Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
LA MAFIOSITA’
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA MAFIOSITA’
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Metodo “Falcone”.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Tommaso Buscetta spiega “Cosa Nostra”.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Omicidio Mattarella.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Mafia.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: i depistaggi sulla strage di via D’Amelio.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Mafia-Appalti.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il grande mistero del covo.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il Concorso Esterno. Reato fantastico.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Le Stragi del '93.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La Strage di Alcamo Marina.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Mafia-Finanziamenti.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il misterioso “caso Antoci”. (Segue dal 2019)
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Rosario Livatino.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Bruno Caccia.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Paolo Adinolfi.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte di Don Pino Puglisi.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte di Diabolik.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Nino Agostino.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro Rostagno.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro De Mauro.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Peppino Impastato.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Mafia stracciona.
I killers della mafia.
La Mafia romana: L’Autoctona.
La Mafia romana: I Casamonica.
La Mafia romana: Gli Spada.
La Mafia romana: I Fasciani.
La Mafia Nomade.
I Basilischi. La Mafia Lucana.
La Quarta Mafia. La Mafia di Foggia.
La 'Ndrangheta tra politica e logge massoniche.
La Mafia Veneta.
La Mafia Italo-Padana-Tedesca.
La Mafia Nigeriana.
La Mafia Pachistana.
La Mafia jihadista. Gli affari dei califfati.
La Mafia Italo-Canadese.
La Mafia Colombiana.
La Mafia Messicana.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Doppio Stato.
In cerca di “Iddu”.
Chinnici e la nascita del Maxi processo.
Le Ricorrenze. Liturgia ed Ipocrisia.
Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.
Guida a un monstrum giuridico: il 41-bis.
Le loro prigioni: Concorso Esterno in Associazione Mafiosa.
La Trattativa degli Onesti.
Quelli che non si pentono: I sepolti vivi come Raffaele Cutolo.
Non è Tutto Bianco o Tutto Nero.
L'antimafia degli ipocriti sinistri.
Non è Mafia…
Invece…è Mafia.
Quelle vittime lasciate sole…
Cassazione, aggravante mafiosa può essere contestata solo se c’è dolo.
Il Business del Proibizionismo.
Il Business “sinistro” dei beni sequestrati preventivamente e dei beni confiscati dopo la condanna.
La Mafia delle interdittive prefettizie.
Chiusi per (Anti) Mafia…
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Gogna Parentale e Territoriale.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giudice Onorari “sfruttati”?
Il Caporalato dei Praticanti.
Noi specializzandi sfruttati e malpagati.
Se lo schiavo sei tu.
Il lavoro sporco delle pulizie.
Il Caporalato agricolo Padano.
Schiavi nei cantieri navali.
Riders: Cornuti e Mazziati.
Caporalato nei centri commerciali.
Il Caporalato dei Call Center.
Il Caporalato degli animatori turistici.
Il Caporalato dei Locali Pubblici.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Favoritismi Curatelari.
Non è Usura…
Astopoli.
La Mangiatoia degli incarichi professionali nelle procedure fallimentari.
SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Io sono il Potere Dio tuo.
La Lobby del Tabacco.
Le Lobbies di Gas e Luce.
La Lobby dei Sindacati.
La Lobby del Volontariato.
La Lobby degli Studi Legali.
La Lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica.
Gli Affari dei Lobbisti.
I Notai sotto inchiesta.
Se comandano i Tassisti.
La Lobby dei Gondolieri.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Massomafia.
INDICE TERZA PARTE
CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Figli di Trojan.
Il Concorso truccato per i magistrati.
Togopoli. La cupola dei Magistrati.
E’ scoppiata Magistratopoli.
Magistrati alla sbarra.
Giornalistopoli.
Voto di Scambio mafioso=Clientelismo-Familismo.
L’Onorevole Mafia.
La Sinistra è una Cupola.
Tutte tonache di rispetto.
La Mafia dei Whistleblowers.
La Mafia del Riciclaggio Bancario Internazionale.
La Mafia del Gasolio.
La Cupola delle Occupazioni delle Case.
La Mafia dello Sport.
La Mafia dei posteggiatori abusivi.
LA MAFIOSITA’
SECONDA PARTE
SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· La Mafia stracciona.
Reddito di cittadinanza alla ‘ndrangheta: 101 denunciati, tra loro anche il Pablo Escobar italiano. Redazione su Il Riformista il 20 Maggio 2020. L’operazione di chiama “Mala civitas” e ha scoperto come più di centro ndranghetisti siano riusciti a ottenere il reddito di cittadinanza. L’operazione è stata coordinata dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabrie ha portato alla luce come tra i beneficiari del sussidio ci fossero anche esponenti anche di spicco delle più note famiglie di ‘ndrangheta operanti nella piana di Gioia Tauro e delle potenti ‘ndrine reggine dei Tegano dei Serraino. Altri invece, sono legati alle cosche della Locride, tra le quali la ‘ndrina Comisso-Rumbo-Figliomeni di Siderno, la ‘ndrina Cord’ di Locri, la ‘ndrina Manno-Maiolo di Caulonia e la ‘ndrina D’Agostino di Canolo. Tra questi c’era anche Roberto Pannunzi, conosciuto con il soprannome di Pablo Escobar italiano, unanimemente considerato dagli investigatori italiani e statunitensi come uno dei più grandi broker mondiali di cocaina e che si faceva vanto di pesare i soldi anziché contarli, percepivano il sussidio. Sono stati tutti inoltre segnalati all’Inps per l’avvio del procedimento di revoca dei benefici ottenuti, con il conseguente recupero delle somme già elargite che ammontano a circa 516mila euro; nel contempo, sarà conseguentemente interrotta l’erogazione del sussidio che avrebbe altrimenti comportato, fino al termine del periodo di erogazione della misura, un’ulteriore perdita di risorse pubbliche di oltre 470mila euro.
Reddito di cittadinanza per ‘ndranghetisti, mafia stracciona che ha bisogno di pane e latte. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 24 Maggio 2020. “Mala Civitas”, è l’operazione della guardia di finanza che ha portato al deferimento di 116 persone all’autorità giudiziaria, per aver incassato indebitamente il reddito di cittadinanza. Una cittadinanza cattiva appunto, che gli inquirenti italiani d’abitudine utilizzano termini colti, svariando dal latino al greco con qualche fuga all’inglese, per indicare il risultato finale delle loro indagini. La cittadinanza, oggetto del deferimento, in Calabria con qualche espansione piemontese, a Verbania, è di un tipo particolare: figlia della ‘ndrangheta, di più, in alcuni casi appartenente ai nomi più prestigiosi del gotha mafioso. 101 fra capi e gregari, con l’aggiunta di 15 approfittatori semplici. Solo un’indagine ancora, da dimostrare, che mira alla restituzione di 516 mila euro, già percepiti, e interrompe ulteriori 411 mila euro, flusso che avrebbe dovuto essere erogato nei mesi a venire. Una delle tante, tante, truffe che si registrano in ogni angolo della Nazione. La particolarità è che sia una presunta truffa che puzza di ‘ndrangheta, di un valore relativamente basso se rapportato alla natura dell’organizzazione criminale: non milioni e milioni di euro, ma alcune centinaia di migliaia, da dividere fra più di cento persone. Truffe di sussistenza così se ne vedono, purtroppo, tutti i giorni, con protagonisti che sopravvivono di espedienti. Certo, le strategie mafiose assumono forme varie, vanno per logiche loro, spesso non capite o non comprensibili, che alla fine trovano però sempre un senso nelle spiegazioni degli investigatori, degli esperti. Per il senso e la logica, comuni, è difficile comprendere. 101 boss appartenenti a casati sfondatamente ricchi che giocano con le briciole destinate ai poveri? Ludibrio morale, abominio di pezzenti. Si toglie di bocca il pane alle famiglie indigenti, e certo la mafia non la frequenta la moralità, il bisogno degli altri è solo un’opportunità. Ma gli allarmi degli ultimi tempi lasciano presagire un assalto agli aiuti comunitari e nazionali per l’emergenza pandemica, che saranno altri numeri con tanti più zeri. Ritrovare 101 persone, che vengono definiti boss, alle prese con pezzi da dieci e da venti, fa immaginare una verità più complessa, articolata, per certi versi incoraggiante: che pochi, pochi eletti si spartiscono i cento e passa miliardi di euro che fonti multiformi attribuiscono al fatturato delle mafie tradizionali, e che poi tanti, tanti, che stanno dentro le mafie ci stanno da morti di fame. Che c’è una verità, che forse è utile dirla: che ci sono mafiosi di serie A, ma pure B o C, e poi c’è una mafia stracciona che ha gradi alti solo per spenderli in galera, mentre nella vita normale ha bisogno di pane e latte, e che l’idea di affiliarsi non sia stata proprio felix, come direbbero investigatori colti. Che forse ai ragazzi calabresi bisognerebbe dirlo che a finire in una mafia stracciona, per fregare le merende ad altri ragazzi, è una cosa da fessi, non da furbi.
· I killers della mafia.
L’ex killer della mafia: «Ho ucciso 13 volte, ma piango ogni giorno per un panettiere innocente di 18 anni». Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. Roberto Cannavò nel 1991 sbagliò bersaglio e ammazzò il giovane Filippo Parisi. «Per lui piango ogni giorno. La madre ha diritto di odiarmi, vivo per alleviare il suo dolore». «Si chiamava Filippo Parisi e aveva 18 anni. Stava aprendo un panificio quando sono arrivato lì vicino. Ho sparato a uno che dovevo ammazzare, ma un proiettile è rimbalzato e ha colpito lui. Era marzo del 1991, a Catania. Ho pianto tantissimo per quel ragazzo. È uno dei miei rimorsi piu grandi. L’ho pensato ogni santo giorno per anni e ancora adesso, soprattutto di notte, ricordo spesso quella scena. Vedo lo strazio di sua madre che dopo, negli anni del processo, veniva in aula con la fotografia di Filippo sul petto. Mi guardava e io facevo pure lo spaccone. Se ci ripenso... Non avevo ancora capito che cosa fosse il dolore, non avevo ancora imparato a gestire i miei impulsi peggiori, a distinguere il bene dal male. Non so cosa darei per tornare indietro e non essere quello che sono stato». A questo punto il racconto ha bisogno di un sospiro, una pausa, un sorriso. Roberto Cannavò parla e gesticola. Disegna ricordi nell’aria, percorre le vie tortuose di un tempo che fa parte di lui ma non gli appartiene più: quello in cui è stato assassino, mafioso, scippatore, ladro, rapinatore.
Quanti anni ha?
«Quasi 53. Sono nato a Torino a marzo del 1967 ma quando avevo quattro mesi i miei, che erano siciliani, tornarono a Catania, dove poi sono cresciuto».
Quale pena sta scontando?
«Sono in libertà condizionale da due mesi. Di giorno lavoro, di notte ho l’obbligo di rimanere a casa. Sto scontando l’ergastolo per associazione mafiosa e per gli omicidi».
Quanti omicidi?
«Tredici. Lo so: se uno mi conosce e mi parla adesso tutto questo sembra pazzesco. Ma è andata così e il passato purtroppo non si può cambiare».
Torniamo a quel ragazzo della panetteria.
«Il proiettile gli recise l’arteria femorale. Conoscevo infermieri dell’ospedale in cui lo portarono. Cercavo di informarmi sulle sue condizioni, ho sperato inutilmente che se la cavasse. Non avrei mai voluto uccidere un ragazzo innocente, nemmeno allora nonostante fossi quello che ero».
E che cos’era?
«Ero uno che aveva come punti di riferimento miti negativi, assassini, gente che mi faceva sentire grande e potente. Ho cominciato con qualche furto, uno dietro l’altro. Poi rapine. Diventare una pedina della criminalità organizzata, è stato un attimo. Io sono stato un affiliato, ho fatto il giuramento a Cosa nostra».
Un momento, troppa fretta. Riavvolgiamo il nastro: provi a individuare il momento in cui tutto è cominciato.
«Credo sia stato l’8 marzo del 1984, quando avevo 17 anni e sognavo ancora di avere un’officina meccanica tutta mia. Quel giorno mio padre fu ucciso, a 38 anni, per un errore di persona. I sicari volevano ammazzare un tizio che abitava venti metri più in là e che è stato ucciso otto giorni dopo. Mio padre si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato con una A112, come l’altro tizio. Mio fratellino di 9 anni ha visto tutto. I carabinieri sono venuti in officina, mi hanno portato sul luogo del delitto e hanno alzato il lenzuolo. Ero scioccato».
E cosa ha fatto?
«Ero arrabbiato. Mi pareva tutto ingiusto. Ho cominciato a fare danni. Dopo pochi mesi ho abbandonato l’officina e i pochi furtarelli che avevo fatto fino a quel momento - e che nella mia testa dovevano servire a comprare l’attrezzatura meccanica e vivere poi onestamente - sono diventati altro e di più. Il fatto di mio padre mi ha dato l’alibi per diventare peggiore».
Non si salvò nemmeno con l’arrivo della prima figlia.
«A gennaio dell’85 ho fatto la famosa fuitina, non avevo nemmeno 18 anni. Ad agosto di quello stesso anno mi hanno arrestato per rapina. La mia ragazza aveva 15 anni: l’ho lasciata incinta di un mese, quando sono uscito la bimba aveva un anno e mezzo. Oggi ha 34 anni e un figlio. Non ho visto nascere nemmeno la mia seconda figlia. Avevo 22 anni e ancora una volta ero in carcere. In quel periodo entravo e uscivo spesso: per rapine, furti, una rapina in banca. Non ero mai solo e non usavamo mai armi finte. Ci sembrava di andare a fare i giochi del far west ma era tutto vero».
Rubavate negli appartamenti?
«Sì. Guardavamo il palazzo. Cercavamo quelli prestigiosi. Prima chiamavamo per essere sicuri che nessuno fosse in casa. Ci allungavamo in Romagna, Lombardia, Lazio, Toscana perché lì non erano così sgamati come in Sicilia. Si trovava più roba, più oro. A maggio del ‘90 mi arrestarono di nuovo, sono uscito a dicembre e da lì in poi è stato il peggio che c’è. A gennaio del ‘91 uccisero il mio amico più caro. Era in corso una guerra fra cosche, morire era una possibilità, uccidere faceva parte della partita. Fra la morte del mio amico e aprile di quello stesso anno ho ammazzato quattro persone».
Perché dice aprile? Che cosa successe ad aprile?
«Sono diventato un uomo d’onore, come usano dire i mafiosi. Io avevo il mio uomo di riferimento. Uno che mi aveva seguito nel percorso criminale. Con Cosa nostra succede così: c’è qualcuno che è già uomo d’onore e che ti osserva attentamente. Lui sa se sei educato, ubriacone, umile, ubbidiente, sa come ti comporti con le donne, quanto sangue freddo hai. Se vai bene, se lo convinci, allora lui ti introduce, ti presenta agli altri, ti propone come uomo d’onore».
E quindi lui lo fece?
«Sì. Una sera mi disse: domani vestiti pulito che andiamo a fare una cena importante. Per me lui era un punto di riferimento, ma non sapevo che fosse un uomo d’onore. Sono andato a quella cena, c’erano altri che come me erano lì per giurare. Quella sera sono tornato a casa in pieno delirio di onnipotenza. Se ci ripenso oggi mi vengono i brividi. Dentro mi sentivo grande e invece di grande avevo soltanto la violenza. A quella tavola c’erano uomini che con un cenno della testa decidevano il tuo destino».
Non pensò nemmeno per un istante al passo che stava facendo?
«Sapevo che faceva schifo tutto: quelle persone e quello che facevano, ma in quel momento per me contava di più far parte di una famiglia mafiosa. Capivo che quelli che avevo frequentato fino a quel momento non valevano niente in confronto a me, nemmeno se avevano già ucciso. Noi eravamo una famiglia e io mi sentivo orgoglioso di farne parte. Volevo scalare le posizioni e arrivare all’apice. Avevo perso il senso stesso della vita, a quel punto».
Ma a casa o fra gli amici: possibile che nessuno avesse capito?
«Io non ho mai mischiato la mia famiglia con la mafia. Avevo amici d’infanzia con i quali andavo a pescare, a giocare a carte. Quando mi hanno arrestato sono rimasti tutti senza parole, nessuno doveva sapere o capire e nessuno aveva saputo o capito».
Lei dice di provare il suo più grande rimorso per quel ragazzo della panetteria. Per gli altri nulla? Le loro vite non valevano niente?
«Quel ragazzo era innocente, completamente fuori dal nostro schifo. Non c’entrava niente con noi e la nostra guerra tra clan. Quindi la mia coscienza davanti a lui è stata disarmata fin dal primo momento. Con gli altri c’è voluto più tempo prima che li sentissi pesare sulla coscienza. Ricordo un ragazzo di 19 anni, in uno scantinato. Quelli del mio gruppo mi hanno portato lì che lo stavano interrogando. Era uno che aveva a che fare con un gruppo rivale, volevano che dicesse dov’era nascosto uno. Lui piangeva, supplicava di lasciarlo andare, giurava di non sapere. Io mi sono messo a parlare con il capo dei torturatori, un po’ in disparte. Ma l’ho visto morire strangolato. Ricordo che sono uscito e mi veniva da vomitare. Era feccia e io ero talmente immerso in quella spazzatura. La maggior parte di quelli che ho ammazzato non li conoscevo nemmeno. L’ultimo, a Torino, me lo ha indicato con un dito un palermitano».
Poi arrivò l’ondata di arresti del ‘92.
«Arrestarono tutti i componenti del mio quartiere, compreso Santo Mazzei che era stato il capo del nostro gruppo. A un certo punto Mazzei stesso mi mandò a dire dalla cella che sarei dovuto andare a Mazara del Vallo a parlare con certa gente. Ci andai. E lì mi dissero: ora che Santo non c’è più devi prendere tu le sue redini. A quel punto mi sono spaventato, ma non potevo dire di no. Per fortuna nel febbraio del ‘93 mi hanno arrestato ed è finito tutto».
Però lei è rimasto fedele alla sua arroganza anche in carcere per un bel po’ di anni.
«È vero. Lo spartiacque è arrivato con i due anni di isolamento diurno che mi sono fatto dal 2006 al 2008. Due anni senza avere contatti con nessuno, senza uscire mai dalla cella se non per l’ora d’aria. Mi sono fermato completamente. Era tutto immobile attorno a me e dentro di me. È venuta a trovarmi la mia prima figlia. Aveva 18 anni. Per la prima volta le ho raccontato tutto quel che avevo fatto e lei per i sette anni successivi non ha più voluto sapere niente di me».
È stata quella reazione a farla cambiare?
«All’inizio l’ho attaccata, non l’accettavo. Facevo il padre prepotente. Poi ho cominciato a capire, a riflettere. La mia vita era stata un fallimento totale. Ho pensato e ripensato a quanta determinazione avevo messo nel diventare l’uomo abominevole che ero diventato. Ho capito fino in fondo il significato della parola ergastolo. E allora ho cominciato i percorsi formativi per dare un valore a quei pensieri nuovi».
E cioè?
«Discussioni di gruppo per guardarmi dentro, dieci anni di teatro-musical, un corso di comunicazione, incontri con i giovani detenuti. Mi hanno aiutato in molti, a cominciare dalla mia avvocatessa Eliana Zecca. In mezzo c’è stato anche un docufilm, Spes contra spem, realizzato da Nessuno tocchi Caino nel 2015 che ha fatto un passaggio anche al Festival del cinema di Venezia. Erano interviste a dieci ergastolani e io ero uno di loro. So che l’hanno visto e apprezzato anche molti giudici, dalla Corte Costituzionale alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e di questo vado fiero. Insomma, ho fatto e faccio ancora oggi tutto quello che potevo e che posso fare per dimostrare a me stesso e agli altri che sono cambiato. È grazie a tutto questo e a tutto il bene che ho trovato sulla mia strada se oggi non sono più l’uomo dei primi anni Novanta».
Perché dovremmo crederle?
«Perché è la verità. So bene che si può non credermi, ma io so quello che sono e che sento: l’uomo che ero non esiste più».
Oggi vede le sue figlie?
«Sì. E vedo anche il mio nipotino di 9 anni. Sto cercando di recuperare le lacune del passato, con loro e nella vita di tutti i giorni. Leggo, scrivo poesie. Faccio parte del Gruppo della trasgressione, un gruppo di lavoro e di discussione creato dal dottor Yuri Aparo che da 40 anni si occupa dei detenuti nelle carceri. Il lavoro nel gruppo, cioè lo scambio di pensieri e le iniziative con altri detenuti, religiosi, magistrati, psicologi, artisti, studenti mi ha aperto la mente e il cuore. Mi ha fatto capire in pochi anni quello che non avevo visto in una vita intera. Oggi vendo frutta al mercato per guadagnarmi da vivere e vivo con mia madre che ogni notte si sveglia assieme a me quando i carabinieri vengono a controllare se sono a casa. E sento che sto facendo bene perché ho rispetto delle persone e del patto sociale. Adesso ho la consapevolezza del male che ho fatto, non farei mai lo spaccone davanti alla mamma di quel ragazzino della panetteria che mi guardava in aula con la fotografia di suo figlio sul petto».
Ha mai provato a contattarla per dirglielo?
«Certo. Io ho chiesto la mediazione penale con tutti i parenti delle mie vittime, ma non ho ancora avuto risposta da nessuno. Mi metto a disposizione di queste persone per capire assieme a loro se e come posso alleviare il loro dolore. Non chiedo il loro perdono perché sono imperdonabile e semmai mi può perdonare solo Dio. A queste persone, soprattutto alla mamma di quel ragazzo innocente vorrei dire: cerchi di vedere suo figlio con i miei occhi che sono stato l’ultimo a vederlo. Io non sono più quell’uomo. So bene che le ferite non potranno mai rimarginarsi ma la prego: provi ad abbassare le barriere e cerchiamo di trovare insieme una strada per far vivere un po’ di bene da un dolore così grande».
È una mamma alla quale lei ha ucciso un figlio. Le sta chiedendo di fare un passo difficilissimo.
«Lo so. Ha il diritto di odiarmi fino alla fine dei suoi giorni, se vuole, come tutte le altre. Io sto cercando solo di restituire al mondo un po’ di bene, adesso che so che cos’è il bene. Oggi vivo per aiutare a vivere meglio quelli ai quali ho fatto del male».
· La Mafia romana: L’Autoctona.
Arrestato Salvatore Nicitra, «il quinto re di Roma» ex banda della Magliana. Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. L’ultima volta che è stato arrestato prima dell’operazione all’alba di martedì risale a due anni fa, con il maxi intervento delle forze dell’ordine chiamato Hampa. Salvatore Nicitra fu accusato di estorsione aggravata di stampo mafioso. Viene considerato il quinto re di Roma della malavita organizzata, quello di Roma Nord. In quel caso - come accertarono i carabinieri - fece da mediatore fra i boss dell’organizzazione per dissolvere i contrasti su 100 mila euro, un debito da incassare da due imprenditori. Siciliano, viene considerato una sorta di saggio, di personaggio in grado di mantenere gli equilibri, anche di garantire il rispetto di accordi. Nicitra, è uno dei personaggi più importanti della banda della Magliana, anche se il suo nome è legato al sequestro del fratello Francesco e del figlio Domenico, di 11 anni, scomparsi e forse uccisi. Per chi indaga «è un esponente di primo piano della criminalità romana, con ripetuti contatti con elementi della Magliana». Ora è in carcere. Per il giudice Otello Lupacchini ha cominciato come rapinatore, con Franco Giuseppucci ed è stato il referente per Primavalle di Enrico De Pedis per il commercio della droga e gestire i circoli privati dove si gioca d’azzardo. È stato coinvolto nella guerra fra bande proprio a Primavalle negli anni Ottanta, con attentati, agguati e omicidi. Come anche a Casalotti e Montespaccato. Per gli investigatori il suo gruppo era in contrasto con quello di Bebo Belardinelli, nemico di Danilo Abbruciati. Le cronache giudiziarie raccontano quanto sia «capace di esercitare e godere di un notevole ascendente nei confronti dei consociati, facendo anche leva sull’attestato vizio di mente riconosciutogli in passate sentenze penali delle quali lui stesso si fa vanto». Tanto da evitare condanne per vari reati gravi. Dopo però quella definitiva per appartenenza alla Banda della Magliana, Nicitra ricompare nel giugno 2018 nell’indagine sul gruppo dei Gambacurta, sempre a Montespaccato.
«Guadagnavo come un casinò»: gli affari dell’ex boss della Magliana Nicitra svelati dalle intercettazioni. Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Dalle prime accuse di omicidi, rapine e altri reati uscì indenne facendosi passare per pazzo, e se la cavò con qualche anno di manicomio giudiziario. Poi s’è fatto strada nel settore delle scommesse clandestine, come svelarono i pentiti della banda della Magliana. Per esempio Maurizio Abbatino: «Salvatore Nicitra, siciliano con trascorsi di rapinatore, già amico di Franco Giuseppucci e referente di Enrico De Pedis per la commercializzazione della droga nella zona di Primavalle, per la sua capacità di gestire il gioco venne arruolato nella banda per la conduzione i circoli provati». Più di recente è stato lui stesso a narrare le proprie gesta, trent’anni e più di carriera criminale, intercettato dalle microspie dei carabinieri: «Col lotto si possono guadagnare un botto di soldi… all’epoca facevo il totocalcio, però tutti si facevano ‘sto lotto, dico ‘vabbè, e infiliamo pure il lotto … ma su 15 milioni e dopo il 15 per cento… ti dico, mi pigliavo sempre tutto, non vinceva mai nessuno…». E ancora: «Io avevo le case da gioco più importanti di Roma e d’Italia, con i soldi che guadagnavo neanche il casinò li guadagnava, avevo le case da gioco con ville così, con i camerieri con i guanti bianchi e i vestiti neri, guadagnavo 100.000 euro a notte». Altri tempi. Ma a 63 anni ancora da compiere Salvatore Nicitra da Palma di Montechiaro, trapiantato da giovane nella capitale, continuava i suoi affari con le slot machines e la gestione dei giochi elettronici in bar e locali, scommesse clandestine che gli garantivano – secondo l’accusa della Procura di Roma – entrate milionarie. E ieri è stato nuovamente arrestato per associazione per delinquere finalizzata alla turbativa dell’attività economica e frode informatica, con l’aggravante del metodo mafioso. È indagato anche per un paio di omicidi di fine anni Ottanta, ma al di là dei reati formalmente contestati, molto di ciò che è accaduto a Nicitra nei decenni scorsi odora di mafia. A cominciare dalla misteriosa sparizione, avvenuta a giugno del 1993, del fratello Stefano, all’epoca trentaquattrenne, e del figlio Domenico, 11 anni. Un rapimento che fece pensare alla «lupara bianca», e col passare del tempo quel timore è diventato una tragica certezza. Domenico non è mai tornato a casa, probabile vittima di una vendetta traversale; oppure eliminato perché testimone potenzialmente scomodo dell’omicidio dello zio. In quell’occasione si scopri che la criminalità organizzata romana non disdegnava metodi ed esecuzioni ampiamente utilizzate in terre di mafia, e il bersaglio era proprio Nicitra. Che negli anni ha assunto anche il ruolo di mediatore tra le diverse bande che si spartiscono il territorio romano per i loro affari illeciti, dalla droga in giù.
L’ultimo arresto risale a meno di due anni fa, per un’estorsione che doveva servire a mettere pace tra il clan dei Gambacurta e uomini legati al boss Michele Senese. Per provare l’accusa legata al controllo clandestino dei videogiochi. l’indagine condotta dal pubblico ministero Nadia Plastina sotto il coordinamento del procuratore reggente Michele Prestipino ha potuto attingere a numerose intercettazioni in cui Nicitra confessa le proprie attività. Come quando riferisce quanto detto a un potenziale concorrente nella distribuzione e il controllo delle «macchinette»: «Chiariamo subito i ruoli… qua su Roma nord tu non metti un chiodo, e se metti un chiodo devi passà prima da me…». Altre frasi dimostrano i piani «imprenditoriali» del boss: «Qui praticamente si gestirà così, sono 180 Planet… verranno fatte tre divisioni, tre gruppi da 60, noi chiaramente se pigliamo tutta la parte…». O il modo di trattare con i concorrenti: «Già mi conosceva lui, no? Quindi già era addomesticato… Gli ho detto… tu sai bene che quella lista non vale un cazzo, noi abbiamo fatto un accordo, per me vale quello quindi… le cose ce le dividiamo inter nos… e io mi riprendo i posti di prima… ah, poi mi devi dà pure quei due posti che ti sei preso, quello di Cerveteri e quello… M’ha detto: “Salvatore non c’è problema, pigliatelo tu”». Altri indizi emergono dalle conversazioni di Nicitra registrate dai carabinieri sul riciclaggio dei soldi guadagnati, in Italia e all’estero: «Ho messo delle persone fuori… Slovenia e Austria… dove lì i soldi si possono prendere liquidi senza… Dovevamo fare questo tipo di operazioni con i 100 ai 500mila a settimana». Gli emissari in Slovenia «hanno fatto la società, hanno aperto il conto corrente e mi hanno garantito che in due giorni al massimo mi tirano fuori 100… 200mila senza nessuna segnalazione…». Anche il modo in cui altre persone parlano di Nicitra aiuta a ricostruire lo spessore del boss. Diceva un presunto complice: «Tu devi sapere che il mio principale lo conoscono in tutta Roma… veramente una di quelle persone…. che a Roma comandano su tutti… Non so come spiegartelo… hai presente “Il padrino”?... eh, siamo su quelle…». E in un’altra occasione, poco dopo gli arresti fatti per «Mafia capitale», a proposito del suo prestigio criminale: «È un ex della banda della Magliana… gli hanno ammazzato un figlio e il fratello… e va bè perché è un tipaccio… Hai visto adesso hanno arrestato Carminati no? Quella cosa di Mafia capitale… E’ amico del boss, il capo dei capi... Infatti sono venute duemila Volanti pure in sala da lui… L’hanno messo in mezzo, è uno di quelli che a Roma comanda…». E mentre comandava, Nicitra pensava al futuro e a mettere al sicuro il patrimonio, come s’intuisce da lle parole rivolte a un amico. «Ti dico la verità, non mi va manco più di sentirmi male per ‘ste cose… continuerò a fare la vita che faccio… l’unica cosa è che sto levando i soldi dalle società, sto a levà 10-20 mila euro al giorno, sto a levà un po’ tutto, in maniera che se s’inventano qualcosa…».
Salvatore Nicitra, l'eterno ritorno del boss siciliano - l'analisi. L'abbraccio tra Salvatore Nicitra e Franco Gambacurta. Smantellata dall'operazione dei carabinieri la rete malavitosa legata al ras arrivato da Palma di Montechiari. Enrico Bellavia l'11 febbraio 2020 su La Repubblica. Nel crimine ci sono uomini che non passano mai. Arresti e condanne ne accrescono il prestigio. L'aura di intangibilità si rafforza e il patrimonio vola. Era uno così Salvatore Nicitra, da Palma di Montechiaro, vicino al clan dei Ribisi, nell'Agrigentino, venuto a Roma a prendersi la sua fetta di prestigio e potere nella capitale che non vuole padroni assoluti ma ne tollera in quantità. Caratura da mafioso e carisma da boss, militava nella banda della Magliana, legato a Enrico "Renatino" De Pedis e entrature tanto nella camorra quanto nella 'ndrangheta, si era ritagliato il proprio spazio nel settore delle macchinette e nel gioco d'azzardo. Riciclando alla grande in due ristoranti di pregio al centro, La Maracuja e la Fraschetta di Sant'Angelo di cui e proprietario. La scomparsa del figlio, rapito a undici anni con lo zio Francesco, nel 1993 alla Giustiniana, era forse lo scotto pagato per un'ascesa impetuosa a suon di delitti, rimasti irrisolti e ora contestatigli in un'ordinanza che potrebbe essere la pietra tombale sulla sua carriera. In carcere con l'aggravante mafiosa, deve fare i conti adesso con l'accusa di omicidio che cambia le prospettive di un ritorno in libertà. Di lui si erano avute recenti notizie nel 2013, quando era stato immortalato in un abbraccio con Franco Gambacurta, al centro di Montespaccato, suo territorio di riferimento, governato dall'amico. Era stato interpellato per dirimere una controversia su un prestito ad usura che vedeva contrapposti i Gambacurta e gli uomini di Michele Senese, 'o pazzo, boss camorrista. A mettere pace, in una posizione terza che ne conferma il prestigio, era stato chiamato proprio Nicitra, navigante di lungo corso nei mari impetuosi del crimine romano. E lo aveva fatto, rimediando anche per questo l'accusa che lo tiene in cella. Aveva stabilito che l'imprenditore vittima del prestito ormai a corto di protezione mafiosa pagasse 100 mila euro a ciascun gruppo per ritenersi libero da obblighi. Una soluzione salomonicamente remunerativa per tutti con reciproca soddisfazione dei contendenti. Ricco, potente, temuto e riverito, Nicitra aveva pagato il fio con la legge subendo una confisca nel 1998 e poi nel 2011, perdendo, tra gli altri, due lussuosi appartamenti che si era comprato a Porto Rotondo. Gli era stata portata via una porzione di beni intestati in parte alla moglie Andreina Croci. In mezzo una pronuncia buonista della corte d'Appello che aveva provato a restituirgli i beni supponendo che la sua condotta di associato criminale "semplice" facesse decadere i presupposti della sua pericolosità e dunque dell'arricchimento illecito. Ovvero la tesi prevalente fino a quando Roma non si è svegliata scoprendo Mafia Capitale.
Da Roma all'Austria, l'impero dell'ex della banda della Magliana: slot e omicidi. L'ascesa di Salvatore Nicitra, re di Primavalle. Ricostruiti cinque delitti degli anni '80. Sequestro da 15 milioni, anche due ristoranti nella Capitale. "Io sono un boss. Posso mettere le macchinette dove voglio", dice più volte Nicitra intercettato. Dall'alba i carabinieri del Comando Provinciale di Roma, insieme alla Guardia Civil alla polizia austriaca hanno eseguito 38 arresti. Rivalutate le dichiarazioni di un pentito. Federica Angeli e Maria Elena Vincenzi l'11 febbraio 2020 su la Repubblica. "Io sono un boss. Posso mettere le macchinette dove voglio", dice più volte il boss Salvatore Nicitra intercettato, uno dei 38 destinatari dell'ordinanza di custodia cautelare chiesta dalla procura di Michele Prestipino. Lui, definito il re di Primavalle dai tempi della Banda Magliana, perché quella era la zona che Franco Giuseppucci gli aveva affidato per lo spaccio, pezzo da novanta nella mala romana tanto da aver ricoperto il ruolo di paciere tra i Gambacurta di Montespaccato e i Senese, ancora oggi era in grado di gestire importanti business. Anche se era in carcere. Essenzialmente slot machines e gioco d'azzardo che negli anni gli avevano consentito di mettere in piedi un patrimonio, solo in parte scalfito da sequestri e confische. Nell'inchiesta ricostruiti anche cinque delitti irrisolti che ruotano intorno alla sua carriera criminale, costellata dal lutto per la perdita del figlio Domenico, 11 anni, sparito nel nulla nel 1993 insieme con lo zio Francesco. Dall'alba, a Roma, a Viterbo, Terni, Padova, Lecce, in Spagna e in Austria, i carabinieri del Comando Provinciale di Roma, insieme alla Guardia Civil alla polizia austriaca hanno eseguito i provvedimenti. Il sequestro riguarda anche alcuni ristoranti romani: Maracuja e La Fraschetta di Castel Sant'Angelo, di quest'ultimo il boss sarebbe proprietario delle mura e l'attuale gestore precisa attraverso il suo avvocato "di non aver nulla a che fare" con Nicitra. L'indagine, denominata "Jackpot" ha al centro Nicitra, affiancato da Rosario e Francesco Inguanta, Rosario Zarbo e Antonio Dattolo. Il boss, considerato "il re di Primavalle" aveva assunto il controllo di parte del mercato della distribuzione e gestione delle apparecchiature per il gioco: slot machine, videolottery, giochi e scommesse online, soprattutto nel quadrante Nord della città. Per la scalata decisivo il prestigio mafioso conquistato sul campo da Nicitra, originario della Sicilia e che gli è costata adesso la contestazione dell'aggravante mafiosa. Il gruppo controllava infatti un giro d'usura legato al gioco e uno di estorsioni, sempre collegate al gioco. Le società coinvolte riconducibili a Nicitra sono la Jackpot srl e la Las Vevas srl. A Inguanta fa invece riferimento la Euro Games e un nugolo di imprese intestate a prestanome. Il sistema era quello di affiancare al gioco legale, autorizzato dai monopoli una serie di altre attività del tutto illegali, imposte con metodo mafioso. Il clan provvedeva poi a reinvestire attraverso altre teste di legno in società e acquisti di beni immobili, oggetto dei provvedimenti. Con il blitz è infatti scattato un provvedimento di sequestro di beni per 15 milioni di euro. Nell'ordinanza frutto del lavoro dei carabinieri e della Dda di Roma sono ricostruiti i delitti avvenuti a Primavalle alla fine degli anni '80 e all'interno dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa: in quest'ultimo caso si tratta della morte di Giampiero Caddeo rimasto ucciso dal crollo di un muro della sua cella fatta esplodere con una bomboletta di gas. L'agguato, ordito da Nicitra, era in realtà rivolto contro Roberto Belardinelli, suo avversario, un quel momento assente. Il delitto fu solo rimandato e Belardinelli fu poi assassinato nel 1988. Dodici giorni dopo toccò a Valentino Belardinelli, fratello di Roberto che stava rincasando insieme con la fidanzata incinta. I magistrati hanno riconsiderato le indagini e rivalutato alla luce delle ultime acquisizioni sulle attività e il carisma criminale di Nicitra, le dichiarazioni rese, tra il 1994 ed il 1995, da un collaboratore di giustizia vicino al re di Primavalle.
Le intercettazioni: "Comandavo tutto, guadagnavo più del casinò". "Con l'età mi sono addolcito ma io non ero così non pensare; dovevi abbassare la testa quando parlavi con me! Me la comandavo proprio qua da queste parti a Roma Nord, comandavo tutto e tutti mi davano i soldi a me". Così parla Salvatore Nicitra in una intercettazione citata nell'ordinanza cautelare. "Io avevo le case da gioco più importanti di Roma e di Italia, con i soldi che guadagnavo neanche il casinò li guadagnava. Avevo le case da gioco con ville e con i camerieri con i guanti bianchi, con i vestiti neri: guadagnavo 100 mila euro a notte. Ora è finito tutto, ho quasi sessant'anni; ma cosa vuoi fare; certo sono rispettato e dove vado mi rispettano tutti, le porte si aprono e tutto quanto, però non vado cercando niente più".
Dalla figlia alla mamma: tutte le donne dell'ex boss della Magliana. Attorno a Salvatore Nicitra, arrestato ieri mattina dai carabinieri, gravitavano 4 donne, ora agli arresti domiciliari: tra loro anche la madre e la figlia del boss. Francesca Bernasconi, Mercoledì 12/02/2020 su Il Giornale. Ieri mattina, Salvatore Nicitra, ex boss della Banda della Magliana, è stato arrestato. Il "quinto re di Roma" è stato raggiunto da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere ed è accusato di associazione a delinquere, finalizzata alla turbativa dell'attività economica e alla frode informatica. Il tutto aggravato dal metodo mafioso. Ma Nicitra non era solo. Oltre a lui sono finite in manette altre 38 persone e 4 donne, che ruotavano intorno a lui, sono finite agli attesti domiciliari. Sarebbero estranee all'associazione a delinquere, ma concorrenti nei reati di riciclaggio aggravato dalla transnazionalità. Dalla figlia alla madre, passando per la compagna di Nicitra, le "sue" donne preferivano chiamarlo con il nome di battaglia "Sergio", per garantirgli una sorta di protezione, durante gli anni di latitanza. Secondo gli inquirenti, la figlia del boss, Rita, avrebbe avuto "un ruolo centrale nell'attività di investimento e occultamento delle ricchezze di origine criminale del padre, di cui, essendo incensurata, è sistematico prestanome". A carico della compagna, Chantal Anne Richard, invece, peserebbe il rischio di fuga. Infatti, in una conversazione dell'ottobre del 2015 era proprio lei a proporre al boss di scappare all'estero, nel caso sorgessero problemi con la giustizia. Tra le donne del "quinto re di Roma" c'era anche la madre, Francesca Inguanta, che fungeva da prestanome del figlio ed era "dotata di potere decisionale in virtù del ruolo ricoperto all'interno della famiglia". A chiudere la lista c'è un'ordinanza ai domiciliari anche per Monica Lo Savio, che avrebbe aiutato il marito Giovanni Nardone, imprenditore colluso che svolgeva operazioni di riciclaggio per Nicitra. Secondo gli inquirenti, "Nicitra ha, negli anni, monopolizzato l'area a Nord della Capitale, assumendo il controllo, con modalità mafiose, del settore della distribuzione e gestione delle apparecchiature per il gioco d'azzardo (slot machine, videolottery, giochi e scommesse on line), imposte con carattere di esclusività alle attività commerciali di Roma e provincia". L'inchiesta ha anche permesso ai carabinieri di fare luce su 4 casi irrisolti, avvenuti nel quartiere romano di Primavalle alla fine degli anni '80 e su un delitto commesso nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Nei delitti sarebbe stato coinvolto Nicitra, "allo scopo di consolidare il proprio potere criminale".
Marco De Risi e Alessia Marani per “il Messaggero” il 30 gennaio 2020. «L'omicidio Piscitelli non è un omicidio di strada ma è un omicidio strategico, funzionale al riassetto di alcuni equilibri criminali che non appartengono solo a Roma; ha una certa matrice ed è stato eseguito con una metodologia seria: su questo abbiamo una serie di attività investigative in corso». Così Michele Prestipino, Procuratore capo facente funzione di Roma, parlando ieri, in audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia a proposito del delitto della scorsa estate del leader ultras della Lazio Fabrizio Piscitelli, nel parco degli Acquedotti. Gli inquirenti sembrano avere le idee chiare sul movente e sul retroscena che ha armato la mano del killer il pomeriggio del 7 agosto scorso: «Stiamo lavorando per individuare le responsabilità», ha aggiunto il magistrato. Ricordando come gli inquirenti capitolini abbiano già lavorato sul Diablo, un personaggio dalle mille sfaccettature e dagli interessi economici molteplici, dalla forte caratura carismatica per questo ascoltato e seguito non solo dagli ambienti a lui più cari del tifo calcistico. «Su Piscitelli abbiamo lavorato - ha spiegato Prestipino rispondendo alle domande della Commissione parlamentare - Era l'indagato principale di una richiesta cautelare che noi avevamo anticipato al Gip prima dell'omicidio al termine dell'indagine che ha poi portato a provvedimenti restrittivi per 50 persone, e nella quale è stata tracciata una parte importante della mappa del narcotraffico a Roma e da cui emergeva il ruolo principale di Piscitelli. Lui - ha concluso il Procuratore - mediava nella fornitura sia in approvvigionamenti per importanti piazze di spaccio romane ed era garanzia di equilibri tra chi gestiva quelle piazze». Insomma, eliminare Diabolik dalla scena criminale della Capitale non è stata una azione estemporanea ma ben studiata e meditata, come si era subito capito dalle modalità dell'esecuzione. Una trappola scattata per portare Piscitelli a dama a un appuntamento nel parco vicino alla casa dove era cresciuto, sulla Tuscolana, quartiere che conosceva benissimo e dove, appena quattro mesi prima, si era verificata una gambizzazione a due pregiudicati per motivi di droga. Poi lo sparo, con una calibro 7,65, da parte di un assassino vestito da runner che si è mimetizzato e poi è scappato come se nulla fosse tra i tanti avventori del parco in quello che sembrava un tranquillo pomeriggio estivo. Il killer non lo ha guardato in faccia a Diabolik. Ma lo ha colpito alla nuca, «vigliaccamente» come hanno detto i familiari. Una fine quasi indecorosa per un leader indiscusso e che, fino a quel momento, sembrava intoccabile. Chi ben conosceva Piscitelli sapeva che era un uomo che aveva sempre bisogno di soldi. Il suo cruccio più grande era quello di non riuscire a ricavare un grande business con il merchandising collegato ai colori biancocelesti. Intanto emergono nuovi risvolti sull'uccisione dell'albanese Gentian Kasa avvenuta al Nuovo Salario. Lo straniero, infatti, in passato si sarebbe mosso nella stessa scacchiera criminale del Diablo ed è stato ucciso con proiettili di identico calibro, sempre 7,65. L'albanese, secondo gli investigatori, avrebbe frequentato le piazze del Tuscolano, il quartiere caro a Piscitelli e che faceva capo al camorrista Michele Senese e poi battuto da altri albanesi. C'è un filo rosso che legherebbe gli ultimi fatti di sangue, compreso quello che ha visto salvo per un miracolo il boss di Primavalle, Leandro Bennato, crivellato di colpi mentre era in auto nel traffico di via Boccea. L'agguato mortale a Kasa potrebbe essere stata una vendetta. Uno scenario che, l'uccisione di Diabolik rimanderebbe a quei nuovi equilibri ridisegnati tra ndrine e camorristi con gli albanesi che scalpitano e che avrebbero già conquistato ampie fette di mercato.
Michela Allegri per il Messaggero il 4 febbraio 2020. «Una società del crimine», organizzata nei dettagli, con una struttura precisa e due boss del narcotraffico ai vertici: Fabrizio Fabietti e il socio Fabrizio Piscitelli. Così il Tribunale del Riesame ha definito la holding della droga che importava quintali di hashish e cocaina al Sud America, bocciando le richieste di 7 dei 51 indagati in carcere dallo scorso novembre che chiedevano l'annullamento dell'ordinanza cautelare. Un'organizzazione capillare, con una «capacità operativa» che non viene scalfita nemmeno dalle indagini e con un giro di affari da 120 milioni di euro. E, soprattutto, con crediti per 50 milioni, riscossi con metodi violenti da una batteria di picchiatori «spregiudicati», che incontrano Fabietti a casa sua - quartier generale della banda - mentre lui è ai domiciliari, dimostrando «spregio verso la legge e l'autorità». Fabietti, Diabolik e i loro soci, si legge nelle motivazioni del Riesame, erano «impermeabili ai moniti della legge», per loro «le norme sono da considerare al pari di orpelli inutili e fastidiosi».
I MESSAGGI CRIPTATI. Le forniture dovevano essere pagate, perché la squadra della morte assoldata dall'organizzazione era pronta a intervenire chi non saldasse i debiti. Ed è seguendo quei conti sospesi che gli inquirenti potrebbero presto arrivare ai mandanti dell'omicidio di Piscitelli, più noto come Diabolik, capo ultrà della Lazio freddato lo scorso agosto al parco degli Acquedotti con un colpo di pistola alla testa. Dagli atti depositati dalla pm Nadia Plastina, emergono altri dettagli sugli affari dell'organizzazione, che riforniva tutti i quartieri, da Roma Nord a Ostia. Centrale il ruolo di Alessandro Telich, genio informatico che gestiva la comunicazione del gruppo e che era riuscito a rendere impossibili le intercettazioni, grazie a un'app criptata che consentiva di cancellare tutti i messaggi da remoto in caso di arrivo della polizia. Le parole del Riesame sono pesanti: ha agito con «spregiudicatezza e professionalità», anche quando, nel 2013, ha aiutato Diabolik nel suo periodo di latitanza. Cinquanta milioni, appunto. A tanto, secondo alcuni affiliati dell'organizzazione, ammontavano i crediti da riscuotere. Partite di droga consegnate e non pagate. Soldi che dovevano essere recuperati a tutti i costi e con ogni strumento. Per questo era stata incaricata una squadra del terrore, che si presentava da chi non avesse saldato nei tempi previsti. Quella dei soldi è la pista che gli inquirenti seguono per identificare i mandanti dell'omicidio. Mentre dei killer è già stato individuato il profilo. Ad aprile 2018 Fabietti e Piscitelli parlano della squadra di picchiatori, composta da Andrea Ben Maatoug e Kevin Di Napoli, dei crediti da recuperare, con «scosse elettriche» e botte. È quello che i giudici del Riesame definiscono «un manifesto programmatico delle intenzioni violente dell'organizzazione, da utilizzare nella generalità dei casi per la riscossione». Le intercettazioni forniscono i dettagli: «Oh - dice Fabietti - gli ho preparato una macchina, li massacriamo tutti. Sono quattro persone che vanno in giro da tutti». E ancora: «So' 37, questi mo li sterminano tutti, con la scossa elettrica sdraiano la gente». Ad aprile della squadra di picchiatori faceva parte anche Leandro Bennato, gambizzato a Boccea lo scorso novembre. Un delitto che, secondo chi indaga, è collegato all'omicidio del Diablo.
LE APP. È il 23 maggio 2018, quando una microspia nell'appartamento di Fabietti, all'epoca ai domiciliari, capta Piscitelli, Telich e un altro soggetto mentre organizzano uno scambio di droga. Piscitelli chiede a Telich come gestire le comunicazioni e come garantire il contatto costante con alcuni corrieri nel corso di un viaggio in mare: «Allora che facciamo con questi telefoni? Mi deve partire la gente, io non posso rischiare così. Fabio deve partire, se poi mi si stacca, dove vado a sbattere la testa? Se vanno in Marocco, se vanno in Francia, se vanno a coso, giustamente io per primo voglio essere sicuro di non perderli». E Telich: «Quello che ti va per mare, fallo stare con me un'ora e intanto gli spiego come funziona tutto quanto e gli faccio fare un'ora di applicazione»
Francesco Salvatore per Repubblica - Roma il 4 febbraio 2020. Un fiume di cocaina diretta a Roma. Ma non solo, anche a Napoli. Una città che di certo nel traffico degli stupefacenti non è da meno della capitale, e che ha i suoi boss a gestirlo. In una intercettazione inserita nelle motivazioni del tribunale del Riesame, che ha confermato il carcere per sei trafficanti sodali di Diabolik, si fa riferimento alla città campana: «500 chili al mese a Roma? Fai che 100 li porti a Napoli». Un azzardo che potrebbe aver mosso degli equilibri e condotto all' esecuzione di Fabrizio Piscitelli, ucciso lo scorso agosto con un colpo di pistola alla nuca. Proprio su tale ipotesi, infatti, sta lavorando la procura: gli inquirenti hanno le idee chiare sugli esecutori ma sono intenzionati anche a scoprire il contesto dietro all' omicidio, ovvero chi ha dato il beneplacito a compiere un' operazione del genere, definita in commissione Antimafia dal procuratore capo Michele Prestipino « strategica e funzionale al riassetto degli equilibri criminali non solo a Roma». Diabolik e il suo gruppo, dunque, erano diventati un soggetto influente, forse anche fuori Roma. Dal botta e risposta dell' intercettazione, quello che si comprende è che spingersi a Napoli non era una chimera. « Dove li porti a Roma 500 chilogrammi al mese, dove dimmi un po'?», chiede Dorian Petoku a Fabrizio Fabietti, braccio destro di Piscitelli. « Noi lo possiamo fare » , la risposta. E Petoku: «No ma dove li troviamo, dove li mettiamo? Fai che 100 li porti a Napoli, ma gli altri». D'altra parte il gruppo di Piscitelli potenzialmente aveva già in mano la capitale, ma solo per una scelta strategica tirava il freno: « Fabietti riferisce ai complici - scrivono i giudici - come, nonostante la possibilità di cedere a chiunque fosse interessato ("a tutta Roma") un ingente quantitativo di narcotico pari a 3mila chili, preferisca privilegiare gli acquirenti con maggiori disponibilità di denaro » . Secondo Fabietti, dunque, il gruppo suo e di Diabolik poteva cedere droga «a tutta Roma». L'organizzazione, sgominata a fine novembre dal nucleo di polizia economico finanziaria della Finanza, coordinato dal pm Nadia Plastina, era iper strutturata. Come un' azienda: « Si è in presenza di un organismo efficiente in grado di avere il monopolio dello smercio di droga a Roma», scrivono i magistrati. «Una vera e propria società del crimine dove l' imprenditore Fabrizio Fabietti, il quale in accordo con il socio Fabrizio Piscitelli e la collaborazione di soggetti che costituiscono la struttura portante dell' organismo sociale e di altri soggetti che, con l' apporto continuato ne garantiscono il buon funzionamento ( gli acquirenti), realizza lo scopo sociale, vale a dire la commercializzazione di stupefacenti sul territorio laziale». Che gli affari fossero gestiti al dettaglio lo dimostra anche l' esistenza di un' agendina sulla quale Fabietti segnava compratori, venditori e cifre: « Devi trovare un altro modo, che so, murarli - dice il padre a Fabietti nel marzo 2018 - ma io dico, ti fermano con un coso così, oltre che mi arrestano a me, a parte quello, arrestano 7- 8mila persone. Perché ci stanno i nomi di tutti». E come un' azienda, ogni componente utilizzava un telefono criptato ad hoc attraverso delle applicazioni che un esperto informatico dell' associazione inseriva negli smartphone: «Allora che facciamo con questi telefoni? » - gli chiede Diabolik ad agosto 2018 - «Mi deve partire la gente, io non posso rischiare così. Fabio deve partire, se poi mi si stacca dove vado a sbattere la testa? Se vanno in Marocco, se vanno in Francia».
Giuseppe Scarpa per ''Il Messaggero'' il 5 febbraio 2020. «Ripercorrendo la pregressa situazione penale di mio figlio, non riesco a coniugare questa grandezza criminale con la sua morte da uomo libero, né riesco a comprendere come le certezze attraverso le quali viene delineato tale spessore non abbiamo comportato il suo arresto prima della sua tragica scomparsa. Se così fosse andata, oggi ve ne sarei stata grata!». Lo scrive in una lettera affidata all'Adnkronos e indirizzata al procuratore facente funzioni di Roma Michele Prestipino la madre di Fabrizio Piscitelli, il boss e ultras della Lazio freddato con un colpo di pistola alla nuca il 7 agosto scorso al parco degli Acquedotti di Roma. Missiva che, sino a ieri, il magistrato non aveva comunque ricevuto. Nella lettera la madre di Diabolik ringrazia il procuratore «per aver ricordato» nel corso dell'audizione in commissione Antimafia, «l'impegno profuso sinora nelle indagini per l'omicidio di mio figlio» auspicando che «la barbarie della sua uccisione acquisti la dovuta visibilità nei termini più appropriati senza ricorrere a strumentalizzazioni possibili e senza voler appannare una città, ridotta ormai ad clima da Far West, in assenza però di mio figlio». Ecco le parti significative della lettera: «Ad oggi e dopo sei mesi, siamo all'oscuro circa gli autori di tale crimine. Finora, ciò che invece è apparso chiaro, è quanto subiamo quasi giornalmente, con le continue descrizioni personologiche accompagnate da pseudo certezze, gravi illazioni, suggestivi e fantasiosi moventi, almeno fino a prova contraria». Dopo aver toccato la questione relativa all'omicidio, la madre scrive anche del funerale: sul «funerale di mio figlio, sin dall'inizio, c'è stata una grande concentrazione di energie fisiche e mentali dedicate alla rappresentazione del personaggio tanto da determinare inizialmente il questore a un provvedimento che imponeva la celebrazione alle 6 del mattino. Provvedimento rivisitato dopo estenuanti incontri avvenuti nel momento più intenso e drammatico del nostro dolore». Infine la donna chiede di trovare gli assassini: «Ripercorrendo la pregressa situazione penale di mio figlio, non riesco a coniugare questa grandezza criminale. Che un criminale così fenomenale fosse libero da tempo e fino alla sua morte, avvenuta dopo pochi giorni dalla chiusura delle indagini, mi suscita riflessioni più ampie. Nella mia ingenuità di madre, ormai travolta dal dolore non descrivibile, è di secondaria importanza cosa sarebbe accaduto a mio figlio se fosse stato vivo, resta invece prioritario conoscere la verità rispetto all'evento criminoso che lo ha reso vittima, un aspetto quest'ultimo mai considerato per lasciare spazio ampio alle caratteristiche multiformi di una personalità complessa e carismatica quale quella di Fabrizio. Mi affido dunque alle elevate competenze del procuratore, alla sua dedizione costante a un tessuto sociale ormai gravemente deformato così come viene descritto e all'impegno di tutti gli inquirenti nelle indagini relative a mio figlio, affinché davvero conducano all'obiettivo principe: trovare gli assassini e assicurarli alla giustizia».
