corrente di centro Unicost, al Consiglio superiore della magistratura. Durante tutto il periodo di Palamara al Csm, Centofanti avrebbe continuato a pagargli viaggi e soggiorni. L’ultimo soggiorno pagato, ad Ibiza, risale all’estate del 2017. Palamara ha comunque già detto di poter provare che si trattava di anticipi all’interno di un rapporto amicale risalente nel tempo e che non hanno condizionato la sua attività di consigliere del Csm. Il fatto è stato provato dal gip di Perugia che lo ha escluso: «Il contributo del singolo consigliere non può assumere rilievo determinante nell’ambito dei processi deliberativi di un organo collegiale e non sono stati individuati specifici comportamenti anti/doverosi attribuibili a Palamara». A febbraio del 2018 Centofanti viene arrestato nell’ambito di una indagine condotta dal procuratore aggiunto della Capitale Paolo Ielo. Fra le accuse, associazione a delinquere finalizzata alle fatture false per diverse società a lui riferibili. Fra queste, Energie nuove, una società operante nel settore delle energie rinnovabili. Nella galassia societaria di Centofanti c’era anche Cosmec, il Centro organizzativo di seminari, mostre, eventi e comunicazione, che aveva sede a Roma in via Cassiodoro, una società attiva nell’organizzazione di convegni giuridici. Secondo gli investigatori, dietro alla organizzazione e gestione di meeting e convegni a cui partecipavano alti magistrati, c’era l’interesse di Centofanti a sviluppare conoscenze in ambienti istituzionali e politici. Con gli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore, Centofanti è poi indagato a Messina in un procedimento per corruzione in atti giudiziari, il cosiddetto “sistema Siracusa”, per pilotare processi davanti ai giudici amministrativi. Fu lo stesso Pignatone, durante una riunione a piazzale Clodio il 16 novembre del 2016, alla presenza di Paolo Ielo e dell’altro aggiunto Giuseppe Cascini che indagava su Centofanti, ad ammettere di conoscerlo. La dichiarazione è stata riportata dal pm Stefano Fava, all’epoca nel dipartimento dei reati contro la Pa diretto da Ielo. In una annotazione successiva, Fava riporterà anche un colloquio avuto il 24 novembre 2016 con il capitano Silvia Di Giamberardino, alla presenza dei marescialli Michele Iammarone e Cristin Amori, all’epoca in servizio presso il Nucleo speciale di polizia valutaria della guardia di finanza (delegati all’indagine nei confronti di Centofanti, ndr)”. L’ufficiale avrebbe detto a Fava che «i rapporti fra lui (Centofanti) e Pignatone sono “molto stretti”, che sono stati visti molte volte a cena anche alla presenza del generale della guardia di finanza Minervini (Domenico, già comandante interregionale dell’Italia centrale, condannato nel 2017 per corruzione, ndr), che il generale Minervini trascorre tutte le estati un periodo di vacanza presso l’hotel Tramontano in Sorrento di proprietà della famiglia Iaccarino cui appartiene, per linea materna, la moglie di Centofanti Andrea (fratello di Fabrizio), ufficiale della guardia di finanza». Andrea Centofanti sarà poi arrestato a Genova, sede che non era stata di suo gradimento, per concussione in danno di un notaio. Pignatone, a tal proposito, dichiarò che su “pressante richiesta” di Fabrizio Centofanti si era interessato con il comandante generale della finanza Saverio Capolupo “mio buon amico” affinché il fratello potesse, invece, rimanere in servizio in Lombardia. Nel processo in corso a Roma Centofanti è difeso dall’avvocato Franco Coppi.

Quarta Repubblica, Alessandro Sallusti su Luca Palamara: "Un processo alla magistratura, tirerà giù tutti". Libero Quotidiano il 14 luglio 2020. Come andrà a finire il caso che sta travolgendo la magistratura italiana e che vede Luca Palamara come epicentro? Un'idea, ben precisa, ce l'ha Alessandro Sallusti, il quale la snocciola nel corso di Quarta Repubblica, il programma di Nicola Porro in onda su Rete 4, la puntata è quella di lunedì 13 luglio. Si parla della lunga lista di teste presentata dall'ex membro del Csm e il direttore de Il Giornale va dritto al punto: "Palamara per il suo processo davanti al Csm ha chiamato 104 illustri testimoni - premette -. Sarà un processo alla magistratura italiana perché Palamara non vuole affondare da solo ma tirerà giù tutti", conclude Sallusti profetizzando una sorta di tsunami sull'intera magistratura.

Magistrati alla sbarra. L'ex capo dell'Anm pronto a difendersi nel procedimento al Csm. Il nodo delle promozioni delle toghe coinvolte nei processi all'ex premier. Luca Fazzo, Martedì 14/07/2020 su il Giornale. Centotrentatrè testimoni per un processo alla magistratura, alle sue correnti, alle manovre, alle spartizioni, agli accordi sottobanco che per dieci anni hanno governato la lottizzazione degli uffici giudiziari di tutta Italia. Ieri Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, indagato per corruzione, deposita la lista dei testimoni che chiede alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura di interrogare nel procedimento contro di lui. Palamara sa di rischiare la cacciata, sa che la sua toga è appesa un filo. E decide di vendere cara la pelle. La lista che deposita ieri è potenzialmente devastante: per i personaggi chiamati a deporre, e per gli argomenti trattati. Alcuni esplicitamente, alcuni tra le righe, ma altrettanto comprensibili. Compreso il capitolo di prova su cui Palamara chiede che risponda Ernesto Lupo, ex primo presidente della Cassazione, numero 80 della lista: «Sulla autonomia della scelta decisionale della commissione incarichi direttivi e del plenum del Csm», si legge, «ed in particolare su quelle effettuate nella consiliatura 2014-2018». Nel mirino finiscono in questo modo le promozioni ad incarichi superiori di alcuni dei magistrati che in quegli anni avevano contribuito alle sentenze di condanna di Silvio Berlusconi. La riprova di quanto Palamara ha detto a più riprese nei giorni scorsi sulla necessità di capire bene come andarono i processi al Cavaliere. Incredibilmente, a sette giorni dall'udienza contro Palamara non si sa ancora chi comporrà la sezione disciplinare del Csm: come se si faticasse, tra i membri del Consiglio superiore, a trovare qualcuno disposto a affrontare l'esplosivo materiale sottoposto dall'incolpato. A partire dalla prima scelta, la più delicata: quali e quanti testimoni ammettere dei 133 della lista. Ovvero: quanto consentire a Palamara di allargare il campo di battaglia. Nella lista ci sono politici, uomini delle istituzioni, magistrati. Tra questi ultimi, quasi l'intero gruppo dirigente delle correnti che hanno governato il Csm: da Edmondo Bruti Liberati a Claudio Castelli a Piercamillo Davigo a Antonangelo Racanelli, tutti chiamati a raccontare come funzionassero davvero i rapporti con i partiti politici, a partire della nomina del vicepresidente del Csm. Ci sono due ex ministri della Giustizia (Flick, Orlando). E ci sono magistrati famosi o sconosciuti, tutti chiamati a rispondere alla stessa cruciale domanda: «l'esistenza o meno di una prassi costante, da parte dei magistrati aspiranti agli incarichi direttivi, di conferire direttamente o per interposta persona con i componenti in carica del Csm». È la prassi della raccomandazione, delle cordate. E la comparsa di alcuni nomi nella lista fa capire che Palamara è pronto a rinfacciargli di avere bussato a lungo alla sua porta. C'è, altrettanto micidiale, la lista dei testi che secondo Palamara devono spiegare come nasce davvero l'indagine di Perugia nei suoi confronti, a partire dalla battaglia per la guida della Procura di Roma. Ci sono ufficiali e sottufficiali del Gico della Finanza, chiamati a raccontare perchè il trojan venne installato, e perché andava a intermittenza. Ci sono casi in cui funzionava anche a dispetto degli ordini dei pm, come quando registra l'incontro tra Palamara e il deputato Cosimo Ferri, coperto dall'immunità. Altre volte si spegne inspiegabilmente. A partire dalla misteriosa interruzione la sera del 21 maggio 2019, quando il dialogo tra Palamara e l'allora pg della Cassazione Riccardo Fuzio sparisce dai radar alle 21.53: è la chiacchierata in cui, secondo voci che circolano da tempo, viene esplicitamente evocato il ruolo del presidente della Repubblica. Che il Quirinale non possa essere lasciato fuori dalla vicenda, lo dice anche l'inserimento nella lista di Stefano Erbani, consigliere giuridico di Sergio Mattarella, uomo di collegamento tra il Colle e il Csm. Al centro di tutto, il casus belli che segna l'inizio della sua fine, per Palamara resta la partita per la Procura di Roma. E qui tira in ballo tutti, dal vecchio capo Giuseppe Pignatone che avrebbe partecipato anche lui agli incontri con il renziano Luca Lotti, al procuratore aggiunto Paolo Ielo, a casa del quale nel settembre 2014 si sarebbero riuniti oltre a Pignatone e Palamaara, altri tre big dell'Anm «sul tema dell'organizzazione della Procura di Roma, anche con riferimento a future nomine dei procuratori aggiunti». È la cena in cui secondo Palamara dopo l'elezione del nuovo Csm le correnti di centro e di sinistra (Unicost e Area) si spartiscono la Procura capitolina. Eravamo, dice in sostanza Palamara, tutti allo stesso tavolo. E funzionava così, dalla notte dei tempi: chiede che venga interrogato dal Csm persino l'ottuagenario Cesare Mirabelli, che era in Csm tra il 1986 e il 1990, oltre trent'anni fa. I magistrati di tutta Italia lo sapevano e facevano la fila per il nostro aiuto quando aspiravano a una procura, a un tribunale, una corte d'appello. Un mercato a cielo aperto di cui facevano parte, scrive Palamara, «segretari, riferenti locali ed esponenti dei gruppi associativi; componenti togati ed ex togati; componenti laici e i loro diretti referenti nel mondo della politica; aspiranti agli incarichi conferiti dal Csm». Se glielo lasciano fare, sarà un processo divertente.

Da adnkronos.com il 14 luglio 2020. Dall'ex ministro della Giustizia e vicesegretario del Pd Andrea Orlando, al magistrato e scrittore Gianrico Carofiglio, ai presidenti emeriti della Consulta, Cesare Mirabelli e Giovanni Maria Flick. E' lungo l'elenco dei testimoni per i quali la difesa di Luca Palamara, l'avvocato Stefano Giaime Guizzi, ha chiesto alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistraturala la citazione, in vista dell'udienza prevista il prossimo 21 luglio. L'elenco, che conta 133 nomi, comprende tra gli altri l'ex ministro della Difesa Roberta Pinotti, l'ex senatrice Anna Finocchiaro, l'attuale vicepresidente di Palazzo dei Marescialli David Ermini e gli ex Michele Vietti e Giovanni Legnini, il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero De Raho, i pm romani Domenico Ielo, Sergio Colaiocco Luca Tescaroli, l'ex presidente della Corte dei Conti Raffaele Squitieri.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per "la Verità" il 14 luglio 2020. La lista testimoni presentata da Luca Palamara al Csm in vista della prima udienza davanti alla sezione disciplinare, se verrà accolta, potrebbe disvelare urbi et orbi come sia stata gestita in Italia la giustizia dagli anni Ottanta a oggi. Infatti la scelta dei 126 testi indicati dal pm sotto inchiesta per corruzione a Perugia ha l' ambizione di mettere a nudo l' ipocrisia di un sistema che adesso vuole processare uno dei vecchi leader per comportamenti che, è la tesi di Palamara, sono stati prassi per decenni. Insomma il mercato delle toghe non è una sua invenzione, come non lo è l' incestuoso rapporto tra toghe e politica. La prima parte dei testimoni sono collegati alle specifiche accuse, mentre un' altra cinquantina di testi sembrano inseriti per consentire un processo all' intero sistema. Tra gli obiettivi della Palamara' s list ci pare di intravedere in Quirinale. Il consigliere di Sergio Mattarella, Stefano Erbani, sarà chiamato a riferire, tra le varie cose, sulle «tematiche inerenti i rinvii dei procedimenti» disciplinari e in particolare quello relativo a Henry John Woodcock, il pm del caso Consip. Erbani dovrebbe anche parlare del suo interessamento per le audizioni degli candidati all' incarico della Procura di Roma, fortemente volute dal Quirinale, quando ormai i giochi a favore di Marcello Viola sembravano fatti. Palamara tira in ballo pure un altro consigliere di Mattarella, Francesco Saverio Garofani, questa volta per i rapporti e i colloqui intrattenuti con l' onorevole Luca Lotti e in particolare «con riferimento alle vicende relative al Csm». Come dire: se io Palamara sono incolpato perché frequentavo l' indagato Lotti, perché Garofani poteva incontrarlo per trattare le stesse questioni? Palamara vorrebbe sentire anche Ernesto Lupo, già consigliere di un altro presidente, Giorgio Napolitano, ed ex componente di diritto del Csm. Lui, come molti altri testimoni, dovrebbe riferire «sulla prassi costante» delle «interlocuzioni preliminari» degli aspiranti vicepresidenti del Csm con i membri togati del parlamentino e con correnti e Anm e sugli «accordi i più ampi possibili» per «la rapida nomina dei vertici degli uffici giudiziari»; ma anche sulla «prassi costante» da parte dei magistrati aspiranti agli incarichi direttivi o a quelli fuori ruolo «di conferire direttamente, o per interposta persona» con i membri del Csm. Lupo dovrebbe testimoniare anche «sulla natura dei rapporti tra la componente laica del Csm e i partiti politici di riferimento», oltre che «sulle modalità di conferimento degli incarichi di presidente di sezione della Corte di Cassazione». Il riferimento, neppure troppo velato, pare essere alla nomina di Amedeo Franco, il giudice della Cassazione che aveva chiesto l' ausilio di Lupo per la propria promozione e che prima di ottenerla aveva fatto parte del collegio che aveva condannato Silvio Berlusconi, salvo successivamente pentirsene. Palamara ha inserito nella sua lista anche diversi vicepresidenti del Csm: David Ermini, ancora in carica, Giovanni Legnini, Michele Vietti, Nicola Mancino e Cesare Mirabelli. Citati pure due ex candidati a quella poltrona come Massimo Brutti (contro Legnini) e Giovanni Maria Flick (contro Vietti). A tutti, come a Lupo, viene chiesto di esprimersi sui rapporti tra Csm e politica e sulle dinamiche delle nomine. Ermini dovrebbe essere sentito «sulla ragione dei suoi colloqui» con Palamara e del suo rapporto con Lotti, mentre il procuratore della Dna Federico Cafiero De Raho dovrebbe confermare di aver ascoltato Palamara parlare dell'inchiesta di Perugia, quando non era ancora esplosa ufficialmente, proprio in presenza di Ermini. Legnini dovrebbe essere compulsato a proposito di una conversazione avuta con l' ex ministro Paolo Cirino Pomicino e intercettata nell' ambito dell' inchiesta Consip. In essa si parlava di Woodcock «nel periodo di svolgimento del procedimento disciplinare nei confronti dello stesso» e proprio per questo Legnini dovrebbe anche spiegare «le ragioni del rinvio» di quel processo. Ma Legnini è stato convocato anche per parlare dei «rapporti di conoscenza e di frequentazione» tra Palamara e Lotti «nonché della presenza in tali occasioni tra gli altri anche del Procuratore Giuseppe Pignatone». Il riferimento è ad almeno una cena a casa dell'ex consigliera del Csm Paola Balducci, chiamata anch' ella a dire la sua su quell' incontro conviviale. I procuratori aggiunti do Roma Rodolfo Sabelli e Stefano Pesci sono, invece, chiamati a testimoniare «sulle ragioni per cui fu organizzata una cena a casa del dottor Ielo nel settembre del 2014 tra i dottori Palamara, Cascini, Sabelli, Pignatone, Pesci e Ielo». Dovranno anche dire «se nel corso della cena vi fu un confronto di opinioni, tra i presenti, sul tema della organizzazione della Procura di Roma, anche con riferimento a future nomine dei procuratori aggiunti». Pare di capire che in quell' occasione di discusse della formazione della futura squadra di Pignatone in cui entrarono come vice proprio Sabelli, Ielo e Cascini (Pesci solo successivamente). L' ex consigliere del Csm Lucio Aschettino dovrà parlare delle «vicende relative alla nomina dei quattro posti di procuratore aggiunto a Roma tra il febbraio e l' aprile 2016». Di cene insieme e dei buoni rapporti di Palamara con Pignatone, ma anche con Paolo Ielo, dovrebbero riferire anche il giudice romano Paola Roia e l' ex presidente della Corte dei Conti Raffaele Squitieri. Palamara ha chiamato a testimoniare anche l' amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e l' ex dirigente del cane a sei zampe Claudio Granata «sulle modalità dell' incarico conferito all' avvocato Domenico Ielo e sull' assenza di qualsiasi richiesta di informazioni, al riguardo, da parte del dottor Palamara». Il riferimento è al presunto dossier che qualcuno avrebbe cercato di confezionare contro Paolo Ielo, il cui fratello Domenico era un consulente della compagnia petrolifera. Il tema del possibile conflitto di interessi di Ielo e del procuratore Pignatone era stato sollevato dal pm Stefano Fava, il quale aveva presentato anche un esposto al Csm. Denuncia a cui Palamara non vuole essere collegato, ma che a suo dire avrebbe creato grande agitazione. Per questo viene citata un' intercettazione del 7 maggio 2019 tra lo stesso Palamara e l' allora componente del comitato di presidenza del parlamentino dei giudici Riccardo Fuzio, il quale riferisce di un rallentamento dell' esposto: «La cosa è un poco strana. C' è qualcuno che dice facciamo fare una relazione al procuratore generale». All' epoca pg della Corte d' appello era Giovanni Salvi, oggi il grande accusatore di Palamara & c. Un altro importante capitolo riguarda i politici. Palamara nella sua lista ha inserito diversi esponenti di spicco del Pd, oltre a Legnini ed Ermini, come l' ex presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti (che avrebbe perorato alcune nomine), l' ex Guardasigilli Andrea Orlando, l' ex ministro della Difesa Roberta Pinotti (che avrebbe partecipato nel dicembre 2014 a casa di del lobbista Fabrizio Centofanti a una cena con Palamara e Pignatone) e gli ex senatori-magistrati Anna Finocchiaro e Gianrico Carofiglio (citato in una chat per una cena), anche loro da sentire sulla questione delle nomine e dei rapporti magistratura-politica. Palamara tira pesantemente in mezzo pure le correnti chiedendo ai loro vertici di rispondere sulle «prassi costanti». Per questo sono stati convocati Antonella Magaraggia dei Verdi e Claudio Castelli di Md, oltre a Eugenio Albamonte e Cristina Ornano, oggi ai vertici di Area. Convocati anche ex consiglieri del Csm di Area come Valerio Fracassi e Piergiorgio Morosini. Ma la compagine di testimoni più nutrita è quella dei vecchi compagni di corrente di Palamara, quella di Unicost, a partire dal presidente e dal segretario Mariano Sciacca e Francesco Cananzi.

Procuratori. C' è poi la lista dei magistrati promossi che dovranno andare a spiegare come sono finiti a ricoprire certe posizioni. Ci sono toghe molto stimate da Legnini come Francesco Testa, Guido Campli e Anna Maria Mantini; i procuratori di Milano Francesco Greco (da sentire sulle «sui rapporti e sulle ragioni della sua interlocuzione» con Palamara) e di Bologna Giuseppe Amato, gli ex procuratori generali di Milano e Napoli Roberto Alfonso e Luigi Riello, nominati nello stesso pacchetto con cui divenne pg anche il pg della Cassazione Salvi. Nel menù pure l' ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati. Tra i testimoni pure i vecchi sfidanti per la poltrona di procuratore di Palermo Franco Lo Voi e Guido Lo Forte. Invitato pure l' ex aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, che con ogni probabilità dovrà ricostruire la vicenda legata allo scontro con il Quirinale per le intercettazioni di Napolitano nell' ambito dell' inchiesta sulla Trattativa Stato-mafia. Infine un capitolo chiave riguarda magistrati e investigatori collegati all''inchiesta o comunque appartenenti alla Procura di Perugia. Il primo a essere chiamato in aula dovrebbe essere Gerardo Mastrodomenico, ex comandante del Gico di Roma. Lui e altri colleghi e i tecnici addetti alle intercettazioni dovranno spiegare il perché dei buchi nelle registrazioni con il trojan e perché le captazioni non siano state interrotte quando era chiaro che agli incontri avrebbero partecipato dei politici, le cui comunicazioni sono protette dalla Costituzione. Alcuni testimoni serviranno a dimostrare «la notorietà dei rapporti di conoscenza» tra Palamara e l' ex procuratore di Perugia Luigi De Ficchy «nonché la notorietà dell' esistenza di una indagine nei confronti dello stesso dottor Palamara presso la Procura di Perugia». Il pm perugino Paolo Abritti è invece chiamato a spiegare perché comunicasse con Palamara sulla chat protetta Telegram e a descrivere «modalità e ragioni dei contatti, nel mese di luglio 2018» (mentre era in discussione al Csm il trasferimento del procuratore aggiunto di Perugia Antonella Duchini) e su un «colloquio del 24 novembre 2018». In questo caso quella di Palamara sembra una piccola molotov lanciata dentro la Procura che lo sta indagando.

Magistratopoli, Palamara porta alla sbarra 133 testimoni: tutti i nomi. Paolo Comi su Il Riformista il 14 Luglio 2020. «La storia deve essere riscritta», afferma Luca Palamara appena uno dei suoi legali, l’avvocato romano Benedetto Marzocchi Buratti, è uscito dall’ingresso di via Vittorio Bachelet dopo aver depositato, nell’ultimo giorno utile, la maxi lista testi in vista del disciplinare. Palamara ha lavorato tutto il weekend con il consigliere di Cassazione Stefano Guizzi, che lo assisterà nel processo disciplinare, alla redazione della lista. La prima udienza è in calendario per il 21 luglio. Il “dream team” di Palamara fa tremare i polsi. Fonti del Csm che in questi anni ne hanno viste di tutti i colori dicono che “ci vuole coraggio” nel presentare una lista del genere. Non manca nessuno. Ci sono innanzitutto i magistrati Paolo Ielo, Francesco Lo Voi, Piercamillo Davigo, Sebastiano Ardita, Gaspare Sturzo, Riccardo Fuzio, Cafiero de Raho, Eugenio Albamonte, Guido Lo Forte. È il segno che Palamara ha indossato l’elmetto e non ha alcuna intenzione di passare alla storia come la mela marcia che paga per tutti. «Il sistema delle correnti non l’ho inventato io», ha ripetuto sempre in questi mesi l’ex presidente dell’Anm al quale il ruolo di capro espiatorio non va proprio giù. Palamara ai naviganti delle Procure ha anche mandato messaggi sul fatto che è disposto a far luce su molte delle pagine torbide della storia giudiziaria italiana, come lo scontro ferocissimo fra la magistratura e Silvio Berlusconi andato in scena a partire dal 1994. Già il 21 si capirà il destino di Palamara. Se la sezione disciplinare vorrà tagliare i testi, il segnale è chiaro: chiudere in fretta la pratica, procedere con l’espulsione immediata del magistrato, e quindi continuare con il sistema delle correnti nella spartizione degli incarichi. Se i testi verranno ammessi, ci sarà invece speranza di procedere con una operazione verità su quanto accaduto negli ultimi decenni. Vediamoli allora i testi divisi per i vari capi d’incolpazione preparati dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Il primo è il colonnello Gerardo Mastrodomenico del Gico, della guardia di finanza. Dovrà riferire sulle modalità di conduzione delle indagini e sulle ragioni del “perché non spense il trojan” nonostante le indicazioni dei pm di Perugia in caso di incontro di Palamara con parlamentari. Con lui ci sono i marescialli Roberto Dacuto e Gianluca Burattini, coloro che materialmente accendevano e spegnevano il trojan inoculato nel telefono di Palamara e che hanno ascoltato i colloqui del magistrato romano con Cosimo Ferri e Luca Lotti, quest’ultimo imputato a Roma nel processo sugli appalti Consip. A proposito delle indagini Consip è citato l’ex vice presidente del Csm, ora commissario per la ricostruzione in Abruzzo, Giovanni Legnini. Egli dovrà riferire su una sua «conversazione intercettata con l’onorevole Paolo Cirino Pomicino sul conto del pm napoletano Henry John Woodcock». La circostanza non era ancora emersa. Come si ricorderà Woodcock era stato inizialmente il titolare del fascicolo Consip. Anche Giovanni Melillo, procuratore di Napoli, è chiamato a riferire su questa conversazione intercettata. Il magistrato Stefano Erbani, consigliere giuridico di Sergio Mattarella, dovrà riferire sulle procedure di nomina del procuratore di Roma nel 2019. Sull’asserito tentativo di Palamara di screditare l’aggiunto della Capitale Paolo Ielo, sono stati chiamati tutti i procuratori aggiunti di Roma. Sui rapporti fra Palamara e Giuseppe Pignatone, i vertici del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti e l’ex ministro della Difesa Roberta Pinotti. Lucio Aschettino, magistrato di Md e presidente della Commissione per gli incarichi direttivi nella scorsa consiliatura, dovrà riferire su come sono stati nominati i procuratori aggiunti a Roma durante la gestione Pignatone. Sempre sul “dossieraggio” nei confronti di Ielo, il cui fratello Domenico, avvocato, aveva incarichi da parte del colosso energetico, è stato citato l’ad di Eni Claudio De Scalzi. Non può mancare poi l’ex pm romano Stefano Fava, autore materiale dell’esposto a carico di Pignatone e Ielo. È presente poi Giovanni Bianconi, il giornalista del Corriere della Sera che il 7 maggio 2019, intercettato, comunicò a Palamara che «una parte dell’ufficio (la Procura di Roma, ndr) non voleva Marcello Viola (pg di Firenze e aspirante al posto di Pignatone, ndr) il quale non è colluso». I testimoni più importanti, infine, sono relativi al sistema delle nomine. Dovranno riferire sul fatto «che esisteva prassi costante di confronto, interlocuzione fra componenti istituzionali, tra cui segretari, referenti locali ed esponenti dei gruppi associativi, componenti laici del Csm e i loro referenti della politica, per individuare il profilo professionale del candidato da sostenere tra coloro che avevano presentato la domanda per il conferimento per un incarico direttivo e non solo». Ecco quindi gli ultimi vice presidenti del Csm, Nicola Mancino, Michele Vietti, Giovanni Legnini, David Ermini, i giudici costituzionali Cesare Mirabelli, Giovanni Maria Flick, gli ex consiglieri del Csm Edmondo Bruti Liberati e Claudio Castelli, l’ex ministero della Giustizia Andrea Orlando, i responsabili giustizia del Pd Anna Finocchiaro, Donatella Ferranti, Massimo Brutti. E poi vari presidenti delle correnti e componenti della giunta Anm. Dulcis in fundo, Antonio Ingroia e lo scrittore e senatore Gianrico Carofiglio.

133 testimoni illustri per il “processo Palamara” al Csm. Il Corriere del Giorno il 15 Luglio 2020. Il pm romano attraverso il suo legale chiede di convocare non solo chi può conoscere i fatti al centro dell’inchiesta di Perugia ma persino ex ministri della Giustizia, politici, ex consiglieri del Csm. Tutto ciò per dire “Io non ho inventato niente” per dimostrare al Csm che “così fan tutti” e sopratutto che “così hanno sempre fatto” in particolare coloro che ambivano ad un incarico direttivo prendevano qualche contatto con i togati del Csm prima che l’iter di nomina prendesse piede.

L’ex pm della Procura di Roma, ex presidente dell’ ANM vuole avviare un vero e proprio processo al processo a suo carico, ed ora tutta la giustizia italiana rischia di trovarsi , seppure se in maniera indiretta sul banco degli imputati. Un tentativo in vista dell’inizio del giudizio disciplinare del prossimo 21 luglio, in quanto la lista di 133 nomi stilata dalla difesa di Luca Palamara potrebbe essere ridotta dal Consiglio Superiore della Magistratura, possibilità questa che il difensore del pubblico ministero al centro dell’inchiesta della procura di Perugia sulle nomine nelle procure italiane, a partire da quella di Roma, si augura non avvenga. “Mi auguro che il Csm non faccia come l’Anm”, è il commento che l’avvocato Benedetto Marzocchi Buratti con riferimento all’espulsione del magistrato dall’associazione sindacale delle toghe, avvenuta alcune settimane fa, senza che che al diretto interessato venisse data la parola davanti all’organo che stava per cacciarlo, in quanto, sostiene l’Anm, non previsto dallo Statuto. Il Csm è diventanto palcoscenico del “teatrino” balzato agli onori delle cronache come lo scandalo delle nomine della magistratura, che dovrà decidere se e come sanzionare l’operato del suo ex consigliere e pm “congelato” della procura di Roma, Luca Palamara e degli altri 9 magistrati per i quali la Procura generale della Corte di Cassazione ha chiesto il giudizio. Le norme di legge prevedono delle sanzioni vanno dall’ammonimento alla destituzione per i magistrati responsabili di illeciti disciplinari. Gli attori (o marionette) sul palcoscenico processuale che si aprirà il 21 luglio, seppure con ruoli diversi, potrebbero essere veramente numerosi, entrando a far parte in quella che l’avvocato di Palamara ha definito “lista poderosa” contenente un elenco di magistrati che comprende tutti i vertici delle correnti delle toghe a partire da Eugenio Albamonte della sinistra più estremista per finire a Piercamillo Davigo della (finta) destra, numerosi magistrati in servizio, molti dei quali alla procura di Roma, e persino quelli in pensione. Nella lista sono presenti ex Guardasigilli, cioè ministri della Giustizia – come Andrea Orlando e Giovanni Maria Flick. componenti del Csm compreso il vicepresidente attuale, David Ermini, ed il suo predecessore, Giovanni Legnini, (entrambi indicati dal Partito Democratico) ma anche di togati o laici eletti nelle precedenti consiliature. sopratutto quelli “politici” chiamati a testimoniare dall’ex leader della corrente di Unicost. L’elenco dei testimoni può essere diviso in due parti come spiega la difesa di Palamara: da una parte chi potrebbe essere a conoscenza delle evidenze e prove emerse con l’inchiesta della Procura di Perugia, e dall’altra quelli che dovrebbero conoscere molto bene come funzionava il “sistema” delle nomine sino a quando i pm umbri aprissero il fascicolo a carico del magistrato Luca Palamara. Sono tutte persone che hanno rivestito importanti ruoli istituzionali di vertice in passato, ed attualmente totalmente estranee all’inchiesta, come Massimo Brutti, ex senatore nonché togato a Palazzo dei Marescialli dal lontano 1986 al 1990, e come Cesare Mirabelli, consigliere del Csm in quella stessa lontana consigliatura di Palazzo dei Marescialli, che se ammessi come testimoni verranno chiamati a raccontare quel che ricordano della prassi con cui venivano scelti gli incarichi a quei tempi. Il fine della difesa di Luca Palamara è quello di dimostrare di non aver inventato nulla di nuovo, e quindi di essere entrato a far parte, con un ruolo indiscutibilmente di rilievo, in un perverso meccanismo di lottizzazione ed interessi contrapposti già consolidato nel tempo. Una tesi, difensiva, chiaramente osteggiata da coloro i quali rivendicano, con grande difficoltà, che vi è una parte ampia della magistratura estranea ai giochi di potere. “Se mi chiameranno a testimoniare dirò le stesse cose dette un anno fa durante il congresso di Area”, ha detto ad HuffPost l’ex ministro della giustizia Giovanni Maria Flick . Il riferimento è a quando manifestò ai vertici dell’Anm l’intenzione di candidarsi come membro laico del Csm e gli venne risposto che della vicenda si occupavano le correnti della magistratura e i partiti:“Mi ringraziarono, ma credo con una punta di imbarazzo mi spiegarono che l’Anm era comunque estranea alla vicenda, trattata direttamente dai partiti con le correnti e con i togati espressi dalle correnti. E, per quanto ne sapevano, i giochi erano già fatti”, disse Flick nel suo discorso. Scorrendo le 34 pagine della richiesta di ammissione dei testimoni, emerge inconfutabilmente la volontà e strategia difensiva di Palamara di voler dimostrare al Csm che “così fan tutti” e sopratutto che “così hanno sempre fatto” in particolare coloro che ambivano ad un incarico direttivo prendevano qualche contatto con i togati del Csm prima che l’iter di nomina prendesse piede. Un sistema radicato e consolidato e secondo il legale di Palamara neanche troppo illecito, in quanto secondo quanto si evidenzia documentalmente nelle carte, si discuteva, si ragionava sulle nomine da fare, anche se talvolta non correttamente nella sede istituzionale, come accaduto quella famosa notte all’Hotel Champagne di Roma dove alla presenza dei deputati del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri (successivamente passato al seguito di Matteo Renzi ad Italia Viva) si parlava e tramava sulla nomina del futuro procuratore di Roma anche se “l’autonomia della scelta finale spettava, ai componenti della quinta commissione e del plenum del Csm”. Se questa linea difensiva si radicasse nel processo disciplinare, il “peso” dalle spalle dell’ex presidente dell’Anm arriverebbe anche su quelle di tutti gli altri, e quindi suddiviso e distribuito tra decine e decine di persone il peso sarebbe molto più leggero ed anche semplice da portare. E’ questo quindi senza alcun’ombra di dubbio l’obiettivo della difesa, e cioè dimostrare che il comportamento di Palamara era solo una parte di una “sistema” generale già ben incardinato ed utilizzato da tutti. Il procedimento disciplinare, come abbiamo detto sta per avere inizio e qualsiasi sarà il suo esito, non basterà a mettere la parola “fine” ad un terremoto che ha travolto la magistratura italiana, con una dirompenza forse mai registrata nella storia delle toghe scoperchiando pratiche, comportamenti e decisioni che poco hanno a che fare con l’amministrazione della giustizia nel nostro paese. E’ arrivato il momento di una seria riforma della giustizia e della magistratura a 360°, ma è anche il momento che l’ Anm, cioè l’ Associazione Nazionale dei Magistrati capisca che le toghe sono chiamati a far rispettare ed applicare le legge, e che gli eletti dal popolo italiano a legiferare sono altri. Ambire a fare politica è giusto e legittimo, ma prima è necessario ed opportuno togliersi la toga ed uscire dalla magistratura, senza usarla a proprio comodo e piacimento come hanno fatto sinora in molti. Troppi, Forse è bene ricordare che qualcuno per questo motivo è anche finito di carcere.

Magistratopoli, Davigo chiamato alla sbarra per i colloqui con Fava. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Luglio 2020. Fra gli oltre 130 testimoni richiesti da Luca Palamara in vista dell’udienza disciplinare del 21 luglio, spuntano anche i nomi dei togati del Csm Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. I due sono i leader di Autonomia&indipendenza, la corrente delle toghe fondata dall’ex pm di Mani pulite nel 2015 dopo la scissione da Magistratura indipendente. Fra i motivi dello scissione, si ricorderà, l’allora leadership della corrente di destra da parte di Cosimo Ferri. Nelle liste di A&i è stato eletto al Csm anche il pm antimafia Nino Di Matteo. La decisione di citare Davigo e Ardita è strettamente collegata all’esposto presentato dall’allora pm romano Stefano Rocco Fava nei confronti del procuratore aggiunto della Capitale Paolo Ielo e del procuratore Giuseppe Pignatone. Fra i motivi, la gestione di alcuni fascicoli in cui compariva il fratello di Ielo. Fava, secondo quanto emerso dalle indagini difensive effettuate dai legali di Palamara, gli avvocati romani Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti, aveva avuto stretti rapporti con i due consiglieri. Ardita aveva anche pensato di candidarlo al Comitato direttivo centrale dell’Anm. A&i è una corrente emergente e ancora poco radicata sul territorio. Con Ardita e Davigo Fava parlò, però, anche di questo esposto. E stando alla sua testimonianza, i due avrebbero “giudicato la vicenda di indubbia rilevanza e che meritava approfonditi accertamenti da parte del Csm”. Ardita, in particolare, gli avrebbe anche comunicato che l’esposto era arrivato «alla Prima commissione, di cui Ardita faceva parte e, pertanto riteneva che non fosse più opportuno sentirci o vederci. Mi ha detto, comunque, che se dovevo comunicare a lui qualcosa potevo farlo tramite Amelio (Erminio, pm romano, presenti ad uno di questi incontri, ndr), ma che comunque era il caso di evitare ogni ulteriore contatto». Da qui la richiesta di Palamara affinché Davigo e Ardita riferiscano sul contenuto dei colloqui con Fava e con Erminio Amelio in epoca antecedente e prossima alla presentazione dell’esposto di Fava al Csm (marzo 2019, ndr) sulla conoscenza dell’intenzione di Fava di presentare l’esposto; sulle eventuali risposte allo stesso fornite, anche in relazione alle concrete modalità della sua presentazione; sul contenuto dei colloqui successivi alla presentazione dell’esposto da parte di Fava con Ardita; sulla circostanza che l’esposto presentato nei confronti del dott. Giuseppe Creazzo (procuratore di Firenze, ndr) era di dominio pubblico; sul fatto che le indagini nei confronti di Palamara erano ampiamente note negli ambienti della Procura della Repubblica di Roma oggetto di numerose conversazioni già alla data del 9 aprile 2019. Ma non solo: Davigo dovrà riferire anche sulle modalità degli inviti al convegno del 9 aprile 2019 presso il Circolo delle Vittorie dove partecipò lo stesso Palamara e sui colloqui intercorsi in quella occasione con quest’ultimo. All’epoca il cellulare di Palamara non era ancora stato infettato dal trojan. Davigo, come si ricorderà, è titolare nella sezione disciplinare del Csm.

Il Csm azzoppa Palamara, su 133 testimoni ne concede solo 10. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Luglio 2020. Come un elefante che a un certo momento decide di entrare nel negozio di cristalli. È questa l’immagine che meglio di qualsiasi altra rappresenta la decisione di Luca Palamara di depositare lunedì scorso, per l’udienza disciplinare a suo carico che si terrà il prossimo 21 luglio al Csm, una lista di 133 testimoni. Nessuno si aspettava un elenco simile, sia per il numero monstre dei testi, sia per il loro “spessore”. Nella lista, infatti, compaiono non soltanto ministri, ex presidenti della Corte costituzionale ed alti magistrati, ma soprattutto i due più stretti collaboratori del capo dello Stato Sergio Mattarella: il magistrato Stefano Erbani, consigliere per gli affari giuridici, e l’ex deputato del Pd Francesco Saverio Garofoli, consigliere per le questioni istituzionali. Subito si è messa in moto la macchina per cercare di disinnescare la minaccia ed evitare che ci possano essere testimonianze “imbarazzanti”. Se il teorema dell’accusa è che Palamara con le sue condotte ha prodotto discredito nella magistratura mediante un “uso strumentale della propria qualità per condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste, quale la nomina dei capi degli uffici da parte del Csm”, per la difesa, rappresentata dal consigliere di Cassazione Stefano Guizzi, il pm romano faceva parte di un sistema ben rodato del quale tutti erano perfettamente a conoscenza. In questo modo si spiega la richiesta di citazione degli ex vice presidenti del Csm degli ultimi vent’anni, dei capi delle correnti e dell’Anm. Il primo compito del collegio disciplinare, che ieri non risultava ancora essere stato composto, sarà allora quello di “tagliare” il più possibile la lista testi dell’ex presidente dell’Anm, lasciandogliene al massimo una decina e solo di personaggi di secondo piano. Fonti del Csm dicono che i giudici disciplinari motiveranno l’opera di potatura con il fatto che la lista è “sovrabbondante” e che la maggior parte di questi testimoni è “irrilevante” per gli episodi oggetto delle contestazioni. La Procura generale della Cassazione cercherà in tutti i modi di limitare il perimetro difensivo di Palamara a quanto accaduto la sera del 9 maggio del 2019 all’hotel Champagne di Roma, allorquando il magistrato, alla presenza del deputato del Pd Luca Lotti, espresse duri giudizi nei confronti del procuratore aggiunto della Capitale Paolo Ielo e dello stesso procuratore Giuseppe Pignatone. Chi ha avuto modo di parlare con Palamara in queste ore lo ha sentito consapevole di quelle che potranno essere le mosse della Sezione disciplinare. Sezione che Palamara conosce molto bene avendone fatto parte per quattro anni quando era al Csm. L’esito del disciplinare pare essere scontato. Le parole del procuratore generale Giovanni Salvi, “è stato raggiunto un punto di non ritorno, l’impatto sull’opinione pubblica è pessimo”, non lasciano molti dubbi sul destino di Palamara: rimozione dall’ordine giudiziario. L’ex leader di Unicost, però, non intende accettare il ruolo di capro espiatorio. Chi pensava che la toga prendesse spunto dal motto dei carabinieri, “usi obbedir tacendo e tacendo morir” ha fatto male i conti e ha dimostrato di non conoscere fino in fondo l’uomo. La prospettiva di vedersi radiato dalla magistratura e di trovarsi a 50 anni, dopo una carriera sempre ai massimi livelli, a dover chiedere il reddito di cittadinanza, ha dunque spinto Palamara a giocare il tutto per tutto: quando ci si trova a essere un colpevole designato è difficile rinunciare a una difesa a 360 gradi, anche in vista di sicure impugnazioni. Dopo aver tagliato i testi, il passo successivo della disciplinare sarà poi quello di fare in fretta. Prima Palamara viene espulso dalla magistratura e prima il sistema delle correnti che si è immediatamente ricompattato, vedasi lo scontro sulla nomina del procuratore di Perugia, può riprendere forza e vigore. Per i gruppi associativi sarebbe durissima affrontare la campagna elettorale per il rinnovo dell’Anm, prevista per il prossimo autunno, con Palamara ancora sotto processo e con i vertici delle correnti che sfilano a piazza Indipendenza. È un “incubo” che deve essere evitato a ogni costo.

La bomba Palamara è esplosa: via alle trame per bloccare il processo del secolo alla magistratura. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Luglio 2020. Sicuramente c’è un giudice a Berlino, non è detto però ce ne sia uno anche a Roma, e in particolare a Palazzo dei Marescialli. Forse sì, forse no. Se il giudice c’è, allora il procedimento disciplinare contro Luca Palamara che si apre martedì prossimo si trasformerà nel processo del secolo alla magistratura italiana. Sarà un avvenimento clamoroso dal quale difficilmente la Giustizia uscirà con lo stesso volto con il quale è entrata. E forse sarà anche la fine della casta, cioè della casta dei Pm. Il ritorno al diritto. È possibile però anche che avvenga il contrario, e cioè che il giudice non sia un giudice ma solo un sacerdote della casta, e che si rifiuti di agire, e che trasformi il processo in un semplice e veloce rito di scannamento del capro espiatorio, cioè Palamara, senza nessuna pretesa di cercare la verità anzi con il fine dichiarato di seppellirla e salvare la casta e il vecchio satrapesco e ingiusto sistema della giustizia italiana, ormai da molti anni lontano mille miglia dallo Stato di diritto. In questo caso assisteremo al più grande strappo istituzionale della storia della Repubblica. Forse più grave del tentato colpo di Stato del 1964. Perché se il Csm affosserà il processo – cioè si rifiuterà di convocare i testimoni chiamati da Palamara – allora sancirà l’assunzione di un potere incontrollato e prepotente, da parte della magistratura, incompatibile con qualsiasi idea di sistema democratico. Si entrerà nel regime, a pieno titolo, nel regime delle Procure. Speriamo che questo non avvenga, e che prevalga il senso di responsabilità. Ora cerchiamo di essere più precisi e di raccontare la trama di questo romanzo pieno di suspense. Martedì 21 luglio si avvia davanti alla commissione disciplinare del Csm il procedimento contro Palamara. Accusato di avere brigato coi colleghi e coi politici per addomesticare, anzi per decidere, le nomine in alcune Procure. In particolare alla Procura di Roma. Chiunque non sia un soldato di Davigo – o una persona molto molto ignorante – sa che Palamara sicuramente ha brigato, ma sicuramente insieme a lui lo hanno fatto alcune centinaia di magistrati, più precisamente Pm, che lo fanno da molti anni, che trattando tra correnti e capibastone hanno controllato l’intero sistema delle Procure, deciso Procuratori, aggiunti e sostituti. Sa che questo sistema aveva una fortissima influenza anche sulla magistratura giudicante perché le carriere dei giudici dipendevano da questa organizzazione più o meno segreta, sa che il centro di tutta questa organizzazione era l’Anm, che è una associazione di dubbia costituzionalità, sa che attraverso questo sistema e il potere enorme che i Pm (il partito dei Pm) esercitava sui giudici si sono decise molte sentenze, sa che dentro questa storia sta anche la storia dell’inseguimento giudiziario a Silvio Berlusconi conclusosi con la sentenza Esposito, che oggi appare la più discutibile di tutte le sentenze dell’ultimo decennio. Sa, chiunque sa. Ora però esiste la possibilità di andare oltre il sapere generico e di trovare nomi, circostanze, prove, fatti concreti. Perché Luca Palamara, che è stato processato dall’Anm praticamente in contumacia (gli è stato negato il diritto di parlare, cosa che non era mai avvenuta neppure nei processi durante il fascismo e non accadeva neanche nei processi staliniani: si tratta davvero di un fatto senza precedenti, credo, almeno degli ultimi due o tremila anni) ora ha chiesto di convocare al suo processo 133 testimoni. Chi sono questi 133? I nomi eccellenti che hanno guidato la giustizia nell’ultimo quarto di secolo. Alcuni sono chiamati per raccontare le malefatte degli altri, altri – parecchi – sono chiamati come correi. Se i testimoni saranno accettati assisteremo effettivamente al processo del secolo, e la magistratura dimostrerà di avere la capacità dello scatto di reni e dell’autocritica. Sarà però una procedura molto complicata perché molti dei testimoni e dei possibili imputati sono anche in giuria. A partire da Davigo, che dovrebbe presiedere la commissione giudicante. Non è mai successo, credo, se non in qualche pezzo di letteratura, o in qualche film fantasioso, che prima che inizi il processo ci si accorga che una parte maggioritaria della giuria è sospettata degli stessi reati dell’imputato. E non si tratta di sospetti vaghi, si tratta delle intercettazioni (in parte pubbliche, in parte nascoste) del trojan a Palamara. Succede di più: non solo una parte della giuria fa parte del pacchetto dei tramatori, ma nel pacchetto dei tramatori c’è anche una parte, la parte più nobile e famosa, della tribuna stampa. Voi capite che guazzabuglio pazzesco? Naturalmente c’è da chiedersi come si è potuto arrivare a tanto. E bisognerebbe chiedere conto, prima ancora che alla magistratura, alla stampa sottomessa, e al potere politico vile e incapace di svolgere il proprio ruolo. Ma oggi quel che conta non è capire le responsabilità, è accertarsi che il processo si faccia. Se si farà, probabilmente durerà almeno un anno, ma va bene così. Non sarà solo un processo, sarà il luogo costituente della vera riforma della magistratura, che certo non può essere il brodino appassito di Bonafede, ma deve essere una vera e propria rivoluzione, e che probabilmente dovrà essere accompagnata da una larghissima amnistia, perché saranno messe in discussione migliaia e migliaia di sentenze degli ultimi 25 anni. Quante possibilità ci sono che questo processo si faccia? Dipenderà soprattutto dalla stampa. In realtà tutto il potere è lì, come lo è stato 25 anni fa quando, con Mani Pulite, iniziò la degenerazione della magistratura (in realtà era stata già avviata a metà degli anni 70 con la guerra alla lotta armata, ma non aveva raggiunto queste punte). Se nella stampa prevarrà ancora la lobby dei giornalisti giudiziari, niente da fare: ci sarà il golpe e vincerà il regime. Se i direttori riprenderanno il comando, allora le cose cambiano. E allora ne vedremo delle belle. Fontana, Molinari, Giannini e tutti gli altri: hic sunt leones.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 15 luglio 2020. Luca Palamara farà un casino infernale nella magistratura. Lo hanno massacrato e lui come minimo si vendicherà raccontando la fava e la rava dei suoi colleghi, non tutti specchiati e limpidi. Ovvio, quando si scoperchia un pentolone pieno di schifezze il cattivo odore si spande dovunque, impossibile fingere di non sentirlo. Non siamo esperti di pandette, ignoriamo i fatti e i misfatti della giustizia se non attraverso certe sentenze che ci hanno impressionato, provocandoci stupore e raccapriccio. Si sa che gli uomini tendono a sbagliare, e i magistrati nell'arte di fallire il bersaglio sono maestri come noi impegnati in mestieri diversi. Presto comincerà il processo al pm sotto tiro e penso che ne vedremo delle belle e specialmente delle brutte. Aspettiamo con ansia di capire se Palamara sarà elevato a capro espiatorio o se l'intero gregge verrà trascinato in giudizio. Speriamo che i giudici abbiano un soprassalto di onestà e ammettano i loro strafalcioni, avendo brigato per fare carriera, occupare posti importanti e naturalmente guadagnare di più. Non saremo noi a stupirci se emergeranno nel corso degli accertamenti situazioni imbarazzanti o addirittura vergognose. Le toghe costituiscono una categoria privilegiata tuttavia ciò non impedisce loro di comportarsi come altre corporazioni di lavoratori: cioè male. Errare humanum est perseverare diabolicum fili mi erra sed culpam tuam semper declara. Cari magistrati, la regola latina vale pure per voi. Se vuoterete il sacco sarete perdonati, altrimenti farete la fine di altri ordini negletti. Personalmente ebbi a seguire il processo Tortora, decenni orsono. Fu una esperienza atroce. Sfogliando gli atti mi resi conto che contenevano innumerevoli vaccate, cioè incongruenze che mettevano in dubbio la serietà dell'impianto accusatorio. Le dichiarazioni dei pentiti non stavano in piedi, i controlli degli investigatori facevano acqua da tutte le parti. Anche uno sprovveduto come me capì di essere di fronte a un pasticcio giudiziario incredibile. Scrissi vari articoli difensivi del presentatore, ma il tribunale in primo grado lo condannò comunque a dieci anni di galera. Una tragedia che uccise Enzo, tanto è vero che dopo l'assoluzione in appello egli morì. Nessuno gli ha chiesto scusa. Casi di tale tipo sono troppo numerosi, cari magistrati. Meno arie, più diligenza. Giudicare gli altri non significa trattarli quale bestiame al macello. Non bisogna dire come fa Piercavillo Davigo, nonostante sia simpatico, che non esistono innocenti ma solo colpevoli che l'hanno fatta franca. Se fosse così vorrebbe dire che l'ha sfangata pure lui. E non credo.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 15 luglio 2020. Quel pazzoide di Luca Palamara - a me risulta sempre più simpatico - ha proposto 133 testimoni a sua difesa davanti al Consiglio superiore della magistratura, incaricato di giudicarlo ed eventualmente sanzionarlo. Sembra un salotto di Sandra Verusio: procuratori come Edmondo Bruti Liberati e Francesco Greco, star come Antonino Ingroia e Piercamillo Davigo, ex ministri come Nicola Mancino, i consiglieri giuridici di Mattarella e Napolitano, parlamentari, vertici della Finanza, scrittori da premio Strega, supermanager dell'Eni. Nelle intenzioni di Palamara, gli illustri convenuti dovranno confermare la natura antica e comune di certe praticacce. L'eterno così fan tutti. Alla fine dell'altro millennio, un processino stralcio di Tangentopoli con imputato Sergio Cusani fu l'occasione per convocare al processo di piazza i leader della Prima repubblica, Craxi e Forlani, La Malfa e Pomicino. Alla sera niente Mike Bongiorno: c'era Un giorno in pretura con gli highlights delle udienze. Lo guardavano sei milioni di telespettatori e il procuratore generale di Milano, Giulio Catelani, ne intuì la sete di onestà del popolo italiano (Di Battista, mettiti in coda). Stavolta purtroppo non sarà lo stesso: niente show di prima serata e tre quarti dei testimoni non verranno accettati. Per fortuna, anzi. Già allora si offrì al suddetto onesto popolo di derubricare i suoi furtarelli a legittima difesa, in confronto alle ruberie della classe politica, il cui sangue avrebbe lavato le colpe di tutti. Ci mancherebbe ora la replica con la magistratura. Ma come calza quel bel proverbio russo: non temere la legge, temi il giudice.

Il gip Mastroeni: “Il risiko delle correnti è come un’associazione a delinquere”. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'1 Agosto 2020. Salvatore Mastroeni è giudice per le indagini preliminari a Messina. Dopo decenni in prima linea nelle Procure di frontiera del Mezzogiorno e – veniamo a sapere – sei mancate promozioni, il giudice decide per una operazione-verità. «Noi magistrati siamo avvolti da troppa faziosità, stiamo perdendo i valori comuni essenziali. E il Risiko delle correnti ci ha trasformato in una associazione a delinquere vera e propria».

Tutta colpa delle correnti?

«All’inizio ero anche io in una corrente, ma tanti anni fa mi sono dimesso e da allora sono rimasto apolide. Lo comunicai alla segreteria dell’Anm. La funzionaria non capiva. Mi chiese: va in pensione? Io risposi: no, mi dimetto dalle correnti».

Non teme ritorsioni a parlare in questi termini?

«Sono già uno dei magistrati che non essendo in correnti, correndo per una posizione direttiva, ha ricevuto pareri inspiegabilmente negativi. Si entra in crisi. Avevo iniziato con la distribuzione casuale degli uditori, oggi Mot, magistrati ordinari in tirocinio. Vengono assegnati sapientemente. Perché quando si entra in magistratura c’è un periodo di tirocinio, si sta dietro ad un magistrato cui si viene assegnati. E c’è l’effetto-pulcino. La prima persona che vedi è la mamma. Ed è così che si entra nelle correnti: si appartiene a una corrente prima ancora di averlo capito».

Palamara dunque in questo ha ragione? Il gioco a incastri esiste da sempre?

«Su questo lo difenderei, certamente. Se risultasse vero che c’era solo un Palamara con un suo potente gruppo di amici, tutti quelli che adesso si stanno stracciando le vesti, e che io chiamo Sepolcri imbiancati, lo avrebbero mangiato vivo. Se tu, Palamara di Unicost, proponi un metodo scorretto di spartizione dei posti, noi di Area, noi di Ai, noi di MI ti divoriamo. Ti mettiamo in minoranza. E invece no, il sistema Palamara è esploso così adesso solo perché il trojan lo avevano messo a lui. Ma tutto il sistema funzionava così, e alle sue cene c’erano tutte le correnti».

Quindi tutte le accuse a Palamara si possono estendere ai predecessori?

«Prenda in esame gli ultimi due Consigli superiori precedenti a Palamara, faccia uno studio fatto bene, vedrà una costante assoluta: ciascun voto è stato assegnato dai consiglieri al candidato della propria corrente. E statisticamente è impossibile che il candidato della mia corrente sia sempre il migliore. Eppure si è votato così. In due consiliature non trova nessuno che non fosse iscritto alle correnti».

E come faccio a fare questa verifica se l’adesione alle correnti non è pubblica?

«Appunto. Avrebbe qualche difficoltà nella ricerca, non esistono elenchi depositati. E però se nei meccanismi che regolano l’elezione dei magistrati ai più alti incarichi c’è, per consolidata prassi, il ricorso sistemico all’equilibrio correntizio, sarebbe giusto che l’appartenenza alle correnti fosse pubblica, dichiarata, scritta. Faccio un esempio: se in una cittadina il sindaco dà un incarico a un imbianchino e poi si scopre che quell’imbianchino è in una associazione letteraria con lui, noi magistrati lo attacchiamo e diciamo che ha privilegiato un interesse privato. I colleghi amici nelle correnti, invece, si possono votare tra loro. Non c’è l’obbligo di astensione. Ora molti dicono che non è dignitoso. Io vado oltre: dico che non può essere legale».

I giudici del Csm operano contro la legge?

«La normativa del Csm prevede, come per i membri del Parlamento, che i consiglieri del Csm non siano punibili per i voti espressi e per le opinioni date in Consiglio. Una garanzia di immunità. E infatti oggi un po’ tutti dicono che quelli che riguardano Palamara e il Csm “sono fatti senza rilevanza penale”. Io una certa esperienza nel penale ce l’ho, e ho delle riserve serie. Perché anche se l’abuso c’è, il reato ci sarebbe, nel tuo caso non è punibile perché sussiste una norma-scudo. È il caso dei magistrati del Csm. Noi magistrati contestiamo, a quattro persone che smontano e vendono marmitte della macchina, il reato di associazione a delinquere. Palamara e tutti quelli che si riunivano, come è stato detto, “in sedi non opportune”, per decidere ad esempio chi promuovere e chi tenere al palo, commettevano un reato in associazione a delinquere. Hanno sovvertito le regole avendo il potere e i mezzi per farlo».

Si pone un problema di credibilità importante.

«Enorme. Il giudice vive di credibilità, senza la quale il peso e il valore delle sue sentenze non esistono più».

Caso Palamara, Sabella: "Io vittima del sistema,o sei con loro o ti devastano". Affari Italiani Mercoledì, 15 luglio 2020. Il giudice del Tribunale di Napoli, è stato indicato nella lista dei 133 teste presentata dall'ex boss di Unicost. Il caso Palamara continua a far rumore. Dopo che l'ex boss di Unicost ha deciso di andare al contrattacco al processo di Perugia che lo vede imputato per corruzione, ecco che a tremare adesso sono in tanti. Tra i 133 super testimoni figura anche Alfonso Sabella, ora giudice al Tribunale di Napoli, ed in un'intervista al Giornale svela il "sistema delle correnti". "Io di questo sistema sono una vittima, da sempre. Perché sono uno dei pochi che si è ribellato. Sono uno di quelli che non hanno mai voluto fare carriera". L’unica spiegazione per cui sono finito anch'io in quella lista - spiega Sabella - è che Luca voglia raccontare anche l’altra faccia della medaglia, dimostrare che i pochissimi magistrati non allineati, non inseriti nel mondo delle correnti non avevano nessuna possibilità di ottenere gli incarichi. Infatti venni bocciato nonostante i miei titoli superiori a tutti". "Bastava vedere - prosegue Sabella - la regolarità da manuale Cencelli con cui venivano distribuite le cariche: 4-2-2-2 fisso quando le correnti erano quattro, poi passato al 4-4-2 quando a sinistra è nato il correntone di Area. E guardi che il grande mercato non riguardava solo i posti direttivi, le cariche in vista, ma anche e soprattutto i semidirettivi, i procuratori aggiunti, i presidenti di sezione. Lì accadeva di tutto. Poche voci di dissenso nel deserto. Molti che oggi fingono di scandalizzarsi erano perfettamente consapevoli che il meccanismo fosse questo. Palamara era uno dei tanti, forse solo più abile e esperto. Chi è fuori dai giochi deve sapere non solo che non verrà mai scelto per un incarico. Deve sapere anche che se qualcuno per motivi ideologici, privati o personali decide di fargli del male, il sistema non lo proteggerà. Se sei uno dei loro ti proteggono, altrimenti vieni devastato".

Giulia Bongiorno a Senaldi: "Dopo Palamara ed Esposito i clienti mi chiedono di che corrente è il giudice". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 14 luglio 2020. «Ormai con i clienti imputati non si parla più dei processi, dei testimoni, delle prove a favore, di come smontare l'incriminazione. Arrivano in studio e la loro principale preoccupazione non è dimostrare l'innocenza ma capire da che parte sta il giudice, chi l'ha messo lì, chi frequenta. Sono terrorizzati che il pubblico ministero possa condizionare il magistrato giudicante. La prima domanda che mi viene fatta è se l'accusatore fa parte di una corrente potente che può in qualche modo incidere sulla carriera della toga che emetterà il verdetto». La senatrice della Lega Giulia Bongiorno è la più nota penalista italiana. Da Giulio Andreotti a Raffaele Sollecito, ha difeso tutti, «ma oggi mi tocca prendere le parti dei giudici e proteggerli dai sospetti degli imputati; passo ore a tentare di persuadere i miei assistiti che la maggior parte dei giudici sono persone perbene e il processo non verrà strumentalizzato politicamente. Anche oggi sono in ritardo all'appuntamento con lei, cosa che non mi succede mai, perché ho avuto questo fuori programma della difesa del magistrato giudicante». Da che è scoppiato lo scandalo delle intercettazioni di Palamara, che ha svelato il segreto di Pulcinella, ovverosia che le nomine dei vertici di tribunali e procure hanno poco a che vedere con il curriculum professionale delle toghe e molto con le loro relazioni politiche e le trame di palazzo, l'avvocato Bongiorno ha scelto la via del silenzio. Non è avvocato che spara sulla croce rossa e neppure che punta il dito accusatore. «Non so se i timori dei miei clienti di andare incontro a un verdetto che risponda a logiche politiche e di carriera piuttosto che a quello che risulta dal dibattimento siano fondati» precisa, «però so che esistono, e già questo lo ritengo gravissimo per la magistratura e la credibilità delle istituzioni. Se poi ci mettiamo anche i magistrati condannati a dieci anni per corruzione, come appena successo in Puglia, cosa deve pensare un cittadino che finisce nelle maglie della giustizia?».

Avvocato, la magistratura è così compromessa?

«I primi a soffrire del degrado della magistratura sono i magistrati. Molti di loro si vergognano della categoria alla quale appartengono. Io nei tribunali vedo che la maggioranza delle toghe, che nessuno intervisterà mai e non finirà nei talkshow televisivi, è preparata, corretta, laboriosa e garantisce un certo equilibrio della giustizia. Ma bastano poche toghe non indipendenti per rendere tutto il sistema poco credibile e creare una situazione di grande tensione e diffidenza, come è quella attuale».Perché i giudici non politicizzati, che sono la maggioranza, non si ribellano al sistema se ne sono le prime vittime?

«Non hanno il potere di farlo; sono impotenti, inermi. Non fanno politica e quindi non occupano posti di rilievo nelle correnti e non approderanno mai al Csm né faranno facilmente carriera».

Rimedi possibili?

«Il momento è delicatissimo. La prima cosa da fare, è la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma nella maggioranza ci sono visioni opposte sulla giustizia. Di certo non la vuole Bonafede, perché richiede troppo coraggio farla».

Ho la sensazione che lei saprebbe come farla.

«Il punto di partenza non è chiedersi come bisogna andare al Csm ma chi vogliamo che ci vada. La mia opinione è che solo a un magistrato davvero indipendente si possa dare il potere di decidere sugli incarichi dei colleghi e solo chi è a fine carriera, e dopo l'esperienza in Consiglio non indosserà mai più la toga, si trova in questa condizione. Finché vai e torni, non potrai mai essere indipendente, perché è umano pensare al proprio futuro».

Perché Bonafede non potrebbe varare una simile riforma?

«Significherebbe sconvolgere il sistema dalle sue fondamenta; invece il Guardasigilli continua ad annunciare una finta riforma, peraltro non ancora depositata, del tutto inutile, perché incide solo sul sistema elettorale ma non risolve il problema essenziale dei requisiti di indipendenza necessari per far parte del Csm».

Che idea si è fatta dello scandalo Palamara?

«Se si continua a parlare solo di Palamara non ci si misura con la gravità del sistema di scambi di favori, che incide sulla indipendenza della magistratura. Non vorrei che si cercasse di far passare il tema come un fatto circoscritto: si sa tutto di lui perché il trojan è stato messo nel suo telefonino; se l'avessero piazzato in quello di altri Mi sembra pacifico che non abbia creato da solo il sistema di potere che è emerso dalle intercettazioni».

Mi sta dicendo che secondo lei c'è dell'altro?

«Non sappiamo se sono venute fuori tutte le intercettazioni. In genere nella prima fase delle indagini viene trascritta solo una parte delle registrazioni, quella favorevole all'accusa».

Palamara è finito nel tritacarne perché ha perso una battaglia di potere?

«Questo non lo so. Per fare il magistrato occorre un'etica che nessuna legge può dare, ma una riforma dovrebbe prevedere un sistema di accesso alla magistratura rigoroso includendo anche i tanto contestati test psico-attitudinali».

Ci sarebbe una sollevazione della categoria.

«Che invece ne guadagnerebbe. Noi avvocati facciamo l'esame dopo un lungo periodo di pratica, sotto il controllo del maestro avvocato. Ho sconsigliato a molti giovani di fare l'esame di avvocato, ad esempio. Serve un sistema simile per la magistratura. Un esperto magistrato che valuti l'attitudine. Invece oggi c'è un concorso su base mnemonica e Bonafede resta immobile».

Comunque queste intercettazioni hanno fornito un assist straordinario a Salvini. 

«Sentire un magistrato - che, con Dio e il sacerdote, è l'unico al mondo che ti possa condannare o assolvere - dire attacchiamo Salvini anche se ha ragione ha lasciato basito e incredulo anche chi detesta il leader della Lega, perché la gente ha realizzato che puoi essere processato a prescindere dai torti e dalle ragioni. Anche molti che mi criticarono quando mi candidai con il Carroccio mi hanno chiamato per manifestarmi la loro preoccupazione».

È stata una svolta epocale?

«Più che una svolta, ha reso chiaro anche ai non addetti ai lavori ciò che nell'ambiente sapevano tutti. Adesso molti pensano che quello che è capitato a Salvini può capitare anche a loro. Si sentono più fragili e la cosa ha un effetto drammatico per la giustizia. È devastante il riferimento ad un fatto oggetto di indagini. Da avvocato, provo rabbia».

Quando è iniziato il deterioramento della magistratura?

«Lo scambio di favori e il mercanteggiamento politico sono pratiche che ci sono sempre state. Diciamo che con il tempo si sono cronicizzate».

E delle novità sulla condanna a Berlusconi, con l'audio di uno dei giudici che condannò il Cavaliere che si scusa con lui e dice di aver dovuto obbedire a input superiori?«Voglio dire soltanto che non si può non andare a fondo sulla vicenda facendo finta che non ci riguardi. Queste cose incidono su tutti i cittadini».

Gli anti-berlusconiani insinuano dubbi sull'audio.

«Ho lavorato per sette anni con l'avvocato Coppi, che non è uno dei difensori storici di Berlusconi e non gli deve nulla. Non solo non si presterebbe a giochi politici, ma quando nei processi oggetto di attenzione pubblica arrivavano testi favorevoli alla difesa, lui li cacciava via se aveva dei dubbi. Se lui produce l'audio del giudice, significa che è certo della bontà della prova. Ma a parte i casi specifici, il punto è che serve avere il coraggio di cambiare, e chiamo in causa Renzi e Italia Viva».

E cosa c'entra l'altro Matteo?

«Quando la Lega governava con il M5S, uno dei punti di maggiore scontro era la riforma del Csm. Ci siamo seduti al tavolo con Bonafede e, quando abbiamo capito che non voleva riformare nulla, ce ne siamo andati e l'esperienza del governo si è chiusa. Salvini ha rotto anche sulla giustizia; Renzi invece continua a pungolare ma poi torna indietro. Così è troppo comodo. Se a uno non stanno bene le cose, deve trovare la forza di ribaltare il tavolo».

Caso Palamara, “intercettazioni illegali” a rischio l’inchiesta. Paolo Comi su Il Riformista il 16 Luglio 2020. Le telefonate fra Cosimo Ferri e Luca Palamara devono essere trascritte. Tutte. Inizia questa mattina la sei giorni di fuoco, che si concluderà martedì prossimo davanti alla sezione disciplinare del Csm, per l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. La prima tappa di questo tour de force, che rischia di “riterremotare” a un anno di distanza dai fatti dell’hotel Champagne la magistratura, è al palazzo di giustizia di Perugia. Davanti al gip Lidia Brutti è prevista l’udienza stralcio per la richiesta della trascrizione delle telefonate e dei colloqui intercettati con il trojan nell’ambito dell’indagine per corruzione nei confronti di Palamara. Secondo l’accusa, il magistrato sarebbe stato per anni sul libro paga dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, mettendo a disposizione il suo ruolo di consigliere del Csm. I legali del pm romano, gli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti, hanno preparato una nutrita lista di colloqui da trascrivere. In particolare, appunto, quelli fra Palamara e il deputato ex Pd ora Iv Ferri, magistrato in aspettativa e ai tempi leader di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe. Il motivo è semplice. La difesa di Palamara punta a dimostrare che gli incontri fra i due, ad iniziare dalle cene, non erano mai casuali ma sempre programmati per tempo. Non essendoci quindi “casualità”, l’intercettazione con il trojan non poteva essere effettuata in ossequio alle prerogative del parlamentare. A dire il vero era stata la stessa pm Gemma Miliani a ordinare con una nota formale al comandante del Gico della guardia di finanza di spegnere il trojan quando Palamara si fosse trovato con dei parlamentari. Nota che invece è stata disattesa. Il perché è il grande punto interrogativo dell’indagine di Perugia. Se i finanzieri avessero eseguito gli ordini del pm, il dopo cena dell’hotel Champagne non sarebbe stato registrato, cinque consiglieri del Csm non si sarebbero dimessi, Marcello Viola sarebbe il nuovo procuratore di Roma e, molto probabilmente, Pietro Curzio non sarebbe diventato ieri il primo presidente della Cassazione. Il responsabile delle operazioni era il colonnello Gerardo Mastrodomenico che, come disse Palamara a Luca Lotti, era uno degli uomini di fiducia del “Pigna” cioè di Giuseppe Pignatone, l’allora procuratore di Roma. Mastrodomenico era il comandante della seconda sezione del Gico. Dopo questa indagine venne promosso comandante provinciale di Messina. Anche il suo capo, Paolo Compagnone, è stato promosso. È uno dei generali più giovani della guardia di finanza e comanda ora il provinciale più importante d’Italia, quello di Roma. Tornando a Mastrodomenico, è lui che ha anche firmato l’informativa del 10 aprile del 2019 destinata ai pm umbri in cui descriveva i rapporti fra Palamara e Ferri contraddistinti da “opacità”, termine che normalmente si usa per gli appartenenti alla criminalità organizzata. Ovviamente Mastrodomenico non ha fatto tutto da solo. Chi aveva materialmente le “cuffie” in testa erano i marescialli Roberto Dacunto e Gianluca Burattini. I due sottufficiali sono stati aiutati dall’appuntato Fabio Del Prete. Le intercettazioni telefoniche infatti possono essere effettuate solo dagli ufficiali di polizia giudiziaria. L’appuntato, invece, ha la qualifica di agente di pg. Complessivamente le registrazioni sono state 180. Le attività di ascolto, particolare importante, non vennero effettuate, come prevede la norma, presso la sala ascolto della Procura, ma, dopo aver remotizzato su disposizione dei magistrati gli apparati, direttamente presso la sede del Gico di Roma in via Talli. All’udienza di questa mattina la Procura sarà rappresentata dai due titolari del fascicolo: i pm Mario Formisano e Gemma Miliani. Daranno il via libera alla richiesta dei legali di Palamara o si opporranno, chiedendo che i nastri vengano distrutti? È la domanda della vigilia. Il rischio della inutilizzabilità di gran parte del materiale raccolto incombe. E, a seguire, può condizionare il procedimento disciplinare a carico di Palamara che si basa proprio su questi colloqui “illegalmente” ascoltati. Per la decisione del giudice Brutti bisognerà attendere qualche giorno.

Caso Palamara, i difensori: «Intercettazioni inutilizzabili». Per l’ex capo dell’Anm accusato di corruzione l’udienza è rinviata al 30 luglio. Simona Musco su Il Dubbio il 17 luglio 2020. «Quelle intercettazioni sono illegittime». A dirlo sono i legali dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara – Roberto Rampioni, Mariano e Benedetto Buratti – al termine dell’udienza di ieri davanti al Gip di Perugia sulla trascrizione delle intercettazioni telefoniche che rappresentano il fulcro dell’inchiesta per corruzione a carico dell’ex magistrato, rinviata al prossimo 30 luglio. Entro quella data, hanno affermato i legali, «valuteremo se fare ulteriori eccezioni rispetto a un tema noto, ovvero che riteniamo del tutto illegittime le intercettazioni parlamentari, e decideremo su altre eccezioni che abbiamo già proposto sia dinanzi al Csm che dinanzi alle Sezioni unite». In particolare, i difensori contestano le intercettazioni registrate tra Palamara e gli onorevoli Cosimo Maria Ferri e Luca Lotti, ex ministro del governo Renzi, nella serata dell’8 maggio all’hotel Champagne, che «non possono essere considerate casuali perché Ferri era da mesi nel perimetro delle indagini che avevano ad oggetto anche gli accordi tra Unicost e Magistratura Indipendente per la nomina del Procuratore di Roma», hanno spiegato i legali. «Questo imponeva di richiedere una preventiva autorizzazione della Camera dei Deputati – hanno evidenziato – unico organo allo stato istituzionalmente preposto a decidere come previsto dall’articolo 68 della Costituzione». Benedetto Buratti ha spiegato ai giornalisti che ieri «non si è entrati nel merito, abbiamo posto sul tavolo una serie di questioni e il giudice ci ha concesso un termine per poter valutare in maniera integrale tutte le questioni da porre in una procedura incidentale, che è dedicata proprio a questo. Dopo questa udienza, superate o meno queste eccezioni, valuteremo quali intercettazioni trascrivere e quali no». Il difensore dell’ex magistrato si è detto «soddisfatto dell’esito dell’udienza. Il giudice ci è sembrato molto accondiscendente -ha aggiunto – rispetto alle nostre richieste difensive». Tra le questioni da affrontare ci sono appunto le intercettazioni dei colloqui di Palamara e Ferri, deputato di Italia Viva, e l’ex ministro Lotti. «Per noi sono inutilizzabili in netta violazione della normativa costituzionale sui parlamentari cui sarà competente a decidere il Parlamento stesso – ha spiegato Buratti – ci riserviamo di farlo anche davanti al giudice di Perugia». L’accusa aveva chiesto la trascrizione di circa un centinaio di conversazioni, alcune delle quali realizzate attraverso il trojan installato sul cellulare dell’ex presidente dell’Anm. Il giudice non ha invece accolto l’istanza della difesa di Palamara – che il 21 luglio si troverà davanti alla Sezione disciplinare del Csm – di rinviare l’intera udienza e non ha rinvenuto mancanze nel materiale audio messo a disposizione dei legali del magistrato (ora sospeso dalle funzioni e dallo stipendio) come questi avevano sostenuto con la stessa istanza. «Riteniamo violata la Costituzione» hanno aggiunto i legali. Sono un centinaio le intercettazioni telefoniche, oltre a quelle realizzate con il trojan, delle quali la procura di Perugia ha chiesto la trascrizione nell’ambito dell’inchiesta. «Riteniamo che non ci sia stato messo a disposizione tutto il materiale intercettato, specie quello con il trojan» aveva inoltre spiegato mercoledì l’avvocato Benedetto Buratti. 

Giovanni Bianconi per corriere.it il 17 luglio 2020. La prima mossa del neo procuratore di Perugia Raffaele Cantone nel «caso Palamara» è contro il rinvio dell’udienza-stralcio per decidere quali intercettazioni utilizzare nel processo e quali no. Il magistrato indagato per corruzione voleva prendere tempo in attesa di ciò che sarà deciso, sullo stesso argomento, nel procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura, ma Cantone è intervenuto davanti al giudice dell’indagine preliminare per spiegare che l’inchiesta penale non può frenare davanti a quella amministrativa. E il gip gli ha dato ragione: «La richiesta di rinvio non può trovare accoglimento», ha stabilito al termine dell’udienza di ieri; né «si ravvisa la necessità» di concedere altro tempo a Palamara e ai suoi difensori per ascoltare i files delle registrazioni «secondarie» o «non rilevanti», così definiti dalla ditta che ha realizzato le intercettazioni tramite il trojan inoculato nel telefono dell’ex pm romano. «Sembra emergere chiaramente», sostiene il gip dopo aver acquisito le spiegazioni della ditta, che si tratta di files «privi di contenuto o che si identificano in messaggi contenenti informazioni di carattere tecnico (collegamento alla rete, tipologia di rete utilizzata per la connessione, ecc.)» che nulla hanno a che vedere con l’indagine. Nessuna registrazione occultata, quindi. Il procedimento può andare avanti e l’udienza sulle intercettazioni da trascrivere è stata aggiornata al prossimo 30 luglio. In queste due settimane, se lo vorranno, Palamara e i suoi avvocati potranno ascoltare anche i files «privi di contenuto» e fare ulteriori istanze. Si tratta di questioni tecnico-giuridiche apparentemente secondarie che in realtà ne nascondono una molto importante: l’utilizzabilità delle intercettazioni in cui Palamara parla con i deputati Cosimo Ferri (giudice in aspettativa, anche lui sotto procedimento disciplinare) e Luca Lotti, protetti dall’immunità parlamentare: sono intercettazioni «casuali», quindi utilizzabili contro chi non gode di alcuna immunità (Palamara), oppure dal contenuto delle altre telefonate era prevedibile che il magistrato indagato avrebbe incontrato i deputati, e dunque il microfono nascosto nel suo cellulare andava staccato, secondo le disposizioni impartite dai pm di Perugia agli investigatori della Guardia di finanza? In sostanza: quelle intercettazioni furono legittime o «in violazione della Costituzione», come ribadito ieri da uno dei difensori di Palamara, l’avvocato Benedetto Buratti? Anche su questo punto, sottoscrivendo la memoria trasmessa al gip, il neo-procuratore Cantone ha dato la sua risposta schierandosi al fianco e a sostegno del lavoro svolto dai sostituti procuratori Gemma Milano e Mario Formisano, prima del suo arrivo: nessuna violazione delle regole, e tantomeno della Costituzione. Le intercettazioni degli incontri con Ferri e Lotti furono «casuali», non programmate né programmabili secondo il funzionamento del trojan. Ne consegue che quei colloqui registrati — a cominciare dalla famosa riunione notturna dell’hotel Champagne, tra l’8 e il 9 maggio 2019, nella quale si pianificavano le strategie per le nomina del procuratore di Roma e altre questioni — sono pienamente utilizzabili, sebbene non sia lì la prova della corruzione contestata all’ex componente del Csm; quell’incontro è un dettaglio che serve a comprendere come si muoveva Palamara, e ciò su cui poteva incidere: la «messa disposizione della funzione» in favore dell’imprenditore Fabrizio Centofanti è dimostrata — secondo i pm — dai viaggi pagati e altri indizi raccolti. Per Luca Palamara, invece, i viaggi sembrano essere il problema minore; lui, già soddisfatto perché è caduta l’accusa di aver intascato 40.000 euro per pilotare una nomina, è convinto di poter dimostrare di non aver mai fatto nulla che non fosse la «semplice» spartizione di poltrone e promozioni. Ma intanto, in attesa della richiesta di rinvio a giudizio e dell’udienza per decidere l’eventuale processo, la battaglia legale appena cominciata è sulle intercettazioni da utilizzare.

Caso Palamara, i buchi del trojan giustificati dalla procura di Perugia. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Luglio 2020. Il trojan è un tarocco costoso. Ormai non ci sono più dubbi. Il “rivoluzionario” strumento investigativo tanto apprezzato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio si è rivelato, come si dice a Roma, una sòla. Per smascherare la truffa del “captatore informatico” che trasforma il cellulare in un microfono è stata necessaria l’udienza stralcio, tenutasi ieri mattina davanti al gip di Perugia Lidia Brutti e rinviata per le conclusioni al 30 luglio, per decidere quali conversazioni intercettate nell’indagine a carico di Luca Palamara debbano essere trascritte. La memoria presentata dai pm della Procura del capoluogo umbro dovrebbe essere trasmessa immediatamente al Parlamento affinché, d’urgenza, vieti l’utilizzo del trojan, almeno fino a quando non saranno risolti gli innumerevoli problemi tecnici che affliggono il tremendo captatore. Un po’ come successo con la Tesla, l’auto che si guida da sola e che ogni tanto finisce in qualche burrone perché non ha visto la curva. Vediamo dunque alcuni passaggi della memoria dei pm titolari del fascicolo e vistata dal neo procuratore Raffaele Cantone. «Il captatore viene impostato per registrare per un tempo non eccessivamente lungo (5/8 ore) in quanto diversamente, potrebbe determinare un consumo eccessivo della batteria» causandone “il blocco”, esordiscono Mario Formisano e Gemma Miliani. «La selezione di un intervallo limitato rispetto alle 24 ore – puntualizzano – è imposta dalle ovvie esigenze di cautela volte ad evitare che l’intercettato si renda conto della presenza ‘malevola’ all’interno del proprio dispositivo elettronico». Adesso, però, arriva il bello. «L’avvio della registrazione all’orario programmato per ogni giornata è automatico e prescinde dalla successione dei dialoghi. È di tutta evidenza che il captatore può avviarsi quando un colloquio è già in corso». Ma non solo. «La registrazione avviene solo quando lo schermo del terminale è spento» e «si interrompe quando la schermo è acceso». Dopo che la registrazione è stata interrotta per l’accensione dello schermo, prima che essa riprenda devono trascorrere “alcuni secondi”. La “chicca” riguarda l’ascolto di queste conversazioni che, si è scoperto, non avviene in diretta ma in differita. «La registrazione avviene in parti (chunks) di 5 minuti, salvo che non ci sia stata una interruzione determinata dall’accensione dello schermo». Tali chunk vengono poi «messi in coda per la trasmissione al server della Procura». «Il materiale invio delle varie registrazioni dipende dal numero di chunk messi in coda ed è condizionato dal fatto che il dispositivo monitorato si trovi in un’area con adeguata copertura di rete». Quindi, concludono i pm, «è di tutta evidenza che l’ascolto dei chunk non può avvenire in diretta e il tempo che intercorre per la captazione della fonia e la possibilità di ascolto dipende dalla somma tra il tempo di chiusura di ogni chunk, il tempo di "coda", di trasmissione e infine il tempo di elaborazione sul server». Tutto chiaro? Riassumendo, il maresciallo decide, come con il videoregistratore, quando il trojan si accenderà e si spegnerà. Nel caso della cena di Palamara e il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone era spento.Il periodo di ascolto dovrà essere al massimo di 5/8 ore altrimenti il telefono si scarica, va in blocco, e l’intercettato si accorge che c’è qualcosa che non funziona. Il trojan si attiva solamente con lo schermo spento. Appena si tocca lo schermo, per vedere l’ora, leggere una mail, aprire un’app, si blocca. Chi compulsa freneticamente il cellulare rende di fatto inutilizzabile il trojan. La ripartenza non è immediata. La trasmissione delle conversazioni intercettate avviene poi per blocchi di 5 minuti. Se ci si trova senza copertura di rete o con Edge, questi blocchi non riescono a essere inviati al server della Procura e vanno in ‘coda’. Quando torna il segnale allora possono essere spediti. Il server della Procura, infine, ha bisogno di tempo per elaborare i dati trasmessi. Solo a quel punto il maresciallo può procedere all’ascolto. Si tratta dunque di ascolti “postumi”, sottolineano i pm, proprio per “l’impossibilità tecnica” di ascoltare in diretta. Ed è per questo motivo, concludono i pm, che l’incontro fra Palamara, Luca Lotti e Cosimo Ferri all’hotel Champagne è stato registrato.

 La difesa di Palamara: “Chi ha ordinato di intercettare i parlamentari?”. Il Dubbio il 28 luglio 2020. La difesa di Luca Palamara in vista del 30 luglio prossimo quando è in programma l’udienza stralcio a Perugia ha depositato in Procura una richiesta di acquisizione di documentazione in relazione alle intercettazioni, tra chi quelle all’hotel Champagne, nell’inchiesta che lo vede indagato per corruzione. La difesa di Luca Palamara in vista del 30 luglio prossimo quando e’ in programma l’udienza stralcio a Perugia ha depositato in Procura una richiesta di acquisizione di documentazione in relazione alle intercettazioni, tra chi quelle all’hotel Champagne, nell’inchiesta che lo vede indagato per corruzione. ”E’ precipuo interesse di questa difesa – scrivono nella richiesta gli avvocati Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, difensori dell’ex consigliere del Csm – dimostrare che le conversazioni datate 8 e 9 maggio 2019 aventi ad oggetto la registrazione degli incontri del dott. Palamara presso l’Hotel Champagne con i parlamentari Ferri e Lotti e altri consiglieri del Csm vennero intercettate nonostante la chiara direttiva del 10 maggio 2019 impartita dalla Procura di Perugia alla Polizia Giudiziaria, preposta alle operazioni di ascolto delle intercettazioni telefoniche e con captatore informatico, di spegnere il microfono ogni qualvolta nelle conversazioni del dottor Palamara fosse stato coinvolto un parlamentare”. ”Per queste ragioni anche al fine di poter esplicare compiutamente il diritto di difesa del dott. Palamara in ogni stato e grado di qualsiasi procedimento come riconosciuto dall’art.24 della Costituzione risulta necessario comprendere – sottolineano nella memoria – le ragioni per le quali: il microfono non sia stato spento in occasione degli incontri programmati del 9 maggio 2019 presso l’Hotel Champagne; nella giornata del 9 maggio del 2019 il trojan abbia smesso di funzionare e di registrare le ulteriori conversazioni dalle ore 16.02 come risulta dagli ascolti dei file audio presso il server della Procura di Roma”.

Sempre nella memoria i difensori di Palamara chiedono ”con carattere di urgenza” l’acquisizione della documentazione relativa a ”ordini e memoriali di servizio emessi ”dal Comandante del Nucleo della Gdf Colonnello Paolo Compagnone d’ordine l’ufficiale di P.G. Gerardo Mastrodomenico c/o dal maggiore Fabio Di Bella” relativi alla predisposizione delle attività degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria nell’ambito del procedimento penale 6652/18 Rgn e 321/19 Rgnr pendente presso la Procura di Perugia relativamente all’effettivo orario di lavoro nei mesi di marzo, aprile e maggio 2019”. Si chiede inoltre di acquisire ”eventuali richieste di anticipo di spese per missione fuori sede da parte dei predetti ufficiali e agenti preposti alle indicate operazioni di polizia giudiziaria; attestati di presenza del colonnello Gerardo Mastrodomenico presso la Scuola di perfezionamento per le forze di Polizia dal febbraio 2019 al giugno 2019; acquisizione dei tabulati telefonici in entrata ed in uscita degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria indicati negli ordini di servizio dell’8 e del 9 maggio 2019; acquisizione ed indicazione del nominativo dell’incaricato da parte di Rcs spa nelle giornate dell’8 e del 9 maggio 2019”.

Palamara contro Davigo: "Si astenga dal processo. È teste e giudice". La difesa di Palamara chiede che Davigo non faccia parte del collegio che inizia martedì. Davigo è stato chiamato da Palamara come teste. Giuseppe Aloisi, Venerdì 17/07/2020 su Il Giornale. Il caso Palamara continua a far discutere. Martedì prossimo inizierà il processo disciplinare all'ex membro del Consiglio superiore della magistratura. Tra coloro che dovrebbero fart parte del collegio giudicante c'è il magistrato Piercamillo Davigo. Ma la parte di Palamara, sul fatto che il giudice Piercamillo Davigo eserciti questo ruolo durante il procedimento, sembra avere più di qualche perplessità. Questo, almeno, è quello che si deduce leggendo la memoria presentata da un altro giudice, Stefano Giaime Guizzi, che è il difensore di Luca Palamara. Nella memoria, stando a quanto riportato dall'Adnkronos, si legge infatti quanto segue: "In particolare, il dottor Fava ha riferito che in occasione di un incontro avvenuto a fine febbraio 2019 presso il ristorante “Il Baccanale” oggetto del suo colloquio - colloquio che sarebbe avvenuto proprio tra Fava e Davigo - fu, oltre ad una sua possibile candidatura alle elezioni per il rinnovo degli organismi dell'Associazione nazionale magistrati, l'esistenza di 'divergenze di vedute' all'interno del suo Ufficio di appartenenza (la Procura della Repubblica di Roma, e in particolare di “possibili conflitti di interesse” che egli aveva segnalato "tra il Procuratore ed alcuni indagati". Queste sono le argomentazioni sollevate dal difensore di Luca Palamara. Piercamillo Davigo sarebbe peraltro un "teste a discapito" di Palamara. Un'altra motivazione per cui, stando alla memoria, il magistrato del collegio dovrebbe astenersi. Il legale di Palamara ha dichiarato che, nel caso in cui Davigo non si astenesse, sarebbe allora ricusato. Per il legale di Luca Palamara la posizione in cui si trova Piercamillo Davigo è "sui generis". Il perché è presto detto. Per la difesa di Luca Palamara "si verrebbe a determinare la singolare situazione di un soggetto che riveste, nello stesso processo, la posizione di teste su (taluni dei) fatti oggetto di incolpazione, nonché di giudice degli stessi". Davigo, insomma, non dovrebbe far parte del collegio. Questa è la sintesi della richiesta. Palamara, da martedì, dovrà rispondere a questa accusa: "Comportamenti gravemente scorretti". Bisognerà vedere se, dopo la presentazione della memoria, Davigo farà o no parte del collegio. L'altro accusato - come ripercorso dall'Agi - è l'onorevole Cesare Ferri, che ora è parlamentare per Italia Viva di Matteo Renzi ed è dunque in aspettativa. Le accuse sono state mosse anche nei confronti di altri cinque membri del Consiglio superiore della magistratura, ossia Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Antonio Lepre, Corrado Cartoni e Paolo Criscuol. Nicola Pisani e Antonello Cimadomo, legali di Luigi Spina, uno dei 5 ex togati del Csm dimissionari lo scorso anno per il caso Palamara e per cui è stato chiesto un processo disciplinare, hanno scritto - sempre secondo l'Adnkronos - a Piercamillo Davigo per invitarlo a a presentarsi "per lo svolgimento di indagini difensive ai sensi dell'art. 391 bis del codice di procedura penale". In particolare i legali chiedono al magistrato di "rendere dichiarazioni ai sensi degli articoli 391 bis c.p.p. con riferimento ai fatti contestati al Dott. Spina nell'ambito del procedimento penale 6652/2018 presso la Procura della Repubblica di Perugia in quanto in grado di riferire circostanze utili ai fini dell'attività investigativa".

I fatti. "Comportamenti gravemente scorretti" in violazione dei doveri imposti ai magistrati. Sono le "accuse" che la procura generale della Cassazione, titolare, con il Guardasigilli, dell'azione disciplinare per le toghe, muove al pm di Roma (ora sospeso) Luca Palamara, al magistrato in aspettativa, oggi deputato di Italia Viva, Cosimo Ferri, e ai 5 togati del Csm - Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Antonio Lepre, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli - che hanno dovuto lasciare Palazzo dei Marescialli dopo l'emergere dello scandalo dalle intercettazioni dell'inchiesta di Perugia. Il processo davanti alla disciplinare del Csm prenderà il via martedì prossimo, 21 luglio: al centro, in particolare, la riunione notturna del 9 maggio 2019 all'Hotel Champagne per parlare di nomine ai vertici degli uffici giudiziari, e, soprattutto, di quella a capo della procura di Roma, come emerso dalle conversazioni intercettate dal trojan inoculato nel cellulare di Palamara. Tra i presenti, anche il deputato dem Luca Lotti, per il quale i pm della Capitale avevano già chiesto il rinvio a giudizio per la fuga di notizie sul caso Consip.

Il pranzo "confermato" dal pm. Fava e Davigo, dunque, si sarebbero visti a pranzo. Ma chi che avrebbe comunicato l'avvenuto incontro? La memoria sostiene che l'evento - il colloquio tra Davigo e Fava - abbia trovato conferma nel pm Enrico Amelio. I due si sarebbero incontrati all'inizio del 2019. Secondo l'Adnkronos, all'interno della memoria difensiva di Palamara, si legge che Amelio"ha confermato che nel mese di marzo 2019 il dottor Fava, dopo avergli riferito di aver “redatto una richiesta di misura cautelare nei confronti dell'avvocato Amara, che non aveva ottenuto il visto del Procuratore” (ciò che aveva determinato “dei contrasti che avevano condotto alla revoca dell'assegnazione”), apprese, dallo stesso, della sua volontà di 'fare un esposto, in quanto era preoccupato del fatto che la vicenda potesse andare contro di luì, tanto che il medesimo dott. Amelio ebbe 'l'impressione che il suo intentò (ovvero, del dottor Fava) “fosse tutelarsi da una vicenda, in cui si sentiva, suo malgrado, coinvolto”, donde “la necessità di rivolgersi al Csm perché temeva di poter subire un danno da quanto accaduto”.

Palamara ricusa Davigo come suo giudice al Csm. Pubblicato venerdì, 17 luglio 2020 da Liana Milella su La Repubblica.it. Di fronte alla sezione disciplinare, che si riunirà il 21 luglio, Stefano Guizzi, il magistrato che difende l’ex pm ed ex toga del Csm, ha presentato l’istanza per chiedere a Davigo di farsi da parte. Fuori Davigo dal “mio” giudizio disciplinare. Detto da Luca Palamara contro Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani pulite ora consigliere del Csm, la cui presenza è confermata come componente della sezione disciplinare di palazzo dei Marescialli che da martedì 21 luglio, alle 14, giudicherà l’ex pm di Roma, ex presidente dell’Anm, ex toga di Unicost, sotto inchiesta a Perugia per corruzione. Accusato dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi di aver partecipato alla cena all’hotel Champagne del 9 maggio 2019 per pilotare la scelta del procuratore di Roma e di aver tentato di influire di conseguenza su un organo di rilevanza costituzionale come il Csm. Ma Palamara, che ha già presentato una lista di 133 testi, adesso chiede che Davigo si astenga dal giudizio. Nel luglio dell’anno scorso Palamara aveva fatto la stessa richiesta a Sebastiano Ardita, anche lui togato del Csm, che però stavolta non figura nel parterre dei “giudici” del Csm. La richiesta di astensione nasce dal fatto che Davigo, come lo stesso Ardita, è anche uno dei 133 testi citati dallo stesso Palamara. È stato il difensore di Davigo davanti al Csm, il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, a presentare oggi la richiesta di astensione, in cui si contesta a Davigo il rischio di ritrovarsi, com’è scritto nella richiesta di “invito all’astensione”, “in una condizione davvero sui generis, la singolare situazione di un soggetto che riveste, nello stesso processo, la posizione di teste su (taluni dei) fatti oggetto di incolpazione, nonché di giudice degli stessi”. Ma quali sono i fatti che, secondo la difesa di Palamara, renderebbero Davigo incompatibile con il ruolo di giudice? Nella richiesta Guizzi parla “di un incontro avvenuto a fine febbraio 2019 presso il ristorante Il Baccanale tra lo stesso Davigo, l’ex pm di Roma Stefano Fava, e un altro pm di piazzale Clodio, Erminio Amelio”. Guizzi, nella memoria firmata anche da Palamara, afferma che “oggetto del colloquio con i consiglieri Davigo e Sebastiano Ardita fu, oltre a una sua possibile candidatura alle elezioni per il rinnovo degli organismi dell’Associazione Nazionale Magistrati, l’esistenza di divergenze di vedute all’interno della Procura di Roma, e in particolare di possibili conflitti di interesse che egli aveva segnalato tra il Procuratore e alcuni indagati”. Fava è tra i testi richiesti da Palamara, così come Amelio. Il quale, secondo la richiesta di astensione, “ha confermato, per avervi egli stesso preso parte, la circostanza del pranzo”. Amelio avrebbe confermato inoltre che “nel mese di marzo 2019, Fava, dopo avergli riferito di aver redatto una richiesta di misura cautelare nei confronti dell’avvocato Pietro Amara, che non aveva ottenuto il visto del Procuratore (ciò che aveva determinato dei contrasti che avevano condotto alla revoca dell’assegnazione), apprese, dallo stesso, della sua volontà di fare un esposto, in quanto era preoccupato del fatto che la vicenda potesse andare contro di lui, tanto che il medesimo Amelio ebbe l’impressione che l’intento di Fava fosse quello di tutelarsi da una vicenda, in cui si sentiva, suo malgrado, coinvolto. Da qui la necessità di rivolgersi al Csm perché temeva di poter subire un danno da quanto era accaduto”. Non una parola di reazione da parte di Davigo, che fa parte stabilmente della sezione disciplinare del Csm.  Sarà la sezione stessa, martedì prossimo, a decidere.

Luca Palamara, ecco perché Piercamillo Davigo non può giudicarlo: altro sfondone in magistratura. Cristiana Lodi su Libero Quotidiano il 21 luglio 2020. Testimone di che? Cosa avrebbe visto o sentito o detto Piercamillo Davigo? Perché egli, togato del Csm, dovrebbe mai rinunciare a "processare" Luca Palamara nel procedimento disciplinare che si apre oggi pomeriggio, alle ore due, a Palazzo dei Marescialli? Pare che il giudice Davigo abbia preso parte (stando alla difesa dell'imputato Palamara) a un pranzo "sinistro" insieme con altri tre magistrati. E che durante il banchetto si sia il giudice espresso in merito all'opportunità di segnalare o meno al Csm una diatriba in corso fra uno dei tre commensali presenti (invitato lì per diventare parte della sua corrente Autonomia e Indipendenza) e il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone (oggi in pensione) e il suo aggiunto Paolo Ielo. Una diatriba spinosa quanto famigerata quella in atto in quel momento (era la fine di febbraio 2019) fra il capo della poltrona giudiziaria più ambita d'Italia (Giuseppe Pignatone appunto) e il "suo" magistrato presente al pranzo con Piercamillo Davigo (ossia il pm Stefano Fava). Motivo? Il conflitto si trasformerà ben presto in un esposto al Csm. Succede a distanza di un mese dal pranzo. E l'esposto, guarda il caso, adesso è oggetto proprio di una delle incolpazioni (anzi della più importante accusa) da cui dovrà difendersi Luca Palamara nel procedimento odierno. Come non bastasse, l'indagato Luca Palamara, sotto inchiesta per corruzione alla Procura della Repubblica di Perugia (dove ci sono i magistrati competenti a giudicare i magistrati), ha citato proprio Piercamillo Davigo come suo testimone, in virtù di quanto accaduto durante quel pranzo. Insomma è come se ancora prima che cominci il processo, ci si accorga che la giuria chiamata a decidere se assolvere o condannare, sia stata testimone degli stessi reati contestati all'imputato. Una babilonia in piena regola. Per non parlare degli altri 132 nomi eccellenti, fra toghe e politici e giornalisti intercettati dal trojan infilato nel telefono di Luca Palamara, e che adesso lui cita come testimoni. Alzando così il sipario sullo strapotere incontrollato e marcio della casta togata. 

LE DICHIARAZIONI. Ma vediamo nel dettaglio e verbali alla mano, quel che accadde «alla fine di febbraio 2019» intorno a una tavola apparecchiata con le tovaglie di carta, al ristorante Baccanale di Roma, via Della Giuliana 59. Pochi passi dalla Procura di Piazzale Clodio. A raccontarlo è proprio il pm Stefano Fava in un verbale datato 6 novembre 2019 e raccolto alle ore 17 e 30 nello studio dell'Avvocato Benedetto Marzocchi (legale di Luca Palamara) e alla presenza del difensore dello stesso pm. Il verbale è ovviamente oggetto della richiesta di ricusazione che verrà presentata oggi alla prima sezione disciplinare del Csm, che mette alla "sbarra" il magistrato romano (sospeso dalle funzioni e dallo stipendio), leader incontrastato di Unicost e dell'Anm, nonché ex togato del Csm Palamara. Domanda: «Vero, dott. Fava, come emerso dagli atti di indagine e dalle notizie di stampa che coinvolgono il dottor Palamara, che lei ha presentato una segnalazione al Consiglio Superiore della Magistratura in merito alla gestione di alcune inchieste giudiziarie a lei co-assegnate con altri pubblici ministeri di Roma? Se sì, quando ha inoltrato l'esposto al Csm?». Stefano Fava: «Preciso che la mia segnalazione non riguarda inchieste giudiziarie ma una riunione indetta per il 5 marzo 2019 dal dott. Pignatone concernente una sua problematica di natura personale e familiare ovvero se il medesimo dott. Pignatone si dovesse astenere o meno nei procedimenti che coinvolgevano l'avvocato Amara Bigotti e Balistreri avendo costoro conferito incarichi professionali al fratello del dott. Giuseppe Pignatone stesso, che fa l'avvocato e si chiama Roberto Pignatone. La mia segnalazione è stata presentata il 27 marzo 2019». In sostanza, il pm Stefano Fava, nel periodo in cui incontra Davigo per entrare a fare parte della sua corrente "Autonomia e Indipendenza" (è febbraio 2019) è in feroce conflitto «divergenze di vedute all'interno del mio Ufficio di appartenenza ossia la Procura della Repubblica di Roma, (per usare le sue parole)», con il procuratore Giuseppe Pignatone e l'aggiunto Paolo Ielo. Causa: «Possibili conflitti di interesse tra il Procuratore ed alcuni indagati». In pratica il pm Stefano Fava ha presentato una richiesta di misura cautelare nei confronti di tale avvocato Amara, che però non ottiene il visto del Procuratore. I contrasti si inaspriscono al punto di arrivare alla revoca dell'assegnazione del fascicolo per il pm. Il 5 marzo 2019 , dopo una riunione convocata da Pignatone presente Fava, la faccenda tracima. Spingendo così il magistrato inquirente a consegnare, successivamente, l'esposto al Csm contro il Procuratore Giuseppe Pignatone che gli ha tolto l'inchiesta. È il 27 marzo 2019. Gli incontri con Davigo sono antecedenti sia alla riunione del 5 marzo, sia alla data di consegna dell'esposto 22 giorni dopo; ma il conflitto è già in corso e infuocatissimo quando Piercamillo e il pm denunciatario s' incontrano a tavola. Domanda: «Che incontri ha avuto col dottor Piercamillo Davigo?». Stefano Fava: «() vi sono stati più incontri alla presenza del dott. Erminio Amelio, Sebastiano Ardita e del dott. Piercamillo Davigo, che io ricordi a cena al ristorante "Sicilia in Bocca" di Roma Via Flaminia e poi alla fine di febbraio 2019, prima di marzo, a pranzo al ristorante "Il Baccanale 59" in Via della Giuliana 59». Domanda: «In questi incontri avete parlato della segnalazione da lei fatta al CSM?». Stefano Fava: «Negli ultimi due incontri sicuramente, nel primo ritengo di no anche perché risalente con ogni probabilità ai mesi di dicembre 2018 o gennaio 2019. Tengo a precisare che il tema del primo incontro era la richiesta, sia da parte del dott. Ardita che del dott. Davigo, di propormi come candidato per le elezione all'ANM. Ricordo che nel secondo incontro, avvenuto a fine febbraio prima di marzo 2019 presso il ristorante "Il Baccanale 59", abbiamo parlato sia della mia eventuale candidatura e ricordo perfettamente di aver loro rappresentato delle divergenze di vedute all'interno al mio ufficio e, in particolare, dei possibili conflitti di interesse che avevo segnalato tra il procuratore ed alcuni indagati». Domanda: «Che reazione hanno avuto il dott. Ardita ed il dott. Davigo?». Stefano Fava: «Hanno giudicato la vicenda di indubbia rilevanza e che meritava approfonditi accertamenti da parte del CSM». Dunque? Piercamillo Davigo, consigliere togato del Csm chiamato oggi a giudicare Luca Palamara, oltre a essere stato citato come suo testimone, non solo sarebbe stato spettatore delle esternazioni di Stefano Fava riguardo i suoi conflitti col procuratore Giuseppe Pignatone, ma avrebbe addirittura (stando a quanto mette per iscritto Fava stesso) giudicato quei conflitti «di indubbia rilevanza» e «meritevoli di approfondimenti da parte del Csm». Cosa che infatti Stefano Fava farà: consegnando il suo esposto contro il procuratore. E si tratta dello stesso esposto diventato oggetto di incolpazione nei confronti di Palamara intercettato dal trojan nella sua "guerra" contro lo stesso procuratore "rivale" di Fava. Che evidentemente non era il solo a volere combattere. Cosa dice Piercamillo Davigo? L'ho chiamato sul cellulare e interpellato sulla questione, illustrandogli il verbale di Stefano Fava citato anche nella richiesta di ricusazione presentata dalla difesa di Palamara. Davigo si è arrabbiato, ha aggiunto che querelare Libero è per lui un «divertimento». Gli abbiamo ricordato che a leggere quanto accade all'interno della magistratura italiana, troviamo poco da ridere. 

IL PRANZO. Allora il consigliere del Csm che oggi dovrebbe giudicare Luca Palamara, si è calmato e ha precisato che lui a quel pranzo in Via Della Giuliana a Roma, alla fine di febbraio 2019, c'era sì. Ma che a parlare dei conflitti tra il pm Stefano Fava e il Procuratore erano gli altri commensali e lui no. A parlare, sottolinea, erano: «Fava e Ardita». Ma allora, se Davigo c'era e li ha sentiti parlare, significa che è stato davvero testimone del conflitto col procuratore diventato poi anche oggetto di colpa per Luca Palamara. Sotto suo processo adesso. Cosa succederà quindi in aula in questo pomeriggio di luglio inoltrato? Potrebbe esserci subito un rinvio. Di certo la difesa di Luca Palamara presenterà a Piercamillo Davigo il cortese invito ad astenersi. In buon ordine. E se lui non lo farà, scatterà la richiesta di ricusazione firmata dalla difesa, che sarà esaminata da un collegio di sei togati. Con deposito dell'istanza firmata dalla difesa, che sarà esaminata da un collegio di sei togati. Escluso Piercamillo Davigo. E qui ci si domanda: come finirà? Ci sarà un giudice a palazzo dei Marescialli. Oppure la magistratura chiamata a processare se stessa liquiderà sbrigativamente la pratica, facendo la pelle al capro espiatorio Luca Palamara? Sotterrando così la verità insieme col già defunto Stato di diritto? Salvando però la casta.

Luca Palamara giudicato da Piercamillo Davigo? Il cavillo giuridico che rivela l'ultima farsa. Pieremilio Sammarco - (Professore di Diritto Comparato Università di Bergamo), su Libero Quotidiano il 26 luglio 2020. Con l'imminente procedimento disciplinare a carico dell'incolpato Palamara dinanzi al Csm vi è l'occasione per formulare qualche rilievo critico sulle disposizioni normative che ne regolano il suo funzionamento. La Sezione Disciplinare del Csm avvia un procedimento di natura giurisdizionale che dovrebbe avere i crismi di un processo dinanzi ad un giudice ordinario, attribuendo all'incolpato un set di diritti irrinunciabili ed incomprimibili che sono propri del giusto processo. Infatti, al procedimento disciplinare a carico dei magistrati si applicano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale sul dibattimento. Ma, in realtà, questo non avviene e chi si trova nella scomoda posizione di essere giudicato per le sue condotte, patisce una serie di norme regolamentari che sacrificano alcuni dei suoi diritti. Ad esempio, prendiamo l'istituto della ricusazione (attivato da Palamara nei confronti di Davigo): esso è speculare al dovere del giudice di astenersi dal giudicare in determinate circostanze, tra cui: a) se ha un interesse nel procedimento, o se una delle parti è creditore o debitore di lui o del coniuge o dei figli; b) se vi è inimicizia tra lui o un prossimo congiunto ed una delle parti private; c) se il giudice, nell'esercizio delle sue funzioni e prima della sentenza, manifesti indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto d'imputazione; d) se esistono altre gravi ragioni di convenienza. Quando viene presentata una ricusazione di uno o più membri della Sezione Disciplinare giudicante, la legge 195 del 1958 che regola la costituzione ed il funzionamento del Csm, all'art. 6, comma 5°, prevede che «sulla ricusazione di un componente della Sezione Disciplinare, decide la stessa sezione, previa sostituzione del componente ricusato con il supplente corrispondente». In sostanza, la ricusazione, anziché essere decisa da un organo diverso, come accade normalmente in sede giurisdizionale, viene trattata dal medesimo collegio destinatario della ricusazione. Si tratta di una evidente singolarità che non garantisce una piena indipendenza e terzietà da parte della Sezione Giudicante che, in linea teorica, nei casi di coinvolgimento con l'incolpato, potrebbe avere interesse a riversare solo su quest' ultimo gli effetti della condotta da sanzionare, senza che possa essere estesa anche agli altri componenti giudicanti. L'anomalia della Sezione Giudicante è ancor più palese nel caso eclatante in cui un incolpato presenti un'istanza di ricusazione nei confronti di tutti i componenti della Sezione, compreso i suoi membri supplenti: la giurisprudenza dello stesso Csm, in questo caso, ha precisato che «è inammissibile l'istanza di ricusazione di otto componenti della sezione disciplinare del Csm poiché l'istituto della ricusazione non può operare qualora esso conduca alla paralisi della funzione giurisdizionale, che è pur sempre essenziale e prioritaria anche rispetto alle giustificate esigenze di una decisione scevra da sospetti di parzialità o di prevenzione» (Csm, 30 maggio 2001). Di fatto, stando così le cose, l'istituto della ricusazione, tanto importante per eliminare ogni dubbio sulla imparzialità del giudice, nel procedimento disciplinare è svuotato di potenza e cade nel vuoto, proprio perché la legge del 1958 non affida ad un organo estraneo al Csm la valutazione della sua fondatezza. E in questo modo l'esigenza di garantire che questo particolare e delicato procedimento sia improntato a terzietà ed indipendenza va a farsi benedire. 

Luca Palamara, chi è l'uomo di Alfonso Bonafede nel plotone del Csm che giudicherà il pm romano. Libero Quotidiano il 18 luglio 2020. Più che ad un processo, Luca Palamara sembra andare incontro ad un plotone d’esecuzione. Come se non bastasse Piercamillo Davigo - ricusato dal pm romano per aver già manifestato convinzioni ostili - all’ultimo minuto si è aggiunto un altro membro alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Si tratta di Filippo Donati, professore di diritto costituzionale a Firenze che è meglio conosciuto come l’uomo di Alfonso Bonafede. Il Giornale ha ricostruito il suo ingresso nel Csm, avvenuto direttamente attraverso la piattaforma Rousseau, che due anni fa lo designò insieme a un altro fiorentino, Alberto Maria Benedetti, legato al professor Guido Alba, socio di studio di Giuseppe Conte. In pratica se Benedetti è considerato la voce del premier, quando parla Donati è come se lo facesse il ministro grillino. Secondo Il Giornale l’aggiunta di Donati è la dimostrazione che l’intervento “netto e profondo” promesso da Bonafede passa dalla cacciata di Palamara dalla magistratura. Al pm romano l’arduo compito di sopravvivere quello che sembra un plotone d’esecuzione: di certo non soccomberà senza combattere. 

Entra l'uomo di Bonafede nel plotone del Csm che giudicherà Palamara. Nella sezione disciplinare oltre a Davigo ci sarà Donati, fedelissimo del Guardasigilli. Luca Fazzo, Sabato 18/07/2020 su Il Giornale. E adesso per Luca Palamara la situazione si fa davvero complessa. Perché nella sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che martedì prossimo deciderà la sua sorte entra un altro nome certamente non benevolo nei suoi confronti. A Piercamillo Davigo (che Palamara accusa di avere già manifestato convinzioni ostili: «Manifestò parere su oggetto del procedimento») e agli altri quattro membri della sezione si è aggiunto in dirittura d'arrivo un altro membro laico - cioè di nomina parlamentare - del Csm: ed è, tra tutti i membri dell'organo di autogoverno delle toghe, quello più direttamente collegato al ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede. E che l'intervento «netto e profondo» promesso dal ministro sul Csm passi per la cacciata di Palamara dalla magistratura non c'è dubbio, tanto che anche Bonafede ha promosso l'azione disciplinare a carico dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati. L'uomo di Bonafede all'interno del Csm si chiama Filippo Donati, professore di diritto costituzionale a Firenze, entrato in Csm direttamente attraverso la piattaforma Rousseau, che due anni fa lo designò insieme a un altro fiorentino, Alberto Maria Benedetti, legato al professor Guido Alpa, socio di studio del premier Conte. Se in Csm Benedetti è considerato la voce del premier, quando parla Donati è come se parlasse il ministro. Che la composizione della sezione disciplinare sia stata definita solo a ridosso dell'udienza si spiega solo con il nervosismo che agita il consiglio superiore, soprattutto dopo che Palamara è uscito allo scoperto con la torrenziale lista dei centotrentatrè testimoni di cui chiede l'ammissione. Il tentativo del pm romano di trasformare il procedimento a suo carico in un processo a dieci anni di lottizzazione delle cariche giudiziarie rischia di trasformare il «caso Palamara» in una valanga che travolge tutto e tutti. Di certo, la sezione disciplinare non ammetterà tutti e 133 i testimoni chiesti dall'incolpato. Ma se davvero, come ipotizzava l'altro giorno il Riformista, venissero ammessi solo dieci testi, la sezione si tirerebbe addosso l'accusa di preparare un processo farsa dall'esito predeterminato. Il primo scoglio che martedì la sezione dovrà affrontare sarà la ricusazione di Davigo. L'ex pm milanese uscirà dalla stanza, e gli altri decideranno la sua sorte. Sarebbe singolare, visti i buoni rapporti di Davigo col ministro, che da Donati venisse un voto contro alla permanenza del «dottor Sottile» nella sezione. Inizio in salita, dunque, per Palamara. Ma quando si entrerà nel merito delle accuse, l'incolpato è deciso a dare battaglia. L'atto di incolpazione, consegnato ieri alla stampa, si articola sostanzialmente su due temi. Il primo sarebbero le manovre compiute da Palamara contro Paolo Ielo, procuratore aggiunto a Roma, tradotte in un comportamento «gravemente scorretto» finalizzato a una «strategia di discredito»: e su questo Palamara intende dimostrare di non avere mai raccolto alcun dossier nè su Ielo nè su suo fratello Domenico, avvocato dell'Eni. Il secondo, cruciale, riguarda l' «uso strumentale della propria qualità e posizione, diretto, per la modalità di realizzazione, a condizionare l'esercizio di funzioni costituzionalmente previste, quali la proposta e la nomina di uffici direttivi di vari uffici giudiziari da parte del Consiglio superiore della magistratura». Quello, dirà Palamara, che facevano tutti. Dalla notte dei tempi.

E il giglio magico grillino piazza la bandierina al Csm. Eletto per M5s il costituzionalista fiorentino Donati Dopo Conte, un altro giurista legato a Bonafede. Domenico Di Sanzo, Sabato 21/07/2018 su Il Giornale. Da vocalist nelle discoteche di Mazara del Vallo, così raccontano gli amici siciliani, a centro di gravità permanente delle nomine grilline sulla giustizia. Per Alfonso Bonafede il passo è stato breve. Dalla provincia di Trapani a Firenze, dove si è laureato e ha messo in piedi un piccolo «Giglio magico» grillino che ha già espresso un presidente del Consiglio e uno degli otto membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura. I fiorentini eletti dal Parlamento giovedì come componenti non togati del Csm sono due: David Ermini e Filippo Donati. Il primo è un deputato del Pd, nato a Figline Valdarno in provincia di Firenze, renziano di stretta osservanza. Il secondo è un professore di Diritto Costituzionale all'ateneo del capoluogo toscano. Le contraddizioni di Donati non sono poche. Conosce personalmente il Guardasigilli Alfonso Bonafede, a sua volta in passato assistente gratuito del premier Conte nella stessa università, ed è stato indicato dal Movimento Cinque Stelle nel ruolo di membro del Csm. Allo stesso tempo, ha sostenuto il Sì al referendum costituzionale di Renzi nel 2016. Donati ha fatto parte di uno dei quattro comitati cittadini per il Sì, e ha collaborato con la scuola di formazione politica Eunomia, fondata dal sindaco renziano di Firenze Dario Nardella. Lo scouting fiorentino di Bonafede sta facendo arrabbiare più di un parlamentare del Movimento Cinque Stelle. Per non parlare della «base» inferocita nella città gigliata. E, cosa che accade raramente tra i grillini, il deputato Andrea Colletti ha espresso pubblicamente il suo dissenso. Lo ha fatto con un post su Facebook: «Noto con (dis)piacere - ha scritto - che almeno due nomi provengono da Firenze, come avveniva nei vecchi metodi della consorteria toscana di Renzi e Company». Continua Colletti, parlamentare entrato nell'orbita della dissidenza M5s «tale nome me lo sarei aspettato da uno dei sodali di Renzi, vorrei proprio sapere chi ha fatto questi nomi e con quali criteri». Non ci vuole molto a capire l'identità dell'autore della cooptazione di Donati. Lo stesso che ha chiamato Giuseppe Conte e ha fatto da sponsor all'avvocato Luca Lanzalone: Alfonso Bonafede. L'avvocato siciliano, a quanto si racconta nel M5s, ha potere assoluto nelle indicazioni per quanto riguarda la Giustizia, con Di Maio che si limita a ratificare. Non è un caso che tra i nomi messi al vaglio di Rousseau per il Csm c'era anche un altro avvocato rigorosamente fiorentino. Si tratta di Edoardo Chiti, piazzatosi ultimo nella votazione interna, ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Tuscia di Viterbo, e titolare di uno studio legale a Firenze. Lo studio Chiti ha anche una sede a Roma, negli uffici di Guido Alpa, luminare del diritto amministrativo e mentore accademico del premier Conte. Tra gli eletti grillini al Csm c'è Alberto Maria Benedetti. Genovese come Grillo e socio esterno dello studio Carbone e D'Angelo: gli avvocati nominati dal Tribunale di Genova per difendere il curatore della vecchia associazione del M5s, quindi in contrapposizione con il comico. Misteri della cooptazione a Cinque Stelle.

Luca Palamara capro espiatorio della magistratura, la conferma (rubata) di Nicola Morra: "Meglio sacrificarlo". Libero Quotidiano il 15 luglio 2020. “Ci sono troppi media su Luca Palamara. È giusto che paghi, meglio sacrificarne uno per salvarne cento”. Sono queste le parole attribuite a Nicola Morra e udite da più persone in un bar al centro di Roma, dove il presidente della commissione antimafia avrebbe discusso del caso Palamara con una collega non meglio identificata. L’indiscrezione è stata lanciata dalla testata on-line Eco dai Palazzi e per ora non è stata smentita, alimentando i dubbi e i sospetti di diversi parlamentari. A partire da Daniela Santanchè, che invita Morra a smentire: “Se fosse invece confermato che la politica ancora una volta vuole incidere sulla magistratura, significherebbe che siamo di fronte a una grandissima bolla mediatica fatta per rendere Palamara capro espiatorio unico del sistema. Che è malato e va riformato al più presto, per anni è stato fatto uno smodato uso della giustizia manipolando le sorti politiche e sociali di questo paese. Il re è nudo - ha chiosato la parlamentare di Fdi - basta ipocrisie”. 

Magistratopoli, Palamara pronto per il processo: “Mi difendo e non scendo in politica”. Redazione su Il Riformista il 18 Luglio 2020. Le correnti, il carrierismo, il sistema. Luca Palamara a tutto campo in un’intervista a Radio Radicale. L’ex presidente ANM dice di essere pronto a difendersi, “determinato a chiarire tutto”, nel procedimento disciplinare a suo carico sullo scandalo delle Procure e per il quale ha chiamato 133 testimoni. Un procedimento davanti al quale vuole “contestare che le interferenze” a lui attribuite; “non sono tali avendo fatto parte di un sistema, quello delle correnti, che a torto a ragione caratterizza l’organizzazione interna alla magistratura” e che quindi “c’è un sistema di proprietà all’interno della magistratura. Le correnti sono proprietarie della magistratura. È un sistema superato? Penso che bisogna attentamente fare una riflessione”. L’obiettivo prioritario di Palamara è quindi “difendermi nel processo e non lasciare la magistratura“. Ha risposto così alla domanda se fosse pronto a scendere in politica. Anche una buona dose di autocritica nell’intervista radiofonica: “Penso che questo sistema, con le vicende che sono emerse che vedo con dolore legate al mio nome, hanno segnato un punto di non ritorno – ha detto – il carrierismo sfrenato fa perdere la bussola, probabilmente anche a me”. “Che le correnti siano state al centro, il motore, della vita interna della magistratura … nulla si muove all’interno della magistratura se la corrente non lo vuole. È il momento di guardare a chi è rimasto fuori da questo meccanismo?”, si è chiesto dunque l’intervistato. Che sempre sul sistema ha aggiunto: “Prendere le distanze dalle correnti? Qualcuno potrebbe dire: "Prima hai mangiato in quel piatto e ora, non voglio dire una cosa volgare, fai lo schizzinoso". Chiunque mi ha conosciuto negli anni sa che ho sempre sviluppato uno spirito critico, sono sempre stato fortemente convinto che quel sistema doveva cambiare”. “Non è mio intendimento fare "muoia Sansone con tutti i Filistei" ma piuttosto – ha osservato – un ragionamento serio e approfondito di come il potere delle correnti abbia influenzato non solo la vita interna della magistratura ma la vita politica del Paese“. Una magistratura dalla due anime, per come l’ha dipinta Palamara a parole: “La prima, e maggioritaria, pensa che tutto sia possibile risolvere con l’autoriforma e chi invece ritiene che l’autoriforma non può risolvere tutto e debba entrare la politica. Io penso che il meccanismo dell’autoriforma non sia la strada risolutiva di tutti i problemi” fermo restando che “la riforma debba mettere al centro il grande tema dell’indipendenza della magistratura”. In definitiva, sul procedimento al via la prossima settimana l’ex capo di Anm ha detto di avere “fiducia nel sistema e credo sia interesse di tutti, non solo mio che mi trovo dall’altra parte, che il giudizio si esplichi secondo le regole dello stato di diritto”.

“Palamara lo ammise: i magistrati senza corrente sono penalizzati…” Il Dubbio il 25 agosto 2020. Lo dice in una dichiarazione Valter Giovannini, sostituto procuratore generale di Bologna “censurato” da Luca Palamara. “E’ un momento difficilissimo per tutta la magistratura e doloroso per non pochi colleghi. Il mio pensiero ricorrente va però ad una affermazione di Palamara che tempo fa ammise pubblicamente che i magistrati non iscritti a correnti effettivamente erano stati penalizzati a prescindere dalle loro capacità. A fronte di tale constatazione purtroppo non ho percepito una reazione adeguata”. Lo dice in una dichiarazione Valter Giovannini, sostituto procuratore generale di Bologna. “C’è anche da chiedersi poi – prosegue Giovannini, anche lui non iscritto a correnti – se per penalizzazione si intendesse solo l’emarginazione dalle nomine di vertice, oppure anche altro. Solo il dottor Palamara, se lo riterrà, potrà dissipare il dubbio”. Giovannini, tra l’altro, ha chiesto alla Procura di Perugia di poter visionare eventuali conversazioni che lo riguardano agli atti dell’inchiesta umbra su Palamara, alla luce del fatto che l’ex consigliere Csm scrisse la motivazione della sentenza disciplinare che ha inflitto al magistrato bolognese la sanzione della censura. Giovannini era stato sanzionato con la censura per il caso di Vera Guidetti, farmacista di 62 anni che uccise la madre e poi si suicidò, qualche giorno dopo essere stata ascoltata dal pm, nel marzo 2015, come testimone in un’indagine su un furto di gioielli. La sezione disciplinare del Csm aveva condannato il magistrato per aver “trascurato” le garanzie difensive a tutela della donna e per avere così violato norme processuali. La pronuncia del Csm venne confermata dalla Cassazione, ad aprile 2018.

Palamara: «Nulla si muove all’interno della magistratura se la corrente non lo vuole». Il Dubbio il 18 luglio 2020. L’ex presidente dell’Anm a Radio Radicale: «È arrivato il momento di pensare a chi con quel sistema non c’entra». «I fatti di cui sono incolpato non si sono verificati». A dirlo è l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, intervenuto questa mattina a Radio Radicale. «I testi che indico sono funzionali alle incolpazioni che mi sono state formulate e ognuno di loro può dimostrare quello che realmente è accaduto». «Non voglio credere alle anticipazioni di giudizio – afferma Palamara -, io sono determinato a chiarire tutti i fatti. Non intendo né sottrarmi né arretrare, è mio dovere difendere la mia dignità e la mia storia professionale. E proprio perché amo la magistratura sento il dovere di chiarire ma anche di fornire il mio contributo per il miglioramento di un sistema che ha dimostrato che oramai è superato e necessita di ulteriori meccanismi, al netto dell’impegno di coloro che ne fanno parte. E penso di essere in grado di fornire notizie, fatti e circostanze importanti nella storia recente della magistratura. Sono determinato a chiarire tutto». «Sono sempre stato convinto che quel sistema dovesse cambiare. Ci sono due anime: una che ritiene che tutto si possa risolvere con un’autoriforma e chi ritiene che non sia sufficiente a risolvere tutti i problemi. Il che significa che è la politica a dover riformare il sistema. Nessuno ha la ricetta migliore, penso sia l’occasione per discutere – continua Palamara -. Il meccanismo dell’autoriforma non è la soluzione a tutti i problemi, ma abbiamo una politica poco incisiva. Al centro va messo sempre il tema dell’indipendenza della magistratura, che mai può essere messa in discussione. Se sono contro questo sistema? Le vicende emerse hanno segnato un punto di non ritorno. Questo sistema è nato a metà anni 60, il mondo è cambiato da allora. E il sistema delle correnti è nato con le migliori intenzioni, ma nel 2007, con la riforma dell’ordinamento giudiziario, è stato segnato un punto di non ritorno, con l’introduzione di un carrierismo sfrenato, che ha fatto perdere la bussola, probabilmente anche a me, su come dovessero orientarsi le correnti». Luca Palamara davanti al procedimento disciplinare vuole «contestare che le interferenze» a lui attribuite «non sono tali avendo parte fatto parte di un sistema, quello delle correnti, che a torto a ragione caratterizza l’organizzazione interna alla magistratura. Non è mio intendimento fare “muoia Sansone con tutti i Filistei” ma piuttosto un ragionamento serio e approfondito di come il potere delle correnti abbia influenzato non solo la vita interna della magistratura ma la vita politica del Paese». «Le correnti sono state il motore della vita interna della magistratura da quando sono nate, ancora di più dal 2007. Nulla si muove all’interno della magistratura se la corrente non lo vuole. Ma è arrivato il momento di guardare chi in questo meccanismo non ci è mai entrato».

Nel corso del programma è intervenuto anche il magistrato Alfonso Sabella, secondo cui è «ipocrita che Palamara debba presentare una lista di testi per dimostrare qualcosa che si sa da decenni». E ha aggiunto: «Abbiamo il dovere di apparire onesti, oltre che di esserlo. Ma le degenerazioni del correntismo non ci consentono di apparire tali. E non è una cosa che risale al 2007: Palamara doveva dirlo 10 anni fa, quando ne faceva parte. E questa è la critica che gli muovo, per il resto sta dicendo cose sacrosante».

Scandalo Csm: rinviata a settembre udienza Palamara, Ferri ed i 5 magistrati dimissionari. Il Corriere del Giorno il 21 Luglio 2020. Le accuse mosse dal pg della Cassazione, Giovanni Salvi, a Palamara, Ferri e agli altri 5 magistrati a processo sono molto gravi e “pesanti”: “comportamenti gravemente scorretti” e inottemperanti ai doveri di riserbo, una “strategia di discredito” messa in atto ai danni dei colleghi, “influenze occulte” ed “interferenze” nell’attività del Csm sulle nomine. Il collegio della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura presieduta dal membro laico della Lega Emanuele Basile, in sostituzione del “laico” Avv. Fulvio Gigliotti (M5S) e formato da Filippo Donati (M5S), Elisabetta Chinaglia (Area), Paola Braggion e Antonio D’Amato (Mi) e Piercamillo Davigo ha rinviato al prossimo 15 settembre l’udienza del procedimento che vede incolpato il magistrato Luca Palamara davanti alla sezione disciplinare del Csm. Per la procura generale della Cassazione erano presenti l’aggiunto Luigi Salvato, il sostituto pg Simone Perrelli e l’avvocato generale Pietro Gaeta. L’udienza si è svolta nella sala conferenze della sede del Csm per il rispetto delle norme di distanziamento. Il rinvio del legittimo impedimento richiesto dal magistrato di Cassazione Stefano Giaime Guizzi difensore di Palamara, è stato deciso in occasione dell’udienza di oggi , in via preliminare per procedere all’esame dell’istanza di ricusazione presentata nei confronti del magistrato Piercamillo Davigo, componente del collegio disciplinare (che compare anche tra i testimoni chiamati da Palamara) il quale con un suo intervento ha rifiutato di astenersi autonomamente. “Non ravviso alcun motivo di astensione”, ha detto nel suo intervento il togato del Csm, Piercamillo Davigo (peraltro prossimo alla pensione) , in apertura dell’udienza disciplinare del processo a Luca Palamara, il cui difensore aveva chiesto di astenersi dal far parte del collegio in quanto il suo nome compare nella lista dei 133 testimoni chiamati ed essere ascoltati, e quindi si troverebbe nella condizione di essere “teste” e “giudice” nello stesso processo, motivo per cui la difesa di Palamara ha presentato una istanza di ricusazione. Palamara aveva sollecitato Davigo ad astenersi, anche a seguito di quanto è emerso, e cioè che il pm Stefano Fava, anche lui finito davanti alla disciplinare, in quanto autore di un esposto al Csm su Paolo Ielo, aveva discusso della questione proprio con Davigo ben prima che esplodesse lo scandalo sul mercato delle toghe. Nelle contestazioni, l’esposto di Fava viene ritenuto un tassello della strategia messa in atto da Palamara ai danni di alcuni colleghi. Davanti al Csm sono comparsi in aula nelle rispettive udienze oltre a Palamara, anche il magistrato Cosimo Ferri, attualmente in aspettativa, quale deputato di Italia Viva, e 5 magistrati ex membri del Csm (tutti dimessisi), Luigi Spina, Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Paolo Criscuoli. partecipi assieme all’ex ministro Luca Lotti (Pd), all’incontro notturno del 9 maggio dello scorso anno, tenutosi in una suite dell’ albergo romano, l’ Hotel Champagne, adiacente a Palazzo dei Marescialli ove ha sede il Csm , riunione registrata dal trojan delle fiamme gialle inoculato nello smartphone di Palamara, per discutere delle nomine ai vertici di alcune importanti procure italiane, innanzitutto quella di Roma. Un incontro “carbonaro” portato alla luce dalle intercettazioni dell’inchiesta di Perugia, che hanno dato il via al “terremoto” giudiziario che ha letteralmente travolto la magistratura italiana. Anche Ferri ha presentato due istanze di ricusazione. Analogo rinvio al 15 settembre è stato fissato dal collegio nel procedimento nei confronti di Cosimo Ferri, che era presente insieme con il suo difensore, il quale ha presentato un’ istanza di ricusazione per componenti del collegio, che dovrà essere esaminata dal collegio della sezione disciplinare unitamente alla richiesta alla Camera dell’autorizzazione ad utilizzare le intercettazioni a carico di Ferri. Udienza rinviata anche per i 5 ex togati del Consiglio superiore della magistratura a processo. In aula erano presenti solo Morlini e Lepre ed i rispettivi legali mentre per gli altri c’erano solo i rispettivi difensori. Questo rinvio è stato determinato per legittimo impedimento a causa dell’assenza, per impedimenti personali, del presidente titolare del collegio, il membro laico Gigliotti (M5S). Le accuse mosse dal pg della Cassazione, Giovanni Salvi, a Palamara, Ferri e agli altri 5 magistrati a processo sono molto gravi e “pesanti”: “comportamenti gravemente scorretti” e inottemperanti ai doveri di riserbo, una “strategia di discredito” messa in atto ai danni dei colleghi, “influenze occulte” ed “interferenze” nell’attività del Csm sulle nomine.

Francesco Grignetti per lastampa.it il 22 luglio 2020. Rischia di far morire sul nascere i procedimenti disciplinari a carico di Palamara&Co, la mossa di Cosimo Ferri. Il deputato di Italia Viva, magistrato prestato alla politica, già capo indiscusso della corrente Magistratura Indipendente, ha ricusato l’intero Consiglio superiore della magistratura. Secondo Ferri, nessuno degli eletti (almeno quelli in carica fino al 9 maggio) possono ergersi a suoi giudici perché sarebbero allo stesso tempo le parti lese di questo procedimento, e lui, Ferri, ritiene di avere il pieno diritto di chiamarli tutti a testimoniare. Un gioco di specchi che porta a una sola conclusione: il Consiglio superiore della magistratura, avendo al suo interno i poteri disciplinari, in questo caso è potenzialmente esposto a un conflitto di interessi. E infatti Ferri dice: «Come può il consigliere X o il consigliere Y vestire i panni di un giudice se è anche la vittima di un mio presunto complotto? Il sistema della Disciplinare interna non tiene. Molto meglio una Alta corte, come aveva proposto Andrea Orlando, esterna al Csm, e composta di altissimi magistrati in pensione». Qualcuno ha già ribattezzato il procedimento disciplinare che si è aperto al Csm contro Luca Palamara, Cosimo Ferri e altri cinque ex appartenenti al Consiglio (Antonio Lepre, Gianluigi Morlini, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli e Luigi Spina) un «processo alla magistratura». Ma se così fosse, è davvero difficile che la magistratura possa processare sé stessa. Un problema analogo lo ha sollevato Luca Palamara, chiedendo la ricusazione di Pier Camillo Davigo dato che lo aveva contattato, lui e l’altro consigliere Sebastiano Ardita, quando cercava alleanze per il dopo-Pignatone. Davigo ieri ha risposto seccamente che non vede motivi per astenersi. Ma chissà. Un’altra questione aperta. Un altro possibile conflitto di interessi. Secondo Ferri, il pasticcio lo avrebbe fatto la procura generale presso la Cassazione quando l’hanno incolpato di avere adottato «un uso strumentale della propria qualità e posizione, diretto, per le modalità di realizzazione, a condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste, quali la proposta e la nomina di uffici direttivi di vari uffici giudiziari da parte del Consiglio superiore della magistratura». Replica Ferri: «Se si teorizza che io sono intervenuto sui consiglieri per influenzarli, in modo diretto o indiretto, avrò pure, in nome del principio costituzionale del Giusto processo, il diritto di interrogarli uno per uno, e di chiedergli: scusi, io l’ho mai contattata? l’ho mai fatta avvicinare da qualcuno a nome mio? ci siamo forse sentiti per telefono o scritto una lettera? Già, perché io sono strasicuro della mia correttezza. E vorrei avere il modo di dimostrarlo». Con il che, però, la mossa di Cosimo Ferri è una potente zeppa negli ingranaggi. Il vicepresidente del Csm, David Ermini, dovrà faticare perfino a identificare i nomi di chi dovrà valutare la richiesta di ricusazione, che certo non possono essere i membri della Disciplinare, né nessuno di quelli tirati in ballo. E per sovrappiù, la difesa di Ferri chiede di interessare la Corte costituzionale per un’ipotesi di illegittimità costituzionale nella legge del 2006 che regola il Csm «nella parte in cui non prevede la sospensione del procedimento disciplinare quando l’intero Collegio della Sezione Disciplinare sia ricusato» nonché «nella parte in cui non prevede la sospensione del procedimento disciplinare nella ipotesi in cui il giudice è anche il soggetto passivo delle condotte contestate». Una serie di contestazioni in punta di diritto che fanno capire quanto sarà accidentato il procedimento. E infatti, tanto per cominciare, si è subito rinviato. Prossima udienza, il 15 settembre. Si entrerebbe nel vivo a novembre e dicembre.

Processo Palamara, l’attacco di Ferri: “Vi ricuso tutti, questo Csm non può giudicarci”. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Luglio 2020. Durerà almeno fino alla fine dell’anno il processo disciplinare a carico dei “congiurati” dell’hotel Champagne, i magistrati (Luca Palamara, Cosimo Ferri, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre, Luigi Spina, Gianluigi Morlini) che secondo l’accusa avrebbero gettato con il proprio comportamento discredito sulla magistratura, cercando di condizionare le nomine dei capi di alcune Procure, ad iniziare da quelle di Roma e Perugia. Un bel segnale che dovrebbe così archiviare il rischio di un “turbo processo” bis, dopo quello del mese scorso davanti al Comitato direttivo dell’Anm quando, nello spazio di una mattina, si decise di cacciare Palamara dall’associazione senza neppure ascoltarlo. Al Csm ci sarà, sulla carta, il tempo per ascoltare i testimoni chiamati dalla difesa. Sicuramente, però, non tutti i 133 citati da Palamara. Il calendario delle prossime udienze è stato comunicato ieri da Emanuele Basile, il laico salviniano che sostituiva il collega pentastellato Fulvio Gigliotti, come presidente del collegio. Visto il legittimo impedimento del consigliere di Cassazione Stefano Guizzi, difensore di Palamara il procedimento è stato aggiornato al 15 settembre. In quella data si discuterà, oltre che dei testi da ammettere, delle istanze di ricusazione. Evitato, infatti, il rischio del processo sommario, sul dibattimento incombe la decisione di Cosimo Ferri di ricusare tutto il Csm e di chiedere la sospensione del processo fino alla scadenza naturale di questo Csm. La situazione che si è creata è, per l’ex numero uno di Magistratura indipendente e ora deputato di Iv, in contrasto con il principio del giusto processo davanti ad un giudice terzo ed imparziale. A Palazzo dei Marescialli è in atto un cortocircuito istituzionale. I consiglieri del Csm, secondo l’accusa della Procura generale della Cassazione, sono individuati come «soggetti attivi/parti offese dalle condotte» tenute dai sette magistrati che parteciparono all’incontro, registrato dal trojan nel telefono di Palamara, la sera del 9 maggio 2019 all’hotel Champagne di Roma. Le “incolpazioni” si basano esclusivamente sulle intercettazioni. Sono queste “le uniche fonti di prova” e, come scrive Ferri, «non sono in alcun modo casuali» e quindi inutilizzabili. Come riportato sul Riformista è emerso che i finanzieri del Gico avevano il modo di sapere che non si trattava di incontri a sorpresa. E il pm Gemma Milani, che indagava su Palamara, aveva dato disposizione di spegnere l’apparecchio, se il magistrato stava per incontrare dei parlamentari. Operazione che, invece, era stata disattesa dai finanzieri. E poi ci sarebbero «indebite anticipazioni del giudizio», insomma la classica condanna annunciata. Ferri cita sul punto le parole pronunciate dal vice presidente del Csm David Ermini all’inaugurazione dell’ultimo anno giudiziario in Cassazione per raccontare l’accaduto. Un «agire prepotente, arrogante ed occulto tendente ad orientare inchiesta, influenzare le decisioni del Csm, e screditare magistrati». Chi poi avrebbe messo il carico da undici, per Ferri, sarebbe stato il togato del gruppo di sinistra Area Giuseppe Cascini. «L’unica vicenda che mi pare assimilabile a quella che stiamo vivendo in questi giorni è quella dello scandalo P2», disse in Plenum. «Il coinvolgimento di molti magistrati nella loggia massonica segreta assestò un durissimo colpo alla credibilità e all’immagine della magistratura», aggiunse l’ex procuratore aggiunto di Roma, sottolineando che all’epoca «i magistrati furono immediatamente destituiti. Oggi si chiede a noi analogo sforzo di orgoglio e coraggio, abbiamo il dovere di reagire con fermezza». Parole che annichilirono il Plenum, ad iniziare dai togati di Magistratura indipendente. «Nessuno prese posizione, nessuna dissociazione dalla gravità della affermazione», riporta Ferri. Tutti i consiglieri vengono allora chiamati come testimoni sulla persona di Ferri. Questa la lista di domande: «A quando risale l’ultimo incontro? Se hanno parlato di nomine? Se erano a conoscenza specifico interessamento del sottoscritto alle nomine?». A Cascini vuole chiedere «se ha avuto (con lui) rapporti “conflittuali” in ambito associativo». «Il giudice che conosce della ricusazione non può mai essere quello che, in caso di accoglimento della istanza, sarebbe chiamato a decidere della causa», evidenzia Ferri, chiedendo allora di sollevare la questione di legittimità costituzionale sulla sospensione del procedimento al Csm, al momento non prevista. Non è escluso un intervento del presidente della Repubblica che del Csm è il capo.

Intervista al professor Di Federico: “Grazie a Palamara hanno fatto carriera anche i giudici che lo giudicheranno”. Angela Stella su Il Riformista il 22 Luglio 2020. «Se fossi in loro io mi sentirei a disagio»: è dunque l’imbarazzo il sentimento che, secondo Giuseppe Di Federico, professore emerito di Ordinamento giudiziario dell’Università di Bologna, dovrebbero provare quei magistrati del Csm chiamati a giudicare Luca Palamara, gli stessi «la cui carriera o elezione in Consiglio si è in vario modo avvantaggiata del correntismo». E dell’affaire Berlusconi ci dice: è stato perseguitato dalla magistratura.

Professore, in settimana si chiuderà la partita sulla riforma del Csm. Sulla base di quanto emerso in questi giorni, come giudica le proposte di riforma?

«Non ho letto nessun testo ufficiale sulle riforme che verranno proposte, per quel che ne ho letto sui giornali non mi sembra che le innovazioni di cui il Ministro Bonafede ha parlato possano migliorare significativamente il funzionamento del Csm e la qualità delle sue prestazioni. Certamente non la riforma del sistema elettorale, né l’aumento da 24 a 30 dei componenti elettivi del Csm, che corrisponde ad una pressante richiesta avanzata proprio dalle correnti (serve tra l’altro a meglio garantire la presenza delle correnti più piccole nelle più importanti commissioni referenti del Consiglio). L’unica proposta su cui concordo è l’abolizione delle delibere “a pacchetto” nelle quali il Csm decide su numerose nomine dopo una trattativa spesso laboriosa e logorante tra le correnti. Mi fermo qui».

Si tratta davvero di una riforma che pone un freno alle degenerazioni correntizie, o è solo una operazione di facciata?

«Per volere del Csm i magistrati fanno di regola la loro carriera sulla base dell’anzianità e non di reali valutazioni del merito professionale. Al momento di scegliere tra vari candidati la documentazione a disposizione dei consiglieri del Csm dice quasi sempre che sono tutti bravissimi e diligentissimi. Come scegliere? Il sistema correntizio ha la funzione di facilitare queste scelte. Ogni corrente garantisce sulla bontà dei propri consociati e poi si vota. Sono scelte che vengono poi frequentemente annullate dal giudice amministrativo perché non adeguatamente motivate. Negli altri Paesi dell’Europa continentale (Germania, Francia, Olanda, ecc.) ove le valutazioni della professionalità dei magistrati sono rigorose questi problemi non esistono e non esiste neppure il potere delle correnti sulle nomine».

Il magistrato Alfonso Sabella sabato scorso a Radio Radicale ha detto che è «ipocrita che Palamara debba presentare una lista di testi per dimostrare qualcosa che si sa da decenni».

«Palamara sta solo esercitando i suoi diritti di difesa. Certo gli addetti ai lavori sapevano del fenomeno e delle disfunzioni del correntismo, compresi quelli che ora accusano e giudicano Palamara in sede disciplinare, magistrati cioè la cui carriera o elezione in Consiglio si è in vario modo avvantaggiata del correntismo. È forse qui che l’ipocrisia va ricercata. Se fossi in loro io mi sentirei a disagio».

I legali di Luca Palamara hanno chiesto di trascrivere diverse telefonate che non sono state valorizzate dagli inquirenti. «È il riflesso della pratica del cherry picking, letteralmente della selezione delle ciliegie, una tecnica studiata da tempo nel diritto anglosassone delle prove», ci ha spiegato il professor Vincenzo Maiello. Che ne pensa?

«Far emergere gli elementi a favore per porre in ombra quelli sfavorevoli è da sempre una tecnica difensiva ovunque e non solo in Inghilterra. Sta poi al giudice non farsi influenzare o fuorviare da queste tecniche difensive».

A suo parere l’Associazione Nazionale Magistrati dovrebbe fare maggiore autocritica e non farsi bastare la semplice espulsione del dottor Palamara?

«Le disfunzioni della giustizia sono tali e tante che la sola idea di risolverle espellendo Palamara appare ridicola. Abbiamo la giustizia più disastrata tra i Paesi a consolidata democrazia. L’importante non è che l’Anm faccia autocritica ma che la politica affronti i problemi della giustizia senza farsi condizionare, come avvenuto sinora, dalle aspettative corporative della magistratura. So di star chiedendo l’impossibile».

Qual è il suo giudizio sulla "confessione" postuma del giudice Franco a Silvio Berlusconi?

«Mi è difficile rispondere a questa domanda per la mancanza di elementi certi. Se in realtà la domanda è se io ritenga che Berlusconi sia stato oggetto di una eccessiva attenzione da parte della magistratura, la mia risposta è sì. Su questa forma di “persecuzione” ho scritto più volte in passato, pur non essendo mai stato un fan di Berlusconi».

È corretto dire che fino ad ora né il Csm né l’Anm hanno preso posizioni chiare sulla caratterizzazione “populista” che le Procure rischiano di avere?

Come ha detto il consigliere di Cassazione Giuseppe Cricenti, «alcuni pm si fanno interpreti delle attese del popolo e in questo modo acquistano un potere che sfugge al controllo della stessa magistratura». Questo discorso sui pericoli del populismo dei Pm è fuorviante. I Pm non solo godono di piena indipendenza esterna ma sono largamente indipendenti ed autonomi anche nell’ambito dei loro uffici. Hanno poteri che nessun altro Pm ha in Europa. Nella fase delle indagini il nostro Pm è di fatto un poliziotto indipendente che a differenza del poliziotto non può essere chiamato a rispondere delle sue iniziative anche quando si dimostrino ingiustificate e gravemente dannose per i cittadini. Certo il consenso popolare può accentuare la pericolosità di questi poteri, tuttavia il populismo non è il vero problema. Il problema vero è quello di adottare forme adeguate di responsabilizzazione dell’attività del nostro Pm così come avviene in altri Paesi democratici».

Csm, rinvio a settembre per Palamara. Ma Davigo non si astiene. Anche il renziano Ferri ricusa due dei suoi giudici. Pubblicato martedì, 21 luglio 2020 da Liana Milella e Maria Elena Vincenzi su La Repubblica.it.  Parte il processo disciplinare per l'ex pm di Roma ma salta subito per il legittimo impedimento del difensore Stefano Guizzi. Si parte, ma subito si rinvia. Per Palamara, per Ferri, per tutti gli incolpati davanti al Csm per l'inchiesta di Perugia. Sorpresa al Csm, dove, tra strette misure anti Covid e giornalisti contingentati, parte il processo disciplinare a Luca Palamara, l'ex presidente dell'Anm e potente toga di Unicost, sotto processo a Perugia per corruzione. Pochi minuti di udienza, presieduta dal laico della Lega Emanuele Basile, e tutto slitta al 15 settembre. Non è presente il difensore di Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Guizzi, trattenuto alla Suprema corte da un precedente processo civile. L'avvocato di Palamara, Benedetto Marzocchi Buratti, chiede e ottiene il rinvio del processo a settembre. D'accordo anche la procura generale della Cassazione rappresentata dall'avvocato generale Pietro Gaeta. Dopo Palamara anche Cosimo Maria Ferri, toga di Magistratura indipendente ma parlamentare prima del Pd e ora renziano, sotto processo a Perugia e sotto inchiesta al Csm per la cena del 9 maggio 2019 all'Hotel Champagne con Palamara per decidere la nomina del procuratore di Roma, ha ricusato due dei suoi giudici. E anche in questo caso il Csm deciderà il 15 settembre. Ma c'è anche un'altra sorpresa. Non si astiene - e lo dice in un intervento di pochissimi minuti - il togato Piercamillo Davigo, di cui Palamara aveva chiesto l'astensione perché lo ha citato come teste del suo incontro con l'ex pm di Roma (e oggi giudice a Latina) Stefano Fava, autore di un esposto contro l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e contro l'aggiunto Paolo Ielo, per presunte anomalie che, a suo dire, influivano sul caso Amara, di cui lo stesso Fava era pm. Per Davigo invece quel colloquio non ha alcuna rilevanza in questa contestazione disciplinare poiché nell'incontro in un ristorante, presente anche il pm di Roma Erminio Amelio, si parlò di altre questioni. Resta comunque in piedi la ricusazione di Palamara contro Davigo, sulla quale si deciderà a settembre. Per Palamara le incombenze processuali per questo mese di luglio non sono finite. Perché giovedì 30 continua a Perugia, presente il procuratore Raffaele Cantone, la cosiddetta udienza stralcio iniziata il 16 luglio. Nella quale si dovrà decidere quali intercettazioni potranno entrare nel dibattimento. Toccherà al gip Lidia Brutti valutare le istanze della difesa dell'imputato che, innanzitutto, ha contestato la liceità delle captazioni effettuate con il Trojan in cui erano presenti anche i parlamentari Luca Lotti del Pd e Ferri. Il gip ha già respinto, accettando la linea della procura, la contestazione su altre intercettazioni che sarebbero state omesse dagli atti. Ma in realtà si trattava solo di file secondari senza audio.

Palamaragate, Davigo protagonista: accusatore, giudice e forse testimone. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Luglio 2020. Gli piacciono tutte le parti in commedia. Tranne una. Piercamillo Davigo non sarà mai un difensore, probabilmente neppure di se stesso. Perché anche di lui, il più puro dei puri, il “dottor Sottile” penserebbe che non è un innocente ma un colpevole non ancora smascherato. Così si prepara per il 15 settembre del Csm di Palamara e gli altri, a travestirsi, con la toga del pubblico implacabile accusatore. Poi forse testimonierà, ma senza il tremore del cittadino chiamato a dire per obbligo la verità (dica “lo giuro”), e infine indosserà l’ermellino per emettere la sentenza. Nel processo più pazzo del mondo, dove tutto è consentito a un solo personaggio. Uno e trino. Ma mai difensore. Gli avvocati gli fanno proprio schifo, e non lo nasconde. Più o meno pensa che siano dei fannulloni furbi, che passano il tempo, tra un’impugnazione e l’altra, a tirare in lungo il processo per arrivare alla prescrizione. Così propone che quando il ricorso venga respinto, l’avvocato debba pagare di tasca sua. Nel caso opposto il magistrato no, non dovrebbe pagare, perché c’è l’obbligatorietà dell’azione penale che gli impone di agire. L’indagato lui lo vorrebbe nudo e crudo, magari con il capo cosparso di cenere, e senza l’impiccio del difensore. Tanto è colpevole, lo si sa. C’è un’altra cosa che non gli va giù, il fatto che in Italia si facciano troppi processi. E ha ragione. Magari proprio perché c’è l’obbligatorietà. A meno che non si voglia mozzare qualche testa (tanto sono tutti colpevoli), così si fa prima. Il che non è sicuramente nei pensieri del dottor Davigo. Magari solo in qualche sogno. Ma lui dovrebbe sapere che non ci sono alternative. Se si vogliono fare meno dibattimenti, si deve adottare il sistema anglosassone. Se no, zac, e via il pensiero, insieme alla testa. Intelligente e preparato, faccino furbo, gran barzellettiere capace di sparare la bufala nel mondo degli incompetenti, bravissimo a rigirare la frittata con un’altra bufala, se viene beccato. Come con la storia che sia più conveniente ammazzare la moglie e prendere quattro anni piuttosto che chiedere il divorzio. Così, quando gli fu chiesto quanti processi avesse visto di quel genere, rispose pronto “uno”, per un caso di infermità mentale. E fece il suo faccino furbo. Non è alto di statura, il dottor Davigo, ma è come se lo fosse, per come si sente. A partire da quando nel 1994, riferendosi a quelle indagini sulla Guardia di Finanza che erano state il primo colpo al cuore per Silvio Berlusconi e da cui anni dopo fu assolto, pontificò: «Ribaltiamo il Paese come un calzino». E ci credeva. E fu forse la prima volta in cui assunse in sé i suoi tre ruoli preferiti, quello di accusatore, di giudice e di creatore e testimone della Repubblica delle virtù, un incrocio tra un Rousseau e un Robespierre che non teme l’arrivo del suo termidoro. Non è alto di statura, il dottor Davigo, ma è come se lo fosse. Dal 1994 al 2019, quando –lo racconta lui stesso nell’unica occasione in cui ha avuto un contraddittorio vero con il presidente delle camere penali Gian Domenico Caiazza, nella trasmissione Piazza Pulita – passa un po’ di tempo con Luca Palamara, la bestia nera che tra poco lui dovrà accusare e poi giudicare dopo aver anche su di lui testimoniato. Si era a Roma, quel 9 aprile 2019 in cui si presentava un sottile libro del dottor Sottile, e tra i relatori c’era anche la bestia nera, con tanto di nome sulla locandina, ma lui non lo sapeva. E questa è una barzelletta o una bufala, ma gliela lasciamo passare. Ma non si può ingoiare quell’altra, quella secondo cui al termine della presentazione Palamara, non più invisibile, dà un passaggio in auto a Davigo (ma allora si conoscevano? E si facevano gentilezze?), e c’è di sicuro il trojan da almeno un paio di settimane a registrare anche i sospiri di chi si intrattenga con il pm romano. Ma quella sera il registratore è spento, tanto che Davigo può dire «non ci sono intercettazioni su di me perché io queste cose non le faccio». Ma che prove abbiamo della sua innocenza, se il trojan era spento? Ed è inutile, dottore, alzare la voce. Come quando ha gridato: «Io non ho fatto niente e non temo niente». Vuole un elenco, da Tortora in avanti, di “Colpevoli non ancora beccati” che ritenevano di non aver niente da temere perché non avevano fatto niente? Chissà se si sentirà obbligato a dire la verità, soltanto la verità, nient’altro che la verità, se dovrà testimoniare al Csm, accantonando per un attimo le sue due toghe da giudice e da accusatore, su un certo pranzetto del febbraio del 2019 in cui si parlò di beghe piuttosto serie tra il sostituto procuratore romano Stefano Fava e il capo del suo ufficio Pignatone. Argomenti caldi per l’incolpazione di Luca Palamara, su cui Davigo potrebbe confermare o meno di aver detto che si trattava di vicende di una certa rilevanza e che potevano essere di qualche interesse per il Csm. L’ex presidente dell’Anm aveva detto che lo avrebbe ricusato come giudice, se lui non si fosse astenuto per conflitto di interessi. Ma lui fa spallucce, «non ravviso alcun motivo di astensione». Non ravvisa neanche di abbandonare il suo ruolo nel Csm, dopo che tra pochi mesi avrà compiuto i fatidici 70 anni e sarà costretto alla pensione. No, lui ha già deciso che resterà lì. Perché non è alto di statura, il dottor Davigo, ma è come se lo fosse. Per come si sente.

Ricusazione respinta: Davigo resta “giudice” di Palamara. Il Dubbio il 31 luglio 2020. Piercamillo Davigo resta nel collegio disciplinare che dovrà giudicare sulle incolpazioni mosse a Luca Palamara nel procedimento sul caso procure. Il Csm, infatti, ha respinto l’istanza di ricusazione presentata dalla difesa del pm di Roma. Piercamillo Davigo resta nel collegio disciplinare che dovrà giudicare sulle incolpazioni mosse a Luca Palamara nel procedimento sul caso procure. Il Csm, infatti, ha respinto l’istanza di ricusazione presentata dalla difesa del pm di Roma (ora sospeso) nei confronti del togato. Con l’ordinanza notificata oggi alla difesa di Palamara, con cui e’ stata rigettata l’istanza di ricusazione nei confronti di Davigo, è stata anche dichiarata “manifestamente infondata” la questione di legittimità che il difensore di Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, aveva sollevato con riferimento alla mancata previsione che sull’istanza di ricusazione decidano le sezioni unite civili della Suprema Corte. Piercamillo Davigo, togato del Csm che fa parte del collegio della sezione disciplinare che celebrerà il processo a carico di Luca Palamara, è stato citato come testimone dallo stesso Palamara. Per questo, a prescindere dalla decisione della disciplinare sull’accoglimento della richiesta, dovrebbe astenersi o sarà ricusato. Lo annuncia il legale del pm, il magistrato della Cassazione, Stefano Giaime Guizzi, in una memoria inviata alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. La richiesta di «autorizzazione alla citazione» di Davigo «quale teste a discarico dell’incolpato» è una circostanza che «pone il consigliere Davigo», qualunque sarà la determinazione che assumerà la sezione disciplinare in ordine alla richiesta di escussione dello stesso quale teste, «in una condizione davvero “sui generis”, tale da consigliarne l’astensione» oppure «in difetto, da indurre sin d’ora questa difesa a formulare istanza di ricusazione», si legge nella memoria inviata a Palazzo dei Marescialli. Per Davigo infatti, sostiene la difesa di Palamara, »si verrebbe a determinare la singolare situazione di un soggetto che riveste, nello stesso processo, la posizione di teste su (taluni dei) fatti oggetto di incolpazione, nonché di giudice degli stessi».«Davigo e Fava parlarono delle divergenze di vedute in Procura a Roma»Nella memoria presentata alla sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli dal difensore di Palamara, viene esposto un incontro di Davigo con Stefano Fava, ex pm romano che presentò un esposto alla prima commissione del Consiglio superiore della magistratura contro l’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo per presunte irregolarità nella gestione delle inchieste sull’avvocato Piero Amara, nel quale i due parlarono di «divergenze di vedute» all’interno della procura di Roma e di quei «possibili conflitti di interesse», oggetto poi dell’esposto richiamato nelle incolpazioni rivolte a Luca Palamara dalla procura generale della Cassazione. È questa per Stefano Giaime Guizzi una delle ragioni per cui Davigo dovrebbe astenersi dal far parte del collegio davanti al quale martedì prossimo inizierà il processo disciplinare a Palamara.

Palamaragate, Davigo protagonista assoluto: sarà testimone, giudice e accusatore…Paolo Comi su Il Riformista il 31 Luglio 2020. La sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli ha respinto ieri l’istanza di ricusazione nei confronti di Piercamillo Davigo presentata da Palamara. Il collegio era presieduto dal laico in quota lega Emanuele Basile. Davigo farà allora parte del collegio che dovrà giudicare l’ex ras delle nomine. L’ex pm di Mani pulite, componente titolare della sezione disciplinare, aveva fatto sapere di non volersi astenere, ritenendo l’istanza infondata. Palamara ad ausilio dell’istanza aveva citato un episodio avvenuto all’inizio dello scorso anno, allorquando Davigo, insieme al collega di corrente e consigliere del Csm, Sebastiano Ardita, era a pranzo con Stefano Rocco Fava. Durante quest’incontro si discusse di vari argomenti: di una possibile candidatura di Fava alle elezioni per il rinnovo dell’Anm, dell’esistenza di “divergenze di vedute” all’interno della Procura di Roma, di “possibili conflitti di interesse”, evidenziati da Fava, “tra il procuratore (Giuseppe Pignatone, ndr) ed alcuni indagati”.

Fava, successivamente a quell’incontro, presentò poi un esposto che, secondo l’accusa della Procura generale della Cassazione, faceva parte del disegno di Palamara per screditare l’aggiunto della Capitale Paolo Ielo e lo stesso Pignatone. La circostanza avrebbe reso, secondo Palamara, incompatibile la presenza di Davigo nel collegio per il doppio ruolo di giudice e testimone. Per Davigo, citato da Palamara nella maxi lista testi, quel colloquio non ha alcuna rilevanza poiché durante l’incontro, a differenza di Ardita, parlò di altre questioni. E poi quel giorno era “afono”. Ad assistere Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Guizzi. Il provvedimento della sezione disciplinare, va detto, non è impugnabile. Per Palamara resta solo la strada del ricorso davanti alla Corte dei diritti umani di Strasburgo. Insomma un’altra settimana di passione per Luca Palamara, il Severino Citaristi della magistratura italiana. Come l’ex tesoriere della Democrazia cristiana, l’ex presidente dell’Anm sta collezionando avvisi di garanzia e capi d’incolpazione disciplinari. Al momento, però, è ancora lontano il record delle 74 comunicazioni giudiziarie raggiunto da Citaristi durante Tangentopoli. Palamara ha però battuto il record delle sette ore di interrogatorio di Antonio Di Pietro davanti a Fabio Salamone: otto ore è durato il suo davanti a Raffaele Cantone. Dopo le accuse di corruzione, sono arrivate l’altro giorno quelle di corruzione in atti giudiziari e violazione del segreto istruttorio. Secondo i magistrati di Perugia che indagano su di lui dal 2018, l’ex presidente dell’Anm avrebbe ricevuto due maxiscooter dal titolare di una concessionaria di auto e gli contestano anche di essere socio, secondo quanto ricostruito nell’indagine, insieme all’ex pm di un chiosco in Sardegna e il pagamento di alcune multe elevate mentre utilizzava le moto. Utilità che secondo gli inquirenti sarebbero state concesse per il suo interessamento a un procedimento penale nei confronti della moglie e della madre del titolare della concessionaria. Ma non solo: a Palamara viene contestato un altro episodio di corruzione perché avrebbe usufruito di soggiorni in un hotel a Capri per un suo interessamento a controversie legali che riguardavano il fratello del titolare della società a cui fa capo l’albergo. L’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio è invece insieme all’ex pm romano Fava. I due avrebbero violato i doveri inerenti alla propria funzione, rivelando a giornalisti dei quotidiani il Fatto Quotidiano e La Verità notizie di ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete.