· La Mafia romana: I Casamonica.
Alessandro Cristofori per “il Messaggero” il 22 dicembre 2020. Un cognome può condizionare l'intera vita di una persona. Specie se è pesante. Ma il cognome non lo scegliamo e non lo ha scelto nemmeno Armando Casamonica, pugile ventenne nato e cresciuto nel quartiere Quadraro e fresco di debutto - con vittoria - da professionista nei pesi superleggeri: sabato scorso, sul ring di Rozzano, ha battuto ai punti il serbo Dragojevic. «Da piccolo non ero molto interessato al pugilato - racconta - Mi piacevano più altri sport, ma poi ho iniziato a frequentare la Quadraro Boxe e in palestra ho fatto uno degli incontri più importanti della mia vita. Il maestro Silvano Setaro». Il rapporto tra i due è indissolubile. Quando l'allievo parla del maestro si scioglie completamente: «A lui devo tantissimo. Lo considero come un fratello maggiore e ormai siamo una cosa sola. Ascolto sempre i suoi consigli e soprattutto è stato fondamentale in diverse occasioni, sia umanamente che professionalmente». Casamonica su questo ha un aneddoto curioso: «Ero in ritiro con la nazionale a Spoleto. Qualche anno fa ero molto più immaturo e quando mi deprimevo volevo starmene per conto mio e non vedere nessuno. Vivevo un momento psicologico molto difficile. Silvano mi venne a prendere e mi fece stare con lui tutto il giorno. Mi costrinse a seguirlo ovunque. Mangiavo e mi allenavo con lui. Fu molto importante e oggi lo ringrazio ancora molto».
CURRICULUM DOC. Armando Casamonica, nonostante la giovane età, ha già un curriculum di tutto rispetto: campione italiano Schoolboy (2014), campione italiano junior (2016), due volte campione italiano Youth (2017 e 2018) e guanto d'Oro nel 2019. Il successo più recente, come anticipato, è di sabato scorso, quando al primo incontro da professionista si è imposto ai punti sul serbo Milovan Dragojevic nel Memorial Parente andato in scena al palazzetto dello Sport di Rozzano. Un talento innegabile che lo rende erede di una dinastia. Romolo Casamonica è stato campione italiano Welter e ha partecipato anche ai Giochi di Los Angeles 1984, mentre Sandro Casamonica è stato campione internazionale Wba dei superleggeri: «Non mi dà fastidio questo paragone con chi mi ha preceduto - precisa Armando - è stata una mia scelta intraprendere questo sport che amo moltissimo perché ti trasmette un senso di disciplina facendoti diventare uomo. Un pugile impara a prendersi le proprie responsabilità in tutti i campi e quindi anche questa cosa non mi provoca particolari turbamenti».
LE OFFESE. A proposito di turbamenti. Il suo cognome può essere purtroppo associato anche alla criminalità organizzata. Ma Armando mette le cose in chiaro: «Non nascondo che mi sono arrivati messaggi sui social dove mi danno del mafioso o mi insultano pesantemente. La mia colpa sarebbe quella di portare questo cognome. Questa gente però non sa che mio padre e mio nonno ad esempio lavoravano onestamente nel cinema, io mi alleno duramente tutti i giorni e non faccio nulla di male. Il mio dovrebbe essere un cognome come gli altri». Come Rocky Balboa anche Armando si allena facendo footing. A differenza del personaggio di Stallone, La furia del Quadraro non corre per le strade di Philadelphia ma in un parco alla Romanina. E durante il training ci confessa di pensare a due sogni. Uno sportivo: «Mi piacerebbe vincere un titolo importante. Non so quale. Ma voglio vincere per ripagarmi di tutti i sacrifici che sto facendo». E uno per la sua vita: «Tra qualche anno, quando mi sarò consolidato nella boxe, mi piacerebbe far capire a tutti che chiamarsi Casamonica non vuol dire essere un criminale». Mettere ko i pregiudizi. Armando è pronto a vincere questo match.
Francesco Salvatore per “la Repubblica - Edizione Roma” il 19 dicembre 2020. La obbligava a comportarsi come le donne della sua famiglia, a mettere le gonne lunghe e i capelli acconciati in un certo modo. Niente trucco o pantaloni. Doveva rispettare le usanze rom dei Casamonica in una condizione di totale asservimento a lui e ai suoi genitori. È questo il cuore delle accuse contestate dalla procura a uno dei componenti della famiglia Casamonica, accusato di maltrattamenti prolungati e violenze sessuali nei confronti della moglie. E gli abusi e il clima di violenza ingiustificata e minacce sarebbe proseguito per lungo tempo, fino a che la donna non ha capito che solo denunciando sarebbe riuscita a liberare lei e i suoi figli. L'uomo era stato arrestato ed è in carcere, accusato anche di associazione mafiosa in uno dei rivoli dell'inchiesta Gramigna. Ieri per lui il pm Eugenio Albamonte ha chiesto 8 anni di pena per entrambi i reati. I fatti contestati vanno dal 2006 al 2016. Per il pm i maltrattamenti sono avvenuti anche di fronte ai figli. Offese ripetute, gli schiaffi, l'obbligo di ubbidire a lui e ai suoi genitori, il divieto di far vedere i nipotini ai nonni materni. E poi le violenze sessuali: «La logica era quella di una persona che permetteva un tenore di vita benestante alla moglie - ha spiegato in aula il pm nella requisitoria - ma poi pretendeva con la violenza: " Io pago cene, gioielli e borse e tu non fai quello che ti chiedo io?", l'atteggiamento usato da Casamonica». Tre gli episodi di violenza sessuale contestati all'uomo. Abusi prepotenti a cui la vittima non è riuscita a ribellarsi. Uno anche poco dopo che la donna aveva partorito, con il taglio cesareo. «L'imputato non voleva aspettare e ha preso quello che voleva con la forza - ha ricostruito il pm - la donna è dovuta ricorrere alle cure mediche e lui le ha detto di riferire di essere caduta in casa». La vittima per anni ha sopportato fino a che si è resa conto, e ha denunciato: « È stata una frase riferita dal padre dell'imputato - ha spiegato il pm - a convincerla: " Ricorda che i tuoi figli sono Casamonica"». La vittima, infatti, costretta a vivere con i suoceri sebbene il marito fosse in carcere, si è rivolta alle forze dell'ordine. «Avevo provato a dire che volevo andare via - la denuncia della donna - ma mi ha minacciata di fare del male a me e alla mia famiglia. Mi avrebbe ammazzato».
ALESSIA MARANI per il Messaggero l'8 ottobre 2020. «I soldi? Li ho chiesti a Domenico Spada e lui mi ha aiutato». «Il debito? Non ricordo». «Se ne ho parlato al telefono con mio padre e la mia fidanzata? In quel periodo raccontavo a tutti bugie». Le risposte dei testimoni al processo in corso al clan Casamonica e affini smantellato nell'operazione Gramigna del 2018 dei carabinieri di Frascati con il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia (37 le ordinanze di custodia cautelare spiccate), è pieno di «non ricordo», «non so», «sono confuso». E per l'accusa è la riprova del potere intimidatorio che il clan («sono tanti, sono pieni di fratelli e cugini che si muovono», diceva un calabrese legato alla ndrangheta intercettato dai militari), continua ad avere nonostante tutto, anche se molti dei suoi esponenti di spicco sono dietro le sbarre. La presidente del III Collegio della X Sezione del tribunale di Roma Antonella Capri più di una volta nel corso delle udienze è costretta a intervenire per rinfrescare la memoria ai teste sulle regole processuali e sul comportamento di responsabilità civile da tenere. A Marco Alabiso, titolare di un'attività al Tuscolano, cresciuto nei pressi di Porta Furba, il fortino dei Casamonica, ascoltato il 22 settembre, a un certo punto, deve dire: «Ma lei lo sa che il reato di falsa testimonianza va punito?». Il quarantenne in alcuni passaggi tradisce il terrore. «Senta, dopo che li abbiamo arrestati tutti questi signori, lei è stato avvicinato da qualcuno?», gli chiede il pm Giovanni Musarò. «No». E ancora: «Le è stato suggerito di dare una versione dei fatti?».
Risposta: «No, assolutamente». Poi gli ricorda l'incontro con un emissario dei Casamonica, avvenuto subito dopo che Alabiso era stato sentito in caserma. In quella occasione, dalle intercettazioni, viene fuori che al teste era stato detto che bastava dire di avere restituito la somma per fare cadere le accuse. «Questo suo atteggiamento di oggi - gli contesta Musarò in aula - è stato abbondantemente preannunciato... Lei mi vuole dire che ha tirato in ballo i Casamonica per calunniarli...». Alla fine il pm chiederà al giudice di acquisire e mettere agli atti del processo i verbali a sommarie informazioni resi davanti a lui, così come previsto dall'art. 500 quarto comma del cpp quando si ravvede «la sussistenza di elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di danaro o di altra utilità affinché non deponga ovvero deponga il falso». Non è l'unico a tentennare e a ritrattare di fronte all'incalzare delle domande del pubblico ministero. Un altro testimone, Simone Formica, lo dice chiaramente - anzi sembra volerlo sottolineare sapendo di essere sentito dagli imputati, quando Musarò gli contesta le intercettazioni proprio con Alabiso, in cui si lamentava delle vessazioni subite dal clan - che «senza quelle telefonate io non lo denunciavo (a Domenico Spada, ndr)». Facendolo passare quasi per un benefattore: «Alla fine lui mi ha aiutato». Poco importa che Formica, stando alle indagini, a fronte di un prestito di 800 euro dal pugile, alias Vulcano, ai primi del Duemila, raccontava di avere dovuto pagare 50-60mila euro di interessi. Per il teste «è colpa mia, sono io che ho sbagliato ad andare da lui». E se a verbale aveva detto tutto il contrario, lui: «Mi sarò sbagliato». Il pm cerca di capire perché evitasse di andare a parlare con Vulcano nella sua palestra e avesse paura di rimanere solo con lui, dal momento che temeva gli imbruttisse: «Per imbruttire che intende?». Formica: «Quando io mi allargavo troppo, ma mai con cattiveria». Musarò ribatte: «Imbruttire con gentilezza mi pare difficile». Tra i testimoni ascoltati in questi giorni compaiono anche il maestro di musica e il capo della banda musicale che intonò le musiche del Padrino al funerale show di Vittorio Casamonica. Anche con loro Musarò deve insistere prima che comincino a tratteggiare l'insolito scenario in cui si trovarono (i petali lanciati dall'elicottero, i brani non usuali per delle esequie...) e che descrissero in prima battuta. «Ma era tutto normale o un problema ve lo siete posto?», domanda.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 22 luglio 2020. Dalla Garbatella all' Eur, da Tor Marancia all' Appio Latino, fino alla Tuscolana: il clan puntava a gestire tutte le piazze di spaccio più fruttuose di Roma Sud, in grado di garantire un volume d' affari da 100mila euro al mese. Un' impresa resa possibile dall' alleanza stretta con gruppi criminali minori e, soprattutto, con un cartello di narcotrafficanti colombiani in grado di procurare cocaina purissima. E invece, le mire espansionistiche di venti affiliati al clan Casamonica erano state bloccate nel maggio dello scorso anno da una raffica di arresti. Ieri, le condanne, comprese tra i 9 e i 3 anni di reclusione, arrivate al temine di un processo condotto con rito abbreviato. Sul banco degli imputati, il gruppo che faceva capo a Domenico e Salvatore Casamonica. Nei confronti del secondo gli inquirenti procedono separatamente. Era lui a gestire in prima persona i rapporti con i narcos. Emerge dalle intercettazioni captate dai carabinieri della compagnia Casilino, coordinati dai pm Giovanni Musarò e Stefano Luciani, della Dda. Conversazioni che hanno consentito agli inquirenti di sventare l' arrivo a Roma di un carico enorme: addirittura 7 tonnellate di cocaina pura e pronta per essere messa sul mercato. La base operativa del gruppo era a Porta Furba, fortino del clan Casamonica. Ma lo scopo era espandersi il più possibile e controllare tutte le attività criminali di Roma Est e Sud rimaste ancora in mano a piccoli boss di quartiere. Le modalità di organizzazione erano sempre le stesse: vedette, addetti alle consegne, un esercito di pusher al servizio della famiglia di origine sinti e anche attività lecite messe in piedi per riciclare il denaro sporco. La banda era organizzata secondo uno schema verticistico che faceva capo ai membri del clan, ma dove tutti avevano un compito preciso: c' era il cassiere, l' addetto ai clienti, chi si occupava dell' approvvigionamento e del confezionamento, chi pensava a sostituire gli spacciatori in caso di arresto e curava i rapporti con i legali. All' epoca degli arresti, nell' ordinanza il gip scriveva che «i Casamonica agiscono, per la realizzazione dei fini del programma associativo, in base ad una struttura ramificata sul territorio ed articolata in più piazze di spaccio, ma pur sempre operanti in un contesto unitario assicurato dal costante raccordo tra i vari soggetti posti al vertice delle rispettive articolazioni» e in particolare le figure di Domenico, Massimiliano e Salvatore Andrea Casamonica. Ieri l' unico ad avere scelto l' abbreviato è stato Domenico: per lui la condanna è a 5 anni di reclusione e a 20mila euro di multa. La pena più pesante, invece, è stata disposta per i pusher Attilio Marchi, uno degli organizzatori dell' attività di spaccio a Garbatella, e il pusher Simone Martinelli: 9 anni di reclusione. Sono state le intercettazioni a consentire agli inquirenti di ricostruire l' attività del gruppo criminale. Le cimici dei carabinieri hanno captato anche qualche incidente di percorso, come quando un pusher al servizio del clan aveva nascosto la droga nella lavatrice, ma poi per sbaglio aveva azionato il lavaggio. Era il 27 marzo 2017. Lo spacciatore, preoccupatissimo, aveva chiamato un' amica: «Ho fatto na cazzata, ho messo tutto in lavatrice e poi ho fatto la lavatrice, mi sono scordato». La risposta è eloquente: «Te lo dico, fatti il segno della croce». Dei colpi assestati al clan dalla procura di Roma ha parlato anche la sindaca Virginia Raggi intervenendo alla cerimonia di insediamento del nuovo Presidente della Corte di Appello di Roma Giuseppe Meliadò: «Roma negli ultimi anni ha saputo reagire assestando duri colpi ad organizzazioni criminali, il cui obiettivo era quello di inquinare il tessuto sociale della Capitale d' Italia. Mi riferisco alle azioni criminali dei clan Casamonica, o alle continue operazioni sul litorale romano di Ostia legate al clan Spada o al clan Senese. Credevano di poter mettere le mani indisturbati su Roma e di deviarne il percorso civile nel nome dell' illegalità e della sopraffazione. Grazie all' immenso lavoro della magistratura e delle forze dell' ordine, alle quali va la nostra piena sincera e profonda gratitudine, è stata invertita la rotta». E nel pomeriggio ha direttamente commentato la sentenza su Twitter: «Nella nostra città non deve esserci spazio per la criminalità. Grazie al Tribunale di Roma e alle forze dell' ordine».
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 17 giugno 2020. «I Casamonica proteggono Roma, i napoletani vonno entrà a Roma e i calabresi vonno entrà a Roma». Ha detto, inconsapevolmente, molto più di ciò che voleva intendere, Guido Casamonica, in una conversazione intercettata con la moglie. La telefonata trascritta è agli atti dell'inchiesta che, ieri, ha portato all'arresto di 20 esponenti del clan, 15 in carcere e 5 ai domiciliari. Un'intercettazione che rileva la consapevolezza criminale all'interno della famiglia. Una famiglia mafiosa. Capace, quindi, di tenere testa al crimine tradizionale come camorra e ndrangheta. E anche per questo che la procura di Roma, i pm Giovanni Musarò e Edoardo De Santis, hanno contestato l'associazione di stampo mafioso, l'estorsione, l'usura e intestazione fittizia di beni. Inoltre è stato disposto dal Tribunale di Roma-Sezione delle Misure di Prevenzione anche il sequestro ai fini della confisca per 20 milioni di euro: 7 unità immobiliari, tra cui almeno 4 ville, conti correnti, quote societarie, una stazione di servizio e un bar tabacchi, tutti tra Roma e provincia. Ovviamente Guido Casamonica aveva la sua teoria complottista. E sosteneva che dietro agli arresti che, negli anni passati, avevano falciato la famiglia ci fossero addirittura i servizi segreti. Insomma gli 007, secondo la sua delirante versione, avrebbero voluto penalizzare i Casamonica a favore dell'ascesa della camorra a Roma: «Ce stanno i servizi segreti che vonno portà la camorra qui a Roma e le ndrine (articolazioni della ndrangheta, ndr) Je dà fastidio perché noi proteggemo Roma». Insomma Guido Casamonica non si poneva nessuna domanda in merito alla violenza praticata dal clan per controllare la Città Eterna, o dei soldi sporchi spesi dalle donne della famiglia, come raccontato da uno dei quattro collaboratori di giustizia, per comprare abiti, vestiti e scarpe nelle più costose boutique della Capitale. Dettagli per l'esponente della famiglia, prove per la procura e la squadra mobile riportate in modo rigoroso nell'ordinanza: «Senti... mo scenno lo sai dove te butto io a te?? mo te darei na bastonata in testa.. te spaccherei la testa!!... le mascelle te romperebbi io!!» A dirlo era Ferruccio Casamonica, boss e padre di Guido, ad una delle sue vittime di usura, arrestato assieme all'altro capo, cognato e coetaneo, 70enne, Giuseppe Casamonica. A raccontare, invece, le spese folli delle donne della famiglia è stata la collaboratrice Simona Zikova, ex moglie di Raffaele, altro figlio di Ferruccio: «Loro con le carte non comprano niente Gelsomina (ex suocera della pentita, ndr) va in una boutique. Oh, c'era un periodo che non si poteva spendere più di mille euro (in contanti, ndr) voi mi dovete dire come fanno loro a comprare cose da 3-4.000 euro Lei non lavora e va a spendere 4.000 euro in un giorno per una borsa. Come fai? Ma così sono tutti. Loro, in un altro negozio, hanno una che li serve, cioè ci sta soltanto una per i Casamonica». Inoltre nella ricostruzione degli inquirenti emerge la definizione di «associazione mafiosa di tipo orizzontale, la cui forza è dettata dall'appartenenza alla famiglia». «Quando c'è un problema, diventano tutti una famiglia, che si aiutano ha dichiarato ai magistrati sempre Zakova ...Sono gelosi tra loro quando uno ha più dell'altro, però quando c'è un problema, loro tolgono questa cosa di gelosia e si rinforzano l'uno con l'altro; se scappa uno e non si sa dov'è, uno lo incontra, lo blocca, lo ferma, chiama e aspetta che viene la persona, così si aiutano e così va in tutto, se uno È un branco! Così funziona. Si aiutano tra loro, nei problemi si uniscono sempre o tra i parenti o tra le persone esterne, sempre! Poi ci sono le famiglie che sono più unite, quelle che sono un po' meno unite, però si aiutano sempre. Quando hanno bisogno, basta che chiamano, si fanno sempre a gruppetto e la loro forza è questa».
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 21 giugno 2020. Pistole a tamburo, automatiche o mitragliette. Tutte le armi dei Casamonica. Amano fare a botte quelli del clan, più che il piombo di solito hanno sempre preferito picchiare chi non pagava il debito d'usura. Una tradizione, però, che è divenuta desueta a fronte del peso criminale acquisito negli ultimi 15 anni. Perciò i pugni, per farsi rispettare, non erano più sufficienti specialmente per fronteggiare i napoletani. Quest'ultimi erano arrivati, nel 2012, armi in pugno, a ridosso della villa del boss Ferruccio, in via Caldopiano. Feudo del clan. Una pioggia di fuoco si era abbattuta sulla casa. I Casamonica avevano risposto con altrettanta solerzia. Era nata una sparatoria: urla a squarciagola, inviti a farsi vedere e criminali inginocchiati dietro le auto con le pistole in mano. Ad inaugurare la nuova stagione dal grilletto facile è stato Ferruccio Casamonica, il capo 70enne. Talmente affezionato alla sua automatica da custodirla nel cassetto porta oggetti dell'Alfa Romeo 147 e spregiudicato a tal punto da puntarla in faccia, in mezzo alla strada, ad un automobilista che aveva tamponato. La vittima chiedeva di compilare la constatazione amichevole. Per tutta risposta si è visto puntare, in mezzo agli occhi, la canna di una pistola. Ecco il suo racconto, l'episodio è avvenuto sul Gra e porta la data del primo marzo 2016: «L'uomo (Ferruccio Casamonica, ndr) ha aperto il portaoggetti della macchina e ha estratto una pistola, poi mi ha puntato l'arma e ha detto vedi di andartene o ti rimando al paese tuo in una bara (l'uomo è nordafricano, ndr). Io ero terrorizzato e gli ho risposto stai tranquillo è uno stupido incidente. L'uomo, allora, è sceso dall'auto e ha continuato a mostrarmi la pistola, poi mi ha intimato di allontanarmi e di lasciare perdere ed anche la donna, scesa anche lei dalla macchina, mi ha detto vattene, altrimenti oggi finisce male. Allora mi sono impaurito. L'uomo ha riposto la pistola all'interno di un borsello nero che aveva addosso, è risalito a bordo dell'Alfa unitamente alla donna e sono andati via a grande velocità». Questo è solo un episodio, finito agli atti dell'inchiesta, ed inserito nell'ordinanza per dimostrare la dimestichezza che il clan aveva acquisito con le armi. Una nuova stagione accompagnata anche dalle precauzioni del caso. Disporre di un arsenale nel mondo della mala è sinonimo di potenza. Allo stesso tempo custodirla in casa può essere un pericolo, visti i controlli periodici della forze dell'ordine. Ecco che le armi erano nascoste, sotterrate, in un terreno in via del Torraccio, oppure in un tombino. All'occorrenza le disseppellivano. Così ha raccontato alla squadra mobile, Simona Zakova, collaboratrice di giustizia ed ex moglie di un Casamonica. «Raffaele aveva una pistola nera, se non sbaglio era una 9 x 21. Guido una pistola a tamburo, Cristian aveva una pistola piccola, anche Ferruccio ne aveva una simile. Sono armi che io ho visto con i miei occhi, Raffaele la sua la lucidava spesso». E infine: «Raffaele nascondeva dentro a un tombino anche una mitraglietta, se è ancora lì non lo so. Forse l'avrà spostata».
Michela Allegri per “il Messaggero” il 18 giugno 2020. Un ricatto alla politica - «Hanno minacciato una guerra con morti per strada» - potrebbe nascondersi dietro al funerale show che, cinque anni fa, ha consacrato i Casamonica tra i gruppi criminali più potenti della Capitale. Le note del Padrino che risuonano altissime fuori dalla chiesa Don Bosco nel quartiere Tuscolano. Petali di rosa lanciati da un elicottero. E il feretro del capoclan, Vittorio Casamonica, che apre un corteo lunghissimo e viene trasportato da una carrozza trainata da sei cavalli. Immagini che nell'agosto del 2015 avevano fatto il giro di tutto il mondo. Era stato allora che il nome della famiglia di origine sinti era diventato un simbolo internazionale di criminalità organizzata. All'epoca, tutti avevano preso le distanze. Politici di ogni schieramento avevano reagito stupiti e arrabbiati. Increduli: nessuno capiva come fosse stato possibile organizzare un evento del genere per il clan della Romanina, che aveva agito indisturbato. Ma ora, tra le 467 pagine dell'ordinanza con cui il gip di Roma Zsuzsa Mendola ha disposto gli arresti nei confronti di 20 esponenti della famiglia sinti, emerge un retroscena inedito, su cui la procura - i pm della Dda sono Ilaria Calò, Giovanni Musarò e Edoardo De Santis - sta ancora indagando. Una denuncia sporta pochi giorni dopo la messa-show, riportata in una recente informativa della Squadra Mobile, racconta che i Casamonica, all'epoca, fossero certi che le esequie di Vittorio Casamonica non sarebbero mai state intralciate. A parlare con gli inquirenti è Giacomo L., riferisce le parole che gli avrebbe detto un rampollo del clan: «Sei stato invitato a presentarti al funerale più importante di Roma, che si terrà giovedì a mezzogiorno». E, soprattutto: «Non avere paura a presenziare, perché chi deve sapere sa, abbiamo in mano tutti i politici, tutti gli schieramenti, e ci hanno assicurato che ci faranno celebrare la messa in serenità, dopo averli minacciati di far succedere una guerra e che ci saranno morti per strada». Il funerale, in realtà, non era solo un modo per onorare la memoria del defunto, ma era una dimostrazione di potere, un evento organizzato per capire chi sostenesse le famiglia della Romanina, chi fosse disponibile ad alleanze, chi avesse giurato loro vendetta. Tanto che non presenziare alla celebrazione sarebbe stato considerato un affronto: «Devi venire assolutamente, perché sarà il funerale più sfarzoso di tutti i tempi, con i cavalli, l'elicottero che lancerà dei petali di rosa dal cielo. Non ti preoccupare, ti invitiamo perché sei una persona perbene, hai la faccia pulita, ci sarà un corteo lunghissimo perché chi verrà celebrato è il re. Il funerale sarà così grande perché parteciperanno tante persone che non avranno più problemi con noi, infatti chi rende omaggio al re sarà degno di rispetto», si legge ancora negli atti. Poi, le minacce: «Se non verrai non mi ripresenterò io stesso, ma altre persone a cui non potrai dire di no. Abbiamo visto la tua macchina, ci piace molto e può accadere che sarai tu a consegnarci le chiavi se non vieni al funerale, e non potrai neanche presentare la denuncia di furto». Alle esequie, insomma, era di vitale importanza riempire le strade e le piazze. Per dare alla città, all'Italia intera e addirittura al mondo la dimensione del potere del clan. Era fondamentale che se ne parlasse, che il nome dei Casamonica diventasse conosciuto da tutti. «L'ostentata visibilità dell'evento - sottolinea il gip - è volutamente organizzata per accrescere il prestigio criminale dell'organizzazione». Sottrarsi alle richieste era difficile. Lo racconta il pilota dell'elicottero ingaggiato per spargere petali di rosa: ha dichiarato che, nonostante sapesse che si trattava di una pratica irregolare, aveva deciso di accettare comunque l'incarico. E ancora: la banda sarebbe stata praticamente obbligata a suonare le note de Il Padrino. Le parole di uno dei musicisti sono eloquenti: «Prima che cominciassimo un uomo con fare prepotente ha detto: Dovete suonare Il Padrino! e alla risposta dei suonatori, che evidenziavano l'opportunità di suonare una marcia funebre, intimava: Qui si fa come dico io. Ci sentivamo soli in una mareggiata, in forte soggezione». All'entrata della chiesa c'era il manifesto che è rimbalzato sui giornali di tutto il mondo: «Hai conquistato Roma ora conquisterai il paradiso», il volto di Vittorio in primissimo piano, vestito di bianco e con il crocifisso al collo, il Colosseo e la cupola di San Pietro sullo sfondo, e la scritta Re di Roma: «Chiari indici di ostentazione di potere, di potenza e di controllo del territorio, rilevatori di un fenomeno mafioso», sottolinea il gip. Tra i membri del clan, l'esaltazione per quell'evento era durata settimane. Soprattutto perché il nome della famiglia era rimbalzato da un lato all'altro del pianeta. «Mi ha chiamato una persona da New York, pure di là?» racconta un indagato intercettato. E ancora: «Non si è vista mai na cosa del genere, mai in tutto il mondo».
Da "lastampa.it il 18 giugno 2020. Arresti e sequestri della polizia al termine dell’operazione "Noi proteggiamo Roma" che ha inferto un nuovo duro colpo alla famiglia di origine sinti tra le più dedite al crimine della Capitale. Qui il sopralluogo degli agenti in una delle ville abitate da esponenti del clan.
Da "today.it" il 18 giugno 2020. Guerino Casamonica, detto Pelè, avrebbe festeggiato i suoi 50 anni tra qualche giorno, il 23 giugno. Un compleanno rovinato perché, oltre alla notifica delle ordinanze di custodia cautelare dell'operazione 'Noi proteggiamo Roma', si è visto confiscare beni per un valore di circa 20 mila euro. Gli agenti della Divisione Polizia Anticrimine della Questura hanno infatti effettuando un minuzioso inventario di tutti i beni sequestrati ai fini della confisca. Tra questi, numerosi candelabri, brocche, servizi di posate d'argento, ma anche svariati servizi di piatti, che sarebbero stati utilizzati in occasione della grande festa organizzata per il compleanno di Guerino Casamonica, che si sarebbe tenuto martedì prossimo. Solo uno dei servizi di piatti d'oro ha un valore di circa 15 mila euro. A Guerino Casamonica, detto Pelè, era stata sequestrata anche la cosiddetta villa rossa tra la Romanina e Frascati.
Chiara Rai per “il Messaggero” il 17 giugno 2020. «Robba de' lusso». Chi vive nel quartiere ha bene in mente tutto lo sfarzo che c'era in quel locale al civico 24 di via Gioacchino Volpe a Tor Vergata. I residenti del palazzo di fronte non hanno voglia di raccontare cosa hanno visto e che persone frequentavano quel posto: «Dico solo si avvicina un uomo con la spesa in mano che a noi che qua ci viviamo c'è sembrato strano vedere un locale del genere aprire qui. Insomma chi è che se lo può permettere? E se nessuno dei residenti ci va, che ce sta a ffa na cosa così? Io una risposta me la sono data, come se la sono data in tanti». Una zona dormitorio piena di palazzoni. Lì le giornate trascorrono tutte uguali, soprattutto in questo momento: finite le scuole e il lockdown ci sono tanti occhi che osservano quello scorcio di realtà dove la malavita ha affondato le unghie. Qualche anno fa quelle stradone con appartamenti dormitorio, famiglie numerose, disoccupati e con un po' di fortuna anche impiegati hanno visto aprire una vera e propria oasi extralusso. Mesi di lavori per trasformare l'interno di un grande locale in un wine bar, degustazioni ed enoteca con colonne, banconi e mobilio all'ultimo grido, forse pacchiani, «alla Casamonica style» azzarda qualcuno a sigilli apposti: «Cocktail e stuzzichini carissimi dicono alcuni che si trovano vicino la pizzeria che fa angolo dei nostri amici hanno pagato un botto e poi non ce so' più tornati. Se pensavano de sta da n'altra parte». Insomma un tenore che stride con tutto il resto e un locale che se si fosse trovato da un'altra parte forse avrebbe conquistato la sua clientela. E invece no, i gestori del wine bar in via Volpe hanno fatto tantissimi lavori di ristrutturazione e poi dopo qualche mese dall'apertura hanno chiuso. Ma in quella strada e quella zona la parola d'ordine è farsi gli affari propri, qualcuno prova ad alludere a giri strani ma poi si rintana in casa. E per la strada i ragazzi si siedono sui muretti non lontano dai vecchi cassonetti pieni d'immondizia, i bambini giocano facendo i passaggi con le lattine della birra e chiedono le sigarette a chi passa da quelle parti non certo per caso, forse perché il navigatore li ha portati per errore in quel quartiere labirinto dalle sfumature grige e dimenticate ma pur sempre vicino al Mc Donald's e a una escape room che si trova proprio vicino al wine bar in quella stessa strada. Ora la maggior parte delle attività sono chiuse e su quella al civico 24 in particolare rimane un alone di consapevolezza, mista a timore reverenziale per il cognome che porta: «Comandano loro, mi spiace», la frase detta di corsa da una residente sessantenne. E poi ai Castelli, non lontano da lì, sulla via Casilina nel territorio di Monte Compatri Laghetto c'è un locale bar, tabacchi e slot : «È chiuso dice un uomo seduto su un muretto sono in vacanza». Un anziano racconta di aver visto la polizia da quelle parti ieri mattina. Anche lì una grande struttura, meno sfarzosa ma piena di servizi e con un grande parcheggio: «Lavorano tanto dice una signora è sempre pieno ma c'è gente particolare». Anche a San Cesareo c'è un bar vicino a un distributore che adesso che è chiuso e che insieme a quello in via Casilina era gestito da Angelo e Giuseppe Bruni che sono tra i 15 arrestati oggi e che erano i tentacoli del clan sul territorio.
Federica Angeli per “la Repubblica - Roma” il 27 febbraio 2020. Amabile Casamonica è stato condannato per truffa a un anno e 2 mesi per aver ordinato e consumato cibo per 180mila euro in occasione del suo matrimonio senza avere mai saldato il conto alla "Taverna del lupo" di Gubbio. Una tecnica collaudata come ha raccontato Christian Barcaccia, imprenditore romano, titolare di un mobilificio che svetta sul gra all' altezza della Romanina ieri nel corso del maxiprocesso per mafia. È la seconda udienza in cui l' uomo viene interrogato dal pm Stefano Luciani: ieri l' esame si è concentrato sui suoi rapporti con Laura Casamominca, sorella di Luciano, entrambi in carcere insieme ad altri 35 accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso, usura, estorsione. « Lauretta aveva acquistato da me lampadari e una camera da letto e altri mobili per un importo di 15mila euro. La camera è stata consegnata, mi pagò solo 4000 euro in contanti e non saldò mai il resto». Di più: «È tornata mesi dopo - prosegue Barcaccia - per acquistare altra merce da regalare a un parente, a un avvocato, e per lei per un importo da 12mila euro e non ha mai pagato neanche quella commessa » . Se questo fosse tutto sarebbe già di per sé grave. Ma non è tutto. « Laura tornò da me all' inizio del 2018 e mi disse che voleva indietro i soldi che mi aveva dato, ovvero il valore della camera da letto acquistata ». La donna pretendeva dunque la restituzione di un importo che non aveva mai pagato, fatta eccezione per quei 4 mila euro. La kafkiana situazione viene descritta dalla vittima come un colpo di genio venuto in mente a Lauretta ma purtroppo come una strategia per trascinare commercianti nella trappola dell' usura. «Mi propose di cominciare a restituirle i soldi a rate: per un mese avrei dovuto pagarle gli interessi di duemila euro a settimana, poi trascorso quel periodo dovevo darle tutti i mila euro che le dovevo » . Un debito immaginario apparecchiato come fosse stato un importo da lui richiesto, con interessi mirabolanti. Inizia un pressing molto serrato: la donna si presenta quasi quotidianamente da lui dicendo di fare in fretta a ridarle quei soldi perché il marito doveva sottoporsi a un intervento costoso agli occhi. « Anche quando poi i carabinieri sono intervenuti ad arrestare i primi, lei ancora era fuori continuava a venire e a minacciarmi di ridarle quei soldi». Per chiudere quella storia che si protraeva da mesi Christian Barcaccia ha quindi deciso, essendo a corto di contanti, di dare al fratello Luciano una parure in oro da consegnare a Laura. « Valeva 5000 euro quell' oro ma lo stimammo per 4000. Solo che il giorno dopo la consegna mi chiamò dicendomi che non valeva nulla quello che gli avevo dato. Per cui mi tornò sotto la sorella, anche a muso duro, affrontandomi in un bar che sta accanto al mio mobilificio. Minacce e intimidazioni varie che me l' avrebbe fatta pagare e che non sarebbe finita bene se non restituivo i soldi » . Soldi non dovuti appunto, a fronte di 22mila euro di merce presa dal negozio, senza sborsare un euro. Solo perché "loro sono i Casamonica".
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 25 febbraio 2020. Le mani dei Casamonica nel cuore di Roma. Il clan di origine sinti ha cercato di spostare il suo baricentro criminale a Ponte Milvio, enclave della movida. E lo ha fatto, da maggio del 2015 fino a tutto il 2016, esercitando il controllo su un locale. Il ristorante il Tappezziere sarebbe dovuto diventare la base di spaccio della cocaina su tutta la zona, soprattutto nei fine settimana. L'esca che il clan ha usato per attirare il gestore è stata un'atomica bionda, attrice in diversi film tra cui Fantozzi 2000 la clonazione e in Zora la vampira. Lenka Kviderova, 47 anni, prima si è ingraziata il ristoratore e poi ha calato l'asso: «Noi siamo i Casamonica». Il titolare del locale, però, si è rifiutato e ha pagato a caro prezzo il suo diniego: otto uomini incappucciati lo hanno bastonato e gli hanno rubato l'auto. Poi hanno imposto il pizzo a suon di 200 euro al giorno, soggiorni pagati in albergo, l'acquisto di un cellulare e il pagamento dei lavori di ristrutturazione di una delle loro case. Fino a quando non sono intervenuti i magistrati della Dda, il procuratore capo Michele Prestipino e gli aggiunti Giulia Guccione ed Edoardo De Santis. Adesso in tre sono accusati, a seconda delle posizioni, di estorsione e rapina aggravata dal metodo mafioso: Guerino Casamonica, Antonio Casamonica e la sua compagna la Kviderova. «Lui è un Casamonica, figlio di una persona potente, non lo fare arrabbiare, dagli i soldi». È senza scrupoli la 47enne, in arte Lanci Lenka. Per settimane frequenta il ristorante. Diventa una cliente fidata. Poi mostra il suo vero volto. La donna del boss. E il capo in questione era, appunto, Antonio, 27 anni, protagonista del raid punitivo del Roxy Bar dell'aprile del 2018. Il titolare del locale era stato picchiato per non averlo servito subito. A Ponte Milvio, invece, il ristoratore è linciato per non essersi messo al servizio della famiglia. Una pressione feroce, subita giorno dopo giorno. Al bancone si presentano in coppia i due Casamonica, Antonio e Guerino. Due energumeni. Le presentazioni ufficiali le fa la Kviderova. Comprese, successivamente, tutta un serie di minacce. Consigli, li chiamava lei, per spingere la vittima a pagare. Chi invece è andato subito al sodo sono gli uomini del clan: «Sono un Casamonica, posso ammazzarti o dare fuoco al locale». La scelta che gli rappresentano è, in fondo, solo una. Diventare un loro pusher. La cocaina dovrà essere smerciata attraverso il suo locale. È il 2015 e Ponte Milvio è terra di nessuno. Michele Senese, boss della camorra, è in carcere. Così come un altro uomo forte della zona, Massimo Carminati. I Casamonica cercano di riempire il vuoto criminale e si lanciano come avvoltoi sul quartiere. Il ristoratore resiste. Lui non vuole stare al soldo della mala. Non vuole trasformare il Tappezziere in una base di spaccio. La reazione arriva subito, violenta: in otto con il passamontagna lo bastonano. Lui gli consegna la Smart. Per riaverla dovrà pagare 3500 euro. Ma è solo l'inizio. Le minacce vanno avanti: «I soldi me li devi dare, me porto via tua madre, mi porto via la tua ragazza, tu non sai quanti siamo, siamo in duemila. Noi comandiamo tu devi stare sotto botta». L'uomo è atterrito. Continua a rispondere di no. Alla fine però si piega. Accetta un compromesso, gli paga quotidianamente una quota variabile tra i 50 e i 200 euro. In un'occasione il clan pretende 5000 euro. In totale la vittima versa nelle mani dei carnefici 30mila euro. E poi l'acquisto di un cellulare, il soggiorno in un albergo e le ristrutturazioni degli immobili della famiglia criminale. Ma per gli uomini del clan, affamati come lupi, il primo obiettivo rimane immutato. Il locale deve spacciare la cocaina. Il business che la famiglia fiuta, dallo spaccio della droga, nel cuore della movida romana, è elevato. Tuttavia il gestore non arretra e il rampollo del clan gli ricorda di chi è figlio: «Se lo sa mi padre che mi stai a trattare così i cazzi miei sono anche cazzi tuoi, se lo viene a sapè mi padre..». Sui Casamonica piomba, nel giro di pochi anni, la procura. Antonio e Guerino finiscono in carcere mentre la bionda del giovane boss è adesso accusata di estorsione aggravata del metodo mafioso.
Marco Carta per “il Messaggero” il 15 gennaio 2020. Dagli anni Settanta al fianco della Banda della Magliana: «Si sono fatti strada recuperando crediti per loro». Fino a oggi: «A Roma nessuno gli si mette contro». Perché i Casamonica non sono semplicemente uno dei tanti clan che si sono spartiti la Capitale. Ma i padroni incontrastati dell' area che si estende lungo la Tuscolana: «Abbiamo le regole come i calabresi, siamo come gli Ndranghetisti». A raccontarlo è stato ieri il collaboratore di giustizia, il calabrese Massimiliano Fazzari, sentito come testimone nel maxiprocesso al clan che vede 44 imputati con accuse che vanno dall' associazione mafiosa dedita al traffico e spaccio di droga, all' estorsione, l' usura e detenzione illegale di armi. «C' è forse qualche gruppo che potrebbe fronteggiarli ma piuttosto che andare in perdita non lo fanno o ci si mettono d' accordo. Sono tanti, tu ti presenti con 6 persone e loro tornano con 20».
LE DICHIARAZIONI. Rispondendo da una località protetta alle domande del pm Giovanni Musarò, Fazzari ha fatto riferimento alla forza intimidatoria della famiglia sul territorio. «Si definivano mafiosi. Per il rientro nel vicolo di Porta Furba di Simone Casamonica dopo la scarcerazione ci fu un' accoglienza stile Gomorra tra applausi e clacson suonati. Arrivò in macchina sgommando. Come un boss», ha ricordato il pentito. «Io ero sul balcone e i clacson si sentivano prima che imboccassero il vicolo, quando erano ancora sulla Tuscolana. Ad eccezione di chi era in carcere quel giorno c' erano tutti. Accolto come un eroe». Fazzari ha ricostruito le dinamiche con cui era gestito il business dell' usura della famiglia, soffermandosi su Massimiliano Casamonica. A lui si era rivolto per avere un prestito di 5mila euro. Le regole sono chiare: «L' amicizia è l' amicizia e i soldi sono i soldi. Se non rispetti i patti poi si rovina pure l' amicizia. Per un rapporto di amicizia, invece del 20 per cento al mese, mi accordo il 10 per cento, quindi 500 euro al mese di interessi». A gestire il denaro da prestare a strozzo, un tesoretto che ammontava a un milione di euro nascosto a Porta Furba, come emerso nell' interrogatorio, sarebbe stata però Stefania Casamonica, detta Liliana. «Quando abbiamo iniziato a non pagare gli interessi, sono iniziate le minacce telefoniche per avere indietro i soldi. C' era il timore che potesse accadere qualcosa e ci siamo allontanati da Roma. Ho anche pensato di scendere in Calabria per risolvere il problema in maniera diversa». Tanti secondo Fazzari sarebbero stati gli intrecci intessuti nel tempo con le altre organizzazioni criminali. «Vittorio (i cui funerali nel 2015 vennero celebrati a Don Bosco) lo chiamavano il re. Mi dissero che si sono fatti strada facendo recupero crediti per la banda della Magliana». Inoltre «ci sono stati episodi in cui mi è stato raccontato di rapporti con i Nirta, la cosca di San Luca».
Michela Allegri per ilmessaggero.it il 29 gennaio 2020. Milioni di euro nascosti nei muri di casa, minacce di morte e un'ossessione per il controllo. Debora Cerreoni, la collaboratrice di giustizia che con la sua testimonianza ha consentito alla procura di decimare il clan Casamonica con un'ondata di arresti, racconta la sua vita precedente nell'ultima udienza del maxiprocesso a carico di 44 esponenti della famiglia sinti. «So che Giuseppe Casamonica diceva di avere 10 milioni di euro nascosti nei muri. Una volta ero a vicolo di Porta Furba e venni insultata perché mi ero tagliata i capelli di un centimetro, arrivavano a controllarmi anche la spesa», dice la Cerreoni che, all'epoca, era sposata con Massimiliano Casamonica. «Mi hanno distrutto la vita - racconta la testimone - Non avevo sposato soltanto Massimiliano, ma tutto il clan». La donna, collegata in videoconferenza con l'aula Occorsio del tribunale di Roma, sostiene di essere stata minacciata di morte e di essere stata sequestrata: «Mi hanno tolto il cellulare, per cercare di nascondere il sequestro mi hanno anche portato alla festa di un loro parente». Poi, una dichiarazione pesantissima: «Hanno anche minacciato di sciogliermi nell'acido». Una vicenda che aveva fatto finire in manette tre componenti della famiglia che, però, sono stati tutti assolti in primo grado. Antonietta e Liliana Casamonica erano accusate di aver minacciato e sequestrato all'interno di un appartamento a Porta Furba la Cerreoni, loro nuora. Il loro fratello, Massimiliano, secondo gli inquirenti aveva malmenato la donna durante un colloquio in carcere. Il sequestro, per i pm, sarebbe stato una ritorsione per il presunto tradimento della donna nei confronti del marito detenuto. Dopo essersi separata Casamonica, la testimone ha deciso di diventare una collaboratrice di giustizia e di raccontare ogni cosa agli inquirenti. Ieri, davanti al pm Giovanni Musarò, ha anche dichiarato di essere sempre stata considerata un'intrusa nella famiglia. «Non sono mai stata ben vista da loro, perché non ero sinti - ha detto la Cerreoni - dovevo fare quello che dicevano loro, non potevo fiatare. Ogni volta erano discussioni e botte». Il clan non avrebbe apprezzato nemmeno la sua indipendenza e il suo lavoro. «Lavoravo come cuoca e neanche questo andava bene - ha aggiunto - Mi accusavano dei tradimenti ma anche mio marito mi tradiva». Non ha mai denunciato prima per timore, aveva paura che la allontanassero dai suoi figli o che le facessero del male. Ha raccontato anche questo in aula: «Più volte ho pensato di denunciare, ma ogni volta che andavo in caserma alla fine non entravo e piangevo, avevo paura per i bambini. Ma nel maggio 2014 sono riuscita a fuggire e a Bologna ho sporto denuncia. Avevo paura e temevo ritorsioni sui miei figli». Il maxiprocesso contro la famiglia sinti è scaturito dall'operazione Gramigna che, tra il 2018 e il 2019, in due tranche, ha fatto finire in carcere decine di esponenti del clan. Il primo filone si è chiuso lo scorso dicembre con la condanna di 14 componenti della famiglia. Per gli imputati, che hanno scelto il giudizio abbreviato, sono state disposte pene che vanno dai 3 ai 9 anni di reclusione e per alcuni di loro è stata riconosciuta l'aggravante mafiosa. L'accusa più pesante, quella di associazione a delinquere di stampo mafioso, invece, viene contestata nel processo trattato ieri a carico di 44 imputati.
· La Mafia romana: Gli Spada.
Roma, confiscato il patrimonio del clan Spada: beni per oltre 18 milioni di euro. Gli specialisti del Gico hanno ricostruito le ricchezze illecitamente accumulate dagli esponenti di spicco della famiglia criminale di Ostia, "Romoletto", Ottavio Spada, Armando Spada, Roberto Spada e Claudio Galatioto. Sigilli a aziende, immobili, palestre, panifici, forni, auto e conti corenti. Maria Elena Vincenzi il 22 aprile 2020 su La Repubblica. Oltre 18 milioni di euro. A tanto ammonta la confisca che i militari del comando provinciale della guardia di Finanza di Roma stanno eseguendo stamattina nei confronti del clan Spada. Il provvedimento, disposto dalla sezione Misure di prevenzione, è l'epilogo dell'attività investigativa della dda capitolina che in questi anni più volte si è concentrata sulla famiglia criminale di Ostia. Gli specialisti del Gico del nucleo di polizia economico finanziaria hanno ricostruito le ricchezze illecitamente accumulate dagli esponenti di spicco del clan - il boss Carmine Spada alias "Romoletto", Ottavio Spada, Armando Spada, Roberto Spada e Claudio Galatioto - individuandone le fonti di finanziamento "occulte". Gli approfondimenti economico-patrimoniali, che hanno preso le mosse dalle note operazioni di polizia "Eclissi" e "Sub Urbe", hanno consentito di dimostrare l'incoerenza dei modesti redditi dichiarati dagli interessati con i rilevanti investimenti posti in essere in svariate attività commerciali, finanziati, in realtà, dai profitti delle numerose condotte delittuose: estorsione, usura e traffico di droga. Gli Spada avevano provato a salvare il loro patrimonio intestandolo a prestanome compiacenti: ma le indagini hanno riguardato tutte le persone (circa 50 tra familiari e terzi) coinvolte nelle compravendite di quote societarie, effettuate fittiziamente al solo scopo di "schermare" la titolarità effettiva delle aziende. E, quindi ora, dopo il sequestro dell'ottobre 2018, arriva la confisca che permette di sottrarre al clan beni in grado di inquinare l'economia legale: questi beni non torneranno più nelle mani del clan. Sigilli a 19 società, 2 ditte individuali, 6 associazioni sportive/culturali, quasi tutte con sede a Ostia e operanti in vari settori: dalle slot ai distributori, dalle palestre alle scuole di danza, passando per bar, forni, edilizia e vendita di auto. Infine due immobili, 13 veicoli e conti correnti bancari e postali.
Roma, Cassazione conferma condanna per estorsione con metodo mafioso al boss degli Spada. La sentenza diventa definitiva: 8 anni di carcere per Carmine e per il suo "socio", Emiliano Belletti. Federica Angeli il 30 gennaio 2020 su La Repubblica. "Sono contento, non solo per me, sono contento per tutti. Spero che in tanti capiscano che vale sempre la pena provare a ribellarsi, scegliere da quale parte stare". Adriano Baglioni, il tabaccaio di Ostia che nel 2014 fu minacciato di morte, intimidito, picchiato, costretto a pagare un "pizzo" prima di 100mila euro, lievitato in due giorni a 275mila, da Carmine Spada, il boss della famiglia sinti e dal suo scudiero Emiliano Belletti, ha vinto. La Corte di Cassazione ha confermato quanto stabilito in primo e secondo grado nel processo istruito dal pubblico ministero Mario Palazzi: si è trattato di un'estorsione con l'aggravante del metodo mafioso. Gli Ermellini hanno respinto i ricorsi trasformando in definitiva la sentenza. Spada è già in carcere dal 25 gennaio del 2018 dopo l'arresto per associazione a delinquere di stampo mafioso che ha portato a una condanna in primo grado all'ergastolo. Proprio due giorni fa sono state depositate le motivazioni con cui i giudici della III Corte d'Assise hanno confermato essere mafia. La condanna a 8 anni di carcere è quindi diventata definitiva, così come quella di Belletti che, a differenza del boss del clan sinti, era in libertà e ora dovrà raggiungere anche lui il carcere per scontare la pena. Poco prima delle 21 è arrivata la parola fine alla vicenda che vide il tabaccaio di Ostia vittima delle angherie del clan che in quel pezzo di Roma ha costruito il proprio impero su violenza, soprusi e silenzio. Malgrado la paura - le minacce che gli rivolsero i due riguardavano sia la sua incolumità sia quella dei suoi bambini - Baglioni si ribellò sporgendo denuncia e rompendo così quello schema di omertà per troppi anni diventato la regola. "Alla fine vince lo Stato e vincono i cittadini onesti che denunciano le estorsioni mafiose. Questa sentenza è un riconoscimento per tutti coloro che, ad Ostia come altrove, hanno il coraggio e la dignità di rifiutare le prevaricazioni dei clan". Questo il commento, carico di soddisfazione, dell'avvocato Giulio Vasaturo che ha assistito il tabaccaio Adriano Baglioni nel corso dell'intero procedimento penale. "Siamo felici per questa sentenza che porta in sè un messaggio di speranza: chi denuncia vince. #Noi siamo vicini ad Adriano e a tutti quelli che stanno riscrivendo la storia del nostro territorio combattendo a testa alta la mafia", questo il commento del presidente dell'associazione antimafia Noi Massimiliano Vender.
Clan Spada, i giudici della Corte d'Assise: "Violenze sistematiche e intimidazioni, ecco perché sono mafia". I due boss del clan Spada, Roberto e Carmine. Depositate a 120 giorni dalla sentenza di primo grado le motivazioni delle 17 condanne ad altrettanti esponenti della spietata famiglia criminale di Ostia. Federica Angeli su La Repubblica il 29 gennaio 2020. "Il sodalizio si connota come di stampo mafioso per il sistematico ricorso a mezzi violenti e intimidatori tali da generare un diffuso stato di assoggettamento e di omertà". A 120 giorni dalla sentenza di primo grado, sono state depositate le motivazioni con cui la III Corte d'Assise di Roma ha condannato per mafia 17 componenti del clan Spada su 24 (in 7 sono stati assolti). Motivazioni che spiegano perché il 24 settembre dello scorso anno è stato riconosciuta l'associazione a delinquere di stampo mafioso nei confronti della spietata famiglia criminale di Ostia e perché i suoi tre vertici - Carmine, Roberto e Ottavio Spada - sono stati condannati all'ergastolo. "E' in primo luogo palese - scrive il presidente della Corte Vincenzo Capozza - che il sodalizio capeggiato da Spada rivesta indiscutibile stabilità e durevolezza stante l'ampio arco temporale del dispiegarsi delle sistematiche condotte di spoliazione, prepotere, violenza, infiltrazione, intimidazione". Di più: presenta una solida organizzazione, ognuno con un proprio ruolo specifico e "con una accurata copertura dei soggetti al vertice che solo raramente intervengono sul campo". Quanto ad assoggettamento e omertà, pilastri del 416bis, "il primo si ricava dall'assenza di reazioni da parte delle vittime alle reiterate violenze, sopraffazioni, minacce e privazioni patite anche per lunghi periodi; la seconda dalle carenze di denunce sulle predette condotte e dai silenzi pure registrati nel presente giudizio". Un esempio concreto: le dichiarazioni di tale Carluccio che "dopo la visita minacciosa di Carmine Spada riferì di non reagire perché si trattava di una famiglia grande e aveva paura", ma anche la reticenza dei testimoni presenti al duplice omicidio nel novembre del 2011 di Giovanni Galleoni e Francesco Antonini. Lo stampo mafioso del sodalizio è rafforzato, oltre che dai descritti legami con la mafia siciliana, dalla presenza di alcune tipiche connotazioni dei contesti mafiosi quali: il rispetto dovuto ai capi e nei confronti delle famiglie alleate, ad esempio i Fasciani. Nel caso della famiglia Spada l'allarme sociale che connota la forza di una famiglia criminale, anche laddove non compia delitti, "è enormemente rafforzato dalla commissione di reati gravi come omicidi, estorsione, usura, l'acquisizione della gestione e del controllo di attività economiche attraverso il metodo mafioso". Negli atti di questo processo, si sottolinea nelle motivazioni, e nelle intercettazioni trascritte si parla esplicitamente di "territorio", "guerra", "pace", "guerra aperta", "equilibri", "pax mafiosa", "questioni di competenza", "patti, accordi e trattative". Il ruolo di vertice di Carmine e dei fratelli Roberto e Ottavio detto Maciste, oltre a quello del nipote Ottavio, detto Marco, così come Nando De Silvio e dei due Pergola (padre e figlio, Roberto e Daniele) è palese per i giudici del III Collegio della Corte d'Assise. Rossi Alessandro è al fianco dei capi in momenti molto delicati, come quello ad esempio in cui, nel 2017, Carmine sunisce nel giro di una settimana due attentati omicidiari. E' lui a confidare alla moglie Caterina Servisole che "tutte le mattine è costretto a fare da palo a Carmine", e all'amante Martina de Dominicis "per un po' è meglio non vedersi, le cose si calmeranno". Infine: "la varietà delle condotte criminose inducono a escludere la concessione delle attenuanti generiche. Visti i copiosi precedenti e le pendenze e le gravità delle condotte si stima equo applicare a Carmine, Roberto e Ottavio Spada la pena dell'ergastolo", in virtù del duplice omicidio con cui vennero ammazzati in strada nel 2011 Giovanni Galleoni e Francesco Antonini da un egiziano e da Ottavio, detto Marco (nipote dei boss). Omicidio commissionato appunto da Carmine e Roberto (quello della testata al cronista di Nemo) che diedero al killer, prima di occuparsi della sua fuga e della sua latitanza, 6.500 euro. Tanto valevano le vite dei due personaggi della mala di Ostia trucidati in via Forni. Sposata in tutto dunque la tesi dei due pubblici ministeri che hanno istruito il processo, Ilaria Calò e Mario Palazzi.
· La Mafia romana: I Fasciani.
"Il clan Fasciani è la mafia di Roma", le motivazioni della Cassazione. La suprema corte a proposito della sentenza che a novembre condannò esponenti della famiglia a oltre 140 anni di carcere. La Repubblica il 17 marzo 2020. Il clan Fasciani rappresenta "un emblematico esempio di mafia locale" e con esso "anche la città di Roma ha conosciuto l'esistenza di una presenza mafiosa, sebbene in modo diverso da altre città del Sud, ma non per questo meno pericolosa o inquinante il tessuto economico-sociale di riferimento". Lo scrive la seconda sezione penale della Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui, il 29 novembre scorso, confermò l'impianto accusatorio per Carmine Fasciani e la sua famiglia, rendendo definitive le condanne - per oltre 140 anni di reclusione in totale - per una decina di imputati. La Corte nella sentenza parla di un "sodalizio semplice" operante a Ostia "fin dagli anni Novanta", che "si eleva nella sua quotidiana operatività ad associazione mafiosa, attraverso ulteriori e pregnanti condotte tipiche alle quali tutti i sodali partecipano consapevolmente arrecando ciascuno un contributo causale finalisticamente orientato proprio ad acquisire egemonia criminale nel territorio di insediamento": un "salto di qualità" che "coinvolge non soltanto la singola persona", il capo "indiscusso" del clan Carmine Fasciani, "che vede aumentata la sua fama criminale", ma anche "quel substrato di carattere familiare che ne costituiva l'originario nucleo storico". I giudici di piazza Cavour, inoltre, puntano l'attenzione sull'"assenza di denunce ad opera delle persone offese", elemento "correttamente valorizzato ai fini della sussistenza del reato" in "un contesto caratterizzato da una varietà di fatti illeciti accertati, ma mai denunciati". La Cassazione spiega anche come non ci siano più solo le mafie a "denominazione di origine controllata" ma anche quelle "a forma libera" dal momento che "la complessità delle dinamiche sociali" richiede una "flessibilità" delle "tipologie espressive e delle forme di intimidazione" che ben possono "trascendere la vita e l'incolumità personale, per attingere direttamente la persona, con i suoi diritti inviolabili, anche relazionali, la quale vien ad essere coattivamente limitata nelle sue facoltà".
· La Mafia Nomade.
Felice Manti per “il Giornale” il 3 marzo 2020. C'è un campo nomadi insediato nel cuore di Roma. Una discarica a cielo aperto dove viene bruciato ogni tipo di rifiuto. E dove, se paghi, puoi smaltire illegalmente i calcinacci di una ristrutturazione. Che poi vanno a finire dritti nel Tevere. Sembra di stare in un quartiere degradato a Città del Messico o in Venezuela e invece siamo a un passo dai Parioli, Roma bene. Distese di calcinacci, mobili smembrati, materiale elettrico e resti di roghi tossici appiccati nel cuore della notte e che lasciano tracce nel ponte della ferrovia che passa sopra il Tevere e che segna il confine della riserva naturale, tutto completamente annerito, come mostrano le immagini realizzate dall' alto grazie a un drone e trasmesse ieri sera dalle Iene, in onda su Italia 1. «Il paradosso è che siamo in una zona che dovrebbe addirittura essere protetta», spiega la Iena Filippo Roma prima di venire allontanato fuori a sassate e badilate, mostrando i cartelli nelle vicinanze che recitano «Aniene, riserva naturale». Poco lontano c' è uno dei club più esclusivi della città, il Circolo Canottieri Aniene e soprattutto a due passi da un centro di raccolta Ama, l' azienda municipalizzata del Comune che dovrebbe tenere pulita la città. «Questa cosa è risaputa da anni e nessuno interviene», dice un romano alle Iene. Eccola, la città grillina che M5s continua a portare come esempio di buon governo, tanto che il sindaco Virginia Raggi (che a Roma dice «grazie per la segnalazione...») da settimane è in pressing sul viceministro degli Esteri Luigi Di Maio perché il Movimento ripensi la deroga sui due mandati. Ma la realtà che rimanda l' inchiesta delle Iene è devastante: «Ci sono gli estremi per parlare di disastro ambientale e di attentato alla salute pubblica. Da anni sopporto un inferno fatto di odori insostenibili che prendono proprio allo stomaco, di inquinamento dell' aria e delle acque», è il lamento di uno dei cittadini della zona, che denuncia: «Sono stata lì, ho visto bambini, donne e uomini vivere in condizioni disumane». Tutti sanno, nessuno apparentemente fa nulla. Né i vigili urbani né i carabinieri del Comando generale in via Castellini, a cui diverse persone si sarebbero rivolte per denunciare lo scempio nel cuore della Capitale, né tantomeno l' ente regionale RomaNatura, che dovrebbe controllare le aree naturali protette. Il direttore Emiliano Manari fa spallucce, «questa mail che denunciava il campo rom ci è sfuggita...». Ma dietro ai traffici di rifiuti c' è un vero e proprio business, come rivela una delle abitanti del campo in un italiano stentato a Roma: «Ci sono persone che controllano il campo, che prendono 100 euro al mese per le baracche, che minacciano la gente se non pagano la luce o l' affitto». Fare soldi con i rifiuti è un gioco da ragazzi, soprattutto se hai tre sim dedicate che a Roma evidentemente in molti conoscono. «Qui girano anche mille euro al giorno, 200 solo per una macchina piena di calcinacci», con gli affitti, i prestiti a strozzo e le estorsioni agli abitanti del campo si arriva a migliaia di euro al mese in nero. «Ma lei non ha paura?», chiede la Iena. « Ci hanno paura tutti da parla' , io ci ho paura solo di Dio, noi siamo in Italia, italiani deve comandare qua, non noi, noi siano rumeni...». Ma non ditelo alla Raggi.
Discarica abusiva al campo rom, tra faide e l'arrivo del Comune. Le Iene News il 09 giugno 2020. Filippo Roma e Marco Occhipinti tornano a occuparsi dell’enorme discarica abusiva scoperta all’interno dell’area protetta Valle dell’Aniene. Con Filippo Roma e Marco Occhipinti siamo tornati nel campo rom Foro Italico, all’interno dell’area naturale protetta Valle dell’Aniene, a due passi dal quartiere in dei Parioli, a Roma. Un’area che però di protetto ha ben poco, come vi avevamo mostrato la scorsa puntata, quando vi abbiamo raccontato dell’esistenza di un’enorme discarica abusiva di rifiuti illegali e roghi tossici. Una discarica a quanto ci aveva detto Marianna, una coraggiosa occupante del campo, che sarebbe gestita da una famiglia di nomadi, che controllerebbe tutto l’accampamento e chiederebbe anche una sorta di pizzo per l’occupazione delle baracche e per la luce. Filippo Roma, nel servizio in onda stasera a Le Iene su Italia 1, è tornato a parlare proprio con questa donna, per sapere cosa è successo dopo la messa in onda delle sue clamorose dichiarazioni. L’abbiamo trovata in salute, ma al centro di una sorta di faida tra clan, da un lato lei rom di origine romena, dall’altro quelli di etnia serba vicini al tre famiglie rom che con Marianna hanno avuto più di uno scontro. Sono volate parole grosse, sputi, spintoni e qualche schiaffo tra lei e un uomo rom che lavorerebbe per la famiglia ache secondo Marianna gestirebbe campo e discarica. Ma anche un litigio acceso tra minacce e accuse incrociate con una donna serba nata e cresciuta in Italia.
La discarica abusiva a Roma, tra faide e poliziotti senza mezzi. Le Iene News il 09 giugno 2020. Con Filippo Roma e Marco Occhipinti siamo tornati all’interno dell’area protetta Valle dell’Aniene, dove, come vi abbiamo fatto vedere la scorsa puntata, una famiglia di rom gestirebbe un’immensa discarica di rifiuti illegali, tra minacce, pizzo e usura. Il comune di Roma si è finalmente mosso, ma al nucleo di pronto intervento mancano i mezzi necessari e Filippo Roma riesce a beccare una svuota cantine di ritorno dalla discarica. Con Filippo Roma e Marco Occhipinti siamo tornati nel campo rom all’interno dell’area protetta Valle dell’Aniene, di cui vi abbiamo parlato nell’ultimo servizio. Vi avevamo mostrato la presenza di un’enorme discarica di rifiuti pericolosi e roghi tossici, che sarebbe gestita da una famiglia del campo rom situato all’interno del parco, un’area protetta e nel pieno centro di Roma, a due passi dalla zona vip dei Parioli. Siamo tornati da Marianna, la coraggiosa donna rom che ci aveva raccontato dei presunti affari illeciti gestiti da quella famiglia all’interno del campo, tra smaltimento illegale di rifiuti, usura e pizzo per gli occupanti delle baracche. Un traffico che, naturalmente, preoccupava gli abitanti del vicinissimo quartiere dei Parioli, tra roghi tossici accesi tutte le ore del giorno e della notte e la paura di esalazioni dannose per la salute. “Ho sopportato per anni degli odori insostenibili che prendono proprio allo stomaco”, ci aveva raccontato un’abitante della zona, che per paura dei gestori di quella discarica abusiva aveva chiesto di non farsi riprendere in volto. Siamo tornati al campo a parlare con Marianna, che ci aveva parlato di una famiglia rom che, per consentire a chiunque di scaricare illegalmente rifiuti di ogni genere, sarebbe arrivata a guadagnare anche 1.000 euro al giorno. La donna aveva anche raccontato di una sorta di racket, all’interno del campo, che sarebbe sempre gestito dalla stessa famiglia. Insomma secondo le presunte rivelazioni di questa donna al campo si praticherebbero usura ed estorsioni, e mentre eravamo lì a chiedere spiegazioni qualcuno non ha gradito questo scambio di informazioni e siamo stati cacciati a colpi di vanga e fatti oggetto di vere e proprie sassaiole. Vista tutta questa violenza, ci eravamo chiesti: quando andrà in onda il servizio, cosa succederà a Marianna? Qualcuno si vendicherà con lei per le gravi accuse che ha lanciato di fronte alla telecamera? Per questo motivo, prima di andare in onda martedì scorso, abbiamo provato più volte a segnalare la situazione di pericolo in cui si sarebbe potuta trovare la donna rom. Ci abbiamo provato invano con la sindaca Raggi, e poi per due volte siamo stati al commissariato di Villa Glori, ma per ben due volte ci hanno rimandato indietro. E alla fine avevamo provato come ultima spiaggia a parlare con direttamente con il questore di Roma. “Mi scusi ma in questo momento io sono nella centrale operativa della questura sto seguendo tutte le manifestazioni qua su Roma", ci aveva spiegato, "ma se c’è qualcosa da denunciare vada al commissariato o alla stazione dei carabinieri …”. Gli avevamo spiegato che non era stato possibile presentare la denuncia e di questo si era molto meravigliato: “Come nessuno le fa? No no no no non dica cose che non è possibile... perché non ci possiamo rifiutare di prendere una denuncia. Vada lì e dica "io devo denunciare una cosa, ho parlato con il questore". Se dovesse trovare difficoltà me lo fa sapere va bene?”. Forti dell’ordine del questore in persona finalmente qualche ora prima di andare in onda siamo riusciti a fare denuncia, ma per assicurarci che Marianna stesse bene, siamo ritornati al campo rom del Foro Italico. Mentre torniamo ci accorgiamo che qualcosa si è mosso dopo il nostro servizio, ed è in atto un intervento di polizia e vigili urbani. Marianna ci rassicura: “Nooo adesso non c’è nessuno, sono andati via tutti quelli che hanno fatto male qui, sono andati via. Io sono andata alla polizia e non può venire nessuno da me... sono andata dopo, l’ho detto, mi deve guardare qualcuno che c’ho paura che sono da sola...” Dopo il nostro servizio anche Marianna insomma si sarebbe rivolta alla polizia e alcune delle persone da lei denunciate sarebbero andate via dal campo, dove però le tensioni sembrano essere ancora parecchie. La donna denuncia: ”È venuto quello ragazzo che stava lì, che lui abitava prima là che mi dava sempre fastidio, è venuto a rompere la baracca”. Insomma, mentre siamo al campo per accertarci che Marianna stia bene, ne nasce una sorta di telenovela con momenti di tensione quando Marianna sputa e poi fa volare due schaiffi nei confronti di un uomo che accusa di essere schierato con la famiglia rom che controllerebbe il campo, e che qualche settimana prima avrebbe avuto uno scontro fisico con suo fratello. Il confronto si fa acceso anche con un’altra donna, Giuliana, che accusa la stessa Marianna di gestire quella discarica abusiva. Assistiamo a un vero e proprio litigio tra Marianna, di etnia rom, e Giuliana, serba, uno scontro che racconta di quanto tesi possano essere i rapporti dentro un campo rom. Una situazione di degrado e rivalità, che fa arrivare le due donne agli spintoni. La ricostruzione fatta dalla serba Giuliana sembra traballare un po’, perché se fosse vero che la capa dell’attività dello smaltimento illecito di rifiuti è proprio Marianna, non si spiega perché la volta scorsa sarebbe stata proprio lei a raccontarci di questi traffici illegali e invece è stato un uomo della famiglia che controllerebbe il campo che ci ha inseguito brandendo una vanga. L’unica verità accertata, comunque, è che all’interno di un’area protetta, a due passi dal centro della Capitale, c’è un’enorme discarica abusiva, che speriamo venga al più presto smantellata. Mentre siamo al campo osserviamo l’operazione dei Pics, il nucleo della polizia di pronto intervento, guidati dal responsabile Franco Granieri, che all’inizio ci spiega di non poter rilasciare interviste e poi si lascia sfuggire una battuta: ”Non è semplice oggi per domani fare una cosa del genere, lo sapete meglio di me”.
Vi avevamo raccontato, nel corso del precedente servizio, di come a settembre 2019 il Comune di Roma avesse tolto al nucleo di pronto intervento 4 camion dell’Ama che servivano a ripulire insediamenti abusivi e rifiuti abbandonati. E infatti, come possiamo osservare, i Pics al campo sono venuti senza mezzi per ripulire la discarica. Senza i mezzi dell’Ama tolti al nucleo di pronto intervento della polizia locale come e quando si bonificherà la zona? Proviamo a richiederlo alla sindaca Virginia Raggi, che ci dice: ”Adesso stiamo quantificando poi trovati i soldi avvieremo le operazioni. Tra l’altro abbiamo visto che quella era un’area sulla quale la nostra polizia stava già lavorando, è stata sequestrata più volte quindi c’è un lavoro in corso…”. Virginia Raggi non prende impegni precisi, ma dopo la nostra segnalazione della settimana scorsa ha finalmente mandato il nucleo ambiente e decoro della Polizia, che ha anche beccato degli svuotacantine in piena azione. E allora, per chiudere il cerchio, ci manca di parlare con chi i rifiuti alla discarica li porta, in spregio a ogni regola. Ci siamo messi sulle tracce dello stesso svuotacantine avvistato nel video pubblicato dalla sindaca Raggi e riusciamo a raggiungerlo. La sua è una tesi singolare: “So che è una discarica abusiva, ma perché non la chiudete? C’è stata la quarantena e tutte ste cose son state chiuse. Io ci sono andato all’Ama, ci sono andato erano chiusi probabilmente… invece di filmare, che mi sta filma’ come un drogato spacciatore”. Quando gli chiediamo del campo rom, risponde. “Va sgomberato, va sgomberato. Ammetto che contribuiscono persone peggio di me che bisogna fermarli. Ti prometto che non ci torno al campo, non perché ho paura di te o di qualcuno ma perché non va fatto, non va fatto quella maniera ma non solo io, tutti quanti”. La storia del campo rom con una discarica dentro una riserva naturale non è purtroppo è un caso isolato. Una situazione ancora peggiore si trova nel campo nomadi di Castel Romano, dentro la riserva naturale Decima Malafede, dove i bambini addirittura giocano in mezzo ai topi e i cittadini confinanti con il campo rom sono ormai esperti di roghi tossici. Luigi ci racconta: ”Qui accade tutti i giorni, se non è questo è un altro ma tutti i giorni può succedere che c’è un incendio, ma poi anche la gente qui soffre no? Anche i ragazzi soffrono”. Cosa aspettiamo, sindaca Raggi, per sanare tutte le situazioni di degrado e di pericolosità per la salute di cui la Capitale sembra abbondare?
Furti, aggressioni e paura: Roma-Nettuno ostaggio dei rom. Quello dei borseggiatori provenienti dal Campo rom di Castel Romano è l’ennesimo grave problema che contraddistingue la tratta ferroviaria. Luca Annovi, Lunedì 06/01/2020, su Il Giornale. Furti e scippi ormai quotidiani sulla tratta ferroviaria Roma-Nettuno. Il consigliere regionale della Lega Daniele Giannini ha da poco presentato un’interrogazione presso la Regione Lazio riguardo questa importante tratta ferroviaria che dalla Capitale copre circa 60 chilometri fino a Nettuno. La ferrovia è presa d'assalto ogni giorno da bande organizzate provenienti dal campo rom di Castel Romano, situato lungo la Strada Statale 148 Pontina. Un campo già noto alle cronache per i pesanti disagi subiti dai pendolari a causa di molte azioni compiute dai suoi residenti, come il lancio di sassi verso le auto da parte di residenti del campo Rom, o ripetuti incendi dolosi. Quello dei borseggiatori provenienti da questo campo rom è l’ennesimo grave problema che contraddistingue la Roma–Nettuno, già caratterizzata da altri disagi quotidiani, a partire da ritardi e cancellazioni dei treni. La tratta ferroviaria copre diverse stazioni, partendo da Nettuno ed arrivando a Roma Termini e passando per Anzio, Lido di Lavinio, Padiglione, Campo di Carne, Aprilia, Pomezia. Aree che raccolgono migliaia di persone che ogni giorno si recano a Roma per lavoro e che si trovano costrette a vivere una vera e propria odissea. La tratta, in virtù dell’esteso territorio su cui si estende e del numero di fermate, copre un bacino di utenza molto grande, fermandosi anche in Comuni che hanno tra i cinquanta ed i settantamila abitanti, come Nettuno, Aprilia, Pomezia ed arrivando a Roma Termini. Sono tra le quattrocento e le cinquecentomila le persone che risiedono in questa fascia territoriale e molte scelgono il treno per muoversi all’interno della provincia, sia per pendolarismo dovuto a motivi lavorativi, sia per spostarsi da una città all’altra, nella maggior parte dei casi per raggiungere la Capitale. Gli utenti sono preoccupati e vogliono certezze sulla loro sicurezza. L'arrivo di bande organizzate che provengono dal campo rom di Castel Romano e che salgono sulle carrozze (nella maggior parte dei casi presso la stazione di Pomezia) rappresenta una vera e propria piaga su cui ora sono necessari degli interventi. La situazione è diventata preoccupante e la recente interrogazione regionale è giunta a seguito di numerose segnalazioni di cittadini, tra cui soprattutto anziani ed adolescenti, che sono stati oggetto di intimidazioni e di furti. I pendolari, quindi, oltre a lamentare problemi divenuti ormai costanti di questa tratta ferroviaria, come la mancanza di carrozze necessarie a coprire l’elevato numero di persone ed i ripetuti ritardi o interruzioni di servizio, si trovano ora ad affrontare questo ulteriore grave disagio. Daniele Giannini puntualizza come spesso siano anche le donne ad essere derubate, mediante azioni ben organizzate e non sporadiche: “Le donne che sono sole vengono puntate e poi seguite, per essere derubate. Bisogna intervenire al più presto”. Tra le richieste presentate, quella di dotare le carrozze di un sistema di videosorveglianza. Potrebbe essere un primo passo verso una maggiore sicurezza per tutti i cittadini che usano questa tratta ferroviaria. Nell’interrogazione presentata il 5 novembre, che ad oggi non ha avuto alcuna risposta da parte della Regione Lazio, viene richiesto anche che vengano attivati i presidi dei Commissariati dei Comuni facenti parte della tratta ferroviaria Roma–Nettuno. “Attendiamo fiduciosi altrimenti saremo costretti a fare altre iniziative anche più eclatanti sul posto – afferma il consigliere Giannini - per denunciare questa problematica che secondo noi è già andata oltre il limite di sopportazione del cittadino che vuole prendere il treno per recarsi al lavoro anche in un’altra Città, in questo caso la Capitale e vorrebbe arrivare senza essere disturbato o aggredito da questi giovanotti del campo di Castel Romano che non trovano meglio da fare che borseggiare o aggredire i pendolari di questo treno”.
· I Basilischi. La Mafia Lucana.
Basilischi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. I basilischi sono stati un'organizzazione criminale italiana, nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. Poiché al 22 aprile 1999 tutti i capi di questa organizzazione sono stati arrestati, l'organizzazione è stata notevolmente ridimensionata. Da allora, secondo la procura nazionale antimafia, la criminalità organizzata delle zone del Materano, del Melfese e del Potentino sono controllate da cosche che fanno capo alla 'Ndrangheta di Rosarno.
Storia. La nascita. La famiglia dei basilischi nacque agli inizi del 1994, allorquando Giovanni Luigi Cosentino, soprannominato “faccia d'angelo”, un pregiudicato molto noto per le sue passate imprese criminose, all'interno delle carceri di Potenza e Matera iniziò ad avvicinare altri detenuti con l'intento di creare un'organizzazione che, con l'avallo di alcune famiglie malavitose calabresi (e segnatamente quella dei Morabito), avrebbe dovuto riunire tutte le associazioni criminali che sino a quel momento avevano operato in Basilicata: proprio per questo il gruppo veniva denominato famiglia dei basilischi. Ottenuto difatti il nulla osta dalle 'ndrine dei Pesce e Serraino di Rosarno, si formò un gruppo di malavitosi operante in tutta la Regione con a capo Giovanni Gino Cosentino. Quella organizzazione ambiva a diventare la quinta mafia del meridione d'Italia. L'organizzazione venne effettivamente formata da Saverio Mammoliti (detto Don Saru) dei Mammoliti che nominò come capo-società Renato Martorano. Sembra abbiano avuto contatti anche con i Morabito.
Inchiesta "Iena 2". Con l'inchiesta Iena 2, in cui sono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M.), Gianfranco Blasi (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M. nel 2006) e Antonio Luongo, il pubblico ministero di Potenza Vincenzo Montemurro evidenzia un cambio di assetto: l'appalto ottenuto all'Ospedale San Carlo da un'azienda controllata da un gruppo malavitoso campano viene trattato dai Basilischi in prima persona. Da questo si dedurrebbe che il controllo del territorio lucano è in mano al gruppo dei Basilischi che tratta alla pari con le altre mafie assumendo così una sua identità ed autonomia, pur rimanendo legato alla 'ndrangheta.
Operazione "Chewingum". I Basilischi sono stati oggetto di un'inchiesta della procura antimafia di Potenza, "l'operazione Chewingum", che sta tentando di fare luce sulle attività e sulla struttura dell'organizzazione.
Gli anni 2000. In seguito al maxi-arresto del 22 aprile 1999, che ha incarcerato i capi della cosca, sembra che la 'ndrangheta di Rosarno abbia ristabilito il potere sulla criminalità in Basilicata, destituendo Cosentino e creando sette 'ndrine, composte da malavitosi locali e comandate direttamente da sette calabresi. Nel 2006, nell'inchiesta che ha coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia e il sindaco di Campione d'Italia, vi era anche la famiglia Tancredi del potentino. Secondo la procura antimafia nazionale, le zone lucane colpite da questo fenomeno sono quelle di Policoro, Montalbano Jonico, Pisticci, Scanzano Jonico (dove operano gli Scarcia), la Val d'Agri (dove sono concentrate le risorse petrolifere della regione), e Melfese. Con sentenza del 21 dicembre 2007 il Tribunale di Potenza, composto dai giudici Daniele Cenci, Ubaldo Perrotta e Gabriella Piantadosi, ha accertato l'esistenza della "Famiglia Basilischi". In una sentenza del 30 ottobre 2012 la Corte d'appello di Potenza ha confermato l'esistenza del clan mafioso dei “Basilischi”.
Affiliati. Sono affiliati all'organizzazione dei Basilischi alcuni membri del clan Scarcia del materano, i melfitani Massimo e Marco Cassotta (quest'ultimo assassinato il 14 luglio 2007), Antonio Cossidente e il salernitano Vincenzo De Risi, il gruppo potentino capeggiato da Renato Martorano (coinvolto nell'inchiesta Iena 2), e a cui appartengono i noti Dorino Stefanutti e Michele Badolato. Tutti i citati sono sotto inchiesta e condannati più volte per reati di stampo mafioso.
Riti. Nel 1996 la polizia ritrova un codice con la descrizione di un rito di battesimo sul monte Policoro che cita come luoghi sacri, il monte stesso, Potenza e il fiume Sinni.
Basilicata tra guerra e paci mafiose. L’Antimafia disegna lo scenario dei clan lucani. Nel melfese la fine della faida. Mentre nel metapontino nuovi tentativi di scalata. Leo Amato il 18 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. La pace nel venosino e soprattutto nel Vulture, dove i clan in lotta per anni avrebbero deciso di «gestire congiuntamente alcune attività illecite, tra le quali quelle connesse al traffico di stupefacenti». Mentre nel metapontino: «le mire espansioniste dei Mitidieri-Lopatriello, rinvigoriti dall’indebolimento degli Schettino, sarebbero (…) frenate dai reduci dello storico clan Scarcia (che, nel tempo, erano divenuti satelliti degli Schettino) anch’essi interessati a recuperare potere». E a Potenza «l’esponente di vertice del clan Stefanutti (…) contende una posizione paritaria» all’«elemento apicale della famiglia Martorano», scarcerato da poco più di un anno. È quanto evidenziano gli investigatori della Direzione investigativa antimafia nella loro relazione semestrale al Parlamento sulle attività di contrasto al crimine organizzato. A livello nazionale l’Antimafia evidenzia come ad oggi ci siano 51 enti locali sciolti per infiltrazioni mafiose, un numero che non è mai stato così alto dal 1991, anno di introduzione della normativa sullo scioglimento per mafia degli enti locali. Nel 2019 infatti, dice la Direzione investigativa antimafia, sono stati sciolti 20 consigli comunali e 2 Aziende sanitarie provinciali, che si sono aggiungi alle 29 amministrazioni ancora in fase di commissariamento: 25 in Calabria, 12 in Sicilia, 8 in Puglia, 5 in Campania e dopo quasi un trentennio uno anche in Basilicata, il Conune di Scanzano Jonico. Nel capitolo dedicato al crimine in terra lucana gli investigatori parlano di «segnali di presenza nella Regione di tutte le organizzazioni mafiose italiane, compresa Cosa nostra». In questo senso citano il sequestro, effettuato nel potentino, di due impianti eolici, riconducibili a «un soggetto contiguo al clan Rinzivillo di Gela, articolazione nissena di Cosa nostra». Poi passano a esaminare la situazione sul territorio col capoluogo dove «permane l’operatività del clan Martorano -Stefanutti», ma Dorino Stefanutti, «la cui ascesa consegue all’omicidio di un altro esponente di rilievo del clan, commesso il 29 aprile 2013 per contrasti insorti nella gestione del settore del gioco d’azzardo e delle scommesse on-line, così come confermato, tra l’altro, dalle propalazioni del testimone di giustizia, figlio dello stesso boss», avrebbe ormai assunto «un ruolo di direzione del sodalizio e delle connesse attività illecite esercitate sul territorio». A Pignola: «il clan Riviezzi, nonostante la parziale disarticolazione subita a seguito dell’inchiesta “Impero 2017” (conclusa nel 2018), continua ad operare nella zona di Pignola e Potenza e, rinvigorito anche dalla scarcerazione del figlio del capo clan, si ritiene abbia assunto un ruolo centrale nelle dinamiche criminali potentine, confermando un’innata capacità di proselitismo e reclutamento». Nell’area del Vulture-Melfese, invece, secondo gli investigatori esiste uno scenario criminale «frammentario e caratterizzato dalla presenza, accanto alle storiche formazioni criminali (rappresentate, allo stato attuale, per lo più dagli eredi dei rispettivi elementi apicali), di nuovi gruppi protesi ad affermarsi sul territorio e ad acquisire maggiore autonomia operativa». «In tale contesto – prosegue l’Antimafia – sembra che, dopo anni di sanguinosa faida, vadano consolidandosi i rapporti di collaborazione tra qualche elemento dei clan Cassotta e Di Muro-Delli Gatti, al fine di gestire congiuntamente alcune attività illecite, tra le quali quelle connesse al traffico di stupefacenti». «Nei comprensori di Rionero in Vulture – insistono gli investigatori – si conferma, in particolare, l’operatività del gruppo Barbetta, mentre in quello di Venosa, del gruppo Martucci, entrambi prevalentemente dediti al settore degli stupefacenti. Non si esclude, peraltro, che i citati clan mettano in atto una comune strategia per sottoporre ad estorsione le attività economiche, commerciali e imprenditoriali presenti sul territorio. Si ritiene, infatti, che almeno una parte dei numerosi episodi di danneggiamento, incendio e di intimidazione/minaccia, denunziati nel corso del 2019, possano in qualche maniera ricondursi proprio alla strategia intimidatoria messa in atto dai clan Barbetta e Martucci». Infine il materano, che «appare, al momento, l’area potenzialmente più esposta a nuovi fermenti, poiché, dopo lo scompaginamento dei clan e dei gruppi criminali più operativi della fascia Jonico-metapontina, sembrano in atto tentativi di scalata da parte di alcune figure che, per i legami con gli storici sodalizi locali o comunque forti di un personale carisma criminale, hanno intrapreso azioni mirate a colmare il vuoto di potere e a conquistare il controllo delle attività illecite sul territorio». La Dia cita, in particolare, «il duplice tentato omicidio perpetrato, il 10 ottobre 2019, da un soggetto vicino al clan Scarcia ai danni dell’elemento apicale del clan Mitidieri e di un altro pregiudicato contiguo a quest’ultimo gruppo». «I mutamenti negli assetti criminali locali potrebbero, infatti -concludono gli investigatori, aver indotto il capoclan Mitidieri a recuperare il controllo del racket sul territorio e l’evento, nello specifico, potrebbe rappresentare la violenta reazione a un tentativo di estorsione messo in atto in danno di un esercizio commerciale riconducibile, per i rapporti familiari dei titolari, al clan Scarcia».
· La Quarta Mafia. La Mafia di Foggia.
Foggia tra bombe, pizzo e omicidi: ecco la quarta mafia d'Italia. Le Iene News il 14 febbraio 2020. Gaetano Pecoraro ci porta a Foggia, alla scoperta dell’organizzazione criminale “Società foggiana” che, solo nell’ultimo mese, ha ucciso un uomo in pieno centro e fatto scoppiare 6 bombe contro chi non voleva pagare il pizzo. Una mafia poco conosciuta, ma violentissima, contro la quale c’è una sola procura in prima linea a combattere. Una città in guerra. Il primo omicidio del 2020? È avvenuto a Foggia, dove un 53enne è stato crivellato di colpi in pieno centro, sotto gli occhi dei passanti. La prima bomba contro un esercizio commerciale? Sempre a Foggia, che in meno di un mese ha registrato questo terribile bilancio di un omicidio e sei bombe esplose ai danni di altrettanti esercizi commerciali. Gaetano Pecoraro ci guida alla scoperta della quarta mafia d’Italia, la cosiddetta “società foggiana”, una organizzazione criminale sanguinaria e senza scrupoli. Ce lo racconta Giuseppe Gatti, sostituto procuratore antimafia di Bari: “È un’emergenza nazionale, ci troviamo di fronte a una mafia particolarmente pericolosa”. Direzione antimafia di Bari e procura di Foggia, nei mesi scorsi, hanno arrestato un gran numero di affiliati a questa organizzazione criminale, mettendo in galera una parte dei boss della “società”. Società che però è più viva che mai e prospera ai danni della parte sana della città. Insieme a Francesco Pesante, un giornalista locale, andiamo in giro per Foggia alla scoperta dei boss della società foggiana e dei luoghi testimoni degli ultimi agguati e degli attentati dinamitardi: “Ci sono tre gruppi principali, chiamati batterie. Il clan Moretti-Pellegrino-Lanza, i Sinesi-Francavilla e i Trisciuoglio. Nel primo omicidio del 2020 hanno ammazzato una persona estranea ai clan, che vendeva auto. Tre revolverate tra faccia e gola. “ La vittima era un uomo che qualche anno fa si era ribellato alle richieste dei suoi estorsori, legati alla Società foggiana. “Era stato pestato da uomini del clan Moretti, perché si era messo a difesa del nipote, vittima di estorsione”, racconta a Gaetano Pecoraro Francesco Pesante. È un business estremamente importante quello delle estorsioni, con veri e propri prezzari che indicano le cifre da versare per la “protezione” dei boss, una media che va dai 500 ai 3.000 euro al mese. “Ue bastardone, tu ti devi sbrigare, sennò gli facciamo la festa a tuo figlio”, dice un affiliato a una vittima in una conversazione intercettata dai carabinieri. “Hanno buttato la benzina sotto alla saracinesca, danni per diecimila euro”, racconta un negoziante che si è rifiutato di pagare al nostro Gaetano Pecoraro. Incontriamo poi Cristian Vigilante, il titolare di una casa di cura più volte oggetto di attentati incendiari e intimidazioni. “Sappiamo solamente che stiamo vivendo un momento assurdo e ne vogliamo uscire quanto prima”. Ci fingiamo finti imprenditori venuti da fuori regione, interessati ad aprire un’attività e con le camere nascoste chiediamo consiglio ad alcuni esercenti della città. Accanto a chi nega categoricamente che Foggia abbia questi problemi, altri danno risposte assolutamente inequivocabili: “Devi fare attenzione, ti chiedono il pizzo”. Gaetano Pecoraro va poi in un agriturismo, che stando a un documento trovato dagli inquirenti avrebbe pagato il pizzo alle batterie della società foggiana. Il titolare non solo avrebbe negato la circostanza davanti agli inquirenti ma una volta uscito dall’interrogatorio avrebbe addirittura avvertito i suoi aguzzini. A telecamera nascosta dice: “Io non ho mai avuto questi problemi. Queste persone mi hanno aiutato a trovare dei pezzi per la macchina, perché sono amici. Ho pagato 1.500 euro ma hanno pensato che fosse un’estorsione. Io non ho mai pagato una lira. Non è gente cattiva. Vengono a mangiare, gli faccio lo sconto… Se tu stessi al mio posto faresti la stessa cosa. “ Nega tutto anche un gommista della zona, che avrebbe pagato 5.000 euro una tantum e poi 500 euro al mese per la protezione dei clan. La moglie nega: “Qui non paghiamo, assolutamente, te lo posso assicurare. Non abbiamo pagato nulla, al mille per mille”. Una donna, che gestisce un’altra attività, tenta di giustificarsi, ammettendo tra le righe la situazione: “Foggia ha una brutta nomea, parliamoci chiaro, quelle poche persone che stanno o parlando o collaborando, stanno passando i guai… ragazzi, qua la pelle… se permetti devo pensare alla mia pelle…”. Incontriamo la figlia di Francesco Marcone, un dirigente del catasto che ha pagato con la vita la scelta di non assecondare le richieste dei boss, volte a favorire i propri lucrosissimi affari. L’uomo aveva notato comportamenti anomali nel suo ufficio. “C’erano persone che aspettavano gli utenti fuori dall’ufficio del registro e in cambio di denaro promettevano di aiutarli a sbrigare le pratiche. L’hanno ucciso con due colpi alle spalle”, ricorda visibilmente commossa la figlia. La provincia di Foggia, 7mila chilometri quadrati di territorio, ha una sola procura a occuparsi di questa potentissima mafia. “La Liguria ha un’estensione di 5.400 chilometri quadrati”, spiega Ludovico Vaccaro, procuratore capo di Foggia, “e ha ben 4 procure operative, 4 prefetture, 4 squadre mobili, 4 reparti operativi dei carabinieri. Perché a Foggia non viene dato altro che quello che hanno altri territori?”. Andiamo infine da alcuni dei familiari dei boss della società foggiana, attualmente in carcere. A cominciare dalla figlia del presunto boss Roberto Sinesi, che ci caccia dal suo negozio senza rilasciare alcuna dichiarazione. In un’altra attività, sempre legata a quella famiglia, incontriamo un altro parente, con precedenti per spaccio: “non c’è una spiegazione a questa violenza, la natura umana è fatta in questo modo”. Parliamo poi con Giuseppe, un uomo il cui suocero, uno storico componente delle batterie, è in carcere per omicidio: “Sono cose che non ci interessano non sappiamo niente. Se parliamo di calcio, possiamo parlare di tutto. Non ci interessano questi argomenti. “ In un altro bar troviamo un parente di alcuni affiliati alla batteria dei Francavilla, con precedenti penali per estorsione. “Non esiste nessuna batteria, la mia famiglia, i Francavilla, i Sinesi, sono famiglie come le altre. Che io sappia la società foggiana non esiste. La legge sai quanti sbagli ha fatto?”.
Bomba a Foggia, la ferocia primitiva della “quarta mafia”. Pino Pisicchio il 17 gennaio 2020 su Il Dubbio. La scalata dei clan pugliesi. Siamo di fronte a bande di paese che stanno compiendo il balzo in avanti con un allargamento del business criminale verso attività più remunerative, come droga e prostituzione. Chissà che cosa avrebbe da dire, di fronte all’esplosione esponenziale di cronaca nera nell’area foggiana, Federico Secondo di Svevia, imperatore della casata Hohenstaufen, quel “puer Apuliae” che tanto amo’ la terra di Capitanata dove il destino ( preannunciato dai suoi maghi, che lo mettevano in guardia da località con il “fiore” nel nome) stabilì che sarebbe morto. E a cinquantasei anni così fu: si spense in quel di Torremaggiore, a 37 chilometri da Foggia, nei pressi di un agro che nel 1250 faceva di nome “Castel Fiorentino”. Federico, sensibile alle arti e curioso di tutto ciò di cui è fatta l’umanità, oltre all’orrore per lo sfregio alla terra amata, avrebbe forse avuto da muovere anche obiezioni estetiche sul modo del crimine, antropologicamente primitivo e quasi tribale. Perché la cosiddetta “quarta mafia” che riempie le aperture dei giornali, in allineamento ideale con la mafia siciliana, la ’ ndrangheta calabrese e la camorra campana, da ultima arrivata si propone come un modello di efferatezza più simile alle brutali derive omicidiarie della camorra arcaica piuttosto che alla letale criminalità dai guanti bianchi delle mafie tecnologiche e finanziarie di nuova generazione. La terra di Foggia, che lo scorso anno conquistò il poco desiderabile record di provincia con il più alto numero di reati estorsivi in Italia, offre un panorama di stratificazione territoriale che porta a distinguere tre distinte tipologie di malavita organizzata: la mafia foggiana, che ha il suo epicentro nel capoluogo e si allarga al suo hinterland, la mafia garganica che opera nei territori di San Nicandro garganico e Apricena, e la mafia di Cerignola, che include i territori di Trinitapoli e San Ferdinando di Puglia. A parte, tra Foggia e San Nicandro, si ritaglia una sua autonoma fisionomia la malavita di San Severo, grosso borgo agricolo di oltre 50.000 abitanti, negli ultimi anni umiliato da ripetuti episodi di violenza criminale a scopo di rapina. Il territorio, crocevia delle antiche culture sannitiche, molisane e daune, ha una forte radicazione nelle antropologie legate alla terra: all’agricoltura, prospera ancora oggi nell’immenso granaio del Tavoliere, e alla pastorizia. È questa la storica zona di transito degli armenti abruzzesi e molisani in transumanza. La “quarta mafia”, dunque, sociologicamente è nutrita da arcaismi tribali in cui legami di sangue e abigeato rinnovano una loro perversa attualità. Che, peraltro, erigono barriere tra la terra di Foggia e il resto della Puglia, proiettata verso livelli economici e traguardi sociali assai diversi per modernità e dinamismo. Il clima da far- west che la malavita foggiana ha inflitto al territorio, ha creato una condizione di panico nella popolazione, abitata da un sentimento in cui angoscia e rabbia si combinano in una miscela esplosiva che non riesce a trovare sbocchi istituzionali convincenti. Peraltro il quadro occupazionale della provincia non è affatto incoraggiante, nonostante la grande tradizione del settore agro- industriale e la pur valida proposta turistica ed enogastronomica del Gargano e dei borghi del sub- appennino: come si fa a fare turismo sano e moderno nell’epicentro della mafia garganica? Situazione irreversibile e dannata, dunque? Ovviamente no. Innanzitutto perché non siamo di fronte ad una organizzazione criminosa di impianto storico che trovi una forma di penetrazione sociale così come le tre mafie meridionali, che hanno offerto nel corso della loro ( ahimè) lunga presenza territoriale anche fenomeni di “patronage” criminale alle comunità, occupando lo spazio lasciato vuoto dallo Stato. Siamo di fronte a bande di paese che stanno compiendo il balzo in avanti verso le pratiche estorsive organizzate e l’allargamento del business criminale verso attività più remunerative, come droga e prostituzione. Dunque è una struttura organizzativa ancora in coming, non consolidata come nelle altre tre mafie e, ciò che è più rilevante, che non trova alcun sostegno nel corpo sociale ( e nella politica, se non per episodi minori ed isolati). E non è cosa da poco. Ma, per poter intervenire con qualche possibilità di successo, occorre innanzitutto prendere coscienza dell’esistenza del problema, senza rimuoverlo o derubricarlo a ingiuria minore. E poi è necessario richiudere il cerchio del circuito Stato- cittadini: il senso dell’abbandono, dell’estraneità, della lontananza, ricordiamolo, ha reso fecondo il terreno di coltura delle altre mafie, quelle “storiche”. Alla politica nazionale e locale si chiederebbe meno inutile chiacchiericcio e più fattualità, soprattutto nel farsi facilitatrice per le occasioni di sviluppo, unico vero antidoto al degrado. C’è un detto, forgiato dagli stessi foggiani, che Federico II non ha conosciuto: tradotto dal dialetto dice più o meno “fuggi da Foggia, non per Foggia ma per i foggiani”. Ecco: compito della politica è proprio quello di frantumare questo letale aforisma.
"50 euro per ogni funerale, 200mila a cantiere edile": ecco il tariffario dei clan. Il processo "Decima Azione" vede alla sbarra i boss dei clan mafiosi. Oltre ai prezzi c'era anche un elenco di chi pagava le somme richieste. Da domani, nel capoluogo dauno, una task force voluta dal ministro Lamorgese. Emanuela Carucci, Domenica 19/01/2020 su Il Giornale. Sono venticinque le condanne richieste dai giudici della direzione distrettuale antimafia di Foggia, Lidia Giorgio e Federico Perrone Capano, a carico degli imputati del processo "Decima Azione" che si sta celebrando con rito abbreviato a Bari. Nella decisione dei pubblici ministeri le pene oscillerebbero dai quattro ai diciotto anni per un totale di trecento anni. Alla sbarra, come si legge sul quotidiano locale "FoggiaToday", i vertici della mafia foggiana (detta anche "la Società foggiana" o "la quarta mafia", ndr) finiti in manette a novembre del 2018. Le accuse sono, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsioni e rapine aggravate, detenzione illegale di armi e tentato omicidio. Come scrive Andrea Tundo sul giornale on line "Il Fatto Quotidiano", esisteva un vero e proprio tariffario in merito alle estorsioni. Venivano chieste cinquanta euro per ogni funerale a chi gestisce una ditta di onoranze funebri e centinaia di migliaia di euro sarebbero stati estorti a chi apriva un cantiere edile. Non solo, in alcuni casi gli imprenditori locali dovevano versare il cinque per cento del proprio bilancio nelle casse della "Società". Sono questi i dati emersi dall'inchiesta partita nel novembre 2018 che ha colpito i clan di Foggia Moretti-Pellegrino-Lanza e Sinesi-Francavilla. E ancora, dall'inchiesta è anche emersa la presenza di un vero e proprio "libro mastro", ritrovato dagli investigatori coordinati dalla Dda di Bari guidata dal procuratore Giuseppe Volpe, con l’elenco di chi pagava e dalle intercettazioni telefoniche si capisce il modus operandi degli imputati al processo "Decima Azione". Le ultime vittime di questo sistema criminale organizzato sono due fratelli, Luca e Cristian Vigilante, che hanno subito due attentati dinamitardi solo nelle prime settimane di questo nuovo anno. Ad essere colpita la loro cooperativa a capo del centro polivalente per persone anziani autosufficienti "Il sorriso di Stefano". Come si legge nell'ultima relazione semestrale della Dia al Parlamento, nella provincia di Foggia, "il forte legame dei gruppi criminali con il territorio, i rapporti familistici di gran parte dei clan e la massiccia presenza di armi ed esplosivi favoriscono un contesto ambientale omertoso e violento". Secondo la Dia, nella mafia del capoluogo dauno "si configura una tendenza al superamento di quelle forme di instabilità e conflittualità tipiche della camorra campana, cui la mafia foggiana è legata per ragioni di criminogenesi, per protendere verso nuovi assetti organizzativi, più consolidati e fondati su strategie condivise, emulando in tal modo, anche in un'ottica espansionistica, la 'ndrangheta". Nella stessa relazione si parla di "un'area grigia punto di incontro tra mafiosi, imprenditori, liberi professionisti e apparati della pubblica amministrazione. Una "terra di mezzo" dove affari leciti e illeciti tendono a incontrarsi, fino a confondersi". E anche in virtù di quest'ultima relazione, domani, lunedì 19 gennaio, arriveranno i rinforzi annunciati dal ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, dopo l'escalation criminale registrata a Foggia, all'inizio dell'anno. Venti gli agenti della polizia di Stato che andranno a rinforzare i servizi di controllo del territorio e di scorta. Si tratta di una vera e propria task force della direzione distrettuale antimafia. A renderlo noto la questura del capoluogo dauno. "Si tratta di poliziotti di esperienza, provenienti da altre province - si spiega in una nota - alcuni dei quali appositamente specializzati nell'espletamento di servizi particolarmente delicati, come quelli a tutela delle persone sottoposte a protezione personale per avere denunziato la mafia ed il racket delle estorsioni". I nuovi agenti lavoreranno, fianco a fianco, con gli altri colleghi della questura di Foggia e saranno impiegati nell'azione di prevenzione e di repressione dei reati in città. Aumenteranno, pertanto, i posti di controllo sul territorio e vi sarà un rafforzamento dei servizi posti a tutela della collettività.
"Decima Azione", mafia Foggiana a processi; chieste condanne per 303 anni e 3 mesi. "Decima Azione", mafia foggiana alla sbarra: chieste condanne per più di 300 anni di reclusione. E’ quanto richiesto dai pm della Direzione Distrettuale Antimafia, a carico degli imputati del processo "Decima Azione", nella tranche che si sta celebrando con rito abbreviato, a Bari. FoggiaToday il 13 dicembre 2019. Venticinque condanne per complessivi 303 anni e 3 mesi di reclusione. E’ quanto richiesto - con pene oscillanti da un minimo di 4 ad un massimo di 18 anni - dai pm della Direzione Distrettuale Antimafia Lidia Giorgio e Federico Perrone Capano, a carico degli imputati del processo Decima Azione, nella tranche che si sta celebrando con rito abbreviato, a Bari. Mafia foggiana: imputati optano per il rito abbreviato, imprenditori taglieggiati assenti. Emiliano: "Ci siamo noi per Foggia". Alla sbarra, vertici ed esponenti della Società Foggiana (tra i quali i boss Rocco Moretti del clan Moretti-Pellegrino-Lanza e Roberto Sinesi, ritenuto invece a capo dei Sinesi-Francavilla) tutti arrestati nel blitz-capitale del novembre dello scorso anno: sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsioni e rapine aggravate, detenzione illegale di armi e tentato omicidio.
Processo alla Società foggiana, le vittime 'disertano' l'aula: nessuna si costituisce parte civile. Nel dettaglio, è stata chiesta una condanna a 16 anni e 8 mesi per Rocco Moretti e altrettanti per Alessandro Aprile; 14 anni per Vito Bruno Lanza, Roberto Sinesi, Francesco Abbruzzese, Francesco Pesante e i fratelli Ciro e Giuseppe Francavilla. Ancora, 18 anni di reclusione per Francesco Tizzano (è la richiesta di condanna più alta); 16 anni per Ernesto Gatta e Massimo Perdonò. Chiesti 4 anni per Angelo Abbruzzese, 12 anni a testa per Luigi Biscotti, Emilio Ivan D’Amato e Leonardo Lanza e Savino Lanza e 6 anni per Domenico D’Angelo. Ancora, 6 anni e 8 mesi per Antonio Miranda e Raffaele Palumbo, 10 anni per Alessandro Moretti (nipote di Rocco), Cosimo Damiano Sinesi e Antonio Salvatore, 10 anni e 8 mesi per Fausto Rizzi, 12 anni anche per Francesco Sinesi e Patrizio Villani.
Mafia foggiana, il tariffario dei clan: 50 euro a funerale e 300mila per un cantiere edile. “Paga o ti uccidiamo”. Ma quasi tutti negano ai pm. Oltre ai fratelli Vigilante, vittime di due attentati negli scorsi giorni, nelle carte dell'inchiesta Decima Azione il prezzo del racket agli imprenditori, minacciati con pistole e kalashnikov: "Fatti la valigia e vattene a casa, non abbiamo paura di uccidere le guardie e tuo zio insieme a loro. Vi incendiamo tutte le aziende che avete". Ma quasi nessuno ha raccontato la verità a poliziotti e carabinieri: "Non paghiamo, siamo onesti". Andrea Tundo il 18 gennaio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Cinquanta euro per ogni funerale chiesti a chi gestisce una ditta di onoranze funebri, centinaia di migliaia di euro estorti a chi aveva aperto un cantiere edile. In alcuni casi una percentuale fissa del proprio bilancio, il 5 per cento, da versare nelle casse della “Società”. Il tariffario della mafia foggiana è raccontato voce per voce nelle carte di Decima Azione, l’inchiesta del novembre 2018 che ha colpito i clan Moretti-Pellegrino-Lanza e Sinesi-Francavilla, padroni criminali di Foggia. Non ci sono solo Luca e Cristian Vigilante, i fratelli vittime di due attentati nelle prime settimane nel 2020, tra le persone che gli uomini delle batterie avevano deciso di avvicinare per imporre il pizzo.
La “cassa comune” e il “libro mastro” del pizzo. La città veniva battuta palmo a palmo, dalle officine ai resort, per le richieste estorsive tra minacce, schiaffi e pistole puntate alla fronte dagli uomini dei boss Rocco Moretti e Roberto Sinesi. Nelle 285 pagine firmate dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, Francesco Agnino, è ricostruita la tattica delle famiglie mafiose del capoluogo dauno che, come ricorda l’ultima relazione della Dia, avevano stabilito un “rapporto federativo” per la gestione di una “cassa comune” ed il controllo condiviso delle estorsioni. C’era un vero e proprio “libro mastro”, ritrovato dagli investigatori coordinati dalla Dda di Bari guidata dal procuratore Giuseppe Volpe, con l’elenco di chi pagava. Ma soprattutto ci sono le intercettazioni telefoniche a spiegare il modus operandi di chi oggi è imputato in un processo con rito abbreviato nel quale sono state chieste 25 condanne per un totale di 300 anni di carcere, ma durante il quale nessuna delle vittime si è costituita parte civile, come aveva raccontato Ilfattoquotidiano.it.
Il kalashnikov in faccia all’imprenditore. Chi più chi meno, pagavano tutti. Gli uomini dei clan “spremevano” ogni attività commerciale. All’imprenditore interessato all’acquisto di terreni del Comune di Foggia in località Borgo Incoronata che facevano gola ai clan lo avevano detto chiaro: “Ritirati o dacci 200mila euro”. Lo hanno inseguito e terrorizzato per due anni. Nel 2015 la prima minaccia, a maggio dell’anno successivo si mossero in quattro per ricordare cosa volevano e un mese più tardi ci avevano messo il carico. La Porsche dell’imprenditore venne costretta ad accostare: “Tu all’Incoronata non ci devi andare… altrimenti ti incendiamo il vivaio, il piazzale e ti spariamo”, dissero puntandogli la pistola alla tempia. Nella primavera di tre anni fa, l’uomo stava camminando nell’area pedonale di Foggia, quando venne affiancato da due persone. Un abbraccio e la solita minaccia: “O paghi o ti ammocchiamo (ti uccidiamo, ndr)”. A luglio, di nuovo: l’imprenditore è a bordo della sua auto blindata, viene bloccato e si ritrova di fronte due persone col volto travisato e in pugno pistole e kalashnikov. La richiesta è sempre la stessa: “L’auto blindata non ti basta, paga o ti ammazziamo”. Nei mesi successivi le minacce erano state rivolte anche a parenti e dipendenti: “Fatti la valigia e vattene a casa, non abbiamo paura di uccidere le guardie e tuo zio insieme a loro. Vi incendiamo tutte le aziende che avete”.