Magistratura democratica contro Davigo: "Da pensionato non può restare al Csm”. Pubblicato venerdì, 31 luglio 2020 da Liana Milella su La Repubblica.it Con un durissimo editoriale di Nello Rossi, direttore della rivista online Questione Giustizia,  la corrente di sinistra dei giudici si schiera contro il leader di Autonomia e indipendenza. Una toga da sempre rossa, che per giunta si chiama Nello Rossi, contro il collega più sarcastico d’Italia, Piercamillo Davigo. Un ex procuratore aggiunto di Roma, già in pensione, contro l’ex pm di Mani pulite. Ma soprattutto una colonna di Magistratura democratica, le toghe rosse appunto, contro il fondatore della corrente Autonomia e indipendenza. Il direttore di Questione giustizia, la rivista online di Md, contro il collega che ha sbancato il botteghino dei voti quando si è candidato prima all’Anm, era marzo 2016 e prese 1.041 voti, e poi al Csm, 2.522 voti a luglio 2018. Ma l’orologio del tempo, secondo Rossi, sarebbe destinato a segnare proprio la sua permanenza a palazzo dei Marescialli. Perché Davigo, a Candia Lomellina, è nato il 20 ottobre 1950. Settant’anni dopo, secondo le sciagurate regole sull’anzianità volute e fate votare dall’ex premier Renzi, il 20 ottobre di quest’anno va in pensione. E secondo Rossi deve anche lasciare il Csm. Lui, Davigo, ha sempre sostenuto il contrario. Ma adesso il lungo editoriale di Rossi aprirà un dibattito all’interno del Csm e una controversia tra le due correnti - Md e A&I - che in questi mesi più volte si sono trovate assieme su nomine e scelte da prendere. Un fatto è certo: un articolo da 20mila battute, che apre la storica rivista di Md, sarà destinato a pesare sull’affaire Davigo. Appena reduce, peraltro, dall’aver vinto la battaglia contro Palamara sulla richiesta di astensione nella sezione disciplinare che giudicherà l’ex pm di Roma sotto accusa a Perugia per corruzione. 

“Sta per nascere un caso Davigo al Csm?” È sotto questo titolo che Rossi apre la querelle su Davigo. Che si apre con due lunghi interrogativi e si conclude con una sentenza. Garbato certo, ma pur sempre un benservito. Ecco le domande: “Davvero si pensa che Piercamillo Davigo possa rimanere in carica al Consiglio Superiore anche quando non sarà più magistrato?” E ancora: “L’ibrido di un ‘non più magistrato’ che continua a esercitare le funzioni di componente togato dell’organo di governo autonomo della magistratura non risulterebbe giuridicamente insostenibile e foriero di squilibri e contraddizioni nella vita dell’istituzione consiliare?”. Dopo otto cartelle, affollate di riferimenti giuridici, la risposta è netta: “Si tratta di prendere atto che tra membri togati e membri laici non esiste lo spazio per il tertium genus dell’eletto non più magistrato, metà pensionato e metà consigliere, ormai svincolato dalle regole applicabili ai magistrati in servizio ma investito dei compiti propri del governo autonomo della magistratura”. Con un contentino per l’ex pm di Milano che suona così: “Non sono in discussione né il rispetto per la persona di Davigo, per la sua storia professionale ed umana e per il consenso raccolto tra i magistrati, né il dissenso netto, spesso nettissimo, verso molte delle sue posizioni sui temi della giustizia penale e dell’assetto del giudiziario. Nonostante la ferocia dei tempi ci ostiniamo a credere che rispetto personale e dissenso ideale possano e debbano stare insieme. Ma la loro convivenza non può che essere assicurata dall’osservanza dei principi e delle regole propri dell’amministrazione della giurisdizione”. Perché Davigo dovrebbe lasciare L’assunto di Nello Rossi è netto: “Chi è eletto al Consiglio da tutti  magistrati in servizio deve essere a sua volta un magistrato in servizio”.  A suo dire ciò deriva dalla legge del 24 marzo 1958 (la 195) che ha istituito il Csm, in cui si legge che “non sono eleggibili i magistrati che al momento della convocazione delle elezioni, non esercitino funzioni giudiziarie”. Legge che fissa la distinzione, per la provenienza delle 16 toghe (diventeranno 20 con la prossima legge sul Csm), tra magistrati “che esercitano le funzioni” di legittimità, di pubblico ministero e di giudice presso gli uffici di merito”. Chiosa Rossi: “Il possesso – effettivo ed attuale – dello status di magistrato nell’esercizio delle funzioni è dunque un requisito indispensabile perché sussista la capacità elettorale passiva; e ciò  in coerenza con le disposizioni costituzionali che regolano la provvista dei membri togati del Consiglio Superiore”. Rossi prosegue con dubbi che in realtà presenta come certezze: “Ora è possibile, o meglio è concepibile, che il venir meno dello status che (solo) ha consentito l’elezione al Consiglio del componente togato sia considerato irrilevante ai fini della permanenza in carica di chi non è più magistrato? Ed è concepibile che - una volta cessata l’appartenenza all’ordine giudiziario su cui si radica l’elettorato passivo e su cui poggia la rappresentatività stessa del componente togato – chi non appartiene più alla magistratura possa continuare ad esercitare le funzioni di amministrazione della giurisdizione  e quelle di giudice disciplinare?”. È evidente che la risposta è no. Tant’è che la conclusione di Rossi è netta: “La cessazione dello status di magistrato – sia essa l’effetto di una scelta volontaria, come nel caso delle dimissioni dalla magistratura, di una situazione di natura oggettiva come avviene per il collocamento in quiescenza o di una sentenza penale di condanna - determina la perdita del requisito, indispensabile, della capacità elettorale passiva e produce di conseguenza l’automatica decadenza dalla carica di consigliere superiore”.  

Davigo e il caso Palamara. Ma, secondo Rossi, il pensionamento di Davigo s’intreccerebbe anche con il caso Palamara, sotto giudizio disciplinare al Csm, e con Davigo tra i suoi “giudici” visto che la sezione disciplinare ha rigettato la richiesta di una sua astensione presentata dallo stesso Palamara. Un “non più magistrato ma ancora consigliere togato”, si chiede Rossi, potrebbe giudicarlo ed emettere una sentenza? La risposta del direttore di Questione giustizia è un “no” bello tondo. Perché, scrive Rossi, “un ex magistrato - e tale è, a tutti gli effetti, chi viene collocato in quiescenza - non è più soggetto alla giurisdizione disciplinare. La giustizia disciplinare può essere esercitata esclusivamente nei confronti dei magistrati  in servizio, siano essi esercenti funzioni giudiziarie o collocati temporaneamente fuori ruolo”. E quindi, conclude Rossi, “il componente del Consiglio superiore ‘pensionato’ si troverebbe in una posizione del tutto anomala ed eccentrica sia rispetto ai consiglieri togati del Consiglio, sia rispetto alla generalità dei magistrati”. I quali, se fanno parte del Csm, “incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento”. Ma Davigo, ormai in pensione, non sarebbe più “processabile” disciplinarmente. 

I Pm di sinistra scaricano Davigo: a ottobre via dal Csm. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Agosto 2020. È arrivato ieri mattina, direttamente dalle colonne di Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica, l’avviso di sfratto dal Csm per Piercamillo Davigo. Il termine ultimo è stato fissato per il prossimo 20 ottobre, giorno in cui l’ex pm di Mani pulite compirà 70 anni, l’età massima per il trattenimento in servizio per i magistrati. È stato affidato a Nello Rossi, storico esponente delle toghe di sinistra di Md, ora alleate con quelle davighiane al Csm, il compito di comunicare al Dottor sottile, con un lungo e dettagliato articolo, che dopo l’estate dovrà iniziare a svuotare il suo ufficio a Palazzo dei Marescialli. L’ulteriore permanenza di Davigo a piazza Indipendenza sarebbe, scrive Rossi, «in netto contrasto con la legalità e la funzionalità dell’organo e con le esigenze di rappresentatività e di legittimazione che devono caratterizzare l’attività del Consiglio Superiore». In caso qualcuno volesse a tutti i costi impedire lo sfratto di Davigo, si tratterebbe di una decisione «sbagliata ed incomprensibile». «Davvero si pensa che Piercamillo Davigo possa rimanere in carica al Consiglio Superiore anche quando non sarà più magistrato?» è l’incipit del pezzo di Rossi che non lascia spazio ad alcun dubbio su quale debba essere il destino di Davigo. Il diretto interessato la pensa diversamente, avendo fatto intendere in più occasioni di non avere intenzione di mollare lo scranno nella sala “Vittorio Bachelet”. Una di queste circostanze è stata la comunicazione del calendario da parte della Sezione disciplinare, di cui Davigo è componente, relativo al procedimento per Luca Palamara&soci che inizierà il prossimo 15 settembre e si concluderà alla vigilia delle Festività natalizie. «Nessun presidente di tribunale adeguato al suo compito inserirebbe nel collegio che inizia un procedimento calendarizzato per più mesi un magistrato giunto alla soglia della pensione» premette Rossi, sottolineando che «se ciò avviene per la Sezione disciplinare c’è chi ipotizza che Davigo potrà rimanere in carica come consigliere e come giudice disciplinare anche quando sarà divenuto un magistrato in quiescenza». Nello Rossi, già avvocato generale dello Stato e giurista sopraffino, elenca i motivi per i quali Davigo dopo il 20 ottobre debba fare ritorno a Milano. «Chi è eletto al Csm da tutti magistrati in servizio deve essere a sua volta un magistrato in servizio» è la premessa del ragionamento di Rossi che riporta ampi passi della legge del 1958 sulla costituzione ed il funzionamento dell’organo di autogoverno delle toghe. «Il possesso – effettivo ed attuale – dello status di magistrato nell’esercizio delle funzioni è un requisito indispensabile perché sussista la capacità elettorale passiva; e ciò in coerenza con le disposizioni costituzionali» ricorda Rossi, evidenziando che «la cessazione dello status di magistrato determina la perdita del requisito, indispensabile, della capacità elettorale passiva e produce di conseguenza l’automatica decadenza dalla carica di consigliere superiore». Rossi, al riguardo, smentisce la fake news secondo cui esiste il “precedente” di un magistrato pensionato al Csm. «È doveroso chiarire che nel corso della sua permanenza al Consiglio Vittorio Borraccetti (il magistrato citato da chi vuole che Davigo resti al Csm anche in pensione, n.d.r.) ha ininterrottamente conservato lo status di magistrato in servizio: alla scadenza del mandato consiliare venne ricollocato in ruolo nel settembre del 2014 come sostituto procuratore presso il suo ufficio di provenienza, la Procura della Repubblica di Venezia». Un altro aspetto preso in considerazione da Rossi riguarda la fine del giudizio disciplinare per gli ex magistrati. «Il componente del Consiglio superiore “pensionato” si troverebbe in una posizione del tutto anomala ed eccentrica sia rispetto ai consiglieri togati del Consiglio sia rispetto alla generalità dei magistrati». E quindi: «A differenza degli uni e degli altri non sarebbe esercitabile nei suoi confronti alcuna azione per violazioni del codice disciplinare». Il già pensionato ma ancora consigliere superiore sarebbe dunque libero dai fondamentali doveri propri del magistrato ed esente da ogni possibile sanzione disciplinare per la loro violazione. Dunque, sarebbe l’immunità totale per Davigo. Con un paradosso, in quanto «nella veste di giudice disciplinare, sarebbe chiamato a giudicare (non più i suoi pari ma) magistrati in servizio o fuori ruolo e gli stessi componenti togati del Consiglio ancora sottoposti alla giurisdizione disciplinare». «La figura che emerge è quella di un extraneus alla magistratura che “soggettivamente” potrà mantenere condotte ineccepibili e meritevoli del massimo apprezzamento ma i cui comportamenti nella vita dell’istituzione consiliare resteranno comunque insindacabili e non sanzionabili se restano al di sotto della soglia della rilevanza penale», chiarisce Rossi.  Ma perché Davigo, allora, non molla? Perché Davigo, è quello che molti pensano, è un magistrato molto conosciuto e con un grande seguito. Il capo dei “giustizialisti”, usando il titolo di un suo libro. Ecco cosa scrive Rossi al riguardo: «Se a sostegno della perdurante presenza di Davigo in Consiglio si dovesse invocare “esclusivamente” il successo elettorale legittimamente conseguito nelle ultime elezioni, ritenendo che esso risolva in tronco ogni altra questione di diritto e di opportunità, allora dovremmo trarne una inquietante conclusione: che sono penetrati in magistratura la mentalità e lo stile di non pochi uomini politici del nostro Paese per i quali ogni principio e ogni regola di funzionamento delle istituzioni – e financo ogni discussione – possono essere spazzati via dal risultato elettorale». «I principi e le norme sin qui richiamati valgono – scrive ancora Rossi – a risolvere sul nascere “un caso Davigo” fornendo indicazioni nettamente contrarie ad ogni idea di una sua permanenza in carica come consigliere dopo il collocamento a riposo». Se Davigo rifiutasse il 20 ottobre di mollare sarebbe «vicenda che rischierebbe di sottoporre a nuove tensioni e contraddizioni un organo già scosso dai fatti dell’ultimo anno e che deve essere risolta correttamente per consentire al Consiglio di continuare a svolgere positivamente i suoi fondamentali compiti». Ci sarà bisogno dell’intervento di Sergio Mattarella, che del Csm è il capo, per convincere Davigo?

Flick: Davigo non può restare al Csm anche dopo il congedo. Errico Novi su Il Dubbio il 26 Settembre 2020. Il caso dell’ex pm che “deve” giudicare Palamara: intervista al presidente emerito della Consulta. «Intanto il Consiglio superiore della magistratura mi pare già sovraccarico di nodi irrisolti, per pensare di complicarne l’esistenza anche con l’equivoco fra durata soggettiva del mandato e durata del mandato collegiale». Giovanni Maria Flick parla del caso del togato Csm prossimo al congedo e aggrotta la fronte. Non è colpito tanto dalle polemiche e dai retroscena, quanto dai controsensi connessi alla permanenza in carica dell’ex pm di Mani pulite. C’è il rischio di «confondere la durata quadriennale prevista dall’articolo 104, evidentemente riferita al suo limite massimo, con il mandato del singolo consigliere», nota il presidente emerito della Consulta, «il che equivarrebbe a sbilanciare la natura del Csm dalla funzione gestionale verso sembianze da organo costituzionale. Come se il Consiglio superiore si trovasse sullo stesso piano della Consulta: ma proprio il raffronto con la Consulta ci dimostra quanto sia improponibile l’ipotesi che un consigliere togato del Csm resti in carica come tale anche dopo che sia andato in quiescenza come magistrato».

Insomma, presidente Flick, lei ritiene che quando, il prossimo 20 ottobre, Davigo compirà 70 anni e si congederà dalla magistratura per raggiunto limite di età, dovrà concludersi anche il suo mandato a Palazzo dei Marescialli.

«Sì, e mi sorprende che adesso ci si scervelli per asserire il contrario. In ultima analisi, tutto sta nel raffronto con la Corte costituzionale: in tal caso, è esplicitamente previsto all’articolo 135 che il mandato dei giudici è di nove anni “per ciascuno di essi”. Non si parla di durata della Corte, di un suo determinato collegio, ma della permanenza del singolo componente. Se per il Csm i costituenti avessero voluto, nella sostanza, riferire la durata quadriennale della carica non al Consiglio ma al singolo consigliere, indipendentemente dal presupposto della nomina, l’avrebbero scritto a chiare lettere esattamente come hanno fatto per la Corte costituzionale».

Perché finora un’osservazione così semplice non è stata avanzata?

«Con tutto il rispetto per il diverso ragionamento fondato su un profilo solo formale e letterale, penso alla norma costituzionale che regola la rieleggibilità del presidente della Consulta. La carica ha una durata triennale. Poi può essere rinnovata per tre anni ancora. Ma a condizione che quel presidente della Corte si trovi, al momento della rielezione, ancora in carica come giudice costituzionale, ossia a condizione che non siano ancora trascorsi i nove anni di durata del mandato. Ancora: se trascorsi i primi tre anni si è rieletti al vertice della Consulta, si decade da presidente non appena scade il mandato di giudice, anche se il secondo triennio non è stato completato. Cosa vuol dire? Che la carica successiva, l’elezione a presidente, è sempre indissolubilmente subordinata alla condizione che ne è il presupposto: lo status di giudice costituzionale. Allo stesso modo, se il presupposto per essere eletti al Csm, nel caso dei componenti togati, è lo status di magistrato ordinario appartenente alle varie categorie e quindi, evidentemente, in servizio, quando tale specifico status viene meno, si interrompe anche il mandato a Palazzo dei Marescialli».

Di nuovo: perché non lo si è ancora detto?

«Mi limito a osservare che si pretende di conferire stabilità all’organo di autogoverno dei magistrati attraverso la stabilità nella carica di un singolo consigliere. Strano. Ma per tentare di sezionare la stranezza in tutti i suoi aspetti, serve un breve excursus cronologico».

Cosa intende dire?

«Il cosiddetto caso Palamara non è nuovo. Negli ultimi giorni gli osservatori più misurati e acuti hanno notato che non si è fatto praticamente nulla per oltre un anno, dopo aver denunziato a suo tempo con vigore l’urgenza di provvedere subito, e che d’improvviso si accelera. Adesso, anziché concentrarsi sulla riforma del Csm o almeno sulla vicenda oggetto del noto procedimento disciplinare, si è preoccupati della permanenza in carica di uno dei giudici di quel procedimento. Ci si trova dinanzi a un bivio: o quel giudice decade il giorno in cui entra in quiescenza, a processo ancora non concluso, e allora si rischia di dover rinnovare tutto dal principio; oppure si tenta la strada intrapresa, cioè dopo un anno di nulla assoluto si cerca di portare a termine il processo prima che quel giudice entri in quiescenza. Come si fa a non trovarlo strano?»

Senta, presidente Flick: la necessità di arrivare alla sentenza Palamara con Davigo ancora giudice del collegio disciplinare può dipendere, secondo lei, dall’idea di estremo rigore che Davigo personifica e dal timore di rinunciarvi proprio in una vicenda ritenuta squalificante per la magistratura?

«Ah, ma quindi adesso vorrebbe farmi parlare di politica? No, mi spiace. A me del fatto che quel procedimento sia considerato un simbolo, e che quel consigliere Csm sia a propria volta un simbolo di rigore, non può e non deve interessare. I principi di regolazione di un organo come il Csm devono prescindere dalla politica e dal sentimento dell’opinione pubblica. Ribadisco: la permanenza in Consiglio richiede necessariamente il presupposto della qualità di magistrato in servizio. Già ho ricordato come emerga con chiarezza dalla differenza tra la norma costituzionale sulla Consulta e quella sul Csm. Potrei fermarmi qui. Ma giacché ci siamo, consideriamo anche le conseguenze problematiche di una valutazione diversa. Prima di tutto: un magistrato in quiescenza che continuasse a essere consigliere superiore non sarebbe sottoposto alla responsabilità disciplinare, per non dire della responsabilità deontologica, deficitaria anche per le toghe in servizio. Potrebbe, un ex magistrato, essere sottoposto alla responsabilità disciplinare tipica di chi è in servizio solo perché è componente del Csm? No, servirebbe una legge».

Prima contraddizione. Le altre?

«Passiamo a vedere cosa discenderebbe dalla pretesa di equiparare il Csm alla Corte costituzionale, e di intendere dunque la durata quadriennale dell’organo come durata soggettiva del singolo mandato di consigliere Csm in difetto della qualità che ne è il presupposto ineliminabile. Innanzitutto, si creerebbe una sfasatura, nel senso che alcuni componenti togati del Csm resterebbero consiglieri anche dopo che siano stati rinnovati i membri laici, con tutti i relativi problemi di sintonia fra le due componenti. Dovremmo, di fatto, avere elezioni lontane nel tempo, tra laici e togati e anche all’interno della componente magistratuale. Terzo, potremmo trovarci ad attribuire, all’organo, una durata di fatto ultraquadriennale legata alla circostanza soggettiva del mandato di un singolo, entrato in carica dopo gli altri. Mi pare tutto davvero problematico».

Intanto si attendono nuovi pareri dall’Avvocatura di Stato e dall’Ufficio studi del Csm.

«A me sembra che nella vicenda vi sia una sorta di omaggio all’identificazione tra il profilo di un singolo componente e l’intero organo di autogoverno. Sarebbe auspicabile che una simile distorsione venisse abbandonata. E che si provasse a risolvere i problemi, che semplici non sono, della magistratura e del suo ordinamento, e della formazione e del funzionamento del Csm, prima di affrontarne dei nuovi».

La Costituzione "salva" Davigo dal rischio di lasciare la magistratura per raggiunti limiti di età. Pubblicato sabato, 01 agosto 2020 da Liana Milella su La Repubblica.it. L'articolo 104 della Carta, che parla di “membri in carica per quattro anni”, smonta la tesi di Magistratura democratica e di Nello Rossi. Via chat - che sono tanto di moda tra le toghe - invio un messaggio a Piercamillo Davigo. “Vuole fare un’intervista sul suo futuro al Csm?”. Mi risponde di no, ma l’avevo previsto. Non c’è bisogno di spiegare chi sia Davigo. Ex cattivissimo pm di Mani pulite. Fondatore della corrente di Autonomia e indipendenza dopo una vita passata dentro Magistratura indipendente - la destra delle toghe - ma in polemica al fulmicotone con Cosimo Maria Ferri. Ex presidente dell’Anm nel 2016  super votato dai colleghi (1.041 preferenze personali). Poi ancora en plein di suffragi al Csm due anni fa (2.522). Super toga dalle interviste graffianti in tv. Con pochi sorrisi, anche se chi lo frequenta da amico lo descrive come un gran simpatico. Ebbene, descritto sommariamente l’uomo e il magistrato, adesso Piercamillo Davigo avrebbe un problema per la sua futura permanenza al Csm. Quale? il rischio che il 20 ottobre, allo scadere del suo settantesimo compleanno, debba lasciare dopo due anni palazzo dei Marescialli perché a quell’età le toghe sono costrette dalla legge Renzi ad andare in pensione. Lo sostiene con ampie argomentazioni Nello Rossi, il direttore di Questione giustizia, la rivista online di Magistratura democratica. Sì, proprio l’house organ delle cosiddette “toghe rosse”. La legge sul Csm del 1958 parla di magistrati in servizio da poter eleggere. E solo i giudici in servizio subiscono gli effetti della scure disciplinare se commettono infrazioni più o meno gravi. Davigo non parla. Ma in questi mesi più d’uno gli ha sentito citare un altro puntello, che lui ritiene ben più solido di qualsiasi altra argomentazione. L’articolo 104 della Costituzione sulla magistratura che al quinto comma recita: “I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili”. Punto. Quindi chi viene eletto resta a palazzo dei Marescialli per quattro anni. Salvo fatti eccezionali come nel caso Palamara che ha poi costretto cinque togati a lasciare il Consiglio. Ma questa è tutta un’altra storia che, direbbe Antonio Di Pietro, “non c’azzecca” con Davigo. Il quale avrebbe anche un altra freccia al suo arco. Il fatto che, al momento della sua candidatura nel 2016, nessuno ha eccepito la sua età, ovviamente ben nota. E i 2.522 colleghi che lo hanno votato, a loro volta, sicuramente erano ben al corrente dell’età di Davigo e del prossimo scadere dei suoi 70 anni. Eppure l’hanno scelto ugualmente, presupponendo quindi che avrebbe continuato a rappresentarli anche dopo il passaggio alla pensione. Peraltro, un recentissimo caso sembra spezzare un’ulteriore lancia a favore di Davigo. Perché il collegio disciplinare che giudicherà Palamara, presieduto dal laico indicato dalla LegaEmanuele Basile, lunedì ha respinto nettamente la richiesta di astensione avanzata dall’ex pm di Roma accusato di corruzione a Perugia, confermando quindi indirettamente l’assenza di dubbi sul futuro di Davigo. Poiché, al Csm, già il 15 settembre, quando il vice presidente David Ermini costituirà le nuove commissioni in carica durante tutto il prossimo anno, dovrà affrontare subito il problema di Davigo e della sua andata in pensione. Il quale, qualora dovesse lasciare la disciplinare a lavori su Palamara già iniziati, potrebbe dar adito a complicazioni in vista di futuri ricorsi. Infine un ultimo dettaglio. Quando, a maggio, spuntò un emendamento di Fratelli d’Italia alla Camera per riportare da 70 a 72 anni l’età pensionabile delle toghe e qualcuno scrisse che si trattava di una norma ad personam per Davigo, lui si arrabbiò moltissimo e minaccio querele. Convinto com’è sempre stato che nessuna norma in vigore può allontanarlo dal Consiglio superiore della magistratura.

Lo "stacanovista" Davigo, giudice disciplinare anche se in pensione. Rinaldo Romanelli, Giorgio Varano su Il Riformista il 6 Agosto 2020. Mancano settantacinque giorni alla cessazione dalle funzioni giudiziarie del Dott. Davigo, e prosegue il silenzio di tutti i consiglieri del Csm su quello che ormai si può definire un vero e proprio caso e che si preannuncia come tormentone estivo, paradigmatico della poca trasparenza di questa consiliatura di Palazzo dei Marescialli sulle proprie dinamiche interne, come se il Csm fosse una associazione privata e non un organo di natura costituzionale che governa di fatto l’amministrazione della giustizia. Ad aprile di quest’anno, in un approfondito contributo sulle pagine della rivista Diritto di Difesa, abbiamo evidenziato come l’esercizio delle funzioni giudiziarie sia da considerarsi requisito necessario per la permanenza nella carica del componente togato del Consiglio superiore della magistratura. Siamo poi ritornati sul tema, in forma più discorsiva, sulle pagine di questo giornale, parlando del caso specifico del Dott. Davigo, il pubblico ministero diventato Presidente di una sezione della Corte di Cassazione. Abbiamo preso atto del silenzio imbarazzato del Csm, della magistratura associata, delle varie “correnti”, e di alcuni pubblici ministeri che si pongono come paladini della legalità nei loro scritti e nelle loro attività sui media e sui social network, sempre più soggetti politici pronti a discettare su tutto, tranne che sulle regole del Csm quando le stesse toccano la propria corrente. La mancata pronuncia di Palazzo dei Marescialli sulla posizione del Dott. Davigo ha iniziato a smuovere alcune coscienze nella magistratura. Qualche giorno fa c’è stato l’intervento del direttore della rivista di Magistratura Democratica, il magistrato Nello Rossi, che ha ripreso tutte le nostre argomentazioni esposte sulla rivista dei penalisti italiani. La conseguenza? È iniziata una campagna di stampa a favore della permanenza in carica ad personam, con alcune fantasiose tesi. Siccome la Costituzione stabilisce che i consiglieri durano in carica 4 anni, gli stessi possono restare in carica anche se cessano dalle funzioni giudiziarie (requisito essenziale per la carica di consigliere togato). Insomma, una incoronazione, non una normale elezione di un magistrato in servizio. Altro argomento: la legittimazione elettorale. È stato votato pur essendo gli elettori a conoscenza della sua prossima cessazione dalle funzioni giudiziarie, quindi può restare in carica. Il voto, dunque, come fonte superiore alla legge. E fa niente se, sempre grazie al voto, come primo dei non eletti subentrerebbe un magistrato di un’altra corrente, mica si può sovvertire la geografia delle correnti in seno al Csm per colpa del voto! Pare che la decisione sia già stata presa se il Dott. Davigo è stato scelto come giudice disciplinare di un procedimento che proseguirà ben oltre la data della sua pensione. In questo caso la decisione sarebbe stata presa in gran silenzio, speriamo non durante una cena o in un hotel, senza un minimo di comunicazione esterna. Eppure il Consiglio di Stato si è già espresso su un caso simile, con parole che non lasciano spazio a interpretazioni, nemmeno per i tifosi: «Se, infatti, per “autogoverno” deve intendersi un sistema in virtù del quale la gestione e l’amministrazione di una determinata istituzione è affidata ai suoi stessi esponenti, nella specie attraverso un organo costituito in base ad un principio di rappresentatività democratica, ne discende che la qualità di appartenente all’istituzione medesima (nella specie, l’ordine giudiziario) costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno, e non solo per il mero accesso agli organi che la esercitano. In altri termini, il fatto che il legislatore non abbia espressamente previsto la cessazione dall’ordine giudiziario per quiescenza fra le cause di cessazione della carica di componente del C.S.M. dipende non già da una ritenuta irrilevanza del collocamento a riposo, ma dall’essere addirittura scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all’autogoverno, è ostativa alla prosecuzione dell’esercizio delle relative funzioni in seno all’organo consiliare. Di conseguenza, del tutto legittima è una lettura dell’art. 39, l. nr. 195/1958 laddove prevede il subentro del primo dei non eletti in caso di cessazione dalla carica “per qualsiasi ragione”, ben potendo ricomprendersi in tale ampia formula anche l’ipotesi suindicata senza alcuna indebita estensione analogica di norme eccezionali e senza alcuna violazione dei principi di rango costituzionale». Cosa accadrà, dunque, se il Dott. Carmelo Celentano (Unicost), che dovrebbe subentrare quale primo dei non eletti, a fine ottobre procederà con un ricorso? Per quali motivi, nel caso, non vi procederà? Provvederà, allora, la Dott.ssa Rita Sanlorenzo (AreaDG), seconda dei non eletti? Cosa accadrà al procedimento disciplinare se il ricorso sarà accolto? Cosa accadrà al procedimento disciplinare se gli incolpati a fine ottobre solleveranno l’eccezione nei confronti del Dott. Davigo? Per quali ragioni il Csm inizia un procedimento disciplinare con la possibilità che lo stesso venga bloccato o annullato per la permanenza nella carica, di consigliere togato e di giudice disciplinare, di un magistrato che cesserà le sue funzioni nel corso del procedimento? Meno settantacinque giorni all’alba di questa lunga notte del Csm e sapremo anche noi comuni mortali.

Il seggio "cadente" al Csm. Tra un mese Davigo va in pensione, ma si incolla alla sua poltrona del Csm. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Settembre 2020. Voi pensate che il Consiglio superiore della magistratura sia impegnato allo spasimo sul caso Palamara? Cioè sullo scandalo delle nomine teleguidate al vertice della magistratura, e pure delle sentenze – probabilmente – teleguidate, visto il potere soverchiante del partito dei Pm che – abbiamo scoperto dalle intercettazioni, ma già lo sapevamo – è in grado di condizionare o addirittura sottomettere un po’ di giudici amici. Oppure magari pensate che ora il Csm sarà impegnato anche per il caso Emilia, e la nomina del procuratore Mescolini, sollevato proprio dal nostro giornale. Macché: il Csm è completamente preso dalla madre di tutte le battaglie condotte dall’incorruttibile Piercamillo Davigo. Il quale tra poche settimane compie 70 anni e deve andarsene in pensione e di conseguenza perde il seggio in Csm. Lui non ne vuole sapere di andarsene. È pronto a incollarsi, inchiodarsi, abbarbicarsi, abbracciarsi (scegliete voi il termine giusto) alla poltrona, tanto per usare una immagine che ai 5 Stelle piace molto e in genere usano in polemica coi parlamentari. Bisogna dire che i parlamentari sono molto più sobri del giudice Davigo. Il caso Davigo sembra ormai diventato il vero pilastro della questione giudiziaria. Prima è successo che due gruppi parlamentari assai distanti (FdI e Pd) hanno presentato emendamenti a un decreto Covid con i quali spostavano, di nascosto, l’età di pensionamento dei parlamentari. Salvando Davigo. Li abbiamo beccati e gli emendamenti son saltati. Ora Davigo stesso sta facendo il diavolo a quattro e ha mobilitato, dicono, pure il Quirinale per ottenere che il Csm si pronunci sulla sua “eternità”. Il Csm resiste, anche perché, oggettivamente, la legge è molto chiara. Lui non demorde. Battaglia. La partita è tutta aperta, avvincente: ve la racconteremo nei prossimi giorni.

Il caso Davigo paralizza il Csm. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 25 settembre 2020. Piercamillo Davigo non vuole lasciare la carica di consigliere del Csm nonostante abbia raggiunto i limiti di età. Il Csm ha chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato. Il parere dell’Avvocatura dello Stato sul destino di Piercamillo Davigo al Consiglio superiore della magistratura è atteso per la prossima settimana. La Commissione verifica titoli di Palazzo dei Marescialli, presieduta dalla togata di Magistratura indipendente Loredana Miccichè, lunedì scorso aveva affidato il compito all’Avvocatura dello Stato di redigere un parere se l’ex pm di Mani pulite possa continuare ad essere consigliere superiore anche dopo il prossimo 20 ottobre, data in cui compirà settanta anni, età massima per il trattenimento in servizio delle toghe dopo la modifica approvata durante il governo Renzi. Una volta ricevuto il parere, la Commissione farà le proprie valutazioni che saranno quindi sottoposte al Plenum per il voto a scrutinio segreto trattandosi di decadenza di un componente del Consiglio. L’Ufficio studi del Csm aveva in passato redatto un parere sul tema dell’età dei magistrati al Csm, prospettando la sostenibilità giuridica sia a favore della permanenza, trattandosi di una carica elettiva, e sia a favore delle decadenza per mancanza del requisito di essere magistrato in servizio. Davigo era stato eletto con un plebiscito nell’estate del 2018. L’Avvocatura, in caso di contenzioso amministrativo, difende ex lege l’operato del Csm. Non sono da escludersi, infatti, ricorsi presentati da Davigo, in caso dovesse essere dichiarato decaduto, o da parte del primo dei non eletti, il giudice di Cassazione Carmelo Celentano. Il magistrato di piazza Cavour all’epoca si era candidato nelle liste di Unicost, la corrente di centro delle toghe a cui apparteneva l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. In caso Celentano non accettasse la nomina, potrebbe subentrargli la collega in Cassazione Rita Sanlorenzo del cartello progressista Area. E ieri, presieduta invece da Davigo, la Commissione verifica titoli ha analizzato la pratica di Pasquale Grasso, toga di Magistratura indipendente. Grasso, lo scorso anno per qualche mese presidente dell’Anm, è il primo dei non eletti alle elezioni suppletive per la categoria del merito tenutesi a dicembre del 2019. Il magistrato deve prendere il posto di Marco Mancinetti, giudice di Unicost dimessosi il mese scorso dopo aver saputo di essere sottoposto a procedimento disciplinare dalla Procura generale della Cassazione nell’ambito dell’affaire Palamara. Anche per lui la Commissione ha chiesto un parere: questa volta interno, all’Ufficio studi. La Commissione era composta da tre membri: un magistrato con funzioni di legittimità, Piercamillo Davigo, un magistrato con funzioni di merito, il giudice milanese Paola Maria Braggion, e un componente eletto dal Parlamento, il professore in quota M5S Alberto Maria Benedetti. Si punta, comunque, ad escludere delle nuove elezioni suppletive. Sarebbe la terza volta in meno di un anno. Con l’entrata di Grasso al Csm il gruppo di Mi, la corrente moderata, passa a quattro componenti, “recuperando” l’iniziale compagine di cinque membri, poi falcidiata dalle dimissioni. Il mese prossimo, poi, sono già in programma, dopo essere state rinviate già due volte, le elezioni per il rinnovo dell’Anm. Queste elezioni si svolgeranno con modalità telematica a causa dell’emergenza sanitaria Covid- 19. Circa 5000 le toghe che si sono accreditate. Poche rispetto alle oltre 8000 iscritte all’Anm. E sempre la prossima settimana è prevista la sentenza per Palamara. La sezione disciplinare ha deciso di imprimere un’ulteriore accelerazione. Pressoché scontata la decisione: espulsione dall’ordine giudiziario.

Davigo: “Risarcitemi per la mancata nomina”. Il Dubbio il 7 ottobre 2020. Piercamillo Davigo rischia la poltrona del Csm ma rilancia sui compensi in qualità di Presidente aggiunto della Cassazione. Si avvicina il “verdetto” del Csm sul destino di Piercamillo Davigo. Lunedì 12 la Commissione Verifica Titoli (che ha chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, subito “secretato”) in prima battuta scioglierà il nodo se dopo il 21 ottobre, data in cui Davigo sarà collocato a riposo dalla magistratura per il compimento dei 70 anni, dovrà lasciare anche Palazzo dei marescialli o potrà restare consigliere, come sostiene lui. Due giorni dopo, il 14, sarà il plenum del Csm a prendere la decisione finale, difficile, anche perchè non ci sono precedenti. Intanto il consigliere, già presidente dell’Associazione nazionale magistrati, presenta il conto a Palazzo dei marescialli per una mancata nomina di due anni fa, anteriore di otto mesi alla sua elezione trionfalistica al Csm con un record di preferenze. Forte di una pronuncia del Consiglio di Stato che gli ha dato ragione, annullando la delibera del Csm che lo ha penalizzato, l’ex dottor Sottile del pool Mani Pulite vuole che adesso gli venga attribuito a posteriori, a pochi giorni dalla pensione (anche se la richiesta porta la data del 17 luglio scorso) l’incarico di Presidente aggiunto della Cassazione che allora gli fu negato . O almeno che gli venga riconosciuto il titolo di presidente aggiunto, con conseguente aumento della retribuzione, e risarcito il danno per “perdita di chance”. Il tutto a partire da quel fatidico 21 febbraio del 2018, quando il plenum del Csm gli preferì a maggioranza schiacciante (18 voti a 1) Domenico Carcano, già capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia.

Savonarola pensa anche al bancomat. Il conflitto d’interessi di Davigo: chiede un risarcimento al Csm (di cui è componente…) Piero Sansonetti Il Riformista l'8 Ottobre 2020. Sono tra quelli – pochissimi – che hanno sempre pensato cose abbastanza brutte dei magistrati (non è vero: non di tutti, lo so benissimo che ci sono in giro fior di magistrati, purtroppo si fanno sentire pochissimo, salvo rare eccezioni…). Però non mi era mai venuto in mente di considerare i magistrati persone venali. Avevo sempre immaginato che tutte le loro brighe e anche – spesso – le loro sopraffazioni, avessero come movente un unico totem: il potere, anzi il potere assoluto. Quel tipo particolarissimo di potere che – dicono – produce una vera e propria ebbrezza, che è il potere di decidere della vita, della sorte, della fortuna, delle libertà di singole persone. Vedere degli individui alla propria mercé, senza che nessuno possa intervenire. Ieri ho saputo che il mito di tutti di noi, Piercamillo Davigo, al quale mancano due settimane alla pensione, ha fatto ricorso contro la nomina, due anni fa, di Domenico Carcano a Presidente aggiunto della Cassazione. Davigo concorse a quel titolo con Carcano e fu sconfitto, nella votazione del Csm, per 18 a 1. Ora, forte di una sentenza del Consiglio di Stato, sostiene che invece quella nomina spettava a lui, perché aveva un titolo in più del suo rivale, e che ora, di conseguenza, deve essergli restituita la Presidenza negata (per due settimane, visto che poi dovrà comunque lasciare la toga) e soprattutto deve essergli riconosciuto l’aumento di stipendio, con tutti gli arretrati, e poi gli scatti nella pensione, e poi anche un risarcimento in moneta per la sofferenza patita per la mancanza del titolo di Presidente aggiunto. A chi Davigo ha chiesto questo ricco rimborso in denaro? Al Csm. Ma Davigo fa parte del Csm. Bisognerebbe chiedere ai grillini, che in queste cose sono esperti, se per caso ci sia un conflitto di interessi, ma probabilmente non c’è. Del resto nei giorni scorsi, durante il processo a Palamara, è stato stabilito che anche se i nomi dei magistrati del Csm che dovranno giudicare Palamara sono gli stessi che si trovano – in situazioni non sempre edificanti – nelle intercettazioni sulle quali si fonda l’accusa a Palamara, questo non è un problema e non c’è incompatibilità. Il che – se capisco bene – vuol dire che comunque, nel caso dei magistrati, il conflitto di interessi non esiste. Figuratevi nel caso di Davigo che è ben più di un magistrato normale…

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” l'8 ottobre 2020. Piercamillo Davigo deve lasciare il Consiglio superiore della magistratura, a metà del mandato, perché un pensionato non può rappresentare gli ex colleghi. Lo sostiene l'Avvocatura dello Stato, in un parere richiesto dal Csm. Davigo andrà in pensione il 20 ottobre, a 70 anni. All'inizio di settembre egli stesso ha posto con una lettera alla commissione titoli del Csm la questione, che non conosce precedenti: la possibilità di rimanere in carica da pensionato, essendo stato eletto nella quota riservata ai magistrati in servizio. Davigo sostiene di averne diritto con due argomentazioni, una giuridica e una politica. La prima: il pensionamento non è espressamente previsto dalla legge tra le cause di decadenza dei membri del Csm, e in materia elettorale vige la tassatività dei requisiti di chi accede alle cariche pubbliche. La seconda: un'estromissione con voto a maggioranza del plenum introdurrebbe un pericoloso precedente, comportando la precarietà (se non la condizionabilità) di una posizione costituzionalmente rilevante. La commissione titoli, che deve istruire la pratica e riferire al plenum per il voto finale, ha preso tempo. Dopo aver scartabellato invano vecchi pareri, ha deciso di rivolgersi all'Avvocatura dello Stato, che assiste e difende le amministrazioni pubbliche (e il Csm, nei ricorsi dei magistrati al Tar contro nomine e trasferimenti). L'iniziativa ha suscitato la prima tensione. A volerla Loredana Micciché e Paola Braggion (entrambe di Magistratura Indipendente, corrente da cui Davigo uscì nel 2015 in polemica con Cosimo Ferri), mentre Alberto Benedetti, membro laico indicato dal M5S, ha votato contro. Schermaglie che preludono a quel che accadrà la prossima settimana, quando i tre componenti della commissione titoli dovranno redigere una relazione (o due, in caso di spaccatura) su cui il plenum si pronuncerà. A quel punto il parere dell'Avvocatura, pur non vincolante, sarà squadernato. Tre pagine per sostenere che l'assenza di una specifica norma per il caso Davigo dipende dal fatto che la sua decadenza è «scontata», sulla scorta di una lettura sistematica del ruolo del Csm nell'assetto costituzionale e della rigida ripartizione dei suoi membri tra togati (in servizio) e laici eletti dal Parlamento, che sarebbe alterata dal «seggio del pensionato». In tal senso valorizza una sentenza del Consiglio di Stato del 2011. Una «lettura formalistica e insufficiente» delle cause di decadenza, rifiutando il principio secondo cui «l'appartenenza all'ordine giudiziario costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile» per la permanenza nel Csm e non solo «per il mero accesso», pervertirebbe il senso «dell'autogoverno». Il plenum se ne occuperà mercoledì. Sarà battaglia. Anche perché nel frattempo Davigo presenta un altro conto al Csm per una mancata nomina in Cassazione nel 2018. Il Consiglio di Stato gli ha dato ragione, chiede un risarcimento sia economico che di carriera.

I 70 anni di Davigo: il Csm verso la conferma.

Liana Milella su La Repubblica l'8 ottobre 2020. Alta tensione al Consiglio sul prossimo pensionamento dell’ex pm che compirà gli anni il 20 ottobre. Deciderà il plenum mercoledì prossimo: su questa decisione non avrà influenza un parere chiesto all’Avvocatura dello Stato. Come tutto, al Csm, anche il caso Davigo è diventato materia di lotta tra le correnti della magistratura. Soprattutto per due coincidenze. La prima: giusto tra oggi e domani, nella sezione disciplinare, si decide la sorte di Luca Palamara, e tra i giudici c’è anche Piercamillo Davigo. La seconda: tra una settimana, le toghe italiane - ormai quasi 10mila - andranno al voto per eleggere il nuovo assetto sindacale dell’Anm. E la destra di Magistratura indipenden...

Csm verso il sì alla permanenza di Davigo. Errico Novi su Il Dubbio il 13 ottobre 2020. Alla vigilia del voto in plenum sulla permanenza di Davigo la maggioranza dei togati sarebbe favorevole alla permanenza dell’ex pm di Mani pulite. Forse si doveva proprio attendere la sentenza Palamara, perché potesse sbrogliarsi la “matassa politica” all’interno del Csm. Così sembra se si pensa che solo domenica scorsa, dopo la radiazione dell’ex presidente Anm, hanno cominciato a diventare meno indecifrabili le diverse posizioni, a Palazzo dei Marescialli, su due delicatissimi dossier: la permanenza di Piercamillo Davigo nella carica di consigliere dopo che, il 20 ottobre, si sarà congedato dalla magistratura e il subentro di Pasquale Grasso nel “seggio” lasciato libero in plenum da Marco Mancinetti, il togato di Unicost dimessosi il 20 settembre. Due questioni che nelle settimane del turboprocesso Palamara sono rimaste sotto traccia. D’improvviso, rimosso il rischio che si incrociassero con la vicenda disciplinare, sono arrivati domenica scorsa comunicati o interventi da tre gruppi della magistratura associata. Uno della progressista “Area” che chiede, su Davigo e Grasso, «voto palese» e discussioni separate, affinché non siano «influenzate da argomenti di tipo personalistico, da logiche di schieramento o da calcoli strategici». Secondo “Area”, «la decisione dell’un caso» non deve essere «contraltare dell’altro». Nelle stesso ore è apparso sulla rivista Questione giustizia un intervento del presidente di “Magistratura democratica” Riccardo De Vito, il solo ad assumere una posizione esplicita sull’ex pm di Mani pulite. La sua eventuale permanenza a Palazzo dei Marescialli è giudicata, da De Vito, un percolo per la «rappresentatività democratica del Consiglio». Infine un comunicato di “Magistratura indipendente”, la corrente contrapposta ai gruppi progressisti ( sono due, anche se “Md” è in realtà una componente della stessa “Area”, seppur con una propria vivace soggettività): in quest’ultimo documento non c’è un’indicazione rispetto alla scelta che il gruppo moderato compirà su Davigo, in compenso c’è una forte presa di posizione a favore di un avvicendamento tra Mancinetti e Grasso. Tre posizioni molto diverse per impostazione, ma anche dal punto di vista strategico. “Mi” ricorda che «1983 colleghi» si sono espressi a favore di Grasso, arrivato secondo alle «elezioni suppletive dell’ 8 e 9 dicembre 2019 per funzioni giudicanti di merito», vinte da Elisabetta Chinaglia». Quei quasi duemila magistrati «attendono da oltre un mese la convocazione di Pasquale Grasso, avendo democraticamente espresso il proprio voto, e si chiedono per quale ragione il loro voto non sia rispettato». Neppure il gruppo moderato, come “Area”, esprime in modo diretto la propria intenzione sulla permanenza di Davigo. De Vito è appunto l’unico a schierarsi e lo fa con argomentazioni che riprendono l’intervento del direttore di Questione giustizia Nello Rossi pubblicato a fine luglio. In particolare il presidente di “Md” cita la pronuncia del Consiglio di Stato relativa a un caso analogo ma dalla valenza generale, secondo cui «se per "autogoverno" deve intendersi un sistema in virtù del quale la gestione e l’amministrazione dell’istituzione è affidata ai suoi stessi esponenti, nella specie attraverso un organo costituito in base al principio di rappresentatività democratica, ne discende che la qualità di appartenente all’istituzione medesima costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno, e non solo per il mero accesso agli organi che la esercitano» . Secondo De Vito, Davigo non può dunque restare a Palazzo dei Marescialli a meno di voler «gettare a mare» quella «rappresentatività». Una simile incrinatura, conclude il presidente di “Md”, rischia di essere un assist alla politica, «impegnata nel tentativo di riforma dell’ordinamento giudiziario: l’auspicio è che» il legislatore «non fiuti» la dissoluzione, insieme col principio di rappresentatività, anche di quello della «autonomia». Si dirà: se un esponente autorevole della “sinistra togata” qual è De Vito si schiera contro la permanenza di Davigo, vorrà dire che alla fine i voti di “Area” andranno in quella direzione. Ma non è detto, intanto perché dei 5 attuali consiglieri del rassemblement progressista – di cui “Md fa pur sempre parte – nessuno è ormai organicamente allineato alle posizioni della storica componente “di sinistra”. A cominciare dal capogruppo Giuseppe Cascini, che di “Magistratura democratica” ha addirittura disdetto la tessera. Non si può dunque escludere che alla richiesta di votare separatamente, da ogni punto di vista, su Davigo e Grasso, si associ una propensione di “Area” alla permanenza di Davigo in plenum. E anzi le indiscrezioni danno tale scelta per maggioritaria tra i togati del Csm: a essere perplessi sarebbero sì alcuni consiglieri di varia provenienza, ma se, come sembra, prevarrà la richiesta per il voto palese, avanzata da “Area”, difficilmente il drappello dei contrari al’ex pm di Mani pulite resterebbe numeroso. Sarebbero per il no una parte dei laici, non tutti: quelli indicati da FI ( Cerabona e Lanzi), dalla Lega ( Basile e Cavanna) e forse uno dei consiglieri proposti dai 5 Stelle, Donati. Benedetti e Gigliotti voterebbero a favore di Davigo. Tra i togati che sono 16, il doppio dei laici neppure l’intera delegazione di “Mi” sarebbe per la decadenza. Sull’ex pm del Pool, insomma, il quadro è delineato: oggi la Commissione verifica titoli deciderà se presentare già doman i al plenum la propria relazione, con il parere dell’Avvocatura dello Stato sfavorevole al consigliere prossimo al congedo. Certo è che l’improvviso surriscaldarsi del clima conferma l’impressione che lo sprint su Palamara sia stato favorito dalla volontà di liquidarlo prima che altri nodi del plenum arrivassero al pettine.

Caso Davigo, il Csm: "Deve andarsene". Si spacca la commissione verifica titoli. Le due consigliere togate di Magistratura indipendente, Loredana Micciché e Paola Maria Braggion, hanno votato per la sua decadenza dal Consiglio dal momento che il 20 ottobre andrà in pensione. Si è astenuto  invece Alberto Maria Benedetti, consigliere laico del M5s. La decisione finale spetterà al plenum. Liana Milella il 13 ottobre 2020 su La Repubblica. Si spacca - anche se due contro uno - la Commissione per la verifica dei titoli al Csm sul caso Davigo, l'ex pm di Mani pulite che il prossimo 20 ottobre compie 70 anni e quindi va in pensione come magistrato. Le due consigliere togate di Magistratura indipendente, Loredana Micciché e Paola Maria Braggion, hanno votato per la sua decadenza dal Csm. Si è astenuto invece Alberto Maria Benedetti, consigliere laico indicato da M5s. A decidere la sorte di Davigo sarà, a questo punto, il plenum straordinario del Csm che il Comitato di presidenza - composto dal vice presidente del csm David Ermini, dal primo presidente della Cassazione Pietro Curzio e dal procuratore generale Giovani Salvi - ha fissato per lunedì 19 alle 15, con prosecuzione anche martedì e mercoledì. Ma lunedì sarà la giornata decisiva, cioè prima dello scadere dei 70 anni di Davigo. Il Csm sul caso Davigo è spaccato. Il voto in plenum sarà quasi certamente segreto. L'esito, al momento, sembra favorevole alla sua permanenza in Consiglio. In assenza di una norma esplicita nella legge istitutiva del Csm del 1958 che chiarisca i termini della decadenza in caso di pensionamento, il voto sarà politico. L'esito della votazione di oggi nella Commissione verifica titoli era scontato perché anche sulla decisione di chiedere un parere all'Avvocatura dello Stato si era verificata la stessa contrapposizione. Davigo, in quando leader di Autonomia e indipendenza, che ha spaccato Mi nel 2016 contestando la nomina di Cosimo Maria Ferri a sottosegretario alla Giustizia pur restando il padre-padrone della corrente, non può certo godere di un occhio di riguardo da parte di sue esponenti di Mi.

Avviso di sfratto a Davigo: “Non può restare al Csm”. Il Dubbio il 13 Ottobre 2020. Piercamillo Davigo non può restare togato al Csm dopo il suo pensionamento da magistrato: è la proposta che la Commissione verifica titoli, questa mattina, a maggioranza, ha deciso di presentare al plenum. Piercamillo Davigo non può restare togato al Csm dopo il suo pensionamento da magistrato: è la proposta che la Commissione verifica titoli, questa mattina, a maggioranza, ha deciso di presentare al plenum. La questione dovrà essere sciolta questa settimana, poiché Davigo compirà 70 anni – età massima per i magistrati per la permanenza in servizio – il 20 ottobre prossimo. A votare a favore di questa proposta, 2 dei 3 membri della Commissione, le togate di Magistratura Indipendente Loredana Micciché e Paola Braggion, mentre si è astenuto il laico M5s Alberto Maria Benedetti. La parola definitiva spetta quindi ora al plenum, che prenderà  la sua decisione nella riunione di domani o, al più tardi, in quella di giovedì.

Il caso Davigo. “Davigo deve andarsene”, la Commissione titoli si spacca e rimanda al plenum del Csm la decisione sulla "cacciata". Redazione su Il Riformista il 13 Ottobre 2020. La sorte di Piercamillo Davigo, ovvero se dovrà lasciare il suo ruolo di consigliere del Csm dopo che sarà andato in pensione dalla magistratura, sarà decisa da un plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura che si terrà il 19 ottobre, alla vigilia del settantesimo compleanno di Davigo, termine massimo per la permanenza in magistratura.

LA COMMISSIONE: “DAVIGO DEVE ANDARE VIA” – La Commissione verifica titoli, questa mattina, a maggioranza aveva votato a favore dell’allontanamento del togato dal Csm per il pensionamento. A votare a favore della proposta sono stati due componenti su te: contrario solamente il laico del M5S Alberto Maria Benedetti, che all’Ansa ha motivato la decisione spiegando che “la questione è complessa e merita di essere approfondita. E la complessità della questione non riguarda soltanto ragioni giuridiche ma anche ragioni diverse sul funzionamento del Csm, la messa in sicurezza dei suoi provvedimenti e della loro validità”. A favore della proposta di "cacciare" Davigo dal Csm sono arrivati i voti della presidente Loredana Miccichè e della consigliera Paola Braggion, entrambe di Magistratura Indipendente, correnti di cui Davigo è stato esponente prima di fondare il suo gruppo, Autonomia e Indipendenza. La decisione finale spetterà ovviamente al plenum di Palazzo dei marescialli, che ha convocato altre due sedute nei giorni successivi: il 20 alle 9,30 con eventuale prosecuzione pomeridiana e il 21 alle 10.

Davigo scaricato dalla commissione del Csm, ultima parola al plenum. Angela Stella su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Il consigliere Piercamillo Davigo dovrà lasciare il Csm quando, tra qualche giorno, compirà 70 anni, l’età massima per la permanenza in magistratura: è la conclusione alla quale è giunta ieri la maggioranza (2 componenti su 3) della Commissione Verifica Titoli del Csm. A favore della proposta della maggioranza hanno votato la presidente Loredana Miccichè e la consigliera Paola Braggion, entrambe di Magistratura Indipendente, la corrente di cui è stato un esponente lo stesso Davigo prima di fondare il gruppo di Autonomia e Indipendenza. Non ha espresso un voto contrario ma si è astenuto il consigliere laico del M5S Alberto Maria Benedetti: «Mi sono astenuto soprattutto perché la questione è complessa e merita di essere approfondita – dice interpellato dall’Ansa – e la complessità della questione non riguarda soltanto ragioni giuridiche ma anche ragioni diverse sul funzionamento del Csm, la messa in sicurezza dei suoi provvedimenti e della loro validità. C’è una valutazione complessiva che mi ha indotto in questa fase, quella della Commissione, a tenere un atteggiamento di astensione. Mentre in plenum naturalmente potrei anche decidere di votare in un senso o nell’altro». A propendere per la decadenza di Davigo dal Csm anche il parere reso dall’Avvocatura dello Stato su richiesta della Commissione Verifica Titoli, parere che era stato rimasto stranamente secretato per diversi giorni. È molto probabile che l’orientamento fin qui emerso venga ribaltato dal plenum di Palazzo dei Marescialli, previsto non più per oggi o domani bensì per lunedì 19 ottobre a partire dalle ore 15, proprio alla vigilia del settantesimo compleanno di Davigo. Altre due sedute di plenum sono state convocate nei due giorni successivi: il 20 alle 9,30 con eventuale prosecuzione pomeridiana e il 21 alle 10. Il giorno decisivo resta comunque il 19. La questione da sciogliere non è affatto semplice, anche dal punto di vista giuridico. L’articolo 24 della legge 195 del 1958 istitutiva del Csm stabilisce che per essere eletti consiglieri togati bisogna essere magistrati in servizio, ma il successivo articolo 37 non prevede il collocamento a riposo quale esplicita causa di decadenza di diritto dalla carica. È su questa base che Davigo sostiene di avere il diritto di restare, anche da pensionato, sino alla fine del suo quadriennale mandato. Il Consiglio di Stato tuttavia, in una sentenza del 2011, attenta ai valori e ai principi costituzionali, ha sancito che l’appartenenza alla magistratura è «condizione sempre essenziale e imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno» svolta dai consiglieri, non limitabile al solo accesso al Csm. E proprio a quella sentenza si rifà l’Avvocatura dello Stato nel parere che ha costituito la base della pronuncia della Commissione. Se l’elemento certo è dunque, finalmente, la data in cui si deciderà il destino di Davigo, ci si chiede il perché di questo slittamento. Una possibile ragione potrebbe essere che da domenica 18 a martedì 20 ottobre si terrà contemporaneamente la tre giorni per l’elezione del parlamentino dell’Associazione Nazionale Magistrati: sbaglieremmo a pensare che dunque il rinvio potrebbe essere dettato dal timore di qualcuno di perdere consenso elettorale in base alla decisione su Davigo? Non è irragionevole, anzi, ipotizzare che la scelta finale del plenum del Csm potrebbe spostare consenso da una parte o dall’altra all’interno dell’Anm, sempre che l’Anm rimanga integra, considerate le ipotesi di scissione che stanno circolando in questi giorni. Diciamolo chiaramente: c’è poca voglia di esporsi sulla questione Davigo, terreno troppo scivoloso per molti, come lo è stato il caso Palamara, archiviato per il momento alla velocità della luce. I tatticismi hanno prevalso sulla trasparenza, fatta eccezione per Magistratura Democratica che ha preso una posizione esplicita, chiara grazie all’intervento del Presidente Riccardo De Vito sulla rivista Questione Giustizia per cui «occorre essere ben avvertiti, infatti, del gravissimo pericolo che si corre nel gettare a mare la rappresentatività democratica del Consiglio superiore per sostenere la tesi della permanenza in carica di un consigliere non più appartenente all’ordine giudiziario», aggiungendo che «la decisione che il plenum dovrà assumere rappresenta un banco di prova per il governo autonomo». Posizioni pilatesche sono invece giunte da Area Democratica per la Giustizia che auspica «che il plenum del CSM possa adottare la deliberazione finale attraverso un dibattito pubblico e un voto palese affinché le ragioni del voto e delle relative posizioni siano il più possibile intellegibili e trasparenti»; e da Magistratura Indipendente che chiede «scelte tecniche e non politiche».

Il voto decisivo. Csm sputtanato da Magistratopoli, Davigo abusivo non potrà minarne oltre il prestigio compromesso. Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Ottobre 2020. Dopo il processo farsa a Palamara – con condanna preconfezionata e dibattimento azzerato – cosa resta del prestigio del Csm che, tanti tanti anni fa, fu presieduto da un giurista del valore di Vittorio Bachelet, che ha avuto nel tempo grandi personalità tra i suoi componenti, e che ora è solo la terra di pascolo delle correnti, assetate di potere, di spartizioni, di accordicchi? Non resta niente, siamo sinceri. Anche i più incalliti difensori del potere giudiziario e dell’ordine costituito lo sanno benissimo: non resta niente di quel prestigio. Il Csm, che dovrebbe governare la magistratura, controllarla, ed essere garante della sua indipendenza, in realtà è ormai nelle mani del partito dei Pm, è stato privato di ogni potere di controllo e garantisce non l’autonomia ma esattamente il contrario: la non indipendenza dei magistrati. Tutta la retorica sulla necessità di difendere l’indipendenza dei magistrati è stata fatta a brandelli dal Palamara-gate. Si è accertato che esiste un pezzo piuttosto vasto di magistratura – e cioè quello più potente, quello che accede agli incarichi di maggior prestigio e potere – che è alle dipendenze dirette del sistema della correnti e cioè del partito dei Pm. È il partito dei Pm che decide a chi assegnare i vertici delle procure e dei tribunali, che stabilisce le promozioni, le carriere, le prebende. Chiunque sia all’interno di questo sistema deve per “statuto” rinunciare alla propria indipendenza e affidarsi alla “signoria”. Chi raduna e controlla e governa le signorie? L’Anm, cioè una associazione di magistrati non prevista dalla Costituzione, dichiaratamente correntizia e che per la sua stessa struttura impedisce qualsiasi forma di indipendenza del magistrato. Una volta che il magistrato entra in questo meccanismo non è più un professionista autonomo che risponde solo alla legge, è un magistrato di Unicost, o di Magistratura indipendente, o di Area, o è un davighiano, ed è tenuto a rispondere al suo capobastone. Non è elegante scrivere capobastone? Diciamo, più propriamente, al leader della sua corrente. Va bene? Le correnti corrispondono a diverse ideologie, o aree culturali? No, nessuno conosce le differenze “ideologiche”, che trent’anni fa erano piuttosto marcate. Le correnti rispondono solo a se stesse, e – talvolta- ai partiti politici di riferimento in Parlamento. E il Csm cosa ci sta a fare? Sta lì per cementare e per guardare le spalle a questo sistema. E per garantire l’insindacabilità dei magistrati. Il concetto di indipendenza è stato sostituito interamente dal concetto di insindacabilità. Come funziona? Così: il magistrato che aderisce a questo sistema rinuncia alla propria indipendenza e mette a disposizione della corrente anche l’orientamento di alcune sentenze: in cambio ottiene impunità assoluta e una discreta quantità di potere. Tutto questo funziona da molti anni. Con magistratopoli è saltato alla luce dell’evidenza. Magistratopoli è il frutto imprevisto di un errore commesso da alcuni magistrati. Nella lotta per la conquista della Procura di Roma, nella quale erano coinvolti i pezzi più potenti del potere giudiziario, si è proceduto senza esclusione di colpi. Sono entrate in conflitto due potenze, due corazzate, come quella di Palamara e quella di Pignatone, con la corazzata esterna (quella di Travaglio e Davigo) pronta a intervenire nello scontro. La violenza della battaglia ha impedito il solito controllo della situazione. Qualcuno ha giocato troppo spavaldamente e son saltate fuori le intercettazioni che potevano radere al suolo l’intero sistema della giustizia italiana. Questo non è successo per tre ragioni: la stampa si è schierata compatta a difesa dei suoi Pm (tranne noi e un paio di altri giornali). La magistratura si è chiusa a riccio per impedire il tracollo, la politica si è “cacata sotto”. Anche qui forse sto usando una terminologia non elegante. Mi correggo: la politica si è un po’ impaurita. L’intervento a favore dei magistrati sputtanati da parte del Procuratore generale della Cassazione ha chiuso la partita. Ora diciamo la verità: in una situazione come questa conta molto se il Csm decide di violare la legge e confermare il seggio a Davigo anche se lui il 20 ottobre va in pensione e ne perde indiscutibilmente il diritto? Sarà una toga non toga abusiva a minare il prestigio di un organismo ormai del tutto sputtanato? No davvero. Mercoledì il Csm deciderà, con un voto, se salvare Davigo o dannarlo, dichiararlo decaduto e fargli perdere due anni di compensi piuttosto ricchi. Davigo ha spiegato in tutti i modi che lui a quel seggio ci tiene maledettamente. Ma perché adesso bisogna prendersela proprio con questo povero magistrato? Lasciate che mantenga la sua poltroncina e i suoi emolumenti: non farà di sicuro male a nessuno…

Il Palamara-gate e la magistratura. Davigo senza pudore: “Prima era contro le proroghe, ora è incollato alla poltrona”. Parla Antonio Leone. Paolo Comi su Il Riformista il 13 Ottobre 2020. «Nell’attuale consiliatura è successo di tutto: sei togati che si sono dimessi, stravolgimento del voto del 2018 con “ribaltone” in favore dei gruppi associativi che avevano perso le elezioni, procedimenti disciplinari a nastro – per cercare di salvare l’immagine, sempre più compromessa, della magistratura – nei confronti di Luca Palamara, ritenuto il solo ed unico responsabile di ogni malefatta». Antonio Leone, ex componente del Csm, commenta con il Riformista quanto sta accadendo a Palazzo dei Marescialli in questi ultimi mesi.

Presidente Leone, Palamara è stato espulso. Lo “scandalo nomine” è risolto?

A me pare che il Csm abbia voluto “normalizzare” quanto prima una situazione che stava creando grande imbarazzo. Ritengo che nessuno possa pensare, senza offendere la propria intelligenza, che un singolo consigliere abbia avuto un ruolo determinante nell’ambito dei processi deliberativi di un organo collegiale. Da tempo qualche magistrato ha assimilato i metodi del Csm a quelli mafiosi. Mi sembra, vista la similitudine, che anche le decisioni delle cosche mafiose vengano prese collegialmente dai capi».

“Normalizzazione” anche all’Anm?

«Certamente. È stata l’Anm a dettare la linea espellendo Palamara. Mi preme sottolineare che a favore dell’espulsione hanno votato 114 magistrati sui circa 9000 aventi diritto. Sarebbe un bell’esercizio individuare l’appartenenza dei singoli votanti alle singole correnti: non ci sarebbe nessuna sorpresa».

Torniamo al Csm. Questa settimana si decide il destino di Davigo.

«Sulla sua permanenza al Csm anche da pensionato si è arrivati a richiedere un parere all’Avvocatura dello Stato, pur essendoci a Palazzo dei Marescialli un Ufficio studi composto da valenti magistrati che ha sempre provveduto a fornire al Consiglio i pareri sulle più disparate questioni. Un parere, quello dell’Avvocatura, secretato in base a una non meglio specificata norma regolamentare e che invece abbiamo letto la scorsa settimana sui giornali. Attraverso questa evidente abdicazione si continua nella delegittimazione di un organo di autogoverno di matrice paracostituzionale. E poi ci si scandalizza se si parla della burocratizzazione del Csm con conseguente trasferimento di funzioni e competenze al Ministero della giustizia. Come lei ben sa, chi chiede i pareri all’Avvocatura sono i Ministeri».

Il dibattito su Davigo va avanti da mesi.

«Davigo si sta attaccando a insostenibili cavilli per non lasciare il Csm. Ricordo che nel 2017, da presidente dell’Anm, attaccò violentemente il governo, disertando l’inaugurazione dell’Anno giudiziario in Cassazione, per la proroga dei vertici di Piazza Cavour. Davigo descrisse tale proroga come una “ferita profonda per l’indipendenza e l’autonomia della magistratura”. E adesso, invece? Quando in Parlamento ultimamente è stata proposta la proroga dell’età pensionabile dei magistrati non ha fiatato. Quando è svanita la proroga è venuto definitivamente allo scoperto. Nessuna ferita profonda? Neppure un’abrasione superficiale?»

Crescendo si cambia idea…

«Davigo pare aver avuto in questi anni una metamorfosi: dopo aver sempre attaccato in maniera cruenta il mondo della politica, adesso è diventato un politico incallito a tutto tondo che si fa forza del personale consenso elettorale per respingere le decisioni non gradite. Supporter, anzi, ispiratore della posizione giustizialista del M5S, sta dimostrando un attaccamento senza pari alla poltrona. E come fanno i politici navigati è riuscito a ribaltare la sonora sconfitta della sua corrente alle elezioni in un successo strepitoso: A&I, beneficiando del primo ribaltone della storia del Csm, è passata da due a cinque consiglieri, considerando l’indipendente Nino Di Matteo. In barba alla volontà degli elettori».

Adesso chiede di essere nominato in Cassazione presidente aggiunto.

«Per non farsi mancare nulla ha chiesto di essere nominato “a posteriori” in un incarico per il quale aveva concorso senza successo due anni fa. E chi dovrebbe nominarlo ora? Il Csm di cui adesso fa parte. Alla faccia dei conflitti d’interesse! Se un politico avesse fatto una cosa simile sarebbe successo il finimondo. E Davigo in qualche talk show ne avrebbe chiesto, oltre le dimissioni, anche la gogna in piazza».

Alcuni giornali ed alcuni commentatori stanno spingendo molto affinché Davigo rimanga.

«In effetti su pochi quotidiani viene supportata la tesi della permanenza di Davigo al Csm. Le sembra, però, normale che qualche giorno addietro uno di questi commentatori favorevole alle aspirazioni davighiane supporti la permanenza di Davigo al Csm, e quindi alla sezione disciplinare, in costanza di una pendenza davanti la sezione disciplinare stessa del di lui figlio condannato in primo, secondo e terzo grado? Dove è finita la tesi davighiana sulla presunta colpevolezza dei politici che se assolti lo sono non perché innocenti ma perché non si è raggiunta la prova? Perché un magistrato condannato penalmente in primo, secondo e terzo grado rimane ancora a fare il magistrato? La credibilità ormai si erode giorno dopo giorno».

Si riferisce ai magistrati con condanne penali?

«Sì. Ci sono magistrati che pur condannati penalmente (non disciplinarmente) hanno continuato e continuano a esercitare le funzioni requirenti o giudicanti. Potrei farne di esempi anche in relazione ai tempi di conclusione dei procedimenti disciplinari sospesi per le pendenze di natura penale».

L’espulsione di Palamara non ha cambiato molto, mi pare di capire.

«No! È cambiato proprio tutto al Csm: tutte le nomine sono state fatte all’unanimità privilegiando il merito e non ci sono più stati ricorsi al giudice amministrativo (sorride)».

«Noi penalisti i primi ad aprire il caso Davigo: ancora si discute?». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 14 Ottobre 2020. Intervista a Giorgio Varano, responsabile Comunicazione dell’Unione Camere penali. «Francesco Cossiga mandò i carabinieri al Csm. Sergio Mattarella chi manderà? Gli ispettori dell’Inps?». L’avvocato Giorgio Varano, responsabile Comunicazione dell’Unione Camere penali, esordisce con una battuta sul “caso Davigo”. L’ex pm di Mani pulite, consigliere del Csm dal settembre 2018 e leader della corrente “Autonomia e indipendenza”, il prossimo 20 ottobre compirà 70 anni, età massima per il trattenimento in servizio dei magistrati. Dal giorno successivo, per legge, deve essere collocato a riposo. Alcuni commentatori, però, hanno affermato che Davigo possa rimanere al Csm anche da pensionato.

Avvocato Varano, l’Unione Camere penali aveva affrontato il caso mesi fa: eravate stati i primi?

«Sì. Prima che il “caso Davigo” esplodesse sui giornali, lo scorso aprile su “Diritto di difesa”, la rivista delle Camere penali, con il collega Rinaldo Romanelli si è discusso del tema del consigliere togato che andava in pensione durante la consiliatura del Csm».

Con quali conclusioni?

«Molto semplici. L’esercizio delle funzioni giudiziarie è da considerarsi requisito indispensabile per la permanenza nella carica del componente togato del Csm».

I fautori della permanenza di Davigo sostengono, invece, che il mandato di consigliere debba comunque durare quattro anni.

«Ma non significa nulla. Ricordo che esiste una sentenza molta chiara, sul punto, del Consiglio di Stato».

La legge, aggiungono sempre i “pro- permanenza”, non è mai intervenuta a chiarire la questione.

«Le legge non è intervenuta per il semplice fatto che è fin troppo evidente che un magistrato pensionato non possa rimanere al Csm.

E poi c’è la questione del “disciplinare”…

«Il magistrato pensionato sarebbe immune».

Faccio io un esempio: se i cinque consiglieri del Csm, poi dimessisi, che a maggio del 2019 incontrarono Luca Palamara e Cosimo Ferri all’hotel Champagne fossero poco dopo andati in pensione, cosa sarebbe successo?

«Probabilmente nulla».

Perché dimettersi? Per timore di un procedimento disciplinare che non poteva essere aperto?

«Infatti».

Ma perché, allora, tutte queste discussioni?

«Il “caso Davigo” è indicativo della concezione che ha il Csm della propria funzione, ed è estremamente più grave del caso Palamara».

Addirittura?

«È tutto molto chiaro e non bisogna girarci tanto intorno. Il “caso Davigo” nasce perché se va via c’è un cambiamento dei rapporti di forza al Csm. Adesso c’è una maggioranza che si regge sull’alleanza fra la corrente di Davigo e il cartello progressista Area. Se esce Davigo entra Carmelo Celentano, un magistrato di Unicost. E se dovesse entrare anche Pasquale Grasso, toga di Magistratura indipendente, al posto del dimissionario Marco Mancinetti, gli equilibri cambierebbero».

Insomma, quando si parla di magistrati al Csm ci sono sempre di mezzo le correnti.

«Cos’è il Csm? Devono dircelo loro. È un luogo dove le correnti hanno una propria rappresentanza, e che non si può toccare, o è l’organo di governo autonomo della magistratura, le cui decisioni incidono sul funzionamento del sistema giustizia?Ripeto, mi pare incredibile che si perdano giornate intere, la prossima settimana sono in programma tre plenum, per decidere se un magistrato pensionato possa rimanere al Csm. Con tutto quello che sta accadendo in Italia e nella magistratura».

Sulla permanenza di Davigo è stato chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato.

«Su questa vicenda vorrei fare un riflessione».

Prego.

«Il Csm dicono sia una “casa di vetro”, dove tutto è trasparente. A maggior ragione dopo i fatti dell’hotel Champagne. Qui di trasparente c’è ben poco».

Si riferisce al segreto imposto sul parere?

«Mi scusi, ma il parere dell’Avvocatura è il Segreto di Fatima? Se non è il Segreto di Fatima avrebbe dovuto essere immediatamente pubblicato sul sito del Csm. È un tema d’interesse pubblico, come tutto ciò che incide sull’amministrazione della giustizia».

A proposito di amministrazione della giustizia: sul blocca- prescrizione, governo e Parlamento non sembrano disposti a fare marcia indietro.

«Guardi, su questo argomento penso sia necessario tornare a quando venne approvata la norma sulla prescrizione entrata in vigore a gennaio: si precisò che un’immediatamente successiva Riforma della giustizia avrebbe velocizzato i tempi dei processi. Stiamo aspettando questa Riforma acceleratoria da un anno e mezzo».

Qual è la situazione nei tribunali?

«Il carico dei processi non solo non si è risolto ma è stato enormemente aggravato dal Covid. In questi mesi di lockdown ci sono stati decine di migliaia di processi rinviati. Processi che dovranno essere affrontati e che sono andati ad incidere su ruoli già ingolfati».

E come se ne esce?

«Serve una riflessione organica. Ora tutto è affidato alle singole Procure. Sono i procuratori a decidere quali processi portare avanti e quali no».

Si riferisce ai criteri di “priorità”?

«Esatto: una scelta di necessità, visto il carico, ma anche una scelta politica».

Che dovrebbe fare il governo?

«Deve decidere chi viene eletto, non un pubblico funzionario nominato dal Csm e poi magari, dopo un anno, rimosso dal Tar. Col rischio che chi arriva al suo posto cambi tutto».

Liana Milella per repubblica.it il 15 ottobre 2020. Davigo in bilico al Csm? Da ieri questo file ha assunto consistenza. Dopo giorni in cui il voto a suo favore, e per la sua permanenza in Consiglio nonostante il suo ingresso in pensione dal 20 ottobre, sembrava del tutto maggioritario. Invece ecco materializzarsi, nel giro di 12 ore, insistenti e avverse voci di corridoio: sostengono che contro di Davigo starebbero per schierarsi i vertici della Cassazione, che di diritto fanno parte del Csm. Parliamo del primo presidente Pietro Curzio, fresco di nomina, e del procuratore generale Giovanni Salvi. Per una coincidenza, entrambi con un solido passato dentro Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe. Che sulla sua rivista Questione giustizia ha visto, appena lunedì, una dura presa di posizione contro Davigo del presidente stesso di Md, il giudice di sorveglianza Riccardo De Vito (la toga del caso Zagaria), che  parla della sua permanenza in Consiglio come di “un gravissimo pericolo”. La coincidenza è malandrina: detto fatto diventa sempre più forte il tam tam sul fatto che Curzio e Salvi vedano dei rischi per la vita del Csm qualora Davigo dovesse restare in consiglio. Non solo: trapelano anche con insistenza le voci di un vice presidente del Csm David Ermini, di professione avvocato, in allarme per un Davigo confermato consigliere togato e componente della sezione disciplinare, con il rischio - secondo i giudizi attribuiti ad Ermini - che le decisioni disciplinari possano essere impugnate per il voto di un componente nella veste ormai di ex magistrato. Ma chi descrive questo scenario e i suoi protagonisti sostiene anche che preoccupazioni e titubanze sul caso Davigo espresse dal comitato di presidenza - Ermini, Curzio e Salvi - potrebbero giungere direttamente dal Qurinale, visto che Sergio Mattarella è anche il presidente del Csm. Un’indiscrezione, quest’ultima, che però non trova assolutamente alcuna conferma sul Colle.

Bocciatura anche per il titolo di presidente aggiunto. Ma non basta. Perché Davigo subisce anche un’altra sconfitta. Il plenum - tutti a favore, astenuti Stefano Cavanna (laico indicato dalla Lega), Fulvio Gigliotti (laico M5S), Giuseppe Marra e Ilaria Pepe della stessa corrente dell’ex pm e presidente dell’Anm nel 2016-2017 - boccia la sua richiesta di acquisire il titolo di presidente aggiunto della Cassazione, che gli era stato negato preferendogli Mimmo Carcano, ma che invece il Consiglio di Stato gli ha riconosciuto. Oggi quel posto, sostengono i colleghi, è ormai attribuito a Margherita Cassano. Quindi Davigo non ottiene il risarcimento da perdita di chance, né tantomeno l'attribuzione del titolo ai fini retributivi. Tuttavia lo stesso plenum ha riconosciuto che, in quella competizione, Davigo aveva più titoli del collega Carcano. Ma tant’è, ormai Davigo, per eventuali indennizzi, potrebbe doversi rivolgere al ministero della Giustizia.

Sulla permanenza si voterà il 19 ottobre. È un fatto che, da ieri, il caso Davigo ha cambiato corso. Si complica. Supera la vicenda singola e impatta sull’intera istituzione già fortemente provata dal caso Palamara. Innanzitutto si allungano i tempi. La giornata decisiva con il voto in plenum avrebbe dovuto essere quella di oggi. Invece se ne parlerà addirittura lunedì prossimo, il 19 ottobre, giusto il giorno prima del compleanno di Davigo.

Di più: non solo il consenso di togati e laici - 25 anziché 26 perché c’è un impasse pure sulla sostituzione del dimissionario Marco Mancinetti (Unicost), coinvolto anche lui nella vicenda Palamara - è convocato per le 15 di lunedì, ma è prevista una convocazione anche per martedì. Quindi si prevede una discussione lunga. Che potrebbe anche concludersi con un voto segreto. Che certo non gioverebbe a Davigo, da sempre considerato un “cattivo”, un “giudice populista”, un “grillino”. Di recente il suo asse con la sinistra di Area gli ha visto vincere al Csm molte battaglie, ma le sue numerose performance in tv hanno suscitato scontate gelosie. In una parola, il giudice anti-correnti - famosa la sua battuta “uno a me, uno a te, uno a lui” che ha anticipato il caso Palamara - verrebbe battuto proprio dalle correnti.

I possibili schieramenti. Come stanno messi i voti? Area è con lui, 5 voti perché resti al Csm. Tre dei suoi ovviamente votano per lui, compreso Sebastiano Ardita. Lui, Davigo, non voterà per se stesso. No news su che farà Nino Di Matteo. I soliti maligni dicono che se il voto è palese starà con Davigo, nel segreto dell’urna non si sa. Ma questo che riportano è un brutto pettegolezzo. Ancora per Davigo due dei tre laici indicati da M5S - Fulvio Gigliotti e Alberto Maria Benedetti - mentre Filippo Donati avrebbe delle perplessità. Siamo a dieci voti a favore. Il fronte contrario è composto da Magistratura indipendente con tre voti, da Unicost con due, dai due laici di Forza Italia Cerabona e Lanzi. Non pervenuta la posizione dei due leghisti Basile e Cavanna. Potrebbero astenersi. Però non è detto. Ma a questo punto è evidente che la posizione dei due vertici della Cassazione può fare la differenza. E non è affatto detto che Ermini voti. Il gioco delle astensioni potrebbe giocare a favore di Davigo, ma c’è già chi sostiene che se Curzio e Salvi dovessero parlare contro Davigo questa verrebbe comunque interpretata come un’indiretta presa di posizione del Colle. Una sorta di indicazione di voto cui attenersi. Ma che, al momento, resta solo un’ipotesi. Chiaramente anti Davigo. Per il quale, in verità, la giornata di ieri non è stata affatto favorevole. A partire dal voto nella Commissione per la verifica dei titoli, composta solo da tre componenti, le due consigliere di Magistratura indipendente Loredana Micciché e Paola Maria Braggion, e il laico Alberto Maria Benedetti. Le prime due hanno votato contro la permanenza di Davigo, Benedetti si è astenuto. Esattamente lo stesso esito del voto quando la Commissione - Miccichè e Braggion contro Benedetti - ha deciso di chiedere un parere all’Avvocatura dello Stato. Che ne ha prodotto uno di tre pagine, controfirmato dall’avvocato generale Gabriella Palmieri Sandulli, cioè dal capo della stessa Avvocatura, che boccia la permanenza di Davigo partendo da una sentenza del Consiglio di Stato del 2011 che, in un passaggio, dà per “scontato” il fatto che un magistrato in pensione non possa restare al Csm.

Lo scontro sulle conseguenza della pensione. In realtà, come dimostra il dibattito in corso da fine luglio, dopo un articolo su Questione Giustizia del suo direttore Nello Rossi che è contro la permanenza di Davigo, la questione non è affatto così scontata. Certo è semmai che, secondo alcune interpretazioni di componenti del Csm, dopo questo parere, l’Avvocatura non potrebbe più difendere il Csm in un’eventuale controversia avendo anticipato il suo giudizio. Ma in realtà, proprio in quanto Avvocato dello Stato, e per la natura del quesito che gli è stato posto - la situazione legislativa sul pensionamento di un componente del Csm - non è affatto detto che la stessa Avvocatura possa scendere di nuovo in campo qualora il perdente - Davigo o chi dovrebbe subentrargli, e cioè Carmelo Celentano di Unicost - dovesse fare ricorso. Sul fronte anti Davigo, dopo Rossi, si sono espressi Giovanni Maria Flick, Armando Spataro, Riccardo De Vito, mentre pro Davigo, con motivazioni del tutto opposte, ecco la costituzionalista Maria Agostina Cabiddu. Repubblica, in più articoli, ha dato minuziosamente conto di una questione sulla quale non esiste un preciso articolo di legge, ma solo, come puntello contro Davigo, un casuale passaggio in una sentenza del Consiglio di Stato. Un fatto è certo, al momento della candidatura di Davigo e della verifica dei suoi titoli nessuno ha eccepito che avrebbe compiuto gli anni e quindi sarebbe entrato in pensione a metà del suo mandato. Per la semplice ragione che questa non è prevista come una causa di decadenza, come un’azione disciplinare o la commissione di un reato.

La coincidenza con le elezioni per l’Anm. Ma non è su questo che si voterà. Sui tecnicismi. Con una Costituzione dov’è scritto che la durata del Csm, e quindi dei suoi consiglieri, è di 4 anni. Per giunta si voterà nel bel mezzo delle votazioni - da domenica 18 a martedì 20 -  per il rinnovo dell’Anm, il sindacato dei giudici. E forse questa coincidenza al Csm avrebbero potuto evitarla. Tant’è che la voce delle correnti sul caso Davigo si fa sempre più forte. Md dichiaratamente contro, con una polemica all’interno di Area, il cartello elettorale che vede assieme Md e il Movimento per la giustizia, il gruppo di Spataro. Mi contro Davigo, visto che proprio lui nel 2016 ha spaccato la corrente in polemica con la leadership di Cosimo Maria Ferri, divenuto sottosegretario alla Giustizia, rimasto potente factotum tant’è che da via Arenula inviava sms con le indicazioni di voto proprio per i togati del Csm. È un fatto che due esponenti di Mi, Micciché e Braggion, abbiano fatto parte della Commissione per la verifica dei titoli. Come è un fatto che al Csm Mi si stia battendo per far entrare Pasquale Grasso, ex presidente dell’Anm che ha dovuto dimettersi per le polemiche sul caso Palamara, primo dei non eletti certo, ma alle suppletive del 2019, e non nelle elezioni principali del 2018. Ugualmente anche Unicost ha un suo interesse contro Davigo: decimata dal caso Palamara (tre consiglieri dimissionari, Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Marco Mancinetti), e ridotta da cinque a due consiglieri, vedrebbe entrare al posto di Davigo uno dei suoi, Carmelo Celentano. Che certo presenterebbe un ricorso se Davigo invece ottenesse i voti per restare. Sono i ricorsi che teme Ermini. Ricorsi che vengono paventati anche su qualsiasi atto futuro del Csm, ma che potrebbero essere possibili solo nel caso in cui il voto di Davigo dovesse essere determinante. Quanto alla disciplinare Davigo ha già dato la sua piena disponibilità a lasciarla.

Ricorso di Davigo su presidenza di Cassazione bocciato, il Csm: “Non si può, troppo tardi”. Redazione su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. Rimandata a lunedì prossimo la decisione del plenum del Csm sul collocamento a riposo di Piercamillo Davigo. E’ stato rinviato, come già accaduto la settimana scorsa, il voto sulla pratica riguardante il pensionamento del magistrato che il prossimo 20 ottobre compirà 70 anni. Lunedì all’ordine del giorno ci sarà anche la delibera votata a maggioranza dalla Commissione verifica titoli, secondo la quale il togato deve lasciare, in conseguenza del suo pensionamento, anche l’incarico a Palazzo dei Marescialli. Nonostante sembrasse cosa fatta il voto in favore di una sua permanenza in Consiglio a dispetto del fatto che dal 20 ottobre non sarà più un magistrato attivo, insistentemente sta circolando la voce che contro questa inusuale scelta siano pronti ad esprimersi i vertici della Cassazione che del Csm fanno parte. È stato peraltro deciso che Davigo aveva sì un maggior numero di requisiti del suo rivale Domenico Carcano per la nomina a vice presidente aggiunto della Cassazione, ma essendo quel ruolo ormai legittimamente occupato (da luglio) da Margherita Cassano, ed essendo la data del pensionamento di Davigo vicinissima, manca il tempo per realizzare il suo desiderio. L’aspirazione è riconosciuta legittima e fondata, ma null’altro. Premio di consolazione: verrà inserita nel suo dossier la sentenza del Consiglio di Stato che lo ha dichiarato “vincitore del contenzioso per la nomina di presidente aggiunto” della Suprema Corte. La delibera di Palazzo dei Marescialli è stata presa a maggioranza, con quattro astensioni. Si sono astenuti Stefano Cavanna (laico considerato in quota Lega), Fulvio Gigliotti (laico considerato in quota Cinque stelle), Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, magistrati della stessa corrente dell’ex pm milanese. Non gli sarà attribuito il titolo di presidente aggiunto della Cassazione, né gli sono stati riconosciuti al momento incrementi retributivi o emolumenti sotto forma di risarcimento. Nella delibera approvata, il Csm osserva che “la sentenza da eseguire ha annullato la delibera del Csm per l’insufficienza della motivazione delle ragioni della prevalenza del dottor Carcano sul dottor Davigo” e che “alla stregua degli elementi in essa presi in considerazione, non si ravvisano ragionevoli spazi per una nuova valutazione di prevalenza del dottor Carcano, non essendo superabile il rilievo relativo all’assenza nel suo profilo dell’indicatore della partecipazione alle Sezioni Unite, presente invece in quello del dottor Davigo”. L’esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, è stato stabilito “non può avere quale oggetto l’attribuzione al dottor Davigo della qualifica e delle funzioni di presidente aggiunto della Corte di Cassazione ora per allora essendo stato il posto coperto all’esito di un legittimo concorso”. Si nota poi che anche il dottor Davigo è ormai prossimo alla pensione, così come lo era il dottor Carcano al momento della pronuncia del Consiglio di Stato. Per queste ragioni, in esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, si legge ancora nella delibera, “deve essere prestata acquiescenza al giudicato amministrativo tout court e deve conseguentemente essere dichiarato il non luogo a provvedere rispetto all’istanza del dottor Davigo di conferimento dell’incarico di presidente aggiunto della Corte di Cassazione con ogni effetto di legge o, in subordine, di riconoscimento del titolo di presidente aggiunto della Corte di Cassazione. Nessuna decisione – conclude il Csm – deve infine essere adottata in relazione all’attribuzione dei relativi incrementi retributivi, nonché degli ulteriori emolumenti accessori, anche sotto forma di risarcimento dei danno per perdita di chance, a far data dal 21/2/18, non essendo oggetto del presente procedimento di esecuzione della sentenza”.

Ora tra Davigo e il Csm è guerra permanente. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 16 dicembre 2020. L’ex togato non demorde: ricorso al Consiglio di Stato contro la decadenza sancita dal plenum dopo quello dichiarato inammissibile dal Tar del Lazio. Piercamillo Davigo non demorde e reclama il proprio posto al Csm. Dopo che il Tar del Lazio, lo scorso 11 novembre, ha declinato la propria competenza in favore del giudice ordinario, e ha conseguentemente dichiarato inammissibile il suo ricorso, l’ex pm di Mani pulite ha deciso di rivolgersi al Consiglio di Stato. Già oggi dovrebbe rispondergli il plenum del Csm, chiamato a deliberare la costituzione in giudizio contro l’ex consigliere. La storia è nota. Davigo a ottobre aveva compiuto settant’anni, età massima per il trattenimento in servizio dei magistrati, ed era stato dichiarato decaduto dalla carica di consigliere del Csm. Un provvedimento erroneo per il magistrato fondatore di Autonomia & indipendenza in quanto il mandato di consigliere, avendo durata quadriennale, sarebbe sganciato dall’età anagrafica. L’appello è del 26 novembre. Dal plenum di oggi dovrebbe arrivare il mandato all’Avvocatura dello Stato per resistere contro Davigo. La tesi dell’ex togato punta inizialmente a dimostrare l’erroneità della motivazione con la quale i giudici del Tar hanno declinato la loro giurisdizione. Poi, chiedendo il cautelare, evidenzia «la non risarcibilità, per equivalente, del pregiudizio derivante dall’illegittima cessazione dell’incarico» e la circostanza che è stata convalidata l’elezione del consigliere subentrante Carmelo Celentano. Davigo osserva inoltre che, stante la durata quadriennale dell’incarico, decorrente dal 2018, la decisione sul merito, visti i tempi della giustizia, giungerebbe «verosimilmente in prossimità o addirittura dopo la conclusione della consiliatura, troppo tardi perché egli possa essere reintegrato nelle sue funzioni», con la conseguenza di non poter «mai ottenere il bene della vita illegittimamente sottrattogli con la deliberazione impugnata». Come ribadito dall’Avvocatura dello Stato, l’eventuale presenza nell’organo consiliare di componenti estranei all’ordine giudiziario e non eletti dal Parlamento vulnera l’equilibrio voluto dal Costituente, comportando un’alterazione della proporzione tra componente togata e laica. E tale effetto verrebbe sicuramente a determinarsi qualora fosse consentito al consigliere posto in pensione nel corso della consiliatura ( o dimessosi) di proseguire il mandato. Il pensionamento ( come le dimissioni) determina, secondo la tesi opposta dal Csm a Davigo, la cessazione dall’appartenenza all’ordine giudiziario, con la conseguenza che il consigliere perde la qualità di membro togato e, non potendo essere incluso nella categoria dei componenti laici, in quanto non eletto dal Parlamento, verrebbe a configurare un “tertium genus” non esistente nel sistema e, quindi, inammissibile. Questo aspetto fu oggetto di discussione durante l’Assemblea costituente. L’ipotesi di consentire ai magistrati collocati a riposo una partecipazione all’attività consiliare fu, infatti, espressamente esaminata con varie tesi. Nel dibattito sulla composizione del Csm venne avanzata la proposta di prevedere che il presidente dell’organo fosse coadiuvato da due vicepresidenti, nelle persone del procuratore generale della Cassazione e di un magistrato collocato a riposo col titolo onorifico di primo presidente di Cassazione eletto dai magistrati o di includere i magistrati in pensione tra i componenti laici. Tale proposta fu però abbandonata, e nel prosieguo del dibattito si arrivò all’adozione del testo attuale. Portando alle estreme conseguenze la tesi di Davigo del diritto a conservare la carica dopo la fuoriuscita dall’ordine giudiziario, si dovrebbe ammettere che, qualora dopo le elezioni per il Csm, tutti i togati si dimettessero o fossero collocati a riposo ( si pensi a un’adesione in massa a “quota 100”), il Consiglio possa continuare a svolgere le proprie attività avendo come unici componenti togati il primo presidente e il procuratore generale. Se, invece, il Consiglio di Stato dovesse sposare la tesi di Davigo, la prima conseguenza si avrebbe sulla Sezione disciplinare, invalidando le attività svolte in queste settimane da Celentano che, come detto, ha sostituito il magistrato milanese.

Tenuto fuori dal Csm il giudice che voterebbe contro Davigo. Il Dubbio il 16 ottobre 2020. La conta dei voti per la permanenza di Davigo è sul filo. Determinante sarà l voto dei capi di Corte, il primo presidente Curzio e il pg Salvi. Non è stato sufficiente un mese al Csm per decidere se Pasquale Grasso, giudice del Tribunale di Genova ed ex presidente dell’Anm, debba subentrare o meno al posto del collega romano Marco Mancinetti, dimessosi da Palazzo dei Marescialli all’inizio dello scorso settembre. Mancinetti, esponente di Unicost, la corrente di centro delle toghe, era finito nelle ormai famose chat di Luca Palamara. La lettura di tali messaggi, contenenti pesanti giudizi su alcuni magistrati della Capitale, aveva determinato l’immediata apertura di un procedimento disciplinare nei suoi confronti da parte del pg della Cassazione Giovanni Salvi. Grasso era il stato il primo dei non eletti alle elezioni suppletive per la categoria dei giudicanti tenutesi a dicembre del 2019. Ma una interpretazione “bizantina” renderebbe incerta la sua nomina a consigliere superiore. Secondo una lettura formalistica delle norme, Grasso, non avendo partecipato alle iniziali elezioni per il rinnovo del Csm, quelle del 2018, non sarebbe legittimato a subentrare a Mancinetti. Sul punto va, però, ricordato che la legge istitutiva del Csm prevede la sostituzione dei consiglieri dimissionari entro trenta giorni. Termine solo ordinatorio e di incerta interpretazione. Il countdown, in questo caso, quando inizierebbe? Dalle dimissioni di Mancinetti o dal diniego della Commissione verifica titoli, deputata ad accertare il possesso dei requisiti da parte dei futuri componenti del Csm? La “sostituzione” di Mancinetti è un tema sparito dai radar dell’informazione ma di vitale importanza per il funzionamento del Csm. La prossima settimana, infatti, si deve decidere se Piercamillo Davigo, una volta andato in pensione per raggiunti limiti di età ( il 20 ottobre l’ex pm di Mani pulite compirà settant’anni), possa rimanere lo stesso al Csm. Magistratura indipendente, la corrente di Grasso, ha già fatto sapere che Davigo deve andare via. Dello stesso avviso l’Avvocatura dello Stato, con un parere firmato direttamente dall’Avvocato generale Gabriella Palmieri Sandulli e subito secretato dal vicepresidente David Ermini. La conta dei voti per la permanenza di Davigo è sul filo. Determinante sarà, in assenza di Grasso, il voto dei capi di Corte, il primo presidente Curzio e il pg Salvi, e dello stesso Ermini. A favore della permanenza di Davigo è schierato il gruppo di Area. La corrente progressista delle toghe, per evitare “sorprese”, ha chiesto che il voto avvenga in modo palese e non, come previsto per i casi di decadenza, a scrutinio segreto. Non sono infatti da escludere colpi di scena nel segreto dell’urna dell’Aula Bachelet da parte di appartenenti alla corrente di Autonomia e indipendenza, fondata dallo stesso ex pm del Pool ma non più in assoluta sintonia con il leader.

Fa comunque riflettere, come ricordato dall’Unione Camere penali e da molti giuristi, che l’attività del Csm, in un momento estremamente delicato, con la ripresa dei contagi e la necessità di aggiornare le linee guida per garantire lo svolgimento dell’attività giudiziaria nei Tribunali, sia assorbita ormai da giorni nel dilemma relativo alla permanenza in Consiglio di un magistrato in quiescenza.

La discussione sulla permanenza di Davigo era prevista per il plenum dell’altro ieri, poi il rinvio a lunedì prossimo. È stato modificato il calendario dei lavori: a piazza Indipendenza non erano in programma attività la prossima settimana. Il motivo degli “straordinari”? I maligni fanno notare che questo fine settimana sono in calendario le elezioni per il rinnovo dell’Anm, e la corrente di Davigo arriva da una recente tornata elettorale, quella per i Consigli giudiziari, non proprio esaltante. Espulso Palamara, le correnti della magistratura, sembra insomma di capire, hanno ripreso il pieno controllo delle attività consiliari.

Straziante appello dei davighiani: “Toglieteci tutto ma non Piercamillo!” Paolo Comi su Il Riformista il 18 Ottobre 2020. Toglieteci tutto ma non Piercamillo Davigo! Mutuando la celebre pubblicità di una marca di orologi, i davighiani, alla vigilia del voto di lunedì che dovrà decidere sulla permanenza o meno del loro capo al Csm anche da pensionato, hanno lanciato in queste ore l’ultimo appello a tutti i consiglieri di Palazzo dei Marescialli. La presenza di Davigo al Csm è «una fortuna per la magistratura e per la collettività», si legge nel comunicato del coordinamento di Autonomia&indipendenza, la corrente fondata nel 2016 dall’ex pm di Mani pulite. «Il percorso professionale di Davigo è ben noto, e si identifica con comportamenti irreprensibili e con il fermo contrasto ad ogni forma di illegalità e di scostamento dalle regole sia quando ha svolto funzioni giurisdizionali sia nel passato più recente quale componente del Csm», sottolineano i davighiani, terrorizzati di rimanere orfani dalla prossima settimana del loro insostituibile mentore. Martedì prossimo, infatti, Davigo compirà settant’anni e, per la legge, dovrà essere collocato a riposo. I recenti tentativi di allungare di due anni l’età massima per il trattenimento in servizio, svelati dal Riformista, sono tutti miseramente falliti. La prospettiva di Davigo fuori dal Csm pare angosciare terribilmente i davighiani i quali hanno rispolverato ancora una volta il mantra della durata quadriennale del mandato per i componenti del Csm. Un escamotage per giustificare la permanenza, anche da pensionato, di Davigo a piazza Indipendenza. Questa narrazione, come ricordato anche dall’Avvocatura dello Stato, non sta assolutamente in piedi. Via dei Portoghesi, su richiesta della Commissione verifica titoli del Csm, ha inviato nei giorni scorsi un parere a proposito della possibile permanenza di Davigo una volta in pensione. Il parere, firmato direttamente dall’Avvocato generale dello Stato Gabriella Palmieri Sandulli, aveva stroncato le residue speranze dei davighiani. Il parere «doveva rimanere riservato, come atto interno non ostensibile, e invece il suo contenuto è finito sulla stampa». Un “modo di procedere” di cui A&i ha evidenziato la “singolarità”. Singolare, a detta di tutti, è che un parere pubblico sia stato secretato dal vice presidente del Csm e non reso immediatamente conoscibile. I davighiani, poi, hanno colto l’occasione per ricordare l’ingiustizia patita dal loro capo due anni fa. «Pochi mesi addietro il Consiglio di Stato ha annullato una delibera del Csm che, nel 2018, aveva negato a Davigo la nomina a primo presidente aggiunto della Cassazione. Quella delibera illegittima era stata votata da 18 componenti contro un unico voto a favore di Davigo ed aveva completamente ignorato i suoi maggiori titoli», puntualizzano i davighiani, prima di terminare il loro grido di dolore con l’appello al Csm affinchè consenta ad «un magistrato che ha dato lustro alla giustizia di completare il compito per il quale migliaia di altri magistrati lo hanno eletto, garantendo l’autonomia e indipendenza del potere giudiziario». Giustificazione, quella del consenso popolare, molto berlusconiana. Il Cav degli anni ruggenti del berlusconismo non perdeva occasione per ricordare i milioni di italiani che lo avevano votato, motivo per cui non poteva essere messo in discussione da alcuno. Lunedì pomeriggio, dunque, il voto in Plenum. A favore di Davigo si è già schierato il gruppo di Area, alleato di ferro dei davighiani al Csm. Una inversione ad “U” dal momento che a maggio del 2018 Giuseppe Cascini, capo delegazione delle toghe di sinistra, protestava con Palamara per l’eccessiva presenza in televisione di Davigo. Cascini, per arginare l’assedio mediatico di Davigo aveva anche chiesto all’allora zar delle nomine al Csm di intervenire con “Enrico Mentana”. Area, per evitare colpi di mano, chiederà il voto palese, ribaltando la norma che prevede il voto segreto in caso di decadenza di un componente del Csm. Al voto la compagine togata parteciperà con un componente in meno. Il posto del giudice Marco Mancinetti, dimessosi oltre un mese fa, è ancora vacante. Il Csm sta “frenando” il subentro di Pasquale Grasso, primo dei non eletti ed esponente della destra giudiziaria, contraria alla permanenza di Davigo. Lungo week end elettorale, infine, per le toghe. Da domenica a martedì si voterà per il rinnovo dell’Anm. Sono le prime elezioni dopo il Palamaragate.

Il Csm decide su Davigo, un paradosso giuridico minaccia l’ex pm del Pool. Errico Novi su Il Dubbio il 18 ottobre 2020. Si annuncia drammatica la discussione sulla permanenza del consigliere, che martedì compie 70 anni e si congeda dal servizio in magistratura: nel parere sollecitato da Palazzo dei Marescialli, l’Avvocatura dello Stato ha sostenuto che la decadenza di Davigo è inevitabile. Ma se il plenum votasse per la permanenza, la stessa Avvocatura sarebbe costretta a contraddirsi per difendere l’organo di autogoverno nell’eventuale ricorso del primo dei non eletti…Il paradosso è ormai noto e complica la partita di Piercamillo Davigo, che chiede al plenum del Csm di lasciarlo in carica: il paradosso è che la stesa Avvocatura dello Stato, autrice di un parere richiesto da Palazzo dei Marescialli e tutto sbilanciato per la decadenza del consigliere, potrebbe trovarsi a dover smentire se stessa in un futuro ricorso al Tar, qualora l’ex pm di Mani pulite restasse in carica. Nell’ipotesi in cui il Csm oggi, o al più tardi martedì, decida per la permanenza di Davigo, l’Avvocatura dello Stato potrebbe poi essere chiamata a difendere il Csm nel ricorso eventualmente proposto da parte del magistrato che altrimenti sarebbe subentrato all’ex pm del Pool, il giudice di Cassazione Carmelo Celentano. In un’eventuale causa dinanzi al Tar del Lazio, cioè, la stessa Avvocatura che, interpellata dalla Commissione verifica titoli del Csm, ha appena sostenuto per iscritto la necessità dell’uscita di Davigo, dovrebbe per forza di cose contraddirsi e difendere in  giudizio il Consiglio superiore contro l’eventuale ricorso di Celentano, fino a sostenere la legittima permanenza in carica del togato. Nonostante il quadro politico per Davigo non fosse, inizialmente, sfavorevole, proprio tale cortocircuito istituzionale ha nelle ultime ore intaccato le chances dell’ex pm di Milano. Si vedrà domani, quando inizierà la discussione e forse si arriverà al voto. Non è escluso che la drammaticità della questione allunghi il dibattito fino al giorno dopo. Il calendario fissato dal vicepresidente del Csm David Ermini prevede infatti il possibile proseguimento del plenum su Davigo fino a martedì. Giorno in cui si chiuderanno oltretutto le urne telematiche dell’Anm, aperte da oggi, e che coinciderà anche col settantesimo compleanno per l’ex inquirente di Mani pulite. Poteva essere un dilemma giuridicamente intrigante ma non tanto decisivo politicamente. Invece la tensione c’è ed è giustificata da almeno due aspetti. Innanzitutto, siamo ancora in pieno “caso Procure”. La vicenda cosiddetta “Palamara” tiene ancora nell’angolo l’intera magistratura, nonostante il tentativo compiuto dallo stesso Csm di liberarsi dell’imbarazzo con la radiazione lampo dello stesso Palamara. Come insistono a ricordare i magistrati di Autonomia e indipendenza, la corrente fondata dallo stesso Davigo, il percorso professionale dell’ex pm di Mani pulite «è ben noto, e si identifica con comportamenti irreprensibili e con il fermo contrasto ad ogni forma di illegalità e di scostamento dalle regole sia quando ha svolto funzioni giurisdizionali sia nel passato più recente quale componente del Csm». Anche se poi la nota diffusa venerdì scorso dal coordinamento di “Aei” sostiene che le motivazioni a sostegno di una permanenza di Davigo a Palazzo dei Marescialli sono «tecnico-giuridiche, e non certo di opportunità men che meno politica». L’altro motivo di tensione è la ricordata coincidenza fra la decisione su Davigo e il voto per l’Anm, in corso da stamattina e programmato fino a martedì. Le correnti favorevoli alla decadenza, come Magistratura indipendente, ricaverebbero un ritorno di immagine, tra i magistrati elettori, in caso di decisione del plenum contrario a Davigo. Discorso simmetrico per chi, come la corrente progressista di “Area”, propende per la permanenza: ricaverebbe qualche vantaggio elettorale da una delibera del Csm favorevole al togato. Immagine della magistratura, immagine delle correnti, prestigio e peso dell’interessato. Aspetti che fanno della decisione in arrivo da Palazzo dei Marescialli uno degli snodi più drammatici nella storia recente della magistratura.

Quella fuga di notizie sul destino di Davigo che preoccupa il Csm. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 10 Ottobre 2020. Il parere segreto dell’Avvocatura dello Stato finisce sui giornali. Il tanto atteso parere dell’Avvocatura dello Stato sulla permanenza di Piercamillo Davigo al Consiglio superiore della magistratura anche quando sarà andato in pensione è, dunque, negativo. La notizia, non smentita, è stata data questa settimana dal quotidiano La Stampa. Il parere era arrivato a Palazzo dei Marescialli nella giornata di venerdì scorso ed era stato immediatamente “secretato” dal vice presidente del Csm David Ermini. Il parere, desecreatato, verrà discusso lunedì prossimo dalla Commissione verifica titoli. Successivamente sarà la volta del Plenum. La data è già in calendario: 14 ottobre. E’ l’ultimo Plenum disponibile prima del 20 ottobre, giorno in cui Davigo compirà settanta anni e sarà collocato a riposo per sopraggiunti limiti di età. Era stata la Commissione verifica titoli, in quell’occasione presieduta dalla togata di Magistratura indipendente Loredana Miccichè, a voler interessare della questione l’Avvocatura dello Stato. La decisione era avvenuta a maggioranza in quanto il laico pentastellato Alberto Maria Benedetti aveva deciso di astenersi, non concordando sull’opportunità di chiedere all’esterno un parere che poteva essere fornito dall’Ufficio studi di piazza Indipendenza. La presidente Miccichè a tale osservazione aveva risposto ricordando che in caso di contenzioso amministrativo l’Avvocatura dello Stato difende  “ex lege” l’operato del Csm. Data la delicatezza della questione, il rischio ricorsi è altissimo. Sia da parte di Davigo in caso dovesse essere dichiarato decaduto, o da parte del primo dei non eletti, il giudice di Cassazione Carmelo Celentano, all’epoca candidato nelle liste di Unicost. Il voto avverrà a scrutino segreto. Considerati gli equilibri fra le correnti e i consiglieri laici, il destino di Davigo è nelle mani dei vertici della Corte di Cassazione, il primo presidente Pietro Curzio ed il procuratore generale Riccardo Fuzio, e del vice presidente del Csm David Ermini. Non essendoci in passato casi analoghi, il voto su Davigo creerà un precedente. In caso dovesse passare la tesi favorevole alla permanenza di Davigo, in futuro il Csm potrebbe essere composto anche da tutti magistrati in pensione. Sarebbe sufficiente essere in servizio fino al momento dell’elezione.

La Stampa.it il 19 ottobre 2020. Piercamillo Davigo non è più un consigliere del Csm. Il plenum di Palazzo dei marescialli ha decretato la sua decadenza. Motivo: domani l'ex dottor Sottile del pool Mani pulite compie 70 anni e va in pensione dalla magistratura. Una condizione incompatibile con la carica di togato del Csm, secondo la maggioranza dei consiglieri. Ma la decisione ha spaccato l'assemblea. Anche il pm antimafia Nino Di Matteo «con sofferenza umana personale» ha votato contro «per non violare principi costituzionali fondamentali».

Davigo in pensione è fuori dal Csm: gli votano contro Ermini e i vertici della Cassazione. Liana Milella su La Repubblica il 19 ottobre 2020. Finisce con 13 voti contro Davigo. Con lui, tre consiglieri di Autonomia e indipendenza. Il pollice verso di Di Matteo. Si divide la sinistra di Area. Magistratura indipendente e Unicost di traverso. Piercamillo Davigo non farà più parte del Csm. Da domani sarà in pensione come magistrato, e i colleghi del Consiglio, dopo una drammatica discussione, hanno deciso che debba lasciare anche il suo ruolo di componente proprio perché non avrà più la toga sulle spalle, quindi non sarà né un consigliere togato, né tantomeno un consigliere laico. Determinante contro di lui la posizione netta e univoca del vice presidente David Ermini, e dei vertici della Cassazione, il primo presidente Pietro Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi. Lui, Davigo, non era presente a palazzo dei Marescialli perché proprio oggi era a Perugia, interrogato come teste dal procuratore Raffaele Cantone su richiesta dell'imputato Luca Palamara. Quando apprende la notizia Davigo non fa commenti. Ma la sua voce suona amara. I suoi sono certi che impugnerà la decisione. Certo è che giovedì sera sarà ospite di Corrado Formigli a Piazzapulita. 

La votazione. Finisce con 13 voti contro Davigo, 6 a favore della sua permanenza in consiglio, 5 astensioni. Contro di lui votano Ermini, i due vertici della Cassazione, Nino Di Matteo, i due consiglieri di Unicost Michele Ciambellini e Concetta Grillo, i tre di Magistratura indipendente Loredana Micciché, Paola Maria Braggion e Antonio D'Amato, i 2 laici di Forza Italia (Michele Cerabona e Alessio Lanzi, il laico della Lega Emanuele Basile, Filippo Donati laico di M5s. Contro tre di Autonomia e indipendenza, la corrente di Davigo (Sebastiano Ardita, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe), due di Area (Alessandra Dal Moro e Elisabetta Chinaglia), il laico di M5S Fulvio Gigliotti. Si astengono tre di Area (Giuseppe Cascini, Mario Suriano e Ciccio Zaccaro), il laico della Lega Stefano Cavanna, il laico di M5S Alberto Maria Benedetti.

Ermini e i vertici della Cassazione. Ha detto Ermini: "Questa è una decisione dolorosa, amara, ma inevitabile". Poiché "la Costituzione ci costringe a rinunciare a Davigo". In quanto essa "prevede come requisito soggettivo il possesso dello status di magistrato ordinario, posseduto al momento dell'elezione e mantenuto in seguito per l'equilibrio necessario tra togati e laici. Se i togati perdono questa qualità si altera il rapporto tra togati e laici di due terzi e un terzo, violando l'equilibrio tra i poteri, al punto da ipotizzare un Csm senza magistrati e quindi una magistratura eterogovernata. Gli eletti durano in carica 4 anni anni, ma mantenendo il loro status". Molto duro l'intervento di Curzio: "Il pensionamento fa venir meno lo status di magistrato ordinario e comporta quindi il venir meno delle funzioni giudiziarie e di componente del Csm. La durata di 4 anni riguarda l'organo nel suo complesso, e non i suoi componenti., la cui durata può essere più breve". Curzio condivide la sentenza del Consiglio di Stato, che nel 2011 è andata in questa direzione. Sostiene che a fondamento della sua decisione c'è "una ragione costituzionale, in quanto se per uno dei togati viene meno la condizione di magistrato, viene meno anche  il rapporto tra togati e laici, e si altera l'equilibrio di due terzi e un terzo previsto dalla Costituzione". Conclude Curzio: "Se passa questo principio c'è il rischio che più magistrati prossimi alla pensione restino consiglieri con un'ulteriore alterazione degli equilibri del Consiglio".

La relazione di Micciché. Comincia con la relazione anti Davigo la giornata no del "cattivo" di Mani pulite. Loredana Micciché, consigliera di Cassazione, toga di Magistratura indipendente, la corrente di destra e più conservatrice delle toghe, illustra il parere della Commissione per la verifica dei titoli di Davigo, composta da lei, dalla collega Braggion e da Benedetti. È contro la sua permanenza al Csm sulla base di un parere dell'Avvocatura dello Stato che, a sua volta, fa sua la sentenza del Consiglio di Stato del 2011 in cui è scritto che "è scontato" che chi va in pensione non può più restare al Csm. 

Per Davigo è Gigliotti di M5S. Le si contrappone subito Fulvio Gigliotti, laico indicato da M5S che resta fermo sulla sua posizione fino all'ultimo, anche dopo il niet dei tre vertici. Mentre Donati vota per il no a Davigo e Benedetti si astiene. Gigliotti invece, che è stato nella sezione disciplinare con Davigo nel processo contro Luca Palamara, sposa la tesi opposta. Perché l'articolo 104 della Costituzione non parla di cause di decadenza e tra le cause previste dalla legge del 1958 non c'è il pensionamento. Inoltre la stessa Costituzione dice che i componenti elettivi durante l'esercizio del mandato non possono iscriversi agli albi professionali, quindi fornisce un dettaglio che ritene necessario mentre non parla di altro, in particolare della decadenza.

Il no di Di Matteo. Arriva il netto no di Nino Di Matteo, l'ex pm di Palermo, che da componente della procura nazionale Antimafia si è candidato al Csm, sostenuto da Autonomia e indipendenza di Davigo, ma che si è sempre comportato in maniera indipendente. Secondo Di Matteo "la qualità dell'appartenenza all'ordine giudiziario è una condizione imprescindibile per stare nell'autogoverno che è composto da due terzi di magistrati e un terzo di laici. Un tertium genus non è ammissibile. Sarebbe un atto che viola la ratio e lo spirito delle norme costituzionali". E quindi "in piena coscienza" Di Matteo annuncia che voterà "a favore della decadenza di Davigo".  

Lo difende la sua corrente. I consiglieri eletti con Davigo - Ilaria Pepe, Giuseppe Mara, e poi Sebastiano Ardita per dichiarazione di voto - si oppongono alla tesi della decadenza di Davigo. Con un'argomentazione ricorrente, l'assenza di una clausola esplicita di decadenza.  Che non può essere quindi sostituita da una interpretazione del Csm.  

Il sì di Area per Davigo. La sinistra di Area nel dibattito si schiera per la permanenza di Davigo. Dice Alessandra Dal Moro che "esiste un vuoto normativo, e non si può dedurre una causa di decadenza in via interpretativa, perché quella del legislatore è stata una scelta". Ancora: "Il Csm non può intervenire sulle norme, né può affermare l'esistenza di una causa di decadenza che non esiste, perché questo apre una prassi pericolosa". Conclude sostenendo che "allo stato dell'arte, in base al diritto vigente, non sussistono i presupposti per introdurre la decadenza". Soprattutto perché si creerebbe "una disparità di trattamento tra laici e togati, in quanto i laici restano mentre i togati no". Altrettanto netto Ciccio Zaccaro che dice: "Prima di studiare le norme pensavamo che un magistrato in pensione non potesse far parte del Csm.  Ma abbiamo dovuto prendere atto che nell'ordinamento non esiste una norma che preveda la decadenza del componente eletto come conseguenza della cessata appartenenza all'ordine giudiziario". Giuseppe Cascini è ancora più esplicito: "Non può essere una decisione scontata perché una norma non c'è. Una norma che dica il togato che va in pensione decade. Sarebbe una interpretazione creativa che non è permessa. La causa di decadenza c'era ed è stata tolta nel 1990, quindi non può rivivere attraverso un'interpretazione estensiva". Ma alla fine Area si divide, Dal Moro e Chinaglia votano per Davigo, mentre Cascini, Zaccaro e Suriano si astengono.

E finalmente Davigo se ne va in pensione. Il Csm, vota per la sua decadenza da togato. Il Corriere del Giorno il 20 Ottobre 2020. Da domani in pensione Piercamillo Davigo non farà più parte del Consiglio Superiore della Magistratura come ha deciso il plenum con 13 voti a favore della decadenza, 6 contrari e 5 astensioni molte delle quali in realtà inizialmente erano voti contrari che all’ultimo hanno cambiato il proprio voto “per ragioni istituzionali“. La maggioranza del Csm ha quindi stabilito che la permanenza di un consigliere togato senza più la toga sarebbe un ulteriore vulnus del “parlamento” di autogoverno della magistratura, già profondamente ammaccato dal “caso Palamara” che ha portato alle dimissioni di ben 6 componenti su 16. La decisione adottata dal comitato di presidenza del Csm , di cui fanno parte il vice-presidente David Ermini, dal primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio e dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, di prendere posizione nel confronto che ha quasi “spaccato” in due la stessa istituzione della magistratura votando in favore dell’esclusione di Davigo, va ritenuta aderente alla linea dell’orientamento espresso dal Presidente della Repubblica  Sergio Mattarella, che è anche il presidente del Csm che ha valutato che il Consiglio Superiore della Magistratura non potesse rischiare di mettere a rischio la propria stessa funzione nei prossimi due anni a causa della presenza e partecipazione ai lavori ed al voto di un magistrato non più legittimato nell’incarico di membro del Csm, per mancanza del presupposto di appartenenza all’ordine giudiziario. Contro Davigo hanno votato Ermini, i due vertici della Cassazione, Nino Di Matteo, i due consiglieri togati di Unicost Michele Ciambellini e Concetta Grillo, i tre togati di Magistratura indipendente Loredana Micciché, Paola Maria Braggion ed Antonio D’Amato, i 2 “laici” di Forza Italia Michele Cerabona ed Alessio Lanzi, il “laico” della Lega Emanuele Basile, ed il laico di M5s Filippo Donati. Contro hanno votato i tre della corrente di Davigo, Autonomia e indipendenza, composta da Sebastiano Ardita, Giuseppe Marra ed Ilaria Pepe, i due “togati” di Area Alessandra Dal Moro ed Elisabetta Chinaglia ed il “laico” di M5S Fulvio Gigliotti. Astenuti tre magistrati della corrente di “Area” rappresentata da Giuseppe Cascini, Mario Suriano e Ciccio Zaccaro), il “laico” della Lega Stefano Cavanna ed il laico di M5S Alberto Maria Benedetti. Ermini ha detto: “Questa è una decisione dolorosa, amara, ma inevitabile“. in quanto “la Costituzione ci costringe a rinunciare a Davigo” poichè essa “prevede come requisito soggettivo il possesso dello status di magistrato ordinario, posseduto al momento dell’elezione e mantenuto in seguito per l’equilibrio necessario tra togati e laici. Se i togati perdono questa qualità si altera il rapporto tra togati e laici di due terzi e un terzo, violando l’equilibrio tra i poteri, al punto da ipotizzare un Csm senza magistrati e quindi una magistratura eterogovernata. Gli eletti durano in carica 4 anni anni, ma mantenendo il loro status“. Sulla stessa scia il no “secco” di Nino Di Matteo, l’ex pm di Palermo, che da componente della Procura Nazionale Antimafia si era candidato al Csm, sostenuto da Autonomia e indipendenza di Davigo, ma ciò nonostante si è sempre ritenuto e comportato da indipendente. Secondo Di Matteo “la qualità dell’appartenenza all’ordine giudiziario è una condizione imprescindibile per stare nell’autogoverno che è composto da due terzi di magistrati e un terzo di laici. Un tertium genus non è ammissibile. Sarebbe un atto che viola la ratio e lo spirito delle norme costituzionali” annunciando di votare in piena coscienza a favore della decadenza di Davigo.  Nonostante i riconoscimenti unanimi verso la figura dell’ ormai ex-magistrato, non è prevalsa l’interpretazione letterale caldeggiata dall’interessato di alcune norme, di restare in servizio nell’organismo di autogoverno. L’articolo 104 della Costituzione recita che “i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni” come sostenevano Davigo e i suoi sostenitori, mentre non è espressamente prevista la pensione tra le cause di decadenza dei componenti togati. Sicuramente la decisione di mandare via dal Csm un rappresentante eletto, basandosi su un’interpretazione della norma, quando la norma in realtà non lo prescrive espressamente, costituisce un pericoloso precedente in quanto quella causa di decadenza era prevista prima del 1990 e successivamente venne cancellata.  Davigo non era presente a Palazzo dei Marescialli in quanto proprio oggi si trovata a Perugia, interrogato come “teste” dal procuratore Raffaele Cantone su richiesta dell’imputato Luca Palamara. Appresa la notizia Piercamillo Davigo non ha fatto commenti. Anche si suoi compagni di corrente suoi sono pressochè certi che impugnerà la decisione. Ha prevalso la teoria contraria, e cioè che la Costituzione si basava sulla durata del mandato all’interno della stessa consiliatura, altrimenti i subentrati avrebbero dovuto restare in carica anche nella successiva, circostanza che non è mai avvenuta né tantomeno è mai stato oggetto di discussione. Il motivo per cui la legge non contempla tra i motivi della decadenza anche la pensione è in quanto si tratta di una naturale conseguenza, come chiarì il Consiglio di Stato in una propria decisione del 2011, richiamata da un parere richiesto dallo stesso Csm all’Avvocatura generale dello Stato : “E’ addirittura scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all’autogoverno, è ostativa alla prosecuzione dell’esercizio delle relative funzioni in seno all’organo consiliare”. La decisione adottata è stata anche la necessità di salvaguardare l’immagine e il ruolo dell’istituzione, al di là della controversia giuridica, per essere al riparo da ulteriori diatribe e accuse di autoreferenzialità e corporativismo. Queste le ragioni che hanno comportato la presa di posizione del vertice del Csm, che si è rivelata fondamentale e decisiva per l’esito conclusivo della votazione. Una decisione che, almeno per il momento, ha risolto la posizione di Davigo, e con essa i problemi derivanti dalle divisioni tra correnti ed i componenti dello stesso Consiglio. Nel 2018 l’ex pm di Milano fu il primo degli eletti prese 2.522 preferenze, raddoppiando i 1.100 voti presi nel 2016, quando era stato eletto presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Sarà Carmelo Celentano, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, a prendere il posto lasciato dal consigliere togato del Csm, Piercamillo Davigo. Lo ha deciso il Plenum del Csm che ha approvato una proposta della Commissione verifica titoli. Celentano, primo dei non eletti, subentra quale magistrato che esercita funzioni effettive di legittimità.

Così Ermini e Di Matteo hanno scaricato Davigo. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 20 ottobre 2020. È finita l’esperienza di Piercamillo Davigo al Csm. Al termine di un dibattito durato diverse ore, ieri pomeriggio il plenum ha votato la decadenza da consigliere superiore dell’ex pm di Mani pulite. È finita l’esperienza di Piercamillo Davigo al Csm. Al termine di un dibattito durato diverse ore, ieri pomeriggio il plenum ha votato la decadenza da consigliere superiore dell’ex pm di Mani pulite. A favore dell’uscita di scena si sono pronunciati i componenti del comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli, vale a dire il vicepresidente del Csm David Ermini, il primo presidente e il pg della Cassazione, Pietro Curzio e Giovanni Salvi. No al prosieguo del mandato, con una certa sorpresa, anche da parte dell’“indipendente” ( ma eletto col sostegno del gruppo davighiano) Nino Di Matteo, dai 3 di Magistratura indipendente Loredana Micciché, Paola Braggion e Antonio D’Amato, dai 2 di Unicost Conchita Grillo e Michele Ciambellini, e dai laici Filippo Donati ( indicato dal M5S), Emanuele Basile ( Lega), Alessio Lanzi e Michele Cerabona ( FI). Alla fine si sono schierati, senza successo, per la permanenza di Davigo solo 2 dei 5 consiglieri di Area, Alessandra Dal Moro ed Elisabetta Chinaglia, uniche altre togate oltre ai 3 rappresentanti della davighiana Autonomia e indipendenza, ovvero Sebastiano Ardita, Ilaria Pepe e Giuseppe Marra. Tra i laici, il solo che abbia votato perché Davigo restasse in plenum è stato Fulvio Gigliotti ( indicato dal M5S). Si sono invece astenuti Stefano Cavanna (Lega) e Alberto Maria Benedetti ( M5S), così come gli altri 3 togati di Area Giuseppe Cascini, Giovanni Zaccaro e Mario Suriano. Un esito che nessuno si aspettava, alla luce della forte campagna d’opinione portata avanti in questi mesi a favore della permanenza di Davigo al Csm anche dopo la sua entrata in quiescenza, formalizzata ieri dalla delibera approvata pochi minuti prima del dibattito sul prosieguo del mandato. Chissà perché fino all’ora fatidica del plenum non era balenata in modo così nitido la volontà di attenersi alla Costituzione. Difficile spiegarlo se non con il peso che hanno avuto, prima e durante la discussione consiliare, i vertici dello stesso organo di autogoverno. Saranno risuonate anche nella testa di possibili “indecisi” parole come quelle del presidente della Suprema corte, Curzio: «Il pensionamento fa venire meno lo status di magistrato, quindi anche le funzioni di componente del Csm. Ne ho parlato anche in comitato di presidenza» , ha spiegato in modo molto trasparente Curzio, «e ho trovato conferma in questa mia conclusione. Ne ho parlato anche con Davigo, per la chiarezza che ha sempre contraddistinto i nostri rapporti. È stato un onore essere suo collega, aver lavorato con lui, ma gli argomenti per la decadenza sono più convincenti». Anche il pg Salvi ha parlato di una «necessità derivante da principi costituzionali: a far parte del Csm non possono che essere magistrati in servizio». Fino all’intervento di Ermini, secondo il quale «la Costituzione ci impone di rinunciare all’apporto che Piercamillo Davigo, magistrato eccezionale, potrebbe ancora dare al Consiglio superiore». Va dato atto al vicepresidente del Csm di aver speso parole forti per l’ex pm del Pool, a proposito delle sue «qualità», della «intransigente onestà intellettuale», dell’ «assoluta indipendenza di giudizio» e «inattaccabile libertà morale», che «hanno connotato il percorso di un magistrato eccezionale» e la sua «esemplare carriera». A Davigo, ha aggiunto Ermini, «mi lega ora un’amicizia per me preziosa e irrinunciabile», ma «tuttavia, nella vita, ci sono momenti in cui chi è chiamato a compiti di responsabilità istituzionale deve assumere decisioni dolorose». Del no pronunciato da Di Matteo al prosieguo del mandato, resterà tra l’altro un’osservazione non sentita spesso, nel dibattito degli ultimi giorni: «L’appartenenza all’ordine giudiziario è condizione imprescindibile per l’organo di autogoverno», che è «per due terzi composto da magistrati: il rapporto predeterminato tra laici e togati è una regola sancita dalla Costituzione», ha detto Di Matteo. La permanenza di Davigo al Csm dopo il suo collocamento in pensione violerebbe dunque, ha sostenuto il pm antimafia, «la ratio e lo spirito delle norme costituzionali». Di Matteo ha comunque parlato di una decisione «presa con grande dolore» per la stima nei confronti del collega che «lascerà un segno nella storia recente della magistratura italiana». Con l’uscita di Davigo cambiano i rapporti di forza al Csm, contraddistinti finora da una maggioranza imperniata sull’alleanza fra Area e davighiani. Il posto dell’ex pm di Mani pulite ( che compie oggi 70 anni) sarà preso dal giudice di Cassazione Carmelo Celentano, di Unicost. Difficile dire, almeno per questo, che l’uscita di Davigo dal Csm non produca conseguenze politiche.

Davigo cacciato dal Csm, è stato tradito dai suoi ma non infieriamo…Redazione su Il Riformista il 19 Ottobre 2020. “Hanno cacciato Davigo dal Csm, è una tragedia siamo in lutto“. Esordisce così il direttore del Riformista Piero Sansonetti nel suo video editoriale sulla decadenza dell’ex pm di Mani pulite. “Due partiti, il Pd e Fratelli d’Italia durante il lockdown avevano preparato un emendamento per far andare Davigo in pensione a 72 anni e non a 70 anni. Ma noi ce ne siamo accorti e l’emendamento è saltato“. Sansonetti poi sottolinea che “La cosa più curiosa è che Davigo è stato pugnalato dai suoi. Di Matteo, una creatura di Davigo, gli ha votato contro. Chissà per quale motivo… Oggi non me la sento di infierire con Davigo, non so come faremo ma continueremo a fare polemiche contro Davigo. Anche perché quale è la questione? Che si sputtanava il Csm se restava Davigo? Ormai aveva già fatto il processo farsa a Palamara non c’era più nulla da sputtanare“.

Giuseppe Salvaggiulo per ''la Stampa'' il 20 ottobre 2020. La trama è scespiriana. Mentre testimonia a Perugia, convocato dallo stesso Luca Palamara che ha appena contribuito a espellere dalla magistratura, Piercamillo Davigo va in pensione e viene giubilato dal Consiglio superiore della magistratura dove era entrato due anni fa, plebiscitato dai colleghi per dare l' assalto alle correnti. Chi gli aveva parlato negli ultimi giorni aveva percepito, oltre la proverbiale corazza da ufficiale di cavalleria nella battaglia di Guastalla, la percezione di un esito infausto. La questione della permanenza nel Csm anche da pensionato s' era ingarbugliata. Troppe variabili ostili: un lontano precedente del Consiglio di Stato, il parere dell' Avvocatura dello Stato, la campagna dei penalisti (tre sono nel Csm), lo schieramento dei vertici della Cassazione e del vicepresidente Ermini, i regolamenti di conti nella sinistra giudiziaria. Infine ieri, in apertura del dibattito, la sentenza di Nino Di Matteo, pm antimafia eletto un anno fa con il sostegno della corrente di Davigo (che però aveva sconsigliato la candidatura). «Dobbiamo volare alto - ha detto Di Matteo - la permanenza di Davigo violerebbe lo spirito della Costituzione», compromettendo «autonomia e indipendenza della magistratura» perché il Csm è per magistrati in servizio, non ex. Argomenti analoghi a quelli, attesi, dei vertici della Cassazione (presidente Pietro Curzio e procuratore Giovanni Salvi). E a quelli, meno attesi, del vicepresidente David Ermini, che ha letto l' intervento in coda al dibattito.

Gioco, partita, incontro. Tutto il resto - dal pallottoliere dei voti, alla fine 13 su 24, alle 5 astensioni tattiche, alle punzecchiature personali, ai silenzi imbarazzati - è noia. Era stato lo stesso Davigo a porre la questione a settembre. Sia formalmente con una lettera alla commissione titoli del Csm che ha avviato l' ordalia. Sia informalmente, con una visita riservata al capo dello Stato, presidente di diritto del Csm. Il Quirinale ha avuto un ruolo, perché i vertici del Csm non decidono tirando i dadi. Ma solo nel senso di autorizzare una presa di posizione di Ermini e dei capi della Cassazione, poi orientata verso la soluzione più adeguata a rinsaldare il Csm, anche nel rapporto con le altre istituzioni e in un' ottica di sistema.

Certo non sfuggono le implicazioni della decisione. Simboliche, in primis. Far fuori Davigo è come sostituire Cristiano Ronaldo a partita in corso (ne sa qualcosa Sarri, uno dei migliori amici di Ermini). E infatti sui social esultano i suoi nemici politici, togati e mediatici. Ma, quel che più conta, cambiano gli equilibri nel Csm. L' asse Davigo-Area, un compromesso storico destra-sinistra che ha retto il post Palamara in nome della «questione morale», è piegato. Quanto, si misurerà sulle nomine e sui collegi dei processi disciplinari in calendario (Palamara non si dilettava in solitari all' hotel Champagne). Rialzano la testa, basta leggere i gaudenti comunicati serali, Magistratura Indipendente e Unicost, le correnti di centrodestra che nel 2018 si erano impadronite del Csm grazie al patto Ferri-Palamara. E, complice Lotti, avevano eletto Ermini vicepresidente, contro tutto e tutti (da Forza Italia a Magistratura Democratica). Ermini che, superati i patemi per le chat e le allusioni di Palamara, esce rafforzato in un ruolo non più meramente notarile. Non a caso Ilaria Pepe, consigliera della corrente Autonomia&Indipendenza fondata da Davigo, parla di «gravissima perdita della residua credibilità del Csm». E nelle chat della corrente si grida alla «restaurazione» (ri)mettendo Ermini nel mirino in quanto «amico di Renzi» (non come un tempo, peraltro). Renzi che venerdì si era pronunciato pubblicamente sul caso Davigo, e si può immaginare come. A proposito di chi dice che è stata solo una contesa giuridica. In attesa di giocarsi l' ultima carta al Tar Lazio, Davigo oggi tornerà un ultimo giorno al Csm. Per salutare e fare gli scatoloni. Comunque la si pensi, è stato un consigliere autorevole e ascoltato. Anche da insospettabili colleghi che a orari antelucani (arrivava prima dei custodi) bussavano al suo ufficio. Pure ieri non ha fatto una piega. Al punto da rifiutare il rinvio che Raffaele Cantone, procuratore di Perugia, gli aveva prospettato per la deposizione a Perugia nell' ambito del caso Palamara. Testimonianza di un' ora chiesta dagli avvocati dell' indagato, sugli incontri tra magistrati nella stagione delle nomine e degli esposti incrociati.

Povero Davigo, pugnalato dagli amici e cacciato dal Csm. Paolo Comi  su Il Riformista il 20 Ottobre 2020. Piercamillo Davigo oggi compie settant’anni e va in pensione. Il Plenum del Csm ha votato ieri, nell’ultimo giorno utile, la sua decadenza da Palazzo dei Marescialli per raggiunti limiti di età. Termina, dunque, un tormentone che si stava trascinando da mesi e che rischiava di creare più di un imbarazzo al Quirinale. È stata respinta la tesi, propagandata con insistenza in queste ultime settimane dal Fatto Quotidiano, che l’anagrafe per i consiglieri togati fosse una variabile indipendente. Anche per loro, ha stabilito il Csm, valgono le regole sullo status giuridico che si applicano a tutti magistrati e che fissano al compimento dei settant’anni l’età massima per il trattenimento in servizio. Non essendo previsto espressamente fra le cause di decadenza il collocamento a riposo, i supporter della permanenza di Davigo al Csm avevano puntato tutto sul termine di durata quadriennale dell’organo di autogoverno delle toghe. Davigo stesso aveva messo in evidenza questo aspetto, ricordando in una memoria che la Costituzione prevede che i componenti del Csm rimangano in carica per quattro anni e che, se si dovesse ritenere che il collocamento in pensione in quei quattro anni determini la cessazione, non dovrebbe essere prevista l’eleggibilità, come accade per le nomine ai vertici degli uffici giudiziari, per cui è stabilito che chi aspira all’incarico debba garantirne la copertura almeno per un quadriennio. Che Davigo compisse settant’anni il 20 ottobre del 2020 era abbondantemente noto quando il magistrato si candidò al Csm due anni fa e venne eletto con un plebiscito. Non essendoci precedenti specifici, però, si sarebbe trattato del primo caso di un magistrato “pensionato” al Csm. Davigo, a tal riguardo, aveva bocciato una sentenza del Consiglio di Stato del 2011, l’unica su questo aspetto, con cui si stabiliva che l’appartenenza all’ordine giudiziario è requisito per il mantenimento della carica in quanto il Csm è organo di autogoverno della magistratura. Una sentenza con “gravi errori in punto di diritto costituzionale”, perché il Csm sarebbe “organo di governo autonomo” e dunque “non organo di rappresentanza ma organo di garanzia”. Tutte argomentazioni che erano state respinte dalla Commissione verifica titoli che, con i voti delle togate di Magistratura indipendente Loredana Miccichè e Paola Maria Braggion e con l’astensione del laico in quota M5s Alberto Maria Bendetti, aveva chiesto il mese scorso un parere all’Avvocatura dello Stato. Parere inizialmente secretato dal vice presidente del Csm David Ermini e che ieri è stato, appunto, discusso. Che la permanenza di Davigo al Csm non fosse scontata si è capito comunque dopo aver sentito l’intervento di Nino Di Matteo. Il pm antimafia, prendendo la parola, aveva annunciato la decisione di votare a favore al decadenza “con grande dolore” per la stima nei confronti di Davigo che “lascerà un segno nella storia recente della magistratura italiana”. E poi, riprendendo quanto già espresso dalla Commissione verifica titoli, aveva sottolineato che l’appartenenza all’ordine giudiziario è condizione imprescindibile per l’organo di autogoverno della magistratura che è per 2/3 composto da magistrati. «Il rapporto predeterminato tra laici e togati è una regola sancita dalla Costituzione» e quindi la permanenza di Davigo al Csm dopo il suo collocamento in pensione «violerebbe la ratio e lo spirito delle norme costituzionali» e «introdurrebbe un tertium genus di consigliere né togato né laico che altererebbe il rapporto tra i componenti». La conclusione, tombale per i destini di Davigo, di Di Matteo che l’anno scorso era stato candidato al Csm proprio nelle liste davighiane. Dopo Di Matteo era stato il turno dei capi di Corte, il primo presidente Pietro Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi, con due interventi da ko tecnico. Il saluto di David Ermini a Davigo, ringraziando per quanto fatto, era stato quindi l’epilogo finale. Nessuna sorpresa al momento del voto: tredici per la decadenza, sei contrari, cinque gli astenuti. Grande sconfitto, oltre a Marco Travaglio, Giuseppe Cascini. L’ex procuratore aggiunto di Roma e capo delegazione delle toghe progressiste al Csm si è battuto come un leone per cercare di salvare il suo alleato. Da domani il posto di Davigo sarà preso da Carmelo Celentano, giudice di Cassazione nel 2018 si candidò nelle liste di Unicost, il gruppo di centro. Con l’uscita di Davigo cambiano gli equilibri al Csm. Domani, infine, si conosceranno anche gli esiti delle elezioni dell’Anm. Le prime elezioni dopo il Palamaragate. E senza Davigo.

Davigo chiede al Tar del Lazio di sospendere la sua rimozione dal Csm. Liana Milella su La Repubblica il 21 ottobre 2020. Immediata contromossa dell’ex pm di Mani pulite che sarà difeso da Massimo Luciani. Già domani la decisione. Ma nel frattempo il Consiglio ha già votato per sostituire Davigo nella disciplinare con Carmelo Celentano, toga di Unicost, che dovrà giudicare proprio i suoi ex colleghi della corrente centrista per i fatti dell’hotel Champagne. Si apre una guerra legale sul caso Davigo. Da lui una richiesta di sospensiva al Tar del Lazio. Con un difensore di grandissimo prestigio come il costituzionalista Massimo Luciani. Perché l'ex pm di Mani pulite non si ferma. E subito, già ieri, il giorno dopo la sua bocciatura come consigliere del Csm per via del suo ingresso in pensione (ha compiuto 70 anni) eccolo presentare al Tar del Lazio una richiesta per sospendere la decisione assunta dai suoi, ormai ex, 13 colleghi, contro i sei che erano contrari e i 5 che si sono astenuti. Una votazione che ha spaccato e lacerato il Csm. E che adesso finirà sicuramente in una dura controversia davanti alla giustizia amministrativa. Che - com'è prassi - deciderà in tempi brevissimi sulla richiesta di sospensiva di Davigo. Con la conseguenza che si verrà a creare una situazione del tutto paradossale al Csm. Già oggi si terrà la prima udienza camerale davanti alle parti, in questo caso il solo avvocato di Davigo, cioè Luciani. Ci sarà subito un provvedimento urgente. Che se fosse favorevole a Davigo, cioè la sospensiva del voto del Csm, vedrebbe Davigo tornare al suo posto. Entro dieci giorni il Tar andrà a un'udienza camerale in cui sarà presente anche il Csm. Che formalizzerà la successiva decisione. Lo stesso Consiglio quindi sarà costretto a resistere di fronte al Tar. E dovrà ricorrere ai "servigi" dell'Avvocatura dello Stato, il suo avvocato naturale, che però si è già espresso contro Davigo e contro la sua permanenza al Csm per via del compimento dei 70 anni. Con argomentazioni che già nel 2011 il Tar, all'opposto, non aveva ritenuto valide. Sconfitto però in seguito dal Consiglio di Stato. Tecnicamente, l'Avvocatura non avrà problemi a difendere il Csm. Può farlo. Certo è che la querelle, per la sua complessità giuridica - è la prima volta che si pone il caso di un consigliere che deve lasciare il Csm per via della pensione - potrebbe tranquillamente finire davanti alla Corte costituzionale. Un fatto è altrettanto certo: negli stessi ambienti dell'Avvocatura, e tra i giudici amministrativi, si può cogliere l'impressione che tra un ricorso di Davigo per il voto contro di lui e quello del suo successore Celentano, avrebbe più chance di vincere Davigo. Per la semplice ragione che, allo stato degli atti, non esiste un'espressa legge che stabilisce la decadenza di un consigliere togato che arriva all'età pensionabile. E nel frattempo? Tranquillamente il Csm va avanti. Tant'è che oggi ha già votato per inserire nella sezione disciplinare il consigliere che sostituirà Davigo, e cioè Carmelo Celentano, toga di Unicost, che però, con più di una suspense, è stato eletto alla quarta votazione, poiché nelle prime tre non aveva raggiunto il quorum necessario dei 17 voti. La prima era finita con 13 voti per Celentano, 2 per Loredana Micciché, consigliera di Cassazione e toga di Magistratura indipendente, 10 schede bianche. Alla seconda Celentano ha avuto 14 voti, 5 la Micciché, 6 le bianche. Alla terza 15 voti per Celentano, 4 per Micciché, 6 bianche. Nell'ultima votazione, dopo due ore di pausa, Celentano ha ottenuto 20 voti, due alla Micciché e tre bianche. Quindi Celentano - a partire da venerdì 23 - giudicherà i 5 ex consiglieri protagonisti dei fatti dell'hotel Champagne per i quali Luca Palamara è stato rimosso dalla magistratura. Due colleghi di Unicost (Luigi Spina e Gianluigi Morlini), tre di Mi (Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Paolo Criscuoli). Relatrice del caso sarà Paola Maria Braggion di Mi. È in corso la formazione del collegio nel quale, c'è da augurarselo, figurino anche rappresentanti di altre correnti per evitare la sensazione di una giustizia domestica. Peraltro dopo l'anomalia di aver giudicato separatamente Palamara dagli altri consiglieri che pure partecipavano esattamente alla stessa cena. E soprattutto tenendo fuori anche Cosimo Maria Ferri, il leader maximo di Mi, che ha ricusato i suoi giudici e ha chiesto di non autorizzare l'uso delle intercettazioni visto che è un deputato. Il procuratore generale Giovanni Salvi, già a fine luglio, aveva annunciato la decisione di chiedere alla Camera l'autorizzazione all'uso delle conversazioni, ma questa richiesta non è ancora giunta a Montecitorio. Dove, quindi, è ferma anche la richiesta dello stesso Ferri di pronunciarsi sulla possibilità di registrare le telefonate di un parlamentare e poi utilizzarle, nel suo caso, solo per un processo disciplinare perché Ferri non è sotto inchiesta a Perugia. 

Piercamillo Davigo fa ricorso al Tar: "I colleghi mi hanno fatto passare per uno attaccato alla poltrona". Libero Quotidiano il 23 ottobre 2020. "Ho fatto ricorso al Tar perché la questione trascende la mia persona e riguarda la natura del consiglio". Così a Piazzapulita l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, decaduto lunedì scorso dopo il voto del plenum. "Ci sono due modi di intendere - ha aggiunto -, il primo è di intenderlo come organo di rappresentanza, il secondo come organo di garanzia. La corte costituzionale ha detto che è un organo di garanzia. Chi sostiene la tesi della mia decadenza interpreta nel senso della rappresentanza. Ma interpretarlo in questo senso è difficile perché la costituzione dice che i componenti elettivi del consiglio non sono immediatamente rieleggibili. E allora che rappresentanza è se uno non essendo rieleggibile non assume personalmente nessuna responsabilità?". Sulla decadenza di Davigo il  Tar potrebbe decidere anche tra diverse settimane. Non ci sarà infatti un decreto monocratico, che di solito viene emesso in tempi brevi, ma il Tar deciderà in composizione collegiale, con una camera di consiglio, e la decisione dovrebbe arrivare nelle prossime settimane. Davigo potrà rientrare in Consiglio solo se il Csm decidesse di ottemperare al provvedimento provvisorio dei giudici amministrativi. Davigo ha spiegato  che il voto del plenum non era previsto anzi  "era inaspettato che votassero per la decadenza, perché nessuno mi ha mai fatto capire…anzi, se segnali avevo avuto in generale, era che ci fosse una maggioranza perché io rimanessi. Poi negli ultimi tempi è cambiata, ci possono essere mille ragioni. Se mi fosse stato fatto anche solo capire prima che era ritenuta problematica la mia permanenza, mi sarei dimesso io", ha poi chiosato Davigo.  Una decisione che, ha aggiunto, "danneggia la mia immagine, mi fanno sembrare attaccato alle poltrone, se c'è qualcosa a cui non sono attaccato sono le poltrone". Venendo al merito del ricorso,  scrive Il Fatto quotidiano, la legge istitutiva del Csm non prevede fra le cause di decadenza il pensionamento di un magistrato; per giurisprudenza consolidata le cause di ineleggibilità e di decadenza non solo sono tassative, ma non sono neppure "suscettibili di applicazione analogica". Su Luca Palamara spiega: "Ci è stato detto di tutto e di più, anche articoli che non sono pregiudizialmente contrari all'ordine giudiziario sono stati nel senso di dire, beh, certo, è stata strappata l'immagine della magistratura, sembravano diversi adesso sono uguali ai politici. Io qui qualche riserva ce l'ho. I componenti del Csm che erano stati coinvolti in quella vicenda si sono dimessi e come magistrati sono sottoposti a procedimento disciplinare. Però c'erano altri due politici, i loro partiti non hanno detto, beh...i magistrati stanno rispondendo, non mi consta che i partiti abbiano detto alcunché".

Su Davigo il tar non sceglie: sulla decadenza decide il giudice ordinario. Il Dubbio il 13 novembre 2020. Per i giudici amministrativi la delibera del Csm riguarda un «diritto soggettivo» e per tale motivo non avrebbero competenza in materia. È inammissibile il ricorso presentato da Piercamillo Davigo dinanzi al Tar del Lazio contro la sua decadenza da togato del Csm: i giudici amministrativi, che hanno dichiarato il loro «difetto di giurisdizione», indicando dunque la competenza del «giudice ordinario, dinanzi al quale la domanda potrà essere riproposta». Lo si legge nella sentenza breve appena depositata dalla prima sezione del Tar del Lazio. Secondo il collegio, i poteri esercitati dal Consiglio Superiore della Magistratura nei confronti di Davigo «non possono definirsi di natura autoritativa ma devono ricondursi nell’ambito delle attività di verifica amministrativa della sussistenza dei requisiti necessari per il mantenimento della carica, ivi compresi quei requisiti che costituiscono un prius logico del diritto di elettorato passivo». Il Csm ha affermato che, a seguito del collocamento a riposo, Davigo, in quanto componente togato dell’organo, non sarebbe più possesso di un (pre)requisito necessario per mantenere la carica. L’attività di verifica del Consiglio si è basata su una interpretazione del panorama legislativo e dei principi da esso ricavabili, la cui correttezza è contestata dall’ex pm di Mani Pulite. Secondo i giudici, il caso in questione non riguarda una delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: «la situazione giuridica di cui si chiede la tutela ha la consistenza, nonostante la veste provvedimentale assunta dalla delibera del Csm impugnata, di diritto soggettivo» e per tale motivo la relativa cognizione deve essere riconosciuta al giudice ordinario. Nel suo ricorso, Davigo aveva censurato il provvedimento anche in relazione alla qualificazione del Csm come “organo di autogoverno” anziché di garanzia, nonché il richiamo operato al concetto della “rappresentanza democratica”, deducendo l’assenza di un collegamento necessario tra lo status di magistrato in servizio e il mandato consiliare. L’appartenenza all’ordine giudiziario, secondo Davigo, costituirebbe «la condizione richiesta esclusivamente per la presentazione di una candidatura ma non anche per il mantenimento della carica», sostenendo anche l’irrilevanza del richiamo, pure presente negli atti impugnati, «al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali, dato che ordinariamente tutti i membri elettivi del Csm provenienti dalla magistratura non svolgono nel corso del mandato tali funzioni, per dedicarsi esclusivamente all’incarico presso il Csm». Per l’ex pm, infine, non sarebbe influente «il richiamo alla prassi relativa al funzionamento dei Consigli giudiziari».

Felice Manti per “il Giornale” il 24 ottobre 2020. Povero Piercamillo Davigo. Il Csm l' ha appena mandato ai giardinetti e lui fa ricorso al Tar, come un arci italiano anche un po' sfigato. Fa tenerezza vedere il Torquemada fustigatore degli italici costumi rivolgersi al Tar per provare a ribaltare la decisione del Consiglio superiore della magistratura, unico governo (anzi autogoverno) deputato a decidere vita, carriere e destini di ogni magistrato. Per carità, ben vengano i tribunali regionali, che tante volte hanno corretto qualche stortura giuridica. Ma per il povero Davigo un po' dispiace. Se c' è, anzi c' era, un magistrato in funzione che aveva fatto del giustizialismo più bieco un mantra per provare a nascondere le grandi colpe dei suoi colleghi magistrati nel fallimento della giustizia era lui. Con frasi come «non esistono innocenti, ma solo colpevoli che l' hanno fatta franca», Davigo aveva teorizzato di fatto l' infallibilità della magistratura, anche di fronte a sentenze «sgradite», dando la colpa delle assoluzioni alla prescrizione o alle alchimie dilatorie degli avvocati difensori. E proprio ieri Davigo che fa? Fa vacillare la sua stessa tesi, l' infallibilità della magistratura, portando davanti al Tar del Lazio la delibera con cui il plenum del Csm - presieduto, lo ricordiamo, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella - lo ha dichiarato decaduto dalla carica di togato perché ha 70 anni ed è andato in pensione. Tradito perfino dai suoi, come il suo figlioccio Antonino Di Matteo, icona antimafia in rotta con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per una poltrona al Dap. C' è un precedente che gli dà torto, e se avesse ragione? Per il verdetto ci vorrà un bel po' perché il Tar del Lazio ha annunciato che sulla richiesta di sospensiva della delibera del Csm deciderà in composizione collegiale, non monocratica, adottata a seguito di una camera di consiglio, alla presenza delle parti, nelle prossime settimane. Lui non sarà d' accordo ma il tempo e il contraddittorio tra le parti non sono i nemici della giustizia. I nemici sono altri, e Davigo lo sa benissimo. Negli ultimi 30 anni l' ex magistrato di Mani Pulite ha dettato la linea ai suoi colleghi, si è eretto come baluardo davanti a chi, da Guardasigilli ma anche no, teorizzava la separazione delle carriere, citofonare a Clemente Mastella e Roberto Castelli per crederci. Era un' idea che piaceva a Giovanni Falcone, altra vittima dei giochini del Csm. Che la giustizia fosse politicizzata, che certi processi fossero istruiti solo per danneggiare i nemici politici dei magistrati, ai lettori del Giornale era chiaro da tempo. Lo sa bene anche il numero due di Palazzo de' Marescialli David Ermini, ex renziano in quota Pd come Cosimo Ferri e Luca Lotti, anche loro nei guai per le nomine al Csm. Alle Iene ieri sera imbarazzato ha smangiucchiato qualche risposta davanti alle domande di Antonino Monteleone. Per tutti gli altri c'è voluto il verminaio innescato dall' inchiesta sull' ex leader Anm Luca Palamara: giudici e magistrati si scambiano favori perché dagli uni dipendono le carriere degli altri. Palamara era lì a dirigere il traffico, a spartirsi procure e tribunali seguendo il Cencelli delle toghe. Una a Md, una a Unicost eccetera. E altri prima di lui, impuniti. Quello a Palamara - perfetto capro espiatorio di un sistema che preferisce sacrificarne uno per salvarne cento - è il processo al peccato originale della magistratura al quale Davigo avrebbe tanto voluto partecipare. Maledetta anagrafe contro cui non c' è appello...

La rabbia di Davigo contro il Quirinale: “Perché non mi ha avvisato?” Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Ottobre 2020. Ma perché non mi hanno avvertito? Ma perché il Capo dello Stato non mi ha fatto un cenno, almeno uno squillo? Mi sarei dimesso immediatamente, dice colui che ha appena presentato un ricorso al Tar e non pare intenzionato a revocarlo. Ecco Piercamillo Davigo in versione giardinetto. Pensionato dal 20 ottobre e già ospite di Corrado Formigli, della cui trasmissione è commensale abituale, a onor del vero. È il grande sconfitto nel grande circo della politica degli uomini in toga. Cioè di quelli che non sono secondi agli uomini di partito non solo per ideologia e abitudini quotidiane, come ci ha spiegato in lungo e in largo il dottor Luca Palamara, ma anche per capacità di intrighi, accordi e tradimenti. E che lo hanno appena pugnalato senza avvertimento e quindi alle spalle. Ha perfettamente ragione a essere imbufalito, l’ex pm di quella “Mani Pulite” di cui ha esibito la filosofia fino all’ultimo, come il giapponese che ha continuato a combattere nella foresta pur venticinque anni dopo la fine della guerra. Arrabbiato e sconcertato, un colpo così non se lo sarebbe mai aspettato. Non solo aveva i numeri sulla carta per vincere con sicura maggioranza la sua battaglia per restare all’interno del Csm anche senza la toga, da pensionato. Ma aveva ricevuto segnali inequivocabili. Prima di tutto da quel comitato di presidenza che si è poi mosso contro di lui come un carro armato. Il vice di Sergio Mattarella, quel Davide Ermini, esponente del Pd la cui elezione al vertice non era stata estranea al gioco delle correnti in cui, se Palamara era stato maestro, Davigo non era secondo a nessuno. E poi il primo presidente della corte di cassazione Pietro Curzio e il procuratore Giovanni Salvi. Voti inaspettati? Davigo ha un guizzo: “Se segnali avevo avuto…”. Intende dire con molta chiarezza che dall’alto aveva addirittura ricevuto rassicurazioni: quel posto sarebbe rimasto suo. È evidente che i casi sono solo due. O nessuno, compresi i vertici del Csm, immaginava che il Presidente Sergio Mattarella sarebbe intervenuto con tanta decisione con il suo pollice verso. Oppure il povero Davigo è stato proprio preso in giro. Prima lo hanno tranquillizzato, poi gli hanno preparato lo sgambetto proprio all’ultimo momento. Il famoso piattino che si serve freddo. È per questo che lui oggi dice: bastava dirmelo, bastava un cenno del presidente, e mi sarei dimesso. Già, perché lui ha fatto anche la brutta figura (il che fa sospettare una qualche malizia da parte di qualcuno che gli vuole proprio male) di quello attaccato ai soldi e alla poltrona. È sconcertato, si credeva più potente di quello che sia in realtà. E la sua faccia si impietrisce quando Formigli (che se ne accorge e lascia cadere subito l’argomento) lo mette di fronte al tradimento di Nino Di Matteo, il suo pupillo, quello per il quale lui si è speso, portandolo con sé al Csm e procurandogli una barca di voti. Si impietrisce e, senza far nomi, sibila qualcosa che grida vendetta. Tradito? «Debbo credere che tutti abbiano agito con senso delle istituzioni, con scienza e coscienza…». Debbo credere ma non ci credo, brutto traditore, dice il fumetto della sua faccia di pietra. Dei trenta minuti del breve film di Davigo ai giardinetti, la simpatia che suscita in quanto uomo sconfitto non può durare più di tanto. Perché non appena riesce a rilassarsi e a scacciare per qualche minuto la nube nera che lo accompagna come quella dell’impiegato che perseguitava il povero Fantozzi, riecco il liquido verdognolo che esce dall’angolo della bocca. E ritorna quello che ci considera tutti delinquenti, tranne lui. I testi di Palamara? «Non erano conferenti». Proprio come l’altro giorno al supermercato (unica favoletta che racconta, questa volta) quando, avendo detto il fruttivendolo a un acquirente di mettersi la mascherina, non era “conferente” che quello si giustificasse dicendo che un altro toccava la verdura senza guanti. Lei intanto si metta la mascherina, intimò il fruttivendolo-Davigo. E non cerchi di portarmi testimoni “inconferenti”. Inutili? Propensi alla falsità? O solo stonati? Il resto è “davigheide”. Finché IO (maiuscolo) ho montato la guardia, dal guado non è passato nessuno. Non sono gradito a quelli di cui mi sono occupato. Se uno è corrotto, lo è per sempre. Rifarei tutto esattamente nel modo in cui l’ho fatto. Per quarantadue anni. Amen. Arrivederci alla prossima puntata ai giardinetti. Che ci sarà. Con o senza Formigli.

Magistrato gentiluomo? Forse, ma non per questo bravo giudice…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. Un bravissimo giudice siciliano una volta mi disse: «Nessun magistrato dovrebbe essere famoso, perché la fama personale del magistrato diffama la giustizia». Era uomo di formazione antica e di grande dottrina, desolato nella constatazione che quella sua idea non solo non era condivisa, ma sapeva di bestemmia. Perché a imperare era, e continua a essere, l’idea esattamente contraria, cioè che la giustizia sia tanto più affidabile ed efficace quanto più diffusamente sia rappresentata dal magistrato eroe, dal magistrato combattente, dal magistrato “simbolo”. Quel piccolo giudice aveva compreso, contro la concezione e direi quasi il sentimento della quasi totalità dei suoi colleghi, che l’affidabilità della giustizia sta semmai nella neutra indistinguibilità di chi la amministra e che l’identità del magistrato deve restare nel nome in calce alla sentenza. Se il magistrato si manifesta in favore di telecamera insulta, deturpandolo, il volto neutro e l’indispensabile anonimia della giustizia. Se coltiva la propria fama attenta alla giustizia, perché i suoi provvedimenti tenderanno a trovare fondamento nella notorietà di chi li ha emessi prima che nel fatto di essere corretti. La fama rischia di coprire e assolvere gli inevitabili errori e i possibili abusi. La celebrazione del magistrato “galantuomo”, che ricorre ogni qual volta si denuncino gli spropositi di questo o quell’esponente della giustizia televisiva, rappresenta il routinario riaffermarsi di quella retorica pericolosissima che, impedendo alla giustizia di essere imparziale, le permette di essere abusiva. La dicitura ha fatto prevedibile capolino in questi giorni, a proposito del dottor Piercamillo Davigo che, in quanto tale (galantuomo), non avrebbe meritato le critiche che alcuni hanno rivolto al suo operato. Noi tuttavia possiamo considerare “galantuomini” magistrati come Davigo se non picchiano la moglie, se pagano i creditori, se non si mettono le dita nel naso in pubblico, tutto quel che si vuole: ma nulla di tutto questo fa di loro dei buoni magistrati. E nulla di tutto questo ci impedisce di pensare e dire che, per quanto galantuomini, loro hanno fatto male alle persone, male alla giustizia, male alla democrazia di questo Paese. E vale la pena di ricordare, in proposito, quel che scriveva Sciascia quando alle sue denunce dei traffici per le nomine nel Csm qualcuno opponeva che si trattava di gentiluomini: «Si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?». Che poi – e non si capisce come la cosa non sconsigli definitivamente l’uso della dicitura – “gentiluomo” è quel che puntualmente rivendica di essere il mafioso quando è acciuffato. Infine, se i magistrati non avessero fama di gentiluomini, e anzi nessuna fama, sarebbe tanto di guadagnato per tutti.