I 4mila euro per le festività e i 50 a funerale. Ma le richieste per foraggiare la cassa comune erano anche spicciole. Nell’ottobre 2017 avevano spillato 1.500 euro al proprietario di un agriturismo-resort: quando la Squadra mobile lo ha convocato, lui ha negato con forza e poi è corso ad avvisare gli uomini del clan per allertarli. Alla proprietaria di un negozio di alimentari e carni avevano estorto 4mila euro nel periodo natalizio e l’avevano avvisata che altrettanti ne avrebbe dovuti versare a Pasqua: finita di fronte ai carabinieri, nonostante l’eloquenza delle intercettazioni, ha negato tutto. Cinquecento euro al mese era la somma ottenuta invece da una barista nel quartiere Borgo Croci, alla quale avevano fatto capire che se non avesse pagato avrebbe subito diverse rapine. “Io non pago nessuno e sono onesta”, ha risposto la donna alla polizia giudiziaria negando l’estorsione. La stessa cifra era costretta a versare la proprietaria di una nota discoteca della città, ma ogni settimana. Al titolare di un’impresa di onoranze funebri avevano imposto un pizzo di 50 euro su ogni funerale svolto e, di fronte al ”no” della vittima, gli avevano mostrato la pistola che portavano addosso. Alla ditta di autodemolizione era toccato un versamento di 450 euro ogni fine mese.
“Ti facciamo saltare la testa per aria”. “Mo’ ti sei comprato il guaio, mo’ devi chiudere”, era stata la minaccia di Francesco Tizzano, considerato l’esattore dei clan, al titolare di un distributore di carburante con bar e rivendita pneumatici al quale aveva chiesto, insieme ad altre quattro persone, la somma di 1000 euro al mese. La risposta della vittima agli inquirenti? “Non li conosco e no ricordo nessun incontro. Forse uno è venuto per chiedere il preventivo di un cambio gomme”. Al proprietario di un’officina era tutto sommato andata “meglio”: gli avevano imposto di effettuare gratuitamente la riparazione delle moto che venivano usate dalle persone legate al clan. Nell’agosto 2017 era toccato a una ditta di imballaggi piegarsi al volere della Società foggiana: Tizzano aveva chiesto al proprietario di visionare i bilanci della società e di corrispondergli una somma di denaro pari al 5% del fatturato, “come avevano fatto gli altri”. E dopo erano iniziate le minacce anonime, ha riferito l’uomo agli inquirenti. “Pezzo di merda, mettiti a posto altrimenti ti faccia saltare la testa per aria”, gli ha detto un uomo al telefono nell’agosto di tre anni. Qualche settimana più tardi una lettera dello tenore, accompagnata da due proiettili calibro 7.65.
I costruttori edili stritolati e schiaffeggiati. Al socio di un’impresa edile era riusciti a spillare 3.800 euro al mese, mentre altri 25mila ne avevano chiesti – e ottenuti in più tranche – ai legali rappresentanti di una ditta che stava costruendo un edificio lungo corso Mezzogiorno. E se qualcuno osava dire no? C’è la ricostruzione degli inquirenti di una richiesta di tangente dell’estate 2017 a spiegarlo chiaramente. Tizzano, sempre lui, si presenta per conto dei clan in un cantiere di via Domenico Cirillo, quattro minuti a piedi dal Comando provinciale di carabinieri. Si mette di fronte all’ingegnere e responsabile tecnico della ditta al lavoro, al quale erano già stati chiesti 300mila euro nei mesi precedenti, e lo avvisa che avrebbe dovuto chiedere il “permesso” per lavorare in città: “Come è tu vieni da fuori e non bussi?”. E, di fronte a una prima risposta negativa della vittima, ha poi raccontato sotto intercettazione: “Gli ho tirato un cannalone”. Uno schiaffo, poi nuova minaccia: “Tieni due ore di tempo per smontare tutte cose… prepara 50mila euro e 4mila euro al mese senno’ ti devo uccidere”. I pubblici ministeri dell’Antimafia barese Lidia Giorgio e Federico Perrone Capano hanno chiesto per lui 18 anni di carcere: la pena più alta tra quelle formulate nel processo sulle estorsioni a tappeto. In città, è il sospetto viste le bombe di questo inizio di 2020, qualcuno deve aver preso il suo posto di esattore.
· La 'Ndrangheta tra politica e logge massoniche.
‘Ndrangheta stragista, la requisitoria del pm: “Tra il 1993 e il 1994 la storia d’Italia politica si incrocia con le esigenze dell’alta mafia”. Lucio Musolino su Il Fatto Quotidiano il 7 luglio 2020. “Tra il novembre 1993 e il gennaio 1994 la storia d’Italia politica, ma anche partitica, si incrocia con le esigenze dell’alta mafia”. Lo ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo durante la requisitoria del processo “‘Ndrangheta stragista” che vede alla sbarra, davanti alla Corte d’Assise, il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il referente della cosca Piromalli, Rocco Santo Filippone, accusati dell’omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo uccisi il 18 gennaio 1994 sull’autostrada. È agli sgoccioli il processo in cui l’accusa punta a dimostrare come la ’ndrangheta abbia partecipato a pieno titolo alla strategia stragista dei primi anni novanta. Ieri, nel corso del suo intervento, il procuratore Lombardo ha ricostruito le strategie politiche di Cosa nostra e ‘Ndrangheta all’indomani della vittoria del Pds alle amministrative dell’autunno 1993: “Achille Occhetto si sentiva già presidente del Consiglio. – ricorda il pm – Il rischio comunista non era finito. Quando il sistema di cui stiamo parlando ha capito che il rischio era alto, bisognava trovare delle alternative molto più solide”.Erano gli anni in cui le mafie avevano abbandonato la Democrazia cristiana e puntavano sui movimenti separatisti. La vittoria del Pds cambio le carte in tavola. “È quella – sottolinea il procuratore aggiunto – la fase in cui si abbandona il progetto portato avanti fino a quel momento per virare, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano deponendo in quest’aula, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi. Vi è un imbarazzante coincidenza organizzativa tra le sedi di Sicilia Libera e quelle di Forza Italia. Si vira pesantemente su quella che sarà Forza Italia. Ecco perché vi è piena coerenza tra la strategia stragista e la strategia politica di chi le stragi aveva organizzato: Cosa nostra, ‘Ndrangheta e altre componenti dello stesso sistema”. “La strategia stragista – conclude il magistrato – che doveva aprire varchi sempre più ampi ai nuovi soggetti che erano stati identificati. Ecco quello che dice Giuseppe Graviano in relazione alla richiesta chiara che le stragi non si dovevano fermare. Cosa nostra e ’Ndrangheta, in quel momento storico, contemporaneamente e all’unisono, compiono non solo la scelta di abbandonare i vecchi referenti politici, ma anche la scelta di dare sostegno ai medesimi nuovi soggetti”.
Graviano, la requisitoria: “Così Cosa nostra e ‘ndrangheta virarono su Forza Italia nel ’94”. Nella sua requisitoria al processo 'Ndrangheta stragista il pm Lombardo ha ricostruito il panorama politico tra il 1992 e i 1994, mentre Cosa nostra varava la strategia di attacco allo Stato a suon di bombe: "Si virò, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche deponendo in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi". E cita il proclama in aula di Piromalli nel '94 ("Voteremo Forza Italia") e le intercettazioni dell'ex deputato azzurro Pittelli dopo aver letto il fattoquotidiano.it: "Berlusconi è fottuto". Lucio Musolino e Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 6 luglio 2020. C’era “piena coerenza tra la strategia stragista e la strategia politica di chi aveva organizzato le stragi: Cosa nostra, la ‘Ndrangheta ed altre componenti dello stesso sistema”. Una strategia politica che prima punta sull’autonomismo, sulle Leghe meridionali. Poi vira e punta tutto su un partito nuovo: Forza Italia. È in questo modo che procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, ha ricostruito la “strategia politica” delle mafie tra il 1992 e il 1994, durante la sua requisitoria al processo ‘Ndrangheta stragista. Il processo di Reggio Calabria – Un periodo che è già stato al centro del processo celebrato a Palermo sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra: si è concluso nell’aprile del 2018 con pesanti condanne per boss, ufficiali dei carabinieri ed ex politici come Marcello Dell’Utri, che proprio di Forza Italia fu il fondatore. Adesso a Reggio Calabria, il pm Lombardo sta ricostruendo le responsabilità dei clan di ‘ndrangheta nell’attacco allo Stato a suon di bombe organizzato da Cosa nostra tra il 1992 e il 1994. E infatti imputati davanti alla corte d’Assise di Reggio Calabria ci sono due alti “esponenti” della due mafie: da un lato Giuseppe Graviano, il boss siciliano che custodisce il segreto delle stragi; dall’altra Rocco Santo Filippone, uomo della cosca Piromalli. I due sono accusati dell’omicidio dei due carabinieri, Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, assasinati il 18 gennaio 1994 nei pressi dello svincolo di Scilla. Il processo di Reggio Calabria ha guadagnato notorietà nei mesi scorsi perché è il procedimento in cui l’imputato Graviano ha deciso per la prima volta di aprire bocca per mandare una serie di messaggi trasversali. Durante una serie di udienze il boss di Brancaccio ha sostenuto di essere stato in affari con Silvio Berlusconi, grazie agli investimenti compiuti dal nonno a Milano negli anni ’70. Ha parlato di “imprenditori di Milano” che non volevano fermare le stragi. Ha invitato a indagare sul suo arresto, avvenuto al ristorante Gigi il cacciatore il 27 gennaio del 1994, per scoprire i veri mandanti delle stesse stragi. “C’era il rischio dei comunisti”- Le dichiarazioni in libertà del boss di Brancaccio, unite alle intercettazioni in carcere del 2016 e 2017, sono state citate più volte dal pm Lombardo nella sua requisitoria. Per la pubblica accusa, infatti, il duplice omicidio dei carabinieri prova come ci fosse una responsabilità della ‘ndrangheta nella strategia stragista del 92/94. Lombardo, nella sua ricostruzione che somma gli atti del processo Trattativa e dell’inchiesta di Roberto Scarpinato sui Sistemi criminali, è tornato indietro nel tempo fino all’autunno del 1993, quando alle amministrative si imposero i candidati sostenuti dal Pds di Achille Occhetto. “C’era il rischio comunista e quando il sistema, di cui ci stiamo occupando in questo processo – ha detto il Pm – l’ha capito, la storia politica si è incrociata con le esigenze dell’alta mafia. Fino ad allora si credeva che i movimenti separatisti potessero avere senso, ma bisognava trovare delle alternative molto più solide e si virò, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche deponendo in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi“.
La mafia autonomista – Il rappresentante della pubblica accusa ha ripercorso le strategie politiche seguite nelle mafie già nei primi anni ’90, quando dalla Sicilia al Centro Italia cominciano a nascere una serie di movimenti separatisti, le cosiddette Leghe meridionali: vengono tutte create su input di esponenti di Cosa nostra, della ‘ndrangheta, della Camorra. Ma anche della massoneria e dell’estremismo nero. “Abbiamo sentito parlare di più di Sicilia Libera che dei movimenti nati nelle altre regioni. La prima componente è Calabria Libera che viene fondata a Reggio Calabria circa un anno prima rispetto a Sicilia Libera”, fa notare il magistrato, che insiste spesso su questo punto. “La ‘ndrangheta e Cosa nostra sono un’unica entità criminale. Noi abbiamo la prova che i rapporti tra la componente siciliana e quella calabrese sono stati rapporti intensi. Un sistema che si autoalimenta e che gestisce capitali di grande rilievo. È noto che il peso economico diventa peso politico”.
Da Gelli a Miglio a B. – Quello del procuratore aggiunto è un racconto che incrocia figure note nei misteri del paese: come il maestro venerabile della P2, Licio Gelli. “Abbiamo la certezza che le componenti mafiose hanno aderito al progetto di Gelli. I reali ispiratori dei movimenti separatisti vanno oltre la figura di Gelli”. E ancora l’ideologo della Lega Nord, Gianfranco Miglio: “Disse di essere per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Ritengo che Miglio non ha utilizzato a caso il riferimento di mafia e ‘ndrangheta“. Insomma, mentre saltano in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, mentre vengono ordinate le stragi di Firenze, Roma e Milano, i clan pensano di staccare il Sud dal resto d’Italia puntando sulle Leghe. Solo che a un certo punto il progetto separatista viene abbandonato e le mafie convogliano il loro supporto su Forza Italia, parallelamente alla strategia di attacco allo Stato: “La strategia stragista – ha detto Lombardo – doveva mettere la vecchia classe politica con le spalle al muro per aprire varchi alla nuova classe politica. Questo ce lo conferma Graviano. Cosa nostra e ‘ndrangheta in quel momento storico, contemporaneamente e all’unisono, non solo abbandonano i vecchi referenti politici ma decidono di dare sostegno a questi nuovi soggetti”. Chi sono questi nuovi soggetti? Forza Italia. “Quella – ha continuato il pm – è la fase in cui bisognava trovare delle alternative molto più solide e si vira, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche deponendo in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi. È questo il momento in cui si vira in quella che sarà Forza Italia. Vi è un imbarazzante, per la storia, coincidenza tra le sedi di Sicilia Libera e le prime sedi di Forza Italia”.
Il boss di ‘ndrangheta: “Voteremo Berlusconi” – Il magistrato, a sostegno dei fatti ripercorsi durante la sua requisitoria, ha citato decine e decine di collaboratori di giustizia. Ma anche tre episodi che niente hanno a che vedere con i pentiti. Il 24 febbraio del 1994 l’Italia è in piena campagna elettorale: la prima Repubblica è crollata sotto i colpi di Tangentopoli e dopo un mese il Paese sarebbe tornato a votare. Al tribunale di Palmi era in corso il processo a Giuseppe Piromalli, capostipite della cosca di Gioia Tauro, padre dell’omonimo boss (soprannominato “Facciazza“) che verrà arrestato anni dopo accusato anche di estorsione ai danni dei gestori dei ripetitori Fininvest. L’anziano padrino decise quel giorno di prendere la parola. E dalla sua cella gridò: “Voteremo Berlusconi, voteremo Berlusconi“. “Non è stata presa una posizione chiara e precisa dicendo che quei voti non li si voleva”, contesterà Achille Occhetto al leader di Forza Italia durante un confronto radiofonico pochi giorni dopo. La replica del futuro premier è surreale: “‘Non credo che nessuno possa sapere con certezza per chi voterà la mafia, non so nemmeno se sia ipotizzabile un voto compatto della mafia. È un fenomeno che confesso di non conoscere in modo approfondito.
L’intercettazioni di Pittelli: “Berlusconi è fottuto” – “Noi abbiamo elementi di valutazione che vanno oltre l’accidentale e che ruota intorno alla chiave di lettura che ci fornisce un parlamentare di Forza Italia”, ha poi commentato il procuratore aggiunto Lombardo. Riportando un secondo elemento di riscontro alla sua ipotesi accusatoria: un’intercettazione dell’avvocato Giancarlo Pittelli, ex parlamentare calabrese di Forza Italia, considerato il trait d’union tra massoneria e clan. È il 20 luglio 2018 e Pittelli dice: “La prima persona che dell’Utri contattò per la formazione di Forza Italia fu Piromalli di Gioia Tauro”. “Per fortuna – ha commentato il pm – Pittelli non è un passante, ma è stato per 13 anni parlamentare di Forza Italia. Questa è la fonte qualificata che ci insegnavano come va valutato il peso probatorio di un elemento”. E se non bastasse Lombardo ha ricordato anche l’inizio di quella conversazione di Pittelli, che al telefono dice a un suo interlocutore: “Senti, sto leggendo questa storia che hanno riportato sul Fatto Quotidiano della trattativa stato Mafia”, dice l’ex parlamentare il 20 luglio del 2018. Il riferimento a un articolo che riportava le motivazioni del processo sul Patto tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. Quel procedimento individua il primo governo Berlusconi come parte lesa del ricatto allo Stato. Il commento di Pittelli, però, è di tenore diverso: “Berlusconi è fottuto…Berlusconi è fottuto”.
Dalla Calabria allo stadio Olimpico: carabinieri nel mirino – Insomma, secondo il pm Lombardo, in pratica, l’omicidio dei due militari Fava e Garofalo è la prova che la ‘ndrangheta condivise in pieno la strategia di attacco allo Stato varata da Cosa nostra e dai Graviano. D’altra parte sono proprio i carabinieri l’obiettivo dichiarato da Graviano. Il 23 gennaio del 1994 – cinque giorni dopo il duplice omicidio calabrese – Gaspare Spatuzza avrebbe dovuto fare esplodere una Lancia Thema imbottita di tritolo e tondini di ferro nei pressi di un autobus che trasportava decine di carabinieri del servizio d’ordine dello stadio Olimpico durante Roma-Udinese. Quell’attentato, però, fallì per un difetto al telecomando. “Se, invece, fosse riuscito ed avesse, quindi, determinato la morte di un così rilevante numero di carabinieri, avrebbe con ogni probabilità veramente messo in ginocchio lo Stato pressoché definitivamente dopo la sequenza delle gravissime stragi che si erano già susseguite dal 1992, ciò tanto più che l’ulteriore strage (la più grave per numero di vittime) sarebbe intervenuta in un momento di estrema debolezza delle Istituzioni”, hanno scritto i giudici della corte d’Assise di Palermo che hanno celebrato il processo sulla Trattativa.
Un gennaio frenetico – Due giorni dopo il fallito attentato all’Olimpico, Berlusconi ufficializza la sua discesa in campo, il 27 gennaio – 24 ore dopo il famoso discorso sull’Italia “è il Paese che amo” – Graviano viene arrestato. “Non è che la fretta di Graviano per portare a termine il fallito attentato all’Olimpico era legata al fatto che la settimana dopo sarebbe stata annunciata la discesa in campo di Berlusconi?“, si è chiesto il pm Lombardo durante l’ultima udienza. È un fatto che il bar Doney di Roma, il posto dove il 21 gennaio Graviano incontra Spatuzza per dargli l’ordine di dare un altro “colpetto“, dista solo poche centinaia di metri dall’hotel Majestic dove in quei giorni Dell’Utri era impegnato in una serie d’incontri preparatori alla discesa in campo. Uno dei dipendenti dell’albergo, interrogato dalla Dia di Reggio Calabria, oggi ricorda che Dell’Utri incontrava alcuni soggetti di “chiara provenienza calabrese e siciliana, dal momento che parlavano con marcato accento dialettale da me conosciuto per le mie origini calabresi”. Chi erano quei siciliani e quei calabresi incontrati da Dell’Utri proprio nei giorni in cui veniva lanciato il partito azienda di Berlusconi? Hanno niente a che vedere con gli incontri del siciliano Graviano nel vicinissimo bar di via Veneto?
Silvio Berlusconi, fango contro il leader FI: "Aiutato dalla 'ndrangheta", così il procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Libero Quotidiano l'8 luglio 2020. Non bastassero le nuove rivelazioni sul «plotone di esecuzione» organizzato per fare fuori il Cav per via giudiziaria all'epoca del processo Mediaset, ora spunta la pista 'ndranghetista per gettare altro fango sul leader di Forza Italia. Curioso che risbuchi fuori ora che Silvio Berlusconi è tornato così attivo sullo scacchiere politico e ventila nuovi scenari affinché il Paese esca dallo stallo, ma tant' è. La faccenda, su cui andrà a nozze il Fatto quotidiano, riguarda stavolta la requisitoria del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, nel corso del processo "Ndrangheta stragista" che vede imputati davanti alla Corte d'Assise Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio, e Rocco Santo Filippone, esponente della cosca Piromalli, accusati dell'omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo, consumato il 18 gennaio 1994 a Scilla. Nel corso del suo intervento il pm ha analizzato il panorama politico tra l'autunno del 1993, quando il Pds di Achille Occhetto stravinse le amministrative, e il 1994. «C'era il rischio comunista e quando il sistema l'ha capito», ha detto il pm, «la storia politica si è incrociata con le esigenze dell'altra mafia. Fino ad allora si credeva che i movimenti separatisti potessero avere senso, ma bisognava trovare delle alternative più solide e si virò, come ci ha raccontato Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Berlusconi». lo dice graviano In sintesi, prendendo per buone le deposizioni di Graviano, Cosa nostra e 'ndrangheta, in quel momento storico, «non solo abbandonano i vecchi referenti politici ma decidono di dare sostegno a questi nuovi soggetti». Ma non è tutto. Nella stessa requisitoria viene riesumato un processo celebrato a Palmi nel febbraio del '94. In quell'occasione il boss Pino Piromalli avrebbe detto: «Voteremo Berlusconi», quindi apriti cielo. L'episodio 24 anni dopo si incrocia con un'intercettazione registrata nell'ambito dell'inchiesta "Rinascita-Scott" della Dda di Catanzaro.
Graviano, Spatuzza, gli incontri al bar Doney di via Veneto: non è la prima volta che il boss soprannominato "Madre natura" tira in ballo Berlusconi, il quale ha sempre smentito: «Le parole di Graviano sono infondate». Ma chissà come mai certe ricostruzioni hanno sempre avuto vasta eco su alcuni giornali, che hanno riempito pagine di intercettazioni contro Berlusconi, invece oggi di fronte a una registrazione audio in cui un giudice, Amedeo Franco, membro della sezione feriale che nell'agosto del 2013 condannò l'ex premier per il processo Mediaset, ammise che fu una sentenza pilotata, c'è il silenzio. Manettari zitti pure sul verdetto del tribunale civile di Milano che ribalta la sentenza penale. Imbarazzi e scarse reazioni, finora, anche al nuovo scoop di Quarta Repubblica di Porro in cui tre persone sono sicure di avere sentito Antonio Esposito, il presidente di quello stesso collegio di Cassazione che inflisse la condanna definitiva al leader azzurro, definire Berlusconi «una chiavica», cioè «fogna» con l'aggiunta di una profezia che poi si confermerà tale: «Se mi capita gli devo fare un mazzo così a Berlusconi». In pratica, l'opposto di quando si dice che la legge è uguale per tutti e un giudice deve essere imparziale. L'ex presidente del Consiglio si è sfogato con i suoi: «Sono ormai chiare a tutti le ragioni di questi 26 anni di persecuzione giudiziaria. Chiediamo una commissione parlamentare perché vogliamo sia fatta chiarezza. Non è un dovere nei miei confronti, ma nei confronti degli elettori, anche quelli che non votano Fi». Quindi, ieri, il Cav tecnologico ha tenuto via Zoom una riunione con il coordinamento del partito. Si è parlato degli aiuti per fronteggiare l'emergenza Covid (i pacchi alimentari a Verbania), ma anche di legge elettorale (maggioritario) e scenari futuri. Silvio ha confermato la linea del «mai accordi con la sinistra». Il vicepresidente Tajani è convinto che il M5S si spaccherà e se cadrà questo governo e non saranno sciolte le Camere, una parte dei grillini confluirà nel centrodestra. Gli alleati di Lega e Fdi, però, non ne vogliono sapere: «Ok Silvio senatore a vita, ma niente governo di unità nazionale», ha ribadito Giorgia Meloni».
Così il processo alla 'ndrangheta stragista vuole riscrivere un pezzo di storia d'Italia. Il ruolo della mafia calabrese nella stagione delle stragi, i legami con Cosa Nostra, la ricerca di referenti politici, il ruolo della nascente Forza Italia. Finalmente si ricostruiscono verità rimaste nascoste per troppo tempo. Alessia Candito l'1 luglio 2020 su L'Espresso. Via Palestro a Milano dopo l'esplosione della bombaSono memoria condivisa da Palermo a Milano. E per l’Italia intera sono una tragedia collettiva. Ma nella ricostruzione delle stragi di mafia che negli anni Novanta dalla Sicilia sono tracimate in continente con bombe e attentati manca un pezzo. A quel progetto eversivo ha partecipato anche la ‘ndrangheta. E con un ruolo da protagonista. Per decenni è riuscita a nasconderlo, trasformando i tre attentati calabresi contro i carabinieri, con cui l’élite dei clan ha firmato quel patto, nella “bravata” di due picciotti in cerca di armi e gloria. Ma un processo ha smontato «un’inaccettabile mistificazione che dura da trent’anni». Parole del procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, che ha coordinato quell’inchiesta, diventata un processo di tre anni e 127 udienze. E che adesso si avvia alla conclusione.
La ‘Ndrangheta stragista degli anni Novanta. «Con le stragi per noi il tempo si è fermato in un eterno presente che diventerà altro solo quando la verità verrà ricostruita fino in fondo» dice il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. È stato lui, con l’iniziale collaborazione di Francesco Curcio, all’epoca in Dna, a cercare le tracce e stanare l’ombra dei clan calabresi dietro le bombe di via Palestro a Milano, agli Uffizi di Firenze, a San Giovanni a Roma. È stato lui a comprendere che i tre attentati mirati organizzati tra il dicembre ’93 e il gennaio ’94 nei pressi di Reggio Calabria contro i carabinieri, incluso quello costato la vita ai brigadieri Fava e Garofalo, sono uno dei tributi che la ‘Ndrangheta ha offerto a quella stagione di sangue e alle trattative a cui puntava. Ma soprattutto che anche cronologia e geografia delle stragi vanno aggiornate. Perché gli attentati calabresi sono l’omega di quella di quella scia di sangue, che sempre in Calabria ha avuto inizio. La violenza mafiosa – spiega Lombardo - si trasforma in «un disegno eversivo peculiarmente terroristico» non nel marzo ’92, con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, ma nel giugno ’91, un paio di mesi prima dell’agguato costato la vita al giudice Nino Scopelliti, ammazzato nei pressi di Reggio Calabria il 9 agosto di quell’anno, mentre preparava l’accusa nel maxi-processo contro la Cupola palermitana in Cassazione. Intuizioni trasformate in un’inchiesta che scrive un altro pezzo di storia d’Italia, arrivata indenne ad un processo giunto ormai alla requisitoria. Alla sbarra però non ci sono solo calabresi. Oltre a Rocco Santo Filippone, espressione limpida dello storico casato dei Piromalli di Gioia Tauro, per l’accusa delegato dalla ‘Ndrangheta tutta nella gestione delle stragi calabresi, imputato c’è anche il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano. Il killer di don Pino Puglisi, il capo-mandamento che ha ordinato le stragi del 92-93 e per questi ed altri reati ha collezionato ergastoli, ha avuto un ruolo anche in Calabria. E lui stesso – forse involontariamente, forse no – lo ha confermato. «Ha fornito un contributo dichiarativo enorme, liberamente reso su temi che lui stesso ha introdotto» spiega il procuratore.
L’insostituibile (e involontario) contributo di Graviano. A Reggio Calabria, il boss di Brancaccio ha rotto un silenzio, interrotto solo da estemporanee proteste e dichiarazioni, che durava da decenni. E nel processo che per la prima volta racconta il ruolo della ‘Ndrangheta negli anni delle stragi, ci ha tenuto a sottolineare che c’erano anche pezzi di istituzioni, di poteri palesi ed occulti, di imprenditoria, di massoneria che in quella fase hanno avuto un ruolo. Una conferma dell’ipotesi dell’accusa secondo cui «le mafie – spiega Lombardo - avevano capito che, modificandosi lo scenario a livello internazionale e nazionale, bisognava muoversi per tempo, individuando nuovi referenti politici». Un’esigenza condivisa con pezzi di istituzioni, di politica, di massoneria, di intelligence che all’ombra della cortina di ferro – sostiene la procura - avevano costruito il proprio potere come “antidoto” all’influenza del blocco sovietico e venuto giù il muro di Berlino hanno forzato la mano per mantenerlo. Dagli uomini di Gladio alla massoneria di Gelli, dai settori dei servizi impiegati nelle operazioni Stay Behind a chi per anni ne ha dettato le priorità strategiche, insieme alle mafie in quella partita giocavano in molti. Tutti – sostiene la procura di Reggio Calabria – con lo stesso scopo. «Una strategia gattopardesca per mantenere gli equilibri di potere inalterato», spiega il procuratore, un’opera di ristrutturazione del potere che lo mantenesse identico a se stesso, in cui bombe, sangue e terrore indiscriminato era un mezzo e non un fine. «Una tattica servente ad una strategia più alta». Un modo per obbligare tutti a sedersi al tavolo, senza lasciar fuori nessuno. A cercare una soluzione condivisa, poi individuata – emerge dall’inchiesta – nel progetto politico di Forza Italia. E tutto questo Graviano lo ha a modo suo confermato. A sorpresa, per la prima volta nella sua lunga storia di processi ha deciso di sottoporsi all’esame. Per quattro udienze ha parlato, lanciato messaggi, detto e non detto. Le sue non sono state certo dichiarazioni limpide e cristalline o una confessione. Ma il boss di Brancaccio si è incastrato con le sue stesse parole. Quelle delle chiacchierate intercettate in carcere con il camorrista Umberto Adinolfi che hanno svelato i rapporti diretti con Silvio Berlusconi, rivendicate come «unica cosa vera» in aula, e quelle dette in dibattimento.
I messaggi di Graviano decifrati dalla procura. «Graviano – dice Lombardo – è un imputato che ha diritto di mentire, ma le sue dichiarazioni in aula trovano conferma nelle sue intercettazioni in carcere, fino a prova contraria da considerarsi genuine». Di fronte a Corte d’Assise, pm e avvocati, Graviano ha parlato da boss e giurando di essere vittima di un complotto, ha puntato il dito contro Berlusconi, accusandolo di avere beneficiato dei soldi della sua e di altre famiglie siciliane senza mai averli restituiti, ha confermato di aver avuto incontri regolari e riunioni con il padre padrone di Forza Italia, prodotto politico di cui – ha detto in modo chiaro il boss di Brancaccio – lui e i suoi erano stati informati prima dell’ufficiale “discesa in campo”. Affermazioni che il diretto interessato si è affrettato a smentire tramite i suoi legali, mentre in aula – udienza dopo udienza – Graviano alzava il tiro. Senza mai arrivare a farle, ha promesso o minacciato rivelazioni sulla classe politica di quegli anni, quella che non voleva che le stragi si fermassero e quella che cercava contatti «con gli amici di Enna», lì dove si riuniva la Cupola, per capire cosa stesse succedendo e fermare quelle bombe. «E no, Berlusconi non era fra questi ultimi» ha detto il boss in aula. E il banchetto coperto di faldoni, blocchi di appunti, pizzini dietro cui stava seduto, in video-collegamento dal carcere di Terni è diventato un pulpito per lanciare messaggi. A pezzi dell’intelligence con cui dice di non essere mai stato a contatto ma di cui può raccontare, a chi «ha fatto di tutto per farmi parlare». Ai carabinieri «che devono dire come sono andati i fatti». Ai misteriosi «imprenditori milanesi» che i clan siciliani avrebbero finanziato. A chi «ancora tiene nei cassetti le carte» che potrebbero dire molto sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino e su «chi ha preso l’agenda rossa di Paolo Borsellino». Nelle intenzioni di Graviano, messaggi forse più diretti fuori dall’aula, che alla Corte e alle parti. Ma che hanno interlocutori precisi, espressione di mondi che secondo l’accusa erano coinvolti nella strategia eversiva di quegli anni. «Usciamo fuori da prudenze verbali – tuona il procuratore - In questo Paese si sono mosse tutta una serie di forze che a fianco delle mafie sono diventate forze mafiose. Quello che è successo in Italia, non è contatto, ma compenetrazione fra mondi che hanno obiettivi comuni. Ma – aggiunge – non bisogna fare l’errore di considerare tutto mafia. È sbagliato dire che il contatto con le mafie ha trasformato apparati istituzionali, la politica, in forze mafiose. Pezzi singoli sono diventati mafiosi. Noi non siamo la nazione che agevola la mafia. Noi abbiamo un grande problema che sono le mafie e il nostro compito è stanare tutte le componenti mafiose».
Tutte le strade portano a Forza Italia. Anche per questo gli investigatori di Squadra Mobile e Servizio centrale antiterrorismo, per ordine della procura, hanno cercato riscontri alle sibilline indicazioni che Graviano ha dato. E sono stati trovati. Altri sono arrivati dal dibattimento. Si è scoperto e c’è la prova, che tutti gli attentati, omicidi, bombe di quella stagione sono stati firmati come Falange Armata, sigla – dicono collaboratori calabresi e siciliani – indicata da ambienti dei servizi. Che alcuni degli obiettivi di quella stagione sono stati indicati da chi delle mafie non era parte o comunque non solo. Che il Goi, la più grande obbedienza massonica dell’epoca – lo ha detto chiaramente – il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo – era irrimediabilmente controllato dalle mafie, che – ha specificato il pentito Cosimo Virgiglio – hanno sempre usato le logge per entrare in contatto con ambienti diversi, insieme a cui sviluppare comuni progetti, dal riciclaggio al controllo elettorale. Sono saltati fuori tabulati, intercettazioni e testimonianze che negli anni delle stragi collocano il boss di Brancaccio in Sardegna, nei pressi della villa di Berlusconi, o al bar Doney, in via Veneto, dove Spatuzza e Graviano si incontravano per progettare il fallito attentato all’Olimpico, a pochi passi dall’albergo in cui, esattamente negli stessi giorni, Forza Italia ultimava la “discesa in campo” ufficiale di Berlusconi e Marcello Dell’Utri – dicono recentissime testimonianze raccolte – «incontrava calabresi e siciliani interessati al nuovo progetto politico». Rileggendo e attualizzando vecchie carte, si è scoperto che negli stessi anni in cui le famiglie siciliane inviavano miliardi poi serviti per «investimenti immobiliari, le televisioni, tutto» ha detto in aula il boss di Brancaccio, in Calabria Angelo Sorrenti «un imprenditore dei Piromalli» veniva portato alla corte di Publitalia e scelto come referente calabrese per la costruzione di Fininvest. Piste – ed anche questo è emerso in modo chiaro– già apparse in passato e inspiegabilmente ignorate. Per l’accusa, una conferma che è su Forza Italia che ha trovato la quadra quella stagione di sangue e trattative, di bombe e abboccamenti, di tentativi, sperimentazioni, di cui sono state protagoniste le mafie tutte, ma non solo. «Il concetto di tempo – afferma il procuratore Lombardo - è uno degli interrogativi che l’uomo porta con sé da sempre: la percezione del tempo è soggettiva o oggettiva? E come si misura? L’unità di misura internazionale del tempo è il secondo. Ragionando in secondi, dal primo febbraio del 1994 che è l’ultimo episodio su cui ci troviamo ad occuparci in questa sede, abbiamo aspettando la verità da 819milioni933mila secondi». Ed è necessaria e urgente una ricostruzione complessa che vada oltre «le verità sottobanco, il compromesso, le scorciatoie, il silenzio e la paura». E la verità sulle stragi, «abbiamo il dovere di chiederla come cittadini, abbiamo il dovere di cercarla come magistrati del pubblico ministero, avete il compito di affermarla voi giudici. Costi quel che costi, perché altrimenti quelle stragi non saranno mai passato. Oggi viviamo un eterno presente da cui dipende il nostro domani».
La mappa della 'ndrangheta tra politica e logge massoniche. Dallo Stretto di Messina alle Alpi, La pervasività delle ’ndrine è scolpita con dati e numeri sulla carta di centinaia di fascicoli: soltanto nel 2019 sono state portate a termine 40 inchieste in tutta Italia. Oltre tre al mese, quasi un migliaio tra indagati e arrestati. L'Espresso il 10 gennaio 2020. i capi invisibili della 'ndrangheta. La mappa delle “Locali”(gruppi strutturati) della ’ndrangheta, degli ultimi casi (2019) di politici indagati per rapporti con i boss e degli scioglimenti dei comuni per infiltrazione dei clan calabresi (dati: Avviso pubblico). E le cinque province della Calabria con il numero di “Locali” e di singoli clan (dati: Procura nazionale antimafia e Dia) e le logge massoniche emerse dai racconti dei pentiti e dalle inchieste. La provincia di Reggio Calabria conta 72 “Locali”: 27 lato jonico, 37 area città, 9 fascia tirrenica.
Così la 'ndrangheta ha conquistato i potenti del Nord Italia. L'ultimo mese del 2019 ha segnato un record: tre operazioni sopra il Po con big della politica coinvolti in inchieste sui clan calabresi. Governatori, assessori regionali, consiglieri comunali indagati. Ed elezioni influenzate. La conferma di quanto la mafia calabrese sia radicata nel Paese. Giovanni Tizian il 09 gennaio 2020 su L'Espresso. Finanza, affari, politica. Dal network dell'avvocato, ex senatore e massone, Giancarlo Pittelli, uomo, secondo i pm di Catanzaro, del boss Luigi Mancuso. Ai tentacoli della 'ndrangheta stretti attorno ai potenti del settentrione. Il canovaccio criminale segue le stesse regole. Lasciando la Calabria, cambiano i cognomi dei padrini, ma non la ritualità con la quale la ’ndrangheta organizza il banchetto per sedurre il potere. A giugno scorso la procura antimafia di Bologna ha messo sotto inchiesta 80 persone: uomini della cosca Grande Aracri e anche l’allora presidente del consiglio comunale di Piacenza, Giuseppe Caruso (Fratelli d’Italia, poi sospeso). Un’indagine che segue la sentenza storica del maxi processo Aemilia, dove il pm Beatrice Ronchi ha ottenuto tra rito ordinario e abbreviato 160 condanne su un totale di 200 imputati. Alla sbarra capi clan ma anche colletti bianchi, politici e imprenditori emiliani doc.
Il 2019 sarà ricordato a lungo in Valle d’Aosta. All’ombra del Monte Bianco comandando le ’ndrine originarie di San Luca, paesino ai piedi dell’Aspromonte: pioniere nella globalizzazione della mafia calabrese, le prime a creare un network del narcotraffico mondiale con basi strategiche in Germania, Belgio, Olanda e Sud America. Nella regione alpina più piccola d’Italia hanno trovato una calorosa accoglienza. Perciò hanno puntato in alto, alla politica, seguendo il protocollo che conoscono a memoria. Risultato? Il governatore della Regione Antonio Fosson (già Union Valdôtaine, poi Stella Alpina) è indagato per voto di scambio, si è dimesso dopo la notizia del suo coinvolgimento. L’inchiesta della procura di Torino, in realtà, rivela molto altro: non il solo Fosson avrebbe chiesto voti alla ’ndrangheta dei Nirta di San Luca, ma anche i due governatori precedenti. Nelle inchieste sulle ’ndrine in Valle spunta anche il nome di Augusto Rollandin, ras della politica locale: più volte governatore della Regione, è stato assessore e anche senatore, a capo per tre anni del partito Union Valdôtaine, a marzo scorso condannato in primo grado per corruzione. E seppure non risulti indagato, avrebbe incontrato uno degli emissari del boss Nirta. Nella rete dell’antimafia sono rimasti impigliati pure pesci piccoli della politica aostana: assessori regionali e consiglieri comunali. Vista dal suo crinale oscuro, Aosta non sembra distante 1500 chilometri da San Luca.
MILANO-TORINO. I voti come i soldi non hanno odore. Regola valida anche in Piemonte. Qui, sempre a dicembre, un altro pezzo da novanta della politica è finito sotto inchiesta per i voti comprati dai boss. Per Roberto Rosso, assessore regionale del centrodestra (Fratelli d’Italia), sono scattate le manette. Secondo i pm di Torino ha acquistato un pacchetto di voti al prezzo di 15 mila euro, 7.900 già pagati. L’ormai ex assessore si è difeso sostenendo che quei soldi servivano per la campagna elettorale. Rosso è stato deputato di Forza Italia dal 1994 al 2013, è stato sottosegretario e vice presidente della Regione ai tempi della giunta leghista di Roberto Cota. La ’ndrangheta in Piemonte ha una storia antica. Il primo Comune sciolto per infiltrazioni della mafia al Nord è Bardonecchia. A metà anni ’90 le ’ndrine si erano prese già tutto. I mercati più redditizi, gli appalti, i servizi. E anche la politica. Che finge di non saperlo. Così dopo Bardonecchia, in anni assai più recenti, sono stati sciolti due Comuni della cintura torinese. Il timbro delle cosche è evidente pure sull’alta velocità che conduce da Torino a Milano. Inchieste di qualche anno fa hanno dimostrato l’ingerenza delle cosche nei subappalti per la realizzazione dei lavori del tratto ferroviario. Nella capitale morale d’Italia la ’ndrangheta è la vera protagonista del crimine. In centro, come in ogni paese dell’hinterland, dove gli inquirenti e i processi hanno accertato l’esistenza di almeno due dozzine di “Locali” (gruppi radicati sul territorio). A finire nella rete sono spesso politici, accusati di complicità con le ’ndrine padane: l’ultimo a giugno scorso, un consigliere comunale di Fratelli d’Italia, Enzo Misiano eletto a Ferno, provincia di Varese.
Un supertestimone svela i segreti della massoneria collusa con la 'ndrangheta. Giovanni Tizian su L'Espresso il 10.01.2020. Come e dove si incontrano crimine e potere, ’ndrina e politica? Seguire questa pista ci porta sull’uscio di templi massonici, frequentati da avvocati, medici, imprenditori, magistrati, prelati, forze dell’ordine, boss e loro emissari. Tutti insieme nella stessa loggia. Tra i primi a capirlo è stato Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto a Reggio Calabria. Dalla Locride, per esempio, arriva una gola profonda che ha raccontato ai magistrati i segreti delle logge di quel territorio bagnato dallo Jonio. Nei verbali letti da L’Espresso c’è la geografia dei “grembiulini” del territorio, racconta chi sono i boss affiliati alle logge e fa il nome anche di don Pino Strangio, il potente parroco di San Luca, che vanta solide sponde in Vaticano e fino a qualche tempo fa era il priore del santuario di Polsi, luogo sacro e di riunioni della ’ndrangheta. Don Strangio è attualmente imputato nel processo Gotha sul livello occulto della mafia calabrese insieme all’ex senatore Antonio Caridi. Don Pino «è un massone anche se non risulta ufficialmente registrato», rivela il testimone, e precisa: «Fa parte anche dei “Cavalieri di Malta” da circa 12 anni, così come anche tale Nirta di San Luca con il quale il prelato si è recato a Malta per essere insigniti dell’Ordine». Le cinque province della Calabria con il numero di “Locali” e di singoli clan (dati: Procura nazionale antimafia e Dia) e le logge massoniche emerse dai racconti dei pentiti e dalle inchieste. La provincia di Reggio Calabria conta 72 “Locali”: 27 lato jonico, 37 area città, 9 fascia tirrenica. Il super testimone ha poi raccontato che dopo un’importante indagine antimafia alcuni “fratelli” di loggia hanno modificato i registri «per eliminare i riferimenti alle persone coinvolte nell’operazione». Inoltre ha spiegato che della «loggia di Locri» facevano parte «molti professionisti, appartenenti alle forze dell’ordine e persino religiosi» e che «alcuni confratelli non sono inseriti nei registri ufficiali, per ragioni di opportunità». Ci sarebbero anche logge chiuse ufficialmente e poi riattivate, con a capo, sostiene il testimone, rampolli della ‘ndrangheta di San Luca. Nulla di illegale, certo. Indossare un grembiule massonico non è reato: in Calabria sono oltre 9 mila gli iscritti sparsi in 178 logge regolari, 57 sono state sciolte dalle varie obbedienza. Giancarlo Pittelli, massone ed ex senatore di Forza Italia ora vicino al partito di Giorgia Meloni, ha messo a disposizione del padrino Luigi Mancuso il suo network. Ecco tutti nomi, dall'ex Mps Giuseppe Mussari all'ex Unicredit Fabrizio Palenzona. Molte di quelle “sospese” erano frequentate da ’ndranghetisti o loro fedelissimi. Al fianco delle logge registrate, però, sopravvivono quelle coperte fa notare il teste: «non fornivano le liste dei nomi e degli indirizzi contrariamente a quanto previsto dal “decreto Anselmi”». Prima di Natale è finito nei guai un pezzo grosso della massoneria calabrese: Ugo Bellantoni, gran maestro onorario della più importante loggia di Vibo Valentia, la Michele Morelli (Grande Oriente d’Italia). Indagato per concorso esterno alla mafia nella stessa inchiesta che ha travolto il “fratello” massone Giancarlo Pittelli. Bellantoni è tra quei massoni in «rapporti con la ’ndrangheta», accusa il pentito Andrea Mantella, «nel senso che gli chiedevano favori e loro si mettono a disposizione». Fratelli di ’ndrangheta e fratelli di loggia, più o meno ufficiale. Un altro collaboratore di giustizia, Marcello Fondacaro, ripercorre i suoi inizi a Roma: affiliato prima a Roma alla Giustinianea, poi si trasferisce in Calabria. Qui ricorda una riunione in una loggia coperta, nella Locride, in un hotel di una famiglia mafiosa. Gli fecero capire che era un’articolazione nata sulle ceneri della P2. Un sistema criminale, appunto.
Strangio non è un nostro Cavaliere. L'Espresso il 14 gennaio 2020. In merito all'articolo “Ndrangheta Italia” (L’Espresso n. 3), si precisa che don Pino Strangio non ha alcun legame con il Sovrano Ordine di Malta. L’affermazione secondo cui un supertestimone avrebbe dichiarato che il religioso «Fa parte anche dei “Cavalieri di Malta” da circa 12 anni, così come anche tale Nirta di San Luca con il quale il prelato si è recato a Malta per essere insigniti dell’Ordine» è dunque assolutamente priva di fondamento. Come evidenziato sul sito ufficiale dell’Ordine di Malta diverse organizzazioni nel mondo usano il nostro nome con finalità non collegate con gli scopi e la tradizione dell’Ordine di Malta. Queste associazioni perseguono soprattutto scopi di lucro, organizzando investiture. Il Sovrano Ordine di Malta ha una storia di quasi 1000 anni, dal 1834 ha sede a Roma. Ente primario di diritto internazionale, intrattiene rapporti diplomatici con 109 Stati tra cui la Repubblica Italiana e la Santa Sede, ed ha rappresentanze ufficiali presso le Nazioni Unite, l’Unione Europea e numerose Organizzazioni Internazionali. Le attività svolte in oltre 120 Paesi del mondo si sviluppano nell'assistenza medico-sociale e nel soccorso prestato alle vittime di conflitti o di calamità naturali. Marianna Balfour Diplomatic Public Affairs and Press
Prendiamo atto della vostra precisazione, allo stesso tempo ribadiamo che è il testimone sentito dalla procura antimafia di Reggio Calabria a fare il nome di don Pino Strangio in relazione alla sua appartenenza ai Cavalieri. Ci siamo limitati perciò a riportare uno stralcio di quel documento. Giovanni Tizian.
'Ndrangheta Italia: la rete di amicizie dei clan tra banchieri, politici, vescovi e magistrati. Giancarlo Pittelli, massone ed ex senatore di Forza Italia ora vicino al partito di Giorgia Meloni, ha messo a disposizione del padrino Luigi Mancuso il suo network. Ecco tutti nomi, dall'ex Mps Giuseppe Mussari all'ex Unicredit Fabrizio Palenzona. Giovanni Tizian il 10 gennaio 2020 su L'Espresso. La multinazionale del crimine più apprezzata dal potere. Accolta nei palazzi della politica, nei santuari della finanza, nelle cattedrali del capitalismo moderno. Un marchio italiano, ma non sovranista, piuttosto globalista. Potere e crimine, liturgie del denaro e riti arcaici impastati nella stessa organizzazione. Governatori di Regione implicati all’ombra delle Alpi, assessori regionali coinvolti a Torino, sindaci sostenuti dalle cosche in Umbria e in Emilia, ex senatori massoni arrestati con amici banchieri e pezzi grossi dell’alta finanza. Il Paese reale trasformato in mangiatoia da un sistema criminale che vanta migliaia di affiliati, centinaia di sedi dislocate in Italia e nel mondo, un numero impressionante di complicità spesso celate dietro la nebbia padana. ’Ndrangheta come un “franchising”, hanno scritto i giudici della Cassazione per spiegare il funzionamento e la strategia delle cosche calabresi fuori dai confini regionali. Dallo Stretto di Messina alle Alpi. La pervasività delle ’ndrine è scolpita con dati e numeri sulla carta di centinaia di fascicoli: soltanto nel 2019 sono state portate a termine 40 inchieste in tutta Italia. Oltre tre al mese, quasi un migliaio tra indagati e arrestati. Boss e insospettabili della buona borghesia. Eppure la ’ndrangheta nell’immaginario resta un fenomeno folkloristico, in fondo «innocua, perché non spara come una volta». E la politica? Latita. Distratta dal clima perenne di campagna elettorale, il tema immigrazione si prende la scena. Intanto la ’ndrangheta holding avvelena l’economia con i capitali sporchi e la democrazia del Paese dirigendo il consenso elettorale. Come dimostra l’ultima inchiesta “Rinascita-Scott” che fa tremare il sistema. Una maxi operazione condotta dal Ros dei carabinieri guidati dal generale Pasquale Angelosanto e coordinata dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri: 334 arresti, oltre 400 indagati, beni sequestrati per 15 milioni, 3 mila militari in campo nella notte tra il 18 e il 19 dicembre.
IL PAESE DELLE 'NDRINE, TRA POLITICA E LOGGE. La mappa delle “Locali”(gruppi strutturati) della ’ndrangheta. Degli ultimi casi (2019) di politici indagati per rapporti con i boss. E degli scioglimenti dei comuni per infiltrazione dei clan calabresi.
LA CERNIERA. Ma l’Atlantide sommersa della mafia calabrese sta oltre queste cifre. Sta in figure cerniera, ufficiali di collegamento tra sottobosco mafioso e società civile. Tra questi c’è l’avvocato, massone ed ex senatore di Forza Italia (di recente vicino a Fratelli d’Italia) Giancarlo Pittelli, indagato per concorso esterno alla cosca Mancuso di Limbadi, paesino della provincia di Vibo Valentia, noto più per la produzione dell’amaro del Capo che per essere regno di una delle più potenti famiglie di ’ndrangheta. Per capire chi sono i Mancuso di Limbadi, dobbiamo tornare al 1983, quando il capo bastone Ciccio Mancuso vinse le elezioni da latitante. Dovette intervenire il presidente della Repubblica Sandro Pertini per sciogliere il Comune. Mancuso e politica. Un’eredità che ora ha travolto Pittelli. A casa sua i carabinieri durante le perquisizioni hanno trovato appunti scritti a mano: un elenco dettagliato dei temi dell’inchiesta “Rinascita”. Chi ha informato Pittelli dei segreti di un’indagine riservatissima? Di certo l’avvocato del boss gode della stima di un pezzo della magistratura. Le cimici del Ros hanno persino registrato una cena nella sua abitazione con otto magistrati e altri professionisti. Toghe, spiegano fonti autorevoli a L’Espresso, non della procura ma di altri uffici giudiziari di Catanzaro. Contatti privilegiati dell’ex senatore finiti in informative senza ipotesi di reato inviate alla procura di Salerno competente sui magistrati catanzaresi. Toghe, e pure vescovi amici. Prelati del calibro di don Francesco Massara, l’ex parroco di Limbadi, nominato da Papa Francesco arcivescovo di Camerino-San Severino Marche. Grazie a don Massara, Pittelli dice di aver «ottenuto la tessera del Vaticano». E il vescovo ha mediato affinché l’avvocato della ’ndrina potesse incontrare Monsignor Giuseppe Russo, sottosegretario dell’Apsa - l’ente che gestisce il patrimonio della Santa Sede - per valutare l’acquisto di alcuni immobili del Vaticano. Questa ’ndrangheta è un sistema criminale che agisce su più livelli. Alcuni visibili a occhio nudo: militare (con bombe e intimidazioni) e imprenditoriale (quattrini sporchi che creano concorrenza sleale). Altri invisibili: finanziario (flussi di riciclaggio che approdano nei paradisi fiscali) e politico (pacchetti di voti che si spostano da un candidato a un altro).
TERRA DI MEZZO. L’avvocato Pittelli è dunque accusato di essere la cerniera tra due mondi. Un complice esterno, per i pm. Non secondo il giudice che ha ordinato l’arresto: convinto che l’ex senatore sia organico al clan, ora toccherà al Riesame decidere sul ricorso di Pittelli. Di certo avrà molte cose da spiegare agli inquirenti. A partire da quell’incontro a Messina con il rettore dell’Università per presentargli la figlia del boss Mancuso, studentessa di Medicina in difficoltà con un esame. «“Troppo avvocato, troppo avvocato” si è messa a piangere... che bella famiglia», questa la reazione della rampolla, confidata dall’ex senatore a un amico. Il portafoglio contatti dell’avvocato del boss è ricco. C’è Fabrizio Palenzona, ex numero due di Unicredit, presidente di Aiscat e di Prelios (ex Pirelli Re) la società di gestione e servizi immobiliari fondata da Marco Tronchetti Provera. Le informative del Ros riportano gli scambi di sms e gli incontri tra il banchiere e Pittelli, che lo definisce «mio grandissimo amico». Per i detective «Pittelli metteva a disposizione di Prelios i suoi rapporti privilegiati con Luigi Mancuso in cambio della disponibilità della stessa società finanziaria di appoggio per le sue iniziative imprenditoriali». L’ex senatore ha incontrato Palenzona a Milano il 6 luglio 2018 negli uffici della società. Qui Pittelli ottiene un incarico speciale e potenzialmente milionario. Prelios gli chiede la cortesia di trovare un acquirente per il villaggio turistico ex Valtur da vendere a un prezzo stracciato. «Non sappiamo più cosa farcene... siamo disperati», gli dice un dirigente Prelios. Pittelli accetta per fare «una cortesia a Fabrizio Palenzona», che la sera stessa scrive un sms all’amico: «Caro Giancarlo, mi ha fatto molto piacere fino alla commozione rivederti. Grazie per la tua preziosa Amicizia, un forte abbraccio!!! Ps fammi sapere gli estremi del terreno». L’ex senatore sa bene però che nel regno di Mancuso spetta al mammasantissima l’ultima parola: «A Nicotera questa storia la puoi vendere se hai un placet. Nicotera risponde a Luigi Mancuso», dice. Lo incontrerà al più presto, per chiedergli: «Interessa a qualche imprenditore della zona? Dobbiamo rispettare, non possiamo fare i cretini». Il giorno dopo aver incontrato l’ex Mr Unicredit, l’intraprendente Pittelli riceve Giuseppe Mussari, l’ex presidente di Mps e di Abi condannato lo scorso novembre a 7 anni e mezzo per il buco provocato dall’acquisizione di Antonveneta. Mussari è catanzarese come Pittelli, dopo la catastrofica esperienza da banchiere, è tornato alle origini: «Questo non è il mio lavoro», confessò quando diede le dimissioni da Abi. Mussari e Pittelli durante l’incontro di luglio 2018 parlano del ghiotto affare Valtur proposto da Prelios: «Giusè, è una roba nella quale possiamo guadagnare 3-4 milioni di euro... a te non interessano i soldi... ti sfotto, ma che sei fesso!». L’ex banchiere sul denaro è suscettibile e vuole essere chiaro: «Io non ho più una lira perché ho pagato i miei avvocati, ma ho un’altra logica di vita, quando ho avuto i soldi non mi sono fatto mancare niente, perché tanto tutto quello che dovevo fare, i ristoranti, gli alberghi, le vacanze, i viaggi... ma ti assicuro non me ne fotte più niente». Poi prospettano due ipotesi: vendere il villaggio a un grosso operatore turistico o a un costruttore per poi ampliarlo. Per questa seconda ipotesi saranno necessarie nuove concessioni dal Comune di Nicotera. Nessun problema per la coppia Pittelli-Mussari: «Vado a parlare con il Sindaco, dopodiché i contatti col Comune te li segui tu... Giuse’! è lavoro! Secondo me possiamo guadagnare due, tre milioni... tranquillamente». Prima di salutarsi c’è il tempo di una battuta sui magistrati: «Tu li odii... io pure», ride Pittelli. Mussari saluta accennando un sorriso. Prima Palenzona, poi l’ex Mps, infine tocca al boss Luigi Mancuso: Pittelli lo incontra il 9 luglio. E per il Ros hanno «discusso della questione (Valtur)».