Csm, ribaltone e controribaltone: dopo la cacciata di Davigo cambiano gli equilibri. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. Ora che Piercamillo Davigo non è più consigliere del Csm che cosa succederà a Palazzo dei Marescialli? Come cambieranno gli equilibri e i rapporti fra le correnti della magistratura? L’inaspettata – per Marco Travaglio – decadenza dell’ex pm di Mani pulite sta determinando in queste ore un “contro ribaltone” al Csm. Il primo ribaltone, quello originale, si era avuto lo scorso anno con le dimissioni “spintanee” dei cinque consiglieri che avevano partecipato all’incontro notturno dell’hotel Champagne, organizzato dall’ex zar delle nomine Luca Palamara, con i parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti. La corrente di Davigo, Autonomia&indipendenza, che aveva perso l’anno prima le elezioni, per un meccanismo elettorale incredibile, era diventata la prima forza a piazza Indipendenza. La legge elettorale del Csm prevede, infatti, che subentri al dimissionario il primo dei non eletti in ognuna delle tre categorie: pm, giudici di merito e giudici di legittimità. In questo modo può subentrare, come avvenuto, anche chi non faccia parte del gruppo associativo a cui appartiene il magistrato che ha abbandonato il Csm. I davighiani, grazie a questo sistema che non tiene minimamente conto della volontà degli elettori, avevano quasi triplicato la loro presenza al Csm, passando da due a cinque consiglieri. La presa di distanza di Nino Di Matteo da Davigo, con il voto contrario alla sua permanenza al Csm, e anche la fredda difesa dell’ex pm di Mani pulite da parte dell’altro davighiano, il pm antimafia Sebastiano Ardita, sono segnali che mettono in forse l’attuale alleanza di A&i con la sinistra giudiziaria di Area. L’ex procuratore aggiunto di Roma Giuseppe Cascini, capo delegazione di Area al Csm, proprio per questo motivi si era speso tantissimo per evitare l’uscita di Davigo. Il posto di Davigo verrà preso, già da questa settimana, dal giudice di Cassazione Carmelo Celentano, magistrato di Unicost e un tempo legato a Palamara. I numeri sono sul filo. Soprattutto se dovesse subentrare anche il giudice genovese Pasquale Grasso, esponente di Magistratura indipendente, la destra giudiziaria. Grasso, si ricorderà, ha il dente avvelenato con le toghe di sinistra. Presidente dell’Anm da pochi mesi, esploso il Palamaragate lo scorso anno, venne sfiduciato in una assemblea infuocata in Cassazione dove mancò poco per l’intervento dei carabinieri. Il Csm lo tiene a bagnomaria da oltre un mese. Sulla carta deve subentrare al giudice di Unicost Marco Mancinetti, dimessosi per essere finito nelle micidiali chat di Palamara. Palazzo dei Marescialli sta studiando cosa fare, non escludendo anche nuove elezioni suppletive, le terze. Un record assoluto. Il Quirinale, già intervenuto nel caso Davigo, potrebbe comunque sbloccare l’impasse con una moral suasion pro Grasso ed evitare una nuova tornata elettorale. Sul fronte Anm, all’inizio della prossima settimana è previsto l’insediamento della nuova giunta. Le correnti stanno affilando i coltelli.

Sandra Amurri contro Gaetano Pedullà, rissa in diretta a Non è l'Arena: "Non si deve permettere. Cosa ride? Ignobile". Libero Quotidiano il 26 ottobre 2020. Alta tensione a Non è l'Arena, con un duro scontro tra la giornalista Sandra Amurri e Gaetano Pedullà, direttore de La Notizia, il quotidiano più filo-grillino d'Italia. Si parla di giustizia, tra la mancata nomina del pm Nino Di Matteo al Dap, decisa dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede del M5s, e il "no" dello stesso Di Matteo alla nomina di Piercamillo Davigo al Csm. Il confronto travalica a livello personale: "Sappia che non si deve permettere di interrompermi", "E lei per educazione non deve dire fesserie", "Lei deve farmi parlare. Punto. E ora le illustro le nozioni di cui lei manca". Sono 4 minuti di fuoco: "Prima di dire io stavo lì, davanti l'auto fumante di Falcone, abbia la onestà intellettuale... - accusa la Amurri -, è ignobile". 

Massimo Giletti contro Gaetano Pedullà a Non è l'Arena: "A me che aiuto la mafia non lo dice". Testa a testa, dito al petto: gelo in diretta. Libero Quotidiano il 26 ottobre 2020. "Che aiuto le cosche a me non lo dice!". Massimo Giletti brutalizza Gaetano Pedullà a Non è l'Arena. "La decisione di Nino Di Matteo di mandare in pensione Davigo è una cosa su cui dovreste indagare", incalza il direttore de La Notizia, storico difensore del ministro della Giustizia grillino Alfonso Bonafede nella querelle sulla mancata nomina di Di Matteo al Dap, un caso scoperchiato proprio da Giletti. "Scusi ma stiamo parlando di mafia o di Davigo?", domanda stupefatto Giletti. "Lei sta facendo un favore alla mafia - accusa Pedullà -. Io ho giurato di essere un giornalista controcorrente davanti alla macchina fumante di Falcone". Giletti, sotto scorta per le minacce ricevute da Cosa Nostra, allarga le braccia: "Ancora una volta tiriamo in ballo Falcone?". "La lotta alla mafia non la si fa come la fa lei, lei aiuta le cosche". Giletti si avvicina, gli punta il dito al petto: "Lei a me che aiuta le cosche non lo dice". Pedullà si alza, la situazione sfugge di mano: "Ma se aveva Buzzi in studio la scorsa settimana". Il padrone di casa è sempre più sconcertato: "Vabbè, si sieda...". E si va avanti, a fatica.

Non è l'arena, sfregio di Giuliano Ferrara a Massimo Giletti sindaco di Roma: "Destino cinico e baro, che razza di persona è". Libero Quotidiano il 12 ottobre 2020. Contro Massimo Giletti si scatena Giuliano Ferrara, che su Il Foglio di lunedì 12 ottobre verga un editoriale di fuoco contro il conduttore di Non è l'Arena, su La7. Già, l'Elefantino non lo vuole vedere sindaco della capitale (ipotesi che lo stesso Giletti nel corso della puntata di ieri, domenica 11 ottobre, di Non è l'Arena ha un poco allontanato parlando con l'avvocato di Salvatore Buzzi, troppi gli scandali emersi nel corso di Mafia Capitale). Ma si diceva, Giuliano Ferrara. L'ex direttore de Il Foglio scrive un lungo articolo in cui di fatto, tra molti distinguo, sostiene la candidatura ipotetica del centrosinistra, quella di Carlo Calenda, il leader di Azione a cui Ferrara dà importanti consigli "per evitare il metodo Giletti", come da titolo del suo fondo. E del conduttore de La7, l'Elefantino ne parla soltanto nella chiusa dell'articolo. Rivolgendosi sempre a Calenda, scrive: "È anche il segnale chiaro che non si vuole fare una furbata neoazionista, che non si vuole fare la mosca cocchiera di un clan o di una lobby, si vuole davvero contribuire, cosa che vale più della fondazione di un piccolo partito riformista e liberale, alla grande impresa nazionale e internazionale di rimettere in sesto Roma, di riparare le buche della bambolina eccetera". Ed eccoci all'attaco a Giletti: "Ma forse sbaglio io, e allora ci attende come un destino cinico e baro il sindaco Giletti, un Trump all'amatriciana fuori tempo. Io ho sempre Buzzi dietro cui ripararmi, e voi?", conclude tagliente Giuliano Ferrara.

Non è l’Arena, va in onda la faida tra i manettari: da un lato davighiani dall’altro dimatteisti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Ottobre 2020. Altro che il più puro che ti epura. Qui ormai, nel piccolo regno delle manette, si danno del mafioso l’uno con l’altro. Era inevitabile. Parte lancia in resta il giornalista “antimafia” Gaetano Pedullà che scaglia contro Massimo Giletti l’accusa più infamante: «Amico delle cosche!». Eh sì, perché il conduttore di Non è l’Arena sta dalla parte di Nino Di Matteo, il che agli occhi della corrente davighiana-travagliesca equivale ormai a stare con la mafia. La logica è quella: se non sei con me sei un nemico, e se sei un nemico non puoi essere che un mafioso. E il pubblico ministero della Trattativa è quindi diventato una specie di Totò Riina da quando ha tradito il suo mentore Piercamillo Davigo votando per il suo pensionamento totale, cioè non solo fuoruscita dalla magistratura ma anche dal Csm? Di Matteo è uno con la memoria lunga. Ha aspettato due anni a tirar fuori dalla gola un nocciolino che non andava né su né giù. E ha dichiarato guerra ad Alfonso Bonafede. Perché Luigino Di Maio nel 2018 gli aveva promesso proprio quel ministero di giustizia che poi darà invece al proprio amico siciliano Fefé. Il quale a sua volta, dopo il giuramento da guardasigilli, prenderà in giro il magistrato più scortato d’Italia offrendogli e poi sottraendogli un bocconcino ancor più succulento. Quella presidenza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che vuol dire un impero di 191 carceri, con un bilancio di due miliardi e settecento milioni di euro, con 36.000 agenti di polizia penitenziaria da governare, oltre a quel reparto speciale di non ottima reputazione che si chiama Gom e che controlla i detenuti per reati di mafia. E vogliamo buttare quei trecentomila euro di stipendio che non hanno mai fatto arrossire nessun grillino e neanche Bonafede, mentre agitava lo scalpo di qualche vecchietto ex parlamentare con un vitalizio da quarantamila euro? E quella clausola per cui, in caso di interruzione prematura del rapporto, lo stipendio viene garantito fino alla pensione? Naturalmente non era al potere né al denaro che pensava il magistrato più coraggioso d’Italia quando aveva deciso di accettare l’incarico. Lo avrebbe fatto per spirito di servizio. Ma gli fu impedito, perché il ministro gli fece lo sgambetto preferendogli – a lui che aveva creato addirittura il processo Trattativa – l’oscuro Basentini. E proprio nei giorni in cui dalle carceri speciali i mafiosi più mafiosi di tutti bestemmiavano e imprecavano perché si era sparsa la voce, qualche giornale ne aveva parlato, dell’arrivo di Di Matteo al Dap. Ovvio che Bonafede sia finito sul banco degli imputati. E la piccola compagnia di giro di Non è l’Arena – oltre a Massimo Giletti, Luigi De Magistris, la giornalista Sandra Murri, a volte il pm napoletano Catello Maresca – è compatta al suo fianco, puntata dopo puntata. Una vera campagna elettorale al fianco del consigliere del Csm (per merito di Davigo) che l’ha giurata («mi difenderò con il coltello tra i denti») a Bonafede e aspetta vendetta. Gli amici del magistrato più scortato d’Italia puntano abbastanza esplicitamente a far dimettere il ministro di giustizia proprio come il suo protetto Basentini, attaccato sul fronte professionale come su quello personale. In una famosa serata del 4 maggio l’ignaro ministro aveva osato fare una telefonata alla cupa combriccola, aspettandosi quasi dei complimenti perché aveva saputo liberarsi del suo amico capo del Dap dopo tutte le gaffe sulle cosiddette scarcerazioni dei boss. Era invece caduto nella trappola del magistrato più rancoroso d’Italia, il quale gli aveva sputato in faccia il nocciolino custodito in gola per due anni. E intanto le prefiche gli facevano coro. Il povero Bonafede non avrà più pace, da quella sera, strattonato dall’antimafia e dagli agguati dei cronisti di Giletti. Quel che aleggia da sei mesi a questa parte è che il ministro di giustizia abbia subìto una sorta di Trattativa, cedendo alla mafia. L’occhiuto Di Matteo quando sente quella parola sente addosso un prurito formidabile, una sorta di intolleranza alimentare. E, quando il coretto della sua compagnia di giro dice “ci vuole chiarezza”, oppure “il ministro deve rispondere”, e “non doveva permettersi di trattarlo così”, è come se sullo sfondo del palcoscenico brillasse la parola “mafia”. Lo si legge tra le righe ogni giorno sul Fatto quotidiano. Memorabile l’editoriale dell’8 maggio a firma Marco Lillo, in cui pare quasi che i mafiosi che temevano l’arrivo di Di Matteo fossero poi gli stessi che “brindavano” al decreto “Salva Italia” del ministro per far scontare, in mezzo all’emergenza Covid, a casa gli ultimi diciotto mesi di pena. Gli stessi che esultavano per la circolare del Dap che chiedeva fossero segnalati i casi di malati nelle carceri. Aleggia intorno alla persona di Bonafede l’insulto più sanguinoso. Ma nel piccolo circo delle manette ce n’è ormai anche per lo stesso Di Matteo, da quando Marco Travaglio ha definito “sorprendente” il suo voto per la cacciata dal Csm di Piercamillo Davigo. Non pensando mai che il magistrato più coraggioso di nocciolini in gola ne avesse due. Perché l’ex pm di Mani Pulite non si era mai fatto sentire, mentre lui accusava e protestava. Perché mai (figuriamoci, il “dottor Sottile”!) aveva aperto la bocca per sostenere il suo amico. Il quale al Dap forse avrebbe potuto andarci anche nel 2020, una volta estromesso Bansentini. Meglio tardi che mai. Invece no. Ecco perché l’altra sera Gaetano Pedullà ha gridato a Giletti: «Lei sta facendo un favore alla mafia», aggiungendo che Di Matteo, prima di poter essere difeso, prima di poter stare ancora nella famiglia dei più puri, avrebbe dovuto spiegare il suo voto contro Davigo, la sua seconda vendetta. Poi, come se le due cose fossero collegate, aveva concluso dicendo che “Basentini è una persona di elevatissima caratura”. Tiè, caro Di Matteo, quel posto lì proprio non lo meritavi. E forse, nel metterti contro Davigo, hai ceduto anche tu alla Trattativa. Così ormai sono accusati di essere “mafiosi” un po’ tutti, sia quelli che stanno con Di Matteo (il club di Giletti), che quelli che stanno con Bonafede e Davigo, il circolo di Travaglio. Arriveranno altri più puri dei puri e dei più puri?

La minaccia di Travaglio a Di Matteo: “Sei un traditore, te ne pentirai!” Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Ottobre 2020. Vendetta, tremenda vendetta: firmato Nino Di Matteo. Pagherete caro, pagherete tutto: firmato Marco Travaglio. Che bello scompiglio tra le quinte del clamoroso benservito dato dal Csm a Piercamillo Davigo. Non per la silenziosa ma ferma moral suasion del presidente Mattarella sul suo vice David Ermini né per il pollice verso dei due vertici della cassazione, Canzio e Salvi. Ma per il Bruto che aveva banchettato al regno del principe, aveva assaporato uno per uno i voti che Davigo gli aveva procacciato per farlo trionfare in un’elezione suppletiva dello stesso Csm, e ora, dopo aver schiaffeggiato il gallo per farlo cantare, lo aveva pugnalato a morte. Nino Di Matteo, il pupillo giovane (che in realtà ha solo una decina d’anni meno di Davigo), acciuffato per i capelli dal suo mentore dopo una serie di delusioni. Perché non era diventato il ministro dei Cinque stelle e neanche presidente del Dap né capo di una qualche procura antimafia. Era stato poi cacciato dal procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho dal pool sui “mandanti” delle stragi in quanto troppo chiacchierone. Roba da depressione permanente. Ma ecco che Davigo prende il “giovane” Di Matteo per la collottola e gli regala il posticino al Csm. Facendo i conti con il pallottoliere, pur con i vertici schierati contro, Piercamillo Davigo, pur spogliato della toga in occasione del settantesimo compleanno, sarebbe oggi ancora sul suo scranno di consigliere. Se il suo allievo Nino Di Matteo non avesse gridato vendetta, tremenda vendetta e non lo avesse pugnalato. Se ne è accorto subito Marco Travaglio, cui il voto del Csm ha tolto qualche chilo di pelle dal corpo, portandolo quasi alle lacrime. E non limitandosi, questa volta, alla solita tiritera contro “i correntocrati della destra e della sinistra”, e poi tutti noi delinquenti e garantisti “pelosi”. A tal proposito, caro Marcolino, dà pure della “pelosa” a tua zia, ma non ti permettere con me, chiaro? Questa volta il direttore del Fatto colpisce sotto la cintura anche un suo (ex?) amico, e regala solo due aggettivi a Nino Di Matteo, «inspiegabile e sconcertante». Eppure la capacità intuitiva non gli manca. Dov’era Piercamillo Davigo mentre il pm più scortato d’Italia piangeva ogni domenica sera da Massimo Giletti per non essere diventato capo del Dipartimento dell’amministrazione carceraria quando il ministro Bonafede glielo aveva proposto, preferendogli alla fine il dottor Basentini? Mai si era sentita la voce di Davigo unirsi alla protesta, in quei giorni. E quando infine, proprio in seguito a quelle trasmissioni e alla grande canea conseguente a qualche sospensione di pena per detenuti anziani e malati, anche Basentini era stato cacciato e si aprivano le porte per Di Matteo, che cosa ha fatto in suo favore Davigo? Niente, assolutamente niente. Così quel niente è stato ricambiato. Vendetta, tremenda vendetta. Perdo io e perdi tu. Ma può essere che un boomerang aleggi oggi sulla testa di Di Matteo. Lo si intravede nelle parole finali del lugubre canto di Marco Travaglio. Tutti questi traditori, scrive, «un giorno si accorgeranno di non aver colpito Davigo ma l’idea stessa di Magistratura, come non riuscirebbero a fare neppure mille Palamara. E forse un giorno si vergogneranno». La guerra non è finita. Pagherete caro, pagherete tutto, si sarebbe detto una volta. Fossimo in Di Matteo staremmo attenti. Non con la scorta, ma con il curriculum.

Cacciata di Davigo: Di Matteo non è stato un traditore ma l’unico serio. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 25 Ottobre 2020. Ospite di Piazza Pulita su LA 7, l’ormai ex magistrato Piercamillo Davigo ha detto una cosa che non può non colpire: se solo avessi avuto un cenno (dal presidente del Csm Mattarella, si intende) circa l’orientamento del Comitato di Presidenza in senso contrario alla mia permanenza, mi sarei immediatamente dimesso. Dico subito che credo senza riserve a quanto dice il dott. Davigo, del quale avverso con tutte le forze le idee sulla giurisdizione e sul processo penale, ma la cui esemplare integrità morale davvero nessuno può mettere in dubbio. Ed anzi confesso di aver provato empatia verso il servitore dello Stato, di stampo antico, che dice: avrei obbedito, perché non risparmiarmi questa umiliazione? Senonché, sono portato a pensare che nessun cenno gli è stato fatto per la semplice ragione che fino all’ultimo si è cercato di salvare, più che il soldato Davigo, l’assetto politico del Csm che aveva appena giudicato e rimosso dalla magistratura, con molta fretta, il dott. Luca Palamara. Se e fino a qual punto il dott. Davigo avesse fatto affidamento proprio su questa inerzia, lo sa solo lui; ma la partita si è giocata su questo tavolo, non certo su quello della controversia tecnico-giuridica, come si vorrebbe farci credere; e nemmeno sul piano, come dire, personale nei confronti del magistrato simbolo della stagione di Mani Pulite. Ma quando poi, con malcelata amarezza, egli lamenta che quel silenzio ingannevole dei vertici del Csm lo abbia ingenerosamente esposto ad un danno di immagine, come di un magistrato “attaccato alla poltrona”, qui il Nostro scivola nella retorica populistica un po’ troppo facile, ancorché a lui assai congeniale. Qui il dott. Davigo (che peraltro avrebbe avviato, stando a notizie di stampa, altra controversia per veder retroattivamente rivalutata la sua sconfitta nella corsa a Primo Presidente della Corte) deve prendersela solo con sé stesso. Il quadro dei principi era ed è chiarissimo, il Consiglio di Stato si era già pronunciato esattamente in termini quando egli ha deciso di ingaggiare questa battaglia. Ed anzi, egli aveva avuto altre due eccellenti occasioni per buttare dignitosamente la spugna: il giudizio negativo della Commissione che di norma lui stesso presiedeva; ed il parere drasticamente negativo della Avvocatura dello Stato (incredibilmente secretato: il che la dice lunga su quanto il Consiglio o gran parte di esso stesse cercando di sostenerlo). Ha voluto tenere il punto, non ha che da recriminare con sé stesso. Ma una riflessione a parte merita il voto finale espresso dal Csm, che conferma una volta di più la deriva davvero incontrollabile della crisi di autorevolezza e credibilità che attanaglia la magistratura italiana ed il suo vertice istituzionale. Ancora una volta, su una questione del tutto tecnica, si è votato per schieramenti, e per dosimetrie correntizie. Il tema era se il magistrato in pensione potesse rimanere in carica: cosa c’entra qui la corrente di appartenenza? Ogni commento è superfluo. E merita invece plauso il voto libero ed “imprevisto” del dott. Nino di Matteo. Per Travaglio -che incarna l’idea platonica della faziosità più incontinente e spregiudicata- si tratta di un voto “inspiegabile”; per molti, anche all’interno della stessa magistratura, sarebbe stata addirittura una ritorsione contro il silenzio di Davigo sulla nota vicenda della mancata nomina al Dap. Che si debba essere proprio noi avvocati a presumere, almeno presumere, un gesto di onestà intellettuale e di libertà morale da parte di un magistrato pur assai lontano da noi, la dice lunga -per parafrasare Gadda– su quanto sia grave “quel pasticciaccio brutto di piazza Indipendenza”.

La cacciata dal Csm del suo mentore. Dal falso pentito alle pugnalate a Davigo, storia di Nino Di Matteo il Pm più scortato d’Italia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. Tradimento. Una nuova freccia è scoccata dall’arco del pubblico ministero più scortato d’Italia, e forse, chissà, questo comporterà un rafforzamento della sua sicurezza. Perché ormai Nino Di Matteo ha litigato con tutti e in poche ore ha sbriciolato le due relazioni principe nella sua vita davanti allo specchio, quella con il suo mentore Piercamillo Davigo, cacciato dal Csm con il suo voto determinante, e l’altra con il suo ragazzo pompon Marcolino Travaglio che, a causa di quel voto, gliel’ha giurata. E a ogni rottura è una tacca sulla sua toga e qualche uomo di scorta in più. Perché tutto intorno a lui è minaccia. Quando perde un processo, quando ha un inciampo di carriera. Quando litiga, quando si arrabbia. Da Scarantino a Davigo, potrebbe essere il titolo di un suo prossimo libro, quello delle sue confessioni. Il tradimento di questi giorni nei confronti del suo mentore, il suo leader politico, quello che lo ha acciuffato per i capelli mentre lui stava annegando nei propri fallimenti. Perché non era riuscito a diventare ministro di giustizia con la benedizione dei grillini e neanche capo del Dipartimento dell’amministrazione carceraria. Ogni volta surclassato da personaggi modesti, su questo ha qualche ragione. Non si può proprio dire che Bonafede e Basentini siano due allievi di Calamandrei. Ma umiliato anche dal capo dell’antimafia che lo aveva cooptato in un pool sulle stragi e poi licenziato perché chiacchierone con la stampa. Davigo era stato generoso con lui, portandolo con sé al Csm e procurandogli i voti per essere eletto. Ma ignorava che il suo allievo nascondesse il pugnale sotto la toga. E con lui il ragazzo pompon Travaglio che si era spellato le mani in quei festeggiamenti, sprizzando gioia a champagne. Ma Nino Di Matteo deve sempre fare pagare agli altri i propri insuccessi, la propria difficoltà nel salire le scale. È ormai storia. E vendetta. Lo hanno aiutato, ma non abbastanza. La sua carriera di pm “antimafia”, la credulità, la capacità di girare la testa da un’altra parte davanti a un’operazione di pasticceria che ha manipolato un piccolo spacciatore di periferia fino a venderlo sul bancone dell’antimafia come uno degli assassini di Paolo Borsellino. Enzino Scarantino, quello che sapeva tutto perché c’era, perché aveva procurato lui la macchina-bomba della strage. Il grande depistaggio di Stato che avrebbe potuto essere smascherato subito, fin da quando la lettera della moglie del “pentito” e qualche visita parlamentare alle carceri speciali di Pianosa e Asinara denunciarono le torture e il “pentitificio” che in quei luoghi maledetti veniva costruito. Stiamo parlando del 1993. E il processo-farsa organizzato dal depistaggio di Stato costruito su Enzino è andato avanti con la benevola partecipazione di Nino Di Matteo fino al 2017, fino a quando il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza non ha cavato, al pm e ai giudici, le castagne dal fuoco, risolvendo il “giallo” della morte di Borsellino e scrivendo, di fatto, la sentenza. Mandando a casa una ventina di innocenti, qualcuno dei quali torturato a Pianosa o Asinara. Venticinque anni di distrazione e di crescita di scorte perché i boss mafiosi, pur vedendo che lui non ne azzeccava una, continuavano a riempire di minacce il pm Di Matteo. Il quale sosteneva più o meno che era tutta colpa di Berlusconi. E una volta, nel corso di una cerimonia ufficiale di commemorazione proprio della strage di via D’Amelio, non potendo prendersela con se stesso perché ancora non cavava un ragno dal buco, e anzi aveva contribuito a far incriminare degli innocenti, attaccò briga da lontano anche con il presidente Napolitano e con il premier Matteo Renzi. Tutti amici e complici di Berlusconi. Il suo mantra consiste nel suo essere un “isolato” e sul fatto di stare sulle scatole più o meno a tutti. Questo lo fa sentire forte, vuol dire che è il migliore. Che è fuori, soprattutto. Fuori da ogni intrallazzo, da ogni mercimonio, da ogni oscena trattativa. Come quella che sta impegnando diversi giudici, e siamo già al secondo grado di giudizio, per stabilire se un gruppo di servitori felloni dello Stato e di politici piagnucolosi abbia trattato con la mafia negli anni Novanta per far cessare le stragi. Non lo hanno fatto, in caso contrario il loro comportamento sarebbe stato encomiabile. Come lo sono stati gli atti decisivi di coloro, come il generale Mori, che hanno arrestato i boss latitanti e sconfitto la mafia in Sicilia. Se non c’è trattativa, c’è cedimento. Altra parola scritta con la maiuscola nel vocabolario del pm Di Matteo. La sua espressione preferita è “cedimento dello Stato” nei confronti della mafia. Succede di continuo. È capitato con le famose scarcerazioni (che poi erano solo differimenti della pena) dei boss mafiosi per motivi di salute durante la prima pandemia da covid-19. In quei giorni il pm più scortato d’Italia disse che lo Stato pareva «aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato-mafia». E come ci si sarebbe potuti dimenticare di questo ritornello visto che viene cantato e solfeggiato nelle tante apparizioni televisive del dottor Di Matteo? A questo punto, persa la tribuna del Fatto quotidiano, persa l’amicizia di Davigo (non si illuda, dottor Di Matteo, quello non va a passare gli anni della pensione ai giardinetti, lo rivedremo presto), può sempre contare su qualche domenica sera nello studio di Massimo Giletti. Il quale, forse anche in seguito a qualche puntata in cui insieme protestavano per le scarcerazioni dei boss, è lui pure sotto scorta.

 Davigo esalta la giustizia delle toghe: ritardi e difesa menomata sono primati? Errico Novi su su Il Dubbio il 25 ottobre 2020. L’ex consigliere del Csm difende se stesso e anche la magistratura, la capacità di controllo e sanzione dell’ordine giudiziario. Davigo si difende. E ne ha diritto. Ma nel suo intervento a Piazzapulita di quattro sere fa difende anche la magistratura, la capacità di controllo e sanzione dell’ordine giudiziario. E su questo secondo versante è più esposto a critiche. Dice che sul “caso Procure” i magistrati, a differenza della politica, hanno offerto una risposta esemplare e tempestiva: «I componenti del Csm che erano stati coinvolti in quella vicenda si sono dimessi, e come magistrati sono sottoposti a procedimento disciplinare. C’erano due politici, non mi consta che i loro partiti abbiano detto alcunché». Un momento. A parte il fatto che quanto a tempestività siamo messi così male da vedere ora il processo disciplinare ai 5 ex togati messo a serio rischio annullamento. Dopodiché dovremmo riproporre, come ogni tanto si è costretti a fare, un’intervista che Giovanni Maria Flick ha concesso al nostro giornale. È davvero incredibile, ha detto il presidente emerito della Consulta, la lentezza con cui sia l’Anm sia il Csm si sono ricordate che esistono un accertamento deontologico e uno disciplinare. Davigo fa vanto al Csm della meravigliosa macchina sanzionatoria abbattutasi sul Palamara. Ma certo non ci si può rallegrare del solo vero primato stabilito da quel procedimento: l’incredibile compressione del diritto di difesa.Neppure un teste ammesso su 133 richiesti, tranne i 5 su cui l’accusa era concorde. Motivo: non si è ritenuto opportuno processare l’intero sistema, ci si doveva limitare alla cena con Cosimo Ferri. Sarebbe questa la grande capacità di autocritica della magistratura? Davigo non è componente del Csm, almeno per ora. Con la sua intelligenza può permettersi di essere molto più obiettivo.

Le toghe furiose. Regolamento di conti tra i davighiani, il pupillo Di Matteo sotto accusa e A&I sparisce. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Ottobre 2020. All’indomani della decadenza di Piercamillo Davigo da consigliere del Csm, è partita fra i davighiani di stretta osservanza la caccia al traditore. Il primo a finire sul banco degli imputati è stato Nino Di Matteo, il pm del processo Trattativa Stato mafia che con il suo voto è stato determinante per spedire a Milano, con biglietto di sola andata, l’ex pm di Mani pulite. Di Matteo era stato candidato al Csm nelle liste davighiane alle elezioni suppletive per la categoria dei pubblici ministeri che si erano tenute esattamente un anno fa. La sua candidatura avvenne a furor di popolo, con una presentazione in grande stile: direttamente dal palco della festa del Fatto Quotidiano alla Versiliana. Il magistrato siciliano, intervistato da un euforico Marco Travaglio, affermò di «non essere iscritto alle correnti e di non essere intenzionato a farlo», e di voler rappresentare una candidatura «autonoma e indipendente» dopo lo scandalo che aveva coinvolto la magistratura con il Palamaragate. Ed “autonomo” ed “indipendente” Di Matteo lo è stato per davvero, votando lunedì scorso «con grande difficoltà umana, ma in piena coscienza», a favore della decadenza di Davigo dal Csm per sopraggiunti limiti di età. Una presa di distanza forte dagli altri davighiani della prima ora, Giuseppe Marra, Ilaria Pepe e Sebastiano Ardita che, invece, si erano battuti con il coltello fra i denti per perorare la causa di Davigo, avventurandosi nell’improbabile tesi che si potesse rimanere al Csm anche da pensionati. Tesi stroncata sia dai vertici della Corte di Cassazione che dal vice presidente David Ermini e, quindi, dal Quirinale. La convivenza fra Di Matteo e Davigo al Csm non era mai stata particolarmente idilliaca. Difficile la coabitazione sotto lo stesso tetto di due magistrati “iper mediatici”. Di Matteo, comunque, aveva anche rotto con la pattuglia dei laici in quota M5s al Csm, Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti, quando la scorsa primavera sferrò nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede un attacco pancia a terra. Durante la trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti su La7, in collegamento telefonico, a proposito delle scarcerazioni di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, Di Matteo, senza peli sulla lingua, aveva rinfacciato a Bonafede di aver dato retta ai boss non nominandolo al vertice del Dap nell’estate del 2018. Parole pesantissime che avevano lasciato “esterrefatto” il Guardasigilli grillino, scatenando immediatamente una violenta polemica politica. «I consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell’esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l’autorevolezza del Consiglio», dissero i laici pentastellati. Adesso, dunque, sulle chat delle toghe di Autonomia&indipendenza, tutti a chiedersi il perché di questa candidatura. All’inizio della carriera Di Matteo aveva strizzato l’occhio ai colleghi di sinistra dei Movimenti per la giustizia, il gruppo di Armando Spataro, ora confluiti insieme a Magistratura democratica nel cartello progressista Area. Crescendo abbracciò i centristi di Unicost, la corrente dell’ex zar delle nomine al Csm Luca Palamara. Nelle liste di Unicost venne eletto alla Giunta dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo, divenendone il presidente per un intero mandato. Senza Davigo al Csm il gruppo davighiano è destinato a sciogliersi come neve al sole. La parabola di Autonomia e Indipendenza è impietosa: nel 2016 dopo qualche mese dalla costituzione, il botto alle prime elezioni, quelle dell’Anm, con quasi 1300 voti. Poi nel 2018 il plebiscito di Davigo con oltre 2500 voti. Ieri, il tracollo: 750 i voti per il rinnovo del parlamentino togato. Voti che non sarebbero sufficienti per eleggere nemmeno un consigliere al Csm. La compagine attuale a Palazzo dei Marescialli è di quattro, compreso appunto Di Matteo. Le elezioni per l’Anm, ieri lo scrutinio, segnano una buona affermazione per la destra giudiziaria di Magistratura indipendente, dimezzamento dei voti per Unicost post Palamara, stabile il cartello progressista, successo per gli “anticorrente” di Articolo 101.  Si chiude dunque un’epoca per i davighiani. Non è stata premiata, dopo il Palamaragate, l’alleanza innaturale con la sinistra giudiziaria. Il futuro è quanto mai incerto. L’assenza di Davigo già si fa sentire.

DAGONEWS il 21 ottobre 2020. I tumulti nella magistratura continuano, tra colpi di scena e futuri incerti. L'uscita rumorosa di Piercamillo Davigo, pensionato ma che voleva continuare a far parte del Csm per altri due anni, avrà strascichi: l'ex pm presenterà ricorso al Tar e darà battaglia. Anche se nelle urne delle elezioni nell'Anm gli effetti del suo declino si sono già sentiti: il suo movimento ha perso un quarto dei voti rispetto all'ultima tornata. Soprattutto, si è sentito l'''effetto Mattarella''. Il presidente della Repubblica, nonché del Consiglio Superiore della Magistratura, ha votato (per modo di dire) attraverso il suo vice David Ermini. Quando questi si è schierato per il ''no'' a Davigo, lo hanno seguito voti di peso come Curzio e Salvi. Davigo era considerato un rompiscatole (eufemismo) da tutti ma ha anche fatto dei passi falsi. Come ad esempio non schierarsi con il simbolo dell'antimafia Nino Di Matteo nella diatriba con il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede. Quella posizione, in linea con il duplex Travaglio-Conte, gli è costata cara nell'urna: Di Matteo ''con difficoltà umana'' ha votato per la sua estromissione. Eppure Di Matteo era stato eletto un anno fa grazie ai voti della corrente davighiana. Ma troppa acqua è passata sotto i ponti. Il caso Palamara, il caso boss scarcerati… Adesso le parole d'ordine a Palazzo dei Marescialli sono: etica e compattezza. Etica perché la categoria non poteva farsi beccare per l'ennesima volta a tutelare i propri interessi (anzi, quelli di Davigo a non mollare la poltrona) in barba a quello che succede alle persone comuni, che quando vanno in pensione si beccano al massimo un orologio, anzi un i-watch per contarsi i battiti. Con Davigo fuori si spengono anche certe faide interne che avrebbero strappato ancora di più i rapporti già troppo sfilacciati. Compattezza intorno al ''capo'': Mattarella non interviene direttamente nelle faccende delle toghe ma fa in modo felpato che la sua posizione sia chiara a tutti. Là fuori c'è ancora una mina inesplosa che si chiama Luca Palamara, che non si aspettava quell'espulsione nell'ignominia dal Csm ed è sempre più tentato di vuotare il sacco delle intercettazioni, dei ricordi e delle agendine. In questo momento i magistrati appaiono un po' persi, nessuno ha in mano il pallino della strategia, le correnti vanno in ordine sparso e manca quella coesione di una volta. Ti credo, il collante era Palamara. Ma non è solo questo: mancano riferimenti forti nelle procure di Roma e Milano, le più importanti, palesemente indebolite. La prima, dalla sanguinosa lotta per il procuratore capo del dopo Pignatone, che dall'Hotel Champagne ha tirato giù qualche decina di magistrati dall'Olimpo dei puri e scoperchiato il sistema della scelta per correnti e non per titoli (Ermini dixit). E Palamara dall'altare è ruzzolato nella polvere. La seconda ha appena subito una notevole sconfitta giuridico-politico-economica: dopo due richieste di archiviazione a favore di Profumo e Viola, ha visto la condanna pesantissima per i due manager. Sei anni sono tanti se si pensa che per l'omicidio colposo di Viareggio Mauro Moretti ne ha presi 7. Come a dire: la musica è cambiata, qua tocca serrare i ranghi e mostrare che non siamo tutti Palamari dell'inciucio. Bisogna essere fermi nella posizione di estremo carattere etico. Insomma, non ci possiamo più permettere certi processi su scandali (conclamati e verificati) che si risolvono a tarallucci e vino. Questo strappo tra magistratura inquirente e giudicante potrebbe essere il prologo della separazione delle carriere? Non pochi pensano che il momento sia ormai arrivato, da celebrare insieme alla riforma del Csm al fine di depontenziare le correnti. Ovviamente le spinte per la separazione vengono da lontano, sia a livello storico che geografico: gli investitori esteri mettono ogni volta al primo posto l'incancrenito sistema giudiziario tra le ragioni per cui non vogliono venire in Italia. Dieci anni per risolvere un contenzioso civile è il deterrente più grande. E Dio solo sa quanto serve ora l'investimento degli stranieri. Il messaggio è comunque arrivato tra i ranghi: la magistratura non potrà essere più quella dell'era Palamara. E nei prossimi mesi è in arrivo la sentenza sul caso Descalzi-Eni...

Giacomo Amadori per “la Verità” il 21 ottobre 2020. I risultati delle elezioni per il nuovo Consiglio direttivo centrale (Cdc) dell'Associazione nazionale magistrati, il parlamentino del sindacato dei giudici, mandano un bel segnale ai vertici della magistratura italiana. La maggioranza delle toghe non è influenzabile dalle campagne di stampa e non basta controllare i principali quotidiani per capovolgere i rapporti di forza dentro alle correnti. E se Luca Palamara, dopo essere stato radiato dalla magistratura, avrà da qui in poi molto tempo libero, potrebbe proporre qualche pomeriggio ai giardinetti a un altro umarell uscito con le ossa rotte dalle elezioni, quel Piercamillo Davigo prepensionato suo malgrado dal Consiglio superiore della magistratura. Nel 2016 le elezioni del Cdc dell'Anm avevano sancito il trionfo di Palamara, che aveva trascinato la sua corrente, Unicost, a un trionfo elettorale con pochi precedenti: 13 seggi e 2522 voti di lista su 7272 totali. Distaccata di ben 700 voti c'era la lista dei magistrati progressisti di Area, storici alleati della Unicost palamariana. Nel 2016 nella maggioranza che governa l'associazione inizialmente entrano tutte le correnti. Dopo pochi mesi, però, esce dalla giunta Autonomia & indipendenza, il gruppo fondato da Davigo. Infine, quando scoppia il caso Palamara e vengono pubblicate sui quotidiani le conversazioni della riunione dell'hotel Champagne, a cui prende parte anche Cosimo Ferri, parlamentare del Pd e big della corrente conservatrice di Magistratura indipendente, le toghe moderate finiscono all'opposizione. Unicost tenta un'operazione di maquillage proponendosi ai suoi elettori come corrente depalamarizzata. Area cavalca lo scandalo presentandosi come l'unico gruppo in grado di contrapporsi alle logiche spartitorie dei Palamara e dei Ferri. A&i sembra la più attrezzata a manovrare la ghigliottina, anche perché Davigo guida il processo a Palamara e porta fuori dal guado dello scandalo, a colpi di distinguo e cavilli, gli altri consiglieri del Csm finiti nelle chat del magistrato radiato, in primis il vicepresidente David Ermini. Tutto ciò non è, però, bastato a evitargli il pensionamento, deciso lunedì dal parlamentino dei giudici. Le elezioni concluse ieri dimostrano che le strategie da pentapartito di chi aveva banchettato con le spoglie di Palamara non hanno pagato. Area, la nuova Unicost e A&I, ovvero l'insieme delle forze che più hanno sostenuto l'operazione di esclusione dalla stanza dei bottoni delle toghe anche solo sospettate di intelligenza con l'asse Palamara-Ferri, hanno preso una sonora batosta. I loro seggi, sommati, sono scesi da 28 a 22 (per avere la maggioranza in consiglio ne bastano comunque 19) e i voti addirittura da 5629 a 3746 (su 6045). Area ha guadagnato due posti nel Cdc (il più votato è stato il presidente uscente dell'Anm Luca Poniz - 739 preferenze-), ma ha perso una cinquantina di voti rispetto al 2016 e addirittura 486 se confrontati con il 2012. Insomma lo zoccolo duro delle toghe di sinistra piano piano si sta erodendo. Resta loro la speranza di andare a pescare nel bacino di Unicost, che dopo il caso Palamara, è stata la più penalizzata: ha perso oltre il 50 per cento dell'elettorato ed è scesa a 7 seggi (Alessandra Maddalena, con 412 preferenze, la più votata). Vedere il segretario generale Francesco Cananzi, l'uomo che spediva i pizzini con le preferenze per le nomine in Campania, presentarsi come il nuovo che avanza non ha portato risultati. Ma la vera débâcle è stato quella di A&i: le sue preferenze sono passate da 1271 (nel 2016 la lista venne trascinata da Davigo) a 749 (quasi la metà -363 voti- sono stati raccolti dall'ex consigliere del Csm Aldo Morgigni). Pietro Nenni diceva: «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura». L'adagio è stato confermato dalle toghe del movimento Articolocentouno, una lista fuori dalle correnti che sostiene il sorteggio dei consiglieri del Csm e la rotazione dei dirigenti di tribunali e procure. Nel 2012 avevano conquistato un seggio, oggi ben 4. Due saranno occupati da Andrea Reale, giudice a Ragusa (296 preferenze) e Giuliano Castiglia (222), gip a Palermo, da un anno i grilli parlanti della magistratura con i loro commenti sulle mailing list e i loro articoli sul blog Uguale per tutti, con cui hanno denunciato l'ipocrisia di tanti colleghi che pensavano che il sacrificio di Palamara fosse sufficiente a voltare pagina. Reale ieri ha commentato: «Si è finalmente sentita la voce degli indipendenti. È un buon risultato, ma c'è ancora tanta strada da fare sul piano culturale e associativo». Altra sorpresa di queste elezioni è l'inaspettato exploit di Magistratura indipendente, che sembrava essere stata rasa al suolo dalle intercettazioni dello Champagne, che portarono alle dimissioni del presidente dell'Anm Pasquale Grasso, del segretario Antonello Racanelli e dei consiglieri del Csm Antonio Lepre e Corrado Cartoni. Mi ha portato i propri seggi da 8 a 10 (il primo della lista è Salvatore Casciaro, con 415 voti), ma al contrario di Area ha visto crescere anche le preferenze. È chiaro che la magistratura sta andando verso un bipolarismo destra-sinistra, eliminando dal campo la vecchia Balena bianca di Unicost. L'elettorato centrista, di fronte alla prospettiva di fare da predellino ad Area, ha preferito cambiare schieramento o non votare. Con questo trend di smottamento a sinistra, alle prossime elezioni del Csm, Unicost rischia di far eleggere a Palazzo dei marescialli solo due giudici di merito e neanche un pubblico ministero. Resta da capire che cosa resterà di A&i. L'impressione di molti e che, con il pensionamento di Davigo, si scioglierà in fretta e che Sebastiano Ardita, ex delfino di Ferri, potrebbe guidare, in questo nuovo scenario bipolare, il ritorno a casa dei fuoriusciti di Mi. Anche perché Ardita, pm catanese, si dice sia stato scaricato da Davigo, nonostante abbia votato contro il suo pensionamento. Davanti agli inquirenti di Perugia l'ex campione di Mani pulite avrebbe dichiarato che i rapporti tra Ardita e l'ex pm Stefano Fava, autore di un esposto contro l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, lo avevano fatto arrabbiare. Un'ammissione che potrebbe essere sufficiente a segnare una frattura definitiva tra i due.

Ridimensionata la sua corrente. Pm stufi di Davigo: la sua corrente (Autonomia e indipendenza) esce a pezzi dalle elezioni nei Consigli giudiziari. Paolo Comi Il Riformista il 17 Ottobre 2020. Il primo effetto del Palamaragate? La sconfitta dei giustizialisti in toga. Ad iniziare da Piercamillo Davigo. La nemesi si è consumata questo fine settimana con le elezioni per il rinnovo della componente togata all’interno dei Consigli giudiziari, le “propaggini” del Csm nei vari distretti di Corte d’Appello. Elezioni poco pubblicizzate sui media ma importantissime in quanto i Consigli giudiziari si occupano di redigere i pareri per le valutazioni di professionalità, di mettere il visto sulle domande di tramutamento, di valutare i profili disciplinari dei magistrati. Il Csm, ad esempio, quando si tratta di nominare un magistrato per un incarico direttivo, fa molto affidamento su cosa è stato scritto nei suoi confronti dal Consiglio giudiziario di appartenenza. Le elezioni per il rinnovo dei Consigli giudiziari, dopo lo tsunami che aveva travolto la magistratura lo scorso anno, avrebbero dovuto “premiare” le correnti che denunciarono indignate quanto accaduto all’hotel Champagne di Roma. Per descrivere il celebre incontro al quale aveva partecipato l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, cinque consiglieri del Csm e i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, venne scomodata addirittura la loggia P2 di Licio Gelli. Il risultato delle elezioni ha, però, deluso le aspettative della vigilia, segno evidente che molti magistrati non si sono fatti condizionare dalla campagna di stampa, con scientifica diffusione di intercettazioni, che cavalcò nel 2019 lo scandalo. Alcune di queste intercettazioni, poi, si rivelarono dei tarocchi, come nel caso della frase di Luca Lotti, “ragazzi si vira su Viola”, a proposito di Marcello Viola, procuratore generale di Firenze all’epoca candidato per la Procura di Roma, mai pronunciata dal politico toscano. Un “errore” di trascrizione da parte del Gico della guardia di finanza che bruciò la nomina di Viola, spalancando le porte a Michele Prestipino, fedelissimo di Giuseppe Pignatone. La corrente di Davigo, Autonomia e indipendenza, è uscita a pezzi dalla tornata elettorale. Alcuni dati fotografano la disfatta. Nel distretto di Milano, quello che, con l’inchiesta Mani pulite, ha reso celebre Davigo, solo 89 giudici su 624 hanno votato i candidati davighiani. In Corte di Cassazione, l’ultima sede di servizio di Davigo come presidente di sezione, i voti sono stati 32 su 331. Nel distretto di Roma, il più importante e dove si è consumato il Palamaragate, su 716 votanti, le preferenze ai davighiani sono state 37. A Firenze, infine, A&I non è pervenuta: zero i voti. Erano stati 50 alle passate elezioni. Numeri bassissimi se rapportati alle forza che ha adesso la corrente di Davigo all’interno del Csm dopo le dimissioni dei cinque togati dell’hotel Champagne: cinque componenti, considerando anche il pm antimafia Nino Di Matteo eletto come indipendente nelle liste di A&I, su sedici complessivi. L’attuale compagine del Csm, che non riflette la volontà degli elettori, deciderà comunque le nomine nei prossimi due anni. I davighiani arrivavano a queste elezioni con il vento in poppa: furono loro a chiedere, dopo l’esplosione del Palamaragate, la testa del presidente dell’Anm Pasquale Grasso che aveva come unica colpa quella di essere esponente di Magistratura indipendente, la corrente di tre dei cinque togati dello Champagne. Grande nervosismo viene segnalato da parte degli sconfitti. Un deja-vu di quanto accaduto lo scorso quando venne eletto Antonio D’Amato, esponente di Magistratura indipendente, al Csm. «L’esito delle votazioni restituisce un’immagine della magistratura in cui una parte degli elettori continua a non volersi affrancare dalle vecchie logiche clientelari», dissero gli avversari. Davigo, però, può consolarsi con la campagna pancia a terra che sta portando avanti da settimane il Fatto Quotidiano per scongiurare il pericolo che il prossimo 20 ottobre, al compimento dei settant’anni, debba lasciare il Csm. Ieri è stato il turno di Antonio Esposito, presidente del collegio di Cassazione che condannò Silvio Berlusconi e da tempo editorialista del quotidiano di Marco Travaglio. Il giorno prima analogo compito era toccato al togato Giuseppe Marra, davighiano della prima ora.  «Sono sicuro che ne uscirai presto a testa alta», scrisse Marra a Palamara, il giorno che i giornali diedero la notizia dell’indagine nei suoi confronti. Non è stato, a posteriori, un messaggio di buon auspicio dal momento che domani Palamara sarà espulso dalla magistratura dalla disciplinare del Csm dove siede proprio Davigo.

Davigo non molla la poltrona del Csm e presenta la sua memoria. Il Dubbio il 17 settembre 2020. Il magistrato compirà il prossimo 20 ottobre i settanta anni. Età massima per il trattenimento in servizio delle toghe. A suo giudizio, però, l’incarico di togato al Csm non sarebbe soggetto alla scure dell’anagrafe. La commissione “Verifica titoli” del Consiglio superiore della magistratura ha iniziato ieri lo studio del dossier relativo a Piercamillo Davigo. Il magistrato compirà il prossimo 20 ottobre i settanta anni. Età massima per il trattenimento in servizio delle toghe da quando l’allora premier Matteo Renzi decise di modificare il termine, voluto dal governo Berlusconi, dei settantacinque anni. L’argomento, sulla carta molto tecnico, ha dei risvolti importanti per il funzionamento dell’organo di autogoverno. Davigo, infatti, è componente della commissione per gli Incarichi direttivi e della sezione disciplinare. Ruoli strategici e di assoluta importanza a Palazzo dei Marescialli. L’ex pm di Mani pulite già nelle scorse settimane aveva sollecitato la commissione a una positiva decisione, anche con una memoria in cui richiama le ragioni secondo cui ritiene di poter restare consigliere superiore anche dopo il congedo. A suo giudizio, infatti, l’incarico di togato al Csm non sarebbe soggetto alla scure dell’anagrafe. Giacché, è questa la tesi, i requisiti, fra cui quello dell’età, dovevano essere posseduti all’atto della elezione a piazza Indipendenza: una volta eletto, si sarebbe dovuto tenere conto solo della durata quadriennale dell’incarico. Di diverso avviso, invece, molti giuristi, i quali richiamavano sul punto anche una sentenza del Consiglio di Stato del 2011. Il direttore della rivista di Magistratura democratica Questione giustizia, Nello Rossi, all’inizio dell’estate aveva aperto il dibattito sul tema. La sua tesi è che Davigo debba lasciare. Fra i motivi, l’impossibilità di essere sanzionato qualora avesse commesso un illecito di carattere disciplinare. La discussione, va detto, si era posta già quando Davigo accettò la candidatura, essendo noto che avrebbe compiuto settant’anni a metà mandato. In un’intervista a questo giornale, l’allora leader di Unicost Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena, aveva manifestato perplessità sulla possibilità, pur trattandosi di un incarico elettivo, di derogare alle norme sullo status giuridico dei magistrati. Il plebiscito di Davigo, oltre 2.500 voti, aveva fatto dimenticare la questione che, però, si è riproposta. L’ultima parola spetterà al Plenum. L’Ufficio studi del Csm aveva redatto anni addietro un parere, tornato di attualità, sul tema dell’età pensionabile dei magistrati eletti al Csm, evidenziando i vari scenari. «Non sollecita alcuna scelta al plenum», è stato chiarito. In caso di decadenza di Davigo per mancanza dei requisiti, il suo posto verrebbe preso dal primo dei non eletti alle elezioni del 2018. È il giudice di Cassazione Carmelo Celentano. All’epoca si era candidato con Unicost. Negli ultimi mesi, dopo lo scoppio dell’affaire Palamara, era però uscito dalla corrente di centro dell’Anm. A proposito dell’Associazione, dopo le polemiche degli ultimi giorni è stato prorogato il termine per la registrazione sulla piattaforma per le elezioni dell’Anm in calendario il 21 e 22 ottobre. Il termine inizialmente previsto per questo fine settimana è stato spostato al primo del mese prossimo.

Magistratura democratica darà battaglia. Davigo, “il Principe abusivo”: non molla la poltrona e spacca il Csm. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Settembre 2020. Anche il Quirinale irrompe, fornendo un assist provvidenziale sul tormentone dell’anno: il pensionamento di Piercamillo Davigo. Il prossimo 20 ottobre la toga preferita da Marco Travaglio compirà settant’anni e, come tutti i magistrati, dovrebbe andare in pensione. Il condizionale è d’obbligo. Davigo, infatti, non è un magistrato come gli altri ma è un consigliere del Csm. L’elezione a piazza Indipendenza avvenuta nel 2018 con oltre 2500 voti supererebbe, secondo l’ex pm di Mani pulite, l’handicap anagrafico in quanto il mandato nell’Organo di autogoverno delle toghe ha durata quadriennale. Quindi fino al 2022 nessun problema. A supportare la tesi davighiana ci sarebbe adesso Stefano Erbani, storico esponente di Magistratura democratica, e ora potente consigliere giuridico di Sergio Mattarella che del Csm è il capo. Erbani nel 2011 era all’ufficio studi del Csm e avrebbe scritto un parere, rispolverato per l’occasione, su una vicenda abbastanza simile a questa. La notizia è stata riportata ieri dalla Stampa, secondo cui anche Davigo, a sua volta, avrebbe scritto una memoria di suo pugno pro permanenza al Csm. L’assist di Erbani si scontra però con un altro “parere” scritto da un’altra storica toga di Magistratura democratica, Nello Rossi. Rossi, già avvocato generale dello Stato e ora nel direttivo della Scuola superiore della magistratura, è il direttore di Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica. In un suo articolo a proposito dell’ulteriore permanenza di Davigo a piazza Indipendenza, Rossi aveva evidenziato come ciò fosse «in netto contrasto con la legalità e la funzionalità dell’organo e con le esigenze di rappresentatività e di legittimazione che devono caratterizzare l’attività del Consiglio Superiore», rappresentando una decisione “sbagliata ed incomprensibile”. «Davvero si pensa che Piercamillo Davigo possa rimanere in carica al Consiglio Superiore anche quando non sarà più magistrato?», si interrogava Rossi. Il ragionamento di Rossi a detta di molti è ineccepibile: «Chi è eletto al Csm da tutti magistrati in servizio deve essere a sua volta un magistrato in servizio». «Il possesso – effettivo ed attuale – dello status di magistrato nell’esercizio delle funzioni è un requisito indispensabile perché sussista la capacità elettorale passiva; e ciò in coerenza con le disposizioni costituzionali», ricordava Rossi, evidenziando che «la cessazione dello status di magistrato determina la perdita del requisito, indispensabile, della capacità elettorale passiva e produce di conseguenza l’automatica decadenza dalla carica di consigliere superiore». Rossi aveva anche smentito la vulgata ricorrente secondo cui sarebbe esistito il “precedente” di un magistrato pensionato al Csm: quello di Davigo sarebbe il primo caso da quando esiste l’Organo di autogoverno delle toghe. «Il componente del Consiglio superiore ‘pensionato’ si troverebbe in una posizione del tutto anomala ed eccentrica sia rispetto ai consiglieri togati del Consiglio sia rispetto alla generalità dei magistrati», puntualizzava Rossi. E quindi: «A differenza degli uni e degli altri non sarebbe esercitabile nei suoi confronti alcuna azione per violazioni del codice disciplinare». Il “già pensionato ma ancora consigliere superiore” sarebbe libero dai fondamentali doveri propri del magistrato ed esente da ogni possibile sanzione disciplinare per la loro violazione. Il “salvacondotto” avrebbe comunque un paradosso in quanto «nella veste di giudice disciplinare (Davigo) sarebbe chiamato a giudicare (non più i suoi pari ma) magistrati in servizio o fuori ruolo e gli stessi componenti togati del Consiglio ancora sottoposti alla giurisdizione disciplinare». «La figura che emerge è quella di un “extraneus” alla magistratura che “soggettivamente” potrà mantenere condotte ineccepibili e meritevoli del massimo apprezzamento ma i cui comportamenti nella vita dell’istituzione consiliare resteranno comunque insindacabili e non sanzionabili se restano al di sotto della soglia della rilevanza penale», chiariva Rossi. E il plebiscito elettorale? Non conta. «Se a sostegno della perdurante presenza di Davigo in Consiglio si dovesse invocare “esclusivamente” il successo elettorale legittimamente conseguito nelle ultime elezioni, ritenendo che esso risolva in tronco ogni altra questione di diritto e di opportunità, allora dovremmo trarne una inquietante conclusione: che sono penetrati in magistratura la mentalità e lo stile di non pochi uomini politici del nostro Paese per i quali ogni principio e ogni regola di funzionamento delle istituzioni – e financo ogni discussione – possono essere spazzati via dal risultato elettorale». In conclusione, se Davigo proseguisse la permanenza al Csm rischierebbe “di sottoporre a nuove tensioni e contraddizioni un organo già scosso dai fatti dell’ultimo anno e che deve essere risolta correttamente per consentire al Consiglio di continuare a svolgere positivamente i suoi fondamentali compiti». In attesa che i colleghi decidano se ascoltare Erbani o Rossi, l’ultima parola spetta al Plenum, oggi pomeriggio Davigo sarà siederà nel collegio disciplinare che dovrà giudicare Luca Palamara e gli ex consiglieri del Csm che parteciparono al dopo cena di maggio 2019 con Cosimo Ferri e Luca Lotti.

Nasce la lobby pro Davigo: dal Fatto a Repubblica, da FdI al PD tutti uniti per salvare il "dottor Sottile". Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Agosto 2020. A difesa di Piercamillo Davigo è scattata una campagna politica mediatica come raramente se ne sono viste. Ci sono pochissimi precedenti. Giornali e partiti storicamente avversari, e lontanissimi tra loro per orientamenti culturali e politici, si sono uniti per combattere contro la possibilità che ad ottobre Davigo debba lasciare il Csm. È difficile non pensare a una regia unica, e magari si potrebbe avere anche qualche sospetto su dove risieda questa regia. Ieri, in contemporanea, sono intervenuti due giornali che di solito se le danno di santa ragione. Il Fatto e Repubblica. Gli scontri tra loro nascono nella notte dei tempi, da quando Peppe D’Avanzo attaccò Travaglio (il quale mi pare che avesse definito l’on. Schifani un verme e una muffa) invitandolo a un linguaggio più civile e ricordandogli delle vacanze che lo stesso Travaglio, pare, passò insieme a un poliziotto che poi finì sotto processo e fu anche accusato – credo ingiustamente – di concorso esterno in associazione mafiosa. Da allora quante se ne sono dette i due giornali. Ancora recentemente Travaglio ha lanciato decine di dardi avvelenati, in particolare contro il direttore Molinari (che lui chiama “sambuca” per un arguto accostamento al nome di una marca di liquori) e contro Stefano Folli, accusato invece di pettinarsi in modo eccessivamente accurato. Ieri invece due articoli fotocopia, sui due giornali, di due delle firme più prestigiose e specializzate in giornalismo giudiziario e di Procura: Gianni Barbacetto e Liana Milella. Tutti e due spiegano che Davigo ha diritto a restare nel Csm anche dopo aver compiuto 70 anni, a ottobre, e chi si oppone è, più o meno, un fellone. Breve riassunto. Davigo a ottobre compie 70 anni. La legge prevede che quel giorno vada in pensione e non sia più magistrato. Nessun magistrato può restare in carica dopo i 70 anni. Ma se non è più magistrato, può restare a rappresentare i magistrati nel Csm? Il Consiglio di Stato – come spieghiamo nell’articolo qui accanto – ha detto chiaramente di no. E dicono di no gli uffici del Csm. Dice di no anche Magistratura Democratica, che sin qui è stata la corrente più amica di Davigo, ma che ha dovuto cedere di fronte all’evidenza delle regole e a quella vecchia mania di una parte della magistratura di chiederne il rispetto. Lui però – lui Davigo – non ha nessuna intenzione di mollare perché ritiene, probabilmente, che la sua missione sia sacra e che non possa interrompersi. E allora mobilita forze a sua difesa (e se non è lui a mobilitarle è qualche suo amico). Pochi mesi fa alla Camera dei deputati furono presentati più o meno di nascosto degli emendamenti ad alcuni decreti sull’emergenza Covid. In questi emendamenti si prevedeva il rinvio di due anni della pensione dei magistrati. Noi del Riformista denunciammo l’iniziativa, ipotizzando – con estrema malizia – che fossero emendamenti pro-Davigo. Le commissioni parlamentari, comunque, li dichiararono inammissibili, perché valutarono che non fossero molto attinenti le pensioni dei magistrati e la lotta alle malattie. La cosa curiosa è che i firmatari di questi emendamenti furono alcuni parlamentari di Fratelli d’Italia e alcuni parlamentari del Pd. Con due iniziative indipendenti l’una dall’altra. Che gli eredi del Pci e gli eredi del Msi si unissero in una battaglia parlamentare non succedeva dai tempi della lotta ai tagli della scala mobile (1984) o addirittura dai tempi della battaglia contro la legge elettorale di De Gasperi (la cosiddetta legge-truffa) del 1953. Da dove nascono questi nuovi e imprevedibili affratellamenti politico-editoriali? Non si sa bene, però la coincidenza lascia parecchio da riflettere sulla potenza di questo Davigo, che forse è superiore a quello che uno possa immaginare sentendolo parlare…

Maurizio Tortorella per ''La Verità'' il 7 agosto 2020. Il Consiglio di Stato l'ha sentenziato, forte e chiaro: è «un fatto scontato» che un magistrato in pensione non possa né debba far parte del Consiglio superiore della magistratura. La sentenza è di quasi nove anni fa, quindi non riguarda personalmente Piercamillo Davigo, l'ex pm di Mani pulite, oggi presidente della seconda sezione penale della Cassazione nonché fondatore e leader della corrente Autonomia & indipendenza, sulla cui permanenza al Csm si dibatte da mesi. Questo non toglie però che il supremo organo giurisdizionale della giustizia amministrativa abbia stabilito senza tentennamenti che questa è la regola: il magistrato che va in pensione esce dal Csm. «Il fatto che il legislatore non abbia espressamente previsto la cessazione dall'ordine giudiziario per quiescenza fra le cause di cessazione della carica di componente del Csm», così si legge nella sentenza, «dipende non già da una ritenuta irrilevanza del collocamento a riposo, ma dall'essere addirittura scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all'autogoverno (della magistratura, ndr), è ostativa alla prosecuzione dell'esercizio delle relative funzioni in seno all'organo consiliare». Nella sentenza (per la cronaca: la numero 3182 del 16 novembre 2011) i supremi giudici amministrativi aggiungevano che se «la gestione e l'amministrazione di una determinata istituzione di autogoverno è affidata ai suoi stessi esponenti, nella specie attraverso un organo costituito in base al principio di rappresentatività democratica (cioè il Csm, ndr), ne discende che la qualità di appartenente all'istituzione medesima costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile per l'esercizio della funzione di autogoverno, e non solo per il mero accesso agli organi che la esercitano». La sentenza, insomma, sembra poter porre fine a mesi di polemiche sulla permanenza di Davigo nel Csm. Eletto nel luglio 2018, due anni dopo Davigo ne è divenuto membro ancor più importante: dall'autunno scorso, grazie al successo di A&i nelle elezioni suppletive causate dalle dimissioni di cinque membri togati, travolti dallo scandalo «Magistratopoli» che nel maggio 2019 aveva aperto uno spiraglio sulle pratiche lottizzatrici praticate dalle correnti della magistratura, l'ex pm di Mani pulite guida un gruppo forte di ben cinque membri togati su 16. Oggi, soprattutto, Davigo fa parte della cruciale sezione disciplinare che dal prossimo 17 settembre dovrà giudicare proprio sullo scandalo delle correnti: un processo interno che vede «incolpati» Luca Palamara, il magistrato romano cui cellulare intercettato ha scoperchiato il mercato di nomine e promozioni decise dal Csm; Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa e oggi parlamentare di Italia viva; e i cinque ex membri del Consiglio finiti nella bufera nel 2019. Il problema, però, è che il prossimo 20 ottobre Davigo compirà 70 anni, quindi da quel giorno andrà in pensione. Ma il fondatore di A&i non ha la minima intenzione di lasciare il seggio. A difesa della sua permanenza in carica si sono schierati il Fatto quotidiano e Repubblica. Hanno scritto che Davigo è in una botte di ferro perché l'articolo 104 della Costituzione prevede che «i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili». Contro la permanenza di Davigo nel Csm, a fine luglio, si è schierata solo Magistratura democratica, la corrente di sinistra. Nello Rossi, già procuratore aggiunto a Roma e direttore di Questione giustizia, la rivista online di Md, obietta che «la norma costituzionale si riferisce alla durata dell'organo» e ricorda che in passato «è già stata respinta la pretesa di componenti del Csm di restare in carica per un intero quadriennio nei casi in cui erano subentrati a metà mandato». Aggiunge Rossi: «Sarebbe plausibile che un magistrato, uscito dall'ordine giudiziario perché raggiunto da una sentenza di condanna o perché dimissionario, pretendesse di continuare a essere componente del Csm?». Davigo, fin qui, fa spallucce. A suo dire, non esistono norme capaci di scalzarlo. Del resto, contro di lui è finito in nulla anche un tentativo di ricusazione: a presentarlo al Csm era stato proprio Palamara, il quale aveva chiamato lo stesso Davigo tra i suoi testimoni. Il 31 luglio la commissione disciplinare, con una decisione controversa, ha respinto anche la ricusazione. Vedremo ora se una sentenza del Consiglio di Stato, sia pure vecchia di nove anni, servirà a modificare qualcosa.

Giacomo Amadori e Giuseppe China per “la Verità” il 22 luglio 2020. A Milano, ai tempi del pool di Mani pulite, era soprannominato «Piercavillo» Davigo per quella capacità di spaccare in quattro il capello da giurista di rango. Ma ieri, forse, ha chiesto troppo anche alla sua testa fina per tentare di uscire dall'angolo in cui lo aveva ficcato Luca Palamara con la sua richiesta di ricusazione. L'ex presidente dell'Anm, oggi indagato a Perugia, ritiene infatti che Piercamillo Davigo non possa essere uno dei componenti della sezione disciplinare del Csm che dovrà giudicarlo visto che è stato inserito nella lista testi della difesa di Palamara. L'avvocato Giaime Guizzi con l'istanza di ricusazione del 17 luglio scorso citava altri due testimoni, i magistrati Stefano Fava ed Erminio Amelio, i quali si incontrarono nel marzo 2019 con Davigo e Sebastiano Ardita, altro consigliere del Csm, per discutere della candidatura di Fava nella corrente di Autonomia&indipendenza, fondata dallo stesso Davigo, ma anche per parlare dell'esposto di Fava contro l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Ma se Davigo e Ardita sapevano già dell'esposto a fine marzo (quando ci fu l'incontro), Palamara non potrebbe essere accusato di aver divulgato la notizia dell'arrivo della denuncia di Fava al Csm. Eppure Davigo ieri ha dichiarato di non ravvisare motivi d'astensione e in un minuto d'intervento è parso chiaro a tutti che Piercavillo ha provato a distinguere la propria posizione da quella di Ardita (che incontrò Fava anche successivamente), scaricando il collega che, tra l'altro, ha fatto parte del collegio che ha deciso la sospensione cautelare di Palamara dalle funzioni e dallo stipendio: «Nella stessa istanza si distingue il colloquio che avrebbe avuto il dottor Fava con me da quello avuto con altro componente del consiglio e a mio parere alla luce dello stesso testo dell'istanza solo il colloquio avuto con l'altro componente del consiglio potrebbe avere rilevanza rispetto ai fatti contestati in questa sede» ha dichiarato Davigo con voce incrinata dall'emozione. E ha aggiunto che, invece, non avrebbero rilevanza «quelli di cui avrei parlato io». Poi ha concluso: «Non ravviso un motivo di astensione». Davigo, che dovrebbe andare in pensione a ottobre, ha dato l'impressione di essere pronto a seguire il procedimento almeno sino a dicembre, mese in cui sono già state calendarizzate delle udienze. Piercavillo ha fatto una sola concessione, bontà sua: «Ovviamente non compete a me in ordine alla ricusazione». Infatti a decidere sarà un nuovo collegio, in cui subentrerà con decreto del vicepresidente David Ermini, a sua volta astenuto, un sostituto pro tempore. Sulla prima udienza del procedimento disciplinare a Luca Palamara, le istanze di ricusazione hanno avuto un notevole peso. Tanto che la prossima udienza per Palamara è stata fissata al 15 settembre (anche per il legittimo impedimento invocato dal suo avvocato Guizzi). Due richieste di ricusazione sono state presentate anche dal deputato di Italia viva Cosimo Ferri e anche per il parlamentare ed ex giudice l'udienza è slittata a metà settembre. La prima istanza di ricusazione coinvolge tutti i membri del Csm in carica fino alla data del 9 maggio 2019. La difesa di Ferri li ha citati tutti come testimoni in relazione al capo 1 di incolpazione che lo riguarda, ossia l'accusa di aver interferito sulle attività della quinta commissione. Gli stessi consiglieri che nella tesi accusatoria vengono individuati come possibili parti lese dovranno dunque essere sentiti nel procedimento per verificare, questa è la tesi di Ferri, se quelle interferenze ci siano state. La seconda istanza di ricusazione riguarda il membro togato di Area Elisabetta Chinaglia, alla quale vengono contestate alcune sue dichiarazioni rilasciate durante un dibattito (trasmesso da Radio Radicale) di presentazione per la sua candidatura alle elezioni suppletive di Palazzo dei Marescialli. Era il 16 novembre 2019 e secondo Ferri «il parere della dottoressa Chinaglia sulle condotte ascritte al sottoscritto è inequivocabile, si risolve in una chiara anticipazione del giudizio e non garantisce comunque in alcun modo l'imparzialità e la terzietà della medesima». Per esempio laddove dice: «Il ruolo politico del Consiglio superiore significa non che i componenti [...] fanno la politica nelle cene o nei bar o in altri luoghi» oppure quando critica il vecchio presidente dell'Anm Pasquale Grasso, di Magistratura indipendente, «il gruppo che non si è distaccato da determinati fatti, non si è distaccato da Cosimo Ferri». Nel corso dell'udienza di ieri la procura generale della Cassazione si è espressa sulle due istanze dichiarandole «manifestamente inammissibili», però, la decisione finale spetta a un nuovo collegio della disciplinare. Capitolo a parte le intercettazioni che riguardano lo stesso Ferri, in quanto parlamentare. Il collegio valuterà la richiesta presentata dalla Procura generale della Cassazione alla Camera per l'utilizzo delle conversazioni captate. Prima di Ferri è toccato comparire di fronte alla sezione disciplinare ai cinque ex consiglieri del Csm. Che parteciparono all'ormai celebre dopocena dell'hotel Champagne del 9 maggio 2019, insieme a Palamara, Ferri e il deputato del Pd Luca Lotti, appuntamento in cui si discusse delle nomine di alcuni dei più importanti uffici giudiziari del Paese, in particolare quello della procura della Repubblica di Roma. Dei cinque incolpati in aula ieri c'erano solo Antonio Lepre e Pierluigi Morlini, assenti, invece, Luigi Spina, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli (rappresentati dai loro legali). Anche per il fascicolo che riguarda i cinque ex membri togati è stato disposto il rinvio dell'udienza al 15 settembre, anche se per loro è bastata l'assenza, per impedimenti personali del presidente titolare del collegio, il laico del M5s Fulvio Gigliotti. Pure lui, però, potrebbe risultare incompatibile essendo stato citato come teste sia da Palamara che da Spina. Stilato anche il calendario del procedimento: dieci udienze tra settembre e dicembre.

CRI. LO. per “Libero Quotidiano” il 29 luglio 2020. Immaginate Piercamillo Davigo afono? Racconta egli stesso di avere ricevuto il brutto colpo al cavo rino-oro-faringeo, nel bel mezzo di uno o due pranzi fatali. Era a tavola, il magistrato, con il collega Stefano Fava (oggi giudice civile a Latina). In quell' occasione (era fine febbraio, inizio marzo 2019) il dottor Fava raccontò di una sua diatriba col procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone. In odore di essere sostituito causa pensione. Dopo quei pranzi non casuali e a cui presero parte anche altri due magistrati, Stefano Fava presentò un esposto al Csm contro il procuratore in oggetto. Motivo: togliersi (a suo dire) la responsabilità rispetto a un presunto conflitto d' interessi fra lo stesso Giuseppe Pignatone e alcuni soggetti che Fava avrebbe voluto arrestare, contrariamente al suo capo che si era astenuto dalla cosa. Si parlò della faccenda durante due pranzi apparecchiati al ristorante Baccanale di Roma, presenti oltre a Davigo e Fava, anche i pm Erminio Amelio e Sebastiano Ardita, che ben conosceva la vicenda Pignatone. Un tema famigerato, perché sembra fare il paio con l' accusa di discredito verso il procuratore Pignatone contestata al pm ora più chiacchierato: Luca Palamara, intercettato dal trojan mentre gestiva le trame per piazzare i colleghi ai vertici degli Uffici giudiziari. E per questo sotto processo a Perugia per corruzione; oltre che davanti al Csm. Proprio a Palazzo dei Marescialli, dov' è in corso il procedimento disciplinare contro Palamara, figura Davigo nella rosa dei consiglieri togati chiamati a giudicarlo. E qui casca l' asino: Palamara, che ha citato Davigo come testimone dell' esposto presentato da Stefano Fava, ha chiesto di ricusare Davigo. Non può egli essere giudice e testimone al tempo stesso. Sembra evidente. Ma al Csm si sta battagliando su questo. Ieri la procura generale della Cassazione ha chiesto alla sezione disciplinare, che si è riservata di decidere, di rigettare la richiesta di ricusazione di Davigo come giudice di Palamara. Lui ha ribadito che non ci sta a fare un passo indietro e si ostina a volere giudicare l' ex presidente dell' Anm. Sono andato ai pranzi, ma ero afono ammette il consigliere Davigo. E a meno che non fosse stato anche sordo, il consigliere togato è stato testimone di quanto raccontato dal giudice Fava. Questi, a scanso di equivoco, ha messo a verbale la circostanza. Sottolineando, testuale, che Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, durante quel pranzo, avevano giudicato la faccenda Pignatone: «di indubbia rilevanza e meritevole di essere segnalata al Csm».  Stefano Fava ha pure rilasciato una lunga intervista a Libero, confermando e articolando la circostanza. Davigo ieri ha chiesto di depositare l' intervista al Csm. La difesa di Palamara ha accolto e commentato: «Piercamillo Davigo deve essere sentito come testimone nel processo disciplinare a carico di Luca Palamara perché insieme al consigliere Sebastiano Ardita è a conoscenza delle vicende dell' esposto del pm romano Stefano Fava nei confronti di Giuseppe Pignatone, relative alla sua mancata astensione su un procedimento penale. Astensione che ha poi determinato la presentazione di un esposto al Csm». Piercamillo c' era a tavola quando se ne è parlato, ma era afono. Dice. Basta per stabilire che non è un testimone?

Davigo: «Rapporti tesi con il potere politico dal ’92». Tangentopoli? Come una guerra. Il Dubbio l'11 febbraio 2020. Le parole del consigliere del csm in un verbale del 2012, quando fu ascoltato per il processo sulla trattativa Stato-Mafia. Tangentopoli come una guerra, in cui si era costretti a lavorare «sotto i bombardamenti», una guerra che  «non consentiva nessun tipo di vita privata». E da quella stagione che seppellì la prima repubblica  «i rapporti con il potere politico sono sempre stati tesi». Sono le parole del consigliere del csm Pier Camillo Davigo in un verbale del 20 settembre 2012  che ora la difesa del generale Mario mori chiede di acquisire per il processo sulla trattativa stato-Mafia. Parlando del forte conflitto con la classe politica dell’epoca Davigo  racconta di uno «scontro pubblico con il «presidente del consiglio» di allora «Giuliano Amato, perché il governo preparò, non ricordo se uno schema di disegno di legge o uno schema di decreto legge  in cui prevedeva la depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti politici e disse che era quello che chiedevamo noi». «Allora il Procuratore capo di allora Francesco Saverio Borrelli lesse una dichiarazione alla stampa in cui disse: Noi non c’entriamo niente, ci auguriamo che il governo si assuma le sue responsabilità, facciano quello che credano ma non dicano che glielo abbiamo chiesto noi. Poi visto che ci hanno tirato in ballo se proprio volete la nostra opinione è esattamente il contrario di quello che bisognerebbe fare perché una delle valutazioni se depenalizzare o no è che è l’autorità che deve reprimere questi comportamenti, deve godere di indipendenza dai soggetti da reprimere». E ribadisce i rapporti «tesi con il potere» «già dal 1992».

Da liberoquotidiano.it il 12 febbraio 2020. A DiMartedì su La7 va in onda un siparietto tra Maria Elena Boschi e Piercamillo Davigo. Quest'ultimo sostiene che "il giorno più brutto nella mia vita di cittadino della Repubblica è stato quando Bettino Craxi sul finanziamento illecito disse in Parlamento: Qui lo avete fatto tutti. E nessuno si alzò per digli: Ma come ti permetti, io no". Lo studio di Giovanni Floris applaude, ma Davigo viene spento dalla Boschi, che replica con l'ironia: "Io non c'ero in Parlamento, all'epoca facevo le scuole medie". Come a dire, almeno su questo argomento non prendetevela con me e con Italia Viva.

La favola del puro Davigo e dei magistrati che si considerano migliori dei politici ma non vedono l’ora di emularli. Frank Cimini su Il Riformista il 21 Ottobre 2020. C’è un manuale Cencelli dei magistrati e dice che Piercamillo Davigo è stato il numero uno dell’Anm per un anno, una sorta di contratto a termine con incarico a rotazione per i leader di altre correnti in modo da non scontentare nessuno e accontentare tutti o quasi tutti. Si considerano i migliori, dicono peste e corna dei politici, ma in realtà non vedono l’ora di emularli. I politici vengono eletti anche se in realtà nominati dai vertici dei partiti, le toghe hanno solo vinto un concorso. È appena finita con il pensionamento la parabola dentro la categoria di Davigo del quale per anni articolesse perentorie e definitive, editoriali, pezzi di tg hanno raccontato di un magistrato inflessibile la solita favola trita e ritrita di quello che non guarda in faccia a nessuno. Eppure al vertice dell’Anm non ce lo aveva messo lo spirito santo, ma nessuno ha ricordato il “dettaglio” neanche nel momento dello scontro interno alla categoria che ha preceduto la decisione sul pensionamento. In realtà il merito cioè la colpa sta tutta in Mani pulite la più grande presa per i fondelli della storia giudiziaria dov’è ci furono mille pesi e mille misure ma che godeva di buona stampa (eufemismo) perché gli editori a causa delle loro attività imprenditoriali erano tutti sotto lo schiaffo del mitico pool. Davigo fu protagonista di una stagione in cui lo stato di diritto finì in soffitta dopo essere già stato falcidiato anni prima in virtù della delega che la politica aveva dato ai giudici per risolvere il problema della sovversione interna. Davigo, tanto per ricordarne una tra tante, davanti al fascicolo sul generale Giampaolo Ganzer indagato per traffico di droga si inventò letteralmente la competenza di Bologna insieme alla collega Ilda Boccassini altra toga la cui fama va oltre tutte le galassie. La Cassazione si mise a ridere e rimandò il fascicolo su Ganzer a Milano. Insomma semplicemente Davigo e Boccassini non se la sentirono di indagare sull’allora potente capo del Ros dei carabinieri. Del resto si sa che in magistratura è possibile acquisire maggiore potere sia facendo le inchieste che non facendole a seconda della convenienza. Accadde così con Mani pulite dove ci furono interi tronconi di indagine dimenticati nei cassetti. Lo stesso è avvenuto in anni più recenti per Expo dove la procura di Milano se ne fregò dell’obbligatorietà dell’azione penale per salvare l’evento. Davigo come altri magistrati ha scelto quali inchieste fare e quali no. Se non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca come ama sproloquiare il nostro ci sono indagati dai quali è meglio stare lontani e passare la palla a qualche collega. Ganzer infatti andò a giudizio e fu condannato in base a indagini fatte da altri. E adesso Piercamillo Davigo ci delizierà con i suoi “giardinetti”, ficcanti editoriali sul Manette Daily e comparsate televisive senza in pratica contraddittorio in cui ripeterà per l’ennesima volta l’aneddotto sul vicino che ti ruba l’argenteria e non devi aspettare la Cassazione per non invitarlo più a cena. Ma non sappiamo se sarà tutto proprio come prima, senza l’incarico e senza il potere che ne derivava.

Piercamillo Davigo, Frank Cimini al veleno: "Comparsate televisive e manette quotidiane", ma quale martire. Libero Quotidiano il 21 ottobre 2020. Piercamillo Davigo è stato il numero uno dell’Anm, ma pochi giorni fa il Csm ha votato per il suo pensionamento per limiti d'età nonostante il parere contrario dello stesso Davigo. Questa scelta è dovuta, secondo lo storico cronista giudiziario Frank Cimini, l'uomo che sa tutto sulla Procura milanese avendo seguito in prima linea gli intrighi di Tangentopoli, proprio a Mani pulite, "la più grande presa per i fondelli della storia giudiziaria dove ci furono mille pesi e mille misure ma che godeva di buona stampa (eufemismo) perché gli editori a causa delle loro attività imprenditoriali erano tutti sotto lo schiaffo del mitico pool", scrive il giornalista sul Riformista. "Davigo - ricorda Cimini - fu protagonista di una stagione in cui lo stato di diritto finì in soffitta dopo essere già stato falcidiato anni prima in virtù della delega che la politica aveva dato ai giudici per risolvere il problema della sovversione interna in magistratura è possibile acquisire maggiore potere sia facendo le inchieste che non facendole a seconda della convenienza". Davigo "come altri magistrati ha scelto quali inchieste fare e quali no". Ma Cimini, infine conclude, che comunque Davigo nonostante la pensione non sparirà dalla ribalta, grazie anche a "ficcanti editoriali sul Manette Daily e comparsate televisive senza in pratica contraddittorio in cui ripeterà per l’ennesima volta l’aneddoto sul vicino che ti ruba l’argenteria e non devi aspettare la Cassazione per non invitarlo più a cena".

Frank Cimini per ''il Riformista'' il 21 ottobre 2020. C’è un manuale Cencelli dei magistrati e dice che Piercamillo Davigo è stato il numero uno dell’Anm per un anno, una sorta di contratto a termine con incarico a rotazione per i leader di altre correnti in modo da non scontentare nessuno e accontentare tutti o quasi tutti. Si considerano i migliori dicono peste e corna dei politici ma in realtà non vedono l’ora di emularli. I politici vengono eletti anche se in realtà nominati dai vertici dei partiti, le toghe hanno solo vinto un concorso. È appena finita con il pensionamento la parabola dentro la categoria di Davigo del quale per anni articolesse perentorie e definitive, editoriali, pezzi di tg hanno raccontato di un magistrato inflessibile la solita favola trita e ritrita di quello che non guarda in faccia a nessuno. Eppure al vertice dell’Anm non ce lo aveva messo lo spirito santo, ma nessuno ha ricordato il “dettaglio” neanche nel momento dello scontro interno alla categoria che ha preceduto la decisione sul pensionamento. In realtà il merito cioè la colpa sta tutta in Mani pulite la più grande presa per i fondelli della storia giudiziaria dov’è ci furono mille pesi e mille misure ma che godeva di buona stampa (eufemismo) perché gli editori a causa delle loro attività imprenditoriali erano tutti sotto lo schiaffo del mitico pool. Davigo fu protagonista di una stagione in cui lo stato di diritto finì in soffitta dopo essere già stato falcidiato anni prima in virtù della delega che la politica aveva dato ai giudici per risolvere il problema della sovversione interna. Davigo, tanto per ricordarne una tra tante, davanti al fascicolo sul generale Giampaolo Ganzer indagato per traffico di droga si inventò letteralmente la competenza di Bologna insieme alla collega Ilda Boccassini altra toga la cui fama va oltre tutte le galassie. La Cassazione si mise a ridere e rimandò il fascicolo su Ganzer a Milano. Insomma semplicemente Davigo e Boccassini non se la sentirono di indagare sull’allora potente capo del Ros dei carabinieri. Del resto si sa che in magistratura è possibile acquisire maggiore potere sia facendo le inchieste che non facendole a seconda della convenienza. Accadde così con Mani pulite dove ci furono interi tronconi di indagine dimenticati nei cassetti. Lo stesso è avvenuto in anni più recenti per Expo dove la procura di Milano se ne fregò dell’obbligatorietà dell’azione penale per salvare l’evento. Davigo come altri magistrati ha scelto quali inchieste fare e quali no. Se non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca come ama sproloquiare il nostro, ci sono indagati dai quali è meglio stare lontani e passare la palla a qualche collega. Ganzer infatti andò a giudizio e fu condannato in base a indagini fatte da altri. E adesso Piercamillo Davigo ci delizierà con i suoi “giardinetti”, ficcanti editoriali sul Manette Daily e comparsate televisive senza in pratica contraddittorio in cui ripeterà per l’ennesima volta l’aneddoto sul vicino che ti ruba l’argenteria e non devi aspettare la Cassazione per non invitarlo più a cena. Ma non sappiamo se sarà tutto proprio come prima, senza l’incarico e senza il potere che ne derivava.

Con la pensione di Davigo chiusa l’era di Mani Pulite. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Ottobre 2020. Piercamillo Davigo lascia la toga. O la toga lascia lui. Comunque finisca la vicenda della sua uscita dal Csm, il suo ricorso al Tar, il suo probabile ritorno come showman dai vari Formigli, comunque da due giorni Piercamillo Davigo non è più un magistrato. Un’era è finita. Quella di Mani Pulite di cui lui era il vero erede. L’era di quelli dalle manette facili, del “o parli o ti sbatto in galera e butto la chiave” (non l’ha inventato Salvini), e di quando si erano suicidati in 41 e uno di quei pm (non facciamo il nome solo perché non c’è più) disse che per fortuna qualcuno aveva ancora il senso dell’onore. Un gruppo di capitani coraggiosi, ma con i canini affilati. Saverio Borrelli, il capo, non c’è più. E neppure il suo vice, Gerardo D’Ambrosio. Mi è difficile serbarne lo stesso ricordo, anche umano, che avrei avuto di loro se fossero rimasti quelli che avevo conosciuto all’inizio del mio lavoro di cronista al palazzo di giustizia di Milano. Di D’Ambrosio, “zio Gerry”, ero anche stata amica, fino al 1992. Poi ci fu quella sorta di mutazione genetica che li rese famosi ma anche insopportabili. Così è finita che di Borrelli mi ricordo più il giorno in cui diede dell’ubriacone al ministro Biondi che non quello in cui si era avventurato – lui, il procuratore capo di Milano- nello scantinato della redazione del Manifesto dove lavoravo, per portarmi personalmente una sua precisazione su un articolo che avevo scritto. L’avevo descritto come un “uomo in grigio” e si era un po’ risentito. Ma senza prosopopea, quasi con umiltà. I canini li avrebbe tirati fuori molto tempo dopo, soprattutto nei confronti di Silvio Berlusconi, che non ebbe mai invece cattiveria o senso di vendetta contro di lui. Tanto che un giorno, quando gli avevo detto che Borrelli stava male, aveva sussurrato “Mi dispiace”. Forse gli era sfuggito che, molti anni dopo Mani Pulite, l’ex procuratore del “resistere resistere resistere” aveva dichiarato che, se avesse potuto prevedere che dopo lo sfascio della prima repubblica sarebbe arrivato Berlusconi, forse non avrebbe fatto niente. Con ciò confermando il ruolo politico del pool e di tutta quanta l’operazione Tangentopoli. Gerardo D’Ambrosio aveva forse i canini un po’ meno affilati, ma fu quello che svolse il ruolo più politico (forse anche partitico), spingendosi fino a cercare improbabilissime prove a favore dell’imputato Primo Greganti, cui fece fare qualcosa come seicento chilometri, da Roma a Milano, in dieci minuti. Dimostrando così che, benché la legge preveda, anzi lo imponga, che il pubblico ministero cerchi anche le prove a favore dell’imputato, questo accada solo in casi rarissimi e molto molto particolari. Davigo era proprio rimasto l’ultimo portatore di quel particolare modo di amministrare la giustizia che fu Mani Pulite. Nessuno come lui ha saputo sbatterci in faccia il fatto che siamo tutti colpevoli, ma quelli di noi che sono ancora a piede libero sono i furbetti che l’hanno fatta franca. Non pare pensarla più così Antonio Di Pietro, che lasciò la toga sbattendola da qualche parte in modo improvviso e rabbioso mentre era al culmine della sua carriera. Che poi trasformò in carriera politica. E che oggi, forse perché fa l’avvocato e comincia a capire che cosa si prova dall’altra parte, quando va in tv sembra un vecchio zio, un po’ sornione e molto saggio. Gherardo Colombo è quello che mostra la trasformazione più radicale. Anche se, per chi come me lo ha conosciuto piuttosto bene da prima, non è proprio una sorpresa. Prima di tutto perché Colombo è molto cattolico e ha un’inclinazione a far tracimare la sua rigorosa morale in moralismo. E anche perché, prima che si trovasse tra le mani la bomba politica che prenderà il nome di Tangentopoli, faceva parte di quel gruppo di “estremisti” della sinistra di Magistratura Democratica che erano davvero garantisti. Oggi fa l’editore, ma soprattutto si occupa del carcere nel gruppo La Nave di San Vittore sulla tossicodipendenza e collabora con Nessuno tocchi Caino. Si è reso conto anche dell’inutilità stessa del carcere. Non so se abbia anche fatto il passo successivo, perché in galera si finisce in genere dopo un processo più o meno giusto e purtroppo, come è accaduto in modo feroce con Mani Pulite, anche senza processo, in custodia cautelare. Capire che la pena non dove necessariamente coincidere con la privazione della libertà non sempre coincide con la consapevolezza del fatto che lo stesso processo è già in sé una pena. Francesco Greco è rimasto sulla tolda della nave. Ha raggiunto il posto che fu di Borrelli, procuratore capo di Milano. Non si sa se davvero la sua promozione sia entrata nel paniere delle trattative di Luca Palamara, probabilmente sì. È sempre stato un politico, ma anche lui come i suoi ex colleghi ha raggiunto un certo equilibrio. Quando era un semplice sostituto un po’ scanzonato e pigro detestava quelli come Armando Spataro che usavano il “pentitismo” come leva per le indagini e le chiamate in correità di Marco Barbone per fare gli arresti. Poi c’è stata Mani Pulite e anche lui era cambiato. Ma oggi Greco non direbbe mai frasi come quelle che escono in libertà dalla bocca di Davigo sui colpevoli che l’hanno fatta franca. Era Davigo l’ultimo del pool che distrusse la Prima Repubblica. Oggi, mentre lui lascia la toga, o la toga lascia lui, quel capitolo è proprio chiuso. Troppo tardi. Ma chiuso.

DAL 1992 AL 2020: LA STORIA DEL POOL.

17 febbraio 1992 – Il pm Antonio Di Pietro chiede e ottiene un ordine di cattura per l’ingegner Mario Chiesa, membro di primo piano del Psi

28 aprile 1992 – Francesco Cossiga si dimette da presidente della Repubblica

29 gennaio 1993 – Viene perquisita la segreteria amministrativa nazionale del Psi, in via Tomacelli a Roma

9 febbraio 1993 – Craxi lascia la segreteria del Partito socialista

10 febbraio 1993 – Claudio Martelli riceve l’avviso di garanzia, gli viene comunicato di essere indagato per la bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano, da cui il suo partito, il Psi, aveva attinto milioni di lire del “conto Protezione” di Licio Gelli, “gran burattinaio” della P2

1 marzo 1993 – Viene arrestato Primo Greganti, noto come il “compagno G”. Non collaborò mai con i giudici negando ogni addebito. L’8 maggio 2014 è stato nuovamente arrestato per tangenti legate all’Expo 2015

4 marzo 1993 – Viene arrestato Enzo Carra, esponente della Dc. Suscitano particolare clamore le foto del suo ingresso in aula con le manette ai polsi

16 marzo 1993 – Luca Leoni Orsenigo, deputato della Lega Nord, sventola nell’aula di Montecitorio un cappio, nell’esplicito riferimento alla necessità di fare pulizia di una classe politica corrotta

30 aprile 1993 – Il segretario del Partito socialista italiano Bettino Craxi, uscendo dall’Hotel Raphael, affronta i contestatori che lanciano una pioggia di oggetti: sassi, sigarette, pezzi di vetro e soprattutto monetine

20 luglio 1993 – Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Enel, si uccide soffocandosi con un sacchetto di plastica legato al collo con un laccio da scarpe. La sua morte scatena un acceso dibattito sull’utilizzo dello strumento della custodia cautelare da parte della magistratura

23 luglio 1993 – L’imprenditore Raul Gardini si suicida con un colpo di pistola alla testa

4 agosto 1993 – La Camera autorizza l’indagine su Bettino Craxi

6 dicembre 1994 – Antonio Di Pietro si dimette dalla magistratura. Nel ‘98 fonda Italia dei Valori

17 febbraio 2007 – Esattamente quindici anni dopo l’inizio dell’inchiesta Mani pulite, Gherardo Colombo comunica le sue dimissioni da magistrato

30 marzo 2014 – Muore il magistrato Gerardo D’Ambrosio, altro grande protagonista della stagione di Tangentopoli e membro del pool di Mani Pulite

20 luglio 2019 – Muore un altro protagonista dell’inchiesta Mani Pulite, il magistrato Francesco Saverio Borrelli, anche lui nel pool

19 ottobre 2020 – Piercamillo Davigo, altro membro storico del pool, va in pensione e lascia il suo ruolo da consigliere del Csm. I suoi colleghi si sono espressi con 13 voti contro, 6 a favore della sua permanenza in consiglio, 5 astensioni

Luca Palamara, il giudice Stefano Fava: "Il giorno in cui Davigo mi disse che..." Cristiana Lodi su Libero Quotidiano il 24 luglio 2020. «Ha presente quattro persone sedute intorno a un tavolo di un metro per uno? Ecco, dieci centimetri a distanziarci l'uno dagli altri. All'epoca, tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo 2019, non c'era l'esigenza del distanziamento per via del Covid. Se ha modo di passare in via Della Giuliana numero 59, può entrare in quel ristorante e verificare lei stessa lo spazio disponibile. Baccanale, si chiama. Ci siamo incontrati lì quel giorno».

Dica, dottor Stefano Fava, c'era anche Piercamillo Davigo a quel pranzo?

«Confermo. Fui invitato insieme con il dottor Sebastiano Ardita, che era entrato a fare parte della nuova corrente di Davigo. Entrambi mi avevano proposto di candidarmi per le elezioni dell'Associazione nazionale magistrati. Con noi c'era un quarto collega: il dottor Ermino Amelio. Fu proprio Erminio a presentarmi il dottor Ardita. Siamo andati al Baccanale poiché al solito ristorante, dove in genere andiamo noi magistrati, non c'era posto».

Stefano Fava, ex sostituto procuratore a Roma e oggi giudice civile a Latina, è indagato a Perugia. Rivelazione del segreto d'ufficio e favoreggiamento, le accuse. Al centro c'è sempre l'ex presidente dell'Anm, Luca Palamara. "Ricusatore", davanti al Consiglio Superiore della Magistratura, del togato Piercamillo Davigo. Questi dovrebbe giudicarlo nel procedimento disciplinare cominciato due giorni fa a Palazzo dei Marescialli e subito rinviato. Palamara ha citato Davigo come testimone perché (a suo dire) sarebbe coinvolto nella stessa vicenda per la quale egli stesso è finito sotto processo al Csm. Ossia avere "screditato" l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone.

Dottore, è vero che lei, Davigo e gli altri, al ristorante avete discusso dei suoi contrasti con il Procuratore Giuseppe Pignatone, all'epoca a capo del suo Ufficio?

«Vero. Ho parlato ai colleghi delle divergenze di vedute all'interno del mio Ufficio e dei conflitti di interesse (da me segnalati) fra il Procuratore e alcuni indagati nei confronti dei quali pendeva una richiesta di custodia cautelare. Si trattava di una problematica di natura personale e familiare. La questione era se il Procuratore si dovesse astenere (come io ritenevo) nei procedimenti che riguardavano ben tre degli indagati in oggetto, tali Amara, Bigotti e Balistreri. Risultava che questi avessero conferito incarichi professionali al fratello del Procuratore, che fa l'avvocato e si chiama Roberto Pignatone. Insomma, io ritenevo che il capo del mio Ufficio si dovesse astenere. E a quel pranzo parlammo della faccenda e dei miei contrasti con Pignatone proprio per questa ragione. Ma voglio precisare».

Prego.

«Gli argomenti dei quali abbiamo parlato quel giorno al Baccanale erano e sono il risultato di un procedimento giudiziario (il 44630/16), culminato poi con una serie di arresti, che era già stato definito a luglio 2018. Una cosa ormai diventata di dominio pubblico, con la stampa che ne aveva parlato in lungo e in largo. Ripeto: il nostro pranzo risale alla fine di febbraio o forse all'1 o al 2 marzo. Non ricordo con esattezza. È stato Ardita a intavolare il discorso perché conosceva bene quell'inchiesta. E quindi la introdusse. Io, in quanto all'epoca sostituto procuratore a Roma, dissi dei contrasti e delle divergenze di vedute all'interno del mio Ufficio e dei possibili conflitti di interesse che avevo segnalato fra il Procuratore e alcuni indagati. Tutto qui. E ribadisco: parliamo di una faccenda già definita e ormai pubblica».

Quali erano, esattamente, le divergenze e i contrasti all'interno del suo Ufficio?

«Almeno tre di quegli indagati avevano conferito incarichi di lavoro al fratello, avvocato, di Giuseppe Pignatone. Questo, a mio avviso, meritava un'astensione da parte del Procuratore stesso».

E invece?

«Invece dobbiamo fare un passo avanti. Di uno o due giorni successivi al pranzo con Davigo, Ardita e Amelio. È il 5 marzo. Vengo convocato da Pignatone in una riunione insieme con altri colleghi. In quella sede si discute della questione astensione. Ognuno dice quello che deve dire e io sostengo l'opportunità dell'astensione del Procuratore. Quattordici giorni dopo mi arriva una sorpresa».

Quale?

«È il 19 marzo e ricevo una missiva. Nella lettera, di fatto, viene riportata un'altra storia rispetto a quella che io avevo sostenuto nella riunione del 5 marzo. In sostanza la mia volontà era rappresentata in modo contrario rispetto a quanto avevo invece chiaramente espresso».

Cioè la non astensione del Procuratore?

«Suonava così: "Anche tu sei d'accordo e semmai è un tuo problema" . Ma come? Io avevo detto esattamente l'opposto. Ero per l'astensione. Per forza: c'erano dei conflitti d'interesse fra il Procuratore e almeno tre di quegli indagati. Ma l'atteggiamento riservatomi è stato: "Io sono il tuo capo e tu devi essere con me in ogni modo". Insomma, ho avuto l'impressione che dal conformismo che ha sempre caratterizzato la magistratura, si fosse passati a un tentativo di sudditanza. Non era mia intenzione dover abbassare la testa, senza oltretutto avere nemmeno visto tutte le carte. Abbassare la testa così: alla cieca. Allora per tutelarmi, il 27 marzo seguente, ho presentato l'esposto al Csm. Ho dovuto farlo per tutelarmi».

Cos' ha detto Davigo e cos' ha detto Ardita, a quel pranzo, prima della presentazione del suo esposto?

«Ardita conosceva benissimo il tema dei conflitti e ha pure citato un caso analogo, totalmente coincidente con il mio e che ha riguardato il governatore siciliano Totò Cuffaro e ancora Roberto Pignatone, fratello del Procuratore. Il fatto è anche citato nel libro "Intoccabili", di Marco Travaglio e Saverio Lodato. Entrambi, Ardita e Davigo, hanno giudicato la vicenda riguardante me, Pignatone e il mio Ufficio, di indubbia rilevanza e che meritava accertamenti approfonditi da parte del Csm. Cosa che poi, dopo la riunione e la lettera del 19 marzo, io ho fatto. Mi pare che Davigo stesso non abbia negato la circostanza. Tutto questo è depositato; così com' è depositato il verbale in cui io dico la stessa cosa e ora allegato alla richiesta di ricusazione presentata da Luca Palamara al Csm contro Davigo. Ma tengo a precisare: io a Luca Palamara non ho mai chiesto nulla. E non esiste intercettazione che possa dire il contrario».

Palamaragate, fuga di notizie e giudizi anticipati: Csm nei guai. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Luglio 2020. Si terrà il prossimo 28 luglio a Palazzo dei Marescialli l’udienza per discutere delle istanze di ricusazione presentate questo martedì da Luca Palamara e da Cosimo Ferri. Non si è fatta, dunque, attendere la risposta del vice presidente del Csm David Ermini, in qualità di presidente della sezione disciplinare, alla decisione dell’ex numero uno dell’Anm di ricusare Piercamillo Davigo e a quella dell’ex ras di Magistratura indipendente ed ora deputato di Italia viva di ricusare l’intero Plenum. Quello di Ferri, in particolare, è stato il classico colpo da maestro che in pochi si aspettavano e che ha messo in seria difficoltà la sezione disciplinare. Ferri ha manifestato seri dubbi “sulla terzietà ed imparzialità” non solo dell’attuale collegio disciplinare ma di tutto il Csm in quanto in più occasioni avrebbe manifestato “indebite anticipazioni del giudizio”. Il primo a finire nel mirino di Ferri era stato proprio Ermini che all’inaugurazione dell’ultimo anno giudiziario 2020 in Cassazione per raccontare l’accaduto aveva usato parole durissime. Si era trattato, disse, di un «agire prepotente, arrogante ed occulto tendente ad orientare inchiesta, influenzare le decisioni del Csm, e screditare magistrati». Il rischio per Ermini è ora quello di rimanere con il cerino in mano, dando l’impressione di presiedere un Csm prigioniero di se stesso. La ricusazione di tutti i consiglieri di Palazzo dei Marescialli, laici e togati, da parte di Ferri, rischia di creare un corto circuito istituzionale senza precedenti. Ferri, infatti, con la sua istanza ha messo in luce quello che molti fra gli addetti ai lavori temevano. E cioè, come sarà possibile imbastire un processo dove il giudice fino al giorno prima era il vicino di banco dell’imputato nella sala del Plenum? Può esserci terzietà fra due persone che hanno condiviso, non solo il caffè al bar, ma attività proprie dell’organo di autogoverno della magistratura in tema di nomine ed organizzazione degli uffici? Per capire come sia stato possibile giungere a questa situazione surreale è necessario tornare all’estate del 2019 quando esplose lo “scandalo” Palamara. Con sapienti fughe di notizie alcuni giornali, Repubblica, Corriere e Messaggero, pubblicarono degli stralci delle conversazioni intercettate con il trojan inserito nel telefono dell’ex presidente dell’Anm. Per tali fughe di notizie, all’epoca si è era nel vivo dell’indagine di Perugia a carico di Palamara, non risulta sia mai stato indagato nessuno. La pubblicazione sui tre giornali di questi colloqui comportò una sollevazione nella magistratura. I più attivi furono gli esponenti delle toghe di sinistra che, sonoramente sconfitti alle elezioni del 2018 per il rinnovo della componente togata del Csm, videro l’occasione della rivincita contro la destra giudiziaria rappresentata da Ferri arrivare su un piatto d’argento. Pur non essendo indagati, solo sulla base di quanto riportato dai tre quotidiani citati, la pressione fortissima di settori della magistratura associata spinse i consiglieri coinvolti alle dimissioni. Ad uno di loro, il togato di Magistratura indipendente Paolo Criscuoli, da quanto emerso, pur non avendo aperto bocca durante tale incontro, fu materialmente impedito di partecipare ai lavori del Plenum. Furono mesi micidiali in quanto il numero legale in Plenum era sempre a rischio. Lo scioglimento, dunque, era la soluzione più logica. Anche perché nel mercato delle nomine, come emerso dalle successive chat di Palamara, erano coinvolti tutti i gruppi associativi. Perché allora non si decise di non sciogliere il Csm. Urge riascoltare le parole pronunciate da Sergio Mattarella al Plenum straordinario del 21 giugno del 2019, all’indomani delle dimissioni “spontanee” dei consiglieri coinvolti nell’incontro fatale all’hotel Champagne. «Oggi si volta pagina nella vita del Csm. La prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficoltà e fatica di impegno. Dimostrando la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione». E poi: «Quel che è emerso, da un’inchiesta in corso, ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile». «Quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche il prestigio e l’autorevolezza dell’intero ordine giudiziario; la cui credibilità e la cui capacità di riscuotere fiducia sono indispensabili al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica», aggiunse il presidente della Repubblica. «Il coacervo di manovre nascoste – continuò – di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il Csm, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato, si manifesta in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’ordine giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla magistratura». Il fatto che Mattarella, basandosi su notizie riportate in modo illegale sui giornali, abbia pronunciato tali affermazioni suscita ancora oggi grandi interrogativi.

Luca Palamara, nelle chat anche Enrico Mentana e Formigli: "Ospitano troppe volte Davigo, devi dirglielo". Libero Quotidiano il 23 luglio 2020. Il caso che coinvolge Luca Palamara si arricchisce di altri dettagli. Questa volta le intercettazioni dell'ex membro del Csm, in attesa del processo disciplinare per scandalo-nomine dei vertici delle principali procure italiane, hanno come protagonista Piercamillo Davigo. Siamo a luglio del 2018 - scrive Affaritaliani.it - quando vengono indette le nuove elezioni del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di governo dei magistrati e che ne decide le carriere. Per l'occasione Davigo, assieme ad altri colleghi, ha fatto nascere una nuova corrente e si è candidato al Csm. Un fatto che ha mandato in fibrillazione Palamara e altre toghe, impegnati a controllare i programmi tv in cui compare Davigo. Le intercettazioni proseguono e si arriva al 4 maggio 2018, quando un collega manda un messaggio in chat whatsapp a Palamara: “Tu che hai rapporti con Mentana fagli presente che è una grave scorrettezza fare tutte queste ospitate a Davigo candidato al Csm. In una settimana ha fatto Dimartedi e Piazza pulita”. Il riferimento è al direttore del TgLa7 Enrico Mentana e ai due programmi di approfondimento del canale di Urbano Cairo, condotti da Giovanni Floris e Corrado Formigli. La loro colpa? Ospitare troppo spesso Davigo e lasciarlo parlare senza contraddittorio.  “Già lo avevo fatto è una vergogna quello che fanno con Davigo” ha immediatamente replicato Palamara. A nulla però servono i moniti di Palamara, perché l’11 luglio 2018, l'ex pm di Mani Pulite conquista una parte dei voti di Unicost. "Avevamo fiutato il pericolo di Davigo. Io non accetto che un elettore di Unicost lo abbia votato!!! E non lo accetterò mai. Voglio dirti che ti voglio bene e che ti sono e ti sarò sempre vicino. Solo chi cade può rialzarsi e ancora più forte!!! Un abbraccio” scrive Palamara a un collega. E ancora: “Guarda che la vittoria di Davigo è la mia sconfitta”. Ma le comparse in tv di Davigo proseguono, così come i messaggi di Palamara con Riccardo Fuzio, procuratore generale della Cassazione che, ancora una volta, hanno al centro l'ex pm Mani Pulite e i programmi televisivi.

Palamaragate, il sistema clientelare coincide con la magistratura stessa. Valerio Spigarelli su Il Riformista il 23 Luglio 2020. Parte il processo disciplinare a Palamara e subito si ferma. Scopriremo tra un po’ se la sezione disciplinare del Csm si comporterà come dovrebbe, facendo luce sulla vera, grave, violazione deontologica che può essere ascritta a Luca Palamara, cioè quella di essere stato parte integrante di un sistema di potere che ha minato, e mina, l’autonomia e l’indipendenza interna della magistratura. Perché di questo si tratta, ma è forte il sospetto che l’organo disciplinare opererà, principalmente, per mettere Palamara fuori dalla magistratura e, con lui finalmente fuori dai cabasisi, anche la polvere sotto il tappeto. Da diversi decenni la magistratura italiana difende il proprio potere intonando, a volte a ragione, ma assai più spesso in maniera strumentale, il refrain sulla necessità di tutelare la propria indipendenza e autonomia rispetto all’esterno; lo fa di preferenza puntando il dito contro la politica nei – pochi – momenti in cui la stessa politica mette in campo autonome proposte, quasi sempre non gradite, sui temi giudiziari. L’apoteosi di questo atteggiamento fu quando si discusse della riforma dell’ordinamento giudiziario: i magistrati italiani si opposero fieramente sfilando durante le cerimonie di apertura dell’anno giudiziario con la il testo della Costituzione in mano. Ma doveva essere una edizione abusiva, visto che l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario era imposto dalla settima disposizione transitoria che volutamente l’Anm ignorava. Il problema della indipendenza e autonomia interna, invece, la magistratura italiana lo ignora da decenni, forse perché consapevole di avere la coscienza sporca. Altrimenti non si spiegherebbe la gigantesca amnesia collettiva dell’unica magistratura di un Paese occidentale che vede la sua vita interna regolata da raggruppamenti “esterni”, strutturati come centri di potere, quali sono le correnti. Esterni perché non istituzionali, ma libere associazioni, che stabiliscono, e anche questo è un segreto di Pulcinella, rapporti di carattere schiettamente politico con i propri referenti di partito, fuori e dentro il Csm e le istituzioni. La lista testi che ha depositato Palamara (e che la sezione disciplinare probabilmente falcidierà) si propone di dimostrare la operatività di questo “sistema”, e rappresenta, più che un argomento a difesa una gigantesca ed ingombrante chiamata in correo. Comunque come tale viene avvertita, all’interno ed all’esterno della magistratura. Il che, come si coglie anche da alcune interviste del diretto protagonista, fa pensare che il nostro sia pronto a passare alla politica politicienne, sapendo – poiché conosce i suoi più di chiunque altro – che se la battaglia per la toga è persa il Paese dei pentiti può sempre collocarlo da qualche altra parte, magari in Parlamento.  Il problema vero è che la rappresentazione della vicenda Palamara alla stregua di una saga di pentitismo correntizio – che Palamara condivide con i suoi attuali avversari – è funzionale a lasciare le cose come stanno poiché parte dalla illusione ottica, o se si vuole dal vero e proprio imbroglio logico, secondo il quale il “sistema” – quello descritto dal Palamara “pentito” che coinvolge tutto l’associazionismo in magistratura, oppure quello descritto da una nutrita schiera di sepolcri imbiancati, alcuni dei quali in toga d’ermellino, che puntano il dito solo contro le “mele marce” – prescinde da un dato di realtà inoppugnabile: se esiste un sistema clientelare esso coincide con la magistratura stessa. Tutta la magistratura. Se ci si racconta che l’avanzamento in carriera dei magistrati, tutti i magistrati e per ogni carica, anche la più insignificante, era legato a logiche di spartizione tra le correnti, ciò significa che non solo la stragrande maggioranza dei magistrati italiani lo sapeva, e non lo denunciava, ma che ne prendeva parte attivamente anche solo rivolgendosi alle correnti per avere quello cui pensava di aver diritto. Ovviamente non tutti i magistrati lo facevano o venivano premiati, anzi probabilmente le vittime sono state anche numerose, ma rimane il fatto che i magistrati che lo hanno pubblicamente denunciato, da trenta anni a questa parte, si contano sulle punte delle dita di un mano. Perché va così quando un sistema clientelare funziona: alla sua base sta il consenso. Insomma, se qualcuno pensa che la vicenda Palamara sia l’8 settembre di un sistema malato, pensi a riformare la magistratura dalla base, altrimenti finisce come sempre nel paese degli “antemarcia”, ovvero degli antifascisti post bellici e degli elettori democristiani non dichiarati: il sistema sopravvive ai suoi epigoni così come ai suoi capri espiatori, perché nessuno si preoccupa di cambiarne il tessuto connettivo. Dalla base significa cambiando la composizione del Csm, istituendo un’alta corte di disciplina esterna all’organismo elettivo, innovando i criteri di accesso in magistratura. Quel sistema si fonda, infatti, prima di tutto su di una concezione “proprietaria” della giustizia che è propria della stragrande maggioranza dei magistrati italiani, che non ha nulla a che vedere con la autonomia ed indipendenza ed è il vero problema di struttura: o si cambia quello o tutto rimarrà come prima, anche perché affratella vittime e carnefici. Durante un dibattito radiofonico un magistrato, Alfonso Sabella, che pure raccontava le sue disavventure di magistrato estraneo alle correnti e perciò pregiudicato nella sua carriera, ha dichiarato che, però, nella concezione proprietaria della giustizia da parte della magistratura in realtà non ci vedeva nulla di strano, e che anzi era legittimata proprio dalle garanzie di autonomia ed indipendenza che la Costituzione garantisce. Ecco, finché i magistrati italiani ragioneranno così il sistema rimarrà lo stesso.

·         Giornalistopoli.

I due casi anticipati dalla stampa. “Mafia Capitale e Palamaragate: fughe di notizie ma nessuna indagine…” l’accusa di Buzzi. Paolo Comi su Il Riformista il 3 Novembre 2020. «Visto che nessuno in questi anni ha fatto qualcosa, ho deciso di presentare nei prossimi giorni un esposto alla Procura di Perugia per la fuga di notizie riportate nel romanzo Suburra. Alla Procura di Perugia da qualche mese c’è un nuovo procuratore (Raffaele Cantone, ex capo dell’Anac, ndr), spero che abbia voglia finalmente di indagare». Salvatore Buzzi, già numero uno della cooperativa sociale 29 Giugno, assegnataria per anni, spesso dietro il pagamento di tangenti, di un numero imprecisato di appalti da parte del Comune di Roma, è un fiume in piena. Coinvolto nell’inchiesta “Mafia capitale”, dallo scorso giugno è libero per decorrenza dei termini di custodia cautelare dopo cinque anni e mezzo in carcere.

Salvatore Buzzi, perché ritiene ci sia stata una fuga di notizie?

«Il romanzo Suburra è uscito nella primavera del 2013. È stato scritto da Carlo Bonini (vice direttore di Repubblica, ndr) e da Giancarlo De Cataldo (attuale consigliere della Corte d’Appello di Roma, ndr). Il libro anticipa esattamente l’indagine Mafia capitale che verrà svelata alle fine del 2014».

Non può essere stata una coincidenza?

«Una coincidenza? Vorrei capire come è stato possibile “indovinare” dieci personaggi, nel libro anche se travisati sono riconoscibilissimi, che sono nell’inchiesta Mafia capitale. Un anno e mezzo prima. Massimo Carminati, ad esempio, è il Samurai, c’è la Smart con cui si spostava, la sua villa di Sacrofano, ecc. Già fare sei al Superenalotto è difficilissimo, una probabilità su seicentodue milioni, figuriamoci indovinare dieci personaggi in una città come Roma di oltre quattro milioni di abitanti. Praticamente è impossibile».

Ha mai parlato con Bonini?

«Sì, di recente dopo una puntata di Non è l’Arena, la trasmissione condotta da Massimo Giletti su La7. Gli ho chiesto se mi dava tre o quattro numeri che poi li avrei giocati al lotto».

Battute a parte.

«Bonini mi ha detto che prima di scrivere il libro aveva fatto una inchiesta sugli ambienti neofascisti a Roma. Ma non è così».

Perché?

«La frase relativa alla famosa “teoria del mondo di mezzo”, ad esempio, che è contenuta nel libro e che dà il nome all’inchiesta, venne pronunciata a dicembre del 2012».

Si riferisce all’incontro nel distributore di benzina di corso Francia con Massimo Carminati?

«Sì. All’incontro di Carminati con Riccardo Brugia (un appartenente dell’estrema destra, un ex dei Nuclei armati rivoluzionari, ndr) e Riccardo Guarnera (un imprenditore, ndr)».

Gli autori avranno parlato con loro.

«Io mi sono accertato. Nessuno di loro ha mai parlato con Bonini».

Ci sarà stato presente qualcun altro che non è emerso dalle indagini.

«Sicuro. C’era la microspia del Ros (sorride)».

Lei comunque è prevenuto.

«Ma no. Bonini è bravissimo. Ha anche indovinato l’indagine della Procura di Perugia a carico di Luca Palamara che ha schiantato il Csm facendo saltare la nomina di Marcello Viola a Procuratore di Roma dopo il pensionamento di Giuseppe Pignatone».

Si riferisce all’articolo del 29 maggio dello scorso anno, “Corruzione al Csm”?

«Quel giorno la stessa notizia era anche sul Corriere della Sera in un pezzo firmato da Giovanni Bianconi, un giornalista legato agli ambienti dei Servizi segreti. E non lo dico io. Non voglio querele. Lo dicono tre magistrati: Palamara, Stefano Fava (ex pm a Roma, ndr) e Cesare Sirignano (ex sostituto presso la Dna, ndr). È tutto agli atti del procedimento di Perugia».

I giornalisti per motivi professionali parlano con i magistrati.

«E come no. Infatti Palamara ha sempre detto di avere un ottimo rapporto con Bianconi. Fa pure il suo nome nella cena dell’hotel Champagne (a cui parteciparono i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque consiglieri del Csm, ndr) la sera fra l’8 ed il 9 maggio del 2019. Mi sono letto tutti gli atti. Corrado Cartoni (uno di questi cinque ex consiglieri del Csm, ndr), parlando con Palamara, gli chiede se Bianconi fosse “un suo amico come Cascini (Giuseppe, ex aggiunto a Roma, attuale consigliere al Csm, già esponente di Md, ndr)”. Bianconi aveva parlato qualche settimana prima con Palamara per sapere se era vero che alla Procura di Roma dopo Pignatone volessero “discontinuità”. Cartoni, sentendo questa parola dice: “È la frase che ho usato con Cascini”. Allora interviene Ferri dicendo: “È una frase che non mi è piaciuta”. Palamara, allora, aggiunge: “Chi te l’ha detta?”. Ferri: “Gliela detta Cascini”. E Palamara: “Certo”. Ripeto, ho letto tutti gli atti. So bene come sono andati i fatti».

Insomma, intende dire che c’è un rapporto stretto fra giornalisti e magistrati? Non è una grande novità..

«Ci sono giornalisti funzionali al sistema. Lo stesso giorno che Corriere e Repubblica pubblicavano la notizia dell’indagine a carico di Palamara, Il Fatto Quotidiano e La Verità riportavano il contenuto dell’esposto del pm Fava contro Pignatone. Veda un po’ lei».

Un gioco di specchi…

«È la stampa che orienta la Procura o la Procura che orienta la stampa? Il dato oggettivo è che le fughe di notizie, su cui nessuno ha mai indagato, hanno cambiato il destino della Procura di Roma. Oggi al posto di Michele Prestipino poteva esserci Viola».

Il caso Ciancio e l’omertà dell’élite di Catania sulla mafia. Isaia Sales il 24 ottobre 2020 su editorialedomani.it. Mario Ciancio Sanfilippo è il più emblematico uomo di potere che per più di 50 anni ha influenzato la storia di Catania, intessendo “relazioni pericolose” senza essere scalfito da nessuna indagine giudiziaria. Su questa figura Antonio Fisichella ha scritto un libro che squaderna davanti ai nostri occhi un “sistema paritario” tra politica, mafia, imprenditoria e informazione. Mai un sistema imprenditoriale è stato dominato da una influenza mafiosa così passivamente accettata proprio dalla stampa e dalle istituzioni che avrebbero avuto il compito di contrastarla. Come è stato possibile? Nel libro Una città in pugno di Antonio Fisichella (edito da Mesogea) è descritto uno dei casi più emblematici e clamorosi di pacifica e fruttuosa convivenza tra un esponente di primo piano del potere mediatico in Italia e i clan di mafia, senza che ciò abbia creato imbarazzi, reazioni, adeguate attenzioni o curiosità. Non si sta parlando di Silvio Berlusconi, ma di Mario Ciancio Sanfilippo, il direttore-editore del giornale La Sicilia, il più diffuso a Catania e nell’isola, il controllore di altri importanti mezzi mediatici (radio e televisioni) in grado di rappresentare l’intera editoria italiana come presidente della loro federazione nazionale (la Fieg) e addirittura arrivare a ricoprire il ruolo di vice presidente dell’Ansa, capace di fare fruttare i suoli di sua proprietà come nessun altro proprietario terriero nella storia recente, di diventare da editore il più grande costruttore di centri commerciali in Sicilia. Mario Ciancio Sanfilippo è stato (ed è) il più emblematico e duraturo uomo di potere che ha influenzato e condizionato la storia di una importante città italiana, Catania, e per più di 50 anni ha intessuto “relazioni pericolose” senza  essere scalfito (fino a pochissimo tempo fa) da nessuna indagine giudiziaria. Su questo personaggio Antonio Fisichella ha scritto un saggio/pamphlet degno della migliore tradizione del giornalismo italiano: penna brillante, passione civile, fonti inoppugnabili, indignazione morale e “misura” al tempo stesso. Un’inchiesta che possiede l’impianto e la solidità di un saggio storico con uno stile spigliato e al tempo stesso rigoroso. Un saggio che somiglia a un romanzo, che parla di cose che sembrano inventate e che invece sono avvenute. Uno dei libri più lucidi e appassionati sui poteri che condizionano una città che siano stati scritti negli ultimi anni e che squaderna davanti ai nostri occhi un “sistema paritario” tra politica, mafia, imprenditoria e informazione. Un caso diverso, però, da quello di Silvio Berlusconi, il quale è dovuto “scendere in campo” direttamente per difendere il suo impero mediatico, costretto dal crollo dei partiti della prima repubblica che nel tempo  avevano tutelato i suoi interessi, mentre Ciancio non ha avuto bisogno di farlo, cioè di candidarsi al Comune o al Parlamento o costruire e poi controllare un partito. Lui ha rappresentato un partito affaristico-mediatico senza alcun bisogno di una diretta investitura elettorale, sicuro di influenzare permanentemente la scena politica e amministrativa anche quando essa si andava modificando. Il costruttore, cioè, di un “partito/ombra degli affari” che difende a spada tratta gli equilibri dentro i quali si trova più a proprio agio, ma pronto ad assecondare le novità che non riesce ad impedire.

IL POTERE VELLUTATO. In genere il corso della storia di una città viene segnato da un sindaco, da un parlamentare, da un letterato, da una famiglia di imprenditori, difficilmente da un editore. Il controllo della stampa certo influenza gli eventi di una collettività, ma mai, dico mai, in nessuna importante città si è verificato un monopolio dell’informazione nelle mani di una sola persona  per così tanto tempo, e mai un sistema imprenditoriale è stato dominato da una influenza mafiosa così passivamente accettata proprio dalla stampa e dalle istituzioni che avrebbe avuto il compito di contrastarla. A Napoli, a Palermo, a Reggio Calabria mafie, camorra e ‘ndrangheta hanno suscitato reazioni, passione civile nel contrastarle, voglia di approfondire e capire, a partire dal mondo accademico. A Catania no. Qui si è esercitato il potere vellutato e anestetizzante della stampa e del mondo accademico. Neppure l’uccisione di un intellettuale del valore di Pippo Fava ha smosso gli studi ed ha evitato di rifugiarsi nel passato per non voler capire il presente. Si è riusciti, infatti, nella temeraria impresa di raccontare senza mafia una città dominata dalla mafia! Eppure a Catania non sono affatto mancati episodi ripetuti di violenza efferata e nel libro sono ampiamente raccontati. Il potere della mafia non è stato affatto silenzioso e “sobrio”, anzi è stato violento e “pubblico” al pari di ciò che è avvenuto in altre grandi città condizionate dagli omicidi mafiosi, dallo sterminio degli avversari e degli oppositori politici e istituzionali, dal rumore delle bombe e dei mitra, come a Palermo, Reggio Calabria e Napoli. A Catania, però, si è avuta la faccia tosta di negarne l’esistenza, anche di fronte a omicidi e attività di capillare controllo del territorio di inequivocabile matrice mafiosa. Il giornale La Sicilia, ad esempio, pubblicava il necrologio di un mafioso a firma dell’uccisore di Pippo Fava, mentre non volle pubblicare il necrologio del commissario della squadra mobile di Palermo, Beppe Montana. La stampa a Catania ha accettato con il proprio silenzio che una parte dell’imprenditoria avesse rapporti stabili con la mafia, quasi come un normale, banale e incontestabile corso delle cose. Ha svolto, cioè, una funzione di normalizzazione del potere imprenditoriale della mafia e di accettazione di essa nella classe dirigente della città. La legittimazione dell’agire mafioso ha trovato lo strumento più adatto nell’uso accorto de La Sicilia e del suo editore/direttore, avvezzo come il Conte zio manzoniano «a sopire e a tranquillizzare», abile nell'arte sottile di simulare e dissimulare, minacciare e lusingare pur di ottenere i propri scopi. Ciancio è stato il “Conte zio di Catania”, capace di giustificare e rendere impuniti i “don Rodrigo” e di utilizzare i “Bravi” e gli “Innominati” per tutelare i propri affari e dividerli con essi quando ciò era necessario. E’ vero, ci sono stati nella storia del giornalismo altri editori/direttori. Da questo punto di vista il ruolo di Ciancio non è fuori dalla tradizione, anche se negli ultimi anni casi del genere sono sempre più rari. Quello che è davvero singolare è il fatto che Ciancio è editore/direttore senza scrivere quasi mai articoli sul giornale che è di sua proprietà e che al tempo stesso dirige. Come se non si fidasse da editore di dare in mano il giornale a un vero giornalista. Qualche commentatore ha paragonato la vicenda di Ciancio a quella di Eduardo Scarfoglio editore e direttore de Il Mattino di Napoli tra fine Ottocento e inizio del Novecento. Quello stesso Scarfoglio che nel 1904 fu chiamato dai Florio a dirigere l’Ora di Palermo e che era stato ampiamente toccato dall’Inchiesta Saredo sulle attività clientelari/criminali nella Napoli di fine Ottocento. Scarfoglio, assieme alla moglie Matilde Serao, era certamente una penna affilata al servizio degli affari, ma scriveva, e come scriveva! Ciancio ha fatto lo stesso di Scarfoglio, cioè ha utilizzato il giornale per favorire i suoi fini economici, ma senza scrivere lui direttamente. E mentre Scarfoglio si faceva prendere oltre che dagli interessi anche dall’umore, da un carattere vulcanico, da uno sfidare sempre in prima persona gli avversari (e a volte mostrandosi fin troppo schierato)  in Ciancio invece c’è un’avidità più “sobria”, che non ama occupare la scena ma va direttamente al sodo. In questo aspetto Ciancio si mostra in linea con un particolare stile che ha influenzato anche l’immaginario mafioso. La sua è una capacità notevole di tenere a bada la vanità. La “roba”, gli affari sono più importanti dell’apparire. Un uomo sobrio, che non ama presenziare, che non si concede alla mondanità. A dimostrazione che il potere è quello che si esercita non quello che si vede.  Insomma, un “uomo di sostanza”, un potente che non deve esibire il potere per esercitarlo, ma esercitarlo senza darlo a vedere. Facendolo pesare ma non necessariamente palesare. E resta la domanda ripetuta e angosciante sottostante l’intero argomentare del libro: come mai Catania ha potuto esprimere insieme un Ciancio Sanfilippo e i quattro Cavalieri del lavoro (Graci, Finocchiaro, Rendo e Costanzo), come mai ha potuto assistere passivamente a un omicidio come quello di Fava, passando sopra le dichiarazioni rese a Giorgio Bocca dal generale Dalla Chiesa prima di essere ammazzato («È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana”), come mai ha sopportato tutto ciò senza che si siano operate delle fratture nette con la storia precedente, cosa che pure è avvenuto in altre realtà condizionate dalla presenza mafiosa? E’ indubbio che questa operazione di annebbiamento, di occultamento, di vera e propria “omertà di èlite”, non poteva essere svolta solo da Ciancio e dal suo giornale. Altri poteri hanno remato nella stessa direzione. In particolare ha contato innanzitutto il ruolo di sostegno (o di non adeguato contrasto) da parte della magistratura, delle forze di sicurezza e di tanti esponenti delle istituzioni. Non è un caso che proprio a Catania un magistrato abbia potuto scrivere in una sua sentenza del 1991 queste parole a proposto del pagamento del pizzo alla mafia: «Si può anche non pagare, ma chi non paga deve sapere bene cosa gli succede prima o poi... se tutti facessero così dalla Sicilia sparirebbero le imprese e migliaia di piccole aziende andrebbero in fiamme». Si tratta del magistrato Luigi Russo. Ciancio non avrebbe potuto argomentare meglio. E che dire del fatto che un prefetto e un questore della repubblica abbiano potuto tranquillamente partecipare all’inaugurazione di un salone d’auto del boss Nitto Santapaola? Molti sono stati i prefetti che hanno negato l’esistenza della mafia a Catania, anche dopo l’uccisione di Pippo Fava, addirittura dopo le dichiarazione di Dalla Chiesa. Molti sindaci hanno espresso lo stesso parere anche dopo il 1984. Mai in nessuna città la negazione della mafia ha potuto godere del sostegno della stampa come a Catania, neanche a Palermo. In nessuna altra realtà si è avuta la faccia tosta di sostenere che la mafia non esisteva, negando il fatto palese a tutti che quella mafia occultata stava diventando parte integrante della storia stessa della città, della sua vita politica, imprenditoriale e sociale. La Sicilia è stato il giornale dell’omertà dell’élite catanese.

IMPRENDITORI E COSA NOSTRA. Ma oltre alla comprensione delle istituzioni, il sistema mafioso di Catania ha potuto contare su di una interpretazione originale da parte del mondo imprenditoriale nel rapporto con la mafia. In questo originale modello di relazioni tra mondo legale e mondo criminale, tra mondo mediatico e mondo violento, non è la mafia che usa la stampa e gli imprenditori (oltre che la politica), ma sono gli imprenditori e i proprietari di giornali che si servono della mafia. La mafia catanese è stata considerata, insomma,  una variabile del mondo degli affari, costruendo un “condominio” in cui non sono applicati limiti morali né di metodi nel perseguimento degli affari. Equesto è avvenuto per merito di una interpretazione “tolemaica” della mafia, in cui è il sole che gira attorno alla terra, cioè è la mafia che gira attorno al sistema affaristico. In questo sistema i mafiosi vengono considerati dei normali uomini di affari, forse solo un po’ rozzi e violenti, anzi una variabile aggressiva e violenta del potere politico-imprenditoriale, ma non estranea ai valori della stessa classe dirigente della città. Un altro elemento accomuna la mafia a una determinata categoria di imprenditori che provengono dalla rendita fondiaria e che si sono specializzati nell’edilizia: l’assenza del rischio imprenditoriale, perché essi operano solo all’interno di mercati protetti dalla politica, cioè appunto quello edilizio e quello del controllo e dello sfruttamento dei suoli. La speculazione è la loro comune specializzazione. Sono tanti, infatti, i punti di contatto della rendita fondiaria con l’orizzonte imprenditoriale mafioso. E anche in quella nuova dimensione parassitaria che sta acquisendo la grande distribuzione commerciale. Non a caso Catania, grazie a Ciancio e ai suoi alleati, è diventata capitale europea dei centri commerciali, perseguendo “non un modello di sviluppo ma di consumo”. Nel campo dei suoli e dell’edilizia per fare l’imprenditore non devi essere un innovatore, ma detenere relazioni con il mondo politico, amministrativo e burocratico, e devi saper controllare la pubblica opinione. Sono le relazioni e l’influenza sull’opinione pubblica il particolare capitale di questa “speciale” imprenditoria. I mafiosi, insomma, si collocano a ridosso dell’economia redditiera con una disinvoltura e una nonchalance davvero impressionanti, come se appartenessero allo stesso mondo, allo stesso sentire, agli stessi valori: fare soldi e detenere potere a qualunque costo. Come se la furbizia negli affari fosse solo un altro aspetto della violenza. Come se si fosse instaurata una dittatura degli affari in città attraverso due metodi che portano agli stessi risultati: quello violento (i mafiosi) e quello relazionale (l’imprenditore). Dunque, non siamo di fronte a un caso, quello catanese, di straordinarie “virtù” imprenditoriali dei mafiosi, ma alla capacità di una vasta classe dirigente di inglobare nel proprio mondo persone che vengono dal mondo della violenza, cioè di trasformare degli assassini in uomini di affari. Pur di continuare i propri interessi fanno entrare i mafiosi nell’élite della città. Tutto ciò che non possono o non vogliono impedire lo assimilano e lo legittimano. La ricchezza determina il potere e poi il potere è funzionale ad allargare e tutelare la propria ricchezza anche facendo ricorso alla violenza o alleandosi con i signori della violenza: sono feudatari sopravvissuti ai tempi.

LE DUE CATANIE. Si è costruita così una specie di imprenditoria a “temperamento parassitario-criminale”, nella quale  uno dei siciliani più ricchi e potenti controllando un giornale e dei terreni agricoli riesce a ricoprire ruoli nazionali nella stampa italiana, cioè ad avere accesso da protagonista nei salotti che contano della classe dirigente italiana. Per tutti questi motivi Pippo Fava e Mario Ciancio Sanfilippo rappresentano due Catanie alternative, due Sicilie contrapposte nettamente. E anche due Italie inconciliabili. Ma uno è stato ammazzato nella quasi indifferenza della città, l’altro ha potuto per più di 50 anni fare e disfare tutto ciò che riguardava l’economia catanese e non solo. E l’autore con questo libro non nasconde da che parte si schiera, ma raccontando semplicemente e scrupolosamente i fatti avvenuti.

Dissequestrati beni dell'editore Mario Ciancio, ma la Procura può sempre opporsi. Il Corriere del Giorno il 24 Marzo 2020. La Corte d’appello afferma però qualcosa di poco piacevole per Ciancio e cioè come tra “Cosa nostra catanese e l’imprenditore si sia progressivamente consolidato nel tempo un rapporto di “vicinanza/cordialità”. La Corte d’appello di Catania ha disposto il dissequestro di tutti i beni di Mario Ciancio Sanfilippo che era stato disposto dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Tra i beni dissequestrati anche le società che controllano i quotidiani La Sicilia e  La Gazzetta del Mezzogiorno,  e le emittenti televisive Antenna Sicilia e Telecolor. Secondo la Corte d’appello il decreto impugnato “va conseguentemente annullato” come scrivono i giudici nelle 113 pagine delle motivazione della sentenza d’appello, “non può ritenersi provata l’esistenza di alcuni attivo e consapevole contributo arrecato da Ciancio Sanfilippo in favore di Cosa nostra catanese”. Inoltre secondo il collegio giudicante della Corte di Appello di Catania “non può ritenersi provata alcuna forma di pericolosità sociale” né “è risultata accertata e provata alcuna sproporzione tra i redditi di provenienza legittima di cui il preposto il suo nucleo familiare potevano disporre la liquidità utilizzate nel corso del tempo“. Il decreto della Corte d’appello di Catania che dispone il dissequestro totale dei beni, entra nel merito delle vicende legate alla realizzazione di centri commerciali, del Pua e di vari investimenti sottolineando che in tutti i casi «non è emerso alcun rapporto tra Mario Ciancio Sanfilippo e Cosa nostra». E che lo «“schema trilatero” ipotizzato tra “politica-mafia-imprenditoria” resta una mera ipotesi investigativa priva di idonei contenuti probatori» e, inoltre, “in nessuna delle singole condotte esaminate può dirsi raggiunta la prova di alcun consapevole contributo in favore» della mafia. La Corte d’appello afferma però qualcosa di poco piacevole per Ciancio e cioè come tra «Cosa nostra catanese e l’imprenditore si sia progressivamente consolidato nel tempo un rapporto di “vicinanza/cordialità”» dopo che la mafia ha «imposto un «rapporto di protezione» con «il pagamento da parte della vittima del “pizzo”» per «garantire al “protetto” la possibilità di continuare a svolgere la propria attività senza “rischi” e senza il pericolo di subire “atti ostili” nei confronti di un imprenditore che «viene poi considerato “amico”». Il sequestro finalizzato alla confisca per beni stimati in complessivi 150 milioni di euro era stato chiesto dalla Procura Distrettuale Antimafia di Catania ed eseguito il 24 settembre del 2018 dai Carabinieri del Ros e del comando provinciale di Catania nell’ambito del processo per concorso esterno all’associazione mafiosa in cui l’imprenditore è imputato, a seguito di una prima archiviazione del Gip successivamente annullata dalla Corte di Cassazione. La Procura Generale di Catania  può presentare reclamo in Cassazione contro il decreto della Corte d’appello, iniziativa che secondo fonti del palazzo di giustizia catanese viene data per scontata e sicura e chiedere quindi ad un altro collegio giudicante, il “congelamento” dell’esecutività del dissequestro, che di fatto farebbe tornare tutto sotto sequestro.  

Dissequestrati i beni di Ciancio Sanfilippo: «Non c’è prova che abbia aiutato la mafia». Il Dubbio il 25 marzo 2020. Tra le motivazioni dei giudici di secondo grado vi è la «mancanza di pericolosità sociale» dell’editore siciliano. La Corte d’appello di Catania ha disposto il dissequestro di tutti i beni di Mario Ciancio Sanfilippo che era stato deciso dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Tra le motivazioni dei giudici di secondo grado vi è la «mancanza di pericolosità sociale» dell’editore e imprenditore. Tra i beni dissequestrati anche le società che controllano i quotidiani La Sicilia e Gazzetta del Mezzogiorno e le emittenti televisive Antenna Sicilia e Telecolor. «Mario Ciancio Sanfilippo non è pericoloso e il suo patrimonio è proporzionato alle entrate quindi la Corte annulla la confisca», ha commentato l’avvocato Carmelo Peluso, difensore dell’editore catanese. Le aziende del gruppo – un patrimonio dal valore di oltre 150 milioni – fino ad oggi sotto amministrazione giudiziaria, tornano dunque nelle mani dell’imprenditore. Un patrimonio lo ricordiamo di oltre 150 milioni di valore.Secondo la Corte d’appello di Catania, presieduta da Dorotea Quartararo, il decreto impugnato deve essere annullato in quanto «non può ritenersi provata l’esistenza di alcun attivo e consapevole contributo arrecato da Ciancio Sanfilippo in favore di Cosa nostra catanese». Secondo il Tribunale di primo grado, invece, ci sarebbe stato uno stabile «contributo» alla famiglia mafiosa catanese. Secondo i giudici di prevenzione di secondo grado, invece, «non può ritenersi provata alcuna forma di pericolosità sociale», in quanto non è risultata accertata e provata «alcuna sproporzione tra i redditi di provenienza legittima di cui il preposto e il suo nucleo familiare potevano disporre di liquidità utilizzate nel corso del tempo». Con l’articolato provvedimento di quasi 120 pagine, la Corte catanese ha affrontato tutti i temi del processo Ciancio, dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia alle compravendite dei terreni sui quali sono sorti o sarebbero dovuti sorgere alcuni centri commerciali.«Con il provvedimento adottato oggi – affermano gli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti – la Corte di Appello chiude il lungo e doloroso calvario della misura di prevenzione nei confronti di uno dei più noti imprenditori siciliani, confermando la validità di tutte le argomentazioni difensive da sempre sostenute dagli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti, soprattutto nella parte in cui è stato escluso che Mario Ciancio abbia dato alcun contributo fattivo alle attività e allo sviluppo del sodalizio criminoso. Con la pronuncia sulla inesistenza di una sperequazione tra i redditi conseguiti e il patrimonio della famiglia Ciancio – sottolineano i legali – la Corte ha censurato anche il presupposto su cui il Tribunale aveva fondato la confisca dei beni, confermando la validità della minuziosa opera di ricostruzione reddituale e le puntuali osservazioni contenute nella consulenza tecnica del dottor Giuseppe Giuffrida, validamente collaborato dal dottore Fabio Franchina». Si chiude così il lungo periodo di amministrazione giudiziaria, cominciato il 24 settembre 2018, periodo, che, secondo Fnsi e le Associazioni regionali di Stampa di Sicilia, Puglia e Basilicata «ha acuito i problemi delle testate producendo gravi ripercussioni sull’organizzazione delle redazioni, sugli organici e sulle retribuzioni di giornalisti e maestranze. Adesso è necessario che l’editore riprenda in prima persona le redini delle aziende, avviando una politica di rilancio all’insegna di una profonda discontinuità gestionale e manageriale» concludono le organizzazioni sindacali.

Catania, restituiti beni a editore Ciancio: dissequestrata anche la Gazzetta del Mezzogiorno. Cdr: «Fine incubo di 18 mesi». Tra le motivazioni dei giudici di secondo grado anche la «mancanza di pericolosità sociale» dell’editore e imprenditore. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Marzo 2020. La Corte d’appello di Catania ha disposto il dissequestro di tutti i beni di Mario Ciancio Sanfilippo e dei suoi familiari che era stato disposto dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Secondo i giudici di secondo grado il decreto impugnato dai legali dell’editore e imprenditore «va annullato» perché, scrivono nelle 119 pagine della decisione motivata, «non può ritenersi provata l’esistenza di alcun attivo e consapevole contributo arrecato in favore di Cosa nostra catanese». Inoltre "non può ritenersi provata alcuna forma di pericolosità sociale" né «alcuna sproporzione tra i redditi legittimi di cui Mario Ciancio Sanfilippo e il suo nucleo familiare potevano disporre e beni mobili e immobili a loro riferibili». Tra i beni interessati dal provvedimento, oltre a conti correnti e immobili, vi sono il quotidiano 'La Sicilia', la maggioranza delle quote della 'Gazzetta del Mezzogiorno' di Bari, due emittenti televisive regionali, 'Antenna Sicilia' e 'Telecolor' e la società che stampa quotidiani Etis. Per la Fnsi e le associazioni della stampa di Sicilia, Puglia e Basilicata «si chiude un lungo periodo di amministrazione giudiziaria» e «adesso è necessario che l’editore riprenda in prima persona le redini delle aziende, avviando una politica di rilancio all’insegna di una profonda discontinuità gestionale e manageriale».

Un atto di giustizia, un fattore di serenità. «Con il provvedimento adottato oggi - sottolinea il collegio di difesa - la Corte di appello chiude il lungo e doloroso calvario della misura di prevenzione nei confronti di uno dei più noti imprenditori siciliani, confermando la validità di tutte le argomentazioni difensive sostenute dagli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti, soprattutto nella parte in cui è stato escluso che Mario Ciancio abbia dato alcun "contributo fattivo alle attività e allo sviluppo del sodalizio criminoso"».

NESSUN RAPPORTO CON COSA NOSTRA - Il decreto della Corte d’appello di Catania che dispone il dissequestro totale dei beni, entra nel merito delle vicende legate alla realizzazione di centri commerciali, del Pua e di vari investimenti sottolineando che in tutti i casi «non è emerso alcun rapporto tra Mario Ciancio Sanfilippo e Cosa nostra». E che lo «schema trilatero ipotizzato tra "politica-mafia-imprenditoria" resta una mera ipotesi investigativa priva di idonei contenuti probatori» e, inoltre, "in nessuna delle singole condotte esaminate può dirsi raggiunta la prova di alcun consapevole contributo in favore» della mafia. La Corte d’appello sottolinea come tra «cosa nostra catanese e l’imprenditore si sia progressivamente consolidato nel tempo un rapporto di vicinanza/cordialità» dopo che la mafia ha "imposto un rapporto di protezione» con «il pagamento da parte della vittima del pizzo» per «garantire al protetto la possibilità di continuare a svolgere la propria attività senza rischi e senza il pericolo di subire atti ostili nei confronti di un imprenditore che «viene poi considerato amico». Pagamenti che l’editore ha sempre smentito.

IPOTESI CASSAZIONE E CONGELAMENTO DISSEQUESTRO - Il sequestro finalizzato alla confisca per beni stimati in complessivi 150 milioni di euro era stato chiesto dalla Procura Distrettuale ed eseguito il 24 settembre del 2018 dai carabinieri del Ros e del comando provinciale di Catania nell’ambito del processo per concorso esterno all’associazione mafiosa in cui l’imprenditore è imputato, dopo una prima archiviazione del Gip poi annullata dalla Corte di Cassazione. Contro il decreto della Corte d’appello di Catania la Procura generale può presentare reclamo in Cassazione e chiedere, ad un altro collegio giudicante, il congelamento dell’esecutività del dissequestro.

COMITATO DI REDAZIONE: SPERIAMO SIA FINE DI UN INCUBO - Il comitato di redazione, nell’apprendere la decisione della Corte d’Appello di Catania, oltre a compiacersi per la positiva soluzione della vicenda che ha riguardato il dott. Mario Ciancio Sanfilippo, editore della Gazzetta del Mezzogiorno, esprime l’auspicio che la decisione di dissequestro dei giudici siciliani ponga una volta per tutte la parola fine a un incubo durato ben diciotto mesi. Tanti ne sono passati dal sequestro disposto dalle Misure di prevenzione del Tribunale di Catania, nelle cui maglie, com’è ormai noto, è finita anche la Gazzetta, la cui unica colpa era di appartenere a un imprenditore che oggi torna legittimamente a disporre dei propri beni. Diciotto mesi nei quali tutti i dipendenti della Gazzetta del Mezzogiorno hanno lottato tra mille difficoltà, lavorando anche senza retribuzione, pur di non mancare al quotidiano appuntamento in edicola con i Lettori di Puglia e Basilicata. Diciotto mesi nei quali il Comitato di redazione, supportato dalle Associazioni della stampa di Puglia e Basilicata e dalla Federazione nazionale della stampa italiana, oltre che da una eccezionale squadra di professionisti, ha incontrato tutti i possibili interlocutori istituzionali e imprenditoriali, pur di garantire la sopravvivenza di un quotidiano forte di 133 anni di vita. Un lavoro di trattative lunghe, estenuanti e a momenti anche demoralizzanti, aggravato dalla lentezza dei tempi burocratici dettati dalla gestione commissariale voluta dal Tribunale di Catania. Duole constatare che questa vicenda si risolva positivamente solo oggi, in un momento drammatico non solo per la vita del Paese, ma in una condizione di emergenza planetaria che, se da un lato rende ancor più prezioso e necessario il ruolo dell’Informazione, dall’altro rende difficoltoso il lavoro dei giornalisti e la diffusione della carta stampata. La Gazzetta del Mezzogiorno torna nel patrimonio e nella disponibilità di Mario Ciancio Sanfilippo con un accordo di drastici tagli del costo del lavoro già sottoscritto tra le parti sociali e la gestione commissariale e un piano di concordato già predisposto, presentato al Tribunale di Bari e poi ritirato per mancanza di garanzie finanziarie dalla Denver di Walter Mainetti, socio di minoranza della Edisud SpA. Alla luce di tutto ciò che è accaduto dal momento del sequestro ad oggi, i giornalisti della Gazzetta si augurano adesso di poter continuare a fare il proprio lavoro con maggiore serenità, confidando nella presenza di un editore vero, col quale poter dialogare e confrontarsi non solo sulla salvaguardia dei livelli occupazionali, ma anche e soprattutto sul futuro di una delle testate più antiche e prestigiose dell’Italia meridionale.

IL COMMENTO DEGLI AVVOCATI -  Con l’articolato provvedimento di quasi 120 pagine, la Corte catanese ha affrontato tutti i temi del 'processo Cianciò, dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia alle compravendite dei terreni sui quali sono sorti o sarebbero dovuti sorgere alcuni centri commerciali. La Corte ha affrontato punto per punto tutti i temi trattati nel decreto del Tribunale e i relativi motivi di impugnazione proposti dai difensori, concludendo che "non può ritenersi provata l'esistenza di alcun fattivo e consapevole contributo arrecato da Ciancio Sanfilippo in favore di Cosa Nostra catanese"». Lo scrivono in una nota i legali dell’imprenditore ed editore, gli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti. «Conseguentemente - aggiungono i penalisti - i giudici di appello hanno affermato che non sussiste alcuna forma di pericolosità sociale che possa consentire l’applicazione di una misura di prevenzione, né personale, né patrimoniale». «Con il provvedimento adottato oggi - osserva il collegio di difesa - la Corte di Appello chiude il lungo e doloroso calvario della misura di prevenzione nei confronti di uno dei più noti imprenditori siciliani, confermando la validità di tutte le argomentazioni difensive da sempre sostenute dagli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti, soprattutto nella parte in cui è stato escluso che Mario Ciancio abbia dato alcun 'contributo fattivo alle attività e allo sviluppo del sodalizio criminoso'. Con la pronuncia sulla inesistenza di una sperequazione tra i redditi conseguiti e il patrimonio della famiglia Ciancio - sottolineano i legali - la Corte ha censurato anche il presupposto su cui il Tribunale aveva fondato la confisca dei beni, confermando la validità della minuziosa opera di ricostruzione reddituale e le puntuali osservazioni contenute nella consulenza tecnica del dottor Giuseppe Giuffrida, validamente collaborato dal dottore Fabio Franchina».

LE PAROLE DI FNSI - «Il dissequestro dei beni di Mario Ciancio Sanfilippo, fra cui rientrano anche i quotidiani La Gazzetta del Mezzogiorno di Bari e La Sicilia di Catania e le emittenti Telecolor e Antenna Sicilia, disposto dal tribunale di Catania, restituisce la gestione delle testate al loro editore». Lo afferma il sindacato dei giornalisti, in una nota congiunta della Fnsi e delle Associazioni regionali della Stampa di Sicilia, Puglia e Basilicata. «Si chiude così il lungo periodo di amministrazione giudiziaria, cominciato il 24 settembre 2018 - spiega il sindacato - che ha acuito i problemi delle testate producendo gravi ripercussioni sull'organizzazione delle redazioni, sugli organici e sulle retribuzioni di giornalisti e maestranze. Adesso - conclude - è necessario che l’editore riprenda in prima persona le redini delle aziende, avviando una politica di rilancio all’insegna di una profonda discontinuità gestionale e manageriale».

L'AUSPICIO DI LONGO VICE PRES. CONSIGLIO REGIONALE - “Nel quotidiano bollettino di notizie tragiche e drammatiche, una speranza di ripartenza - per i giornalisti, i poligrafici, i lavoratori tutti e le intere comunità pugliese e lucana - arriva dal dissequestro della Gazzetta del Mezzogiorno. Temo sia presto per cantare vittoria, ma uno dei più importanti quotidiani del Sud finalmente, dopo mesi di Purgatorio, può vedere una luce in fondo al tunnel. Paragonare la carta stampata, se di qualità, a quell’ingorgo di notizie che, soprattutto in questo drammatico momento, è ampiamente rappresentato in Rete, non solo è controproducente per la formazione del pensiero dei lettori-fruitori, ma è assolutamente dannoso. Da qui la necessità e il dovere per una Puglia che vuole guardare al futuro, di difendere con le unghie e senza remore, le migliaia di copie quotidiane che la Gazzetta del Mezzogiorno ci consegna regolarmente anche in questo momento complesso. La Gazzetta in quest’ambito deve restare baluardo della verità e sostegno a quella nuova ed essenziale visione di modernità, e tutti i pugliesi e i lucani hanno il diritto dovere di lottare affinché, anche in seguito alle notizie giunte da Catania, questo patrimonio comune possa ripartire verso ambiziosi traguardi”.

LA NOTA DI LOSACCO (PD) - “Mi auguro che il dissequestro della Gazzetta del Mezzogiorno e degli altri beni dell’editore Ciancio disposta dalla Corte d’Appello di Catania possa consentire allo storico quotidiano pugliese di allontanare definitivamente il rischio di chiusura e di riprendere pienamente il proprio ruolo di guida dell’informazione regionale. Come non ci siamo mai stancati di ripetere in questi mesi, è impensabile un panorama informativo della Puglia e del Mezzogiorno senza la Gazzetta. Speriamo quindi che da qui possa ripartire, per continuare a scrivere nuove pagine della sua storia, sempre al servizio del territorio e della buona e libera informazione.” Lo scrive in una nota il deputato barese del Pd, Alberto Losacco.

Il Fatto Quotidiano: Woodcock e Maresca non si criticano! Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Agosto 2020. C’è una sola cosa che Il Fatto non passerà mai sotto silenzio: una critica al Pm John Woodcock. Non la ammette, si indigna, soffre: e scatta comunque e immediatamente a sua difesa. Non so perché: qualche motivo ci sarà….L’altro giorno, seppure tra le righe, avevamo effettivamente polemizzato con il Pm napoletano. Facendo notare che un paio di gigantesche inchieste, che poco più di un lustro fa avevano occupato per giorni le prime pagine dei giornali ed erano state descritte (dagli autori delle inchieste) come la scoperta di “uno dei più grandi episodi corruttivi della storia italiana”, si sono concluse con un gigantesco flop. Flop registrato dai giornali nel più assoluto e devoto silenzio. Devoto ai Pm, dico. I due Pm erano Woodcock e Catello Maresca. L’inchiesta era quella su Cpl Concordia. Le accuse andavano da corruzione ad associazione mafiosa. Tutti i corrotti sono stati assolti con formula piena, tutte le accuse di mafia sono cadute, resta – in primo grado – una condanna al corruttore che però, secondo la giustizia italiana, avrebbe bensì corrotto, ma avrebbe corrotto nessuno. In Italia questo può succedere. Chi hai corrotto? Nessuno. Ti condanno per aver corrotto nessuno. Il Fatto Quotidiano l’altro giorno ha pubblicato un articolo, firmato da Vincenzo Iurillo, di polemica con il Riformista; ci accusa di avere “un nobile scopo: quello di screditare i Pm e i carabinieri”. Beh, un paio di cose vanno chiarite. Proviamo. I giornali, di solito, si danno tre missioni. La prima è informare. La seconda è fornire idee e aprire discussioni. La terza, e la più importante, è criticare il potere. I Poteri. I poteri in una società moderna sono svariati. I più potenti sono il potere politico, il potere economico e quello della magistratura. Cioè il potere giudiziario. Negli ultimi 25 anni – per sue abilità e per debolezza degli altri – il potere della magistratura ha di gran lunga sopravanzato e sottomesso gli altri due. Bene: criticare la magistratura è – sarebbe: sarebbe – uno dei compiti dei giornali. Tenerla d’occhio, stare attenti a che non abusi delle sue competenze, che sia corretta, o anche, semplicemente che non sbagli. Eventualmente correndo il rischio di inimicarsela e di trovarsi sommersi da avvisi di garanzia. È un rischio del mestiere, per i giornalisti. Se un magistrato, per esempio, balza agli onori delle cronache per aver scoperto una clamorosa corruzione, e arresta gente di qua e di là, e poi si scopre che non ci furono corrotti, e gli imputati vengono scarcerati, e le loro aziende, però, nel frattempo, hanno subito danni gravissimi che nessuno risarcirà, sarebbe – sarebbe… – carino scrivere sui giornali: “Clamoroso! Non c’erano corrotti”. Invece, silenzio. E addirittura, se poi qualcuno si accorge dell’enormità avvenuta, e lo scrive sul suo giornale, apriti cielo. E si grida: vogliono screditare la magistratura! A me pare che si sia screditata da sola. Pensa, Iurillo, a quei poveretti che sono finiti nella gogna, in questi giorni, per quei miseri (e legalissimi) 600 euro di bonus. Tutti i giornali a tirargli contro, a partire dal Fatto. Loro potrebbero dire, copiandoti: “Ecco, i giornali hanno il nobile scopo di screditare la politica!”. Pensa ai titoli del tuo giornale su Berlusconi, o su Renzi, o su Salvini (e una volta anche su Zingaretti): leggendoli, si dovrebbe gridare: vogliono screditare, vogliono screditare! Molto buffo, no? Eppure è così. L’idea è chiara. I poteri sono vari e sono putridi. Tranne due, che invece sono sacri: quello di Casaleggio e questo dei magistrati. Il tuo giornale, quando scrive di Salvini, lo definisce “il cazzaro”, se si riferisce a Renzi scrive “il bomba” o “l’innominabile”. Berlusconi è il “pregiudicato”. Questo abitualmente. Hai mai letto, sul Riformista, di un magistrato definito “il cazzaro”? Bisognerà prima o poi imparare a distinguere tra critiche e insolenze. La seconda cosetta che volevo dirti riguarda i processi frazionati. Sta diventando un’abitudine per alcuni magistrati. Invece di fare un processo unico, nel quale testimoni, accusati, accusatori, vengono messi a confronto e si trova una sintesi e una verità unica, il processo si fraziona. Ogni accusato processato per conto suo. E così le verità diventano tante. Autonome. E non soffrono del principio di contraddizione. Per esempio – come spieghi anche tu nel tuo articolo – è ammesso condannare il signor X per avere corrotto il signor Y e poi assolvere il signor Y perché mai nessuno lo ha corrotto. Ne soffre la logica, ma la giustizia avanza. Pare che il nostro comune amico Woodcock sia specialista in questa tecnica. È suo diritto usarla, perché l’accusa è l’accusa: magari però qualcuno dovrebbe fermarlo. La tecnica del frazionamento del processo risponde a una logica molto chiara, e conosciuta (l’ha denunciata tante volte anche un ex Pm di ferro come Antonio Di Pietro): non si cerca il reato, non si indaga sul reato, si cerca un possibile imputato e su di lui si lavora. Quindi non interessa un processo sul reato, interessa un processo – da far durare più tempo possibile – che isoli l’imputato, riduca i suoi strumenti di difesa, e lo frigga a fuoco lento. Infine c’è la questione della mafia. Tu hai scritto esattamente così (riferendoti al dottor Casari): “Che è stato, sì, assolto definitivamente in un altro processo nel quale la metanizzazione del casertano era accompagnata dal sospetto del Pm Maresca di avere favorito il clan dei casalesi. Ma pure qui, dire che non ci fu mafia è una forzatura: sono stati condannati imprenditori garanti di un accordo con il clan. Al quale però Casari era estraneo“. Preciso meglio. Casari fu accusato non di aver favorito un clan, fu accusato di associazione mafiosa. Ed è stato assolto. Capisci, no, la parola assolto? A me non era mai capitato, ma proprio mai, di leggere in un articolo una cosa del genere: sì, magari lui non sarà mafioso, ma qualche mafioso in giro c’è sempre…

Ufficiale: Giovanni Minoli alla guida della Calabria Film Commission. Pubblicato il 30 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Un nome di prestigio che non ha bisogno di presentazioni, scelto dal presidente Jole Santelli per poter traghettare la Calabria, bella di paesaggi e ricca di competenze, verso i grandi mercati del cinema e dell’audiovisivo internazionale. Va in questa direzione la nomina di Giovanni Minoli alla guida di Calabria Film Commission. Minoli, che ha inventato “Un posto al sole”, la prima soap di successo in Italia ma anche la più longeva (5487 puntate in 14 anni), ha radicalmente modificato il mondo del giornalismo con Mixer, Report, e quello dell’intrattenimento con Turisti per caso e Quelli della notte. Per citare solo alcuni esempi che non escludono neanche l’informazione culturale, se si pensa a “La storia siamo noi”. Dove c’è Minoli c’è innovazione di successo. Autore di documentari e reportage, la sua prima rubrica in tv è stata “A come agricoltura”. Sempre al passo con i tempi, ha una padronanza manageriale delle nuove tecniche digital, necessarie alle forme di espressione dei nostri tempi. Enorme il numero di talenti che ha portato al successo. “Sotto la guida di Minoli – è scritto in un comunicato della Regione – il cinema e l’audiovisivo calabrese potranno raggiungere traguardi importanti, che contribuiranno a comunicare l’immagine positiva della Calabria che si fonderà anche sull’industria creativa”.

Calabria Film Commission a uno dei giornalisti vicini a Palamara. Rec News il  30/07/2020. La decisione del presidente della Regione Jole Santelli già nell’aria e ora confermata. Era già nell’aria da settimane ma la voce è stata confermata oggi con un comunicato pubblicato sul sito della Regione Calabria: l’incarico di commissario straordinario della Calabria Film Commission (organismo dal passato piuttosto burrascoso) va a Giovanni Minoli. Lo ha deciso la presidente della Ragione Jole Santelli in forza, si legge, dell’ampio e variegato curriculum. Autore di diverse produzioni di successo (da Report allo storico Mixer), Minoli è anche uno dei (numerosi) giornalisti che intrattenevano rapporti con Luca Palamara, come abbiamo già scritto nel nostro Giornalistipoli, la (vera) mappa del mainstream al servizio delle Procure.

Giornalistopoli, la (vera) mappa del mainstream al servizio delle Procure. Zaira Bartucca su recnews.it il 24/05/2020. Attorno a Luca Palamara e alla questione del ricambio delle toghe, si era stretto un manipolo di giornalisti televisivi e della carta stampata, volti noti compresi. Le carte della Procura di Perugia parlano chiaro: attorno a Luca Palamara, il togato finito nella bufera “Magistropoli”, si era stretto un manipolo di giornalisti televisivi e della carta stampata, noti e meno noti. In alcuni casi i documenti raccontano di normali rapporti lavorativi. Le telefonate, gli incontri, le domande – certo – la voglia di cogliere un retroscena. Ma in alcuni casi quello che nell’Inchiesta di Perugia appare strano, è quel vezzo tipico delle lobby di voler costruire gli eventi più che stargli dietro. Di influenzare, posizionare, mettere l’uomo giusto nel posto giusto. “Quindi io a te ti metto già a Torino”, dice l’11 aprile dello scorso anno Liana Milella di Repubblica. “Mettimi a Roma a me, stai buona”, le risponde Palamara. Non è l’unica del quotidiano romano a scambiare impressioni con Palamara. A raccogliere i “messaggi” del magistrato che voleva far trapelare la sua buona disposizione verso le Procure inquirenti, era anche Francesco Grignetti, che stando a quanto riportato si era ritrovato a raccogliere un testo dettato dal magistrato. “La telefonata – scrivono dalla Procura di Perugia – era improntata sulla dettatura di Palamara”. Leggendo le carte, infatti, quello che si evince con chiarezza è l’affaccendamento del magistrato, apparentemente preoccupato di far passare all’esterno quel tanto di utile ad agevolare determinati piani, a discapito di chi voleva rovinarli. Un gioco a scacchi dove le pedine erano i giornalisti, le stesse toghe, chi tra i politici poteva mettere a disposizione una parola che contasse. Sono giorni concitati, scanditi da numerosi incontri e telefonate. In alcuni casi Palamara si sfoga, in altri si lascia consigliare. In altri ancora, detta o fa dettare agende. Da marzo iniziano le telefonate con Giovanni Minoli – il giornalista Rai storico conduttore di Mixer – che culminano a maggio con un incontro. Al centro del discorrere, la possibilità di rilasciare un’intervista “politica” procurata da Silvia Barocci – autrice di Mezzora in Più – con Lucia Annunziata, la conduttrice, ma anche i botta e risposta orchestrati e pubblicati su Repubblica e su Il Fatto Quotidiano. “L’esame delle conversazioni telefoniche – scrivono inoltre gli inquirenti – permetteva di rilevare un contatto intrattenuto con l’indagato (Palamara, nda) con Rosa Polito, giornalista dell’AGI, il cui tenore evidenziava l’esistenza di un rapporto personale”. E dell’AGI era anche Simona Olleni che, si legge, si trova a “concordare” la definizione “del testo di un comunicato di prossima pubblicazione, in risposta agli articoli stampa pubblicati, in data 29 maggio 2019, sulle indagini in corso nei confronti dello stesso” (Palamara). Non resta fuori nemmeno l’Ansa, nella persona di Sandra Fischetti. Anche con lei Palamara si accordava sul tenore delle “dichiarazioni da rilasciare in un comunicato stampa”. Rapporti sono stati registrati anche con Valeria Di Corrado de Il Tempo, e con Giacomo Ortensi Amadori de La Verità. Assieme a Repubblica, testata che ritorna spesso è Il Fatto Quotidiano. Sempre in relazione agli articoli del 29 maggio del 2019, Palamara si mette in contatto con Vincenzo Bisbiglia, ma il discorso scivola sugli incarichi affidati dalla Regione Lazio alla moglie dell’indagato e dei contatti con Nicola Zingaretti. Un nome che fa presa è quello di un giornalista apprezzato per un noto programma Rai, non certo per la cronaca giudiziaria, che Palamara raggiunge tramite Palazzo Chigi. E’ infatti il centralino degli uffici che si occupano dell’attività del premier Conte che gli passano – non è chiaro per quale motivo – Gigi Marzullo, storico conduttore di Sottovoce. “Il tenore delle intercettazioni – scrivono gli inquirenti – permetteva di rilevare l’esistenza di plurimi incontri”. Incontri si erano verificati anche con Giovanni Bianconi del Corriere della Sera, che viene dipinto come persona vicina ai Servizi. Un rapporto delineato in una conversazione intrattenuta tra Palamara e Stefano Fava, quando i due esprimono – scrivono gli inquirenti – “la necessità di avviare una interlocuzione con il giornalista Marco Lillo del Fatto Quotidiano in ordine alla trasmissione di un fascicolo al CSM nei confronti del già Procuratore di Roma Pignatone e del Procuratore Aggiunto Paolo Ielo”. “Io…io…spero che Marco Lillo non arriva a sto punto”, dice Palamara a Stefano Fava. “L’analisi delle conversazioni fra presenti – è scritto nelle carte dell’Inchiesta – consentiva di rilevare alcuni colloqui dai quali si acquista evidenza di come Palamara fosse in grado di incidere sui contenuti di alcuni articoli di stampa”. E’ il caso di alcuni tra gli esempi citati, e anche de La Stampa e di Giuseppe Salvaggiulo. “L’articolo sulla Stampa non era male o no?” Domanda Palamara a Fava. “No quello che è pazzesco dell’articolo sai qual è?” “Eh” “L’hai pagato però?” “(incomprensibile)…lo conosco!” Sempre Palamara, confidandosi con il renziano di ferro Luca Lotti, parlerà di “un passaggio che gli ho fatto mettere” (nell’articolo, nda). Esemplificativa del clima, la domanda che il politico del Pd fa poco dopo a Palamara: “Questa roba incide sull’Aggiunto secondo te?”.

Luca Palamara rivelò segreti al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio: "Campagna calunniosa contro l'avvocato Amara". Libero Quotidiano il 25 luglio 2020. Altri dettagli che inguaiano Luca Palamara e imbarazzano Marco Travaglio. Già, perché Repubblica dà conto di un retroscena relativo alla campagna condotta contro Giuseppe Pignatone dall'ex membro del Csm dal Fatto Quotidiano e dalla Verità. In questo contesto, sul giornale di Travaglio venga raccontato, scrive Repubblica, "in chiave calunniosa il conflitto nato all'interno di piazzale Clodio sul fascicolo di Piero Amara, avvocato coinvolto in un giro di corruzione in atti giudiziari. Secondo quanto scritto nell'invito a comparire della Procura di Perugia, "i due pm (Palamara e Fava, ndr) violando i doveri inerenti alla propria funzione, rivelavano ai giornalisti dei quotidiani Il Fatto Quotidiano e La Verità notizie di ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete". La più classica fuga di notizie dalla procura, insomma. E - toh che caso - tra i destinatari c'era proprio Travaglio, direttore del più celebre gazzettino delle procure, alias Il Fatto Quotidiano...

"Il Fatto" faceva da casella postale per le manovre in toga di Palamara & Co. Avviso a comparire per il pm: notizie riservate girate ad hoc al quotidiano. Lodovica Bulian, Domenica 26/07/2020 su Il Giornale. Corruzione nell'esercizio della funzione, corruzione in atti giudiziari e violazione del segreto d'ufficio. Con un invito a comparire il 29 luglio davanti ai magistrati della procura di Perugia. Si aggrava la posizione di Luca Palamara che a settembre andrà anche a processo disciplinare davanti al Csm, dove mira a trascinare un centinaio di esponenti della magistratura per dimostrare che «così fan tutti». Ma intanto prosegue l'inchiesta per corruzione dei magistrati umbri ed emergono nuovi elementi nell'accusa all'ex presidente dell'Anm ed ex leader della corrente centrista Unicost. A Palamara viene contestato il segreto di ufficio in cui è coinvolto anche un altro magistrato romano, l'amico Stefano Fava, già indagato a Perugia. I due avrebbero manovrato per screditare la reputazione dell'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e del suo aggiunto Paolo Ielo per gestire la sua successione e nominare chi di loro gradimento. E l'avrebbero fatto, secondo gli inquirenti, utilizzando a questo fine due quotidiani, il Fatto e La verità. Scrivono i magistrati che «i due pm violando i doveri inerenti alla propria funzione rivelavano ai giornalisti notizie di ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete». Secondo l'accusa, Fava che era il titolare del fascicolo su Piero Amara, ex legale esterno dell'Eni, «con l'aiuto e l'istitigazione di Palamara» fa sapere ai cronisti dei quotidiani che l'avvocato era indagato per frode fiscale e bancarotta. E racconta anche di aver chiesto per Amara misure cautelari negate invece da Pignatone. Sulle motivazioni del diniego Fava aveva inviato un esposto al Csm. E poi c'è il filone mezzi e «viaggi»: Palamara avrebbe ricevuto tra il 2018 a 2019 due scooter da parte del titolare della Aureli Meccanica Federico Aureli, suo socio nel chiosco comprato in Sardegna attraverso, ipotizzano i pm, un prestanome. E sempre Aureli gli avrebbe anche pagato delle multe prese con quei mezzi. Un modo per sdebitarsi per l'interessamento del magistrato a un processo in cui sarebbero state coinvolte la moglie e la madre al tribunale di Roma. E poi ci sono quattro week end trascorsi dall'ex pm tra 2011 e il 2018 a Capri in un lussuoso hotel, con la moglie, con la famiglia e con una amica. Soggiorni a cinque stelle, fino a duemila euro per pochi giorni, offerti dal titolare della società a cui fa capo l'albergo. I legali di Palamara precisano: «Nella giornata di giovedì è stato notificato al nostro assistito avviso a comparire: e oggi è stato pubblicato sugli organi di stampa! Tuttavia, i fatti sono ampiamente noti a questa difesa e riguardano notori e consolidati rapporti di amicizia risalenti nel tempo (nel caso di Capri si tratta addirittura di inviti per un totale di 6 notti nell'arco di dieci anni ed in occasione di ricorrenze). È intenzione di Palamara quella di chiarire tutti i fatti oggetto di contestazione compresa la sua totale estraneità alle notizie pubblicate sul Il Fatto e La verità relativamente alle vicende dell'esposto di Fava contro Ielo e Pignatone per la mancata astensione nel procedimento penale nei confronti dell'avv.Amara a causa dei rapporti professionali tra quest'ultimo ed il prof. Roberto Pignatone. È ferma intenzione del nostro assistito per evitare inutili e pretestuosi stillicidi e per sgombrare il campo da possibili ed ulteriori contestazioni su asserite utilità ricevute».

L'odissea di un cronista romano, indagato per una telefonata gentile. Il giornalista Silvio Leoni chiama un giudice bolognese per avere informazioni. Tono e parole sono più che cortesi. Ma la Procura di Ancona apre un'inchiesta per minaccia aggravata e altri reati. Maurizio Tortorella 11 Luglio 2020 su Panorama. Avviso a tutti i giornalisti, in special modo ai cronisti di giudiziaria: non chiamate mai al telefono un magistrato, ed evitate accuratamente di rivolgergli domande. Soprattutto, guardatevi bene di usare un tono gentile perché rischiate di finire indagati per una serie di reati gravi, se non gravissimi. Vi pare impossibile, assurdo? Eppure è quanto da mesi accade a Silvio Leoni, giornalista romano del Secolo d'Italia, incaricato di seguire il processo per la strage di Bologna del 1980. Da sette mesi, una telefonata fa sì che Leoni sia indagato, con tanto di sequestro del cellulare. Ad aprire l'inchiesta, lo scorso novembre, è stata la Procura di Ancona, competente per i reati che riguardano i magistrati bolognesi. Il sostituto procuratore Irene Bilotta indaga il giornalista perché il 18 ottobre 2019 ha fatto una telefonata di lavoro al giudice Michele Leoni (l'omonimia è del tutto casuale), cioè il presidente della Corte d'assise di Bologna che in quel momento stava giudicando il quarto presunto attentatore della stazione, l'esponente dei Nuclei armati rivoluzionari Gilberto Cavallini, poi condannato all'ergastolo in gennaio. La telefonata, che Panorama.it ha potuto ascoltare, è breve e tutt'altro che minacciosa. Il cronista chiama il giudice, si presenta con cortesia. Il suo tono è pacato, di certo non pare aggressivo: «La disturbo? Mi scusi…». Leoni spiega al giudice che vorrebbe porgli qualche domanda su questioni attinenti al processo, e inizia ad accennarne i temi. Il magistrato lo interrompe: «Mi spiace», dice, «ma non rilascio interviste… non è nella mia deontologia». Il giornalista ne prende atto. Non insiste. Dice: «Capisco». Ringrazia. Scambio di saluti, sempre cortesi. Stop. La telefonata dura in tutto 53 secondi. Poco dopo, Leoni spedisce al giudice un messaggio WhatsApp che, se possibile, è ancora più gentile della telefonata. Il giornalista si dice dispiaciuto del fatto di non aver ricevuto risposta ai suoi dubbi, ma aggiunge che il silenzio che gli è stato opposto gli ha fatto apprezzare la serietà del suo interlocutore. «Io vengo da una vecchia famiglia di magistrati di Rieti» scrive Leoni «e sono cresciuto nel mito di una magistratura al di sopra di ogni cosa. Le riconosco il merito di gestire questa vicenda (cioè il procedimento contro Cavallini, ndr) con grande equidistanza. Spero di incontrarla per un caffè quando sarà concluso il processo. Buon lavoro». Il giudice risponde con un altrettanto sereno: «Grazie». Questi due dialoghi, a dir poco inoffensivi, scatenano invece una vicenda giudiziaria surreale. Il giornalista viene indagato per minacce aggravate e accesso abusivo a un sistema informatico, due reati che prevedono no a 4 anni di reclusione. All'origine c'è un antefatto, del tutto scollegato. Un mese prima della telefonata, il 19 settembre, il presidente della Corte d'assise di Bologna ha trovato rotto lo specchietto retrovisore della sua auto e ha denunciato il danneggiamento, aggiungendo di temere possa trattarsi di un gesto dai risvolti intimidatori. Ma nessuno, tantomeno il magistrato, ipotizza il minimo collegamento tra il danno e la telefonata del cronista. Da questo punto di vista, l'anomalia è doppia. Perché, come lamentano i difensori di Leoni, gli avvocati Paolo Palleschi e Valerio Cutonilli, i due reati per i quali s'indaga sono procedibili solo a querela di parte, ma il giudice Leoni non ha denunciato il cronista. Si è limitato a raccontare della telefonata in un incontro di lavoro con i carabinieri di Bologna, i quali poi hanno trasmesso del tutto autonomamente una nota di polizia giudiziaria alla Procura di Ancona. E allora? Allora a collegare tra loro i fatti e a colorarli di nero, a quel punto, restano soltanto i sospetti del pm Bilotta. Che il 6 novembre ordina di sequestrare cellulare e computer al giornalista: sostiene che l'indagato si è «abusivamente introdotto nel contenuto del telefono cellulare del dottor Michele Leoni, acquisendo i suoi dati personali e, dopo aver tentato di contattarlo telefonicamente, inviandogli un messaggio mediante l'applicativo Whatsapp nel quale faceva riferimento in modo insistente e intimidatorio al processo in corso sulla strage di Bologna». D'insistente o intimidatorio, in realtà, non sembra ci sia davvero nulla. Quanto all'intrusione, ogni giornalista sa bene come trovare un numero di telefono, anche il più riservato: e non c'è bisogno di trucchi informatici, basta l'aiuto di un collega «su piazza». Tant'è che il 29 novembre il Tribunale del riesame di Ancona annulla il sequestro scrivendo che «non può neanche parlarsi del fumus dei reati ipotizzati». Il Tribunale aggiunge che la telefonata può forse essere stata «inopportuna». E sostiene che «il contenuto criptico del messaggio inviato, unitamente alla circostanza dell'essere a conoscenza del numero privato di un giudice, potrebbe anche interpretarsi come una minaccia indiretta e silente», ma conclude che «sarebbe comunque carente la condizione di procedibilità», in quanto manca la denuncia del magistrato. Quanto all'intrusione abusiva, il Tribunale decide che «appare proprio carente il fumus del reato, non apparendo così impossibile reperire un numero telefonico privato». Così cellulare e computer tornano al giornalista. Ma il Pm Bilotta insiste e lo stesso 29 novembre ridispone il sequestro del cellulare e ordina accertamenti sul suo contenuto: dai contatti della rubrica ai messaggi. Inutilmente Carlo Verna, presidente dell'Ordine dei giornalisti, chiede un intervento al ministro della Giustizia e al Consiglio superiore della magistratura. Non serve nemmeno la protesta dell'Associazione della stampa romana, che definisce il sequestro «abnorme» e «non basato su fatti», e «un grave vulnus dello Stato di diritto» il controllo dei contatti nella rubrica di Leoni. Poi scoppia l'epidemia, l'attività giudiziaria si sospende. Silvio Leoni e i suoi avvocati immaginano che l'inchiesta scivoli verso l'archiviazione. Invece lo scorso 3 giugno, pochi giorni prima della scadenza dei termini delle indagini preliminari, il Pm Bilotta ne chiede la proroga indicando altre tre gravi ipotesi di reato contro il giornalista. Oltre alle minacce e all'intrusione informatica, aggiunge la violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario; le molestie; la violazione della privacy. Insomma, il cronista si trova immerso in un'inchiesta per la quale rischia, in teoria, una reclusione da un minimo di 1 anno e sei mesi a un massimo di 13 anni. Un incubo iniziato con una telefonata gentile. L'avvocato Palleschi protesta contro «un teorema che dire assurdo è poco». E forse il più gentile è lui.

Magistratopoli, il mistero delle conversazioni sparite tra Palamara e il giornalista del Corriere della Sera. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Giugno 2020. Ci sono due conversazioni nello scorso anno che possono cambiare il corso dell’indagine di Perugia. Sono quelle fra Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm ed ex ras delle nomine al Csm, e Giovanni Bianconi, giornalista di giudiziaria del Corriere della Sera. La prima è avvenuta il 7 maggio al bar Settembrini in zona piazzale Clodio, la seconda qualche giorno più tardi, il 21, nell’ufficio di Palamara in Procura a Roma. Le due conversazioni, registrate con il trojan, non sono state mai trascritte dal Gico della guardia di finanza che su delega della Procura di Perugia condusse le indagini a carico di Palamara che terremotarono il Csm. Chi ha avuto modo di sentirle è rimasto molto sorpreso visto che quanto riferito da Bianconi si è poi puntualmente avverato. Andiamo con ordine. Il 7 maggio i due fissano di incontrarsi di persona verso le 17. Dopo i saluti di rito, Bianconi avrebbe detto a Palamara che il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, all’epoca uno dei tanti candidati alla successione di Giuseppe Pignatone alla Procura di Roma, non sarebbe gradito. Anzi, ci sarebbero pressioni contro la sua eventuale nomina. Il 21, invece, sempre Bianconi chiede conferma a Palamara se gli atti dell’indagine di Perugia sono stati inviati al Csm e illustra al pm romano il perché sia finito nel mirino. Il motivo principale sarebbe l’alleanza che Unicost, la corrente di centro di cui Palamara era il dominus, aveva stretto con Magistratura indipendente, il gruppo di destra legato a Cosimo Ferri. Questo accordo non sarebbe gradito dalla sinistra giudiziaria di Area con cui Palamara aveva per anni fatto accordi, come poi emerso, per la spartizione degli incarichi. Oltre a quella di Viola, non sarebbe gradita anche la nomina di Palamara a procuratore aggiunto. «Voglio essere eliminato per via del merito e non per via giudiziaria», avrebbe risposto Palamara. Il pm romano ha chiesto nei giorni scorsi che le due conversazioni siano trascritte. I pm di Perugia hanno al momento opposto il diniego. In questo scenario da spy story si inserisce in maniera alquanto surreale la decisione di oggi dell’Anm sull’eventuale espulsione dall’associazione di Palamara e Paolo Criscuoli, l’ex consigliere del Csm in quota Magistratura indipendente, costretto lo scorso anno alle dimissioni per aver partecipato alla cena con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. Criscuoli ha deciso di ricusare i giudici. Vari i motivi. Il primo è che l’Anm, «in regime di prorogatio da vari mesi, è incompetente ad adottare una delibera che certamente non rientra nell’ordinaria amministrazione, quale quella della definizione di un procedimento disciplinare nei confronti di un associato». Il secondo è «non aver avuto accesso agli atti dell’indagine della Procura di Perugia, già trasmessi alla Procura generale presso la Cassazione e posti a fondamento dell’azione disciplinare promossa nei miei confronti e richiamati nelle note dei probiviri, per esercitare un compiuto diritto di difesa». Quindi c’è la posizione di «ciascun componente del Cdc indicato, da organi di stampa, per quanto a mia conoscenza, in assenza di smentita, come interlocutore di Palamara in relazione ad interessamenti, indicazioni, pressioni, accordi aventi ad oggetto, in particolare, l’attività del Csm relativa alla nomina di direttivi e semidirettivi». Fra chi si dovrebbe pronunciare, ad esempio, c’è Alessandra Salvadori, chat n. 787, e Bianca Ferramosca, chat n. 714. E comunque, conclude Criscuoli, già nelle deliberazioni del 5 giugno 2019 e del 13 settembre 2019, tutti i componenti hanno «già manifestato un giudizio». Quindi «un conflitto di interessi tra la posizione già espressa e quella quale componente dell’organo». Sempre ieri, sul fuori ruolo “politico” di Raffaele Cantone, i cinque anni alla presidenza dell’Anac che gli hanno permesso di diventare procuratore di Perugia, sono interventi i togati di Mi, stigmatizzando l’importanza data dal Csm a questo incarico rispetto all’attività giurisdizionale. Il giorno prima era intervenuto sul punto anche l’ex laico del Csm Antonio Leone, ora presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.

L'esposto. Il Csm e quel diktat illegale: Criscuoli fatto fuori solo perché amico di Palamara. Paolo Comi su Il Riformista il 2 Luglio 2020. Chi ha impedito l’accesso nella sala del Plenum, minacciando “il regolare svolgimento dei lavori”, all’ex consigliere del Csm Paolo Criscuoli? È quanto chiedono cinque magistrati alla Procura di Roma, competente per i fatti accaduti a Palazzo dei Marescialli. Per capire cosa sia accaduto è però necessario tornare all’estate scorsa. Il Palamaragate è appena esploso. Alcuni giornali, Corriere, Repubblica e Messaggero, riempiono le pagine con stralci delle conversazioni, avvenute la sera del 9 maggio, fra alcuni consiglieri togati del Csm, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, e l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Le conversazioni sono registrate tramite il trojan inoculato nel cellulare di Palamara, indagato a Perugia per corruzione. I magistrati e i due parlamentari discutono di nomine, in particolare di quella del nuovo procuratore di Roma. La pubblicazione di queste conversazioni – all’epoca le indagini erano ancora in corso – provoca un terremoto nella magistratura. Quattro dei cinque togati si dimettono quasi subito dal Csm. Paolo Criscuoli, uno di questi cinque, decide invece di non dimettersi optando per un’autosospensione in attesa di chiarire l’accaduto. Nelle conversazioni riportate dai giornali, infatti, il suo nome non compare. È lui che si “autodenuncia”. Passata l’estate, i lavori al Csm riprendono. E qui accade l’incredibile. Alcuni consiglieri togati impediscono al giudice siciliano di entrare nel Plenum. L’episodio, gravissimo e senza precedenti, è raccontato dallo stesso Criscuoli in una mail datata 18 settembre 2019. «Quando ho comunicato la mia intenzione di riprendere l’attività consiliare, ho dovuto constatare che alcuni consiglieri togati avevano rappresentato all’ufficio di presidenza l’intenzione di abbandonare i lavori del Plenum ovvero di non parteciparvi facendo mancare il numero legale qualora l’avessi fatto», scrive Criscuoli. «In modo del tutto arbitrario perché al di fuori di qualsiasi perimetro normativo – prosegue – con le predette condotte, certamente non connotate da correttezza istituzionale, si è ritenuto di poter interferire sull’esercizio della funzione e sull’attività del Consiglio». Un’accusa gravissima che apre scenari inquietanti sulla regolarità dei lavori dell’Organo di autogoverno della magistratura. Il magistrato, contattato, non ha voluto rilasciare commenti al riguardo, e neppure indicare i nomi dei “togati” che gli hanno impedito di entrare in Plenum. Il testo di questa mail è confluito nell’esposto che Andrea Mirenda, magistrato di sorveglianza a Verona, Carmen Giuffrida, esperto nazionale distaccato presso il Consiglio dell’Unione europea, Giuliano Castiglia, giudice al Tribunale di Palermo, Andrea Reale, giudice al Tribunale di Ragusa, Ida Moretti, giudice al Tribunale di Benevento, hanno presentato al procuratore della Repubblica della Capitale lo scorso primo ottobre e di cui al momento si sono perse le tracce. «Noi sottoscritti magistrati in servizio presso vari uffici giudiziari del Paese – si legge nell’esposto presentato alla Sezione di pg del Tribunale di Verona – trasmettiamo due mail pervenute sulla mailing list dell’Associazione nazionale magistrati ma chiaramente destinate alla pubblica diffusione». La seconda mail allegata proviene dall’ufficio stampa di Magistratura indipendente, la corrente di Criscuoli. Nel testo viene prima apprezzata la scelta di Criscuoli, nel frattempo dimessosi, di mettere al «riparo l’Istituzione da condotte che avrebbero creato una situazione di muro contro muro», e poi confermano il fatto storico: «I consiglieri con una condotta arbitraria perché del tutto al di fuori del perimetro normativo si sono attributi un potere che non hanno». La vicenda, passata “sotto traccia” in questi mesi, meriterebbe di essere approfondita. Anche alla luce del fatto che il presidente del Csm è il capo dello Stato. E dal Quirinale non dovrebbero essere tollerate condotte «al di fuori di qualsiasi perimetro normativo».

Magistratopoli analisi social di uno scandalo giudiziario tra giornalisti e servizi segreti. Redazione su Il Riformista l'1 Giugno 2020. Escono le intercettazioni dell’affaire Palamara sui giornali e scoppia il caos nel mondo politico e della magistratura. Nella Rete dell’ex presidente dell’Anm sono finiti tutti: colleghi giudici, politici e finanche il Colle. Uno scandalo tutto italiano che ricordiamo deriva dall’intercettazione di tipo informatica con il Trojan che per mesi ha monitorato il cellulare di Palamara. Una situazione, quella della magistratura politicizzata, su cui si dibatte da anni, ma che ora risulta più torbida per il coinvolgimento di giornalisti e, come annunciato nel mese di febbraio 2020 con una esclusiva dal blog Matricedigitale del data journalist Livio Varriale, circa l’affiliazione di magistrati al mondo dell’intelligence sia italiana che straniera, le forti pressioni che le spie esercitano sulla magistratura stessa. Per gli appassionati dei complotti, la strana coincidenza con l’esplosione di questo scandalo delle toghe nel Bel Paese è certamente singolare se pensiamo che qualche settimana prima c’è stato il cosiddetto ObamaGate in cui l’Italia risulterebbe coinvolta per aver prestato i suoi servizi al disegno ordito dai Democrat contro Trump per la questione del RussiaGate, rivelatasi infondata. In merito a questo polverone, si è effettuata una ricerca OSINT su Twitter con la parola magistratura, csm, palamaragate, magistratopoli e giornalistopoli partendo dal 24 maggio al 29 e ne è derivato un risultato complessivo di 13.500 tweets pubblicati sul tema che hanno racimolato 158.716 like, 17.248 retweets e 57.758 commenti.

TOP TWEETS. E’ abbastanza chiaro il fatto che ad aver raccolto consensi sulla vicenda sia stata la destra per due motivi in particolare: il primo perché la maggior parte dei giudici, dei giornalisti e dei politici coinvolti aderisce ideologicamente alla sinistra mentre la seconda causa risiede nelle intercettazioni dove alcuni magistrati offendevano e complottavano contro Salvini per la questione Open Arms che vede il leader della Lega sottoposto al giudizio del Senato per andare a processo, nonostante la Giunta del Senato abbia respinto l’istanza. Cosa ancora più singolare è il silenzio dei soliti influencer che vertono ideologicamente a sinistra su cui spicca però @GianricoCarof che totalizza più di 11.000 like con: Salvini chiede a Mattarella di sciogliere il CSM. Il presidente non ha questo potere (vedi art.31 legge Csm). Se uno che ha fatto il ministro non lo sa, se è così ignorante, c’è da preoccuparsi. Se lo sa, e dunque la richiesta è in totale malafede, c’è preoccuparsi di più. Giorgia Meloni al secondo posto con 3.585 preferenze cita il sindaco di Napoli De Magistris per avallare il suo consenso personale: Dopo lo scandalo Palamara, De Magistris dichiara in tv che il CSM gli impedì di indagare sulla trattativa Stato/mafia perché coinvolta anche la sinistra. Solo noi pensiamo che sia necessaria una riforma della Giustizia che stabilisca la separazione dei poteri in modo definitivo? Chiude il podio Daniele Capezzone che invece invoca ironicamente l’intervento del capo dello stato Mattarella ed ottiene 3200 like: ++Importante e dura posizione del Capo dello Stato, Presidente del Csm, contro lo scandalo delle intercettazioni dei magistrati. Forte richiamo a terzietà e imparzialità++ Ah no, scusate. Mi dicono dalla regia che il Quirinale non si è espresso. Ps Qui non si insulta, si ragiona.

SOMMA LIKE. Il grafico invece mostra la somma totale di preferenze acquisite con i post sul tema e notiamo come Carofiglio abbia superato con un’unica pubblicazione Salvini, ma notiamo anche che una portatrice di consensi a sinistra come Selvaggia Lucarelli non sia riuscita a portare avanti le ragioni del suo giornale, il Fatto Quotidiano, coinvolto nello scandalo. Presenti molti esponenti della Lega, come la Siciliana Patrizia Rametta, e testate vicine alla lega come Imola Oggi e La Verità.

MENTIONS. Matteo Salvini risulta quello più menzionato rispetto al vincitore della classifica dei like Gianrico Carofiglio che lo segue al secondo posto. Al terzo figura il Quirinale bersagliato da un vero e proprio malumore social, Seguono Guido Corsetto per la sua posizione indignata sulla vicenda ed il Fatto Quotidiano per la presenza nelle intercettazioni di Marco Travaglio descritto da Palamara come una risorsa dei Servizi Segreti, la cui ira del pubblico si è anche riversata in minima parte sul giornalista Andrea Scanzi. Bene Quarta Repubblica di Nicola Porro che ha ospitato il Direttore del Riformista Sansonetti a discutere sul tema, unitamente a Repubblica considerato come il megafono della magistratura dal pubblico social ed infatti ha un valore simile a quello del Partito Democratico nelle citazioni.

HASHTAGS. Gli argomenti portanti della vicenda sono stati #csm #Palamara e #Palamaragate. #QuartaRepubblica con il direttore Sansonetti ha riscosso maggior successo social rispetto a #PiazzaPulita che ha visto Davigo e Caiazza scontrarsi sul tema della giustizia. Tutte le trasmissioni Mediaset, quelle che hanno sensibilizzato di più sul tema, in lista con #staseraitalia e #fuoridalcoro seppur con un ruolo marginale, mentre la presenza di #OpenArms ricorre proprio per il presunto complotto ordito ai danni di Salvini da parte di una cerchia di magistrati che gli costerà, forse, un processo. L’analisi evince come su magistratopoli molti giornalisti e le rispettive redazioni, compresi gli influencer, non hanno calcato la mano sul tema per sfumare le polemiche e destinarle al dimenticatoio. Quello che invece emerge dal sentimento social è una ribalta di Salvini dinanzi l’opinione pubblica con la figura del Presidente della Repubblica danneggiata perché inerme, per il momento, su un questione così spinosa che nemmeno l’ideologo Piercamillo Davigo pare essere riuscito a difenderne l’onore e la credibilità.

Corriere, Repubblica, Fatto e Stampa censurano Magistratopoli: libertà di stampa abolita. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Giugno 2020. Non era mai successo – almeno a mia memoria – che i grandi giornali decidessero di ignorare uno scandalo politico nazionale. Parlo di magistratopoli, forse il più clamoroso scandalo degli ultimi 30 anni. Sono abbastanza vecchio per ricordare persino i piccoli scandali pre-tangentopoli, che poi finivano tutti in una bolla di sapone ma tenevano banco sui giornali. Mi ricordo di uno scandalo del 1963 che si chiamava lo scandalo delle banane. Bustarelle per pilotare delle aste, perché sulle banane allora c’era il monopolio. Erano coinvolti alcuni alti funzionari e un ministro, che si chiamava Trabucchi. Io ero ragazzino, andavo alle medie, ma me lo ricordo bene quello scandalo perché i giornali non parlavano d’altro. E poi i vari scandali petroli, la Lockheed, per non dire di Tangentopoli e delle mitragliate di scandali degli anni successivi. Come si può spiegare la clamorosa circostanza del totale silenzio dei grandi giornali su magsitratopoli? Non avrei mai pensato che potesse succedere una cosa del genere, sebbene conosca da molto tempo la sudditanza dei giornali alla magistratura. Ma anche nei primi anni Novanta esisteva una discreta sudditanza dei grandi giornali nei confronti della politica e del governo, eppure dall’arresto di Mario Chiesa in poi la stampa iniziò a sparare a palle incatenate contro la politica corrotta, e non si fece sfuggire neppure un fiato di Pm su quell’inchiesta. Oggi ci troviamo in una situazione del tutto inedita e che nessuna persona più giovane di ottant’anni ricorda: la libertà di stampa è sospesa. Proprio come ai tempi del fascismo. Non c’è nessuna forzatura polemica in questa affermazione: se tutti i grandi giornali ignorano magistratopoli, se non forniscono informazioni, se non pubblicano articoli, notizie, interviste, approfondimenti, su una vicenda che ha dimostrato che una grande parte della magistratura italiana è illegale, e che sono illegali i suoi vertici, non c’è nulla di esagerato nel parlare di sospensione della libertà di stampa.

Il Paese sta affrontando questo scandalo che mette in discussione la struttura della sua democrazia e l’affidabilità dello Stato, in una condizione di estrema debolezza che non conosceva. Tipica degli stati totalitari ma finora del tutto sconosciuta nei Paesi a democrazia politica. Prendiamo solo i quattro giornali più importanti. Il Fatto Quotidiano, che oggi è considerato l’organo non solo della magistratura ma anche del governo, e poi Repubblica, Il Corriere della Sera e la Stampa. Non esiste nessuna spiegazione plausibile, di tipo professionale, al loro silenzio. Oltretutto sono giornali che son stati sempre molto generosi, con i loro lettori, nell’offrire intercettazioni anche semplicemente di pettegolezzo. Per pubblicarle, spesso, hanno disinvoltamente violato la legge. Come si spiega che oggi non esca più un rigo sulle intercettazioni del Palamara-gate e sul verminaio che stanno svelando (la parola “verminaio” l’ha usata recentemente un ex valoroso magistrato come Giuseppe Ayala)? C’è un vecchio detto latino, usato anche in giurisprudenza: “Simul stabunt vel simul cadent”. Vuol dire che o resisteranno insieme o cadranno insieme. Probabilmente è un detto che si addice molto al rapporto che c’è oggi tra magistratura e grande stampa: la consapevolezza che se una delle due cede, travolge anche l’altra. Da qui nasce un rapporto di complicità, assolutamente omertosa, che rischia di travolgere la nostra democrazia. L’allarme è grandissimo. Non c’è nessun dubbio sul fatto che l’omertà dei grandi giornali non è casuale ma è governata. Questo determina un vuoto che non era prevedibile nel sistema delle nostre libertà. Chi può intervenire? L’ordine dei giornalisti e le associazioni sindacali di categoria sembrano paralizzati. Una quindicina di giorni fa, sul nostro giornale, intervistammo il presidente dell’Ordine, che promise accertamenti. Poi il silenzio. Il sindacato dei giornalisti? Non pervenuto. Gli editori? Anche loro forse rispondono a ordini superiori e probabilmente a loro va bene non inimicarsi la magistratura. Chi può reagire? La Politica forse potrebbe. Ma la politica sta vivendo questo terremoto rincantucciata, è stata messa all’angolo ormai 25 anni fa dalla magistratura e ora non ha neanche il coraggio di tirar su la testa per sbirciare. Bisogna prendere atto di questo stato di cose. Sapere che siamo rimasti pochi pochi a difendere la democrazia e la legalità. E non farsi impaurire. Provare a non farsi impaurire.

Magistratopoli, il super potere dei giornalisti: mai coinvolgere i colleghi. Deborah Bergamini su Il Riformista il 2 Giugno 2020. Non mi piace quando si parla di giustizia in tv perché ho sempre la sensazione che il finale sia già noto dall’inizio, e cioè che ognuno rimane rigorosamente nella propria posizione: pro o contro la magistratura, e tutto si riduce a quello. Si dicono sempre le stesse cose: non si deve fare di tutta l’erba un fascio; la stragrande maggioranza della magistratura esercita il proprio importante ruolo con serietà e terzietà (come si affannano sempre a puntualizzare tutti gli opinionisti, quasi a volersi proteggere da eventuali conseguenze negative rispetto a quello che dicono); è tutta colpa della politica se ci troviamo con il sistema giudiziario che abbiamo. Giusto, ma alla fine, come nella migliore tradizione italiana, è sempre un match pro o contro i magistrati dove nessuno ha mai alcuna intenzione di passare nell’altra metà campo. La metà campo delle ragioni e dei punti di vista diversi dai propri. E quindi la tv la vedo poco se c’è la giustizia, però l’altra sera me la sono vista tutta la puntata di Non è l’Arena dove era ospite d’onore Luca Palamara, in un teatrale finale di programma, oltre la mezzanotte, con lui, il protagonista principale di questa saga che noi del Riformista abbiamo chiamato Magistratopoli (ma solo noi, perché la maggior parte dei giornali continua a fare finta di nulla) a spiegare le sue di ragioni, a cercare di far capire che no, non è lui il deus ex machina dell’esponenziale turbine di nomine, promozioni, spostamenti, intrighi e maldicenze che 60mila pagine di intercettazioni hanno scaraventato alla nostra attenzione. E che ci danno il quadro di magistrati molto più occupati con le proprie carriere che con il perseguimento dei reati. Io la tesi dell’intera puntata non l’ho capita, fra de Magistris che parlava di indagini di parecchio tempo fa e di cui i telespettatori sono all’oscuro e servizi sul Basentini dimessosi da capo del Dap in cui si faceva pensare che non fosse esattamente uno perbene e un Palamara magistralmente incalzato da Giletti, che però ha detto davvero poco. Una cosa però l’ho capita, e cioè che questa volta la gigantesca resa dei conti fra magistrati e fra magistrati e politica è davvero aperta, e che le dimensioni di questa resa dei conti sono proporzionali a quelle del potere pervasivo, enorme, fuori controllo che la magistratura ha acquisito col passare degli anni e della pusillanimità con cui la politica ha voluto o permesso che questo accadesse. Se questa resa dei conti potrà rivelarsi un’opportunità di risanamento della magistratura stessa, nelle storture che abbiamo potuto vedere, a cominciare dai criteri di elezione del Csm, e di ravvedimento della politica che ha il potere e il dovere di intervenire, dipenderà molto dal grande assente della trasmissione di Giletti, che non è una persona ma un potere. Il più importante, il quarto potere. Mi riferisco a quel giornalismo giudiziario che tanto protagonismo e anche tanta credibilità ha avuto negli ultimi trent’anni e che è molto presente nelle beghe e nelle brighe che il trojan di Palamara ha evidenziato. Ecco, nell’intera puntata non ho sentito un solo accenno a questo, al ruolo giocato dai cronisti giudiziari (e non solo) e dalle testate più importanti in questi anni di mostri sbattuti in prima pagina, frugati nelle loro vite, violati nella loro riservatezza, distrutti per sempre nella loro reputazione indipendentemente dagli esiti delle inchieste che li hanno travolti. A questi professionisti dell’informazione non è stato dedicato un minuto di attenzione, non solo da Giletti ma quasi da nessuno in queste settimane di scandalo, come se non avessero svolto un ruolo chiave nella storia recente. Ma come, l’arcinoto e stra-citato circuito mediatico-giudiziario che ha determinato la storia politica italiana facendo gioco a turno a qualche partito, a qualche corrente della magistratura e a qualche gruppo di potere, si rivela in tutta la sua dettagliata articolazione e niente, non se ne parla? Il passaggio sistematico di informazioni dagli uffici di alcuni procuratori ad alcuni cronisti che non dovevano fare altro che impaginare si mostra macroscopico e neanche un accenno? Se ne può finalmente dettagliare la radicata esistenza e si fa finta che non esista, proprio ora che è lì manifesto? È misterioso questo fatto. Adesso forse tocca alla magistratura passare sotto le forche caudine della condanna sociale, coma da decenni avviene alla politica. Dico forse perché non è detto. Ma il vero potere, il quarto potere, non è neppure sfiorato. È davvero lui il più forte. Dicevo che l’opportunità di fare un passaggio di civiltà e maturità nazionale offerto dai casi Palamara e Di Matteo – Bonafede dipenderà molto dal modo in cui il giornalismo nazionale si assumerà la responsabilità del ruolo svolto in questi anni nel magnificare pedissequamente il lavoro di tutta la magistratura e nel dare in pasto all’opinione pubblica tanti presunti mostri sulla base di materiale investigativo che dovrebbe restare nelle stanze di chi è incaricato di svolgere le indagini. Così come senza la magnificazione dei media oggi la magistratura non avrebbe il protagonismo che sta pagando, altrettanto la non assunzione di responsabilità da parte del mondo dell’informazione contribuirà a non far accadere nulla, e a far rientrare in breve tempo tutto nei ranghi. Molta informazione ha varcato sistematicamente, da Mani Pulite in poi, i propri limiti deontologici determinando una deriva superficiale e giustizialista, e anche una prassi che nulla ha a che fare col buon giornalismo. Ora lo scoppio del caso Palamara offre l’occasione di una riflessione che però non sta cominciando: non un “chiedo scusa”, non un’ammissione di violazione della deontologia (che per chi fa comunicazione dovrebbe essere tanto importante quanto quella dei medici, dato che tocca la reputazione e l’incolumità “esistenziale” delle persone), non un’analisi o una proposta di consultazione pubblica su come si dovrebbe svolgere un corretto giornalismo nell’era del digitale, delle fake news e dell’accesso facile a qualunque tipo di informazioni. Nulla, niente di niente. Silenzio da parte degli editori e dei giornalisti. Le migliaia di articoli e pezzi basati su intercettazioni, brogliacci, veline delle procure che hanno scandito le letture quotidiane degli italiani per lunghissimi anni sembrano non essere stati mai pubblicati, e se sono usciti sono usciti anonimi, senza firma e senza testata. Il quarto potere ha questo super potere: può puntare il dito contro chi vuole, orientando a piacimento l’opinione pubblica, senza dover mai puntare il dito contro se stesso. Questa è l’occasione per cambiare: può contribuire, accanto a magistratura e politica, a seppellire per sempre il maledetto circuito mediatico-giudiziario e, dopo averne beneficiato per decenni, aiutare a riconvertirlo ad una seria riproporzione fra i poteri dello Stato. Basta rispettare le regole deontologiche (che sono scritte belle chiare), cambiare qualche inopportuna abitudine di reperimento delle notizie e rinunciare a qualche rendita di posizione. Poi tutto scorre.

Violante: i giornali sono diventati un’agenzia di stampa al servizio dei pm. Vittoria Belmonte giovedì 28 maggio 2020 su Il Secolo d'Italia. Luciano Violante, ex magistrato ed ex presidente della Camera, ha ben chiara la disfatta del sistema giustizia. E ora che la magistropoli impazza non fa mancare il suo giudizio netto e critico. E lo fa in un’intervista a Il Riformista, nella quale ammette una saldatura tra giornalismo e magistratura che risale ai tempi di Tangentopoli. Cosa accadde in quella fase? “I giornalisti ricevevano dagli uffici giudiziari sempre più informazioni di quelle che immaginavano di trovare. Si realizzò un’intesa tra le testate, una sorta di agenzia di stampa collettiva. E da allora quel rapporto si è consolidato, anche perché facilita entrambi. Le carriere da separare sono quelle tra giornalisti e magistrati”. Violante ammette anche l’esistenza di un collegamento tra sinistra e magistrati, e la fa risalire agli anni di piombo, quando il Pci era impegnato nella lotta al terrorismo. Da allora quell’asse non si è mai incrinato, anzi si è rafforzato proprio con Tangentopoli, ciclone giudiziario che risparmiò proprio l’ex Pci. L’ex presidente della Camera è ancora più chiaro nel condannare le porte girevoli attraverso cui alcuni magistrati entrano in politica per poi tornare alla loro vecchia funzione: “Non si può – afferma – investire in politica il consenso avuto sul terreno giudiziario. Chi abbraccia la politica non può e non deve tornare ad amministrare la giustizia. Io feci una scelta e non sono tornato più indietro”. Gli intrecci e le trame che emergono oggi dalle intercettazioni che riguardano alcuni magistrati non costituiscono per Violante un fenomeno nuovo. “E’ qualcosa che esisteva ma che è andato degenerando. Non è un problema di correnti ma di capi corrente, come accade nei partiti. Sono duplicazioni di correnti politiche con le stesse logiche, ma con meno senso delle istituzioni. Perché si trovano a gestire potere decisionale discrezionale persone prive di responsabilità per quelle scelte”. La giustizia potrà essere riformata solo se si ritorna al senso di responsabilità dei giudici, allontanando gli abusi. “Non si indaga per sapere se c’è una notizia di reato – ammonisce Violante – ma perché c’è una notizia di reato”.

Giornali servi, giustizia a pezzi: parla Luciano Violante. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Maggio 2020. Luciano Violante ha servito il Paese in tre vesti: da magistrato ha indagato terrorismo e trame nere; da giurista ha insegnato Procedura penale; da politico è stato più volte eletto in Parlamento, diventando presidente della Camera. Una tripartizione che ha tenuto a mantenere distinta.  «Avrei voluto fare l’architetto, ma gli studi erano troppo lunghi per me, che avevo l’esigenza di rendermi subito indipendente dalla famiglia», ci racconta. Una famiglia antifascista unita dalle avversità: è nato nel campo di concentramento inglese di Dire Daua, dove padre e madre erano stati internati, mentre il fratello del padre andava a morire a Mauthausen. È un enfant prodige, a 22 anni si laurea e fa il concorso da magistrato. Lo vince e viene mandato a Torino, «città dall’anima razionale, sobria, costituzionale, perché vede convivere il cattolicesimo salesiano del lavoro, la sinistra comunista della classe operaia e della borghesia intellettuale, l’area liberale». Nel 1976 è impegnato su processi importanti, e l’allora segretario del Pci torinese, Iginio Ariemma, lo vuole candidare alla Camera. Lui ci pensa e sta per dirgli di no quando riceve la telefonata di Enrico Berlinguer, che non aveva mai conosciuto. «Ho deciso di non candidarmi, faccio il magistrato», gli disse. E Berlinguer, sollevato: «Sono d’accordo. Politica e magistratura sono piani che non possono sovrapporsi, non si può investire sul terreno politico il consenso avuto sul terreno giudiziario». L’offerta sarà ripresa in considerazione tre anni più tardi, quando lavorava al ministero della Giustizia. E sarà esiziale: «Non esistono porte girevoli: chi abbraccia la politica non può e non deve tornare ad amministrare la giustizia, io feci una scelta e non sono tornato più indietro».

Furono gli anni di piombo a cementare il rapporto tra la sinistra e la magistratura?

«Sì. Perché c’era stata una saldatura necessaria tra il Pci, che era stato il partito più impegnato contro il terrorismo, e i tanti magistrati che rischiavano la vita ogni giorno. Si creò un fronte comune progressivamente ravvicinato, ideali comuni e nessun baratto».

Poi ci fu Mani Pulite, altro spartiacque. Da allora la fonte primaria per i giornalisti sono diventate le Procure, e qualcuno ci ha costruito una fortuna. I grandi quotidiani divennero Gazzette delle Procure…

«I giornalisti ricevevano dagli uffici giudiziari sempre più informazioni di quelle che immaginavano di trovare. Si realizzò un’intesa tra le testate, una sorta di agenzia stampa collettiva. E da allora quel rapporto si è consolidato, anche perché facilita entrambi. Le carriere da separare rimangono quella tra giornalisti e pubblici ministeri».

Come nacque Mani Pulite?

«Fu uno dei punti di passaggio verso un nuovo sistema politico. L’imprenditoria italiana decise di non pagare più, perché dopo la fine del regime sovietico non servivano più dighe anticomuniste da pagare. E in molti si precipitarono nelle Procure, chiedendo di essere ascoltati e affrettandosi a dire di essere stati concussi. Si aprì così la valanga di Tangentopoli, non solo per l’azione dei magistrati o per una qualche inchiesta giornalistica. Prima i processi nascevano dalle inchieste. Da quel momento avvenne il contrario. Tutt’oggi avviene il contrario».

Da allora i magistrati hanno fatto politica, direttamente e indirettamente.

«La magistratura oggi è parte del sistema di governo del Paese, e non per suo arbitrio: per effetto dei poteri che le sono stati dati. Partiti e Parlamento hanno approvato leggi che regolano tutto, controllano tutto, sorvegliano tutti. Questa è stata una delega di governo alla magistratura: vuole che il magistrato meno responsabile non si comporti come un organo politico? Quel magistrato ha mutuato la lingua volgare e violenta della peggiore politica».

E non sono rari gli eccessi di qualche divo televisivo con la toga…

«È necessario scongiurare un eccesso di potere: il magistrato non é organo di controllo generale della Repubblica».

Il Csm va riformato. Con quale formula?

«Partirei dalla questione del vice presidente, eletto da 2/3 di magistrati e 1/3 di laici. Intorno a quali intese si determina l’elezione? È pensabile che sia il presidente della Repubblica a designare il suo vice, per sottrarlo a logiche pattizie? È una ipotesi, una mia idea. Certo, se si comincia a patteggiare dal primo giorno, con un accordo sul Vice presidente, non si finisce più. Si entra in una logica di trattativa. Sia chiaro: sono stati eletti anche eccellenti Vice Presidenti. Ma cambierei il metodo. Porterei gli anni di funzione da 4 a 6. E farei come per la Corte Costituzionale: non eleggere l’organo, ma i singoli componenti. A metà del primo periodo si sorteggiano la metà dei componenti che scadono subito e si procede alla elezione dei componenti che devono subentrare; e man mano che i singoli scadono si eleggono i nuovi membri, così è più difficile fare accordi spartitori. Ci sarebbe una continuità di prassi e la possibilità che ogni nuovo arrivato tra i membri laici sia aiutato nel capire i meccanismi, evitando il monopolio delle competenze che oggi è in mano alla componente giudiziaria».

Una proposta concreta. La politica la recepirebbe?

«Per fare queste cose bisogna per prima cosa conoscere i problemi e non so se tutti li conoscono. E poi bisogna fare anche limitatissimi interventi sulla Carta Costituzionale, per cui bisogna essere d’accordo con ampia maggioranza».

Che idea si è fatto del caso Di Matteo-Dap? Chi avrebbe posto, secondo lei, il veto?

«Non so se era un veto e non so se qualcuno è intervenuto. Il fatto che i boss non sarebbero stati contenti di Di Matteo al Dap era un fatto noto tanto al ministro quanto al dottor Di Matteo al momento della proposta. Dico invece che i due posti non erano equivalenti: il capo del Dap è un ruolo di prestigio, mentre alla direzione generale degli Affari penali non sei il numero uno. Quel ruolo è molto diverso oggi, dai tempi di Falcone. Penso che si siano fatte valutazioni interne. Non sono un fan del ministro Bonafede, ma non mi pare che qui abbia sbagliato».

Come avrebbe votato, se fosse stato in Giunta per le autorizzazioni su Salvini sul caso Open Arms?

«Avrei letto con attenzione le carte».

In un discorso da presidente della Camera definì la libertà come “necessità di contrastare chi ha un eccesso di potere dominante”. Vale anche per la magistratura di oggi?

«Assolutamente sì».

Lei è stato anche presidente della Commissione parlamentare antimafia. Che idea si è fatto della testimonianza di Saverio Lodato sulle “menti raffinatissime” dietro all’attentato dell’Addaura?

«Subito dopo l’attentato all’Addaura, nel giugno 1989 mi telefonò Gerardo Chiaromonte. Mi disse: c’è l’amico tuo (così chiamava Falcone) che ci vuole vedere. Ci vedemmo in un ristorante a Trastevere, “Romolo al giardino della Fornarina” a pranzo, io, Falcone e Chiaromonte. Giovanni era particolarmente teso. Si diceva molto preoccupato, non ricordo se usò l’espressione “menti raffinatissime”. Parlò di una intelligenza di livello diverso e certamente superiore rispetto a quello delinquenziale e di una carica esplosiva molto forte. Non era un avvertimento ma un attentato cui scampò per puro caso».

Disse intelligenza o intelligence?

«Intelligenza, in italiano».

Gli chiese se avesse in mente qualche sospetto?

«Non fece alcun nome».

Gli intrecci e le trame che leggiamo nelle intercettazioni parlano di un sistema di favoritismi e di complicità tra politica, istituzioni, magistratura e informazione. Un fenomeno nuovo?

«Non è un fenomeno del 2020. È qualcosa che esisteva ma che è andato degenerando. Non è un problema di correnti ma di capi corrente, come accade nei partiti. Sono duplicazioni di correnti politiche con le stesse logiche, ma con meno senso delle istituzioni: perché si trovano a gestire potere decisionale discrezionale persone prive di responsabilità per quelle scelte».

Si finisce per fare carriera solo per appartenenza correntizia?

«L’appartenenza è molto importante ma non è l’unica strada. Si sono fatte anche ottime scelte anche in posti delicati come le Procure di Milano, Napoli, Roma, Torino. Questo sistema non ha fatto solo danni; è un sistema sbagliato e che va cambiato, ma ha anche prodotto risultati molto apprezzabili».

Cosa serve per rendere giusta la giustizia?

«Bacchette magiche non ce ne sono. È un problema di lenta ripresa del senso di responsabilità all’interno e all’esterno della magistratura. Io credo che cambiare il Csm sia necessario. Poi c’è un punto di fondo: non si indaga per sapere se c’è una notizia di reato, ma perché c’è una notizia di reato. Lo Stato democratico dà il potere a un magistrato di indagare su una persona, sulla sua libertà, sui suoi beni, in base a presupposti certi. Il tema della notizia di reato è importante: mi muovo se c’è una precisa notizia di reato, non perché c’è un sospetto di notizia di reato. Come oggi avviene con la nuova legge sulla Corte dei Conti: quelle Procure possono muoversi solo quando c’è una precisa notizia».

E lì parte il processo mediatico, primo e talvolta ultimo grado di giudizio.

«Il magistrato e il giornalista devono prestare più attenzione alla reputazione dei cittadini e delle istituzioni. Troppe volte risulta che i sospetti erano infondati, ma la reputazione è già stata distrutta. È un problema di civiltà.

Su questo Davigo obietterebbe.

«Temo che non sia il solo punto sul quale non siamo d’accordo».

Esiste un allarme criminalità organizzata, oggi che la crisi morde?

«Certamente, chi ha grande liquidità cerca di investirla. La mafia sta cercando di investire al Nord, presentandosi come soggetto sostenitore delle aziende in crisi. I soldi ci sono, a differenza del passato, bisogna accelerare al massimo. Tu Stato, inizia a darli, non partire con la logica della sorveglianza e del sospetto: uno Stato che non si fida dei suoi cittadini, suicida se stesso. Chi ha sbagliato pagherà, ma nel frattempo si evita che a pagare siano tutti gli altri».

Pieni poteri sono provvidenza se ad assumerli è la milizia eroica della magistratura. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 29 Maggio 2020. Non c’è giorno che la magistratura corporata non dia prova della propria impostazione antidemocratica. Ferma sulla linea di una buona fede forsennata, non diversa rispetto a quella dell’inquisitore che ti brucia per il tuo bene, essa crede davvero che la propria funzione sia di costituirsi in una centrale di indirizzo che pone rimedio ai mali della società e combatte gli agenti dei poteri diversi che la imprigionano nell’ingiustizia. I rappresentanti di questa cultura ispirano la propria vocazione al totem costituzionale, ma in realtà non sono soggetti alla legge suprema e piuttosto rivendicano di esserne gli esecutori esclusivi nell’esercizio di una “indipendenza” pervertita nella contestazione aperta del sistema politico rappresentativo. Come si ripete, è spesso (non sempre) un approccio in buona fede a comandare questi proponimenti di governo della società per tramite giudiziario, ma questo non ne attenua la pericolosità e anzi la aggrava perché essi si accreditano sull’idea diffusa che i “pieni poteri”, inquietanti quando a reclamarli è un politico discusso, rappresentano una provvidenza se ad assumerli è la milizia eroica della magistratura incorrotta. Ieri (ma come sempre) questa cultura spadroneggiava sul giornale senza padroni, cioè Il Fatto Quotidiano, con un articolo questa volta non sgrammaticato a firma del solito Gian Carlo Caselli il quale, dopo aver fatto l’elogio delle correnti che garantiscono vitalità alla pozzanghera giudiziaria («furono utili», spiega, «per incrinare l’estraneità dei giudici rispetto alla società e per cercare di introdurre in un corpo burocratico il rifiuto del conformismo”»), ripropone appunto l’idea che la magistratura adempie al suo ufficio se diventa «strumento di emancipazione dei cittadini» e quando assume «la funzione, anch’essa inedita, di controllo dell’esercizio del poteri forti». Con eloquio appena aggiornato, l’orientamento della giurisdizione verso la conquista rivoluzionaria che ripristina la giustizia conculcata dal potere corrotto: cosicché la democrazia che sbaglia, fastidiosamente governata dall’impiccio del voto e dalla chiacchiera parlamentare, possa trovare redenzione nei rigori del processo e nel verbo più sicuro delle sentenze. Naturalmente (è un altro classico) l’esigenza di proteggere una “autonomia” intesa in questo modo, e cioè quale strumento di reazione alla inaccettabile pretesa che le riforme in tema di giustizia siano rimesse alla decisione politica e non siano subordinate all’accettazione della magistratura militante, si giustifica nell’assunto demagogico secondo cui è l’interesse dei cittadini, non quello della corporazione, a trovare tutela nel perpetuarsi del dominio togato. Chissà se c’è speranza che questo falso cominci a essere riconosciuto.

100 magistrati occupano il ministero della Giustizia e fanno saltare l’equilibrio tra i poteri. Giuseppe Di Federico su Il Riformista il 30 Maggio 2020. La settimana scorsa Il Foglio ha pubblicato un’intervista a Sabino Cassese in cui si sostiene che la numerosa presenza dei magistrati all’interno del ministero della Giustizia (sempre intorno ai 100) e il monopolio che essi hanno delle posizioni dirigenziali al suo interno, rappresenta una violazione del principio della divisione dei poteri, cioè di uno dei cardini di uno stato democratico. Questa denunzia è stata condivisa e rilanciata dal presidente dell’’Unione Camere Penali, Giandomenico Caiazza, su due quotidiani, Il Riformista e Il Giornale. Nel considerare questo fenomeno occorre innanzitutto ricordare che esso è collegato alla natura burocratica dell’assetto delle magistrature dell’Europa continentale per cui i dipendenti dello Stato centrale possono essere destinati a svolgere, nell’ambito dell’apparato statale, funzioni diverse da quelle per cui sono stati reclutati. Pertanto non solo in Italia ma anche in altri stati europei numerosi sono i magistrati che svolgono la loro attività nei vari ministeri della Giustizia (in Francia, Germania, Austria. Spagna e così via). Detto questo, rimane da spiegare perché solo in Italia questo fenomeno viene denunziato ripetutamente come una violazione del principio della divisione dei poteri e negli altri Paesi no. Ciò dipende dal differente status del magistrato italiano che opera presso il nostro ministero della Giustizia rispetto a quello dei magistrati di altri paesi. Negli altri stati i ministri della Giustizia hanno, in varia misura, poteri decisori sullo status dei magistrati quantomeno per il periodo in cui sono alle loro dirette dipendenze (disciplina, valutazioni di professionalità, futura destinazione alle sedi giudiziarie alla fine del loro servizio presso il ministero). In Italia, invece, il ministro della Giustizia non ha alcuna influenza nel governare lo status dei magistrati che da lui formalmente dipendono. A differenza dagli altri paesi europei, in Italia solo il Csm può assumere decisioni in materia disciplinare e di valutazione di professionalità dei magistrati anche per il periodo in cui formalmente dipendono dal ministro della Giustizia. Si è con ciò stesso sottratto al nostro ministro della Giustizia uno degli strumenti fondamentali dell’assetto gerarchico che fa capo ai ministri della Giustizia degli altri paesi democratici e su cui poggia in misura rilevante la capacità del ministro di formulare e perseguire autonomamente le iniziative da prendere e quindi di sollecitare ed ottenere dai suoi dipendenti comportamenti conformi alle politiche che vuole perseguire e per le quali formalmente assume la responsabilità politica. In un tale assetto è solo ovvio che i magistrati del ministero privilegino le aspettative del Csm (che coincidono sostanzialmente con quelle del loro sindacato) in tutte le attività di ricerca, elaborazione delle informazioni e proposte al ministro nella sua attività di iniziativa legislativa e operativa. Tener presenti gli elementi sin qui forniti non è però ancora sufficiente ad apprezzare appieno il significato che assume l’autonomia tutta particolare della dirigenza del ministero della Giustizia rispetto al ministro. Tale autonomia ha trovato ulteriore nutrimento negli orientamenti, a lungo prevalenti e fortemente radicati nell’ambito della magistratura organizzata e delle sue rappresentanze in seno al Csm e che riguardano le ragioni con cui viene giustificata la presenza dei magistrati al ministero. Secondo questi orientamenti tale presenza sarebbe nella sostanza pienamente legittimata proprio dall’esigenza di tutelare l’indipendenza della magistratura dalle iniziative del ministro che potrebbero lederla. Questo orientamento non solo mi è stato ripetutamente ricordato nel corso degli anni in numerose interviste/conversazioni con magistrati, ma è confermata in vari documenti ufficiali e trova la più chiara esplicitazione in una relazione di vari anni fa della “Sottosezione dell’Anm presso il ministero della Giustizia”. Relazione inviata proprio al ministro della Giustizia e avente per oggetto “Proposte sulla riorganizzazione del ministero”. In tale documento, si forniscono infatti “le ragioni che giustificano questa presenza” (dei magistrati al ministero), e a riguardo si dice: «Innanzitutto essa è volta ad attenuare i pericoli che la funzione servente nei confronti del funzionamento della giustizia – costituzionalmente attribuita al potere esecutivo – si trasformi, nel concreto esercizio, in un condizionamento del potere giudiziario e in una conseguente violazione del fondamentale principio dell’indipendenza della magistratura»…. E si prosegue dicendo: «È opportuno che gli ampi poteri riconosciuti al ministro dagli artt. 107 e 110 Costituzione e (come interpretati dalle sentenze n. 168/63 e 142/73 della Corte Costituzionale) nei confronti del funzionamento della giustizia siano esercitati a mezzo di magistrati, anziché di funzionari amministrativi. I primi, pur se posti fuori temporaneamente dall’ordine giudiziario, sono i soggetti istituzionalmente più in grado di conciliare l’autonomia e l’indipendenza del detto ordine con l’osservanza della linea politica-ministeriale». Una delibera, che a dispetto di quanto possa apparire a un osservatore esterno, non aveva intenti rivendicativi ma si limitava a rappresentare l’assetto interno del ministero. Uno degli autori e firmatari di quella relazione inviata al Ministro era Ernesto Lupo, futuro presidente della Corte di Cassazione, da tutti sempre considerato persona di grande equilibrio, non certo portatore di orientamenti estremisti. Ed è significativo anche il fatto che il ministro dell’epoca nulla obiettò nel ricevere quella delibera dell’Anm, nonostante in essa si teorizzasse un ruolo davvero peculiare dei magistrati al ministero della Giustizia: dovrebbero addirittura svolgere un ruolo di resistenza, di contrasto ai voleri del ministro allorquando questi volesse, con le sue iniziative, ledere in qualche modo, a giudizio della magistratura organizzata o dei suoi rappresentanti in seno al Csm, l’indipendenza (o gli interessi corporativi) della magistratura stessa. Nei ministeri della Giustizia di altri paesi di cui ho conoscenza diretta (come Francia, Germania, Austria, Olanda) i magistrati che vi lavorano sono tenuti alla riservatezza che, se violata, viene sanzionata. Da noi no. Se le iniziative del ministro, persino quelle a livello embrionale, toccano poteri della magistratura o aspetti dell’ordinamento che contrastano con gli orientamenti del sindacato della magistratura esse vengono subito comunicate, e gli esempi a riguardo sono numerosi, ad esponenti della magistratura organizzata e/o al Csm perché possano essere intraprese le eventuali azioni di contrasto. A riguardo è certamente emblematico anche un episodio verificatori nell’ottobre del 2001 che pone in evidenza come i magistrati del ministero della Giustizia si ritengano liberi, nei casi non certo frequenti di contrasti col ministro, di operare in opposizione al ministro stesso da cui formalmente dipendono e come siano appoggiati in tale loro opera dal Csm. In quell’occasione alcuni magistrati dell’Ufficio legislativo fecero pervenire a deputati dell’opposizione un parere che avevano di loro iniziativa predisposto per il ministro della Giustizia e di cui il ministro non aveva tenuto conto; un parere che era fortemente critico proprio nei confronti di un disegno di legge del ministro che in quel momento era in discussione al Senato. È interessante notare che, a seguito di questo comportamento, i magistrati in questione hanno lasciato il ministero ma non hanno subito né procedimenti disciplinari né conseguenze negative sul piano della valutazione della professionalità da parte del Csm. Hanno invece acquisito titoli di benemerenza nella corporazione, tanto che uno di essi è stato quasi subito eletto dai colleghi, nel 2006, componente del Csm. A rinforzare e rendere i comportamenti dei magistrati del ministero aderenti alle aspettative del Csm e del loro sindacato vi è poi anche il fatto che essi sanno, per esperienza, che possono essere gravemente penalizzati dal Csm se sospettati di “collaborazionismo” col ministro su questioni che pregiudicano gli interessi corporativi. Si tratta di casi poco frequenti anche perché i pochi che si sono verificati costituiscono un chiaro ed efficace monito a futura memoria per tutti gli altri. Uno dei casi più noti e clamorosi – certamente il più facile da richiamare – si è verificato allorquando Giovanni Falcone, nel periodo in cui era direttore generale degli Affari Penali del ministero, fu diffusamente sospettato e anche pubblicamente accusato da componenti del Csm e da esponenti dell’Anm di aver assecondato il ministro della Giustizia, Claudio Martelli, nella formulazione di un decreto legge in cui si prevedeva un effettivo e cogente coordinamento nazionale delle attività del pubblico ministero in materia di criminalità mafiosa, minando con ciò stesso l’indipendenza interna dei pm. Durissima fu la reazione dell’Anm e del Csm ed il decreto fu radicalmente modificato. Si pose allora in dubbio pubblicamente persino la credibilità dell’indipendenza di Falcone quale magistrato e quindi, in sede di Csm, anche la sua attitudine e capacità a svolgere con indipendenza il ruolo di Procuratore nazionale antimafia. Tanto che la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm – nonostante la fama, anche internazionale di Falcone in quel settore – non si espresse a suo favore. Le proposte della commissione non pervennero al vaglio del Plenum del Csm perché nel frattempo Falcone era stato assassinato dalla Mafia. Falcone non divenne quindi Procuratore nazionale antimafia ma dopo la sua uccisione fu subito riammesso nei favori dell’Anm e da allora celebrato come uno dei suoi martiri più illustri. Mi sembra che quanto detto sin qui, per quanto molto sommario, sia sufficiente a dare sostanza alle preoccupazioni espresse dal professor Cassese e dall’avvocato Caiazza in materia di divisione dei poteri. È tuttavia opportuno aggiungere due postille a questo articolo già troppo lungo. Prima postilla. Vi sono state diverse iniziative legislative aventi per oggetto la presenza dei magistrati al ministero della Giustizia, tutte senza successo. Una limitata, temporanea eccezione è costituita dall’art. 19 del DPR del 4/8/2000 il quale stabiliva che i magistrati desinati al ministero non dovessero superare le 50 unità. A seguito del parere dato dal Csm (il 16/11/2000) quella limitazione fu abrogata. Ed è comprensibile. L’Anm ed il suo “braccio armato”, cioè il Csm, non potevano consentire che venisse, seppur di poco, messo in discussione l’articolato assetto di potere che fa capo alla magistratura. Seconda postilla. L’Avvocato Caiazza nel suo articolo su questo giornale ci ha ricordato che la divisione dei poteri viene menomata gravemente anche dalla presenza dei magistrati in molti dei gangli decisionali del nostro Stato (posizioni di rilevo in altri ministeri e in Parlamento, presso la presidenza del Consiglio e della Repubblica, presso la corte Costituzionale e altre ancora). Le ricerche da noi condotte sulle attività extragiudiziarie dei magistrati certamente avvalorano la sua tesi. Forse ce ne occuperemo in un altro articolo. È tuttavia difficile da comprendere perché le Camere penali non abbiano inserito questo problema nel loro progetto di riforma costituzionale, visto che la divisione dei poteri è certamente questione di rilievo costituzionale.

La dittatura dei Pm: politici succubi, giornalisti zerbini. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 28 Maggio 2020. La magistratura militante non si oppone solo a qualsiasi riforma dell’amministrazione della giustizia rivolta a limitare i privilegi della corporazione: si oppone anche, con pari energia, a ogni iniziativa di maggior tutela dei diritti delle persone sottoposte a giustizia. La ragione è molto semplice e non ha niente a che fare con le sempre sbandierate esigenze di giustizia complessiva: il rafforzamento dei diritti degli imputati, dei condannati, dei detenuti e la compiuta salvaguardia delle loro facoltà di difesa diminuiscono la forza del potere inquirente. È tutto, tragicamente, qui. L’assoluzione è fastidiosa perché denuncia la fallibilità dell’accusa, che in quest’ottica è necessariamente contrastata con mezzi pretestuosi e sleali: la difesa come attentato alle ragioni della giustizia confuse con l’interesse di chi la amministra. Si tratta di una vera e propria deviazione di potere, perché non c’è nessuna riprova – anzi c’è prova del contrario – che lo Stato di diritto democratico si affermi nel trionfo dell’accusa pagato col sacrificio dei diritti della persona. Il fatto che la magistratura deviata non operi clandestinamente dimostra anche meglio quant’è potente. Essa coltiva e protegge quel suo interesse nell’efficace sintonia di due canali: il primo è quello più appariscente sulla ribalta del dibattito pubblico, con il sistema dell’informazione asservito a orientarlo e con la classe politica intimidita e disciplinata nell’autocensura; il secondo canale è quello che percorre il ventre dello Stato e si dirama nei posti del potere vero, dove le leggi passano o si fermano, e a dirigere il traffico c’è appunto la magistratura distaccata al lavoro di macchina. La prepotenza di questo complesso sostanzialmente reazionario è simile a quella che nei sistemi di democrazia incerta esercitano i militari, con la differenza che la capacità intimidatoria della magistratura deviata è anche più efficace perché non ha bisogno di dimostrarsi in modo strepitoso coi carri armati che assediano i palazzi del potere e minacciano la cittadinanza: basta e avanza avere alle dipendenze un altro tipo di esercito, quello togato, che è composto sicuramente da ottime persone che però possono aggredire la tua vita e rinchiuderla in una cella. Le istanze antiriformatrici della magistratura deviata non sono sorrette da una migliore dottrina, ma da quel brutale presupposto di potere: ti arrestano, ti giudicano, ti condannano, e in modo non dichiarato ma perfettamente operante è quel carico di potere a pesare sulla bilancia delle riforme. Non c’è più scienza a rendere possibile l’imperio della magistratura deviata e a impedire che se ne contesti la continuazione, non c’è più competenza, più cultura della giurisdizione: c’è il ritrarsi e il sottomettersi di una società intimorita. C’è la paura.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 28 maggio 2020. Ieri mattina ho colmato una delle più gravi lacune della mia esistenza: ho telefonato a Luca Palamara. Per davvero, non sto scherzando. Non gli avevo mai telefonato. Leggevo le intercettazioni sui giornali e dicevo: ok, Palamara parla coi suoi colleghi magistrati, coi politici, fa le sue paste, manovra questa e quella nomina: che c' entro io? Poi sono uscite le intercettazioni di Palamara coi giornalisti. E ho cominciato a farmi delle domande (ma mi sono dato risposte consolatorie). Ieri mattina però c' erano pagine di intercettazioni di Palamara con Neri Marcorè, Raoul Bova, Luciano Spalletti, generali dei carabinieri, rappresentanti del clero, pure col direttore della polizia ferroviaria. Ho pensato: chiama tutti tranne me. Non conto proprio un cappero. Allora gli ho scritto su Twitter, ci siamo scambiati i numeri e ho chiamato. Purtroppo non avevo la certezza di essere intercettato, ma in ogni caso non vi darò alcun dettaglio perché mica sono il più scemo: anche io voglio la mia intercettazione sul giornale. Non ci siamo detti niente di penalmente rilevante, niente di politicamente interessante ma del resto, immaginerete, non è che il dialogo Palamara-Antonello Venditti contenesse dati sensibili per la tenuta delle istituzioni, e l' hanno pubblicato lo stesso. Sarebbe bello fare come in Perfetti sconosciuti, il film in cui gli amici si scambiano i telefoni per leggere l' uno la corrispondenza dell' altro. Sarebbe bello farlo a turno: tutti i nostri sms in pagina. Solo quelli pruriginosamente rilevanti. O dite di no? Che conviene continuare a farlo con quelli come Palamara, che tanto sono indagati e sputtanati e non possono difendersi?

Michele Serra per “la Repubblica” il 28 maggio 2020. Sono tra i pochi italiani che non hanno avuto rapporti telefonici con il dottor Palamara. Ne esce confermata l' irrilevanza del mio status. Non si montino la testa, però, le migliaia di persone il cui nome fa capolino nelle conversazioni del dottore, un kolossal al cui confronto Ben Hur è una commedia intima. Molti di loro non sarebbero in grado di influire nemmeno nella nomina di un pretore, e sono finiti nel cast per puro caso, come il mio vecchio amico Neri Marcorè, dal quale comprerei non solo un' auto usata, anche un' auto ammaccata. Questo fa pensare che le paginate di intercettazioni finite sui giornali non siano tutte di pregnante rilevanza; che molte appartengano a quel cicaleccio romano che, con il pretesto di fare il punto sugli assetti di potere e sottopotere, spesso si limita a riempire il tempo che serve per percorrere a piedi il tratto piazza del Popolo-Montecitorio. E fa pensare, anche, alla scellerata disinvoltura con la quale conversazioni private utili al massimo per coloriture giornalistiche, e senza rilevanza giudiziaria, vengono pubblicate su quotidiani e settimanali. Ha scritto Francesco Cundari su Linkiesta, con giustificato disgusto, che "quando a essere ingiustamente sputtanato, ricattato, mostrificato sarà stato il cento per cento dei giornalisti, dei magistrati e dei politici, l' ipotesi di una riforma che metta davvero fine a un simile andazzo avrà qualche possibilità di essere realizzata". Sono meno ottimista. Quando il nome di tutti sarà finito nello stesso calderone consociativo, chi per crimini veri, chi perché chiede un paio di biglietti per andare a vedere la Roma, sarà un' ottima occasione per farsi du' spaghi tutti assieme.

Francesco Cundari per linkiesta.it il 28 maggio 2020. Si sa che in Italia le intercettazioni si pubblicano per i nemici, si riassumono per gli amici e si omettono per i colleghi. Con speciale attenzione per vicini di scrivania, fonti privilegiate e affetti stabili del direttore (categoria in cui rientrano per funzione tutti i componenti della compagine editoriale, con i rispettivi parenti fino al dodicesimo grado, amici anche non tanto cari, amanti e affini). Fatta questa doverosa cernita informale, non c’è giornalista, o quasi, che risparmi al lettore la puntigliosa trascrizione di ogni genere di insinuazione, calunnia o semplice pettegolezzo sia stato propalato al telefono, anche sul conto di terzi che nulla hanno a che fare con niente (né con l’inchiesta, né con alcuno degli interlocutori) e si ritrovano sbattuti in prima pagina, con tanto di foto e didascalia segnaletica, per l’unica colpa di essere stati nominati. Non di rado semplicemente perché uno dei due intercettati riferiva quello che gli aveva raccontato qualcun altro, che magari a sua volta l’aveva sentito dire da non si sa chi, e così via. Questa consolidata prassi comune della stampa italiana, questa cultura condivisa del diritto allo sputtanamento del prossimo, lascia comunque ampio spazio per importanti distinzioni, come dimostra abbondantemente il modo in cui i diversi giornali hanno raccontato quanto emerso dai brogliacci dell’inchiesta su Luca Palamara (ex presidente dell’Anm, membro del Csm e capocorrente della magistratura associata). Da un lato ci sono infatti quotidiani che hanno passato l’intero ventennio berlusconiano a indignarsi per l’indegno mercato delle intercettazioni, impegnati da giorni a pubblicare virgolettati, con tanto di nome-cognome-e-foto, di qualunque cronista abbia parlato con Palamara anche semplicemente per chiedergli un’intervista; dall’altro lato ci sono i quotidiani che hanno passato l’intero ventennio berlusconiano a difendere fino allo stremo il diritto-dovere di pubblicare regolarmente ogni privata conversazione da loro insindacabilmente giudicata una «notizia» (con tanto di «Pronto, chi parla?», «Eh? Che hai detto? Non ti sento…») e adesso infilano a pagina 147 anodine ricostruzioni da cui non si capisce nemmeno cosa sia successo, né con chi ce l’abbiano l’editorialista indignato o l’intervistato contrito della pagina accanto. In verità, trattandosi di intercettazioni che riguardano prevalentemente magistrati che parlano tra di loro, e qualche volta giornalisti, si capisce che il meccanismo, pur così rodato, sia andato occasionalmente in tilt. Va detto però che le regole fondamentali del genere sono state rispettate. Per quanto riguarda ad esempio le persone del tutto estranee ai fatti oggetto dell’inchiesta ma tirate ugualmente in ballo nelle intercettazioni, in nove casi su dieci si è seguito comunque il protocollo standard. Protocollo che a seconda del grado di prossimità (vedi schema illustrato all’inizio) prevede, per i nemici, che il loro nome «spunti» nelle intercettazioni; per i non-amici, i quali faranno bene a rigare dritto, che le intercettazioni proiettino imprecisate «ombre» su di loro; per gli amici carissimi e le altissime cariche istituzionali, laddove non sia proprio possibile tacerne, che dal caso emergano nauseabondi «veleni» contro di loro. Dal punto di vista fattuale, com’è ovvio, stiamo parlando della stessa identica cosa. Ma se provate ad associare mentalmente il vostro nome a un titolo come «Scandalo X, spunta il nome di Tizio», o invece «ombre su Tizio», o meglio ancora «veleni su Tizio», capite subito la differenza. La stessa che passa tra una carezza, un buffetto e un cazzotto. E che permette di distinguere la «doverosa collegialità» dall’«indegno mercanteggiamento», gli «accordi alla luce del sole» dai «patti inconfessabili», il «fondamentale pluralismo» dal «correntismo deteriore» di cui traboccano editoriali e interviste di questi giorni. Non diversamente da tutti gli altri giorni, salvo rare pause, degli ultimi quindici anni. Quando a essere ingiustamente sputtanato, ricattato, mostrificato sarà stato il cento per cento dei giornalisti, dei magistrati e dei politici, l’ipotesi di una riforma che metta davvero fine a un simile andazzo avrà qualche possibilità di essere realizzata. Ai ritmi attuali, non dovrebbe dunque mancare molto.

Luca Palamara, intercettazioni interrotte e dubbi sulla trascrizione: "Carabinierone" o "Pignatone"? Un caso clamoroso. Libero Quotidiano l'11 giugno 2020. Il trojan che ha intercettato Luca Palamara è pieno di interruzioni. Secondo i difensori dell'ex presidente dell'Anm "durante l'ascolto delle fonie s'è potuto appurare, in molti casi, una sostanziale divergenza tra quanto riversato nei brogliacci e quanto effettivamente ascoltato". Lo rivela il Fatto Quotidiano, che però, nell'unico audio che ha potuto analizzare - quello della sera del 21 maggio, in cui Palamara incontra l'ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio - una divergenza, con la trascrizione del Gico, l'ha effettivamente riscontrata. L'audio tra le 21.53 e le 21.58 è stato classificato dal Gico come "rumori". E in effetti il fruscio è altissimo. Pochi secondi prima delle 21.58 c'è però un dialogo, di circa un minuto, Lì dove, secondo i finanzieri, Palamara dice la parola "carabinieroni" il Fatto ha invece sentito la parola "Pignatone". Nella trascrizione del Gico di quei pochi secondi non c'è mai la parola "Mattarella" che il Fatto ha invece sentito. In un'altra occasione Palamara sembra fare il nome di Stefano Erbani (consigliere giuridico di Mattarella,) che nella trascrizione del Gico non c'è. In sostanza, gli audio possono essere interpretati diversamente, e su questo però la difesa di Palamara, nel dialogo con Fuzio, dà ragione a quello sentito dal quotidiano diretto da Marco Travaglio che a quello riportato invece dai finanzieri del Gico. Il Fatto poi ha anche contattato il consigliere giuridico del Quirinale, Stefano Erbani che, sulla vicenda trojan, ha ribadito: "Si tratta di una falsità totale e assolutamente incredibile". Il Quirinale già lo scorso anno commentò: "La Presidenza della Repubblica non dispone di notizie su indagini giudiziarie e dal Quirinale non può essere uscita alcuna informazione al riguardo". 

La barbarie delle intercettazioni, Magistratopoli apre gli occhi a Pm e giornalisti. Deborah Bergamini su Il Riformista il 26 Maggio 2020. Io sono molto orgogliosa del “mio” giornale: in perfetta solitudine nei giorni scorsi abbiamo annunciato lo scoppio di Giornalistopoli. Non abbiamo pubblicato le tonnellate di intercettazioni del caso Palamara, non abbiamo fatto i nomi dei colleghi giornalisti che compaiono in quelle trascrizioni (e parecchi nostri lettori hanno detto che abbiamo sbagliato a non farli) e i cui comportamenti denotano un vassallaggio nei confronti di certi pm che è davvero triste, ma abbiamo detto che il re è nudo: a suon di conversazioni carpite si è disvelata nei dettagli l’architettura di quel circuito mediatico-giudiziario che da Mani Pulite in poi, rafforzandosi sempre di più, ha influenzato e talvolta predeterminato il processo democratico in ogni suo rivolo, producendo una commistione fra poteri che l’ipocrisia si ostina a definire inammissibile, ma che è praticata massicciamente. Un’architettura fondata su un’alleanza di ferro fra alcuni pm e alcune firme giornalistiche, nota certo a tutti, ma mai vista prima d’ora in tutte le sue pieghe, e oggi finalmente evidente. Così si capisce di cosa ha paura la politica da trent’anni a questa parte. Così si capisce come può capitare, al politico sgradito, di esser fatto fuori, che si tratti di Berlusconi o Renzi o Salvini. E così si capisce perché la politica, di qualunque colore, è diventata pusillanime e quindi inutile. È positivo che alcuni altri giornali – evidentemente liberi – in questi giorni ne parlino. Ed è positivo che una larga parte della magistratura sia costernata, indignata, dai fatti emersi in questi giorni e stia lavorando con responsabilità per voltare pagina. Dentro la magistratura, come dentro il giornalismo, come dentro la politica, come dentro la vita, il Bene e il Male albergano sempre assieme in un eterno scontro che a volte si fa abbraccio e quindi per prima cosa bisogna spazzare via la tentazione di generalizzare. Ma davvero penso che questa possa essere l’occasione storica per fare un passo avanti. E per questo mi piacerebbe che i giornali che contano, le testate gloriose, non facessero finta di nulla ma anzi si rendessero per prime protagoniste di un tentativo di cambiamento. Parlo di quelle che negli anni si sono accreditate di più nell’indefesso lavoro di andare a snidare i politici e i loro traffici (veri o presunti) grazie all’accesso a materiale investigativo secretato o a intercettazioni. Lo hanno fatto talmente tanto che le intercettazioni da mero strumento di indagine sono diventate nel tempo un consolidato strumento politico secondo una modalità tollerata ma intollerabile che ha prodotto solo macerie da trent’anni a questa parte. Non ci siamo dimenticati, vero, dell’invito a comparire recapitato al presidente del Consiglio Berlusconi a mezzo Corriere della Sera mentre ospitava una riunione internazionale sulla criminalità organizzata a Napoli nel 1994? Non so quante persone – e quanti politici – sono stati travolti dalla pubblicazione di intercettazioni sui maggiori giornali italiani. Un numero incalcolabile. Anche io, nel mio piccolo, sono fra queste. E poco importa se le varie tesi accusatorie ipotizzate a corredo delle intercettazioni poi si rivelino inesistenti. I processi veri oggi si fanno sulle pagine dei giornali, non nei tribunali, e quando le sentenze arrivano è troppo tardi. Avendo vissuto l’esperienza in prima persona posso assicurare che ben poco esiste di più incivile di questa modalità per fare i conti col nemico di turno o per rendere realistico uno stereotipo, un pregiudizio. Le intercettazioni hanno di bello che si possono selezionare a piacimento, usarle come tanti piccoli pezzi di carta per costruire il collage che si ha in testa. Possono raccontare mille realtà diverse in base a come sono ritagliate, e tutte quelle realtà possono essere plausibili. In più, hanno di bello che registrate su un bel file digitale e schiaffate su internet acquisiscono il dono dell’eternità: possono risalire a 15 anni prima ma fissate in quel modo sembrano sempre fresche come uova di giornata, congelando così per sempre anche la presunta colpa del malcapitato. È una barbarie, diventata ghiotta normalità qui da noi, unico caso al mondo. Ne hanno beneficiato alcuni pm per le loro carriere e il loro potere? Certo. Ma ne hanno beneficiato molto anche i giornali e questa è la novità di questi tempi: finalmente si capisce che anche tante carriere di giornalisti e tante copie di giornali vendute sono il frutto di questa perversa abitudine, spesso scudata da quello che chiamiamo diritto di cronaca o addirittura diritto di critica. Contro questa deriva combatto da molti anni, si può dire che stia alla base della mia scelta di fare politica e sono contenta che si stia aprendo uno squarcio nella più perniciosa delle collusioni e delle ipocrisie del cosiddetto mondo dell’informazione. Era facile prevedere che chi di intercettazione ferisce di intercettazione perisce, perché l’ascolto e la pubblicazione degli affari altrui sono come il miele, golosissimo ma ci si può rimanere incollati. E oggi tocca alla magistratura e al giornalismo fare i conti con un costume del quale hanno beneficiato insieme. Sarebbe stato bello che per coerenza, viste le tante persone messe tragicamente alla berlina in questi anni, i giornali che contano avessero usato lo stesso criterio – il diritto di cronaca – anche per i loro giornalisti rimasti impigliati nelle maglie di questo sistema. Invece no. Ecco perché sono la vera casta. Perché possono praticare un sistema di autotutela di cui la politica non dispone più, essendosene lasciata spogliare da Mani Pulite in poi. Quando ero all’inizio della mia attività politica feci una battaglia perché la pubblicazione di intercettazioni fosse ascritta al reato di ricettazione: in fondo di questo si tratta, trarre profitto da materiale acquisito illecitamente. Fui attaccata duramente da alcuni miei colleghi giornalisti, anche importanti. Dissero che ero una cretina e che volevo censurare il diritto di cronaca. Invece volevo evitare che si arrivasse alla situazione perversa in cui purtroppo ci troviamo, cominciando a trattare la pubblicazione di intercettazioni per quello che spesso è: un’illegalità. E comunque una pratica incostituzionale. Quella battaglia la persi, così come molte altre. Oggi mi piacerebbe che ci tenessimo stretta l’occasione di vincere, invece, una battaglia di civiltà che possa progressivamente condurci verso una fase nuova della nostra storia nazionale e che possa lasciarsi alla spalle l’eredità di Mani Pulite: coltivo la speranza che si possa ricondurre l’uso delle intercettazioni al perimetro rigido entro cui deve restare, e cioè quello dello strumento investigativo, troncando ogni legame di interesse col mondo mediatico. So che è come far rientrare il dentifricio dentro il tubetto, praticamente impossibile. Ma so anche che non esiste riforma della giustizia che non affronti questo tema. Se non riportiamo questa pratica nell’alveo giusto, se non guardiamo in faccia l’aberrazione sistematica che si è prodotta e continuiamo a far finta di nulla perché ci riteniamo al riparo dal rischio di finirci in mezzo, produrremo più manipolazione, più sovvertimento del processo democratico e più ministri della giustizia che anziché rinsaldare i principi basilari del diritto, pensano a piazzare dei trojan nei nostri telefoni con la promessa di garantire più etica per tutti.

Luca Palamara, le indicazioni su come scrivere un articolo alla collega di Repubblica: le ultime intercettazioni. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 27 maggio 2020. L'anno è il 2006, il luogo uno studio televisivo in penombra di un programma Sky. La conduttrice Maria Latella si rivolge con deferenza all'ospite in collegamento che ha appena dato della «faccia di tonno» all'ospite in studio: «Presidente qual è la motivazione di questo suo giudizio così severo sul dottore?». Risposta: «Dalla faccia. Io faccio politica da 50 anni e vuole che non riconosca uno dalla faccia? Quello la faccia da intelligente non ce l'ha assolutamente. Io vengo da una famiglia di magistrati, ho avuto tre zii procuratori generali della Cassazione, e si vergognerebbero oggi di quello che hanno sentito da questo - come si chiama? - Palamara come il tonno...». Ecco. Per inquadrare le potenzialità teatrali di Luca Palamara, la propensione alla caricatura che potrebbero farne, oggi, un nuovo eroe di Maurizio Crozza; be', bisognerebbe riguardarsi la suddetta, micidiale puntata di SkyTg24 in cui l'emerito Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, di Palamara stroncò il mito giudiziario nascente. Palamara, oggi al centro dell'inchiesta sulle nomine del Csm e delle Procure, allora andava via come il pane. Era l'ex presidente dell'Anm ai tempi dello scontro con Berlusconi, nonché pm di Roma; dopodiché sarebbe diventato membro del Csm e la toga più influente di Unicost. Ma in quel momento, davanti alla telecamera, il magistrato basculava inchiodato nervosamente alla sedia. E, mentre ne inquadravano il ciuffone ribelle, l'espressione vacua alla John Belushi in Animal House, l'uomo accennava una difesa contro il Picconatore: «Mi sembra molto offensivo». E Cossiga, bum, un'altra fucilata: «Sì, sì, è offensivo, mi quereli, mi diverte se mi querela. I nomi esprimono la realtà, lei si chiama Palamara e ricorda benissimo l'ottimo tonno Palamara», e chiosava: «Io con uno che ha quella faccia e che detto quella serie di cazzate non parlo». Ecco. Questo dell'accanimento ittico, la faccenda del "tonno", potrebbe essere l'incipit dello sketch di Crozza, appunto. Poi, da lì, un bravo sceneggiatore potrebbe andare a ritroso sulla capacità inumana di Palamara di attaccarsi al telefonino, di trattare sulle nomine, di imbastire le alleanze e cucire le strategie. Anche oggi come ieri e l'altroieri, per esempio, arrivano valangate di intercettazioni dal suo WhatApp e dal telefonino. «E pure per la ragazza c'è un procedimento disciplinare se mi iscrive dopo sei mesi senza motivo...», afferma sensibilmente alterato Palamara, riferendosi alla collega pm di Perugia Gemma Miliani, la titolare del fascicolo che lo vede protagonista. Ma, prima ancora nel raccontare la sit com del Csm, un abile dialoghista potrebbe rispolverare le frasi palamaresche venate da immancabile accento romano su «c'era anche la merda di Salvini, mi sono nascosto»; o sue le pregevoli indicazioni su come scrivere un articolo, fornite a una collega di Repubblica; o le manovre, e i favori incrociati finalizzati ad ottenere il prima possibile la poltrona da Procuratore di Pignatone. E Crozza potrebbe recitare la discesa agl'inferi del pm vestito da Dante Alighieri. Dato che Palamara, per difendersi dalla valanga di fango che gli si sta rovesciando addosso è ricorso alla citazione del verso 119 del Canto 26, Ulisse che recita ai compagni «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza». Pure se, forse, gli si sarebbero più attagliati i versi dal 13 al 48, quelli della Bolgia dei consiglieri fraudolenti. 

Da “Libero quotidiano” il 27 maggio 2020. Sono molti i giornalisti finiti nella rete della Procura della Repubblica di Perugia che indaga per corruzione, sorvegliandone il cellulare, il pubblico ministero Luca Palamara, presidente dell' Anm per quattro anni prima di entrare a far parte del Consiglio superiore della magistratura, dal quale è stato sospeso la scorsa estate in seguito allo scandalo sulle nomine pilotate dei procuratori. Dopo le intercettazioni che Libero ha pubblicato in esclusiva nei giorni scorsi, ieri il portale affariitaliani.it ha messo online l' informativa dell' inchiesta che contiene i riassunti e alcuni stralci delle conversazioni telefoniche tra Palamara e vari cronisti. Nel documento sono riportate pure alcune intercettazioni in cui lo stesso Palamara parla con altri interlocutori dei suoi rapporti con i giornalisti. Proponiamo qui di seguito ampi stralci dell' informativa, dove compaiono nomi noti come quelli di due volti molto familiari al pubblico televisivo: Giovanni Minoli (al quale a un certo punto Palamara si rivolge per chiedergli un consiglio sull' opportunità di rilasciare un' intervista televisiva a Lucia Annunziata per rispondere alle accuse) e Luigi Marzullo. Ci sono poi diversi cronisti di agenzie, televisioni e quotidiani che si rivolgono al pubblico ministero per fissare l' appuntamento per un incontro o per una intervista, a volte soltanto per chiedergli notizie sulla vicenda giudiziaria che lo vede coinvolto, in qualche caso per domandargli un favore personale. Proponiamo infine due conversazioni di Palamara con il collega pubblico ministero Stefano Fava (lui pure indagato dalla Procura di Perugia nell' inchiesta sullo scandalo che ha investito il Csm) e con il deputato del Partito democratico Luca Lotti (coinvolto nella vicenda) in cui il magistrato si vanta di indirizzare a suo piacimento i giornalisti amici.

29.5.2019 Palamara x Minoli Giovanni. Palamara gli dice che La Repubblica è la risposta a Il Fatto. Claudio Tito de La Repubblica gli ha chiesto se vuole replicare e Palamara chiede consiglio a Minoli se sia il caso di replicare e se deve parlare di tutto. Minoli chiede di incontrarsi a cena. Palamara ancora non sa rispondegli poiché si sta domandando se deve recarsi a Perugia. Palamara sapeva queste cose da due anni, ma ha appreso ciò dai giornali. Si risentiranno.

29.5.2019 (Francesco, ndr.) Grignetti (La Stampa, ndr.) per Palamara. Palamara dice che oggi non rilascerà interviste, ma gli dice di fare due riscontri: 1) il 26 settembre è uscita per la prima voltala notizia sui giornali e lui dovrebbe vedere quando è arrivato il fascicolo da Roma a Perugia; 2) sui fatti citati nell'articolo de Il Fatto, oltre a quelli descritti giorni fa dalla giornalista (Liana, ndr.) Milella, Palamara gli dice che deve verificare quando è arrivato al Csm. Palamara gli confermerà se verrà interrogato.

29.5.2019 Palamara per Barocci Silvia (Rai3, ndr.). Palamara le dice che per lui va bene (riferendosi alla sua partecipazione alla trasmissione In Mezz' Ora di Rai 3 di Lucia Annunziata, come da precedente telefonata, ndr), all'esito dell'eventuale interrogatorio di Perugia che ha richiesto in data odierna. La Barocci lo invita a non rilasciare altre interviste, ovvero che ci sia una esclusiva solo per loro. Palamara risponde affermativamente e riferisce che se andrà in trasmissione parlerà di cose importanti. Palamara farà sapere appena avrà contezza.

22.4.2019 Palamara per Rosa Polito (Agi, ndr.). Polito fa gli auguri a Palamara. Palamara dice alla donna che organizzeranno una festa quando e se il "periodo nero" passerà. La Polito conclude dicendo di salutarle la Giovanna e i ragazzi.

29.5.2019 Simona Olleni (Agi, ndr.) per Palamara. La Olleni riferisce che ha letto "la sua cosa", quella dove ha appreso il reato dalla stampa. La Olleni correggerà tale scritto eliminando il primo capoverso. Verrà pubblicato immediatamente. I due utilizzano un tono confidenziale.

 29.5.2019 Fischetti Sandra (Ansa, ndr.) x Palamara. Parlano della correzione della dichiarazione preparata da Palamara in replica agli articoli di giornale comparsi in data odierna.

29.5.2019 Valeria Di Corrado (Il Tempo, ndr.) per Palamara. Palamara riferisce che si affida a quanto già detto nel comunicato. Spera di poter essere sentito in Procura e che ha sentito la notizia dai giornali. Si risentiranno.

6.6.2019 Vincenzo Bisbiglia (Il Fatto Quotidiano, ndr.) per Palamara. Gli chiede informazioni sul conto della moglie in ordine al suo impiego presso la Regione Lazio e di eventuali contatti con Zingaretti o con altre persone dello stesso Ente. Palamara asserisce di non essere mai intervenuto e che la moglie ha un curriculum di tutto rispetto.

7.6.2019 (Federico, ndr.) Marietti (Tg5, ndr.) per Palamara. I due conversano, poi interviene Carmelo Sardo, capo redattore e concordano l'incontro per l'intervista presso lo studio dell'avvocato difensore di Palamara, sito in Roma, via Circonvallazione Clodia n.29.

5.3.2019 Centralino riservato di Palazzo Chigi che passa il Dr Marzullo Luigi al Dr. Palamara. I due fissano di risentirsi per incontrarsi al "Catanese" venerdì o lunedì prossimi entrambi i giorni nel tardo pomeriggio.

4.5.2019 Palamara Luca x Salvaggiulo Giuseppe (La Stampa, ndr.). Palamara gli chiede di dargli del tu, quindi Salvaggiulo gli chiede "ma sbaglio o la cosa si è un po' rallentata? Parlo delle nomine" e Palamara risponde di no aggiungendo che stanno sulla via della quadratura del cerchio e che "a breve si sblocca". Palamara quindi a domanda "ok, perché, diciamo, l'esame in commissione non è ancora cominciato?" risponde "no, però è tutto pronto, sono arrivati i pareri eh... stanno istruendo le pratiche... quindi siamo... sono pronte per essere portate in commissione adesso". Palamara, a domanda sulla tempistica, risponde di sentirsi martedì/mercoledì per avere dati più precisi. Palamara a domanda "quindi lo sapremo quando, avremo il Procuratore di Roma, Torino eccetera, sapremo tutto insieme, avremo... a pezzi?" risponde "secondo me insieme", aggiungendo sempre a domanda "con un accordo ampio o lo step (incomprensibile)?", "e questo, ancora esterna quello c'è, gli stessi esatti termini in cui avevamo parlato quella sera... la situazione". Salvaggiulo chiede di essere più chiaro ma Palamara ripete che ancora non è nulla deciso ovvero che si sta lavorando su due convergenze specificando che "la rosa è abbastanza ristretta". Salvaggiulo dice quindi che prenderà tempo e aspetterà un suo messaggio. Palamara accetta specificando che martedì ci sarà anche il saluto di PIGNATONE. I due quindo convengono che potrebbe essere anche il giorno giusto. Si salutano.

15.5.2019 ...continua PALAMARA a parlare nel proprio ufficio con Stefano FAVA convenevoli su dove si reca Stefano FAVA a mangiare al minuto 03:20

PALAMARA l'articolo sulla STAMPA non era male o no?

Stefano FAVA no quello che è pazzesco di quell articolo sai qual è?

PALAMARA eh

Stefano FAVA l'hai pagato però?

PALAMARA (incomprensibile) lo conosco! quando, quel pezzo di IELO dici?

Stefano FAVA esatto

PALAMARA quel pezzo del Pi

Stefano FAVA esatto quello è pazzesco... quello è proprio pazzesco

PALAMARA eh eh

Stefano FAVA cioè aspetta che questi di AREA

PALAMARA che hanno detto? non puoi capire Eugenio mi ha fermato incazzato

Stefano FAVA sì Eugenio dice qua torniamo al porto delle nebbie (incomprensibile)

PALAMARA gli ho detto guarda che non l'hai mai scritto, gli ho detto quando l'ha scritto, mi ha fermato ha detto hai visto torna indietro guarda che non ha scritto quello ha scritto un'altra cosa ha scritto

Stefano FAVA no ma loro dicono che torniamo al porto delle nebbie

PALAMARA ma non lo scrive l'articolo, il giornalista scrive un'altra cosa, è stato fedele nella ricostruzione

Stefano FAVA che il...

PALAMARA ce l'ho qua tiè

Stefano FAVA che il motivo principale è IELO! Quello è proprio azzeccato

PALAMARA ride

Stefano FAVA che i suoi seguaci sono PIGNATONE SABELLI e IELO... però la discontinuità, la causa della discontinuità è proprio IELO, quello è proprio il passaggio pazzesco no?

PALAMARA E certo

PALAMARA legge un pezzo dell articolo di cui discutono che ha coordinato le più delicate inchieste di corruzione additato dalla fronda anti PIGNATONE a singolo (incomprensibile)

Stefano FAVA della necessità della discontinuità, quello è il passaggio... che poi è vero

PALAMARA ride è questo

Stefano FAVA perché io ieri gli ho detto

PALAMARA lui un giorno dovrà spiegare perché si è messo nelle mani

Stefano FAVA alla VINCENZI gli ho detto

PALAMARA che ha detto la VINCENZi?

Stefano FAVA io distinguerei

PALAMARA per chi tifa la VINCENZI?

Stefano FAVA e che lei dice ma Nello ROSSI è uno yesman. Infatti io distinguerei

PALAMARA e lei che vuole?

Stefano FAVA dalla gestione fino al 2016 gli ho detto io

PALAMARA eh

Stefano FAVA nella vicenda PIGNATONE io distinguerei

PALAMARA esatto e dopo è precipitato

Stefano FAVA (incomprensibile) e poi dall avvento di IELO in poi

PALAMARA è da lì è precipitato, l'ha tenuto

Stefano FAVA la situazione secondo me

15.5.2019 PALAMARA no... oggi quando tutti i giornali riparlano oggi (incomprensibile), l'hai letto l'articolo della Stampa?

LOTTI l'ho letto l'ho letto, La Stampa e anche il Fatto Quotidiano

PALAMARA no ma La Stampa come è stat... come è fa... chi l'ha fatto fa

LOTTI no no ho letto ho letto perché me l'ha detto Garofoli della Stampa, no ma è preciso

PALAMARA ma il passaggio che gli ho fatto mettere?

LOTTI no no (incomprensibile) cioè avevo intuito che c'era stato un...

PALAMARA questo è in gamba questo ragazzo

PALAMARA SALVAGGIULO

LOTTI SALVAGGIULO che nome è?

PALAMARA è uno... è amico di un mio amico scrittore

LOTTI perché mi ha chiesto (incomprensibile) mi ha mandato Luca ma chi è questo giornalista qua io non lo so però Cosimo non ha pensato che c'eri te dietro

PALAMARA ah si?

LOTTI Cosimo... no no

PALAMARA ah gli è andato sotto lui

LOTTI Sì

PALAMARA eh

LOTTI e ha chiesto chi era a me, io ho chiesto a Luca ma chi è questo giornalista (incomprensibile) che ha scritto lui, tre articoli che ha scritto

PALAMARA però è un ragazzo per bene (incomprensibile) aveva capito tutta la situazione e già sapeva, sa tutto quello di Perugia e tutto quanto, è preparato... io gli ho detto preparati che mo mi arrivano... gli ho detto le cose

LOTTI però scusa

PALAMARA e so arrivate

LOTTI questa roba qui incide sull'aggiunto secondo te?

PALAMARA E non lo so cioè devo capire di che ca... cioè che ti devo di

LOTTI (incomprensibile) normale ma incide

PALAMARA Cioè bisogna vedere adesso che viene fuori, cioèa desso mi conviene rallentare... cioè fare il procuratore e rallentare l'aggiunto no?

LOTTI Sì, rallentare fino a luglio

PALAMARA luglio

LOTTI eh

PALAMARA certo li bloccano, a me mi conviene gioco più facile, è quello no? che mi dà, quella è la rimozione

LOTTI e martedi fanno 4 1 1

PALAMARA Nel frattempo io posso dire mi so cautelato a fa la cosa perché non sapevo come andava no, cioè a sto punto mi conviene a me che rallentiamo e cosi spiazziamo loro perché loro perché me la fanno perché hanno paura che ormai eravamo prossimi a farla, dice questi fanno Roma e io no? In mezzo così prima VIOLA ha quel problema

LOTTI questi fanno... fanno all in

PALAMARA (incomprensibile) problema

LOTTI ma martedì come fa quattro uno uno o quattro uno (incomprensibile)

PALAMARA e poi loro quello che loro non accettano è che io faccio questa battaglia perché mentre questi muovono servi tutto in girono

LOTTI No però Luca vuol di essere in trincea eh

PALAMARA ormai ci stanno

Palamara, il legame tra giornalisti, politica e magistrati. Cicchitto. "Nacque tutto nel 1991 con i comunisti contro Craxi e Andreotti". Fabrizio Cicchitto su Libero Quotidiano il 27 maggio 2020. Caro direttore, a volte la tecnologia ha effetti politici dirompenti. È evidente che mi riferisco al trojan che adesso ha messo in piazza che una parte della magistratura è contro Salvini indipendentemente dagli aspetti giuridici della questione. Ma le cose non si fermano qui, adesso viene messo in piazza anche il reticolo di rapporti clientelari e personali che costituiscono il fondamento delle carriere dei magistrati che, stando a quello che si disse negli anni '90, dovevano essere gli "angeli sterminatori" che avevano la missione di far piazza pulita della corruzione e della lottizzazione della casta dei politici (vero Stella e Rizzo?). Adesso è evidente che la magistratura che da molto tempo ha occupato manu militari il ministero della Giustizia è gestita sulla base di un sistema scientifico di lottizzazione fondato sulle correnti che ha per corrispettivo il manuale Cencelli che nella Prima Repubblica serviva per assegnare le cariche ai partiti al loro interno. L'altra faccia della medaglia è costituita dai rapporti organici fra alcuni magistrati e alcuni giornalisti. Non a caso, di fronte a tutto ciò, larga parte dei giornali tace. Tutto ciò però non è certo cominciato con Palamara, anzi adesso stiamo in certo senso di fronte a operazioni di basso livello, tutto invece è cominciato dagli anni '80 e '90 con operazioni di grande spessore che hanno sconvolto tutto il quadro politico. Francesco Cossiga fu l'unico a capire che paradossalmente il crollo del comunismo in Russia e nei paesi dell'Est in Italia avrebbe indebolito proprio la Dc e complicato la vita al Psi, che fino ad allora avevano goduto della rendita di posizione derivante dal fatto che assicuravano il governo di un paese dove c'era il più forte partito comunista dell'Occidente. A sua volta, con il crollo del suo retroterra storico, il gruppo dirigente del Pci si è trovato di fronte all'esigenza di cambiare tutta la sua strategia. i ragazzi di berlinguer Il Pci aveva davanti una via maestra, cioè quella di diventare un partito socialdemocratico, di realizzare l'unità con il Psi di Craxi e di lanciare un'alternativa riformista alla Dc. Senonché questa era solo la posizione dei miglioristi (Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, Cervetti, Umberto Ranieri), per i cosiddetti "ragazzi di Berlinguer" (Occhetto, D'Alema, Veltroni, Violante, Mussi, Folena, Angius) il principale nemico era il PS di Craxi, l'avversario politico era il centro-destra della Dc (Andreotti, Forlani, i dorotei), gli alleati strategici la sinistra della Dc e il mondo cattolico. Allora, per dirla con Lenin, "che fare"? Nel 1991 Chiaromonte comunicò a Craxi, ad Altissimo e anche ad altri esponenti politici che il suo partito aveva scartato la proposta dei miglioristi e aveva scelto un'altra via, quella giudiziaria. Lì per lì non fu chiaro cosa ciò volesse dire, poi si è capito, si trattava di un sistematico uso politico della giustizia che si doveva articolare lungo due filoni, da un lato una graduata lotta alla mafia che aveva però per obiettivo immediato la liquidazione di Andreotti e di un pezzo di Dc, l'altro riguardava il finanziamento irregolare della politica, il sistema di Tangentopoli per liquidare Craxi, un'altra parte della Dc e i partiti laici. Diversamente da una parte di Magistratura Democratica e del Pci, invece Falcone aveva un solo obiettivo, quello di condurre per la prima volta nella storia italiana una lotta senza quartiere alla mafia di cui aveva ben chiara l'unità e anche l'articolazione, che ne faceva un autentico "partito criminale" con le sue gerarchie interne. Falcone aveva questo unico e solo obiettivo, cioè quello di distruggere la mafia, che era così impegnativo da non dare spazio a diversivi politici, quali quello della lotta alla Dc o ad una sua corrente. l'accusa di calunnia La prova di questa sua intenzione egli la diede quando incriminò per calunnia il pentito Pellegritti che aveva parlato di Andreotti senza prove e senza riscontri. Uno dei magistrati anche oggi più impegnato sulla teoria della trattativa Stato-mafia, Roberto Scarpinato, scrisse a suo tempo pagine dure nei confronti di Falcone che aveva fatto perdere un'occasione d'oro. Falcone era tutto concentrato nello scontro alla mafia che aveva come momento essenziale il maxi-processo. Una parte del Pci invece aveva in testa tutta un'altra linea che era quella di una lotta molto più graduata e controllata nei confronti della mafia perché l'obiettivo politico immediato era quello di annientare Andreotti. Non si spiegherebbe diversamente l'opposizione frontale del Pci al decreto-legge presentato il 14 settembre 1989 da Giuliano Vassalli con Andreotti presidente del Consiglio che raddoppiava i termini della custodia cautelare rimettendo in carcere i boss usciti per decorrenza di termini. Contro quel decreto il Pci condusse una battaglia frontale in parlamento, d'altra parte è innegabile che Magistratura Democratica e il Pci furono in quella fase sempre contro Falcone. Nel settembre del 1991 Leoluca Orlando, Alfredo Galasso, Carmine Mancuso attaccarono frontalmente Falcone che dovette difendersi al Csm affermando fra l'altro: «La cultura del sospetto non è l'anticamera della verità, ma l'anticamera del komeinismo». Magistratura Democratica, vedi discorso di Elena Paciotti, fu a favore di Meli e contro Falcone per la nomina a consigliere istruttore di Palermo, fu contro l'introduzione della superprocura antimafia e poi la sua assegnazione a Falcone. Sull'Unità del 12 marzo 1992 Alessandro Pizzorusso scrisse un articolo dal titolo: «Falcone superprocuratore? Non può farlo. Non da più garanzie d'indipendenza». Un discorso durissimo su MD e il pool di Milano lo fece Ilda Boccassini. Falcone per MD e per il Pds è diventato "Giovanni" solo dopo il suo assassinio. Dove il circo mediatico ha raggiunto il picco massimo è stato nella vicenda di Mani Pulite. Si trattava di fare un'operazione di alta chirurgia perché il sistema dei Tangentopoli coinvolgeva tutto e tutti, grandi imprese pubbliche e private e tutti i partiti senza eccezione alcuna, compreso il Pci e la sinistra Dc. Il capolavoro del circo mediatico è stato quello di concentrare il fuoco in primis su Craxi e il Psi, poi sul centro-destra della Dc (Forlani e Prandini), quindi sui partiti laici, salvando appunto il Pci-Pds e un pezzo di Dc. il coordinamento Per far questo fu necessario uno stretto coordinamento, infatti ogni sera alle ore 19.00 i direttori o i loro delegati del Corriere della Sera, di Repubblica, della Stampa e dell'Unità si consultavano sulla base delle dritte che provenivano dal pool dei Pm: se allora un trojan fosse stato in azione sarebbero uscite cose straordinarie. Poi siccome il Pci-Pds e le cooperative erano organicamente nel sistema il teorema adottato dai due pool (quello dei Pm e quello dei giornali) fu quello di affermare che Craxi e gli altri segretari del pentapartito non potevano non sapere, mentre il gruppo dirigente del Pds poteva non sapere quello che combinavano ad esempio il segretario e la federazione del Pci-Pds di Milano e i capi delle cooperative rosse. Il massimo della mistificazione fu raggiunto con il processo Enimont e con il modo con cui fu gestito sul piano giuridico e giudiziario il fatto che risultò in modo indubbio che Gardini aveva portato una valigetta con un miliardo nella sede della Botteghe Oscure. Basti pensare che il presidente Tarantola respinse perfino l'escussione di Occhetto e di D'Alema come testimoni. Poi, dopo tutto ciò, caso strano, il viceprocuratore capo di Milano D'Ambrosio e Di Pietro sono stati eletti per più legislature parlamentari nelle liste del Pds. Quindi, come vede, caro direttore, quello che oggi sta accadendo viene da lontano. Oggi il trojan sta mettendo a nudo insieme fatti assai gravi come le frasi su Salvini e una serie incredibile di miserie umane riguardanti magistrati e anche giornalisti che sarebbero solo grottesche, se non riguardassero gli aspetti fondamentali della nostra democrazia, quali la magistratura e il giornalismo.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 25 maggio 2020. Ho cominciato a fare il giornalista in un quotidiano cattolico e mi sono reso immediatamente conto che ero liberissimo di attaccare l' asino dove voleva il padrone, cioè il direttore che rappresentava la proprietà ossia la curia di Bergamo. Era un grande professionista della informazione provinciale, benché fosse un monsignore. Lui comandava e la redazione obbediva. Non c'era spazio per discussioni. Il deus ex machina era Andrea Spada e detestava ogni riferimento sessuale. Mi spiego con esempi. Un giorno, compilando la cronaca di un convegno di esperti economici, scrissi questa espressione: "In seno alla commissione...". L' indomani il monsignor direttore, mi fermò in corridoio e me ne disse di ogni colore. Secondo lui il termine "seno" era equivoco, faceva pensare alle tette, e ciò era sconveniente per lettori cattolici. In un' altra circostanza, recensendo un film western, citai la pistola dello sceriffo. Altra ramanzina, dato che pistola a Bergamo poteva essere un termine adatto a definire il genitale maschile. Mi adattai presto alle regole episcopali, non ebbi nulla da obiettare anche perché Spada era un monarca, come tutti i suoi colleghi di vertice. Una sera, in tipografia, il proto era disperato perché non trovava la rondinella con la quale il prete siglava i suoi corsivi in prima pagina, e urlò: chi ha visto l' uccello del direttore? Mentre il proto pronunciava l' interrogativo, Spada comparve e impallidì. Come osava il capo operaio riferirsi all' uccello del direttore? Don Andrea cassò il volatile sostituendolo con il latineggiante Gladius, versione nobile di Spada. Tutto questo per rendervi edotti del clima imperante in un giornale guidato con mano sicura da un sacerdote. Col trascorrere degli anni, dopo essere passato da una testata all' altra con disinvoltura, divenni amico del Grande Tiranno, persona abile e squisita. Mi invitò a pranzo a Schilpario, in Val di Scalve, e se ne uscì con questa frase: dovrebbe essere lei direttore dell' Eco di Bergamo. Risposi ridendo: sarà difficile che ciò accada, casomai la prima cosa che farei sarebbe ripristinare la sua rondine, il famoso uccello. Scoppiò a ridere. Ultranovantenne, guidava ancora l' automobile, una BMW d' alta cilindrata tutta ammaccata. Gli domandai perché la vettura fosse conciata così e lui, candidamente, rispose: o invecchiando mi si è accorciata la vista oppure mi si è allungata la macchina. Ho voluto ricordare quest' uomo per sottolineare che una volta i timonieri della carta stampata avevano in pugno la situazione e non permettevano a nessuno di fare di testa propria. I giornalisti erano obbligati ad attenersi agli ordini, non erano autorizzati a fare pappa e ciccia coi magistrati e con i politici. Erano costretti a vergare articoli asettici, il compito del cronista era uno solo: riferire quanto vedevano e quanto ascoltavano, senza appoggiare o contrastare questo o quel personaggio influente. L' Eco di Bergamo come tutti i suoi "fratelli" era casto è vergine, non consentiva a noi che ci lavoravamo alcuna deviazione dalla sacralità della stampa. Prima di pubblicare un pezzo era necessario farsi un esame di coscienza. Oggi non è più così. Il costume non soltanto è cambiato ma peggiorato. In questo periodo si apprende che numerosi giornalisti che se la tirano da campioni erano al servizio di magistrati, che dettavano la linea: "Metti in risalto questo particolare o quest' altro". Una dipendenza vergognosa dal potere giudiziario. Sorprende che le organizzazioni della nostra categoria, sempre pronte a castigare gli iscritti all' Ordine perché dicono la verità, o esprimono opinioni legittime, non fiatino di fronte alle malefatte di colleghi che sacrificano la loro libertà agli interessi di coloro i quali spifferano notizie riservate o addirittura gonfiate o distorte. I giornali più importanti, dal Corriere a Repubblica, proteggono i loro infiltrati i quali fanno l' interesse delle fonti e non rispettano i lettori. Non c' è verso di leggere una riga sui giornaloni di quanto avviene al loro interno. L' importante però è sapere con chi abbiamo che fare.

Giornalistopoli, la (vera) mappa del mainstream al servizio delle Procure. Rec News il 24/05/2020. Attorno a Luca Palamara e alla questione del ricambio delle toghe, si era stretto un manipolo di giornalisti televisivi e della carta stampata, volti noti compresi. Le carte della Procura di Perugia parlano chiaro: attorno a Luca Palamara, il togato finito nella bufera “Magistropoli”, si era stretto un manipolo di giornalisti televisivi e della carta stampata, noti e meno noti. In alcuni casi i documenti raccontano di normali rapporti lavorativi. Le telefonate, gli incontri, le domande – certo – la voglia di cogliere un retroscena. Ma in alcuni casi quello che nell’Inchiesta di Perugia appare strano, è quel vezzo tipico delle lobby di voler costruire gli eventi più che stargli dietro. Di influenzare, posizionare, mettere l’uomo giusto nel posto giusto. “Quindi io a te ti metto già a Torino”, dice l’11 aprile dello scorso anno Liana Milella di Repubblica. “Mettimi a Roma a me, stai buona”, le risponde Palamara. Non è l’unica del quotidiano romano a scambiare impressioni con Palamara. A raccogliere i “messaggi” del magistrato che voleva far trapelare la sua buona disposizione verso le Procure inquirenti, era anche Francesco Grignetti, che stando a quanto riportato si era ritrovato a raccogliere un testo dettato dal magistrato. “La telefonata – scrivono dalla Procura di Perugia – era improntata sulla dettatura di Palamara”. Leggendo le carte, infatti, quello che si evince con chiarezza è l’affaccendamento del magistrato, apparentemente preoccupato di far passare all’esterno quel tanto di utile ad agevolare determinati piani, a discapito di chi voleva rovinarli. Un gioco a scacchi dove le pedine erano i giornalisti, le stesse toghe, chi tra i politici poteva mettere a disposizione una parola che contasse. Sono giorni concitati, scanditi da numerosi incontri e telefonate. In alcuni casi Palamara si sfoga, in altri si lascia consigliare. In altri ancora, detta o fa dettare agende. Da marzo iniziano le telefonate con Giovanni Minoli – il giornalista Rai storico conduttore di Mixer – che culminano a maggio con un incontro. Al centro del discorrere, la possibilità di rilasciare un’intervista “politica” procurata da Silvia Barocci – autrice di Mezzora in Più – con Lucia Annunziata, la conduttrice, ma anche i botta e risposta orchestrati e pubblicati su Repubblica e su Il Fatto Quotidiano. “L’esame delle conversazioni telefoniche – scrivono inoltre gli inquirenti – permetteva di rilevare un contatto intrattenuto con l’indagato (Palamara, nda) con Rosa Polito, giornalista dell’AGI, il cui tenore evidenziava l’esistenza di un rapporto personale”. E dell’AGI era anche Simona Olleni che, si legge, si trova a “concordare” la definizione “del testo di un comunicato di prossima pubblicazione, in risposta agli articoli stampa pubblicati, in data 29 maggio 2019, sulle indagini in corso nei confronti dello stesso” (Palamara). Non resta fuori nemmeno l’Ansa, nella persona di Sandra Fischetti. Anche con lei Palamara si accordava sul tenore delle “dichiarazioni da rilasciare in un comunicato stampa”. Rapporti sono stati registrati anche con Valeria Di Corrado de Il Tempo, e con Giacomo Ortensi Amadori de La Verità. Assieme a Repubblica, testata che ritorna spesso è Il Fatto Quotidiano. Sempre in relazione agli articoli del 29 maggio del 2019, Palamara si mette in contatto con Vincenzo Bisbiglia, ma il discorso scivola sugli incarichi affidati dalla Regione Lazio alla moglie dell’indagato e dei contatti con Nicola Zingaretti. Un nome che fa presa è quello di un giornalista apprezzato per un noto programma Rai, non certo per la cronaca giudiziaria, che Palamara raggiunge tramite Palazzo Chigi. E’ infatti il centralino degli uffici che si occupano dell’attività del premier Conte che gli passano – non è chiaro per quale motivo – Gigi Marzullo, storico conduttore di Sottovoce. “Il tenore delle intercettazioni – scrivono gli inquirenti – permetteva di rilevare l’esistenza di plurimi incontri”. Incontri si erano verificati anche con Giovanni Bianconi del Corriere della Sera, che viene dipinto come persona vicina ai Servizi. Un rapporto delineato in una conversazione intrattenuta tra Palamara e Stefano Fava, quando i due esprimono – scrivono gli inquirenti – “la necessità di avviare una interlocuzione con il giornalista Marco Lillo del Fatto Quotidiano in ordine alla trasmissione di un fascicolo al CSM nei confronti del già Procuratore di Roma Pignatone e del Procuratore Aggiunto Paolo Ielo”. “Io…io…spero che Marco Lillo non arriva a sto punto”, dice Palamara a Stefano Fava. “L’analisi delle conversazioni fra presenti – è scritto nelle carte dell’Inchiesta – consentiva di rilevare alcuni colloqui dai quali si acquista evidenza di come Palamara fosse in grado di incidere sui contenuti di alcuni articoli di stampa”. E’ il caso di alcuni tra gli esempi citati, e anche de La Stampa e di Giuseppe Salvaggiulo. “L’articolo sulla Stampa non era male o no?” Domanda Palamara a Fava. “No quello che è pazzesco dell’articolo sai qual è?” “Eh” “L’hai pagato però?” “(incomprensibile)…lo conosco!” Sempre Palamara, confidandosi con il renziano di ferro Luca Lotti, parlerà di “un passaggio che gli ho fatto mettere” (nell’articolo, nda). Esemplificativa del clima, la domanda che il politico del Pd fa poco dopo a Palamara: “Questa roba incide sull’Aggiunto secondo te?”.

Toghe in redazione. Sansonetti: «Con Palamara intercettati anche importanti giornalisti». Francesca De Ambra venerdì 22 maggio 2020 su Il Secolo d'Italia. «È esplosa giornalistopoli». È così che Il Riformista battezza il probabile scandalo gemmato da “magistratopoli” sul quale indaga la Procura di Perugia. A chiamare Luca Palamara, leader di UniCost, la corrente “moderata” delle toghe infatti, non erano solo giudici in cerca di promozione al Csm, ma anche i cronisti di giudiziaria. Al momento nulla si sa della loro identità. Il quotidiano diretto da Piero Sansonetti allude a «grandi firme» del giornalismo giudiziario. «Curiosamente – chiosa – queste intercettazioni non vengono pubblicate sui giornali. Eppure, proprio i giornalisti intercettati sono gli stessi che di solito pubblicano, a loro firma, paginate intere di intercettazioni di politici». Sansonetti parla di firme del Corriere della Sera, Repubblica, Stampa «e di svariati altri giornali». E azzarda che «giornalistopoli forse è peggio di magistratopoli». Insieme, spiega, «sono la vera casta». Nomi il direttore non ne fa. Per principio. Ma il suo editoriale qualche rivelazione la concede. «I giornalisti più importanti dei grandi giornali – vi si legge – parlavano con Palamara e partecipavano alle operazioni politiche in corso per determinare i nuovi equilibri nella magistratura». C’è anche un’intercettazione in cui il leader di UniCost ipotizza che «un importante giornalista sia legato ai servizi segreti». Per il direttore, «non è certo un delitto». Eticamente, però, «sarebbe una gran brutta cosa». Un’altra “perla” riguarda il piano concordato tra Palamara e il vicepresidente del Csm dell’epoca per scegliere la strada giusta per influenzare Repubblica. L’opzione è doppia: «Attraverso pressioni sulla cronista di giudiziaria o sul caporedattore». Nel dubbio, si apprende, «il vicepresidente del Csm si offre per parlare con Repubblica ad alto livello». Dalla vicenda, Sansonetti trae una conclusione amara. «Il giornalismo politico, in Italia – dice – , è del tutto subalterno al giornalismo giudiziario. E questo grazie alle grandi campagne moralizzatrici condotte dai giornali negli anni scorsi». Ancora: «Il giornalismo giudiziario, non tutto, certo, ma quasi tutto, è assolutamente eterodiretto e privo di indipendenza. E dunque non è più giornalismo».

Piero Sansonetti: "Caso Palamara, Travaglio, Davigo, Gratteri e Di Matteo a capo del partito dei pm. Giornalisti ai loro ordini". Tommaso Montesano Libero Quotidiano il 23 maggio 2020. «Non sorprende, almeno a me, che i grandi giornali siano agli ordini - non subalterni, ma agli ordini - dei pm. A me sorprende il silenzio, che su questa vicenda non sia uscito nulla: la notizia è questa. Eppure dentro ci sono i nomi più prestigiosi». Questa è la premessa da cui parte Piero Sansonetti, direttore del Riformista, prima di entrare nel merito della "vicenda". Ovvero i nomi dei giornalisti che compaiono nelle intercettazioni disposte dalla procura di Perugia nell'ambito dell'inchiesta sul cosiddetto "caso Palamara", dal nome del pm romano indagato in Umbria per corruzione. «Insomma», dice Sansonetti, che ieri sul suo quotidiano ha scritto un editoriale al vetriolo sul caso (titolo: «È esplosa giornalistopoli ma i giornali la ignorano»), «per anni questi giornalisti, e i loro giornali, si sono limitati a firmare le intercettazioni in arrivo dalle procure e adesso, solo perché c'è il loro nome, tacciono? A me non interessa, ma loro - che vivono di relata refero - dovrebbero pubblicarle».

E invece non lo fanno. Perché?

«Perché sono una casta. Proprio come i magistrati: sono due facce della stessa medaglia. Perché il giornalismo italiano dal 1992-'93 ha smesso di esistere, accettando una sorta di vassallaggio nei confronti dei pm. L'indipendenza non esiste: i giornalisti giudiziari sono agli ordini del partito dei pm».

Il biennio 1992-'93 è quello di Tangentopoli: un caso?

«Ovviamente no. Lì si è aperta la ferita e saldato l'asse con i pm. È allora che nasce il "pool" dei giornalisti che segue le inchieste di Mani pulite. Il contrario di ciò che dovrebbe essere: alla faccia della concorrenza tra colleghi, tutti insieme si mettono agli ordini dei magistrati. E da allora la situazione è peggiorata».

Qualcuno potrebbe obiettare: è giornalismo d'inchiesta.

«È inchiesta pubblicare le carte delle procure e dei Servizi segreti? Quando ero più giovane c'erano le famose buste gialle. Chi le riceveva era guardato con diffidenza. Erano le cosiddette "veline". Oggi chi fa lo stesso con le carte delle procure è considerato il re del giornalismo».

Veniamo al "caso Palamara". Quale intercettazione l'ha colpita di più?

«Almeno due. In una Palamara e il vicepresidente del Csm dell'epoca, Giovanni Legnini, discutono su come "orientare" La Repubblica. E lo fanno con grande naturalezza, come se il mestiere della magistratura fosse quello di determinare la linea di un quotidiano. Perché questa intercettazione, da parte degli stessi giornali che da anni accettano le veline dei pm, non è stata pubblicata?».

E l'altra?

«Quella in cui Palamara avanza il sospetto che un illustre giornalista sia legato ai Servizi segreti. Cosa sarebbe successo se un'intercettazione simile avesse riguardato un politico, ad esempio Gualtieri o Salvini? Sarebbe venuto giù l'iradiddio. Invece qui, silenzio».

Nelle carte ci sono le firme giudiziarie di Corriere della Sera, Repubblica e Stampa... 

«Giornalisti che comandano sui direttori, sugli editori e sugli altri giornalisti. Il giornalismo politico, ad esempio, ha accettato l'umiliazione e la subordinazione. Con i "giornalisti giudiziari" il giornalismo è morto, ha smesso di esistere perché non è più indipendente: è al servizio del partito dei pm».

Qual è l'obiettivo di questo partito?

«Il potere. Anche se adesso, come succede a tutti i partiti, è scosso da fratture e lacerato da divisioni interne, come dimostra il "caso Palamara"».

E i leader chi sono?

«Marco Travaglio, Nino Di Matteo, Nicola Gratteri e Piercamillo Davigo. Il giornalismo è loro succube, come prima del 1992 era succube di Dc e Pci. Con una precisazione: allora i giornalisti erano un poco più indipendenti».

Sul Riformista ha scritto che le «grandi campagne moralizzatrici» anti-politica portate avanti sui giornali sulla scorta delle veline delle procure hanno armato il braccio del M5S.

«Come accadeva ai tempi del Pci, i gruppi parlamentari sono il semplice nucleo operativo. I capi sono altrove. Travaglio, ad esempio, è uno dei capi. Gli altri, come diciamo a Roma, "so' ragazzi"».

Il direttore del Fatto Quotidiano non le è proprio simpatico...

«Il silenzio su questa vicenda dimostra che Travaglio ha imposto la sua legge alla maggioranza degli altri giornali italiani. Del resto sono oltre dieci anni che lo inseguono».

Da liberoquotidiano.it il 24 maggio 2020. Tra le intercettazioni del caso-Luca Palamara, che sta travolgendo la magistratura, spunta anche Marco Travaglio, il direttore del Fatto Quotidiano. Nella chat rilanciate da La Verità, infatti, spunta anche Anna Maria Picozzi, la pm, la quale affermava: "Io una ragazza già dei nostri su cui possiamo puntare ciecamente ce l'ho. Non so quanti sono i posti disponibili a Palermo ma uno ce lo dobbiamo prendere". Dunque, quella che viene interpretata come una vera e propria minaccia al capocorrente, ed è qui che spunta il direttore del Fatto Quotidiano: "Se mi dai buca chiamo Marco Travaglio". E Luca Palamara le risponde: "Mi sta simpatico". E non avevamo grossi dubbi al riguardo. Palamara, lo si ricorda, è imputato a Perugia con l'accusa di corruzione. Sospeso dal Csm, parava con due sue colleghe dell'Antimafia a ridosso della votazione per il procuratore di Roma.

Da liberoquotidiano.it il 26 maggio 2020. Marco Travaglio, ospite a Otto e Mezzo, torna sulla vicenda che lo ha tirato in ballo: le chat di Luca Palamara con alcuni magistrati. Nello specifico - come ricorda la stessa Lilli Gruber - a fare il nome del direttore del Fatto Quotidiano è stata la pm Annamaria Picozzi, la quale si è pronunciata così all'ex presidente dell'Anm: "Non mi dare buca se no chiamo Marco Travaglio". A chiarire cosa sia davvero successo è il diretto interessato che mette le mani avanti: "Io non c'entro assolutamente niente. Evidentemente la pm Picozzi avrà voluto fare una battuta, come quelle che fanno i genitori quando dicono ai bambini 'guarda che chiamo l'orco'. Evidentemente ero considerato così dagli amici di Palamara". E ancora, tra le risate: "Io non ho ricevuto alcuna telefonata, anche perché non ho il potere di fare promozioni". Una cosa è certa, anche Travaglio è dell'idea che queste intercettazioni, molte contro Matteo Salvini, denotano un degrado inimmaginabile.

Marco Travaglio vero ministro della giustizia: magistratura corrotta, dare più potere ai Pm. Redazione su Il Riformista il 24 Maggio 2020. Il ministro di Grazia e Giustizia Marco Travaglio, di cui Alfonso Bonafede è un sottosegretario, ha pubblicato sul giornale ufficiale del Ministero un lungo articolo nel quale espone il suo programma politico sul come riformare la giustizia. Molto più potere ai Pm, meno potere ai procuratori. Non ci deve essere nessun controllo. Ogni Pm può controllare il suo territorio, arrestare chi vuole, mettere in prigione, far confessare e occuparsi di scandali politici che sono i principali reati da perseguire. Il programma è quello dello Stato dei Pm. Travaglio premette che gran parte dei vertici della magistratura sono corrotti tranne quelli legati a lui come Nino Di Matteo, Piercamillo Davigo e Nicola Gratteri. Certo Di Matteo che ha accusato Bonafede di trattativa Stato-mafia è un problema in questo caso. Strano che il Csm non fa chiarezza su questa cosa e non apre un’inchiesta. Il ministro della giustizia Travaglio vuole che sia fatta la sua riforma della magistratura, che siano cacciati i pochi magistrati garantisti, che sia fatta piazza pulita al Csm. Vuole assumere direttamente il controllo del partito dei Pm che sta combinando tanti guai e vuole, con i suoi uomini, portare avanti il suo programma politico.

Travaglio ministro della giustizia, vuole potere assoluto della magistratura per uno Stato dei Pm. Redazione su Il Riformista il 3 Giugno 2020. Il ministro della Giustizia Marco Travaglio ha presentato sul giornale ufficiale del ministero, il Fatto Quotidiano, la proposta di riforma del Csm senza neanche ascoltare il parere del sottosegretario Alfonso Bonafede. Il ministro Travaglio ce l’ha molto chiara e propone che venga fatta sparire la componente democratica del Csm. Si perché i due terzi del Csm sono magistrati, casta, nominata dal gioco delle correnti. L’altro terzo invece è una componente democratica che rappresenta i cittadini poiché è eletta dal Parlamento. La componente dei togati è quasi tutta composta dai Pm che sono comunque una minoranza all’interno della magistratura ma così hanno tutte le leve in mano, sono molto più importanti dei giudici e tante volte le loro carriere dipendono dai Pm proprio perché dipendono dal Csm. La proposta di Travaglio è: visto che si è accertato c’è una degenerazione nella magistratura e in particolare nel Csm e nella sua componente togata che è sostanzialmente dal punto di vista del funzionamento corrotta, visto che i magistrati non vengono nominati sulla base dei meriti ma sui giochi di corrente, delle cricche, delle bande, eliminiamo la componente democratica. E’ una proposta geniale, eliminare la parte democratica e dare tutto il potere ai togati e al gioco delle correnti. Così si rende del tutto incontrollato il potere della magistratura. Se passasse la sua proposta avrebbe un potere assoluto, lo Stato verrebbe subordinato alla magistratura e si trasformerebbe lo Stato di diritto in Stato dei Pm.

Marco Travaglio è convinto di essere un magistrato e protesta perché un Pm parla in Tv…Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Giugno 2020. L’altro giorno Marco Travaglio ha scritto sul Fatto Quotidiano un editoriale che iniziava così: «In oltre trent’anni di indagini e processi ne abbiamo viste tante, ma questa ci mancava: un pm che, appena avviata un’inchiesta, emette la sentenza, per giunta sballata, per giunta in Tv. È accaduto l’altro ieri con l’incredibile dichiarazione rilasciata al Tg3 dalla pm di Bergamo Maria Cristina Rota…». Adesso scrivo il mio commento (senza pluralis maiestatis, perché il pluralis spetta solo a Marco): «In oltre 45 anni di giornalismo ne ho viste tante, ma questa mi mancava: Travaglio che protesta perché un Pm parla in Tv…». La storia alla quale si riferisce Travaglio è semplice. Una Pm bergamasca ha ascoltato il presidente della regione e l’assessore alla Sanità della Lombardia per stabilire se ci fossero reati nei loro comportamenti sulla prevenzione del Covid. Ha stabilito che reati non c’erano e, interrogata da un giornalista del Tg3, lo ha detto. Tutto qui. Ha fatto male la Pm a parlare in Tv. Forse ha fatto male, anche se non ha parlato per sputtanare nessuno, né per avvantaggiare l’accusa, come fanno, di solito, molti magistrati. Solo per ristabilire la verità. Ora però fatemi dire due cose sull’editoriale di Travaglio.

1) Spettacolare l’attacco: «In oltre trent’anni di indagini e processi ne abbiamo viste tante…». Capite? Ora si spiegano tante cose: Travaglio è convinto di essere un magistrato. Convinto nel profondo. Lui pensa di avere trascorso la parte più lunga e importante della sua vita nel ruolo di Pm. È sicuro di avere indagato, spiato, raccolto prove, processato, inchiodato, arrestato, forse anche condannato. In questa sua ingenua passione, devo dire, Marco è commovente. Anch’io alle volte mi immagino di esser stato il centravanti del Milan…

2) Dopo questi famosi trent’anni di lavoro, improvvisamente Travaglio si è accorto che un magistrato non dovrebbe parlare in Tv. Eppure quelli che sono solitamente considerati i suoi editori (Davigo, Gratteri e Di Matteo) in Tv ci vanno spesso, o sui giornali, e parlano senza diplomazie dei loro processi. Gratteri, davanti alle Tv, prima ancora che si arrivasse al rinvio a giudizio, appena qualche mese fa, aveva condannato qualcosa come 350 indiziati e aveva sostenuto che la sua inchiesta era la migliore del secolo e che doveva essere portata come esempio nelle scuole e che era la più importante della storia d’Italia dopo il maxiprocesso di Falcone. Parlò liberamente. I giornali lo ripresero. Gli imputati e i loro avvocati furono costretti a stare muti, perché non avevano neanche gli atti. E a nessuno, comunque, interessava il loro parere. E Di Matteo, che parla del processo trattativa-stato-mafia quasi tutti i giorni in diretta Tv? Davigo, per la verità, un po’ meno. Anche perché da un po’ di tempo non sta più in Procura. Però lo ricordo rilasciare una intervista proprio al Fatto, al suo giornale, nella quale dichiarava l’innocenza di Woodcock (forse pure a ragione…) e poi ricordo che fu chiamato a giudicare Woodcock nella commissione disciplinare del Csm e non si astenne. È finito lo spazio per quest’articolo. Peccato. Vorrei parlarvi ancora per ore dei Pm travaglisti che vanno in Tv a fare i processi. Devo fermarmi. Senza negarvi un moto di simpatia per Marco quando le spara così grosse…

Palamara, Filippo Facci e la verità su Marco Travaglio: "Cronista vassallo, burattino della magistratura". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 24 maggio 2020. Una volta un pm mi consegnò l'intero fascicolo di un'inchiesta che stava facendo: «Guarda se ci capisci qualcosa», mi disse. Una settimana dopo glielo riconsegnai, dissi la mia, lui ci lavorò ancora e su quella base chiese un rinvio a giudizio per un ex ministro: tanto per capirci che di vergini non ce ne sono, nel rapporto tra magistratura e giornalisti. Per il resto, sul pool dei giornalisti di Mani pulite - che fu un caso particolare e circoscritto - ho scritto libri interi, poi un paio di volte andai a Palermo e scoprii che gli schieramenti dei cronisti erano ugualmente piallati con questo o quel pm, e contro quell'altro, pro o contro certa fazione antimafia: e le notizie uscivano di conseguenza. Figurarsi a Roma, centro malato del potere. Quando esisteva il giornalismo, non a caso, la regola era che per sapere che cosa succedeva davvero, in una certa inchiesta, bisognava mandare un inviato da fuori, perché i cronisti dei palazzi di giustizia erano troppo dipendenti dalle loro fonti. Normale, detto così. Uno parla con chi conosce e magari gli passa delle notizie, non lo fa con uno che non conosce o che magari di solito gli spara contro. Nel 1991, alla Villa Reale di Milano, non riuscii a parlare con Giovanni Falcone perché era troppo impegnato a discutere con Liana Milella di Repubblica, che era molto sua amica. A me non mi conosceva, quindi ciao. Normale. In Val D'Aosta incontro spesso un importante magistrato romano che mi racconta questo e quello: perché si fida, punto.

NOTIZIE PER GLI AMICI. Si potrebbe obiettare che vale per tutto, per ogni ambiente da cui attingere notizie: le fonti danno le notizie ai loro amici e nella giustizia le fonti più importanti sono i magistrati. Ma non è proprio così. Per la giustizia è più grave: i magistrati sono pubblici funzionari, ci sono notizie in grado di rovinare la gente, e le «notizie» spesso corrispondono a materiale probatorio (non sempre rilevante) che magistrati & giornalisti hanno liberamente deciso che fosse lecito pubblicare, diversamente dagli intenti iniziali del nuovo Codice del 1989 che la giurisprudenza ha progressivamente stravolto. Ora questo stravolgimento se lo ritrovano infilato - capita - nel deretano dopo che a uscire sui giornali sono state carte e intercettazioni di magistrati contro altri magistrati, coi giornalisti in mezzo nel ruolo dei servi sciocchi. C'è un limite a tutto questo? Secondo Vittorio Feltri è un limite che è stato superato - l'ha scritto su Libero di ieri - mentre secondo il direttore del Riformista Piero Sansonetti, collega che stimo, «i cronisti giudiziari sono agli ordini del partito dei pm», come ha detto pure su Libero. Io la metterei così: i cronisti di ogni genere sono agli ordini del potere e basta, e il potere, quello vero, oggi è nelle mani delle magistrature, delle procure, dell'interpretazione di legge, della prassi, della giurisprudenza, delle corti di Cassazione e Costituzionale, nelle mani di un assetto che già era unico al mondo e adesso lo è diventato ancora di più. Le toghe politicizzate hanno vinto una battaglia cominciata coi moti del 1992-1994 perché la politica intanto ha progressivamente calato le braghe, e l'ha fatto con il collaborazionismo di una parte della sinistra, una parte della destra e con l'ignavia di molti intellettuali, infine con il comico vassallaggio della disgrazia grillina. C'è un «panpenalismo» che soffoca la società, un rovesciamento dei rapporti di forza fra il giudiziario e il politico, e in questo i giornalisti hanno avuto un ruolo chiave: è anche colpa loro se è fallito il tentativo di formare un'opinione pubblica che comprendesse i fondamenti dello stato di diritto. Per giornalisti s' intendono i cronisti ma anche i loro direttori, tipo quelli - praticamente tutti - che nel 2010 minacciarono l'apocalisse se fosse stata ritoccata la legge sul segreto istruttorio: una buffa armata di consueti «anti-bavaglio» che proseguirono l'apostolato del pensiero unico giustizialista. Il trend era e resta quello, e c'è chi sulla saldatura di questi neo equilibri da Stato di polizia (ricordiamo che i magistrati non sono eletti da nessuno) ci ha scommesso al punto da fondare un giornale al completo servizio delle toghe, Il Fatto Quotidiano, specialista nello sponsorizzare alcuni magistrati (contro altri) e ora sostenere in maniera imbarazzante gli utili idioti grillini. Ma il ruolo di Marco Travaglio, il direttore, è sopravvalutato soprattutto da Sansonetti: lui è un primo burattino, intona lo strumento e dà l'esempio all'orchestra, ma resta un burattino che citò Montanelli dicendo che «non bisogna dare del tu ai politici, né andarci a pranzo» ma coi magistrati però ecco, questo si può fare, anche se i magistrati sono uomini di potere e soprattutto di parte, perché sono fonti univoche. È una delle tante doppiezze romane di Travaglio, in un giornale dove si fa copisteria giudiziaria e si occupa della «verità» e dei «fatti» (quotidiani) perché prima che a condannare o ad assolvere, i processi servono ad accertare i fatti». Sono malati.

LE FONTI INAFFIDABILI. Per il resto, che cosa abbiamo scoperto? Che sì, il limite è stato superato assieme a molti altri limiti che intanto sono stati superati dalle parti dello strabordante potere giudiziario, che ormai combatte solo se stesso con guerre intestine dove i servi sciocchi non sono solo i giornalisti, ma anche i politici. Le intercettazioni che Libero ha pubblicato, per una volta, hanno rotto il meccanismo e disvelato l'omertà di chi, i giornalisti stessi, compaiono in intercettazioni che tuttavia si sono guardati bene dal pubblicare. Ma non è esplosa «giornalistopoli» perché i giornalisti l'hanno ignorata, e per forza: ma le carte circolano lo stesso e lo sputtanamento è grandioso. Ci sono intercettazioni con magistrati che decidono su come «orientare il quotidiano» Repubblica (non due toghe scalzacani: uno era vicepresidente del Csm, l'altro l'ex segretario dell'Associazione magistrati, leader della corrente Unità per la Costituzione) e un'altra toga che straparla di un cronista che sarebbe legato ai servizi segreti (che sono le fonti più inaffidabili in assoluto). Insomma: la situazione è grave ed è anche seria, ma non ci stracciamo le vesti perché ci abbiamo fatto il callo. Siamo vecchi e stanchi. In questa fase i giornalisti hanno un padrone che è la magistratura. Forse è una dinamica irreversibile. Molti giornali si sono messi sull'attenti, si sono scordati pezzi del Codice penale, pezzi importanti delle garanzie che la legge prevede per gli imputati. E questo da un pezzo. Che cosa sia o fosse il segreto istruttorio, i magistrati e i giornalisti hanno preso a raccontarselo da soli: un tempo pubblicare cartacce serviva a vendere più copie, ora non credo proprio. A peggiorare le cose, e a rendere più vergognoso il ruolo del giornalista giudiziario, c'è poi che il ruolo della stampa è diventato fisiologico alle inchieste, oltreché alle guerricciole interne tra magistrati. Travestita da libera circolazione delle notizie, la pubblicazione di certe carte piuttosto che altre si traduce in un effetto pratico e politico e civile: se esce il tuo nome sul giornali - le nuove cancellerie - c'è da chiamare l'avvocato, perché qualcosa significa sempre: fa niente se non risulti neppure indagato. Così i giornalisti diventano propaggini istruttorie e magari se ne vantano pure, pensano che c'entri qualcosa col mestiere che volevano fare da giovani. Quindi, ancora: che cos' è cambiato? Forse sono cambiate molte cose, compreso un diluvio di intercettazioni e di «trojan» che tempo fa non c'erano, e che oggi, troppo spesso, si accompagnano a procedimenti che poi non reggono il vaglio dei processi. Quelli dei tribunali, almeno: i processi imbastiti sui giornali, beh, quelli funzionano ancora bene, ora come allora. E i giudici, pardon i giornalisti, mettono sempre la firma in fondo ai loro atti.

Magistratopoli si allarga a macchia d’olio e coinvolge i giornalisti al soldo dei servizi segreti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Maggio 2020. Dopo magistratopoli ora scoppia giornalistopoli. Ma se i giornali sono stati molto silenziosi sullo scandalo Csm (e restano per abitudine silenziosissimi su qualsiasi scandalo che riguardi i magistrati), ora diventano veramente muti su giornalistopoli. Muti al 100 per cento. È un ordine di scuderia. Non ci sarebbe niente di male. Le intercettazioni che toccano i più importanti giornalisti dei più importanti giornali italiani, messe a disposizione degli stessi giornali dalla Procura di Perugia che indaga sul caso Palamara, sono pure e semplici intercettazioni e non dimostrano che esista alcun reato da parte dei giornalisti. Sono intercettazioni infami, come sempre lo sono le intercettazioni. Dunque, a rigor di logica, perché bisognerebbe pubblicarle? Per una sola, piccolissima, ragione. Perché i giornalisti che stavolta sono stati intercettati sono esattamente gli stessi che di solito pubblicano paginate intere di intercettazioni, generalmente ai politici o ai loro amici o familiari, sebbene queste intercettazioni non contengano nessuna notizia di reato. Spesso, anzi, pubblicano intercettazioni che sono ancora segrete, e che qualche Pm ha deciso di far filtrare per mettere in difficoltà gli indiziati, o per ottenere qualche aiuto nell’inchiesta o, più semplicemente, per iniziare a punire non essendo sicuri di poter poi ottenere la condanna, visto che le prove latitano. Le intercettazioni, e la loro pubblicazione, hanno un effetto fondamentale e incontrollato e immediato: sputtanano. Comunque, chiunque. Nella pubblicazione generalmente non c’è mai un’opera di mediazione o di ragionamento. Mai un elemento a difesa o una proposta di attenuanti. C’è un solo ragionamento, evidentemente, che viene fatto nelle redazioni dei giornali: quali conviene pubblicare, quali è meglio censurare. Se il giornalismo italiano non fosse quasi interamente sottomesso alla logica delle Procure e delle intercettazioni, non ci sarebbe nessun motivo per stupirsi del fatto che restino segrete le intercettazioni che riguardano le principali firme di giudiziaria (e non solo di giudiziaria) del Corriere della Sera e di Repubblica e della Stampa e di svariati altri giornali. Sono tutte intercettazioni che son state prese con i trojan sul cellulare dell’ex procuratore aggiunto di Roma Luca Palamara. Esattamente uguali a quelle che furono ampiamente pubblicate perché riguardavano uomini politici. Luca Lotti, considerato all’epoca vicino a Renzi, è stato praticamente vivisezionato. Sebbene la legge proibisse le intercettazioni dei suoi discorsi privati: è vietato intercettare i parlamentari, e Lotti è un parlamentare. È vietato anche perché è previsto dal buonsenso, e dalla Costituzione, che un dirigente politico debba avere una parte della sua attività che resti riservata. Può essere una attività di diplomazia, di compromessi, di trattative, di accordi. Senza queste cose la politica non esiste. La politica non è solo retorica. È anche governo. E il governo non si fa gridando slogan e basta. E invece sui politici nessuna indulgenza, anzi, nessun rispetto della legalità. L’ordine di servizio, in questo caso è: sputtaniamoli. Anche se non hanno fatto niente di male.  Tutto cambia se invece le vittime del trojan diventano i magistrati e i giornalisti. Cioè la casta. Sarà forse giunto il momento di dirlo: la casta, la vera casta, è quella; la corporazione potentissima che raduna la parte più aggressiva e politicizzata della magistratura e del giornalismo. Diciamo, più semplicemente, il partito dei Pm. Il cui leader massimo, non a caso, non è un Pm ma un giornalista. È Marco Travaglio. Noi abbiamo dato solo uno sguardo a queste intercettazioni. Cosa ci dicono? Che i giornalisti più importanti dei grandi giornali parlavano con Palamara e partecipavano alle operazioni politiche in corso per determinare i nuovi equilibri nella magistratura. C’è una giornalista che dice a Palamara che se l’avesse saputo prima (non ha importanza cosa) l’articolo lo avrebbe scritto lei e in un altro modo. Viene avanzata, da parte di Palamara, l’ipotesi che un altro importante giornalista sia legato ai servizi segreti. Che certo non è un delitto, però dal punto di vista dell’etica giornalistica, se fosse vero, sarebbe una gran brutta cosa. Perché, per dire, magari preferirei essere informato da persone che non hanno da rispondere ai servizi segreti, non vi pare? Poi c’è addirittura un lungo colloquio tra Palamara e il vicepresidente del Csm dell’epoca nel quale si discute di come sia possibile influenzare Repubblica, se è meglio farlo attraverso pressioni sulla cronista di giudiziaria o sul caporedattore, e il vicepresidente del Csm si offre per parlare con Repubblica ad alto livello, e si discute della necessità di una “azione di orientamento” e si dice quale linea deve passare all’interno di quel giornale. Non ho fatto nomi. Non mi interessano i nomi. Quello che è bene che si sappia è la sostanza: oggi il giornalismo politico, in Italia, è del tutto subalterno al giornalismo giudiziario. Questo grazie alle grandi campagne moralizzatrici condotte dai giornali negli anni scorsi. Cioè le campagne che hanno demolito la reputazione della politica e messo in discussione persino la necessità della democrazia, dipinta come un sistema sostanzialmente corrotto. Queste campagne sono state guidate dalla magistratura (e dalla sua rappresentanza parlamentare, cioè i 5 Stelle), e forse dai servizi segreti. In questo modo è stato distrutto il giornalismo politico ed è stato reso un sottoprodotto del giornalismo giudiziario. Il giornalismo giudiziario – non tutto, certo, ma quasi tutto – è assolutamente eterodiretto. E, per definizione, privo di indipendenza. E dunque non è più giornalismo. La gigantesca opera di reticenza di questi giorni dimostra che le cose stanno esattamente così. Che il giornalismo in Italia non esiste più. Che giornalistopoli esiste, è forte, e non ha nemici. Dunque non sarà stroncata. E magistratopoli regge e non si sgretola proprio perché è sostenuta da giornalistopoli. Se poi vi aspettate che qualche giornale o qualche Tv vi racconti queste cose, siete proprio ingenui. L’informazione, quasi tutta, ormai è agli ordini del Fatto.

E’ scoppiata Magistratopoli, ma stampa e tv tacciono per servilismo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Hanno arrestato un magistrato, e noi partiamo dall’idea che sia innocente. Come molti politici, molti calabresi o siciliani, molti architetti, imprenditori, operai, idraulici e medici. Succede spessissimo che una persona arrestata sia innocente. E quando uno viene arrestato e poi si scopre che è innocente, e che quindi gli è stato arrecato un danno gravissimo che ha sfregiato la sua vita, quando succede questo è l’unico caso, nel vivere civile, in cui nessuno viene chiamato a pagare per l’errore. È un errore ammesso. Se un medico sbaglia lo si stanga, se sbaglia un magistrato, spesso, lo si promuove. Il magistrato arrestato si chiama Carlo Maria Capristo, è un magistrato di altissimo grado, un Procuratore, ha una lunga carriera alle spalle. È accusato di un reato molto grave: non di avere aggiustato una sentenza o un procedimento, favorendo un imputato, ma dell’esatto contrario: di avere fatto pressioni su un Pm perché mettesse nei guai degli innocenti. Cioè di avere abusato dolosamente del suo potere per vessare persone per bene. Questo è l’unico caso (la presenza del dolo) nel quale anche un magistrato può essere processato.

Il dolo viene considerato particolarmente grave quando è a favore di un imputato, in quel caso si finisce proprio in cella, perché si viene considerati traditori della funzione punitiva della magistratura. Se il dolo invece viene esercitato “contro” un imputato, il reato è considerato un po’ meno grave e quindi si ricorre agli arresti domiciliari. L’arresto domiciliare di questo Procuratore, e le indagini avviate su un altro Procuratore (quello di Trani) che sarebbe stato in qualche modo suo complice, avviene proprio nei giorni dello scandalo Csm. Cioè mentre su alcuni giornali (pochi) vengono pubblicate paginate di messaggi e intercettazioni realizzate sul cellulare di Luca Palamara (ex capo dell’Associazione Magistrati ed ex membro del Csm) grazie all’uso di quel maledetto aggeggio che è il Trojan. Cioè un virus informatico che trasforma il tuo cellulare in una centralina di spionaggio come quelle che si usavano nella Rdt ai tempi del regime comunista. Le intercettazioni pubblicate sui giornali hanno raccontato delle lotte tra correnti della magistratura e hanno scatenato nuove lotte fratricide. Il Partito dei Pm, che in questi 25 anni è stato – in genere senza farsi notare – un pilastro del sistema politico, nel nostro paese – capace di influenzare sia le scelte politiche sia, largamente, la selezione dei gruppi dirigenti – improvvisamente si è frantumato. Anche grazie agli scontri che si sono aperti nei 5 Stelle (che sono la rappresentanza parlamentare del partito dei Pm) e alla furia fratricida nelle correnti più reazionarie e giustizialiste delle toghe. Ora possiamo tranquillamente dire che ci troviamo di fronte a un fenomeno che – usando un vecchio linguaggio giornalistico – potremmo chiamare “Magistratopoli”. Come la vecchia Tangentopoli. Come allora, a creare il fenomeno non sono tanto i reati, che – francamente – soprattutto in questa occasione o non ci sono o sono minimi – ma il clima che si è creato: un inseguirsi di sospetti, accuse, vendette, e la conseguente perdita verticale di autorità morale. La magistratura si è mostrata finalmente al pubblico per quel che realmente è: il luogo di esercizio di uno straordinario potere, politico – e persino fisico – sulla società italiana, che però pretende invece di essere un luogo di moralità e di etica pubblica. Cos’è in realtà la magistratura: in un’enclave intoccabile, che impone le sue leggi a se stessa, che lottizza, che patteggia, che commercia favori, posti, Procure e naturalmente molto potere.

·         Voto di Scambio mafioso= Clientelismo-Familismo.

Voto di scambio. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il voto di scambio è un fenomeno che, nell'ambito della politica, si riferisce all'azione di un candidato il quale, in cambio di favori leciti o illeciti, prometta ad un elettore di ricambiare il voto da parte di quest'ultimo con un tornaconto personale, o con una promessa dello stesso. Perché ci sia reato non c'è bisogno dello scambio di beni o di prestazioni, ma è sufficiente la promessa o l'accordo fra le due parti. È praticato talvolta da organizzazioni criminali, spesso di tipo mafioso, d'intesa con gruppi politici: questa fattispecie nell'ordinamento italiano definisce il reato di scambio elettorale politico-mafioso.

Cenni storici. Questa voce o sezione sull'argomento diritto penale non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti attendibili secondo le linee guida sull'uso delle fonti. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Il reato era già codificato anche nel diritto romano: la fattispecie era prevista da una lex Baebia e poi confermato da una Lex Tullia proposta da Cicerone. Il reato di ambitus colpiva comportamenti paragonabili al voto di scambio attuale. Fu però proprio Cicerone che assunse la difesa di Lucio Murena accusato di tale reato. L'orazione dal titolo pro Murena ci è pervenuta.

Tipologia. È possibile distinguere tra un voto di scambio cosiddetto "legale" ed uno "illegale". Il voto di scambio "legale" è frutto del clientelismo politico e consente, a chi ne usufruisce, di vedere soddisfatta una propria richiesta legittima in cambio del voto. Si pensi ad un campo destinato all'agricoltura che diventa edificabile, in seguito alla modifica del PGT. Se tale modifica di destinazione d'uso è fatta nel rispetto delle norme vigenti non determina alcun reato, ma consente al proprietario del terreno di vedere legalmente accresciuto il proprio patrimonio personale. In cambio il politico guadagna il consenso di quell'elettore. Il voto di scambio "illegale" è quello in cui un politico offre in cambio del voto qualcosa che non è legittimato ad offrire. Per esempio un posto in un'Amministrazione pubblica con un concorso pubblico addomesticato o il condono di un abuso edilizio non condonabile o il cambio della destinazione d'uso di un immobile in violazione alle norme del PGT.

In Italia il voto di scambio non è di per sé una fattispecie di reato autonoma, tranne che nel momento in cui possa essere ascritto a soggetti a cui possa essere contestata attività di cui all'art 416 bis del codice penale italiano. Il voto di scambio può manifestarsi in un rapporto diretto fra politico ed elettore e/o con l'interposizione di interessi di organizzazioni mafiose, in cambio di denaro o di una raccomandazione per un posto di lavoro. Nel 1992 venne introdotta, per contrastare le organizzazioni di stampo mafioso la fattispecie dello scambio elettorale politico-mafioso. Il 16 aprile 2014 il senato ha approvato in definitiva la modifica dell'art 416 che disciplina le sanzioni penali sul voto di scambio politico-mafioso. Il nuovo testo dell'articolo 416-ter prevede che chiunque accetti la promessa di procurare voti in cambio dell'erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità (cancellato il termine ''qualsiasi'' riferito ad altre utilità) è punito con la reclusione da 4 a 10 anni mentre, nella vecchia formulazione, la reclusione era compresa da 7 a 12 anni. Votarono a favore della riforma: Sel, Scelta civica, PI, Autonomie, Gal, Ncd, Fi, e Pd. La Lega Nord si astenne, mentre votarono conto i senatori M5S (proprio a causa della diminuzione degli anni di condanna inizialmente previsti). Con la dizione <<altra utilità>> si intende anche un contratto di lavoro.

Voto di scambio e elezioni primarie. Il voto di scambio non è penalmente perseguibile nell'ambito delle elezioni primarie che sono questione interna ai partiti politici e regolata dai rispettivi statuti, non da leggi ordinarie dello Stato che possano prevedere una figura di reato e l'arresto. Infatti, diversamente dagli Stati Uniti dove le elezioni primarie sono previste in Costituzione per tutti i partiti e regolate quindi da leggi, in Italia sono i singoli partiti a decidere lo svolgimento di elezioni primarie e a gestirne la relativa organizzazione. Pur recependo pienamente (o copiando per esteso) la legge elettorale nazionale, quindi con le stesse garanzie di base di voto personale, eguale, libero e segreto, la violazione di queste regole previste negli Statuti interni di partito può concretamente essere "punita" con l'espulsione dell'iscritto e la dichiarazione di nullità della scheda elettorale relativa.