MAMMASANTISSIMA E "FRATELLI". Le cinque province della Calabria con il numero di “Locali” e di singoli clan (dati: Procura nazionale antimafia e Dia) e le logge massoniche emerse dai racconti dei pentiti e dalle inchieste. La provincia di Reggio Calabria conta 72 “Locali”: 27 lato jonico, 37 area città, 9 fascia tirrenica. Una platea di amici insospettabili che la 'ndrangheta ha anche al Nord . All'ombra della Alpi, in Valle d'Aosta e Piemonte. Ai piedi degli Appennini, in Emilia. E nella pianura lombarda.
Chi sono i capi invisibili della 'ndrangheta. La vera forza della mafia: hanno deciso governi, scalate economiche, maxi-investimenti. Sono la mente strategica delle operazioni e per decenni sono riusciti a nascondersi. Alessia Candito il 10 gennaio 2020 su L'Espresso. Li chiamano “invisibili”. E sono il motivo per cui decenni di arresti, processi e condanne non hanno impedito alla ’ndrangheta di continuare ad essere «la mafia più potente del mondo». Per conto dei clan in rapporto con i vertici del potere «politico, istituzionale, professionale, informativo, finanziario, imprenditoriale, sanitario, bancario ed economico», gli invisibili sono la vera forza delle mafie. La mente, la direzione strategica. Ma per decenni sono riusciti a nascondersi. Gli invisibili hanno deciso governi, scalate economiche, maxi-investimenti. Protetti dall’immagine di una ’ndrangheta arcaica, rozza, quasi tribale, descritta così, secondo il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri «da alcuni in buona, da altri in cattiva fede». Politici, imprenditori, finanzieri, banchieri, pubblici funzionari sono stati travolti dalle indagini in tutta Italia. Insomma, la caccia agli invisibili è iniziata da tempo. «Chi sta sopra, decide le strategie, chi sta in mezzo le pianifica e le rende attuabili e chi sta sotto, le esegue. Le tre componenti, unitariamente considerate, formano l’attuale struttura della ’ndrangheta» diceva già una decina di anni fa il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. È stato lui, con l’inchiesta “Bellu Lavuru”, a trovare la prima traccia recente degli “invisibili”, evocati dal boss-massone Sebastiano Altomonte, come «quelli che non li conosce nessuno, ma contano davvero». Poi sono arrivati collaboratori di giustizia come Consolato Villani a spiegare che esiste «una ’ndrangheta di forma e una di sostanza», fatta di «persone invisibili, che sono più in alto, hanno contatti con il mondo politico, con altre parti della società, sono massoni». O Nino Fiume, che ha parlato di quel «livello superiore» che ha consentito al clan De Stefano di essere «in protezione». E le dichiarazioni di Filippo Barreca e Giacomo Ubaldo Lauro, i primi collaboratori della storia della ’ndrangheta, hanno acquisito senso. Sono stati loro a svelare l’esistenza della Santa o Mammasantissima. All’epoca si pensava fosse semplicemente una “carica”, il grado più alto nelle gerarchie dei clan: In realtà era la prima “struttura riservata”, la conventicola di grandi capi in grado di decidere le strategie dell’intera organizzazione. E di misurarle con i rappresentanti di altri poteri economici, istituzionali, politici, che nelle logge incontravano da pari a pari. Sperimentata con il golpe Borghese e i moti di Reggio, la struttura nel tempo è affiorata sotto la superficie di fatti di sangue e misteri, dalla strage di piazza della Loggia alla stagione degli attentati negli anni Novanta. Ha incrociato i propri destini con la P2 di Licio Gelli, l’eversione fascista, i paramilitari di Gladio e le schegge impazzite dell’intelligence, e il proprio cammino con personaggi come il terrorista nero Franco Freda. Protetto dal clan De Stefano durante la latitanza a Reggio Calabria, c’era anche lui - racconta Barreca - fra i fondatori della «superloggia segreta di cui facevano parte appartenenti alla ’ndrangheta e alla destra eversiva» nata alla fine degli anni Settanta sulla sponda calabrese dello Stretto e nascosta «in una loggia massonica ufficiale». Nel 2009, il collaboratore Cosimo Virgiglio, massone di alto rango finito al servizio dei clan, ai pm descrive la medesima struttura. Nel tempo si è evoluta, spiega, ha usato come paravento obbedienze diverse, imparato a giocare con l’extraterritorialità, rifugiandosi dietro logge e cavalierati con base a San Marino e in Vaticano. Sul piatto, la ’ndrangheta mette liquidità, diffusione capillare sul territorio, capacità militare, voti. Gli altri, i canali per trarne profitto tutti insieme. Con il grembiule addosso, si diventa fratelli. Come involontariamente confermato anche dal boss Luni Mancuso nel 2011: «La ’ndrangheta non esiste più, fa parte della massoneria, è sotto (nascosta ndr) della massoneria, però hanno le stesse regole. Oggi la chiamiamo “massoneria”, domani la chiamiamo p4, p6, p9», come quando «caduta la “democrazia”, hanno fatto un altro partito, Forza Italia». Quello che non cambia sono i cognomi di chi ha accesso a quegli ambienti. A partire dagli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo, travolti dall’inchiesta Gotha della procura di Reggio Calabria, a oggi gli unici ad essere finiti a giudizio come esponenti della direzione strategica della ’ndrangheta. E se Romeo attende ancora l’esito del giudizio di primo grado, De Stefano è già stato condannato a 20 anni come invisibile. Penalista con il pallino della politica, vicino alla destra eversiva ma eletto con la Dc, massone, con un capitale di contatti, fra i referenti dei siciliani negli anni degli “attentati continentali”, per tutti in grado di addomesticare sentenze fino in Cassazione e di creare dal nulla legioni di politici, anche dopo una prima condanna per concorso esterno, non ha mai rinunciato al proprio ruolo. Né lo ha fatto «il suo sodale e amico» Paolo Romeo, vicino alla destra eversiva e a Gladio ma eletto in Parlamento con il Psdi, pure lui già condannato in passato per concorso esterno alla mafia. Un pezzo di una strategia molto più complessa e in più fasi - ipotizza oggi l’inchiesta di Reggio Calabria “’Ndrangheta Stragista”, sviluppando quella palermitana sulla Trattativa - che ha visto clan calabresi e siciliani lavorare gomito a gomito per individuare nuovi referenti politici affidabili nello scenario nazionale e internazionale stravolto da Tangentopoli e dalla fine della guerra fredda. Una fase delicata in cui molti invisibili, sebbene al momento non a processo come tali, sono venuti alla luce. Ad indicarli, ex boss calabresi, ma soprattutto siciliani. Al killer oggi collaboratore di giustizia Giuseppe Maria Di Giacomo, è stato Santo Mazzei, il capoclan di Catania imposto dai corleonesi negli anni delle stragi, a spiegare che fra gli interlocutori di fiducia in Calabria c’erano «i Piromalli della Piana di Gioia Tauro e i Mancuso di Limbadi». Ed in particolare quel Pino Piromalli “Facciazza”, che sebbene oggi - dicono alcune informative - a causa della lunga detenzione abbia dovuto appaltare lo scettro ai nipoti, primo fra tutti Gioacchino “l’avvocato”, rimane uno dei più potenti boss calabresi. Parola dell’ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, in carcere come riservato dei Mancuso, ma tanto vicino allo storico casato della Piana da poter affermare che «Dell’Utri, la prima persona che contattò per la formazione di Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro». E assicurare che «ci sono due mafiosi in Calabria, che sono i numeri uno in assoluto, uno si chiama Giuseppe Piromalli, e l’altro si chiama Luigi Mancuso che è più giovane e forse più potente». Due «punte della stella» della medesima realtà criminale entrambi appartenenti a quella che il collaboratore Di Giacomo chiama «la cupola calabrese» di cui facevano parte «tutte le famiglie ed i relativi esponenti». Il passaporto per interloquire con altri mondi a nome dell’organizzazione. Lo stesso che avevano i fratelli Domenico e Rocco Papalia, boss di Platì da mezzo secolo trapiantati a Milano, per trattare con i servizi affari, omicidi su commissione e scarcerazioni, o Cosimo Commisso “U Quagghia”, elemento di vertice di quel Crimine di Siderno che ha una componente in Calabria ed una in Canada. «Ci sono soggetti anche di maggiore peso nella zona jonica reggina» spiegano fonti investigative: feudo di storici casati mafiosi come i Nirta la Maggiore e i Pelle di San Luca, i Morabito Tiradritto di Africo, i Barbaro-Papalia di Platì. È da lì che emana il potere in grado di dare legittimazione a clan non certo di seconda fila come i Grande Aracri, diffusi come un’infezione dall’Emilia-Romagna al Nordest. Eppure Nicolino, che ne è il patriarca, dice il collaboratore Luigi Bonaventura «ha ottenuto il “crimine” da Antonio Pelle “Gambazza”, boss di San Luca, nella Locride». Anche Nicolino Grande Aracri è un «fratello», con tanto di spada templare, poi sequestrata nel 2012, ordinato cavaliere del sovrano Ordine di Malta. Intercettato, dice: «E lì ci sono proprio sia ad alti livelli istituzionali e sia ad alti livelli di ’ndrangheta». Lì dove maturano legami, contatti, strutture. Come quella «superassociazione» in cui le mafie coabitano con «altri componenti di un sistema politico-economico pantagruelico e deviato» su cui da tempo lavora la Dia di Reggio Calabria. Un «sistema pancriminale» in grado di gestire politici come gli ex alti papaveri di Forza Italia, Marcello Dell’Utri e Amedeo Matacena o di condizionare gli investimenti di grandi imprese statali. Uno “Stato parallelo”.
· La Mafia Veneta.
Michele Fullin per “il Messaggero” il 5 giugno 2020. In Veneto la mafia c'è ed è stabilmente radicata in gran parte del territorio. Non tanto Cosa Nostra o Camorra, ma soprattutto Ndrangheta, le cui basi sono state scoperte prima ad Eraclea, poi a Padova e infine a Verona. L'operazione Isola Scaligera, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Venezia, ha portato ad un'ordinanza di custodia cautelare (in carcere e ai domiciliari) emessa nei confronti di 26 soggetti, dei quali ben 16 hanno in capo d'imputazione l'articolo 416 bis del Codice penale. Associazione mafiosa. Le richieste del pubblico ministero Lucia D'Alessandro (che ha fatto un lavoro certosino studiando migliaia di pagine e coordinando gli investigatori) riguardavano 58 soggetti. Gli indagati, a vario titolo, senza richieste di misure cautelari, sono molti di più. Tra questi figura anche l'ex sindaco di Verona, Flavio Tosi, al quale viene contestato il reato di peculato per un episodio di poche migliaia di euro risalente al 2017. Tosi ha spiegato: «Non ne so nulla, ne uscirò totalmente estraneo, come in tutte le altre occasioni. Da sindaco sono sempre stato rigorosissimo nel mio mandato». Tra i destinatari di misura cautelare ci sono anche due esponenti dell'Amia, l'azienda comunale di igiene urbana: il presidente Andrea Miglioranzi e il direttore tecnico Ennio Cozzolotto. Questi ultimi avrebbero agevolato una società riconducibile alla malavita organizzata nella gara per alcuni corsi antincendio e antinfortunistica. Contemporaneamente, sono stati effettuati sequestri per 15 milioni, tra beni immobili e quote societarie. Nel capoluogo scaligero, al centro di una delle zone più ricche a livello europeo, è emerso che gli esponenti della Ndrangheta hanno svolto i loro sporchi affari per trent'anni, riciclando soldi provenienti dal traffico di stupefacenti e trovando terreno fertile per fare il bello e il cattivo tempo in attività economiche d'interesse (come le sale da gioco), ricorrendo a intimidazioni per far capire chi è che comanda, ma senza esercitare un controllo militare del territorio. Un modo di fare violento, ma - come ha sottolineato il Gip di Venezia Barbara Lancieri - silente, privo di richiesta, «che integra perfettamente la modalità mafiosa qualora l'associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo il ricorso a specifici comportamenti di violenza e minaccia». Ma soprattutto, questo tipo di criminalità ha trovato un certo appoggio nella società civile e nel mondo imprenditoriale. L'inchiesta ha richiesto più di due anni di accertamenti da parte del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia, delle Squadre mobili di Verona e Venezia nonché dei reparti Prevenzione crimine e della Scientifica. A capo di tutti ci sarebbe Antonio Giardino, detto Totareddu o Il Grande, 51 anni, personaggio dall'indiscusso spessore al quale viene accreditata una posizione di potere in Veneto e gli è attribuito il merito di aver composto la faida a Isola di Capo Rizzuto tra gli Arena-Nicoscia e i Capicchiano, che ha provocato decine di morti. Insomma, per gli inquirenti, saremmo di fronte a un vero pezzo da novanta. «Questa attività non nasce da una notizia di reato - ha spiegato il responsabile della Direzione nazionale anticrimine della polizia, Francesco Messina - ma dal monitoraggio di attività anche imprenditoriali sul territorio che hanno portato ad attenzionare alcuni soggetti che non sembravano far parte di organizzazioni criminali. Il sequestro di 15 milioni testimonia come questi volessero progredire con la provvista in nero, allo scopo di affiliare dal punto di vista economico diversi soggetti che non sempre hanno avuto solo danni ma anche diversi vantaggi. L'imprenditore alla fine è quasi complice. La cosa triste - ha concluso - è che spesso questa gente si vende per poco: qualche migliaio di euro». «La situazione è allarmante - ha poi detto il Procuratore capo, Bruno Cherchi - significa che c'è la possibilità di un contatto tra la struttura politico amministrativa e la criminalità organizzata. Un segnale nuovo per il Veneto. Siamo contenti che abbiamo lavorato bene, ma come cittadini restiamo un po' sconcertati. Sono sicuro che esistono dei buoni anticorpi a livello politico amministrativo e sociale, ma come si è visto, non sono bastati. Bisogna supportare - ha concluso - l'attività di polizia e degli uffici giudiziari. Non sono il primo a segnalare la situazione drammatica dei nostri uffici che ci limita fortemente nell'attività di contrasto alla criminalità organizzata».
L'indagine su Flavio Tosi e la caccia alle microspie del sindaco di Verona. Nell'inchiesta sulla 'ndrangheta nella città scaligera emergono dettagli che riguardano l'attuale primo cittadino Federico Sboarina (non indagato) e il suo predecessore, indagato per concorso in peculato. Entrambi si sono rivolti a un'agenzia di investigazioni per problemi diversi, ma molto delicati. Giovanni Tizian il 05 giugno 2020 su L'Espresso. Verona non va associata alla mafia, si è affrettato a dichiarare il sindaco Federico Sboarina, dopo i 26 arresti tra colletti bianchi, manager e personaggi affiliati alla 'ndrangheta. Sarà, ma quel che è emerso nell'inchiesta “Isola Scaligera” della procura antimafia di Venezia e del servizio centrale operativo della polizia è la conferma che la città ha un suo lato oscuro, poco raccontato, molto frequentato dagli emissari dei clan della 'ndrangheta. Il nome di Sboarina spunta negli atti di indagine, ma non è indagato. Avrebbe incaricato un'agenzia di investigazione per verificare la presenza di microspie negli uffici del Comune. La stessa agenzia a cui si è rivolto l'ex sindaco Flavio Tosi per altre questioni. Ma andiamo con ordine. L'Espresso nel 2015 aveva rivelato i contatti delle cosche calabresi di stanza in Emilia e Veneto con l'industriale Moreno Nicolis e Flavio Tosi, l'ex sindaco della Lega (poi uscito dal partito di Matteo Salvini) ora indagato nell'indagine sulla 'ndrangheta veronese, che coinvolge i vertici della municipalizzata de rifiuti Aima. A Tosi i pm non contestano reati collegati alla mafia, ma il concorso in peculato in relazione alla distrazione da parte dell'ex presidente della municipalizzata dei rifiuti Amia, Andrea Miglioranzi di una somma «non inferiore a 5.000 euro» per pagare la fattura di un'agenzia di investigazioni privata, su prestazioni in realtà mai eseguite in favore di Amia, ma nell'interesse di Tosi. il denaro, tra l'altro, è stato consegnato, si legge negli atti, con la fascetta “Verona Fiere”. Altra società collegata all'amministrazione di cui il Comune detiene quasi il 40 per cento delle quote. Nelle intercettazioni emerge come Tosi fosse interessato a capire di più su alcuni fatti che lo riguardavano: «Veneta investigazioni ha ricevuto un incarico da Flavio Tosi affinché si occupi di accertare alcuni fatti, forse legati ad alcune fotografie, ma che le ricerche non stanno dando gli esiti sperati», si legge nell'ordinanza di custodia cautelare del gip del tribunale. Ma non c'è solo l'ex sindaco che si sarebbe rivolto all'agenzia di investigazione per risolvere grane private. Anche l'attuale Federico Sboarina, secondo quanto si legge negli atti dell'indagine, avrebbe chiesto alla stessa agenzia di “bonificar" gli uffici comunali, in pratica avrebbero dovuto verificare la presenza di microspie. Il motivo di tanta preoccupazione è ignoto. Il boss della 'ndrangheta al centro dell'inchiesta è Antonio Gardino detto "Totareddu", vicino alla cosca Arena-Nicoscia di Isola Capo Rizzuto, provincia di Crotone. Di Tosi era emerso anche in passato la vicinanza ad alcuni imprenditori legati a uomini dei clan di 'ndrangheta. Su L'Espresso avevamo rivelato ormai cinque anni fa un pranzo particolare: «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna», riferiva un uomo della 'ndrangheta crotonese, parole agli atti della maxi inchiesta Aemilia sulla 'ndrangheta emiliana. Il braccio destro del boss dell'epoca si chiama Antonio Gualtieri, e raccontava, come già rivelato dall'Espresso , del pranzo a casa dell'industriale veronese del ferro, Moreno Nicolis alla presenza di Tosi: «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna». Raccontavamo anche di un tentativo di speculazione edilizia. Tra i documenti in mano agli inquirenti infatti c'erano una serie di dialoghi in cui una donna fa riferimento all'area di Borgo Roma «vicino alla Glaxo», la multinazionale farmaceutica. E spiega che «Nicolis voleva barattare l'informazione del fallimento della Rizzi Costruzioni con il sindaco di Verona Flavio Tosi, in cambio della variazione sul piano regolatore di alcuni terreni destinati a costruzioni industriali, posti nei pressi della ditta Glaxo, in area commerciale». Di certo, da quanto risulta all'Espresso la variante alla fine è stata fatta: la conferma, appunto, è nel piano degli interventi approvato dalla giunta di Tosi e dell'allora assessore Vito Giacino. Insomma, vecchie ombre di cinque anni fa. Mai chiarite. Che diventano ancora più cupe ora, con ques'ultima indagine sulla città di Romeo e Giulietta.
Gli affari, gli appalti, gli amici della 'ndrangheta tutta veneta. Tra gli indagati l’ex sindaco di Verona, Tosi. I boss al telefono: «Teniamo anche lui per le palle». Il clan controllava i manager fino a gestire le scelte delle municipalizzate. Antonio Anastasi il 5 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. L’unica attività che la polizia ha svolto a Isola Capo Rizzuto nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Venezia che ieri ha portato all’operazione “Isola scaligera”, con 26 misure cautelari – 17 in carcere, sei ai domiciliari e tre all’obbligo di firma – e un sequestro preventivo di beni da 15 milioni di euro, frutto di approfondimenti patrimoniali, è stata una perquisizione. I fatti contestati alla famiglia di ‘ndrangheta capeggiata da Antonio Giardino, collegata alla cosca Arena di Isola Capo Rizzuto, sarebbero stati commessi soprattutto nel Veronese. Le indagini sono state fatte là dove c’è la polpa da succhiare. Anzi, da “mangiare”, come si apprende dalla viva voce degli indagati. Citiamo questo dato soltanto per dare un’idea del fenomeno della ‘ndrangheta autonoma, che pur mantenendo legami con la casa madre si muove in maniera diversa da quella tradizionale stabilendo una rete di contatti nei territori “colonizzati”. E che contatti. Le mani della famiglia Giardino a quanto pare si erano allungate sul Comune di Verona. O, meglio, sugli appalti dell’Azienda speciale del Comune, l’Amia. E tra gli indagati figura anche l’ex sindaco Flavio Tosi, ex “colomba” della Lega. La regia del presunto clan spunta anche dietro un traffico illecito di rifiuti. Le misure disposte dal gip Barbara Lancieri sono state eseguite dagli agenti delle Squadre Mobili di Verona e Venezia che, tra gli altri, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, hanno arrestato anche un ex presidente e l’attuale direttore della municipalizzata che si occupa della raccolta di rifiuti a Verona. Secondo l’accusa sono stati corrotti dai malavitosi per poter entrare nel settore dei corsi di formazione per la sicurezza nel posto di lavoro. In particolare, la vicenda vede coinvolti Nicola Toffanin, un veronese detto “l’avvocato” che aveva il compito di avvicinare i colletti bianchi, e Ennio Cozzolotto e Andrea Miglioranzi, rispettivamente presidente e condirettore di Amia, nonché Francesco Vallone, gestore del centro studi “Enrico Fermi” di Verona. Dalle intercettazioni sarebbe emerso un contesto di turbativa d’asta e abuso d’ufficio con l’aggravante mafiosa. L’intendimento degli indagati sarebbe stato quello di assegnare l’incarico alla scuola gestita da Vallone, rispettando formalmente la procedura, invitando altri quattro o cinque istituti a fare delle offerte il cui contenuto sarebbe stato poi rivelato al direttore del centro studi. Quest’ultimo sarebbe stato poi in grado di fare l’offerta migliore e risultare vincitore. Ma i corsi non si sarebbero manco tenuti, con guadagni per Toffanin e Vallone stimati in 10mila euro, mentre il compenso per Miglioranzi sarebbe stato di 3000 euro. Addirittura sarebbe emerso un fenomeno di falsi diplomi rilasciati a membri del clan, ma questa è un’altra storia ancora. Tra gli elementi che avvalorano l’ipotesi delle infiltrazioni all’Amia, un’intercettazione in cui Toffanin, con riferimento a Miglioranzi, dice: «l’ho preso per le palle…ma c’ho anche Tosi… in questo momento conta più lui che Tosi». A colloquio con Vallone, Toffanin è un fiume in piena: «arriviamo a una situazione che lo portiamo dove vogliamo noi… c’è da mangiare sempre». Poi Vallone ironizza: «pulito senza nessuna faccia e senza niente… al massimo tra dieci anni usciamo su Report». Non a caso l’ex sindaco di Verona è tra gli indagati, con l’accusa di concorso in peculato in relazione alla distrazione da parte dell’ex presidente della municipalizzata Miglioranzi (ai domiciliari) di una somma «non inferiore a 5.000 euro» per pagare la fattura di un’agenzia di investigazioni privata, su prestazioni in realtà mai eseguite in favore di Amia, ma nell’interesse di Tosi. «Basta che non compaia Veneta investigazioni», dice Toffanin in un’altra intercettazione. Pare che il denaro versato in contanti provenisse da Verona Fiere, avendo notato il loquace Toffanin i soldi avvolti in una fascetta con la stampigliatura dell’ente. «Qua riesco a leggere Verona fiera… il timbro sotto a sinistra in basso». Davvero interessante il filone dei presunti concorrenti esterni dell’associazione mafiosa tra i quali, in relazione al traffico di rifiuti ordito da Michele Pugliese, uno dei pezzi grossi della cosca isolitana, figurerebbero gli imprenditori veneti Ilario Vernieri e Salvatore Bruno; mentre Cesare Nicoletti e Luca Schimmenti, rispettivamente commercialista e direttore di banca, avrebbero svolto un ruolo chiave nella gestione delle società e nelle movimentazioni di denaro del clan, agevolando l’evasione delle imposte e la fatturazione per operazioni inesistenti nonché le interposizioni fittizie. «Per la prima volta la criminalità organizzata tocca il territorio veronese, dopo Eraclea e Padova – ha detto il procuratore distrettuale antimafia di Venezia, Bruno Cherchi – le ipotesi che avevamo fatto in passato sulla criminalità organizzata stanno dando riscontri su una situazione che deve essere attentamente considerata. Si tratta di un pericoloso segnale che dovrebbe allarmare la società civile per la pericolosità dei contatti tra amministrazione e politica e criminalità organizzata». Caratteristica di questa “filiale” della “casa madre” Arena viene ritenuta dagli inquirenti il fatto di operare sotto traccia, innervandosi così sul tessuto imprenditoriale per contaminarlo. Tant’è che l’indagine non prende l’avvio da fatti di sangue ma dal ricovero in ospedale del capo indiscusso del presunto clan, Antonio Giardino, che, durante la degenza in un ospedale dell’hinterland veronese, viene sottoposto a intercettazioni. A quanto pare, parlava liberamente degli affari criminali di cui era al vertice. Ma è una storia lunga. I rapporti dei Giardino con Tosi risalgono all’epoca in cui fu monitorato un presunto sostegno elettorale e una serie di intercettazioni portavano a appalti del Comune veneto che il clan tentava di ottenere dal politico amico, la cui elezione fu festeggiata nel 2012 dagli isolitani a Verona. Inoltre, Tosi fu pedinato dai carabinieri quando andò a Crotone per presentare la fondazione “Ricostruiamo il Paese insieme”, il 29 gennaio 2012, probabilmente nell’ambito degli accertamenti sulle infiltrazioni in Veneto delle cosche crotonesi.
Da “il Messaggero” il 5 giugno 2020. Ha provato in tutti i modi: prima ha tentato di ricusare il giudice, poi non si è collegato dal carcere di Voghera, ufficialmente, per «motivi di salute psichiatrica». Il giudice ha così rinviato la lettura della sentenza disponendo una verifica in carcere delle condizioni dell' ex boss della mala del Brenta. «Sintomatologia pretestuosa», ha stabilito il medico ed è quindi stato emesso il verdetto. Così Felice Maniero, 66 anni a settembre e un passato da faccia d' angelo, è stato condannato a quattro anni a Brescia per maltrattamenti sulla compagna. L'ex boss del Brenta, che ha cambiato nome dopo aver cominciato a collaborare con la giustizia entrando nel programma di protezione dei testimoni, aveva finito di scontare la sua pena nel 2010: dal 1980 al 1995 ha diretto una banda di quasi 500 persone, che ogni giorno metteva a segno decine di colpi, uccideva, trafficava in droga. Nell' ottobre del 2019 però era stato arrestato di nuovo per vessazioni fisiche e psicologiche nei confronti della sua compagna Marta Bisello, 47 anni, al suo fianco da 26 anni. Nel processo con rito abbreviato, l' accusa aveva chiesto una pena di 6 anni e 8 mesi, ma «sono stati derubricati alcuni reati, che non hanno fatto scattare il codice rosso, entrato in vigore successivamente» ha spiegato il difensore, l' avvocato Luca Broli.
Simona Pletto per “Libero quotidiano” il 22 maggio 2020. Una vita di agi e di paure, di litigi e perdoni, sempre all' ombra di un boss che alla fine l' ha maltrattata con ceffoni e insulti. Marta Bisello è la donna che pochi mesi fa ha trascinato a processo Felice Maniero, l' ex numero uno della Mala del Brenta. L' uomo che negli anni Novanta guidava 500 uomini affiliati alla mafia veneta, ora è infatti imputato per maltrattamenti in famiglia e si trova per questo in carcere dall' ottobre scorso. È stata dunque lei, la storica compagna che gli è stata accanto fin dagli assalti ai portavalori e dalla quale Maniero ha avuto una figlia 19enne, a denunciare con coraggio le violenza e le umiliazioni subìte da parte di uno tra i banditi più pericolosi, feroci e potenti del Nordest d' Italia, divenuto anche collaboratore di giustizia. Martedì scorso la donna, insieme alla figlia, è stata chiamata in aula al Tribunale di Brescia durante l' udienza del processo con rito abbreviato, alla quale ha preso parte in videoconferenza anche Maniero, che ha chiesto scusa alla donna ammettendo i propri errori. «Ti chiedo scusa», ha detto più volte in aula l' ex boss oggi 66enne.
«L' ho picchiata, è vero», ha ammesso davanti al giudice Roberto Spanò, «ma mai con calci e pugni, solo qualche schiaffo, qualche spinta».
Umiliazioni continue. Quello di Marta, in aula a porte chiuse, è stato un lungo racconto durato oltre due ore. Secondo il suo avvocato Germana Giacobbe, «la sua è stata una testimonianza lucida, lineare e priva di contraddizioni. Ha confermato puntualmente le accuse», anche se «credo di poter interpretare il suo sentire quando dico che alla mia assistita non interessa la vendetta o una condanna; lei voleva semplicemente raccontare i maltrattamenti subìti». E così ha fatto: «Mi chiamava celebrolesa, stupida, bastarda», ha detto. «Diceva che era colpa mia, che ero stata io a rovinare la famiglia - ha aggiunto -. Non mi sono mai ribellata». I problemi sarebbero iniziati nel 2016, in parallelo alle difficoltà economiche di Maniero, che in quegli anni si ritrova a racimolare, secondo quanto raccontato, gli spiccioli di quei 16 milioni di euro affidati al cognato e mai più riavuti. Sarebbero stati investiti e quindi indisponibili. Secondo la compagna, i loro problemi di coppia sarebbero iniziati poco prima, nel 2015, dopo le rivelazioni mandate in onda da Report, relative alla falsa identità di "Felicetto", alla loro presenza nel Bresciano e al suo nome legato ad una azienda che vendeva "casette dell' acqua" in zona. Tutto viene reso pubblico e questo avrebbe segnato l' avvio del declino. «Quando sono iniziate le difficoltà economiche lui è diventato più brutale», ha confessato l' ex compagna, che dall'autunno scorso si trova in una comunità protetta. Quella di Maniero, di Bisello e della figlia, secondo quanto è emerso martedì scorso in aula, era una vita fatta di agi, difficile da mantenere senza avere in cassa la liquidità necessaria. Per questo motivo, dunque, la situazione a casa Maniero sarebbe degenerata, tanto che la famiglia è stata sfrattata tre volte, finendo a vivere in una casa popolare. Maniero, soprannominato "faccia d' angelo" per via di quel sorriso da ragazzo perbene che nascondeva una esistenza segnata da crimini, sarebbe stato cacciato anche da quest' ultimo appartamento perché non pagava l' affitto. Insomma, una vita di povertà, nella quale sarebbero spariti i 50 milioni messi da parte nell' arco di una vita fatta di rapine, omicidi e spaccio.
IL PIANTO DELLA FIGLIA. Davanti al giudice l' accusatrice di Maniero ha ricostruito quattro aggressioni subìte tra il 2016 e il 2019. «Tra noi è finita, ora voglio solo stargli lontana», ha confessato infine al suo legale. Poco dopo è salita sul banco dei testimoni la figlia, molto legata al padre con il quale viveva insieme alla madre fino all' ottobre scorso. La ragazza, visibilmente provata, ha raccontato di avere assistito a due liti, nel corso delle quali il padre ha preso a schiaffi e spintonato la compagna. «Ma la mamma mi ha raccontato di altri episodi», ha dichiarato in aula scoppiando poi in lacrime. Secondo l' avvocato di "Felicetto", Luca Broli, «non vi sono referti che testimoniano le botte. Aspettiamo fiduciosi la sentenza che verrà emessa il 26 maggio». Secondo la collega Germana Giacobbe, invece, i maltrattamenti "pericolosi" sarebbero stati documentati. Quel che è certo, è che il rito abbreviato ottenuto da Maniero gli consentirà di beneficiare di uno sconto di un terzo della pena. Martedì prossimo la sentenza.
· La Mafia Italo-Padana-Tedesca.
IL NORD CONQUISTATO DALLA 'NDRANGHETA. (di Massimiliano Coccia - L'Espresso il 21 agosto 2020). Secondo te che cos’è il Nord e dove inizia?, domanda Sergio, una vita nei reparti mobili della Polizia di Stato a Torino e ora pensionato, che continua e si risponde da solo: «Il Nord non esiste, continuano a chiamarlo Nord perché fa comodo dire che c’è un Nord e un Sud. A te sembra Nord perché il panorama è più ordinato ma l’Italia è tutta uguale. È passato il tempo in cui la mafia si infiltrava: la mafia è presenza stabile qui come al Sud». In effetti se il Nord lo si percorre in macchina, salendo e scendendo le Alpi, attraversando le città non ci sono carcasse di auto, scheletri di case iniziate e mai finite di costruire, sono assenti dalla visuale la decadenza e i retorici cartelli che indicano l’inizio di un territorio comunale forati dai bossoli di fucili, dal finestrino il panorama induce alla pace e alla sicurezza. «Quando è iniziato il boom economico le mafie hanno capito che si potevano espandere e hanno iniziato a migrare pure loro. Qui a Torino si diceva che per ogni dieci operai Fiat venuti dal Sud le mafie mandavano due “picciotti”», continua a raccontare Sergio: «Prima c’erano i reati bagatellari e poi piano piano in silenzio, facendo accordi, hanno iniziato a prendersi un pezzo del tessuto produttivo. Ricordo che negli anni passati era impossibile far passare il concetto che qui ci fosse la mafia e questo le ha dato un enorme vantaggio. Pensa che i partigiani dicevano “dopo il fascismo ci ammazza la mafia” e infatti fu così per il candidato sindaco di Cuorgnè, Mario Cerreto, ex partigiano di Giustizia e Libertà che fu ammazzato a Orbassano nel 1975 perché non voleva far entrare uno ‘ndranghetista nella sua lista. I colleghi che ne parlavano venivano trasferiti come successe a Pierluigi Leoni, commissario a Bardonecchia, che fu trasferito in Calabria perché indagava sulla famiglia Lo Presti». È proprio Bardonecchia il luogo simbolo dell’antico radicamento della ’ndrangheta in Piemonte, un luogo di frontiera da cui può partire questo viaggio, un luogo che per decenni è stato il feudo di Rocco Lo Presti, boss calabrese che emigrò nel 1953 da Marina di Gioiosa Jonica e dopo aver collezionato una condanna per ricettazione dal tribunale di Locri e l’arresto a Casale Monferrato per spaccio di banconote false, si trasferì a Bardonecchia dove creò una piccola ditta edile a conduzione famigliare che iniziò a prendere appalti pubblici e privati con la violenza e la corruzione. Lo Presti, morto nel 2009, fu uno dei capi più spietati della ’ndrangheta che in terra sabauda ha lasciato un’eredità pesante in termini criminali, cambiando per sempre il connotato di Bardonecchia. A marzo, qualche ora prima del lockdown, c’è stato ad esempio il sequestro del Bar Obelix nella centrale Piazza Europa e della pizzeria Tre torri in via Midal: beni che fanno parte del tesoro di Giuseppe Ursino, 50 anni, nipote di Rocco Lo Presti e attuale reggente dell’omonima ‘ndrina, in carcere dal 2018 a seguito dell’operazione “Bardo”. Operazione che ha portato all’arresto anche di Ercole Taverniti e ha permesso di evidenziare il tessuto criminale che legava la ‘ndrina Lo Presti con la famiglia Crea: i fratelli Adolfo, Aldo e Cosimo, al 41bis dal 23 aprile del 2018, gestivano un giro di slot, estorsioni e corruttela, lasciando come avvertimento e firma delle loro azioni una testa di maiale mozzata. «Bardonecchia è stata svuotata dalla ‘ndrangheta, siamo stati il primo comune sciolto per mafia al Nord nel 1995 e da allora cerchiamo di ripulire il tessuto criminogeno della città», dice Michele, giovane studente universitario da anni impegnato nei movimenti sociali del territorio. «Siamo una terra complicata, c’è un grande impoverimento della cintura economica, per un giovane fare impresa è difficile, il boom edilizio drogato dalla famiglia Lo Presti ha consumato il suolo: occorrerebbe fare una grande opera di riconversione sociale. Poi Bardonecchia è anche una rotta migratoria con la Francia, stagionalmente si riapre, e c’è l’emergenza Tav: il mio timore è che nonostante l’impegno del sindaco Francesco Avato a difendere questi luoghi, il tempo e lo spazio perduto facciano morire Bardonecchia. Servirebbe una specie di piano Marshall per i comuni che sono stati attraversati dalle mafie, perché gli indotti e le famiglie che detengono il potere alla lunga restano sempre le stesse». Centro e frontiera: sembra essere questo il movimento geografico delle ‘ndrine al Nord, piccoli comuni con interessi particolari. L’omesso controllo sulla formazione delle liste civiche - che da sempre sono un tirante delle giunte locali e il voto di scambio - saldano la politica con gli interessi mafiosi: basti pensare all’arresto di Roberto Rosso, ex assessore regionale piemontese in quota Fratelli d’Italia, da poco collocato agli arresti domiciliari, dopo sei mesi di carcere. Mentre il panorama piemontese sfuma dal finestrino, il territorio si fa più aspro e le vette più decise, segno che siamo entrati in Valle d’Aosta, regione dove lo scorso inverno un terremoto giudiziario ha portato alle dimissioni della giunta regionale. «La ’ndrangheta in Valle d’Aosta c’è da una vita», ha dichiarato Daniel Panarinfo, collaboratore di giustizia, teste al processo Geena, che si è concluso, per gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato, il 13 luglio presso il Tribunale di Torino che ha certificato per la prima volta l’esistenza della ‘ndragheta ad Aosta e dintorni. Una sentenza storica che ha visto la condanna di dodici persone tra cui Bruno Nirta (12 anni e otto mesi) considerato dalla Dda di Torino il vertice della cosca ad Aosta, in grado di tessere alleanze con le ‘ndrine piemontesi e di condizionare a vari livelli politica ed imprenditoria. Infatti nel secondo troncone, col rito ordinario, che è ripreso il 23 luglio al tribunale di Aosta, quello con il rito ordinario scelto da altri cinque imputati: Marco Sorbara, consigliere regionale sospeso; Monica Carcea, ex assessore al Comune di Saint-Pierre (sciolto nell’ottobre scorso per infiltrazione ‘ndranghetista a seguito della relazione della Commissione antimafia), entrambi accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, Nicola Prettico, consigliere comunale ad Aosta sospeso, Alessandro Giachino, dipendente del Casinò di Saint-Vincent e il ristoratore Antonio Raso, tutti e tre accusati di associazione per delinquere di stampo ’ndranghetista; quest’ultimo in più occasioni ha dichiarato di aver messo in piedi una azione trasversale per promettere “impegno” a tutte le forze politiche dello scenario valdostano. Una presenza mafiosa nella piccola regione del nord-ovest confermata per la prima volta da una sentenza ma che, come ha ricordato il Procuratore Generale della Repubblica di Torino, Francesco Saluzzo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, viene da lontano: «Che in Valle d’Aosta non vi fosse la ‘ndrangheta, esponenti della politica non avevano fatto mancare di far sentire la loro voce sdegnata per respingere quella possibilità. Quando evidenze - anche antiche - dicevano il contrario. Ora, forse, questi motivetti finiranno di essere suonati. Quel che mi preoccupa è la persistente sottovalutazione del fenomeno che si coglie nell’opinione pubblica. Questo atteggiamento ha aiutato e aiuta le organizzazioni mafiose. Non basta la risposta giudiziaria, occorre una presa di coscienza e un atteggiamento di ripulsa e di rigetto delle persone, delle comunità e delle istituzioni». Una presa di coscienza che Francesca Schiavon, editrice valdostana e attivista antimafia ha da sempre: «I valdostani hanno avuto, dopo tanti anni, un effettivo riscontro, se non ancora penale sicuramente culturale e sociale, del fatto di vivere in una Regione che, fattasi scudo per decenni del benessere diffuso che si sta sgretolando sotto i colpi della crisi economica, è immersa nella mentalità e nella prassi mafiosa dello scambio di voti, di favori, di posti di lavoro». Tutti sapevano, sottolinea Schiavon, molti ne hanno tratto vantaggi, troppi hanno taciuto. «Oggi il tessuto sociale appare sfibrato da malcontento e diffidenza, difficile fidarsi di un potere opaco e rapace che, seppur indebolito sotto i colpi della magistratura, ancora viene percepito come il deus ex machina della vita politica ed economica valdostana». Lasciamo Aosta e ci dirigiamo verso il comune di Saint-Pierre, sciolto per infiltrazioni mafiose a febbraio sempre nell’ambito dell’inchiesta Geena, il primo in questa regione. Il paesaggio alpino, i pochi abitanti che camminano per il centro della città, l’apparente estraneità di tutto il contesto urbano con quello che è avvenuto qualche mese fa rendono tutto surreale. Nei bar l’argomento si evita e Federico, che vive a Milano, ma qui ha i genitori, racconta che «in paese c’è omertà. È incredibile vero? Uno pensa che l’omertà c’è solamente al Sud e invece anche qua. Qui si è creata una bolla, perché la ’ndrangheta è entrata in tanti posti, portando soldi che poi hanno lasciato povertà: per questo la gente ha iniziato ad andare dai carabinieri». Quello che dice Federico viene esplicitato in termini tecnici anche dalla Banca d’Italia: lo studio “Gli effetti della ’ndrangheta sull’economia reale: evidenze a livello di impresa” mostra come i mandamenti criminali si infiltrino nelle aziende che vivono difficoltà finanziarie, creando nel primo periodo un effetto positivo sui bilanci, per poi sgonfiarsi man mano, rilasciando effetti negativi sulla crescita aggregata di lungo periodo. Effetti che, terminato il ciclo di riciclaggio, portano alla chiusura delle aziende e alla perdita di posti di lavoro in massa. Centro e confini, ricchezza e povertà, fatturati e politica impermeabili, sembrano essere gli elementi di forza di questa organizzazione che come racconta Antonio Talia in “Statale 106” (Minimum fax) ha fatto di una strada provinciale dove tutto è nato il viadotto simbolico per un regno transnazionale, che fattura come uno Stato e fa raramente notizia. Bardonecchia è il luogo simbolo del radicamento della criminalità calabrese, ma il fenomeno è dilagato in Piemonte e non solo.
'Ndrangheta, il contagio è finito, anche l’Europa e il Nord Italia hanno le loro mafie. La solitudine degli inquirenti italiani: Bruxelles non si rende conto della gravità delle cose e nasconde i dati allarmanti sull’euro-criminalità. Antonio Anastasi il 9 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. La vera novità che è emersa dal forum del Quotidiano con il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, il professor Antonio Nicaso e il numero due di Eurojust, Filippo Spiezia , è che nel Nord Italia e in Europa, quelle che una volta venivano chiamate le “aree non tradizionali” di espansione delle mafie italiane e in particolare della ‘ndrangheta (peraltro l’unica organizzazione criminale ad essere presente in tutti i continenti) non vi è la consapevolezza della necessità di una “risposta coerente e comune”. E che è ormai superata la visione secondo cui l’espansione delle mafie in aree diverse da quelle della loro genesi storica sia equiparabile a una patologia contagiosa, alla stregua di un esercito che invia nei territori di conquista dei presidi. La situazione è alquanto diversa.
IL DOSSIER EUROPOL. Basta rileggersi le denunce forti del vicepresidente dell’agenzia dell’Ue nata per migliorare il coordinamento delle indagini sulla criminalità organizzata e transfrontaliera, che, non a caso, ha auspicato che vi sia una “ricaduta” dei temi affrontati durante il forum. “L’’ultimo rapporto di Europol sul crimine organizzato italiano risale al 2013. Non c’è un rapporto aggiornato e da fonti istituzionali mi è noto che esso è nei cassetti e non c’è la volontà politica di tirarlo fuori e questo è gravissimo”. E ancora: “Il tema della criminalità italiana mafiosa, se è un dato acquisito sul piano criminologico e giudiziario incontra ancora forti resistenze rispetto alla necessità di una risposta comune e coerente”, ha detto sempre Spiezia. E quando il direttore Roberto Napoletano ha individuato un’analogia con “La stessa diffidenza rispetto all’opportunità di una risposta comune e coerente contro le mafie che c’è nel Nord Italia”, Spiezia non solo lo ha confermato ma ha fatto appello, in vista dell’entrata a regime di un nuovo organismo giudiziario in materia di abusi sui fondi Ue, ovvero il procuratore europeo, che l’Italia faccia sentire la propria voce. In base al Regolamento attuale, la nuova struttura “dovrà indagare su fatti commessi a partire dal novembre 2017, ciò significa che partirà con un arretrato di tre anni e questo è un problema serissimo che richiede risposte immediate”. Ma Spiezia ha anche proposto un’aggravante specifica per la locupletazione di denaro legato a finanziamenti Covid in quanto l’attuale fattispecie penale della percezione indebita di aiuti comunitari– 316 ter per gli addetti ai lavori – “è assolutamente fuori parametro con la pena della reclusione al massimo di 3 anni che neppure consente il ricorso a tecniche investigative speciali e nemmeno a misure cautelari”.
MODELLO ITALIANO. Lo staranno a sentire? Difficile dirlo. Difficile dire anche se Paesi come la Germania o il Regno Unito, per fare degli esempi eclatanti, che sul fronte antiriciclaggio e degli accertamenti patrimoniali non hanno normative avanzate come quelle vigenti nel nostro Paese, seguiranno il modello italiano. Ma è l’Italia che ha finanziato l’iniziativa Interpol di attacco globale e non è chiaro se gli altri Paesi si “adegueranno”, ha denunciato uno dei massimi di esperti di ‘ndrangheta al mondo come il professor Nicaso sempre durante il forum. Ma sono almeno altri due gli interrogativi in piedi. Uno. Chi non vuole che sia reso noto il rapporto aggiornato sul crimine organizzato in Europa? Spiezia parla di “volontà politica”.
LE ’NDRINE TEDESCHE. Del resto, era la stampa conservatrice tedesca, che di recente non ne azzecca una, a invitare l’Europa a non aiutare l’Italia in tempi di pandemia perché «la mafia sta aspettando i soldi da Bruxelles», ma chissà se lo sa l’ormai famigerato editorialista di Die Welt che Guenther Oettinger, ex capo della Cdu nel Parlamento del Land tedesco del Baden Wurttemberg ed ex commissario al Bilancio europeo nella squadra di Juncker, era in ottimi rapporti con il calabrese Mario Lavorato, condannato a dieci anni e otto mesi di carcere nel maxi processo Stige, quello conclusosi con oltre sei secoli di condanne per i presunti affiliati al “locale” di ’ndrangheta di Cirò nell’ambito della quale l’amico di Oettinger (il «mio italiano», lo chiamava) era ritenuto il capo della cellula operante in parte, appunto, nel Baden Wurttemberg e in parte nell’Assia. Ma è soltanto uno degli esempi che si potrebbero fare, e lo facciamo giusto per dare un’idea delle dimensioni del radicamento della ‘ndrangheta nelle “aree non tradizionali”.
I PATRIMONI. Le infiltrazioni mafiose nel tessuto economico e sociale in Germania, per esempio, sono possibili perché là è più facile riciclare soldi sporchi che in Italia, dove gli accertamenti patrimoniali sono più stringenti e dove non ci sono case automobilistiche, come in Germania, che producono veicoli addirittura muniti di rilevatori di microspie. Insomma, al Nord Italia come nei Paesi del Nord Europa – e quello che diciamo è accertato da plurime inchieste giudiziarie in molti casi già approdate a sentenze – a favorire quell’infiltrazione e quel radicamento è stata una zona grigia fatta di pratiche di illegalità preesistenti. Una zona grigia occupata da pezzi di imprenditoria, di politica e professionisti collusi che, nel Nord Italia come nel Nord Europa, con i boss e i loro gregari vanno a braccetto e ci fanno affari. In tutti i casi è decisiva la presenza di imprenditori, politici e professionisti, cioè, che sono disponibili a intrecciare rapporti di scambio con i mafiosi, data la loro enorme disponibilità di liquidità, e se sul piano giudiziario e degli studi criminologici ciò è ormai un dato acquisito non lo è sul piano politico, economico e sociale degli interventi antimafia, che nessitano di un salto di qualità non più rinviabile.
CESSATE IL FUOCO. Chi non vuole capire che le mafie che non sparano sono altrettanto pericolose, insomma, di quelle sanguinarie che tengono sotto scacco interi territori del Meridione d’Italia (“al Sud i delitti e al Nord gli affari”, è un vecchio leit motiv) non ha colto che c’è un fenomeno autonomo che chiama in causa tratti peculiari delle società del Nord Italia e del Nord Europa. Le mafie vanno là dove c’è la polpa, cioè gli affari, il potere, e la loro possibilità di mimetizzarsi è accresciuta non solo dalle loro competenze di illegalità ma anche dalle relazioni di complicità nella sfera (apparentemente) legale dell’economia, della politica, delle istituzioni. Basta leggersi le cronache degli ultimi anni, con arresti eccellenti di politici e imprenditori sempre più propensi ad accreditarsi per la loro reputazione mafiosa, e ricordare che il processo più grande contro le mafie in Italia degli ultimi 30 anni si sta celebrando nella grassa Emilia. I modelli di insediamento cambiano a seconda dei contesti territoriali ma la sostanza non cambia. “È una storia che si ripete”, per citare la chiosa di Gratteri che rispondeva positivamente al direttore Napoletano che chiedeva se in tempi di Coronavirus arriverà prima la finanza parallela della ‘ndrangheta, ormai “vera banca del Nord”, a sancire la sconfitta della burocrazia e del credito. Insomma, il salto di qualità non è più rinviabile contro una mafia deterritorializzata ma se questo fa parte da tempo del dominio conoscitivo di magistrati e studiosi del calibro di quelli che hanno partecipato al forum del Quotidiano non lo è per il legislatore. Né quello italiano né quello europeo.
La Germania della ’ndrangheten vede solo la mafiosità degli altri. Nicaso: «È il Paese dove c’è la maggiore infiltrazione e dove risiedono le più importanti famiglie delle ’ndrine». Antonio Anastasi il 10 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. La Germania? “E’ il Paese dove c’è maggiore presenza di ‘ndrangheta al mondo. La ‘ndrangheta lì è riuscita a clonare la geografia mafiosa calabrese superando, in termini di infiltrazioni, gli Usa, il Canada, l’Australia. Le famiglie più importanti della ‘ndrangheta sono tutte presenti in Germania”.
I MILLE DEI CLAN. Parola di Antonio Nicaso, uno dei massimi esperti di mafie, interpellato dal Quotidiano, e chissà se fischiano le orecchie all’editorialista di Die Welt che invita l’Europa a non aiutare l’Italia perché “la mafia sta aspettando i soldi da Bruxelles”. Del resto, di un esercito di mille uomini parlava già il governo tedesco nel rispondere a un’interrogazione presentata al Bunderstag, anche se i servizi di sicurezza avrebbero individuato soltanto 334 presunti affiliati. La strage di Duisburg è lo spartiacque, ma non solo nel senso della violenza mafiosa che prima non si era sprigionata in quanto gli ‘ndranghetisti, riuscendo a mimetizzarsi tra i familiari emigrati e favoriti da una normativa antiriciclaggio quasi inesistente, facevano i loro affari senza spargimenti di sangue.
GLI SCONTRI. Le indagini sull’eccidio del 15 agosto 2007 rivelarono come, in territorio tedesco, le affiliazioni ai clan avvenissero anche mediante i tradizionali rituali delle “famiglie”. Non è soltanto dello scontro tra i clan di San Luca, i Romeo Pelle Vottari da una parte e i Nirta Strangio dall’altra, che parliamo, ma di legami con la casa madre della ‘ndrangheta, di “locali” strutturati, come accertato da plurime inchieste giudiziarie, che hanno svelato un’operatività criminale che avviluppa innanzitutto le rotte del narcotraffico, sfruttando le potenzialità del porto di Amburgo, tra i maggiori scali europei. La geografia mafiosa si dipana anche nel Baden Wurttemberg, in Assia, Baviera e Nord Reno Westfalia, dove sarebbero attive le famiglie Pesce e Bellocco di Rosarno. Sempre in Assia e Baden Wurttemberg è presente una filiale del “locale” di Cirò con una serie di attività commerciali e nella ristorazione. Concorrenza aggressiva?
LE MANI SULL’ASSIA. In realtà pare che una cellula dei Farao Marincola distaccata in Germania non avesse neanche bisogno di chiedere, ai ristoratori calabresi, per imporre i prodotti di imprese controllate dalla cosca. La propaggine criminale cirotana aveva allungato i propri tentacoli in primis sul land tedesco dell’Assia. Ma sarebbe stata attiva un’altra cellula, operativa nel land del Baden Wurttemberg, in particolare nella zona di Stoccarda, che avrebbe monopolizzato il mercato dei semilavorati per pizza nonché i vini di imprese occultamente controllate. Articolazioni criminali, a quanto pare, alle dipendenze dei maggiorenti del clan, almeno secondo le rivelazioni della collaboratrice di giustizia Maria Vallonearanci, pure corroborate da intercettazioni. La donna, emigrata in Germania, da tempo “canta” sulla figura di Domenico Palmieri, originario di Cirò Marina ma dimorante a Fellbach, dove gestisce un circolo ricreativo, “Inter Club Fellbach”, utilizzato da esponenti della criminalità organizzata per organizzare incontri riservati, nonché come centro di stoccaggio di banconote contraffatte provenienti dall’Italia. Il denaro contraffatto sarebbe stato stampato in Calabria, a Mandatoriccio, dove Mario Lavorato, referente della ‘ndrangheta tedesca, ha una stamperia. Talvolta il denaro sarebbe stato trasportato in Germania da due rossanesi, che come carichi di copertura avrebbero utilizzato casse di mandarini. Le banconote farlocche sarebbero state così scaricate presso la pescheria di Palmieri e successivamente occultate nell’ “Inter Club”.
LE ALLEANZE. Nelle regioni della Turingia e della Sassonia (land dell’ex Germania dell’Est) la ‘ndrangheta ha stabilito alleanze operative con le mafie dell’Est Europa, sfruttando le opportunità del mercato finanziario e immobiliare, soprattutto in seguito alla caduta del Muro di Berlino. Un insediamento della cosca Morabito Bruzzaniti Palamara di Africo Nuovo è localizzato a Neuwied. Ma anche Cosa nostra è presente in Germania, sopecie col traffico di stupefacenti e di armi e il reimpiego dei capitali illeciti nell’edilizia.