Voto di scambio e ricatto occupazionale. A volte si tratta di vere e proprie somme di denaro di piccola entità, specialmente per le elezioni minori (comunali o provinciali). Più spesso si tratta di favori meno palesi da individuare. Da quando, ad esempio, esistono leggi che permettono contratti di lavoro di tipo flessibile (a tempo o collaborazione), chi ha il potere di offrire lavoro, cioè imprenditori o anche amministratori al potere desiderosi di ricevere la conferma del loro mandato, usano assumere, o promettono solo di farlo prima delle elezioni, ingenti numeri di giovani con contratti precari, così da forzarli al voto per loro in cambio della conferma del lavoro. Questo ovviamente poteva accadere anche in passato da parte di chi opera nel nero ed è molto più frequente in realtà di forte disoccupazione, per lo più al sud. In questo caso il "voto di scambio" è legato ad un più generale ricatto occupazionale che permette, grazie alla disoccupazione, di acquisire grandi poteri sulla pelle, e grazie a volte alla complicità, di chi abbia bisogno.

Voto di scambio e organizzazioni criminali. Altre forme più gravi, quanto efficaci, di "voto di scambio" sono quelle per cui viene sfruttata, nel corso di consultazioni elettorali, l'influenza che gli ambienti mafiosi esercitano su gran parte della popolazione per far confluire i voti su una determinata parte politica che ha favorito, con leggi o con la concessione di appalti per la costruzione di opere pubbliche, lo sviluppo delle attività imprenditoriali della mafia. Questo fenomeno ha avuto inizio alla fine degli anni cinquanta del XX secolo quando il fenomeno mafioso cominciò ad assumere le caratteristiche tipiche di una azienda multinazionale e si è radicata nel settore delle costruzioni e della finanza internazionale. Questo ovviamente può avvenire anche in maniera meno grave, attraverso gruppi che hanno una qualsiasi influenza, imprenditori, enti religiosi, sindacati, associazioni; ciò che però rende l'atto illegale e spregevole è l'abuso di potere teso a elargire favori, spesso illegali, in cambio del voto o anche la coercizione al voto da parte di chi ha, non un'influenza, bensì un potere sociale che gli permette il ricatto.

Il rilevamento illecito del voto. Detto questo, il problema del "voto di scambio" è sempre quello di riscontrare oggettivamente che quella persona in particolare abbia votato quel partito, uomo politico preciso, il che sarebbe teoricamente impossibile grazie al voto segreto. In realtà di metodi ce ne sono diversi, specialmente grazie alla preferenza, in cui si scrive il nome del candidato e lo si può scrivere in modo riconoscibile e alla presenza di tanti seggi che delimitano molto il loro àmbito, da quando però esistono e sono così diffusi apparecchi fotografici di piccole dimensioni e digitali, quindi senza meccanismi rumorosi, il "voto di scambio" è diventato semplicissimo da effettuare. L'elettore corrotto entra nel seggio elettorale, segna la scheda e la fotografa con il telefono cellulare o la fotocamera, poi mostra la fotografia al politico o chi per lui che gli elargirà il favore richiesto. Per questo motivo, durante il Governo Prodi II, sono state stabilite con decreto il 1º aprile 2008 regole severe e pene esemplari fino all'arresto per chi si reca a votare munito di una fotocamera inclusa quella del telefono cellulare. 

Clientelismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il clientelismo – o semplicemente clientela – in politica è una pratica per cui personaggi influenti o individui inseriti in amministrazioni pubbliche instaurano un sistema di favoritismi e scambi (fondato sull'assegnazione arbitraria di risorse, prebende, benefici o posti di prestigio nel panorama politico-sociale) con chi non avrebbe alcun titolo per godere di tali favori. Il termine clientelismo deriva dal latino "cliens". Il cliens in età romana era quel cittadino che, per la sua posizione svantaggiata all'interno della società, si trovava costretto a ricorrere alla protezione di un "patronus" o di una intera "gens" in cambio di svariati favori, talvolta al limite della sudditanza (applicatio) fisica o psicologica. L'attuazione della condizione di cliente in epoca romana avveniva attraverso la forma della deditio, che consisteva nell'usufrutto di un bene pubblico (ad esempio di porzioni di ager publicus) su concessione (in precarium) del patronato che si appropriava di tale bene. Il cliente era obbligato nei confronti del proprio patronus in quanto doveva a questi il voto nelle assemblee (la votazione era espressa pubblicamente) e doveva aiutarlo qualora fosse stato impegnato in guerra. L'istituto della clientela, sviluppato agli inizi della storia di Roma in quanto rapporto giuridico, andò assumendo una dimensione essenzialmente sociale nell'età imperiale. Molti autori latini, soprattutto coloro che provenivano dalle province della Roma antica (ad esempio il poeta Marziale), vissero personalmente la condizione di cliente, che cionondimeno garantì loro vantaggi e appoggi di diverso tipo.

Accezione moderna. La pratica del clientelismo tende a garantire il reciproco interesse o il mutuo vantaggio tra chi fornisce i benefici e chi ne ottiene il controcambio. Essa è finalizzata spesso, da parte di chi se ne avvantaggia, al mantenimento, con scopi lontani dal bene collettivo e dall'interesse stesso della società civile (ragion per cui assume le forme di un vero malcostume), di un posto di potere assegnato dalla carica pubblica. L'assegnatore può occupare a sua volta la posizione di potere per effetto di simili pratiche indebite, ed è indotto a perpetuare il sistema nominando individui conosciuti che non tenteranno ad indebolirne la posizione. Il clientelismo si distingue dal familismo per l'attuazione di un complesso di favoritismi e protezioni limitatamente ad una cerchia familiare o in qualche modo confinata ai rapporti di parentela. In linea di principio, il clientelismo si contrappone alla meritocrazia, in quanto prevede la nomina di conoscenti o personaggi influenti indipendentemente dalle effettive capacità e da doti meritorie.

Aspetti sociali ed economici. I governi sono particolarmente sensibili ad accuse di clientelismo, in quanto sono preposti alla tutela del denaro dei contribuenti. Molti governi democratici prevedono forme di trasparenza amministrativa nella contabilità e nell'appalto di servizi, ma spesso non è facile comprendere quando una nomina legittima ad una funzione governativa ricade in un caso di clientelismo. Non di rado, un politico si circonda di persone subordinate altamente qualificate con cui sviluppa amicizie sociali, di affari o politiche, che successivamente portano ad accuse di clientelismo in occasione di nomine alle funzioni pubbliche o della concessione di appalti. Inoltre, spesso il politico gode della sua posizione influente proprio grazie all'assistenza di personaggi appartenenti alla propria cerchia. Il clientelismo appare spesso "percepito" dalla pubblica opinione, più che essere dimostrato e avvalorato da prove fattuali. In molti casi, il livello di qualifica del presunto "cliente" può essere verificato solo a posteriori. Nei settori privato e pubblico esistono pratiche affini come la raccomandazione e la good ol' boys network (ovvero la generica discriminazione a favore del proprio gruppo sociale, pur in assenza di veri e propri rapporti clientelari). Ancora una volta, è difficile delineare il confine tra clientelismo e normali conoscenze (networking). Inoltre, possono esistere rapporti personali e conoscenze nel settore privato, che possono portare allo scambio di informazioni o favori tra persone influenti. Tale pratica è detta capitalismo clientelare quando coinvolge direttamente anche esponenti del settore pubblico; in ogni caso, è una violazione etica dei principi del mercato, e spesso espressamente sanzionata. Queste pratiche sono ulteriormente favorite nel caso di società con sistemi legali inefficaci. I costi socioeconomici di tali usanze ricadono sulla società sotto forma di: minori opportunità di fare impresa per la parte non coinvolta, riduzione della concorrenza nel mercato, prezzi gonfiati, diminuzione della crescita economica, investimenti inefficienti, scarsa motivazione nelle organizzazioni coinvolte e, non ultima, riduzione dell'attività produttiva. Un costo più immediato si manifesta in appalti gonfiati, scarsa qualità delle opere pubbliche e dei più importanti investimenti privati.

Clientelismo e macchina politica. Per macchina politica si intende un'organizzazione politica organica e disciplinata nella quale un leader autorevole o un piccolo gruppo di individui, riconducibili a un partito politico, dispongono del sostegno di un vasto raggruppamento di sostenitori e imprese (di solito attivi collaboratori o fornitori in termini economici in occasione della campagna elettorale), che vengono incentivati e appoggiati, attraverso varie forme di sovvenzionamento (diretto e indiretto), come forma di riconoscimento per i loro sforzi. La potenza della macchina è basata essenzialmente sulla capacità dei sostenitori di incoraggiare la propria base elettorale a partecipare attivamente al voto, evitando l'astensionismo. La locuzione "macchina politica", di origine statunitense, è generalmente peggiorativa e può connotare situazioni di corruzione politica. Anche se questi elementi sono tipici della maggior parte dei partiti politici e delle organizzazioni che in politica operano, sono del tutto essenziali e connaturati specificamente alla macchina politica, che si basa sulla gerarchia e sugli incentivi legati al potere politico, spesso associati a una forte disciplina interna al partito. Le macchine solitamente hanno un capo organizzatore che ne cura l'organizzazione di base e al tempo stesso dispone di notevole influenza politico-amministrativa, anche se in molti casi non ricopre funzioni pubbliche e la sua influenza dipende dalla capacità di tessere clientele all'indomani delle elezioni e, in caso di successo elettorale, di dare luogo al fenomeno dello spoils system (appropriazione arbitraria di cariche da parte dei partiti). Il controllo è generalmente poco trasparente, e le "macchine politiche" si caratterizzano per legami politici di lunga durata nell'ambito del sistema della democrazia rappresentativa. L'organizzazione di solito è permanente, non fluida, difficilmente legata ad una singola elezione. L'esempio più tipico di macchina politica è costituito dal Partito Liberal Democratico del Giappone, rimasto ininterrottamente al potere per diversi decenni dal dopoguerra. Sovente, il termine clientelismo indica per estensione anche il sistema della macchina politica. Anche se la "macchina politica" è considerata sinonimo di corruzione, alcuni politologi riscontrano anche dei vantaggi in tale sistema, come l'efficienza nella risposta ai cambiamenti politici; la capacità che avrebbe di garantire un'influenza ridotta delle lobby e degli interessi particolari (dei sindacati o delle imprese locali) e il ruolo che potrebbe rivestire nell'integrazione sociale di gruppi etnici svantaggiati, almeno fintantoché la macchina non acquisisce una solida maggioranza.

Da ilsussidiario.net il 22 giugno 2020. In Commissione Antimafia nuovo capitolo dello scontro tra l’ex pm di Palermo e oggi membro del Csm, Nino Di Matteo, e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Proprio Di Matteo ha voluto quella sede per discutere il contrasto in corso che ha portato il Guardasigilli ad affrontare una mozione di sfiducia, poi respinta dal Senato. Uno scontro che nasce dalla proposta del ministro al magistrato palermitano, nel 2018, di diventare capo del Dap, idea cambiata il giorno dopo con la proposta di affidargli la direzione degli Affari penali, incarico rifiutato da Di Matteo. “Ci sto rimanendo male… sappia solo che per la direzione degli Affari penali non ci saranno dinieghi o mancati gradimenti che tengano” gli disse Bonafede. Sono queste parole che Di Matteo chiede che vengano chiarite. Adesso, però, Di Matteo non parla più di rapporti con la mafia, quelli che aveva ipotizzato in occasione della scarcerazione dei boss per il Covid, “ma di qualcuno che, se avesse avuto elementi, avrebbe denunciato”. Per Frank Cimini, giornalista che ha seguito sin dall’inizio il caso Tangentopoli, “Di Matteo cerca di salvare il salvabile. Una cosa è certa: tra lui e Bonafede, uno dei due mente”.

Di Matteo fa dietrofront, non chiama più in causa la mafia, bensì un misterioso personaggio che gli avrebbe soffiato il posto come capo del Dap. Qual è la sua impressione?

«Di Matteo cerca di salvare il salvabile, però il problema di fondo tra lui e Bonafede è che uno dei due mente. Questa storia e quanto avvenuto non sono mai stati chiariti. Di Matteo, oltre che pubblico ministero, siede anche nel Consiglio superiore della magistratura, e non può fare questo tipo di dichiarazioni. Guardiamo cosa ha detto Sebastiano Ardita (consigliere del Csm, ndr) a proposito di Carminati: non poteva uscire dal carcere. Ma è uscito, solo grazie a un formalismo, applicando una legge dello Stato che prevede dei paletti di tempo sulla custodia cautelare. Questo non è formalismo, questa è legge».

Quindi il caso che sviluppi potrà prendere?

«È un circolo vizioso, tutto collegato alla pancia del paese, costruito dalla politica, dalla magistratura e dai giornali. Le responsabilità del paese si costruiscono con titoli di giornale per attirare questa pancia a cui tutti poi si richiamano».

Nella nostra ultima recente intervista lei aveva detto che l’unico che poteva fermare il caos della magistratura era Mattarella. Adesso il Capo dello Stato ha parlato. Ritiene abbia detto quello di cui c’era bisogno?

«Ha un incarico che comporta precisi doveri, che non riesce a soddisfare non solo per colpa sua, ma non può parlare di degenerazione e distorsioni, qui siamo davanti a un sistema, come quando si parlava di servizi segreti deviati. I servizi segreti deviati non sono mai esistiti, esistono solo i servizi segreti e basta. Questo modo di parlare è un modo per minimizzare la questione».

Queste distorsioni fanno parte quindi direttamente della politica e del governo di turno?

«Il sistema è sotto gli occhi di tutti. È venuto a galla grazie a un meccanismo dove ci sono limiti di legge che con l’introduzione dei troian vengono valicati. Ma tutti sapevano anche prima dell’estate scorsa che si parla di nomine a pacchetto, di giochi poco puliti, di magistrati che pensano a tutto tranne che ad amministrare la giustizia. Sono cose di dominio pubblico, perché alcuni giornali hanno pubblicato le cose della prima ondata, e i giornali hanno un rapporto di collusione organica con le procure».

Ad esempio?

«Continuano a titolare “Mafia capitale” anche dopo che la Cassazione ha sancito che non era mafia. Gli articoli sono scritti in modo corretto, ma i titoli no, la gente non legge gli articoli e il messaggio che arriva è che si tratta, appunto, di Mafia capitale».

Da questo caos come si esce?

«Se Mattarella minimizza il problema, non se ne esce.  Credo che il sistema, in questo momento, non sia riformabile, la politica è troppo debole, nel senso che è ricattabile, perché i politici continuano nelle ruberie, e non è in grado di tenere i magistrati al loro posto, perciò fanno quello che vogliono fare: indagini che vengono avviate perché gli conviene e altre che non partono perché non le vogliono fare. Non è un problema elettorale, quella del sorteggio è una stupidaggine. E non è un problema tecnico. Solo la politica può risolverlo, ma è troppo debole».

Tormentone Di Matteo-Bonafede, perché indaga l’anti-mafia se la mafia non c’entra nulla? Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 21 Giugno 2020. Non so voi, ma io non ne posso più. Con tutto il rispetto dei protagonisti, per carità, ma davvero: non se ne può più. Il “tormentone” – cioè la ripetizione martellante ed ossessiva della medesima espressione – funziona meravigliosamente negli sketch comici, o nei successi musicali estivi: nella quotidianità sociale e politica diventa semplicemente insopportabile. Diventa un tormento, che è una cosa molto diversa.  Questo è il caso della diatriba tra il magistrato Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. È di queste ore l’ennesima, solenne intervista nella quale Di Matteo – come leggiamo – rilancia, ribadisce, non molla la presa. Il ministro Bonafede gli ha negato, due anni fa, la direzione del Dap, 24 ore dopo avergliela proposta. Il ministro precisa che le cose non stanno esattamente così, che la proposta era in alternativa alla Direzione Generale degli Affari Penali, e che lui il giorno dopo gli caldeggiò solo quest’ultima. Sfumature, scegliete voi a quale delle due versioni preferite dare credito, non cambia granché. È accaduto che il ministro ha deciso di nominare al Dap non Matteo Messina Denaro, ma un altro pm, Francesco Basentini. Di Matteo non l’ha presa benissimo, e non stentiamo a credergli, ma non batte ciglio e tiene l’amarezza per sé, come si conviene non solo a uomini delle istituzioni, ma in genere quando si tratta di esercizio di una discrezionalità politica, e soprattutto quando questa scelta ha escluso proprio te. È cosa almeno inelegante che sia l’escluso a questionare sulla scelta. A meno che quella scelta non sia inquinata da fatti inconfessabili, tipo un diktat dei detenuti al 41 bis, che a dire della Polizia Penitenziaria, non avevano espresso entusiasmo – pensa tu che sconvolgente notiziona- in relazione a quella eventualità. Poi, due anni dopo, ed è cronaca di questi giorni, Basentini si dimette e viene nominato altro pm, il Procuratore generale di Reggio Calabria, Dino Petralia. Di Matteo – forse ferito una seconda volta nelle sue aspettative – sente questa volta il dovere di telefonare non ad un amico per uno sfogo, ma a Non è l’Arena di Massimo Giletti in diretta televisiva, per raccontare per la prima volta come andò con il ministro, non mancando di sottolineare ripetutamente la contestualità con quei rumors mafiosi. Il Giletti, che da qualche anno si è persuaso di essere un giornalista di inchiesta, coglie l’occasione della vita e ci imbastisce non so più se tre o quattro puntate, perché “la gente deve sapere, e vuole capire” se abbiamo un ministro di Giustizia che prende ordini dai detenuti al 41 bis. Di Matteo deve aver colto la enormità devastante dell’innesco, e nelle successive occasioni precisa di non sapere, anzi di escludere, che questo possa essere accaduto. Aveva fatto una semplice constatazione, quello che in giurisprudenza viene chiamato “un accostamento suggestionante” che, detto tra di noi, sarebbe allora meglio non fare a vanvera, ma che piace ad una certa magistratura “d’assalto”, che la sa lunga sui poteri forti, le trattative, le oscure trame e cose simili. Tipo le indagini leggendarie di Luigi De Magistris, nella gran parte naufragate più che per “insussistenza”, in realtà per “incomprensibilità” del fatto. Il quale De Magistris infatti è ospite fisso della saga “Di Matteo-Bonafede” di Giletti, il quale è attratto senza freni da quel genere di letteratura, e ci sguazza felice. Insomma, Di Matteo lo ribadisce anche da ultimo: niente condizionamenti mafiosi, altrimenti li avrei denunciati subito. Benissimo. Allora di cosa stiamo parlando, da un paio di mesi, abbiate pietà? Dice oggi: qualcuno gli fece cambiare idea. Ah non c’è dubbio, direi che possiamo darlo per scontato. Può essere stata la moglie, il suo capo di gabinetto, un amico dei tempi dell’Università, la lettura di un curriculum, una forte pressione a caldeggiare candidature alternative per la più remunerata carica nella Pubblica Amministrazione, un ripensamento su doti di sobrietà comunicativa (per esempio), o di affidabilità politica (scusate la parolaccia). Possiamo andare avanti per ore. E quindi? Meno male che Giletti ha finito le puntate. Però ora c’è Morra con la Commissione Antimafia (ma non si è detto che la mafia non c’entrava nulla? Boh). Morale della favola, qui si ragiona così: poiché Di Matteo è un magistrato molto esposto nelle inchieste contro la Mafia, chiunque esprima qualche riserva, per esempio nel promuoverlo alla Direzione nazionale Antimafia, o al DAP, o altrove, dovrà essere investigato almeno giornalisticamente fino a quando non giustifichi la sua scelta scellerata. D’accordo, se questo è il nostro destino di cittadini, lo accettiamo con rassegnazione. Ma almeno, possiamo sperare in una qualche conclusione? Diamo anche il tempo per un prossimo istant book dal titolo Chi non volle Di Matteo al Dap, con relative presentazioni, dibattiti e discussioni. Poi però, ad un certo punto, vi scongiuro: stabiliamo un termine di prescrizione dell’atroce misfatto, maturato il quale non ne parliamo più. Hai visto mai che, con l’occasione, il ministro Bonafede finisca per comprendere quale presidio sia quell’istituto di antica civiltà giuridica che ha voluto irresponsabilmente cancellare. Hai visto mai che da questa storia noiosa si riesca a tirare fuori qualcosa di buono.

Karim El Sadi per stampalibera.it il 9 giugno 2020.  “Io non avrei mai firmato una circolare come quella e penso che nessuno dei direttori dell’ufficio detenuti lo avrebbe fatto”. Basterebbero queste semplici parole, pronunciate da Sebastiano Ardita, per nove anni direttore dell’ufficio detenuti del Dap e oggi componente del Csm, per comprendere la sconsideratezza che ha accompagnato la redazione e la delibera della famosa circolare del 21 marzo del Dap. La circolare che di fatto ha consentito a quasi 400 detenuti, tra cui boss mafiosi al 41bis e narcos, di “forzare” le serrature delle carceri, metaforicamente parlando, ottenendo un differimento della pena con detenzione domiciliare per scongiurare il rischio di contagio da Coronavirus in cella. Ardita, intervistato da Massimo Giletti per la trasmissione “Non è l’arena”, andato in onda ieri sera su La7, ha spiegato quali sono le ragioni che lo portano a considerare quel provvedimento del Dap come “inopinato”. La circolare, infatti, è arrivata a seguito del “fatto più grave della storia penitenziaria”, ovvero le rivolte carcerarie dei primi giorni di marzo. Quell’atto “contraddice la sostanza dell’attività dell’amministrazione penitenziaria che consiste nel garantire che in condizioni di sicurezza e di erogazione dei servizi sanitari ai detenuti questi rimangano in carcere”, ha spiegato Ardita per poi aggiungere che “certamente non è una circolare che è nella filosofia della storia dell’ufficio detenuti del ministero della Giustizia”. Il consigliere togato del Csm si è poi soffermato sulle dinamiche che hanno portato alla delibera della circolare firmata il 21 marzo scorso, su mandato di Giulio Romano che quella mattina era assente per ragioni di salute e la garanzia dell’assenso di Francesco Basentini, dalla funzionaria di turno, Assunta “Susy” Borzacchiello, la direttrice del Cerimoniale e relazioni esterne dell’Ufficio del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. “Quella circolare – ha spiegato Ardita – non poteva essere firmata dalla funzionaria di turno perché la funzionaria di turno del Dap, lo ricordo bene in quanto sono stato io ad aver istituito il turno dei funzionari, doveva firmare solo i trasferimenti urgenti per motivi di salute. I turni andavano fatti il sabato e la domenica. Il compito era solo questo quindi – ha sottolineato – durante il turno non si può firmare altro. E’ una regola insuperabile. Pertanto quella circolare, avendo un contenuto enormemente rilevante sotto il profilo politico e dell’ordine pubblico, non solo doveva essere firmata, o dal capo dipartimento o dal direttore generale dell’ufficio detenuti, ma andava accompagnata prima della sua emissione, da un appunto al capo di Gabinetto del ministero della Giustizia o addirittura al ministro della Giustizia stesso”. E di questi fatti, come in seguito ha detto in studio il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, già pm a Catanzaro “non abbiamo ancora ricevuto spiegazioni dagli stessi interessati. Lo stesso Giulio Romano mi pare non abbia detto nulla a riguardo”.

Il ruolo del Dap. Nel corso dell’intervista di Massimo Giletti a Sebastiano Ardita si è parlato in maniera approfondita dell’importanza nevralgica del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, dove Ardita ha lavorato intensamente e professionalmente per lunghi anni. “Il Dap è un posto di grandissima responsabilità nel quale il ministro, assumendosi questa responsabilità, nomina chi vuole. – ha premesso il magistrato catanese – Il problema principale però è che questo è un posto che ha una storia, ed oggi è affidato a una dirigenza di complemento che finisce per non conoscere la realtà. Se tutto va bene per anni e non succede nulla è un conto, ma poi se ci si trova dall’oggi al domani in guerra, come avvenuto nel caso delle rivolte carcerarie, accade che anziché esserci a capo dell’armata il generale che conosce il territorio, la storia e le problematiche, c’è un ufficiale di complemento appena arrivato che normalmente sarebbe stato un addetto al rifornimento delle acque minerali”, ha detto metaforicamente il componente del Csm. “Questo, purtroppo, è ciò che è accaduto nel nostro Paese”.

“Di Matteo sarebbe stato un ottimo direttore del Dap”. E di questo problema, ha aggiunto Ardita, “occorre farsene carico perché il Dap non è una realtà che si può affidare al primo che passa”. “Nel Dap – ha affermato – sono morte persone che per anni hanno svolto quel ruolo tenendo la schiena e sono morte perché non hanno avuto paura di fronte alle rivolte, ai problemi dei carcerati, né alle questioni che riguardavano la mafia e i ricatti allo Stato che sono sempre passati dalle carceri”. In questo senso, ha detto Ardita, “sicuramente Nino Di Matteo è una persona che avrebbe fatto benissimo il capo del Dap perché anzitutto ha una conoscenza qualificata dei problemi, poi perché ha una grandissima umanità, la capacità di credere con passione nel riscatto degli ultimi. Questa – ha spiegato il magistrato – è una delle qualità principali che deve avere il direttore del Dap. Questo perché l’antimafia nel Dap non c’entra. Io vengo da quella cultura e per nove anni ho fatto rispettare le regole che è l’unica legge che paga nel mondo carcerario”. Parlando della mancata nomina di Nino Di Matteo, anche lui consigliere togato del Csm, a direttore del Dap sono intervenuti anche Luigi De Magistris e la giornalista Sandra Amurri. “Bonafede non sceglie un uomo che avrebbe dato garanzie certe come Di Matteo e preferisce uno come Basentini”, ha esordito il sindaco di Napoli. “Basentini non era l’uomo più adeguato per fare il capo del Dap. Inoltre la lettura della valutazione di professionalità da parte del ministro riguardo Basentini la trovo sminuente”. Luigi De Magistris ha poi fatto un’altra considerazione politica sulla scorta dell’intervento a inizio puntata del segretario del Pd Matteo Renzi. “Se Matteo Renzi dice che il tema è come mai si è scelto Basentini? Dato che fanno parte della stessa compagine di governo e della maggioranza a questo punto io credo che all’interno della maggioranza vada posto il tema se il contrasto alle mafie, il mantenimento del 41bis e la chiarezza di fronte al Paese sono temi principali o sono chiacchiere da bar”. In merito alla poca chiarezza e alla nebulosità del governo, anche la giornalista Sandra Amurri, riprendendo la delicata questione della mancata nomina di Nino Di Matteo al Dap da parte del ministro della Giustizia ha affermato che “il Paese deve sapere la verità e Bonafede deve dare spiegazioni”. La Amurri, inoltre, ha voluto rivolgere tre domande importanti durante il suo intervento dirette proprio al Guardasigilli. “Da cronista vorrei porre due domande al ministro Alfonso Bonafede. Se la circolare non è stata la causa delle scarcerazioni per quale ragione si è dimesso chi quella circolare l’ha scritta e chi l’ha approvata? Oppure sono state dimissioni spintonate? E perché queste persone si sono sacrificate? Per coprire chi?”. “Queste – ha detto la giornalista – sono le domande da cui si può ricostruire tutto”.

Tentativi di smembramento del 41bis. In ultima analisi durante l’intervista Sebastiano Ardita, rispondendo alle domande di Giletti, ha infine dichiarato che c’è “certamente un disegno di smembramento del 41bis”. “E’ la storia ad insegnarcelo”, ha continuato. “La storia del contrasto a Cosa nostra è fatta di questo: del tentativo di lavorare con ogni mezzo possibile per smantellare il 41bis, per far cadere le carcerazioni a vita. E’ l’obiettivo primario di un’organizzazione che sta agendo non solo sotto il punto di vista militare ma anche sotto quello dei rapporti economici, politici, istituzionali, che cercherà di sfruttare per abbattere il 41bis. Noi come Stato – ha spiegato il magistrato catanese – dobbiamo difenderci con un carcere civile che rispetti i diritti ma mantenga la detenzione. Il carcere è un baluardo, un luogo nel quale le persone pericolose sono tenute distanti dalla società e sono libere di essere rieducate per poi rientrare in società in condizioni diverse. Questo è il carcere per l’opinione pubblica. Se viene meno questo baluardo e vengono date a fuoco le carceri e i detenuti escono la gente cosa penserà? Sono i fondamenti dello stato di diritto”, ha concluso.

Il puzzo di ‘ndrangheta. Nella vicenda delle scarcerazioni dei boss, di cui si discute da settimane, il sindaco di Napoli, ex magistrato in prima linea nel contrasto alla criminalità organizzata calabrese e i suoi radicati rapporti con le istituzioni, ha detto chiaramente di “sentire la puzza di ‘ndrangheta”. Di fatti furono proprio quegli ambienti grigi in cui mafia e politica convivono, a premere per l’allontanamento di De Magistris dalle sue inchieste a Catanzaro, dopo che lo stesso ex pm venne addirittura indagato e poi archiviato da alcuni magistrati di Salerno, tra i quali, Gabriella Nuzzi, anche lei intervistata ieri da Giletti, che ha raccontato di essere stata a sua volta trasferita e aver subito “una sorta di stalking giudiziario”. Un caso, il suo, poi archiviato. “Questa è la vera mafia”, ha spiegato De Magistris. E la ‘ndrangheta, ha aggiunto, è “l’organizzazione mafiosa avente la maggior capacità di arrivare là dove nessuno può immaginare”. Quindi, tornando alla questione dei moti carcerari, “non mi sembra normale che non si sappia nulla degli 80 evasi e dei morti seguiti alle proteste e sulle circa 500 persone scarcerate. E che tutto ciò sia stato liquidato con un semplice dibattito in Parlamento durante la mozione di sfiducia. Il Paese merita rispetto così come chi ha combattuto la mafia come Piera Aiello (anche lei intervistata in studio, ndr). A me sembra che le responsabilità politiche ogni giorno che passa sono sempre più clamorose. A mio avviso ci sono altre responsabilità”, ha affermato. “Più c’è un clima di nebulosità più penso che si sta andando nella direzione giusta. – ha detto con tono ironico – Bisogna comprendere se non ci sia stata anche una forma di trattativa, anche se non voglio usare questo termine. Il fatto che le cose svaniscono come la nebbia con un po’ di vento… non vorrei che ci fosse qualcuno che si è mosso. E se qualcuno si muove – ha concluso – di sicuro non è il funzionario”.

Il Covid ha fatto esplodere le carceri di tutto il mondo, ma nell’Italia complottista si evoca la “trattativa”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 6 giugno 2020. Durante l’apice della pandemia il malcontento carcerario, poi sfociato in rivolte, non è stato solo un caso italiano. Ma mentre in tutto il mondo nessuno ha visto un disegno criminale ordito da chissà quale “entità”, da noi il retropensiero ha fatto nuovamente da padrone scaturendo non solo interrogazioni parlamentari, ma addirittura inchieste giudiziarie. Durante l’apice della pandemia il malcontento carcerario, poi sfociato in rivolte, non è stato solo un caso italiano. Ma mentre in tutto il mondo nessuno ha visto un disegno criminale ordito da chissà quale “entità”, da noi il retropensiero ha fatto nuovamente da padrone scaturendo non solo interrogazioni parlamentari, ma addirittura inchieste giudiziarie. Oltre al virus biologico, da noi c’è anche il virus complottista che ha infettato le nostre menti. Un problema che rende il nostro Paese uno “Stato di eccezione” anche per questo. Prendiamo ad esempio l’Europa: oltre all’Italia, anche in Francia, Croazia, Svizzera, Romania e Grecia ci sono state rivolte e proteste da parte dei detenuti impauriti per lo stesso motivo nostrano. Nella prigione francese di Uzerch il 22 marzo 200 detenuti hanno preso il controllo di uno degli edifici dell’istituto, incendiato diversi materassi e reso inutilizzabili quasi 250 celle; le ragioni principali delle rivolte sono state la paura del Coronavirus e l’interruzione dei colloqui. Nello stesso giorno diverse proteste di minore intensità sono state registrate anche in altre carceri francesi. Il 14 aprile alcuni detenuti ristretti in Grecia hanno dato vita a una protesta che ha preso la forma di un’astensione dal lavoro; i detenuti, oltre a protestare per la sospensione dei colloqui, chiedevano serie misure per decongestionamento delle sovraffollate carceri, che non sono mai state adottate dal governo.Nelle altre parti del mondo idem. Al carcere brasiliano di San Paolo c’è stata una enorme protesta, presa d’ostaggi ed una evasione di oltre mille detenuti. In Colombia, invece, una rivolta nel carcere di Pasto, nella città di San Juan de Pasto. I detenuti hanno manifestato per due ore, appiccando incendi all’interno del complesso carcerario. Unità della polizia nazionale e la squadra antisommossa dell’esercito sono intervenute per sedare la rivolta. I detenuti chiedevano il rispetto dei loro diritti e la possibilità di ricevere visite dai loro parenti. Tra le richieste: anche la detenzione domiciliare per i reclusi non pericolosi. All’esterno del carcere, diversi membri della famiglia hanno richiesto un controllo della prigione da parte delle agenzie umanitarie. Lo stesso giorno è scoppiata una rivolta nella prigione di Bouwer (provincia di Cordoba in Argentina). I detenuti hanno chiesto di poter scontare la pena ai domiciliari. Hanno denunciato il fatto che la prigione non aveva adottato alcuna misura sanitaria per proteggerli dal Coronavirus. Oppure in Libano dove i detenuti, lamentando un grande sovraffollamento, hanno richiesto di essere rilasciati per paura di essere contagiati. Alcuni video hanno mostrato la rabbia dei manifestanti reclusi nelle proprie celle, mentre cercano di appiccare incendi o rompere le porte. Altri hanno dato avvio ad uno sciopero della fame. Tali episodi hanno causato il ferimento di diversi detenuti, alcuni portati in ospedale per ricevere l’assistenza necessaria. Poi c’è l’Iran dove migliaia di prigionieri hanno organizzato proteste in almeno otto carceri dell’Iran per il timore che potessero contrarre il Covid-19. Secondo fonti giudicate credibili da Amnesty International, le forze di sicurezza hanno reagito usando gas lacrimogeni e proiettili veri, uccidendo così 35 detenuti e ferendone altre centinaia. In una prigione, un altro detenuto sarebbe morto dopo essere stato picchiato. Le richieste dei detenuti di tutto il mondo sono state le stesse. Per chi ha reati meno gravi o per i detenuti in regime cautelare, la possibilità di scontare in regime detentivo domiciliare, avendo così la possibilità di mantenere un distanziamento tra detenuti consono alle misure adottate con l’epidemia in corso, mentre per chi resta a regime detentivo carcerario i detenuti di tutto il mondo hanno richiesto l’applicazione di strumenti atti alla protezione individuale, quali mascherine e guanti. Ma solo da noi, in Italia, c’è chi ha visto un disegno criminale dietro le rivolte. Si evoca la “trattativa Stato Mafia”. Oramai il teorema vale per tutte le stagioni e soprattutto quando si attuano misure per garantire il diritto umano. Tale retropensiero è diventato una spada di Damocle per qualsiasi governo. Reazionario o progressista che sia.

Giovanni Bianconi per il ''Corriere della Sera'' il 19 giugno 2020. «Non è una vicenda personale, ma istituzionale», accusa l'ex pubblico ministero antimafia Nino Di Matteo, oggi componente del Consiglio superiore della magistratura. E nella sede istituzionale che per settimane ha evocato come il luogo per tornare a parlare del conflitto innescato con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sulla sua mancata nomina nel giugno 2018 a capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, la commissione parlamentare antimafia, rilancia: «Nel momento del dietrofront mi fece chiaramente intendere che c'erano stati dinieghi o mancati gradimenti. A chi si riferisse può dirlo solo lui». Subito dopo rivela: «Prima delle elezioni del 2018, in due occasioni, Luigi Di Maio mi chiese se ero disponibile a fare il ministro; la prima volta dell'Interno o della Giustizia, la seconda dell'Interno. Diedi una disponibilità di massima, ma poi nessuno mi ha più chiamato». Un precedente che nella lettura di Di Matteo rafforza i dubbi sul «dietrofront» di Bonafede, e gli fa dire: «Che segnale diamo alla mafia? Non c'è da fare nessuna pace con il ministro perché non c'è stata una guerra; non è un problema di invidiuzze o posti da reclamare, bensì una questione dalle implicazioni istituzionali». Il presidente dell'Antimafia Nicola Morra chiosa: «Mi pare che il dottor Di Matteo abbia parlato con sufficiente chiarezza». Ora in commissione si aprirà la battaglia sull'audizione di Bonafede, ministro grillino che ha contro un pezzo di Movimento. Le opposizioni hanno già annunciato la richiesta, così come Mario Giarrusso, espulso dal M5S. Non a caso i commissari dei Cinque Stelle provano a contrastare o ridimensionare le dichiarazioni di Di Matteo, tentando di proteggere il Guardasigilli. Mentre il commissario del Partito democratico Walter Verini fa sgombrare il campo almeno da una questione; su sua domanda l'ex pm precisa che se avesse avuto elementi per dire che dietro la sua mancata nomina c'erano indizi di una nuova trattativa tra lo Stato e la mafia, il magistrato ha risposto che non si sarebbe limitato a fare una telefonata in diretta tv: «Sarei andato in una Procura della Repubblica». Tuttavia gli affondi di Di Matteo non si fermano. Ricorda che per motivare il suo ripensamento Bonafede cercò di sminuire il ruolo del Dap rispetto all'impegno antimafia, mostrando - dice ora l'ex pm - «di non essere in grado di valutare bene determinate dinamiche della lotta alla mafia. La corretta gestione del circuito carcerario è centrale nel contrasto alle organizzazioni mafiose, sia per dare sostanza al "41 bis", sia per evitare inquinamenti da parte dei servizi segreti, sia per la valorizzazione delle attività della polizia penitenziaria a scopi informativi e investigativi». Inoltre l'alleggerimento del «carcere duro» è sempre stato un pallino dei boss, da Totò Riina in giù, e sebbene il magistrato non abbia prove riaffiorano i sospetti, soprattutto dopo le scarcerazioni legate all'emergenza Covid: «Sono state un segnale devastante, da parte della mafia può essere stato interpretato come un cedimento, e un motivo speranza per loro». Per il magistrato che ha istruito e condotto il processo sui contatti tra capimafia e esponenti delle istituzioni «non si tratta di trattativa», ma poi aggiunge: «È chiaro che le scarcerazioni a me hanno fatto venire in mente le vicende vissute a Palermo, e una possibile analogia con il ricatto portato avanti con le bombe del 1993, di cui ci parlò l'ex capo dello Stato Giorgio Napolitano. Ero preoccupato perché c'erano state le rivolte nei penitenziari, e si pensava che potevano essere state organizzate a un livello più alto dei detenuti saliti sui tetti». Opinioni, impressioni, sensazioni. Cosa diversa, però, dalle «percezioni» su cui ha recriminato Bonafede a proposito di quel colloquio del 2018. «Ridurre tutto a un malinteso o una percezione sbagliata non è corretto - accusa ancora l'ex pm -, perché significa farmi passare per uno che non capisce». Capì invece benissimo, ribadisce, che qualcuno indusse il ministro grillino a cambiare idea. Ora l'ha capito pure l'Antimafia; prossimo capitolo: il prevedibile scontro sulla convocazione di Bonafede.

Giustizia, Di Matteo contro Bonafede: “Ora dica chi non mi voleva a capo del Dap”. Alla commissione Antimafia l’ex pm di Palermo cita la frase che gli disse il Guardasigilli il 20 giugno 2018: “Per la direzione degli Affari penali non ci saranno dinieghi o mancati gradimenti che tengano”. Liana Milella su La Repubblica il 18 giugno 2020.  Una “credibilità istituzionale compromessa”. Quella di Bonafede per la nomina di Di Matteo a capo del Dap, prima promessa e poi negata nel giugno del 2018. Ancora l’ex pm di Palermo e ora togato del Csm Nino Di Matteo contro il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Davanti alla commissione parlamentare Antimafia, cioè nella sede istituzionale che Di Matteo ha imposto come condizione per ricostruire il suo contrasto con il ministro della Giustizia, l’ex pm protagonista del processo sulla trattativa Stato-mafia ripete esattamente, ma con molti più dettagli,  quando ha già detto il 3 maggio in una telefonata in diretta nella trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti e due giorni dopo con Repubblica. Per quella telefonata Bonafede ha già affrontato al Senato una mozione di sfiducia individuale che è stata respinta dalla maggioranza. 

La storia dell’incarico al Dap. Lo scontro Di Matteo-Bonafede è ormai noto. Di Matteo lo ribadisce: il 18 giugno del 2018, per telefono, Bonafede gli propose di diventare il capo del Dap, ma il giorno dopo, in un incontro a Roma, quando Di Matteo andò al ministero per accettare, Bonafede gli disse che lui preferiva mandarlo alla direzione degli Affari penali, “il posto che fu di Falcone”. Di Matteo lasciò l’ufficio, ma subito dopo richiamò il ministro per un nuovo appuntamento. Il giorno dopo negò recisamente la sua disponibilità, ma sulla porta Bonafede gli disse: “Ci sto rimanendo male...sappia solo che per la direzione degli Affari penali non ci saranno dinieghi o mancati gradimenti che tengano”. Una frase, quest’ultima, che Di Matteo ritiene debba essere chiarita. Perché, dice l’ex pm, “non è compito mio sapere a chi si riferisse, potrebbe dirlo solo Bonafede, ma ritengo che la vicenda non sia più personale, ma istituzionale”. Nella lunga audizione si susseguono i dubbi di Di Matteo. Come questo: “Bonafede sapeva di aver chiamato un magistrato non gradito a tutti, ma che molti non gradivano, quindi io dico se mi chiami e mi proponi il Dap e poi fai marcia indietro, allora  perché mi hai chiamato, perché mi hai esposto ancora, perché di fronte ai mafiosi che non mi volevano mi fai fare la figura di quello - usando il gergo dei mafiosi stessi - che viene ‘posato’”? E ancora, rivolto a Bonafede: “L’equivoco non c’è, non c’è pace perché non c’è stata guerra, qui non c’è una problematica di invidiuzze o di posti che si reclamano, io non ho mai avuto bisogno di andare al ministero, né di rivolgermi a correnti e correntine per andarci, ma io non ho capito il motivo di questo dietrofront”.    

Il film dei colloqui tra Di Matteo e Bonafede. Ma ecco la ricostruzione che Di Matteo fa davanti all’Antimafia. Siamo al 18 giugno del 2018. Di Matteo è a casa e riceve una telefonata di Bonafede. Con lui, per scrivere un libro, c’è il giornalista Saverio Lodato. Bonafede gli propone di diventare il capo del Dap, in alternativa gli propone il posto di direttore degli Affari penali. Di Matteo gli ricorda però che “ci sono 51 detenuti al 41 bis che chiedono di parlare con i magistrati di sorveglianza per protestare contro questa eventualità”. Di Matteo specifica che “dalla risposta di Bonafede non fui in grado di capire quanto sapeva di quella informativa del Gom”. Ma il suo parlargli del rapporto del Gom fu una dimostrazione “di leale collaborazione istituzionale”. Il colloquio prosegue: “Almeno tre volte il ministro mi disse ‘scelga lei’. Quando gli dissi ‘vengo da lei domani’, lui ribadì ‘scelga lei’. Chiusa la telefonata io non ebbi alcun dubbio, tant’è che lo riferii ai miei familiari  e dissi a Lodato che quel pomeriggio non potevo lavorare, e che non avevo alcun dubbio sull’accettare il Dap. Pensai pure che mentre i detenuti protestavano era rilevante che Bonafede mi proponesse di fare il capo del Dap”. 

Deciso a dirgli di sì. Prosegue la ricostruzione di Di Matteo: “Non ho avuto dubbi sull’accettare, perché molte indagini giudiziarie mi avevano fatto comprendere quanto una gestione corretta ed efficace del sistema penitenziario potesse servire per la lotta alla mafia e al terrorismo, e volevo dare un contributo perché l’esecuzione della pena non è un capitolo separato”.  Dunque Di Matteo, la mattina del 19 giugno, arriva a Roma per accettare l’incarico. “Mi recai intorno alle 11 da Bonafede. Ero lì per comunicare la mia scelta rispetto alla sua frase, a quel ‘scelga lei’. Io non ho mai chiesto alcunché, ma sono stato cercato, io non ho cercato nessuno, ho ricevuto una precisa proposta, non ho perorato un incarico perché secondo me un magistrato non lo deve fare per conservare la sua autonomia”.  Racconta ancora l’ex pm: “Di quell’incontro ho un ricordo nitido perché tornavo lì in via Arenula dopo il 6 febbraio 1991 quando feci il colloquio orale per il concorso in magistratura. Dissi subito a Bonafede che accettavo l’incarico di direttore del Dap, glielo dissi meno di 24 ore dopo la sua proposta”.  

Il passo indietro di Bonafede. Ma eccoci al giallo. Dice Di Matteo: “Con sorpresa il ministro disse che sì, l’incarico era importante, ma c’erano prevalenti aspetti che non erano confacenti alla mia precedente esperienza, perché il capo del Dap si occupa di rapporti con i sindacati, della gestione delle gare d’appalto, del rapporto con la polizia penitenziaria, vicende che lo assorbono in modo preponderante”. Chiosa Di Matteo: “Non avevo chiaro quale fosse lo sbocco delle sue parole, e mi permisi di ricordargli gli aspetti anzidetti, perché noi che abbiamo fatto indagini a Palermo sappiamo, perché è già scritto nelle sentenze definitive, quale sia stato il ruolo del penitenziario e del 41bis nelle stragi del 93, nella trattativa Stato-mafia, e prima del ‘92 per gli attentati pianificati come quello contro Piero Grasso, quanto fosse fondamentale per i carcerati ottenere garanzie sul 41bis, sui detenuti over 70 anni, sull’abolizione dell’ergastolo”. Di Matteo racconta di aver detto a Bonafede quanto ”in questa prospettiva fosse fondamentale la direzione del Dap per l’azione di contrasto a 360 gradi nel contrasto alle mafie”.

Bonafede insiste sugli Affari penali. Ma, racconta ancora Di Matteo, “Bonafede insistette per l’incarico agli Affari penali, dicendo che però prima doveva convincere e trasferire la collega Donati. Fece il paragone con Falcone e Martelli. Gli dissi, senza volermi paragonare a Falcone, che l’assetto del ministero era del tutto cambiato perché Falcone aveva un’interlocuzione diretta con il ministro, mentre oggi gli Affari penali erano sotto il Dag che ha rapporti diretti con il ministro. Bonafede mi disse che il capo del Dag era Corasaniti che aveva stima per me e non mi avrebbe ostacolato”. Di Matteo dice ancora: “Io ero veramente sorpreso. Ero stupito dal ridimensionamento di Bonafede rispetto alla proposta del Dap. In quell’occasione, 24 ore dopo avermi proposta per il vertice del Dap, mi disse che aveva pensato a Basentini, mi chiese se lo conoscevo, ma gli dissi di no. In effetti ho poi controllato che la richiesta di collocamento fuori ruolo di Francesco Basentini è del 19 giugno, quindi lo stesso giorno dell’incontro di Bonafede con me. Il ministro mi invitò a riflettere. Mi disse che a settembre mi avrebbe fatto sapere del caso Donati per consentirmi di predisporre un curriculum e per poter partecipare alla selezione per il posto di direttore degli Affari penali. Io ascoltavo perplesso, non ero affatto convinto”. 

La decisione di dire no a Bonafede.  Eccoci al momento in cui Di Matteo rifiuta la proposta di Bonafede. “Io sono uscito dal ministero e sono salito sull’auto. Dissi a me stesso: non voglio nemmeno dare l’illusione o l’aspettativa a Bonafede di poter contare su di me per gli Affari penali”. Arrivato nel suo ufficio alla Procura nazionale antimafia Di Matteo richiama Bonafede e gli chiede di rivederlo il giorno dopo “per 5 minuti”. Bonafede mi disse “ci vediamo domani”. Ecco ancora Di Matteo: “In 5 minuti gli dissi ‘non tenga assolutamente in conto nessuna mia disponibilità, io sto bene dove sono, non sono disponibile, non mi contatti a settembre per gli Affari penali’. Lui insistette più volte. Mentre eravamo sull’uscio mi disse una frase precisa, le cui parole non ho motivo di equivocare né allora, né ora. Mi disse ‘ci sto rimanendo male perché per quest’altro incarico non ci saranno dinieghi, o mancati gradimenti che tengano’. Io non mi sono mai sognato di chiedere a Bonafede cosa fosse avvenuto in quelle 22 ore, chi gli avesse prospettato un diniego o che volesse dire con mancati gradimenti”. 

La reazione di Di Matteo. “È chiaro che ci sono rimasto male, ma non per me, per la mia figura, perché ero nell’ufficio in cui avevo aspirato di essere (la procura nazionale Antimafia). Non ho certo pensato che Bonafede avesse fatto marcia indietro per la reazione dei mafiosi, perché se l’avessi pensato sarei andato subito a denunciarlo alla procura della Repubblica. Ci rimasi male perché  non ci si comporta così con un magistrato che viene da 25 anni di importante lotta alla mafia, minacciato di morte da Riina, con l’esplosivo già pronto per me,  che vivo con un livello di protezione eccezionale. Ci sono rimasto male ancora di più perché il ministro sapeva che la nomina non solo era stata oggetto di dibattito in carcere, ma 51 detenuti al 41bis avevano chiesto di protestare con il magistrato di sorveglianza”. Lei ipotizza una marcia indietro di Bonafede per questa ragione gli chiedono? Di Matteo è netto: “Se l’avessi pensato sarei andato a denunciarlo in una procura della Repubblica”.

Perché Di Matteo parla dopo due anni di silenzio. Per la prima volta, Di Matteo racconta all’Antimafia di aver riferito due anni fa  l’incontro con Bonafede a più persone, “Roberto Tartaglia, Antonio Ingroia, Francesco Del Bene, i colleghi della procura nazionale Antimafia De Simone, Principato, Del Gaudio, Piscitello, Ardita, ma anche al generale Mauro D’amico (che tuttora comanda il Gom) che più volte aveva auspicato un mio eventuale  coinvolgimento”.  Ne parlò anche con giornalisti come  Saverio Lodato “che mi hanno chiesto interviste che io ho sempre rifiutato per ragioni istituzionali pur giudicando assolutamente incomprensibile il comportamento del ministro che però non volevo delegittimare, né lui, né il Dap, né Basentini. Non l’ho mai voluto dire”. Poi arriva la stagione delle “centinaia di scarcerazioni di quest’anno”.  “Devastanti” le definisce l’ex pm. Dice Di Matteo: “Avevo saputo della circolare del 21 marzo, erano intervenute da poco le dimissioni di Basentini, perché non avrei parlato con lui in sella. Ricominciavano a filtrare le voci di un mio incarico come capo del Dap, la notizia esce sul sito della polizia penitenziaria il primo maggio, poi la nomina di Tartaglia come vice e quella di Petralia come capo del Dap. A quel punto, chi sa mi chiede di nuovo un’intervista. Dico di no. Mi chiamano anche dalla trasmissione di Massimo Giletti, ma declino. Poi ascolto la trasmissione, sento parlare di mancato accordo, di trattativa. Allora ho sentito il bisogno di raccontare la verità, perché a questo punto la vicenda non è solo personale, ma per me diventa istituzionale. Nel momento in cui, nel giro di 22 ore, il ministro fa dietrofront e mi dice che per l’altro posto ‘non ci saranno dinieghi o mancati gradimenti che tengano’. Di Matteo conclude: “Non è compito mio sapere a chi si riferisse, potrebbe dirlo solo Bonafede. Ma la vicenda non è più personale, ma istituzionale”.

Di Matteo: «Io a capo del Dap perché è fondamentale nelle indagini sulla trattativa». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 19 giugno 2020. Voleva con piacere diventare capo del Dap perché lo riteneva importante nella lotta alla mafia, soprattutto a seguito delle sue indagini sulla trattativa Stato- mafia dove il Dap – secondo la tesi giudiziaria – avrebbe ricoperto un ruolo importante. Voleva con piacere diventare capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ( Dap) perché lo riteneva importante nella lotta alla mafia, soprattutto a seguito delle sue indagini sulla trattativa Stato- mafia dove il Dap – secondo la tesi giudiziaria – avrebbe ricoperto un ruolo importante. Lo ha spiegato ieri il consigliere del Csm Nino Di Matteo davanti alla commissione Antimafia per chiarire i motivi che l’hanno spinto ad accogliere la proposta iniziale che gli fece il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a giugno del 2018. Il consigliere del Csm ha, quindi, ripercorso gli eventi che sono al centro del dibattito dopo il suo intervento a Non è L’Arena, il programma di Massimo Giletti su la7...«Nel 2018 ricevetti una telefonata dal ministro Bonafede – ha raccontato Di Matteo -, all’epoca ero sostituto procuratore antimafia e mi disse che aveva pensato a me come capo del Dap o come direttore degli Affari penali, ma su quest’ultima ipotesi il guardasigilli mi spiegò che quella nomina avrebbe avuto un ruolo simbolico visto che fu occupato da Falcone. Mi propose quindi di fare o subito il capo del Dap oppure di accettare un eventuale futuro ruolo agli affari penale se avesse convinto Donatella Donati a dimettersi da quell’incarico dato precedentemente dall’ex ministro Orlando». Il magistrato Di Mattero poi ha proseguito: «Il ministro mi disse che voleva una riposta immediata perché avrebbe voluto sfruttare il plenum del Csm per poter attivare la richiesta di collocamento fuori ruolo. Io, quindi, preso atto di questa urgenza egli riferì che l’indomani mi sarei recato direttamente da lui per fornirgli una risposta». Di Matteo ha poi aggiunto che, sempre al telefono, disse al guardasigilli che c’è una nota del Gom dove riferisce delle proteste di alcuni detenuti al 41 bis contro una sua eventuale nomina. «Mi colpì il fatto – ha spiegato sempre Di Matteo alla commissione antimafia – che in quella nota era allegata una relazione nella quale veniva riportato un episodio di un detenuto al 41 bis che dette l’ordine, urlando da un piano all’altro, di fare una istanza al magistrato di sorveglianza per lamentarsi. Il ministro mi disse di essere informato delle reazioni, senza scendere nei particolari». Di Matteo ha spiegato che sempre quello stesso pomeriggio, oltre ai suoi familiari, riferii la telefonata a qualche suo collega amico e anche al giornalista Saverio Lodato. «Il giorno dopo – ha spiegato sempre Di Matteo sono andato dal ministro Bonafede con l’intenzione di dirgli che avrei accettato l’incarico di capo del Dap. Non ho avuto dubbi ad accettare quell’incarico – ha sottolineato – perché molte indagini giudiziarie mi avevano fatto saper comprendere quanto una gestione corretta ed efficace del sistema penitenziario sarebbe stato importante per combattere la mafia. Tutto questo è stato soprattutto grazie all’indagine sulla trattativa e le stragi in generale!”. Di Matteo ha spiegato che si incontrò con Bonafede, presso il ministero della Giustizia, alle 11 di mattina del 19 giugno 2018 e disse subito che accettava l’incarico al Dap. «A quel punto – ha proseguito con il racconto-, con mia sorpresa, Bonafede mi disse che in fondo il capo del Dap non era adatto a lui, visto che aveva compiti come la gestione degli appalti, il rapportarsi con i sindacati di polizia penitenziaria, opere trattamentali. Ma io gli riposi – ha raccontato di Matteo – che noi che abbiamo fatto l’indagine a Palermo, sappiamo quanto sia stato importante il sistema penitenziario per il 41 bis e la trattativa e che anche l’aspetto di quel tipo di detenzione è importante visto che ancora sono reclusi diversi capi storici della mafia». Ma nulla da fare. Di Matteo ha spiegato che quello stesso giorno Bonafede avrebbe già scelto Francesco Basentini come capo del Dap facendo la richiesta al Csm e che avrebbe insistito per fargli accettare di ricoprire il ruolo agli affari penali perché non c’erano – avrebbe detto Bonafede – “dinieghi o mancati gradimenti che tengano”». «Quell’amarezza l’ho tenuta per me – ha spiegato accoratamente Di Matteo -, quei fatti l’ho raccontati a pochissime persone tra cui Tartaglia, Ingroia, Piscitello, Ardita. Oltre a Saverio Lodato, altri giornalisti lo sapevano e volevano dichiarazioni ma non volevo rilasciare interviste per motivi istituzionali perché non volevo delegittimare il ruolo del ministro». Ma poi cosa è accaduto? Nell’ultimo periodo, prima dell’intervento nella trasmissione di Giletti, secondo Di Matteo sarebbero accadute molte cose strane. Quali? Le rivolte carcerarie, le centinaia di “scarcerazioni” di soggetti detenuti per mafia, la famosa circolare del 21 marzo, le dimissioni di Basentini. «Iniziavano a filtrare le voci che il capo del Dap sarei stato io. Alcuni giornali – ha spiegato Di Matteo – facevano polemiche sul mio nome. Poi quando da Giletti dissero che c’erano state trattative per il mio nome, allora sono intervenuto». Di Matteo ha ribadito anche che, secondo lui, le rivolte carcerarie e la scarcerazione dei mafiosi ( in realtà si tratta di detenzione domiciliare) avrebbero analogie con la trattativa che sarebbe avvenuta nel 1993. Ancora una volta ritorna il feticcio del teorema della trattativa che, ricordiamo, non ha nessuna sentenza definitiva che lo consolidi, mentre sono definitive altre sentenze che sconfessano tale tesi. Ricordiamo anche che il Dap non può essere gestito come se fosse una specie di succursale di qualche procura dell’antimafia e nemmeno può essere diretto secondo una visione dietrologica degli avvenimenti. La gestione delle carceri richiede una visione generale che tenga conto di bisogni educativi, di integrazione sociale, di salute e di sicurezza. Non può ridursi al 41 bis o alta sorveglianza che rappresenta una piccolissima percentuale della popolazione detenuta. Nel frattempo i componenti della commissione Antimafia richiedono a gran voce di essere audito Bonafede. Si vorrà chiarire una volta per tutte cosa sia accaduto e, soprattutto, chi gli ha fatto cambiare idea sulla scelta di Di Matteo.

Riecco Di Matteo: “Se avessi saputo di un cedimento di Bonafede ai boss sarei andato in procura”. su Il Dubbio il 18 giugno 2020. Il magistrato antimafia torna a parlare della mancata nomina al Dap: “Il ministro non era in grado di valutare bene certe dinamiche della lotta alla mafia”. “Se avessi avuto notizie Di reato avrei avuto la sede per riferirle, ossia le procure della Repubblica, se avessi avuto elementi per ritenere che il ministro aveva cambiato idea perché indotto dai mafiosi lo avrei detto. In quel momento, l’idea che ho avuto è che il ministro non era in grado Di valutare bene certe dinamiche della lotta alla mafia”. Lo ha detto il togato del Csm Nino Di Matteo, in Commissione Antimafia, il quale ribadisce Di aver parlato, nella prima telefonata avuta con Bonafede, della nota del Gom in cui venivano riportate proteste Di detenuti al 41 bis relative alle voci sulla possibile nomina Di Di Matteo al Dap. “Non ne ho parlato al ministro per farmi bello – ha detto il magistrato – ma perchè avevo dubbi che non ne sapesse nulla, e lo volevo avvertire, per un senso Di collaborazione istituzionale. Quella nota era rivolta a uffici ministeriali, non al ministro o al capo Di gabinetto, quindi in quel momento ho pensato Di essere leale con una persona che mi aveva scelto come capo del Dap”. “Non e’ corretto parlare Di percezione o Di malinteso, perchè mi si dipinge come un raccontaballe o come uno che non ha capito”, ha aggiunto Nino Di Matteo. In ogni caso Di Matteo ha chiarito che le recenti scarcerazioni Di boss per le misure dovute all’emergenza coronavirus sono state per i mafiosi “un segnale di cedimento e per loro di speranza”. Per il procuratore “sono state devastanti perché molti mafiosi all’ergastolo vivono aspettando segnali”.

«Bonafede disse sì alla circolare che scarcerava i boss». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 17 giugno 2020. La rivelazione in commissione antimafia di Giulio Romano, ex direttore detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Prima dell’emanazione della Circolare del 21 marzo, era stata la magistratura di sorveglianza di tutta Italia ma anche i Gip a chiedere un intervento del Dap a tutela dei detenuti. Ecco svelato chi si nasconde dietro la famigerata circolare. Non la pressione delle rivolte carcerarie che, a detta di qualcuno, sarebbe stata organizzata dalla mafia, non da “entità” occulte, ma dai magistrati di sorveglianza e Gip. Lo ha ben spiegato davanti alla commissione antimafia Giulio Romano, l’ex direttore detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. I primi a scrivere al Dap furono, secondo quanto ha riferito l’ex dirigente, i presidenti dei tribunali di sorveglianza di Milano e Brescia. «Non ho mai sconfessato quella circolare, che è firmata da me, non dalla dottoressa Borzacchiello, ed era condivisa con Basentini e con il capo della segreteria del ministro», ha riferito sempre Romano. Parliamo di quella circolare che è stata considerata come causa delle detenzioni domiciliari per motivi di salute concesse a circa 500 reclusi per reati di mafia. Nonostante l’oggettiva evidenzia che si tratti di un atto amministrativo che non ha nulla a che vedere con le ordinanze giudiziarie che hanno concesso il differimento pena, la commissione Antimafia continua nella sua indagine. La circolare aveva ordinato alle direzioni carcerarie di segnalare all’autorità giudiziaria i detenuti che presentassero tutte quelle patologie con le quali vi era maggiore rischio con un eventuale contagio da Covid. «Il ministro – ha spiegato l’ex dirigente davanti alla commissione Antimafia – espresse apprezzamento per l’iniziativa in una videoconferenza di cui non ricordo la data, ma successiva al 26 marzo». Romano non si tira indietro e ha rivendicato la necessità di quella circolare, perché era «urgente, in quei giorni tutto era urgente e in essa non c’è nulla di irregolare» . In effetti in quel periodo c’era il rischio che il carcere diventasse un luogo contaminato dal virus – e quindi le relative morti visto il numero abnorme dei detenuti anziani e malati – com’è accaduto con le Rsa. Romano stesso ha ricordato che a inizio emergenza, il «17 marzo c’erano 70.176 detenuti, 10mila in più della capienza regolamentare». Sempre l’ex dirigente ha spiegato che diversi tribunali avevano richiesto gli elenchi dei detenuti particolarmente a rischio. Questo ben prima della “famigerata” circolare. Romano, inoltre, ha ammesso l’errore rispetto alla scarcerazione di Pasquale Zagaria. «È stato accertato un errore nell’indicazione della posta elettronica del dipendente del tribunale di Sassari, imputabile all’ufficio e al personale della direzione che io dirigevo». Il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, si è detto «esterrefatto» dalle parole di Romano. Per questo ha invitato l’ex direttore a ripresentarsi oggi.

Spataro, bordate a Di Matteo e Gratteri: “Infamante parlare di trattativa. E ai pm chiedo sobrietà”. Il Dubbio il 24 maggio 2020. L’ex procuratore di Torino contro i magistrati che si presentano come degli eroi, quelli che vogliono il bene della verità, mentre chi critica non lo vuole. ”Di Matteo? Che un magistrato possa in televisione esprimere la sua opinione ci sta, ma che possa farlo lasciando aperte interpretazioni equivoche, francamente…questa è una delle caratteristiche che io giudico veramente inaccettabili”. Lo ha detto il magistrato Armando Spataro, ospite insieme a Giovanni Chinnici del programma ‘Soul-Testimoni’ in onda su Tv2000, stasera alle 20.50, in occasione dell’anniversario della strage di Capaci, commentando la vicenda della nomina al Dap che ha coinvolto l’ex pm e membro del Csm Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Spataro, che è stato procuratore della Repubblica a Torino, procuratore della Repubblica aggiunto a Milano, e a lungo si è occupato di lotta al terrorismo, commentando la vicenda della scarcerazioni dei boss dal 41-bis ha sottolineato che usare il termine ”trattativa” è ”addirittura infamante dirlo perché pensare che quello che avviene adesso sia frutto di una trattativa…già in Italia usare il termine ‘trattativa’, se qualcuno lo fa con prudenza o in maniera critica passa per colui che non vuole la verità etc., ma in questo caso specifico trovo semplicemente assurdo pensare che i poteri criminali abbiano influenzato i provvedimenti giudiziari”. Sulle rivolte nelle carceri per il diffuso terrore della pandemia agli inizi di maggio ”non credo affatto a disegni, a retropensieri, a complotti – ha affermato ancora Spataro – Questa è una tendenza che in Italia è molto diffusa, basti pensare a quello che si dice ancora sul caso Moro. Io credo che sia un fenomeno certamente non originato da un piano a tavolino”. Spataro ha poi rivelato la propria contrarietà verso quei magistrati che si presentano come eroi: ”Personalmente non apprezzo le conferenze stampa con le forze dell’ordine schierate alle spalle, magari sul tavolo i mitra e la droga sequestrata. Non apprezzo che ci si presenti al paese come gli eroi, quelli che vogliono il bene della verità, mentre chi critica non lo vuole. Un altro procuratore di Catanzaro molto conosciuto, Gratteri, fece delle dichiarazioni affermando che si lamentava del fatto che la stampa non gli avesse dato il necessario spazio su un’importante operazione antimafia, la più importante dopo quella palermitana di Falcone. A me pare che queste modalità non siano accettabili, occorre sobrietà. Dopo di che, la notizia va data ed è criticabile tutto, però occorre moderazione, sobrietà soprattutto”. Il magistrato ha infine ribadito a Tv2000 che ”il diritto all’elettorato passivo non possa essere negato a nessuno, neppure ai magistrati. Quello che è importante però è che una volta fatta l’esperienza politica non si debba ritornare a fare il magistrato”.

«Attaccano me per colpire il Csm Scelto dalle correnti ma imparziale». Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Il «caso Palamara» torna ad agitare il Consiglio superiore della magistratura dopo il terremoto di un anno fa, perché nelle intercettazioni dell’ex pm indagato per corruzione compaiono altri consiglieri tuttora in carica, compreso il vicepresidente David Ermini. Che risponde partendo da una premessa: «Con la conclusione dell’inchiesta della Procura di Perugia viene alla luce tutto il materiale raccolto dagli inquirenti, ma questo non deve distogliere l’attenzione dai fatti contestati, che rimangono molto gravi. Il resto non è stato valutato rilevante sotto il profilo penale, ora toccherà alla Procura generale della Cassazione e al ministero della Giustizia stabilire se ci sono aspetti di rilevanza disciplinare».

Ma un anno fa il Csm è stato ribaltato con cinque consiglieri costretti alle dimissioni…

«Il Consiglio non è stato ribaltato. Si è rinnovato in base alla legge con due subentri e tre nuovi eletti in seguito alle dimissioni di alcuni consiglieri. Nei confronti dei quali è stata avviata l’azione disciplinare perché erano emersi indizi di un’indebita ingerenza nell’attività del Csm, che evidentemente non poteva essere tollerata».

Una eterodirezione che riguardò anche la sua elezione a vicepresidente: non la imbarazza?

«Io sono stato eletto sulla base di un accordo politico tra le correnti. Sempre le elezioni del vicepresidente sono state il frutto di un accordo fra le varie componenti del Csm. Non si tratta di incarichi di magistrati».

Un accordo sancito nella cena a casa di Giuseppe Fanfani con Palamara, Cosimo Ferri e Luca Lotti?

«Fu una cena con due capicorrente riconosciuti e un esponente del Pd, lì mi dissero che l’accordo era chiuso. C’erano state in quel periodo anche altre ipotesi, poi quando s’è fatto il mio nome io cercai il consenso di Area (il cartello della sinistra giudiziaria, ndr) e mi rammaricai del loro mancato appoggio. Parlai anche con Davigo. Ma voglio chiarire che l’elezione del vicepresidente è l’unico legittimo momento di incontro tra politica e magistratura; il vero atto politico del Csm, che si realizza anche con votazioni laceranti, come tante altre volte è accaduto in passato. Poi però, fatta la scelta, il vice-presidente non può più tenere conto della maggioranza che lo ha eletto, perché diventa il garante di tutti. Ed è ciò che ho fatto, diventando un ostacolo proprio per quel gruppo».

In che senso?

«Nel senso che io mi sono sottratto alle richieste e desideri di chi voleva eterodirigere il Consiglio. E ho dimostrato fin dall’inizio di ricoprire il mio ruolo in autonomia al servizio dell’istituzione consiliare. Lo testimoniano le successive intercettazioni dove dicono: “Abbiamo fatto una c...ta a mettercelo”».

Perché lei si sfilò?

«Perché l’accordo politico per l’elezione del vicepresidente non si può trasferire sulla scelta di un procuratore o di altri incarichi direttivi; lì si tratta di nomine che vanno fatte sulla base di professionalità e merito, non altro».

La sensazione è che quelle scelte continuino a essere fatte con accordi tra correnti, sebbene le maggioranze siano cambiate.

«A volte questa sensazione può derivare dal voto compatto dei gruppi, ma intendo rimarcare alcune nomine di grande rilievo, a partire da quella del nuovo procuratore generale della Cassazione. Al Congresso dell’Associazione magistrati dissi che bisogna tutelare i magistrati e le loro professionalità indipendentemente dalle correnti, che le domande si fanno e poi non deve esserci bisogno di coltivarle con telefonate e raccomandazioni».

Sembra il libro dei sogni. Dopo lo scandalo di un anno fa, per nominare il procuratore di Roma avete impiegato nove mesi, e quello di Perugia ancora non c’è.

«Ci sono stati ritardi dovuti a vari fattori, abbiamo fatto rispettare il criterio dell’ordine cronologico nella trattazione delle procedure ma bisogna ancora sveltire le procedure sui pareri, l’emergenza coronavirus e il lavoro da remoto hanno aggiunto ulteriori complicazioni. Poi serve la riforma elettorale del Csm, ma anche regole più adatte per le nomine e per questo voglio lavorare a un aggiornamento della circolare».

Tornando al «caso Palamara», in che cosa vede il tentativo di screditarla?

«Nella strumentalizzazione di alcuni dialoghi del tutto irrilevanti, come quelli relativi alla scelta del mio consigliere giuridico, o nella risibile vicenda di un discorso che mi sarei fatto scrivere da Palamara. È semplicemente falso e sono già pronte le querele. Mi pare evidente che si tratti di una manovra, di cui non conosco gli ispiratori, che mira a confondere fatti rilevanti e gravi con le chiacchiere e i pettegolezzi solo per colpire me perché mi sono sottratto ai condizionamenti».

A quale scopo?

«Si vuole screditare me per delegittimare l’istituzione, ed è un tentativo tuttora in atto. Hanno capito che per far cadere questo Csm devono far cadere me, ma io non mi presto a questo gioco al massacro. Anche la magistratura, però, dovrebbe aiutarsi».

Come?

«Smettendola di pensare solo al consenso interno a un corpo elettorale di 9.000 persone, cercando invece di apparire credibile a 60 milioni di italiani. Mio padre era un avvocato che quando vedeva passare un magistrato si levava il cappello, in segno di rispetto; ecco, vorrei che si tornasse a quel clima».

Ieri è stato arrestato il procuratore di Taranto e indagato quello di Trani...

«Ovviamente, presiedendo io la sezione disciplinare, nulla posso dire sulla vicenda, ma l’urgenza della “questione morale” impone una riflessione. In questa consiliatura ci sono state già diverse sentenze di rimozione, e saremo sempre intransigenti di fronte a provati comportamenti lesivi dell’onorabilità della magistratura».

Intanto avete un’altra grana, con il contrasto tra il consigliere Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia. Come pensa di risolverla?

«Non è un argomento di nostra competenza, sarebbe un’invasione di campo. Anche perché riguarda una vicenda di due anni fa, che risale a quando Di Matteo non faceva parte del Csm e attiene al rapporto personale tra un magistrato e il ministro, nel cui merito non abbiamo titolo per intervenire».

Caos procure, Ermini non ci sta e minaccia querele. Ma i veleni di Perugia non si placano. Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio il 20 maggio 2020. “Nessun mio discorso è mai stato scritto da Luca Palamara”, ha dichiarato il vicepresidente del Csm. Il vicepresidente del Csm David Ermini e l’ex deputata del Pd, e presidente della commissione Giustizia, Donatella Ferranti, oggi giudice di Cassazione, hanno deciso di passare al contrattacco nei confronti dei giornali che in questi giorni hanno riportato le loro chat con l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara.«Nessun mio discorso è mai stato scritto da Luca Palamara. Quanto pubblicato in questi giorni da alcuni organi di stampa è una pura falsità», ha dichiarato il vertice di Palazzo dei Marescialli. «Dovendo intervenire a Cernobbio sulle agromafie il 19 ottobre 2018, a pochi giorni dalla mia elezione a vicepresidente, al Forum sull’agricoltura organizzato dalla Coldiretti e avendo saputo che il dottor Palamara nella consiliatura precedente era in contatto con Coldiretti per progetti di collaborazione con il Consiglio superiore della magistratura, gli ho semplicemente chiesto di farmi avere alcune informazioni nel merito delle iniziative per portare il mio indirizzo di saluto», ha puntualizzato Ermini, affermando di aver già pronte le querele.

Ferranti: io sempre a testa alta. «In tutta la mia vita sono andata a testa alta, e continuo a farlo. Sto valutando di rivolgermi a un legale per eventuali querele, per tutelarmi nelle sedi legali: quello che è stato pubblicato si commenta da solo. E poi si tratta di legittime opinioni». È stata questa, invece, la reazione dell’ex presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, a proposito dei colloqui avuti riguardo alcune nomine con Palamara. Le querele di Ermini e Ferranti seguono quelle, sempre a proposito delle chat riportate dai giornali, del togato del Csm Giuseppe Cascini e del suo predecessore Valerio Fracassi.

Toghe e politica,storia ventennale. Due giorni fa, nella bagarre seguita a queste pubblicazioni, l’Anm aveva diramato un comunicato in cui proponeva alcune soluzione per arginare il correntismo. Ad esempio impedire il ritorno dei magistrati che avevano svolto attività politica. Questo provvedimento, va detto, ha una storia quasi ventennale. Presentato la prima volta nel 2001, era stato approvato alla Camera per poi arenarsi in Senato. Venne poi ripresentato, senza successo, nel 2005 e nel 2011.Nel 2014, relatori l’allora senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin e Felice Casson, magistrato ed esponente del Pd, il testo era stato approvato all’unanimità dall’aula di Palazzo Madama. Trasmesso quindi alla Camera, era rimasto inspiegabilmente fermo per tre anni. Soltanto nel 2017 l’aula di Montecitorio aveva proceduto alla sua discussione, apportandovi delle modifiche sostanziali che avevano determinato il ritorno in Senato per l’approvazione definitiva. Non si fece però in tempo prima della fine della legislatura. Nel 2018 il testo è stato ripresentato, e dovrebbe far parte dell’ampio progetto di riforma della giustizia predisposto dal guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma stavolta è stato lo sconvolgimento provocato dall’epidemia del coronavirus a destinare al congelatore la disciplina dell’attività politica svolta dai magistrati. Eppure in questi ultimi anni si erano create tutte le condizioni affinché il Parlamento regolamentasse la materia.

La delibera del 2016 approvata al Csm. Il Consiglio superiore della magistratura aveva votato nel 2016 all’unanimità un parere per inasprire le norme riguardanti il rientro delle toghe dopo eventuali esperienze politiche, prevedendo il loro collocamento in altri ruoli della pubblica amministrazione. Anche il “Greco”, l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa, aveva “invitato” l’Italia ad introdurre leggi che ponessero limiti più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica, mettendo fine alla possibilità per i giudici di mantenere il loro incarico in caso di elezione o nomina negli enti locali. E anche l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva invitato il Parlamento a intervenire al riguardo. Nel testo iniziale un magistrato poteva entrare in politica nel rispetto di una serie di restrizioni legate al luogo in cui aveva esercitato le funzioni, per approdare all’avvocatura dello Stato in caso di ritorno in magistratura. Dopo le modifiche, volute dal Pd, le opzioni di ricollocamento erano state estese anche ai ruoli amministrativi presso il ministero della Giustizia e al collegio giudicante, con clausola di astensione di fronte a casi riguardanti esponenti politici. Nel testo approvato con modifiche dalla Camera, gli eletti alla carica di presidente della Regione, consigliere regionale, consigliere comunale o circoscrizionale, una volta cessati dal mandato, rientravano invece in magistratura non potendo però, per i successivi tre anni, prestare servizio in un distretto di Corte di appello in cui fosse compresa la circoscrizione elettorale nella quale erano stati eletti. Inoltre non potevano esercitare funzioni inquirenti e, una volta ricollocati in ruolo, ricoprire incarichi direttivi o semidirettivi per tre anni. Se il magistrato non fosse stato eletto, rientrava immediatamente in servizio, venendo destinato in un ufficio che non ricadesse nella circoscrizione di candidatura e senza poter per due anni esercitare funzioni inquirenti. Si tratta di norme sulle quali tutti, inclusi gli stessi magistrati, sostengono di essere d’accordo. E che molti considerano un contributo importante anche per limitare intrecci come quelli emersi con il caso Palamara. Ma chissà perché neppure lo “scandalo” di un anno fa è riuscito a dare la spinta decisiva alla legge-miraggio.

Caso Csm, Ermini smentito dalle chat tra Palamara e Ferri. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Maggio 2020. In una intervista rilasciata questa settimana al Corriere della Sera e ripresa ieri dal Fatto Quotidiano, il vice presidente del Csm David Ermini ha affermato di essere stato nei mesi scorsi di “ostacolo” ai disegni dei gruppi che avevano contribuito in maniera determinante alla sua elezione nel settembre del 2018. Pur senza mai citarli direttamente, il riferimento è ad Unicost e a Magistratura indipendente, i due gruppi della magistratura associata che tramite Luca Palamara, ex presidente dell’Anm e consigliere uscente del Csm, e Cosimo Ferri, allora parlamentare del Pd ora Iv, decisero di puntare sull’ex responsabile giustizia dei dem. Ermini, a sorpresa, superò le candidature in quel periodo più gettonate per succedere a Giovanni Legnini: quella del professore milanese Alessio Lanzi, in quota Forza Italia, e quella di Alberto Maria Benedetti, professore a Genova e scelto dal M5s. Su quest’ultimo nome ci sarebbe stata anche la convergenza delle toghe di sinistra di Area che avevano “scaricato” il parlamentare dem. Una decisione che aveva “rammaricato” Ermini. Tornando, comunque, al contenuto dell’intervista, il vice presidente ha sottolineato con forza questo aspetto, ribadendo di non essere stato mai “eterodiretto” e di ricoprire l’incarico di vice del capo dello Stato in “autonomia al servizio dell’istituzione consiliare”. Per rafforzare la tesi, ha riportato nell’intervista una conversazione intercettata lo scorso maggio con il trojan inoculato nel telefono di Palamara in cui alcuni esponenti delle due correnti sembrano lamentarsi del suo comportamento al Csm. Dalla lettura delle chat depositate nell’indagine di Perugia emerge, però, uno scenario leggermente diverso. Almeno fino a maggio. Ferri e Palamara, infatti, sono molto contenti di aver scelto Ermini. Il 23 gennaio 2019 Ferri scrive a Palamara: «Ermini mitico, ha votato per i magistrati segretari (incarico molto prestigioso al Csm, ndr). Devo dire che tra l’intervista (probabilmente, sfogliando il calendario di quei giorni, si tratta dell’intervista a Lucia Annunziata a Mezz’ora su Rai Tre, ndr) e voto di oggi ha fatto una cosa meglio dell’altra». Palamara risponde: Assolutamente sì!!! Ieri sera abbiamo assestato un grande colpo». Che i rapporti con Unicost, la corrente di cui Palamara è stato il ras indiscusso per anni pur senza ricoprire nell’ultimo periodo incarichi di vertice nella segreteria nazionale, erano eccellenti, lo dimostra la partecipazione di Ermini al maxi convegno organizzato dalle toghe di centro il 12 aprile successivo a Milano su “Mafia e diritti: prevenzione, repressione ed esecuzione della pena”. Nell’Aula magna del Palazzo di giustizia, alla presenza di tutto lo stato maggiore di Unicost, Ermini era stato l’ospite d’onore. Rileggendo i nomi dei relatori riportati sulla locandina dell’incontro non si può non notare come sia cambiato lo scenario. Luigi Spina, consigliere del Csm, indagato e dimessosi; Riccardo Fuzio, procuratore generale della Corte di Cassazione, indagato e costretto al prepensionamento; Gianluigi Morlini, consigliere del Csm, dimessosi; Francesco Basentini, capo del Dap, dimessosi. Lasciando un momento da parte il destino di Unicost, i cui attuali esponenti nella giunta Anm, precisamente Angelo Renna e Alessandra Salvadori, sono stati tirati in ballo nelle ultime intercettazioni pubblicate sui giornali, qualcosa nei rapporti con Ermini è cambiato solo ad iniziare da maggio del 2019. Il mese in cui cominciò al Csm la discussione sul nome del nuovo procuratore di Roma. Fino a quel momento, quindi, nessuno strappo.

Csm e Anm “indagano” sul caso Perugia. E tra le correnti dilagano i veleni. Il Dubbio il 19 maggio 2020. La prima commissione del Consiglio avvia una pratica di trasferimento sulle toghe coinvolte nei “nuovi” colloqui con Palamara. Tensione alle stelle fra le correnti della magistratura dopo le recenti pubblicazioni delle chat contenute nel fascicolo aperto a Perugia nei confronti dell’ex presidente Anm Luca Palamara. Il pm romano, come emerge dai brani riportati da La Verità e dal Fatto, aveva rapporti con quasi tutti i massimi vertici degli uffici giudiziari. E anche con magistrati in servizio al ministero della Giustizia, ad iniziare da Fulvio Baldi, capo di gabinetto del guardasigilli, costretto venerdì scorso alle dimissioni. Così ieri hanno avviato “ricognizioni” sia il Csm sia l’Anm. L’organo di autogoverno si muove con la propria prima commissione che, riferisce una nota, ha iniziato «l’esame dei documenti» per «attivare, con la massima tempestività, gli strumenti in materia di incompatibilità ambientale». Sempre Palazzo dei Marescialli informa che gli atti «sono stati inviati dalla Procura di Perugia anche alla Procura generale della Cassazione e al ministero della Giustizia per le rispettive competenze in materia disciplinare». Il che vuol dire che il Csm potrebbe trovarsi fra poco a valutare “incolpazioni” promosse dai titolari dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe coinvolte nel sequel perugino. L’Anm a propria volta ricorda di aver chiesto gli atti a Perugia per poter effettuare le valutazioni di competenza e ha invitato tutti i magistrati alla riflessione e all’autocritica su quanto accade, avanzando anche alcune proposte per evitare la degenerazione del correntismo. Dal «divieto di ritorno all’esercizio delle funzioni giudiziarie per i magistrati che hanno assunto incarichi politici» alla «modifica del sistema elettorale del Csm» e del «Testo unico della dirigenza». Una risposta ritenuta non sufficiente dalle toghe di Magistratura indipendente, la corrente moderata che nel 2019, all’indomani delle prime pubblicazioni dei colloqui avuti da propri esponenti con Palamara, venne travolta. L’Anm «deve scegliere una linea, qualunque essa sia» perché «un anno fa ci fu una reazione immediata, anche nei tempi ( dimissioni di tre consiglieri di Mi sulla base delle sole notizie stampa, ndr)” ». Il gruppo moderato si definisce «sempre garantista: non intendiamo imbastire processi mediatici o di piazza, che lasciamo ad altri, ma vogliamo capire quale reale percorso di rinnovamento abbiano intrapreso i colleghi», è la ‘ frecciata’ ai magistrati di Area che nel 2019 «si stracciarono le vesti a fronte di pubblicazioni di intercettazioni con protagonisti, in parte, diversi». Secondo Area sarebbe invece in atto un «attacco concentrico di una parte della stampa e di una parte della magistratura alla vigilia dell’inizio del processo e dei procedimenti disciplinari per i protagonisti delle tristi vicende dell’albergo Champagne», l’albergo romano dove Cosimo Ferri, magistrato e deputato di Iv, con Palamara «incontrava magistrati e politici accomunati dall’interesse di indirizzare, dall’esterno del Csm, le nomine ad alcuni uffici giudiziari strategici per orientare l’esito di specifiche indagini e determinati processi». Le toghe di Area dicono di non rivendicare «una improponibile superiorità morale di gruppo, ma non siamo disposti a tollerare operazioni preordinate a confondere le responsabilità per giungere a una generale assoluzione che lasci tutto com’è». Tranchant il commento del magistrato Alfonso Sabella, già assessore alla Legalità al Comune di Roma: «È assolutamente indispensabile sciogliere le correnti», ha detto in un’intervista all’Adn- Kronos. Forse un rimedio estremo. Che però i veleni di queste ore rischiano di far apparire, ad alcuni, non insensato. 

Di Matteo stoppa il ritorno in ruolo di Baldi: «Risponde a logiche correntizie». Il Dubbio il 20 maggio 2020. Per l’ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non c’è pace. Ora il pm della presunta trattativa rallenta il suo ritorno a piazza Cavour. I rapporti avuti da Fulvio Baldi con Luca Palamara possono essere fatali per l’ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, con il rischio di sbarrargli la strada per piazza Cavour. Ieri mattina, il Plenum del Csm doveva deliberare il ritorno “in ruolo” di Baldi dopo le dimissioni della scorsa settimana. Una pratica definita “routinaria”. La procedura, quando un magistrato cessa dall’incarico extragiudiziario, prevede che la toga venga destinata dal Csm all’ufficio di provenienza. Nel caso di Baldi, la Procura generale della Cassazione. Il rientro del magistrato nell’ufficio che ha lasciato per ricoprire l’incarico fuori ruolo è previsto anche se tale ufficio risulta a “pieno organico”. Nel caso di Baldi, invece, con un provvedimento che non ha precedenti, il Csm ha deciso, su richiesta esplicita del togato Nino Di Matteo, un “stop” forzato. Secondo il pm antimafia serve «approfondire la questione». Di Matteo, illustrando in Plenum la propria istanza, ha ricordato le intercettazioni pubblicate dai giornali nei giorni scorsi, a seguito delle quali l’ex capo di gabinetto di Alfonso Bonafede si era dimesso, osservando che in queste Baldi «si mostra disponibile a far dipendere scelte di dirigenti al Ministero da questioni correntizie». Il riferimento, in particolare, è a quanto accaduto a giugno del 2018 e riportato nelle chat contenute nel fascicolo della Procura di Perugia a carico dell’ex presidente dell’Anm. Baldi appena insediatosi a via Arenula era stato contattato da Palamara affinché trovasse un posto al Ministero della giustizia a due magistrate, Katia Marino, sostituto procuratore a Modena, e Francesca Russo, giudice del Tribunale di Roma. Da quanto è emerso dalle chat, non aveva problemi ad esaudire le richieste dell’amico e collega di corrente. L’unico “intoppo” era la mancanza in quel momento di posti disponibili al gabinetto del Ministero. Iniziò, allora, una girandola di contatti con i vari uffici per cercare di trovare una soluzione. Tutti i tentativi non ebbero successo e le due magistrate continuarono a svolgere le rispettive funzioni. «Si, le abbiamo già viste anche con il ministro e sono di una limpidezza incredibile», disse Baldi, il giorno prima di dimettersi, ai giornalisti del Fatto che avevano riportato i suoi colloqui con Palamara. «Quale sarebbe il problema? Per un dirigente dire che un posto deve essere riservato ai “nostri”, di una corrente, è un profilo disciplinare? Io non ci vedo nulla di disciplinare. Io penso che il pluralismo culturale in un’istituzione sia fondamentale», aggiunse, spiegando che aveva detto molte di queste frasi per non «deludere un amico». Di diverso avviso, invece, il ministro Bonafede. Adesso l’incarico di capo di gabinetto è affidato ad interim a Vitiello, capo dell’Ufficio legislativo. Il motivo dello “stop” a Baldi va letto anche alla luce della funzione svolta dalla Procura generale, quella cioè di promuovere l’azione disciplinare per le toghe. Non è dato sapere su questo aspetto come si comporterà il Procuratore generale Giovanni Salvi nei confronti dei numerosi magistrati che si rivolgevano a Palamara per chiedere favori di vario genere. Comunque sia, da quanto si è appreso, il destino professionale di Baldi verrà deciso in un prossimo Plenum. Ed in un prossimo Plenum è prevista la partecipazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Lo ha comunicato il vice presidente David Ermini. «Sono stato ricevuto dal capo dello Stato – ha detto – il quale mi ha annunciato che una delle prossime settimane parteciperà al Plenum. Ora organizzeremo modalità e tempi». Ad un anno esatto di distanza dall’inizio dello scandalo che terremotò il Csm, Mattarella torna quindi a Palazzo dei Marescialli. La partecipazione del capo dello Stato al Plenum è un segnale della tensione che sta caratterizzando la realtà della magistratura associata, dopo la pubblicazione delle intercettazioni di Palamara, in queste settimane. Attualmente, a differenza dello scorso anno, nessun consigliere che è stato coinvolto si è dimesso.

Le toghe di Area: “Un pezzo di magistratura ci attacca per fermare il cambiamento”. Il Dubbio il 18 maggio 2020. L’associazione delle toghe progressiste si difende dopo la pubblicazione di chat del pm romano Luca Palamara, sotto inchiesta a Perugia per corruzione, che chiamano in causa esponenti del gruppo. “È in atto un attacco concentrico di una parte della stampa e della magistratura alla vigilia dell’inizio del processo e dei procedimenti disciplinari per i protagonisti delle tristi vicende dell’albergo Champagne. Un attacco anche al nostro gruppo ma, soprattutto, al cambiamento avviato all’interno del CSM dopo l’indignazione di maggio 2019”. Lo afferma il Coordinamento di Area, l’associazione delle toghe progressiste, riferendosi alla pubblicazione di chat del pm romano Luca Palamara, sotto inchiesta a Perugia per corruzione, che chiamano in causa esponenti del gruppo. “Manovrando il linguaggio- accusa Area- si riescono a costruire infinite ‘verità’ e oggi si cerca di confondere quella vicenda, pericolosa per le istituzioni, con comportamenti dei nostri odierni rappresentanti, che nulla hanno a che vedere con il corretto esercizio della loro attività istituzionale. Si riportano stralci di atti giudiziari che rappresentano segmenti di fatti che vengono poi completati e chiosati ad arte, al fine di accreditare un malcostume diffuso a tutti i livelli della magistratura”. Rispetto a questo “non possiamo tollerare operazioni mediatiche preordinate a confondere le responsabilità”. Area sottolinea di aver preso le distanze dal sistema emerso all’inizio dell’indagine su Palamara “ben prima dell’inizio dell’attuale consiliatura, con un difficile confronto interno sfociato in documenti in cui abbiamo pubblicamente denunciato l’esistenza di metodi e pratiche consociative”. Tant’è che “dalle stesse intercettazioni pubblicate nei mesi scorsi infatti emerge come il comportamento dei nostri rappresentanti al CSM sia stato l’ostacolo principale alla realizzazione degli obiettivi perseguiti nottetempo in quelle stanze di albergo”.

Guerra tra toghe, Mi denuncia “l’occupazione” del potere delle correnti. Il Dubbio il 18 maggio 2020. Caso Palamara, il durissimo attacco di Magistratura Indipendente: “I protagonisti involontari dei nuovi dialoghi sono i Savonarola di un tempo: i duri e puri che gridavano il loro sdegno li vediamo arroccati nel bunker, si cimentano in sottili distinguo o in maldestri equilibrismi dialettici”. “Già all’indomani dei fatti dello scorso maggio Magistratura indipendente ebbe a indicare il pericolo della superficialità e sommarietà con cui si stavano valutando i noti fatti, tanto da ricordare l’espressione trasformista propria del gattopardismo: "se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi". Con un insopportabile moralismo di maniera ci si è accaniti in modo feroce contro pochi individui, convinti di poter così eludere la realtà e far finta di voler cambiare voltando frettolosamente pagina. Nulla di più errato, insensato e delegittimante”. E’ quanto sottolinea Magistratura Indipendente, in una nota a forma del presidente Mariagrazia Arena, e del segretario Paola D’Ovidio. “Ci trovavamo di fronte ad un allarme, un problema ben più serio e generalizzato che avrebbe richiesto in sede associativa una immediata autocritica collettiva Invece si è preferito cercare la strada più rapida e antidemocratica per la occupazione del potere da parte di una corrente in danno dell’altra”. “Negli ultimi giorni, con una seconda ondata di notizie giornalistiche, sono stati pubblicati stralci di messaggi whatsapp. Per uno strano scherzo del destino, i protagonisti involontari dei nuovi dialoghi sono i Savonarola di un tempo: i duri e puri che gridavano il loro sdegno li vediamo arroccati nel bunker, si cimentano in sottili distinguo o in maldestri equilibrismi dialettici. La Giunta dell’Anm, che un anno fa convocò un Cdc d’urgenza ed assemblee immediate chiedendo dimissioni ed esprimendo giudizi morali, oggi tace – denuncia Mi – evidentemente incapace di individuare soluzioni basate su una, smarrita quanto inutilmente sbandierata, Etica della responsabilità”. Il gruppo di Magistratura Indipendente, ricordano presidente e segretario, “ha avviato per tempo, rispetto a quelle drammatiche vicende, un percorso di sofferta autocritica, operando subito un radicale cambiamento e procedendo, nel segno del totale rinnovamento, unico gruppo nel panorama associativo, a un avvicendamento integrale nelle cariche statutarie al fine di favorire il più ampio contributo di sensibilità ed esperienze professionali”. “Se si vuole (tentare di) restituire credibilità e decoro alla magistratura, è necessario, ora come allora, un atto di riflessione e di autoresponsabilità anche da parte delle altre componenti associative e di tutti coloro che si trovano coinvolti: costoro pensavano forse di essere esenti e che quanto sta emergendo sulla libera Stampa non li colpisse, ma così non è stato. Ciò senza indulgere affatto – assicura Mi – sulle condotte che hanno investito anche Magistratura Indipendente per le quali, è bene ricordarlo, tre Consiglieri del Csm si sono dimessi un anno addietro, a ciò determinati, oltre che per sensibilità istituzionale, da una inaudita, terribile ferocia condita da processi sommari con l’individuazione delle loro persone quali unici capri espiatori”.

L’ATTACCO ALL’ANM. “In questi giorni più testate giornalistiche, con la curiosa assenza di quelle più diffuse, hanno nuovamente consegnato, con un tempismo che fa riflettere, al pubblico dei lettori porzioni di conversazioni di tenore simile a quelle dell’ormai noto caso Palamara, con alcuni nuovi, e molti noti, protagonisti” ma “il governo dell’Anm, con alla guida Area, tace, osserva, medita e non si scandalizza, non favella; eppure alcuni dei timonieri attuali si stracciarono le vesti nel mese di maggio 2019 a fronte di pubblicazioni di intercettazioni con protagonisti, in parte, diversi”. A denunciarlo, in una nota, sono i rappresentanti di Magistratura indipendente nel Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati Gli esponenti di Mi chiedono che “chi governa l’Associazione nazionale magistrati sui più recenti accadimenti prenda posizione; non intendiamo imbastire processi mediatici o di piazza, che lasciamo agli altri, ma vogliamo capire quale reale percorso di rinnovamento abbiano intrapreso i colleghi che, scossi dagli eventi del maggio 2019, oggi governano l’Associazione”.

I magistrati scoprono la gogna mediatica sulla propria pelle e si lamentano. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Nella mitologia greca era la nemesi. Dante la definiva la legge del contrappasso. Nei tempi moderni è il boomerang. È quanto sta accadendo in queste ore alle “toghe rosse” di Magistratura democratica, travolte dalla pubblicazione dei colloqui di alcuni autorevoli magistrati progressisti con l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. I colloqui, contenuti nel fascicolo di Perugia aperto a carico di Palamara per il reato di corruzione, non hanno nulla di penalmente rilevante. Rischiano, però, di mettere in grande imbarazzo i magistrati di sinistra che lo scorso anno, sulla base di altre intercettazioni contenute nel medesimo fascicolo e dove i protagonisti erano i colleghi della corrente di destra di Magistratura indipendente, evocarono lo spettro della P2 di Licio Gelli. «È in atto un attacco concentrico di una parte della stampa e di una parte della magistratura» scrive in una nota il Coordinamento di Area, il raggruppamento di cui fa parte Md. «Si riportano – prosegue – stralci di atti giudiziari che rappresentano segmenti di fatti che vengono poi completati e chiosati ad arte, al fine di accreditare un malcostume diffuso a tutti i livelli della magistratura: una notte oscura nella quale tutti gatti sono grigi». «Manovrando il linguaggio con sapienza, si riescono a costruire infinite “verità” e oggi si cerca di confondere quella vicenda, pericolosa per le istituzioni, con atteggiamenti e comportamenti dei nostri odierni rappresentanti, che nulla hanno a che vedere con il corretto esercizio della loro attività istituzionale», continua la nota di Area. «Non siamo disposti a tollerare operazioni mediatiche preordinate a confondere le responsabilità per giungere ad una generale assoluzione che lasci tutto come sempre è stato» conclude la nota. Sul fronte dell’Anm, invece, la giunta esecutiva ha fatto sapere di aver chiesto tutti gli atti del fasciolo “Palamara” alla Procura di Perugia al fine di verificare l’eventuale sussistenza di violazioni di natura «etica” e/o “deontologica» da parte degli iscritti coinvolti nei colloqui riportata. Il caso più rilevante riguarda quello del giudice Angelo Renna di Unicost, attuale componente della giunta Anm, che lo scorso anno definì la vicenda Palamara una «Caporetto per la magistratura». «Non mi muovo senza che tu mi dica cosa fare, sei certo molto più bravo di me», scriveva Renna, che voleva diventare aggiunto a Milano, a Palamara. «Grazie, quasi mi vergogno ma mi emoziono» la successiva risposta di Renna all’interessamento di Palamara. Esclusi i profili penali, l’attenzione delle toghe si concentra ora sulle violazioni deontologiche e disciplinari. Massimo Vaccari, giudice del Tribunale di Verona, ricorda a tal proposito che Giuseppe Cascini è componente della sezione disciplinare che l’anno scorso condannò un magistrato che, fra l’altro, aveva richiesto (come parrebbe abbia fatto l’ex aggiunto di Roma) per alcuni componenti della sua famiglia dei “biglietti gratuiti per assistere alle partite di una squadra di calcio». Nella motivazione del provvedimento la disciplinare aveva evidenziato come «anche a causa della rilevanza mediatica del procedimento, gli episodi contestati sono divenuti di comune dominio ed hanno pertanto determinato un grave e oggettivo ‘vulnus’ della credibilità professionale del magistrato, dinanzi all’opinione pubblica ed agli ambienti forensi, non compatibile con l’esercizio delle funzioni». Il codice deontologico delle toghe, approvato dall’Anm su proposta di una Commissione di cui avevano fatto parte Palamara e Cascini, prevede che il magistrato corretto «non si serve del suo ruolo istituzionale o associativo per ottenere benefici o privilegi per sé o per altri». Tornando al 2019, vale la pena ricordare che il togato di Mi Paolo Criscuoli, poi dimessosi per aver partecipato pur senza intervenire alla nota cena con i deputati Ferri e Lotti, fu “invitato”, circostanza mai smentita, a non entrare in Plenum per non mettere in imbarazzo i colleghi.

Magistrati da intercettatori a intercettati: i Pm scoprono lo sputtanamento. Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Nelle pagine seguenti pubblichiamo tre e-mail che si sono scambiati alcuni magistrati, dopo che diversi membri, o ex membri, del Consiglio superiore della magistratura sono stati infangati dalla pubblicazione sui giornali delle chat di Luca Palamara, intercettate e poi diffuse dalla magistratura perugina. Le pubblichiamo perché in queste lettere – apparse in questi giorni su una chat di magistrati – non c’è niente che “sputtani” i magistrati che le hanno scritte. C’è solo una idea che emerge piuttosto limpida, ed è questa: il metodo di intercettare, spiare, trafugare mail o WhatsApp privati è un metodo un po’ schifoso che non serve certo ad accertare nuove verità ma serve solo a gettare fango e fango addosso alle persone. Alcuni magistrati, specie quelli appartenenti alle correnti di sinistra, immaginano che tutto questo sia solo una manovra che serve a stringere la tenaglia sul collo di Magistratura democratica e cambiare la maggioranza del Csm. Altri si limitano a vedere lo spirito di vendetta contro singole persone. Altri denunciano le manovre della stampa, guidate evidentemente da qualcuno, e precisamente da settori nemici della stessa magistratura. Tutto vero. Qui copio testualmente una frase scritta dal magistrato Valerio Fracassi, prestigiosissimo membro del Csm per molti anni (e anche lui finito sui giornali). È una frase riferita alle intercettazioni e al metodo di diffondere e far pubblicare messaggi riservati: «Non solo questa “pesca”, che accosta chissà perché il calcio alle nomine in migliaia di messaggi, diventa oro colato, ma addirittura non ci si chiede in quale contesto sia maturata la frase riportata per comprenderne il senso compiuto. Il messaggio sintetizza, spesso è preceduto e seguito da colloqui, discussioni, accompagnato da tensioni e quindi scritto in fretta, riguarda, in questo caso, persone che si conoscono da un decennio e, nel periodo, hanno quotidianamente lavorato per quattro anni dalla mattina alla sera. Perfino le nostre chat fuori del contesto o addirittura alcuni colloqui a margine dei processi, potrebbero dar adito a letture “particolari” di chi è alla ricerca di conferme alle tesi precostituite». Già, è esattamente così. C’è però qualcosa che i nostri amici magistrati ancora non dicono. Che questo metodo di “pesca”, questa abitudine a usare intercettazioni o chiacchiere rubate come conferma di tesi precostituite, questa molto ampia possibilità di non capire o addirittura di rovesciare il senso di una frase scambiata tra amici, tutto questo è – sì, certamente – una infamia, ma non è un’infamia solo nel caso, rarissimo, nel quale le vittime sono i magistrati, è un’infamia sempre, anche quando riguarda imputati comuni o – ancor più spesso – quando riguarda gente famosa e in particolare donne o uomini politici. Non credo che sia difficilissimo fare il passo in più. Lo so benissimo che spesso, nella vita, per capire alcune ignominie bisogna passarci dentro, assaggiarle sulla pelle propria. Che fino a quel momento ti sembra che l’ignobile sia la vittima e che il carnefice sia un cavaliere puro, un Torquemada buono. Ora però è successo: fior di magistrati, di grande valore e – non ne dubito neanche per un minuto – di forte spessore morale, sono stati travolti dalle intercettazioni e dalle spie e dai giornali. Ora che è successo è bene che questi magistrati trasformino la loro autodifesa in un atto di accusa, aprendo un fronte liberale nella testuggine manettara e spiona della magistratura. Non è difficile dimostrare che nella maggior parte dei casi le intercettazioni non servono a colpire il crimine ma solo a fabbricare prove, spessissimo false. Né è difficile spiegare che ancora più spesso le intercettazioni sono usate solo nella parte non rilevante dal punto di vista penale, e cioè sono usate per sputtanare persone non colpevoli. Non è difficile neanche raccontare come le intercettazioni servono a comprare i giornalisti, a tenerli buoni, a saperli dalla propria parte e, molto di frequente – ai propri ordini. Dottor Cascini, dottor Fracassi: è così. Dottor Palamara: è così. E se solo avete un po’ di voglia di ragionare in modo oggettivo, anche voi lo capite. Vorremmo adesso avervi al nostro fianco nella battaglia per fermare questa infamia, assolutamente italiana, che sono le intercettazioni a pioggia (cento volte più numerose – dico cento volte – di quelle che si eseguono in Gran Bretagna). Il compito principale sta alla magistratura. È la magistratura che deve chiedere che sia bloccato questo sistema da Germania comunista, o da polizia fascista. Poi viene la politica. Ma la politica, lo sapete benissimo, si muove solo se ha il via libera della magistratura, su questi temi, perché è terrorizzata da voi, ha paura, è sottomessa. Così come voi siete sottomessi alla politica quando riempite gli uffici dei palazzi coi fuori ruolo e permettete che diventino dirigenti o capo di gabinetto di un ministro. Non è così? A cosa è servita l’inchiesta di Perugia? Formalmente a dirci che la magistratura funziona grazie al sottobosco delle correnti, come e molto più della politica fatta col “Cencelli”. Sapete chi è Cencelli? Un vecchio deputato dc che aveva scritto un manuale su come distribuire perfettamente i posti di governo e di sottogoverno tenendo conto di correnti, luoghi geografici, sesso ed età. Oggi c’è Palamara. Cencelli e Palamara sono due ottime persone, non è ottimo il metodo che usano per amministrare il potere. Ma che le cose funzionassero così già lo sapevamo tutti. I giornali non lo scrivevano solo perché i grandi giornali italiani sono al servizio dei Pm. Cioè, del partito dei Pm. Ora quel partito è a pezzi e i giornali sbandano. Inseguono Travaglio, ma non sono più neanche sicurissimi che il capo sia lui. E allora? Se in magistratura c’è qualcuno con un briciolo di coraggio, venga allo scoperto. Ritrovi il senso delle battaglie liberali e garantiste. Non chieda ai magistrati intercettati di dimettersi. Non hanno fatto niente di male, non si dimettano. Si decidano invece a ingaggiare la battaglia. Perché la magistratura torni ad esserci la magistratura e smetta di essere un luogo di corruzione e di mania di potere, di ricatti e vendette che rischia di travolgere la democrazia e lo Stato di diritto.

Le chat private dei magistrati, il messaggio di Fracassi e l’interpretazione fuorviante. Redazione su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Questo è il messaggio scritto dal magistrato Valerio Fracassi in una chat tra magistrati. Un quotidiano ha riportato frasi che sostiene avrei scritto in alcuni messaggi su Whatsapp a Luca Palamara nel periodo in cui ero consigliere del Csm. Risalirebbero a oltre due anni e mezzo fa. Ignoro come si sia procurato queste chat, riservate e non destinate alla pubblicazione, che leggo riportate in modo parziale e del tutto svincolate dal contesto. Ne immagino lo scopo che non mi sembra quello di cercare la verità. Vedo che ne è scaturito una specie di processo di chat in cui – da parte di qualcuno – non ci si è nemmeno chiesti se le frasi fossero rispondenti al vero, al significato del messaggio e al contesto. Un “non” fatto è stato la base per una serie di considerazioni che presupponevano la veridicità di questo fatto, anzi una veridicità “preferenziale”. Ero in dubbio se rispondere su questa chat, ma poi, controllando l’emotività che deriva da alcune “letture”, ho ritenuto necessario intervenire perché il silenzio poteva dare un’impressione sbagliata su alcune circostanze. Ho votato Annarita Pasca perché la ritenevo e ritengo la persona più adatta per il posto ricoperto. Mi sono adoperato, nell’esercizio dei miei compiti e non dall’esterno del Csm, per far sì che fosse nominata. Adoperato in un organo collegiale complesso come il Csm che nomina sulla base di maggioranze confrontando diverse opzioni e sensibilità. Con la stessa convinzione ho votato l’altra persona che lo “storico del Csm” cita nell’articolo e, conoscendo le dinamiche dell’organo collegiale, ho cercato di evitare di andare con una mia proposta di testimonianza pur nella consapevolezza altrui che si trattava delle nomine migliori, evitando così una mera “testimonianza”, meno faticosa, ma non utile per l’ufficio e ingiustamente dannosa per gli interessati. Poiché il consiglio è un organo collegiale, chiunque voglia contribuire alla nomina migliore si impegna per aggregare consenso su quelle proposte. A giudicare dalle unanimi reazioni, nessuno contesta che la nomina sia stata giusta. Quindi anche un criterio “oggettivo” avrebbe dovuto portare a questo risultato. Credo di capire che si contesti un metodo che per ora riposa sulla lettura – fuorviante – di brandelli di messaggi risalenti a oltre due anni fa, la cui fedeltà all’originale si dà per acquisita senza nemmeno il dubbio che si tratti di una strana estrapolazione di una frase che non è nemmeno il messaggio integrale, e, soprattutto, completamente svincolata dal contesto dei vari messaggi e dei colloqui che stanno a margine. Non solo questa “pesca”, che accosta chissà perché il calcio alle nomine in migliaia di messaggi, diventa oro colato, ma addirittura non ci si chiede in quale contesto sia maturata la frase riportata per comprenderne il senso compiuto. Il messaggio sintetizza, spesso è preceduto e seguito da colloqui, discussioni, accompagnato da tensioni e quindi scritto in fretta, riguarda, in questo caso, persone che si conoscono da un decennio e, nel periodo, hanno quotidianamente lavorato per quattro anni dalla mattina alla sera. Perfino le nostre chat fuori dal contesto o addirittura alcuni colloqui a margine dei processi, potrebbero dar adito a letture “particolari” di chi è alla ricerca di conferme alle tesi precostituite. Altro tema che è quello delle pressioni, delle “raccomandazioni”. Strana evocazione perché, come tutti hanno scritto, non vi è stata alcuna pressione o segnalazione da parte dell’interessata. Questo tema è a volte enfatizzato in modo ipocrita. Ci sono sollecitazioni e sollecitazioni. C’è chi, in modo del tutto fisiologico, prospetta il suo caso e le sue aspirazioni anche per sapere che cosa può verificarsi. Lo ritengo un gesto anche di fiducia in un organo rappresentativo. Talvolta la convinzione di essere il migliore porta a qualche “eccesso”, anche se umanamente comprensibile. Ci sono poi i beneficiari del “metodo Scajola”. Le pressioni a loro insaputa. Qualcuno per loro interviene, organizza cene, eventi, riunioni, invitando questo o quel consigliere e poi… interviene in modo pesante. L’ultima è quella di chi ricorre a metodi di ricatto illeciti. Nella mia esperienza ho sempre respinto i rari casi dell’ultimo tipo (e forse qualcuno dovrebbe interrogarsi sulle finalità di certa stampa). Sugli altri ho sempre operato nella ferma convinzione di ricercare la scelta migliore. Quanto accaduto pone tuttavia, a mio parere, un altro problema: ma davvero possiamo ricostruire una complessa trama con pezzi di messaggi whatsapp inviati nel corso degli anni? Ma davvero possiamo assistere alla pubblicazione da parte di alcuni giornali di sedicenti pezzi di messaggi su migliaia di oltre quattro anni, messaggi che dovrebbero godere della tutela della riservatezza, non foss’altro perché si prestano a indebite estrapolazioni e interpretazioni? Mi attendo, in questa guerra con proiettili di fango, ulteriori sviluppi di vario genere. Per la parte che mi riguarda, anche a difesa della fatica e dell’impegno di questi anni e delle ottime nomine come quella di Annarita Pasca, tutelerò la mia immagine nelle sedi opportune, nei confronti dei giornali e di chiunque, in qualunque sede, non sappia distinguere il dibattito dalla denigrazione. Un’ultima precisazione personale. Nella chat si riporta altro messaggio in cui invito Palamara a non pubblicare il posto di presidente di sezione di Brindisi in quanto destinato a me. Anche in questo caso una lettura integrale e la conoscenza dell’intero contesto avrebbe evitato errate interpretazioni. Per fortuna qui ci sono anche gli atti. Sarei tornato all’incarico che avevo prima (già…nessuna “promozione”) anche in soprannumero perché così prevede la legge. Il posto era libero e qualunque amministrazione degna di questo nome non copre un posto vacante se poi deve collocare una persona in soprannumero. In questo caso non sarebbe nemmeno stato possibile espletare prima del mio ricollocamento in ruolo il concorso e quindi, come da costante prassi e normativa, il bando sarebbe stato revocato. È quello che ho ricordato al distratto Palamara con ben altro linguaggio di quello del messaggio riportato parzialmente. Anche in questo caso mi chiedo, a parte il marchiano errore, che c’azzecca questo con la nomina della presidente Pasca e le partite di calcio. A me viene il dubbio che forse l’articolista non era alla ricerca della “verità”. Sicuramente non l’ha scritta. Mi scuso per la lunghezza ma non interverrò più sull’argomento.

I messaggi dei magistrati, il botta e risposta tra Cascini e Lima. Redazione su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Questo è il messaggio scritto dal magistrato Giuseppe Cascini in una chat tra magistrati. Io e Luca Palamara abbiamo gestito insieme per quattro anni (dal 2008 al 2012) lui come presidente e io come segretario, la giunta della Anm. Erano anni difficili, quelli del governo Berlusconi, degli scontri con la magistratura, delle norme ad personam, della riforma costituzionale sulla giustizia. Insieme abbiamo difeso l’indipendenza della magistratura e ci siamo battuti per una autoriforma del sistema giudiziario. Ne è nato un legame di amicizia e di solidarietà che è durato fino ad epoca recente e che io non intendo rinnegare. Io sapevo che Luca sosteneva la mia nomina a procuratore aggiunto e lui, dopo la votazione, mi ha comunicato l’esito della commissione. Ho chiesto informazioni a Luca sulla possibile nomina di Stefano Pesci ad aggiunto a Bologna. Una informazione e una prognosi, niente di più. Appena arrivato al Consiglio ho ricevuto una tessera del Coni che mi autorizzava ad entrare allo stadio (un benefit che ora è stato giustamente eliminato). Ho solo chiesto a Luca (che era appena cessato come componente del Csm) se era possibile portare mio figlio con me e se aveva un riferimento al Coni per chiedere. Non ho mai parlato con Luca del trasferimento di mio fratello a Roma. Ero a conoscenza della vicenda, della quale Luca mi comunicò l’esito. Nella mia vita professionale e associativa ho sempre contrastato i metodi e le prassi che emergono dall’inchiesta di Perugia. E non ho mai chiesto favori a nessuno né per me né per altri. Per questo ho già dato mandato al mio legale di agire in giudizio per diffamazione nei confronti del quotidiano. Giuseppe Cascini

Questo è il messaggio scritto dal magistrato Felice Lima in una chat di magistrati. Cascini, prima facevi il Procuratore Aggiunto di Roma. Dunque, è veramente strano che ti si debbano spiegare cose che dovresti sapere e sapere MOLTO BENE. Sei titolare di un posto pubblico di enorme importanza. Da ciò discende il tuo dovere di trasparenza e il diritto del resto del mondo di commentare le tue azioni. Puoi querelare chi ti pare. Non so niente de “La Verità” e non mi fanno nessuna simpatia, sicché se mai farai la querela che sventoli e se ne avrai un successo ne sarò contento per te. Ora, tornando a noi, in ossequio a quel dovere di trasparenza che ti ho appena ricordato, ti dico quanto segue. 1. Spiegarci in cosa consista la diffamazione di cui accusi “La Verità”. Dicci in cosa quell’articolo è diffamatorio. Dicci cosa ci sia di falso e noi festeggeremo con te. Ma senza Annina e tutti i tuoi amici. Solo noi e tu. Felici di avere appreso che hanno mentito in tuo danno e che non è vero quello che tutti gli italiani hanno letto stamattina. 2. Hai scritto: «Appena arrivato al Consiglio ho ricevuto una tessera del CONI che mi autorizzava ad entrare allo stadio (un benefit che ora è stato giustamente eliminato). Ho solo chiesto a Luca (che era appena cessato come componente del CSM) se era possibile portare mio figlio con me e se aveva un riferimento al CONI per chiedere». Non c’era alcun bisogno di disturbare Palamara per questa cosa. Ti spiego come facciamo noi, le persone “normali”. Certo che è possibile portare tuo figlio allo stadio. Devi solo fare una banalissima cosa: comprargli un biglietto. Prendi lo stipendio di magistrato e circa 100.000 euri l’anno IN PIU’ per il ruolo di Consigliere. Dovresti farcela a comprare un biglietto per lo stadio, senza chiedere “favori” e senza lasciare affamata la tua famiglia. Peraltro, tu stesso scrivi (paradossalmente) che il benefit di cui godevi era ingiusto: «un benefit che ora è stato GIUSTAMENTE eliminato». 3. Hai scritto che insieme a Palamara hai difeso l’indipendenza della magistratura. Noi non ci ricordiamo questo. Noi vi ricordiamo insieme a dare addosso ai colleghi di Salerno. 4. Infine, ti spiego dov’è lo scandalo che emerge da quel giornale. E’ nel fatto che tu sei uno di Md e voi avete per decenni fondato la vostra ragion d’essere nel sostenere di essere “culturalmente” diversi da quelli di Unicost. Quando sono emerse in maniera evidente le cose che riguardano Palamara tu hai sottolineato quanto fossero deplorevoli. Tutto ciò posto, nessuno si aspettava che tu “Annina” e Pesci foste così solidali con Palamara. Che non era e non è solo Unicost. Non “di” Unicost, ma proprio “Unicost”. Ma è come tutti sapevano bene e oggi sanno ancora meglio che è. Insomma, stando alla vostra narrazione pubblica, i vostri elettori si aspettavano (o fingevano di aspettarsi) che tu e Palamara al massimo vi salutaste con cortesia o vi dedicaste insieme, a malincuore, alle necessarie attività istituzionali. Non che tu gli chiedessi biglietti per lo stadio e lo ringraziassi per le sorti di concorsi pubblici che riguardassero tuoi parenti o amici. Dunque, se oltre a sventolare querele, ci facessi la cortesia di una edizione speciale dei Diari in cui ci spieghi cosa c’è di sbagliato in quello che ti ho appena scritto ne saremmo tutti molto ma molto confortati. In mancanza, resta solo un sentimento profondo di amarezza. Statti bene. Felice Lima

Voto di scambio è legge, Forza Italia e Pd hanno votato contro. Il vicepremier Di Maio: “Questa norma era un dovere”. Il provvedimento ha ottenuto 157 sì, 81 no e 2 astenuti ed è approvato in via definitiva. Grasso (Leu): "Legge migliorativa rispetto all'attuale". Il pentastellato Giarrusso: "Quanti farisei presenti anche in questa Aula, la prossima settimana andranno a ricordare Giovanni Falcone a Palermo, dove si dovrebbero vergognare di andare". Il Fatto Quotidiano il 14 maggio 2019.  Come era già accaduto per il voto alla Camera, il 7 marzo scorso, Pd e Forza Italia hanno votato contro. Ma è diventata legge dello Stato, con il via libera dall’Aula del Senato, il ddl sul voto di scambio politico mafioso. Il provvedimento ha ottenuto 157 sì, 81 no e 2 astenuti ed è approvato in via definitiva. “La nostra riforma del voto di scambio politico-mafioso adesso è legge! Rafforzare questa norma era un dovere anche nei confronti di chi ha dato la vita per impedire ogni patto tra politica e criminalità organizzata. #ViaLaMafiaDallaPolitica” scrive su Twitter il vicepremier e leader del M5s Luigi di Maio, aggiungendo un’immagine di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con la scritta: “Le loro idee camminano sulle nostre gambe”. Giurisprudenza a parte, l’effetto principale della riforma è l’inasprimento delle pene che potranno arrivare a quindici anni di carcere. Con le aggravanti speciali si arriva fino a 22 anni e mezzo di condanna: un passaggio che però – per le opposizioni – sarebbe a rischio di ricorsi alla Corte costituzionale.

Cosa prevede la nuova legge: pene più alte e interdizione perpetua. Il testo approvato da Palazzo Madama modifica l’articolo 416 ter del codice penale ed è formato da un solo articolo. Prevede che chiunque accetti, direttamente o con intermediari, la promessa di voti da persone di cui sa che appartengono ad associazioni mafiose, in cambio di denaro o della promessa di denaro oppure di un altro favore, o in cambio della disponibilità a soddisfare interessi dell’associazione mafiosa, è punito con la pena stabilita nel primo comma dell’articolo 416 bis. In pratica la formulazione del reato lega il voto di scambio con l’associazione a delinquere di stampo mafioso. In questo modo si stabilisce un collegamento ontologico tra le due fattispecie criminali: non è un caso, infatti, che nel 416 bis tra i reati fine delle associazioni mafiose s’indica anche “impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. Le pene sono quindi più dure: da sei/dodici anni si passa a dieci/quindici anni. Per tutti i condannati scatta poi l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. C’è poi “un’aggravante speciale“: se il politico si è messo d’accordo con il mafioso per ottenere voti e viene effettivamente eletto le pene sono aumentate. In questo caso la pena dei 10-15 anni previsti dal 416 bis, viene aumentata della metà. L’aggravante speciale, però, era stata contestata e la legge alleggerita da un emendamento di Fratelli d’Italia. Che poi era stato neutralizzato in modo che la norma prevedesse che il riconoscimento della responsabilità di tutti quei politici che prendono voti da mafiosi o intermediari di mafiosi.

Patuanelli (M5s): “Fuori la mafia dalla politica”. “Fuori la mafia dalla politica. Non è uno slogan ma il messaggio chiaro e netto che diamo al nostro Paese con la legge che abbiamo approvato: il voto di scambio – scrive su Facebook il capogruppo del Movimento 5 Stelle al Senato Stefano Patuanelli. –  tra i politici e i mafiosi è un attacco al cuore della nostra democrazia, il tradimento della fiducia dei cittadini e la fine della credibilità per le istituzioni. Da oggi l’Italia ha strumenti nuovi ed efficaci per combattere le mafie e chi fa i loro interessi dentro lo Stato. Era un obiettivo fondamentale del Movimento 5 Stelle, oggi è legge“.  “L’approvazione in via definitiva della legge M5S contro il voto di scambio politico-mafioso è motivo di enorme soddisfazione. È un provvedimento che – dichiara Riccardo Fraccaro, ministro per i Rapporti con il Parlamento –  contrasta il malaffare e tutela la democrazia, inasprendo le pene per i politici che scendono a patti con la criminalità organizzata in cambio di voti. Le mafie sono una piaga di questo Paese e si combattono non a parole ma con i fatti. Chi amministra la cosa pubblica, non può avere alcun tipo di contiguità associazioni mafiose. La politica deve rispondere esclusivamente agli interessi dei cittadini che devono poter scegliere legittimamente i loro rappresentanti. Con il provvedimento varato dal Senato mettiamo la mafia fuori dallo Stato“.

Fi: “Aumenti di pena sconsiderati”. Pd: “Profili di illegittimità”. “Non si può non riconoscere che grazie alle nostre leggi, mai modificate, si continua a combattere la mafia con le norme più giuste. Questa legge non la votiamo invece perché prevede – aveva detto Giacomo Caliendo, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, nel corso del dibattito – soltanto aumenti di pena sconsiderati e incoerenti con la complessiva legislazione penale. Non condividiamo inoltre che in materia penale si intervenga ogni due anni rendendo così la legislazione slabbrata e in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione. Noi riteniamo che il vero antidoto alla mafia siano processi rapidi applicando norme equilibrate e severe come quelle da noi realizzate. Oggi più che mai vogliamo ribadire che i nostri governi di centrodestra di cui faceva parte anche la Lega hanno approvato leggi di contrasto alla criminalità organizzata tuttora in vigore”. Anche i democratici hanno votato contro: “All’inizio della scorsa legislatura fu approvata la riforma del 416 ter. Quella riforma, lo ha ripetuto la procura Antimafia più volte, ha funzionato, ha consentito molte condanne. Era una norma chiara, equilibrata, condivisa dalla magistratura e dal vasto mondo associativo Antimafia, che nessuno aveva chiesto di modificare. Ora questa maggioranza, in nome della propaganda, la vuole cambiare al fine di intestarsi una battaglia per apparire gli unici depositari del principio di legalità, proprio mentre il decreto sblocca cantieri fa un passo indietro su questo terreno, come denunciato anche oggi da Raffaele Cantone  – ha detto il senatore Franco Mirabelli, vice presidente dei senatori del Pd -. Per apparire più onesti degli altri, Lega e 5S peggiorano e mettono a rischio una norma importante: si restringe il campo, si crea incertezza interpretativa, si rischiano profili di illegittimità costituzionale con pene sproporzionate e senza logica. L’unico risultato che si ottiene è quello di indebolire il contrasto al voto di scambio politico-mafioso”.

Prima del voto c’era stato un confronto tra il dem Luigi Zanda e il 5stelle Michele Giarrusso: “Quanti farisei – aveva detto il pentastellato – presenti anche in questa Aula, la prossima settimana andranno a ricordare Giovanni Falcone a Palermo, dove si dovrebbero vergognare di andare”. “Il senatore Giarrusso – la replica del tesoriere dem –  ha dato dei farisei a senatori che siedono in questa Aula. Lanciare accuse o insulti generici senza dire i nomi delle persone a cui queste accuse sono rivolte è un metodo mafioso e in quest’Aula queste cose non sono consentite“.

LeU invece vota a favore dopo astensione alla Camera. Critico con il governo il senatore Pietro Grasso, ex procuratore capo di Palermo, che però ha annunciato il voto favorevole di LeU. Il partito di sinistra si era astenuto alla Camera alla votazione precedente: “State facendo anche della lotta alla mafia – tema che dovrebbe unirci tutti per garantire al nostro Paese legalità, sviluppo e crescita – l’ennesimo spot elettorale. Vederla utilizzata come “scusa” dal ministro dell’Interno per sottrarsi alle celebrazioni della Liberazione, ad esempio, è un modo per svilire un impegno che deve essere costante, quotidiano, serio. Non basta – ha aggiunto l’ex magistrato – inaugurare a favore di telecamere beni confiscati molti anni fa, non bastano post e tweet ad ogni arresto – magari ad operazioni in corso, compromettendone anche l’esito – per adempiere a quelli che sono gli obblighi di guida del Paese. I latitanti non li arrestano i Governi, ma la magistratura e le forze di Polizia! Il contrasto alla mafia, infatti, è molto di più di tutto questo. “l Paese merita molto di più di quanto non stiate facendo su questo come su tutti gli altri fronti della vostra azione politica. Ci aspettiamo altri provvedimenti in Commissione e in Aula per rendere il contrasto alle mafie più efficace, la lotta all’economia criminale più incisiva e i processi più rapidi. Ciò premesso, e dandovi ulteriore prova di quanto quello che ci interessa è il merito dei provvedimenti e non la parte politica che li sostiene, riteniamo che la nuova fattispecie del 416-ter, soprattutto dopo le modifiche apportate alla Camera, sia migliorativa rispetto all’attuale, e per questo annuncio che Liberi e Uguali voterà a favore”. “Oggi abbiamo raggiunto un altro grande risultato: è stata approvata definitivamente la nuova norma sul voto di scambio politico-mafioso. Il testo che è stato licenziato consentirà di contrastare in modo più efficace ogni ipotesi di infiltrazioni della mafia all’interno della politica. Situazioni gravissime perché incidono sulla massima espressione della democrazia” dicono i portavoce del MoVimento 5 Stelle in Commissione giustizia alla Camera, commentando l’approvazione della proposta di legge che modifica l’art. 416-ter c.p. “È fondamentale, invece, che il voto espresso alle urne sia libero da qualsiasi tipo di condizionamento, specie quello derivante da soggetti legati in qualsiasi modo alle cosche mafiose e al malaffare. Tante sono le novità di rilievo, dall’aumento delle pene al daspo a vita per i politici condannati per questo gravissimo reato. Non possiamo che mostrare la massima soddisfazione per aver fatto un altro passo verso il cambiamento, così da restituire ai cittadini la fiducia nella giustizia e nello Stato“.

Latina, le collusioni mafiose di Lega e Fratelli d'Italia. Nella città laziale, feudo storico della destra, i clan hanno messo le mani sulla politica. Facendo eleggere chi volevano, gestendo voti, garantendo affissioni intoccabili, muovendo galoppini. Andrea Palladino il 28 gennaio 2020 su L'Espresso. Giorgia Meloni non ne aveva dubbi. Scandiva le parole: «A Latina possiamo contare obiettivamente su quella che è forse una delle migliori classi dirigenti di Fratelli d’Italia». Era il 2014, elezioni europee. Il cavallo di razza che appariva accoppiato con il suo nome sui manifesti elettorali era Pasquale Maietta. Un vero mito a sud di Roma. Commercialista di successo, da sempre il primo degli eletti a destra, patron del Latina, squadra che sfiorò, all’epoca, la serie A. Calcio, affari e politica. Giorgia Meloni guardava Maietta compiaciuta, scambiando sorrisi: «Lo dico da un anno, perché non ti prendi anche la Roma?». Dal 2013 era diventato un politico di primo piano a livello nazionale. Giorgia si fidava talmente tanto da affidargli il portafogli, nominandolo tesoriere del partito alla Camera dei deputati. Era l’ascesa, apparentemente inarrestabile, dell’enfant prodige della destra. Poi venne uno tsunami. Giudiziario, sconvolgente. Di quella classe dirigente che poco prima la leader di Fratelli d’Italia portava come esempio è rimasto poco. Maietta, terminato il mandato, è finito agli arresti, con l’accusa di essere il “perfetto stratega” di un complesso sistema di riciclaggio che partiva da Latina per arrivare a Lugano. Non in una fiduciaria svizzera qualsiasi, ma nello studio SMC Trust, il “family office” presieduto da Max Spiess, subentrato nella carica al più noto Giangiorgio Spiess, l’avvocato tutore degli interessi di Licio Gelli nel Canton Ticino. Il vero salotto che conta nel mondo finanziario internazionale, da sempre Gotha impenetrabile. Soldi, tantissimi soldi, un tesoro che passava attraverso il Latina calcio, controllato da patron Maietta, utilizzato - secondo la procura - come una enorme lavatrice di denaro “di dubbia provenienza”. L’alleanza tra l’ex tesoriere di Fratelli d’Italia e il trust svizzero, che durava, secondo le indagini, dal 2007, era consolidata e ben oliata.

Pasquale Maietta. Quello che per gli investigatori era “un gruppo organizzato di soggetti che forniscono in modo stabile e professionale consulenza e servizi per il riciclaggio di fondi di provenienza illecita” aveva un terminale molto lontano dai salotti ovattati di Lugano. Le radici del potere del “sistema Latina” affondano sulla riva di uno dei tanti canali della bonifica, a Campo Boario. Case basse, leoni lucidi di ceramica, il kitsch e i cavalli da corsa lasciati a pascolare nei campi sportivi comunali. È il mondo di sotto, il regno dei Di Silvio-Ciarelli. Clan Sinti, parenti diretti dei più noti Casamonica, arrivati in terra pontina nel dopoguerra, negli anni '90 hanno preso il controllo del narcotraffico sottraendo il territorio di Latina ai casalesi e imponendo alla città il loro modo di comandare. Taglieggiando, occupando pezzi di quartieri, sparando e uccidendo, quando serviva. «Se pijamo Littoria», dicevano in alcune intercettazioni del 2010. Hanno fatto di più - stanno raccontando oggi alcuni collaboratori di giustizia - prendendosi soprattutto la politica. Gestendo voti, garantendo affissioni intoccabili, muovendo galoppini. Diventando la batteria elettorale dei nostalgici del Boia chi molla.

Brigata Littoria. Latina vuol dire destra, da sempre. Basta mettere in fila i nomi dei gruppi degli ultras della squadra di calcio: “Falange”, “Brigata Littoria”, “Commando”. Per anni governata da un sindaco con un passato nei “Ragazzi di Salò”, Ajmone Finestra, venne definita da Gianfranco Fini “il laboratorio politico” nazionale. Latina era un simbolo con il parco comunale intestato ad Arnaldo Mussolini, fratello di Benito, e l’edificio nel cuore della città chiamato “M”, per la sua forma, omaggio al duce in epoca fascista. Oggi Latina vuol dire Lega. Il travaso degli ex missini, di quella classe politica cresciuta attorno al mito di Littoria e di “quando c’era lui”, è stato massiccio. Il crollo - giudiziario, politico - dell’enfant prodige di Fratelli d’Italia è stato il vero motore dell’assalto alla diligenza di Matteo Salvini. Certo, contava il marchio, in quello che in questa terra appare oggi più come una sorta di franchising politico che una vera e propria struttura di partito. Il dato certo è che i quadri di Matteo Salvini hanno quasi tutti un passato nero, in alcuni casi nerissimo. Orlando Tripodi, fino al 2016 in Forza nuova, è diventato il capogruppo leghista in Consiglio regionale, dopo aver perso sonoramente le elezioni comunali con una lista civica. L’ex An Matteo Adinolfi in quello stesso anno è passato alla Lega, guadagnando un posto in consiglio comunale, per poi essere eletto deputato europeo nelle ultime elezioni del 2019. Proviene dalla destra - il sindacato UGL - anche Claudio Durigon, deputato della Lega e responsabile del dipartimento lavoro del partito. Ma è il sentiment quello che conta nella città, nella antica Littoria.

Claudio Durigon. La base della destra a Latina ha radici profonde nella squadra di calcio. E nei clan di Campo Boario. È questa la terra di mezzo dove - secondo le indagini - si incontrano politica, tifoserie e manovalanza criminale. Gruppi ultras duri, ascoltati, nel 2014, mentre nella loro sede preparavano spranghe di ferro da portare in trasferta. Pronti, quando serviva, a spostare voti. Il Latina fino al 2017 è stato il regno assoluto di Pasquale Maietta. E del suo amico di sempre, Costantino “Cha cha” Di Silvio, uno dei primi esponenti dei clan a finire agli arresti. Aveva un ruolo di primo piano, sempre presente nelle trasferte, pronto ad accompagnare le autorità nella tribuna Vip. In città lo conoscevano come l’amico fedele dell’ex tesoriere di Fratelli d’Italia, che lo accompagnava spesso nello struscio tra i negozi del centro.

Il fantasma dei Di Silvio. Negli ultimi mesi nel feudo della destra laziale, per sentire parlare di politica, conviene affacciarsi nell’aula del Tribunale, ascoltando le testimonianze nel processo chiamato “Alba pontina”, istruito dalla Dda di Roma. L’accusa per i membri del clan è pesante, associazione mafiosa. Alcuni imputati sono già stati condannati con rito abbreviato nei mesi scorsi e oggi il dibattimento principale sta diventando una sorta di schermo gigante dove scorre la storia della città. Una presenza asfissiante, fatta di piccole e grandi estorsioni: «Non era necessario usare le armi - ha raccontato un collaboratore - non c'era bisogno perché ormai la gente sapeva che ti sparavano». Bastava il nome per abbassare la testa. Quando, nel 2015, scattò la prima operazione contro il clan Sinti, accadde qualcosa di mai visto. Un senso di liberazione sembrò attraversare al città. La sera degli arresti - che colpirono anche l’amico fidato di Maietta, “Cha cha” Di Silvio, oggi in carcere - una folla andò in corteo verso la Questura. Dal portone si affacciarono gli agenti della squadra mobile e i due poliziotti che avevano cambiato le sorti della città, il questore Giuseppe De Matteis (oggi a Torino) e chi aveva condotto le indagini, Tommaso Niglio. Vennero simbolicamente abbracciati, quel sistema di potere stava iniziando a sgretolarsi. L’ascesa dei Di Silvio - e la loro potenza - nasceva da una alleanza, profonda, che durava da anni. Visibile a tutti, ma coperta dal silenzio. Dopo aver preso in mano il narcotraffico nel capoluogo, il clan aveva la necessità di entrare in qualche maniera nell’economia visibile. Non avevano, tra i loro uomini, chi era in grado di far girare il denaro, di ripulirlo, di farlo tornare visibile. L’alleanza con la classe imprenditoriale e con alcuni commercialisti li rese forti, in grado di penetrare i salotti buoni della città.

Il suicidio dell’avvocato. Mancavano due giorni al Natale del 2015 quando l’avvocato di Latina Paolo Censi, già presidente della Camera penale, si toglie la vita nel suo studio. La squadra mobile tra le sue carte trova la traccia che porterà ad una svolta nelle indagini sul Latina calcio e su Pasquale Maietta: «Dei fogli di un Block notes strappati, gettati al secchio e sui quali erano riportate diverse parole che, collegate tra loro, evidenziavano l'esistenza di uno scenario inequivocabile», scrivono i magistrati nell’ordinanza di custodia cautelare che, nel 2018, porterà in carcere l’ex tesoriere di Fratelli d’Italia. In particolare due erano i riferimenti che colpirono gli investigatori: “Svizzera” e “Riciclaggio”. Due anni dopo uno degli uomini di fiducia del clan Sinti di Latina, Renato Pugliese, figlio illegittimo di “Cha cha” Di Silvio, inizia a collaborare. Ricostruisce il potere di quel mondo dove convivevano pezzi di politica, commercialisti scaltri e manovalanza criminale. Ricorda anche quel suicidio del 23 dicembre 2015, dando elementi importantissimi: «Riccardo Agostino (altro membro del clan, anche lui oggi collaboratore di giustizia, ndr) mi diceva che dietro la morte di Censi ci fosse una questione di soldi in Svizzera, circa 50-60 milioni di Maietta». Le successive indagini, con rogatoria in Canton Ticino, sono riuscite a ricostruire il percorso solo di una parte di quel tesoro. I primi racconti di Pugliese escono sui giornali il 26 aprile dello scorso anno. Tre giorni dopo, nella notte tra il 29 e il 30 aprile sulle chat WhatsApp frequentate anche da ultras del Latina calcio appare un video. È Cha cha Di Silvio, il padre del collaboratore, che gira nudo su un risciò a Milano Marittima, gridando «Come la va onorevole?», riferendosi, evidentemente, a Pasquale Maietta. Il video era stato girato cinque anni prima, secondo le ricostruzioni dei giornali locali, durante una trasferta del Latina. Un messaggio ben chiaro, il segno che il “sistema Latina” si è solo immerso.

La batteria elettorale. Le indagini non si sono fermate alla pista Svizzera. La collaborazione di Pugliese apre scenari inediti. Che arrivano fino al mondo politico di oggi, sfiorando i dirigenti passati dalla destra dura alla Lega di Matteo Salvini.

Salvini e Tripodi. L’attuale sindaco della città, Damiano Coletta, cardiologo, eletto con una lista civica quando la destra crollò dopo le prime indagini, non ha nessun dubbio. Esiste un “sistema Latina”: «Abbiamo dovuto ricostruire l’intera macchina amministrativa, ricreare le procedure, non è stato facile». Ha provato, da primo cittadino, a chiedere aiuto a Salvini ministro dell’Interno il 29 settembre del 2018. Il leader della Lega stava per arrivare in città, per un comizio in un terra dove il consenso cresceva. Coletta ha chiesto un incontro, formalmente, per consegnare una nota dove raccontava come per il capoluogo pontino non si poteva più parlare solo di infiltrazione della mafia, ma di gruppi autoctoni, «non senza la compiacenza o almeno la colpevole disattenzione della classe politica». Tutto era pronto, ma due ore prima dalla Prefettura cancellano l’incontro. Salvini arriva in città, ignorando quella richiesta di aiuto, e sul palco fa salire un volto che Damiano Coletta conosceva bene, Orlando Tripodi, oggi capogruppo della Lega in consiglio regionale. Era uno dei suoi avversari nel 2016, esponente dell’estrema destra prima di entrare nel partito di Salvini. Ed è uno dei tanti nomi entrati nel racconto del figlio di “Cha cha”, Renato Pugliese: «La campagna elettorale per Tripodi l’ha fatta Giancarlo Alessandrini con Sabatino Morelli e qualcuno che frequentava la curva», ha raccontato ai magistrati.

Fabio Rampelli e Giorgia Meloni. Quel gruppo era una sorta di batteria elettorale composta da ultras ed esponenti delle famiglie Sinti, i Morelli. I clan, nel 2016, si erano divisi i candidati della destra come si fa con una piazza di spaccio, racconta Pugliese: «Noi abbiamo fatto la campagna per Noi con Salvini (…) allora avevamo l'incarico dell’attacchinaggio». Il figlio di “Cha cha” operava nella politica insieme a un altro esponente dei clan, Agostino Riccardo, che ha iniziato a collaborare poco dopo. E in aula Riccardo ha aggiunto altri particolari, altri nomi del mondo politico della destra. Partendo dall’elezione di Maietta nel 2013. L’ex tesoriere di FdI alla Camera risultò il primo dei non eletti ed entrò solo per la rinuncia di Fabio Rampelli, presente anche in altri collegi.

Matteo Adinolfi e Matteo Salvini. Una scelta politica, ha sostenuto il vicepresidente della Camera. Un’imposizione dei clan, ha raccontato Agostino Riccardo: «L’onorevole Rampelli fu minacciato per dimettersi». Il racconto del collaboratore attraversa gli ultimi anni della politica pontina, segnata da una sorta di passaggio del testimone. Prima l’appoggio a Maietta e Fratelli d’Italia, poi l’azione dei Di Silvio si sarebbe spostata sulla Lega: «In queste (elezioni) più recenti avevamo un candidato particolare, Adinolfi, il commercialista. Lo incontrammo nella sede di Noi con Salvini», ha dichiarato in aula il 7 gennaio scorso, citando per la prima volta l’eurodeputato della Lega. E potrebbe essere solo l’inizio di nuove inchieste. Tanti omissis coprono, ancora oggi, molti verbali.

Il “sistema Emilia” dietro la vittoria di Bonaccini. Luca Morini, consigliere comunale Castel San Pietro Terme. Redazione di Nicola Porro.it il 28 gennaio 2020. Riceviamo e pubblichiamo volentieri questa lettera di un Consigliere comunale di una città emiliana di ventimila anime (Castel San Pietro Terme), eletto con il centrodestra. Congratulazioni ai vincitori, le scelte democratiche degli elettori non si discutono. Congratulazioni soprattutto al sistema politico locale per aver dato a tutti una lezione di gestione delle proprie “armi”. Ammesso che il fine sia la conservazione del potere in sé e per sé. Abbiamo assistito ad una prova di grande strategia politica. Strategia fatta di prove sottratte allo sguardo indiscreto dell’elettore. Strategia fatta di dialoghi nei corridoi, nelle stanze lontane dalle telecamere e dai giornalisti, fatta di retro accordi, strette di mano e pianificazioni strategiche e comunicative. Una strategia politica legittima, che non si racconta, che non piace all’elettore, ma che non è vietata da nulla, si è sempre fatta e sempre si farà. L’elezione appena conclusa in Emilia Romagna ha avuto indicazione di voto e sostegno:

dal Cardinale e Vescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi in persona;

del Pd, rinato grazie ad un movimento di sardine artatamente quanto, diciamolo, genialmente creato, sostenuto nelle piazze tramite CGIL, ANPI e partito stesso;

di Italia Viva, che ha comunque in alcuni esponenti locali un suo peso in termini di voto;

dei centri sociali, ragazzi che si ritengono portatori del Sacro Verbo, difensori della Libertà e della Democrazia, ma che non sanno ancora nulla della vita, del mondo, delle difficoltà e della politica (con le dovute eccezioni);

dei 5 Stelle, di cui il Pd ha ora riassorbito l’elettorato dissidente, definitivamente fagocitando l’intero movimento, facendo peraltro creder loro di aver contribuito a chissà quale nobile causa.

Senza voler aggiungere altro od altri – anche se ce ne sarebbero – dobbiamo tutti soltanto riconoscere il merito del vincitore. Mi vien, peraltro, quasi da pensare che la diretta conseguenza di questa sparizione, in termini di voti, dei grillini, avrà ora un peso anche sugli equilibri di Governo. In fondo non esistono praticamente più i 5 Stelle, poverini. Non è che il Pd farà ora valere questo evidente maggior peso politico? Sia in Calabria che in Emilia Romagna i grillini sono spariti infondo, sono spariti in Umbria, stavano già sparendo alle europee, lo si respira, lo si sente, lo si sa, lo sanno loro per primi. Sta a vedere che ora assisteremo ad un Governo sostanzialmente monocolore Pd. Bhé, due volte bravi quindi. Ammesso, lo ripeto, che il fine sia o debba essere il potere in sé e per sé, perché qui, il bene pubblico, le competenze, le capacità c’entrano zero. Il muro che il sistema politico locale è riuscito a creare, ha retto alla forza del messaggio politico di due leader, uno soprattutto, monumentale per impegno e dedizione anche in questa campagna elettorale, in grado di parlare alle persone dimenticate, a chi ha i calli sulle mani, a chi è dimenticato dal sistema di potere dei “salottini buoni”. Continuerò, nel mio piccolo, a sperare e lavorare per l’alternanza, nella mia regione, perché le dinastie al potere crollino democraticamente. Non c’è altra via perché anche questa terra, che mi appare sempre più dinastica, sempre più condannata ad essere gestita da una sola fazione, possa vivere una vera, genuina e sacrosanta alternanza nella gestione delle decisioni, delle scelte, degli indirizzi. Alternanza che però, non dovrebbe aver fine nella mera gestione del potere, ma nell’acquisizione quotidiana del consenso popolare attraverso una sana competizione tra opposte visioni politiche. Senza mezzucci, senza retrobotteghe, senza chiamata alle armi destinata e sorretta da chi con i partiti ed i presidenti di regione non dovrebbe aver nulla a che fare. Praticamente un sogno ad occhi aperti. Luca Morini, consigliere comunale Castel San Pietro Terme.

Attilio Fontana (Lega): «In Emilia-Romagna portati a seggi centenari e disabili». Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Franco Stefanoni. «Era difficile, per la sinistra era l’ultima ancora di salvezza, è stata fatta una mobilitazione degna dei tempi andati, si è vista in tv gente di più di 100 anni portata ai seggi, disabili accompagnati con i pulmini, una mobilitazione per salvare quel che resta di un’idea che ormai è svanita». Lo ha detto il presidente della Regione Lombardia, il leghista Attilio Fontana, parlando delle elezioni regionali in Emilia Romagna, vinte dal candidato del centrosinistra, il presidente uscente Stefano Bonaccini. Fontana non considera che la Lega abbia commesso errori in campagna elettorale: «Se errore è riuscire ad arrivare al 42% in Emilia Romagna, ben vengano errori di questo genere. Spero che se ne ripetano altri, che si riesca a prendere ancora una massa di voti così imponente. Fin dall’inizio ho detto che per me era già un successo grande poter dire che si poteva combattere ad armi pari, poi è chiaro che se si fosse vinto sarebbe stato sicuramente meglio». Ora il Carroccio e Matteo Salvini «devono continuare sulla strada che hanno intrapreso, sulle prossime elezioni regionali, e ribadire l’assoluta impossibilità che questo governo vada avanti a non fare nulla e a continuare a vivacchiare in questa maniera grave e perniciosa per il nostro Paese». «Il presidente della regione Lombardia si era sempre contraddistinto per la misura rispetto ad alcuni suoi compagni di partito. Dispiace vedere che oggi abbia perso con questa dichiarazione tale cifra. Disabili ed anziani hanno diritto al voto quanto tutti gli altri cittadini». Lo scrive su Fb il vicesegretario dem, Andrea Orlando. «Dubito, avendo partecipato alla campagna elettorale, che ci sia stato un apposito servizio trasporti del Pd in Emilia Romagna ma in ogni caso leggere una sconfitta come quella subita dalla Lega in questi termini è solo un goffo tentativo di rimozione degli errori di Salvini e dei meriti dei suoi avversari a partire da Bonaccini. Se un centenario va a votare è anche perché non vuole che torni l’odio, essendo stato, magari, testimone oculare di ciò che può provocare». «Se un presidente di Regione, in cui vivono disabili, anziani e molti cittadini che votano per un partito diverso dal suo, si produce in dichiarazione come questa, cessa di essere un uomo delle istituzioni e diventa soltanto un propagandista di partito», conclude Orlando. «Nel giorno della visita dell’Arcivescovo di Milano Delpini in consiglio regionale Fontana manca di rispetto agli elettori dell’Emilia-Romagna. Pur di nascondere la sonora sconfitta della Lega mette in imbarazzo l’istituzione che rappresenta. Ci permettiamo di dire al presidente Fontana che se una o più persone disabili hanno votato per confermare il governatore Bonaccini è perché in Emilia Romagna si sentono tutelate e non volevano essere trattate come i disabili gravi lombardi, privati con un tratto di penna di contributi essenziali per la loro assistenza per colpa delle decisioni di una giunta guidata dalla Lega». Così Vinicio Peluffo e Fabio Pizzul, segretario regionale e capogruppo in Regione del Pd replicano al presidente lombardo Attilio Fontana. «Il presidente Fontana, che dovrebbe rappresentare tutti i cittadini lombardi, si abbassa al livello della più becera propaganda, quando dice che abbiamo vinto in Emilia Romagna perché abbiamo portato a votare i centenari e i disabili. Il livello di questa dichiarazione si commenta da solo. Noi invece vogliamo continuare a battere questi avversari, anche per le frasi come queste che esprimono questo livello culturale per il Paese. Se posso dare a un avversario un consiglio, pur se non richiesto, cerchi di capire le ragioni di una sconfitta invece che raccontarsi e raccontarci delle orribili invenzioni». Così Emanuele Fiano, della presidenza del gruppo Pd alla Camera. «Voler far passare le mie parole come un attacco agli elettori emiliano-romagnoli o, peggio ancora come un attacco addirittura ad anziani e disabili, è puerile e semplicemente spiega il livello di chi usa queste argomentazioni»: è quanto il governatore della Lombardia Attilio Fontana ha replicato alle critiche provenienti dall’opposizione in merito alle sue frasi sul voto in Emilia Romagna. «Una mia estrema sintesi sul risultato delle elezioni, utile a rendere l’idea di quanto fossero decisive per il Pd, è stata ripresa e strumentalizzata - in maniera qualche volta isterica - da molti esponenti regionali e nazionali dello stesso partito, per indicarmi al pubblico ludibrio», ha scritto Fontana su Facebook. «Le mie dichiarazioni volevano solo rendere evidenti e spiegare la straordinaria mobilitazione messa in campo dalla macchina elettorale emiliano-romagnola per non perdere il governo di quella Regione, divenuta come si è visto, contendibile. Lascio agli altri gli insulti e - ha concluso - mi scuso se qualcuno si è sentito offeso».

Elezioni, il business del voto di scambio: fino a 100 euro a famiglia. Denaro, buoni pasto e promesse di lavoro contro pacchetti di preferenze. Ninni Perchiazzi l'11 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. In principio fu il senatore Achille Lauro, poi sindaco di Napoli negli anni Cinquanta a varare la politica della «scarpa spaiata». La leggenda racconta che l’illustre politico distribuisse la scarpa sinistra in campagna elettorale e dopo il voto, a successo conquistato, concedesse anche quella destra. Ingegnoso ma altrettanto illegale quanto le pratiche susseguitesi nel tempo che hanno permesso di mantenere in vita ancora oggi la consuetudine rappresentata dalla compravendita di voti ovvero un reato di cui tutti parlano e sanno, tanto da ritenerla una pratica tutto sommato possibile. Quasi normale. Mezzi e accorgimenti si sono evoluti, così i famosi mocassini partenopei si sono via via trasformati nelle cosiddette «buste della spesa» (pagate per giorni o settimane), buoni pasto, buoni benzina, tessere telefoniche e promesse di vario tipo, fino ai fruscianti contanti gestiti da personaggi border line, protagonisti di un sottobosco non necessariamente criminale, ma dotato di un eccezionale potere di indirizzare successi personali ed esiti elettorali. L’ulteriore step, nel mercato dei voti, prevede promesse di assunzioni a medio-lungo termine - magari in carrozzoni pubblici o imprese private di amici degli amici - che il più delle volte non arrivano mai. E anche questo è un mondo più che mai variopinto, in cui maneggioni e affabulatori la fanno da padrone, magari nell’ambito di cene elettorali sempre più rare, che facevano tanto tendenza negli anni ‘80-‘90, ma ormai quasi in disuso, superate da fattizi incontri mordi e fuggi per un caffè o un brunch. Non quindi peregrino l’allarme lanciato qualche settimana fa da un membro della commissione parlamentare antimafia sul pericolo dell’inquinamento del voto, come è quantomai attuale, purtroppo, la denuncia dell'associazione antimafia Libera (guidata da don Ciotti) circa l’esistenza in Italia del «partito della corruzione», un’entità capace di muovere almeno il 4 % del consenso del Paese ovvero un pacchetto di voti non da poco. Una considerazione frutto alle rilevazioni dell’Istat, secondo la quale a oltre 1 milione e 700 mila cittadini (pari al 3,7% popolazione fra i 18 e gli 80 anni) sono stati offerti denaro, favori o regali per avere il loro voto alle elezioni amministrative, politiche o europee. Circa 4 milioni di italiani poi, hanno dichiarato di «conoscere personalmente parenti, amici, colleghi o vicini, ai quali è stato chiesto il voto in cambio di soldi o favori», con un picco registrato in Puglia, con una percentuale del 23,7% del campione. In regione, quindi, poco meno di un milione di pugliesi è perlomeno a conoscenza di tali consuetudini, capaci di smuovere milioni di euro. Pressoché estinti i rappresentanti di lista - elementi interni ai partiti che non percepivano compensi ed espletavano il loro compito per spirito di servizio ovvero gratis assistendo alle operazioni di voto e di scrutinio per conto del partito o di un candidato -, ha ormai preso piede la figura del raccoglitore di preferenze. È una sorta di mutazione genetica del rappresentante di lista, che, rivelano i bene informati (anche se è un segreto di Pulcinella), gestiscono gruzzoletti variabili da 3mila a 10mila euro con cui si assicurano pacchetti di voti pagando ciascuna preferenza tra 20 e 50 euro in alternativa con buoni benzina, buoni pasto o tessere telefoniche. Cifre in linea con chi frequenta gli ambienti delle macchine politico elettorali e racconta «che al San Paolo c’è chi si sta muovendo assicurando cento euro a famiglia per almeno tre voti», anche perché, come detto, il mercato elettorale appare sempre più dinamico e pronto ad adeguarsi ai tempi. Anche i conti non è difficile farli. Con 17-20mila euro è possibile garantirsi da 350 a 500 voti, che con un ulteriore sforzo possono arrivare a mille, spesso l’equivalente di una polizza a garanzia dell’agognata elezione. A Bari sono trentasei i seggi (più la poltrona del sindaco) dell’aula Dalfino, a contenderseli più di ottocento candidati consiglieri comunali suddivisi nelle ventiquattro liste a sostegno dei sei aspiranti primo cittadino, mentre si supera quota mille al capitolo aspiranti consiglieri dei cinque Municipi. Come detto, è impresa tutt’altro che improba sviluppare qualche calcolo del giro di danaro generato dall’appuntamento con le amministrative in programma l’ultima domenica di maggio. Senza esagerare, la campagna elettorale sotterranea e parallela a quella ufficiale - quella canonica fatta di santini, manifesti e comitati -, muove in modo quasi scientifico un giro milionario di denaro totalmente a nero, attorno al quale aleggia minacciosa la criminalità, che pure recita una parte da protagonista in tali tristi vicende. 

Mercanti di voti: il voto di scambio sui giornali Raccontano che "‘O Comandante" - come veniva soprannominato a Napoli – soleva regalare la scarpa sinistra prima delle elezioni e la destra se veniva eletto. Chi era Achille Lauro, "O Comandante". Andrea Carli il 4 febbraio 2013 su il Sole 24 Ore. Monti bolla la proposta di Berlusconi di dare indietro agli italiani i soldi dell'Imu come «un tentativo simpatico di corruzione». Insomma, dice il professore, il Cavaliere «compra vota con i soldi degli italiani». Il presidente del Consiglio uscente tira fuori dagli almanacchi della storia la figura di Achille Lauro che, spiega Monti, «un cinquantennio fa prometteva qualche chilo di pasta o una scarpa promettendo l'altra a voto ottenuto».  Raccontano che "‘O Comandante" - come veniva soprannominato a Napoli - soleva regalare la scarpa sinistra prima delle elezioni e la destra se veniva eletto. Nato a Sorrento nel 1887, figlio di un armatore di velieri, nel dopoguerra - dopo una breve militanza tra le file dell'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini ed, esaurito quel movimento, non pochi tentativi per entrare nella Dc - decide di dare voce al partito dei nostalgici della monarchia. Dopo la tragedia di una guerra che ha messo il Paese in ginocchio, c'è tanta voglia di ricominciare. De Gasperi fa avanti e indietro dagli Stati Uniti per convincere gli americani che non c'è un pericolo comunista in Italia, e che il Paese merita una fetta della torta del piano Marshall. Proprio in questi anni si pongono le basi del miracolo economico. O'Comandante lo intuisce. Bisogna parlare alla pancia delle persone. L'armatore fa campagna elettorale distribuendo pacchi di pasta, elargendo banconote tagliate a metà e, appunto, dando scarpe spaiate (l'altra arriva dopo aver ottenuto il voto). A Napoli, nelle elezioni comunali del 1952 e del 1956, porta a casa 300mila preferenze. L'Achille Lauro sindaco è raccontato nella pellicola di Franco Rosi "Le mani sulla città": storie di edilizia selvaggia, di cementificazione spinta, di edilizia che dà lavoro a migliaia di disoccupati senza occupazione. L'avversario politico di Achille Lauro è la Dc che alla fine vince la partita e, forte del controllo del Viminale, fa commissariare il comune. Questo fu Achille Lauro. 

Quel voto di scambio. che uccide la democrazia. Riparte il mercato delle preferenze, ecco come si controlla. Schede ballerine e voti a 50 euro. Così mafia e 'ndrangheta fanno eleggere i loro candidati. Roberto Saviano l'11 febbraio 2013 su La Repubblica. UNA parte consistente di Italia vota politici che poi disprezza. Una fetta consistente di voti viene direttamente controllata con un meccanismo scientifico e illegale. Il più importante e probabilmente il più difficile da analizzare, quello con cui i partiti evitano sistematicamente di fare i conti: il voto di scambio. A noi sembra di vivere in attesa di un perenne punto di svolta e in questo clima di incertezza siamo portati a pensare che il disagio creato dalla crisi economica, dalla corruzione politica, dalla cattiva gestione delle istituzioni, da venti anni di presenza di Berlusconi non potrà continuare ancora a lungo. Gli osservatori internazionali continuano ad augurarsi che gli italiani prenderanno finalmente coscienza di ciò che gli è accaduto, di tutto quello che hanno vissuto. E prenderanno le dovute misure. Che ne trarranno le giuste conseguenze. Che non cadranno negli stessi errori, nelle stesse semplificazioni. Ci si convince sempre di più di essere a un passo dal cambiamento perché le persone ovunque - in privato e negli spazi pubblici: dai bus ai treni, dai tram ai bar, dai ristoranti a chi viene intervistato in strada - appaiono stanche, disgustate. Vorrebbero fare piazza pulita, ma si trovano al cospetto di un sistema che ha tutti gli anticorpi per rimanere immutabile. Per restare sempre uguale a se stesso. Per autoconservarsi. Esistono due tipi di voto di scambio. Un voto di scambio criminale ed un voto di scambio che definirei "acceleratore di diritti". In un paese dai meccanismi istituzionali compromessi, la politica diventa una sorta di "acceleratore di diritti", un modo - a volte l'unico - per ottenere ciò che altrimenti sarebbe difficile, se non impossibile raggiungere. Per intenderci: ci si rivolge alla politica per chiedere, talvolta elemosinare favori. Per pietire ciò che bisognerebbe avere per diritto. Mentre altrove nel mondo si vota un politico piuttosto che il suo avversario per una visione, un progetto, perché si condividono i suoi orientamenti politici, perché si crede al suo piano di innovazione o conservazione, qui da noi - e questo è evidente soprattutto sul piano locale - non è così. In un contesto come il nostro, programmi e dibattiti, spesso servono a molto poco servono alle elite, alle avanguardie, ai militanti. A vincere, qui da noi, è piuttosto il voto utile a se stessi.