· La Mafia Nigeriana.
Preso Boogie, il dj-boss nigeriano. Musicista afro-beat, trafficante e gestore di un racket nel Nord Italia. Catturato a Verona. Tiziana Paolocci, Venerdì 30/10/2020 su Il Giornale. Suonava tutt'altra musica quando non si esibiva alle feste. Emmanuel Okenwa, conosciuto come Boogie, noto dj di musica afro beat, arrestato mercoledì notte dalla squadra mobile di Ferrara, si può dire anzi che «orchestrava» il traffico di droga e le estorsioni nel Nord Italia, dove era il capo indiscusso di una costola della mafia nigeriana. Gli investigatori hanno sorpreso il cinquantenne, che si definiva il «re di Ferrara», a Verona, dopo che era riuscito a sfuggire poche ore prima alla cattura, che in due operazioni parallele tra Piemonte ed Emilia-Romagna aveva portato una settantina di suoi connazionali in carcere. Le indagini erano partite dal tentato omicidio nel 2018 a Ferrara di un giovane che fa parte del clan degli Eiye, in conflitto con quello dei «Supreme Viking Arobaga», guidato dal «Boogie». Intercettazioni, pedinamenti e appostamenti hanno permesso alla polizia di smantellare i «cult», come vengono chiamati i gruppi criminali, «Viking-Arobaga» a Ferrara e «Valhalla Marine» a Torino, ma il dj non stato trovato. Era proprio lui il «capo mandamento» per Padova, Vicenza e Venezia, dove la criminalità nigeriana gestiva traffico di cocaina e le estorsioni, perpetrate nei confronti di quei connazionali, negozianti onesti, obbligati a pagare il pizzo. La mobile ha scoperto che esisteva una suddivisione gerarchica tra i membri, che sottostavano alle direttive impartite dalla Nigeria, erano vincolati al rispetto della segretezza e venivano affiliati con riti tribali, durante riunioni alla presenza dei capizona, tra Brescia e Veneto mentre la droga arrivava da Parigi e Amsterdam, grazie all'appoggio di «corrieri» che entravano in Italia attraverso i valichi del Monte Bianco e del Frejus. Boogie è stato individuato a Verona dove doveva esibirsi per una festa di battesimo. Nell'immediato è stato sorpreso vicino alla stazione Verona-Portanuova, ma si è sottratto alla fuga. Poco dopo, però, è stato catturato alla stazione Porta Vescovo. Agli agenti in borghese ha detto di aver saputo che era ricercato e stava tornando a Ferrara per prendere alcuni effetti personali. Ma la vera intenzione era di fuggire. Tra le fila della mafia nigeriana c'erano anche donne, che si contendevano il potere, mentre a Padova il ruolo centrale era di Albert Emmanuel detto «Raska». Dalla sua abitazione manovrava chili di droga proveniente dall'Olanda, che giungeva qui attraverso giovani donne spedite all'estero a ingoiare fino a 50 ovuli di stupefacente per volta per importarlo in Italia.
Massimiliano Peggio per “la Stampa” il 29 ottobre 2020. «Sono un musicista e lotto contro la mafia nigeriana. Sono famoso a Torino per le mie battaglie. Il 5 luglio 2018, mentre mi trovavo in corso Giulio Cesare con alcuni amici musicisti, è arrivato un uomo conosciuto con il nome di Prince. Con due complici mi ha colpito con un macete. Sono stato ferito al braccio sinistro e al fianco. Mi hanno rotto le ossa. Se non avessi alzato la mano per difendermi mi avrebbero ucciso». Da un tentato omicidio, nei confronti di un giovane artista africano, più di due anni fa è iniziata l' indagine che ha portato gli investigatori della Squadra Mobile a smascherare una nuova organizzazione mafiosa nigeriana radicata a Torino: i Viking. Signori della droga e delle violenze. Governano le aree di spaccio di Aurora. Controllano la rete di pusher della zona del Lungo Dora Savona, tra via Bologna e ponte Mosca. Ma hanno ramificazioni a Ferrara, nel Veneto e in altre zone italiane. Ieri un' ondata di arresti e perquisizioni: 52 provvedimenti cautelari, di cui 33 eseguiti a Torino. In cella sono finiti i vertici e i gregari dei Viking, una delle mafie nigeriane più agguerrite nel panorama criminale internazionale. Una trentina i capi di imputazione, a partire dall’accusa di aver formato un'associazione di stampo mafioso con tutte le caratteristiche di quelle «nostrane»: struttura verticistica, regole di condotta, riti di affiliazione. È la seconda operazione condotta dalla polizia contro organizzazioni nigeriane a Torino. Nel 2019 erano stati colpiti i Maphite. Andando a ritroso nel passato, erano già incappati nelle maglie della giustizia altri gruppi criminali nigeriani: gli Eiye e i Black Axe. Tutti impegnati nel controllo del territorio, droga e prostituzione. Da qui un immenso flusso di denaro spedito in Africa. «I Viking sono violenti e sono senza cuore» si legge negli atti a firma del gip Edmondo Pio. Le mafie della Nigeria sono chiamate cult. «Ci sono diversi cult, ognuno distinto da un simbolo o un colore - ha raccontato una vittima dei Viking agli investigatori - Gli Aromate o Viking si vestono di rosso, i Black Axe indossano un basco nero e un nastrino giallo, gli Eiye si vestono di blu, i Maphite di verde. In Nigeria si scontrano continuamente, si uccidono fra loro per il dominio. I Viking prima erano meno importanti, ora sono più numerosi e molto violenti». Organizzazione piramidale, con un livello nazionale, che in Italia prende il nome di «Vatican Marine Patrol», e strutture locali, per lo più nel centro-nord, dette «Marine Patrol» o «Deck». Il ramo torinese prende il nome di «Valhalla Marine». Molte le intercettazioni telefoniche, contenute nell' inchiesta coordinata dal pm Enrico Arnaldi di Balme, che fanno riferimento a questa entità territoriale che domina in città. Al vertice c' è un capo operativo definito «Executional». Il boss che comanda il territorio. C' è un collegio di anziani. E poi altre figure, tutti con nomi inglesi. Ad esempio l'«Arkman», il vice capo operativo, l'«Emeretus», il consigliere esperto, lo «Strike chief», il responsabile delle attività di spaccio. L'«Executional» esercita il suo potere punitivo nei confronti degli affiliati con un machete, chiamato «Manga». Gli agenti della Mobile, sotto la direzione di Luigi Mitola, hanno arrestato i capi torinesi dei Viking in corso Giulio Cesare. In manette l' eminenza grigia del cult: Chukwudi Stanley Amanchukwu, detto Chuks, 46 anni, considerato il fondatore del «Deck Valhalla Marine». Stando all' indagine, nella sua abitazione, in corso Giulio 169, dopo un periodo di tensioni interne ai Viking, il 14 settembre 2019 si è tenuto il summit per decidere il futuro dell' organizzazione, e consegnare lo scettro operativo a Chuks Okafor, di 26 anni. Il boss emergente. In pochi mesi, tra il 2018 e il 2019, è passato a ricoprire il ruolo di «Arkman», «Executional», «Emeretus» e di nuovo «Executional» per volontà di Amanchukwu. In più conversazioni telefoniche Okafor ha rivendicato, con toni minacciosi, il suo ruolo di capo del cult torinese. Per il tentato omicidio del musicista è accusato un Emeretus, padrino di molti affiliati: Odino Osas, 25 anni, detto Prince.
Patrizia Floder Reitter per “la Verità” il 29 ottobre 2020. C'era anche un dj di musica afro beat, Emmanuel «Boogie» Okenwa, tra i capi di un gruppo criminale nigeriano che operava principalmente tra Torino e Ferrara e che ieri è stato smantellato. Una vasta operazione delle forze dell' ordine, che ha visto coinvolti oltre duecento operatori della polizia di Stato, sotto il coordinamento del Servizio centrale operativo della direzione centrale anticrimine, ha portato all' arresto nelle due città di 56 affiliati al Viking o Norsemen Kclub international, feroce associazione di stampo mafioso che si era imposta con il controllo dello spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, la rapina e l' estorsione. Altri nigeriani sono ancora ricercati. I provvedimenti restrittivi riguardano 69 persone ai vertici di un sodalizio che è parte di un più ampio gruppo, con riti tribali di affiliazione, radicato in Nigeria e diffuso in diversi Stati europei ed extraeuropei. Sul territorio italiano è suddiviso in cellule locali chiamate «deck» o Marine patrol (Mp), una delle quali gestiva la più grande rete di spaccio siciliana dal centro di accoglienza migranti di Mineo. Il programma criminoso del gruppo, equiparato per struttura e forza intimidatoria alle mafie tradizionali, «era quello di acquisire il controllo del territorio annientando violentemente o mettendo, comunque, in condizione di non nuocere, altre confraternite nigeriane concorrenziali, per acquisire il monopolio sulle attività criminose di interesse», scrive il gip di Ferrara, Gianluca Petragnani Gelosi. Le indagini, coordinate dalle direzioni distrettuali antimafia delle Procure di Ferrara e di Torino, hanno preso il via nel luglio del 2018, dopo il tentato omicidio di un giovane nigeriano appartenente alla confraternita degli Eiye, aggredito con un machete da sette connazionali che poi la polizia scoprirà appartenenti ai Viking. L' aggressione avviene in zona Gad a Ferrara «dove da anni si è insediata una comunità nigeriana molto numerosa e all' interno della quale operano diversi gruppi criminali», spiega Dario Virgili, dirigente della Squadra mobile di Ferrara da dove è partita l' indagine Signal. «I Viking erano i più forti, i più strutturati, hanno avuto il predominio sugli altri e ottenuto il controllo del narcotraffico, che era la loro principale attività». Si scopre che anche a Torino operano appartenenti alla stessa organizzazioni, partono le indagini e viene individuata la struttura piramidale della Viking «che si spaccia come associazione benefica ma in realtà ha ferree regole gerarchiche, riti di iniziazione e si impone con spietata violenza sulla comunità nigeriana», precisa Virgili. I vertici dell' organizzazione prendono ordini dal «chairman» italiano e dal «national», il capo assoluto in Nigeria. Hanno una ferrea suddivisione gerarchica e pretendono fedeltà assoluta da parte degli affiliati che se non obbediscono subiscono percosse, colpi di machete ma anche punizioni pecuniarie. Tra i capi c'era il cinquantenne Emmanuel «Boogie» Okenwa, di professione dj e che in un' intercettazione si definisce «il re di Ferrara». Aveva il controllo anche delle province di Padova, Treviso e Venezia e si occupava in particolar modo di risolvere le diatribe tra gli associati dei ranghi più bassi, inviando spedizioni punitive per riportarli all' obbedienza. Durante le riunioni, gli affiliati indossano baschi rossi e salutano il capo, il chairman, con la formula «salutamos», parlano in codice e hanno vincoli di segretezza. Okenwa ieri è sfuggito all' arresto. I Viking importavano eroina e cocaina dalla Francia e dall' Olanda, utilizzando soprattutto donne ovulatrici che si spostavano in auto o in treno. Gli investigatori sono riusciti a ricostruire almeno dieci viaggi che hanno fruttato circa 90 chilogrammi di sostanze stupefacenti per un valore di 5,4 milioni euro. Affari imponenti, controllati dalla mafia nigeriana che è stata in grado di imporre «una forte soggezione» ai connazionali, come ha dichiarato il gip Petragnani Gelosi, e «alla quale ha fatto da sponda, quanto meno, una certa omertà». A Torino l' associazione aveva il nome di Valhalla marine e reclutava le affiliate mediante rapporti sessuali di gruppo, costringendole poi a pagare somme di denaro in cambio di un' inesistente protezione. Solo una nigeriana, Osayande Aisha detta «One queen», di fatto occupava un ruolo nella gerarchia ed è per questo accusata di associazione mafiosa per l' incarico che aveva di controllare lo sfruttamento delle sue connazionali. A tutti gli affiliati della Norsemen Kclub international vengono contestati il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, i delitti di tentato omicidio e associazione finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, rapina, estorsione e lesioni gravissime. Le attività investigative si sono sviluppate attraverso intercettazioni e pedinamenti sul territorio, consentendo di individuare i vertici nazionali dell' organizzazione, in costante e diretto contatto con i leader operanti in Nigeria.
· La Mafia Pachistana.
Così la mafia pakistana sfrutta e uccide gli immigrati. Caporalato, estorsioni, prostituzione, sequestri. L’omicidio di un bracciante a Caltanissetta squarcia il velo su una cosca sconosciuta ma collegata a quelle italiane. Alan Schifo r Rosario Sardella il 09 settembre 2020 su L'Espresso. «Justice for Adnan»: con gli occhi pieni di lacrime e rabbia, decine di ragazzi pakistani chiedono che venga fatta luce sulla morte di un loro amico. Non lo gridano tra i palazzi di Islamabad ma in corso Umberto I, nel cuore di Caltanissetta, a pochi passi da via San Cataldo. Dove, tra le vecchie case malconce del centro storico, alcune occupate abusivamente, abitava Adnan Siddique, giovane pakistano ucciso a coltellate, lo scorso 3 giugno, per aver squarciato il velo su una nuova realtà criminale che ha il suo centro nella città nissena. Per il suo omicidio sono stati finora arrestati quattro pakistani (e altri due sono stati fermati per favoreggiamento). «Ma il resto dell’organizzazione è ancora a piede libero», ci spiega Alì, amico di Adnan, 35 anni, uno dei pochi nel gruppo che parla bene l’italiano: «Abbiamo un po’ di paura, ma siamo qui perché lo dobbiamo ad Adnan e alla sua famiglia. Vogliamo la verità su quanto sta succedendo ai migranti che lavorano nelle campagne tra Caltanissetta e Agrigento». “Caporalato”, si è detto dopo quel delitto, deciso dalla banda perché Adnan aveva accompagnato due suoi connazionali a denunciare il lato oscuro della comunità pakistana. Ma quell’omicidio rivela qualcosa di più: un’organizzazione criminale radicata, responsabile anche di molti altri reati, una sorta di mafia pakistana con un filo diretto con il Paese d’origine e le cui vittime sono il più delle volte altri pakistani, ma anche afghani e africani. Di questa organizzazione il caporalato è solo uno dei settori d’attività: «Chi arriva a Caltanissetta per trovare lavoro si rivolge a questi personaggi», spiega il colonnello dei carabinieri Baldo Daidone, in prima linea per scoprire cosa si nasconde dietro la morte di Adnan. «Si tratta di una intermediazione lavorativa diversa dal classico caporalato, su cui stavamo già lavorando e su cui continuiamo ad indagare». “Justice for Alì”, con gli occhi pieni di rabbia decine di ragazzi pakistani gridano che venga fatta giustizia per l’uccisione del loro connazionale, Adnan Siddique, avvenuta lo scorso 3 giugno. L’omicidio squarcia il buio di una vera e propria organizzazione criminale che ha il proprio centro a Caltanissetta e con un filo diretto con il Pakistan. Il caporalato è solo uno dei settori su cui i criminali hanno puntato gli occhi, poi ci sarebbe un presunto giro di estorsioni che la stessa banda criminale opererebbe nei confronti di coloro che vendono la frutta al dettaglio. E i sequestri di persona. Come racconta Adu, picchiato e prelevato dalla sua abitazione a Sommatino, paesino della provincia di Caltanissetta, e portato a casa di italiani a Canicattì, in provincia di Agrigento. «Mi hanno picchiato con il bastone e volevano parlare con mio padre in Pakistan per chiedergli cinquemila euro. Mi ha aiutato Dio se sono ancora vivo, perché loro mi volevano ammazzare». Uno dei ragazzi che dopo il delitto continua a lavorare nei campi, non vuole dire il proprio nome ma mostra la chat Telegram in cui i “capi” cercano persone da sfruttare. Non c’è ancora il sole quando su automobili e pulmini, nel cuore della “Strata ’a Foglia”, decine di pakistani vengono prelevati e trasportati nelle campagne di Delia e Sommatino per la raccolta degli agrumi e della celebre “uva Italia” tipica di queste terre. «Anche il viaggio si paga», racconta il ragazzo, «dobbiamo dare 5 euro e alla fine non ci rimane quasi nulla». Gli sfruttati non solo pakistani, si diceva: gli ultimi a essere finiti nel gorgo, ad esempio, sono i somali. Roba facile, il procacciamento dei migranti, vista la presenza del centro di accoglienza appena più in là, in contrada Pian del Lago. Secondo Ignazio Giudice, segretario provinciale della Cgil di Caltanissetta, «esiste un caporalato variegato, fatto di contratti e buste paga finte, assenza di copertura infortunistica, evasione fiscale, criminalità organizzata che gestisce i braccianti. Bisognerebbe intervenire, fare i controlli nelle aziende agricole del territorio provinciale. Nelle campagne spesso si consumano reati non solo legati allo sfruttamento del lavoro, ma anche al procacciamento di documenti, di affitti delle case in nero dove vanno ad abitare i loro connazionali e altro ancora». E proprio questo aveva denunciato Adnan, per aiutare i suoi amici, come raccontano al bar dove lui andava ogni giorno e in cui oggi, nonostante la paura di ritorsioni, i proprietari ancora chiedono giustizia perché «Adnan era buono». In quella stradina, dove ogni giorno si tiene il mercato della frutta, con le insegne in doppia lingua, c’è la foto di Adnan, diventata un simbolo. Ma anche prima lui era un punto di riferimento per molti suoi connazionali, circa 1.300, oggi, nel territorio nisseno. Per capirne di più andiamo a parlare con Filippo Maritato, barba bianca e pipa in bocca, presidente della Casa delle Culture e del Volontariato, creata a Caltanissetta durante il periodo della grande immigrazione dei siriani. Tramite un finanziamento Maritato ha fatto ristrutturare un’ex scuola e ne ha fatto la sede della sua associazione, dove i volontari si riuniscono e provano a produrre «nuova linfa vitale per questa città che sembra assopita»: dall’assistenza sanitaria a quella carceraria per i circa 200 migranti detenuti al Malaspina, fino al banco alimentare, nello sforzo di creare le condizioni per una vera accoglienza fatta di integrazione e legalità. Dopo l’omicidio di Adnan Siddique, Maritato ha riunito i pakistani e con loro ha cercato di capire cosa si nascondesse dietro quell’agguato - e quanto il fenomeno del caporalato sia in mano a questa banda di criminali. «Così abbiamo scoperto che da almeno due anni Adnan era stato minacciato», ci spiega. «E non era il caporalato la sola attività di questo gruppo di pakistani. C’era stato, ad esempio, anche il tentativo di avvicinare delle ragazze dominicane per costringerle alla prostituzione. E dell’altro ancora». “L’altro ancora” è un giro di estorsioni che la stessa banda criminale opererebbe nei confronti di coloro che vendono la frutta al dettaglio, perlopiù giovani, nello storico mercato “Strata ’a foglia” di Caltanissetta. E se i ragazzi delle bancarelle non versano il pizzo o si ribellano, vengono picchiati e minacciati direttamente i loro parenti in Pakistan. La squadra mobile della questura di Caltanissetta, subito dopo l’omicidio di Adnan, ha intercettato il telefoni di Bilal Muhammed (uno degli arrestati) a colloquio con un certo Chery, diminutivo di Sharyeal: «Fammi sapere quanti nomi mettono nella denuncia», chiede Bilal al suo interlocutore, e poi aggiunge: «Fratello, digli a Dani Rana di non fare il testimone perché altrimenti non diamo pace alla sua famiglia (in Pakistan, ndr) e gliela mettiamo nel culo. Abbiamo fatto sapere a Rana che abbiamo minacciato la sua famiglia». Un sistema di ricatti e intimidazioni che costringeva al silenzio i pakistani, come racconta uno di loro all’Espresso: «Questa banda era nota, qui in zona, però nessuno aveva il coraggio di denunciarli. A me dovevano pagare una giornata di lavoro ma quando ho chiesto i soldi, Bilal mi ha detto di non lamentarmi, sennò finivo nei guai». Adesso a Caltanissetta Alì e i suoi amici pakistani hanno dato vita a un comitato permanente, portando alla luce nuovi elementi: ad esempio, hanno trovato una specie di libro mastro in cui la banda segnava le giornate lavorative e alcuni nomi dei caporali e dei padroni italiani. Una volta al mese i ragazzi del comitato si incontrano con Filippo Maritato e i volontari italiani. Sono loro che hanno rinvenuto a casa di Adnan la copia originale dell’ultima denuncia. Due giorni prima di essere ammazzato, Adnan aveva accompagnato un suo connazionale a denunciare quello che gli era successo, cioè un rapimento: era stato prelevato con forza dalla banda nella sua abitazione di Caltanissetta e portato in macchina a Canicattì, in una casa di italiani. «Mi hanno obbligato a chiamare mio fratello in Pakistan per dirgli di pagare tremila euro. Quando lui ha pagato (con un money transfer), mi hanno lasciato andare, minacciandomi di uccidermi se avessi denunciato l’accaduto», si legge nella denuncia dell’amico di Adnan. Un altro sequestro porta invece a Sommatino, nell’entroterra nisseno. Un rapimento con la richiesta di un riscatto di cinquemila euro, dietro la minaccia di uccidere il padre della vittima, in Pakistan. Il ragazzo era stato portato anche lui sempre in quella stessa casa di italiani a Canicattì. Sì, perché la mafia pakistana lavora per conto di italiani, ci racconta anche Adu (nome di fantasia per tutelare l’identità della nostra fonte), il quale a sua volta dice di essere stato picchiato selvaggiamente da 12 pakistani che erano arrivati in tutta calma a casa sua, attraversando l’intero paesino. Gli chiedevano dei soldi, di quelli che guadagnava come bracciante. Uno dei pakistani che lo hanno picchiato, un mese dopo sarà arrestato nella vicenda Adnan. «Perché nessuno ha fatto dei controlli dopo la mia denuncia? Ora hanno arrestato sei di loro, ma tutti gli altri sono ancora fuori. Io e gli altri abbiamo paura», dice. Ma l’anello mancante è rappresentato proprio dagli italiani: piccoli e grandi proprietari terrieri delle aziende locali a cui fa comodo la manodopera a basso costo. Ora le indagini dovranno scoprire per chi lavora la mala pakistana, chi c’è in quel “secondo livello” sopra i kapò che sfruttano, minacciano, picchiano e rapiscono i loro connazionali.
· La Mafia jihadista. Gli affari dei califfati.
Sofia Dinolfo Mauro Indelicato per ilgiornale.it il 3 luglio 2020. Quando si parla di immigrazione, automaticamente spesso si pensa alle immagini di vecchi barconi in difficoltà lungo il Mediterraneo, così come a gommoni trascinati a fatica verso la costa con a bordo decine di persone. Nella stragrande maggioranza dei casi in cui si parla di partenze dal nord Africa del resto, si ha a che fare con mezzi di fortuna oppure poco adeguati all’attraversamento del Mediterraneo. Non sempre tuttavia è così: a volte, soprattutto nel trapanese e nell’agrigentino, è possibile riscontrare degli sbarchi attuati con modalità del tutto differenti, a volte anche con motoscafi di una certa cilindrata.
Quei viaggi solo per “pochi”. È un fenomeno in crescendo quello degli arrivi nel sud Italia attraverso mezzi di “lusso” e riservato solamente ai migranti “benestanti”. Non barchini o barconi, non gommoni ma potenti mezzi che consentono di affrontare lunghe traversate in condizioni di sicurezza. Si tratta di motoscafi , in ottimo stato, con posti riservati a non più di una decina di persone che possono usufruire non solo di un viaggio sicuro ma anche molto più veloce rispetto a quello garantito dalle altre imbarcazioni. Ma non solo, mezzi di questo genere consentono di attraversare il mar Mediterraneo in sordina eludendo spesso i controlli da parte delle autorità. Chi vi viaggia? Come detto prima si tratta di persone che hanno a disposizione del denaro e quindi possono permettersi traversate di questa portata. A dare conferma delle loro disponibilità economiche è anche il loro abbigliamento. Le persone che scendono dai motoscafi sono spesso curate e i loro indumenti sono contraddistinti da note griffe. Gli zaini al seguito contengono cambi la cui qualità non è da meno.
La “costosa” rotta tunisina. I viaggi di questo genere hanno sempre inizio dal nord della Tunisia e, precisamente, da Biserta. Qui, da un punto di vista logistico la rotta più vicina è quella che consente di arrivare direttamente nelle coste del trapanese e dell’agrigentino. Chi vi approda ha a propria disposizione una possibilità non indifferente, ovvero riuscire ad eludere i controlli subito dopo lo sbarco per raggiungere la strada e da lì i mezzi pubblici. La tipologia del “servizio” offerto dalle organizzazioni criminali spiega così il perché di costi eccessivi, alcune migliaia di euro, e il perché sono solo in pochi a potersi permettere viaggi di questo genere. Tutto al contrario quello che accade a sud della Tunisia: a Sfax. Qui, la rotta seguita è quella che, per motivi logistici, consente di arrivare con maggiore velocità a Lampedusa. Chi arriva nell’isola maggiore delle Pelagie non passa però inosservato. Qui si mette in moto sin da subito la macchina dei controlli e delle verifiche da parte delle Forze dell’ordine ai migranti. Finite le procedure di identificazione, i nuovi arrivati vengono trasferiti nei centri di accoglienza a disposizione.
Un fenomeno non nuovo. Lo sbarco avvenuto ad Agrigento mercoledì ha portato alla ribalta gli “sbarchi di lusso”, accendendo nuovamente i riflettori su questa tipologia di approdi lungo le nostre coste. Tuttavia, quello dell’arrivo di imbarcazioni costose con a bordo migranti ben vestiti non è un qualcosa riscontrabile soltanto in questo primo scorcio d’estate. Si badi bene: approdi del genere sono considerati atipici, perché rari e perché la stragrande maggioranza dei migranti viene fatta viaggiare dai trafficanti di esseri umani a bordo di gommoni e barconi malandati. Però di sbarchi avvenuti con mezzi più importanti e costosi se ne possono annotare diversi nel corso degli ultimi anni. Ne sanno qualcosa nel trapanese: è qui che generalmente è possibile verificare l’arrivo di migranti tramite motoscafi molto veloci oppure anche veri e propri yatch. A portare a galla il fenomeno sono state diverse operazioni delle forze dell’ordine compiute soprattutto dal 2017 in poi. In provincia di Trapani, così come nella parte occidentale di quella di Agrigento, sono state scoperte diverse organizzazioni criminali dedite a portare dalla Tunisia alla Sicilia diversi migranti tramite imbarcazioni di lusso. Una svolta nello studio di questo particolare tipo di fenomeno, si è avuta nel gennaio del 2019: in questo mese infatti, ben due operazioni hanno portato a galla una realtà criminale nel trapanese dove la principale fonte di guadagno era proprio quella dell’organizzazione di viaggi di lusso lungo la rotta tunisina. La prima, in particolare, è scattata il 9 gennaio 2019 ed è stata denominata “Abiad”: 15 persone sono state arrestate, una di queste mostrava anche simpatie jihadiste. L’organizzazione aveva basi soprattutto in provincia di Trapani. Pochi giorni dopo e sempre nel trapanese gli inquirenti hanno fatto scattare il blitz “Barbanera”, dal soprannome del principale indiziato delle indagini, ossia il tunisino Moncer Fadhel. Anche in questo caso, è stato accertato che il gruppo criminale riusciva a far arrivare tra Marsala e Mazara del Vallo diversi gruppi di migranti tramite imbarcazioni diverse dai soliti barchini.
Chi c’è dietro gli sbarchi di lusso. A volte, come nel caso del sopra citato episodio di Agrigento, approdi del genere appaiono “spontanei”: con un motoscafo rubato in Tunisia, gruppi di dieci persone dopo 10 o 12 ore di navigazione possono giungere in Sicilia senza incappare in controlli particolari lungo la rotta. Quando ad arrivare sono gruppi di modeste dimensioni allora è possibile pensare a piccole organizzazioni locali non ben strutturate che agevolano le partenze. Ma, come del resto riscontrato nelle operazioni sopra citate, spesso non è così: la mano delle organizzazioni in grado di cementificare sodalizi criminali su entrambe le sponde del Mediterraneo è ben evidente negli sbarchi di lusso. Chi può permettersi di organizzare viaggi del genere, ha dietro gruppi ben articolati ed in grado di gestire logisticamente e finanziariamente la tratta. Tanto è vero che i trafficanti di esseri umani che operano con imbarcazioni di lusso, gestiscono anche altri tipi di business illegali: dal contrabbando di sigarette a quello delle sostanze stupefacenti, che spesso viaggiano dentro le barche assieme ai migranti. E c’è poi un altro aspetto, non meno significativo, costituito dall’ombra dell’estremismo islamico. L’operazione Abiad ha svelato le trame di un gruppo criminale retto da persone con simpatie per le ideologie jihadiste. Nei giorni scorsi contro il trafficante Barbanera è scattato un sequestro di beni da 1.5 milioni di Euro: nel provvedimento emesso dagli inquirenti, si fanno riferimenti anche ad intercettazioni in cui Barbanera ed altri complici parlano di attentati contro caserme ed altri obiettivi sensibili. Dunque, dietro i viaggi di lusso si nascondono gli interessi di sodalizi ben collaudati e ramificati, in Tunisia come in Italia, operanti tra Trapani ed Agrigento ed in cui non è da escludere lo spettro del terrorismo.
Domenico Quirico per ''la Stampa'' il 2 luglio 2020. Gli affari dei jihadisti, il variegato business criminale dei Califfati, ovvero petrolio, reperti archeologici e droga, hanno codici, parole d'ordine, territori segreti, manovali e manager. Formicolano di viluppi misteriosi con le delinquenze più domestiche, le mafie italiane e quelle russe e cinesi, a disegnare una globalizzazione riuscitissima, una originale Cosa Nostra di crimine e fanatismo. Leggende, misteri e fatti li agitano, gonfiano, fanno vivere. Dove spesso bisogna guardare le cose a rovescio per vederle dritte. Di certo gli affari continuano anche ora che gli eredi di Abu Bakr sono passati allo stato gassoso della guerriglia e alla efficace delocalizzazione in caparbie periferie. Mentre l'Occidente ha l'oblio facile. Dice un proverbio siriano: le tracce indicano il cammino. Ecco una traccia: al porto di Salerno. La Guardia di finanza sequestra quattordici tonnellate di anfetamine, 84 milioni di pasticche che portano un logo evocativo, Captagon. Il più grande sequestro di queste sostanze a livello mondiale. La droga era nascosta in cilindri di carta di uso industriale, ingegnosa botola a più strati che doveva sfuggire anche al controllo degli scanner, distribuita a 350 chili per cilindro. Se il peso non basta a stupire, ci pensano altre fantasmagoriche cifre: il miliardo di euro che avrebbe reso lo smercio.
Italia tappa dei traffici. In Campania, via Gioia Tauro, arrivavano anche le fila del traffico di reperti archeologici trafugati dai jihadisti in Siria e Libia. La mafia cinese faceva da corriere con le sue navi, la' ndrangheta provvedeva allo spaccio sul mercato clandestino dell'arte. Coincidenze. Rimandi. Intriganti e significativi. Cambiano le merci. Le vie e i soci sono gli stessi. Mafia di Dio e mafie più terrene continuano a collaborare, innescate da appetiti senza fondo. Captagon: ecco pronunciato il logo losco. Ci hanno appiccicato l'eco degli anni del massacro siriano e del fanatismo planetario. Questa droga è un vintage che torna dopo molte metamorfosi, anche chimiche. È ascesa dalla spicciola cronaca nera alla geopolitica. Perché ormai per definizione è «la droga della guerra siriana», «le pasticche dell'Isis», oppure «la droga dei terroristi».
Il mix in pastiglie. Negli anni Sessanta questa droga la deglutivano intellettuali alla moda sulla Rive Gauche per dare slancio a libri memorabili, gli studenti bisognosi di faticosi ripassi notturni, ciclisti, pugili e integralisti del body building. Un rimedio universale: eccita, fornisce energia, concentrazione, potenza. Malizie raccontano che non la lesinavano negli spogliatoi del Marsiglia, spiegherebbe persino una coppa dei campioni. Sparì dalle farmacie negli anni Novanta. Per ricomparire nell'arsenale guerresco degli islamisti. Rafforzerebbe lo slancio guerresco, la resistenza alla fatica, la smania di farsi bombe umane. L'arma segreta che trasformerebbe in belve affiochiti guerrieri da caffè. Distinguere il vero dal mito è diventato difficile. Spiegare l'efficienza micidiale dei jihadisti con il ricorso alla droga sarebbe come attribuire le vittorie iniziali delle armate di Hitler alle droghe che venivano distribuite tra i suoi solerti combattenti. Il grande consumatore di Captagon è certo il mondo arabo: Arabia saudita e paesi del golfo soprattutto. Qui la droga è ufficialmente una bestemmia contro dio, chi la smercia va al patibolo, ma evidentemente il vizio si è scavato una confortevole tana tra i buoni credenti. I clienti non sono certo i combattenti di dio. Le scorte del principe Nel 2015 all'aeroporto Hariri di Beirut grande agitazione per l'arrivo di un vip, un giovane elegantemente avvolto nella "dichdacha" immacolata. È un principe della famiglia reale saudita dal nome lunghissimo come i conti in banca, Abdel Mohsen Ibn Walid Ibn Abdelalziz. È venuto per svagarsi a Beirut, antica e ribalda villeggiatura di quei dinasti. Riparte tra salamelecchi e mance, i suoi famigli sfilano affardellati da otto elegantissime valigie e 32 enormi cartoni con il simbolo saudita, palmizi e scimitarre incrociate. Come dire, roba sacra, non si tocca. Solo che stavolta i finanzieri libanesi invece di inchinarsi all'ospite, vogliono aprire, ispezionare, frugare. Sconcerto, indignazione, minacce di incidente diplomatico. Affondano le mani in due tonnellate di pillole Captagon, dieci milioni di dollari di anfetamine. Il principe dice di non sapere nulla, accusa, è una vecchia abitudine dunque, due collaboratori. Diventa "il principe Captagon". Nessuno ha mai scoperto a chi fossero destinati i quintali di droga, eccessivi per uso personale: alle mille e una notte degli innumerevoli principi sauditi o ai giorni grami e pericolosi dei jihadisti siriani di cui l'Arabia saudita è il grande padrino? Si mormora che la improvvisa curiosità dei doganieri fu una vendetta di Hezbollah, il partito di dio libanese contro i sauditi, grandi avversari del loro alleato Bashar Assad e dell'Iran sciita.
La produzione europea. Ai tempi bolscevichi del Patto di Varsavia il Captagon lo producevano i bulgari, in un laboratorio di stato, il Pahrmachim. Smerciandolo via Turchia, fatturavano valuta pregiata. Gli alleati del regime siriano avevano parte nel traffico. Smontati i Muri, le mafie rilevano l'attività, c'è un mercato dei chimici più bravi, ci si batte eliminando la concorrenza con il kalashnikov. In Europa, però, la fenetillina passa di moda: con eroina e ecstasy persino i bulgari non la vogliono più. Ma questa droga dei poveri può valere ancora oro. Giudiziosamente si delocalizza la produzione vicino ai luoghi arabi di maggior consumo, Libano e Siria. I chimici si trasferiscono, semplici macchinari prodotti in Cina e in India lavorano a pieno regime. Nelle benedette terre wahabite la pillola è popolarissima, la chiamano "al Captagon", ha perfino fama di esser più efficace del viagra. Altro che jihad!
Il business. La guerra civile siriana, con il suo caos, è una occasione imprenditoriale. I laboratori controllati ora dalle milizie islamiche esportano per milioni di dollari e forniscono denaro per le munizioni. Si lavora anche nella piana della Bekaa alla frontiera tra Siria e Libano, la Silicon Valley della droga di Hezbollah. Sono i curdi a legare, probabilmente con troppa enfasi, le anfetamine al Califfato: a Kobane, raccontano, i combattenti morti avevano le tasche piene di pillole, i miliziani catturati farfugliavano, con gli occhi sbarrati, in preda alla droga con cui avevano cercato coraggio per l'assalto. Purtroppo non è il Captagon ad ammantellare il furore sanguinario, le fregole e i parossismi militari del jihad. Come forse dimostrerà il sequestro di Salerno, continua semplicemente a riempirne i forzieri.
· La Mafia Italo-Canadese.
Canada, una guerra di mafia lunga 5 anni. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 18 Luglio 2020. Trenta morti negli ultimi cinque anni nella regione dei grandi laghi, Ontario, e da Montreal a Toronto. Secondo le relazioni ufficiali delle Giubbe Rosse. Parallelamente, un rapporto ufficioso aumenterebbe di molto i morti ammazzati, e nei sussurri della malavita il fiume degli uccisi avrebbe un corso più lungo, ampio. Formalmente c’è, in Canada, un’unica grande famiglia di mafia: un ibrido nato come filiazione di cosa nostra statunitense ma formato soprattutto da criminali della provincia di Reggio Calabria, i cui vertici nel tempo di un secolo sono passati a essere tutti calabresi così come il rito di affiliazione. La mafia canadese è oramai considerata solo ‘ndrangheta, una sola famiglia con tante locali in cui non dovrebbero esserci contrasti, e ufficialmente nessuno li ammette, nessuno si intesta i morti se non quelli accusati di aver attentato alla vita di altri affiliati. Ma tranne pochi omicidi, sui più resta un mistero l’origine. Chi uccide chi, e perché, se siamo tutti figli della stessa madre? L’ultimo a chiederselo sta disteso sul prato di un parcheggio di Burlington, a due passi da Hamilton: Pasquale “Fat Pat” Musitano è sceso tranquillo dal suo suv blindato, con lui i suoi uomini fidati, Pino Avignone e John Clary. Era un omone di 200 chili, già sopravvissuto a due agguati, non si fidava di nessuno, eppure un killer solitario lo ha fregato. Veniva dall’Aspromonte il suo sangue sparso a terra, come quello di Pino Avignone che è in terapia intensiva. Forse adesso è nel posto giusto per capire la verità, ha raggiunto suo fratello Angelo, ammazzato anche lui tre anni fa, quasi dentro casa, da qualcuno che non sembrava essere un nemico. Migliaia e migliaia di chilometri di distanza e la tragedia aspromontana ha seguito i suoi bad boys: l’arte dell’inganno, di attribuire colpe a chi non le ha davvero, di portare gli altri ad ammazzarsi fra di loro ritenendosi gli uni vittime degli agguati degli altri, e trionfare infine sulla stupidità di tutti. Decenni di omicidi fra gli irlandesi, i latinos, la mafia ebrea, le gang di motociclisti, tutti subordinati e clienti della grande famiglia di ‘ndrangheta. Guerre, chiarimenti e tregue, e nessuno sa chi davvero ri-innesca ogni volta la mattanza. I Musitano come ndrina non esistono più, cancellati dalla trama, loro che avevano cancellato la ‘ndrina dei Papalia, spinti dalla stessa trama. I mafiosi in Canada si ammazzano fra di loro, e nessuno lo sa davvero il perché, ogni volta che pensano di aver individuato il nemico, dopo, comprendono di essere caduti nell’ennesimo tranello. È la strategia del cuculo, figlia della grecìa aspromontana nata prima della grecìa greca. È il canto del cuculo, nato molto prima del canto del capro, la tragudia. Fat Pat Avignone e i tanti malavitosi che lo hanno preceduto sono stati sbalzati fuori dal loro nido da un uccello rapace nato da un uovo straniero che qualcuno gli ha messo dentro. Solo alla fine della mattanza si chiarirà il mistero.
· La Mafia Colombiana.
Da "leggo.it" il 25 settembre 2020. Un nipote del signore della droga colombiano Pablo Escobar sostiene di aver trovato 18 milioni di dollari in contanti nascosti all'interno di un muro di una delle case dello zio. Nicolas Escobar ha affermato che una "visione" gli ha detto esattamente dove cercare i soldi all'interno dell'appartamento di Medellin in cui ora vive. Il signor Escobar ha detto ai media colombiani che non si è trattato della prima volta che trovava denaro nei nascondigli di suo zio, che usava nascondere le banconote per evitare l'arresto. Ha detto di aver scoperto anche una penna d'oro, telefoni satellitari, una macchina da scrivere e un rullino non sviluppato. «Ogni volta che mi sedevo nella sala da pranzo e guardavo verso il parcheggio, vedevo un uomo entrare e scomparire», ha detto il signor Escobar alla stazione televisiva colombiana "Red + Noticias». «L'odore era sorprendente. Un odore 100 volte peggiore di un uomo morto». L'uomo, che vive in quell'appartamento da cinque anni, dice che alcune banconote sono danneggiate e inutilizzabili e ha raccontato di come accompagnava lo zio in viaggio ed è stato persino rapito e torturato da uomini che lo cercavano. Escobar ha trascorso decenni a combattere il governo colombiano per evitare l'estradizione negli Stati Uniti prima di rimanere ucciso in una sparatoria con la polizia nel 1993. Il narcoterrorista formò il suo cartello a Medellin alla fine degli anni '70 e nel 1980 contrabbandò l'80% della cocaina venduta negli Stati Uniti. Escobar, soprannominato il "Re della cocaina", è diventato uno degli uomini più ricchi del mondo e con la sua attività ha incassato circa 420 milioni di dollari a settimana.
Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 23 luglio 2020. (…) Phillip Witcomb, alias Roberto Sendoya Escobar, (è) nientemeno che il primogenito segreto di uno dei re del narcotraffico, il colombiano Pablo Escobar, ma anche figlio adottivo di colui che ha chiamato sempre "Dad", papà, e cioè Patrick Witcomb, inglese spilungone di Hull ed ex pilota, che nel 1959 insieme alla moglie Joan viene mandato dal Foreign office nella colombiana Bogotà. Qui, Witcomb lavora ufficialmente nella stamperia di denaro De La Rue, mentre, sotto copertura, collabora con servizi occidentali e forze speciali colombiane per stanare i cartelli della droga. Tutto inizia nel 1965, come ora racconta lo stesso figlio segreto del narcotrafficante nella biografia "Son of Escobar, First Born", pubblicata in Inghilterra e serializzata dal tabloid "Sun". Witcomb guida una spedizione punitiva con le forze speciali colombiane a caccia di una gang che giorni prima in un raid aveva rubato alla "De La Rue" una grande quantità di denaro. È un massacro. L'agente inglese entra nel casolare di campagna alla ricerca di sopravvissuti, quando una ragazzina urla da un bagno di sangue "mi hjio!", "mio figlio!". È Roberto, un bambino di pochi mesi, fortunatamente illeso in un angolo della stanza. La madre, Maria Sendoya, 14 anni, muore poco dopo. Suo padre biologico, il 16enne Pablo Escobar, un delinquente (ancora) di bassa lega, ha mollato entrambi quando lei è rimasta incinta. Witcomb si intenerisce, prende il bambino con sé e lo adotta col nome di Philip. «(…) mi ha svelato tutta la storia solo nel 1989, per mettermi in guarda perché l'altro mio padre Escobar era in declino e quindi si abbandonava ad azioni sempre più efferate». Fino a quando, il 2 dicembre 1993, il giorno dopo il suo 44esimo compleanno, la polizia colombiana fredda Escobar su un tetto alla periferia di Medellin. Nel libro Philip/Roberto racconta di quando, alla vigilia di Natale del 1969, incontra per la prima volta in un hotel di Medellin quello che solo molti anni dopo saprà essere il suo padre naturale, d'accordo con Witcomb senior che sorveglia la scena insieme ai suoi, perché teme che Escobar possa portarselo via. Difatti negli anni successivi proverà per due volte a rapirlo, ma senza successo. (…)
GUIDO OLIMPIO per il Corriere della Sera il 19 giugno 2020. Charlie il pazzo è tornato a casa, anche se in Germania non ha mai vissuto. Ma questo ha riservato il destino a Carlos Lehder, uno tra i più famosi esponenti del narco-traffico: rilasciato da una prigione Usa si è trasferito nel Paese d'origine del padre. Molto lontano dalla Colombia e dalle scorrerie che lo hanno reso noto. Scaltro, intelligente, ma anche «folle», Lehder è stato il protagonista della stagione dei Cocaine Cowboys. Dopo aver imparato molti trucchi dal suo compagno di cella, George Jung, è entrato nel grande giro estendendo la rete del contrabbando. Ha spedito tonnellate di droga verso gli Stati Uniti, ha agito al fianco del re, Pablo Escobar, e poi è stato probabilmente tradito da quest' ultimo. Carlos è stato un innovatore: ha acquistato una piccola isola alle Bahamas - Norman's Cay - ad appena 340 chilometri dalla Florida e l'ha trasformata in un punto d'appoggio per i suoi aerei. Velivoli carichi di mattonelle di polvere bianca, l'oro del cartello di Medellin. Una tattica usata dal signore dei cieli, il messicano Amado Carrillo Fuentes, e ancora oggi impiegata dalle organizzazioni clandestine. Figlio di un ingegnere tedesco emigrato in Sudamerica e di una colombiana, Lehder ha attirato l'attenzione per il suo genio criminale, le feste sfrenate, gli amori passionali, l'ammirazione per Hitler, l'odio per gli ebrei, il fascino verso John Lennon, il debole per la Coca Cola, per lui «la sola cosa buona dell'imperialismo». Aneddoti veri o falsi a far da corona ad una vita oltre ogni limite all'interno di un mondo dove contano furbizia, crudeltà, determinazione e pistole. Come altri gangster ha costruito la narrazione difensiva: la droga - ha detto - serve per togliere denaro ai ricchi e distruggere la società decadente negli Stati Uniti. Un'interpretazione «rivoluzionaria» dell'illegalità, un modo per coprire gesti sanguinari. I «colombiani», quei colombiani cattivi, hanno messo in piedi un impero immenso, difeso da sicari e uomini collusi, tra belle donne, strisce di coca, residenze lussuose, arredate con stravaganze, zoo personale incluso. Un regno allora raccontato dai media e oggi rappresentato dalle serie tv, inesauribili perché alimentate da un archivio di cronaca nera gigantesco. Crazy Charlie ne è stato l'interprete massimo, fino alla sua cattura nel 1987, epilogo favorito dai contrasti con Escobar che ha sempre negato di aver venduto l'ex partner. Estradato in America, è condannato all'ergastolo, la pena sarà in seguito ridotta a 55 anni grazie alla sua testimonianza contro il generale panamense Manuel Noriega, altro personaggio finito in mille storie, tra agenti segreti, strategie e malavita. Lehder, 70 anni, non ha alcuna intenzione di rientrare in Colombia. Secondo la figlia è malato di cancro e seguirà un ciclo di cure in un ospedale tedesco. Un ultimo capitolo ben diverso da quello di Escobar, caduto in un conflitto a fuoco con la polizia nel 1993. La battaglia finale per evitare l'estradizione negli Usa, la soluzione più temuta dai padrini. Purtroppo hanno fatto scuola, hanno indicato una strada ad altri «pazzi», dal Messico al Brasile.
Da it.businessinsider.com il 24 giugno 2020. Carlos Lehder, ex boss del cartello di Medellin e partner di Pablo Escobar, che è stato compagno di cella di George Jung e fan di John Lennon e Adolf Hitler, è stato rilasciato lunedì da un carcere Usa ed è volato verso la sua nuova casa in Germania. L’avvocato di Lehder, Oscar Arroyave, ha detto ad Associated Press che il settantenne è partito per Berlino in seguito al suo rilascio da un carcere della Florida, dove era detenuto all’interno del programma di protezione testimoni. Lehder è diventato famoso negli anni Settanta e Ottanta come leader del cartello di Medellin insieme a Pablo Escobar. Il suo comportamento imprevedibile e la sua sagacia lo distinguevano in una generazione di esponenti del cartello noti per brutalità e slealtà. Mike Vigil, ex direttore delle operazioni internazionali presso la US Drug Enforcement Administration, ha interrogato Lehder in un carcere Usa appena dopo il suo arresto del 1987 e ha detto che la sua intelligenza era subito evidente. “Non si trattava di un comune trafficante”, ha detto Vigil mercoledì. “Cercava sempre di ottenere qualcosa… [ed era] probabilmente uno dei più astuti trafficanti di droga che abbia mai incontrato”.
Un grilletto facile. Nato nel 1949 da padre tedesco e madre colombiana, Lehder si trasferì negli Usa a quindici anni. Coinvolto nella piccola delinquenza di New York, fu arrestato per furto di macchina, che lo ha portato in un carcere federale Connecticut dove è stato compagno di cella di George Jung, contrabbandiere e oggetto del film “Blow”. Jung e Lehder uscirono di prigione alla fine degli anni Settanta e iniziarono a lavorare insieme. Lehder, vicino ai capi in Medellin, cercava una stazione di passaggio nei Caraibi per le operazioni di contrabbando aereo che aveva allestito insieme a Jung per muovere la cocaina dalla Colombia verso gli Stati Uniti sud-orientali. Si stabilirono a Norman’s Cay nelle Bahamas, a 320 chilometri circa a sud-est di Miami. “Lehder incarna l’ambizione e l’ingenuità del traffico di cocaina”, ha detto Toby Muse, autore di “Kilo: Inside the Cocaine Cartels”, che documenta i suoi decenni come giornalista in Colombia. “Questo tizio prende un’isola — un’isola intera nei Caraibi — per renderla un punto di assaggio per portare [la cocaina] negli Stati Uniti”, ha detto mercoledì Muse. Ma su Norman’s Cay l’instabilità di Lehder, alimentata dalla cocaina, prese il sopravvento. Alla fine costrinse Jung a uscire dalla loro collaborazione. Come Jung ha poi raccontato ad High Times nel 2015, “Walter Cronkite (il giornalista, ndt) si presentò lì, e i suoi scagnozzi arrivarono con i mitra a dirgli, "Te ne devi andare". ed è scoppiato un pandemonio”. Anche all’interno di una generazione di trafficanti davvero violenti, Lehder era rinomato per la sua imprevedibilità. “Gli aneddoti sul suo grilletto facile si sprecano”, ha detto Muse. L’attività su Norman’s Cay attirò l’attenzione degli Usa, culminando in un raid della DEA nel 1980. Lehder si trasferì in Colombia, costruendo una tenuta e distribuendo denaro in tutto il distretto di Armenia, nella Colombia centro-occidentale, in cui era nato. Eresse una statua a John Lennon sul prato davanti a casa e regalò al governo dello stato un aeroplano. Come Escobar, anche Lehder ebbe un risveglio politico nei primi anni Ottanta. Lehder condivideva il disprezzo di Escobar per l’accordo di estradizione tra Colombia e Usa. Ma Lehder aveva altre, e più reazionari, opinioni. Il suo partito politico, chiamato Movimiento Cívico Latino Nacional, aveva un “programma fascista-populista [che] invocava cambiamenti radicali nel panorama politico colombiano”. Traspariva anche la sua ammirazione per Hitler, che Lehder citava spesso e di cui pare abbia tappezzato una casa con foto e cimeli. Lehder professava anche il proprio anti-imperialismo, criticando le azioni statunitensi in America Latina. “Diceva che il traffico di cocaina era una professione rivoluzionaria in quanto lui stava abbattendo l’impero americano rendendo gli statunitensi dipendenti dalle droghe”, ha detto Muse. “In quella generazione spicca come un vero e proprio personaggio”.
Una tranquilla libertà. Lehder era un innovatore in fatto di vie della droga e metodi di trasporto, ha detto Vigil. “Sarà probabilmente ricordato come uno dei capi più intellettuali del narcotraffico colombiano, perché era senza dubbio più astuto di Pablo Escobar, che si distingueva solo per la violenza grezza”, ha aggiunto Vigil. “Del cartello di Medellin, era senz’altro il più intelligente”. Nonostante ciò, Escobar iniziò a considerare Lehder più come un ostacolo che come una risorsa. Escobar consegnò Lehder al governo colombiano, ha detto Vigil a Insider nel 2017 — anche se Escobar, prima della sua morte misteriosa avvenuta nel 1993, lo ha negato — e Lehder fu catturato in un ranch la mattina del 4 febbraio 1987. Undici ore dopo, era diretto a Miami, prima vittima dell’accordo di estradizione cui si era opposto. Condannato all’ergastolo senza condizionale e a 135 anni di carcere nel 1988, ridotti poi a 55 in seguito alla sua testimonianza contro il dittatore panamense Manuel Noriega, che aveva appoggiato il cartello di Medellin mentre era al potere. In seguito, gli spostamenti di Lehder all’interno del sistema carcerario rimangono sconosciuti, alimentando varie dicerie in Colombia. “Anche la sua famiglia ha subito il colpo. La figlia si rivolgeva continuamente alla stampa rilasciando interviste dicendo, ‘Per piacere smettetela di provare a estorcerci denaro. Siamo senza soldi’”, ha detto Muse, sottolineando come colpire le famiglie dei capi di alto profilo deposti era diventata una specie di abitudine tra i criminali colombiani. Gli esponenti del cartello dell’epoca di Escobar avevano buona memoria, e gli omicidi per rappresaglia di tirapiedi ed altri rivali sono continuati per anni, ma, dopo tre decenni nelle carceri statunitensi, Lehder potrebbe evitare questo destino, ha detto Muse. “Penso sia uno dei pochi di quella generazione effettivamente sopravvissuto”, ha detto Muse. “È abbastanza ironico che il più imprevedibile di tutti ce l’abbia fatta e che morirà probabilmente di vecchiaia”. Mercoledì, la figlia di Lehder ha detto alla colombiana Caracol Radio di non aver parlato con il padre dalla liberazione ma che era felice di essere uscito di prigione e che stava “pianificando una tranquilla libertà”. Arroyave, l’avvocato di Lehder, ha detto ad Associated Press che Lehder, che ha la cittadinanza tedesca dal padre, non è interessato a tornare il Colombia. Ma Vigil, sottolineando la redditività del traffico europeo di stupefacenti, è scettico circa un ritiro dalle scene di Lehder. “L’unica cosa che Carlos Lehder sa fare è trafficare droga”, ha detto Vigil. “Non sarei sorpreso se aprisse nuovi mercati, proprio come ha creato un punto di trasbordo a Norman’s Cay nelle Bahamas quado era all’apice. È un innovatore”.