IL DISPREZZO PER LA POLITICA. In breve, una grossa fetta di Italia che nei sondaggi e nelle interviste si esprime contro vecchi e nuovi rappresentanti politici, spesso vota persone che disprezza, perché unici demiurghi tra loro e il diritto, tra loro e un favore. Li disprezza, ma alla fine li vota. Questo meccanismo falsa completamente la consultazione elettorale. Perché a causa della sfiducia nella politica, pur di ottenere almeno le briciole di un banchetto che si immagina lauto e al quale non si è invitati, si è pronti a dare il proprio voto a chi promette qualcosa o a chi ha già fatto a sé o alla propria famiglia un favore. I vecchi potentati politici anche se screditati oggi possono contare su centinaia di assunzioni pubbliche o private fatte grazie alla loro mediazione e da questi lavoratori avranno sempre un flusso di voti di scambio garantito. In questo senso è fondamentale votare politici di navigata presenza perché sono garanzia che quel diritto o quel favore promesso verrà dato. In questa campagna elettorale, come nelle scorse, non si è parlato davvero di come "funziona" il voto di scambio, di come l'Italia ne sia completamente permeata. La legge recentemente approvata in materia di contrasto alla corruzione, sul punto, è assolutamente insufficiente. L'elettore, promettendo il proprio voto, ha la sensazione di ricavare almeno qualcosa: cinquanta euro, cento euro, un cellulare. Poca roba, pochissima: in realtà perde tutto il resto. La politica dovrebbe garantire ben altro. La capacità effettiva di ripensare un territorio, non certo l'apertura di un circolo per anziani o un posto auto. In cambio di una sola cosa, il politico che voti ti toglie ciò che sarebbe tuo diritto avere. Ma è ormai difficile far passare questo messaggio, anche tra gli elettori più giovani. Sembra tutto molto semplice, ma è difficile far comprendere a chi si sente depauperato e privato di ogni cosa che il modo migliore per recuperare brandelli di diritti non è svendere il proprio voto per un favore. È tanto più difficile perché spessissimo ciò che l'elettore si trova costretto a chiedere come fosse un favore, sarebbe invece un suo diritto, il cui adempimento non è impedito, ma è fortemente (e a volte artificiosamente) rallentato dal mal funzionamento delle Istituzioni. Qui non si sta parlando di persone che truffano o di comportamenti sleali, ma di chi ha difficoltà a vedersi riconosciuta una pensione di invalidità necessaria a sopravvivere, o l'assegnazione di un alloggio popolare piuttosto che un posto in ospedale cui avrebbe diritto. Il disincanto si impossessa delle vittime delle lentezze burocratiche, che presto comprendono che per velocizzare il riconoscimento di un diritto sacrosanto devono ricorrere al padrino politico, cui sottostare poi per un tempo lunghissimo, a volte per generazioni, come accadeva con i vecchi capi democristiani in Campania e nel Sud in generale. Lo stesso accade talvolta per l'ottenimento di una licenza commerciale o per poter ottenere i premessi necessari alla apertura di un cantiere. Diritti riconosciuti dalla legge il cui esercizio, da parte del cittadino, necessita di una previa mediazione politica. E la politica di questo si è nutrita. Di questo ricatto. Ribadisco: non sto parlando di chi non merita, di chi non ha i requisiti, di chi sta forzando il meccanismo legale per ottenere un vantaggio, ma di chi avrebbe un diritto e non è messo in condizione di goderne. Questo muro di gomma ostacola qualunque volontà di rinnovamento, poiché a giovarne nell'urna sarà sempre e soltanto il vecchio politico e la vecchia politica, non il nuovo. Il vecchio che ha rapporti. Per comprendere i meccanismi di voto di scambio, la Campania è una regione fondamentale, insieme alla Sicilia e alla Calabria. Da sempre, dai tempi delle leggendarie campagne elettorali di Achille Lauro, che dava la scarpa sinistra prima del voto e quella destra dopo. Ma nel resto d'Italia non si può dire che le cose vadano diversamente. Insomma, il meccanismo è rodato, perfettamente rodato e si interrompe solo quando il proprio voto viene percepito come prezioso, come importante per il cambiamento, tanto che non te la senti di svenderlo anche per ottenere ciò che per diritto ti sarebbe dovuto. E ancora una volta, questa campagna elettorale, in pochissimi ambiti si sta declinando sulle idee, quanto piuttosto su un generico rinnovamento a cui il Paese non crede. Più spesso si risponde con rabbia: tutti a casa, siete tutti uguali. L'allarme consistente sul voto di scambio in queste ore è in Lombardia.

A SPESE DEGLI ELETTORI. Ma su chi accede alla politica distrattamente, fa leva il politico di vecchio corso, pronto a riceverti nella sua segreteria e a mantenere la promessa fatta a carica ottenuta. Il politico che non dimentica perché ha un apparato che vive a spese degli elettori, un apparato che è un orologio svizzero: unica cosa perfettamente funzionante in una democrazia claudicante. Ecco perché è sbagliato sottovalutare la capacità berlusconiana non di convincere, ma di riattivare e di rendere nuovamente legittima questa capacità clientelare. Berlusconi non va in tv convinto di poter di nuovo persuadere, ma ci va con la volontà di rinfrescare la memoria a quanti hanno dimenticato la sua capacità di ricatto. Ci va per procacciarsi i numeri sufficienti a garantire, ancora una volta, la totale ingovernabilità del Paese. Ci va perché sa che ingovernabilità significa poter di nuovo contrattare. Quindi ecco le solite promesse: elargirà pensioni, toglierà tasse e, se anche non ci riuscisse, chiuderà un occhio, strizzandolo, a chi non ne può più. Berlusconi va a ribadire che gli altri non promettono nulla di buono. A lui non serve convincere di essere la persona giusta. A lui basta convincere i telespettatori che gli altri sono l'eterno vecchio e lui l'eterno nuovo. Nel momento in cui, quindi, non esiste un'idea di voto che cambi il paese, riparte il meccanismo della clientela. Dall'altra parte, la sensazione è che si preferisca campare di rendita. I "buoni" votano a sinistra. E su questi buoni si sta facendo troppo affidamento. Della pazienza di questi buoni si sta forse abusando. Se, intercettando un diffuso malcontento, Berlusconi promette la restituzione dell'Imu e un condono tombale, dall'altra parte non si fanno i conti con una tassazione ai limiti della sopportazione. Da un lato menzogne, dall'altro nessuna speranza, silenzio. E i sondaggi rispecchiano questa situazione. Rispecchiano quella quantità abnorme di delusi che solo all'ultimo momento deciderà per chi votare e deciderà l'esito. E su molti delusi il voto di scambio inciderà negli ultimi giorni. Ogni partito in queste elezioni, come nelle precedenti, ci ha tenuto a conservare i suoi rapporti clientelari. Ecco perché gli amministratori locali sono così importanti: sono loro quelli che possono distribuire immediatamente lavoro. È nel sottobosco che si decidono le partite vere, che si fanno largo i politici disinvolti, quelli che risolvono i problemi spinosi, permettendo a chi siede in Parlamento di evitare di sporcarsi. E qui si arriva al voto di scambio mafioso che segue però logiche diverse. Le organizzazioni, nel corso degli anni, hanno cambiato profondamente il meccanismo dello scambio elettorale. Il voto mafioso degli anni '70 e '80 era in chiave manifestamente anticomunista, tendeva a considerare il Pci come un rischio per l'attenzione che dava al contrasto alle mafie sul piano locale, ma soprattutto perché toglieva voti al partito di riferimento, che è a lungo stato la Dc. Lo scopo era cercare di convogliare la maggior parte dei voti sulla Democrazia cristiana, voti che il partito avrebbe ottenuto ugualmente - è importante sottolinearlo - ma il ruolo delle organizzazioni era fondamentale per il voto individuale. Diventavano dei mediatori imprescindibili. Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, boss della Nuova Famiglia, raccontano di come negli anni '90 non c'era politico che non andasse da loro a chiedere sostegno perché quel determinato candidato potesse ottenere una quantità enorme di voti. La camorra anticipava i soldi della costosa campagna elettorale per manifesti, per acquistare elettori, soldi che il partito al candidato non dava. In cambio i clan sarebbero stato ripagati in appalti.

MISTER 100 MILA VOTI. La storia di Alfredo Vito "Mister centomila voti", impiegato doroteo dell'Enel che prende negli anni '90 più voti di ministri come Cirino Pomicino e Scotti, applica una teoria che fa scuola al suo successo. "Do una mano a chi la chiede": ecco la sintesi della logica che condiziona la campagna elettorale. I veri mattatori delle elezioni non erano - e non sono - quasi mai nomi conosciuti sul piano nazionale, ma leader indiscussi sul piano locale. Questo dà esattamente la cifra di cosa poteva accadere, della capacità che le organizzazioni avevano di poter convogliare su un determinato candidato enormi quantità di voti. E non è la legge elettorale in sé a poter ostacolare gli esiti nefasti del voto di scambio, che è frutto evidentemente di arretratezza economica e quindi culturale. La dimostrazione di questa sostanziale ininfluenza è data dal fatto che, se da un lato la selezione operata dai partiti non consente al cittadino di poter scegliere i propri rappresentanti, favorendo viceversa il "riconoscimento di un premio" per chi si è sobbarcato il gioco sporco dello scambio elettorale a livello locale, dall'altro, la scelta diretta del candidato - in un sistema che rifugge la trasparenza quasi si trattasse di indiscrezione - trasforma la competizione elettorale in una mera questione di budget, nella quale la capacità di acquisto dei voti diviene determinante. Oggi, la maggior parte delle organizzazioni criminali sostengono anche candidati non utili ai loro affari, semplici candidati che hanno difficoltà a essere eletti. Vendono un servizio. Vai da loro, paghi e mettono a tua disposizioni un certo numero di voti (emblematico il caso di Domenico Zambetti, che avrebbe pagato 200 mila euro per ottenere 4 mila voti alle elezioni del 2010). Questo significa che puoi anche non essere eletto le organizzazioni ti garantiscono solo un pacchetto di voti non tutto il loro impegno elettorale di cui sarebbero capaci. In alcuni casi candidano direttamente dei loro uomini in questo caso in cambio avranno accesso alle informazioni sugli appalti, avranno capacità di condizionare piani regolatori, spostare finanziamenti in settori a loro sensibili, far aprire cantieri, entrare nel circuito dei rifuti dalla raccolta alle bonifiche delle terre contaminate (da loro). Con un pacco da cento di smartphone si ottengono 200 voti in genere. Quello della persona a cui va lo smartphone e quello di fidanzati o familiare. Spese pagate ai supermercati per un due settimane/un mese. Sconti sulla benzina (fatti soprattutto dalle pompe di benzina bianche). Bollette luce, gas, telefono pagate. Ricariche telefonini. Migliaia di voti saranno raccolti con uno scambio di questo tipo. Difficilissimo da dimostrare siccome chi promette è raramente in contatto con il politico. Quindi anche se il mediatore è scoperto questi dirà che era sua iniziativa personale per meglio comparire agli occhi del politico aiutato escludendolo quindi da ogni responsabilità nel voto di scambio. Nel periodo delle elezioni regionali 2010, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli ha aperto un'indagine sulla compravendita di voti. In Campania i prezzi oscillerebbero da 20 a 50 euro, 25 subito e 25 al saldo, cioè dopo il voto. In alcuni casi i voti vengono venduti a pacchetti di mille. Praticamente c'è una specie di organizzatore che promette al politico 1000 voti in cambio di 20.000 o 50.000 euro. Questa persona poi ripartisce i soldi tra le persone che vanno a votare: pensionati, giovani disoccupati. In Campania un seggio in Regione può arrivare a costare fino a 60.000 euro. In Calabria te la cavi con 15.000. Con 1000 euro in genere un capo-palazzo campano procura 50 voti. Il capo-palazzo è un personaggio non criminale che riesce a convincere le persone che solitamente non vanno a votare a votare per un tal politico. E come prova del voto dato bisogna mostrare la foto della scheda fatta col telefonino. In Puglia un voto può arrivare a valere 50 euro, lo stesso prezzo a cui può arrivare anche in Sicilia. A Gela proposto pacchetti di 500 voti a 400 euro. 400 euro per 500 voti: 80 centesimi a voto!

IL MECCANISMO PRINCIPE. E poi c'è il il meccanismo principe con cui si controllano i voti e si paga ogni singolo voto lo si ottiene con il metodo della "scheda ballerina". L'elettore che vuole vendere il proprio voto va dal personaggio che paga i voti riceve la scheda elettorale già compilata (regolare fatta uscire dal seggio) se la mette in tasca poi va al seggio, presenta il proprio documento di riconoscimento e riceve la scheda regolare. In cabina sostituisce la scheda data già compilata con la scheda che ha ricevuto al seggio, che si mette in tasca. Esce dalla cabina elettorale e vota al seggio la scheda precompilata. Poi va via. Torna dà la scheda non votata e riceve i soldi. La scheda non votata e consegnata viene compilata, votata, e data all'elettore successivo, che la prende e torna con una pulita. E avrà il suo obolo. 50 euro, 100 euro, 150 o un cellulare. O una piccola assunzione se è fortunato. Così si controlla il voto. Nessuno ha parlato di questo meccanismo, la scheda ballerina non ha interessato il dibattito elettorale. Eppure è più determinante di una tassa, più incisiva di una riforma promessa, più necessaria di una manovra economica. In questa campagna elettorale, come in tutte le precedenti, non si è fatto alcun riferimento al voto di scambio sia come "acceleratore di diritti" sia quello criminale. Avrebbero dovuto esserci spot continui, articoli diffusi, che sensibilizzassero gli elettori a non vendere il proprio voto, a non cedere alle promesse di scambio. Si sarebbero dovuti sensibilizzare gli elettori a non decidere gli ultimi giorni di voto in cambio di qualche favore. Ma se non lo si è fatto significa che in gioco ci sono interessi enormi che andrebbero analizzati caso per caso. Nel 2010 provocando da queste queste stesse pagine invocammo l'OSCE (l'organizzazione per la sicurezza in Europa, ndr) a controllo del voto regionale mostrando come il voto di scambio fosse tritolo sotto la democrazia. L'OSCE non recepì l'appello come una provocazione ma come un serio allarme e rispose di essere disponibile ad intervenire e controllare il voto. Ma doveva essere invitata a farlo dal governo. Cosa che non fu fatta. Con queste premesse, chi può dire cosa accadrà tra qualche giorno? Il monitoraggio sarà come sempre blando, affidato a singole persone o a gruppi isolati che denunceranno irregolarità. Ma dove nessuno vorrà farsi garante di trasparenza, chi verrà a dirci come si saranno svolte le elezioni? E ad oggi nessuno schieramento ha affrontato il tema del voto di scambio. Terribile nemico o fenomenale alleato?

Taranto. Voto di scambio: l’ex assessore Mazzarano a giudizio. Puglia Press il  4 Gennaio 2019. La procura di Taranto ha emesso un decreto di citazione diretta a giudizio dinanzi al Tribunale monocratico di Taranto nei confronti dell’ex assessore allo Sviluppo economico ed attuale consigliere regionale del Pd Michele Mazzarano, accusato di corruzione elettorale per una vicenda portata alla luce da Striscia la notizia, e di Emilio Pastore, l’uomo che denunciò alla trasmissione televisiva il presunto scambio di favori durante la campagna elettorale del 2015. La prima udienza è fissata per il 6 marzo prossimo. L’atto è stato firmato dal procuratore Capristo e dall’aggiunto Carbone. L’ex assessore ha sempre respinto le accuse. Proprio le rivelazioni di Pastore a Striscia la Notizia provocarono le dimissioni di Mazzarano dalla giunta regionale e l’apertura dell’inchiesta. Secondo l’accusa Mazzarano, candidato alle elezioni regionali del 2015, avrebbe promesso a Pastore l’assunzione di due figli presso una ditta privata, ottenendo in cambio la promessa del voto della sua famiglia e di altri.

Il voto di scambio a Taranto è sotto gli occhi di tutti, ma la magistratura si distrae.... Il Corriere del Giorno il 13 Agosto 2018. Varato nel 2014 a larghissima maggioranza, l’articolo del codice penale include ora anche la sola promessa di voti. Ci sono voluti 70 anni per ottenerlo. E in soli due anni le denunce sono state 200. Anche se l’applicazione non è sempre facile. Riparte il futuro è un’organizzazione indipendente e apartitica che lotta contro la corruzione promuovendo la trasparenza e la certezza del diritto. Abbiamo più volte parlato nei nostri articoli, inchieste sulla città di Taranto e la Regione Puglia, del voto di scambio, fenomeno molto diffuso,  e che è emerso anche dai servizi sull’assessore regionale Michele Mazzarano ( e non solo..!) del noto programma Striscia la Notizia e del nostro giornale. Il problema del voto di scambio era stato affrontato dall’ ultima riforma dell’articolo 416 ter, l’articolo del codice penale che delineava il reato di voto di scambio politico mafioso, avvenuta nel settembre 2017: il via libera ebbe l’ approvazione ed il consenso quasi totale del Parlamento, ad eccezione del voto contrario espresso soltanto dal Movimento Cinquestelle. Si trattava di modifiche importanti: da un lato sono state alzate le pene per chi commette il reato (portate da un minimo di sei a un massimo di 12 anni); dall’altro, soprattutto, è stato introdotto un principio che potrebbe estenderne l’applicazione: perché si consumi il voto di scambio politico mafioso, basta l’accordo delle parti o, come aveva spiegato il relatore del provvedimento Davide Mattiello (Pd), “nel momento in cui politico e mafioso si accordano ed è l’accordo e soltanto l’accordo che va dimostrato, non rilevando quanto capiti successivamente“. In pratica,  indipendentemente se il patto criminale sia stato messo in pratica o meno. La riforma solo dopo la strage di Capaci . Alla presentazione dell’ultima relazione finale della Commissione Antimafia, Marco Minniti, all’epoca dei fatti ministro degli Interni,  aveva ammesso e ricordato: “Siamo nel pieno della competizione elettorale, dire questo non appaia irrituale: è cogente. Su questi temi non ci può essere silenzio durante la campagna elettorale. Lo dico da ministro dell’Interno, su questo vedo troppo silenzio, lo dico da ministro dell’Interno“. Serve uno sforzo in più, perché –  aggiunse Minniti – “c’è il rischio che le mafie possano condizionare il voto libero degli italiani. Se vogliamo affrontare il nodo delle mafie dobbiamo sapere che le mafie sono differenti dalle altre organizzazioni criminali, perché sono in grado di condizionare le istituzione e la politica. Rompere i legami è un aspetto cruciale”. La questione, per usare il termine usato dal titolare del Viminale, era ed è rimasta “cogente”. Eppure il legislatore italiano aveva affrontato il problema del voto di scambio politico mafioso soltanto nel 1992, con il decreto-legge 306, e la successiva legge di conversione 365/92, dopo la strage di Capaci e la morte di Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la loro scorta. Poco prima c’era stato l’omicidio di Salvo Lima considerato il “riferimento” di Giulio Andreotti a Palermo. Cosa nostra, come racconteranno in seguito i pentiti, spostò pacchetti di voti verso il Psi per punire la Dc, che non aveva fermato il maxiprocesso di Palermo. Vito Ciancimino venne arrestato nel 1984 per associazione mafiosa dopo che il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta aveva rivelato allo stesso giudice Falcone che l’ex sindaco Dc era “nelle mani dei Corleonesi“. Senza contare che di lui già parlava la Relazione Antimafia del 1976, firmata da Pio La Torre e Cesare Terranova. Quindi già ancor prima della fatidica tragica data del 1992, volendo ci sarebbe stata tempo e materia per intervenire, però si è preferito accontentarsi di difendersi da possibili malefatte con gli articoli 86 e 87 della legge 579/1960 sul voto di scambio. Nessun riferimento al metodo “mafioso”. Il primo prevede che “chiunque, per ottenere, a proprio od altrui vantaggio, la firma per una dichiarazione di presentazione di candidatura, il voto elettorale o l’astensione, dà, offre o promette qualunque utilità a uno o più elettori, o, per accordo con essi, ad altre persone, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni, anche quando l’utilità promessa sia stata dissimulata sotto il titolo di indennità pecuniaria data all’elettore per spese di viaggio o di soggiorno o di pagamento di cibi e bevande o rimunerazione sotto pretesto di spese o servizi elettorali”. Idem avviene se è “l’elettore, che, per dare o negare la firma o il voto, ha accettato offerte o promesse o ha ricevuto denaro o altra utilità“. L’altro, l’articolo 87, recita che “chiunque usa violenza o minaccia ad un elettore, od alla sua famiglia, per costringerlo a firmare una dichiarazione di presentazione di candidatura o a votare in favore di determinate candidature, o ad astenersi dalla firma o dal voto, o con notizie da lui riconosciute false, o con raggiri o artifizi, ovvero con qualunque mezzo illecito, atto a diminuire la libertà degli elettori, esercita pressioni per costringerli a firmare una dichiarazione di presentazione di candidatura o a votare in favore di determinate candidature, o ad astenersi dalla firma o dal voto è punito con la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni”.

Il familismo amorale e il voto di scambio. Alcune analisi. Alfio Squillaci su L'Inkiesta il 21 ottobre 2012. Sia l’arresto di Domenico Zambetti, Assessore alla Casa Regione Lombardia che l’incredibile vicenda del Presidente ALER di Lecco Antonio Piazza – al centro dell’attenzione di tutti i giornali una settimana fa, il quale in un impeto di rabbia e prepotenza buca le ruote dell’auto di un disabile –, sono da mettere in stretta connessione. Entrambi sono catalogabili sotto il capitolo “voto di scambio” più o meno penalmente rilevante. Perché? Dalle intercettazioni ambientali che riguardano Zambetti emergerebbe un presunto caso di compravendita di voti che la magistratura giudicante accerterà. Sul caso di Antonio Piazza invece, c’è una intervista televisiva (non riversata in Rete) in cui l’uomo politico lecchese, in evidente difficoltà con la lingua italiana, ammette candidamente che in quei posti (l'ALER) ci si arriva o "per capacità o per voti": lui c'è arrivato "per voti". E dunque? Questo signore controlla un "pacchetto di voti", e il posto di Presidente ALER gli è stato assegnato evidentemente dall’Assessore alla Casa Domenico Zambetti, con il benestare del Presidente Regione Lombardia Roberto Formigoni, certamente per accertata capacità manageriale, ma soprattutto, c'è da arguire, "per voti". Il dato da cui bisogna partire e su cui forse si è sorvolato è che se c'è qualcuno che compra voti, ci devono essere elettori che li vendono. Questo è il fenomeno centrale da mettere a fuoco. Le cosche mafiose calabresi o di altre mafie sono riuscite a esportare al Nord un modello politico-imprenditoriale-mafioso che per brevità chiamiamo “polimafia” già ampiamente collaudato al Sud e che sta soffocando o ha già soffocato di fatto la democrazia in almeno tre ragioni italiane (Campania, Calabria, Sicilia). La polimafia gioca su tre fronti: l’acquisizione e la gestione del consenso elettorale; la negoziazione con il mercato politico dei voti controllati; l’ottenimento di appalti grazie al condizionamento delle macchine amministrative o grazie al politico che è sceso a patti con il crimine che quelle macchine dirige e controlla. Ma questo è un aspetto del voto di scambio, quello apertamente criminale. Ovviamente esiste questo voto di scambio criminale perché esiste il voto di scambio tradizionale, quello clientelare. Il voto di scambio con risvolti criminali non si sovrappone a quello di tipo tradizionale, essendone in qualche modo una sua evoluzione diciamo così gangsteristica . In altri termini: il voto di scambio criminale è sicuramente voto di scambio clientelare, ma non tutto il voto di scambio clientelare evolve in voto di scambio negoziato in ambito criminale. Partendo dalla premessa che la politica è coniugazione di valori e negoziazione di interessi ( bravo chi riesce a dirimere lo stretto intreccio!) ci chiediamo: come avviene, nella fenomenologia sociale concreta, questo processo della raccolta e della negoziazione del voto di scambio? Premesso ancora che il voto si polarizza o verso la componente ideale e valoriale o verso quella materiale e dell’interesse, si danno grosso modo due tipi di voto: quello di opinione, puro, neutrale, ideale, e quello di scambio che può andare da quello assolutamente legittimo in cui la componente ideale è ridotta al minimo (io in quanto aderente a una corporazione o anche facente parte un gruppo di semplici portatori di interesse, negozio legittimamente il mio interesse particolare con un politico che mi rappresenta) fino a giungere a un vero e proprio voto di scambio, in senso stretto, in cui affido il mio consenso a un politico in cambio di promesse concrete o di favori futuri. È inutile aggiungere che una società è tanto più libera quanto più esprime voti di opinione (sempre negoziabili e sempre ritirabili essendo non vincolati né il votante né il votato), mentre una società è sempre più condizionata quanto più esprime voti di scambio (che incardinano il votante e il votato in un rapporto reciprocamente vincolante di clientela in cui solitamente prevale un interesse particolare e immediato di un gruppo ristretto). Orbene, Antonio Piazza è nativo di Milena, (vedi la sua biografia su "Il Giorno") comune della provincia di Caltanissetta che un tempo si chiamava Milocca (toponimo col quale è citato in alcune novelle di Pirandello). Da circa un quindicennio si è trasferito a Valmadrera (LC) dove c’è un forte insediamento di milenesi (o milocchesi), come ce n’è uno altrettanto folto ad Asti (vedi il libro di Giuseppe Virciglio, Milocca al Nord: una comunità di immigrati siciliani ad Asti , Franco Angeli, Milano 1991). Milena-Milocca è stato un paese per altro verso oggetto di una indagine etno-antropologica a cura di Charlotte Gower Chapman, Milocca a sicilian village, pagg. 256 - Ed. 1973, la quale Charlotte Gower, dopo aver trascorso un anno (1928) tra i siciliani nella comunità di Chicago, continua i suoi studi etnici ed antropologici per 18 mesi nel villaggio di Milocca (ora Milena), in Provincia di Caltanissetta, a seguito di incarico ricevuto dall'University of Chicago. Nella sede di origine degli immigrati d'America, l'autrice è a diretto contatto con la mentalità dei siciliani, con le abitudini, le tradizioni, i matrimoni, gli aspetti della vita familiare, i sentimenti religiosi etc. Lo studio su Milocca, è un'eccellente monografia della cultura siciliana. Il libro viene adottato in molte università estere, quale testo importante di antropologia. Il libro della Gower Chapman anticipa, nel metodo di indagine, quel celebre studio di Edward C. Banfield sul familismo amorale (Edward C. Banfield – Le basi morali di una società arretrata – , Il mulino, Bologna 2008, titolo originale A moral basis of a backward society) che da allora diventerà capitale per chiunque voglia intraprendere studi sul sostrato mentale-culturale di una specifica popolazione. Questi tipi di studi partono da indagini sul campo e si avvantaggiano del metodo della cosiddetta “osservazione partecipata”, cioè l’osservazione diretta dei costumi di una determinata popolazione in un determinato contesto sociale. Ovviamente non è un'osservazione ingenua ma assistita da alcuni a priori, come in ogni processo di conoscenza avviene. Ora, ipotizziamo che la Gower Chapman o Eduard Banfield (nella foto) facciano un sopralluogo a Valmadrera a studiare la comunità di siciliani ivi emigrati. E supponiamo che vi trovino un gruppo di immigrati omogenei dal punto di vista mentale-culturale (istruzione, acculturazione, inclinazioni comportamentali) sostenuti dal principio del familismo amorale che secondo la celebre formulazione di Banfield suona così: ognuno agisce nella sfera sociale cercando di massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. In altri termini il familista amorale secondo Banfield sviluppa comportamenti non community oriented, ha sfiducia verso la collettività e non è disposto a cooperare con gli altri se non in vista di un proprio tornaconto. Il contrario del familismo amorale è, giova dirlo, la civcness, il senso civico, ossia avere orizzonti collettivi proiettati oltre il bene individuale o della propria famiglia. Più interessanti sono i corollari ricavati da Banfield dalla legge generale del “familismo amorale” e che tornano al caso nostro. Essi sono il punto 12. Il familista amorale si serve del voto per ottenere il maggior vantaggio a breve scadenza. Per quanto egli possa avere idee ben chiare su quelli che sono i suoi interessi a lunga scadenza, i suoi interessi di classe, o anche l'interesse pubblico, questi fattori non influiscono sul voto, se gli interessi immediati della famiglia sono in qualche modo coinvolti.

Il punto 14. In una società di familisti amorali l'elettore ha poca fiducia nelle promesse che gli vengono fatte dai partiti. Egli dà il voto in cambio di benefici già ricevuti (nell'ipotesi, naturalmente, che esista la prospettiva di riceverne altri per il futuro) piuttosto che per vantaggi promessi.

Il punto 16, invece pecca di notevole ingenuità e chiede di essere aggiornato alla luce delle inchieste che stanno riguardando tutti i fenomeni del voto di scambio. Esso recita: Sebbene gli elettori siano disposti a vendere i voti, in una società di familisti amorali non esisterà una stabile e solida macchina politica, per tre motivi: a) essendo la votazione segreta, non c'è modo di controllare se chi è stato pagato per votare in un certo modo lo faccia poi effettivamente [ipotesi non vera: alcune inchieste ai tempi delle preferenze hanno dimostrato il contrario. Ndr]; b) un'organizzazione di questo tipo non offre sufficienti vantaggi immediati perché qualcuno impegni in essa energie e capitali; c) come abbiamo spiegato sopra, in ogni caso è difficile dare vita e mantenere organizzazioni formali di qualsiasi tipo. [Quest’ultimo punto sembrerebbe anch’esso sconfessato dalle indagini recenti della Procuratrice aggiunta Ilda Boccassini].

Ora, appare evidente che se io sono in grado di dialogare, seppur nel tipico spazio politico della negoziazione degli interessi, con una folta comunità omogenea di paesani, riesco già a controllare, facendo leva sul familismo amorale, un pacchetto di voti di cento famiglie che moltiplicato per una media di tre-quattro componenti (famiglia numerosa o patriarcale allargata) fa tre-quattrocento consensi. Con questo semplice mezzo della comunicazione interfamiliare io mi sono fatto già un pacchetto di voti che posso negoziare in qualsiasi momento. Cosa mi chiedono i miei elettori? Non diritti ma favori, o meglio favori che travolgano i diritti altrui, favori che bordeggino le regole o le infrangano addirittura. Da questa semplice base elettorale la successiva elezione corredata da incarichi (saranno prescelti quelli relativi ai bisogni primari: la casa, l'urbanistica, l’assistenza, i servizi sociali) può e solitamente lo fa, allargare la mia base elettorale al di là del nucleo familista originario. Insomma sono diventato una potenza elettorale cui nessun politico (anch'esso amorale, anzi immorale) può fare a meno, perché non è con le opinioni che si raccolgono i consensi ma con i voti sonanti, e i voti come il denaro non puzzano (pecunia non olet). Da qui il salto successivo alla negoziazione in ambito criminale il passo è breve, ma qui il vostro sociologo improvvisato lascia la penna ai magistrati.

"I Signori dei Voti". La Polimafia al Nord. Alfio Squillaci su Gli Stati Generali 8 maggio 2019. Nell’inchiesta giudiziaria di questi giorni che sta coinvolgendo alcuni politici della Regione Lombardia, emerge dalle cronache la funzione decisiva che assume il politico spesso di secondo piano o nell’ombra che come scrive “Il Post”  è detto il “signore dei voti”. È questa una figura, si diceva,  defilata e di secondo piano per noi cittadini comuni, ma per i politici che ambiscono a cariche pubbliche importanti è un personaggi strategico, spesso decisivo. Costui, come  altri suoi pari,   è “possessore” di un pacchetto di voti che per il politico sono manna dal cielo.  Com’è che queste persone riescono a controllare o a possedere questi pacchetti di voti? Questo è il punto, perché è quello che sta alla base del castelletto della connection politica e mafia. Il dato da cui bisogna partire  e su cui si  sorvole troppo spesso è che se c’è qualcuno che  possiede, controlla o “compra” voti,  ci devono essere elettori che li offrono o li vendono. Questo è il fenomeno centrale da mettere a fuoco. Le cosche mafiose calabresi o di altre mafie sono riuscite a esportare al Nord un modello politico-imprenditoriale-mafioso che per brevità chiamiamo “polimafia”, già ampiamente collaudato al Sud e che sta soffocando o ha già soffocato di fatto la democrazia in almeno tre ragioni italiane (Campania, Calabria, Sicilia). La polimafia gioca su tre fronti: l’acquisizione e la gestione del consenso elettorale; la negoziazione con il mercato politico dei voti controllati; l’ottenimento di appalti grazie al condizionamento delle macchine amministrative o grazie al politico che è sceso a patti con il crimine che quelle macchine dirige o controlla. Ma questo è un aspetto del voto di scambio, quello apertamente criminale. Ovviamente esiste questo voto di scambio criminale perché esiste il voto di scambio tradizionale, quello clientelare. Il voto di scambio con risvolti criminali non si sovrappone a quello di tipo tradizionale, essendone in qualche modo una sua evoluzione diciamo così gangsteristica . In altri termini: il voto di scambio criminale è sicuramente voto di scambio clientelare, ma non tutto il voto di scambio clientelare evolve in voto di scambio negoziato in ambito criminale. Partendo dalla premessa che la politica è ad un tempo  coniugazione di valori e negoziazione di interessi (bravo chi riesce a dirimere lo stretto intreccio!) ci chiediamo: come avviene, nella fenomenologia sociale concreta, questo processo della raccolta e della negoziazione del voto di scambio? Premesso ancora che il voto si polarizza o verso la componente ideale e valoriale o verso quella materiale e dell’interesse, si danno grosso modo due tipi di voto: quello di opinione, puro, neutrale, ideale, e quello di scambio che può andare da quello assolutamente legittimo in cui la componente ideale è ridotta al minimo (io in quanto aderente a una corporazione o anche facente parte un gruppo di semplici portatori di interesse, negozio legittimamente il mio interesse particolare con un politico che mi rappresenta) fino a giungere a un vero e proprio voto di scambio, in senso stretto, in cui affido il mio consenso a un politico in cambio di promesse concrete e di favori futuri. È inutile aggiungere che una società è tanto più libera quanto più esprime voti di opinione (sempre negoziabili e sempre ritirabili essendo non vincolati né il votante né il votato), mentre una società è sempre più condizionata quanto più esprime voti di scambio (che incardinano il votante e il votato in un rapporto reciprocamente vincolante di clientela in cui solitamente prevale un interesse particolare e immediato di un gruppo ristretto). Orbene, la mia osservazione partecipante di “alunno del sole” trapiantato da decenni nelle brume lombarde, mi ha portato ad osservare (nel mio comune dell’hinterland milanese innanzitutto e altrove nel lecchese dove ho lavorato alcuni anni), consistenti  gruppi di “alunni del sole” (seppur non allo stato puro per via di numerosi matrimoni misti)  che occorrerebbe studiare con i vecchi metodi della sociologia “sul campo” (vedi per intanto, riguardo uno specifico comune siciliano,  il libro di Giuseppe Virciglio, Milocca al Nord: una comunità di immigrati siciliani ad Asti,  Franco Angeli, Milano 1991 o la vecchia indagine  etno-antropologica a cura di Charlotte Gower Chapman, Milocca, a sicilian village, pagg. 256 – Ed. 1973, la quale Charlotte Gower, dopo aver trascorso un anno (1928) tra i siciliani nella comunità di Chicago, continua i suoi studi etnici ed antropologici per 18 mesi nel villaggio di Milocca (ora Milena), in Provincia di Caltanissetta, a seguito di incarico ricevuto dall’University of Chicago). Il libro della Gower Chapman anticipa, nel metodo di indagine, quel celebre studio di Edward C. Banfield sul familismo amorale (Edward C. Banfield – Le basi morali di una società arretrata – , Il Mulino, Bologna 2008, titolo originale A moral basis of a backward society) che da allora diventerà capitale per chiunque voglia intraprendere studi sul sostrato mentale-culturale di una specifica popolazione. Questi tipi di studi partono da indagini sul campo e si avvantaggiano del metodo della cosiddetta “osservazione partecipata”, cioè l’osservazione diretta dei costumi di una determinata popolazione in un determinato contesto sociale. Ovviamente non è un’osservazione ingenua ma assistita da alcuni a priori, come in ogni processo di conoscenza avviene. Ora, ipotizziamo che la Gower Chapman o Eduard Banfield  facciano un sopralluogo, in un piccolo comune lombardo o in un quartiere di Milano,  per  studiare la comunità di “alunni del sole” ivi emigrati. E supponiamo che vi trovino un gruppo di immigrati omogenei dal punto di vista mentale-culturale (istruzione, acculturazione, inclinazioni comportamentali) sostenuti dal principio del familismo amorale che secondo la celebre formulazione di Banfield suona così: ognuno agisce nella sfera sociale cercando di massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. In altri termini il familista amorale secondo Banfield sviluppa comportamenti non community oriented, ha sfiducia verso la collettività e non è disposto a cooperare con gli altri se non in vista di un proprio tornaconto. Il contrario del familismo amorale è, giova dirlo, la civcness, il senso civico, ossia avere orizzonti collettivi proiettati oltre il bene individuale o della propria famiglia.

Più interessanti sono i corollari ricavati da Banfield dalla legge generale del “familismo amorale” e che tornano al caso nostro. Essi sono il punto 12. Il familista amorale si serve del voto per ottenere il maggior vantaggio a breve scadenza. Per quanto egli possa avere idee ben chiare su quelli che sono i suoi interessi a lunga scadenza, i suoi interessi di classe, o anche l’interesse pubblico, questi fattori non influiscono sul voto, se gli interessi immediati della famiglia sono in qualche modo coinvolti.

Il punto 14. In una società di familisti amorali l’elettore ha poca fiducia nelle promesse che gli vengono fatte dai partiti. Egli dà il voto in cambio di benefici già ricevuti (nell’ipotesi, naturalmente, che esista la prospettiva di riceverne altri per il futuro) piuttosto che per vantaggi promessi.

Il punto 16, invece pecca di notevole ingenuità e chiede di essere aggiornato alla luce delle inchieste che stanno riguardando tutti i fenomeni del voto di scambio. Esso recita: Sebbene gli elettori siano disposti a vendere i voti, in una società di familisti amorali non esisterà una stabile e solida macchina politica, per tre motivi: a) essendo la votazione segreta, non c’è modo di controllare se chi è stato pagato per votare in un certo modo lo faccia poi effettivamente [ipotesi non vera: alcune inchieste ai tempi delle preferenze hanno dimostrato il contrario. Ndr]; b) un’organizzazione di questo tipo non offre sufficienti vantaggi immediati perché qualcuno impegni in essa energie e capitali; c) come abbiamo spiegato sopra, in ogni caso è difficile dare vita e mantenere organizzazioni formali di qualsiasi tipo.

Ora, appare evidente che se io sono in grado di dialogare, seppur nel tipico spazio politico della negoziazione degli interessi, con una folta comunità omogenea di “paesani”, riesco già a controllare, facendo leva sul familismo amorale, un pacchetto di voti di cento famiglie che moltiplicato per una media di tre-quattro componenti (famiglia numerosa o patriarcale allargata) “cuba” tre-quattrocento consensi. Con questo semplice mezzo della comunicazione interfamiliare o attingendo nel più vasto giro dei “compari” e dei paesani,  io mi sono assicurato già un pacchetto di voti che posso negoziare in qualsiasi momento. Andiamo al passo successivo. Cosa chiedono i “miei” elettori? Non diritti ma favori, o meglio quei favori che nei fatti travolgono i diritti altrui, favori che bordeggiano le regole o le infrangono addirittura. Da questa semplice base elettorale la successiva elezione corredata da incarichi (saranno prescelti quelli relativi ai bisogni primari: la casa, l’urbanistica, l’assistenza, i servizi sociali) può e solitamente lo fa, allargare la mia base elettorale al di là del nucleo familista originario. Insomma sono diventato una potenza elettorale cui nessun politico (anch’esso amorale, anzi immorale) può fare a meno, perché non è con le opinioni che si raccolgono i consensi ma con i voti sonanti, e i voti come il denaro non puzzano   e per il politico sotto elezioni sono come la “roba” per il tossicodipendente. Da qui il salto successivo alla negoziazione in ambito criminale il passo è breve, ma qui il vostro sociologo improvvisato lascia la penna ai magistrati, i quali chiariranno gli aspetti fattuali della connection tra nuclei criminali>signori dei voti>politico>corruzione>appalti di ritorno per il crimine. 

La cultura politica meridionale. Mauro Fotia. Dal clientelismo trasformistico di Giolitti al doroteismo subliminale di Berlusconi.

(...)4. Clientelismo rurale e familismo. E veniamo alla prima manifestazione della cultura politica meridionale postunitaria rappresentata dall’integrazione fra modelli familistici e clientelismo contadino. Dall’incontro, cioè, delle due prime forme di rifiuto che il Sud afferma nei confronti dello Stato nazionale. Per cui classe dirigente e classe politica assumono l’esercizio delle loro attività produttive, prestazioni professionali e culturali e partecipano alla gestione del potere e delle istituzioni statali, nella misura in cui esse possono essere utilizzate ad esclusivo vantaggio familiare o clientelare. Il clientelismo, come qui viene assunto appare, in realtà, un tessuto di rapporti personali a contenuto particolaristico, intercorrenti fra un patrono e un cliente. La relazione patrono-cliente è anzitutto diadica e perciò la sua formazione e conservazione dipende dalla reciprocità nello scambio di prestazioni o favori; essa, inoltre, si instaura tra due parti di differente status, ricchezza e influenza. In una transazione tipica, il cliente attore di status basso, riceve favori materiali e servizi intesi a migliorare la sua condizione di vita, mentre il patrono, attore di status alto, riceve compensi meno tangibili, come servizi personali, segni di stima, deferenza o lealtà, o servizi di natura direttamente politica come voti. La relazione clientelare, infine, essendo di natura strettamente personale è legata a dinamiche estremamente circoscritte e risulta legata molto alla vicinanza di due attori [1]. Uno dei problemi di maggior rilievo che il clientelismo meridionale postunitario pone all’attenzione dello studioso è perciò quello dei suoi rapporti col familismo. Esso, in verità, rivela anzitutto e conferma le ragioni stesse di quest’ultimo. Poiché, dopotutto, non è che la traduzione della preminenza dei rapporti affettivi al di fuori dell’ambito familiare. L’assunzione del comparaggio - di fatto avvertito come una quasi parentela - quale strumento efficace adottato dall’uomo politico meridionale per confermare la certezza del proprio elettorato, è uno dei tanti comportamenti che dimostrano il legame tra clientela e familismo. Un uomo politico, raccontando le proprie esperienze elettorali, potrebbe fornire dal principio alla fine prove molto significative della validità di questa tesi. “Ciò significa, in altre parole, che anche nei rapporti pubblici si ha la prevalenza dell’affettività, che si traduce in ricerca di appoggi diretti e personali aventi le stesse caratteristiche dei rapporti intrafamiliari”. Naturalmente, le utilità che ne conseguono non appartengono all’ambito sociale dei vantaggi a lunga scadenza, ma si riferiscono a una momentanea gratificazione, di fonte extralavorativa, che si riferisce anch’essa a un ambito familiare di riceventi. Questo è anzitutto da connettersi con le caratteristiche della solidarietà interfamiliare, la quale è esclusivamente temporanea, ha una durata, cioè, che equivale al tempo necessario per soddisfare il bisogno che l’ha provocata. Il clientelismo conferma quindi il familismo anche per gli aspetti della temporaneità del suo intervento. I tempi brevi della gratificazione clientelare sono inoltre indifferenti ai tempi lunghi delle strutture politiche. A sua volta, l’apparente gratuità del beneficio concesso, costituisce un vantaggioso investimento in termini di potere a favore dell’uomo politico che lo dispensa. Detto ciò, non va perso di vista che le strutture concettuali familistiche sono assai più statiche rispetto a quelle clientelari. E che, come tali, non riescono a prendere consapevolezza dei mutamenti intervenuti nella società meridionale nel corso dei passaggi dagli Stati preunitari allo Stato unitario fino al fascismo, ed in particolare, nei decenni successivi alla caduta di quest’ultimo. Mentre al contrario tale consapevolezza matura e s’appalesa nella cultura clientelare. In altri termini, la transizione del Mezzogiorno dalla condizione di società sottosviluppata a quella di società in via di sviluppo incide scarsamente sulla sostanza del paradigma familistico, e invece, coinvolge e scuote in pieno quello clientelare. Il quale, oltretutto, è costretto a prendere atto dei metodi nuovi con i quali il sistema politico va via via atteggiandosi nei confronti delle masse meridionali. Ciò fa comprendere anche perché le strutture clientelari possono mettere in atto, ove lo ritengano necessario, attività di manipolazione della famiglia e della parentela. In questo caso la famiglia, la parentela e la quasi parentela o comparaggio perdono il loro significato sacrale per dare rilevanza piuttosto ai vincoli di rispetto e di riverenza, alla strumentalità delle relazioni e ai loro aspetti materiali. Mentre una volta era manipolabile soltanto il cliente, adesso diventa manipolabile anche il patrono. Ciò può accadere soprattutto quando entrano in crisi i rapporti tradizionali e gli equilibri loro connessi, fondati sulla reciprocità.

5. Clientelismo urbano. Altro problema o aspetto del clientelismo meridionale che appare meritevole di approfondimento è il legame che lo unisce con l’assenza di coscienza e azione collettiva. Un tale aspetto assume significato e portata macropolitica, poiché affronta il rapporto tra forme clientelari e forme politiche più organizzate, emergente dall’ambito dei contesti urbani allargati e irrobustiti dai crescenti flussi migratori dalle campagne alle città. Sul punto, è utile tuttavia distinguere due momenti. Il primo s’incontra e si fonde con la fase storica che vede tramontare definitivamente nelle campagne istituti collettivi, come quelli delle terre comuni, degli usi civici, del compascolo, che avevano assicurato alla loro economia alcuni rilevanti tratti censitari. Per cui il rapporto notabili-clienti che viene ad instaurarsi dentro i tessuti relazionali delle città del Sud permane quello tradizionale, tutto centrato su forme di solidarietà verticale ed opaco verso istanze ed impegni collettivi. Del resto, i gruppi sociali e politici presenti nelle città meridionali appaiono scarsamente sensibili verso le forme di mobilitazione sociale o di solidarietà allargata e poco interessati a guidare le tensioni provenienti dalle campagne. Le identità politiche urbane e le risorse da esse scaturenti, in termini di capacità innovativa dei valori e delle forme organizzative ed istituzionali, sono scarse. Sicchè anche le rare volte in cui danno vita a nuove opportunità di “acquisitività politica”, secondo l’espressione weberiana, il loro successo è modesto. Di certo, una qualche azione di rottura nei confronti di una situazione siffatta, avrebbe potuto esercitarla il mercato in quanto fattore della frantumazione dei rapporti particolaristici, con i suoi portati storici di anonimato e di spersonalizzazione. Ma nel Mezzogiorno l’impatto del mercato, nel periodo della formazione dello Stato unitario, non è avvenuto in modo tale da garantire una completa razionalizzazione capitalistica. Lo sviluppo di una classe media e della proprietà borghese, per molto tempo, non avvennero a spese delle proprietà baronali, ma con la commercializzazione delle proprietà ecclesiastiche. Di conseguenza non si ebbe la nascita di una classe di contadini proprietari, e i rapporti sociali nel Mezzogiorno mantennero caratteristiche semifeudali. Se il mercato si manifesta incapace, lo Stato appare inefficiente. Sicchè si delinea un vero e proprio sistema di incompatibilità tra cittadini-clienti e istituzioni. Il clientelismo meridionale appare, insomma, fortemente correlato ad una sfiducia da parte sia delle classi subalterne, che di quelle dirigenti, verso lo Stato unitario. E sia classi subalterne che classi dirigenti cercano di sfruttarlo per vantaggi personali. Naturalmente nella ripartizione degli utili privilegiate risultano le seconde. Dal punto di vista dello Stato, il clientelismo appare come una deformazione delle sue istituzioni, una utilizzazione delle sue leve per fini particolari. Dal punto di vista dei clienti, è soltanto una possibilità per acquisire dall’esterno dei benefici aggiuntivi alla normale attività lavorativa. Può rappresentare anche di più: l’unica possibilità di uscire dalla fatalità di una condizione umana di miseria. In concreto, i tentativi di strappare dei benefici scelgono sempre la strada del ricatto e dello scambio politico, nel quale la merce da scambiare è il voto. Il fatto peraltro che gli elettori stessi o clienti intendano il voto come una merce è a sua volta imputabile a una diretta responsabilità degli uomini politici. Essi hanno fatto loro capire i vantaggi del clientelismo mediante un messaggio completo e appropriato, il cui contenuto è la promessa di un favore personale e immediato. Ed è anche attraverso tale tipo di messaggio che si pone il divario fra le istanze collettive dell’ideologia politica e le reali proposte operative per il trionfo di quell’ideologia, in quanto si tratta di un trionfo che si deve incarnare in una persona, con cui si possono regolare direttamente i conti. L’ideologia diventa sempre di più una copertura formale pubblica con cui si riesce meglio a nascondere i conti legati a persone precise.

6. Clientelismo di massa. Il secondo momento in cui si esprime l’assenza di coscienza collettiva ha inizio con la comparsa del clientelismo di massa (mass patronage). Di quella nuova forma clientelare, cioè, nella quale l’erogazione delle risorse pubbliche si rivolge non più a singole persone ma ad intere categorie o gruppi sociali o ad ampie quote di popolazione. E perciò ha bisogno di organizzarsi in istituzioni e formazioni burocratiche, che facciano da tramite tra lo Stato ed i gruppi stessi. Il mass patronage presenta per questo una sua parvenza di modernità. Tant’è che lo si incontra anche presso società avanzate che hanno realizzato la prima industrializzazione ed una completa penetrazione del mercato nelle dinamiche produttive e distributive. Dal canto loro, la formazione dei partiti di massa e l’introduzione del suffragio universale non tardano a fornire un humus non poco favorevole ad una sua affermazione. Già di per sé la forma - partito può esistere là dove punta ad elevarsi al di sopra dell’occasionalità e dell’individualità delle adesioni e delle prestazioni, “affermandosi come una entità astratta capace di dettar legge ai consociati che non potevano imporre ad essa le proprie volontà, se non trasformandole in momenti decisionali dell’istituzione”. Quando, poi, ai partiti di notabili succedono i partiti di massa, la pretesa della forma-partito di pesare in quanto tale sugli scambi politici cresce. Conquistato il carattere di vere e proprie istituzioni politiche, i partiti di massa affermano la necessità di essere l’unico tramite sia della presenza dei propri membri nel contesto sociale sia della distribuzione fra di essi dei ruoli che assumono all’esterno. Finchè, con l’avvento della concezione del governo di partito (party government), non pretenderanno di assorbire l’intero sistema di relazioni che organizza l’attività di governo e di vanificarne ogni capacità decisionale tramite l’esercizio dei poteri di indirizzo e di nomina. In Italia ciò accade assai presto. I partiti di massa, cioè, non tardano a spostare il loro baricentro operativo dalla società alle istituzioni. Partono dall’esigenza di estendere i meccanismi di legittimazione sociale in un contesto politico - rappresentativo, ma già con i governi Giolitti iniziano a centrare la loro attenzione sull’occupazione degli apparati e delle istituzioni dello Stato e del Parastato. Naturalmente, una posizione di privilegio spetta al partito dominante. Sia che sorregga il governo da solo, sia che si avvalga di una coalizione di partiti, nell’esercizio dei poteri di indirizzo e di nomina, esso afferma una sua egemonia. E ciò anche se, nel secondo caso, un’ineludibile esigenza transattiva impone il ricorso al principio lottizzatorio. Gli oltre quarant’anni di governi coalizionali ad egemonia democristiana sono al riguardo paradigmatici. Senza dire che la DC, con la sua articolazione correntizia, realizza già al suo interno un circuito poliarchico-negoziale. Si pone, in altre parole, come una coalizione nella coalizione, con una corrente egemone, pacificata nei rapporti con le altre, dalla pratica spartitoria. Come che sia, l’arena politica viene occupata da un clientelismo partitico i cui attori affermano di fatto il loro dominio su tutti i processi fondamentali di decisione e implementazione delle politiche pubbliche del Paese. Un clientelismo che genera una strana combinazione di ineguaglianza e asimmetria nel potere con una apparente solidarietà sociale. Nel Mezzogiorno, poi, tale solidarietà difficilmente riesce ad andare oltre gli antichi termini di identità personali o di sentimenti e obbligazioni interpersonali. E la dimensione partitica, le volte in cui riesce a porsi con forza, viene percepita ed accolta più come relazione di parentela che come relazione di appartenenza. Forse anche perché il clientelismo partitico nelle regioni meridionali si diffonde, recando con sé una seconda combinazione, ancora più strana della prima: quella fra coercizione - sfruttamento e relazioni volontarie sostanziate di mutue obbligazioni. D’altro canto, se l’ottica particolare delle genti del Sud non viene meno neppure con l’avvento dei moduli clientelari partitici, al posto dei partiti, saranno i singoli leader o comunque attori partitici a riscuotere, in quanto patroni, la fiducia dei singoli clienti o dei gruppi di clienti o persino delle clientele di massa. E sempre in quanto singoli patroni saranno loro ad incassare la riconoscenza, in termini di voti, per i benefici e le prestazioni offerte. Neppure, insomma, con l’avvento del clientelismo di massa la società meridionale registra un qualche avanzamento negli attesi processi di maturazione e di orientamento verso il collettivo, in particolare, verso le sue dinamiche politiche di più alto significato, quali sono quelle collegate con la partecipazione e la conflittualità. Poiché, in definitiva, anche la nuova forma clientelare si appiattisce sul sociale, dando il saggio migliore della sua capacità mimetica.

7. Il trasformismo. Peraltro, occorre aggiungere che non è possibile comprendere ed interpretare un fenomeno siffatto, senza far ricorso all’altro pilastro della cultura politica meridionale, quello trasformistico. Precisando opportunamente che per trasformismo si intende qui una visione della vita politica per la quale il metro di coerenza degli uomini di potere non va cercato nella loro fedeltà ad un quadro ideologico ed alla impostazione programmatica che ad esso si accompagna, ma nella loro capacità di schierarsi sempre con le forze al governo, allo scopo di conservare la loro posizione di dominio, di essere in grado di soddisfare le richieste dei loro elettori e, di conseguenza, attraverso il sostegno crescente di questi, di rafforzare progressivamente la posizione stessa. Esso, in realtà, scaturisce da un contesto che tiene uniti in una stessa logica eletti ed elettori. Il contesto sostanzialmente è quello clientelare avanti descritto. In pratica, il clientelismo, così come a monte è legato al familismo, così a valle è intrecciato al trasformismo. Sta, insomma, in mezzo a far da ponte e unire i tre fenomeni, che, alla fine appaiono necessariamente tre aspetti di un unico fenomeno. Quest’interpretazione, si dirà, può tornare valida per il primo periodo della vita politica postunitaria, caratterizzato da un sistema elettorale uninominale e maggioritario e dall’assenza dei partiti. Ed invece, le pratiche trasformistiche delle élite politiche meridionali proseguono ininterrottamente fino ai nostri giorni, anche dopo l’avvento del proporzionale e dell’annesso scrutinio di lista e il ritorno, nell’ultimo decennio, del maggioritario, ancorché imperfetto, e dei collegi uninominali. Così come non trovano arresto neppure dopo la nascita e il consolidamento dei partiti di massa. Le èlite utilizzano infatti questi ultimi come efficaci strumenti per promuovere la formazione al loro interno di aggregazioni di interessi o correnti in grado di condizionarsi reciprocamente. Introducono, in altri termini, in seno ai partiti di massa le loro logiche spartitorie in maniera da accaparrarsi il massimo possibile di leve elettorali, da tradurre in posti in parlamento, nelle altre assemblee elettive e negli apparati amministrativi dello Stato e degli enti locali. I momenti storici salienti del parlamentarismo, del fascismo, del doroteismo e del berlusconismo ne sono la riprova. In questo senso, coloro che ci descrivono la vita politica meridionale come eguale e ripetitiva nei meccanismi, sempre pronta a svirilizzare il nuovo, riducendolo al vecchio, non hanno tutti i torti, anche se, naturalmente, la teoria della staticità sic et simpliciter del Sud, talvolta avanzata, è fuorviante. I partiti, legati fin dalla nascita a fattori lunghi di parentela ristretta o allargata, di clientele tradizionali o moderne, nelle diverse congiunture, sono sempre pronti ad etichettarsi vicendevolmente con i termini di liberale o clericale, radicale o moderato, fascista intransigente o transigente, democristiano di sinistra o doroteo. Nella realtà dei fatti, essi perpetuano i vecchi meccanismi di canalizzazione del consenso e di formazione del personale politico e amministrativo. Non senza introdurre nella struttura sociale e nel sistema politico elementi, seppure mai strategici, di novità e di avanzamento.(...)

Familismo Amorale o regolazione sociale debole?  Pietro Fantozzi p. 185-194.

(...) La riedizione italiana del famoso libro di Banfield "Le basi morali di una società arretrata" ci dà la possibilità di ragionare sul Sud d’Italia e sull’utilità o meno di alcune categorie sociologiche, presenti in quella ricerca: si tratta di vedere se tali categorie sono state utili a comprendere il Mezzogiorno e se, in un qualche modo, lo sono ancora. Prima però intendo richiamare alcuni elementi sullo straordinario successo di questo libro non solo negli Stati Uniti, ma anche in Italia. Infatti, gli studi di Banfield hanno sicuramente influenzato il modo di guardare il nostro paese e in particolare il Sud, in molte Università americane ancora oggi, quando si parla di Mezzogiorno d’Italia, ci si riferisce in prima istanza proprio a Banfield. Questo libro è stato usato in Italia sia nella didattica universitaria che in corsi di formazione politico-sindacale. I risultati della ricerca di Banfield hanno determinato molte polemiche nel mondo accademico: sociologi, politologi, storici e antropologi hanno criticato aspramente e puntualmente i modi di analisi e le categorie interpretative di questo volume, diverse critiche sono state formulate anche nel mondo politico e sindacale. Alcune volte si è fatto riferimento ai pregiudizi che sono contenuti nell’ipotesi di questo lavoro, il familismo amorale conterrebbe degli elementi di giudizio etico che esulano dalle possibilità di una verifica scientifica. In ogni caso, questo autore ha costituito un riferimento importante anche per altri studiosi stutunitensi, venuti a studiare le regioni italiane, come Leonardi, Nanetti e Putnam. Tra Banfield e questi autori esistono difatti assonanze analitiche che costituiscono, nonostante le differenze di metodi e oggetti d’analisi, un filo importante che Bagnasco nella sua introduzione a questa nuova edizione ha chiamato «approccio culturalista». Lo straordinario successo di questo lavoro è probabilmente legato al fatto che affronta (almeno apparentemente) in modo diverso le tematiche dell’arretratezza e dello sviluppo legandole a culture etico-sociali e a comportamenti soggettivi, cioè richiama aspetti di responsabilità personali e comunitarie in un contesto culturale italiano e meridionale tutto concentrato a discutere problemi di politiche economiche e di interventi statali. Potremmo dire che, probabilmente senza rendersene conto, Banfield evidenzia i limiti delle spiegazioni funzionaliste e strutturaliste. Egli non giunge a risultati innovativi. Ad esempio, a proposito dell’azione politica, fa riferimento alla mancanza di azione cooperativa e alla scarsa responsabilità delle èlite, cioè a criticità già presenti da lungo tempo nel dibattito sulla questione meridionale, a tal proposito si pensi, tra i tanti, a Giustino Fortunato e a Guido Dorso.

Arretratezza, modernizzazione e clientelismo. La questione centrale da affrontare è quella della modernizzazione del Sud d’Italia. Il concetto di familismo amorale richiama una visione presente ancora oggi nel dibattito sul Mezzogiorno: il Sud è una realtà debole e arretrata che non riesce a modernizzarsi in maniera compiuta, per cui i cambiamenti sono sempre ostacolati, ritardati o deviati dalle relazioni comunitarie. Per Banfield a Montegrano non è possibile alcun cambiamento perché mancano le pre-condizioni etico culturali. Esiste una situazione di povertà, mancano le famiglie complesse, tipiche di altre aree del paese con rapporti agrari più dinamici, vi è una socializzazione inadeguata e tutto ciò produce un ethos che orienta gli individui verso comportamenti egoistici e provoca la diffusione della sfiducia, appunto il familismo amorale. In questo contesto non c’è spazio per qualunque forma di solidarietà e per dimensioni di impegno collettivo come la politica. Negli anni cinquanta le regioni meridionali, e la Basilicata in particolare, erano effettivamente in una situazione di forte precarietà. I paesi dell’interno vivevano con le scarse risorse di una economia agricola di auto-consumo, legata prevalentemente alla rendita. L’artigianato era fondato su piccolissime unità che a fatica potevano definirsi produttive. I livelli d’istruzione erano bassissimi. Obiettivamente vi era una situazione di arretratezza e di povertà: una società contadina a bassa differenziazione sociale e ancora collocata in un contesto sociale relativamente chiuso. Banfield rileva queste condizioni e pensa di aver verificato la sua ipotesi, ma non riesce a cogliere che proprio in quegli anni si stava avviando una grande trasformazione anche nel Mezzogiorno e che pure Chiaromonte (Montegrano) sarebbe stata in qualche modo coinvolta in tale processo. Infatti una serie di elementi importanti, che poi costituiranno l’essenza della «grande trasformazione» del Sud, risultano nell’analisi di Banfield trascurati o del tutto ignorati. Il comparaggio, il clientelismo notabilare e quello politico sono rapporti sociali sicuramente presenti nella Basilicata di quegli anni e rappresentano le forme più rilevanti di una fitta rete di relazioni intermedie che hanno caratterizzato il Sud. Il senso di quelle relazioni è però mobile anziché rigido, come ritiene l’autore, cosicché in certi contesti può generare effetti contrari rispetto a quelli che Banfield esplicita nella sua ricerca. Difatti, come evidenzierà Fortunata Piselli, le reti parentali e comunitarie nel secondo dopoguerra vivono e si riproducono dentro il cambiamento e non fuori di esso, viceversa il concetto di familismo amorale presuppone la persistenza di una situazione di arretratezza e una generale resistenza alla modernizzazione. Nella Basilicata di quegli anni era ancora diffuso il clientelismo fondiario e notabilare, ma cominciavano ad affermarsi anche nuove relazioni clientelari attraverso il passaggio dalla clientela fondata sui rapporti agrari, in cui i protagonisti sono i proprietari della terra e coloro che la lavorano, alla clientela politica, in cui la relazione si fonda sui rapporti tra politici ed elettori. Il clientelismo fondiario nacque, a suo tempo, con l’abolizione dei rapporti feudali e rappresentò, per un verso, una forma di resistenza al cambiamento, perché permise la riproduzione di vecchie condizioni di servaggio, per altro verso questo tipo di relazione si collegò all’introduzione, in un contesto non ancora maturo per un cambiamento più esteso, delle nuove leggi riformatrici che abolivano la feudalità e favorivano nuove forme di razionalizzazione necessarie per la nascita del capitalismo moderno. La modernizzazione del Mezzogiorno nel secondo dopoguerra ha avuto al centro il clientelismo politico, nato dalla crisi delle formazioni economico-sociali legate ai rapporti agrari. Il passaggio dal notabilato fondiario a quello politico si è realizzato con la rottura dei sistemi sociali locali, favorita dalla forte intensificazione dei processi migratori e dalla conseguente caduta degli equilibri tradizionali. L’appartenenza politico clientelare ha utilizzato i partiti politici per dare continuità ai vecchi gruppi di notabili e per permettere l’ascesa dei nuovi strati sociali borghesi. Il settore che nelle regioni del Sud offriva maggiori opportunità di integrazione nel «nuovo» e di rifunzionalizzazione del «vecchio» era proprio il sistema politico.

La ricerca di Banfield si colloca nel secondo dopoguerra e riguarda esclusivamente un paese (Chiaromonte) che non era tra i più poveri nella Basilicata degli anni cinquanta; la sua lettura, de-contestualizzata rispetto al Sud e al territorio regionale, non gli permette di leggere la realtà nelle sue ambivalenze e ambiguità. Egli, in verità, finisce con l’evidenziare quasi esclusivamente ciò che in partenza si proponeva di trovare, mentre rimangono inesplorati gli aspetti di cambiamento. A tale proposito, la clientela è essenziale per individuare i nessi tra tradizione e modernità nel Mezzogiorno, essa costituisce una strana sintesi tra «vecchio» e «nuovo», che ha generato una modernizzazione debole e che ha fondato una regolazione sociale orientata principalmente alla riproduzione delle appartenenze primarie, per cui si sono sviluppate unicamente o principalmente opportunità di cambiamento compatibili con tali appartenenze. La duttilità del rapporto patrono-cliente ha permesso alla clientela di coesistere e spesso di incorporare il familismo, il localismo, l’assistenzialismo, ed in certi contesti di con-vivere con la corruzione e con la mafia. La comunità, la politica, il mercato e i gruppi d’interesse sono stati fortemente influenzati dal clientelismo e, in quanto produttori di regolazione, hanno generato forme d’istituzionalizzazione caratterizzate da una bassa credenza nella legalità e da modelli culturali ambigui.

Anche a proposito dei caratteri del sistema politico è interessante notare come Banfield arrivi a considerazioni opposte o comunque lontane dalla realtà sopra descritta, egli infatti sottolinea unicamente il distacco e la sfiducia della popolazione e dell’èlite di Montegrano rispetto alla nuova politica democratica, ma non riesce a vedere i nuovi fenomeni a cui la politica stava dando luogo nei contesti locali meridionali proprio in quegli stessi anni, come nel caso dei movimenti contadini e della riforma agraria. In effetti, le regioni del Sud sono state caratterizzate, fin da allora, da un fenomeno di grande rilievo, la discrasia tra legittimazione e consenso. I partiti di governo riscuotevano un consenso percentualmente significativo e, contemporaneamente, si riscontrava una diffusa sfiducia istituzionale: è questo un dato tipico delle situazioni di clientelismo politico. L’impressione è che Banfield si sia soffermato solo sulla scarsa legittimazione e non abbia notato l’altro aspetto, cioè il consenso e le forme di mobilitazione, di trasformazione e di manipolazione ad esso collegate, per questo motivo non è riuscito a riconoscere la complessità del Sud. Coloro che leggono il Sud solo con le lenti dell’arretratezza perdono di vista le criticità e le ambivalenze più importanti di questa realtà, che solitamente si manifestano all’interno di processi di cambiamento sociale e politico che hanno tratti comuni al resto del paese e tratti specifici, peculiari del Mezzogiorno. Probabilmente, come ha dimostrato più tardi la sociologia critica della modernizzazione, proprio la questione teorica della modernizzazione unidirezionale (Parsons) piuttosto che multidirezionale (Eisenstadt) è l’oggetto fondamentale di questa discussione.

Clientela, consenso e partiti pigliatutto. La storia dei partiti politici in quasi tutti i contesti regionali meridionali è storia di debolezza organizzativa e di scarsa integrazione territoriale, in quanto la politica era spesso subordinata alle appartenenze clientelari. Queste ultime erano espressione di leader, correnti o comunque uomini orientati alla gestione del potere secondo una logica di tipo particolaristico. I circuiti clientelari operavano secondo logiche autonome di azione e spesso senza tener conto degli organismi territoriali dei partiti. Proprio analizzando il modo in cui la politica si è organizzata in molte aree del Sud possiamo sostenere che il clientelismo politico ha anticipato, già negli anni cinquanta, alcuni caratteri del partito pigliatutto. Le modalità con cui la clientela si è rapportata al consenso ha indebolito sul nascere il partito d’integrazione di massa. Nell’ambito delle appartenenze politico-clientelari si sono sviluppate vere e proprie competenze organizzative atte a raccogliere il consenso elettorale. Questo avveniva mentre nel Centro-Nord trionfavano le subculture bianche e rosse. La costituzione di reti clientelari è avvenuta nel pragmatismo e nella de-ideologizzazione, le appartenenze hanno mostrato una grande flessibilità e grandi capacità competitive dentro le organizzazioni politiche e soprattutto nel mercato elettorale. I patroni occupavano posizioni di potere per scambiare e per alimentare nei loro clienti speranze di scambio. Come il partito pigliatutto, il clientelismo politico mira al governo e non alla rappresentanza e lo fa cercando il consenso di tutte le classi sociali ed evitando di affrontare gli elementi di conflittualità ideologica, religiosa e sociale. A questo proposito un altro studioso americano (molto diverso da Banfield), Sidney Tarrow, nota una analogia tra la Democrazia Cristiana meridionale e le organizzazioni politiche del suo paese: «Il passaggio della dc meridionale dal clientelismo dei notabili al clientelismo della burocrazia, e il passaggio dalle clientele verticali a quelle orizzontali, ricalcano fedelmente l’evoluzione della macchina politica in America, (…), il carattere non ideologico della macchina in America si collega al pragmatismo nel suo uso del potere, giacché una dimensione marcatamente ideologica avrebbe distrutto uno degli elementi più importanti del sistema, e cioè la sua capacità di distribuire ricompense a tutti coloro che potevano votare. (…) La dc meridionale rivela un orientamento analogo». Tarrow mette in evidenza come prevalessero, in entrambi i contesti richiamati, obiettivi di crescita sganciati da qualunque criterio selettivo nella ricerca del consenso. Paolo Farneti ancora più apertamente richiama questa trasformazione della Democrazia Cristiana: « Non si può dimenticare, d’altra parte, la precoce trasformazione della dc in partito pigliatutto e in particolare, la sua natura clientelare». Mostrando il legame tra Democrazia Cristiana e partito pigliatutto, Farneti coglie un aspetto essenziale del sistema politico italiano e dei rapporti tra centro e periferia. Questi aspetti molto importanti richiamano le compenetrazioni profonde tra cambiamento e manipolazione, Banfield non solo non è stato capace di comprendere tali processi, ma attraverso il suo binomio politica-arretratezza ha di fatto sviato l’attenzione dai meccanismi di manipolazione che si sono strutturati proprio nella «grande trasformazione» del Sud.

Modernizzazione, regolazione sociale e legalità. La storia del Sud è storia di debolezza della regolazione sociale. Parlare di regolazione significa far riferimento, in una organizzazione sociale, ai criteri con cui si realizza l’allocazione delle risorse, ai modi di funzionamento e d’integrazione e alla prevenzione e soluzione dei problemi e dei conflitti. Le grandi questioni che riguardano la regolazione sono l’ordine sociale, la solidarietà, la cooperazione, lo scambio. L’approccio analitico più famoso su questo tema, a cui si fa spesso riferimento, è quello di Karl Polanyi, che individua tre grandi produttori di regolazione: la comunità, il mercato e la politica. A questa triade altri studiosi aggiungono i gruppi d’interesse che sono molto importanti in tutte le società contemporanee perché riflettono capacità regolative della società civile e della sfera pubblica. Il problema che Banfield affronta nel suo libro è un problema di regolazione: l’ipotesi che dichiara all’inizio della ricerca di voler verificare è la presenza di un «ethos». Questo termine è famosissimo anche nella sociologia. Weber lo usa più volte e in particolare nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, laddove lo studioso tedesco parla di un’etica fondata su credenze religiose e capace di influire sui comportamenti di molti credenti, generando così nella vita sociale quello che Weber stesso chiama lo spirito del capitalismo moderno. L’ethos di Weber è quindi un insieme di norme e di valori che si fondano su credenze religiose, in termini polanyiani potremmo dire che sono prodotti da comunità religiose rese vive dalla Riforma. L’ethos di Banfield, invece, non ha un fondamento chiaro, e a leggerlo in chiave weberiana potremmo addirittura dire che è un non ethos, al massimo potrebbe essere definito come una produzione normativa e valoriale legata alla persistenza di forme culturali tipiche del patriarcalismo originario nella famiglia nucleare montegranese. L’impressione è che lo studioso statunitense abbia costruito la sua ipotesi facendo riferimento a Weber, ma in forma impropria. Infatti egli propone il familismo amorale come una etica dell’arretratezza, orientata all’egoismo familistico e alla sfiducia nella comunità, nella politica e nel mercato. Proviamo a leggere, anche se in forma molto schematica, il processo d’istituzionalizzazione nel Sud, esaminando i vari produttori di regolazione.

La politica. La politica, secondo Polanyi, dovrebbe avere una funzione di redistribuzione delle risorse. Questo nel Sud, sicuramente, non è avvenuto. Specie negli ultimi due decenni è cresciuta enormemente la disuguaglianza interna alle regioni del Mezzogiorno. La politica, invece, sia nel Sud che nel resto del paese ha prodotto politiche distributive, cioè non orientate alla perequazione ma alla clientela, all’assistenzialismo e al consenso. In questo contesto la produzione normativa e valoriale dei politici e di coloro che aspirano alla vita politica non è orientata a recuperare una capacità redistributiva, al contrario sembrano potenziarsi percorsi di cetizzazione e forme culturali di tipo neo-patrimoniale. Coloro che non vivono la politica come esperienza o/e professione hanno maturato, come abbiamo gia detto precedentemente, una netta separazione tra legittimazione e consenso, ciò produce una istituzionalizzazione ambigua e instabile.

La comunità. Il sistema normativo della comunità, secondo Polanyi, dovrebbe essere molto influenzato dalla reciprocità. Il presupposto della diffusione di sistemi di reciprocità è un ambiente di tipo simmetrico. Tutti gli studi antropologici e sociologici, la Piselli per tutti, mostrano come ciò non è possibile, la reciprocità è diventata dipendenza o ricerca di privilegi. Non dimentichiamo le trasformazioni della famiglia e la sua crescente precarietà che nel Sud si presenta in forma radicale.

Il mercato. Il mercato dovrebbe essere un insieme di norme che regolano lo scambio. La preoccupazione di Polanyi era legata alla invadenza di questo produttore di regolazione negli altri ambiti della vita sociale. Apparentemente questo non è avvenuto, semmai si potrebbe dire il contrario. In verità, se ci riferiamo all’economia informale e sommersa e ancor più a quella illegale, la visione polanyiana non sembra smentita, si pensi alla mafia, ai commerci illegali, al controllo dei territori, alla sottomissione delle comunità, all’inquinamento criminale nelle istituzioni e nei partiti, ecc.

I gruppi d’interesse. Questo produttore di regolazione si manifesta in molti modi, di esso fanno parte le organizzazioni padronali, sindacali, professionali, l’associazionismo e tutto ciò che può riferirsi alla sfera pubblica e alla società civile. Un mondo molto cresciuto negli ultimi decenni, che esprime grandi potenzialità di trasformazione, ma contiene anche molte ambiguità. La cosa più importante è il rapporto con la legalità. La domanda da porsi è: come mai questo mondo riesce a svolgere le proprie funzioni e a crescere senza andare in rotta di collisione con le organizzazioni criminali e mafiose? È impensabile che sindacati e imprenditori svolgano le loro attività non impattando con i gruppi criminali. Viene da pensare che il pericolo più forte è quello di abituarsi a vivere subendo la prepotenza mafiosa o comunque definendo volta per volta, in nome dei propri interessi di gruppo, strategie razionali di convivenza obbligata con queste organizzazioni. Banfield pur individuando problemi concreti a Montegrano non riesce a dare una prospettiva analitica alla sua ricerca. Il familismo amorale produce norme e valori che si presentano come primi e ultimi, come se ci trovassimo in una forma d’istituzionalizzazione non modificabile, ciò impedisce di vedere gli intrecci della manipolazione, le debolezze della regolazione sociale e il progressivo indebolimento della credenza nella legalità. Il paradosso è che questo studioso si serve di un «approccio culturalista» per verificare una ipotesi che pare un teorema.

Mafia e percorsi di legalità e di sviluppo. In calce a queste brevi riflessioni bisogna dire che la situazione delle regioni meridionali, negli ultimi cinquanta anni, si è fortemente diversificata. Realtà come l’Abruzzo e la Basilicata presentano caratteri sociali, economici e politici profondamente diversi da regioni come la Campania e la Calabria. È utile ricordare che processi di differenziazione territoriale sono diffusi anche all’interno di situazioni regionali fortemente degradate. La provincia di Cosenza è molto diversa da quella di Vibo Valentia e da quella di Reggio Calabria. L’elemento che accomuna le situazioni più gravi è la presenza sempre più diffusa della violenza mafiosa. Nel Mezzogiorno d’Italia questo fenomeno si è radicato da lungo tempo in Sicilia, Calabria e Campania. In Puglia esso è cresciuto massicciamente negli ultimi trenta anni, in Basilicata, in Abruzzo e nel Lazio meridionale si notano segni evidenti di presenze di criminalità organizzata di tipo mafioso negli ultimi anni. Insomma pur nella profonda diversità dei fenomeni criminali notiamo una grande capacità di pervasione, facilitata dalla presenza diffusa dei sistemi clientelari. Interessante è notare come clientela e mafia siano per certi versi fortemente interrelate per altri invece si pongano in forma competitiva. Tutto dipende da come la mafia decide di stare in politica se direttamente o appoggiandosi a politici o burocrati gia presenti nell’arena del potere. In questi contesti il tradizionale dibattito sulla questione meridionale non pare attuale, il problema principale non sono i finanziamenti o gli interventi dello stato oppure gli incentivi alle imprese o altri aspetti di questo tipo. Sono tutte cose importantissime, ma questo tipo di dibattito disgiunto da quello della legalità non ha più senso, anzi si rischia la manipolazione e l’ulteriore crescita della presenza mafiosa e clientelare. Uno sviluppo economico o sociale che non impatta con la mafia o con la clientela politica non può essere considerato tale.

Tre brevi esempi di percorsi di legalità e di sviluppo: il comune di Lamezia Terme, la cooperativa sociale della Valle del Marro, la Diocesi di Locri.

Primo caso – Sviluppo politico e della legalità – Comune di Lamezia Terme (Sciolto due volte per mafia). Nelle elezioni amministrative del … viene eletto un sindaco del Centro Sinistra che non ha la maggioranza in Consiglio Comunale, la sua attività amministrativa è contrassegnata da continue minacce ed è costretto a vivere sotto scorta. Ultimamente sono scoppiate anche delle guerre interne alle organizzazioni criminali. L’azione politico-istituzionale del Sindaco è orientata alla qualificazione dell’apparato amministrativo e della gestione comunale, all’individuazione di un asse strategico per la sua città e per i comuni circostanti e all’avvio di azioni di concertazione. Si è posto il problema di costruire una opposizione all’azione distruttiva della mafia ed è riuscito a mobilitare un consistente gruppo di giovani. Interessanti anche le sue iniziative di coinvolgimento di grosse istituzioni culturali come alcune Università calabresi al fine di far nascere un centro di alta formazione. L’impressione è quella di una realtà municipale che sta cercando di far crescere una nuova capacità politico istituzionale, il propellente per questa attività di mobilitazione sociale e di sviluppo è il ripristino della legalità nell’attività dell’amministrazione comunale e soprattutto nella cultura dei cittadini.

Secondo caso – La Cooperativa sociale della Valle del Marro. Questa cooperativa sociale è nata nell’ambito delle attività importantissime della Associazione antimafia «Libera» (associazione di associazioni) e con il fine di gestire i beni confiscati alla mafia. Più volte questa realtà ha subito intimidazioni mafiose e atti vandalici, ma con fierezza e con l’appoggio di tante altre associazioni è riuscita sempre a riprendere le proprie attività che sono quelle della produzione e della trasformazione di prodotti agricoli. Ha un grande valore simbolico e nella Piana di Gioia Tauro rappresenta la lotta alla mafia e la costruzione di opportunità di lavoro per i giovani di queste terre.

Il Terzo caso – La Diocesi di Locri – Religione, sviluppo e legalità. 17Le credenze religiose hanno favorito nel Mezzogiorno la lotta alle mafie. La presenza di sacerdoti e credenti fortemente impegnati è stata una caratteristica dell’associazione Libera, le varie chiese del Sud hanno generato martiri e testimoni della lotta alla prepotenza mafiosa. L’esperienza di Locri è però diversa, è nata sulla capacità di un vescovo (Mons. Bregantini) di saper legare testimonianza religiosa e lotta alla prepotenza mafiosa. Un vero e proprio percorso educativo alla legalità come fondamento della dignità umana e dell’esperienza religiosa. Sono state realizzate varie iniziative che in pochi anni hanno prodotto quasi duemila posti di lavoro in attività agricole. L’iniziativa più interessante avviata (con l’aiuto di cooperative trentine) nelle montagne dell’Aspromonte è un tipo di coltura in serra, con la produzione di piccoli frutti, che si sta diffondendo e viene oggi proposta come un modello di sviluppo possibile delle aree interne per tutta la Calabria. La lotta alla mafia è condotta in modo fermo sul piano della condanna, ma parallelamente si stanno sviluppando forme di integrazione per ex detenuti che vogliono abbandonare l’attività criminale e intendono lavorare nelle cooperative sociali e sottoporsi al controllo delle autorità preposte. La locride sta vivendo una vera e propria rivoluzione culturale, ma è diffusa la consapevolezza che siamo solamente all’inizio e che si vive in continua precarietà. Questi casi non sono gli unici, per fortuna esistono molte altre esperienze di resistenza, abbiamo bisogno però di impostare un nuovo corso del meridionalismo e percorsi di ricerca più adeguati alla situazione che stiamo vivendo. La costante di tutte queste situazioni è la consapevolezza che la legalità in queste terre non è un punto di partenza, ma una costruzione sociale da realizzare con impegno quotidiano e tenacia lungimirante. Le università e i singoli ricercatori non possono limitarsi alle tradizionali «performance» accademiche, è necessaria una sensibilità culturale ed un impegno più deciso verso la promozione di legalità e di sviluppo. Banfield ha colto nel segno quando ha fatto riferimento alla mancata responsabilità soggettiva e collettiva a Montegrano, ma in contrapposizione alla sua ipotesi riteniamo che cambiamento, legalità e sviluppo possono essere coniugate e perseguite insieme anche nel Sud, i casi prima descritti sono esempi tangibili in tal senso.

Per citare questo articolo. Notizia bibliografica. Pietro Fantozzi, « Familismo Amorale o regolazione sociale debole? », Quaderni di Sociologia, 44 | 2007, 185-194.

Italo Calvino racconta la controsocietà degli onesti. Mentre arriva in aula il ddl anticorruzione e la società civile si mobilita per far sì che l’Italia si doti finalmente di una legge adeguata, ricordiamo l’apologo profetico di Calvino sul paese dei corrotti, scritto nel 1980. Rossella Guadagnini il 15 ottobre 2012 su La Repubblica. Corruzione, quanto siamo cambiati? Poco, pochissimo, a quanto pare. Basta tirare le somme. A detta della Corte dei Conti oggi la corruzione costa alle casse dell’Erario 60 miliardi di euro all’anno. Una cifra scandalosa, che fa il paio con quella dell’evasione fiscale, che ‘vale’, in imposte non versate, addirittura il doppio: 120 miliardi di euro, sempre all’anno. Il 12% degli italiani, nell'arco degli ultimi 12 mesi, si è visto chiedere una tangente, secondo il dossier “Corruzione, le cifre della tassa occulta che impoverisce ed inquina il paese”, in cui è raccolta l'ultima rilevazione di Eurobarometer 2011. Questa tassa occulta costa all'Italia 10 miliardi di euro in termini di Prodotto Interno Lordo, circa 170 euro annui di reddito pro-capite e oltre il 6% in termini di produttività. “E' una seconda tangentopoli' ha dovuto ammettere il ministro della Giustizia, Paola Severino. “La quantità di casi che si stanno verificando lo rende evidente. Ma – ha osservato – con qualche differenza rispetto al 1992 perché si tratta di una serie di casi estremamente gravi, che si innestano in un quadro di grandi bisogni del Paese, che rendono più gravi questi episodi”. Perciò è irrinunciabile il ddl anticorruzione, ora in discussione a Palazzo Madama: per quanto il testo sia stato criticato e accusato di debolezza, sia dai politici che dai magistrati, “è un decreto salva democrazia”, come afferma lo scrittore Roberto Saviano. Sono soprattutto tre i punti da rivedere: voto di scambio (nel testo risulta punibile solo se il politico lo paga in denaro e non con favori di altra natura), falso in bilancio e norme sull’autoriciclaggio. Senza contare il problema dei termini della prescrizione, che si accorciano invece di allungarsi. Dunque, fiat volutas dei? No, perché intanto, per far uscire il Parlamento dall’inerzia, si stanno moltiplicando le iniziative della società civile, due esempi per tutti: l’appello “Dipende anche da te” ha superato le 320mila firme, mentre Libertà e Giustizia ha indetto per il 24 novembre una grande manifestazione al Mediolanum Forum di Assago, alle porte di Milano. “Disinteresse e rassegnazione dei cittadini sono il terreno più fertile per il ricorso o l’adattamento alla pratica della corruzione”, spiega Piercamillo Davigo, uno dei protagonisti di Mani Pulite oggi consigliere della Suprema Corte di Cassazione. Per questa ragione, riconoscere e analizzare le esperienze positive, darne conoscenza, formare una massa critica di amministratori e cittadini sensibili all’integrità pubblica, sono “condizioni necessarie a riattivare i circuiti di controllo democratico, di un Paese come il nostro a illegalità diffusa”. Davigo ricorda una frase terribile, attribuita a Giolitti che dice: “Le leggi si applicano ai nemici, e si interpretano per gli amici”. “E’ chiaro – commenta poi – che la malattia che ci affligge non è recente, ma cova da molto tempo”. Infatti, già dodici anni prima di Tangentopoli, Italo Calvino scrive un racconto breve. In esso narra di un Paese dove la politica è intrecciata indissolubilmente con gli affari e la corruzione, e dove non è più facile discernere tra lecito e illecito. E’ il 15 marzo del 1980 quando esce sul quotidiano la Repubblica questo profetico “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”.

Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti. Italo Calvino  da Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori. C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia. Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita. Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta. Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri. Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita. In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla. Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile. Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

Nota biografica – Italo Calvino nasce a Santiago de Las Vegas (Cuba) nel 1923 e si trasferisce con la famiglia nel 1925 a San Remo. Si unisce ai partigiani durante la II Guerra Mondiale e, in questo contesto, nasce la sua prima opera “I sentieri dei nidi di ragno” (1947). Successivamente diventa un attivista del Pci, una militanza politica proseguita fino al 1956. Considerato uno dei più interessanti autori contemporanei, negli anni Settanta comincia a collaborare come editorialista al “Corriere della sera” prima e “la Repubblica” poi. Muore a Castiglione della Pescaia nel 1985. Tra le sue opere, la trilogia dei Nostri Antenati “Il cavaliere inesistente”, “Il barone rampante”, “Il visconte dimezzato”, “Marcovaldo”, “Le cosmicomiche”, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, fino al saggio “Lezioni americane” uscito postumo nel 1989.

·         L’Onorevole Mafia.

Occhionero. Affari coi boss? Chiesto il processo per la deputata Occhionero. Le Iene News il 6 giugno 2020. Ismaele La Vardera ci aveva raccontato dell’ex assistente della deputata di Italia Viva, Antonello Nicosia, che avrebbe usato il suo ruolo per andare a fare affari con i boss mafiosi al 41 bis. Ora per la deputata, accusata di falso e per altri 5 imputati, i pm della Dda di Palermo chiedono il rinvio a giudizio. Chiesto il rinvio a giudizio per 6 persone, accusate nell’ambito dell’operazione “Passepartout” di aver stretto legami d’affari con esponenti di famiglie mafiose dell’agrigentino. Tra questi c’è la deputata Giuseppina Occhionero, della cui vicenda vi avevamo raccontato nel servizio di Ismaele La Vardera, che potete rivedere qui sopra. La parlamentare di Italia Viva, accusata di falso nell’ambito dell’indagine della Dda di Palermo, avrebbe consentito al suo ex assistente Antonello Nicosia di entrare nelle carceri dove erano detenuti al 41 bis alcuni boss mafiosi, attività che avrebbe poi, secondo l'accusa, permesso a Nicosia di gestire relazioni e affari proprio con alcuni di quei boss al carcere duro. I pm Francesca Dessì e Geri Ferrara hanno chiesto il rinvio a giudizio per 6 indagati, per presunti accordi tra politica e alcune famiglie mafiose di Sciacca, nell’agrigentino: l'udienza preliminare del processo è fissata per il prossimo 9 settembre. Era stato il nostro Ismaele La Vardera ad occuparsi della vicenda dell’ex assistente parlamentare della Occhionero, Antonello Nicosia. L'ipotesi della Procura è che, approfittando del suo ruolo ufficiale, avrebbe addirittura progettato con i boss intimidazioni e omicidi. In particolare Nicosia e il boss Accursio Dimino avrebbero, durante quei colloqui in carcere, progettato estorsioni e l’omicidio di un imprenditore di Sciacca.  Quando Ismaele La Vardera era andato a chiedere spiegazioni del ruolo di Nicosia alla deputata Occhionero, era stato aggredito a colpi di scopa dal padre della donna, che poi però si era pubblicamente scusata del gesto.

Chiesto il rinvio a giudizio di boss e l'onorevole Occhionero. Pubblicato: 05 Giugno 2020 da AntiMafiaDuemila. I pm antimafia di Palermo, Francesca Dessì e Geri Ferrara, hanno chiesto il rinvio a giudizio per i sei indagati dell'operazione "Passepartout", che ha svelato un intreccio fra la famiglia mafiosa di Sciacca e una parte della politica. Tra i personaggi imputati figurano Antonello Nicosia, 48 anni, di Agrigento, assistente parlamentare della deputata di Italia Viva, Giusi Occhionero, accusato di associazione mafiosa. Secondo l’accusa Nicosia sarebbe stato il braccio destro del capomafia Accursio Di Mino, 61 anni, che era tornato libero dopo due condanne per Mafia. Insieme avrebbero gestito affari e persino progettato un omicidio. All’ex assistente parlamentare si contesta, fra le altre cose, di avere strumentalizzato la sua funzione di collaboratore parlamentare per entrare in alcune carceri siciliane, parlare con i boss e trasmettere all'esterno i messaggi che servivano alla gestione della famiglia mafiosa. Insieme a Nicosia e Dimino (quest'ultimo pure accusato di associazione mafiosa) c’è anche la parlamentare Occhionero che rischia di finire a processo per l'accusa di falso con l'aggravante di avere agevolato l'associazione mafiosa. L’onorevole, secondo gli inquirenti, avrebbe dichiarato falsamente, in diverse attestazioni indirizzate alle case circondariali di Agrigento, Sciacca e Palermo che, nel dicembre del 2018, Nicosia "prestava una collaborazione professionale diretta, stabile e continuativa". Completano la lista degli indagati i fratelli Paolo e Luigi Ciaccio, 33 anni e Massimiliano Mandracchia, 47 anni, accusati di favoreggiamento personale con l'aggravante dell'avere agevolato l'associazione mafiosa. I tre avrebbero messo a disposizione locali di propria proprietà e utenze telefoniche per aiutare Nicosia, Dimino e altri associati a eludere le investigazioni e trasmettere messaggi. Nicosia e Dimino si trovano in carcere dal 4 novembre, giorno in cui è scattata l'operazione. L'udienza preliminare, davanti al Gup di Palermo Fabio Pilato, è stata fissata per il 9 settembre.

Sergio De Gregorio. Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 4 giugno 2020. «Stratega» e «punto di riferimento indiscusso» di un gruppo dedicato alle estorsioni e al riciclaggio, l' ex senatore Sergio De Gregorio (prima eletto con l' Italia dei Valori quindi con il Popolo delle Libertà) finisce a Regina Coeli con altre otto persone, inclusi alcuni suoi prestanome. Dietro l' apparenza di una seconda vita ordinaria, lontano dai palazzi istituzionali, De Gregorio avrebbe veicolato minacce, intimidazioni e pressioni su piccoli imprenditori locali ai quali avrebbe estorto decine di migliaia di euro poi reinvestiti - riciclati per i pm - in sue società. Coadiuvato da amici avrebbe estorto ottantamila euro a un barista bengalese e al titolare indiano di una taverna nel centro storico di Roma, subito dirottando i proventi verso la Apron srl e l' Italia Global Service srl. Le intercettazioni restituiscono colloqui significativi e la diffusa consapevolezza da parte dell' ex senatore di aver messo in piedi una «efficiente, collaudata e riservata rete di comunicazioni e connivenze». In qualche caso i colloqui registrati sembrano alludere all' eliminazione di prove a suo carico: «Sì Piero - dice - ma io chi sono te l' ho dimostrato in un' altra occasione che tu ricorderai sicuramente. Io quando mi devo assumere le responsabilità me le assumo ma per le ca... non voglio rimanere con il piede dentro quindi oggi ho fatto una cosa importante... ho tolto di mezzo le cose che non era giusto che andassero di mezzo per tutti quanti noi... poi capirai a seguire quanto era importante». Eccezionalmente per una città nella quale si contano pochissime denunce per fatti di estorsione, l' inchiesta del pm della Dda Francesco Minisci è partita dall' esposto di un imprenditore, Rasol Ghavidelazar, il quale ha successivamente riconosciuto in foto l' ex senatore. Gli agenti della squadra mobile hanno eseguito anche il sequestro di 480 mila euro sui conti delle società riconducibili a De Gregorio. Quest' ultimo, secondo la gip Antonella Minunni, si conferma una figura di primissimo piano che «risolve le questioni sorte all' interno del gruppo» e «suggerisce ogni volta le strategie difensive». Non solo: «Recidivo, avendo riportato condanne per corruzione in atto contrario ai doveri d' ufficio ha una caratura criminale e scaltrezza davvero eccezionale». Con lui sono finiti agli arresti Giuseppina De Iudicibus, Corrado Di Stefano, Antonio Fracella, Vito Frascella, Vito Melioto, Michela Miorelli, Pietro Schena e Michelina Vitucci. Per tutti da domani partiranno gli interrogatori di garanzia.

Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2020. Hanno arrestato di nuovo Sergio De Gregorio (qualcuno avverta il Cavaliere: poi capirete perché). De Gregorio è un vecchio pesciaccio della politica e del giornalismo. Tipo pesce palla: all' apparenza innocuo, e invece velenosissimo. Stavolta sarebbe il perno di alcune società create appositamente per nascondere tir di denaro. Il gip Antonella Minunni: «Uomo di eccezionale caratura criminale». Non è che li beccano proprio sempre: ma quelli come lui, sì. Li frega l' ambizione, l' ingordigia. Per far cadere il secondo governo guidato da Romano Prodi - proprio mentre stava per diventare presidente della commissione Difesa - il prezzo fissato da De Gregorio fece epoca: 3 milioni. Poi passò - era il 2007 - dall' Italia dei Valori di Antonio Di Pietro («Se lo prendo - urlava Tonino con le vene sul collo - ci faccio quattro prosciutti!») al centrodestra. Memorie. Anni dopo. Il primo giorno di marzo del 2013, le dieci del mattino. Eccolo venire avanti nel corridoio dei busti di Palazzo Madama - abito di sartoria napoletana, le spalle a camicia, il nodo della cravatta nascosto dal doppio mento. Le agenzie avevano appena battuto la notizia: Silvio Berlusconi indagato dalla Procura di Napoli per corruzione e finanziamento illecito dei partiti e lui, De Gregorio, era un senatore del Pdl con i giorni contati, i modi delicati intatti, il solito spaventoso tasso di spregiudicatezza. «Sa, devo prendere atto che un' epoca è cambiata e il carcere è la medicina da bere». Sorrise come sanno sorridere i tipi come lui. «E comunque io non scappo: adoro la mia famiglia, amo mia moglie e ho tre figli che sono la mia felicità... ci prendiamo un caffè alla buvette?». La solita ciofeca, il fioretto di berla, anche se poi lui, nelle settimane precedenti, aveva già detto parecchio ai magistrati. «Sì, è vero: sono stato comprato da Berlusconi. L' obiettivo era sabotare Palazzo Chigi, far cadere Prodi. Due milioni li ho avuti in nero, il resto come sostegno al mio movimento. Non mi voglio giustificare, so che è un reato. Ma, all' epoca, diciamo tra il 2006 e il 2007, avevo debiti fino al collo» (intermediario e «postino», Walter Lavitola, un faccendiere che frequentava anche Palazzo Grazioli). Al termine del colloquio, De Gregorio volle pagare la ciofeca. Sulla porta della buvette, la sua stretta di mano molle. «La saluto: temo non ci rivedremo presto». (Aveva una buona conoscenza del codice penale, un curriculum già sostanzioso: riciclaggio e favoreggiamento della camorra - Napoli, 2007; corruzione - Roma, 2008; concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzato al riciclaggio - Reggio Calabria, 2008; truffa e fatturazioni false nelle indagini sul quotidiano L' Avanti - Roma, aprile 2012). Era a metà del salone Garibaldi, il transatlantico del Senato: ma all' improvviso si voltò e tornò indietro, i passi leggeri, nonostante il parquet scricchiolasse: «Spero abbia chiaro qual è il titolo di domani: la stagione di Berlusconi è finita». Gli era rimasto il senso della notizia. De Gregorio comincia a fare il cronista a 19 anni, nella redazione napoletana di Paese Sera , un quotidiano che resta nella leggenda del giornalismo italiano e che, non casualmente, lo arruola: il ragazzo ha talento, diventa un formidabile «pistarolo» e un grande inviato speciale come Joe Marrazzo lo prende in simpatia, lo chiama affettuosamente o' guaglione . Nel 1980, De Gregorio fonda una propria agenzia: la Alfa Press Service. Poi inizia a collaborare con L' Espresso , con Tg2 Dossier, con Oggi . Viaggia, sceglie teatri di guerra: Ruanda, Libano, Nicaragua, Iraq. «Sono stato il primo ad entrare in Iraq travestito da medico della Croce Rossa». Ma è fingendosi un turista che gli riesce il colpaccio (non si è mai ben capito chi fu a dargli l' imbeccata, forse i nostri servizi segreti, forse - per un giro strano che sarebbe lungo ricostruire - qualcuno del Mossad, i servizi israeliani): De Gregorio sale a bordo della stessa nave da crociera, la Monterey, dove - con nome e documenti di copertura - è in vacanza Tommaso Buscetta, e riesce a farci amicizia. Una sera finiscono addirittura al piano bar e, insieme, cantano «Guapparia». Scoop planetario. Ma la vita da inviato è faticosa. E, soprattutto, non si diventa ricchi. Così s' avvicina alla Rai e a Mediaset. Collabora con Enzo Biagi, Enzo Tortora e Rita Dalla Chiesa. Il giornalismo è molto presto una scusa. Il suo nuovo orizzonte: la politica. Nel 2005 sta per candidarsi con Forza Italia alle Regionali, i manifesti sono già affissi, ma all' ultimo l' accordo salta: lui prima s' infuria, poi decide di fare il giro largo. Va a bussare alla porta di Di Pietro, e Di Pietro gli apre e lo candida. Un trionfo: o' guaglione si presenta con 80 mila voti e viene eletto in carrozza (festeggiamenti memorabili, con Peppino Di Capri in concerto e simil Oba-Oba, in realtà quattro ragazzone di Ercolano, sul palco con piume e paillettes). Il piano ha funzionato: sì, è dentro, è in Parlamento. Adesso può puntare al Cavaliere. Dirà la segretaria di De Gregorio: «Era alla continua ricerca anche di mezzo euro. Ma, nel luglio del 2007, alla vigilia del suo passaggio nel centrodestra di Berlusconi, tutto cambiò: l' onorevole cominciò ad avere una grande disponibilità di denaro...». L' ultimo libro scritto da Sergio De Gregorio è Diete dimagranti, diete ingrassanti (Ed. Sarva).

Rosalia Palermi per repubblica.it il 3 giugno 2020. Tre milioni di euro per far cadere il governo Prodi, opachi contatti con esponenti di camorra, il giro di soldi che ruotava intorno ai finanziamenti all'Avanti e, prima ancora, l'obliquo scoop che rivelò al mondo la crociera del pentito di mafia Tommaso Buscetta. Giornalista e parlamentare, passato da Italia dei Valori al Pdl, Sergio De Gregorio finisce nuovamente nei guai per un giro di estorsioni, riciclaggio e autoriciclaggio che ha per base alcuni locali del centro di Roma. Arrestato dagli uomini della Squadra mobile di Roma e condotto in carcere insieme con altre 4 persone, De Gregorio sarebbe il perno di una serie di società di comodo, create apposta per nascondere un fiume di denaro che sarebbe passato anche attraverso i conti di un'azienda le cui disponibilità sono state bloccate. Il sequestro ammonta a 470 milioni di euro e riguarda in totale 5 società. Gli altri arrestati sono  Antonio Fracella, Vito Frascella, entrambi ex militari della Marina, di origini pugliesi, la campana Giuseppina de Iudicibus, la commercialista Michela Morelli, di Rovereto, già pregiudicata per reati tributari, truffa e bancarotta fraudolenta. Ai domiciliari un altro pugliese, Vito Meliota. Per Michelina Vitucci, di Bari, è stato invece disposto l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. L'ottava misura cautelare degli arresti domiciliari riguarda il romano Corrado Di Stefano, da tempo residente all'estero e al momento irreperibile. Tra le vittime dell'estorsione i titolari di un bar in via Chiana e uno in via Flavia. I proventi sarebbero poi stati investiti nelle società, la Apron, la Italia Global Service, Pianeta Italia, Ittica italiana e Italia Comunicazione che gestisce il magazine online Pianeta Italia News. Le indagini sono partite dalla denuncia del titolare dei bar di via Chiana che ha raccontato di aver subito una richiesta indebita di denaro per 80 mila euro. I riscontri con intercettazioni telefoniche ed ambientali hanno permesso di ricostruire la dinamica dell’estorsione. Il gruppo avrebbe minacciato la vittima di far apporre i sigilli al locale. Nell'inchiesta è coinvolto anche Pietro Schena, considerato il braccio destro di De Gregorio. Sarebbe stato lui a inviare presso il bar come emissari i due militari della Marina.  La vicenda del bar di via Flavia ruota intorno alla cessione del locale con una clausola capestro per l'acquirente cui sono seguite minacce che hanno indotto la vittima a mollare. "Mi hanno minacciato - ha raccontato l'acquirente- mi hanno aspettato sotto casa, così ho deciso di mollare tutto e andare via". Disinvolto, spregiudicato, con una rete di relazioni estesa anche nel mondo dei servizi segreti, De Gregorio si ritrova di nuovo al centro di una vicenda giudiziaria disvelata dalle indagini della Dda di Roma. Conscio delle indagini avrebbe anche cercato e raccomandato ai presunti complici di far sparire ogni traccia. "Punto di riferimento indiscusso, lo stratega del gruppo, sempre pronto a 'sistemare' le cose", scrive di lui il gip di Roma, Antonella Minunni, nell'ordinanza di custodia cautelare richiesta dal procuratore Michele Prestipino, dall'aggiunto Ilaria Calò e dal pm Francesco Minisci. "E' lui che risolve le questioni sorte all'interno del gruppo - continua il giudice - e che suggerisce ogni volta le strategie difensive, è recidivo, avendo riportato, tra l'altro, condanne per corruzione in atto contrario ai doveri d'ufficio. Ha una caratura criminale e scaltrezza davvero eccezionale". Il gruppo, sempre attraverso le operazioni svolte dalla commercialista, progettava anche la realizzazione di un'azienda ittica in Portogallo. In passato per indagini analoghe in odore di camorra era finito in una inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. Alla ribalta della cronaca per il suo cambio di casacca in occasione della caduta del governo Prodi a gennaio 2008, tornò lungamente a far parlare di sé quando rivelò di avere intascato due milioni in nero da Silvio Berlusconi per passare dalla sua parte e un altro milione di euro come finanziamento alla sua fondazione politica. Tentò anche un'attività di scouting tra i parlamentari pronti a compiere il grande passo. Uno di questi registrò il colloquio incastrandolo. In quella occasione, stando alle rivelazioni di De Gregorio, aveva avuto una disponibilità di 5 milioni di euro per corrompere il parlamentare. I soldi, ha detto De Gregorio, gli arrivavano direttamente da Silvio Berlusconi. Dopo una richiesta di arresto respinta, fu invece lui a costituirsi beneficiando dei domiciliari. Oggi, per la prima volta, ha varcato la soglia di un carcere.

Luigi Cesaro. Camorra, maxi blitz del Ros a Napoli: arrestati i tre fratelli del senatore Cesaro, indagato anche il parlamentare. La misura degli arresti domiciliari è stata eseguita nei confronti di Aniello e Raffaele Cesaro, entrambi già coinvolti in un’altra inchiesta su presunte collusioni con la camorra. In carcere invece va un terzo fratello, Antimo, patron del centro di analisi Igea di Sant’Antimo. Sul senatore il gip si è riservato di decidere. Dario Del Porto e Conchita Sannino il 09 giugno 2020 su La Repubblica. Ci sono anche i tre fratelli del senatore di Forza Italia Luigi Cesaro nell'inchiesta condotta dai carabinieri del Ros sulle ramificazioni dei clan camorristici Puca, Verde e Ranucci, attivi nella zona di Sant'Antimo, nella periferia settentrionale di Napoli. C'era una richiesta di misura cautelare in carcere anche per il parlamentare. Il gip di Napoli Maria Luisa Miranda, che ha firmato le 59 misure cautelari notificate dai carabinieri del Ros nel Napoletano, nell'ambito di un'inchiesta della Dda su presunte collusioni tra politica e camorra a Sant'Antimo (Napoli), si è riservato di prendere una decisione in relazione alla posizione del senatore Luigi Cesaro, "all'esito - si legge nell'ordinanza - dell'eventuale autorizzazione all'utilizzo delle intercettazioni, ritenute rilevanti, secondo la procedura che verrà attivata da questo ufficio". Il senatore di Forza Italia risulta quindi tra le persone indagate nell'inchiesta su presunte collusioni tra camorra e politica. Le misure cautelari notificate sono 38 arresti in carcere, 18 ai domiciliari, due obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria e una sospensione dai pubblici uffici. La misura degli arresti domiciliari è stata eseguita nei confronti di Aniello e Raffaele Cesaro, entrambi già coinvolti in un'altra inchiesta su presunte collusioni con la camorra. In carcere invece va un terzo fratello, Antimo, patron del centro di analisi Igea di Sant'Antimo. La Procura indaga per concorso esterno in associazione camorristica. Sequestrata la società "Il Molino". L'inchiesta è condotta dalle pm Giuseppina Loreto e Antonella Serio, le ordinanze sono firmate dal giudice Maria Luisa Miranda. Sotto sequestro è finita la società del centro commerciale Il Molino. "Sono esterrefatto nell'apprendere da notizie di stampa il mio presunto coinvolgimento in pratiche di raccolta del consenso non regolari e addirittura oggetto di ipotizzato accordo con ambienti riconducibili a consorterie criminali", replica il senatore Luigi Cesaro. "Nel corso della mia lunga e diversificata esperienza politica e istituzionale - aggiunge - mi sono più volte cimentato in campagne elettorali, da quelle europee a quelle nazionali, provinciali e comunali. Sempre il consenso sulla mia persona è stato raccolto in modo assolutamente trasparente e i suffragi ricevuti sono stati frutto esclusivamente del mio impegno a sostegno delle nostre comunità e della mia nota disponibilità nei confronti dei cittadini. Sono perciò convinto che l'approfondimento dei fatti e l'attenta valutazione delle circostanze in questione permetteranno alla verità di emergere e, come già accaduto nelle precedenti contestazioni che mio malgrado mi hanno coinvolto, i fatti si incaricheranno dì dimostrare la mia assoluta estraneità a qualsiasi addebito. Ed è perciò che con animo assolutamente sereno affronterò anche questa ulteriore prova", conclude il parlamentare.

Napoli, operazione anticamorra: 59 misure cautelari. Arrestati anche i tre fratelli del senatore di FI Luigi Cesaro. Per cui c’è richiesta di arresto. Agli indagati contestati, a avario titolo, i reati di associazione mafiosa, concorso esterno, corruzione elettorale, estorsione e turbata libertà degli incanti. Le indagini della Dda hanno permesso di ricostruire i rapporti tra la famiglia del parlamentare e tre clan. Che hanno influito sulle elezioni comunali del comune di San'Antimo comprando voti e minacciando consiglieri. Tra i destinatari delle misure anche due carabinieri. Il Fatto Quotidiano il 9 giugno 2020. I guai (giudiziari) per la famiglia Cesaro non finiscono mai. Neanche un mese fa era arrivata una richiesta d’arresto per Luigi Cesaro, senatore accusato di corruzione, oggi emerge il coinvolgimento di tutti e tre i fratelli del deputato azzurro nell’inchiesta condotta dai carabinieri del Ros, con il coordinamento della Dda di Napoli, sulle ramificazioni dei clan camorristici Puca, Verde e Ranucci, attivi nella zona di Sant’Antimo, nella periferia settentrionale di Napoli. Anche il parlamentare è indagato come emerge dall’ordinanza di custodia cautelare. A quanto apprende il fattoquotidiano.it per il parlamentare la Dda aveva chiesto la misura cautelare in carcere. Il senatore indagato, il gip deciderà dopo eventuale autorizzazione all’uso delle intercettazioni – I militari, coordinati dai pm Giuseppina Loreto e Antonella Serio, hanno eseguito una misura cautelare a carico di 59 indagati accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, concorso esterno, corruzione elettorale, estorsione e turbata libertà degli incanti. La misura degli arresti domiciliari è stata notificata ad Aniello e Raffaele Cesaro, entrambi già coinvolti in un’altra inchiesta su presunte collusioni con la camorra. L’accusa contestata è di concorso esterno in associazione mafiosa. Tra i destinatari delle misure cautelari figurano anche diversi elementi di spicco della criminalità organizzata napoletana. Il giudice per le indagini preliminari, Maria Luisa Miranda, ha disposto invece il carcere per Antimo Cesaro, titolare del centro di analisi Igea di Sant’Antimo. Il gip ha firmato anche un ordine di sequestro per la società “Il Molino”. Il giudice ha disposto 38 arresti in carcere e 18 ai domiciliari. L’operazione Antemio ha fatto luce “su attentati dinamitardi, estorsioni e tentati omicidi, ma anche su una fitta rete di cointeressenze sia in ambito politico sia imprenditoriale, sfociate in affari milionari per i clan e in una rilevante situazione di infiltrazione dell’amministrazione comunale”. Il gip si è riservato di prendere una decisione in relazione alla posizione del senatore Luigi Cesaro, “all’esito dell’eventuale autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni, ritenute rilevanti, secondo la procedura che verrà attivata da questo ufficio”. Il giudice ha disposto il sequestrato di 194 unità, tra civili abitazioni, uffici, magazzini, autorimesse, nonché di 27 terreni (tutti ubicati tra le province di Napoli, Caserta, Frosinone e Cosenza), 9 società e 3 quote societarie, 10 autoveicoli e 44 rapporti finanziari. Tra i beni immobili c’è appunto la galleria commerciale di Sant’Antimo “Il Molino”, con oltre 90 locali adibiti ad esercizi commerciali ed uffici. Tutto per un valore di circa 80 milioni. I rapporti della famiglia Cesaro con il clan Puca – L’indagine si è sviluppata, dall’ottobre 2016 al gennaio 2019, proprio “in ordine a un datato rapporto tra la famiglia Cesaro, noti imprenditori di Sant’Antimo, e il clan Puca”. Riscontri sono arrivati da collaboratori di giustizia con riferimento a interessi e a partecipazioni nel centro polidiagnostico “Igea” e nella galleria commerciale “Il Molino”, entrambi a Sant’Antimo, risultate essere società di fatto tra i Cesaro (formali titolari) e il capoclan Puca Pasquale, detto Pasqualino ‘o minorenne. “Esponenti del clan, al venir meno dei pregressi accordi, hanno reagito – si legge in una nota degli investigatori – compiendo un attentato dinamitardo al centro “Igea” (7.6.2014) ed esplodendo cinque colpi di pistola all’indirizzo dell’auto di Cesaro Aniello, in sosta presso un autolavaggio (10.10.2015), episodi sui quali le investigazioni hanno fatto piena chiarezza. Tra gli indagati c’è anche l’anziana madre del capo clan Pasquale Puca, “che destinataria della misura della presentazione alla polizia giudiziaria, è chiamata a rispondere del reato di ricettazione aggravata dalla finalità mafiosa per aver nel tempo ricevuto denaro proveniente dai fratelli Cesaro, frutto delle società di fatto esistenti tra gli imprenditori e il figlio”. Le indagini hanno accertato “il condizionamento delle elezioni comunali del Comune di Sant’Antimo (sciolto il 20 marzo per infiltrazioni mafiose) tenutesi nel giugno 2017, attraverso una capillare campagna di voto di scambio. In tal senso è stata fatta luce su un’incalzante opera di compravendita di preferenze, con una tariffa di 50 euro per ogni voto, a favore di candidati del centrodestra, soccombente, come noto, al ballottaggio, dopo un primo turno favorevole”. Controllo sul comune di San’Antimo, attentati per far dimettere consiglieri – Il controllo del Comune di Sant’Antimo da parte del clan, secondo gli inquirenti, “risulta proseguito anche dopo le elezioni… Infatti, a seguito della mancata affermazione elettorale, la strategia criminosa è stata finalizzata da un lato a far decadere quanto prima la maggioranza consiliare e dall’altro a mantenere – malgrado una Amministrazione di diverso schieramento politico – il controllo sul locale Ufficio Tecnico attraverso la conferma nel ruolo di responsabile dell’ingegner Claudio Valentino”, indagato sia per l’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa (clan Puca), sia per episodi di corruzione e di turbata libertà degli incanti relativi a quattro gare a evidenza pubblica, del complessivo valore di oltre 15 milioni di euro. In questo contesto, proseguono gli investigatori, è stata chiarita la genesi di due attentati tra novembre e dicembre 2018 contro le case di consiglieri comunali di maggioranza “per farli dimettere dalla loro carica e così far venir meno il numero legale per il funzionamento del Consiglio e determinarne lo scioglimento”. Inoltre, sono stati individuati gli autori di un terzo attentato contro la casa dei familiari di un collaboratore. Ma non solo le indagini hanno permesso di verificare che alcuni funzionari dell’ufficio tecnico erano stati minacciati per dissuaderli dall’accettare l’incarico di dirigente del Settore Urbanistica. Infine, le indagini hanno consentito di raccogliere indizi anche su illeciti rapporti tra due marescialli, già effettivi alla Tenenza Carabinieri di Sant’Antimo, e alcuni indagati. Il gip ha disposto per un militare (già sospeso dal servizio all’esito di altra recente indagine) la misura della custodia in carcere e per l’altro, ora in servizio fuori provincia, la misura dell’interdizione dal pubblico ufficio. Il primo risponde dei reati di rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento, mentre il secondo del reato di favoreggiamento, aggravati dall’aver agevolato le attività illecite dei clan Puca e Verde. Ha collaborato Vincenzo Iurillo.

Leandro Del Gaudio per “il Messaggero” il 10 giugno 2020. Galoppini in azione all'esterno dei seggi, certificati elettorali nelle mani del clan, tangenti per gli appalti nei pasticcini. È andata avanti così la vita democratica a Sant'Antimo, comune di 30mila persone alle porte di Napoli: dal 2007 al 2017, un patto politico mafioso tra la famiglia Cesaro e il clan Puca avrebbe consentito di controllare la giunta comunale, ma anche gli uffici chiave del comune a proposito di concessioni, licenze, permessi a costruire, insomma di tutto ciò che può tradursi in appalti e lavori pubblici. Eccola l'ultima accusa a carico della famiglia Cesaro, in una maxi-inchiesta culminata in 59 ordini di cattura. Finiscono così ai domiciliari Aniello e Raffaele Cesaro, mentre è in cella il terzo fratello, Antimo, ritenuto da anni interfaccia del boss Pasquale Puca. Ma i guai per la dinasty di Sant'Antimo non sono finiti: è stata la Dda di Napoli ad avanzare richiesta di arresti in cella a carico del senatore azzurro Luigi Cesaro, per il quale dovrà esprimersi il gip di Napoli Maria Luisa Miranda (che ha inoltrato al Senato le telefonate che riguardano l'ex coordinatore azzurro per valutarne l'utilizzabilità sotto il profilo processuale). A distanza di meno di un mese, dunque, una nuova tegola per lo storico leader del centrodestra in Campania, per il quale pende già una richiesta di arresto al Senato per un'altra storiaccia in odore di camorra: le presunte mazzette prese dall'imprenditore stabiese Adolfo Greco nel 2015.

LE ACCUSE. La nuova accusa a carico dei Cesaro è di concorso esterno in associazione camorristica. Intercettazioni e pentiti svelano l'esistenza di un presunto abbraccio politico mafioso: da piccoli imprenditori - si legge nelle carte - i fratelli Cesaro crescono grazie ai soldi del socio occulto Pasquale Puca, o minorenne, che avrebbe finanziato il centro polidiagnostico Igea, ma anche il centro commerciale Il Molino (sequestrato assieme a decine di locali). Poi, una volta arrestato (siamo nel 2009), la camorra dei Puca (collegata ai clan Verde e Ranucci) avrebbe chiesto ogni mese una quota ai Cesaro, come in una ordinaria gestione societaria. Ed è in questo scenario che vengono inseriti dal Ros i due attentati subiti dai Cesaro: è il 7 giugno 2014, quando, contro il centro Igea di Sant'Antimo, viene fatta esplodere una bomba che distrugge parte dell'ingresso. Si trattò di un avvertimento per i «pregressi accordi» non rispettati. Mentre il 10 ottobre 2015 vengono sparati 5 colpi di pistola contro l'auto di Aniello Cesaro.

IL SISTEMA. «Fui convocato da Luigi Cesaro, che mi diede diecimila euro per effettuare gli acquisti di schede elettorali. Poi ci tenne a farmi delle raccomandazioni: mi disse di controllare il lavoro dei galoppini, ma anche di verificare la corrispondenza dei soldi investiti, scheda per scheda, e i voti portati a casa». Ad accusare il senatore Cesaro è il pentito di camorra Ferdinando Puca. È lui ad aggiungere un particolare su quello che chiama il sistema «elettorale» di Cesaro: «Insisteva su un punto: controllare la corrispondenza di soldi e voti, secondo le modalità concordate, perché è questo il motivo che spinge i politici a rivolgersi alla camorra». E se i conti non tornano? Ci sono le punizioni, i metodi violenti, anche in questo caso avallati dal senatore: il pentito ricorda l'incontro in casa di Luigi Cesaro per le comunali del 2011: «Mi disse che dovevo comprare le schede elettorali con i 10mila euro che mi diede, dovevamo poi controllare se qualcuno vendeva due volte il suo voto e dovevamo picchiare se qualcuno non rispettava i patti. I Cesaro avevano persone nei seggi, poi c'erano i galoppini che prendevano dieci euro, mentre il voto costava 50 euro per ogni elettore». Nel 2017, dopo un'inchiesta, i Cesaro si ritirano e si insedia a Sant'Antimo una giunta di centrosinistra. Il clan torna alla carica: vengono avvicinati e minacciati i dirigenti comunali. Poi il pressing politico, che fa definitivamente cadere la giunta in carica un anno fa.

LA DIFESA. «Sono esterrefatto - commenta Luigi Cesaro - Nel corso della mia lunga esperienza politica e istituzionale mi sono più volte cimentato in campagne elettorali, da quelle europee a quelle nazionali, provinciali e comunali: sempre il consenso sulla mia persona è stato raccolto in modo assolutamente trasparente».

Mario Ajello per “il Messaggero” il 10 giugno 2020. Il terremoto di Sant'Antimo ha come epicentro la royal family. Qui, nel paesone a Nord di Napoli, nel casertano profondo e ormai da troppo tempo ferito nel paesaggio, nella vivibilità, nella legalità, lì dove (per dirla con Italo Calvino ci si cala nell'inferno di palazzacci e speculazione «per farne parte al punto di non vederlo più», i Cesaro sono tutto. Padroni riveriti. Parte del paesaggio inamovibile. Al punto che, come massimo segno di celebrità ma anche di potere, il più in vista dei quattro fratelli - ossia il senatore Luigi che è ancora in libertà mentre Antimo è in carcere e Aniello e Raffaele sono ai domiciliari - si è meritato l'imitazione da parte di due delle massime star della comicità. C'è Crozza che fa la parodia di Luigi, supercampione della caccia al voto, gran raccoglitore di consensi targati Forza Italia fino a renderlo il signorotto del partito in Campania, e la fa così: «Nun song' io ch'aggio vutato comm'a lloro, so' chilli ch'hanno vutato comm' a mme!». E l'altro comico, il governatore De Luca, è quello che di Cesaro dice così: «E' in guerra da decenni con la grammatica e la sintassi, è uno sterminatore di congiuntivi. Ed anche un individuo che con espressione mitico-allegorica viene chiamato Giggino a Purpetta». Ecco, gli svarioni dell'esponente più famoso della Cesaro Family sono entranti nella leggenda della politica nazionale. Da presidente della Provincia di Napoli (ma è stato anche più volte deputato e coordinatore napoletano del Pdl e di Forza Italia), Giggino confuse Marchionne, l'ad della Fiat, con Melchiorre, uno dei tre re Magi; oppure ha espresso un «tic tac» al posto di un diktat. Le sue scivolate linguistiche sono cliccatissime dai frequentatori di Youtube e buon per lui. Quanto al proverbiale soprannome. Le versioni sulla sua origine sono due. La prima: purpetta cioè polpetta in quanto il tipo è fisicamente rotondo (mentre il figlio Armando, a sua volta big forzista in regione, è più slanciato ma terminologicamente è apparentato al genitore e lo chiamano Purpetiella, piccola polpetta). La seconda versione è quella che però più piace agli amanti del genere noir che narrano: Cesaro viene detto a Purpetta perché, ad ogni appalto vociferato era solito pronunciarsi elegantemente: «E a purpett' pe' me nun jesce?». Chissà se è vero. Ma non vivono in un contesto tranquillo, e forse non hanno contribuito a migliorarlo, i Cesaro. In quella terra dove le famiglie Verde (con il capo Francesco detto O negus) e Puca (con il boss Pasquale) si sono sempre spartiti potere e territorio tra alleanze e guerre. E non c'è dubbio che una storia giudiziariamente accidentata abbiano avuto i Cesaro, tra inchieste, arresti, condanne in primo grado (proprio a Giggino) ma non in secondo né in Cassazione (grazie al giudice Carnevale, soprannominato «l'Ammazzasentenze»). Da Cesaroland partì l'avventura politica del Purpetta, che è un tipo di poche parole che si muove felpatamente da professionista della politica a modo suo, socialista nell'animo e infatti nel ventennale della morte di Craxi nel gennaio scorso era ad Hammamet con tutti gli altri, molto rispettato tra i berlusconiani per la sua forza elettorale e quando il Cavaliere nel marzo del 2006 andò a Sant'Antimo fu celebrato come un sovrano nella sala della polisportiva e il suo vicerè Giggino ha toccato per l'ennesima volta con mano tutto il proprio potere e la devozione del popolo. Ma c'è anche una parte di Forza Italia che ha sempre mal sopportato lo stile della Purpetta e la sua macchina del consenso già pronta anche per la prossima tornate delle elezioni amministrative di settembre in Campania. E comunque in questi anni giggini i suoi fratelli Antimo, Aniello e Raffaele, hanno continuato a fare affari soprattutto nel campo della sanità privata e convenzionata con il Servizio sanitario nazionale. E' del resto tutto sdrucciolevole e scivoloso il terreno di Cesaroland, che è terra di mozzarelle ma piovono polpette.

Il pentito Puca: “Così Luigi Cesaro mi disse di comprare i voti”. I racconti dei collaboratori di giustizia sul ruolo del senatore e del fratello Antimo. Un patto politico-mafioso per controllare le elezioni. Spunta anche il nome di De Gregorio. Vincenzo Sbrizzi su napolitoday.it il 09 giugno 2020. Uno scenario inquietante emerge dall'ordinanza di custodia cautelare con la quale la procura antimafia di Napoli ha decimato il clan Puca. In particolare nelle carte viene spiegato il rapporto tra gli uomini della cosca di Sant'Antimo e i fratelli Cesaro. Un vero e proprio sodalizio capace di incedere sulle consultazioni, comunali in particolare, a partire dal 2003 in poi, in virtù di un patto stipulato dal capoclan Pasquale Puca, “o' minorenne” e Antimo e Luigi Cesaro, senatore di Forza Italia, consolidato poi nel 2007 prima dell'arresto di Puca. A raccontarne i dettagli sono i collaboratori di giustizia che hanno svelato i ruoli dei fratelli Cesaro in quello che è stato definito uno scambio politico-mafioso. A fornire maggiori dettagli rispetto al metodo di compravendita dei voti per le elezioni comunali a Sant'Antimo è stato il collaboratore Ferdinando Puca.

L'incontro con Luigi Cesaro. Nel corso dell'interrogatorio del 23 marzo 2016, si riferisce alle elezioni comunali del 2012. È lui a chiamare in causa il senatore di Forza Italia raccontando di un incontro nella sua abitazione. Puca dice di essere stato convocato tra il 2011 e il 2012, dopo la sua scarcerazione, a casa di Luigi Cesaro. Il senatore gli avrebbe consegnato 10mila euro per l'acquisto di schede elettorali. Secondo il racconto del pentito, Cesaro si prodigò personalmente per spiegargli come doveva funzionare la compravendita. L'obiettivo era quello di acquistare un pacchetto di voti per sostenere la campagna elettorale di Cristoforo Castiglione, candidato al consiglio comunale con la lista “Insieme” che appoggiava Francesco Piemonte, candidato per la rielezione a sindaco. Puca doveva occuparsi di organizzare un gruppo di “galoppini” che dovevano comprare i voti e controllare che il numero di consensi acquistati corrispondesse a quelli poi realmente ottenuti. Un “controllo” da effettuare anche con la violenza nel caso qualcuno avesse voluto fare il furbo. Ad aiutarli ci sarebbero state delle persone dei Cesaro all'interno dei seggi.

Il costo dei voti. Il costo di ogni singolo voto era di 50 euro a cui andavano aggiunti i 10 euro da dare al galoppino che lo procurava. Di questa operazione, Puca dice di essersi occupato insieme a Pasquale Verde, “o' cecato”. In totale ha detto di aver ricevuto 35mila euro anche da Antimo Cesaro e la campagna elettorale fu un successo e si concluse con l'elezione del candidato voluto dai Cesaro. Secondo i suoi racconti la famiglia Cesaro, in particolare Antimo, versava 10mila euro al mese a Teresa Puca per le spese legali del clan. Puca non era nuovo a questo tipo di operazione. Secondo i suoi ricordi avrebbe fatto lo stesso a partire sin dal 2003-2004. A quel tempo era ancora libero il cugino Pasquale Puca che si occupava direttamente di stabilire con i fratelli Cesaro il candidato da sostenere. In un successivo interrogatorio, datato, 27 aprile 2017, Puca dice di essere stato chiamato da Antimo e Luigi Cesaro, insieme a Teresa e Lorenzo Puca, che aveva raccolto l'eredità del padre, e da Claudio Lamino, poi divenuto collaboratore di giustizia. Anche in quell'occasione il candidato doveva essere sempre Castiglione e i voti dovevano essere sempre acquistati spendendo 60 euro, 50 per il votante e 10 per il galoppino. Inoltre a lui e Verde, ancora una volta coinvolto nell'operazione, sarebbero spettati 100 euro a voto acquistato. Puca, in questo caso, non parla di incontri con Luigi Cesaro ma racconta di un incontro con il fratello Antimo all'Igea, il centro di sua proprietà. Cesaro in quell'occasione parlò di “casse di denaro” per acquistare i voti e anche di un regalo extra per Verde. “Regalo” che non arrivò al termine della campagna elettorale scatenando l'ira di Verde che promise di “lanciare giù dal balcone Antimo”. Il suo proposito venne bloccato da Puca poiché Antimo era considerato un protetto del cugino e capoclan Pasquale.

Il ruolo di Antimo Cesaro. Proprio il ruolo di Antimo risulta essere predominante nell'acquisto dei voti. Se ne trovano riscontri anche nelle dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia che a differenza di Puca non raccontano mai di incontri con il senatore Luigi ma solo con il fratello Antimo. Certa è la forza del clan Puca nel condizionamento della vita politica di Sant'Antimo e non solo. Nell'interrogatorio del 12 dicembre 2013, il collaboratore di giustizia Giuseppe Perfetto quantifica in 2000-2500 voti la forza elettorale del clan. Un bacino di voti a cui, stando alle sue dichiarazioni, avrebbe provato ad abbeverarsi anche l'ex senatore di Italia dei Valori, Sergio De Gregorio, recentemente arrestato. Perfetto racconta, in un altro interrogatorio del 16 dicembre, di un incontro del 2006 in cui De Gregorio incontrò lui e Pasquale Puca all'interno del mobilificio di Stefano Di Lorenzo. Secondo il pentito l'attività di condizionamento del clan si sarebbe svolta nel corso delle consultazioni del 2007, 2012 e 2017. Anche Perfetto conferma l'esistenza della lista “Insieme” che appoggiava la candidatura a sindaco di Francesco Piemonte, primo cittadino di Sant'Antimo dal 2007 al 2017. Conferma, inoltre, che i voti dovevano convergere sul candidato Castiglione. Più preciso è l'altro collaboratore di giustizia Claudio Lamino, attivamente impegnato nella compravendita di voti come confermato anche da Puca.

L'operazione per far diventare Cesaro sindaco. Nell'interrogatorio del 16 maggio 2017 parte con il suo racconto dal 2004. In quell'occasione ricorda che il sindaco in carica era Aurelio Russo, candidato opposto a quello dei Cesaro. Il pentito spiega come i fratelli riuscirono a farlo dimettere. Di fatto non aveva la maggioranza in consiglio comunale ma per farlo cadere erano necessarie le dimissioni dei consiglieri comunali. Fondamentale erano le dimissioni di Salvatore Castiglione e per “convincerlo”, Pasquale Puca e lo stesso Lamino fecero visita al padre a Rimini mentre era lì per un viaggio organizzato per anziani. “Zio Totonno” venne convinto e da quel momento Castiglione divenne un politico vicino ai Puca e ai Cesaro. Caduto il sindaco alle successive elezioni venne eletto sindaco Luigi Cesaro, in carica dal 2004 al 2006. Il pentito inoltre ricorda che i fratelli Cesaro, fino al 2009, hanno incontrato Pasquale Puca andando nella sua abitazione a bordo di un furgone bianco per non essere visti ed entravano direttamente nel garage della sua abitazione. Stando ai racconti di Lamino, i rapporti con il clan Puca venivano tenuti maggiormente da Antimo Cesaro, detto “o' penniello”, e in qualche occasione da Aniello e Raffaele. Il senatore Luigi stava più defilato e viveva a Roma. Lamino ricorda le riunioni all'interno del centro Igea o del mobilificio di Di Lorenzo per decidere i candidati da appoggiare. Attività che i fratelli Cesaro hanno continuato a tenere in piedi anche dopo che sono stati indagati in altre inchieste, ma tenendosi più a distanza e incaricando Luigi Vergara, coordinatore di Forza Italia a Sant'Antimo. Secondo i racconti di Lamino agli incontri partecipavano Francesco Di Lorenzo, Corrado Chiariello e Salvatore Castiglione.

Gli uomini del clan nel Comune. Lamino racconta di aver comprato personalmente i voti nel 2012 su mandato di Lorenzo Puca, figlio di Pasquale all'epoca latitante, e utilizzando 20mila euro messi a disposizione da Antimo Cesaro e consegnatigli all'Igea. I voti comprati dovevano andare a Nello Cappuccio e Crescenzo Bencivenga, cugino di Puca, e candidati in due liste che appoggiavano il candidato sindaco del centrodestra. In quella tornata elettorale vennero eletti Salvatore Castiglione e Nello Cappuccio nella lista “Insieme”. Lamino racconta, inoltre, della capacità del clan di piazzare persone a loro fedeli negli uffici comunali più importanti. È il caso dell'ingegnere Claudio Valentino, capoufficio urbanistica, che poi avrebbe dovuto conferire degli incarichi alla moglie di Puca, Giustina Angelino. Valentino in un primo momento non diede l'incarico alla donna ma lo affidò al geologo Adamo Vallifuoco che avrebbe poi dovuto dividere i 28mila euro con lei. Cosa che non accadde ma secondo il pentito Valentino ripetè l'operazione utilizzando stavolta Amodio Ferriero che poi doveva versare il 25% ai professionisti voluti dal clan.

La consegna dei soldi. Nell'interrogatorio del 22 maggio 2017 Lamino ricorda un altro episodio: il consigliere comunale Antonello Puca, soggetto legato a Mario Verde, era in forza al centrosinistra quando venne convinto a passare col centrodestra in cambio di un “piacere” da parte dell'ingegnere Valentino che gli consentì dei lavori all'interno della sua abitazione. Il 12 giugno e il 6 luglio 2017, infine, Lamino è ancora più preciso raccontando che i candidati, prima del 2009, venivano scelti da Puca e genericamente dai fratelli Cesaro, successivamente ci avevano pensato gli “eredi”, come il figlio Lorenzo, sempre d'accordo con i Cesaro. Racconta poi di un incontro avuto in un bar di fronte al centro Igea con Antimo Cesaro. In quell'occasione gli consegnò 10mila euro in una busta bianca per l'acquisto dei voti per le consultazioni comunali del 2012. A quell'incontro partecipò anche Vincenzo D'Aponte.

Inchiesta Antemio: i presunti rapporti tra i fratelli Cesaro e il clan Puca. Secondo gli inquirenti, Luigi Cesaro era "interlocutore e interfaccia nei rapporti tra il clan e la politica locale", mentre gli altri tre fratelli del senatore condividevano con i Puca gli introiti di "Igea" e de "Il Molino". E.D.E. su napolitoday.it il 09 giugno 2020. Il senatore di Forza Italia ed ex presidente della Provincia di Napoli Luigi Cesaro, insieme al fratello Antimo, sarebbe stato "interlocutore e interfaccia nei rapporti tra il clan Puca e la politica locale" a Sant'Antimo, dal 2007 in poi. È quanto è emerso – secondo gli investigatori – nell'inchiesta della Dda di Napoli denominata "Antemio", che ha portato oggi all'esecuzione di 59 ordinanza di custodia cautelare. Nell'ambito della medesima operazione è stato oggi condotto in carcere Antimo Cesaro, mentre gli altri due fratelli Aniello e Raffaele sono stati sottoposti agli arresti domiciliari. I Cesaro avrebbero concordato con i clan – in particolare con Pasquale Puca, Lorenzo Puca e, più di recente, con Francesco Di Lorenzo – le liste dei candidati, questo "urbando il regolare svolgimento delle competizioni elettorali" e "finanziando in tutto o in parte le attività illecite di compravendita di voti, favorendo l'attribuzione degli incarichi di governo della città di Sant'Antimo a soggetti prescelti dal clan, attribuendo incarichi dirigenziali in seno ad uffici nevralgici dell'ente locale a soggetti indicati dai predetti esponenti camorristici". Il tutto ottenendo "in cambio l'appoggio del clan Puca nel corso delle varie competizioni elettorali e, per le elezioni tenutesi nel giugno 2017, anche quello dei clan Verde e Ranucci a cui Di Lorenzo pure si rivolgeva per assicurare l'esito favorevole". Nei riguardi di Luigi Cesaro è stata avanzata una richiesta di custodia cautelare in carcere. Al riguardo però il Gip di Napoli ritiene – come si legge nell'ordinanza di applicazione delle misure cautelari eseguite oggi – "imprescindibile dover posticipare ogni decisione all'esito della procedura già avanzata dal pm con istanza del 24 settembre 2019, ritenendo le intercettazioni 'casualmente' registrate, ove uno degli interlocutori è risultato essere Luigi Cesaro, necessarie e indispensabili per potere compiere qualsivoglia decisione a suo carico".

Igea e Il Molino al centro del presunto sodalizio. Dalle carte della Procura emerge anche l'ipotesi degli inquirenti di un consolidato e datato rapporto tra la famiglia Cesaro e il clan Puca, rapporto fatto di interessi della cosca nel centro polidiagnostico "Igea" e nella galleria commerciale "Il Molino". Le due società – secondo gli investigatori – sarebbero di fatto appartenenti ai Cesaro, formali titolari, e al capoclan Pasquale Puca, detto Pasqualino 'o minorenne. A ricevere la parte di denaro proveniente dalle due attività dovuta al clan, era per gli investigatori la madre di Pasquale Puca, raggiunta da obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per ricettazione aggravata dalla finalità mafiosa.

A screzi tra le due "anime" della proprietà si deve peraltro, secondo la Procura, l'attentato dinamitardo avvenuto presso il centro diagnostico Igea il 7 giugno 2014, così come l'esplosione di cinque colpi di pistola all'indirizzo dell'auto di Aniello Cesaro, in sosta in un autolavaggio, il 10 ottobre 2015.

La replica di Luigi Cesaro. “Sono esterrefatto nell’apprendere da notizie di stampa il mio presunto coinvolgimento in pratiche di raccolta del consenso non regolari e addirittura oggetto di ipotizzato accordo con ambienti riconducibili a consorterie criminali. Nel corso della mia lunga e diversificata esperienza politica ed istituzionale mi sono più volte cimentato in campagne elettorali, da quelle europee a quelle nazionali, provinciali e comunali: sempre il consenso sulla mia persona è stato raccolto in modo assolutamente trasparente ed i suffragi ricevuti sono stati frutto esclusivamente del mio impegno a sostegno delle nostre comunità e della mia nota disponibilità nei confronti dei cittadini.  Sono perciò convinto che l’approfondimento dei fatti e l’attenta valutazione delle circostanze in questione permetteranno alla verità di emergere e, come già accaduto nelle precedenti contestazioni che mio malgrado mi hanno coinvolto, i fatti si incaricheranno dì dimostrare la mia assoluta estraneità a qualsiasi addebito. Ed è perciò che con animo assolutamente sereno affronterò anche questa ulteriore prova”. Lo afferma Luigi Cesaro, senatore di Forza Italia.

Luigi Cesaro (o Giggino a’ purpetta): sempre eletto dal ‘90, sempre indagato, mai condannato. Claudio Del Frate, il 9 giugno 2020 su Corriere della Sera. Il senatore di Forza Italia ha ricoperto tutte le cariche elettive da consigliere comunale a europarlamentare. Cutolo disse di lui: «E’ stato il mio autista». «Questo ora è importantissimo ma mi deve tanto: faceva il mio autista»: così parlò Raffaele Cutolo, intercettato nel carcere di Terni nel 2011 durante un colloquio con un parente. Destinatario del telegrafico ritratto vergato dal boss di Ottaviano è Luigi Cesaro, il senatore di Forza Italia che oggi per l’ennesima volta torna a occupare le cronache giudiziarie.  Il pendolo tra aule della politica e aule di giustizia accompagna da quasi un quarantennio la vita di Cesaro. Con una differenza sostanziale: in politica, dal 1990 viene puntualmente rieletto; dai tribunali fino a oggi è stato puntualmente assolto. Cesaro, detto «Giggino a’ purpetta»(e destinatario anche di una spassosa imitazione da parte di Maurizio Crozza) ha al suo attivo un «filotto» di elezioni che lo ha portato a ricoprire tutte le cariche elettive previste dall’ordinamento repubblicano: consigliere comunale, regionale, deputato, senatore, europarlamentare e anche presidente della Provincia di Napoli. L’esordio rimonta addirittura alla Prima repubblica: nel 1990 è eletto consigliere provinciale nelle liste del Psi. Al tramonto dei partiti storici passa a Forza Italia e il centrodestra, da lì in avanti, sarà la sua casa politica: deputato nel ‘96, rieletto nel 2001, 2006 e 2008. Nel 2004 è anche sindaco di Sant’Antimo (municipio sciolto per camorra quando lui era semplice consigliere), due anni dopo presidente della Provincia di Napoli. Nel frattempo nel 1999 era approdato anche a Strasburgo. Il passaggio al Senato è invece del 2018, dove siede tuttora. Parallele alla carriera politica, come detto, sono le tribolazioni giudiziarie. Anzi, quelle cominciano anche prima, visto che nel 1984 «Giggino» viene arrestato in un’operazione contro la Nuova camorra organizzata di Cutolo; ne esce con una assoluzione in appello e in Cassazione, nonostante racconti proprio in aula di aver incontrato Rosetta Cutolo chiedendole uno «sconto» su un’estorsione. Nel 2008, 2011, 2014 finisce indagato per suoi presunti legami con esponenti del clan dei Casalesi interessati a una serie di appalti pubblici. C’è anche una richiesta d’arresto nei suoi confronti che viene respinta. nel 2016 le accuse nei suoi confronti (sostenute in gran parte da pentiti) vengono archiviate. Resta indagato per una vicenda del 2018 (appalti pilotati nell’area di Castellamare di Stabia). Della sua attività politica si ricordano solo un disegno di legge per l’istituzione delle province di Nola e Sulmona, un voto a sorpresa per il condono edilizio di Ischia colpita dal terremoto in appoggio del M5S.

·         La Sinistra è una Cupola.

Nicola Zingaretti e Luca Palamara, la moglie dell'ex pm dipendente della Regione Lazio col governatore Pd. Tobia De Stefano su Libero Quotidiano il 12 ottobre 2020. Non una, non due, non tre, ma "n" volte la Lega ha chiesto al governatore del Lazio Nicola Zingaretti di chiarire i rapporti che lo legavano al pm (ormai ex) Luca Palamara, senza però mai ricevere una risposta. L'ha fatto quando sono emerse le intercettazioni che testimoniavano una certa "confidenza" tra il politico dem e il magistrato. Si è esposta nel momento in cui l'accusa contro l'ex presidente dell'Anm parlava di un «disegno occulto e inconfessabile» con l'obiettivo «selezionare candidati alle Procure che avrebbero dovuto sovvertire le regole dello stato di diritto». E anche quando il Csm ha deciso di radiare Palamara. Ma niente, Zingaretti non ha proferito verbo. E allora cerchiamo di capire, mettiamo in fila i fatti e valutiamo se sia il caso o meno che il segretario del Partito Democratico spieghi i suoi rapporti con la toga più chiacchierata nei tribunali italiani. In stretto ordine cronologico.

Agenzia del farmaco - Non è un segreto, ma vale la pena ricordare, che la moglie di Palamara, Giovanna Remigi, ha lavorato per quasi tre anni in Regione Lazio proprio mentre quella stessa regione era presieduta da Nicola Zingaretti, assunta come dirigente esterno tra il 2015 e 2017 prima nell'ufficio "Analisi del contenzioso" nella Direzione Salute e Politiche sociali e poi in quello "Coordinamento del contenzioso", al costo di circa 78mila euro all'anno, esclusa la retribuzione di risultato. Lasciata la Regione (19 settembre del 2017), la Remigi è rimasta per pochissime ore con le mani in mano. Il 21 di settembre, infatti, ha strappato un contratto triennale come dirigente presso l'Agenzia del Farmaco, mentre il ministro della Salute del governo Renzi era Beatrice Lorenzin. I fatti dicono pure che la signora Palamara lavora alla Regione Lazio dal 2006 e che dopo la chiusura dell'azienda sanitaria dove prestava servizio (2013) ha partecipato, siamo nel febbraio 2015, con altre 24 persone esterne a un bando pubblico per 4 posti a tempo determinato. E l'ha vinto. In quello stesso momento storico (2015) però, come ricostruisce l'Espresso facendo riferimento alle dichiarazioni dell'avvocato Giuseppe Calafiore, i legami fra il lobbista Fabrizio Centofanti e diverse persone molto vicine a Zingaretti - tra queste l'ex capo di Gabinetto del presidente della regione, Maurizio Venafro, dimessosi nel marzo 2015 in seguito all'inchiesta "Mondo di Mezzo", e l'imprenditore che ha raccolto i fondi per le campagne elettorali di Nicola, Peppe Cionci - erano molto forti. E quindi? Quindi c'è che lo stesso Centofanti lo ritroviamo oggi al centro della vicenda che ha portato alla radiazione di Palamara. L'ormai ex pubblico ministero è infatti accusato di corruzione anche perché avrebbe messo la sua funzione di componente del Csm e pm a disposizione dell'uomo d'affari in cambio di viaggi, soggiorni e lavori di ristrutturazione per la casa di Adele Attisani, la donna che spesso si accompagnava a Palamara. Totale delle utilità accertate: circa 70 mila euro. Vicenda intricata che forse la lettura delle intercettazioni della Procura di Perugia ci aiuta a decriptare. «Siamo tutti con te! Un abbraccio!». E poi: «Grande Nicola, grande vittoria!!! Ripartiamo da qui tutti insieme». Questo il tenore dei messaggi inviati dal giudice poi radiato a Zingaretti all'indomani della sua conferma ai vertici della regione Lazio. Siamo nel 2108. E i messaggi testimoniano un rapporto di confidenza tra i due. Tant' è che non sorprende affatto l'iniziativa successiva del governatore che pochi giorni dopo invia un Pdf con il manifesto per il rilancio del Pd, del quale a breve Nicola diventerà segretario.

L'appuntamento - È solo l'inizio. Perché a stretto giro i due si risentono per darsi appuntamento «al solito posto», a Roma nell'hotel di lusso a palazzo Montemartini, dove, sempre secondo l'Espresso è probabile che i due abbiano parlato dell'inchiesta in cui Zingaretti era indagato (la sua posizione poi sarà archiviata) insieme proprio a Centofanti per un presunto finanziamento illecito. Così com' è probabile che ci fosse una relazione tra l'incontro organizzato da Zingaretti nell'ottobre 2018 per far conoscere Palamara e Nicola Tasco - il capo di un Istituto regionale di studi giuridici controllato dalla Regione Lazio, "l'Arturo Carlo Jemolo" - e la nomina di Palamara al Consiglio scientifico dello stesso organismo. A pensare male verrebbe da sospettare che il governatore volesse aggrazziarsi il giudice. Malelingue. Che però Zingaretti potrebbe mettere subito a tacere spiegando il tenore dei suoi rapporti con Palamara. Il problema è che il governatore si guarda bene dal farlo. Perché?

Nicola Zingaretti, la Lega all'assalto: chiarisca i rapporti con Luca Palamara e quell'sms. Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 11 ottobre 2020. La sentenza con cui Luca Palamara è stato radiato dall'ordine giudiziario riporta al centro dell'attenzione le relazioni del quasi ex magistrato (ha annunciato ricorso) con il Partito democratico. E, in particolare, con il segretario Nicola Zingaretti. È l'opposizione del consiglio regionale del Lazio a chiedere che il governatore vada in assemblea a chiarire quella relazione. Emersa in maniera chiara nelle carte dell'inchiesta della procura di Perugia. Amicizia, confidenza, simpatia. Il rapporto tra Zingaretti e Palamara è vecchio di un po' di anni. Il clima tra i due è facilmente ricostruibile dalle intercettazioni raccolte dalla Procura perugina che, negli atti con cui ha messo sotto accusa l'ex segretario dell'Anm, dà conto delle chat tra il politico e il magistrato. Un primo contatto risale al 2018, è la notte elettorale in cui Zinga viene rieletto presidente della Regione Lazio. Palamara, prima dell'esito finale, invia un messaggio di incoraggiamento: «Siamo tutti con te! Un abbraccio!». L'indomani, a risultato acquisito, il magistrato scrive al vincitore per ribadire il concetto: «Grande Nicola, grande vittoria!!! Ripartiamo da qui tutti insieme». Poche righe da cui si capisce che Luca si sente parte della famiglia. Quella del Pd. Parla al plurale. Ma questa non è neanche una notizia, a dirla tutta. Dopo qualche giorno il governatore invia a Palamara il pdf del suo manifesto per il rilancio del partito, del quale, poco dopo, prenderà le redini. La toga coglie la palla al balzo e chiede un appuntamento: «Venerdì o Lunedì?». Meglio inizio settimana, per Zinga. «Solito posto», conferma Palamara, a conferma della consuetudine consolidata tra i due. Si vedono a Palazzo Montemartini, hotel di lusso a pochi passi da Piazza Indipendenza. Arriva prima il leader del Pd. E gli tocca pure aspettare: «Sono seduto al tavolo fuori...». È il 4 maggio. Cosa si siano detti, resta un mistero. Secondo l'Espresso c'entra l'inchiesta in cui Zinga è indagato (Luglio 2018) insieme all'imprenditore Centofanti per un presunto finanziamento illecito. Forse quell'incontro serve al leader piddino per sondare gli umori della procura capitolina attraverso Palamara, uomo che all'epoca era il Mister Wolf tarantiniano, un risolvi-problemi. La posizione del presidente della Regione Lazio, comunque, viene successivamente archiviata.

L'APPUNTAMENTO. Zingaretti si fa vivo di nuovo a settembre dello stesso anno. Prende un nuovo appuntamento, stavolta per cena, anticipato anche stavolta da un caffè colloquiale. «Il primo Ottobre se puoi mi farebbe piacere presentarti il nuovo commissario dello Jemolo». Si tratta di Nicola Tasco, commissario, appunto, dell'Istituto regionale di studi giuridici del Lazio Arturo Carlo Jemolo. Istituto dove Palamara viene nominato membro del Comitato scientifico. Seguono aperitivi e altri appuntamenti presi con cadenza quasi settimanale. La chat va avanti fino al Maggio 2019, quando trapelano le notizie sull'inchiesta che coinvolge il magistrato. Palamara ha giusto il tempo per lisciarsi l'ultima volta Zinga prima delle elezioni al Parlamento europeo: «Se perdo avrò molto tempo libero», fa lui, scaramantico. «Noi ti vogliamo molto occupato», fa la toga, con piaggeria. Ora che Palamara è stato radiato dalla magistratura, l'opposizione torna alla carica. E chiede chiarimenti. «Sono mesi che, in qualità di consiglieri regionali del Lazio di area centrodestra, abbiamo richiesto una seduta straordinaria del consiglio regionale in cui Nicola Zingaretti è tenuto a chiarire il suo rapporto con Luca Palamara, dal momento che le intercettazioni telefoniche hanno evidenziato un sodalizio ambiguo, una frequentazione che va assolutamente chiarita anche alla luce di incarichi assegnati e ricoperti negli anni scorsi», dichiara il consigliere regionale del Lazio Pasquale Ciacciarelli (Lega). «Ebbene», prosegue, «dopo mesi il presidente del consiglio regionale Buschini ancora non è stato in grado di calendarizzarla. Gli serve il libretto delle istruzioni? Lo faccia subito, il regolamento del consiglio parla chiaro. Altrimenti saremo costretti a gesti estremi». 

I misteri da chiarire. Patto ‘ndrine-PD, il Pm fu rimosso da Franco Roberti. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Agosto 2020. Nella maxi indagine “Aemilia” sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Emilia Romagna le numerose informative dell’Arma e le segnalazioni dei Servizi segreti sui rapporti fra i vertici locali del Partito democratico e i capi cosca del clan Grande Aracri di Cutro non vennero mai “valorizzate”. Il pm antimafia Roberto Pennisi, che pare stesse approfondendo questo filone investigativo, non fu rinnovato nell’applicazione alla Dda di Bologna dall’allora procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti, dallo scorso anno europarlamentare del Pd, con conseguente rientro alla sede di via Giulia. Pennisi non fece nemmeno in tempo a vedere i frutti del suo lavoro in quanto rientrò alla Dna otto mesi prima dell’esecuzione, avvenuta a giugno del 2014, delle misure cautelari dell’indagine “Aemilia”.

Pennisi era stato applicato alla Dda di Bologna due anni prima su richiesta del procuratore distrettuale Roberto Alfonso (successivamente nominato dal Csm procuratore generale di Milano) per coordinare, vista la sua comprovata professionalità maturata in indagini antimafia, la prima maxi inchiesta in Emilia Romagna sulla ‘ndrangheta. Il fascicolo era in carico a Mescolini prima che Alfonso decise di farlo affiancare da Pennisi. Le applicazioni dei pm antimafia vengono disposte direttamente dal procuratore nazionale antimafia ed hanno durata biennale. L’applicazione è rinnovabile con l’apertura di un nuovo procedimento, anche effetto di “stralcio” da un’altra indagine. Circostanza che sarebbe avvenuta con riferimento al livello “politico” dell’inchiesta. Nel grande calderone dell’indagine Aemilia vi erano stati tanti indicatori di un rapporto organico fra esponenti del Pd e dei clan calabresi in materia di appalti e voti. Ieri era stato descritto sul Riformista il ruolo di Maria Sergio, moglie dell’allora capogruppo del Pd in Consiglio comunale a Reggio Emilia Luca Vecchi, poi eletto sindaco della città del Tricolore nel 2014. In una nota dei Servizi si leggeva che «la cosca cutrese Grande Aracri avrebbe fornito rassicurazione ad un imprenditore, tale Giovanni Mazzei sulla possibilità di avere appalti grazie proprio a Maria Sergio». Secondo i Servizi, in passato “dei favoritismi della Sergio avrebbe beneficiato, tra gli altri, l’imprenditore cutrese Gaetano Papaleo, «la cui moglie Maria Lucente è nipote del defunto capo cosca Antonio Dragone». Nel Regolamento urbanistico edilizio del comune di Reggio Emilia, Sergio avrebbe favorito l’inserimento di un terreno edificabile di proprietà di Alberto Zambelli, un geometra che avrebbe avuto il compito per la ’ndrangheta di individuare lotti di terreno da acquistare con capitali di provenienza illecita per poi rivenderli una volta che erano divenuti edificabili, con conseguente maggiorazione di prezzo. «Nell’aprile del 2012 in piena campagna elettorale – si legge ancora in una di queste informative – si registrano una serie di captazioni telefoniche ed ambientali in cui si evince l’interessamento di due membri del clan (successivamente condannati, nel processo Aemilia, ndr) nell’indirizzare il flusso elettorale della cosca nei confronti di candidati del Pd». L’ex sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio, ora capogruppo del Pd alla Camera, venne interrogato da Alfonso e Pennisi, il 17 ottobre 2012, sul perché nel 2009 si fosse recato in visita a Cutro, in Calabria, in occasione della festa del Santissimo Crocifisso. Cutro è il paese da cui proviene la famiglia di ’ndrangheta di Nicolino Grande Aracri. Il personaggio centrale dell’inchiesta Aemilia. Delrio affermò di non sapere che Cutro fosse il paese del boss. Pennisi, terminata l’applicazione, si tolse qualche sassolino dalle scarpe. «La mafia ha inquinato tutti gli ingranaggi della macchina della produzione – scrisse in una relazione – ed il tutto è favorito dal comportamento delle istituzioni locali i cui organismi rappresentativi sono alacremente impegnati nella consumazione dei reati di loro pertinenza ai danni della cosa pubblica, fornendo un esempio che di per se stesso e solo offre il destro al verificarsi di quei disastrosi inserimenti della mafia. E ciò spiega anche il comportamento dei cittadini in occasioni di competizioni elettorali, i quali preferiscono astenersi dal voto, piuttosto che vederlo utilizzato da politici corrotti o che adottano scelte amministrative che di fatto avvantaggiano i sodalizi mafiosi o le imprese dai predetti inquinate o con essi scese a patti». Chi porterà a termine l’indagine sarà allora il pm Marco Mescolini. Nessun esponente del Pd verrà mai indagato.

La maxi inchiesta della 'ndragheta. “Pennisi fu rimosso per contrasti con Mescolini”, la verità del procuratore Alfonso. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Settembre 2020. “Fui io, e nessun altro, a creare e coordinare l’indagine Aemilia”, dichiara l’ex procuratore di Bologna Roberto Alfonso. La maxi inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Emilia Romagna – il primo grado si è chiuso ad ottobre del 2018, l’appello è in corso da alcuni mesi nell’aula bunker del carcere bolognese della Dozza – è tornata prepotentemente d’attualità dopo la pubblicazione della chat fra il procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini e l’ex presidente dell’Anm nonché della Commissione per gli incarichi direttivi del Csm, Luca Palamara. Mescolini, nella primavera del 2018, aveva ripetutamente caldeggiato con Palamara la propria nomina, avvenuta qualche mese più tardi, a procuratore di Reggio Emilia. Il tenore di alcuni messaggi, “su Reggio fai di tutto per chiudere. È importante per tutto”, ha suscitato diversi interrogativi. M5s, Lega, FdI e Forza Italia hanno chiesto a Mescolini di chiarire l’esatto significato di tale interlocuzione.

Procuratore Alfonso, senza entrare nel merito di questa chat che dovrebbe essere oggetto, da quanto appreso, di una autonoma valutazione ai fini disciplinari da parte del procuratore generale della Cassazione, può ricostruire le fasi dell’indagine Aemilia?

«Alla fine del 2009 venni nominato dal Csm procuratore di Bologna. Una delle prime cose a cui mi dedicai fu la riorganizzazione della Dda e la gestione delle indagini antimafia».

Che situazione aveva trovato nel distretto di Bologna?

«Ogni episodio delittuoso che accadeva veniva trattato singolarmente. Mancava una visione d’insieme. Capii subito che era necessario cambiare strategia e metodo investigativo.

In concreto, che cosa accadeva?

«Non venivano effettuati approfondimenti. Oltre a trattare ogni episodio come un fatto singolo, si inviavano gli atti alla Procura di Catanzaro in quanto zona di origine di queste cellule criminali».

Si riferisce ai clan cutresi presenti a Reggio Emilia?

«Sì. Si pensava che l’attività decisionale di questi soggetti si formasse a Cutro e non a Reggio Emilia. Invece i cutresi di Reggio Emilia avevano grande autonomia».

Che clima trovò al suo arrivo?

«Collaborativo. Ricordo che c’erano stati appelli contro le infiltrazioni della ’ndrangheta da parte del presidente della Confcommercio. Il prefetto di Reggio Emilia Antonella De Niro, che poi partì con le prime interdittive antimafia e per questo venne minacciato, ci diede un grande aiuto».

Ha detto che riorganizzò la Dda. In che modo?

«C’erano tanti magistrati validi che non si erano mai occupati a fondo di ‘ndrangheta. Decisi di chiedere all’allora procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso l’applicazione di un sostituto della Dna. Chiesi il dottor Roberto Pennisi che conoscevo e che aveva grande esperienza di metodo mafioso e di indagini di ‘ndrangheta».

E Mescolini? A proposito di Aemilia, nella proposta del Csm per la sua nomina a procuratore di Reggio Emilia si legge che “ha sin dall’inizio (2010) diretto le indagini, coordinato l’attività dei diversi organi di polizia giudiziaria”.

«Lo avevo chiamato io a far parte della Dna (la designazione risale al 15 aprile 2010, ndr). Era il più giovane e mi sembrava che avesse le caratteristiche giuste per le indagini che avevo in mente di fare».

Perché Pennisi non venne più applicato?

«Per contrasti tecnici-operativi con Mescolini su alcune posizioni da definire. Pennisi aveva una diversa impostazione per le richieste custodiali. Poi subentrarono anche contrasti personali.

Cosa fece Pennisi?

«Decise di non far più parte dell’indagine. Me ne parlò. Io non potevo obbligare nessuno a restare. Venne informato di questa decisione il procuratore nazionale che nel frattempo era diventato Franco Roberti. Quindi non chiesi alcuna proroga per Pennisi».

Che ruolo aveva Pennisi?

«Aveva la delega per il collegamento investigativo su Bologna con la Dna e la delega per le indagini specifiche. E fu questa delega a non essere prorogata».

Dalla Dna non venne mandato alcun pm. A chi rimase la delega?

«Ai colleghi di Bologna. Oltre a me, Mescolini, Enrico Cieri e Beatrice Ronchi».

Fece qualcosa per cercare di superare questi contrasti fra i due magistrati?

«Io facevo una riunione di coordinamento settimanale dove davo l’impronta e la traccia investigativa. Per le attività essenziali partecipavo direttamente (vedasi l’esame come persona informata dei fatti, ad ottobre del 2012, dell’allora sindaco di Reggio Emilia Graziano Del Rio, ndr)».

Le riunioni erano solo a Bologna?

«Venne fatta una riunione anche a Roma davanti al procuratore nazionale dove partecipò anche il procuratore di Catanzaro».

Che rapporti aveva con Roberti?

«Un rapporto risalente. Siamo stati in corsa per il posto di procuratore nazionale antimafia e vinse lui al ballottaggio. Abbiamo lavorato insieme tanti anni alla Dna. Ci è stato sempre vicino. Quando ci furono gli arresti venne alla conferenza stampa.

Pennisi lasciò l’incarico otto mesi prima dell’esecuzione delle misure cautelari. Lei?

«Cinque mesi dopo, a luglio del 2015 andai a Milano come procuratore generale. E non ho seguito più nulla dell’indagine. Come vuole la legge.

Si è parlato di note dei Servizi su esponenti locali del Pd che non sono state approfondite.

«Le note dei Servizi sono uno spunto per le indagini. Poi però servono le prove, ci vogliono elementi certi per fare i processi».

Si è parlato del viaggio che l’allora sindaco Delrio aveva fatto a Cutro, paese d’origine del boss Nicolino Grande Aracri.

«Come dissi a suo tempo era una posizione che bisognava approfondire. Ricordo che alle riunioni dicevo: “Ragazzi con tutto il materiale raccolto c’è da lavorare per dieci anni”».

Quindi ci sarebbe ancora tanto da fare?

«Ripeto, non so cosa è successo dopo. Parlo solo delle cose che conosco e che ho fatto. E comunque si è sempre in tempo per andare avanti. L’indagine può durare tanti anni».

L'intervista all'ex assessore del Comune di Parma. “Mescolini non è imparziale, non ha mai indagato il PD”, l’accusa dell’ex assessore Bernini. Paolo Comi de Il Riformista il 2 Settembre 2020. «Chiedo al procuratore generale della Cassazione (Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, ndr) di essere ascoltato come persona informata dei fatti sulla chat fra il procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini e l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara», dichiara Giovanni Paolo Bernini, ex assessore del Comune di Parma, indagato e poi prosciolto per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio nell’ambito dell’inchiesta Aemilia sulle infiltrazioni dell’ndrangheta in Emilia Romagna. Mescolini inizialmente voleva arrestare Bernini ma il gip respinse la richiesta. Il magistrato fece allora appello al tribunale del riesame che a sua volta rigettò.

Dottor Bernini, perché questa decisione?

«Prima ancora che esplodesse lo scandalo “Palamara” avevo pubblicato un libro, Storie di ordinaria ingiustizia, in cui oltre a raccontare la mia vicenda giudiziaria, ricordavo come era avvenuta la nomina, nel luglio del 2018, dell’allora pm Mescolini a procuratore di Reggio Emilia».