Pasquale Oliva per "mondofox.it" l'8 febbraio 2020. Sarà anche agli albori, ma il mercato degli smartphone pieghevoli riesce sempre a regalare qualche dispositivo interessante. Il simbolo di questo scarsamente popolato reparto è senza dubbio il Galaxy Fold di Samsung, nonostante le serie problematiche riscontrate con la prima versione. Ed è probabile che Roberto De Jesus Escobar Gaviria abbia particolarmente apprezzato questo dispositivo, considerato quanto appena presentato dalla sua azienda. La Escobar, Inc. - che vede al timone il fratello del più noto trafficante di droga della storia - ha annunciato The Escobar Fold 2 (sì, esiste anche un primo modello), un pieghevole che di originale non ha nemmeno il nome. No, non si tratta di facile ironia ma di una somiglianza oggettiva con il Samsung Galaxy Fold. Se si esclude il numero complessivo di fotocamere (cinque per Escobar Fold 2 e sei per il Galaxy Fold), posizionando i due dispositivi uno di fianco all'altro è praticamente impossibile notare le differenze. Stando al comunicato stampa, l'Escobar Fold 2 condivide con il pieghevole di Samsung la scheda tecnica di tutto rispetto. Entrambi eseguono Android 10, integrano il processore Qualcomm Snapdragon 855, hanno una batteria da 4,380mAh e un display da 7,3 pollici. Ebbene, il primo - nella sua versione base - costa solo 399 dollari, contro i 2mila necessari per quello del gigante sud-coreano. Dal comunicato qualche indizio sulla politica della Escobar, Inc.: Il mio obiettivo è quello di diventare quest'anno un perno dei dispositivi elettronici in eccesso. Tutti questi stabilimenti hanno troppa tecnologia buttata lì, senza che nessuno la compri. Riduciamo i prezzi e offriamo ai clienti sconti diretti garantiti dal brand Escobar. Roberto De Jesus Escobar Gaviria, analizzando le sue parole, sembra voglia dire che le unità di Escobar Fold 2 siano il risultato di un accordo con i proprietari degli stabilimenti cinesi che hanno prodotto il Galaxy Fold, a quanto pare con merce in eccesso. Ma a rendere l'annuncio di presentazione a dir poco surreale è lo spot pubblicitario. Nella clip due arrabbiatissime modelle di Playboy distruggono a martellate alcuni Samsung Galaxy Fold decretandone la morte, suggerita - giusto per essere più chiari - anche dalla voce narrante in sottofondo. Il titolo dello spot poi (Riposa in pace, Samsung) lascia poco spazio all'immaginazione.
Andrea Galli per corriere.it il 25 febbraio 2020. «Rasgao» non arriva. Lui e i suoi segreti resteranno forse per l’eternità in Colombia, la terra d’origine dove l’oggi 64enne, al secolo Rafael Ivan Zapata Cuadros, ha compiuto l’educazione criminale, ha combattuto nelle formazioni paramilitari ed è diventato uno dei «nuovi» capi dei narcos. Un comandante moderno, abile stratega, appassionato di tecnologia, legatissimo alla ’ndrangheta, e il cui volo in Italia era atteso fin dal 2011, l’anno nel quale il tribunale di Catanzaro per la prima volta aveva inoltrato in Sudamerica la domanda di estradizione. Adesso il pronunciamento della Corte suprema di giustizia colombiana, che ha rifiutato di cedere «Rasgao» all’Italia, potrebbe essere definitivo e impedire ai nostri inquirenti l’acquisizione di «pesanti» informazioni. Il colombiano era risultato collegato al sequestro di 225 chili di cocaina nel porto di Amburgo, di 541 in quello di Salerno, di 242 chili nel porto di Gioia Tauro, e in più di altre due tonnellate scoperte a bordo di un motopeschereccio al largo delle Canarie. Questi gli elementi cristallizzati dalle inchieste sui «cartelli» della droga, mentre le successive analisi investigative, da allora non ancora «spente», hanno collocato «Rasgao» nei flussi di droga, sempre cocaina, nel Lodigiano, a Rozzano e a Sesto San Giovanni, zone che hanno registrato la presenza e i movimenti di fedelissimi del colombiano, che era stato trascinato nelle inchieste dalle testimonianze di un ex collaboratore di giustizia, Bruno Fuduli, trovato lo scorso novembre suicida nell’abitazione di Vibo Valentia. Un suicidio comunque circondato da alcuni misteri. Alexandro Maria Tirelli, il legale di «Rasgao», rivela che si tratta del secondo «no» all’estradizione, e che di conseguenza «l’Italia ha ricevuto due sonori schiaffoni in merito al rispetto degli elementari principi che reggono lo Stato di diritto... L’estradizione non può essere richiesta due volte per gli stessi fatti...». Il 64enne è stato legato oppure ancora è legato al potente gruppo terroristico delle «Autodefensas unidas de Colombia», un polo di bande paramilitari ufficialmente nato per consolidare e proteggere le condizioni economiche e sociali della Colombia ma considerato da molte nazioni un’organizzazione terroristica. Contestualmente, «Rasgao» è stato scarcerato e il suo ritorno in libertà quasi azzera le possibilità di un «recupero» in futuro del narcos per fini investigativi. Insomma, l’Italia dovrà dirgli addio. Al netto delle indagini, delle accuse, delle reali responsabilità di Rafael Ivan Zapata Cuadros, come osserva il legale la giustizia colombiana ha poggiato la sua decisione sulle dichiarazioni di un pentito deceduto, quel Fuduli utilizzato anche come infiltrato da parte delle forze dell’ordine. L’inchiesta cardine «Decollo-ter», del Ros dei carabinieri, centrale nella biografia criminale di «Rasgao», aveva dimostrato un traffico internazionale di droga — tonnellate e di nuovo tonnellate — tra il Sudamerica, l’Europa e l’Australia, insieme a episodi di estorsione e riciclaggio di denaro sporco. Uno dei 27 arrestati, nelle intercettazioni, aveva detto che «in Calabria la guerra non la vince neanche il Papa», in riferimento al fatto che un grosso marchio alimentare aveva provato ad aprirsi un varco nel mercato ma aveva dovuto «obbedire» alle cosche, che per appunto decidono la morte e la vita, gli affari legali e illegali, e non soltanto in Calabria. Una delle tattiche della ’ndrangheta per «pulire» i soldi consisteva nell’acquisto dei biglietti vincenti del Superenalotto e di altre lotterie pagando direttamente i vincitori e incassando i guadagni. Un fiume di denaro, pari al fiume della cocaina, riversato in Sudamerica per pagare i carichi, finanziando le formazioni paramilitari e il loro acquisto di arsenali.
René Higuita, il rapporto speciale con Pablo Escobar: "Come potevo non essergli grato?" Libero Quotidiano il 05 giugno 2020. René Higuita, ex portiere di calcio della nazionale colombiana è tornato a parlare del suo rapporto con Pablo Escobar, il narcotrafficante ucciso nel 1993. "Quando ero bambino aveva fatto illuminare i campi di calcio dove giocavamo. Come potevo non essergliene grato? Ero suo amico, non un narcotrafficante". L'ex calciatore ricorda anche l'onta della prigionia: "Mi arrestarono con l’accusa di aver fatto da mediatore durante un rapimento avvenuto poco prima ma, dopo otto giorni, mi dissero che non mi avrebbero incriminato se gli avessi consegnato Pablo. Io risposi che non sapevo nulla e che, anche se avessi saputo, non avrei detto nulla. Era compito delle autorità, non mio".
Da corrieredellosport.it il 5 giugno 2020. "Le autorità in Colombia mi hanno detto di consegnare Pablo Escobar in modo da non arrestarmi. Sapevano che ero innocente, ma in tutte le persecuzioni che avevano iniziato contro di lui, iniziarono a mettere i suoi conoscenti in prigione. La gente mi considerava suo amico dopo che l'ho visitato nel carcere di La Catedral. Risposi che non sapevo nulla e che anche se avessi saputo non avrei detto nulla. Era compito delle autorità. Io ero grato a Pablo Escobar per aver illuminato i campi da calcio quando nessun altro lo aveva fatto". Intervistato dal canale argentino di Fox Sports, l'ex storico portiere della nazionale colombiana René Higuita parla dell'arresto subito a causa del personale rapporto col "Re della cocaina", ucciso il 2 dicembre 1993 dopo uno scontro a fuoco col Bloque de búsqueda, una squadra di sorveglianza elettronica, che lo localizzò in un quartiere borghese di Medellin. "Io mi mostro per quello che sono: l'amico di tutti - prosegue l'attuale allenatore dei portieri dell'Atlético Nacional -. Che sia stato amico di Pablo Escobar non significa che io sia un narcotrafficante. A qualcuno piacerà, altri mi considereranno un nemico. Ciò che mi riempie d'orgoglio è essere stato un calciatore".
Morto «Popeye», il capo dei sicari di Pablo Escobar. Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Marta Serafini. Passerà alla storia come l’assassino più prolifico. Jhon Jairo Velasquez, meglio noto come Popeye ed ex capo dei sicari del narcotrafficante colombiano Pablo Escobar, è morto a Bogotà. Ad ucciderlo, un cancro all’esofago. Secondo i media colombiani, Popeye era stato ricoverato nell’Istituto cancerologico della capitale colombiana dal 31 dicembre dello scorso anno. Stava per compiere 58 anni. Dopo aver scontato 23 anni di detenzione, il braccio destro di Escobar era uscito di carcere nel 2014, ma vi era rientrato dopo che era emerso il suo ruolo centrale nella guida di una banda dedita ad estorsioni e alla persecuzione di militanti politici, fra cui alcuni dell’ex candidato presidenziale e senatore di sinistra, Gustavo Petro. Prima di finire nuovamente in carcere — come raccontava in questa intervista a Sette— aveva deciso di darsi alla fiction e teneva conferenze ai giovani per «prevenire» la violenza. Poi, la malattia mentre era di nuovo in carcere. Durante i processi ha riconosciuto lui stesso di avere ucciso direttamente almeno 300 persone e di aver partecipato, come capo dei sicari del Cartello di Medellin, all’assassinio di altre 3.000 fra l’inizio degli anni ‘80 e la fine dei ‘90. Dopo la morte di Escobar, ad una televisione dichiarò: «Pablo Escobar Gaviria è un assassino, un terrorista, un narcotrafficante, un sequestratore ed un autore di estorsioni, ma era mio amico».
Colombia, morto "Popeye", il capo dei sicari di Pablo Escobar. Jhon Jairo Velasquez, detto Popeye. Jhon Jairo Velásquez Vásquez, chiamato "Jota Jota" nel mondo del narcos, 57 anni, da più di un anno aveva un cancro allo stomaco: aveva commesso 300 omicidi e ne aveva pianificati 3.500. Daniele Mastrogiacomo il 07 febbraio 2020 su La Repubblica. È morto Popeye, chiamato nel mondo del narcos "Jota Jota", al secolo Jhon Jairo Velásquez Vásquez, il capo dei sicari dell'ex re della cocaina, il padrone del male Pablo Escobar Gaviria. Aveva 57 anni e da oltre uno soffriva di un cancro allo stomaco che lo aveva devastato. È deceduto ieri nell'Istituto Nazionale dei Tumori di Bogotá. Sin da giovanissimo si arruolò nella banda di Escobar e si mise in luce per la sua freddezza e la sua capacità organizzativa. Sale tutti i gradini e da piccolo bandito di Medellín presto assume il ruolo di capo dei sicari, oltre 400, che l'uomo che aveva sognato di diventare il padrone del mondo aveva a disposizione. Per allentare la pressione attorno a Escobar, costretto a cambiare continuamente case sicure perché tallonato dal Bloque de Búsqueda, la “Catturandi” messa in piedi dall'esercito e dai servizi segreti, nel 1991 decide di consegnarsi. È rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Cómbita e condannato a oltre 20 anni di carcere. Ma per un solo omicidio, quello del candidato presidenziale Luis Carlos Galán, sebbene ne avesse ammessi almeno 300, oltre alla pianificazione di 3.500 azioni scandite da uccisioni e attentati con autobombe. Il più clamoroso fu quello contro un aereo dell'Avianca carico di passeggeri che esplose in volo. A portare la bomba a bordo fu un ragazzino, convinto di trasportare un pacco che gli era stato affidato personalmente da Escobar. Felice di essere stato scelto dal grande capo per una missione importante e per il sostegno che avrebbe avuto assieme alla sua giovanissima moglie, morì senza capire la trappola che gli era stata tesa con tanto cinismo. Popeye lo accompagnò fino all'aeroporto e con il sorriso tra le labbra gli disse: "Tranquillo, vedrai che andrà tutto bene". Anche la moglie pagò il suo prezzo: fu uccisa perché potenziale testimone. Il capo dei sicari era così: sprezzante e insieme paterno. Non era certo stupido: è stato l'unico a sopravvivere alla mattanza che seguì la feroce guerra ingaggiata dal Cartello di Medellín per costringere lo Stato a respingere la richiesta di estradizione avanzata dagli Usa. Gli Estradabili, come si chiamò la Confederazione tra Cartelli messa in piedi da Escobar, furono gli artefici di una guerra spietata e sanguinaria. Vennero fatti fuori decine di poliziotti, magistrati, soldati. Sequestrati per mesi politici, intellettuali, giornalisti, imprenditori. Lo scopo era scatenare il terrore e costringere le Istituzioni a venire a patti. L'accordo alla fine venne raggiunto: niente estradizione. Cessarono gli agguati e gli attentati. Escobar si consegnò e assieme a un altro centinaio di suoi uomini si fece rinchiudere in una grande struttura che lui stesso aveva fatto costruire in mezzo alla campagna. Di qui fuggirono tutti insieme quando lo Stato decise di approvare di nuovo l'estradizione. John Jairo concordò a quel punto la sua resa con l’assenso dello stesso Escobar. Accettò di collaborare con la magistratura e si accollò 300 omicidi. Ma la sua astuzia, assieme al cinismo, gli salvò la pelle anche dietro le sbarre dove erano in tanti a volerlo morto: dai miliziani delle Auc, i paramilitari di destra, alle Farc, agli avversari del Cartello del Norte de Valle. Riusciva a metterli gli uni contro gli altri, cambiando alleanze. Scontò la pena e uscì il 27 agosto del 2014. Da quel momento iniziò la sua seconda vita. Rivendicò il suo pentimento e continuò a raccontare dettagli e aneddoti della sua carriera di sicario. Lo faceva su Youtube dove aveva aperto un canale, Popeye arrepentido. Ha scritto libri, ha promosso film e documentari sulla sua vita, compreso uno, illuminante, prodotto poi da Netflix. Era contrario al processo di pace con le Farc che criticò pubblicamente. Nel giugno del 2016 rilasciò un’intervista a Verne nella quale spiegò che la sua presenza sulla Rete era per restare in contatto con la gente e lanciare un messaggio. "Lo faccio per dimostrare che non vale la pena delinquere", disse. Bugiardo, oltre che ostinato assassino. Chiunque considerava suo nemico veniva ancora minacciato. Si è fatto arrestare una seconda volta alla fine del 2017. Venne sorpreso a casa di Juan Carlos Mesa, detto Tom, capo de l'Oficina de Envigado, una banda criminale creata da Escobar che Jota Jota continuava a chiamare "el patrón". Partecipava a una festa sontuosa con tutti i vecchi amici di un tempo sopravvissuti. "Era una festa", disse agli agenti che lo arrestavano e gli contestavano la presenza di montagne di coca sui tavoli oltre a un episodio di estorsione. "È successo quello che è successo. Non è un delitto andare a una festa". Due anni dopo, il 31 dicembre scorso, è stato ricoverato in ospedale. Aveva il corpo pieno di metastasi. Ha resistito un mese.
Morto Popeye, il sicario di Pablo Escobar: l'intervista di Giulio Golia. Le Iene News il 07 febbraio 2020. Jhon Jairo Velásquez, “Popeye”, è morto a Bogotà. È stato il sicario prediletto del “Re della cocaina”, l’ex capo dei narcos colombiani Pablo Escobar. Per lui aveva ucciso 257 persone con le sue mani e, come capo dei suoi sicari, aveva partecipato a 3.000 omicidi. Giulio Golia l’aveva incontrato in questa intervista esclusiva da brividi. “Io sono il Generale della Mafia”, diceva Popeye, Jhon Jairo Velásquez, il killer prediletto dell’ex capo dei narcos colombiani Pablo Escobar, nell’intervista esclusiva del 7 novembre 2017 di Giulio Golia che potete vedere qui sopra. E mostrava proprio quella frase tatuata sul braccio: “Io sono la memoria storica del cartello di Medellín: ho vissuto dentro il mostro e facevo parte del mostro”. Il mostro era l’organizzazione di Escobar, il più famoso trafficante di droga del mondo, ucciso nel 1993 a 44 anni dopo aver accumulato un patrimonio di 25 miliardi di dollari. Jhon Jairo Velásquez è morto a quasi 58 anni a Bogota: aveva confessato di aver ucciso personalmente 257 persone e di aver partecipato, come capo dei sicari del “Re della Cocaina”, a oltre 3.000 omicidi. Quando lo abbiamo intervistato nel 2017, Popeye era tornato in libertà dal 2014 dopo 23 anni di carcere e diceva di volersi tenere lontano dai crimini del passato. Il 27 maggio 2018 era stato però arrestato nuovamente: guidava una banda dedita a estorsioni e alla persecuzione di militanti politici, tra cui alcuni vicini all’ex candidato presidente e senatore di sinistra, Gustavo Petro. Il sicario di Escobar, arrestato nel 1992, era stato condannato anche per l’omicidio di un politico, Luis Carlos Galán, nemico dichiarato dei cartelli della droga, che Popeye ha ucciso nel 1989 a Bogotà durante un comizio davanti a 10 mila persone. È questa era l’unica vittima per cui diceva alla nostra Iena di provare un qualche rimorso. Tornato libero per buona condotta, Jhon Jairo Velásquez sosteneva di vivere onestamente. Con una nuova vena creativa: aveva 500 mila fan su YouTube come “Popeye pentito”, si era improvvisato scrittore e aveva girato un film autobiografico. “Per lui ho ho ucciso 257 persone con le mie mani”: raccontava a Giulio Golia di aver preso parte alla guerra contro il cartello rivale dei narcos di Calì e il governo costata 50 mila morti tra omicidi singoli e plurimi e stragi con autobombe. “Medellín è una bellissima città, costruita però su un cimitero”. Al momento dell'arresto del 1992, aveva una taglia da mezzo milione di dollari sulla sua testa e un patrimonio di “12 milioni in immobili e 10 milioni in contanti”. Li aveva accumulati uccidendo: “C’erano morti da un milione, da 70 mila, da 50 mila e da 20 mila dollari e Escobar pagava sempre correttamente”. “Dei suoi 3 mila sicari, siamo rimasti vivi solo in 4. Per noi Pablo Escobar era Dio: non avevamo paura, ci piaceva l’adrenalina, ci piaceva la violenza, eravamo giovani”. Tutta l’intervista che potete vedere qui sopra è da brividi. “La vera mafia è italiana, noi siamo la copia, loro sono i professori. Ammiro l’omertà, la capacità di comunicare sempre per scritto mai per telefono, l’eleganza nell’uccidere, senza sentimenti, da professionisti. Viva la mafia!”: Popeye si lancia perfino in lodi inquietanti a Cosa Nostra.
Paolo Manzo per “il Giornale” l'8 febbraio 2020. Loquace, criminale reo confesso, affabulatore. Questo era Jhon Jairo Velásquez, morto a 57 anni per un cancro all' esofago l' altroieri ma, soprattutto, il più letale dei sicari di Pablo Escobar o, come continuava a chiamarlo lui, el Patrón, il Padrone. Tutti in Colombia lo conoscevano come Popeye, il soprannome che si era guadagnato grazie a un mento prominente, a tal punto che era ricorso alla chirurgia estetica per un ritocchino. Tutti, anche il comandante in capo delle Forze Armate colombiane, il generale Eduardo Zapateiro, che ieri ha fatto arrivare alla famiglia di Popeye «le più sentite condoglianze». La cosa ha suscitato indignazione a Bogotà perché el Pope, come lo chiamavano i suoi amici più intimi, non era solo un pentito che, uscito dopo 23 anni di carcere duro, era diventato una star in Colombia grazie a una telenovela sulla sua vita prodotta da Tv Caracol e diffusa via Netflix. No, alias J. J. (questo un altro suo alias nonché il titolo della serie TV) era soprattutto un criminale che aveva ammesso di avere materialmente commesso 257 omicidi e di cui era stata dimostrata la partecipazione all' attentato contro un aereo dell' Avianca nel 1989, 107 i morti. Scontate dunque le polemiche dopo le condoglianze del generale anche se, di certo, Popeye aveva fornito all' esercito molte informazioni su chi, con lui, aveva partecipato alle mattanze di Escobar. Due dunque le vite del Pope. La prima quando, giovanissimo, entrò a far parte del Cartello di Medellin sino a essere promosso sul campo dal Patrón come capo dei suoi sicari. Da killer non sbagliava un colpo, forse perché affascinato dall'«odore del sangue» per sua stessa ammissione. «Freddai personalmente centinaia di nemici del Patrón», disse, contribuendo a pianificare l' uccisione «di almeno altre 3mila vittime, Escobar scriveva i loro nomi su un taccuino e chi doveva uccidere, io c' ero quasi sempre». Giudici, giornalisti, politici, traditori, membri di altri cartelli, a cominciare da quello di Cali, Popeye era stato una «macchina per uccidere» tra metà anni 80 e inizio anni 90, «ma quello era il mio lavoro e lo facevo al meglio». La seconda vita di Popeye è invece quella del personaggio pubblico, con cui chi scrive entrò in contatto nel 2016 in Colombia quando, nel Museo della Memoria di Medellín, lui era stato invitato a tenere una lezione agli studenti per spiegare loro che «fare il criminale può solo portare alla morte». Uscito nel 2014 dal carcere aveva infatti costruito attorno a sé un' aurea di personaggio eroico, di un pentito sopravvissuto a oltre 20 anni di carcere duro e a numerosi tentativi di ucciderlo. Scriveva libri Popeye, aveva un milione di fan sul suo canale Youtube, («Popeye Arrepentido», «Popeye Pentito» in italiano) dove raccontava a modo suo le verità più scomode della Colombia. Alcune molto esplosive. A cominciare da quando testimoniò che Raúl Castro era il contatto del Patrón a Cuba e che Escobar finanziò il sequestro del Palazzo di Giustizia da parte della guerriglia dell' M-19, nel 1985, dove morirono quasi un centinaio tra terroristi, giudici e civili. Nel 2017 era finito di nuovo dentro per estorsione ma aveva promesso che, presto sarebbe uscito, per raccontare altre scottanti verità. Il cancro glielo invece ha impedito e Popeye si è portato i suoi segreti nella tomba.
· La Mafia Messicana.
Estratto dell'articolo di Daniele Mastrogiacomo per “la Repubblica” il 2 ottobre 2020. Per la storia e la giustizia è morto nel 1997. Ma la leggenda racconta che sia ancora vivo, la faccia trasformata in una delle tante plastiche chirurgiche a cui si era sottoposto, anonimo e felice di godersi il malloppo raccolto in 30 anni come capo indiscusso del Cartello di Juárez. Amado Carrillo Fuentes, noto nel mondo dei narcos come El señor de los cielos , per la flotta di 30 bimotori, jet e persino Boeing 727 con cui trasportava i carichi di marijuana, di cocaina e poi di eroina negli Usa per conto del socio colombiano Pablo Escobar Gaviria, torna d' attualità per un sontuoso palazzo arabeggiante che sorge poco distante da Hermosillo, Stato messicano di Sonora, proprio sotto il confine con l' Arizona. In mezzo al deserto, intatto ma completamente abbandonato da 27 anni, i muri segnati da grossi buchi e coperti da scritte, sorge questa ostentata riproduzione dell' architettura islamica che ricorda il palazzo di "Mille e una notte": 2500 metri quadrati tra stanze, saloni, bagni, saune sormontati dalle 5 cupole tradizionali e dall' elefante bianco. La Procura generale ha deciso di abbatterlo dopo averlo sequestrato nel 1993 perché diventato il rifugio di sbandati e tossici. Le ruspe sono già entrate in azione. Tutti sanno che apparteneva ad Amado Carrillo Fuentes. (…) Se le gesta e le imprese del Signore dei cieli sono note e raccontate sin dagli anni 70, resta invece avvolta dal mistero la sua fine. È certo che si sottopose a operazioni di plastica facciale. L' ultima gli sarebbe stata fatale: i due chirurghi che l' operarono, assieme all' anestesista, furono trovati cadaveri. Il corpo di Fuentes venne mostrato solo dopo alcuni giorni e appariva con necrosi che gli deturpavano il viso. Il resto sono voci, leggende. (…) Chi ha visto su Netflix la serie "Narcos" ha imparato a conoscerlo. Si sospetta che abbia fatto un accordo con la Dea per godersi il tesoro accumulato. Tranne il palazzo da Mille e una notte: secondo Forbes il capriccio di un uomo da 30 miliardi di dollari.
Guido Olimpo per "corriere.it" il 4 agosto 2020. Josè Yepez Ortiz, detto El Marro, considerato il re dei predoni di idrocarburi è stato catturato dalle forze di sicurezza nello stato messicano di Guanajuato. Un personaggio doppiamente interessante: per la minaccia che rappresentava e per la sua lotta sanguinosa con El Mencho, il capo del cartello di Jalisco. Il bandito è stato sorpresa all’alba – affermano le fonti ufficiali – da un blitz dei militari nella zona di Juventino Rosas. Durante l’operazione sarebbe stato liberato un commerciante che era in ostaggio, una delle tante vittime di un network criminale che ha diversificato le proprie attività. Secondo i media gli investigatori avevano ricevuto informazioni piuttosto precise sui movimenti del ricercato ed hanno usato tre droni che hanno aiutato a ricostruire movimenti chiave. Con lui è stato preso anche il suo responsabile per la sicurezza, El Cebollo. Molte le armi, tra cui un lanciagranate. Alla testa del cartello di Santa Rosa de Lima, El Marro ha creato una struttura specializzata nel furto di carburanti, azioni condotte a livello “industriale”. Un braccio armato per proteggere le incursioni, elementi addestrati al saccheggio sistematico, spie e tecnici corrotti per avere le informazioni sugli impianti e le pipeline, smercio del prodotto. Scorrerie che hanno spesso coinvolto una raffineria di Salamanca, ma si sono poi estese a numerosi siti spingendo altre gang locali a dedicarsi ai furti. Ortiz è nato come luogotenente di El Guero, un boss dei Los Zetas, e poi – come spesso accade nei clan messicani -, si è staccato fondando attorno al 2017 il cartello di Santa Rosa. I suoi uomini si sono subito dedicati ai carburanti e alle estorsioni massicce, accompagnate dai sequestri di persona. Come altri padrini El Marro, pur ricercato, non ha avuto paura di fare propaganda via web, con video e messaggi rivolti contro gli avversari o le autorità. Una campagna che si è presto concentrata contro il suo nemico più duro, El Mencho, che ha risposto a tono, con i suoi filmati. Da qui una catena di scontri che hanno trasformato lo stato di Guanajuato in uno dei più pericolosi: oltre 2200 vittime solo nei primi sei mesi di quest’anno. Le imboscate si sono alternate a raid indiscriminati. A gennaio è stata assassinata una sorella di El Marro, all’inizio di luglio quasi una trentina di persone sono state falciate a colpi d’arma da fuoco in un centro per tossicodipendenti a Irapuato. Strage attribuita proprio a Santa Rosa, così come l’uccisione di numerosi poliziotti. Episodi che hanno spinto le autorità a rilanciare la caccia. Quasi una gara con i pistoleri de El Mencho, anche loro decisi a liquidare il rivale. Sono stati loro a venderlo ai militari o imprecheranno perché la preda è finita in galera? Aspettiamo i dettagli di una storia che potrebbe avere code velenose. L’arresto potrebbe scatenare la reazione violenta dei seguaci di Ortiz.
Messico: arrestato El Marro, tra i narcos più ricercati del Paese. Pubblicato lunedì, 03 agosto 2020 da Daniele Mastrogiacomo su La Repubblica.it Leader del cartello di Santa Rosa da Lima, la sua organizzazione è specializzata nei furti di benzina dai depositi della Pemex, la compagnia petrolifera statale. Lo cercavano da un anno. Sapevano come agiva e dove si poteva nascondere. Ma sembrava imprendibile e soprattutto intoccabile. L'Esercito e la Polizia federale messicana sono riusciti alla fine a catturarlo mettendo a segno il primo colpo nella guerra, non dichiarata, dello Stato ai Cartelli. Cade José Antonio Yépez, alias El Marro, leader del Cartello di Santa Rosa da Lima, una organizzazione che domina Guanajuato, 370 chilometri a nord ovest di Città del Messico. E' ritenuta responsabile di sequestri e estorsione ma soprattutto dei furti di benzina nei depositi della Pemex, la compagnia petrolifera statale: una pratica molto diffusa negli ultimi anni nel Paese nordamericano che il presidente Obrador ha iniziato a combattere appena eletto. Non si sa come e dove sia stato catturato El Marro. Il suo arresto è stato annunciato su Twitter dal Segretario della Sicurezza del governo Federale, Alfonso Durazo. "Assicurate le formalità giuridiche", ha scritto. "El Marro sarà trasferito nella prigione di Altiplano per metterlo a disposizione del giudice federale che aveva emesso un ordine di cattura per criminalità organizzata e furto di combustibile". Con Yépez sono state arrestate altre cinque persone. Il Santa Rosa da Lima è un Cartello locale molto agguerrito. Negli ultimi mesi si è scontrato più volte con gli avversari della Jalisco Nueva Generación, il gruppo dominante sulla scena criminale messicana. Una guerra per la conquista dei nuovi territori, essenziali per il traffico di droga verso gli Usa, esplosa dopo l'estradizione del Chapo Guzmán e la sua condanna all'ergastolo. In ballo c'è l'eredità del Cartello di Sinaloa che ovviamente fa gola a molti, compresi i figli del vecchio re del narcotraffico. L'esercito e la polizia erano da mesi sulle sue tracce. A fine giugno c'era stato un blitz a Celaya, altra cittadina dello Stato di Guanajuato. Trenta persone erano state arrestate tra cui la madre di El Marro. Il leader del Cartello aveva reagito mettendo a soqquadro il piccolo centro: strade bloccate, sparatorie, auto e camion a fuoco. Era furibondo. Poche ore dopo era apparso sui social ma un po' provato. Sapeva che gli stavano addosso. Gli avevano sequestrato un paio di imprese, congelato i conti correnti, l'esercito aveva bloccato gran parte dei depositi clandestini, ben 1.547 secondo la stessa Pemex, dove veniva stivato il carburante rubato dagli impianti ufficiali. In alcune stazioni di servizio i soldati avevano allestito addirittura degli accampamenti che impedivano ai sicari del gruppo di collegare la rete di tubi da cui succhiare la benzina. La mano dello Stato si era fatta sentire. Sin dai tempi dell'ex presidente Nieto, Guanajuato era diventato uno degli Stati più violenti del Messico. Tra il 2014 e il 2015 c'erano stati mille omicidi; nel 2017 salirono a 2.285 e nel 2028 a 3.517, ricorda El Pais. Adesso si tratta di confermare le accuse. L'arresto, da solo, non basta. E' un banco di prova per la Procura Generale della Repubblica, la nuova struttura creata da Obrador che guida l'attività investigativa. Vedremo se il materiale raccolto dagli inquirenti reggerà alla verifica del Tribunale. Troppo spesso, in passato, le prove sono state dichiarate insufficienti e gli arrestati rimessi in libertà. José Antonio Yépez è un nome noto. Ma questo, per la giustizia, non basta. Dopo di lui c'è l'altro obiettivo: Nemesio Oseguera, detto El Mencho, il capo della Jalisco Nueva Generación su cui pende una taglia milionaria dell'amministrazione Usa. Due settimane fa ha postato un video su Twitter in cui mostrava il convoglio del suo esercito. Una vera sfida: decine di mezzi blindati nuovi di zecca, i sicari vestiti con mimetiche immacolate, imbracciando armi automatiche, mentre inneggiavano all'organizzazione e al suo capo.
L'erede di El Chapo: l'omaggio dei narcos a El Mencho e la sua scalata. Le Iene News il 31 luglio 2020. Una schiera di uomini armati e con mezzi blindati inneggia al nuovo boss del narcotraffico El Mencho, ex poliziotto ora a capo del Cartello di Jalisco Nuova Generacion. Per la sua cattura gli Stati Uniti hanno messo una taglia da 10 milioni di euro. El Mencho vale 10 milioni di dollari. È la taglia offerta da Washington per il boss del Cartello di Jalisco Nuova Generacion, una delle organizzazioni criminali più importanti in Messico. Qualche giorno fa l’organizzazione ha diffuso un video propagandistico, di cui potete vedere una parte qui sopra: una schiera di uomini armati e con mezzi blindati che inneggiano all’erede del Chapo Guzmán: El Mencho. Quelli che vedete qui sopra sono gli uomini, armati pure di tank, del Cartello di Jalisco Nuova Generacion. El Mencho, il cui vero nome è Nemesio Oseguera Gonzáles, è un ex agente di polizia dello stato di Jalisco. Ha 54 anni e proviene da una famiglia umile. È stato tre anni in carcere in America per spaccio di eroina. Ha rotto con El Chapo nel 2013 e acquisito sempre più potere approfittando della faida nel cartello di Sinaloa tra il cofondatore El Mayo Zambada e i Los Chapitos, i figli del boss. Di El Chapo e della mattanza dei Narcos ad Acapulco, in Sudamerica, ci siamo occupati nell’incredibile servizio che potete vedere cliccando qui della Iena Cizco, regia di Gaston Zama, nel 2017. Abbiamo documentato una giornata in questa città, dove gli omicidi e le esecuzioni sono non solo all’ordine del giorno ma segnano proprio lo scandire delle ore. Joaquin "El Chapo" Guzman Loera è stato per 25 anni a capo del cartello di Sinaloa, una delle più grandi e violente organizzazioni messicane dedite al traffico di droga. È stato condannato per tutti e dieci i capi d’accusa per i quali era imputato: associazione a delinquere, criminalità organizzata, traffico di droga, riciclaggio di denaro sporco, uso e traffico di armi da fuoco e vari omicidi. Arrestato in Messico nel 2016, un anno dopo una delle sue clamorose evasioni, era stato estradato nel 2017 negli Stati Uniti.
Guido Olimpio per corriere.it il 31 luglio 2020. El Mencho è venuto dal basso ed è arrivato in alto. È il simbolo del potere dei gangster messicani, un mix di brutalità, corruzione e complicità politiche che noi chiamiamo narcos. Il capo del cartello di Jalisco è un target di alto valore, ben più dei 10 milioni di dollari di taglia offerti da Washington. Nemesio Oseguera Gonzáles, alias El Mencho, ha 54 anni, passati sui due lati del confine. Nato in una famiglia umile, le ha provate tutte. Immigrato clandestino in California, piccolo spacciatore, ladro d’auto, un paio d’arresti in America, tre anni di galera fino al 1997, quindi la deportazione nel suo paese natale. Nonostante i precedenti – o forse proprio grazie a questi – entra nella polizia di una località di Jalisco, parentesi seguita dal reclutamento da parte del network guidato da Nacho Coronel, il «re dei cristalli». Il futuro boss entra in un mondo dal quale non si esce mai, soprattutto passa molto tempo con un amico, Abigael Valencia. Legame importante. Ne sposerà la sorella, Rosalinda, e stringerà un patto di collaborazione con la famiglia della donna, un clan che diventerà il suo braccio economico. I Los Cuinis. El Mencho, come altri luogotenenti ambiziosi, romperà con El Chapo nel 2013 e svilupperà la sua organizzazione poggiando su una serie di pilastri. Associa i concorrenti nel suo network, altrimenti li incalza senza pietà. Una struttura orizzontale ben armata. Un’attività di propaganda sul web emulando lo Stato Islamico. Il coinvolgimento della moglie nella gestione finanziaria. Nessun timore delle autorità. Infatti ha colpito con durezza polizia e forze armate, fino a ordinare azioni contro personalità di spicco. I suoi sicari abbattono un elicottero della Marina, tendono imboscate contro le pattuglie, sparano su bersagli delle istituzioni. Prima fanno fuori un giudice, poi a fine giugno prendono di mira il responsabile della sicurezza nella capitale, Omar Harfuch, agguato fallito, con molte cose non proprio chiare. Ieri Jalisco ha postato una clip per accusare proprio Harfuch di proteggere un leader dei Los Zetas. Messaggi pesanti insieme a quelli con teste mozzate nella guerra contro un nemico particolare, El Marro, capo del cartello di Santa Rosa de Lima. Gli ultimi attentati sarebbero la rappresaglia al sequestro di 1939 conti bancari, all’estradizione negli Usa del figlio Ruben, all’arresto – sempre negli Stati Uniti – de «la negra», la figlia Jessica e, più in generale alla pressione scatenata contro il suo impero. Azioni giudiziarie accompagnate dalle voci di una sua morte e poi da quelle su gravi problemi di salute, al punto che si sarebbe fatto costruire una clinica privata nella zona di Alcihuatl. A proteggerlo un «esercito» di killer — rinforzato quando serve da mercenari —, il territorio impervio e appoggi consolidati. Pochi giorni fa i suoi uomini hanno diffuso due video dove compaiono a bordo di decine di mezzi blindati (in officine ad hoc), equipaggiati come marines, sicuri che nessuno li avrebbe disturbati durante la parata. Era il loro modo per festeggiare il compleanno de El Mencho e rispondere alle notizie che parlano di nuovi contrasti nell’organizzazione. Due sottocapi, il Doppio R e lo 03, potrebbero avere deciso di staccarsi mentre altre indiscrezioni ipotizzano dissensi con i Los Cuinis. Tempeste abituali per i banditi, ma che possono diventare pericolose aprendo la strada a tradimenti.
El Mencho, re dei narcos che terrorizza il Messico e fa dimenticare il Chapo. La Dea mette una taglia da 10 milioni di dollari sulla testa di Nemesio Oseguera, il boss del cartello di Jalisco, nuovo signore del traffico di cocaina. Daniele Mastrogiacomo il 15 marzo 2020 su la Repubblica. Adesso è lui il capo, il nuovo re della droga in Messico. Si chiama Nemesio Oseguera, classe 1966, la faccia da ragazzo, l’espressione gelida, i capelli folti e neri ben curati, la giacca jeans aperta sul petto senza catene e crocefissi d’oro. Solo due anelli alle dita e un paio di tatuaggi. L’unica foto che ritrae El Mencho, il boss che ha sostituito El Chapo Guzmán nell’impero dei narcos e che adesso guida il più forte Cartello a sud del Rio Bravo, il Jalisco Nueva Generación, è quella scattata dalla polizia quando venne arrestato nell’agosto del 2012 ma poi rilasciato. La Dea americana lo ha messo in cima alla lista dei criminali più ricercati con una taglia da 10 milioni di dollari. Ma sembra poco probabile che qualcuno possa tradirlo. Regna su un vasto impero, ha a libro paga poliziotti e funzionari, conosce segreti e connivenze negli apparati governativi, possiede un esercito di almeno 10 mila persone, tra killer, gregari e capi delle piazze messicane. Gli Usa gli danno la caccia e dopo la strage dei mormoni di origine americana del 5 novembre scorso, con l’intervento personale di Donald Trump, gli hanno fatto terra bruciata. Hanno prima arrestato il figlio Rubén Oseguera, detto El Menchito, suo secondo e responsabile militare del Cartello; quindi l’altra figlia Johanna, considerata la regista del riciclaggio della montagna di denaro che il gruppo incassa quotidianamente. Sono chiusi in un carcere americano. Due giorni fa in un’altra mega operazione su entrambi i lati della frontiera, con la collaborazione della polizia federale messicana, sono state arrestate 200 persone che fanno salire a 700 le perdite tra le fila della JNG, oltre al sequestro di 20 milioni di dollari. Ma El Mencho resta libero. Sfugge a ogni trappola che il governo Obrador gli tende. Le pressioni da Washington sono fortissime. Ma anche quelle interne a Los Pinos che si ritrovano a gestire una patata bollente. Nemesio Oseguera sa molte cose e copre interessi imbarazzanti. Qualcuno lo ha lasciato libero e gli ha consentito di rafforzare un potere che ha costruito in dieci anni. La sua figura emerge alla fine del secolo scorso. Lo scontro tra i narcos di Sinaloa e quelli di Guadalajara si spegne grazie alla mediazione di Miguel Ángel Félix Gallardo, ex agente della polizia giudiziaria federale passato tra le fila dei trafficanti. Sarà lui a far rapire e uccidere l’agente della Dea Enrique Camarena, Kiki . L’inizio di tutto, quello che provocherà un vero terremoto anche nei Palazzi messicani, una reazione americana e la sua cattura e condanna a 40 di carcere per vari delitti. Il comando del Cartello passa nelle mani di un gregario rimasto fino a quel momento nell’ombra. Si chiama Joaquín Guzmán Loera, per tutti el Chapo , il piccoletto. È furbo e abile. Scala tutti i gradini, si sbarazza dei nemici; premia i fedelisssimi, fa sparire nell’acido chi lo tradisce. Ma anche lui, dopo due fughe rocambolesche dal supercarcere di Altiplano, è abbandonato dai suoi padrini politici e viene estradato negli Usa dove sarà condannato a più ergastoli. È l’occasione di un altro gregario. Si chiama Nemesio Oseguera. Sotto il Chapo aveva già imparato il business e controllava la piazza di Guadalajara. Con il suo socio Ignacio Coronel e altri fonda un gruppo che si fa chiamare Los Cuinis. Preferisce lo scontro a viso aperto piuttosto che la strategia dei tunnel. La polizia lo insegue ma lui riesce sempre a fuggire, scatenando inferni di fuoco con camion dati alle fiamme che bloccano le arterie dello Stato di Jalisco. Nei blitz cadono tutti i suoi soci: alcuni durante i conflitti a fuoco, altri in manette. Anche lui viene arrestato nell’agosto del 2012 per traffico di eroina negli Usa. Resterà nell’ombra. Non viene mostrato ai media, nessuno parlerà di lui. Sparisce. Siamo alla fine del governo Calderón. Tre anni dopo El Universal svela che il governo di Jalisco aveva deciso di rilasciarlo. Crea la Jalisco Nueva Generación. Conquista tutte le piazze, si impone con la violenza. Plomo mas que plata. Piombo più che soldi. Ha il monopolio del traffico di metanfetamina, eroina e cocaina verso gli Usa. Ma resta un fantasma.
Narcos, la «trattativa Stato-cartelli» dietro il rapimento dell’agente Camarena. Pubblicato martedì, 03 marzo 2020 su Corriere.it da Guido Olimpio. La storia di Enrique «Kiki» Camarena non conosce fine. È come un romanzo dove lo scrittore non riesce mai a chiudere l’ultimo capitolo. Perché i protagonisti gli forniscono altri spunti. Veri, presunti, a metà. In un intreccio dove impunità, grande crimine e cinismo politico si mescolano creando un muro dietro il quale si nasconde tanto. È il 7 febbraio del lontano 1985. Messico. Regione di Guadalajara. Poliziotti corrotti sequestrano «Kiki», un coraggioso agente della Dea americana che ha avuto un ruolo fondamentale in alcune operazioni. Gli infedeli lo trasferiscono in una fattoria e insieme ai loro complici narcos si dedicano a sevizie orrende. Percosse, scariche elettriche, fori con il trapano. Un supplizio durato per quasi 30 ore, un’agonia prolungata con l’aiuto di un medico che tiene in vita la vittima per dare modo ai torturatori di ottenere informazioni sulle indagini. Il corpo di Camarena, 37 anni, sarà ritrovato quasi un mese dopo, nello stato di Michoacán. L’omicidio è un segnale brutale da parte dei cartelli messicani, una sfida nella sfida. Che provoca sdegno e reazioni furibonde in Nord America. Ma forse — come vedremo più avanti — non tutti a Washington versano lacrime per l’epilogo. La Dea si lancia nella caccia ai colpevoli partendo da basi solide, lo stesso lavoro investigativo svolto dal loro collega prima di essere assassinato. Conoscono i loro avversari, sempre ben protetti.Le autorità locali non hanno scelta e, alla fine, dovranno procedere. Finiranno in manette Miguel Angel Felix Gallardo, uno dei boss più intraprendenti dell’epoca e mandante principale, quindi Ernesto Fonseca Carrillo e Rafael Caro Quintero. Più altri complici. Arresti accompagnati da attività meno ortodosse degli stessi americani che rapiranno il presunto medico torturatore e un altro bandito, entrambi trasferiti in America con un’operazione affidata a «mercenari». Missione che finirà poi in battaglia legale innescata dagli avvocati difensori dei detenuti, con richieste di danni. Sarà proprio un cavillo a permettere il rilascio da parte messicana, nel 2013, di Caro Quintero. Incredibilmente — ma non per gli standard del Paese — il padrino lascia la prigione e torna al contrabbando su larga scala. Le ultime informazioni raccontano che sia con il network di Sinaloa, sulla sua testa una taglia di 20 milioni di dollari offerta dagli Stati Uniti. A sud del Rio Grande, oltre confine, la legge conta poco, si spara molto e le bande combattono una guerra aperta. Le tappe dell’affare Camarena sono oscurate dai massacri quotidiani, ma sono rammentate dal dolore della sua famiglia, da decine di articoli e, di recente, dalla serie «Narcos-Messico» su Netflix.C’è ancora da raccontare sulla fine dell’investigatore. Il Dipartimento della Giustizia Usa ha ripreso in mano il dossier dopo le dichiarazioni di tre ex funzionari della polizia messicana legati alla gang di Quintero e soci. Il terzetto sostiene che un elemento della Dea e uno della Cia sapevano del piano per far sparire Kiki in quanto era seduti allo stesso tavolo dei pistoleri quando venne deciso il suo rapimento. Non solo. Una precedente indiscrezione suggeriva la presenza di uno 007 americano nella camera della morte quando i «sicarios» si accanivano su Camarena.Lo scenario — non inedito — è che i servizi statunitensi (o una parte di questi) volessero mascherare patti segreti, compresa la collaborazione con i trafficanti di droga, arruolati per appoggiare i contras, i guerriglieri contrari al regime comunista del Nicaragua. Stupefacenti e armi seguivano le medesime rotte, spesso quelle organizzate dal signore dei cieli, Amado Carrillo Fuentes. Ed ecco che il sacrificio di Kiki affonda nella melma nera mentre la Cia nega con forza. Toccherà agli inquirenti trovare riscontri alle accuse di personaggi ambigui che potrebbero avere interesse a deviare responsabilità. «Voglio tutta la verità — è stata la reazione della moglie di Camarena, Mika — A questo punto nulla mi può sorprendere».
Fabio Albanese per “la Stampa” l'8 febbraio 2020. Uno dei più potenti cartelli della droga aveva cominciato a trafficare cocaina in Italia senza l' intermediazione delle mafie locali. Lo sospettano gli investigatori della Finanza di Catania che, con le polizie colombiana e spagnola, hanno interrotto un business da 20 milioni di euro, sequestrando 386 chili di cocaina pura e arrestando 4 delle 7 persone coinvolte, quasi tutte «espressione diretta del potentissimo cartello messicano di Sinaloa». Droga messicana ma prodotta nel dipartimento colombiano di Cauca. Il carico, ufficialmente erano casse di libri, era arrivato a Catania l' 11 gennaio. Partito da Bogotà su un volo merci diretto a Roma, aveva proseguito per la Sicilia su un altro aereo. Tutti movimenti che gli investigatori hanno seguito passo passo. Con mandato di cattura internazionale richiesto dalla Dda di Catania, sono stati arrestati due guatelmatechi, Daniel Esteban Ortega Ubeda detto "Tito", 35 anni, e Felix Ruben Villagran Lopez, detto "Felix", di 48; un italiano di Sanremo ma residente in Spagna, Mauro Da Fiume, 56 anni; uno spagnolo di 42, Sergio Garcia Riera. Sono riusciti a far perdere le loro tracce i messicani Jose Angel Rivera Zazueta detto "El Flaco", 33 anni, considerato tra i capi del cartello di Sinaloa, e Salvador Ascencio Chavez, 53, "El Chava", e il guatelmateco Luis Fernando Morales Hernandez, 33, detto "El Suegro", parente di Felix. Il pesce grosso è proprio El Flaco, che gli investigatori hanno ascoltato in numerose intercettazioni mentre trattava partite di droga e di cui hanno seguito per mesi i movimenti in diverse città italiane, da Catania a Roma a Verona da Genova a Milano, ma anche in Cina e Taiwan. «Collettori dei produttori di stupefacenti», li definisce il comandante della Guardia di finanza di Catania, Raffaele D' Angelo, secondo cui «Catania era una porta d' ingresso per l' Italia». Catania, dove le cosche mafiose controllano storicamente tutte le piazze di spaccio. Eppure, i messicani di "El Flaco" l' hanno ritenuta base ottimale per i loro traffici: «Nessun collegamento accertato con i clan locali, almeno in questa fase - dice Francesco Ruis che da comandante del nucleo di polizia economico-finanziaria ha guidato l' indagine con Gico e Goa -. D' altronde la droga era probabilmente destinata al Nord e all' estero». Documentata una delle spedizioni-provino, quella che ha consentito di arrestare 4 delle 7 persone coinvolte, quasi tutte «soggetti nuovi, incensurati e sconosciuti da questa parte del mondo ma che in Messico hanno un' importanza criminale - spiega Ruis -. L'organizzazione contava su di loro per gestire il traffico e ora dovrà ricominciare daccapo». Tito e Felix, sbarcati a Catania dopo l' arrivo della droga, avevano inviato 3 chili di cocaina ad Affi, nel Veronese, dove il 23 gennaio saranno poi arrestati. Al telefono, El Flaco chiede a Tito: «Ma avrete tutta la merce?». E lui: «No, no tutti in una volta possiamo dare i primi 20, e dopo, di 20 in 20 Quello basso, quello che non parla spagnolo, ha coordinato il tutto con "spaghetti"». Con El Chava, Tito e Felix incontrano ad Affi i destinatari del provino, Mauro Da Fiume e Sergio Garcia Riera. Da Fiume, sanremese in passato in affari (di droga) con le 'ndrine calabresi della provincia di Imperia e del Genovese, ha un ristorante in Costa Brava, a Carnet de Mar; Riera è un catalano di Barcellona. Li ha arrestati il 4 febbraio la polizia spagnola come «rappresentanti di organizzazioni criminali acquirenti». Quali, dovranno essere altre indagini delle Dda di diverse città italiane ad accertarlo. Tuttavia, pare certo che la coca di Catania non sia stata l' unica inviata in Italia dal cartello di Sinaloa perché i 20 chili sequestrati a novembre in un container arrivato dalla Colombia nel porto di Vado Ligure apparterrebbero alla stessa organizzazione.
Assalto ai camion di avocado: la fame dei narcos per l’«oro verde». Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandra Muglia. Il Michoacán è tutta una distesa di filari di avocado: da questo Stato messicano proviene quasi la metà dei frutti consumati in tutto il mondo. Ma dietro questo rilassante tappeto verde si nascondono racket e violenza. Quello che i locali hanno ribattezzato «oro verde», manna delle esportazioni messicane, è ormai diventato l’ultimo terreno di scontro dei narcos. Ad attrarre le gang criminali è il crescente giro d’affari legato a questo «superfood», quadruplicato nell’ultimo decennio: vale due miliardi e mezzo di dollari l’anno, per lo più legati alle esportazioni verso gli Usa, dove sono in crescita costante. Alla vigilia del Super Bowl, per dire, il flusso di avocado verso gli States ha toccato un nuovo record: 127 mila tonnellate. Del resto la salsa guacamole è un must ai party organizzati per il gran finale del campionato di football americano. La dipendenza Usa da questo frutto è arrivata a condizionare anche le scelte politiche di Washington: la Casa Bianca ha desistito (finora) dal raccogliere i soldi per il Muro con una tassa del 20% sui prodotti importati dal Messico, proprio per il conseguente aumento dei prezzi per i consumatori americani innanzitutto dell’avocado, diventato su Twitter il nuovo simbolo di chi non vuole il Muro. La produzione dunque aumenta — oltre un milione di tonnellate di avocado nel 2019, il 4% in più dell’anno precedente — per tenere il passo con le crescenti richieste d’oltre confine. Ma cresce anche la violenza e il timore dei 30 mila piccoli produttori messicani di questo Stato grande poco più di Piemonte e Lombardia insieme. Fino a poco tempo fa la principale fonte di guadagno dei gruppi criminali era l’estorsione. Ora le gang hanno iniziato ad attaccare i camion carichi di frutta destinati all’esportazione: ne vengono assaltati almeno 4 al giorno dei 12 che escono ogni ora da Michoacán. Il crollo dei prezzi degli oppiacei ha indotto molti cartelli a diversificare il loro business e a puntare sull’oro verde in modo «più deciso». Non bastano a contrastarli i Cuerpos de Seguridad Pública, l’esercito parastatale nato qualche anno fa per proteggere le coltivazioni. L’aumento dei crimini legati a questo super frutto ha trasformato alcune zone in aree off limits anche per la polizia: «Abbiamo cercato di lavorare con il governo per combattere contro questi criminali, ma persino loro hanno paura di avventurarsi in certe zone», spiega un produttore al Financial Times. La guerra in atto per aggiudicarsi questo business è sfociata in una strage lo scorso agosto, quando 19 persone sono state massacrate a Uruapan, il centro dell’industria dell’avocado nel Michoacán. Le autorità hanno inquadrato questo bagno di sangue nello scontro in atto tra il Cartello di Jalisco e i Viagras, l’ala armata della Nueva Familia. Un’escalation che ha messo a rischio le esportazioni negli Usa e fatto tremare la filiera messicana quando a finire nel mirino dei malavitosi è stato un gruppo di ispettori del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti incaricato di verificare la qualità dei raccolti: sempre ad agosto una banda armata avrebbe derubato il camion con a bordo i tecnici americani. Per tutta risposta l’agenzia Usa ha minacciato di sospendere l’invio degli ispettori. Una contromisura che ha fatto temere potesse preludere al blocco delle esportazioni. Americani senza guacamole e quasi tutti gli abitanti di un’intera regione messicana costretti, senza più lavoro, a fare i bagagli e a iniziare la lunga marcia verso il confine. Una prospettiva che spaventa tutti, tranne le gang.