Non aveva letto le chat?

Assolutamente no. Il libro è uscito ad aprile del 2019. Le chat di Palamara iniziarono ad essere pubblicate dai giornali molti mesi dopo.

“Pennisi fu rimosso per contrasti con Mescolini”, la verità del procuratore Alfonso;

“Ndrine a Reggio Emilia”, ma il Pm Mescolini bloccò tutto;

“Il Csm deve processare Mescolini”, la richiesta di FI a Bonafede;

“Palamara? Non lo conosco”, ma per avere l’incarico il pm Mescolini lo tempestava di messaggi….»

Può raccontare cosa aveva scritto?

«La Procura di Reggio Emilia era vacante da luglio del 2017. Per il posto di procuratore avevano fatto domanda diversi magistrati. Alla fine erano rimasti in due, Mescolini e Alfonso D’Avino, procuratore aggiunto a Napoli. Quest’ultimo era quello con più titoli.

Poi?

«La nomina venne ritardata per mesi e mesi. Nel libro spiegai il motivo di questi continui rinvii: al Csm dovevano trovare un posto a D’Avino per permettere a Mescolini di diventare procuratore di Reggio Emilia».

Nel suo libro questo passaggio è indicato come soluzione “transattiva”.

«Certo. Le correnti si misero d’accordo. Aspettarono che si liberasse, a marzo del 2018, la Procura di Parma per poter accontentare Mescolini».

D’Avino, infatti, ritirò la domanda per Reggio Emilia e andò a Parma…

«Comunque la mia ricostruzione è confermata dalla chat in cui Mescolini pressa Palamara con decine e decine di messaggi. Fra i più significativi, oltre a quello in cui Mescolini preannuncia a Palamara che gli invierà una bozza di parere per la propria nomina, c’è sicuramante questo: “Su Reggio fai di tutto per chiudere. È importante per tutto”. Un messaggio dal contenuto “criptico” che Mescolini non ha mai spiegato».

Lei aveva presentato un esposto al Csm sulla conduzione dell’indagine Aemilia. Lamentava indagini a “senso unico”, cioè solo su esponenti del centrodestra, da parte di Mescolini. L’esposto è stato archiviato in quanto non è possibile “valutare il merito del provvedimenti giurisdizionali pronunciati dai magistrati”.

«Guardi, Mescolini è l’ultimo magistrato che poteva condurre questa indagine. Io credo che Mescolini, almeno sotto il profilo dell’apparenza, non sia un magistrato imparziale. È stato capo ufficio dell’allora vice ministro dell’Economia Roberto Pinza (Pd) nell’ultimo governo Prodi. Un incarico che più “politico” non esiste».

Mescolini l’accusava di voto di scambio politico mafioso.

«Una accusa lunare. Avrei dato, tramite bonifico bancario, 50mila euro a un boss calabrese in cambio di 200 voti. Io mi sono sempre andato a cercare i voti fra la gente. Ho fatto quattro campagne elettorali, nel 1994 a Parma era stato il più votato di Forza Italia…

…voti dei calabresi?

«Può essere. Ma non ho pagato un euro per questi voti. Sono voti presi perché riscuotevo la fiducia delle persone. Io non ho mai fatto distinzione di provenienza geografica o di classe sociale. E poi vorrei capire: se un rappresentante del centrodestra cerca i voti fra i cittadini di origine calabrese, è scambio politico-mafioso. Se, invece, lo fa uno del Pd allora è normale e democratica ricerca del consenso?»

Lei ripete spesso che i vertici locali del Pd non sono mai stati sfiorati dalle indagini.

«Dico semplicemente non è pensabile che la sinistra che governa ininterrottamente dal 1945 l’Emilia Romagna e soprattutto Reggio Emilia, epicentro riconosciuto dei clan calabresi nella Regione, non abbia mai avuto contezza dell’ndrangheta. A Reggio Emilia i cutresi hanno fatto per anni ogni genere di affare: appalti, costruzioni, servizi. E vogliamo credere che ciò sia avvenuto senza l’avallo del territorio? Soprattutto in settori strategici come l’urbanistica?»

L’allora procuratore di Bologna Roberto Alfonso ha detto ieri in una intervista al Riformista che ci sarebbero ancora tanti aspetti da approfondire.

«Ho letto l’intervista. Il dottor Alfonso conferma quello che ho sempre detto. Che non siano stati valorizzati gli esiti investigativi dei carabinieri sui rapporti fra esponenti locali del Pd e i cutresi. Però, sempre leggendo l’intervista, mi chiedo come avvenga il lavoro nelle Procure. Roberto Pennisi, il sostituto della Procura nazionale antimafia di cui Alfonso aveva chiesto l’applicazione per aiutarlo nelle indagini, avrebbe chiesto di essere tolto dal procedimento Aemilia per asseriti contrasti “personali” con Mescolini. Possiamo sapere quali furono questi contrasti che spinsero uno dei magistrati più esperti nella lotta all’ndrangheta a lasciare l’indagine?»

Il documento clamoroso. “Ndrine a Reggio Emilia”, ma il Pm Mescolini bloccò tutto. Paolo Comi su Il Riformista il 28 Agosto 2020. I rapporti fra la cosca calabrese Grande Aracri ed i vertici del Partito democratico di Reggio Emilia furono “attenzionati”, fra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, dai Servizi segreti. L’Aisi, allora diretta dal generale dei carabinieri Arturo Esposito, inviò alcune “note informative” al Reparto operativo del Comando provinciale dell’Arma di Reggio Emilia. Nel mirino dei Servizi vi era il business da parte delle mafie della ricostruzione post terremoto avvenuto il 20 maggio del 2012 e che aveva causato ingenti danni nelle provincie emiliane. La nota dei Servizi segreti era incentrata soprattutto sulla gestione delle attività urbanistiche nella città di Reggio Emilia. Al centro del sistema, con un ruolo definito “strategico”, vi era Maria Sergio, moglie dell’allora capogruppo del Pd in Consiglio comunale Luca Vecchi. Un “personaggio politico in forte ascesa all’interno del Pd di questa provincia”, scriveranno i carabinieri. Ed infatti nel 2014 Vecchi diventerà il sindaco di Reggio Emilia. In quegli anni Sergio, originaria di Cutro (Cotrone), era la dirigente del Servizio pianificazione e qualità urbana del comune emiliano. Secondo i Servizi segreti, la cosca cutrese Grande Aracri avrebbe fornito rassicurazione ad un imprenditore, tale Giovanni Mazzei, sulla possibilità di avere appalti grazie proprio a Maria Sergio. Sempre secondo i Servizi, in passato dei favoritismi della Sergio avrebbe beneficiato, tra gli altri, l’imprenditore cutrese Gaetano Papaleo, “la cui moglie Maria Lucente è nipote del defunto capo cosca Antonio Dragone”. Ma non solo: nel Regolamento urbanistico edilizio del comune di Reggio Emilia, Sergio avrebbe favorito l’inserimento di un terreno edificabile di proprietà di Alberto Zambelli, un geometra che avrebbe avuto il compito per la ’ndrangheta di individuare lotti di terreno da acquistare con capitali di provenienza illecita per poi rivenderli una volta che erano divenuti edificabili, con conseguente maggiorazione di prezzo. Le note dei Servizi riscontravano un’indagine che era stata svolta dai carabinieri anni prima. I militari avevano indagato Sergio nel 2006 per il reato di corruzione ed abuso d’ufficio. Il procedimento era una costola di un’indagine condotta dal Ros di Bologna l’anno prima su appalti di Cosa nostra nel Nord Italia. Vennero fatte intercettazioni telefoniche e inoltrata una informativa alla Procura in cui si evidenziava che l’illecito “si concretizzava nel fornire in anticipo, agli imprenditori favoriti, informazioni sulle decisioni in itinere da parte dell’Amministrazione comunale reggiana riguardanti i cambi di destinazione d’uso di terreni che da agricoli venivano resi commerciali e di conseguenza edificabili, agevolando acquisti a basso costo di vasti appezzamenti che in breve tempo aumentavano notevolmente il valore di mercato”. Nel 2010 i carabinieri di Reggio Emilia avevano trasmesso al Pm della locale Procura Isabella Chiesi, in quel momento procuratore facente funzioni, una nota relativa ad un terreno nei pressi del casello dell’autostrada che vedeva coinvolti in un “complicato giro di società” esponenti del Pd, fra cui lo stesso Luca Vecchi. La nota dei Servizi sulla Sergio ed il Pd era stata quindi trasmessa dai carabinieri il 28 gennaio del 2013 al procuratore di Reggio Emilia Sergio Grandinetti. I carabinieri chiedevano anche il sequestro della documentazione inerente la vendita di alcuni terreni che erano stati segnalati dai Servizi. Grandinetti inviò tutto l’incartamento al procuratore distrettuale di Bologna, con la seguente lettera di trasmissione: “Come da intese telefoniche”, si resta “in attesa di comunicazioni in ordine al prosieguo delle indagini nel caso si renda necessario un coordinamento”. La nota, giunta alla Procura di Bologna, venne consegnata il successivo 7 febbraio al pm Marco Mescolini, titolare di un fascicolo sulle infiltrazioni dell’ndrangheta in Emilia. Sergio, si appurerà, aveva acquistato da un prestanome del boss Nicolino Grande Aracri, Francesco Macrì, successivamente condannato nel maxi processo Aemilia, la propria casa a Reggio Emilia. Sergio ed il marito non verranno mai interrogati da Mescolini, nel 2018 nominato dal Csm procuratore di Reggio Emilia. La circostanza è stata riportata nel libro scritto dal dirigente di Forza Italia in Emilia Giovanni Paolo Bernini, pubblicato lo scorso anno. Bernini era stato indagato da Mescolini per voto di scambio e poi assolto. Il Movimento cinque stelle sulla vicenda della casa aveva chiesto le dimissioni di Vecchi. I pentastellati avevano anche presentato diversi esposti e denunce sui dirigenti nominati da Graziano Delrio, predecessore di Vecchi e ora capogruppo Pd alla Camera. L’indagine su queste nomine è pendente da anni presso la Procura di Reggio. Recentemente è stata presentata una interrogazione da Tommaso Foti, deputato di FdI, per sapere che fine abbia fatto. Alcuni aspetti di questa vicenda erano emersi in un paio di articoli della giornalista del Resto del Carlino Sabrina Pignedoli, attuale europarlamentare M5s. La scorsa settimana, pubblicate le chat fra Palamara e Mescolini a proposito della nomina di quest’ultimo, Pignedoli era stata molto critica con il procuratore di Reggio. Il Pd e la Cgil hanno invece diffuso dei comunicati in difesa dell’operato di Mescolini.

Magistratopoli. “Il Csm deve processare Mescolini”, la richiesta di FI a Bonafede. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Agosto 2020. Il “controllo“ della Procura di Reggio Emilia è l’ultimo, in ordine di tempo, terreno di scontro fra le forze politiche. Nel mirino, il procuratore Marco Mescolini, uno dei tanti magistrati che chattavano con lo zar delle nomine al Csm Luca Palamara. Dopo l’attacco dei Cinquestelle, la solidarietà del Pd, la richiesta di dimissioni da parte di Fratelli d’Italia, ecco arrivare ieri la maxi interrogazione firmata da tredici senatori di Forza Italia. Il promotore è stato Maurizio Gasparri. «In questi questi giorni – si legge nell’interrogazione indirizzata al Guardasigilli – su molti quotidiani nazionali e locali, sono state pubblicate le chat tra Palamara e Mescolini relative al periodo (giugno/luglio 2018) in cui Palamara, membro del Csm, riesce a far promuovere Mescolini a capo della Procura di Reggio Emilia». Il vertice della Procura di Reggio Emilia era vacante da giugno del 2017, allorquando era andato in pensione per raggiunti limiti d’età Giorgio Grandinetti. «Per oltre un anno fu rimandata la nomina del capo della Procura di Reggio Emilia anche a causa delle trattative per la designazione», proseguono i senatori forzisti, secondo i quali «il fatto appare ancor più grave in considerazione che proprio Reggio Emilia era l’epicentro degli interessi malavitosi del clan ‘ndranghetista contro il quale proprio il pm Marco Mescolini diresse le indagini sfociate nel processo “Aemilia“. Il lungo rinvio infatti coincise con la mancata nomina di altro magistrato candidato proveniente dalla Procura di Napoli con maggiori titoli». Il riferimento è ad Alfonso D’Avino, vicino a Cosimo Ferri. I senatori azzurri citano, poi, un libro del 2019 scritto da Giovanni Paolo Bernini dal titolo “Storie di ordinaria ingiustizia” in cui «l’ex assessore di Parma poi indagato, processato e assolto dalle accuse (concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio politico mafioso) formulate, con grande risalto mediatico, dal pm Mescolini, denunciava gravissime anomalie nella conduzione delle indagini e poi della pubblica accusa nel maxi processo “Aemilia”. Nel libro sono pubblicate molte intercettazioni telefoniche ed ambientali che coinvolgevano esponenti nazionali e locali del Pd, raccolte dall’Arma dei Carabinieri ma che non furono prese in considerazione dalle indagini della magistratura». In particolare, si legge, «molti amministratori locali e nazionali come l’ex sindaco di Reggio Emilia hanno avuto rapporti continuativi nel tempo con il clan di Cutro e le imprese del clan mafioso hanno lavorato per anni e anni sul territorio da loro governato». E poi «un altro sindaco di Reggio Emilia ha acquistato un immobile da persona che è risultata poi coinvolta nel maxi processo Aemilia». I senatori ricordano che «Mescolini fu consulente del governo Prodi del 2006 in particolare fu capo ufficio del vice ministro dell’Economia sen. Roberto Pinza del Pd». «Perché a fronte delle intercettazioni telefoniche ed ambientali agli atti delle indagini in cui si parla di appalti pubblici, di voti, di richieste di favori, non siano stati emessi avvisi di garanzia o richieste di arresto nei confronti degli esponenti del Pd ma solo di esponenti del centrodestra peraltro con sentenze di assoluzione dei reati contestati», domandano quindi gli azzurri al ministro della Giustizia, chiedendo pure «se alla luce delle intercettazioni con Palamara e dei fatti esposti non si ritenga di avviare una azione disciplinare nei confronti di Mescolini il cui operato sta suscitando una ampia e pubblica critica, recando danno evidente alla reputazione della magistratura». Nella serata di ieri, infine, sono intervenuti Cgil, Cisl e Uil (Emilia Romagna e Reggio Emilia) con una nota congiunta di solidarietà a Mescolini: «È sconcertante registrare nel dibattito politico di questi giorni il tentativo di delegittimazione nei confronti del procuratore e di tutta la Procura di Reggio Emilia. In particolare, tale campagna di delegittimazione pare volersi estendere al modo nel quale sono stati condotti l’indagine Aemilia e i successivi processi».

Il Palamaragate. “Palamara? Non lo conosco”, ma per avere l’incarico il pm Mescolini lo tempestava di messaggi…Paolo Comi su Il Riformista il 20 Agosto 2020. «Non ho mai mendicato favori ad alcuno, tantomeno a Palamara». È quanto ha dichiarato in una nota il procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini. Per poi aggiungere: «La mia coscienza di uomo e di magistrato in quanto sempre e soltanto condizionato dalla legge è totalmente serena». Si è, dunque, chiarito il “giallo” di queste settimane: il Marco Mescolini pm che ha intasato nel 2018 di messaggi il cellulare di Luca Palamara, l’ex zar delle nomine al Csm, è un suo omonimo. Diversi magistrati erano caduti nel medesimo errore facendo il nome di “Mescolini” – l’omonimo – a Palamara. Nei giorni scorsi Il Riformista aveva riportato una chat fra Palamara e Roberto Ceroni, pm a Bologna e referente di Unicost nel distretto, in cui comparivano i nomi di alcuni magistrati che dovevano essere nominati in incarichi direttivi. Fra cui, appunto, l’omonimo di Mescolini. «Si tratta di posti sui quali mi si chiede costantemente aggiornamento e che per noi rivestono importanza assoluta», aveva sottolineato Ceroni nei primi mesi del 2018. Sempre nello stesso periodo, Gianluigi Morlini, giudice a Reggio Emilia, poi eletto consigliere del Csm di Unicost e costretto lo scorso anno alle dimissioni per aver partecipato al celebre incontro notturno dell’hotel Champagne con Cosimo Ferri e Luca Lotti, ricordava a Palamara: «Caro Luca: come immagini sono pressatissimo da Mescolini: cosa devo dirgli?». E lo zar delle nomine rispondeva: «Grande Gigi parlato stasera con Mescolini al quale ho chiarito tutta la situazione». La chat fra l’omonimo dell’attuale procuratore di Reggio Emilia e l’ex presidente dell’Anm è lunghissima. I messaggi sono centinaia. «Ti ho fatto mail con alcune idee per il parere plenum. D’ora in poi sto zitto. E aspetto. Grazie», scriveva a fine febbraio del 2018 l’omonimo di Mescolini, per poi aggiungere: «Su Reggio fai di tutto per chiudere se puoi. È importante per tutto». «Grande Marco faremo il possibile ma tutto sotto controllo anche se non votiamo oggi», la risposta di Palamara. E ancora Mescolini (omonimo): «Non ti romperei se non fosse vitale». Dal mese di marzo e fino al giorno del voto finale in Plenum per l’incarico di procuratore di Reggio Emilia, avvenuto a luglio, Mescolini, sempre l’omonimo, inizia a tempestare di messaggi Palamara per avere informazioni. Quasi tutti dello stesso tenore i messaggi: «Caro Luca ci sono novità? Problemi? tempi ? Grazie»; «Quando puoi aggiornami… tanto io sono sempre in udienza con quel deficiente del presidente del tribunale che fissa pure il 3 aprile…. comunista….»; «Caro Luca hai qualche idea sui tempi ? Grazie per ogni informazione. Un abbraccio»; «Se hai un attimo in questi giorni ti chiamo. Dimmi tu quando non ti disturbo»; «Questa sett può succedere qualcosa per mia pratica?»; «Ma ci sono probl o solo questioni burocratiche per terminare graduatorie?». Palamara, serafico, risponde: «Il tutto è finalizzato a tutelarti al massimo». Mescolini (omonimo), non è però tranquillo. E riparte alla carica: «Ma come stiamo andando ? Scusami ma sono confuso…. dimme na parola….»; «Carissimo, controlla che Forteleoni (Luca, consigliere del Csm in quota Magistratura indipendente. All’epoca per la Procura di Reggio Emilia aveva caldeggiato Alfonso D’Avino, poi nominato procuratore di Parma, ndr) non tenga fermo tutto…. scusa l’invadenza ma la zona ‘cesarini’ è sempre più temibile»; «News?»; «Hai novità? Possiamo sentirci?»; «Senza fretta dimmi come siamo messi… appena puoi…. ciao»; «Appena puoi ci sentiamo… senza fretta… quando ti vien comodo… sto entrando in galera…quindi magari ti chiamo io dopo 18.30 se non disturbo»; «Scusami andiamo al plenum del 4 (luglio 2018, ndr) o si slitta ancora?». Palamara, oltre ad essere stato un top player delle nomine a piazza Indipendenza, doveva fornire anche supporto psicologico. Scrive Mescolini (omonimo) qualche giorno prima del voto in Plenum: «Stiamo tranquilli per mercoledì ? Lo so che se non ti sento è perché non ci stanno novità…. ma sentirti mi aiuta sempre. Buona domenica». E la notte prima del voto: «Ti vengo a trovare e ti porto la maglietta di PAL RE DE ROMA…»; «Parla tu con Galoppi (Claudio Maria, all’epoca altro consigliere del Csm in quota Magistratura indipendente, ora assistente giuridico del presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, ndr)… o Forteleoni… non cambia nulla se si sposta uno al mattino… scusa l’invadenza (le magliette raddoppiano: una estiva e una invernale…)». Fino al liberatorio, per Palamara, annuncio: «Ci siamo!!!!! Hai vinto!!!!». Risposta di Mescolini (omonimo): «Grazie Luca… ti son debitore di mille indecisioni mie e timori… grazie per la vicinanza e l’affetto. Un abbraccio». Ancora Palamara: «Dobbiamo festeggiare per bene. Come piace a noi». Laconica la risposta dell’appena nominato procuratore di Reggio Emilia: «Grazie grazie oggi sono confuso. Ti abbraccio forte».

Il caso Aemilia. “Il Pm Mescolini fu nominato a Reggio grazie ad un accordo tra correnti”, la verità di Antonio Leone. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Settembre 2020. «La nomina di Marco Mescolini a procuratore di Reggio Emilia? Il frutto di un accordo fra le correnti della magistratura, o meglio frutto sicuramente di un accordo tra i gruppi (con tanto di capogruppo) che si formano all’interno dell’Organo di autogoverno della magistratura», dichiara l’ex vice presidente della Camera Antonio Leone. Leone è un testimone più che attendibile: era nella scorsa consiliatura del Csm quando venne nominato Mescolini.

Presidente Leone, infuria la polemica sulla nomina di Mescolini. Sono state presente molte interrogazioni parlamentari ed esposti al procuratore generale della Cassazione.

«Mescolini, oltre ad essere finito nella chat di Palamara, è sostanzialmente “accusato” nell’indagine Aemilia sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta al Nord di non aver approfondito i rapporti fra i clan cutresi e gli esponenti locali del Pd».

Il Riformista ha intervistato l’ex procuratore di Bologna Roberto Alfonso e il sostituto della Dna Roberto Pennisi, che svolse con Mescolini le investigazioni. I due magistrati hanno confermato che fu raccolto molto materiale che riguardava anche altri livelli.

«Non entro nel merito dell’indagine che non conosco. Io posso parlare e ricordare solo quanto accadde sulla nomina di Mescolini. Ci racconti allora di questa nomina. Una nomina che non arrivava mai. Nella chat di Mescolini con Palamara, all’epoca presidente della Commissione per gli incarichi direttivi, emerge chiaramente il pressing su quest’ultimo affinché portasse in Plenum la pratica. Guardi, il posto di procuratore di Reggio Emilia era vacante da luglio del 2017. La Commissione per gli incarichi direttivi aveva votato per la copertura di quel posto il successivo mese di ottobre…»

Cinque i voti per Mescolini, uno per D’Avino, procuratore aggiunto di Napoli di cui all’epoca si ricordano i contrasti con Woodcook sull’indagine Consip. Cosa successe dopo?

«Il voto in Plenum era fissato per la seduta del 14 febbraio del 2018. Ci fu la discussione. I togati di Mi, la corrente di D’Avino, puntarono sulla sua maggiore anzianità, sul fatto che aveva già le funzioni semidirettive e una esperienza decennale nel contrasto ai reati contro la Pa e contro la criminalità».

Poi?

«Alla luce di una prevedibile “battaglia” venne deciso di rinviare la pratica alla seduta successiva, quella del 21 febbraio. Evidentemente però per quella data i “venti di guerra” non erano sopiti e si decise per un altro rinvio. Questa volta a data da destinarsi».

A quel punto la vicenda di Mescolini si intreccia con D’Avino?

«D’Avino oltre ad essere in corsa per la Procura di Reggio Emilia, aveva fatto domanda per la Procura di Parma. Il bando era scaduto a fine gennaio 2018. La Procura si sarebbe liberata a marzo».

Lei dopo il rinvio del 21 febbraio non si è mai domandato come mai questa pratica non veniva messa all’ordine del giorno del Plenum? Bisognerà aspettare infatti il Plenum del 4 luglio.

«I “traccheggiamenti” avvenivano spesso, proprio per cercare di accontentare i vari contendenti».

Quindi conferma che per mandare Mescolini a Reggio Emilia fu necessario trovare un soluzione che “accontentasse” D’Avino?

«Certamente. Altrimenti non ci sarebbe stata ragion d’essere perché passasse tanto tempo per la copertura di una Procura importante che tutti sollecitavano».

Ma su questi accordi “transattivi” voi laici non potevate opporvi?

«In tema di nomine, a differenza di quello che dicono alcuni politici, i laici “contano” poco. Per un fatto squisitamente numerico: i togati al Csm sono il doppio dei laici».

E questo è infatti confermato dalle chat di Palamara. Le interlocuzioni avvenivano solo con i colleghi, al Csm. Un’ultima domanda: Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti è intervenuto in difesa di Mescolini. Cosa pensa?

«Le sembra un Paese normale quello in cui un ex procuratore nazionale antimafia scenda in difesa di un magistrato che oggi viene additato come uno che non ha approfondito indagini su di un partito e lo fa oggi da eurodeputato proprio di quel partito?»

Colpo di scena nel caso Aemilia. Caso ‘ndrine e Pd: Cantone convoca Bernini, Mescolini trema. Paolo Comi su Il Riformista il 13 Settembre 2020. Colpo di scena a Reggio Emilia. Giovanni Paolo Bernini, ex assessore di Forza Italia al comune di Parma e grande “accusatore” del procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini, verrà sentito venerdì dai magistrati di Perugia che indagano sull’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. La convocazione, firmata dal pm Gemma Miliani, è stata notificata ieri a Bernini. Oggetto dell’interrogatorio, quasi sicuramente, le modalità con cui Mescolini venne nominato a capo della Procura della città emiliana in piena gestione Palamara. Il fascicolo, al momento, è senza indagati. La pubblicazione in queste settimane della chat di Palamara con Mescolini, entrambi appartenenti ad Unicost, aveva svelato il pressing fortissimo di quest’ultimo nei confronti dell’ex zar delle nomine a Palazzo dei Marescialli. Pressing che andò avanti per mesi fino a quando Mescolini non divenne procuratore di Reggio Emilia a luglio del 2018. «Su Reggio fai di tutto per chiudere. È importante per tutto», scrisse in uno di questi messaggi Mescolini a Palamara. Un messaggio dal contenuto “criptico” che è stato oggetto in questi giorni di diverse interrogazioni parlamentari finalizzate a conoscere che cosa volesse effettivamente dire il pm. Bernini, indagato da Mescolini, e poi assolto, nell’ambito dell’indagine “Aemilia” per associazione a delinquere di stampo mafioso e voto di scambio, prima che esplodesse il Palamaragate aveva pubblicato un libro, Storie di ordinaria ingiustizia, in cui raccontava la propria vicenda giudiziaria e ricordava come fosse avvenuta la nomina di Mescolini. La Procura di Reggio Emilia, ricostruì Bernini, era vacante da luglio del 2017. Per il posto di procuratore avevano fatto domanda diversi magistrati. Alla fine erano rimasti in due, Mescolini e Alfonso D’Avino, allora procuratore aggiunto a Napoli. La Commissione per gli incarichi direttivi aveva votato a maggioranza per Mescolini il successivo mese di ottobre. Il voto in Plenum era fissato per la seduta del 14 febbraio del 2018. Ci fu la discussione. I togati di Magistratura indipendente, la corrente di D’Avino, puntarono sulla sua maggiore anzianità e sul fatto che aveva già le funzioni semidirettive e una esperienza decennale nel contrasto ai reati contro la Pa e contro la criminalità organizzata. La pratica venne rinviata alla seduta del 21 febbraio per poi essere rinviata a data da destinarsi. Il motivo di tale rinvio era dovuto al fatto che il Csm doveva trovare un posto a D’Avino per permettere a Mescolini di diventare procuratore di Reggio Emilia senza problemi. Le correnti si misero d’accordo e aspettarono che si liberasse la Procura di Parma per poter accontentare Mescolini. D’Avino ritirò la domanda per Reggio Emilia e andò quindi a Parma.La ricostruzione di Bernini è stata confermata dall’ex laico del Csm Antonio Leone in una intervista al Riformista. «Il motivo dei rinvii? Altrimenti non ci sarebbe stata ragion d’essere per la copertura di una Procura importante che tutti sollecitavano da tempo». Ma perché Mescolini doveva andare per forza a Reggio Emilia? È lo stesso Bernini a sottolinearlo nel capitolo “Il pm ritira il premio”. Sulla conduzione dell’indagine “Aemilia” sarebbero stati fatti da Mescolini accertamenti a “senso unico”, solo su esponenti del centrodestra, senza valorizzare ad esempio gli esiti investigativi dei carabinieri sui rapporti fra esponenti locali del Pd e i clan cutresi. Mescolini, ricordava poi Bernini, era stato capo ufficio dell’allora vice ministro dell’Economia Roberto Pinza (Pd) nell’ultimo governo Prodi. Un incarico che ne avrebbe appannato la terzietà. L’allora procuratore di Bologna Roberto Alfonso, sempre al Riformista, aveva dichiarato che erano tanti gli aspetti da approfondire emersi durante l’indagine “Aemilia”.  Roberto Pennisi, il sostituto della Dna che era stato applicato a questa indagine, aveva poi chiesto di non essere riconfermato proprio per contrasti sulla conduzione delle investigazioni e sui soggetti da sottoporre a custodia cautelare. La posizione di Mescolini, infine, potrebbe a breve essere anche oggetto di valutazione del Csm per eventuali profili di incompatibilità ambientale.

Palamara ammette: «È vero, la sinistra orienta la magistratura». E aggiunge: «Mi sono pentito». Gianluca Corrente lunedì 3 agosto 2020 su Il Secolo D'Italia. «La magistratura è in evoluzione, bisogna essere realisti. È composta da 9mila persone che nei fatti sono una comunità. Ed è indubbio che la sinistra ha una forte capacità di orientamento della magistratura». Ad affermarlo è Luca Palamara, nell’intervista con il direttore del giornale online Giulio Gambino durante la terza serata del TpiFest. «A volte ti viene da pensare che la stampa non sia libera, è importante l’indipendenza della stampa così come quella della magistratura. Ho grande fiducia che la generazione dei giovani possa dare al paese una stampa libera». «Se tornassi indietro non rifarei le stesse cose», aggiunge. «Eviterei questo meccanismo di relazioni. Sarei molto più netto su reiterate e numerose richieste di raccomandazione che hanno caratterizzato la mia persona in quegli anni. Mi sono pentito». Ci tiene però a sottolineare che «ci sono più Palamara per ogni correnti. E sono coloro che negli anni hanno ricevuto incarichi politici associativi». È stato preso «il mio telefono. Se fossero state ascoltate le conversazioni di miei omologhi si potrebbe avere visione più globale di quello che è realmente accaduto. Dovrebbero essere ascoltati per una visione meno parziale, perché esiste un altro pezzo». «Per le chat sul mio telefono, dico che contengono affermazioni improprie. Già più volte da quelle affermazioni io per primo ho preso le distanze. Ma tengo a dire che quando si scrive sulle chat spesso lo si fa in via confidenziale, in forma stringata, in forma sintetica. E soprattutto lo si fa nella convinzione del caposaldo della libertà e segretezza delle nostre comunicazioni», aggiunge Palamara. «Prendo le distanze da quelle che contengono contenuti impropri su svolgimento dell’attività politica. Ho esercitato una carica rappresentativa che come tale mi imponeva di interfacciarmi con il mondo della politica e delle istituzioni. Ho frequentato uomini politici di entrambi gli schieramenti. Determinati giudizi sono frutto di situazioni contingenti che come tali devono essere contestualizzati. Il mio nome, Palamara, può essere fatto solo per definire processo giusto e imparziale».

PALAMARA: “LA SINISTRA ORIENTA LA MAGISTRATURA”. Da tpi.it  il 4 agosto 2020. “La magistratura è in evoluzione, bisogna essere realisti, la magistratura è composta da 9mila persone che nei fatti sono una comunità. È indubbio che la sinistra ha una forte capacità di orientamento della magistratura. A volte ti viene da pensare che la stampa non sia libera, è importante l’indipendenza della stampa così come quella della magistratura. Ho grande fiducia che la generazione dei giovani possa dare al paese una stampa libera”. Lo ha detto il magistrato Luca Palamara nel corso dell’intervista con il direttore di TPI.it Giulio Gambino durante la terza serata del TPIFest!, a Sabaudia. “Se tornassi indietro non rifarei le stesse cose, eviterei questo meccanismo di relazioni e sarei molto più netto su reiterate e numerose richieste di raccomandazione che hanno caratterizzato la mia persona in quegli anni, mi sono pentito”, ha aggiunto Palamara, che è sotto inchiesta a Perugia. “Il mio è un ruolo che rischia di inghiottirti, che ti esaspera e ti fa perdere il contatto con la realtà e rispetto al quale la mia capacità relazionale si favoriva. Stiamo parlando di un meccanismo di individuazione del miglior dirigente sulla base di un accordo. In magistratura così come in politica e nei giornali. In Italia tutte le nomine avvengono su questa base”. Poi Palamara ha spiegato: “Non bastano solo le carte, spesso i curriculum sono sovrapponibili. Bisogna raccogliere maggiori informazioni e raggiungere accordi per favorire la situazione migliore perché se nel sistema delle correnti ogni corrente dice ‘io devo mettere uno qui e io uno lì”.

Filippo Facci per ''Libero Quotidiano''  il 4 agosto 2020. Quando una «notizia» era nota ma fa notizia lo stesso, è segno che fa parte delle grandi ipocrisie nazionali, della verità sottaciute, dei «si sa ma non si dice», spesso la si relega a berlusconata tipo «le toghe rosse» eccetera. Quindi, se un magistrato d'un tratto dice pubblicamente che «la sinistra orienta la magistratura», occorre subito vedere chi è, perché l'ha detto, se è da ritenersi credibile. Nel caso, il magistrato è Luca Palamara (intervistato durante un festival del sito Tpi, a Sabaudia) il quale è un ex componente del consiglio superiore della magistratura (Csm) che è stato il più giovane presidente dell'Associazione nazionale magistrati. Quindi è credibilissimo: e allora perché ha parlato? Risposta: perché è sputtanato, o come si dice: non ha più niente da perdere. Sappiamo che Luca Palamara l'anno scorso è stato indagato per corruzione, compravendite di sentenze e fuga di informazioni, e che dalle intercettazioni fatte col sistema trojan è venuto fuori un trojaio. Eppure, anche ai più navigati, sentir dire pubblicamente che «la sinistra orienta la magistratura» fa ancora avere un modesto soprassalto, e perché? Forse perché continua a sembrare grave, anomalo, distorcente l'equilibrio che dovrebbe caratterizzare il magistrato ma nondimeno il politico che lo orienta. Oppure, retrospettivamente, perché sappiamo che a una magistratura di sinistra non esiste una corrispondente magistratura di destra, o meglio: ciascuno ha le sue idee, ma chi cerca di trasfonderle nella professione togata è quasi sempre di sinistra. In altre parole, esistono migliaia di magistrati (circa novemila, nel penale) che si fanno gli affari propri e cercano solo di fare il proprio lavoro, ma tra essi c'è una minoranza che si muove in una logica di potere, e queste logiche sono e rimangono di sinistra perché presuppongono un ruolo sociale della magistratura che possa contribuire al cambiamento della società. Il «campionato» del potere si gioca solo a sinistra: è così che magistrati di mentalità anche di destra (pensate a Piercamillo Davigo) li ritroviamo a giocare nella logica delle correnti togate, quelle che si spartiscono posti e potere. Ma non esistono correnti veramente di destra: sono tutte e comunque in un campo di gioco che è dall'altra parte, l'unico disponibile: la differenza è che un tempo era una logica di sinistra incernierata ideologicamente coi partiti, oggi i partiti sono soltanto dei fragili appoggi appigli perché la magistratura militante consolidi un potere che non restituisce, ed è solo suo. La magistratura milita in se stessa, ed è soggetto politico a se stante. Certo, le correnti «Area» e Magistratura democratica» sono considerate più di sinistra, «Unità per la costituzione» più di sinistra-centro, «Magistratura indipendente» più di centro-sinistra: ma ripetiamo, a destra non c'è nulla, solo lavoratori privilegiati (e ben lieti di essere globalmente difesi dal sindacato unico, l'Associazione magistrati) oppure ci sono cani sciolti che però difficilmente finiscono sui giornali per inchieste e arresti clamorosi (di politici, in genere) e difficilmente si spartiranno poltrone e incarichi. E i partiti? Che c'entrano? Ormai niente: i partiti fanno capolino solo nella facoltà di candidare tizio o caio tra i consiglieri laici del Csm o altre cariche elevate. Non ci sono più le toghe rosse: nella notte della giustizia, tutti i gatti sono grigi. Il magistratura fa politica da sola, non essendo peraltro eletta dal popolo.

ARRESTI A DESTRA, CUORE A...Poi vabbeh, ci sono tanti magistrati di sinistra che sono stati eletti a sinistra (in Parlamento o altrove) dopo aver arrestato a destra. Gli esempi sarebbero tanti: pensate solo a Felice Casson, Gerardo D'Ambrosio, Luciano Violante. L'elenco - che comprende anche tanti magistrati minori - lo facciamo un''altra volta. E non c'è solo la sinistra delle poltrone e degli scranni: c'è un passato che reclama. Francesco Greco a 33 anni fu schedato dai servizi segreti perché collaborava alla rivista clandestina Mob, ricolma di esponenti della sinistra eversiva anche collegati con la colonna brigatista Walter Alasia. Un altro magistrato come Antonio Bevere, che in Cassazione fu relatore della sentenza che confermò la teorica galera per Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, era stato un «pretore d'assalto» dedito a sanare le ingiustizie di classe. Ci sono attempati e serafici magistrati che inneggiavano alla rivoluzione proletaria e a un uso alternativo del diritto. Non è un segreto. Cecilia Gandus, giudice del primo processo Berlusconi-Mills, da giovane non era certo di destra. E Ilda Boccassini, ancora nel 1987, fu sospesa da «magistrato di turno esterno» perché firmò un appello a favore di Potere Operaio. La corrente di Magistratura democratica lamentava che il Pci non fosse abbastanza di sinistra: ma è preistoria, ne è passato di piombo sotto i ponti. Il campionato però è rimasto a sinistra. In quale partito si candidò il destrorso Antonio Di Pietro, alla fine? E il presidente della Puglia, il piddino Michele Emiliano, che peraltro non si è ancora dimesso da magistrato? Quale partito difese Luigi De Magistris in tutti i suoi pasticci da magistrato? E Alberto Maritati, che fece arrestare il socialista Rino Formica prima di divenire senatore e sottosegretario per i Ds? L'elenco è lungo, la memoria è corta. Ieri il magistrato Palamara ha detto «la sinistra orienta la magistratura», domani - anzi, oggi - è un altro giorno.

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” l'8 luglio 2020. La notizia si diffonde al mattino presto: nella notte Claudio Cirinnà, fratello più piccolo della senatrice pd, Monica, è stato arrestato per usura ed estorsione. Una doppia circostanza amplifica la novità: la prima è che Cirinnà finisce nella stessa retata della camorra organizzata attorno al boss Michele Senese. La seconda sono i precedenti, il reato di contrabbando di gasolio che, già nel 2015, aveva portato il fratello della senatrice alla latitanza finita con un patteggiamento nel 2017. Più che sufficiente a scatenare i commentatori meno aggraziati sul web. È la Cirinnà, forse nel tentativo di prevenire il peggio, a pubblicare un post sui social nel quale, prendendo le distanze dal fratello, si dice avvilita: «Apprendo con amarezza e dolore da notizie di agenzia che mio fratello sarebbe coinvolto in un' inchiesta giudiziaria. So pochissimo della sua vita travagliata ma se così fosse sarei addolorata e profondamente delusa». Le contestazioni mosse dall' aggiunto della Dda capitolina Ilaria Calò e dal suo sostituto Francesco Minisci, sono pesanti: Cirinnà avrebbe estorto denaro a un piccolo imprenditore Antonio Leone (vittima denunciante anche dei Senese) dopo avergli prestato 138 mila 500 euro. Come si legge nell' ordinanza Cirinnà «minacciava più volte telefonicamente il Leone che, in mancanza di ulteriori pagamenti, sarebbe passato alle vie di fatto sia nei suoi confronti che verso i suoi familiari». Minacce che Leone prende molto seriamente al punto da consegnare diverse tranche di denaro nelle mani di Riccardo Cirinnà, il figlio, a sua volta finito ai domiciliari. Claudio Cirinnà ostenta modi da piccolo boss come annotano gli investigatori dello Sco della polizia e del nucleo di polizia valutaria della Finanza: «In data 7 aprile 2017 aggrediva verbalmente Antonio Leone intimorendolo con un cane molosso che teneva al guinzaglio, intimandogli il pagamento di ulteriore denaro legato alla restituzione del prestito usurario, pronunciando tra l' altro le seguenti, testuali parole: "non mi guardare negli occhi, non mi sfidare altrimenti ti do una testata in faccia». Cirinnà, titolare di un bed&breakfast vicino a San Pietro, sta valutando l' eventualità di fare ricorso al Tribunale del riesame. Parla per la senatrice l' avvocato Antonio Andreozzi che, da difensore di Claudio, si definisce stupito per il rilievo dato alla notizia: «Qual è la rilevanza del fatto? Mi pare che si stia subdolamente cavalcando tutto questo per colpire la senatrice. La si vuole attaccare? Allora ci si confronti sul suo terreno di lavoro senza strumentalizzare la sua vita privata». La retata nei confronti dei Senese ha portato a 28 arresti (fra carcere e domiciliari). Come sottolineato dagli investigatori la presenza del clan legato alla famiglia di Afragola è ritenuta «altamente inquinante» degli equilibri della capitale. Nato da un' inchiesta sul riciclaggio di denaro da parte del ristoratore Gianni Micalusi («Assunta madre») l' approfondimento degli inquirenti va a colpire i canali attraverso i quali il clan di Michele 'o pazz' reimpiegava denaro proveniente dal traffico di sostanze stupefacenti e altri illeciti. Fra i metodi utilizzati, oltre al più tradizionale (quello dell' investimento in locali, bar e ristoranti), anche l' acquisto di merci griffate come i giubbotti della Colmar, quelli della Belstaff e l' abbigliamento di marca Dsquared2 (le griffe sono comunque estranee all' inchiesta). Da anni i Senese trovano vantaggioso reinvestire nel commercio di capi d' abbigliamento è spiegato nell' ordinanza di arresto. «Le inchieste sulla famiglia Senese - sottolinea inoltre la gip Annalisa Marzano - hanno svelato la profonda influenza esercitata nell' ambiente criminale locale. La famiglia Senese costituisce una vera e propria società del crimine illecito che ha il suo quartiere generale a Roma sebbene poi ricorra ad investimenti finanziari ed economici in diverse parti del territorio nazionale da Napoli a Milano facendo tappa in Svizzera». Solidarietà alla Cirinnà viene espressa da Goffredo Bettini della direzione pd: «Tutto ciò non colpisce affatto la sua integerrima figura politica, semmai le arreca un dolore intimo».

Monica Cirinnà e l'arresto del fratello, il social media manager insulta gli utenti su Facebook. Le Iene News l'8 luglio 2020. Il fratello della senatrice è stato arrestato nell’ambito di una operazione contro il clan camorrista Senese. Sotto a un post su Facebook, in cui la Cirinnà chiede rispetto per la sua famiglia, si scatenano i commenti di chi la accusa di aver rovinato la famiglia tradizionale con le unioni civili. Le risposte del social media manager, però, lasciano davvero interdetti. “I suoi genitori hanno fallito miseramente”, oppure “prima leone da tastiera, ora coniglio. Allora risponde o è solo un codardo?”, e ancora “non sa neanche leggere però commenta. Tipico dei fascio legaioli”. Sono questi alcuni dei commenti pubblicati su Facebook dal social media manager della senatrice Monica Cirinnà, nota per essere stata in prima linea nella battaglia per il riconoscimento delle unioni civili e recentemente finita suo malgrado sotto i riflettori per una brutta storia legata al fratello. Andiamo con ordine: ieri il fratello della senatrice è stato arrestato nell’ambito di una operazione contro il clan camorrista Senese. Un’inchiesta in cui, è importante ricordarlo, la senatrice è completamente estranea. Ieri sera Monica Cirinnà ha pubblicato su Facebook un post in cui scrive: “Apprendo con amarezza e dolore da notizie di agenzia che mio fratello sarebbe coinvolto in un’inchiesta giudiziaria”, chiedendo poi rispetto per la sua famiglia. E proprio questo appello al rispetto dell’intimità della famiglia ha scatenato una serie di commenti sotto al post della senatrice, alcuni anche sgradevoli, con riferimento alla sua battaglia per le unioni civili. Ma a fare scalpore non sono tanto i commenti degli utenti, quanto piuttosto le risposte date a questi utenti dal social media manager di Monica Cirinnà e che potete vedere negli screen in fondo a questo articolo. A chi pungola la senatrice su "famiglia fascista e camorrista", il social media manager risponde secco: “Non sa neanche leggere però commenta. Tipico dei fascio legaioli”. E quando fanno notare i "toni minacciosi", replica “Fase vittima. Prima leone da tastiera, ora coniglio. Allora risponde o è solo un codardo?”. E ancora “I suoi genitori hanno fallito miseramente crescendo un adulto frustrato che passa ora sui social e dimostrare quanto è meschino.” E c’è anche di peggio: quando un’altra utente attacca la Cirinnà sulla sua attività politica contro la famiglia "sana e naturale degli altri", il social media manager replica: “Ma si nasconda lei con i suoi commenti e con le condivisioni sulla sua bacheca. Quella sana sarebbe la sua? Si vede come è cresciuta”. E poi rincara la dose: “Già basta avere lei come disgrazia in famiglia, non le pare?”. E questi sono solo alcuni esempi dei post pubblicati in risposta agli utenti, tutti accompagnati dalla parentesi (S) che solitamente indica una risposta data dal social media manager. Ora ci chiediamo: al netto di alcuni commenti davvero sgradevoli che vanno assolutamente condannati, è giusto che chi gestisce la pagina social di una senatrice della Repubblica, che rappresenta tutti i cittadini, apostrofi in questo modo alcuni di loro su Facebook? 

Brunella Bolloli per ''Libero Quotidiano'' l'8 luglio 2020. «Onorevole come siamo combinati?», chiedeva il boss all'amico Pd. E poi i baci, gli abbracci, gli accordi: tutto documentato e filmato dalle telecamere e contenuto negli atti dell'inchiesta della Dda di Palermo. L'indagine, condotta dai carabinieri di Trapani, è quella che l'altra notte ha portato in cella Mariano Asaro, noto come il "dentista" (perché aveva studiato da odontotecnico prima di darsi agli affari illeciti), e ha iscritto nel registro degli indagati Paolo Ruggirello, ex deputato dem all'Assemblea regionale siciliana. Asaro voleva davvero aprire un ambulatorio dentistico in quel di Paceco, nel Trapanese, solo che nel progetto rientrava anche la creazione di una società fittizia che doveva essere accreditata presso il sistema sanitario nazionale e quindi doveva ricevere del denaro pubblico. Qui entra in scena Ruggirello, per un decennio nel Parlamentino siciliano dove aveva ricoperto il ruolo chiave di deputato-questore, usufruiva di un mega ufficio nel palazzo che fu di Federico II e, soprattutto, maneggiava denaro come se piovesse. Ex lombardiano, da tesserato del Pd Ruggirello ha pure tentato la candidatura al Senato, fallita a causa dei guai giudiziari. Cosa c'entra questa storia con Silvio Berlusconi? In apparenza nulla, se non fosse che il leader di Forza Italia ciclicamente viene tirato in ballo da mafiosi che giurano di avere collaborato con lui, si accreditano in tal senso, ma non hanno alcuna vera prova al riguardo. È di due giorni fa l'ennesima rivelazione del boss Graviano, presa per buona nel processo sulle stragi 'ndranghetiste. Per non parlare delle presunte trattative, di Forza Italia nata con il favore della mafia, degli anni tra il '92 e il '94 quando l'allora imprenditore del nord avrebbe stretto chissà quali accordi con i capiclan per salire al potere: le pagine delle vicende giudiziarie da cui Berlusconi ha dovuto difendersi potrebbero riempire un'enciclopedia. Nel caso dell'esponente dem ci sono, invece, le foto, i video e le stesse dichiarazioni dei diretti interessati, arrestati, che dimostrano il legame tra la mafia e il politico. Non solo. Il gip di Palermo, Claudia Rosini, delinea la figura di Ruggirello, in stretti e stabili rapporti con Carmelo Salerno, anche lui finito in manette e ritenuto il capoclan di Paceco: «Le stabili e continuative relazioni tra Ruggirello e esponenti di spicco della Cosa Nostra trapanese», scrivono i pm, «non possono che ritenersi come il frutto di una compenetrazione organica del primo con il tessuto organizzativo dell'associazione mafiosa». Dunque, il 54enne ex deputato siculo del Pd già arrestato a marzo del 2019 con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e ora destinatario di un nuovo avviso di garanzia, avrebbe attivato le sue conoscenze affinché l'ambulatorio del boss di Castellammare del Golfo fosse convenzionato con il servizio sanitario. Anche stavolta, però, nessuna reazione dai manettari. Ah già, Berlusconi non c'entra...

Pd, Paolo Ruggirello? Il video del bacio al boss mafioso: silenzio a sinistra, che però su Silvio Berlusconi non tace. Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 09 luglio 2020. «Onorevole come siamo combinati?», chiedeva il boss all'amico Pd. E poi i baci, gli abbracci, gli accordi: tutto documentato e filmato dalle telecamere e contenuto negli atti dell'inchiesta della Dda di Palermo. L'indagine, condotta dai carabinieri di Trapani, è quella che l'altra notte ha portato in cella Mariano Asaro, noto come il "dentista" (perché aveva studiato da odontotecnico prima di darsi agli affari illeciti), e ha iscritto nel registro degli indagati Paolo Ruggirello, ex deputato dem all'Assemblea regionale siciliana. Asaro voleva davvero aprire un ambulatorio dentistico in quel di Paceco, nel Trapanese, solo che nel progetto rientrava anche la creazione di una società fittizia che doveva essere accreditata presso il sistema sanitario nazionale e quindi doveva ricevere del denaro pubblico. Qui entra in scena Ruggirello, per un decennio nel Parlamentino siciliano dove aveva ricoperto il ruolo chiave di deputato-questore, usufruiva di un mega ufficio nel palazzo che fu di Federico II e, soprattutto, maneggiava denaro come se piovesse. Ex lombardiano, da tesserato del Pd Ruggirello ha pure tentato la candidatura al Senato, fallita a causa dei guai giudiziari. Cosa c'entra questa storia con Silvio Berlusconi? In apparenza nulla, se non fosse che il leader di Forza Italia ciclicamente viene tirato in ballo da mafiosi che giurano di avere collaborato con lui, si accreditano in tal senso, ma non hanno alcuna vera prova al riguardo. È di due giorni fa l'ennesima rivelazione del boss Graviano, presa per buona nel processo sulle stragi 'ndranghetiste. Per non parlare delle presunte trattative, di Forza Italia nata con il favore della mafia, degli anni tra il '92 e il '94 quando l'allora imprenditore del nord avrebbe stretto chissà quali accordi con i capiclan per salire al potere: le pagine delle vicende giudiziarie da cui Berlusconi ha dovuto difendersi potrebbero riempire un'enciclopedia. Nel caso dell'esponente dem ci sono, invece, le foto, i video e le stesse dichiarazioni dei diretti interessati, arrestati, che dimostrano il legame tra la mafia e il politico. Non solo. Il gip di Palermo, Claudia Rosini, delinea la figura di Ruggirello, in stretti e stabili rapporti con Carmelo Salerno, anche lui finito in manette e ritenuto il capoclan di Paceco: «Le stabili e continuative relazioni tra Ruggirello e esponenti di spicco della Cosa Nostra trapanese», scrivono i pm, «non possono che ritenersi come il frutto di una compenetrazione organica del primo con il tessuto organizzativo dell'associazione mafiosa». Dunque, il 54enne ex deputato siculo del Pd già arrestato a marzo del 2019 con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e ora destinatario di un nuovo avviso di garanzia, avrebbe attivato le sue conoscenze affinché l'ambulatorio del boss di Castellammare del Golfo fosse convenzionato con il servizio sanitario. Anche stavolta, però, nessuna reazione dai manettari. Ah già, Berlusconi non c'entra...

Marcello Veneziani: «Vi spiego perché la sinistra è una cupola». Adriana De Conto sabato 7 settembre 2019 su Il Secolo d'Italia. «La sinistra è una cupola». Titolo ed incipit dell’articolo di Marcello Veneziani sulla Verità sono da antologia. «La sinistra è un’associazione di stampo mafioso che detiene stabilmente il potere e lo esercita forzando la sovranità popolare, la realtà della vita e gli interessi della gente. Usa metodi mafiosi per eliminare con la rituale accusa di nazifascismo (o in subordine di corruzione) chiunque si opponga al suo potere. Si costituisce in cupola per decidere la spartizione del potere ed eliminare gli avversari, tutti regolarmente ricondotti a Male Assoluto da sradicare e da affidare alle patrie galere o alla gogna del pubblico disprezzo». Lo scrittore, filosofo ed editorialista va giù duro. La sua lettura di questa pagina deteriore di storia politica che stiamo vivendo si collega a un testo illuminante e dimenticato di Panfilo Gentile intitolato «Democrazie mafiose»: libro che, edito dalle Edizioni Volpe, ebbe poi una diffusione capillare dopo che  Montanelli lo elogiò sul Corriere della Sera.

Veneziani: «Ecco il metodo della sinistra». Il giornalista e polemista Panfilo Gentile circa mezzo secolo fa anticipò con lucidità l’involuzione del sistema democratico e la trasformazione dei partiti in circuiti chiusi e autoreferenziali di stampo mafioso. Se avesse visto quanto sta accadendo oggi – con l’ esproprio del voto fino al disprezzo per la volontà popolare –  si  sarebbe ancora più convinto delle sue analisi. Per Veneziani la sinistra è ua «cupola» perché «si serve delle camorre mediatico-giudiziarie e intellettuali per imporre i suoi codici ideologici per far saltare i verdetti elettorali, per forzare il sentire comune e il senso della realtà, per cancellare e togliere di mezzo chi la pensa in modo differente. E si accorda con altri poteri tecnocratici e finanziari, per garantirsi sostegni e accessi in cambio di servitù e cedimenti: Mafia & Capitale. Metodi incruenti, ma di stampo mafioso -specifica nell’articolo –  e tramite forme paradossali: perché calpesta la democrazia e si definisce democratica, viola le leggi, perfino la Costituzione – sulla tutela della famiglia, sulla difesa dei confini, sul rispetto del popolo sovrano – ma nel nome della legalità e della Costituzione».

«La violenza del lessico della sinistra». Il termine «Cupola» è forte, indubbiamente, ma Veneziani spiega che il lessico politico disinvolto e fuori misura non è un’invenzione sua, tutt’altro. E’ la sinistra che lo usa come una clava. Per cui l’unico metodo per fronteggiare « in modo adeguato la violenza ideologica e propagandistica della sinistra» è rispondere col suo stesso lessico. Del resto, basta leggere come vengono definiti i sovranisti, chi ha a cuore la difesa dei confini, della famiglia, della religione: «È  trattato alla stregua di nipotino di Hitler, di nazista, di razzista. Accuse criminali, ma da parte di chi le rivolge, a vanvera, stabilendo un nesso infame e automatico tra amor patrio e xenofobia, difesa della civiltà e razzismo, amore della famiglia e omofobia», scrive Veneziani sulla Verità. E non dovremmo neanche difenderci di fronte a questi attacchi?, si chiede lo scrittore. E fa l’esempio dell’ «uso mascalzone dell’antifascismo che serve per isolare e interdire il nemico e poi nel nome della democrazia in pericolo per l’incombente minaccia della Bestia Nera, sono consentite le alleanze più ibride, senza limiti…». Sì, per tutto questo è giusto usare l’espressione «la sinistra è una cupola», Veneziani è convinto: «è giusto alzare il tiro e accusare la sinistra tornata ancora una volta al governo senza passare dalle urne, di essere un’associazione di stampo mafioso, di pensare e agire come una cupola, di calpestare la gente e gli avversari con l’arroganza e la presunzione di essere dalla parte del Giusto da ricordare i più fanatici regimi comunisti… Dal Soviet alla Cupola». Applausi.

La sinistra è una cupola. Marcello Veneziani, La Verità 6 settembre 2019. La sinistra è un’associazione di stampo mafioso che detiene stabilmente il potere e lo esercita forzando la sovranità popolare, la realtà della vita e gli interessi della gente. Usa metodi mafiosi per eliminare con la rituale accusa di nazifascismo (o in subordine di corruzione) chiunque si opponga al suo potere. Si costituisce in cupola per decidere la spartizione del potere ed eliminare gli avversari, tutti regolarmente ricondotti a Male Assoluto da sradicare e da affidare alle patrie galere o alla gogna del pubblico disprezzo. Si serve delle camorre mediatico-giudiziarie e intellettuali per imporre i suoi codici ideologici per far saltare i verdetti elettorali, per forzare il sentire comune e il senso della realtà, per cancellare e togliere di mezzo chi la pensa in modo differente. E si accorda con altri poteri tecnocratici e finanziari, per garantirsi sostegni e accessi in cambio di servitù e cedimenti: Mafia & Capitale. Metodi incruenti, ma di stampo mafioso, e tramite forme paradossali: perché calpesta la democrazia e si definisce democratica, viola le leggi, perfino la Costituzione – sulla tutela della famiglia, sulla difesa dei confini, sul rispetto del popolo sovrano – ma nel nome della legalità e della Costituzione. Su Panorama di questa settimana ho ricordato che giusto mezzo secolo fa un grande polemista e scrittore come Panfilo Gentile pubblicava un libro che ha descritto la parabola della democrazia italiana dalla partitocrazia alla mafia politica. S’intitolava Democrazie mafiose. Il notabilato del nostro tempo, di stampo mafioso, ha un chiaro imprinting radical-progressista, più una spruzzatina liberal, tecno-europea. Prima di lui Antonio Gramsci notava che quando una classe politica perde il consenso non è più dirigente ma dominante. E aggiungeva che era in atto “una rottura così grave tra masse popolari e ideologie dominanti”. Parlava del suo tempo, ma descriveva il nostro; gli attori di oggi sono mutati perché le ideologie dominanti oggi sono quelle eurosinistresi che hanno ripreso il potere in Italia pur essendo sconfitti dal voto, servendosi del camaleontismo dei grillini, che come alcune specie animali mutano pelle per salvarla. Spettacolare è stata la circonvenzione d’incapace intentata dai grillini per dare l’impressione di un’investitura della base al governo con la sinistra, una legittimazione di democrazia diretta, col surreale referendum della piattaforma Rousseau. A me ha ricordato un settembre di 220 anni fa, quando i giacobini nel 1799 intimarono all’arcivescovo di Napoli di fingere che San Gennaro avesse fatto il miracolo, il sangue si era sciolto, e dunque era favorevole alla Repubblica Napoletana, nata all’ombra dello Straniero, l’esercito francese repubblicano. Loro, i giacobini franco-napolitani, i nemici atei e “illuminati” della devozione superstiziosa, la usarono nel modo più cinico, più becero e blasfemo per ingannare la gente. Era la piattaforma San Gennaro…Voi direte, dai, ma associazione di stampo mafioso è un po’ eccessivo. Ma si tratta di fronteggiare in modo adeguato la violenza ideologica e propagandistica della sinistra e rispondere sul loro stesso terreno, col loro stesso lessico. Da una parte sapete che abuso disinvolto di etichette mafiose è stato fatto verso chiunque si opponga alla sinistra e ai loro compagni; ogni associazione anche semplicemente di truffatori o di arrivisti è diventata poi associazione di stampo mafioso; per chi non era proprio dentro alla cosca, s’inventò la formula curiosa di “concorso esterno” all’associazione mafiosa. Dall’altra parte pensiamo a cosa viene detto e scritto in modo martellante contro chi difende la sovranità nazionale e i suoi confini, la civiltà cristiana, la famiglia naturale: è trattato alla stregua di nipotino di Hitler, di nazista, di razzista. Accuse criminali, ma da parte di chi le rivolge, a vanvera, stabilendo un nesso infame e automatico tra amor patrio e xenofobia, difesa della civiltà e razzismo, amore della famiglia e omofobia. Ma perché chi ritiene prioritari quei principi, chi ha una visione diversa del mondo, per giunta in sintonia con la tradizione, col sentire comune e con la grande cultura che è alle nostre radici, e magari preferisce sul piano politico chi, seppure in modo grossolano, li difende o dice di farlo, dev’essere trattato in quel modo infame, silenziato e oltraggiato e non deve potersi difendere? Se dovessi compilare la lista delle infamie dovrei raccontare tanti episodi di intolleranza, di aggressione verbale, di disprezzo, di censura; ma non amo il vittimismo. C’è un uso mascalzone dell’antifascismo che serve per isolare e interdire il nemico e poi nel nome della democrazia in pericolo per l’incombente minaccia della Bestia Nera, sono consentite le alleanze più ibride, senza limiti, da Grillo a Berlusconi, i patti più loschi e persino i golpe bianchi più indecenti. Per questo è giusto alzare il tiro e accusare la sinistra tornata ancora una volta al governo senza passare dalle urne, di essere un’associazione di stampo mafioso, di pensare e agire come una cupola, di calpestare la gente e gli avversari con l’arroganza e la presunzione di essere dalla parte del Giusto da ricordare i più fanatici regimi comunisti. A proposito. Il comunismo promise libertà e uguaglianza ma una volta al potere fu il sistema totalitario più sanguinario e repressivo che la storia abbia conosciuto; ora, mutati i tempi, si vende come garante della libertà, della legge e della democrazia ma si ripresenta come associazione di potere di stampo mafioso. Dal Soviet alla Cupola. MV, La Verità 6 settembre 2019.

·         Tutte tonache di rispetto.

La Chiesa contro la mafia, in Vaticano una task-force contro i riti "inquinati". Il 17 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Le processioni gestite dalle famiglie dei mafiosi o anche i boss scelti come padrini di cresime o testimoni di nozze. Il fenomeno allarma da tempo la Chiesa e alcune conferenze episcopali regionali, dalla Calabria alla Sicilia, sono corse ai ripari con loro linee guida e decisioni che sono anche arrivate fino al “fermo” di alcuni eventi religiosi dove di religioso era rimasto poco. Un fenomeno inquietante, per il quale il Vaticano ha deciso di volerci vedere chiaro, presentando domani ufficialmente un apposito “Dipartimento per l’analisi e il monitoraggio dei fenomeni criminali e mafiosi” presso la Pontificia Accademia Mariana Internazionale. L’iniziativa è stata fortemente voluta da Papa Francesco che domani invierà all’evento un suo messaggio. Come anche un messaggio è atteso, secondo quanto riferito dagli organizzatori, da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La decisione è netta: costituire una vera e propria task-force tra ecclesiastici, esponenti delle forze dell’ordine, esperti anti-racket e anti-usura, procuratori in prima linea contro Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona unita. Considerato che «la figura di Maria, nonché i luoghi, le ritualità e il simbolismo a lei associate, sono oggetto di “riconfigurazione sistematica” da parte delle mafie e della criminalità organizzata non solo in Italia, ma anche in altri Paesi su scala globale», è stato deciso di coinvolgere personalità competenti per una «operazione culturale» che riporti la religione, e soprattutto il culto mariano, sui giusti binari, anche in quei luoghi, non solo d’Italia ma del mondo, dove la criminalità organizzata ne ha fatto suo patrimonio. «La devozione mariana – ha sottolineato Papa Francesco in un messaggio di qualche settimana fa – è un patrimonio religioso-culturale da salvaguardare nella sua originaria purezza, liberandolo da sovrastrutture, poteri o condizionamenti che non rispondono ai criteri evangelici di giustizia, libertà, onestà e solidarietà». Parole queste che erano state accolte con favore anche dal presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra, che ricorda non solo le manifestazioni più eclatanti di queste distorsioni, come gli “inchini” delle statue di Maria davanti alle case dei boss durante le processioni, ma anche «altri abusi meno evidenti», come il ricorso, nei riti di affiliazione alle organizzazioni mafiose, di immagini sacre, e soprattutto di quelle della Madonna.

Da "lasicilia.it" il 18 settembre 2020. Le processioni gestite dalle famiglie dei mafiosi o anche i boss scelti come padrini di cresime o testimoni di nozze. Il fenomeno allarma da tempo la Chiesa e alcune conferenze episcopali regionali, dalla Calabria alla Sicilia, sono corse ai ripari con loro linee guida e decisioni che sono anche arrivate fino al "fermo" di alcuni eventi religiosi dove di religioso era rimasto poco. Ora è il Vaticano a volerci vedere chiaro e presenta un apposito «Dipartimento per l’analisi e il monitoraggio dei fenomeni criminali e mafiosi» presso la Pontificia Accademia Mariana Internazionale. Una iniziativa fortemente voluta da Papa Francesco. Si tratta di una vera e propria task-force tra ecclesiastici, esponenti delle forze dell’ordine, esperti anti-racket e anti-usura, procuratori in prima linea contro Cosa nostra, 'ndrangheta, camorra e Sacra corona unita. Considerato che «la figura di Maria, nonché i luoghi, le ritualità e il simbolismo a lei associate, sono oggetto di "riconfigurazione sistematica" da parte delle mafie e della criminalità organizzata non solo in Italia, ma anche in altri Paesi su scala globale», è stato deciso di coinvolgere personalità competenti per una «operazione culturale» che riporti la religione, e soprattutto il culto mariano, sui giusti binari, anche in quei luoghi, non solo d’Italia ma del mondo, dove la criminalità organizzata ne ha fatto suo patrimonio. «La devozione mariana - ha sottolineato Papa Francesco in un messaggio di qualche settimana fa - è un patrimonio religioso-culturale da salvaguardare nella sua originaria purezza, liberandolo da sovrastrutture, poteri o condizionamenti che non rispondono ai criteri evangelici di giustizia, libertà , onestà e solidarietà». Parole queste che erano state accolte con favore anche dal presidente della Commissione parlamentare Antimafia Antimafia Nicola Morra, che ricorda non solo le manifestazioni più eclatanti di queste distorsioni, come gli "inchini" delle statue di Maria davanti alle case dei boss durante le processioni, ma anche «altri abusi meno evidenti», come il ricorso, nei riti di affiliazione alle organizzazioni mafiose, di immagini sacre, e soprattutto di quelle della Madonna. 

Tutte tonache di rispetto. Fabio Amendolara 3 Luglio 2020 su Panorama. L'inquietante rapporto tra sacerdoti e criminalità è spesso organico. Come emerge da molte inchieste e da processi ancora.

L’ultimo sacerdote che in un tribunale ha dovuto ammettere di aver consegnato la croce ad un uomo d’onore è do Antonio Sorrentino, parroco di San Giorgio Morgeto, provincia di Reggio Calabria. Tre settimane fa è dovuto salire a Torino, dov'è in corso un processo in cui è imputata una famiglia accusata di aver esportato la 'ndrangheta ad Aosta, per una testimonianza scomoda: nel 2018 lui e i vertici della congrega che organizza la processione più importante in paese hanno avuto la sfortuna di estrarre a sorte, tra i tremila abitanti del piccolo centro dell'Aspromonte, un nome: Antonio Raso, 62 anni, ristoratore ad Aosta indicato dai magistrati antimafia come un uomo del cartello Nirta-Mammoliti, cognomi che, se pronunciati in quella zona della Calabria, fanno davvero paura. L'imprenditore è a giudizio con le accuse di associazione mafiosa e scambio elettorale politico-mafioso. Nel 2018, prima di finire dietro le sbarre, tornò in Calabria per le vacanze estive: «Scendeva in paese d'estate, come tutti gli emigrati», ha raccontato il sacerdote in aula.

E non era l'unico della combriccola aostana a frequentare la parrocchia di don Sorrentino. Un altro imputato è Marco Sorbara, ex assessore comunale ad Aosta e attuale consigliere regionale (sospeso). È accusato di concorso esterno. «E» racconta il prete «veniva per la festa di San Giorgio, da sempre. Ha sicuramente partecipato alla processione che si fa per il santo, il 23 aprile».

Che i padrini abbiano un'inquietante promiscuità con parrocchie e santuari, soprattutto in Calabria, Nicola Gratteri, il capo della Procura di Catanzaro riconosciuto come uno dei massimi conoscitori della 'ndrangheta, lo denuncia da sempre. «Non c'è alcun covo» ha spiegato Gratteri, che con Antonio Nicaso è autore di un pamphlet sull'argomento (Acqua Santissima, Mondadori 2013), «in cui manchi un'immagine della madonna di Polsi (il santuario calabrese un tempo usato in Calabria per i summit dei «mammasantissima», ndr) o di san Michele Arcangelo. Non c’è rito d’affiliazione che non richiami la religione. Chiesa e ‘ndrangheta spesso camminano per mano».

D’altra parte, quando i carabinieri, nelle campagne calabresi di Anoia, hanno fatto irruzione nel rifugio del boss Gregorio Bellocco, detto Lupo solitario, ad accoglierli hanno trovato un evocativo murale: «Dio, proteggi me e questo bunker». Tra le immaginette, le pagelline votive, le scapolari e i santini che collezionava, e che gli sono stati sequestrati, ce n'erano alcuni, si racconta in paese, mandati in dono direttamente da un sacerdote. Gli investigatori che si sono occupati di stanare il latitante non riuscirono a individuarlo. Ma l'elenco delle tonache da zona grigia o, addirittura, in alcuni casi, con coppola e lupara è articolato.

L'ultimo a ricevere una condanna, in un processo che ha smantellato le interferenze della cosca Arena nella gestione del Centro di accoglienza per migranti di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, è stato don Edoardo Scordio. Lo scorso 24 giugno la sua sentenza è stata di 14 anni e 6 mesi di reclusione. Un brutto colpo per la vulgata che propaganda come realtà effettiva lo spot di papa Francesco, che nel 2014 dalla Piana di Sibari ha scomunicato la 'ndrangheta.

D'altra parte, in Calabria, i rapporti a doppio lo tra tonache e capibastone vanno avanti da quasi un secolo e sono difficili da spezzare. La prima volta che un prete è stato sorpreso a baciare le mani di un mafioso risale al 1928: don Antonio Palamara, parroco di Solano, venne indicato in un rapporto dei carabinieri come uno che «per timore o per tornaconto» manteneva un atteggiamento «remissivo e compiacente verso i maggiorenti della mafia».

Da allora il numero di tonache considerate sporche è cresciuto in modo considerevole. Nel 1933 don Nicola Politi, parroco a Valanidi, costringe alle nozze una ragazza del posto con un giovane mafioso che l'aveva rapita. Il matrimonio, contro la volontà dei genitori di lei, raccontano i carabinieri in un rapporto dell'epoca, viene celebrato «nottetempo, onde frustrare le ricerche». Nel 1937, correva il quindicesimo anno dell'era fascista, il boss di Reggio Calabria Antonio Oliva decise di pentirsi. Scrisse al Ministro di Grazia e Giustizia Arrigo Solmi e gli parlò di don Vincenzo Quattrone, parroco della chiesa di San Giovanni Battista a Pellaro (Reggio Calabria), per giudicare il quale, secondo il malavitoso, «ci vorrebbe un tribunale a disposizione per un anno, che dovrebbe lavorare senza interruzione».

Ben altro tribunale si è trovato ad affrontare, insieme ad alcuni trafficanti di droga legati alla 'ndrangheta, don Franco Mondellini, soprannominato «don Coca». Ospite del monastero benedettino di Torrechiara, che solo per una coincidenza era intitolato a Santa Maria della neve, fu arrestato a Bogotà. Nell'ottobre 1991 la polizia di frontiera gli trovò quasi quattro chili di cocaina nascosti in una statuetta di legno della Madonna del Rosario.

Ad Africo Nuovo, centro alle pendici dell'Aspromonte, ancora oggi, a distanza di 20 anni dalla sua morte, se qualcuno nomina don Giovanni Stilo scatena reazioni contrastanti: c'è chi si straccia le vesti per testimoniare la sua vita da santo e c'è chi distribuisce articoli di giornale e sentenze in cui viene descritto come un uomo vicino alle cosche. Negli anni Settanta finì sulla copertina di un opuscolo dal titolo evocativo Il mitra e l'aspersorio, nel quale lo accusavano di essere un capo mafioso. Fu arrestato nel 1984, in un albergo di Montecatini, in Toscana, dov'era in vacanza.

Dopo anni di processi la Cassazione stabilì che non era un mafioso. Al più aveva qualche frequentazione con boss di grosso calibro. Il suo nome è riemerso di recente in un delicatissimo processo di Reggio Calabria ribattezzato «Stato parallelo».

Un commissario della Dia, Giuseppe Gandolfo, ha ricordato che fu don Stilo, con una telefonata, a far tardare di due ore la partenza di un aereo sul quale doveva salire un collaboratore dei servizi segreti: Francesco Pazienza, poi accusato di depistaggio nel processo per la strage di Bologna. Ora l'Enac, l'Ente nazionale per l'aviazione civile, conferma che effettivamente il 23 novembre 1980 un volo da Reggio Calabria verso Roma partì con due ore di ritardo. A distanza di quasi 40 anni non è più possibile recuperare la lista dei passeggeri, ma questa conferma viene considerata un dettaglio non da poco.

A Rosarno, invece, nella chiesa Maria Santissima Addolorata, c'è un prete, don Carmelo Ascone, che in paese tutti chiamano don Memè, che viene indicato da Gratteri come il parroco dell'arringa, perché, «citato a deporre il 20 luglio 2012 al processo all'Inside si spese in una appassionata difesa di tre imputati accusati di associazione mafiosa». Disse letteralmente: «Francesco Pesce è un mio amico, Domenico Varra è un gran gentiluomo e Franco Rao è una brava persona». Il pubblico ministero, indignato, abbandonò l'aula.

Don Graziano Maccarone, segretario particolare del vescovo di Mileto, e Nicola De Luca da Tropea, invece, un anno fa si sono trovati a fronteggiare un'accusa pesantissima: tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso. Don Maccarone, stando alle ricostruzioni dell'accusa, avrebbe inviato messaggi a sfondo sessuale alla glia disabile di un debitore, per poi invitare la ragazza in un albergo, evocando altrimenti l'intervento del clan Mancuso. Entrambi sono stati difesi a spada tratta dalla Diocesi, che ritiene quelle accuse «false».

Le infiltrazioni delle «famiglie» catanesi tra le coop bresciane, invece, sono state confermate a Brescia, dove un mese fa è stato condannato in via definitiva a un anno di reclusione don Giuseppe Moscati, prete di Visano. Il sacerdote, agevolando i clan, aveva emesso false fatture con la sua società di produzioni musicali. Prima di finire nei guai faceva il cantautore. Ma occhio a non chiamarlo «cantante», che nel gergo della mala indica chi ha deciso di pentirsi. Lui al processo ha tenuto la bocca chiusa.

·         La Mafia dei Whistleblowers.

Morto dopo 13 anni di fumi tossici nella stamperia. La battaglia di Walter Morrone: “Da 31 anni lotto per mio padre avvelenato alla Consulta”. Giacomo Andreoli e Chiara Viti su Il Riformista il 19 Settembre 2020. Dopo 31 anni dalla morte del padre, Walter Morrone ancora non si arrende. «Mio padre, il carabiniere Antonio Morrone, è stato ucciso dai fumi tossici delle macchine alla stamperia della Corte Costituzionale a Roma» racconta a Il Riformista. La sua famiglia non vuole soldi dalla Consulta, ma “verità”: riconoscere finalmente la causa di servizio, per dimostrare che Morrone e i suoi colleghi sono morti di tumore per mancanza di sicurezza sul posto di lavoro. Per questo Walter si appella al nuovo presidente Mario Morelli, allora assistente di studio alla Corte. Antonio Morrone inizia a lavorare al centro stampa della Consulta nel 1976. «Quella stamperia era un inferno chimico – racconta il figlio- non c’erano cappe aspiranti e le sostanze usate per la manutenzione delle macchine erano altamente cancerogene. Lui e i suoi colleghi si andavano a lamentare perché dicevano di non riuscire a respirare».  Nell’89 Antonio si ammala: neoplasia all’intestino. È inoperabile e in pochi mesi si spegne. Oggi il centro fotoriproduzione e stampa della Consulta è all’avanguardia, ma secondo Antonio Morrone: «I veri miglioramenti li hanno fatti dopo che è morto mio padre. Ora il centro andrebbe dedicato a lui». Intanto nel 1990 la famiglia Morrone presenta la domanda per il riconoscimento della causa di servizio. Lavorando in autodichia è la stessa Corte a dover rispondere e non un Tribunale ordinario del Lavoro, ma fino al 1994 non succede nulla. A quel punto Walter racconta di essere andato dall’allora segretario generale Cesare Bronzini, che gli avrebbe parlato di un parere negativo del Comitato delle pensioni privilegiate presso la Corte dei Conti.

La famiglia Morrone decide allora di far fare una perizia: se ne occupa la dottoressa Caterina Offidani. La sua relazione, in linea con quello che poco prima aveva stabilito la Commissione ospedaliera della Cecchignola, parla di locali non a norma e di una malattia insorta per “le disagevoli condizioni ambientali in cui ha operato per 13 anni Antonio Morrone”. Per la Corte, però: il tumore del carabiniere non dipendeva dalle sostanze utilizzate (un’altra perizia parla di connessione “rarissima”), venivano fatte visite di controllo (smentite da Walter) e nella stanza c’era areazione, perché venivano aperte porta e finestra. Nell’iter penale che si apre viene chiesta una prima archiviazione, ma il giudice Otello Lupacchini la respinge, chiedendo di avviare un’indagine a 360° gradi per punire gli eventuali responsabili. Nel 2002, però, arriva l’archiviazione definitiva. La famiglia prova allora la strada del diritto civile, ma anche questa via non porta a nulla. Nel frattempo tra i colleghi di Antonio sono spuntati altri tumori che li hanno portati alla morte. Nel 2015, quindi, i Morrone presentano una nuova istanza alla Corte, con decine di documenti allegati, per chiedere di riaprire il caso. Sono ancora in attesa di una risposta. «Io sono molto arrabbiato per il fatto che non si è raggiunta la verità– ci spiega Walter- Oggi riconoscere la causa di servizio per mio padre significa riconoscerla anche per i colleghi che non ce l’hanno fatta. Io vado avanti, perché un figlio deve lottare per il proprio padre».

La storia. La lotta per la legalità di Nadia: “Minacciata dalla mafia, ignorata dalla giustizia: ora chiedo indagine sui pm”. Giacomo Andreoli su Il Riformista il 17 Settembre 2020. «Quella che ha Nadia è un’ampia documentazione. Adesso ci aspettiamo che parta un’indagine a 360° sulla Procura di Genova. Siamo convinti che lì sono celati segreti che possono scuotere tutta l’Italia, ben più di Mafia Capitale». Il presidente di Federcontribuenti, Marco Paccagnella, non ha dubbi. Da nove anni conosce e segue Nadia Gentilini, ex immobiliarista di Chiavari che venti anni fa fu incaricata dalla società dell’ex cantiere navale al porto cittadino di vendere decine di immobili che dovevano sorgere in quell’area. Un affare milionario, su cui avevano messo gli occhi la politica locale corrotta e probabilmente le ‘ndrine. Da allora è iniziato il suo “calvario”, raccontato nel libro-autobiografia “Annientata. La mia lotta per la legalità“, pubblicato nel 2018. In questi anni ha denunciato minacce di morte dirette per strada e sotto casa, telefonate e biglietti funebri, il furto della macchina, ritrovata vicino alla camera mortuaria dell’ospedale di Lavagna e sei coltelli sullo scooter, tutto riportato a polizia e carabinieri. Avvisaglie tipiche del metodo mafioso, in un’area come quella compresa tra Genova, Chiavari, Tiguglio e Lavagna (comune sciolto per mafia nel 2017) in cui dal 2000 diverse indagini e arresti, oltre che una sentenza della Corte di Cassazione e documenti della Commissione antimafia e della Direzione investigativa antimafia, hanno dimostrato la presenza della ‘ndrangheta. Tra gli interessi traffico di droga, armi e rifiuti, oltre alle operazioni immobiliari. Proprio grazie alla testimonianza di Nadia, nel 2012, vengono condannati in via definitiva, dopo un’inchiesta a Genova, l’ex sindaco di Chiavari Vittorio Agostino e suo figlio, l’architetto Alessandro, tra l’altro legati all’ex tesoriere della Lega Nord Francesco Belsito. Tentata concussione: sei e quattro anni di galera, perché, come è scritto nella sentenza a loro carico, «hanno escogitato un sistema per avere la completa gestione dell’affare dell’ex cantiere». Ma con il loro arresto le minacce a Nadia non si placano e nel frattempo l’immobiliarista perde, stranamente, quasi tutti i clienti. Non solo: il Comune di Chiavari avvia la trasformazione di una parte confinante con l’ex cantiere in albergo, soggetta a vincolo monumentale. L’operazione sottrae appeal al progetto affidato a Nadia, che non riesce a ripagare un prestito che le è stato fatto da Banca Sella: a quel punto scatta il pignoramento e lei deve chiudere la sua agenzia immobiliare. Nello stesso 2012 entra nel vivo il caso Belsito. Nadia, che riceve intanto il sostegno di Libera, riesce a farsi ascoltare per sei ore degli inquirenti del pm Henry John Woodcoock alla Procura di Napoli. Poi nel 2013 tutto passa alla Procura di Genova, dove la donna racconta che non si trovano più documenti e denunce che aveva depositato prima a Chiavari e poi a Napoli dal 2009. Le dicono di andare dal pm Piscitelli, che non trova, per questo si rivolge al procuratore capo Francesco Cozzi, lo stesso che ora indaga su Aspi per il crollo del Ponte Morandi e sui 49 milioni della Lega. Con lei c’è l’avvocato di Libera Valentina Sandroni, che racconta a Il Riformista: «Cozzi le disse che non aveva prove, ma noi avevamo indizi forti per avviare un’indagine». Quegli “indizi” non sono solo i documenti sul suo caso (studi edili, contratti, visure e documenti sul piano regolatore di Chiavari), ma anche denunce di cittadini e imprenditori che si dicono sotto tiro della criminalità e altre carte che parlano di operazioni anomale. Nadia, spaventata dalle minacce, scappa dalla Liguria. Nel 2016 la Procura di Genova archivia il suo caso (qualche anno prima lo stesso era successo alla Procura di Biella). Ci dice l’avvocato Sandroni: «Probabilmente per prescrizione, anche se non ci è stato comunicato. Noi abbiamo inviato negli anni diversi solleciti, senza risposta. Non sappiamo nemmeno se le indagini sono state avviate. Grave che Nadia non sia mai stata chiamata da un magistrato e che siano passati sette anni per una archiviazione, sono tanti». L’ex immobiliarista, però, non si arrende e tramite parlamentari di Pd e Movimento 5 Stelle arriva a depositare lo scorso giugno la sua memoria, con tutta la documentazione, alla Commissione antimafia. Il presidente Nicola Morra spiega a Il Riformista: «Quello che c’è stato riferito credo meriti un doveroso approfondimento, per tanti aspetti che non posso indicare. Sono questioni delicate e in buona parte sono state oggetto di secretazione». Poi aggiunge sulla Procura di Genova: «Dico soltanto che per combattere certe realtà bisogna studiare assai bene e a me sembra di capire che in tante parti del nostro Paese ancora manchi una sana, diffusa e profonda cultura e conoscenza di fenomeni mafiosi». Qualcosa di simile diceva nel 2016 a Il Secolo XIX il predecessore di Cozzi, Michele di Lecce: «Diversi giudici non sembrano comprendere come la ’ndrangheta esercita il suo potere. Non la vedono, non la sentono, la ignorano. Sembrano vivere su un altro pianeta. Il processo “Maglio 3”, alla malavita calabrese radicata a Genova si è concluso con una riga di assoluzioni. L’inchiesta “La Svolta”, sulle ’ndrine del Ponente, ha perso per strada il livello politico, prima che il Consiglio di Stato annullasse gli scioglimenti di Bordighera e Ventimiglia». Lo stesso Cozzi, inoltre, a gennaio di quest’anno lamentava a Genova carenza d’organico per magistrati e amministrativi, sostenendo che così «non è facile portare avanti inchieste importanti». Nel frattempo Nadia, che si sente sostanzialmente “ignorata” dalla giustizia ligure e che non ha mai ricevuto una scorta, ha paura di morire e per questo tiene un diario giorno per giorno. Ora si è candidata alle elezioni regionali in Liguria di domenica e lunedì prossimi con l’ex grillina Marika Cassimatis. «Voglio fare qualcosa per la Regione – sostiene – e per tutte le persone vittime della mafia. In Liguria c’è un muro incredibile, una protezione istituzionale che non fa emergere e risolvere le situazioni come la mia».

Il caso del colonnello messo da parte. Storia incredibile del colonnello dei carabinieri Zarbano, pagato per non fare nulla. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Settembre 2020. Nell’Arma dei carabinieri c’è un colonnello pagato per non fare nulla. Si chiama Luciano Zarbano, è originario della provincia di Siracusa e ha 57 anni. È in servizio alla Legione carabinieri di Genova senza alcun incarico. Le sue giornate da circa due anni sono tutte uguali: alle otto arriva in caserma, entra nel suo ufficio, accende il computer, e attende che la giornata trascorra. La sua è una storia incredibile. Zarbano è attualmente l’unico colonnello dell’Arma che ha ricoperto tutti i ruoli della scala gerarchica, da carabiniere ad ufficiale. Ma non solo. Pluridecorato, è stato in tutte le “organizzazioni” della Benemerita: territoriale, mobile, addestrativa. Per cinque anni ha svolto il delicato compito di capo sezione disciplina dell’Ufficio personale ufficiali del Comando generale. La sua brillante carriera si interrotta, quando era comandante provinciale di Imperia, a causa di un magistrato: l’allora procuratore della città ligure Giuseppa Geremia. Zarbano arriva ad Imperia a luglio del 2013. Il predecessore era stato allontanato dopo alcune “riserve” espresse nei suoi confronti dalla procuratrice. Passano solo pochi giorni e anche i rapporti fra Zarbano e Geremia diventano incandescenti. La dottoressa Geremia, ad esempio, indica al colonnello i nomi dei militari che secondo lei andrebbero puniti o trasferiti, chiede che le notizie di reato per i fatti più importanti vengano sottoposte alla sua attenzione prima del deposito, arriva perfino a dare ordini sul tipo di uniforme che i carabinieri devono utilizzare quando sono in servizio. «Fosse per me toglierei i carabinieri da Imperia, il loro apporto al contrasto alla criminalità non è così determinante», dichiara una volta a un collaboratore di Zarbano. Il colonnello tiene duro, non da corso alle richieste di Geremia, informa i superiori e il procuratore generale di Genova di quanto sta accadendo. Gli accertamenti svolti dal pg del capoluogo ligure sono trasmessi al ministro della Giustizia e al procuratore generale della Cassazione per l’avvio dell’azione disciplinare nei confronti della dottoressa Geremia. Al termine del procedimento, la procuratrice di Imperia non sarà confermata nell’incarico e verrà sanzionata dalla disciplinare del Csm. In parallelo, i comandanti di Zarbano fanno gli accertamenti di competenza e, nonostante fossero a conoscenza di quanto era successo, accusano il colonnello di “minore collaborazione” con il magistrato. II Comando generale avvia quindi le procedure per il trasferimento di Zarbano. In questa bagarre si innesta, tanto per non farsi mancare nulla, un bel procedimento penale. Anzi, due. Zarbano denuncia a Torino, competente per i reati commessi dai magistrati liguri, Geremia, e a Imperia iscrivono nel registro degli indagati il colonnello. L’accusa è surreale. Zarbano avrebbe aiutato il marito della procuratrice Geremia che, dopo l’ennesima infrazione al codice della strada, doveva subire il ritiro della patente. Il provvedimento era rimasto chiuso in un cassetto per essere notificato solo quanto i termini erano scaduti. Ad accusare Zarbano un suo dipendente, il maggiore David Egidi, che aveva dichiarato ai pm di «aver eseguito un ordine del suo diretto superiore». Versione sempre respinta dal colonnello che si era fatto interrogare due volte dai pm negando ogni coinvolgimento. Dopo un lungo ping pong fra i tribunali del Piemonte e della Liguria su chi dovesse procedere nei confronti di Zarbano, la procuratrice facente funzione di Imperia Grazia Pradella (attuale procuratrice di Piacenza che ha effettuato la maxi retata dei carabinieri della caserma Levante, ndr) si era astenuta, a maggio del 2018 con rito abbreviato il colonnello viene condannato ad un anno per abuso d’ufficio su richiesta del neo procuratore Alberto Lari. Ad aprile del 2019, su richiesta del pg Enrico Zucca, la Corte d’appello di Genova assolverà Zarbano perché il fatto non sussiste. Il colonnello, concluso il procedimento, ha presentato un esposto al Csm sui magistrati di Torino ed Imperia affinché faccia luce sul loro operato. Tutto risolto? Macché. Il Comando generale nel frattempo si è “dimenticato” di Zarbano. Il colonnello ha scritto più volte di poter tornare a lavorare e si è messo a rapporto dal comandante generale Giovanni Nistri quando è venuto a Genova per l’inaugurazione del ponte. Nulla da fare. Questa settimana, tramite i suoi legali Zarbano, ha presentato un nuova istanza al Comando generale ed ha giocato l’ultima carta, quella della segnalazione alla Corte dei Conti per danno erariale: il colonnello è a stipendio pieno per non fare nulla e il comandante generale non perde occasione per rimarcare la carenza di personale.

·         La Mafia del Riciclaggio Bancario Internazionale.

(ANSA il 22 settembre 2020) - L'ombra del riciclaggio torna a scuotere il settore bancario e in particolare quello della City con Hsbc e Standard Chartered, entrambe quotate ad Hong Kong che sono finite a minimi da 25 anni sulle indiscrezioni di un coinvolgimento per oltre vent''anni, in operazioni con fondi illeciti. A innescare il tutto un indagine dell'International Consortium of Investigative Journalists, la stessa rete di giornalisti che rivelò i Panama Papers e che ha citato documenti ufficiali, secondo cui in particolare Hsbc "ha tratto profitti da fondi illeciti negli ultimi due decenni". Sulla base dei documenti trapelati ottenuti da BuzzFeed News in alcuni casi le banche, riporta Bloomberg continuavano a spostare fondi illeciti nonostante l'avvertimento da parte dei funzionari statunitensi. I documenti hanno identificato più di 2000 miliardi di dollari di transazioni tra il 1999 e il 2017. Le forti multe ad Hsbc e Standard Chartered nel 2012 hanno aiutato stimolare le segnalazioni di attività sospette, spiega il rapporto dell'International Consortium of Investigative Journalists. Deutsche Bank, ad esempio ha rivelato 1,3 miliardi di dollari di soldi sospetti. Barclays è tra gli altri istituti ad aver segnalato attività sospette "Cerchiamo di lavorare attivamente con le forze dell'ordine su aree prioritarie e, nei casi a rischio più elevato, abbiamo limitato o abbandonato i clienti", sottolinea Standard Chartered in merito alle indiscrezione riportate dai media legate a segnalazioni di attività sospette depositate presso la U.S Financial Crimes Enforcement Network. "Presentiamo le segnalazioni quando le circostanze lo giustificano e ciò significa che i nostri sistemi di controllo e monitoraggio funzionano come previsto", aggiunge la banca indicando che "l'invio di una comunicazione di attività sospette non significa che ci sia stata un'attività criminale". "La realtà è che ci saranno sempre tentativi di riciclare il denaro e di eludere le sanzioni e la responsabilità delle banche è quella di costruire programmi di screening e di monitoraggio efficaci per proteggere il sistema finanziario globale" aggiunge Standard Chartered. L'istituto ha quasi 2.000 dipendenti in tutto il mondo che si dedicano alla prevenzione, all'individuazione e alla segnalazione di transazioni sospette. Lo scorso anno ha monitorato più di 1,2 miliardi transazioni per potenziali attività sospette. A pesare su Hsbc c'è anche il rischio che il governo cinese inserisca a la banca nella sua lista di "entità inaffidabili". Secondo il cinese Global Times questo esporrebbe Hsbc a sanzioni fino a includere il divieto di investire in Cina. Ad irritare Pechino sarebbe stata la partecipazione della banca all'indagine americana su Huawei.

(ANSA il 22 settembre 2020) - Forte calo in Borsa per Hsbc (-4,8%) e Standard Chartered (-5,1%) a Londra, dopo la pubblicazione da parte dell'International Consortium of Investigative Journalists, lo stesso che rivelò i Panama Paper, di documenti del Financial Crimes Enforcement Network del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti (FinCen) su transazioni sospette di denaro di società con sede in paradisi fiscali. Il sospetto sarebbe quello del riciclaggio e le due banche. Nell'elenco , secondo quanto si apprende, non risultano coinvolti istituti di credito italiani. A catena lo scossone colpisce tutto il settore bancario che cede in Borsa.

(di Marcella Merlo) (ANSAil 22 settembre 2020) - L'ombra riciclaggio investe le grandi banche globali. Un' inchiesta dell'International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) , lo stesso che fece deflagrare lo scandalo dei paradisi fiscali noto come Panama Papers, ha portato alla luce del sole, in collaborazione con BuzzFeed News, 2.100 segnalazioni di attività sospette alle autorità statunitensi effettuate tra il 1999 e il 2017: si tratta di circa 2.000 miliardi di dollari in transazioni segnalate come possibile riciclaggio di denaro o altre attività criminali. La marea di documenti coinvolge in 170 paesi i peggiori soggetti, da gruppo criminali a narcotrafficanti, da oligarchi a organizzazioni terroristiche. A essere coinvolte, per maggior numero di operazioni, sono i colossi del credito Deutsche Bank , Bank of New York Mellon, Standard Chartered, Jp Morgan e Hsbc e non manca seppur con importi più ridotti la francese Socgen mentre per valore delle attività è la banca tedesca a guadagnare il non invidiabile primato per l'ammontare di soldi sospetti. Nella lista delle banche, presenti in tutto il mondo, non compaiono istituti italiani. Ma questo non ha evitato che le vendite, partite dalla borsa di Hong Kong dove Hsbc ha perso il 5,2% per poi soffrire anche a Londra (-5,3%) si siano estesi su tutti i titoli bancari, compresi quelli quotati a Piazza Affari come Unicredit (-6,1%). Dai documenti sulle attività sospette depositate dalle stesse banche internazionali, molte della quali americane, alla divisione Financial Crimes Enforcement Network (FinCEN) del Dipartimento del Tesoro Usa, è emerso che in alcuni casi i gruppi bancari hanno continuato a spostare fondi illeciti nonostante le dure sanzioni comminate dagli Stati Uniti. Tra questi ci sono Hsbc, Standard Chartered (-6,1% alla Borsa di Hong Kong, -5,8% a Londra) e Bank of New York Mellon. Per quanto riguarda Hsbc in particolare il crollo sulla piazza asiatica è legato anche al rischio che il governo cinese stia per inserire la banca nella lista di 'entità inaffidabili' col rischio di sanzioni fino a includere il divieto di investire in Cina e il divieto al suo personale di entrare nel paese. "Cerchiamo di lavorare attivamente con le forze dell'ordine su aree prioritarie e, nei casi a rischio più elevato, abbiamo limitato o abbandonato i clienti", sottolinea invece Standard Chartered in merito alle indiscrezione riportate dai media legate a segnalazioni di attività sospette depositate presso la U.S Financial Crimes Enforcement Network. In Europa, dove alla fine l'indice Eutostoxx delle banche ha lasciato sul terreno il 5,4%, in un lunedi' nero per i listini legato all'espandersi del covid e dei lockdown estesi ad ampie zone dei Paesi, a partire dalla Francia, la peggiore è stata proprio la Socgen (-7,7%) nella piazza finanziaria di Parigi. Ma la chiusura in profondo rosso è per tutte le principali Borse europee. La peggiore è stata Francoforte (-4,37%) a 12.542 punti, seguita da Parigi (-3,74%) a 4.792 punti, Madrid (-3,43%) a 6.692 punti e Londra (-3,38%) a 5.804 punti. A risollevare il morale degli investitori non è bastato neanche l'intervento della presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde all'Assemblea parlamentare franco-tedesca. Le vendite hanno piegato nel corso della seduta, per poi farsi meno pesanti, anche Ing (-2,8%) dopo che un quotidiano polacco ha scritto di centinaia di milioni di dollari di denaro russo e ucraino riciclati attraverso Ing Bank Slaski e trasferiti in paradisi fiscali come Cipro almeno fino al 2016.

Documenti segreti svelano come gruppi criminali finanziano morte e terrore usando le più importanti banche mondiali. L’inchiesta collaborativa di BuzzFeed. Valigiablu.it il 22 Settembre 2020. Dal 1999 al 2017 circa duemila miliardi di dollari di transazioni sospette sono state consentite da alcune delle più grandi banche del mondo a gruppi criminali e terroristi, cartelli della droga, dittatori e oscure figure di potere. Questo è il contenuto dei file "FinCEN": oltre 2000 suspicious Activity Reports (SARs) e altri documenti riservati del governo degli Stati Uniti di cui BuzzFeed News è venuto in possesso nel 2019 e che ha condiviso con l'International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) e con più di 100 testate giornalistiche in 88 paesi. Un lavoro giornalistico collettivo portato avanti negli ultimi 16 mesi da circa 400 giornalisti in tutto il mondo che ha reso possibile l'analisi di questa mole di documenti formati principalmente da segnalazioni di attività sospette (che non sono prove di illeciti o crimini) inviate dalle banche al FinCEN (Financial Crimes Enforcement Network), l'ufficio del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti con il compito di contrastare il riciclaggio di denaro sporco nazionale e internazionale – e il racconto di importanti storie ad essi collegati. Un'analisi che ha richiesto migliaia di ore di immissione manuale dei dati, la creazione di specifici strumenti digitali per lavorare su questi documenti e l'utilizzo di  appositi software di verifica. Tramite la piattaforma di cooperazione dell'ICIJ, BuzzFeed News e le redazioni dei partner si sono divisi il materiale che è stato sottoposto a più cicli di convalida. Uno sforzo enorme che ha permesso di mappare più di 200 mila transazioni contenute nelle SAR. Le segnalazioni di attività sospette sono composte da due parti: una serie di tabelle di dati (in giallo nell'immagine) e una descrizione (in blu). Le tabelle, spiega BuzzFeed News, indicano la quantità di denaro sospetta e le date dell'attività, oltre a informazioni dettagliate sulle persone e le organizzazioni coinvolte. La seconda parte, invece, è un resoconto delle circostanze che hanno spinto la banca a presentare la segnalazione. Il quadro che emerge da questa inchiesta giornalistica, racconta ancora BuzzFeed News, rivela "la mancanza di consistenza delle salvaguardie bancarie e la facilità con cui i criminali le hanno sfruttate. Profitti da guerre mortali alla droga, fortune sottratte ai paesi in via di sviluppo e risparmi rubati tramite truffe sono stati tutti autorizzati a fluire dentro e fuori queste istituzioni finanziarie, nonostante gli avvertimenti dei dipendenti delle stesse banche". "Il riciclaggio di denaro – si legge ancora – è un crimine che ne rende possibili altri. Può accelerare la disuguaglianza economica, prosciugare i fondi pubblici, minare la democrazia e destabilizzare le nazioni – e le banche svolgono un ruolo chiave". Proprio i “FinCEN Files” mostrano che anche dopo essere state indagate o multate per cattiva condotta finanziaria, banche come JPMorgan Chase, HSBC, Standard Chartered, Deutsche Bank e Bank of New York Mellon hanno continuato a trasferire denaro sospetto. Come spiega la BBC, "le banche dovrebbero assicurarsi di non aiutare i clienti a riciclare denaro sporco o a spostarlo in modi illegali. Per legge, devono sapere chi sono i loro clienti: non è sufficiente presentare rapporti di attività sospette e continuare a prendere soldi sporchi aspettandosi che le autorità si occupino del problema". Tra le vicende divenute pubbliche, HSBC – uno dei più grandi gruppi bancari al mondo – ha consentito a truffatori di spostare milioni di dollari di denaro rubato in tutto il mondo, anche dopo aver appreso dagli investigatori statunitensi che il piano era una truffa. JP Morgan – una delle più grandi banche statunitensi – ha permesso a una società il trasferimento di più di 1 miliardo di dollari tramite un conto a Londra senza sapere a chi era intestato. Solo in un secondo momento la banca ha scoperto che il proprietario sarebbe stato un mafioso tra i più ricercati dall'FBI. Bank of America, Citibank, JPMorgan Chase, American Express e altri hanno trattato milioni di dollari in transazioni per la famiglia di Viktor Khrapunov, l'ex sindaco di Almaty in Kazakistan, anche dopo che l'Interpol avevo emesso un avviso internazionale per il suo arresto. Nei documenti in possesso dei giornalisti è emerso anche che uno dei più stretti collaboratori del presidente russo Vladimir Putin, tramite la Barclays Bank di Londra, è riuscito a evitare sanzioni che gli impedivano di utilizzare servizi finanziari in Occidente. Inoltre, la banca centrale degli Emirati Arabi Uniti non è riuscita a dare seguito agli avvertimenti su un'azienda locale che stava aiutando l'Iran a eludere le sanzioni. La Deutsche Bank – uno dei più grandi gruppi bancari mondiali – ha invece spostato somme di riciclatori di denaro sporco per la criminalità organizzata, terroristi e trafficanti di droga. Inoltre, per oltre dieci anni, Standard Chartered – società finanziaria internazionale – ha trasferito denaro per Arab Bank, dopo che i conti dei clienti presso la banca giordana erano stati utilizzati per finanziare il terrorismo. L'Espresso (che ha collaborato all'inchiesta collettiva) scrive che "nei FinCEN Files più delicati compaiono tutti i miliardari russi più vicini al presidente russo Vladimir Putin, come Arkady, Igor e Boris Rotenberg, collegati a operazioni di sospetto riciclaggio per miliardi di dollari, che loro smentiscono. Le carte americane mostrano che una parte di questi soldi è finita in Italia, per comprare ville da favola e alberghi di lusso". "Ma di altri bonifici milionari, finora sconosciuti, hanno beneficiato personaggi legati a Donald Trump, come Michal Flynn, l'ex ministro che si è dimesso per il Russiagate, Paul Manafort, primo stratega della campagna elettorale del 2016, poi condannato per frode fiscale, e altri uomini del presidente". Il settimanale d'inchiesta racconta anche che nelle carte "spuntano anche conti bancari italiani, che interessano soprattutto orafi di Arezzo, imprese petrolifere liguri e aziende lombarde di materiali ferrosi". In una nota dello scorso 1 settembre, il Financial Crimes Enforcement Network aveva dichiarato di essere "a conoscenza del fatto che vari media intendono pubblicare una serie di articoli basati su rapporti di attività sospette (SAR) divulgati illegalmente, nonché altri documenti governativi sensibili, risalenti a diversi anni fa. Come ha affermato in precedenza FinCEN, la divulgazione non autorizzata di SAR è un crimine che può avere un impatto sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, compromettere le indagini delle forze dell'ordine e minacciare la sicurezza e la sicurezza delle istituzioni e delle persone che presentano tali segnalazioni. La FinCEN ha deferito la questione al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e all'Ufficio dell'Ispettore Generale del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti". Robert Mazur, ex agente speciale federale ed esperto di riciclaggio di denaro, ha invece detto a BuzzFeed News che rendere pubblico questo materiale «potrebbe migliorare la sicurezza nazionale, aiutare le indagini future e incoraggiare le istituzioni ad aderire in modo più coerente ai requisiti di presentazione della SAR», e «si spera convinca le persone che sono in una posizione di potere a correggere un apparente fallimento di sistema». La scorsa settimana,  FinCEN ha annunciato una serie di proposte per rivedere i suoi programmi di anti riciclaggio. Molte delle banche citate nell'inchiesta non hanno rilasciato commenti. Atri istituti invece hanno riaffermato il loro impegno e l'integrità delle loro pratiche, racconta il Sole 24 Ore: "JP Morgan, che aveva firmato intese con il governo nel 2011, 2013 e 2014 per migliorare le proprie policy anti-riciclaggio, ha assicurato di avere adesso un “ruolo di leadership” e “innovativo” nell'indagare sul crimine finanziario e nel combatterlo. HSBC ha dichiarato come nel suo caso si tratterebbe di informazioni vecchie, precedenti al completamento e alla messa in pratica di accordi raggiunti nel 2012 con le authority americane per evitare incriminazioni legate alla finanza sporca in cambio di multe e riforme interne. Oggi 'HSBC è una istituzione molto più sicura', ha fatto sapere l'istituto". Ma, sottolinea BuzzFeed News, l'inchiesta svela una verità di fondo dell'era moderna: "Le reti attraverso le quali il denaro sporco attraversa il mondo sono diventate arterie vitali dell'economia globale. Rendono possibile un sistema finanziario ombra così ampio e così incontrollato da essere diventato un tutt'uno con la cosiddetta economia legittima. Le banche con nomi famosi hanno contribuito a renderlo tale". Negli ultimi anni, sono state diverse le inchieste giornalistiche collettive basate su documenti finanziari riservati e poi trapelati. Tre anni fa, nel 2017 i "Paradise Papers" hanno reso pubblici gli investimenti milionari in società offshore di importanti politici, sportivi, personaggi dello spettacolo, imprenditori, manager e anche reali. L'anno prima, i "Panama Papers" – inchiesta basata su 11,5 milioni di documenti forniti da una fonte anonima, provenienti dallo studio legale Mossack e Fonseca di Panama ritenuto una delle più grandi "fabbriche" al mondo di società offshore – hanno mostrato come persone benestanti usassero i regimi fiscali offshore a loro vantaggio. Nel 2015 "Swiss Leaks", tramite documenti della banca privata svizzera di HSBC, ha reso pubblico l'utilizzo delle leggi sul segreto bancario del paese da parte del gruppo bancario per aiutare clienti prestigiosi a evitare di pagare le tasse. Infine, nel 2014 l'inchiesta giornalistica "LuxLeaks" condotta da 80 giornalisti di 26 paesi ha mostrato come le grandi società utilizzassero segreti accordi fiscali in Lussemburgo per eludere miliardi di entrate tributarie.

Fincen Files, ecco i boss mondiali del riciclaggio: denaro sporco per duemila miliardi. Fiumi di soldi sospetti per gli oligarchi di Putin, uomini di Trump, amici di Erdogan, narcos sudamericani, dittatori africani. E per il banchiere kazako che fece tremare il governo italiano. Ecco la nuova inchiesta internazionale dell'Espresso con il consorzio Icij. Paolo Biondani e Leo Sisto il 20 settembre 2020 su L'Espresso. «Trasferimenti bancari sospetti» per cifre enormi: più di duemila miliardi di dollari. Fiumi di denaro sporco, incanalati da società offshore, fiduciari-prestanome e banche compiacenti, che hanno arricchito oligarchi russi amici di Putin, uomini di Trump, evasori europei, dittatori africani e asiatici, politici sudamericani, trafficanti di droga e armi, criminali di ogni risma. Con tesori nascosti nei paradisi fiscali, che ora portano anche in Italia. Mentre in tutto il mondo gli Stati nazionali perdono tasse e hanno sempre meno soldi per finanziare ospedali, scuole e servizi essenziali per i cittadini. Fincen Files è il nome in codice di una grande inchiesta giornalistica internazionale sulle centrali mondiali del riciclaggio di denaro sporco, che l'Espresso pubblica a partire da oggi in esclusiva per l'Italia. Si fonda su documenti riservati del Tesoro americano, ottenuti da BuzzFeed News e condivisi con il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij): oltre 2.100 rapporti elaborati dal Fincen (Financial crimes enforcement network), l’agenzia anti-riciclaggio degli Stati Uniti, dal 2000 al 2017. In codice si parla di Sar (Suspicious activity report): segnalazioni di attività sospette. In sedici mesi di lavoro, oltre 400 giornalisti di 88 nazioni hanno potuto analizzare bonifici sospetti per un totale di ben 2.099 miliardi di dollari. Un troncone dell'inchiesta riguarda Danske Bank, la banca danese al centro di uno scandalo di riciclaggio da oltre 200 miliardi di euro: qui è l'Espresso ad aver procurato i documenti al consorzio. Le cifre complessive dei Fincen Files sono impressionanti: solo Deutsche Bank ha gestito operazioni di sospetto riciclaggio per circa 1.300 miliardi di dollari. La banca tedesca è al primo posto per numero di segnalazioni, che riguardano soprattutto il decennio d'oro della finanza offshore, quando il colosso era guidato dallo svizzero Josef Ackermann, licenziato nel 2012 dopo svariati scandali. A seguire, nella classifica dei Fincen Files, compaiono Jp Morgan Chase (514 miliardi), Standard Chartered (166 miliardi), Bank of New York Mellon (64 miliardi) e decine di altri istituti con cifre minori. Nelle carte spuntano anche conti bancari italiani, che interessano soprattutto orafi di Arezzo, imprese petrolifere liguri e aziende lombarde di materiali ferrosi. Fincen Files è il nome dell'inchiesta giornalistica internazionale sulle centrali del riciclaggio di denaro sporco. Si fonda su documenti riservati del Tesoro americano, ottenuti da BuzzFeed News e condivisi con l'International consortium of investigative journalists (Icij): operazioni bancarie sospette analizzate da 110 testate di 88 paesi, tra cui L'Espresso, in esclusiva per l'Italia. Più di 400 giornalisti hanno lavorato per sedici mesi, indagando su oltre 2.100 rapporti elaborati dal Fincen (Financial crimes enforcement network), l'organismo anti-riciclaggio degli Stati Uniti. In codice si parla di Sar (Suspicious activity report): segnalazioni di attività sospette. Tutte le banche sono tenute a denunciare al Fincen i bonifici anomali. I file americani documentano operazioni sospette per più di duemila miliardi di dollari (per l'esattezza, 2.099), realizzate dal 2008 al 2017. Un troncone dell'inchiesta riguarda Danske Bank, la banca danese al centro di uno scandalo di riciclaggio da oltre 200 miliardi di euro: qui è L'Espresso ad aver procurato i documenti al consorzio. Nei Fincen Files più delicati compaiono tutti i miliardari russi più vicini al presidente Vladimir Putin, come Arkady, Igor e Boris Rotenberg, collegati a operazioni di sospetto riciclaggio per miliardi di dollari, che loro smentiscono. Le carte americane mostrano che una parte di questi soldi è finita in Italia, per comprare ville da favola e alberghi di lusso. Ma altri bonifici milionari, finora sconosciuti, hanno beneficiato personaggi legati a Donald Trump, come Michal Flynn, l'ex ministro che si è dimesso per il Russiagate, Paul Manafort, primo stratega della campagna elettorale del 2016, poi condannato per frode fiscale, e altri uomini del presidente. Tutte le persone menzionate negli articoli sono state informate in anticipo di quanto emerso e hanno avuto diritto di replica. Tra centinaia di affari scottanti, diverse storie interessano l'Italia. Come la scoperta di un tesoro nascosto nei paradisi fiscali dall'ex banchiere kazako Mukhtar Ablyazov, il marito di Alma Shalabayeva: la signora, presentata come moglie di «un dissidente», «perseguitato politico» dal corrotto regime asiatico, nel 2013 riuscì a far annullare la sua espulsione dall'Italia, che aveva scatenato un'ondata di polemiche contro la polizia italiana, l'allora ministro Angelino Alfano, l'Eni che lavora in Kazakhstan, l'intero governo presieduto da Enrico Letta. Ora i Fincen Files documentano che Ablyazov, già condannato in Kazakhstan per aver svuotato le casse della banca Bta, ma di fatto libero e rifugiato a Parigi, ha trasferito più di 600 milioni di dollari all'estero, utilizzando società offshore mai dichiarate. Decine di questi milioni sono stati reinvestiti negli Stati Uniti, attraverso un uomo d'affari americano che ha lavorato per decenni con Trump in grandi operazioni immobiliari. Venti giorni fa il consorzio ha inviato una lunga lista di domande a tutti gli interessati: da Ablyazov e da sua figlia Madina, per ora, nessuna risposta. I Fincen Files descrivono trasferimenti segreti di denaro che coinvolgono tutto il mondo e spesso rivelano verità inconfessabili. Traffici di armi da guerra tra Russia, Israele e Azerbaijan. Fedelissimi del presidente turco Erdogan che riciclano miliardi di dollari a favore dell'Iran. Politici ucraini che svuotano le casse di società minerarie statali, mentre i minatori muoiono a decine per crolli provocati da attrezzature fatiscenti. Droghe chimiche che fanno strage di giovani in Europa e Stati Uniti, mentre narcotrafficanti e spacciatori spostano soldi nei paradisi fiscali con un clic sul telefonino. Al centro dell'inchiesta c'è soprattutto il ruolo delle grandi banche internazionali. Ai quesiti aperti dall'inchiesta giornalistica, tutte rispondono di aver sempre rispettato sempre la legge. Anzi, precisano che sono proprio i loro organi di controllo a denunciare al Fincen i casi di riciclaggio. I documenti del Tesoro però illuminano anche il lato oscuro del sistema finanziario. Banche che lanciano l'allarme sui bonifici più anomali, ma non li fermano. O si svegliano con anni di ritardo, quando scoppia uno scandalo e i tesori sono ormai spariti. E colossi bancari costretti a risarcire centinaia di milioni, o miliardi, dopo aver ammesso di riciclato per anni soldi sporchi di mafiosi, terroristi, evasori e criminali di ogni tipo. Il riciclaggio di denaro sporco, secondo gli esperti consultati dal consorzio, potrà essere frenato solo mettendo al bando in tutto il mondo le cosiddette offshore: società di comodo che non pagano le tasse e permettono ai titolari di restare anonimi.

Fincen Files, il saccheggio del Venezuela: 4,8 miliardi portati all'estero dai clan del regime. Mentre il paese sudamericano è allo stremo, poche famiglie privilegiate hanno nascosto somme enormi nei paradisi fiscali: soldi usciti per il 70 per cento dalle casse statali. Ecco il nuovo capitolo dell'inchiesta internazionale dell'Espresso con il consorzio Icij. Paolo Biondani e Leo Sisto il 22 settembre 2020 su L'Espresso. Li chiamano «boligarchi», gli oligarchi del Venezuela. Sono l'élite del Paese, poche famiglie titolari di aziende private che da anni ottengono ricchissimi contratti pubblici dal governo di Caracas, prima con Hugo Chavez, poi con l'attuale presidente Nicolas Maduro. Sono definiti così, con questo soprannome, per ironizzare sui continui richiami dei due capi di Stato a Simon Bolivar, il «libertador», l'artefice dell’indipendenza del Venezuela e altre nazioni sudamericane. Oggi a Caracas la popolazione è allo stremo. In Venezuela scarseggiano cibo, medicine, elettricità, servizi essenziali: l'economia è al collasso, l'inflazione è fuori controllo, un terzo degli abitanti soffre la fame, cinque milioni di cittadini hanno già abbandonato il Paese. Ma chi sta in alto, come i boligarchi, mantiene i suoi privilegi e diventa sempre più ricco. Tanto da nascondere tesori colossali nei paradisi fiscali. Lo dimostrano i dati ora svelati dall'inchiesta Fincen Files: al 2009 al 2017, dal Venezuela sono usciti più di 4 miliardi e 800 milioni di dollari, portati all'estero con «operazioni bancarie sospette». Più di due terzi di questa fuga di capitali, per l'esattezza il 70 cento, riguarda fondi pubblici: soldi usciti da conti controllati dal ministero delle Finanze o dalla società petrolifera statale. Queste cifre emergono dall’analisi dei documenti bancari ottenuti da BuzzFeed News e condivisi con l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij) e, in esclusiva per l'Italia, con l’Espresso . Fincen è l'acronimo dell'agenzia anti-riciclaggio (Financial crimes enforcement network) del dipartimento del Tesoro statunitense. Le banche internazionali sono tenute va segnalare al Fincen tutte i bonifici che potrebbero nascondere casi di riciclaggio di denaro sporco. Per 16 mesi più di 400 giornalisti, appartenenti a 110 testate di 88 nazioni, hanno potuto esaminare «operazioni sospette» per più di duemila miliardi di dollari. E nelle carte delle banche sono comparsi anche i «boligarchi», gli imprenditori di regime, che continuano da anni a ottenere grossi appalti governativi, mentre il Venezuela sprofonda nel disastro economico e sociale. L'inchiesta del consorzio Icij racconta, in particolare, la storia segreta di Alejandro Jimenez Ceballos, il più famoso dei «boligarchi». Un magnate dell’edilizia, leader di un gruppo, Inversiones Alfamaq, fondato nel 1978 da sua madre, Maura Betty Jimenez, che in Venezuela è diventato una specie di asso pigliatutto: costruzione di scuole, impianti di depurazione delle acque, maxi-progetti di case popolari e decine di altri appalti, compresa la discussa ristrutturazione del palazzo dello sport, il Poliedro de Caracas. Ceballos non nasconde gli agganci aziendali con il governo federale e con le regioni (equiparate a stati). Anzi, se ne vanta, come ha fatto in un'intervista nel 2016: «Non c'è uno stato del Venezuela dove Alfamaq non abbia lavorato». Ora i Fincen Files mostrano che il gruppo di Ceballos ha trasferito centinaia di milioni di dollari all'estero, in gran segreto, attraverso società offshore intestate a fiduciari e prestanome. Tesori occultati nei paradisi fiscali, che vengono utilizzati anche per finanziare spese personali del boligarca e di suoi familiari. Già anni fa l'opposizione, che controllava il parlamento venezuelano poi esautorato, aveva accusato il gruppo privato di corruzione, denunciando contratti privilegiati per mezzo miliardo di dollari con un'industria statale di alluminio e oro, oltre a vendite sospette di terreni pubblici in una zona turistica definita «Acapulco Venezuela». Ceballos ha replicato parlando di «accuse senza fondamento», mosse da «sordidi interessi». E le denunce dell'opposizione non hanno avuto seguito. Ora i Fincen Files riaprono il caso Ceballos. Anche un'impresa italiana si è trovata invischiata, suo malgrado, nelle segnalazioni anti-riciclaggio che riguardano la famiglia venezuelana. Si tratta della Energy Coal di Genova, che si occupa di trading di carbone e petcoke, un sottoprodotto della lavorazione del petrolio. La vicenda si apre nel apre 2011, quando l'allora presidente Chavez annuncia un sogno, un piano per la costruzione di ben 2 milioni di case per i lavoratori e per le famiglie povere, chiamato “Gran mision vivienda”, lanciando uno slogan: «Il problema edilizio non può essere risolto dall’interno del sistema capitalistico. Stiamo per risolverlo con il socialismo. E con più socialismo». È proprio l'italiana Energy Coal ad aggiudicarsi il primo contratto da 126 milioni di dollari per la realizzazione di un lotto di 1.540 appartamenti a basso costo nella zona di San Francisco de Yare, una città cara a Chavez, conosciuta per il festival religioso dei “Diablos danzantes”: fedeli travestiti da demoni che ballano per le strade. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. E una successiva indagine dello stesso governo contesta i lavori, accusando l'azienda italiana di «non avere la capacità tecnica né l'esperienza» per realizzare un progetto del genere. L'Espresso ha contattato Energy Coal, per conto di tutto il consorzio Icij, per avere un chiarimento. Ricorda Paolo Ascheri, amministratore delegato della società genovese: «In quel periodo l’ente petrolifero statale venezuelano, Pdsva, si era trovato ad avere in eccesso gigantesche quantità di petcoke, che si stavano accumulando nei piazzali della raffineria senza essere smaltiti per tempo, a causa dei ritardi nelle operazioni di carico di quel materiale sulle navi. Con proteste dei clienti internazionali. Abbiamo allora proposto di venire incontro alle esigenze di Pdvsa, da una parte intervenendo per sistemare le sue esigenze di carico di coke, dall'altra chiedendo noi di incamerare quelle montagne di materiale ed essere pagati praticamente con una forma di baratto, senza che l'ente petrolifero statale sborsasse un dollaro, in un momento di scarsissima liquidità per Caracas. Un'intesa vantaggiosa per tutti. Poi, il 28 maggio 2014, quell’accordo, che prevedeva anche il completamento della “Mision vivienda”, è stato cancellato, senza alcuna spiegazione. La Pdsva ha girato il contratto a un'altra società, la Sarleaf, e noi siamo usciti di scena». In quei mesi esce di scena anche il presidente del Venezuela: Chavez muore nel marzo 2013, gli succede Nicolas Maduro. Ma negli affari pubblici cambia poco e niente. Come dimostra proprio il caso della Sarleaf Limited. I giornalisti sudamericani e i reporter di Icij hanno individuato alcuni professionisti svizzeri che hanno agito come fiduciari-prestanome, per occultare i veri titolari di quella società: la famiglia Ceballos. A documentarlo è una segnalazione anti-riciclaggio trasmessa al Fincen dal Banco Espirito Santo: l'istituto portoghese spiega chiaramente che quella offshore è stata creata «per ragioni di sicurezza», per «proteggere la famiglia Ceballos». Solo la banca di Lisbona, tra aprile 2013 e gennaio 2014, ha accreditato alla Sarleaf 146 milioni di dollari per conto della compagnia petrolifera statale. Fondi pubblici inseriti in un programma di lotta alla povertà denominato «Missione Che Guevara». Come scrive sempre la banca Espirito Santo, la Sarleaf Limited ha poi distribuito decine di milioni di dollari a società personali e conti bancari appartenenti ai Ceballos. Come maggiore beneficiario viene indicato Alejandro Andres Ceballos, figlio di Alejandro senior: 22 milioni finiti in un conto costituito per gestire «risparmi, investimenti e spese personali», più altri 22 girati a una società di Panama, che dichiara di fornire «servizi di import-export di prodotti per l’industria delle costruzioni». Il consorzio Icij ha offerto anche a Ceballos junior di replicare e commentare queste notizie, ma non ha ricevuto alcuna risposta. Il Banco Espirito Santo ha invece spiegato che alcuni di questi bonifici apparivano «in linea con gli obiettivi aziendali» (ad esempio, 24 milioni di dollari versati a Inversiones Alfamaq), mentre ha riconfermato i dubbi su almeno 6 milioni inviati dallo stesso istituto sui conti personali di membri della famiglia. Per i Ceballos, in totale, la banca intitolata allo Spirito Santo ha trasferito all'estero almeno 100 milioni di dollari. Mentre «la filiale di Miami, già sanzionata dal governo americano per aver aperto conti segreti per il dittatore cileno Augusto Pinochet», come sottolinea il consorzio, «ha trattato transazioni legate alla Sarleaf per oltre 262 milioni di dollari». Non a caso proprio quella banca, una delle maggiori del Portogallo, nel 2014 è stata salvata dallo Stato, costretto a intervenire per evitarne il fallimento, dopo un’indagine per riciclaggio. Alejandro Ceballos ha espresso al consorzio la sua «considerazione per i giornalisti, il loro coraggio, valore e senso dell’etica, purché il loro lavoro abbia rispetto per la verità». Ma per ora non ha risposto a nessuna domanda. Per lui la vita continua alla grande, tra la villa di Caracas e un appartamento con otto camere da letto a Miami, come hanno scoperto i giornalisti del consorzio: una casa di lusso in Florida, vicino a un ippodromo dove i suoi cavalli da corsa gareggiano ogni settimana con premi da decine di migliaia di dollari.

L’oro conteso del Venezuela. Andrea Walton su Inside Over il 7 ottobre 2020. La complessa battaglia giudiziaria per il possesso dell’oro venezuelano depositato nel Regno Unito si è arricchita di un nuovo capitolo. La Corte d’Appello di Londra ha annullato il verdetto emesso dall’Alta Corte inglese in favore dell’oppositore Juan Guaidò, che reclama il possesso del prezioso tesoro depositato presso la Banca d’Inghilterra. L’Alta Corte dovrà così pronunciarsi una seconda volta in merito al possesso dell’oro, reclamato tanto dall’amministrazione presidenziale di Nicolàs Maduro quanto dall’opposizione. Le trentuno tonnellate d’oro, che hanno un valore stimato di un miliardo di dollari, spetterebbero al governo venezuelano. Il problema è che Londra, insieme ad altri 50 Paesi, non riconosce l’amministrazione Maduro e ritiene che Juan Guaidò sia il legittimo Capo di Stato della nazione latinoamericana. Ne è nata una controversia giudiziaria dato che Caracas, in preda ad una gravissima crisi economica, ha bisogno dell’oro come merce di scambio per l’importazione di beni dall’estero e per fronteggiare la pandemia. 

Uno scenario complesso. La sentenza, seppur non definitiva, è una prima vittoria per l’esecutivo venezuelano. Il rischio è che le lungaggini giudiziarie si trascinino ancora per molto e che nel frattempo il sistema produttivo collassi. Secondo la Corte d’Appello non è chiaro se il governo britannico consideri Guaidò un leader a tutti gli effetti o se invece non siano riconosciuti i poteri presidenziali esercitati da Maduro, con cui sono state mantenute le relazioni diplomatiche. L’esecutivo di Boris Johnson dovrà chiarire le proprie posizioni e se rifiuterà di farlo sarà la Corte Commerciale britannica ad avere l’ultima parola in materia ed a determinare il futuro della crisi venezuelana. L’amministrazione Maduro gode del supporto delle Forze Armate e dell’appoggio di rilevanti partner internazionali, in primis Cina, Federazione Russa ed Iran, intenzionati a preservare uno degli ultimi bastioni anti-statunitensi in America Latina. L’opposizione, che in un primo momento sembrava poter avere la meglio, risente di alcune fratture interne, dell’incapacità di elaborare una strategia comune e non è riuscita ad avvantaggiarsi della vicinanza degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Le elezioni legislative del 6 dicembre 2020 sembrano invece destinate alla marginalità. Buona parte dell’opposizione potrebbe decidere di boicottarle ma ciò non sarà probabilmente sufficiente a dar luogo a manifestazioni popolari in grado di rovesciare l’esecutivo.

Un dramma senza via d’uscita. Il Venezuela deve fronteggiare molteplici problematiche legate alle diverse crisi che sta affrontando: da quella economica a quella sanitaria passando per la crisi politica e quella della sicurezza. Molti altri cittadini si uniranno, nei prossimi mesi, ai cinque milioni di rifugiati che hanno già abbandonato il Paese per trovare rifugio in America Latina e negli Stati Uniti. Le sanzioni americane sono riuscite a ridurre drasticamente i proventi petroliferi di Caracas, la cui produzione era calata, nel giugno del 2020, ad appena 379mila barili al giorno contro gli oltre tre milioni al giorno del passato. Il crollo del prezzo del petrolio determinato dalla crisi energetica mondiale ha ridotto ulteriormente le entrate del Venezuela, che può contare su ingenti risorse e nel Paese ormai scarseggia anche il gasolio, vitale per garantire l’operatività delle forze armate e la distribuzione del cibo. Sullo sfondo c’è, poi, l’emergenza sanitaria scatenata dal Covid-19. La nazione è priva di strutture ospedaliere efficienti e degli strumenti sanitari necessari ad arginare l’avanzata del morbo. La diffusione del virus SARS-CoV-2 potrebbe risultare, in questo contesto, ancora più letale che altrove e determinare esiti drammatici. Il Paese rischia di trasformarsi in una sorta di mina vagante e fuori controllo in grado di scoraggiare persino l’opposizione di Juan Guaidò dal voler assumere il potere. Solamente un deciso intervento della comunità internazionale, nello specifico delle Nazioni Unite, potrebbe riportare una certa stabilità dalle parti di Caracas ma le vicende mondiali hanno relegato il Venezuela ai margini delle agende politiche.

Mafia e riciclaggio all'ombra di Donald Trump. I boss di Cosa Nostra. Gli affari col presidente Usa. I miliardi rubati in Kazakhstan. E il caso Shalabayeva in Italia. Ecco la storia segreta di mister Felix, l'uomo di Donald a Mosca. Con una pista da un milione di dollari che porta in Lombardia. Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 02 novembre 2020. Quasi un milione di dollari. Versati da un socio d’affari di Donald Trump. E incassati da un’azienda lombarda d’abbigliamento. Un anno prima della sua rovinosa chiusura per un fallimento misterioso. Un thriller finanziario tra Italia, Stati Uniti, Kazakhstan e Svizzera, che ha per protagonista un uomo d’affari, Felix Sater, che conosce molti segreti dell’attuale presidente americano. Tra rapporti con la mafia, Russiagate e progetti immobiliari in odore di riciclaggio. L’Espresso ha raccontato per la prima volta il lato oscuro di Sater il 27 settembre con i Fincen Files, nome in codice dell’inchiesta giornalistica internazionale sulle centrali del riciclaggio di denaro sporco.

Da Vladimir Putin a Donald Trump, da Erdogan all'Iran: i tesori segreti dei clan dei presidenti. Oligarchi che pagano i migliori amici dello zar Vladimir. Manager del presidente americano che investono soldi rubati da un banchiere kazako. Imprenditori turchi di regime che ripuliscono miliardi per Teheran. L'inchiesta globale di 400 giornalisti svela i segreti del riciclaggio per i potenti. Paolo Biondani e Leo Sisti il 20 settembre 2020. In Italia il suo caso, sette anni fa, scatenò un’ondata d’indignazione: la moglie di «un dissidente», Alma Shalabayeva, espulsa a forza dall’Italia, caricata in aereo con la sua bambina e consegnata al regime del Kazakhstan per colpire il marito, l’ex banchiere Mukhtar Ablyazov, «perseguitato politico» da una dittatura corrotta. Parlamentari, avvocati, giornalisti, opinionisti hanno attaccato per giorni la polizia italiana, l’allora ministro Angelino Alfano, l’Eni che fa affari in Kazakhstan, l’intero governo di Enrico Letta, riuscendo a far tornare la signora in Italia. Un clamore mai visto per le masse di immigrati poverissimi, in fuga da guerre, terrorismo, fame e carestie, che vengono espulsi a migliaia dall’Italia, dove i politici più scaltri vincono le elezioni promettendo espulsioni. Venti giorni fa il signor Ablyazov e sua figlia Madina si sono visti recapitare una lista di domande dal consorzio internazionale Icij, a nome dell’Espresso e di oltre 400 giornalisti di 88 paesi, impegnati in questa inchiesta collettiva sulle centrali mondiali del riciclaggio di denaro sporco. Il testo si apre con queste parole: «La nostra indagine si basa sulle “segnalazioni di operazioni sospette” inviate dalle banche al Tesoro americano. Abbiamo scoperto che dal 2008 al 2016 centinaia di società offshore controllate da lei, Mukhtar Ablyazov, e da suoi familiari, hanno spostato più di 666 milioni di dollari. In passato lei ha respinto l’accusa di aver defraudato una delle maggiori banche del Kazakhstan, Bta, e di aver nascosto i soldi all’estero usando società di comodo. Come spiega il fatto che le banche americane riportano di aver movimentato milioni di dollari per queste offshore possedute da lei e da suoi familiari?». Dall’ex banchiere «perseguitato», per ora, nessuna risposta.

L’ordine dell’oligarca di Mosca: distruggete quella ditta italiana. Dietro un furto di brevetti emerge una manovra per mandare in fallimento un’azienda toscana. Con documenti che chiamano in causa Igor Rotenberg, il miliardario del cerchio magico di Putin. Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 14 ottobre 2020. Fino a tre anni fa era una ditta gioiello: una piccola azienda italiana capace di creare prodotti innovativi e aggiudicarsi contratti in mezzo mondo con clienti ricchi ed esigenti. Oggi è in stato di fallimento e i suoi dodici dipedenti hanno perso il lavoro. Ma non per colpe proprie. Un'indagine giudiziaria della Procura di Firenze fa sospettare che quell'impresa sia stata vittima di una manovra orchestrata da Mosca. Con documenti che chiamano in causa personalmente uno dei più potenti oligarchi russi. Un amico di famiglia del presidente Vladimir Putin. Un miliardario che in Russia è considerato intoccabile. La ditta al centro del caso si chiama Eggzero e lavora nella domotica: tecnologie e sistemi informatici per case o yacht. Il suo fondatore è un ingegnere toscano, Nicola Tinucci, creatore di brevetti che hanno consentito all'azienda di famiglia, gestita dalla moglie Alessandra, di ottenere commesse con sceicchi arabi e oligarchi russi come Igor Rotenberg. Otto anni fa Eggzero gli ha ristrutturato la residenza di Mosca e poi ha firmato un grosso contratto per la sua lussuosa villa in Toscana, all'Argentario, con piscine, eliporto e 220 ettari di oliveto. I guai cominciano con l'affare successivo, che riguarda la seconda proprietà italiana del miliardario di Mosca: una villa nella pineta di Roccamare, sulla spiaggia di Castiglione della Pescaia. La ristrutturazione è costosissima, la ditta italiana anticipa tute le spese fidandosi di quel ricchissimo cliente, ma all'improvviso i pagamenti si fermano. Eggzero continua a lavorare per mesi, a tempo pieno, solo per quella megavilla dei Rotenberg. Ma da Mosca non arriva più un soldo. E dopo una serie di lettere e diffide tra avvocati, la ditta toscana scopre di essere stata sostituita da un'azienda concorrente, fondata da un ex tecnico di Eggzero.

La villa di Igor Rotenberg a Castiglion della Pescaia. A quel punto parte una denuncia alla procura di Firenze. In queste settimane il pm Ester Nocera ha chiuso le indagini e chiesto il rinvio a giudizio dei tre responsabili italiani dell'azienda concorrente, accusati di truffa e sottrazione di brevetto. Cioè di aver scippato l'affare a Eggzero, utilizzando le tecnologie brevettate dall'ingegner Tinucci. Gli indagati respingono le accuse, che verranno discusse all'udienza preliminare fissata nei prossimi giorni. Finora, il caso sembrava risolversi in una storia di concorrenza sleale tra imprese italiane. Nelle carte dell'indagine, però, l'avvocato Andrea Orabona, che assiste i titolari di Eggzero, ha scoperto una serie di email molto compromettenti. Sono messaggi scritti in russo dalle due più fidate collaboratrici di Igor Rotenberg. Che chiamano in causa lo stesso oligarca: dalle carte risulta che è lui a prendere tutte le decisioni su Eggzero e a ricevere in prima persona le email più delicate. Dal quartier generale di Mosca, in particolare, la sua manager Jana ordina alla collega Natia, che vive in Italia ed è responsabile della villa di Roccamare, di notificare a Eggzero che c'è stato «un guasto», ma avverte che Tinucci e la moglie «non devono sapere che qualcuno ha tentato di aprire il sistema informatico (nello specifico che un'altra azienda si sia collegata)». La dirigente russa è consapevole che il guasto non dipende dalla ditta italiana: «Tecnicamente è colpa nostra, sono state fatte entrare altre persone, il sistema è stato aperto... Li abbiamo scaricati, abbiamo trovato un'altra persona che chissà cosa ha fatto e quando tutto è andato in tilt ci siamo ricordati che esisteva Eggzero». Quindi Natia scrive a un avvocato russo che lavora in Italia. E gli comunica la decisione di I.A. (Igor Arkadyevich) Rotenberg: «Ho parlato con lui, I.A. vuole prendere la posizione più dura possibile su Roccamare». La risposta del legale arriva il giorno stesso: «Tutto chiaro, siamo pronti a partire. Stiamo valutando la possibilità di procedere direttamente a una denuncia di bancarotta nei confronti di Eggzero O di giocare sulla bancarotta per ottenere i materiali di Tinucci». Igor Rotenberg è inserito dal 2018 nella lista nera degli oligarchi sanzionati dagli Stati Uniti dopo l'annessione russa della Crimea. Il padre, Arkady, è uno degli intimi di Putin. E con la sua famiglia ha accumulato miliardi acquistando società statali privatizzate. Lo stesso Arkady guida l'elenco degli oligarchi sanzionati già dal 2014, sia dagli Usa che dalla Ue, come presunto finanziatore delle milizie filo-russe nella guerra civile in Ucraina. Igor Rotenberg ha acquistato le sue proprietà italiane attraverso una piramide di società estere che fa capo a una offshore delle Isole Vergini Britanniche. A svelare che la tenuta dell'Argentario era di sua proprietà fu un'inchiesta giornalistica pubblicata nel 2014 da due testate russe d'opposizione: Novaya Gazeta e il blog di Aleksej Navalny, l'attivista anti-corruzione avvelenato due mesi fa in Russia e quindi ricoverato in Germania. In queste settimane l'Espresso, con l'inchiesta Fincen Files (coordinata dal consorzio Icij), ha documentato che lo stesso oligarca controlla anche la villa di Roccamare, insieme ad altre proprietà italiane, attraverso una rete di società offshore che sono al centro di segnalazioni anti-riciclaggio per centinaia di milioni di dollari. Anche il padre Arkady e suo fratello Boris controllano segretamente decine di società-schermo che hanno gestito operazioni sospette per miliardi di dollari. Finora nessun esponente della famiglia Rotenberg è mai stato coinvolto in indagini di procure italiane. Il caso Eggzero, dunque, rischia di diventare la classica buccia di banana su cui potrebbe per la prima volta scivolare l'oligarca più potente di Mosca. L'Espresso, attraverso il consorzio Icij, ha spedito una serie di domande a Igor, Arkady e Boris Rotenberg, che hanno risposto escludendo qualsiasi irregolarità, ma senza entrare nel merito delle singole operazioni denunciate dalla banche internazionali all'agenzia americana anti-riciclaggio. Trasferimenti sospetti di denaro che riguardano anche l'Italia.

L'ex banchiere kazako Mukhtar Ablyazov. Il caso Ablyazov è uno dei tanti capitoli della nuova inchiesta del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij), famoso per i Panama Papers , che ha organizzato l’analisi informatica di una montagna di documenti riservati del Tesoro americano, ottenuti dai cronisti di BuzzFeed News. Nome in codice: Fincen files. Sono le denunce raccolte dalle autorità statunitensi chiamate a scoprire casi di riciclaggio, occultamento e reinvestimento di enormi masse di denaro sporco, accumulate in tutto il mondo con traffici di droga e armi, reati di mafia, corruzioni, evasioni fiscali, frodi finanziarie, saccheggio di fondi pubblici e altri crimini. Sono carte scottanti, perché a evidenziare i bonifici sospetti sono le stesse banche che muovono i soldi dei clienti. In sedici mesi di lavoro, i giornalisti di 110 testate di tutti i continenti, tra cui L’Espresso per l’Italia, hanno potuto analizzare trasferimenti sospetti per cifre colossali: oltre duemila miliardi di dollari. Fiumi di denaro riversati in società di comodo, senza uffici né dipendenti, con sede in una casella postale di un paradiso fiscale. Tesori di azionisti anonimi. Prestanome di paesi poveri che per pochi dollari firmano carte per centinaia di offshore, che coprono dittatori, politici, banchieri, evasori, mafiosi e delinquenti di ogni risma. I Fincen Files non sono documenti rubati o sottratti da pirati informatici: BuzzFeed News li ha avuti da diverse fonti istituzionali (mai nominate), impressionate dalla gravità dei casi di riciclaggio e indignate per la scarsità di indagini, l’impunità di tanti ricchi malfattori e i profitti delle banche che li aiutano. Le tesorerie offshore avvantaggiano i potenti, ma a pagare il conto dei reati economici sono i comuni cittadini. L’inchiesta del consorzio riguarda centinaia di casi drammatici. Società minerarie ucraine depredate da cricche di politici, mentre i minatori morivano a decine, sepolti da crolli causati da attrezzature fatiscenti. Nazioni africane, asiatiche e sudamericane saccheggiate da governanti che da anni accumulano miliardi all’estero. Droghe chimiche come il Fentanyl, più potenti dell’eroina, che fanno strage di giovani negli Usa e in altri Paesi, mentre narcotrafficanti e spacciatori spostano soldi nei paradisi fiscali con un clic sul telefonino. Una parte delle segnalazioni anti-riciclaggio (in gergo Sar, Suspicious activity report) sono state trasmesse dall’agenzia statale Fincen alla commissione parlamentare che ha indagato sul Russiagate, lo scandalo delle interferenze russe nelle elezioni americane vinte da Donald Trump. Questo spiega la presenza di tutto il cerchio magico di Vladimir Putin: i miliardari che dominano Mosca . Ma altri documenti arrivano da indagini giudiziarie o fascicoli amministrativi. Il sistema offshore è globale: coinvolge tutti i paesi del mondo. E così, passando da un affare scottante all’altro, dai Sar alle carte di Panama, emergono i segreti di centinaia di potenti: dal Venezuela ai Caraibi, dalla Turchia alla Siria, dalla Gran Bretagna a Israele, dall’Africa ai Paesi Arabi. E si arriva anche ai fedelissimi di Trump. C’è l’immancabile imprenditore repubblicano Paul Manafort, stratega della trionfale campagna elettorale del 2016, già condannato per frode fiscale (soldi in nero dall’ex presidente filo-russo dell’Ucraina) e ora al centro di nuovi accrediti milionari, mai emersi prima, incassati quando era già indagato. Il generale Michael Flynn, ex Consigliere per la sicurezza nazionale, spinto alle dimissioni dal Russiagate. E altri uomini del presidente. Che usano le stesse tecniche e in qualche caso le stesse centrali di riciclaggio dei miliardari dell’ex Urss. Anche nel caso Ablyazov, una cospicua parte dei fondi neri attribuiti all’ex banchiere kazako risulta gestita da un uomo d’affari legato da decenni al presidente americano. Un manager sconosciuto ai più, che ha amministrato grandissimi affari immobiliari per l’imprenditore poi asceso alla Casa Bianca. Un fiduciario che ha trattato anche il famoso progetto della Trump Tower di Mosca, durante la campagna del 2016, poi saltato tra mille polemiche: la storia completa, con tutti i particolari, verrà raccontata nelle prossime ore dai cronisti di Buzzfeed News che hanno trovato i documenti. Oggi, in Kazakhstan, Ablyazov rischia vent’anni di galera, ma risulta condannato anche a Londra, nel 2012, proprio per aver nascosto le sue proprietà milionarie: alla vigilia del verdetto inglese, è fuggito in Francia, dove nel 2016, dopo tre anni di cella, ha ottenuto lo status di rifugiato. In Italia non risulta che siano mai state aperte indagini sulle sue tesorerie offshore, anche se almeno 100 mila dollari sono approdati all’Unicredit di Milano. In compenso un magistrato di Perugia, su denuncia della signora Shalabayeva, ha incriminato tutti i funzionari che hanno gestito la sua espulsione, giudicata illegale. Sotto processo penale, con l’accusa di «sequestro di persona», c’è pure il dirigente della polizia Renato Cortese, passato alla storia dell’antimafia per l’arresto di Bernardo Provenzano, il «reggente» di Cosa Nostra, dopo 40 anni di latitanza. Al centro dell’inchiesta Fincen Files c’è il ruolo delle grandi banche internazionali. Alle domande del consorzio, tutte rispondono di aver sempre rispettato la legge: anzi, sono proprio i loro organi di controllo a far emergere i casi di riciclaggio. Le segnalazioni, inoltre, non sono sentenze o avvisi di reato: evidenziano affari da chiarire, che molte società regolari possono comprovare con fatture e contratti. I documenti del Tesoro però illuminano anche il lato oscuro del sistema finanziario. Il problema riguarda soprattutto le offshore: società esotiche che non pagano le tasse e permettono agli azionisti di restare anonimi. I files mostrano che in moltissimi casi le grandi banche indicano i versamenti più anomali, ma non li fermano. O si svegliano con anni di ritardo, quando scoppia uno scandalo e i tesori sono ormai spariti. Alcuni istituti aiutano clienti già inquisiti nonostante avvisi e diffide delle autorità. La scoperta più grave è che le grandi banche internazionali continuano a maneggiare denaro a rischio perfino dopo aver subito multe per centinaia di milioni, o per miliardi. Il gigante Hsbc, nel 2012, ha ammesso di aver riciclato «almeno 881 milioni di dollari» per i cartelli della droga sudamericani. E ha patteggiato una maxi-multa da 1,9 miliardi, impegnandosi a cambiare vita, con cinque anni di vigilanza del ministero della giustizia americano. Che nel 2017 ha riabilitato l’istituto. L’inchiesta del consorzio mostra però che Hsbc ha continuato anche in quel quinquennio a smistare fondi per anonime società offshore, riconducibili a riciclatori russi, truffatori americani ed evasori europei. Interpellato dal consorzio, il gruppo bancario ha parlato di accuse «datate e superate», rivendicando le contromisure anti-riciclaggio approvate dall’amministrazione Trump. Le cifre complessive dei Fincen Files sono impressionanti: solo Deutsche Bank ha gestito operazioni sospette per circa 1.300 miliardi di dollari. La banca tedesca è al primo posto per numero di segnalazioni, che riguardano soprattutto il passato: il decennio d’oro della finanza offshore, quando il colosso era guidato dallo svizzero Josef Ackermann, licenziato nel 2012 dopo svariati scandali. A seguire, nella classifica dei Fincen files, compaiono Jp Morgan Chase (514 miliardi), Standard Chartered (166 miliardi), Bank of New York Mellon (64 miliardi) e decine di altri istituti con cifre minori. Anche queste quattro super-banche hanno subito, in passato, pesanti sanzioni per gravi e ripetuti casi di riciclaggio. Nei Sar spuntano anche conti bancari italiani, ma per singole operazioni inferiori a centomila euro, che riguardano soprattutto orafi di Arezzo, imprese petrolifere liguri e aziende lombarde di materiali ferrosi. Fincen Files è il nome dell'inchiesta giornalistica internazionale sulle centrali del riciclaggio di denaro sporco. Si fonda su documenti riservati del Tesoro americano, ottenuti da BuzzFeed News e condivisi con l'International consortium of investigative journalists (Icij): operazioni bancarie sospette analizzate da 110 testate di 88 paesi, tra cui L'Espresso, in esclusiva per l'Italia. Più di 400 giornalisti hanno lavorato per sedici mesi, indagando su oltre 2.100 rapporti elaborati dal Fincen (Financial crimes enforcement network), l'organismo anti-riciclaggio degli Stati Uniti. In codice si parla di Sar (Suspicious activity report): segnalazioni di attività sospette. Tutte le banche sono tenute a denunciare al Fincen i bonifici anomali. I file americani documentano operazioni sospette per più di duemila miliardi di dollari (per l'esattezza, 2.099), realizzate dal 2008 al 2017. Un troncone dell'inchiesta riguarda Danske Bank, la banca danese al centro di uno scandalo di riciclaggio da oltre 200 miliardi di euro: qui è L'Espresso ad aver procurato i documenti al consorzio. Tra i casi più colossali spicca lo scandalo di Danske Bank, la prima banca danese, sotto accusa per un maxi-riciclaggio da oltre 200 miliardi di euro: un fiume di denaro incanalato dalle filiali in Estonia e Lituania, che avevano soprattutto clienti russi. L’Espresso ha fornito al consorzio una serie di documenti che spiegano gli addebiti di corruzione ora rivolti ai banchieri, dopo che uno di loro si è ucciso in circostanze misteriose. Negli interrogatori, i magistrati estoni chiedono agli altri funzionari di giustificare acquisti di gioielli costosi, auto di lusso, versamenti in contanti da mezzo milione di euro al colpo. Da dove arrivano i soldi? Riposta: «Non ricordo». Gli estratti conto, per giunta, mostrano che l’affaire di Danske Bank è intrecciato con altri disastri finanziari. Come i fallimenti delle banche moldave, che i giornalisti di Occrp (il network di cui faceva parte il giornalista Jan Kuciak, ucciso con la fidanzata nel 2018 in Slovacchia) hanno per primi connesso alle offshore create da banchieri, politici e affaristi russi. Le sedi baltiche del colosso danese, negli anni delle tangenti e commissioni d’oro, funzionavano anche come motore della cosiddetta «lavatrice azera» (Azerbaijani Laundromat): cinque società offshore che hanno smistato 3,5 miliardi di euro in tre anni. Metà del tesoro, distribuito a una costellazione di anonimi beneficiari, è uscito dalle casse di una banca statale dell’Azerbaijan, Iba, che nel maggio 2017 ha dovuto dichiarare fallimento. Mentre milioni di dollari, euro e rubli arricchivano ministri azeri, loro familiari e dirigenti della Socar, l’azienda statale del petrolio e del gas, destinato anche all’Italia con il nuovo super-gasdotto Tanap-Tap. Le stesse offshore sono state utilizzate dal regime azero per versare più di 25 milioni di euro a lobbisti americani e politici europei, tra cui l’ex europarlamentare ciellino Luca Volontè, che ha intascato 2 milioni e 390 mila euro per consulenze a suo dire lecite: ora però è sotto processo a Milano per corruzione. Le nuove carte svelano molti altri giri di denaro, finora segreti, decisamente più pericolosi: le offshore della «lavatrice azera» hanno incassato oltre 150 milioni di dollari da produttori israeliani e fornitori russi di armi da guerra.

Reza Zarrab. Un altro intrigo di portata mondiale ha un nome in codice: gold for gas. Un miliardario turco-azero di origine iraniana, Reza Zarrab, ha aiutato per anni l’Iran ad aggirare le sanzioni internazionali decise per fermare le sue velleità atomiche. Un sistema fondato su un doppio contrabbando: l’Iran vende gas in cambio di oro e preziosi, con triangolazioni per miliardi manovrate da Zarrab. Prima dello scandalo, in Turchia lui era una celebrità, con fortissimi agganci nel governo e nella famiglia presidenziale. «Gold for gas» esplode a sorpresa nel dicembre 2013: il re Mida di Istanbul viene arrestato. E quattro ministri si dimettono. I giornali d’opposizione rivelano che la procura turca ha intercettato anche telefonate compromettenti di Erdogan in persona. Il presidente islamista grida al complotto, parla di «intercettazioni false», di «golpe giudiziario» ordito dal suo ex alleato Fetullah Gülen. A quel punto gli inquirenti diventano inquisiti: centinaia di procuratori, giudici e poliziotti finiscono in carcere. L’inchiesta si ferma. E Zarrab torna libero già nel febbraio 2014. Nel 2016, però, viene riarrestato negli Stati Uniti. Dove pochi mesi dopo confessa non solo di aver orchestrato davvero lo scandalo dell’oro all’Iran, ma anche corrotto diversi funzionari e quattro ministri turchi. E ammette di aver aiutato Teheran a incamerare, in totale, 13 miliardi di dollari. Dopo l’elezione di Trump, il vento cambia anche negli Usa. Rudolph Giuliani, l’avvocato del presidente, difende anche Zarrab. E il Washington Post rivela che l’ex procuratore ha chiesto all’allora segretario di Stato, Rex Tillerson, di fare pressioni per chiudere l’istruttoria sul mega-riciclatore. Ma l’inchiesta continua. E nel 2019 coinvolge anche la banca turca Halkbank. Nel suo libro, l’ex ministro repubblicano John Bolton scrive che Erdogan sarebbe intervenuto personalmente su Trump, in difesa della banca. E il presidente americano gli avrebbe promesso di interessarsi, avvertendolo però che il caso, purtroppo, era seguito da procuratori legati a Obama.

Il generale Michael Flynn. Le carte di BuzzFeed News scoperchiano molti altri retroscena di questo intrigo. Come i soldi incassati da Flynn e dall’avvocato Michael Cohen, il legale di Trump che pagava le pornostar, ora in rotta col presidente: milioni di dollari per fare lobby a favore del governo turco. Ma è lo stesso Zarrab che sembra ancora custodire segreti inconfessabili. I giornalisti di Occrp hanno identificato una serie di offshore che hanno incassato centinaia di milioni mai dichiarati nei suoi interrogatori. E con la stessa rete di «gold for gas» avrebbero ripulito soldi anche società russe: un’accusa che Zarrab aveva smentito. E che potrebbe aprire un nuovo capitolo del Russiagate. I giornalisti del consorzio hanno contattato tutti gli interessati, dal governo turco alle banche, dalle società russe agli uomini di Trump, che negano qualsiasi ipotesi di reato. Secondo i Fincen Files, però, al caso Zarrab sarebbero legate altre operazioni finora sconosciute: tesori offshore ancora misteriosi. Americani che coprono scandali iraniani, russi che usano le stesse riciclerie dei turchi: benvenuti a Launderland, il magico mondo del riciclaggio, dove il denaro è la misura di tutte le cose.

Fincen Files, la censura di Erdogan: ecco le notizie proibite dal regime. Vietati a Istanbul gli articoli sul grande riciclatore protetto dal presidente. Una storia di miliardi sporchi e complicità di Stato che l'Espresso pubblica integralmente con i consorzi Icij e Occrp. Paolo Biondani e Leo Sisto l'8 ottobre 2020 su L'Espresso. Il regime di Erdogan ha censurato i Finces Files, l'inchiesta giornalistica internazionale sulle centrali del riciclaggio di denaro sporco, che ha coinvolto anche un uomo ...

Caso Shalabayeva, il pm chiede la galera per il capo della mobile romana Cortese. Il Dubbio il 25 settembre 2020. Alma Shalabayeva è la moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov che nel maggio del 2013, secondo la Procura umbra è stata sequestrata per essere rimpatriata. I reati contestati, a vario titolo, sono quelli di falso, abuso e sequestro di persona. Condannare Renato Cortese a due anni e quattro mesi e Maurizio Improta a due anni e due mesi per la vicenda dell’espulsione di Alma Shalabayeva nel 2013. Sono queste le richieste del pm di Perugia Massimo Casucci nel corso della requisitoria. Cortese, attuale questore di Palermo, e Improta, a capo della Polizia Ferroviaria, erano allora rispettivamente capo della Squadra mobile di Roma e dell’ufficio immigrazione della questura capitolina. Alma Shalabayeva è la moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov che nel maggio del 2013, secondo la Procura umbra è stata sequestrata per essere rimpatriata. La donna e la figlia sono poi tornate in Italia e a Shalabayeva è stato riconosciuto l’asilo politico. A processo c’è anche il giudice di pace che convalidò l’espulsione, Stefania Lavore, per la quale il pm ha sollecitato una condanna a un anno e 15 giorni. Proprio il coinvolgimento del magistrato ha portato al trasferimento del procedimento da Roma a Perugia. Condanne tra un anno e un anno e cinque mesi sono state chieste per i 4 poliziotti a processo. Gli imputati hanno sempre sostenuto la correttezza del loro operato. I reati contestati, a vario titolo, sono quelli di falso, abuso e sequestro di persona.

La vicenda Shalabayeva. L’affaire Shalabayeva ha inizio la notte tra il 28 maggio e il 29 maggio scorso nella villa romana di Casal Palocco, quando la polizia irrompe nell’abitazione e trascina via Alma e Alua Shalabayeva, rispettivamente moglie e figlia del dissidente-ex oligarca kazako, Mukthar Ablyazov. Quest’ultimo, obiettivo principale dell’azione delle forze dell’ordine perchè ricercato dall’Interpol per frode, non è in casa. A chiedere l’intervento della polizia all’allora prefetto Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto del Ministro dell’Interno, Angelino Alfano, è l’ambasciatore kazako Andrian Yelemessov. Alma esibisce per sè e la figlia un passaporto centrafricano, ma la polizia lo ritiene falso. – Il 30 maggio madre e figlia vengono espulse dall’Italia e il giorno dopo messe su un aereo affittato dall’ambasciata kazakae rimpatriate ad Astana, in Kazakistan. – La Farnesina afferma di sapere solo il 31 maggio del rimpatrio e non dal Viminale, mentre il 3 giugno l’Ufficio Immigrazione invia al Viminale una relazione sull’espulsione della Shalabayeva. – Il 4 giugno il Consiglio italiano per i rifugiati invia una e-mail al ministro degli Esteri, Emma Bonino. Anche il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, afferma di aver saputo della deportazione solo a fatti avvenuti.- Il 12 luglio Enrico Letta decide la revoca dell’espulsione sottolineando la gravità della “mancata informativa” e l’avvio di un’inchiesta commissionando una relazione al capo dellapolizia, Alessandro Pansa, che la presenta il 16 luglio e nella quale definisce “invasivo” il comportamento dei diplomatici kazaki, stessa definizione adottata successivamente dal capo della Farnesina. Lo stesso giorno si dimette Procaccini. Il governo trema, ma non cade. Letta difende Alfano, e una mozione di sfiducia al ministro dell’Interno viene respinta il 19luglio. L’Ue intanto chiede chiarimenti a Roma. – Anche il presidente Napolitano interviene sulla vicenda, giudicandola “una storia inaudita”. “C’è stata – continua ilColle – una reticente rappresentazione distorsiva del caso”. Intanto il ministro degli Esteri Emma Bonino parla di punti oscuri sulla vicenda, e il 29 luglio 2013 la procura di Roma apre un’inchiesta su presunte omissioni nell’espulsione di Alma. – Il 31 luglio 2013 Ablyazov viene arrestato in Francia, mentre il figlio su Facebook denuncia: “No all’estradizione come è successo a Roma”. Il 3 agosto una delegazione del M5S si reca dalla Shalabayeva che accusa: “il mio passaporto è stato manomesso”. – Il 6 agosto 2013 il Kazakistan chiede a Parigi la consegna di Ablyazov ed è determinato a ottenerne l’estradizione, anche secondo la Francia non esiste un trattato ad hoc. Il 21 dello stesso mese anche Mosca e Kiev chiedono a Parigi l’estradizione di Ablyazov. – Il 25 settembre 2013 la figlia maggiore di Alma accusa alcuni funzionari del Viminale, della questura di Roma e diplomatici kazaki di sequestro di persone e ricettazione. Il giorno dopo finiscono nel registro degli indagati l’ambasciatore del Kazakistan in Italia, il consigliere per gli affari politici e l’addetto agli affari consolari. – E’ la vigilia di Natale, il 24 dicembre 2013, quando Alma Shalabayeva può lasciare il Kazakistan. Soddisfatto il ministro Bonino: “seguiremo la sua vicenda fino al rientro con la figlia”. Il 27 dicembre 2013 Alma rientra in Italia con la figlia più piccola, Aula. – Con quella di Shalabayeva si intreccia la vicenda del marito. Il 9 gennaio 2014 la Corte di appello Aix-en-Provence dice sì alla richiesta estradizione di Russia e Kazakistan. Ma il 9aprile la Cassazione francese congela l’operazione di estradizione- Il 18 aprile 2014, la Shalabayeva ottiene dal Viminale lo status di “rifugiato” insieme alla figlia. (AGI).

Processo Shalabayeva, condannati tutti i 7 imputati. Cinque anni per l’ex capo della squadra mobile di Roma, Renato Cortese, e per l’allora capo dell’ufficio immigrazione, Maurizio Improta. Antioco Fois su La Repubblica il 14 ottobre 2020. Cinque anni per l’ex capo della squadra mobile di Roma, Renato Cortese, e per l’allora responsabile dell’ufficio immigrazione della questura capitolina, Maurizio Improta, per quella presunta “extraordinary rendition” che sette anni fa sarebbe passata sopra diritti umani e procedure per caricare su un aereo e rispedire in tutta fretta al paese d’origine Alma Shalabayeva, moglie del controverso dissidente kazako, Mukhtar Ablyazov, assieme alla figlioletta di sei anni. Il terzo collegio del tribunale penale di Perugia, presieduto dal giudice Giuseppe Narducci, ha condannato tutti gli imputati, considerati parte nella vicenda che culminò con un’espulsione di cui si è discusso per anni e che la Cassazione dichiarerà poi illegittima. Come per Cortese e Improta - ora rispettivamente questore di Palermo e capo della Polizia ferroviaria - presenti in aula per assistere alla lettura del dispositivo, l’imputazione per sequestro di persona commesso da pubblico ufficiale ai danni della Shalabayeva e della figlioletta, oltre che per diversi episodi di falso contestati a vario titolo, ha determinato una condanna a cinque anni anche per l’allora commissario capo Francesco Stampacchia e per Luca Armeni, all’epoca dei fatti dirigente della sezione criminalità organizzata della squadra mobile di Roma, mentre i funzionari Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, sono stati condannati rispettivamente a quattro anni e a tre anni e sei mesi di reclusione. Condannata per falso ideologico a due anni e sei mesi anche all’allora giudice di pace Stefania Lavore, il cui ingresso nelle indagini comportò il trasferimento del procedimento da Roma a Perugia. 

"Fu sequestro di persona". Condanne nella polizia per il caso Shalabayeva. Pene per Cortese, ex numero uno della Mobile, il capo della Polfer, 4 agenti e un giudice. Tiziana Paolocci, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. Prelevate dalla polizia con un blitz mentre erano nella loro casa a Casalpalocco e rimpatriate in Kazakistan due giorni dopo. Ieri sono stati condannati tutti e sette gli imputati nel processo per l'espulsione di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako, Muktar Ablyazov, e della figlia Alua Ablyazova, che all'epoca dei fatti aveva soltanto sei anni. Alla donna, che in teoria doveva essere protetta dal diritto di asilo ma che invece fu rispedita nel maggio 2013 nel paese dove era perseguita, venne contestata l'accusa di avere un passaporto falso, ma la squadra mobile capitolina in realtà cercava il marito. La sentenza del Tribunale di Perugia è arrivata dopo otto ore di camera di consiglio. I giudici hanno condannato a cinque anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, con l'accusa di sequestro di persona commesso da pubblico ufficiale, Renato Cortese, l'ex capo della Squadra Mobile di Roma e attuale questore di Palermo, l'ex capo dell'ufficio immigrazione e ora al vertice della Polfer, Maurizio Improta e i due poliziotti della questura di San Vitale, Francesco Stampacchia e Luca Armeni. Identica l'accusa per gli altri agenti, Stefano Leoni, chiamato a scontare tre anni e sei mesi di reclusione mentre a Vincenzo Tramma ne sono stati dati quattro. Tutti sono stati ritenuti colpevoli anche di vari episodi di falso, alcuni confermati e alcuni caduti, insieme a Stefania Lavore, il giudice di pace che seguì il caso, per la quale è scattata la pena di 2 anni e 6 mesi. Le condanne inflitte sono state superiori a quelle richieste dal pubblico ministero Massimo Casucci nella requisitoria del 23 settembre. L'espulsione della donna e della figlia (poi tornate in Italia nell'aprile 2014) fu singolare, perché avvenne con un jet partito da Ciampino e pagato dal Kazakistan. Il caso, esploso nel luglio 2013, portò alle dimissioni del capo di gabinetto del ministero dell'Interno Giuseppe Procaccini. Non passò invece la mozione di sfiducia per l'allora capo del Viminale Angelino Alfano. «Ogni singolo capo di imputazione contestato a Cortese non sussiste, ha sempre onorato il servizio - aveva spiegato nell'arringa difensiva l'avvocato Franco Coppi -. Per Renato Cortese che Shalabayeva rimanesse in Italia, fosse trattenuta o espulsa, erano questioni assolutamente irrilevanti. Il suo interesse era un altro, quello di catturare una persona che oggi da tutti viene indicato come un martire ma che, in quel momento, venne segnalato da tutti come un pericoloso delinquente, una persona che ha rapporti con terroristi, se non terrorista lui stesso, accusato di avere commesso reati patrimoniali di rilevante entità». «Cortese è l'uomo che ha catturato Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Salvatore Grigoli, Bernardo Provenzano - aveva ricordato l'altro difensore, l'avvocato Ester Molinaro - le condotte e i fatti che gli vengono contestate non configurano reato e comunque non li ha commessi». Il legale di Improta, Ali Abukar Hayo, promette battaglia. «Leggeremo le motivazioni e faremo appello come è giusto che sia - ha sottolineato -. Qui si parla di un reato di sequestro di persona. Il problema per noi è il fondamento del fatto stesso. Noi riteniamo di aver dimostrato che non sussistono elementi del fatto così come ha ritenuto invece il Tribunale». Alma Shalabayeva, che ieri non era presente in aula, si è' detta «molto colpita dalla correttezza e indipendenza dei giudici». «Il suo commento - riferiscono i suoi legali, Alessio e Astolfo Di Amato - è stato nel mio paese non sarebbe andata così. Quello che colpisce è che nessuno dei condannati aveva un interesse personale, quindi hanno obbedito a degli ordini e chi ha dato quegli ordini l'ha fatta franca».

Grazia Longo per “la Stampa” il 15 ottobre 2020. Una sentenza che suona come uno schiaffo. Non solo sono stati condannati, ma il tribunale di Perugia ha raddoppiato la pena chiesta dal pm Massimo Casucci. Cinque anni di reclusione - per il sequestro commesso da pubblico ufficiale di Alma Shalabayeva moglie di un dissidente kazako - all'ex capo della Squadra mobile di Roma, Renato Cortese, oggi questore di Palermo e all'ex dirigente dell'ufficio immigrazione Maurizio Improta, attuale capo della Polfer. Stessa condanna anche per i funzionari della squadra mobile Luca Armeni e Francesco Stampacchia. Per tutti e quattro gli imputati, è stata inoltre disposta anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. I fatti risalgono al 29 maggio 2013, quando la moglie e la figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov furono imbarcate in tutta fretta su un aereo ed espulse dall'Italia con un iter amministrativo super rapido. Il caso provocò un incidente diplomatico, le dimissioni dell'allora capo di gabinetto del Viminale Giuseppe Procaccini e una mozione di sfiducia (poi bocciata) per il ministro Angelino Alfano. La vicenda ha del rocambolesco: madre e figlia kazake furono prelevate dalla polizia dopo un'irruzione nella loro abitazione di Casalpalocco (Roma). Le forze dell'ordine in realtà cercavano il marito, ma Alma Shalabayeva e la figlia furono sistemate su un volo privato messo a disposizione dalle autorità di Astana con l'accusa di possesso di passaporto falso. Tra i condannati il nome che spicca di più è quello di Renato Cortese, un super poliziotto con un curriculum eccezionale. Fu lui, quando era a capo della catturandi di Palermo, ad arrestare l'11 aprile 2006 il super boss Bernando Provenzano. E sempre grazie a lui e ai suoi collaboratori sono stati assicurati alla giustizia latitanti mafiosi del calibro di Enzo e Giovanni Brusca, Gaspare Spatuzza, Pietro Aglieri, Benedetto Spera e Salvatore Grigoli. Ieri sera, dopo una camera di consiglio di otto ore, il terzo collegio del tribunale di Perugia presieduto da Giuseppe Narducci, ha condannato anche gli altri poliziotti coinvolti nella vicenda, Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, rispettivamente a 4 anni e 3 anni e 6 mesi. Per Stefania Lavore, l'allora giudice di pace romana che si occupò del caso Shalabayeva (proprio la presenza della Livore ha portato il procedimento da Roma a Perugia), una pena di due anni e sei mesi, per vari episodi di falso ma non per sequestro di persona. A sei dei sette imputati è stato riconosciuto il reato di sequestro di persona. Diversi reati di falso sono stati riconosciuti a vario titolo anche a tutti gli altri imputati. Tramma e Leoni sono stati interdetti dai pubblici uffici per 5 anni, Stefania Lavore per 2 anni e 6 mesi. L'avvocato Astolfo Di Amato, legale di parte civile di Alma Shalabayeva, pone l'attenzione sul fatto che i veri colpevoli non sono stati perseguiti dalla legge: «È stata fatta giustizia ma nessuno degli imputati aveva un interesse personale in questa vicenda. Vuol dire che hanno obbedito a degli ordini e chi li ha dati l'ha fatta franca». E la donna kazaka sottolinea la correttezza e l'indipendenza dei giudici: «Nel mio Paese non sarebbe andata così».

Bologna, il capo della Mobile condannato a 5 anni resta al suo posto. La Questura difende il poliziotto Armeni in attesa della Cassazione. Carlo Gulotta su La Repubblica il 16 ottobre 2020. La condanna a cinque anni del capo della Squadra Mobile Luca Armeni per la operazione di " extraordinary rendition" di Alma Shalabayeva, espulsa dal nostro Paese nel 2013 con modalità così spicce da far aprire un’inchiesta, e poi un processo, per sequestro di persona a carico di sei alti funzionari di Ps, ha scatenato un terremoto nella questura bolognese. Prima di tutto perché Armeni è stato condannato proprio per questo capo d’accusa, rimediando una pena di cinque anni ( di gran lunga superiore ai due anni chiesti dall’accusa). E in secondo luogo perché la Mobile è il cuore pulsante delle investigazioni. In queste ore fra i corridoi di piazza Galilei si rincorrono spifferi e commenti, ma è inutile andare a cercare una dichiarazione ufficiale. Tanto che lo stesso questore Bernabei, alle domande che il nostro cronista ha tentato di rivolgergli ieri mattina, ha risposto con un no comment. Come spesso è accaduto in questi casi, e a dire il vero ancor più quando in un’indagine viene coinvolto un alto funzionario, è scattata la difesa corporativa. Unita ad un garantismo espresso a mezza voce che raramente si registra quando i giudici vanno a colpire persone "senza stellette". Nessuna virgoletta, sia chiaro, ma a dispetto della condanna, e della interdizione dai pubblici uffici per Armeni, dai piani alti filtra che il superpoliziotto restererà al suo posto in attesa della Cassazione. Come a dire: in un Paese come il nostro se ne riparlerà fra qualche annetto. Per Armeni ieri in piazza Galilei sono arrivate parole di stima, da chi lo ritiene persino uno dei poliziotti migliori della città. Altri ancora hanno espresso forte disagio per chi opera all’interno di un sistema gerarchico dove, e questo sarebbe il caso, paga chi esegue ordini. Parole dal sen fuggite?

«Chi diede l’ordine di “sequestrare” Shalabayeva?» Rocco Vazzana su Il Dubbio il 15 ottobre 2020. Dopo le condanne dei poliziotti Cortese e Improta, l’avvocato di Alma Shalabayeva si chiede chi, nel maggio del 2013, diede l’ordine di prelevare la figlia e la moglie di un dissidente kazako, in possesso di un regolare passaporto diplomatico, e consegnarle arbitrariamente alle autorità di Astana. «Nessuno degli imputati aveva un interesse personale nella vicenda. Se hanno agito in quel modo, l’unica spiegazione è che hanno obbedito a quegli ordini. E chi ha dato quegli ordini l’ha fatta franca». Sono passati pochi minuti dalla lettura della sentenza che condanna a cinque anni di reclusione l’ex capo della Squadra mobile di Roma e attuale questore di Palermo, Renato Cortese, e l’ex dirigente dell’Ufficio immigrazione, Maurizio Improta, per il sequestro di Alma Shalabayeva e della figlia di sei anni Aula, e Astolfo Di Amato, avvocato della donna, commenta così al telefono l’esito del processo di primo grado. Per il legale di Alma, a cui «non fa comunque mai piacere quando qualcuno viene condannato», quella del Tribunale di Perugia è una sentenza monca, che lascia aperti troppi interrogativi: Chi, nel maggio del 2013 diede l’ordine di prelevare la figlia e la moglie di un dissidente kazako, in possesso di un regolare passaporto diplomatico, e consegnarle arbitrariamente alle autorità di Astana? E perché gli imputati hanno negato tutti i reati loro addebitati ma senza parlare della catena di comando? Perché, secondo la sentenza, gli agenti della Mobile ingannarono di loro iniziativa – falsificando persino documenti – i colleghi dell’Ufficio immigrazione, la Procura di Roma (guidata da Giuseppe Pignatone) e quella per i Minorenni che poi firmarono i decreti di espulsione. Una ricostruzione, che per l’avvocato Di Amato regge poco. L’unica certezza in questa storia sono le condanne. Pesantissime. Molto più severe di quelle richieste dalla Procura, che per Cortese e Improta aveva chiesto, rispettivamente, due anni e quattro mesi e due anni e due mesi di reclusione: meno della metà della pena poi comminata. Cinque anni anche per i funzionari della Squadra mobile Luca Armeni e Francesco Stampacchia. Per tutti decisa anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Stefano Leoni e Vincenzo Tramma, agenti in servizio all’Ufficio immigrazione sono stati invece condannati rispettivamente a tre anni e sei mesi e a quattro anni. Due anni e sei mesi, infine, per la giudice di pace Stefania Lavore, che all’epoca convalidò l’espulsione di Shalabayeva: è l’unica condanna in cui non viene contestato il sequestro di persona. «C’era una donna, moglie di un dissidente e con una bambina piccola, che supplicava di essere ascoltata ma tutti facevano finta di non sentire. Sicuramente questo aspetto avrà avuto un peso determinante su un giudizio così severo», spiega l’avvocato Di Amato. Ma per capire la sentenza di ieri bisogna fare un salto indietro di sette anni e ripercorrere un caso internazionale che fece rischiare la poltrona ad Angelino Alfano, allora ministro dell’Interno e costò le dimissioni a Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto al Viminale. Nella notte tra il 28 e il 29 maggio del 2013, la polizia fa irruzione in un appartamento di Casal Palocco a Roma. Cercano Mukhtar Ablyazov, dissidente kazako ricercato dalle autorità di Astana. Ma in quell’abitazione vive solo la sua famiglia. «Fui svegliata da un forte rumore. C’era gente che bussava alle finestre e alle porte. Mia sorella, mio cognato e io ci precipitammo verso la porta d’ingresso», racconterà la stessa Alma Shalabayeva nel diario in cui ricostruisce ora per ora quei momenti concitati. «Quando aprii la porta tentai di chiedere in inglese chi fossero. Mi diedero una spinta e circa 30-35 persone entrarono in casa. Un’altra ventina rimase fuori. Erano vestiti di nero e armati», ricorda la moglie del dissidente. «“Puttana russa”, mi disse uno di loro. Un italiano con una grossa catena al collo e l’aspetto da mafioso cominciò a urlare indicando la pistola». Shalabayeva è terrorizzata e per ore resiste alle richieste di quegli uomini, nega di essere kazaka e dice di non conoscere Ablyazov. Mostra solo un regolare passaporto diplomatico della Repubblica Centrafricana, ma per gli agenti che hanno fanno irruzione nel suo appartamento è falso. È la scusa per trasferirla al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria senza poter comunicare all’esterno. Da quel momento inizia un calvario, fatto di tentativi disperati di chiedere asilo politico e bloccare la procedura d’espulsione già avviate dalle autorità italiane che non verranno ascoltati. Alma e Alua verranno rispedite in Kazakistan, dietro le insistenti richieste delle autorità di Astana che mette a disposizione l’aereo privato per il rimpatrio. Sette anni dopo, per il Tribunale di Perugia, si trattò di un sequestro di persona.

Caso Shalabayeva, “Cortese solo un capro espiatorio, perché non indagano Pignatone?” Giorgio Mannino  su Il Riformista il 20 Ottobre 2020. «Una sentenza di imbarazzante e manifesta ingiustizia: chi volle quell’espulsione, fornendo informazioni false, la fa franca; chi si trovò a dover applicare la legge, in galera. L’umiliazione per Renato Cortese, per gli altri condannati e per questo paese in cui, sul palcoscenico dell’antimafia da operetta, si esibiscono ogni giorno eserciti di narcisi petulanti e inoffensivi, resta intatta. Ci sarà un processo d’appello, è vero. Pur rispettosi di ogni sentenza penso che occorra far sentire lo stupore e l’imbarazzo per la condanna di chi applicò le disposizioni ricevute e per la graziosa immunità riconosciuta a chi quelle disposizioni le impartì». Claudio Fava, presidente della Commissione regionale Antimafia all’Ars, commenta così la sentenza di condanna a cinque anni emessa dal tribunale di Perugia nei confronti – tra gli altri – di Renato Cortese, questore di Palermo, per il sequestro (avvenuto nel 2013) e l’estradizione di Alma Shalabayeva, moglie di un dissidente kazako ricercato in patria per motivi politici. Un pronunciamento, quello della corte perugina, che ha sconvolto parte del mondo della politica e della società civile. Ieri pomeriggio, infatti, a Palermo, davanti il Teatro Massimo, si sono riunite associazioni, rappresentanti dell’amministrazione comunale e molti poliziotti «per solidarizzare col questore Cortese che ha contribuito, con grande impegno, a combattere la criminalità organizzata e a onorare lo Stato». L’uomo che ha infranto la latitanza record del boss Bernardo Provenzano sarà sostituito, nei prossimi giorni, da Leopoldo Laricchia. Una disposizione che arriva dal ministero dell’Interno e dai vertici della Polizia: «Con la decisione presa si riafferma il principio che la polizia osserva e si attiene a quanto pronunciato dalle sentenze», ha detto Franco Gabrielli. Ma l’indignazione, in piazza, si tocca con mano. C’è persino Vincenzo Agostino, padre del poliziotto Nino ucciso in circostanze tutte da chiarire il 5 agosto 1989, che agitando il cellulare mostra una foto che immortala il momento della cattura di Provenzano con un giovanissimo Cortese al suo fianco: «È ingiusto che abbia pagato soltanto lui. Ha pagato il pesce più piccolo, l’ultimo anello di una lunga catena di comando rimasta impunita. La sentenza non ha fatto giustizia», ha detto Agostino. Ed è proprio contro la sentenza, ritenuta ingiusta, che molti poliziotti si scagliano. «Sono convinto – ha detto Carmine Mancuso, ex politico e figlio di Lenin Mancuso, ucciso da Cosa nostra insieme al giudice Cesare Terranova il 25 settembre 1979 – che la sentenza sia iniqua. A pagare non possono essere soltanto quanti hanno eseguito gli ordini. Quindi credo sia importante che i giudici accertino le responsabilità ai vertici». Mancuso, infine, giudica «ingiusto il trasferimento, perché, intanto, si tratta di una sentenza di primo grado e Cortese ha servito con grande onore lo Stato». Un’idea condivisa dai tanti presenti che affollano piazza Verdi. Restii a credere che per Cortese possa esserci una forma di riabilitazione: «Era destinato a diventare capo della Polizia. La sua carriera, ai vertici, ormai è finita», sussurra qualcuno. E rimbalzano tante domande senza risposta: «Perché Angelino Alfano (allora ministro degli Interni, ndr) tace? Perché le sue dimissioni, allora chieste a gran voce, furono respinte? Chi aveva deciso quell’operazione? Perché Eugenio Albamonte e Giuseppe Pignatone che diedero il via all’espulsione non sono stati coinvolti nell’inchiesta?», si chiede un poliziotto che preferisce rimanere anonimo. Mentre Palermo si appresta a dare il benvenuto al nuovo questore: «Siamo qui anche per Laricchia, per augurargli buon lavoro», dicono gli organizzatori del raduno. Parole che mal nascondono la grande amarezza.

La ricostruzione dell'allora ministra degli Esteri. “Caso Shalabayeva, qualcuno approfittò del cambio di governo”, la ricostruzione di Emma Bonino. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Ottobre 2020. I misteri del sequestro di Alma Shalabayeva moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, non sono chiariti, ma una sentenza di primo grado fissa nomi e termini delle responsabilità della Polizia. Il Tribunale di Perugia ha condannati a cinque anni di carcere ciascuno e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici il questore di Palermo, Renato Cortese e l’attuale capo della polizia ferroviaria, Maurizio Improta. Entrambi subito rimossi, o come si dice in gergo “avvicendati” con destinazione ad altri incarichi su decisione del capo della polizia, Franco Gabrielli. Cortese all’epoca dei fatti era capo della squadra mobile di Roma, Improta capo dell’Ufficio immigrazione. Con loro vengono condannati a 5 anni di carcere i funzionari della squadra mobile, Luca Armeni e Francesco Stampacchia. Rispettivamente condannati a quattro anni e tre anni e sei mesi, invece, i due agenti in servizio all’Ufficio immigrazione, Vincenzo Tramma e Stefano Leoni. I difensori parlano di “capri espiatori”, di esecutori che pagano per altri. Il governo di Enrico Letta si era insediato da meno di trenta giorni, e alla Farnesina c’era Emma Bonino, alla quale chiediamo di aiutarci a ricostruire i fatti.

«Appena viene fuori il caso, si scatena una polemica politica in cui entro di striscio, perché per legge gli interni non erano tenuti ad avvertire la Farnesina. Noi veniamo interpellati solo per sapere se la signora Shalabayeva avesse il passaporto diplomatico o no, e rispondiamo che non ci risultava averlo, anche perché ci avevano dato un nome sbagliato. La polemica infuriò su Alfano. Ma io ne vengo investita, e a prescindere dalla polemica, mi muovo subito. Visto l’errore dell’espulsione, io mi attivo subito perché la Shalabayeva possa tornare in Italia sana e salva».

Lo chiama errore?

«Chiamiamolo errore, diciamo che non so cosa sia stato. Io sono intervenuta il giorno dopo e ho fatto di tutto per riportarla qui».

Missione compiuta.

«Missione compiuta con l’aiuto della rete diplomatica, perché si attivò l’ambasciatore in Kazakistan e trattammo fino a quando la signora Shalabayeva non venne messa, insieme con le figlie, su un aereo per Roma».

Come si mosse, dalla Farnesina?

«Nella tarda serata del 31 maggio 2013, venni informata telefonicamente del caso, da parte di esponenti della società civile, e a operazione già avvenuta. Diedi, quindi, inizio a un’incessante azione assieme ai miei diretti collaboratori e ai competenti uffici della Farnesina, che si è mossa essenzialmente lungo tre direttrici: assicurare al meglio la tutela dei diritti della Signora Shalabayeva e di sua figlia; effettuare la doverosa sensibilizzazione in seno al Governo e promuovere la necessaria raccolta di informazioni; dare luogo a tutti i contatti e le attività sul piano esterno resisi necessari a seguito dell’avvenuto trasferimento in Kazakhstan».

Tuttavia le imputarono di non aver espulso l’ambasciatore kazako a Roma. Perché non lo fece?

«A parte che tecnicamente non sta al ministro degli Esteri espellere un rappresentante della diplomazia straniera, perché è una prerogativa del Presidente della Repubblica, se io avessi proposto di espellerlo cosa sarebbe successo? Il giorno dopo Astana avrebbe espulso il nostro ambasciatore, lasciandomi senza più alcuna possibilità di riportare Shalabayeva a Roma».

E dunque resistette a tutte le richieste, le arrivò molta pressione?

«Da tutte le parti, e perfino da nomi noti. Massimo D’Alema, per citarne uno. E dire che di diplomazia dovrebbe saperne. Ma l’atmosfera era molto tesa».

Tutto si risolve con il ritorno a Roma della donna, nel dicembre 2013, e pochi giorni fa sono arrivate le condanne per chi, vestendo la divisa della Polizia, si è prestato all’operazione.

«La lesione del diritto era palese. E le condanne sono arrivate.

Shalabayeva oggi vive a Roma con le figlie, mentre il marito è rimasto a Parigi. Vi siete sentite?

«Non so molto delle loro vite, lei mi contatta di tanto in tanto, mi fa sapere di stare bene e più volte ha espresso la sua gratitudine per averla riportata qui. Libera e sicura. Dalla felice conclusione di questa vicenda ho imparato molte cose».

Per esempio?

«Che la diplomazia ha molte facce, che bisogna conoscere e saper attivare. Che ci possono essere contatti non segreti ma riservati, esperienza che mi fu molto utile anche per i Marò. E che i soggetti a disposizione sono tanti, in quel caso vi fu un ruolo della Corte dei Diritti Umani di Ginevra».

In questa vicenda che ruolo ha avuto la diplomazia sotterranea di Eni?

«Da Ministro non ho avuto contatti con l’Eni, di nessun tipo, durante questa vicenda».

Venne fuori un testimone che si confessò con Report. Si parlò di una regìa coperta, internazionale, per pianificare e realizzare i dettagli del sequestro Shalabayeva a Roma.

«Il Kazakisthan è un paese che mette in gioco una serie di interessi, un paese ricco di idrocarburi e povero di democrazia, per molti versi oscuro. Posso dirle quel che penso? Che ci fu chi approfittò di quel particolare momento di vuoto, di passaggio».

Perché di vuoto?

«C’era il cambio di governo, noi giurammo a fine aprile, il sequestro avviene il 28 maggio, a meno di un mese dall’insediamento. E proprio nei giorni del sequestro c’è il cambio al vertice della Polizia. Neanche aveva preso possesso dell’ufficio al Viminale che avevo chiesto un dettagliato rapporto ad Alessandro Pansa».

Un rapporto soddisfacente?

«Mi ha prodotto dei primi rapporti francamente insoddisfacenti: per due o tre volte gli ho detto che così erano inconsistenti e non trasmissibili».

Responsabilità e omissioni forse più dei suoi sottoposti e dei suoi predecessori.

«Probabilmente, ma a me li dava lui ed era a lui che li contestavo».

Aveva reso partecipe il governo della debolezza del dossier presentatole?

«Certo e in tutti i modi possibili. Anche prendendo di petto il ministro degli Interni, Alfano, e parlandone con il presidente del Consiglio, Letta. Alla parata del 2 giugno ci troviamo insieme e ne approfitto: «È un fatto gravissimo, dobbiamo muoverci», li sollecito».

Con i servizi segreti aveva parlato?

«Io no, suppongo Alfano. Io ho attivato la diplomazia e agito per i canali ufficiali e ufficiosi che hanno poi portato Shalabayeva a tornare a Roma, la settimana di Natale».

Torniamo alla dinamica del sequestro, che fa pensare a quello di Abu Omar. In quel caso la Cia disse: «È ovvio che non si può fare un’operazione del genere, in Italia, senza il coinvolgimento delle autorità italiane».

«Immagino, certo. È chiaro che la signora è stata messa su quell’aereo privato che è decollato da Ciampino con la connivenza attiva delle autorità italiane».

È stata organizzata una manifestazione di solidarietà a Palermo per Renato Cortese, che è stato condannato.

Ritengono – e magari è stato così – che le indicazioni venissero da più in alto e che loro erano solo esecutori, ma io questo non lo so. Ritengo che Alfano, come me, appena entrato in funzione, non ne sapesse granché. Il cambiamento di tante funzioni e tante figure in quei giorni aveva creato un po’ di vuoto di potere, in cui si è infilato l’ambasciatore kazako, non di sua iniziativa ma imbeccato da qualcuno».

Una regia segreta. Rimasta ancora tale.

«C’è sempre qualcuno che trama. Il compito della politica è essere più forti di chi trama».

Fincen Files: i segreti di Felix Sater, l'uomo di Donald Trump a Mosca tra Cia e tesori kazaki. Il manager al centro del Russiagate ha gestito negli Usa fiumi di denaro sospetto per le famiglie di due ricchissimi ricercati dal Kazakhstan. Che mandano soldi anche ad Alma Shalabayeva, la presunta perseguitata che ha fatto incriminare la polizia italiana. Ecco la nuova inchiesta dell'Espresso con il consorzio Icij. Paolo Biondani e Leo Sisto su L'Espresso il 29 settembre 2020. Il 31 luglio 2015 la signora Alma Shalabayeva riceve un bonifico di 100 mila dollari, sul suo conto all’Unicredit di Milano. È la moglie di Mukhtar Ablyazov, l'ex banchiere da tempo fuggito dal Kazakhstan, dove è ricercato con l'accusa di di aver rubato una montagna di soldi, più di tre miliardi, alla banca statale Bta. In quel periodo il marito è in carcere in Francia, dove si dichiara «perseguitato politico dal regime kazako» per evitare l'estradizione in Russia, che poi non verrà concessa. Due anni prima la moglie era stata protagonista di una clamorosa espulsione dall’Italia, poi annullata: un presunto abuso che ha convinto un magistrato di Perugia a incriminare alcuni dei più importanti dirigenti della polizia italiana, tuttora sotto processo penale. A mandarle quei soldi alla signora Shalabayeva è il genero, Ilyas Khrapunov, sposato con la figlia Madina. Lui è il figlio di Viktor Khrapunov, l'ex sindaco di Almaty, la capitale kazaka, a sua volta accusato in patria di peculato e corruzione, scappato nel 2008 in Svizzera con la moglie e due figli, tra cui Ilyas. Che invia quel gruzzolo da un suo conto alla banca Rotschild di Ginevra. Pochi giorni dopo, il 5 agosto, manda alla suocera Alma altri 25 mila dollari, questa volta in Lettonia, sulla Deutsche Bank Trust. Sono cifre non elevate, che però si inseriscono in flussi di denaro vorticosi, per milioni di dollari, che fanno capo alla famiglia Khrapunov. Oltre che al loro parente più ricco, l'ex banchiere Ablyazov, quei bonifici portano a un partner d'affari di Trump. Si chiama Felix Sater, nato a Mosca nel 1966, emigrato negli Stati Uniti a sei anni.

Fincen Files, indagato l'oligarca padrone del centro storico di Siena. Paolo Biondani e Leo Sisto su L'Espresso il 24 settembre 2020. Igor Bidilo, il re del petrolio che ha investito decine di milioni in Toscana, è sotto inchiesta in Italia e Svizzera. Le accuse: riciclaggio, falso e frode fiscale. Al centro del caso la società offshore segnalata dall'inchiesta dell'Espresso con il consorzio Icij. Lo zar di Siena è sotto inchiesta per riciclaggio. Un'indagine che promette di far luce sulla rete di società offshore che protegge i tesori dell'oligarca innamorato della splendida città toscana. Igor Bidilo è un miliardario, nato in Kazakhstan ai tempi dell'Unione Sovietica, che ha fatto i soldi in Russia con il petrolio e oggi guida il ricchissimo gruppo energetico Atek. Grande ammiratore delle città d'arte italiane, in questi anni ha fatto incetta di imprese e locali simbolo di Siena: bar, gelaterie e ristoranti in piazza del Campo, sede del famoso palio, e in altre zone del centro storico. Una tenuta agricola per coltivazioni biologiche sulle colline; e una decina di società che controllano marchi storici, come la pasticceria Nannini. Bidilo in Italia controlla altre proprietà di lusso a Roma e, tramite una società cipriota, a Milano. A Siena ha assicurato, in un'intervista a La Nazione, di aver sempre fatto «affari alla luce del sole», senza «scatole cinesi o paradisi fiscali». Domenica scorsa l'Espresso ha però rivelato Bidilo possiede una società offshore, Somitekno Ltd, con sede nel paradiso fiscale delle Isole Vergini Britanniche, che è al centro di operazioni bancarie giudicate «sospette» per cifre pesanti: circa 180 milioni di euro.

Fincen Files, i tesori segreti dell'Aga Khan da Ginevra a Porto Cervo. Paolo Biondani e Leo Sisto su L'Espresso il 25 settembre 2020.Un misterioso novantenne tanzaniano senza ufficio con un conto svizzero da 175 milioni di dollari raccoglie le offerte per l'imam. L'inchiesta dell'Espresso con il consorzio Icij svela il misterioso network finanziario dell'uomo d'affari e capo religioso che ha creato la Costa Smeralda. L'Aga Khan è il capo religioso di una confessione musulmana sciita che conta circa 15 milioni di fedeli sparsi nel mondo. L'attuale imam, o guida spirituale, dei nizariti (un ramo cresciuto in India della più vasta comunità ismailita) è Karim Aga Khan, nato nel 1936 a Ginevra. In Italia è conosciuto soprattutto come uomo d'affari: fondatore di Porto Cervo e artefice dello sviluppo turistico della Costa Smeralda, proprietario della prima compagnia aerea della Sardegna, Alisarda, da lui creata nel 1963, poi ribattezzata Meridiana e quindi Air Italy, da tempo in crisi e ora in liquidazione. Ancora oggi l'Aga Khan torna spesso d'estate in Sardegna, dove è tuttora presidente dello yacht club della Costa Smeralda.

Fincen Files, Roman Abramovich ha dato 100 milioni di dollari all'estrema destra israeliana. Paolo Biondani e Leo Sisto su L'Espresso il 21 settembre 2020. Il russo patron del Chelsea ha elargito fondi, attraverso anonime società offshore, alla fondazione dei coloni ultra-ortodossi che occupano terre e case dei palestinesi. L'oligarca smentisce, ma conferma altre donazioni a Tel Aviv per mezzo miliardo. Il nuovo capitolo dell'inchiesta internazionale dell'Espresso con il consorzio Icij. Roman Abramovich è conosciuto in tutto il mondo del calcio come proprietario del Chelsea, uno dei club più prestigiosi della Premier League inglese. È un oligarca russo, finanziere e imprenditore (acciaio, nichel), che la rivista specializzata Forbes colloca al 113esimo posto della classifica dei più ricchi del pianeta, con un patrimonio personale di oltre 12 miliardi. Ed è anche un munifico benefattore, anche se non ama pubblicizzarlo. L'inchiesta giornalistica Fincen Files rivela che Abramovich ha versato più di 100 milioni di dollari, attraverso società offshore finora rimaste anonime, a una fondazione dell'estrema destra israeliana. Si chiama Elad e supporta i coloni ebrei ultra-ortodossi che occupano terre e case dei palestinesi. Una pratica considerata illegale dalle Nazioni Unite, ma difesa dal governo di Tel Aviv con un'apposita legge, “Absentee property law”, che consente ai coloni israeliani di subentrare nelle proprietà dei palestinesi considerate «abbandonate».

Ville e hotel da Roma a Siena: l'impero russo è già tra noi. Paolo Biondani e Leo Sisto su L'Espresso il 20 settembre 2020. Il palazzo dei finanziatori di Vladimir Putin. Il rustico dell'oligarca sovranista. La dimora di lusso venduta da Veronica Lario al re della vodka. La casa da sogno del patron del Chelsea. I miliardari di Mosca sbarcano in Italia con le offshore sotto accusa. Tre anni fa, in Piemonte, lo hanno sentito cantare a squarciagola «Volare», in italiano: lui, un miliardario russo nato a Menzelinsk, nel Tatarstan, a più di mille chilometri da Mosca. Era piena estate e a Canelli, patria dello spumante, e Roustam Tariko stava per aprire l’assemblea della Gancia, l’azienda rilevata nel 2011, quando era in crisi, per cento milioni di euro. Una riunione-happening per convincere 500 viticoltori a fidarsi di lui, a conferire le uve alla sua società. Tariko è un oligarca russo con un patrimonio personale di oltre un miliardo. Ama molto l’Italia, dove possiede anche una villa di lusso in Sardegna, cedutagli da Veronica Lario, l’ex moglie di Silvio Berlusconi. La sua scalata al successo inizia quarant’anni fa, quando importa nell’allora Unione Sovietica cioccolatini Ferrero e vermouth Martini. Nel 1998 immette sul mercato russo una vodka di fascia alta, la Russian Standard. L’anno dopo fonda una banca omonima, Russian Standard Bank, che diventa leader nel credito al consumo. Nel 2014 salva dal fallimento la polacca Cedc, tra i più grandi produttori del superalcolico. Da allora è “il re della vodka”. Ambizioso. Accattivante. Anfitrione di una memorabile festa a New York, nel 2006, per lanciare una nuova vodka battezzata Imperia in omaggio all’impero russo, come spiega lui stesso. Un party con mille ospiti sotto la statua della Libertà, con musiche di Rachmaninoff e Tchaikovsky eseguite da un’orchestra, che portò il Financial Times a definirlo «il miglior miliardario da avere a una festa».

·         La Mafia del Gasolio.

Inchiesta sulla Saras di Moratti, avrebbe ricevuto petrolio dell’Isis. Notizie.it l'08/10/2020. La raffineria Saras di Massimo Moratti è finita sotto indagine della procura antiterrorismo in merito a un presunto acquisto di petrolio dell'Isis. Secondo un’inchiesta aperta dalla procura antiterrorismo di Cagliari tra il 2015 e il 2016 un carico di petrolio dell’Isis sarebbe giunto in Sardegna presso la raffineria Saras della famiglia Moratti. L’arrivo del carico di petrolio avrebbe in seguito consentito all’azienda di indirizzare il mercato grazie a prezzi d’acquisto favorevoli, frodando inoltre il fisco italiano per una cifra che si aggirerebbe sui 130 milioni di euro e finanziando infine lo Stato Islamico. L’inchiesta della procura è partita lo scorso 30 settembre, quando sono iniziate le perquisizioni preso gli uffici della Saras (controllata dalla famiglia Moratti al 40%) a Cagliari e a Milano indagando in particolare sul capo dell’ufficio commerciale Marco Schiavetti e sul chief financial officier Franco Balsamo per ipotesi di reato a vario titolo che vanno dal riciclaggio al falso fino ai reati tributari. Secondo le indagini dei pubblici ministeri Danilo Tronci e Guido Pani, la vicenza inizia nel 2015, quando nella raffineria Saras di Sarroch arriva una partita di petrolio greggio che: “Risulta attestata tramite dichiarazioni non idonee né ufficiali”. Dai documenti esaminati emerge in seguito come il carico sarebbe giunto in Italia tramite la Petraco Oil Company, una società con sede operativa a Lugano che avrebbe a sua volta acquistato gli “oli minerali” dalla Edgewater Falls, un’altra società con sede nelle Isole Vergini, che aveva inizialmente acquistato il petrolio iracheno dalla società turca Powertrans. Sotto l’attenzione della Guardia di Finanza sono finiti alcuni bonifici partiti dalla Saras, in particolare uno di 14 miliardi di euro destinato alla Petraco più altri diretti invece verso altre società gemelle come la Edgewater. Edgewater che successivamente si è rivelata essere nient’altro che una società di comodo off shore di proprietà della stessa Petraco. Nel mirino dei finanzieri anche un pagamento di 4 miliardi verso il ministero delle’Economia e delle Risorse Naturali del governo federale curdo. Questo più la natura off shore della Edgewater hanno indotto gli agenti a pensare che il petrolio non sia mai passato dalla Turchia ma giunto direttamente dall’Iraq, passando prima per le mani dei curdi e in seguito da quelle dei terroristi dell’Isis. I pm scrivono infatti che: “All’epoca il Kurdistan, approfittando del conflitto scatenato da Daesh in Siria e in Iraq, aveva dato corso alla commercializzazione del greggio estratto dai propri giacimenti in assenza di autorizzazione da parte del governo di Baghdad”. Sul quotidiano La Repubblica è inoltre apparsa la replica ufficiale della famiglia Moratti, che smentisce le accuse della procura: “Il nostro comportamento è stato inappuntabile. Nessun illecito: abbiamo fornito tutta la documentazione alla magistratura, a cui ribadiamo fiducia e collaborazione”.

Saras ritraccia dopo aver smentito accuse di contrabbando di greggio.  Giuseppe Fabio Ciccomascolo per "Alliance News" l'8 ottobre 2020. "Saras Spa respinge fermamente ogni associazione del nome della societa al contrabbando di petrolio e di carburante, in quanto del tutto priva di fondamento e lesiva della immagine propria e dei collaboratori del gruppo". A riferirlo è Saras in una nota in risposto a un articolo di la Repubblica, dal titolo "Il petrolio dell'Isis nelle raffinerie sarde. Saras sotto inchiesta". "Nell'articolo - prosegue la società dei Moratti - si fa riferimento a un'inchiesta del Tribunale di Cagliari, rispetto la quale siamo a disposizione nella piena consapevolezza della bontà e della trasparenza delle operazioni effettuate dal gruppo. Saras si riserverà di porre in essere ogni iniziativa a tutela del buon nome della società". Come si legge nell'inchiesta del giornale del gruppo GEDI, lo scorso 30 settembre la procura antiterrorismo sarda ha perquisito gli uffici della Saras a Cagliari e a Milano per ipotesi di reato vanno a vario titolo dal riciclaggio al falso, per finire ai reati tributari. Secondo i pm, il petrolio dell'Isis sarebbe arrivato in Italia, in Sardegna, nelle raffinerie di Saras a Sarroch attraverso 25 navi tra il 2015 e il 2016 con 12 milioni di oli minerali, che avrebbero consentito alla società controllata per il 40% dalla famiglia Moratti di frodare il fisco per almeno EUR130 milioni. A muovere il carico sarebbe la Petraco Oil company, società con sede legale a Londra e principale filiale operativa a Lugano. Dagli atti risulterebbe che la società avrebbe acquistato "gli oli minerali da Edgwaters Falls, società delle Isole Vergini". Questa avrebbe comprato il carico da un'azienda turca, che a sua volta avrebbe preso il carico in Iraq. Il titolo di Saras cede l'1,7% a EUR0,51 per azione dopo aver aperto in forte calo, di poco meno del 6% (e ha chiuso la giornata cedendo il 7,69%, ndDago)

Estratto dall'articolo di Giuliano Foschini per ''la Repubblica'' del 7 ottobre 2020. Il petrolio dell'Isis è arrivato in Italia. In Sardegna, a Cagliari, nelle raffinerie della Saras. Dodici milioni di oli minerali che avrebbero consentito alla società controllata per il 40 per cento dalla famiglia Moratti di ammazzare il mercato, grazie a prezzi d'acquisto molto vantaggiosi. Di frodare il fisco, per almeno 130 milioni di euro. E ai terroristi di Daesh di finanziare la jihad, partendo da uno strano bonifico da 60 milioni. È questo il sospetto della procura distrettuale antiterrorismo di Cagliari che il 30 settembre scorso ha perquisito gli uffici della società a Cagliari e a Milano: indagati sono i vertici dell'azienda, dal Cfo, Franco Balsamo, al capo dell'ufficio commerciale, Marco Schiavetti. Le ipotesi di reato vanno a vario titolo dal riciclaggio al falso, per finire ai reati tributari. La cartiera dell'Isis La storia comincia tra il 2015 e il 2016 quando nelle raffinerie della Saras di Sarroch, in Sardegna, arrivano venticinque navi. Dai documenti risulta che si tratta di greggio «di origine irachena e provenienza turca» ricostruiscono i pm dell'Antiterrorismo, Guido Pani e Danilo Tronci. La bolla appare però subito fasulla agli uomini dell'Agenzia delle Dogane. «L'origine del prodotto - scrivono i magistrati - risulta attestata tramite dichiarazioni non idonee né ufficiali ». Da dove arriva quel petrolio? Secondo i documenti a muovere il carico è la Petraco Oil company, società con sede legale a Londra e con la sua principale filiale operativa a Lugano. Dagli atti risulta che la società ha acquistato «gli oli minerali dalla Edgwaters Falls, società delle Isole Vergini». Che a sua volta aveva comprato il carico da un'azienda turca. Che aveva acquistato il carico in Iraq, non è chiaro dove. Bene, le indagini della Guardia di Finanza hanno chiarito due cose: la prima è che la Edgewater è «una società di comodo», off shore. Di proprietà della stessa Petraco. La seconda che il carico non è passato probabilmente mai dalla Turchia ma è arrivato direttamente dall'Iraq. E a gestirlo non è stato l'ente petrolifero di stato iracheno, «l'unico autorizzato dal diritto internazionale» scrive la procura di Cagliari. Ma lo hanno mosso prima i curdi. E poi dopo i terroristi di Daesh.

Carburanti dalla Slovenia: è la “mafia del gasolio”? Le Iene News il 4 marzo 2020. Luigi Pelazza ci porta tra Veneto e Slovenia alla scoperta di una presunta truffa sulla compravendita del gasolio, che ogni anno sottrarrebbe alle casse dello Stato, e quindi a tutti noi, quasi 5 miliardi di Iva. Volete risparmiare sul carburante alla pompa di benzina? Una speranza sacrosanta, ma attenti a dove andate a comprare: potreste ritrovarvi a essere solo l’ultimissimo anello di una catena illegale. Luigi Pelazza indaga sulle truffe nell’acquisto di carburante a prezzi stracciati da compagnie petrolifere molto particolari. Avviciniamo un esercente di una pompa di benzina che a telecamera nascosta ci spiega: “Attualmente pago platts + 10”. Vi spieghiamo bene. Il valore del gasolio cambia ogni giorno, sulla base delle quotazioni di borsa. E quel valore si chiama per l’appunto “platts”, un numero a cui bisogna aggiungere le accise, cioè le tasse che invece sono fisse. Immaginiamo ad esempio che il platts sia di 1 euro. Un benzinaio dunque acquista il gasolio dai depositi delle compagnie per platts + 10, vale a dire 1 euro +10. E quei 10 non sono altro che 10 millesimi di euro, che la compagnia aggiunge in teoria per recuperare le spese, e guadagnarci qualcosa. Un prezzo comunque molto basso, improponibile per il mercato. Ce lo spiegano le stesse compagnie: “È assolutamente fuori mercato: nessuno potrebbe stare in piedi vendendo a un prezzo così basso. Considera che noi, così come i nostri concorrenti, quando lo vendiamo a poco non possiamo permetterci di scendere sotto un platts +30 altrimenti non recupereremmo neanche le spese”. Ma chi quindi può permettersi di vendere gasolio a platts +10? Alcuni benzinai ci indicano un venditore di Verona, Cordioli, e noi allora andiamo a chiedergli spiegazioni. “Buongiorno, ci spiega un po' questo meccanismo? Quando si vende magari a un prezzo basso...”. Ma la risposta è netta: “Non so niente io, guardi. Andate via, fuori”. Qualche giorno dopo la nostra visita, hanno ricevuto quella della Guardia di Finanza,  che ha arrestato il figlio del titolare nel corso di un'indagine proprio su quella che è stata definita “mafia del carburante” e che riguarderebbe anche soggetti contigui alla camorra. Una persona bene informata su quel tipo di business ci racconta, chiedendo però l’anonimato: “Da quando è stato liberalizzato il mercato sono entrate nel settore figure… losche che ci stanno facendo terra bruciata intorno. Non capiamo come fanno a vendere alle pompe a prezzi così bassi. Il prodotto è buono… ma ho visto movimenti strani… autobotti con targa slovena che rifornivano alcune stazioni di servizio”. Ecco svelato l’inghippo, forse, e così andiamo a Lubiana, in Slovenia, a vedere a che prezzo si può acquistare il carburante da rivendere in Italia. Spiegano: “In questo momento sul mercato viaggiamo a platts +15, almeno”. Un prezzo altissimo, perché al gasolio sloveno vanno aggiunti obbligatoriamente per legge una serie di altri costi che fanno lievitare la spesa a platts +45. E poi bisogna aggiungere anche i costi di trasporto per portare questo carburante in un deposito italiano, per una cifra che lievita a ben platts +75. Ma in Slovenia, a comprare carburante e spendere più che in Italia, verrebbero personaggi molto particolari, come ci raccontano altre persone: “Il mercato italiano, i nostri clienti, non abbiamo una grande diciamo... fiducia. Non abbiamo avuto nemmeno un cliente con delle garanzie fino adesso…Tutti pagano in anticipo... Abbiamo preso molte precauzioni… Noi vendiamo …. poi cosa succede non lo so…”. Noi però quello che succede in Italia, una volta portato il carburante sloveno, intendiamo scoprirlo. E così andiamo al loro deposito di Capodistria. Lì incontriamo un camionista che parla italiano e cerchiamo di capirne di più. “Conosci autisti che vanno in Italia?”. “Sì. Sloveni, italiani...arrivano di pomeriggio..” E infatti poche ore dopo li vediamo arrivare. Luigi Pelazza ne avvicina uno. “Dove vai tu?”. “Vado a Verona. Io carico qua, vado a Verona. Ricarico e scendo...” . Quando gli chiediamo dove scarichi esattamente, dice di non ricordare. Una cosa molto strana...Ne avviciniamo un secondo. “Tu da dove arrivi?”. “Uguale, siamo amici, siamo della stessa azienda. Carichiamo, scarichiamo e ricarichiamo, questo facciamo”. “E come si chiama il deposito dove vai?”, gli chiede la Iena. La risposta è sempre la stessa: “Ah non lo so il deposito nome e cognome”. Sempre più strano. Fino a che uno di loro, dopo un po’ di insistenza, ci fa un nome: Energy Group. A quanto pare, lì, ci sarebbe un gran bel movimento. “Quanti camion siete in tutto a fare questo viaggio, 10-15?”. “Anche di più”. E allora li seguiamo e il giorno dopo sentiamo cosa dice a una persona interessata a comprare gasolio: “Ho un broker olandese che mi compra tutte ‘ste robe qua. La legge non vieta gli intermediari”. Ma allora, ci chiediamo, a smenarci è l'intermediario? La risposta ci chiarisce il meccanismo di questo business: “Non se evade l'Iva!” Ecco dunque come funziona: tra chi compra all'estero e chi vende, si inserisce una terza figura, il broker. È lui che compra effettivamente a un prezzo molto alto in Slovenia per poi vendere sottocosto in Italia. E riesce a vendere molto sottocosto proprio perché, altrimenti, il gasolio non glielo comprerebbe nessuno. E così quando il broker andrà al deposito italiano, questi gli pagherà il prezzo stabilito per il gasolio, più l'Iva, che il broker ovviamente non verserà allo stato. E quando lo Stato chiederà indietro quell’Iva, basterà aver già liquidato la società di brokeraggio...Un guadagno per tutti insomma: per gli sloveni che vendono al loro prezzo, per i broker che intascano l'Iva, e per i depositi italiani, che comprando il gasolio sottoprezzo possono poi rivendere alle pompe a tariffe vantaggiose per loro. Facendo un semplice calcolo, ecco il risultato: moltiplicando il prezzo a cui il deposito compra il gasolio del broker (1,010 euro al litro) per i litri trasportati da ogni autotreno, circa 36mila, si ha una cifra di 36.360 euro, che genera un'Iva di circa 8000 euro. Se poi contiamo che in quel deposito di autotreni ne entrano 50 al giorno, questo potrebbe significare, da un nostro calcolo approssimativo, che l’Iva non pagata dai broker sarebbe di quasi 120 milioni di euro l’anno! Quando andiamo a  spiegare il meccanismo ad alcuni benzinai, dicono di non esserne a conoscenza: “Ce lo dice lei adesso. Io non lo so che non posso comprarlo, io i costi della raffineria non li conosco”. “Tu mi hai spiegato quella cosa qui che non mi ha mai spiegato nessuno da quando faccio questo lavoro. D'ora in poi basta comprare da questi signori. Io se vedo che è platt+10 non compro, basta!” Ogni anno, con questo meccanismo, si stima che venga evasa l’Iva per 4-5 miliardi di euro, tutti soldi che potrebbero essere utilizzati per i servizi pubblici. Mancati introiti che, ovviamente, devono poi essere compensati con nuove tasse. E indovinate chi le paga?

·         La Cupola delle Occupazioni delle Case.

"E che fai? Non puoi cacciarmi". Stranieri ci prendono le case. Tra le tante mail arrivate in redazione sul "blocco sfratti" ci sono le storie di chi viene anche insultato dagli inquilini. Ignazio Stagno, Lunedì 21/09/2020 su Il Giornale. Da qualche giorno ilGiornale.it sta portando avanti la battaglia contro il blocco degli sfratti che ha colpito e non poco i proprietari di casa. In redazione abbiamo ricevuto da parte vostra una valanga di mail in cui ci avete raccontato le vostre storie e sopratutto il calvario affrontato con gli inquilini morosi che vengono tutelati fino al 31 dicembre con il divieto assoluto per i proprietari di rientrare in possesso della propria casa. Già ieri abbiamo raccontato alcune delle vostre storie. Oggi vogliamo raccontarne altre soffermandoci su chi ha visto le proprie case occupate da stranieri e rom. Di queste storie ne abbiamo raccolte parecchie ed è giusto raccontarle per capire qual è l'inferno in cui sono piombati tutti coloro che legittimamente hanno deciso di affittare la propria casa e si sono ritrovati con le tasche vuote senza incassare un affitto dovuto (e sacrosanto).

"Tanto non ci puoi cacciare". Come ci ha raccontato Piera, a volte una situazione del genere può diventare una vera e propria "gabbia": "Il mio inquilino entrato il 2 gennaio 2020, lavoratore del Bangladesh in Italia da 30 anni, sempre dipendente dello stesso datore di lavoro che lo ha raccomandato, non ha pagato gli affitti da marzo e ha deciso autonomamente di utilizzare il deposito cauzionale per coprire alcune mensilità. Ha messo in un bilocale 8 persone e vi ha chiesto la residenza per tutti, benché nel contratto fosse autorizzato solo per tre persone di famiglia, il suo avvocato ha scritto che sarebbe uscito il 30 giugno ma a luglio ha ridato disdetta per il 31 dicembre. Ha tre minori in casa iscritti a scuola nel quartiere, casa arredata distrutta, quindi non andrà via. Mi ha detto: Tanto gli sfatti sono bloccati e comunque anche mi desse lo sfratto prima che esco ci vogliono anni. Questa è la nostra legge".

"La trappola della proroga". Ma non finisce qui. C'è Aldo che da mesi non incassa l'affitto che dovrebbe pagargli il suo inquilino albanese. Ha deciso di scriverci e di raccontarci cosa sta accadendo a casa sua: "Il mio inquilino di origine albanese con tre figli che vanno a scuola ha smesso di pagare sia le quote condominiali che le quote di affitto dicendo che ha perso il lavoro e che il comune gli assegnerà una casa. Nel frattempo a seguito covid ha un posto sicuro dove abitare fino a dicembre e poi ci scommetto che il giudice gli darà anche qualche proroga pur avendo iniziato la pratica di sfratto all’inizio anno 2020". Poi lo sfogo duro: "Il proprietario è obbligato a pagare sia le tasse sull’immobile che le tasse su di un reddito che non percepisce più finche il giudice non emette la sentenza. Così si perde di fatto la proprietà". Poi c'è anche chi era riuscito quasi a vincere la propria battaglia ed è rimasto fregato dalla proroga Covid. Riccardo ha un inquilino straniero dello Sri Lanka e racconta: "Dopo una infinità di solleciti e di false promesse nel giugno 2019 ho deciso di adire le vie legali. Il colmo della vicenda è che l'inquilino si è trasferito in altra città lasciando la residenza nel mio appartamento ed ha sublocato lo stesso, contravvenendo ai vincoli contrattuali, ad altri suoi connazionali extracomunitari che pagano il canone di affitto a lui. L'esecuzione dello sfratto sarebbe dovuta avvenire il 10 gennaio 2020 ma per le lungaggini dell'ufficio notifiche del Tribunale sono incappato nelle proroghe per il Covid per cui se va bene avrò perso 3 anni di canone di locazione, avrò pagato 3 anni di spese condominiali, avrò pagato le spese legali e riavrò l'appartamento distrutto. È giustizia questa?".

"Rivoglio il mio negozio". C'è poi chi ha perso nei fatti il diritto di proprietà su un locale affittato per uso commerciale: "Sono proprietario di un negozio acquistato dopo 50 anni di sacrifici miei e soprattutto di mio padre dove al suo interno ha svolto la sua attività per decenni, ora che non c’è più il suo affitto costituisce l’unica entrate per mia madre vedova e senza pensione. Gli inquilini cinesi si sono rifiutati di pagare sin da marzo ( avevano preventivamente chiuso l’attività 15 giorni prima del DPCM) e oggi con lo sfratto convalidato dobbiamo sopportare le spese pesantissime di imu e condominio e legali vederli ogni giorno aprire il negozio alle nostre spalle impotenti, verrebbe voglia di maledire chi ha promosso questa legge!!!". Gennaro invece ha la casa occupata da una famiglia rumena: "Io ho la casa occupata da una rumena con marito e figlio, in più subaffitta ad altri rumeni , contratto scaduto il 15 gennaio 2020 , avviso di non rinnovo consegnato ad agosto 2019, non mi lascia casa e non percepisco l'affitto da dicembre 2019, intanto tutte le spese le pago io, grazie a Conte".

L'urlo dei proprietari di casa: massacrati dal trucco di Conte. Poi c'è chi deve fare i conti anche con i rom: "Sono proprietario anche se in questi giorni e di questi tempi questa é una parola grossa perché con questo governo anche la proprietà sudata con tanti sacrifici, tanto lavoro, tanto sudore non é più una certezza. Sono rammaricato perché ho affittato il mio appartamento ad una famiglia di origine rom e vi lascio immaginare il peggio di quello che si possa fare a partire dal non rispetto dei vicini finendo con il non rispetto del bene dato in custodia e approfittando delle leggi incostituzionali che difendono chi le regole non le rispetta mi ritrovo a dover accettare il mancato pagamento del canone di affitto da febbraio e con le spese legali per cercare di mandarli via oltre ai danni che stanno provocando visto che vivono nell’incuria totale". Insomma la voce dei proprietari si fa sentire e raccontando le loro storie vogliamo chiedere al governo di battere un colpo per prevedere almeno un "ristoro" a tutti coloro che hanno perso l'incasso dell'affitto in questi mesi. Tanti inquilini, va ricordato, pagano onestamente e correttamente le loro quote, ma intanto c'è anche chi approfitta di questa norma voluta dai giallorossi per non aprire più il portafoglio.

Fabio Rossi per il Messaggero il 9 luglio 2020.

IL PROVVEDIMENTO. Sanatoria per tutti gli occupanti abusivi delle case dell' Ater - oltre seimila casi a Roma - purché vi si siano insediati prima del 23 maggio 2014: il giorno in cui è entrata in vigore la legge Lupi sull'emergenza abitativa, che impedisce agli occupanti di ottenere la residenza e la regolarizzazione. La giunta regionale ha approvato la delibera che mette in atto la decisione del consiglio regionale che a febbraio, nell' ultimo collegato al bilancio, con una scelta molto contestata aveva dato il via alla regolarizzazione delle occupazioni senza titolo: una realtà che, oltre a sacche di povertà ed emarginazione sociale, comprende anche abusi e prevaricazioni ai danni degli aventi diritto, oltre a casi di vero e proprio racket sulle case occupate. Il fenomeno ha evidentemente messo le radici in un contesto che, nel corso degli anni, è diventato sempre più fuori controllo, nonostante i recenti tentativi di riportare, almeno in parte, la legalità.

L' ITER. La nuova delibera della Regione definisce i termini e le modalità di presentazione della domanda e stabilisce l' iter procedurale. La richiesta di regolarizzazione potrà essere inviata al Comune dove è ubicato l' alloggio e all' Ater di competenza, a partire dal 1° settembre 2020 e fino al 27 febbraio 2021. Potrà essere inviata direttamente dall' interessato, tramite raccomandata o Pec, oppure ricorrendo alla consulenza di Caf, sindacati, patronati e comitati degli inquilini. Oltre alla data dell' occupazione, un altro elemento determinante sarà il reddito. Chi otterrà la sanatoria dovrà pagare una cifra sarà pari al canone Erp calcolato in base al reddito, per il periodo dell' occupazione dell' alloggio, per un massimo di cinque anni. Con una sanzione di 200 euro mensili, per la fascia di reddito più bassa, ridotta del 10 per cento per i nuclei familiari in cui siano presenti minori o del 20 per cento qualora siano presenti minori con disabilità.

I CRITERI. Chi presenta la domanda per la sanatoria dovrà dichiarare di non essere proprietari o di non poter utilizzare altri alloggi adeguati alle esigenze del nucleo familiare sul territorio dove si trova l' alloggio occupato o di non essere proprietario di immobili con un valore superiore ai 100 mila euro sull' intero territorio nazionale. E inoltre dovrà dichiarare di non avere avuto in assegnazione alloggi realizzati con contributi pubblici o di non aver realizzato abusi all' interno dell' immobile abitato senza titolo. Nella legge approvata a febbraio, inoltre, per quanti hanno occupato dopo il 23 maggio 2014 viene prevista la possibilità di restare nell' abitazione avanzando domanda di casa popolare e aspettando in graduatoria, qualora l' assegnazione avvenga entro due anni. «Abbiamo votato contro questa norma, nel collegato al bilancio, perché non si sono scisse le posizioni di chi ha davvero diritto a una casa popolare da chi occupa abusivamente e fa compravendita di alloggi di edilizia residenziale pubblica», sottolinea Fabrizio Ghera, capogruppo di Fratelli d' Italia in consiglio regionale.

Chiusa CasaPound, ora però tocca ai compagni. Ieri, nel primo giorno di libertà ritrovata, la viceministra dell'Economia ha avuto modo di comunicare (trionfante) al popolo italiano la seguente notizia. Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 04/06/2020 su Il Giornale.  Ieri, nel primo giorno di libertà ritrovata, la viceministra dell'Economia ha avuto modo di comunicare (trionfante) al popolo italiano la seguente notizia: «Ho appena saputo che è stato ordinato lo sgombero da Via Napoleone III a CasaPound. Ci lavoriamo da tanto, finalmente si ristabilisce la legalità». Evviva, finalmente. Segue, a stretto giro di tweet, il giubilo di Virginia Raggi che, con spirito eroico, aveva già fatto rimuovere a suo tempo l'insegna «CasaPound», scritta in pericolosi caratteri del Ventennio, dall'edificio di proprietà del ministero dell'Economia. Dunque, prima di parlare dello sgombero, sgomberiamo il campo da equivoci: noi abbiamo sempre difeso la proprietà privata ed è intollerabile che un edificio, sia esso di proprietà del privato o del pubblico, venga occupato abusivamente. Non esistono giustificazioni ideologiche di alcun tipo per violare la sacralità della proprietà privata. Quindi, bene lo sgombero di CasaPound che, con ogni evidenza, era la priorità del governo e della prima cittadina della Capitale. Però, adesso, colgano la palla al balzo e facciano sgomberare gli altri 77 centri sociali abusivi sparpagliati qua e là sul territorio nazionale. Quasi tutti di sinistra e in molti casi vere e proprie polveriere di anarco insurrezionalisti. E lo facciano con lo stesso zelo che hanno dimostrato nel mettere alla porta i camerati di CasaPound. Altrimenti ci viene il dubbio che esista un doppio codice penale: uno per i fascisti e uno per i comunisti. Se occupi uno stabile e ci appiccichi sopra una bella falce e martello nessuno ti rompe le balle e finisci nel cono d'ombra dell'impunità. Perché in fondo sono ragazzi, sognano un mondo migliore, socializzano e fanno cultura. Se sei di estrema destra, invece, vengono a prenderti a calci nel sedere e ti rintanano nelle fogne. Anche a CasaPound hanno fatto cultura, conferenze, concerti e incontri trasversali. Ma è giusto che lo facciano in una sede loro, pagando l'affitto e le bollette. Però, ora, per avere una giustizia equa lo Stato deve chiudere tutti i centri sociali occupati, siano di destra o di sinistra. Altrimenti sarà solo una vigliaccata a scopo elettorale: bastonare i più deboli e i più piccoli senza avere il coraggio di toccare i più potenti.

Così il clan egiziano assegnava gli alloggi nel residence del Comune. Il clan egiziano decide chi può rimanere negli alloggi pagati dal Comune. La denuncia di un'inquilina di via Tineo: "Ho sempre avuto paura che Fathy potesse farmi togliere l’assistenza alloggiativa perché conosce chi assegna le case". Alessandra Benignetti e Roberto Di Matteo, Lunedì 16/03/2020, su Il Giornale. Ma perché la famiglia Torkey sembra essere al di sopra della legge? Una delle possibili risposte a questa domanda è contenuta in una denuncia. Ricordate la ragazza picchiata dal figlio di Fathy, Mohammed, di cui vi abbiamo parlato nelle puntate precedenti della nostra inchiesta? Siamo andati a trovarla a San Basilio nel residence in cui è stata trasferita dopo l’aggressione in cui furono coinvolti anche quattro agenti della Polizia Locale intervenuti per difenderla. Vive qui assieme alle due figlie in un appartamento di pochi metri quadri. Quando bussiamo alla sua porta e le facciamo il nome di Mohammed Torkey il volto si scurisce. Abbassa gli occhi, si accende una sigaretta. "Con quella famiglia ho chiuso", ci avverte. È evidentemente spaventata dal fatto che l’incubo vissuto sei mesi prima possa tornare. "In quel residence ci sono sempre casini, lo sanno tutti", si limita a dirci prima di iniziare a ripetere che "non sa nulla e anche se sapesse non parlerebbe per nessuna ragione". Nel residence di via Tineo la donna era assegnataria di un immobile in cui viveva proprio con Mohammed e le loro bambine. Una cosa però la ammette. "L’alloggio l’ho preso grazie a Mohammed, questo è vero – ci confessa - perché lui si occupava della sicurezza". Un servizio, quello della security, retribuito dalla proprietà dello stabile con i fondi messi a disposizione dal Comune di Roma. Nella denuncia resa alla Polizia Locale lo descrive come una persona "estremamente violenta e pericolosa". "Faceva uso di sostanze stupefacenti" e "mi picchiava ogni giorno utilizzando qualsiasi cosa che gli capitava per le mani, ad esempio coltelli o altri oggetti acuminati", testimonia la donna ai vigili. Nel resoconto racconta di essere stata chiusa nel gabbiotto della portineria e "ferita con un coltello" o di quando Mohammed ha tentato di scagliarla fuori dalla finestra "per futili motivi, sotto l’effetto del crack". In nessun caso, racconta agli agenti del comando di via Macedonia, ha deciso di sporgere denuncia perché il padre di Mohammed, Fathy, che la donna definisce "responsabile della sicurezza nel Caat", era intervenuto a garantire che tutto si sarebbe sistemato. Mohammed entra ed esce dal carcere di Rebibbia. Una volta libero si presenta di nuovo a casa della donna nonostante i trascorsi turbolenti e il fatto che da tempo frequentasse un’altra persona. Ovviamente lei è contraria. E così ad intervenire, ancora una volta, sarebbe stato Fathy, il padre di Mohammed. Il capo famiglia le assicura che "avrebbe sistemato tutto". Lei alla fine è costretta ad accettare, perché, spiega agli agenti ha "sempre avuto paura che Fathy potesse farmi togliere l’assistenza alloggiativa se non avessi accettato la convivenza". Nel verbale, qualche riga più sotto, la donna aggredita rivela di aver "paura" anche delle reazioni di Mohammed, e del fatto che "possa farmi togliere l’assegnazione della casa". Ma perché la famiglia Torkey dovrebbe avrebbe la facoltà di decidere chi può e chi non può rimanere negli alloggi del Comune? La versione della vittima è che Fathy ha il potere di revocare l’assistenza alloggiativa. È negli uffici di piazza Giovanni da Verrazzano, quindi, sede del dipartimento Politiche Abitative di Roma Capitale, che andiamo a chiedere spiegazioni. Fuori dalla palazzina, incontriamo il direttore apicale del Dipartimento Valeria Minniti ed il direttore delle Politiche Abitative Stefano Donati, l'ex comandante dei vigili di Bari, imputato per abuso d'ufficio e falso ideologico in atto pubblico, che ha preso il posto di Aldo Barletta, il dirigente che si oppose alle logiche di Mafia Capitale e che la sindaca Virginia Raggi ha trasferito alla direzione del Centro Carni. La prima ci liquida con un no comment e ci intima di allontanarci immediatamente dall’ingresso del palazzo. Il secondo evade sorridendo i nostri quesiti. Dopo i no comment e le porte sbattute in faccia, quindi, resta una domanda: perché in una città con oltre 12mila persone senza un tetto sopra la testa l’assistenza alloggiativa viene assicurata a chi non ne ha diritto? Sì, perché qui non si parla di case popolari ma di appartamenti il cui costo viene sostenuto dalla collettività per rispondere ad una vera e propria emergenza sociale. Un onere che, fra l'altro, fa di Roma la città italiana con la più alta addizionale comunale Irpef. E perché nonostante le violenze, le intimidazioni e il clima di terrore che si respira nel residence e che abbiamo documentato con testimonianze e documenti, i fondi stanziati dal Comune sono continuati a finire nelle casse delle società gestite o collegate alla famiglia Torkey? Nessuno ci ha ancora risposto. La nostra incursione, però, forse è servita a qualcosa visto che, da quanto ci risulta, nei giorni scorsi sarebbero partiti i primi accertamenti. Non ci resta che attenderne l’esito, nella speranza che venga ripristinata al più presto la legalità.

L’immobiliare delle case popolari occupate: a San Siro 260 alloggi in mano  al clan di egiziani. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Giampiero Rossi. Un piccolo impero immobiliare fondato sulle occupazioni abusive di case popolari e su mutui bancari generosi. Un business vivace e in costante sviluppo che prospera lungo l’asse che unisce due province egiziane e il quadrilatero Aler della zona San Siro, ma che non avrebbe potuto decollare senza la benedizione di istituti di credito da Paese di Bengodi e di qualche compiacenza strategica. Sono stati necessari tre mesi di lavoro, negli uffici di viale Romagna, dove la squadra addetta alla sicurezza ha incrociato dati su dati, mettendo insieme un puzzle che ha rivelato un disegno sconcertante: alcune famiglie di inquilini abusivi sono proprietarie di 130 appartamenti sparsi in tutta Milano, comprati alle aste pubbliche, oltre ai 130 in cui abitano irregolarmente. L’hanno chiamata operazione «Sharkia’s home», prendendo il nome dal governatorato egiziano a Nord del Cairo da dove provengono molti dei protagonisti. Tutto è cominciato con una di quelle percezioni che maturano a sensazione, a colpo d’occhio, osservando tabelle, elenchi e numeri. Parlando con i responsabili della sicurezza, il presidente di Aler, Angelo Sala si è soffermato sulla casella relativa alle origini di diverse famiglie che occupano abusivamente decine di alloggi dell’Azienda regionale per l’edilizia popolare tra via Tracia, via Abbiati, via Preneste, piazza Selinunte, via Morgantini , via Gigante, via Civitali, via Paravia e — in misura minore — altre strade del vecchio quartiere San Siro. Molte di quelle persone arrivavano dall’Egitto. Ma considerando che si tratta di un Paese che si avvicina rapidamente alla soglia dei cento milioni di abitanti era ancora poco per tentare di individuare un legame tra quelle famiglie. Qualcosa di più, tuttavia, lo suggeriva la riga successiva: il governatorato, cioè la provincia di provenienza. La grande maggioranza si concentrava su due località: Sharkia e Asyut. Ancora non era molto, ma abbastanza da stimolare la voglia di provare a vederci più chiaro. Così, incrociando i dati anagrafici con quelli catastali, una dopo l’altra sono spuntate una serie di proprietà di immobili intestati ai diversi componenti di quelle famiglie. Gli investigatori dell’Aler ne hanno contati (finora) 130. Tutti acquistati da aste pubbliche, pagati con mutui bancari e poi messi a reddito. Perché loro, i proprietari, hanno continuato ad abitare negli appartamenti popolari occupati abusivamente, affittando gli immobili di proprietà a inquilini paganti. Ma le coincidenze interessanti non finiscono qui. Dal successivo giro di approfondimenti è emerso che a consentire questa fitta serie di compravendite sono stati i mutui concessi soprattutto da tre istituti di credito. Una banca, in particolare avrebbe prestato alla rete degli immobiliaristi egiziani quasi un milione e centomila euro. E un altro milione circa è arrivato da altre due importanti marchi bancari. «Non sappiamo se quei mutui siano stati accesi nelle stesse agenzie, o magari dagli stessi funzionari — spiegano i detective di Aler — forse lo potrà scoprire un’indagine giudiziaria». E l’altro interrogativo aperto riguarda l’eventuale esistenza di qualche «basista» all’interno del sistema che governa le aste pubbliche. Intanto la grande truffa dell’agenzia immobiliare clandestina di San Siro ha prodotto un primo effetto: le famiglie che occupano abusivamente gli alloggi Aler sono salite in cima alla lista degli sgomberi, dal momento che ormai è evidente che hanno a disposizione più di una casa di proprietà. Restano da quantificare i danni economici (e sociali), ma il presidente Angelo Sala è soddisfatto «per l’ottimo lavoro di questi ragazzi che non si sono risparmiati». Oltre all’operazione «Sharkia», l’attività investigativa interna di viale Romagna ha portato alla luce un altro caso clamoroso di business illegale all’ombra dell’edilizia pubblica: al Corvetto, un giovane occupante abusivo affittava le tre stanze del «suo» appartamento Aler a studenti, incassando affitti mensili da 400 euro per ospite. E per trovare i clienti pubblicava annunci su siti di annunci come Booking e Subito.it. Ma qualcuno ha riconosciuto la casa dalle foto.

·         La Mafia dello Sport.

Da “la Repubblica” il 30 maggio 2020. A 800 giorni dal contestatissimo voto 2018, l' elezione dell' ex presidente della Lega di Serie A Gaetano Miccichè è diventata un caso giudiziario. La procura di Milano ha aperto un fascicolo su quella votazione e, anche se non ci sono ancora indagati, la Guardia di Finanza ha acquisito l' urna con i voti delle 20 società. I fatti erano già stati oggetto di un' inchiesta della Procura federale della Figc, archiviata "con riserva". Ma sufficiente a minare la Lega di Serie A, convincendo Miccichè, lo scorso novembre, a dimettersi: ma il problema è la dinamica che quel 18 marzo portò alla sua elezione, arrivata per acclamazione, senza lo spoglio a scrutinio segreto. Di fatto un voto palese, quindi contro lo statuto. Ma perché si arrivò a quel tipo di votazione? Quel giorno, i presidenti erano divisi sul nome di Miccichè e questo poteva diventare un problema per la sua elezione: normalmente bastano 14 voti per eleggere il presidente, ma nel caso specifico era richiesta l' unanimità per superare il conflitto di interesse dovuto agli incarichi del candidato (nel cda di Rcs e da presidente di Banca Imi). Business Insider pubblicò poi un audio che apriva il caso, rilanciato dalla denuncia del presidente del Genoa Preziosi: «L' elezione non è stata corretta». Ora sulla vicenda indaga Milano, cui la segnalazione è arrivata dall' ex procuratore federale Pecoraro. E in imbarazzo, più che Miccichè, assente a quell' assemblea, potrebbe trovarsi chi la presiedeva, ossia il presidente del Coni Giovanni Malagò, all'epoca commissario della Lega. Lo scorso autunno, mentre quell' elezione veniva utilizzata come strumento per tenere sotto scacco i vertici della Lega, al giudice sportivo Mastrandrea fu suggerito di mettere in sicurezza quei voti consegnandoli al notaio Calafiori. Cosa succederà se si scoprisse che Micciché non aveva davvero i voti per essere eletto (e quindi che alcuni club dichiararono il falso)? C' è chi sostiene che potrebbero essere impugnate tutte le delibere firmate dall' ex presidente. Tra cui la nomina dell' ad De Siervo, ma soprattutto l' assegnazione dei diritti tv a Sky e Dazn, con cui oggi è in corso una battaglia legale.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” l'1 giugno 2020. Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, quale presidente (da commissario) dell' assemblea della Lega Calcio di serie A con la quale il 19 marzo 2018 le 20 squadre elessero neopresidente «per acclamazione» il n.1 di Banca Imi, Gaetano Micciché, è indagato per l' ipotesi di falso nel verbale assembleare dai pm milanesi Paolo Filippini e Giovanni Polizzi: i quali, con l' aggiunto Maurizio Romanelli, acquisite in gennaio la registrazione e le «plurime irregolarità» addotte dal procuratore vicario Figc Giuseppe Chiné in una istruttoria sportiva pur archiviata, venerdì hanno chiesto al notaio Giuseppe Calafiori di esibire gli iniziali voti a scrutinio segreto. Il reato ipotizzato richiede la qualificazione pubblicistica della Lega, che però in un' altra indagine dei pm sui diritti tv venne bocciata nel 2017 dal gip Accurso Tegano. «Sono tranquillo - commenta Malagò - tutti sono sempre stati a conoscenza dei fatti che si sono svolti nell' assoluta trasparenza». Il 9 marzo 2018, per affrontare conflitti di interessi di candidati che avessero ricoperto incarichi in istituzioni private di rilevanza nazionale in rapporto con le squadre o i loro gruppi (Micciché è nel cda della Rcs), all' inizio dell' assemblea la Lega Calcio approva una modifica dello statuto, prevedendo non più la maggioranza (sicura su Micciché già dal 5 marzo) ma l' unanimità, in un voto che l' articolo 9 impone segreto. Dopo un vivace confronto tra presidenti sulla coerenza o meno di ventilate astensioni, il presidente della Juve Andrea Agnelli propone l' elezione per acclamazione. Malagò concorda, «se no salta tutto», ma procede al voto segreto quando il presidente dei revisori Ezio Maria Simonelli, e il giudice sportivo Gerardo Mastrandrea ricordano lo statuto. Terminato il voto nel trambusto (una voce: «E se vota no qualcuno, che famo?», un' altra voce: «Famo sparire il seggio»), l' ad romanista Mauro Baldissoni invita «tutti a rinunciare allo scrutinio segreto. Chi per caso abbia deciso di votare contro, lo dica apertamente: sarei in imbarazzo se, aprendo le buste, non ci fosse l' unanimità necessaria anche ai fini della modifica statutaria». Malagò appoggia, e pure il revisore apre: «Se ciascuno di voi individualmente fa una dichiarazione su quello che ha votato e consegna la scheda, si può fare». Malagò: «Chi è contrario? C' è qualcuno che non vuole fare una dichiarazione di voto per Micciché? Dai ragazzi, mi sembra una cosa di buon senso». Tutti palesano: «Micciché». Una voce: «Adesso apriamo?». Malagò: «Le schede non si aprono più, c' è la dichiarazione». E nel verbale «dispone non siano scrutinate, ma inserite in un plico sigillato in cassaforte» con firma del segretario dell' assemblea Ruggero Stincardini e di Mastrandrea. Micciché, non presente, si dimetterà dopo 20 mesi, ritenendo «inaccettabili» le prime polemiche.

Da corrieredellosport.it l'1 giugno 2020. Tiene banco il caso Zarate. In Federazione c’è un’indagine aperta sul tesseramento del giocatore dopo le anticipazioni di un servizio del programma Le Iene. Nel video vengono raccolte le dichiarazioni di Luis Ruzzi, agente nel 2008 dell’argentino, in cui si evidenziano presunte irregolarità nelle modalità di pagamento dello stipendio, con possibili violazioni della disciplina fiscale e di redazione dei bilanci delle società professionistiche. L'indagine sportiva riguarda il calciatore e il legale rappresentante della società, ovvero il presidente Claudio Lotito. Il servizio del programma Mediaset viene poi rimandato: “Riteniamo giusto dare un diritto di replica al presidente della Lazio. Nel caso in cui Lotito non volesse cogliere quest'opportunità, il servizio sarà regolarmente in onda martedì 2 giugno”.

Lazio, Lotito risponde alle Iene. Il numero uno della Lazio ha risposto con un comunicato: “Visionato con i legali il servizio de “LE IENE”, che peraltro è stato già dolosamente diffuso sul web e sui giornali, provocando alla mia persona ed alla S.S. Lazio S.p.A., società quotata in Borsa, gravissimi danni, non ritengo di conferire a questo ulteriore risonanza con la mia partecipazione. Resta peraltro fermo che i contenuti lì rappresentati sono del tutto inattendibili ed infondati e che di questo i responsabili saranno chiamati a rispondere nelle competenti Sedi penali e civili”. Battaglia aperta.

Lotito e calcio mercato: lo “strano” ingaggio di Maurito Zàrate. Le Iene News il 02 giugno 2020. Filippo Roma raccoglie le durissime accuse di Mauro Zàrate, per 3 anni alla Lazio di Lotito e del suo procuratore Luis Ruzzi. “Tredici milioni del suo ingaggio il Presidente ce li fece avere da una società londinese, per non pagare le tasse”. Fu evasione e frode fiscale? Cosa risponde il presidente Lotito? Filippo Roma e Marco Occhipinti indagano su una pesante ombra sull’operato di Claudio Lotito, Presidente della Lazio e membro del comitato di presidenza della Figc, la federazione gioco calcio italiana. L’accusa, sostenuta dall’attuale manager dell’attaccante argentino Mauro Zàrate e dallo stesso giocatore, riferisce fatti e circostanze, che fanno sorgere più di un dubbio: ci sono stati evasione fiscale, frode fiscale e falso in bilancio? Ma andiamo con ordine. Filippo Roma ha incontrato Luis Ruzzi, ex diplomatico presso l’ambasciata argentina a Roma e capo delegazione dell’Argentina durante i campionati del mondo Italia 90, un manager sportivo insignito anche del titolo di Cavaliere della Repubblica italiana. Luis, che racconta di aver contribuito a portare in Italia grandissimi campioni del calibro di Gabriel Batistuta, Abel Balbo e Diego Simeone, tra i quali anche nel 2008, l’argentino Mauro Zàrate. Il bomber biancoceleste che si è reso subito protagonista di una vittoria della Lazio in Coppa Italia nel 2009, e poi della Super Coppa Italiana con l’inter che poi vinse il triplete. Luis Ruzzi racconta a Filippo Roma che Zàrate secondo gli accordi raggiunti con Lotito, dovrebbe ancora avere, almeno 3 milioni e mezzo di euro, relativamente al terzo e quarto anno di contratto di Zàrate. Ripercorriamo la storia di quell’ingaggio: Maurito Zàrate stipulò un contratto di 5 anni con i biancocelesti, di cui un anno in prestito all’Inter, per poi tornare in Argentina anticipatamente. Dopo un successivo brevissimo ritorno in Italia, alla Fiorentina, oggi Zàrate è attaccante del Boca Juniors, squadra con cui ha vinto l’ultimo campionato In Argentina, appena disputato. Che su quell’ingaggio ci potesse essere qualcosa da verificare era una circostanza già emersa in qualche modo, tra le righe, durante un infuocatissimo confronto tv di 9 anni fa, tra Lotito e Di Canio. Era stato Di Canio, durante quel confronto, a evidenziare gli esorbitanti costi delle spese di intermediazioni per portare il calciatore in Italia. “Mi sembra di aver letto nelle spese 15 milioni di transazione – aveva affermato Di Canio - è comunque un pagamento per avere il giocatore”. Ma Lotito nega tutto: "Ma quali 15 milioni mi scusi? Ma di che cosa sta parlando? Lei prima si documenti”. “C’è il bilancio guardi – ribatteva Di Canio -. Mi sembra che sia stato indagato per questo...”. Ma Lotito insiste: "Rischia di commettere degli errori come sta commettendo...”. Insomma su quanto sia costata la mediazione per portare Zàrate alla Lazio i due non sembrano affatto d’accordo. Di Canio parla di circa 14 milioni di euro e ricorda che per questa vicenda Lotito è stato anche indagato, ma per Lotito Di Canio “sta dichiarando cose totalmente false e mendaci”. Alla fine il Presidente Lotito spiega che il calciatore sarebbe costato 20 milioni di clausola di rescissione e tre milioni di provvigioni, maturate fino a quel momento. Ma Di Canio tira dritto con la sua ipotesi: per lui ai circa 20 milioni della clausola rescissoria si sommerebbero 15 milioni di intermediazioni, ma la cosa suonava un po’ strana, perché lo stipendio ufficiale di Zàrate, da contratto, era di 7 milioni in 5 anni. È dunque possibile che un calciatore guadagni meno di quanto prende il suo intermediario? In questo caso infatti, considerato che di solito un procuratore prende una commissione che si aggira intorno al 10 per cento dello stipendio del giocatore, avrebbe maturato una provvigione di più del 200 per cento. Qualcosa davvero sembra non tornare e Filippo Roma e Marco Occhipinti intendono andare a fondo, in questa strana storia. All’epoca Lotito minacciò Di Canio di azioni legali: "Io le dico pubblicamente davanti a tutti, siccome è un dato falso quello che sta dando e sta esternando pubblicamente in questo momento le dico che lei lunedì mattina riceverà una citazione, Di Canio, perché dichiara che la Lazio ha pagato Zàrate 37 milioni ed è un falso. Lei sta creando un danno a una società quotata”. Incontriamo Di Canio sul freccia rossa Milano-Roma e ci racconta: ”Era riscontrabile il bilancio, c’erano le commissioni che erano comunque riscontrabili. Siccome io ho fatto la denuncia a lui per questa diatriba, il giudice decise che io ero nel giusto, perciò il procedimento è andato avanti con lui che era imputato e io comunque parte lesa”. Ma torniamo al punto centrale della storia: come mai la mediazione per comprare Zàrate sarebbe costata più del doppio dello stipendio del calciatore stesso? Per fare chiarezza decidiamo di ascoltare la denuncia di Luis Ruzzi, il procuratore di Mauro Zàrate, e l’uomo non sembrerebbe avere dubbi: "Io voglio denunciare delle grandi irregolarità che ha fatto il presidente Lotito. Il presidente mi dice, ‘guarda Luis, per essere tranquilli io gli offro 20 milioni di euro in 5 anni, va bene?’E così firmammo”. Già qui i conti sembrerebbero non tornare perché ufficialmente, su Zàrate, esiste solo un contratto da 7 milioni in 5 anni di stipendio, e un altro contratto di 14 milioni, per l’intermediazione”. L’intermediario Luiz Ruzzi prosegue nel suo racconto e ci spiega come sarebbero andate le cose: “Quando arriviamo al giorno della trattativa finale Lotito viene fuori dicendo ‘non vi do i 20 milioni come stipendio, come stipendio vi do 7. Tredici, il resto, ve li do attraverso un amico mio’. Ci presenta questo personaggio che è Riccardo Petrucchi, che era agente Fifa, però si presentava con una società inglese che si chiama Pluriel. La Pluriel in questo contratto ci riconosce 14 milioni, uno se lo doveva tenere per tutto questo servizio. Qui c’è tutto il dettaglio di questi soldi, come ce li ha mandati in Uruguay la Pluriel, che girava i soldi che prendeva dalla Lazio, che erano i soldi del giocatore, mascherati così e viaggiavano...”. Se fosse vero il suo racconto insomma i 20 milioni su cui si erano accordati come compenso per Zàrate sarebbero stati suddivisi in una parte ufficiale di 7 milioni di stipendio direttamente al giocatore e in un’altra parte di circa 13 milioni, anche questi di stipendio, ma fatti passare come intermediazione da una società londinese, la Pluriel Limited di Riccardo Petrucchi a quella uruguagia, La Moisen, di proprietà di Sergio Zàrate, fratello di Mauro. Questo è almeno ciò che sostiene il procuratore Luis Ruzzi. Che prosegue: "Cioè è normale che lo stipendio di un calciatore non sia pagato dalla società che lo ingaggia ma da una società terza? Per Lotito è normale, per il resto del calcio no. Non lo è perché un datore di lavoro a un suo dipendente gli dà 7, a lui gli costa più di 14, quindi il doppio, giusto? Se tu invece su questi 15 milioni non paghi le tasse, non paghi irpef, non paghi inps, hai capito è chiaro che stai facendo un’evasione importante no?” Ma come dovrebbe funzionare per legge, una trattativa del genere, per essere pienamente in regola? Lo chiediamo a Corrado Ferriani, commercialista e docente diritto penale dell’economia. “Certamente la squadra di calcio deve riconoscere lo stipendio al calciatore, maggiorato dei contributi previdenziali e delle tasse”, spiega il professionista. Filippo Roma chiede: “Quindi se io devo pagare al calciatore uno stipendio di 20 milioni in 5 anni, quanto devo versare in più di tasse e contributi previdenziali?”. “Sicuramente una somma tra contributi e tasse non inferiore ai 6/7 milioni di euro”, è la risposta del commercialista. Quando gli chiediamo del giro di denaro che ci ha descritto Luis Ruzzi il commercialista sembra non avere dubbi: "Assolutamente non è corretto, configurerebbe certamente un’evasione fiscale senza alcun dubbio e potrebbe anche configurare un reato tributario di frode fiscale di utilizzo di una fattura per operazioni inesistenti. Vi è poi un altro profilo che si dovrebbe valutare che è quello della falsità dell’eventuale bilancio”. “Insomma – chiediamo ancora al commercialista – se le cose fossero davvero come ce le racconta il procuratore di Zàrate, potremmo trovarci di fronte a un caso di evasione fiscale, frode fiscale e falso in bilancio?” “Il reato tributario in questione peraltro è piuttosto grave – conferma il commercialista – perché prevede una pena superiore ai 6 anni di reclusione”. Luis Ruzzi dà anche la sua versione su come sarebbe andata a finire l’indagine della federazione a carico di Lotito, quella di cui parlava Di Canio in tv. “Lui è andato in federazione come fa sempre, è andato lì, se l’è incartati come dice lui”, sostiene Luis Ruzzi. In quella circostanza Lotito e la Lazio furono deferiti perché hanno pagato direttamente la società londinese, la Pluriel, invece che personalmente l’agente Riccardo Petrucchi, che comunque non aveva depositato alcun mandato scritto. Va però precisato che non è mai emerso nulla di tutto il resto raccontato oggi a Le Iene dal procuratore di Zàrate. All’epoca, nonostante le condizioni scelte da Lotito e accettate dal giocatore, a un certo punto i rapporti tra le parti si guastano e dopo il prestito all’Inter, racconta ancora Ruzzi, “l’ha messo fuori squadra perché non ci voleva pagare, perché lui a ottobre ci doveva dare i 3 milioni di euro attraverso questo marchingegno. Il giocatore non sapeva che fare, lui lo mise fuori squadra, una cosa tremenda è stata per lui”. Quindi dopo il prestito all’Inter, Zàrate viene messo fuori rosa e Lotito smette di pagare quanto concordato per il quarto anno di contratto. La società londinese Pluriel farà causa a Lotito e vincerà, ma non girerà i 3 milioni di euro presi dalla Lazio alla società del fratello di Zàrate, come da accordi. L’anno successivo il giocatore, pur di non rimanere un altro anno fermo, andrà in Argentina a giocare nel Velez, perdendo così anche il quinto anno di contratto con la Lazio. Luis Ruzzi aggiunge a Filippo Roma: "La Pluriel s’è presa 3 milioni di euro, ce l’hanno in tasca, il signor Petrucchi non ce li dà. Io chiaramente sono andato da Lotito e gli ho detto così: ‘presidente questo ce l’hai presentato te, qualsiasi uomo di affari che capisce, tu sei il responsabile di questa persona, tu lo hai presentato, che dobbiamo fare adesso? Andiamo a perseguitare questo per tutto il mondo? Gliel’ho chiesto in mille maniere, lettere, gli ho mandato messaggi, lui non risponde. Ci sarà un giudice che dirà quanto ci aspetta, qui ci sono delle cifre enormi”. Chiediamo anche direttamente a Zàrate. L’argentino conferma che c’era un accordo di 20 milioni di euro in 5 anni. Conferma anche che una parte di quei 20 milioni sarebbero stati fatti arrivare attraverso una società inglese, la Pluriel, che li avrebbe versati alla società del fratello, che poi glieli ha girati. “Con una persona che si chiamava Petrucchi – spiega Zàrate - Io questa persona non l’ho mai vista ma dal primo giorno che ho firmato il contratto già sapevo come erano le cose”. Insomma Mauro Zàrate confermerebbe in pieno lo strano meccanismo di pagamento tramite una società londinese off shore e a tal punto sono convinti che sia una stranezza, che lui e il suo agente ora vogliono rivolgersi alla giustizia italiana. Ma abbiamo un’ultima domanda. Ci chiediamo perché lui e il suo staff non abbiano denunciato prima tutta questa situazione e forse anzi in qualche modo l’abbiano coperta. Ci risponde Luis Ruzzi: ”Non potevo raccontare la verità perché dovevo andare a raccontare questo che aveva fatto Lotito che è una cosa fuori legge... Potevo andare a raccontare, c’avevo paura di pregiudicare il giocatore... Io l’unica cosa che volevo era andare via e pensavo che Lotito sapendo di tutta questa cosa anche lui ci agevolava… Una cosa che non ha mai fatto perché lui è un prepotente... In Federazione non gli dicono niente, e lui si sente proprietario e dunque l’unica cosa che volevamo noi è andare via...”. Insomma accuse pesantissime, le sue. Luis Ruzzi aveva provato a chiedere spiegazioni direttamente al Presidente Lotito, almeno in due occasioni, ma senza successo e anzi Claudio Lotito aveva chiesto agli agenti della sua scorta di identificarlo. E noi ci eravamo chiesti alcune cose molto precise. Innanzitutto la storia dei soldi che la società londinese Pluriel avrebbe pagato per l’intermediazione, versandola ad una società del fratello di Mauro Zarate in Uruguay. Ci eravamo chiesti anche se non fosse un po’ strano che l’intermediazione per comprare un giocatore costasse addirittura il doppio del suo stipendio e perché la Procura Federale non si fosse accorta di nulla. Però un’anticipazione uscita su Repubblica di martedì scorso, proprio il giorno della nostra puntata, ha suscitato così tanto clamore che abbiamo deciso di posticipare di una settimana il servizio. Questo per consentire un’eventuale replica del presidente Lotito. Lo abbiamo cercato chiamando il suo ufficio e anche l’ufficio stampa della Lazio, Stefano De Martino. Giovedì mattina De Martino ci conferma un appuntamento per questo lunedì alle 15, ma il giorno prima dell’appuntamento ecco un nuovo colpo di scena: ci è arrivata una lettera proprio da parte del presidente Lotito (clicca qui per la lettera). Il presidente ha visto il servizio e ha cambiato idea: non vuole più farsi intervistare da noi. Nella lettera Claudio Lotito muove una serie di accuse alle Iene e minaccia di adire alle vie legali.

Ecco la lettera di risposta di Lotito a Le Iene: secondo voi chi è più attendibile? Le Iene News il 02 giugno 2020. La nostra risposta e i documenti. Desta grande stupore, dopo il primo, anche il secondo comunicato pubblicato dalla S.S. Lazio sulla vicenda Lotito Zarate. La Lazio continua ad insistere nell'attribuire a Le Iene la dolosa diffusione anticipata del servizio di Filippo Roma e Marco Occhipinti sul presunto parziale pagamento in nero dell’asso argentino Zarate. Le Iene ribadiscono di non aver pubblicato o promosso la pubblicazione di alcun filmato sul web, come insinuato dalla società prima di poter incontrare il Presidente Lotito. Del resto, per quale ragione il programma avrebbe interesse nel divulgare un servizio sul web prima della messa in onda dello stesso? È chiaro il tentativo della S.S. Lazio di strumentalizzare la vicenda, evitando un confronto sul merito della stessa. Anche di questo la trasmissione se ne duole. Chiunque abbia eventualmente diffuso, pubblicato, distribuito, il filmato senza l'autorizzazione di chi ne detiene i diritti ha commesso un atto fuorilegge. Ribadiamo la domanda: la Lazio da chi l'ha ricevuto? Le Iene vogliono incontrare il Presidente Lotito per sentire la sua voce su una vicenda che appare ambigua e che la S.S. Lazio continua a non chiarire. Stasera su Italia1 manderemo finalmente in onda il servizio e per amore della verità e nel rispetto del contraddittorio, pubblichiamo la lettera che ci ha inviato Claudio Lotito dopo aver visionato il nostro filmato e sul cui contenuto dissentiamo. Senza darci alcuna risposta nel merito delle questioni sollevate dal servizio il Presidente Lotito minaccia querele e mette in dubbio l’attendibilità e la credibilità di una delle fonti dell'inchiesta: Luis Ruzzi, l'intermediario che ha portato Zarate in Italia e che ci risulta con la Lazio abbia intrattenuto rapporti professionali. Nella lettera ricevuta il Presidente Lotito afferma tre cose. La prima, Luis Ruzzi non sarebbe una fonte attendibile. Tuttavia Ruzzi ha dimostrato di aver fatto da intermediario nell’operazione che portò Mauro Zarate alla Lazio. Proprio Ruzzi ci ha consegnato una foto che avrebbe scattato al Presidente Lotito e ai proprietari della squadra del Qatar a cui apparteneva il giocatore. La seconda, Il presidente sostiene che le notizie riferite dal procuratore sarebbero infondate. Questo lo si vedrà. Intanto Ruzzi ci ha mostrato una serie di carte ufficiali che riscontrano molte delle cose che ci ha raccontato. La terza, Lotito dice che sul caso Zarate ci sarebbero già delle decisioni sia della giustizia sportiva che di quella ordinaria. Nessuna di queste decisioni però si è pronunciata sull’inedita denuncia mossa da Zarate e dal suo procuratore Ruzzi, in questo nostro servizio. Per concludere nella sua missiva il Presidente non risponde nel merito delle questioni sollevate dalla nostra inchiesta, ma prova a gettare discredito su uno dei suoi accusatori. Claudio Lotito sostiene che al contrario di quanto riferito nel nostro servizio Luis Ruzzi non sarebbe mai stato a capo di alcuna delegazione in rappresentanza della Nazionale Argentina ai mondiali di Italia 90, e che non avrebbe assolto alcun incarico diplomatico in Italia per conto dell’Argentina. In attesa di ricevere delle risposte sul cuore della questione sollevata dal servizio, su questi due punti che riguardano la carriera di Luis Ruzzi, chiunque potrà verificare facilmente se è più attendibile lui o il presidente Claudio Lotito. Dalla documentazione che c'è stata fornita e che pubblichiamo Luis Ruzzi sui due punti messi in dubbio dal presidente Lotito a noi pare attendibile.

Le Iene-Claudio Lotito, è guerra: "Non abbiamo diffuso video, da chi è arrivato?" Libero Quotidiano l'1 giugno 2020. Guerra sempre più accesa tra Claudio Lotito presidente della Lazio per il caso Zarate e il servizio che il programma televisivo delle Iene dovrebbe mandare in onda con le accuse dell'agente dell'ex attaccante laziale che afferma che il suo assistito ai tempi della Lazio fu pagato in nero. "In un comunicato che il Presidente della Lazio Lotito ha diffuso questo pomeriggio per spiegare le ragioni della sua mancata risposta ad un servizio di Filippo Roma (servizio che andrà in onda domani in prima serata su Italia 1 e che racconta il presunto parziale pagamento in nero dell’asso argentino Zarate) si legge che il Presidente avrebbe visionato con i suoi legali il nostro servizio 'che peraltro è stato già dolosamente diffuso sul web' e che non intende conferire con l’inviato del nostro programma per non dare ulteriore risonanza alla nostra inchiesta grazie alla sua partecipazione". Le Iene infine lanciano una stoccata a Lotito: "Non avendo noi diffuso nulla, da chi è arrivato a Lotito e ai suoi legali il nostro filmato fraudolentemente diffuso e dolosamente scaricato in spregio ed in danno ai nostri diritti?", così si conclude il comunicato del programma dopo l'annuncio di querela da parte di Lotito.

Le Iene in risposta a Lotito. Le Iene News l'1 giugno 2020. La nostra risposta dopo il comunicato del presidente della Lazio: In un comunicato che il Presidente della Lazio Lotito ha diffuso questo pomeriggio per spiegare le ragioni della sua mancata risposta ad un servizio di Filippo Roma (servizio che andrà in onda domani in prima serata su Italia 1 e che racconta il presunto parziale pagamento in nero dell’asso argentino Zarate) si legge che il Presidente avrebbe visionato con i suoi legali il nostro servizio “che peraltro è stato gia dolosamente diffuso sul web” e che non intende conferire con l’inviato del nostro programma per non dare ulteriore risonanza alla nostra inchiesta grazie alla sua partecipazione. Le Iene ovviamente se ne dolgono, sarebbe stata una buona occasione per chiarire tutti i punti, ma riteniamo vada chiarito quel virgolettato “dolosamente diffuso”. Non avendo noi diffuso nulla, da chi è arrivato a Lotito e ai suoi legali il nostro filmato fraudolentemente diffuso e dolosamente scaricato in spregio ed in danno e dolosamente reso pubblico in spregio ed in danno ai nostri diritti?

Da calcioefinanza.it il 26 maggio 2020. Claudio Lotito è al centro del ciclone. Dopo le polemiche scaturite in seguito all’articolo della Gazzetta sul rischio di un deferimento per il presidente biancoceleste per le allusioni sulla sfida tra Juve e Inter dello scorso 8 marzo, e la risposta dello stesso Lotito con la querela, si riapre un altro caso storico. Le Iene (stasera, 21.10, Italia1) hanno infatti prodotto un servizio sul triangolo societario per pagare in nero Mauro Zarate, l’attaccante argentino arrivato alla Lazio nel 2008. Come riporta La Repubblica, l’agente del giocatore, Luis Ruzzi, punta l’indice contro il presidente Claudio Lotito per il pagamento regolare di solo una parte dello stipendio di Zarate, 7 milioni in 5 anni, come da bilancio, ma l’agente del calciatore argentino sostiene L’accordo però era per 20. La differenza secondo la denuncia venne versata come commissione per la stipula del contratto a Pluriel Limited, holding con sede a Londra di proprietà dell’agente Riccardo Petrucchi, che a sua volta avrebbe poi girato quei soldi ad una società del fratello di Zarate, Sergio. Così, Lotito avrebbe evitato di pagare tasse su quella parte di stipendio. Accuse confermate dallo stesso Zarate: «Dal primo giorno che ho firmato sapevo com’erano le cose». Oggi l’attaccante e l’agente rivendicano oltre 3 milioni, che la Pluriel non avrebbe mai versato loro.

Stefano Agresti per il “Corriere della Sera” il 28 maggio 2020. La storia comincia con un argentino dai capelli bianchi, Luis Ruzzi, che insegue Lotito fuori da una chiesa dove si è raccolto in preghiera - pare sia devoto alla Madonna del pozzo - chiedendogli del denaro. Ma non pochi spiccioli, non vuole l' elemosina e mentre gli uomini della scorta lo allontanano, lui grida: «Presidente, dobbiamo avere un sacco di soldi da lei, 3 milioni di euro, quelli che Zarate ancora non ha ricevuto». È una scena che lo scorso febbraio si ripete due volte, sempre nello stesso luogo. Dove finirà questa vicenda è impossibile sapere, per il momento c' è una certezza: la procura federale ha aperto un' inchiesta sul proprietario della Lazio dopo essere venuta a conoscenza dei contenuti del servizio delle Iene sullo stipendio del giocatore che - secondo Ruzzi - sarebbe stato pagato attraverso una società londinese «per non versare Inps, Irpef, tutte le tasse, un' evasione importante». Il procuratore capo, Giuseppe Chinè, è lo stesso che tre giorni fa ha pensato di aprire un fascicolo sullo stesso Lotito per una frase giudicata ambigua in merito a Juve-Inter dell' 8 marzo. Curiosità: il figlio di Chinè, Bruno, 17 anni, ha giocato a lungo come terzino nelle giovanili della Lazio prima di essere lasciato libero dal club, a luglio del 2019, finendo in una società dilettantistica romana; pochi mesi dopo il papà ha preso il posto del dimissionario Pecoraro alla guida della procura della Figc. Il servizio delle Iene è slittato di una settimana perché si è deciso di dare a Lotito la possibilità di replicare: sarà trasmesso martedì. Le accuse rivolte al presidente della Lazio sono pesantissime. Luis Ruzzi, ex diplomatico, capo delegazione dell' Argentina ai Mondiali del '90, nel 2008 era il procuratore di Zarate. E racconta, con le carte in mano: «Lotito ha commesso gravi irregolarità. Ci ha presentato un' offerta, 20 milioni di stipendio in 5 anni, e l' abbiamo accettata: va bene, firmiamo. Solo l' ultimo giorno ci ha detto: vi do 7 milioni, gli altri 13 li avrete attraverso un amico mio. E ci ha presentato Riccardo Petrucchi, un agente Fifa. Attraverso una società inglese di Petrucchi, la Pluriel Limited, avremmo dovuto avere quei soldi, che sarebbero stati versati sul conto della Moisen, creata apposta in Uruguay da Sergio Zarate, il fratello di Mauro. I soldi viaggiavano così». Da Roma a Londra, fino a Montevideo. Il giocatore, oggi al Boca Juniors, da Buenos Aires conferma via video: «È tutto vero». Zarate e Ruzzi accettano la formula di pagamento proposta da Lotito, poi qualcosa si rompe. Il fantasista non riesce più a esprimersi agli alti livelli che avevano giustificato l' investimento della Lazio, quando per i tifosi era diventato l' anti-Totti. «Mauro è andato in prestito all' Inter, poi è tornato a Roma. E lo hanno messo fuori squadra perché a ottobre Lotito ci doveva dare 3 milioni e non lo ha fatto, non li ha dati alla Pluriel». La quale, poi, ha fatto causa e l' ha vinta, incassando quei soldi dalla Lazio. «Ma stavolta non sono stati girati a Zarate e noi vogliamo il denaro da Lotito: è stato lui a presentarci Petrucchi e ne è responsabile». Ruzzi spiega perché non ha denunciato Lotito: «Non volevo creare problemi al giocatore». Ma le sue accuse al presidente della Lazio diventano più ampie, uscendo dal contesto dell' affare Zarate e dando una lezione di correttezza fiscale che lui stesso ha tradito. Da quale pulpito... «Lotito è prepotente, in Federazione non gli dicono niente. Coinvolto in Calciopoli, poi nel calcioscommesse hanno arrestato il capitano (Mauri, ndr ) e dopo lui gli ha fatto un altro anno di contratto. E da 17 anni gira con la scorta che lo protegge non si sa da chi...».

Inchiesta su Lotito e Zarate: ecco perché non va in onda oggi. Le Iene News il 26 maggio 2020. Dopo il clamore suscitato dall’annuncio della messa in onda del servizio con le dichiarazioni di Luis Ruzzi, agente nel 2008 di Zarate, sulle modalità di pagamento del calciatore argentino, riteniamo giusto dare un diritto di replica al presidente della Lazio. Nel caso in cui Lotito non volesse cogliere quest’opportunità, il servizio sarà regolarmente in onda martedì 2 giugno. Con l'intervista a Zarate, realizzata venerdì scorso in collegamento da Buenos Aires, abbiamo ultimato il servizio che era in programma questa sera alle Iene. Nell’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti, l'agente Luis Ruzzi ci ha raccontato come, a suo dire, sarebbe stato l’assetto societario utilizzato nel 2008 dal Presidente della Lazio per pagare parzialmente, attraverso una triangolazione in nero, l’attaccante argentino Zarate. A raccontarci quanto sopra è stato appunto l'agente che Zarate aveva all’epoca, Luis Ruzzi, secondo cui Lotito pagò regolarmente solo una parte dello stipendio di Zarate (7 milioni in cinque anni), ma “l’accordo era di 20”. La restante parte sarebbe dovuta essere versata da una società londinese, la Pluriel Limited, che a sua volta avrebbe dovuto girare i soldi a Sergio Zarate, fratello del fuoriclasse argentino. In questo modo Lotito avrebbe risparmiato una parte cospicua delle tasse di quell’ingaggio. Visto però il clamore suscitato dall'annuncio della messa in onda del nostro servizio, riteniamo sia giusto dare un diritto di replica al Presidente della Lazio, diritto di replica che se fosse contestuale all’inchiesta proposta chiarirebbe senza margine di ambiguità l’intera vicenda. Nel caso in cui Lotito non volesse cogliere quest’opportunità, il servizio sarà regolarmente in onda martedì 2 giugno.

Claudio Franceschini per ilsussidiario.net il 29 maggio 2020. Come sappiamo il servizio de Le Iene che riguarda il caso Zarate-Lazio non andrà in onda: lo abbiamo spiegato ieri, riportando il comunicato della trasmissione Mediaset che ha spiegato come il clamore per l’annuncio della messa in onda abbia fatto pensare che sia giusto dare il diritto di replica a Claudio Lotito. Intanto però il popolo del web si è già scatenato: lo ha denunciato Filippo Roma, che ha condotto l’inchiesta insieme a Marco Occhipinti. La Iena ha pubblicato su Instagram uno screenshot di un suo messaggio precedente, nel quale parlava di aver ricevuto in regalo un pallone da calcio degli anni Trenta. Bene: sotto il suo post, cerchiato in rosso per farlo notare a prima vista, compare il commento di un utente che non usa mezzi giri di parole per commentare – non ci sono riferimenti espliciti, ma di cosa si tratti è chiaro – il servizio su Zarate. “Una merda come te, co sta faccia da cazzo, giusto della Roma poteva esse”. E poi ancora “pezzo di merda, magari te tirano una pistolettata in faccia”. Chiaramente non c’è alcun bisogno di commentare, se non con il fatto che continuiamo a trovare incomprensibile come si possa arrivare a minacce di morte (che saranno pure indirette, ma quelle sono) e comunque insulti gratuiti per un approfondimento su una squadra di calcio. Noi, possiamo solo limitarci a ricordare che la potenziale “accusa” mossa a Lotito sarebbe quella di aver pagato in nero una parte dello stipendio di Zarate, facendo passare i soldi tramite una società inglese che li avrebbe poi recapitati a Sergio Zarate, fratello e procuratore di Mauro e visto – senza gloria – con la maglia dell’Ancona nel nostro campionato. La vicenda risale al 2008: la Lazio acquista Mauro Zarate dall’Al-Sadd, dopo un prestito semestrale al Birmingham. Con i biancocelesti l’argentino è una rivelazione: inizia alla grandissima e chiude il primo campionato con 13 gol, timbrandone anche 3 in Coppa Italia. Purtroppo l’anno seguente è decisamente peggiore, nel terzo c’è un tentativo di rinascita (9 reti in Serie A) ma poi decide di passare all’Inter, dove la sua stella appassisce. Tornato alla Lazio, gioca una sola partita in campionato e sei in Europa League; torna al Vélez Sarsfield da dove aveva cominciato, fa benissimo (18 gol in 28 partite) ma è l’ultimo sussulto, le sue ultime stagioni in Inghilterra e il passaggio di un anno e mezzo alla Fiorentina lo vedono comprimario e con un fiuto del gol ormai perso. Infatti, tra il 2014 e il 2017, segna un totale di 10 reti nei tornei nazionali: meno di quanto aveva fatto nel suo primo anno alla Lazio.

Da adnkronos.com il 29 maggio 2020. "Molti tifosi della Lazio mi stanno travolgendo di messaggi. Ci sono molti sfottò che mi fanno anche ridere, parecchie ingiurie che tuttavia non mi offendono perché non sono permaloso. Poi ci sono minacce, che accolgo con poco favore, tra cui, purtroppo, alcune arrivate direttamente a mio figlio Francesco. E queste, da padre, mi preoccupano". A denunciarlo, in un lungo post su Facebook, è la Iena Filippo Roma, che rivela di avere già sporto denuncia per l'accaduto. "Già mi sono rivolto alle autorità competenti per denunciare la cosa -scrive Roma- e non esiterò a farlo di nuovo se dovessero arrivare altri messaggi del genere". Motivo del contendere è l'inchiesta, condotta per Le Iene insieme a Marco Occhipinti, nella quale Roma racconta di una presunta frode fiscale legata al pagamento dello stipendio del giocatore argentino Mauro Zarate da parte della Lazio, avvenuta utilizzando, in parte, l'assetto societario. "Sono stato accusato di faziosità da molti tifosi bianco celesti in quanto e’ noto che io sia romanista -si sfoga Roma- Io capisco che questa circostanza possa generare dubbi e rabbia. Però sia chiara una cosa. Non ho realizzato questa inchiesta perché sono un anti laziale ma semplicemente perché ho fatto il mio mestiere di inviato. Mi e’ arrivata nelle mani questa storia e l’ho raccontata. Se la stessa vicenda avesse riguardato la Roma, state certi che il servizio lo avrei realizzato lo stesso".

Claudio Lotito e i soldi in nero a Mauro Zarate: uno scoop pubblicato sette anni fa. Le Iene annunciano che l'attaccante argentino è stato pagato attraverso la società londinese Pluriel ltd. Lo aveva già scritto l'Espresso nel 2013 senza essere smentito. E nessuno fece nulla. Erano gli anni dell'amicizia fra il patron biancoceleste e Befera, direttore dell'Agenzia delle entrate e grande tifoso laziale. Gianfranco Turano il 27 maggio 2020 su L'Espresso. Le Iene, trasmissione Mediaset, ha annunciato uno scoop che rischia di mettere nei guai Claudio Lotito. Il presidente della Ss Lazio, società quotata in borsa, avrebbe sovraffatturato l'acquisto del calciatore argentino Mauro Zarate con il versamento di un commissione abnorme (15 milioni di euro) alla società londinese Pluriel ltd dell'agente italiano Riccardo Petrucchi. Lotito, impegnato in prima fila sul fronte della ripresa di un campionato che ha visto i suoi biancocelesti protagonisti, ha chiesto tempo per replicare ai cronisti. Eppure di tempo non gliene è mancato. A luglio del 2013, quasi sette anni fa, l'Espresso pubblicava un articolo dove si leggeva : "Al momento di acquistare il brasiliano Felipe Anderson fifty-fifty dal Santos e dal fondo inglese Doyen Sport, Lotito ha duramente criticato la nuova pestilenza con una verve moralistica che tende a rimuovere le sue due condanne non definitive per Calciopoli e aggiotaggio, oltre ai processi per mobbing avviati da tesserati della Lazio e alla supercommissione (15 milioni di euro) pagata per Mauro Zarate alla società di diritto britannico Pluriel Limited dell'agente italiano Riccardo Petrucchi”. Questa precisazione non punta a ristabilire quel diritto di precedenza nello scoop che è un gioco autoreferenziale tanto diffuso fra i giornalisti quanto poco interessante per i lettori. Si tratta piuttosto di capire come mai per sette anni, un tempo sufficiente a prescrivere eventuali reati, nessuno abbia mosso un dito per capire come mai un calciatore con uno stipendio di 7 milioni di euro in cinque anni e una valutazione di acquisto nel 2008 di 2 milioni di euro abbia richiesto una commissione superiore di quasi il doppio. Proviamo ad approfondire. La notizia della Pluriel era stata data all'Espresso da una fonte molto qualificata dell'Agenzia delle entrate in una fase in cui i cacciatori di evasori avevano messo nel mirino le cosiddette star company, società estere create da agenti e sportivi per ottenere esentasse parte dell'ingaggio sotto forma di contratti di sponsorizzazione e diritti di immagine, come fanno appunto le star dello spettacolo. Il caso Zarate era laterale rispetto a questa inchiesta che ha portato risultati rilevanti, dalla tennista Flavia Pennetta all'ex attaccante juventino David Trézeguet, da Diego Armando Maradona a mister Fabio Capello, spesso chiusi con accordi transattivi poco o per nulla pubblicizzati. Ma il caso Zarate era, per certi aspetti, anche più grave rispetto a quelli delle star company perché, data l'enormità della somma in nero rispetto a quella ufficiale, poteva dare adito a sospetti di retrocessione di parte della cifra a chi l'aveva pagata. La fonte dell'Espresso, più volte sollecitata su eventuali approfondimenti, si era decisa a confessare che l'argomento Lotito era tabù nelle alte gerarchie di via Cristoforo Colombo e che era meglio non insistere se non si aspirava alla rimozione verso la periferia dell'impero. Naturalmente la fonte dell'Espresso poteva esprimere una semplice impressione personale. Nessuno può sostenere che Lotito fosse intoccabile solo perché era un visitatore abituale della sede centrale dell'Agenzia delle Entrate o perché era molto amico dell'allora direttore Attilio Befera, tifoso sfegatato del club laziale e oggi alla guida dell'organismo di vigilanza (odv) di Atlantia. Bisogna ricordare che le vicende calcistiche di Lotito iniziano proprio dal maxiaccordo del 2005 sul debito Irpef della Lazio di Sergio Cragnotti: 143 milioni di euro diluiti in 23 anni di rate. Eppure quel versamento da 15 milioni di euro alla Pluriel ltd, reso noto su un giornale ad ampia diffusione nazionale e mai smentito, avrebbe potuto suscitare qualche interesse. Nulla da fare invece fino alle dichiarazioni alle Iene dell'agente di Zarate, che è stato protagonista di un lungo contenzioso legale con Lotito dopo un inizio molto promettente nella squadra biancoceleste. E solo adesso, sette anni dopo, il procuratore delle Federazione gioco calcio (Figc) Giuseppe Chinè ha aperto un'inchiesta sul proprietario delle Aquile romane.

INCHIESTA. Quando le star dribblano il fisco. Il fisco spagnolo contro Messi, accusato di evere eluso le tasse per 4 milioni. Ecco come da noi i furbetti del palloncino organizzano  mini-holding controllate da loro, in modo di cedere a se stessi i diritti di sfruttamento della propria immagine con un vantaggio fiscale evidente. Gianfranco Turano il 16 maggio 2013 su L'Espresso. Se Leo Messi sia più forte di Diego Armando Maradona è materia di discussione tra gli appassionati. Di sicuro, la Pulce del Barcellona ha molto in comune con el Pibe de Oro. Non solo la tecnica, la velocità e la classe, ma anche la ritrosia a pagare le tasse. Messi e suo padre Jorge sono sotto inchiesta da parte della magistratura catalana per 4 milioni di euro evasi tra il 2007 e il 2009. Non una cifra enorme rispetto ai guadagni del fuoriclasse argentino. Nell'evasione, Maradona è stato nettamente superiore. Ma il meccanismo che ha inguaiato Leo è lo stesso che ha messo in difficoltà con gli esattori molti sportivi di alto livello. Si tratta della cessione di diritti di immagine alle cosiddette star company che poi spediscono i ricavi in paradisi fiscali per rigirarle nelle tasche del campione con il minimo prelievo possibile. Ecco la nostra inchiesta sugli sportivi che hanno creato società di comodo per pagare meno tasse. Agli Internazionali d'Italia Flavia Pennetta potrebbe aver avuto un problema in più. Oltre alle avversarie e a un polso che la tormenta da mesi, la brava tennista ha dovuto fare i conti con i detective dell'Agenzia delle entrate. Gli uomini di Attilio Befera puntano al Grande Slam contro sportivi e artisti dalla fiscalità esitante. È il caso della campionessa brindisina che si divide fra la residenza in Svizzera, la base per gli allenamenti a Barcellona e un 730 da dannata della terra in patria. Per le prossime settimane sono in vista nuove manovre di recupero crediti contro le celebrities. Le vanno a prendere una ad una, senza il clamore scenico di anni fa, quando Luciano Pavarotti veniva trascinato in tribunale per saldare il conto a quota 25 miliardi di lire e Valentino Rossi dichiarava nemico del popolo in conferenza stampa a Pesaro dopo avere scucito 35 milioni di euro. Lo stile Befera è diverso da quello dei suoi predecessori. Oggi i Marlowe dell'Erario presentano il conto e propongono un accordo assai bonario: pochi maledetti e subito in cambio di discrezione. È andata così con il nazionale brasiliano Kakà che ha chiuso il contenzioso per le sue stagioni al Milan a quota 2 milioni di euro, come già rivelato da "l'Espresso". Il sistema del pagamento senza gogna è stato adottato con altri calciatori come l'ex juventino David Trezeguet e il capitano del Torino Rolando Bianchi, vittima di distrazione al tempo della sua breve apparizione in Premier League con la maglia del Manchester City. Per il dolo, ci sono le Procure della Repubblica e lì è più difficile evitare la pubblicità negativa. Insomma, il pm non ammette ignoranza. L'Agenzia delle Entrate a volte sì, purché si paghi. Le tariffe sono umane perché in tempi di vacche magre bisogna venirsi incontro. I bersagli recenti della campagna di recupero crediti fiscali hanno un denominatore comune che si chiama "Star company". È la holding personale inventata per gli uomini di spettacolo e adottata dagli atleti via via che gli sport professionistici diventavano parte integrante dello show business con guadagni sempre più alti non solo dagli ingaggi ma soprattutto dai contratti di sponsorizzazione e dalle campagne pubblicitarie. I furbetti del palloncino hanno organizzato mini-holding controllate da loro, in modo di cedere a se stessi i diritti di sfruttamento della propria immagine con un vantaggio fiscale evidente. Una società di capitali è tassata al 27,5 per cento più Irap. Una persona fisica, dopo vent'anni di slogan berlusconiano meno tasse per tutti, è salita a quota 45 per cento. Visto che le controversie sulle star company si impantanavano in ricorsi legali infiniti, il fisco ha deciso di applicare alcuni principi semplici. Se la società del divo è una scatola vuota (shell company), ossia se è stata creata solo per la cessione e la gestione dei diritti di immagine, scatta la sanzione. Nel caso di Kakà si è stabilito che la sua Tamid sport & marketing esisteva esclusivamente per incassare i soldi delle campagne pubblicitarie per i biscotti Ringo. Altri casi si sono conclusi senza conseguenze. Le capogruppo personali di Alessandro Del Piero (Edge), di Gigi Buffon (Buffon & co) o di Andrea Pirlo (Ap sport service) hanno stati patrimoniali rimpolpati da immobili, partecipazioni finanziarie in società quotate come la Zucchi per il capitano della Nazionale o, a volte, attività industriali come l'acciaio per lo juventino Pirlo. È sorto qualche dubbio che il settore abbigliamento casual, molto alla moda nei primi anni Duemila, fosse una forma di copertura, ma la bancarotta di Bobo Vieri e Cristian Brocchi con la Baci&Abbracci ha, paradossalmente, segnato un punto in favore della buona fede fiscale. Qualche incertezza di interpretazione in più si può avere su società come la Numberten di Francesco Totti che, oltre ai diritti d'immagine, presta generici servizi di consulenza, comunicazione e organizzazione eventi. Ad agevolare la situazione dei campioni italiani che si esibiscono in Italia c'è il fatto che, per loro, anche la star company non comporta vantaggi economici ma solamente finanziari. Infatti, al momento della distribuzione al socio dei dividendi accumulati, scatta un conguaglio che grosso modo comporta l'allineamento dell'aliquota. Se lo sportivo è vicino a fine carriera, il vantaggio finanziario è marginale al contrario di un atleta giovane che può lucrare gli interessi anche per dieci anni prima di distribuirsi i profitti e pagare il conguaglio all'erario. La questione al centro della battaglia tra fisco e star restano i redditi dei divi che si dicono residenti all'estero o controllano società oltre il confine. Fabio Capello si è inguaiato così, con i 16 milioni di euro di incassi della sua lussemburghese Sport 3000, amministrata da Achille Severgnini, rampollo della famiglia che gestisce la Finsev, la società tornata di recente all'attenzione delle cronache con la pubblicazione degli elenchi delle società offshore su questo giornale. L'attuale commissario tecnico della Russia ha chiuso con una transazione da 5 milioni di euro. Il manuale dell'esterovestizione, la moda di piazzare la star company oltre i confini lanciata da Diego Armando Maradona con esiti infausti, presenta molte versioni. Negli annuari riservati degli specialisti ha fatto epoca in senso positivo la pianificazione fiscale di Ronaldo, non il portoghese impomatato ma il Fenomeno di Rio. Sul versante opposto, sfiorava la circonvenzione di incapace il tax planning di Alberto Tomba, la Bomba, tutto made in Switzerland. Per i mancati versamenti degli anni Novanta, il campione di slalom ha dovuto pagare 7,5 miliardi di lire. «Ormai all'esterovestizione ci credono solo gli sportivi sudamericani più sprovveduti», dice un esperto dietro garanzia di anonimato: «I fiduciari svizzeri, poi, è vero che chiedono poco, il 10 per cento fisso sul tuo risparmio fiscale. Ma il cliente si carica il 100 per cento del rischio. Se vuoi fare le cose bene, devi andare a Londra o a New York». Tuttavia evadere è umano, troppo umano. E quasi mai un grande talento artistico o sportivo si accompagna a lauree e master in diritto tributario. Così chi è colto in fallo nel quadro RW del Modello Unico, dove si dichiarano i proventi di investimenti e attività finanziarie estere, viene colpito con sanzioni fra il 5 e il 25 per cento se il paese estero non è nella lista nera dei paradisi fiscali. Diversamente, la multa raddoppia e varia fra il 10 e il 50 per cento. Chi non ha fiducia nel fiduciario svizzero o londinese spesso si appoggia al suo agente. Molti procuratori sportivi forniscono servizi fiscali che includono sponde all'estero. Il vero problema per l'Agenzia delle entrate è inseguire i passaggi successivi al pagamento di una fattura. Se quei soldi finiscono in un paradiso offshore, si tenta di tassarli attraverso la cooperazione internazionale, che funziona in modo ancora troppo discontinuo. Può aiutare, in queste circostanze, l'intervento della magistratura. Uno dei casi finiti in mano al giudice penale è quello della monegasca P&P Sport Management della famiglia Pastorello, una vera dinastia del calcio italiano con il padre Gianbattista presidente del Verona ai tempi del controllo occulto di Calisto Tanzi, la moglie e i figli Andrea e Federico. Proprio il figlio maggiore Federico, agente Fifa e rappresentante di molti calciatori da Nazionale come Giuseppe Rossi (Fiorentina) e Antonio Candreva (Lazio), è finito sotto inchiesta per un'evasione da 18 milioni di euro per servizi e prestazioni svolte in Italia ma dichiarati a Montecarlo. Che poi Federico Pastorello sia il procuratore preferito del presidente più amico di Befera, il laziale Claudio Lotito, è un paradosso molto italiano. La caccia al possibile ladro erariale ha inquadrato anche bersagli molto grossi e piuttosto esotici come George Clooney e Gwyneth Paltrow. Purtroppo per gli esattori, la pretesa era infondata. In primo luogo, le campagne pubblicitarie dei due attori per Martini riguardavano un marchio dal nome italiano acquisito vent'anni fa dal gruppo multinazionale Bacardi. In secondo luogo, non erano girate in Italia. Infine, anche se allora Clooney trascorreva una parte dell'anno in una villa sul lago di Como, era difficile sostenere che usufruisse dei benefici del welfare italiano. Così non c'è stato verso di applicare ai due divi di Hollywood l'articolo 53 della Costituzione per cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Fra l'altro, gli Stati Uniti basano il prelievo fiscale sul criterio della cittadinanza. Cioè tassano i loro cittadini qualunque reddito abbiano prodotto in qualsiasi angolo del globo, salvo accordi bilaterali con altri Stati e arbitrati internazionali su posizioni individuali dove il temuto Irs (Internal revenue service) statunitense è abituato a giocare la parte del leone nei confronti degli omologhi stranieri. Per gli italiani vige ancora la residenza ma anche qui le strategie di attacco anti-evasione si sono affinate. Una volta valeva la regola dei 183 giorni: risiedeva all'estero chi ci viveva per almeno metà anno. Per non farsi scappare gli sportivi itineranti, come tennisti o piloti, il principio è stato corretto con il centro degli interessi: la famiglia o gli amici. Se si trovano in Italia, il divo deve pagare le tasse in Italia. Può costare cara persino l'iscrizione al circolo delle bocce o, come nel caso di Valentino Rossi, una bicchierata di troppo con i compagni di scuola al bar di Tavullia. Il fisco è davvero uno sport violento.

INCHIESTA. I padroni del calcio. Le compravendite milionarie. Il sospetto di operazioni in nero. Le complicità tra procuratori e presidenti. Tra inchieste dei pm, blitz della Finanza e colpi del calciomercato ecco chi vince e chi perde nel mondo del pallone. Gianfranco Turano il 5 luglio 2013 su L'Espresso. Non è vero che il calcio è una giungla. Esiste un certo ordine nella giungla. In cambio, il calcio è più divertente. Non solo durante il campionato o i tornei internazionali. L'inizio di luglio, per esempio, è la stagione del calciomercato e delle inchieste giudiziarie. Nel 2012, i temi focali erano la cessione a un club straniero di Zlatan Ibrahimovic e le scommesse clandestine. Quest'anno, si attendono la cessione a un club straniero di Edinson Cavani e gli sviluppi della nuova inchiesta giudiziaria su una mezza dozzina di reati, dal riciclaggio all'evasione fiscale, che dieci giorni fa ha portato la Guardia di finanza in visita presso 41 sedi di società di serie A, B e Lega Pro, come pomposamente è stata ribattezzata la serie C. Qualcuno l'ha definito un blitz. Nulla di tutto questo. I club hanno consegnato con grande tranquillità quanto richiesto dal pool di magistrati napoletani che seguono l'indagine. Per come è organizzato il sistema del calcio professionistico, sarà difficile trovare grandi prove negli archivi ufficiali delle società. Mazzette e fatture gonfiate viaggiano estero su estero e ci sono sistemi a prova di rogatoria internazionale per nascondere la traccia dei soldi. Men che meno ci si può aspettare la collaborazione di qualche gola profonda. Le cose dello spogliatoio resteranno, come sempre, nello spogliatoio. I padroni del calcio, un'industria globalizzata che muove decine di miliardi, si farebbero torturare pur di tenere segreti i meccanismi finanziari della passione sportiva più diffusa al mondo. A favore dei magistrati c'è oltre un anno di intercettazioni a partire dalla telefonata fra l'attaccante argentino Ezequiel Lavezzi e il suo procuratore Alejandro Mazzoni , perquisito ad aprile del 2012. Al di fuori degli investigatori, nessuno ha letto il testo della conversazione ma tutti nell'ambiente danno per scontato che la magistratura sia partita da una pratica tanto diffusa quanto banale. Per aumentare l'ingaggio a un campione risparmiando in contributi e tasse, si comprano tre mezzi brocchi e quei milioni spediti in Sudamerica tornano in tasca al binomio agente-campione. Se il proprietario del club non partecipa alla spartizione estero su estero, è semplice evasione, magari elusione. Se partecipa, è riciclaggio, anche se per adesso non risulta inquisito nessun padrone di squadra in omaggio a uno dei grandi luoghi comuni del football che identificano il presidente in una sorta di ingenuo supertifoso pronto a finire sul lastrico pur di trionfare in campo. Fra gli addetti ai lavori, come al solito, c'è la corsa al retroscena, diffuso previa garanzia di anonimato. Negli ambienti della Lega, la Confindustria del pallone con sede a Milano, si allude a qualche presidente borderline rispetto al traffico dei calciatori stranieri e si indicano fra i soliti sospetti quelli che vivono di calcio, o principalmente di calcio. Qualcun altro fa riferimento a una Grosse Koalition tra le squadre e i magistrati ai danni dei procuratori, visti da molti proprietari come parassiti colpevoli di gonfiare ingaggi e compravendite, ergo di devastare dei conti della serie A, dove gli stipendi si mangiano tre quarti dei ricavi. Sullo sfondo c'è la solita spaccatura fra i vincenti del momento (il milanista Adriano Galliani e il laziale Claudio Lotito ) e i perdenti di lusso: Andrea Agnelli della Juventus, la Roma degli americani e l'Inter di Massimo Moratti destinata forse ai nuovi padroni indonesiani. In questo caos, prendersela con gli agenti è l'opzione preferita. Spesso sono loro ad accollarsi il lavoro sporco della contabilità parallela che arricchisce gli individui a discapito delle società. Ma anche loro come i club esprimono serenità e concetti ispirati alle banalità post-partita dei calciatori. Bruno Carpeggiani , presidente dell'Assoagenti calcio (Aiacs), offre una dichiarazione di prammatica: «Mi auguro che gli indagati dimostrino la loro estraneità. Non credo che la categoria sia sotto attacco. Comunque stiamo preparando un comunicato». Uno dei suoi colleghi nella giunta dell'associazione, Tullio Tinti , ottimi rapporti con Galliani e lo juventino Beppe Marotta, nonché rappresentante di Andrea Pirlo, Giampaolo Pazzini e Alessandro Matri, taglia corto: «Mi richiami dopo le 20. Prima ho troppo da fare». Dopo le 20 non risponde. Troppo lavoro, a dispetto di una sospensione decretata l'anno scorso dalla giustizia sportiva della Federcalcio fino al 23 settembre 2015 e di un'indagine penale a Milano per riciclaggio insieme al faccendiere svizzero Giuseppe Guastalla. Anche Alessandro Moggi, figlio di Luciano, ha espresso serenità e desiderio di continuare a lavorare dopo essere finito sotto indagine a Napoli con la nuova Gea in tempi da record. È passato appena un anno da quando l'agenzia è stata ripresentata a una festa per vip a Milano con l'impegno di limitarsi all'assistenza sui diritti di immagine e di non prendere più procure come faceva la vecchia Gea affondata dalle inchieste di Calciopoli del 2006 e dalle condanne per Moggi padre e figlio. «Niente procure? Dicevano la stessa cosa anche ai tempi della vecchia Gea», osserva con una punta di malignità Claudio Pasqualin , uno dei decani della professione (vedere articolo a pagina 32). «In quanto ai diritti d'immagine, sono pochi i calciatori che hanno un mercato come testimonial pubblicitari. Con tutto il rispetto, che diritti d'immagine possono sfruttare Calaiò o Nocerino? La verità è che sono tempi molto duri per la categoria e che spesso le società non ci pagano i compensi stabiliti da contratto anche di fronte a decreti ingiuntivi». Nomi? Meglio di no ma, in effetti, le agenzie sembrano risentire della crisi del calcio italiano anche dopo che è caduto il tetto del 5 percento sulla mediazione e dopo che, di fatto, è passato in cavalleria il divieto di incassare compensi sia dall'atleta sia dal club. La Tlt di Tinti è tra quelle che vanno meglio con 3,4 milioni di ricavi 2012 e 1,9 milioni di utile. La Lawsport di Claudio Vigorelli , agente di Dejan Stankovic e Samuel Eto'o, incassa 1 milione di euro scarsi. Fa poco meglio (1,3 milioni di euro) il Reset Group del trentacinquenne Davide Lippi , cresciuto nelle giovanili della Gea prima versione e figlio di Marcello, il commissario tecnico campione del mondo in Germania nel 2006. Ricava 1,6 milioni di euro ma ne perde 100 mila la Branchini Associati di Giovanni Branchini e Carlo Pallavicino che assiste Angelo Ogbonna, Sébastien Frey e Riccardo Montolivo. È in lieve perdita anche l'Italian managers group di Carpeggiani. Gli unici che tirano sono i supercampioni stranieri. Ma quelli sono un'altra storia. Uno come Cavani, ad esempio, che sia venduto a 50 milioni di euro - quanti ne offre il Chelsea - o ai 63 milioni della clausola rescissoria fissata da De Laurentiis, farà ricchi i suoi mediatori. Sono entrambi romani. Pierpaolo Triulzi , però, ha preso il brevetto da agente a Buenos Aires, dove risiede. Il suo socio Claudio Anellucci , in folta compagnia nella lista di chi si è fatto rubare il Rolex a Napoli, non è un procuratore ma condivide con Triulzi il controllo di Futbol & Transferencias, una srl che fa base in via Po a Roma e non deposita un bilancio dal lontano 2007, l'anno in cui "el Matador" uruguayano è sbarcato a Palermo alla corte di Maurizio Zamparini. La mediazione per Cavani sarà tracciabile, e tassabile, con facilità dal fisco. Diventa più complicato quando il proprietario dei diritti economici dell'atleta è uno dei fondi di investimento che stanno esportando in Europa artisti e artigiani del pallone dai paesi dell'America del Sud.  Al momento di acquistare il brasiliano Felipe Anderson fifty-fifty dal Santos e dal fondo inglese Doyen Sport, Lotito ha duramente criticato la nuova pestilenza con una verve moralistica che tende a rimuovere le sue due condanne non definitive per Calciopoli e aggiotaggio, oltre ai processi per mobbing avviati da tesserati della Lazio e alla supercommissione (15 milioni di euro) pagata per Mauro Zarate alla società di diritto britannico Pluriel Limited dell'agente italiano Riccardo Petrucchi. Non c'è solo Lotito a obiettare sugli aspetti etici di questo nuovo traffico di esseri umani. Anche Michel Platini , il presidente delle federazioni calcio europee, è abolizionista. Invece lo svizzero Joseph Blatter , 77 anni, il capo della Fifa e del calcio mondiale, è molto più tollerante. Per continuare il suo regno ed essere eletto per la quinta volta dal 1998 gli servono i voti delle federazioni sudamericane. E i boss del pallone in Argentina, Uruguay, Brasile investono i loro sudati risparmi in fondi sportivi che controllano calciatori. Doyen Sport, un fondo di proprietà della società maltese Doyen Group, ha partecipato anche al montaggio finanziario del transfer del centravanti colombiano Radamel Falcao all'Atlético Madrid della famiglia Gil. Nell'operazione è intervenuto il fondo Quality controllato dall'ex dirigente del Chelsea Peter Kenyon e dal vero numero uno del calciomercato mondiale, il portoghese Jorge Mendes che con la sua agenzia Gestifute ha un portafoglio clienti stimato in 490 milioni di euro dal sito tedesco specializzato TransferMarkt. Due clienti su tutti: Cristiano Ronaldo e Josè Mourinho. E, ovviamente, Falcao ceduto al Monaco dell'oligarca russo Dmitri Rybolovlev per 60 milioni di euro, l'affare più ricco del calciomercato 2013. Nessun club italiano può più permettersi queste cifre. Il neojuventino Carlos Tévez è costato un quinto di Falcao. L'attaccante argentino, che a 29 anni ha già cambiato sette squadre, è stato più volte venduto dal fondo Media sports investments (Msi) rappresentato da Kia Joorabchian , anglocanadese di origine iraniana che ha condotto la trattativa con il club di Agnelli. Quando i soldi di una mediazione o di una compravendita finiscono in una società come Msi, il cui reale proprietario non è mai stato individuato a dispetto delle illazioni su Roman Abramovich e del defunto Boris Berezovskij , le possibilità di manovra sono molto ampie. Del resto, un giocatore è per definizione difficile da valutare. Zamparini è finito in causa con l'agente Marcelo Simonian per avere abbassato il prezzo di cessione di Javier Pastore al Paris Saint-Germain degli emiri di Doha (Qatar) e ha dovuto rimborsare Simonian con 15 milioni di euro. Il Brescia ha sanato il risarcimento danni con la Juventus relativo a Calciopoli cedendo ai bianconeri il portiere Nicola Leali per 3,8 milioni di euro, quanto è valutato il numero uno titolare dell'Under 21 Francesco Bardi, più il prestito dell'altro azzurrino Fausto Rossi. Difficile sindacare. Nello stesso modo, è problematico sostenere che le fatture per attività di scouting siano false. Il padrone dell'Udinese Gianpaolo Pozzo , ad esempio, che ha già subito una condanna per evasione fiscale, mette a bilancio costi di scouting e osservazione molto alti (21 milioni di euro, il quadruplo degli incassi da stadio) ma ogni anno lancia sconosciuti pescati ai quattro angoli della terra. «I comportamenti elusivi ci sono in tutti i settori dell'economia e non si può generalizzare», dice l'amministratore delegato di un importante club di serie A. «Chi ha sbagliato pagherà. Poi c'è un problema di concorrenza. Se il club cerca un determinato calciatore sul mercato estero, è naturale che si appoggi ai procuratori locali. E se vuoi un giocatore controllato da un fondo, devi trattare con quel fondo. Credo che questi fondi si possano accettare, magari con una forte regolamentazione». È vero anche che nel settore non sono le regole a mancare. Semmai difetta la capacità di sanzionare in modo efficace. Se questo vale per il business normale, a maggior ragione per il calcio. Dietro un investigatore, un magistrato, spesso batte un cuore di tifoso. Quindi, non generalizziamo. Nel calcio c'è chi si fa beccare. Gli altri, avanti come prima. La prova tv c'è solo in campo.

Esclusivo. La villa a Porto Cervo, la Fifa, e quegli sms che compromettono Valcke e Al-Khelaifi. Mediapart e il consorzio investigativo EIC rivelano i messaggi fra l'ex segretario generale della federazione e il patron del Paris Saint-Germain. Dove si legge come il manager insista perché l'influente qatariota paghi le fatture dei lavori di casa in Sardegna. Francesca Sironi il 31 gennaio 2020 su L'espresso. Che fatica, gestire una villa a Porto Cervo, che gran fatica. Soprattutto se sei il segretario generale della Fifa e vuoi che a pagare le fatture per i lavori in casa sia uno dei più potenti uomini dello sport. Che stress: quanti sms, quanti incontri, quante telefonate. È la contraddizione delle giornate che trascorreva Jérôme Valcke, l'ex numero due della Fifa, nel 2014, come si scopre leggendo i nuovi documenti esclusivi ottenuti da Mediapart e condivisi con L'Espresso e le testate del consorzio europeo di giornalismo investigativo EIC. Fra i documenti emergono scambi costanti di sms che mettono in crisi la difesa di Nasser Al-Khelaïfi, il patron del Paris Saint Germain, proprietario della catena televisiva BeIN sports, sospettato dalla giustizia svizzera di aver corrotto Valcke attraverso l'acquisto in suo favore di una sontuosa villa a Porto Cervo. L'operazione avrebbe fatto parte, insieme a un contratto record sui diritti televisivi in Medio Oriente per le Coppe del mondo 2026 e 2030 , di una possibile contropartita per l'autorizzazione a organizzare in inverno i mondiali di calcio del 2022. Partite che si terranno in Qatar, dove giocare d'estate sarebbe impossibile, viste le temperature oltre i 50 gradi. Le accuse della procura federale elvetica sono state sempre smentite dai diretti interessati, Valcke e Al-Khelaïfi. Ufficialmente, Al-Khelaïfi non è stato proprietario della casa che per pochi giorni, prima di cederla alla Golden Home di Abdelkader Bessedik, che la possiede tuttora. Che poi Jérôme Valcke abbia affittato la villa subito dopo, è una pura coincidenza, spiegano. «Gli 800 milioni che arrivano da quei contratti corrispondono interamente agli interessi della Fifa», ha risposto alle domande di EIC l'avvocato di Valcke: «E la decisione di giocare i mondiali in inverno è del Comitato esecutivo della Fifa su raccomandazione di un gruppo di lavoro composto da esperti e presieduto da M. Al-Khalif, presidente della confederazione asiatica del football». L'Espresso aveva raccontato lo scorso ottobre le vicissitudini di questa dimora estiva passata dalle feste di Lele Mora alle estati private dell'ex braccio destro di Sepp Blatter, sequestrata dagli ufficiali della Guardia di Finanza di Sassari nel 2017. Ora gli SMS scoperti dalla magistratura nell'ambito dell'indagine rivelano nuovi aspetti della vicenda. Il 30 agosto 2013 Jérôme Valcke firma la promessa d'acquisto della villa. I nuovi documenti ottenuti da Mediapart mostrano che due giorni dopo lascia Zurigo a bordo di un Jet noleggiato dalla Fifa per oltre 100mila euro; atterra rapidamente a Parigi per imbarcare Nasser Al-Khelaïfi; quindi si dirige con lui a Doha per una riunione con l'emiro del Qatar, Tamim Al-Thani. I tre uomini discutono dello spostamento dei mondiali in inverno (le coppe del mondo di calcio si sono sempre tenute d'estate), secondo una memoria difensiva presentata da Valcke alla Fifa. Sempre secondo la sua ricostruzione, Al-Khelaïfi era presente in quanto «membro del comitato organizzativo» di Qatar 2022. Bisogna tenere presenti le date. Perché nel settembre 2013, poco dopo quella riunione, Valcke scrive a sua moglie a proposito del prezzo della villa: «Vedrò Nasser […] vedremo allora». Qualche giorno più tardi, conferma la buona notizia alla moglie: «Ho ricevuto un BBM [messaggio via Blackberry, ndr] di Nasser, che mi conferma che va tutto bene per Bianca». Valcke aveva visitato la villa ad agosto e versato un acconto di 500mila euro a settembre. Ma non aveva i mezzi per assumersi in toto la spesa di 5,3 milioni di euro prevista per trascorrere dolci serate estive passeggiando fra i 438 metri quadri della dimora in Costa Smeralda. Deve rinunciare. Ma il 30 dicembre 2013 il patron del Paris Saint Germain compra la villa attraverso una società qatariota, la Golden Home Real Estate, di cui tre giorni dopo trasferisce il 100 per cento delle quote a un uomo di cui è amico da quindici anni: Abdelkader Bessedik, un giurista francese che lavora per lo studio d'avvocati Pinsent Masons a Doha. Bessedik assicura di aver comprato la villa su consiglio di suo fratello, uno dei più stretti consiglieri di Al-Khelaïfi. Gli scambi di SMS mostrano che l'imprenditore qatariota ha continuato a gestire la villa, in contatto diretto con Valcke. Solo a luglio del 2014, come ha rivelato Le Monde, l'uso da parte del manager della bella casa sarda verrà ufficializzato in un contratto d'affitto. La spesa è fissata in 96mila euro all'anno, da cui dedurre però le spese correnti e i lavori di ristrutturazione. Solo che l'ex segretario generale della Fifa chiede a Nasser Al-Khelaïfi di pagare quelle fatture. Tra gennaio e novembre 2014 i due uomini si vedono almeno otto volte, fra Doha, Londra e Parigi. Ogni volta, gli scambi di sms mostrano che si parlava anche della casa e delle sue spese. «Sarà tutto pagato nei prossimi giorni», scrive Valcke al suo agente immobiliare a Porto Cervo a metà gennaio 2014, subito dopo aver incontrato il patron del PSG a Londra. «Tutto è firmato e i soldi saranno sul vostro conto martedì», ribadisce a marzo. Ad aprile e maggio, nuove fatture «urgenti» mandate in Qatar. Due mesi dopo: «Ho una fattura per te», scrive l'ex segretario generale Fifa. «Mi imbarco per Doha mercoledì e porterò le fatture […] i soldi saranno sul loro conto lunedì», segna avvisando l'agente immobiliare. C'è un impresa sarda che aspetta i pagamenti. E Valcke è in collera: Al-Khelaïfi ha promesso di pagare ma tarda a fare il versamento. Prima di un loro nuovo incontro, previsto per il 28 novembre, il manager francese scrive: «La fattura non è stata ancora pagata. Puoi farlo d'urgenza?». «Sì capo», risponde l'imprenditore televisivo. «Ho appena chiamato e gli ho gridato addosso, pagherà immediatamente», assicura poi l'agente immobiliare. Ma il presidente del Paris Saint Germain sembra aver perso la fattura. Così Valcke gliela porta il 28 novembre, al loro incontro all'hotel Shangri La di Parigi. I rapporti fra i due uomini si interrompono di netto poco dopo. Nel settembre del 2015 infatti Jérôme Valcke viene sospeso dalla Fifa e allontanato per cinque anni per uso abusivo dei jet privati. Smette di occuparsi della Villa Bianca. Nel 2017 viene aperta la nuova inchiesta. Gli avvocati di Nasser Al-Khelaïfi, interrogati dai giornalisti del consorzio, hanno declinato ogni commento. «Non esiste alcun collegamento fra l'affitto della villa e le discussioni relative all'organizzazione della Coppa del Mondo in Qatar», ha voluto invece ribadire l'avvocato di Jérôme Valcke.

·         La Mafia dei posteggiatori abusivi.

Da repubblica.it il 30 agosto 2020. Un attacco in piena regola, con schiaffi e pugni. Alla fine, il consigliere regionale cade a terra, chiedendo disperatamente di chiamare la polizia. Ha il setto nasale rotto. È stato aggredito questa mattina Francesco Emilio Borrelli, rappresentante dei Verdi a Palazzo Santa Lucia (e candidato anche per questa tornata elettorale). Il consigliere, da anni impegnato nella lotta ai parcheggiatori abusivi, è stato picchiato da due donne e due uomini fuori l'ospedale San Giovanni Bosco. Era lì proprio per documentarne l'allontanamento, con una diretta Facebook. Dopo 15 minuti, il pestaggio. Gli aggressori, trattenuti a stento dalle guardie giurate, si sono scagliati anche contro l'autore del video, che ha ripreso la scena dal suo telefonino. Borrelli si è poi recato al pronto soccorso, dove gli è stata diagnosticata la rottura del setto nasale. Poco più tardi, tre persone sono state fermate dalla polizia. Sono state identificate dagli agenti dell'Ufficio Prevenzione Generale e trasferite in Questura. La loro posizione è al vaglio degli investigatori. Immediata la solidarietà della città. Il sindaco de Magistris in una nota “esprime a nome dell’amministrazione comunale piena solidarietà e vicinanza al consigliere regionale Francesco Borrelli per l’inaudita, violenta aggressione di cui è stato vittima”. Interviene anche Angelo Bonelli, coordinatore nazionale dei Verdi: “L'azione dei Verdi e in particolare di Borrelli in questi anni è stata quella fare una battaglia per la legalità a Napoli e proprio stamattina mentre documentava l'azione svolta di ripristino della legalità davanti al plesso ospedaliero, è stato rincorso da una macchina da cui è sceso un balordo che l'ha preso a pugni e buttato a terra. Ho chiesto al Ministro degli Interni Lamorgese di garantire l'incolumità dello stesso consigliere regionale Borrelli. Il ministro mi ha assicurato telefonicamente che prenderà provvedimenti e che ha già attivato il Prefetto di Napoli". “Il consigliere regionale Francesco Borrelli, è stato brutalmente aggredito al San Giovanni Bosco di Napoli. Una violenza senza precedenti che hanno costretto l’esponente di Europa Verde a ricorrere alle cure del pronto soccorso. Un atto indegno che sporca l’immagine di una città che non si riconosce in un simile vergognoso episodio”, così in una nota Rinaldo Sidoli, portavoce di Alleanza Popolare Ecologista. “Esprimiamo solidarietà e vicinanza a Borrelli. È arrivato il momento - spiega- che si apra una vera battaglia per il rispetto della legalità. Questi atti indegni danneggiano l’immagine del capoluogo partenopeo. La lotta all’abusivismo deve diventare una battaglia comune. Non devono esistere zone franche per ogni tipo di criminalità”. “Siamo certi che questo gesto infame non scalfirà minimamente il quotidiano impegno di Borrelli a promuovere politiche per la legalità e per il decoro del territorio. Purtroppo oggi si è superato il segno. Auspichiamo che venga fatta luce sull’accaduto e che siano individuati i responsabili dell'azione violenta”, ha concluso Sidoli.

Parcheggiatori abusivi pestano il consigliere regionale della Campania Borrelli. Francesco Emilio Borrelli è stato aggredito fuori dall'Ospedale San Bosco: il consigliere della Campania documentava la battaglia vinta contro gli abusivi dei parcheggi. Francesca Galici, Sabato 29/08/2020 su Il Giornale. Brutta avventura per Francesco Emilio Borrelli, consigliere regionale della Campania, noto per le sue battaglie di legalità. Il giornalista è stato brutalmente aggredito poche ore fa e a darne comunicazione è stato il suo staff tramite la seguitissima pagina Facebook del consigliere, dove sono state caricate anche le immagini di un filmato che riprendono i fatti, avvenuti all'esterno di un noto ospedale napoletano. Lo staff di Francesco Emilio Borrelli ha condiviso alcuni momenti dell'aggressione subita dal consigliere, che appare in seria difficoltà davanti all'aggressività di un gruppo di persone, tra le quali anche alcune donne. L'uomo viene brutalmente malmenato con schiaffi, pugni e calci prima che intervengano gli uomini della sicurezza privata dell'ospedale San Giovanni Bosco. La sicurezza libera Francesco Emilio Borrelli dalla furia rabbiosa degli assalitori. Non contenta, una donna gli si avvicina successivamente per minacciarlo, il tutto ripreso dalle persone che in quel momento si trovavano con il consigliere per documentare la buona riuscita di un lavoro durato mesi, per liberare il parcheggio dagli abusivi. "Poche ore fa a Napoli, il consigliere regionale dei Verdi, Francesco Emilio Borrelli, è stato brutalmente picchiato e aggredito. Insieme ad alcuni attivisti documentava il fatto che un parcheggio dell'ospedale San Giovanni in Bosco fosse stato liberato dai parcheggiatori abusivi grazie all'azione di denuncia dei Verdi", si legge nel post pubblicato da Angelo Bonelli. Quella contro i parcheggiatori abusivi è una delle battaglie più note dell'attivista dei Verdi. Borrelli in più di un'occasione ha documentato l'attività illegale dei parcheggiatori particolarmente diffusa a Napoli e dintorni. Nella sua nota, Angelo Bonelli, coordinatore nazionale dei Verdi, spiega che dopo il loro intervento "quell'area è tornata ad essere gratuita alla sosta dei familiari dei degenti, nei mesi precedenti era sotto il controllo di pregiudicati". Il coordinatore nazionale dei Verdi nella sua nota ci tiene a precisare l'impegno profuso da Francesco Emilio Borrelli nella lotta contro l'illegalità a Napoli. "È stato rincorso da una macchina da cui è sceso un balordo che l'ha preso a pugni e buttato a terra. Nel mentre gli aggressori hanno attaccato anche due guardie giurate, rompendo il braccio al primo e lussando una spalla all'altro", spiega Bonelli, dando un quadro più preciso della situazione. Non è la prima volta che il consigliere viene aggredito, per questo motivo Bonelli ha fatto richiesta al ministro dell'Interno di un servizio di sicurezza per Borrelli. "Il ministro mi ha assicurato telefonicamente che prenderà provvedimenti. Ha già attivato il prefetto di Napoli", ha spiegato Bonetti Francesco Emilio Borrelli è attualmente candidato alle prossime regionali con la lista Europa Verde Campania.

Gianvito Rutigliano per video.repubblica.it il 13 agosto 2020. "Non è normale arrivare in uno spazio qualunque della città adibito al parcheggio ed essere avvicinati da un uomo che non chiede, ma afferma "Un euro!". Non deve chiedere perché per lui è prassi ricevere l'obolo. Per me invece non lo è e non accetto che lo sia". È una parte dello sfogo che la studentessa barese Marianna Panzarino ha affidato alla sua pagina Facebook, per accompagnare il video con cui denuncia l'ennesimo atto di prepotenza subito in città al momento di parcheggiare la propria auto. E dopo il rifiuto, nei pressi del molo San Nicola, l'amara sorpresa: un danno sulla carrozzeria, imputato a chi non ha ricevuto il denaro.  Nella video-testimonianza emergono un appello al sindaco Antonio Decaro ad aumentare i controlli e l'impotenza delle forze dell'ordine a intervenire, nonostante la chiamata della giovane donna. In poche ore le immagini di quella denuncia sono state condivise centinaia di volte, a dimostrazione di un problema diffuso e sentito da tantissimi cittadini.

Non paga il parcheggiatore abusivo e trova l'auto danneggiata: lo sfogo della studentessa sui social. La giovane ha denunciato sui social quanto accaduto alla sua auto dopo che si era rifiutata di pagare un euro al parcheggiatore abusivo. Gabriele Laganà, Giovedì 13/08/2020 su Il Giornale. Quello del parcheggiatore abusivo che "chiede" denaro per la sosta dell’auto è uno sconcertante fenomeno che, da nord a sud, accomuna molte città italiane. Oltre ad essere fuorilegge, in alcuni casi questa figura che "lavora" al di fuori delle regole può diventare anche pericoloso. A volte, infatti, tale soggetto arriva ad insultare o a danneggiare il veicolo della persona che si rifiuta di pagare la somma richiesta. Ne sa qualcosa Marianna Panzarino, una studentessa di Bari che sui social ha diffuso le immagine di cosa le è accaduto la sera del 10 agosto dopo aver parcheggiato la sua auto. "Non è normale che sia normale!", ha esordito la giovane nel messaggio che accompagna il video con cui denuncia l'ennesimo atto di prepotenza compiuto in città dagli abusivi. "Non è normale arrivare in uno spazio qualunque della città adibito al parcheggio ed essere avvicinati da un uomo che non chiede, ma afferma "Un euro!". Non deve chiedere perché per lui è prassi ricevere l'obolo. Per me invece non lo è e non accetto che lo sia", ha rincarato la dose la studentessa che aveva lasciato la propria vettura nei pressi del molo San Nicola. La giovane, con coraggio, non cede alla richiesta dello sconosciuto. È a questo punto che intuisce che il parcheggiatore abusivo non ha preso bene il suo rifiuto. "Il suo sguardo è più che eloquente. Come spiegare una minaccia così velata? Come dimostrarla? Impossibile, perché anche questa è prassi consolidata, una regola non scritta, non detta, ma che tutti conosciamo bene: "Non mi paghi? Ok, ma poi non è detto che ritrovi la macchina così come l'hai lasciata...". E infatti questo accade. Quando Marianna torna a prendere l’auto, ecco l'amara sorpresa: un danno sulla carrozzeria che la ragazza imputa non ad una coincidenza ma al parcheggiatore che non ha ricevuto il denaro richiesto. A lasciare senza parole la studentessa sarebbe stata la reazione delle forze dell'ordine che, a suo dire, hanno sminuito la vicenda. "Sa quante cose peggiori vediamo noi? Purtroppo funziona così", avrebbero risposto gli uomini in divisa alla giovane. Nel video-denuncia, la studentessa si rivolge anche al sindaco di Bari, Antonio Decaro, per invitarlo ad aumentare i controlli.

Bari, non paga il posteggiatore e trova auto graffiata, la denuncia di Marianna è virale. "Non è eroismo ma non abbasso testa", scrive la giovane e su Fb arrivano sostegno e critiche. La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Agosto 2020. Continua a incassare sostegno e condivisioni da tutta Italia il video della studentessa barese che due giorni fa su Facebook ha raccontato di essersi rifiutata di pagare «il pizzo» a tre parcheggiatori abusivi sul lungomare di Bari e di aver poi trovato l’auto graffiata. E per questo ha deciso di chiamare i carabinieri che ha atteso mentre i tre parcheggiatori la fissavano e indicavano, fino a quando uno di loro si è anche avvicinato per intimidirla fisicamente. In un altro post pubblicato stasera la studentessa, Marianna Panzarino, spiega di aver ricevuto anche qualche «commento assetato di violenza» sui social, e anche chi si è offerto di darle «due spicci» per evitarle «il danno» all’auto e un post che tanto «non cambierà nulla». Ma lei sottolinea di non essere "abituata ad abbassare la testa davanti alla prepotenza: non è che non lo faccio per spirito di ingenuo eroismo, è che proprio non mi viene». «Ho dovuto chiamare le forze dell’ordine - spiega oggi - non per il danno alla macchina in sé (la cui origine non avrei comunque potuto provare) ma perché mentre mi accorgevo di quel danno, io e la mia amica eravamo fisicamente puntate dai tre parcheggiatori abusivi: ci indicavano, ci fissavano, uno dei tre dopo qualche minuto si è avvicinato e si è piantato di fronte a noi. Il tentativo di intimidazione era chiaro, ma impossibile da provare legalmente. Di qui la nostra decisione di usare i social come strumento per sollevare l’attenzione su un’anormalità».

Valeria D' Autilia per “la Stampa” il 14 agosto 2020. Lei rifiuta di pagare il parcheggio agli abusivi e loro le danneggiano la macchina. Poi insieme alla sua amica, anziché fuggire, decide di chiamare i carabinieri. E li aspetta, sotto lo sguardo intimidatorio dei tre che, poche ore prima, le avevano chiesto i soldi. Poi racconta tutto sui social, con un video denuncia diventato virale. «Non è normale che sia normale» dice Marianna Panzarino con i suoi 25 anni e una notorietà guadagnata per caso. Una sera d' estate a Bari, al molo San Nicola, dopo una serata con amici. «Torno alla macchina, è danneggiata. Perché non ho pagato il pizzo. Quel pizzo che è d' uso chiedere soprattutto in luoghi non sorvegliati dalle forze dell' ordine». Eppure questa è una zona centrale, a pochi passi dal centro e dal Lungomare. Sa benissimo che quella è la risposta al suo rifiuto. Del resto, ai parcheggiatori abusivi ha sempre detto no, ma mai erano andati oltre. «Si avvicina un uomo che pretende un euro. Come faccio sempre, gli chiedo perché avrei dovuto darglielo e chi lo aveva autorizzato a stare lì. Risponde che vuole spiccioli. Mi squadra e continua a farlo mentre mi allontano senza dargli nulla. A fine serata, trovo la mia macchina graffiata». Lei e l' amica restano lì, gli abusivi le osservano a poca distanza. Hanno un atteggiamento minaccioso. A quel punto la scelta coraggiosa: chiamare le forze dell' ordine e aspettare. «Spiego che ho un danno e chiedo un intervento per la presenza di questi uomini con fare intimidatorio. Ci fissavano e ci indicavano. Poi uno si è alzato e si è piantato davanti a noi». Nel frattempo Marianna decide di fare un video con il cellulare, raccontando tutto in tempo reale, mentre l' amica la riprende. «Sapevo che più aspettavamo e più la situazione diventava pericolosa. I carabinieri sono arrivati dopo una ventina di minuti».

I tre vengono identificati. In questi casi, si può fare poco. «Il problema è che non è espressamente un reato, ma un' estorsione tacita. I militari mi hanno detto che avrei dovuto chiamarli subito, ma comunque i soldi non li avevo dati né il parcheggiatore mi aveva minacciata verbalmente. Ma sappiamo che funziona così». Marianna, che studia Giurisprudenza a Roma, è consapevole che l' accaduto sarà difficile da dimostrare in tribunale. Il suo scopo è un altro: denunciare una forma di illegalità diffusa e spesso tollerata. Da istituzioni e cittadini. «Se alla fine ti danneggiano l' auto, ti senti anche in colpa per non aver piegato la testa». Il dispiacere vero è che, dei costi di riparazione, dovrà farsi carico sua mamma. «Sono una studentessa e gli unici soldi sono i suoi. Anzi, sono stata fortunata perché avrebbero potuto rompermi il vetro, rubare la macchina. Oltre all' impunità, mi fa rabbia che il tipo di danno sia stato a loro discrezione». Tanti i commenti di sostegno al suo racconto, uno invece le lascia l' amarezza: «La prossima volta passa da casa che te li do io due spicci». Una mentalità difficile da scardinare. «Non è dare l' euro, è smettere di accettare passivamente le anormalità come normali e accendere riflessioni collettive che sono la miccia del cambiamento che spesso vorremmo e raramente costruiamo». È anche per questo che ha scelto di eliminare i commenti più violenti. Come le minacce di morte contro gli autori di quel gesto. «Altrimenti diventiamo come quelle persone che denunciamo». Poi Marianna va oltre. «Non ritengo il parcheggiatore abusivo un delinquente. A volte è un indigente, altre è l' ultima ruota di un sistema criminale che è dietro di lui. Serve un intervento delle istituzioni, anche a livello legislativo. Noi cittadini non dobbiamo sentirci soli». Un richiamo alla responsabilità che sente molto, come dimostra il suo essere attivista per «Fridays For Future», il movimento di Greta Thunberg. «Nell' ultimo anno e mezzo mi sono dedicata all' emergenza climatica e infinite volte mi sono sentita dire che non si può fare niente. Non ci credo. Quindi figuriamoci se mi devo preoccupare di un piccolo sistema di abusivismo». Marianna ha le idee chiare, al punto da essere pronta a correre il rischio una seconda volta. E scherzarci su. «Lì ci ritorno. Mia mamma non vorrebbe e, a dire il vero, la temo più dei parcheggiatori abusivi. Per lei avrei potuto dare questo euro anziché doverne sborsare adesso 200. Ma sono fatta così. Ritornerò e, se ci saranno di nuovo loro, andrò a cercarmi un altro parcheggio. Ma solo per rispetto a mia mamma che ha uno stipendio nella media, mi mantiene a Roma e non può permettersi anche queste spese».