Da "corriere.it" il 19 febbraio 2020. Un filmato di 11 minuti con immagini mai viste prima di «El Chapo» Guzman, subito dopo il suo arresto nel 2016. Nelle immagini si vede il leader del cartello di Sionaloa in carcere mentre si pulisce l’inchiostro usato per le impronte digitali. Una guardia intanto gli chiede le sue generalità e alla domanda: «Che lavoro fa?», il boss della droga risponde: «Il contadino». El Chapo, che nella clip indossa una tuta con il 3870, sta ora scontando la sua condanna a vita in un carcere di massima sicurezza negli Stati Uniti. Il video integrale è stato pubblicato sul canale YouTube del sito di informazione Latinus
Messico, la figlia di El chapo sposa il rampollo del clan rivale. Il Dubbio il 4 Febbraio 2020. Messico nuova “pax” tra I cartelli dei narcos. Alejandrina Gisselle Guzman Salazar convola a nozze con Edgar Cazares giovane esponente del clan di Sinaloa. L’unione garantisce affari miliardari. Matrimonio dell’anno in Messico tra i figli di due potenti famiglie di narcotrafficanti rivali: Alejandrina Gisselle Guzman Salazar, rampolla nientemeno di ” El Chapo”, ed Edgar Cazares. Dalla loro unione fiabesca nasceranno sicuramente affari miliardari. Il matrimonio da favola è stato celebrato a porte chiuse e tra ingenti misure di sicurezza nella cattedrale di Culiacan, la più grande città dello Stato di Sinaloa, al centro dell’impero del cartello criminale delle famiglie degli sposi. Abito bianco da principessa per Alejandrina – ( il padre sta scontando l’ergastolo nel carcere di Supermax in Colorado)- arrivata in cattedrale a bordo di una macchina bianca antiproiettile. Il marito Edgar è il nipote di Blanca Margarita Cazares, nel 2007 finito nel mirino del Ministero del Tesoro americano. Lo sposo è noto anche per i suoi presunti collegamenti con Ismael Zambada Garcìa e Victor Emilio Cazares- Gastellum, potenti esponenti del cartello di Sinaloa. A celebrare il matrimonio, secondo i media locali, è stato un «amico di famiglia» dei Guzman. Dopo il rito cattolico, foto e video pubblicati sui social hanno mostrato un ricevimento sfarzoso con esibizione dei tipici mariachi, spettacolo pirotecnico, oltre a un mega diamante al dito della neo sposa, “l’anello della droga”, come ribattezzato dalla stampa locale, in riferimento all’unione dinastica tra i due potenti clan del narcotraffico. Il fatto che il matrimonio sia stato celebrato in una chiesa così importante ha indignato molti cittadini ma non ha sorpreso la maggior parte della popolazione. Il matrimonio tra Alejandrina e Edgar è giunto pochi giorni dopo la pubblicazione di un rapporto sulla criminalità in Messico, che registra un tasso di violenza record con 35.588 omicidi nel 2019, in aumento del 2,7% rispetto all’anno precedente. Emblematica del potere del cartello di Sinaloa è stata la vicenda della cattura, lo scorso ottobre, di uno dei 12 figli di El Chapo, Ovidio Guzman Lopez, che i soldati sono stati costretti a liberare dopo le minacce alle proprie famiglie mosse da uomini armati al servizio del boss del narcotraffico e il caos in città. Cartelli della droga e criminalità organizzata sono piaghe sociali profondamente radicate nel Paese e che finora gli interventi militari attuati dal governo, a partire dal 2006, non sono stati in grado di contrastare.
DAGONEWS il 10 febbraio 2020. Il cartello di Joaquin "El Chapo" Guzman avrebbe trasportato 10.000 chili di cocaina dalla Colombia al Messico su aerei cargo grazie a un piano approvato dalla politica che ha concesso al signore della droga di costruire un hangar all'aeroporto di Bogotá. Secondo quanto riferito, El Chapo ha usato l'hangar vicino all'aeroporto internazionale El Dorado dal 2006 al 2007 per spedire segretamente droga in Messico che veniva dirottata poi sugli Stati Uniti e nel resto del mondo. In un rapporto pubblicato il mese scorso, un ex funzionario del governo colombiano afferma che l'ex presidente del paese, Álvaro Uribe, ha dato il via libera per la costruzione dell'hangar e in cambio avrebbe ricevuto pietre preziose e un milione dal cartello di Sinaloa. Richard Maok, che ha prestato servizio come investigatore presso il dipartimento del tesoro della Colombia e attualmente vive in Canada, ha dichiarato di essere stato informato di recente del piano da un ex addetto alla sicurezza di una compagnia di trasporto aereo colombiana. Ha affermato che la droga veniva trasportata in aeroporto da gruppi paramilitari alleati di Uribe. In cambio, i cartelli fornivano loro pistole e armi. Uribe, che è stato presidente della Colombia dal 2002 al 2010, aveva legami con il cartello perché suo fratello era sposato con la sorella di Alex Cifuentes, un ex funzionario di alto rango nell'organizzazione di El Chapo, che ora sta scontando una pena detentiva negli Stati Uniti. Durante il processo a El Chapo, Cifuentes ha accusato che anche l'ex presidente del Messico Enrique Peña Nieto dichiarando che anche lui aveva ricevuto una grande somma di denaro dal cartello di El Chapo. Secondo i documenti trasmessi dall'informatore di Maok, che lavorava presso la Air Cargo Lines in Colombia, l'organizzazione criminale del boss usava l’hangar per contrabbandare la droga e gli aerei tornavano carichi di denaro. Secondo la testimonianza, l'elaborato schema riceveva il sostegno di paramilitari, di dirigenti della Air Cargo Lines, di funzionari dell'agenzia di transito aereo della Colombia, della Aerocivil e di un importante agente del dipartimento di polizia nazionale del paese. Presumibilmente Uribe è intervenuto per ordinare ai funzionari dell'aviazione di autorizzare i voli dell’aereo cargo a quattro motori DC-8, soprannominato "Aeropostal". Il cartello, con l'aiuto di un gruppo di trafficanti di droga noto come "Los Paisas", trasportava il carico fino a Sinaloa. La Colombia esporta l'80% della cocaina del mondo grazie a una rete in mano a Ismael “El Mayo”, Zambada e i tre figli di El Chapo. L'informatore ha detto a Maok che un agente americano dell’ICE, che lavorava anche per la DEA, sapeva dell'affare dell'organizzazione, ma non ha fatto nulla per fermarlo. La massiccia spedizione di droga, nell'attuale mercato degli Stati Uniti, avrebbe un valore stimato di 400 milioni di dollari. Alla fine il piano è stato bloccato quando i funzionari messicani hanno fermato un quinto volo da Bogotà con sei tonnellate e mezzo di cocaina. Uribe è oggetto di un'inchiesta dopo le accuse del senatore Ivan Cepeda, il quale ha affermato di avere testimonianze dirette che l’ex presidente era un fondatore di un gruppo paramilitare della sua provincia di origine durante i decenni di conflitto civile che hanno coinvolto forze governative, ribelli di sinistra e bande di destra. L'ex capo di stato ha negato tutte le accuse di legami con i paramilitari che sono accusati di traffico di droga e dell’uccisione di innocenti.
Messico, dopo El Chapo resta l'inferno: 4 omicidi all'ora. Le Iene News il 21 gennaio 2020. Negli ultimi 13 anni il Messico, sconvolto dalla guerra tra bande di Narcos per il controllo del traffico di droga, ha registrato oltre 34mila omicidi. Un inferno che vi abbiamo raccontato con il reportage di Cizco e Gaston Zama, una giornata di ordinario terrore per le strade di Acapulco. Come definire se non “un paese in guerra” quello in cui ogni ora vengono brutalmente ammazzate 4 persone? È il Messico dei cartelli della droga e delle organizzazioni paramilitari, di cui ci siamo occupati nel reportage di Cizco e Gaston Zama, che potete rivedere qui sopra. Il dato degli omicidi del 2019 è assolutamente sconvolgente: 34.582 morti ammazzati in un anno, una media di 95 cadaveri ogni singolo giorno. Un bilancio che, se rapportato agli ultimi 13 anni è ancora più incredibile: quasi 275mila morti. Lo scorso agosto, in questo articolo, vi abbiamo raccontato dell’ennesima strage per le strade del Messico, la più sanguinosa da quando alla guida del Paese c’è il presidente di sinistra Andrés López Obrador. Una mattanza, quella consumata contro un bar di Coatzacoalcos, nello stato di Veracruz, che ha provocato 26 morti e 11 feriti, e questo nonostante il capo supremo dei cartelli della droga “ El Chapo” Guzman sia da tempo all’ergastolo negli Stati Uniti, in Colorado, in una cella di 2 metri per 4. Joaquin "El Chapo" Guzman Loera è stato per 25 anni a capo del cartello di Sinaloa, una delle più grandi e violente organizzazioni messicane dedite al traffico di droga. È stato condannato per tutti e dieci i capi d’accusa per i quali era imputato: associazione a delinquere, criminalità organizzata, traffico di droga, riciclaggio di denaro sporco, uso e traffico di armi da fuoco e vari omicidi. Arrestato in Messico nel 2016, un anno dopo una delle sue clamorose evasioni, era stato estradato nel 2017 negli Stati Uniti. Ma la mattanza dei Narcos, dopo il suo arresto, è continuata ancora più spietata, come ci hanno documentato Cizco e Gaston Zama raccontando una giornata ad Acapulco, dove omicidi, esecuzioni e scontri tra bande rivali sono all’ordine del giorno.
Homero, gettato in un pozzo. Lottava per salvare le farfalle. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Guido Olimpio. In Messico chi difende la legalità diventa un bersaglio. Banditi, agenti corrotti, piccoli e grandi poteri lo considerano un ostacolo. Forse c’è questo dietro la misteriosa fine di Homero Gomez, 50 anni, un agronomo che si era dedicato alla protezione dell’ambiente e in particolare delle bellissime farfalle monarca. Il suo corpo è stato ritrovato, dopo lunghe ricerche, in un pozzo a El Soldado, municipio di Ocampo, stato di Michoacan. È qui che lo avevano visto per l’ultima volta il 13 gennaio dopo un incontro con alcune persone del posto. Il giorno seguente la famiglia ha lanciato l’allarme manifestando grande angoscia. Gomez era già stato oggetto di minacce, inoltre i parenti avevano ricevuto una falsa richiesta di riscatto da parte di qualche «sciacallo». Le autorità si sono mosse mettendo sotto controllo l’intero municipio, passo seguito da interrogatori estesi che hanno coinvolto civili e alcune decine di poliziotti locali. I congiunti della vittima hanno chiesto al magistrato di condurre il test del Dna in quanto il corpo è irriconoscibile e gli abiti non sono quelli che indossava l’attivista. Quanto alla causa del decesso si parla di asfissia per annegamento, un verdetto provvisorio. Homero era il paladino del «santuario» di El Rosario, un’area dove migrano ogni anno, in autunno, milioni di farfalle monarca provenienti dal Nord America. Finito l’inverno ripartono. La vegetazione e il clima sono favorevoli, infatti pur restando una specie a rischio sono cresciute. C’è l’habitat perfetto che negli ultimi tempi è stato messo in pericolo da una minaccia esterna. Umana. Network criminali connessi trafficano nel legno, abbattono boschi, creano spazi per la marijuana e dunque tendono a sfruttare il più possibile ogni angolo di vegetazione. Un fenomeno non limitato, purtroppo, solo a Michoacan. Anche nello stato di Chihuahua agiscono squadre di tagliatori, molto spesso giovanissimi, ingaggiati dal cartello di Juarez. In poche ore fanno tabula rasa, segano i «fusti» e li caricano su colonne di camion. Davanti a questo scempio Homero Gomez ha lanciato una campagna di mobilitazione che lo ha reso piuttosto noto, anche all’estero. Ma alla fine questa sua lotta coraggiosa potrebbe essersi trasformata in un contratto di morte sospeso sulla sua testa. Ora, per alcuni episodi è sempre bene lasciare aperta ogni ipotesi, tuttavia quanto è avvenuto nella riserva delle monarca rappresenta per gli investigatori una traccia da esplorare. Il contesto generale racconta molto. I trafficanti, da tempo, hanno diversificato le loro attività. Droga e migranti rappresentano i «prodotti»principali in quanto permettono guadagni importanti per via della domanda. In parallelo i narcos sono entrati nel campo minerario, nel furto di idrocarburi, nell’agricoltura. Pongono «tasse» su coltivazioni di avocados e lime, sfruttano gli scavi, procurano pesci rari (in via di estinzione) al goloso mercato cinese. Nulla sfugge al loro sistema. Che ovviamente finisce per scatenare battaglie tra gruppi concorrenti. La storia di Homero fa parte di qualcosa di più brutale e ampio. Nel 2019 gli omicidi in Messico sono stati 35.588 mentre un rapporto ufficiale ha dichiarato che i desaparecidos sono 61 mila, la maggior parte scomparsi dal 2006. E nei cieli messicani volano non solo le farfalle: negli ultimi sei anni sono stati scoperti 1.356 aerei della droga, una minuscola parte di una flotta gigantesca.
Usa-Messico, scoperto tunnel dei narcos di 1,3 km: è il più lungo mai trovato. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Guido Olimpio. Il tunnel più lungo scavato dai narcos al confine Messico-Usa: 1300 metri. Lo hanno individuato gli agenti statunitensi nel settore di Otay Mesa, a sud di San Diego, e partiva dalla vicina Tijuana. La galleria, scoperta dalla speciale Task force che agisce sulla frontiera, è piuttosto sofisticata. I trafficanti l’hanno dotata di rotaie per favorire i movimenti di carrellini, illuminazione, ascensore d’accesso, aerazione. Una tecnica consolidata nel tempo. I cartelli hanno infatti creato team di scavatori e tecnici capaci di realizzare strutture complesse. Secondo i dati forniti dalle autorità il passaggio “correva” ad una profondità media di 21 metri, con un’altezza interna di circa 1.70. Inoltre aveva una derivazione che tuttavia non aveva uno sbocco in superficie. L’area di Otay Mesa, in California, è una delle più utilizzate dai contrabbandieri che si affidano ai tunnel. Per diverse ragioni: 1. Ci sono molti capannoni industriali sui due lati del muro che possono mimetizzare ingressi e uscite. 2. Essendo una zona industriale il movimento di mezzi e il rumore di apparati di scavo solleva meno sospetti. 3. In passato si è anche detto che la vicinanza dell’aeroporto di Tijuana potesse coprire il lavoro dei minatori. 4. La Baja California è uno dei principali corridoi della droga destinata al mercato americano ed esistono dagli anni ’90 network criminali che hanno investito molto nelle gallerie. L’altra regione dove sono stati spesso localizzati dei tunnel è quella di Nogales, in Arizona. Qui il compito dei banditi è facilitato dal tipo di terreno e dalla contiguità dei centri abitati, divisi dalla palizzata.
Messico-Usa, scoperto il tunnel da record dei narcos. E' lungo più di 1.300 metri e alto 3: per le autorità Usa veniva usato per contrabbandare droga e immigrati. Daniele Mastrogiacomo il 30 gennaio 2020 su La Repubblica. È il tunnel più lungo nella altrettanto lunga storia del traffico clandestino tra Usa e Messico. Solido, sofisticato, munito di sistemi di areazione e di drenaggio dell'acqua piovana per evitare gli allagamenti, quello realizzato tra un sito industriale di Tijuana e un quartiere periferico di San Diego ha battuto tutti i record. I funzionari della Border protection che ispezionano regolarmente i 3.145 chilometri del confine meridionale statunitense sono rimasti colpiti dai lavori di ingegneria trovati all'interno della galleria. Si estendeva per 1.313 metri, alto 3 e largo 1,5, aveva anche un binario dove scorrevano probabilmente dei piccoli carrelli forse persino motorizzati. La scoperta è avvenuta nell'agosto scorso ma solo ieri la dogana Usa ha deciso di renderlo noto e farlo visitare ad alcuni cronisti e filmaker che hanno potuto registrare alcune immagini interne. Il tunnel è intatto, sorretto da diverse impalcature ma rafforzato poi da cemento nelle volte. Una struttura solida e complessa, qualcosa che deve essere stato progettato da professionisti ingaggiati dai Cartelli. Secondo le autorità statunitensi veniva usato per contrabbandare ogni tipo di merce, droga e immigrati in testa. Ma non si esclude che sia servito anche per far passare da un lato all'altro delle frontiere sicari e boss di diverse gang ricercati. Non si sa chi l'abbia costruito e quando. I sospetti puntano sul Cartello di Sinaloa che domina ancora gli Stati del nord ovest del Messico, quelli che si affacciano sul Pacifico e la Bassa California. La stessa struttura della galleria ricorda del resto quella realizzata dagli uomini del Chapo Guzmán, adesso in carcere a Manhattan dopo la condanna all'ergastolo. La prima volta che evase, il re della droga mondiale uscì nascosto nel carrello della biancheria sporca. Così, almeno, fu la versione ufficiale anche se si disse in seguito che varcò il portone del penitenziario di Altiplano travestito da guardia mischiato ad altri agenti mentre c'era il cambio del turno. La seconda evasione fu più clamorosa: nonostante fosse in isolamento, non potesse parlare con nessuno, nemmeno con gli agenti penitenziari, vigilato da camere di sorveglianza 24 ore al giorno, el Chapo convinse una guardia a portare all'esterno un biglietto in cui ordinava la costruzione di un tunnel. Gli uomini del Cartello ingaggiarono un ingegnere che lo progettò e seguì personalmente i lavori. La galleria partiva da una vecchia casa in disuso piazzata in mezzo alla landa deserta che sorgeva a meno di un chilometro dal penitenziario. Sbucava proprio sotto la tazza del bagno della cella del boss. El Chapo si infilò nel cunicolo e a bordo di una moto piazzata sopra il carello che scorreva su due binari prese il largo. Tutti avevano sentito i rumori degli scavi, anche chi lo controllava da vicino. La sua fuga era stata agevolata dagli stessi che lo avevano protetto così a lungo. Lasciarlo libero serviva a ricatturarlo a beneficio di chi lo avrebbe fatto. E' andata così. El Chapo è stato ripreso ed estradato negli Usa. Chi ha gestito tutta l'operazione ha fatto un balzo al vertice delle Istituzioni messicane. Ma questa è un'altra storia che puntualmente si minaccia di raccontare in un'aula di giustizia americana.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Il Doppio Stato.
Le confessioni dei pentiti e i dubbi sullo Stato. Laura Rossi il 17 luglio 2020 su Ferrara Italia. “Non si può combattere la mafia se non vi è l’impegno generale dello Stato, di tutto lo Stato non delle deleghe… Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso, e poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno”. (Paolo Borsellino)
Il giudice Paolo Borsellino doveva morire nel 1991 per ordine di Francesco Messina Denaro, padre di quel Matteo Messina Denaro, e su incarico di Totò Riina; così raccontò il "pentito di mafia" Vincenzo Calcara, durante un colloquio in carcere al giudice Borsellino: “Un giorno, nel settembre 1991, sono stato convocato dal capo assoluto della mia famiglia di Trapani, Francesco Messina Denaro, dove mi spiegarono di tenermi pronto perché era stata decisa la morte del giudice. Era un grande onore per me, avrei fatto strada dentro cosa nostra. Tutto viene programmato, devo ucciderlo con un fucile di precisione, “di Borsellino non deve rimanere niente, neanche le idee”, precisò il capo-mandante”. Invece succede un imprevisto, il "killer" di Castelvetrano non può adempiere alla sua missione perché viene arrestato per traffico internazionale di droga. Questo arresto e il rischio di essere ucciso lo avvicinano alla sua vittima, si pente, cambia idea (così dice lui) e si rifiuta di uccidere Borsellino, forse perché si rende conto che una volta eliminato il giudice anch’egli avrebbe fatto la stessa fine. Fu così che, dal carcere, avverte nel giugno 1992 il giudice che le cosche avevano fatto ‘rifornimento’ di esplosivo e che il carico era arrivato a destinazione. Purtroppo, come sappiamo, un mese dopo, il 19 luglio, avvenne l’esplosione in via D’ Amelio, esattamente dopo 57 giorni dalla strage di Capaci. Non fu l’unico avvertimento, avvenne un fatto inaccettabile, incredibile: il 14 luglio 1992 (cinque giorni prima dell’attentato), un calabrese già appartenente alla ‘ndrangheta, rifugiatosi in un paese del nord Europa, avverte il console italiano del luogo che si sta tramando un attentato a Palermo contro il giudice Borsellino. Immediatamente viene comunicata a Roma l’informazione, però questa verrà trasmessa a Palermo solamente il 25 luglio, sei giorni dopo la strage di via D’Amelio! Questo terribile fatto starebbe a significare che non si voleva impedire la strage?
Ritorniamo al "pentito" Vincenzo Calcara che parla come un fiume in piena, e sono in molti a chiedersi se sia credibile oppure sia un millantatore. Dagli inquirenti viene indicato come un “pentito” minore di cosa nostra, e in diverse udienze è scritto che egli sarebbe incline alla menzogna; vero oppure no? Una cosa certa è che il Calcara e il giudice Borsellino si incontrarono spesso nel carcere dove era detenuto, giorni e giorni di confessioni che provocarono centinaia di arresti di mafiosi e di colletti bianchi. A questo proposito egli afferma: “Tramite le mie dichiarazioni fatte al giudice Borsellino, e in seguito ad altri magistrati, sono stati condannati tantissimi uomini di cosa nostra, compresi l’ex sindaco di Castelvetrano Vaccarino e Francesco Messina Denaro”. “Sapete benissimo”, aggiunge il pentito, “che il giudice Borsellino ha creduto in me, sapete perfettamente che ho fatto di tutto per salvargli la vita, mettendolo a conoscenza del piano per ucciderlo e siete anche a conoscenza dello straordinario rapporto umano che si era creato tra noi, e in seguito con tutta la sua famiglia.” Infatti sembrerebbe, e sottolineo sembrerebbe, che la stessa famiglia Borsellino avesse sostenuto anche le spese legali del ‘pentito’, oltre a fornire un aiuto economico alle figlie, dopo la morte del giudice. Vi sarebbe da aggiungere che il ‘Memoriale’ di Calcara, dove racconta tutta la (sua) verità nei dettagli, porta nella prefazione la firma di Salvatore Borsellino, fratello del giudice, e la presentazione è stata curata da Manfredi Borsellino, figlio del giudice, alla fiera del libro di Torino di qualche anno fa.
Il pentito Vincenzo Calcara, dopo aver vissuto per anni in luoghi nascosti, senza identità per il timore di ritorsioni mafiose, disse: “mi sono stancato, ho voluto riabbracciare la mia famiglia. Fino al 1998 sono stato sottoposto al programma di protezione dei collaboratori di giustizia, ma ora non più!” La veridicità del pentito ha fatto e continua a far discutere anche negli ambienti delle forze di polizia e carabinieri, dove considerano alcuni racconti molto “fantasiosi”. Sarebbero in molti a sostenere che Falcone e Borsellino sarebbero stati uccisi per la Trattativa Stato-Mafia dove avrebbero scoperto le trame segrete dello Stato, e proprio per questo avrebbero dovuto morire; vero o falso?
Al termine dell’udienza del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, ha accusato: “Penso ci sia una enorme difficoltà a far emergere la verità, non ho constatato da parte di nessuno la volontà di dare un contributo, al di là delle proprie discolpe, a capire cosa sia successo. Sembra che il depistaggio delle indagini sia avvenuto per virtù dello Spirito Santo: ci si riempie la bocca con parola “pool” ma io di “pool” non ne ho visto nemmeno l’ombra, però quando ai magistrati si chiede come mai non fossero a conoscenza dei colloqui investigativi, cadono dalle nuvole!” Aggiungo alcuni contenuti del libro-testamento di Agnese Borsellino, la moglie del giudice scomparsa alcuni anni fa, dove non mancano particolari inediti sui giorni successivi alla strage del 19 luglio 1992. “In quei giorni ero contesa da prefetti, generali ed alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. Ora so perché mi facevano tutte quelle domande: volevano capire se io sapevo, se Paolo mi aveva confidato qualcosa nei giorni che precedettero la sua uccisione. E allora tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime”.
Marco Travaglio per "il Fatto quotidiano” il 12 febbraio 2020. Piazza Fontana, delitto Calabresi, delitto Moro, strage di Bologna, Capaci e via D' Amelio, bombe di Roma, Firenze e Milano, trattativa Stato-mafia. A dispetto della visione unitaria di pochi magistrati, giornalisti e storici squalificati come complottisti e acchiappa-teoremi, la narrazione mainstream ha sempre respinto la teoria del "doppio Stato", spacciando le varie tappe della strategia della tensione di destra e di sinistra come una serie di fatti isolati e slegati, senz'alcuna regìa superiore. Nel 2009 il presidente Giorgio Napolitano, lo stesso che da ministro dell' Interno si era vantato di non "aprire gli armadi" del Viminale, impose urbi et orbi la linea negazionista, intimando di smetterla con il "fantomatico doppio Stato". Come se il capo di uno Stato democratico potesse mettere la camicia di forza alla ricerca storica e alle indagini giudiziarie e giornalistiche. Infatti poi tentò di deviare le indagini palermitane sulla Trattativa, colpevoli di smascherare il doppio Stato che combatteva la mafia e intanto trescava con essa. Ora l' inchiesta di Bologna sulla strage spalanca la scatola nera del doppio Stato e dipinge un quadro sconvolgente che, se reggerà al processo, riscriverà gli ultimi 50 anni di storia: le stesse strutture statali, le stesse organizzazioni eversive e gli stessi massoni pilotavano direttamente od orientavano a distanza (anche a loro insaputa) terroristi e mafiosi, usandoli come manovalanza a buon mercato per disegni concepiti altrove: per affogare nel sangue e nella restaurazione ogni vagito di cambiamento. Nel 1969 Piazza Fontana contro il primo centrosinistra e il '68. Nel 1978-'80 via Fani e Bologna contro l' intesa Moro-Berlinguer. Nel 1992- '93 le stragi e poi FI contro la rivoluzione legalitaria dei maxiprocessi alla mafia e a Tangentopoli. Gli indagati di Bologna sono impresari della violenza, della paura e del gattopardismo che collegano mezzo secolo di "destabilizzazioni stabilizzanti", ordite non per rovesciare l' ordine costituito, ma per imbalsamarlo e vaccinarlo da ogni rischio di cambiamento. Licio Gelli debutta nel 1944 come doppiogiochista fra repubblichini, Alleati e partigiani. Nel '70 è acceleratore e poi frenatore del golpe Borghese. Capo della loggia P2 che raduna il Gotha di politica, 007, magistratura, Arma, Gdf e giornalismo. Estensore del Piano di Rinascita poi copiato da Craxi e B., depistatore del caso Moro e della strage di Bologna (di cui ora risulta il mandante). Nel '93 è in contatto coi mafiosi e i "neri" che, sotto le bombe, preparano l' entrata in politica di "Leghe meridionali" poi rimpiazzate da Forza Italia del confratello B. e del mafioso Dell' Utri. Sappiamo molto anche di Federico Umberto D' Amato, capo dell' Ufficio Affari Riservati del Viminale che nel '69 fabbrica la velina sulla pista anarchica di Piazza Fontana. E, dopo il delitto Calabresi, va più volte a trovare il mandante Adriano Sofri per commissionargli un altro "mazzetto di omicidi" (l' ha raccontato Sofri, senza spiegare quali omicidi e da cosa nascesse tanta confidenza). Personaggio trasversale, tanto da comparire nelle liste P2 ed essere intimo amico del principe Caracciolo, editore con Scalfari e De Benedetti del gruppo Espresso (e Repubblica) che per anni gli affidò sotto pseudonimo la rubrica di gastronomia. Ora i Pg di Bologna lo additano fra i mandanti della strage alla stazione. Poi c' è Paolo Bellini, altro uomo-cerniera tra delitti, stragi e misteri: estremista nero di Avanguardia nazionale, esperto d' arte, confidente del Sismi, fuggitivo in Brasile sotto falso nome, arrestato nel 1999 quando confessa dieci omicidi per conto della 'ndrangheta più quello misterioso di Alceste Campanile (militante di Lotta continua). Un filmato amatoriale lo immortalerebbe sulla scena della strage di Bologna e ne farebbe il quarto esecutore materiale, insieme ai Nar Fioravanti, Mambro, Ciavardini e Cavallini. A fine 1991, quando Riina riunisce la Cupola a Enna per pianificare la strategia politico-stragista, anche lui si trova miracolosamente a Enna. Il 6 marzo '92 un altro neofascista, Elio Ciolini, già coinvolto nelle indagini su Bologna, scrive dal carcere a un giudice per preannunciargli "nel periodo marzo-luglio fatti intesi a destabilizzare l' ordine pubblico", fra cui "sequestro ed eventuale 'omicidio' di esponente politico Psi, Pci, Dc, sequestro ed eventuale 'omicidio' del futuro presidente della Repubblica". Sette giorni dopo Cosa Nostra uccide Lima e prepara altri delitti eccellenti ai danni del premier Andreotti, candidato al Quirinale, e dei suoi ministri Mannino, Martelli e Andò. Il 23 maggio, la strage di Capaci. I carabinieri del Ros trattano con Ciancimino e intanto Bellini incontra uno dei killer di Capaci, Nino Gioè, per negoziare con i carabinieri del Nucleo artistico la riconsegna di opere d' arte rubate dalla malavita in cambio di alleggerimenti del 41-bis: trattativa interrotta per lo strano "suicidio" di Gioè in carcere dopo la visita di strani 007. Manca il caso Moro: a Bologna è indagato pure Domenico Catracchia, amministratore di un noto condominio di via Gradoli a Roma, per falsa testimonianza sui suoi rapporti con Vincenzo Parisi, ex capo del Sisde e poi della Polizia, anche lui coinvolto nella Trattativa. In via Gradoli le Br avevano un covo strategico durante il sequestro Moro, emerso da una "seduta spiritica" svelata da Prodi a Cossiga e ignorata dalle forze dell' ordine, che andarono a cercarlo nell' omonimo comune della provincia. E in via Gradoli anche i terroristi neri dei Nar avevano due covi, affittati dalle stesse immobiliari legate al Sisde che ospitavano i rossi. Tutte coincidenze, si capisce. Pur di non parlare di doppio Stato. E dimenticare che un piduista è stato, negli ultimi 25 anni, il premier più longevo della storia repubblicana.
· In cerca di “Iddu”.
Sulle tracce del fantasma di Messina Denaro. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 9 novembre 2020. Il capomafia più ricercato d’Europa è protagonista di “U siccu” che esce dal 7 novembre in edicola con Repubblica. C'è un mafioso in Sicilia, ricercato da 27 anni, che non ha mai chiesto il pizzo. Piuttosto, ha sempre offerto liquidità agli imprenditori. Si chiama Matteo Messina Denaro, è il padrino di Castelvetrano condannato all’ergastolo per le stragi del ’92-’93. Non è certo un filantropo, ha solo previsto per tempo l’accelerazione della crisi economica. E ha lanciato il suo abbraccio fatale agli operatori economici in difficoltà: acquisisce società, lancia sempre nuovi prestanome arrivati dal nulla, investe, ricicla. «In periodo di Covid, questa forza economica è capace di inquinare ancora di più in maniera silenziosa e invisibile l’economia legale del Paese e la politica», racconta Lirio Abbate, il vice direttore dell’Espresso nel suo ultimo libro dedicato al criminale più ricercato d’Italia, si intitola U siccu. Matteo Messina Denaro: l’ultimo capo dei capi, adesso in uscita con Repubblica e l’Espresso (a 12,90 euro in più). Un’inchiesta giornalistica vecchio stile nel cuore della Sicilia, dove Abbate è cresciuto raccontando l’ascesa dei Corleonesi di Totò Riina, le stragi e le complicità, per questo vive da anni sotto scorta. U siccu in dialetto vuole “molto magro”. «Ha un occhio leggermente strabico, porta occhiali a goccia, fuma, non gradisce fare né l’eremita, né il pezzente, gli piacciono le donne e lui piace a loro». È il ritratto di un fantasma, oggi ha 58 anni, dal giugno 1993 sembra diventato imprendibile nonostante gli diano la caccia i migliori investigatori di polizia e carabinieri, coordinati dalla procura antimafia di Palermo. Abbate ha ritrovato il primo (e unico) verbale d’interrogatorio del boss, risale al 30 giugno 1988. «Sono il quarto dei sei figli di Messina Denaro Francesco – disse ai poliziotti del commissariato di Castelvetrano – l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi. Lui è stato campiere presso i terreni della famiglia D’Alì Staiti – spiegò – e tre anni fa sono subentrato io». Quel giovanotto dall’aria spavalda che aveva iniziato a lavorare per la famiglia del futuro sottosegretario all’Interno Tonino D’Alì ha ereditato molto dal padre padrino: soprattutto, tante relazioni che sono diventate il vero segreto della sua latitanza. Perché oggi Messina Denaro non ha più sicari a disposizione, la sua forza è nei misteri che ha attraversato. Quelli attorno alle stragi Falcone e Borsellino, alle bombe di Roma, Milano e Firenze, quelli sulla trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia nei giorni in cui l’Italia era insanguinata. Messina Denaro era il pupillo di Riina, eppure negli ultimi anni il capo dei capi di Cosa nostra si lamentava: «Se ci fosse suo padre, buonanima, perché suo padre era un bravo cristiano, u zu Ciccio era un orologio… questo figlio lo ha dato a me per farne quello ne dovevo fare – Abbate ripercorre le intercettazioni della Dia nel carcere di Opera – È stato quattro o cinque anni con me. Impara bene, minchia, e poi tutto in una volta...». All’improvviso, dopo la stagione delle stragi, l’unico erede della dinastia Corleonese rimasto in libertà sparisce. E da killer diventa manager. Negli ultimi anni, magistrati e forze dell’ordine hanno provato a fargli terra bruciata sequestrando milioni di euro agli imprenditori del suo “cerchio magico”, impegnati nei settori più diversi, dalla grande distribuzione all’energia eolica. Ma lui è riuscito sempre a farla franca. Blitz sono falliti all’ultimo momento, notizie sulle indagini sono filtrate, talpe si sono mosse. I segreti della Primula rossa di Castelvetrano restano merce di scambio e di ricatto. Chi protegge ancora Messina Denaro? E chissà dove si nasconde. Le microspie e le telecamere che scrutano il ventre della Sicilia non hanno più tracce di lui da anni. «Il punto di chiusura di questa storia – scrive Abbate – è che un Paese democratico non può consentire a un uomo responsabile di omicidi e stragi di continuare a circolare, va arrestato al più presto. Oggi, è anche più pericoloso di prima». Soprattutto perché rappresenta un simbolo per quella Cosa nostra che non sembra affatto fiaccata da arresti, processi e sequestri. Il “metodo” Messina Denaro è già diventato un percorso per la riorganizzazione mafiosa. Meno controllo del territorio e più grandi affari. Con benefici per tutti i complici in causa, sul versante economico e politico. La mafia nell’epoca della pandemia è sempre più un’agenzia di servizi.
Un pentito riapre il mistero dell’attentato a Di Matteo. “Messina Denaro mandò un messaggio a Palermo”. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 10 novembre 2020. Da circa un mese il boss Alfredo Geraci parla con i pm, ha raccontato di aver procurato l’appartamento dove si tenne il summit per discutere del progetto sollecitato dal superlatitante nel 2012. E’ uno dei misteri di mafia più recenti, un progetto di attentato nei confronti del pm Nino Di Matteo, uno dei magistrati dell'inchiesta "Trattativa Stato-mafia", oggi componente del Consiglio superiore della magistratura. “La richiesta arrivò da Messina Denaro, nel dicembre 2012 - ha svelato alcuni anni fa il boss pentito Vito Galatolo – ci mobilitammo per comprare l’esplosivo”. Ora, arriva un altro tassello importante per provare a ricostruire questa storia: un esattore del pizzo del clan Porta Nuova, Alfredo Geraci, sta collaborando da un mese con i magistrati della procura di Palermo, ha raccontato che fu lui a procurare l’appartamento di Ballarò per quel summit in cui si discusse dell’attentato a Di Matteo. Lui non sa di cosa si parlò, però poi il suo capo, Alessandro D’Ambrogio, gli avrebbe fatto delle confidenze importanti. Proprio sul fatto che Messina Denaro aveva chiesto qualcosa ai mafiosi di Palermo. Le nuove rivelazioni sono coperte da un rigido segreto istruttorio. I pubblici ministeri Amelia Luise e Francesca Mazzocco hanno depositato in un processo solo un verbale di Geraci, quello in cui si parla delle estorsioni che soffocavano i commercianti e i gestori dei locali del centro di Palermo. Fra queste carte, c'è un riferimento all’appartamento del summit. “Un giorno mi chiamò Alessandro D’Ambrogio, il capo del mio mandamento – ha spiegato l’ex boss – mi disse che aveva bisogno di un locale dove fare una riunione. All’incontro c’erano Vito Galatolo, che scendeva da Venezia; Tonino Lipari, uomo del mandamento di Porta Nuova e referente di D’Ambrogio; Tonino Lauricella, responsabile della famiglia di Villabate; c’era anche Giuseppe Fricano. Misi a disposizione la casa della sorella di mio suocero, un appartamento al secondo piano a Ballarò. Io rimasi giù – ha spiegato ancora Geraci – per aprire il portoncino a chi arrivava”. Galatolo aveva detto che a portare il messaggio di Messina Denaro era stato il boss di San Lorenzo Girolamo Biondino. L'ex boss dell'Acquasanta aveva parlato anche di 150 chili di esplosivo acquistato in Calabria, esplosivo che è stato a lungo cercato dagli investigatori fra Palermo e Monreale. Un altro boss pentito di Porta Nuova, Francesco Chiarello, anche lui un tempo esattore del pizzo, ha detto di aver saputo che il carico era stato spostato in un posto sicuro. Le indagini della procura di Caltanissetta sul progetto di attentato si sono chiuse con un’archiviazione, nonostante i riscontri trovati alla parole di Galatolo. Che ha detto chiaramente: “Messina Denaro chiedeva l’attentato perché Di Matteo sia era spinto troppo avanti”. Il superlatitante metteva a disposizione un esperto di esplosivi per portare a termine l'azione. I boss palermitani avevano pensato di piazzare la carica davanti al palazzo di giustizia di Palermo, o davanti all’abitazione del magistrato. L’arresto di D’Ambrogio rallentò il piano. Poi nel 2014 Galatolo chiese di parlare con Di Matteo, gli svelò il progetto. E decise di iniziare a collaborare con la giustizia. Ora, è il momento di Geraci, che è stato arrestato a fine settembre dalla sezione Catturandi della squadra mobile di Palermo dopo una latitanza durata due mesi. “Ho deciso di cambiare vita”, ha detto ai magistrati. E ha cominciato a parlare degli ultimi segreti di Cosa nostra palermitana. Che sono anche i segreti dell'imprendibile Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993 per scontare l'ergastolo per le stragi.
Messina Denaro condannato per le stragi Falcone e Borsellino: ha appoggiato Riina. I giudici di Caltanissetta hanno inflitto l’ergastolo a U siccu, boss di Trapani, latitante dal 1993, perché accusato di essere il mandante degli attentati a Palermo del 1992 per il quale non era stato mai processato. Lirio Abbate su L'Espresso il 21 ottobre 2020. Il latitante Matteo Messina Denareo, “ù siccu”, è stragista e affarista, come lo definiva negli ultimi anni Salvatore Riina, prima di finire i suoi giorni in carcere. Negli ultimi venticinque anni il capo della mafia trapanese ha smesso i panni dell’assassino ed ha indossato quelli dell’uomo d’affari. Coperto dalla sua invisibilità iniziata nel 1993, oggi è il latitante più ricercato d’Europa e il mafioso più ricco di Cosa nostra. I giudici di Caltanissetta adesso lo hanno condannato all’ergastolo perché ritenuto uno dei mandanti delle stragi del 1992, quelle in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per questi fatti il latitante trapanese non era stato mai processato. Questo processo, sostenuto in aula dal pm Gabriele Paci, è diverso dagli altri che si sono svolti in passato e che riguardavano i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Per portare sotto inchiesta il capo della mafia di Trapani in questi ultimi anni sono stati raccolti nuovi temi d’indagine, e nuove rivelazioni di collaboratori di giustizia, quindi nuove prove che al tempo degli altri processi non c’erano. Durante il dibattimento l’imputato è stato ben difeso da un avvocato d’ufficio, e sono stati analizzati dall’accusa tanti aspetti del latitante, che è stato descritto come l’ombra di Salvatore Riina. «La mafia trapanese» ha spiegato ai magistrati l’ex capomafia Antonino Giuffrè «è la più forte, ed è un punto di incontro tra i Paesi arabi, l’America e la massoneria». L’inizio della stagione stragista dei primi anni Novanta, che ha drammaticamente segnato la nostra storia, è stato deciso anche grazie al benestare di Matteo Messina Denaro, che non ha ostacolato la linea di Riina, appoggiandolo nelle sue scelte terroristiche, e restando a lungo nell’ombra. In questo modo ha pure evitato in passato di essere annoverato tra i mandanti degli attentati del 1992. Di questo mosaico mafioso mancava infatti il pezzo più importante, e cioè il ruolo del boss trapanese che ha detto sempre di sì a Riina. Uno “yes man” che ha appoggiato tutte le follie del capo di Cosa nostra, compresa l’organizzazione che ha messo in ginocchio l’Italia per oltre un ventennio. Era la guerra allo Stato e Matteo Messina Denaro conosceva ogni piano, ogni azione, ogni segreto. Perché il mafioso trapanese è cresciuto sulle ginocchia di Riina, tanto da diventare uno dei “corleonesi” più fidati. E oggi, che continua a essere un mafioso libero di circolare, porta con sé i segreti del capo dei capi. “U siccu” non si è opposto alle uccisioni di Falcone e Borsellino e non ha ostacolato le bombe che sono arrivate nel 1993 nel continente, dove personalmente si è attivato per farle piazzare ai suoi “picciotti”. Ha fatto parte di un unico progetto che, alle vittime degli attentati di Palermo, legava i morti e le distruzioni di Firenze, Roma e Milano. Oggi si può dire che proprio la prospettiva di Matteo Messina Denaro ci permette di avere una visione più ampia e matura di quegli accadimenti. Giuffrè ha raccontato di una riunione della commissione provinciale palermitana di Cosa nostra a dicembre del 1991, finalizzata, tra l’altro, allo scambio degli auguri di Natale tra i mafiosi. È l’occasione in cui viene dato il via al programma stragista. E si deve alla testimonianza dei collaboratori di giustizia Sinacori, Brusca, Geraci e La Barbera il riferimento al ruolo dei trapanesi nella fase deliberativa, organizzativa ed esecutiva. Grazie a questi collaboratori solo adesso sappiamo che all’interno dell’organizzazione esisteva una «Cosa nostra nella Cosa nostra» o, come la chiamava Riina, la «Supercosa». Si trattava di uno zoccolo duro alle dirette dipendenze del capo dei capi che ne supportava ogni decisione o strategia. E di questo cerchio magico della “supercosa” faceva parte “u siccu”. Nella riunione in questione Riina esordì dicendo: «Ora è arrivato il momento in cui ognuno di noi si deve assumere le sue responsabilità». Non c’era altro da aggiungere, i presenti conoscevano benissimo il tragico significato di quelle parole. Racconta Giuffrè che calò il gelo nella stanza e che nessuno osò profferire parola in quanto «eravamo arrivati al capolinea, cioè ci doveva essere la resa dei conti». La sentenza della Cassazione sul maxiprocesso non era ancora stata emessa, ma i boss ne avevano percepito l’esito infausto, che non solo minava le basi dell’esistenza stessa di Cosa nostra (la quale vedeva i suoi vertici condannati all’ergastolo e costretti, per evitare il carcere, a darsi alla latitanza), ma suonava anche come uno schiaffo alla strategia di Riina, che aveva sino ad allora sostenuto che la situazione era sotto controllo. L’onta da lavare, per il capo dei capi, era così grande da non temere le drastiche reazioni dello Stato per i suoi uomini colpiti e le vittime innocenti: «Chiddu chi veni nì pigghiamu». Quello che viene ci prendiamo. Erano pronti a tutto. E così nel piano stragista corleonese, Matteo Messina Denaro ha avuto un ruolo importante: prima è stato al fianco di Riina, appoggiando la tattica degli attentati del 1992, e poi, dopo l’arresto del capo dei capi, ha tenuto una linea dura e aggressiva. È stato lui a spiegare a Sinacori che le stragi di Palermo rientravano in un progetto unitario, mentre diversi erano gli obiettivi per le bombe del 1993: «La strategia degli attentati era finalizzata a far scendere a patti lo Stato, ma non so dire se fossero state intavolate trattative di alcun genere. So soltanto che Matteo si rendeva perfettamente conto che non vi era futuro e che erano stati trascinati in una sorta di vicolo cieco da Riina». C’è un’altra riunione decisiva per comprendere come sono andate le cose. Si svolse il primo aprile 1993 all’ombra dell’Hotel Zagarella a Bagheria, e ce ne parla ancora Sinacori. Da questo incontro appare chiaro che Cosa nostra aveva due anime, quella moderata che faceva capo a Giovanni Brusca, contraria al proseguimento della stagione stragista, e quella più aggressiva capitanata da Bagarella, Graviano e Messina Denaro, che si dichiaravano oltranzisti e credevano che la strategia degli attentati fosse «l’unica che poteva mantenere alta la dignità dei corleonesi». Binu Provenzano, dopo aver incontrato Bagarella, sposò la linea dura, «a condizione che gli attentati fossero fatti al Nord e diede il via». E il cognato di Riina, in modo sprezzante, gli rispose: «Se vossia non è d’accordo, se ne vada in giro con un bel cartello al collo con la scritta: io con le stragi non c’entro». U zu Binu, a quel tempo, aveva dovuto incassare: non poteva certo competere con la potenza militare degli «altri» corleonesi. La morte di Riina a novembre 2017 non ha avuto come conseguenza un’evidente successione al trono di Cosa nostra, che appare sempre più un’organizzazione criminale segreta con due anime. Una conservatrice, radicata nei paesi della provincia, che assicurano la forza della tradizione, e un’altra più «moderna», insediata nelle città capoluogo come Palermo, Catania, Trapani e Messina, che rappresentano un modello più avanzato, in linea con le mafie moderne. Due anime diverse, dunque, che convivono e permettono che il richiamo al rassicurante e solido passato coesista con la necessità di stare al passo con il futuro. E Matteo Messina Denaro, in questo scenario, interpreta il ruolo di boss in modo nuovo. Il suo è un modello evolutivo, in cui i vertici si allontanano dagli affari «piccoli e sporchi» della base per avvicinarsi ai grandi interessi dell’economia nazionale. Il diffuso sentimento di fedeltà nei suoi confronti da parte di molti mafiosi si contrappone a segnali di insofferenza da parte di alcuni affiliati trapanesi a Cosa nostra, preoccupati per una gestione della catena di comando difficoltosa a causa della latitanza. Visto che “u siccu” non assume ufficialmente il ruolo di capo della nuova cupola mafiosa – anzi, come svelano le intercettazioni, non vuole alcuna responsabilità di vertice nella gerarchia interna all’organizzazione e per questo se ne sta distante – conviene, per analizzare meglio come è strutturata Cosa nostra dopo la morte di Riina, guardare dentro il carcere, analizzare i movimenti dei detenuti rinchiusi nelle sezioni di alta sicurezza o in quelle riservate ai 41 bis, osservare da vicino la vita carceraria, quali tipi di rapporti si sono creati. In base ai loro movimenti, ai loro saluti, ai segnali che si scambiano, è possibile ridisegnare la mappa delle famiglie che stanno fuori. Perché le carceri sono lo specchio della mafia che opera all’esterno. Pur essendo un ambiente intrinsecamente chiuso, infatti, la prigione non è affatto impermeabile alle dinamiche che determinano il corso degli eventi al di fuori delle loro mura: direttive politiche, quindi, ma anche cambi di ruolo ai vertici delle organizzazioni criminali. Tutto si riverbera all’interno delle mura del carcere. E oggi il 41bis sembra non essere più così impermeabile come sulla carta dovrebbe esserlo. Dal carcere trapelano gli ordini dei boss e i boss approfittano di molte insenature giuridiche che via via si sono create per ottenere benefici e far scivolare all’esterno messaggi e segnali che hanno un solo obiettivo: quello di trasmettere la loro potenza. Oggi per fermare Matteo Messina Denaro, il boss che da stragista si è trasformato in affarista, occorre conoscerlo, capire come opera, quali reti politiche, imprenditoriali, criminali lavorano per lui o con lui. Occorre ricomporre il mosaico che raffigura u Siccu, l’ultimo dei corleonesi, il latitante più ricercato d’Europa, per comprendere come questo mafioso è oggi molto pericoloso, non solo perché è un assassino, ma perché è nelle condizioni finanziarie di inquinare l’economia legale del nostro Paese e distruggere mercati e affari, favorendo solo le sue casse, con denaro sporco. Per questo è necessario che venga arrestato il prima possibile.
I terribili 26 anni di Matteo Messina Denaro. Dalla strage di Capaci all'uccisione del piccolo Di Matteo, dalla nascita della figlia agli arresti di parenti e fiancheggiatori, le tappe della vita criminale del boss trapanese, latitante dal 1993. Lirio Abbate e Giovanni Tizian su L'Espresso il 23 marzo 2018.
MAGGIO/LUGLIO 1992. È una delle “menti” delle stragi di Falcone e Borsellino. Matteo Messina Denaro «partecipava e ideava un programma criminale teso a destabilizzare le istituzioni e concorreva a deliberare l’esecuzione del piano di uccisione del dottor Falcone». Non solo. «Entrava a far parte di un gruppo riservato creato da Riina e alle sue dirette dipendenze» per organizzare a Roma un attentato che aveva come obiettivi Falcone, l’allora ministro Claudio Martelli e il conduttore televisivo Maurizio Costanzo. Il boss partecipa alla “missione” del commando che doveva assassinare Falcone a Roma, azione che la mafia voleva mettere a segno alla fine di febbraio del 1992, ma che fallì.
LUGLIO 1992. Uccide nel trapanese una ragazza incinta, Antonella Bonomo, fidanzata del mafioso Vincenzo Milazzo di Alcamo, assassinato durante la guerra di mafia. La ragazza «era incinta ma Matteo non l’ha risparmiata» ha detto il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera.
14 SETTEMBRE 1992. Sul litorale di Mazara del Vallo il boss tenta di uccidere il vice questore della polizia Rino Germanà con la Rino Germanàcomplicità di due corleonesi: Giuseppe Graviano, di cui è molto amico, e Leoluca Bagarella. Aprono il fuoco alle 14,15 mentre Germanà è alla guida della sua Panda. Affiancato da una Fiat Ritmo, il poliziotto è raggiunto di striscio da una scarica di lupara. Il funzionario frena e scende dall’auto: apre il fuoco contro i killer e scappa verso la spiaggia, mentre i killer continuano a sparargli con i kalashnikov. Gemanà riesce a mettersi a riparo e il commando fugge.
2 GIUGNO 1993. Inizia ufficialmente la latitanza del boss. La procura di Palermo chiede ed ottiene l’ordine di arresto di Messina Denaro, accusato di associazione mafiosa e di diversi omicidi. Lo accusa il collaboratore di giustizia Balduccio Di Maggio. Il boss trapanese però è già irreperibile.
MAGGIO/LUGLIO 1993. Matteo Messina Denaro è fra i mandanti e gli esecutori di diversi attentati organizzati da Cosa nostra. A Roma in via Fauro, il 14 maggio, Cosa nostra tenta di uccidere Maurizio Costanzo. Seguiranno sette attentati nell’arco di 11 mesi, dieci morti, 95 feriti, danni al patrimonio artistico e religioso. A Firenze (27 maggio), viene fatto esplodere un furgoncino Fiat Fiorino pieno di tritolo: cinque vittime in via dei Georgofili, dietro gli Uffizi, decine i feriti. Alle 23.14 del 27 luglio, in via Palestro a Milano, una Fiat Punto esplode davanti al Padiglione d’arte contemporanea: cinque vittime e dodici i feriti. Poco più tardi due autobombe esplodono a Roma: davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano e davanti all’antica chiesa di San Giorgio al Velabro: 22 i feriti e gravi lesioni alle due chiese.
23 NOVEMBRE 1993. Viene sequestrato da un commando di mafiosi il tredicenne Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso Santino, per tentare di bloccare la collaborazione dell’uomo con la giustizia. Matteo Messina Denaro oltre ad organizzare e deliberare il sequestro mette a disposizione, nel trapanese, i covi in cui il ragazzo viene tenuto segregato.
Dopo quasi tre anni di stenti, legato sempre alla catena, l’11 gennaio 1996 Giuseppe Di Matteo viene strangolato e poi sciolto nell’acido dai corleonesi.
23 NOVEMBRE 1993. Uccide a Trapani l’agente di polizia penitenziaria Giuseppe Montalto. Il poliziotto prestava servizio nel carcere Ucciardone a Palermo, nella sezione in cui erano rinchiusi i mafiosi sottoposti al 41 bis, e in quel periodo c’erano anche i boss Filippo e Giuseppe Graviano.
17 DICEMBRE 1996. Diventa padre, nasce Lorenza Alagna, avuta dalla relazione con Franca Alagna. La donna e la bimba vengono accolte a casa della madre del boss, con la quale convivono fino a quando la ragazza non è diventa maggiorenne.
30 NOVEMBRE 1998. Muore durante la latitanza, per cause naturali, il boss Francesco Messina Denaro, 78 anni, padre di Matteo. Il suo corpo viene fatto trovare nelle campagne di Castelvetrano.
GIUGNO 1999. Gli investigatori sono ad un passo dal catturare Matteo Messina Denaro, ma il boss si accorge - o riceve una soffiata - che davanti al suo covo a Santa Flavia, a due passi da Bagheria, è stata piazzata una telecamera e quindi riesce a fuggire indossando una parrucca bionda da donna. Arrestato Salvatore Messina Denaro, fratello del latitante. Finisce in carcere dopo la condanna in appello per varie accuse legate al boss ricercato.
20 FEBBRAIO 2004. Arrestato Salvatore Messina Denaro, fratello del latitante. Finisce in carcere dopo la condanna in appello per varie accuse legate al boss ricercato.
18 LUGLIO 2006. Vengono trovate numerose lettere di Maria Mesi, amante del latitante, durante una perquisizione a casa di Filippo Guttadauro, arrestato per associazione mafiosa e considerato il “portavoce” di Matteo Messina Denaro.
DICEMBRE 2006. Decine di poliziotti circondano una casa di campagna a Castelvetrano nel tentativo di arrestare Messina Denaro. Il blitz viene effettuato da agenti del Servizio centrale operativo della polizia, in collaborazione con i servizi segreti. L’irruzione viene effettuata nella casa di campagna di un pregiudicato di Castelvetrano mentre si trovava riunito a pranzo con i propri familiari. Del latitante, però, nessuna traccia. Gli investigatori avevano puntato all’abitazione del pregiudicato dopo aver ricevuto la segnalazione dai servizi segreti.
20 DICEMBRE 2007. Viene arrestato Giuseppe Grigoli, prestanome di Matteo Messina Denaro, considerato il re dei supermercati in Sicilia, ma anche uno dei più facoltosi imprenditori dell’isola. I suoi beni vengono confiscati. Le catene di grande distribuzione alimentare messe in piedi in Sicilia dal boss sono state una forma di finanziamento per Cosa nostra, ma anche un modo per offrire lavoro. In questo modo la mafia ha continuato a sostituirsi all’imprenditoria sana e a guadagnarsi il consenso della popolazione.
15 MARZO 2010. Vengono arrestate 19 persone accusate di essere fiancheggiatori del latitante, fra loro Salvatore Messina Denaro, fratello del boss e il cognato, Vincenzo Panicola.
GIUGNO 2010. I servizi segreti mettono una taglia da un milione e mezzo di euro per chi riesce a dare notizie sul latitante.
13 DICEMBRE 2013. Viene arrestata Patrizia Messina Denaro, sorella del latitante. Con lei il nipote Francesco Guttadauro, e altre 28 persone, fra cui sei donne, che fanno parte della cerchia mafiosa del boss. Lei condannata a 13 anni, lui a 16.
19 DICEMBRE 2014. La leadership del clan passa a un altro parente del latitante, si chiama Girolamo Bellomo, detto Luca, che viene arrestato. È il marito dell’avvocato Lorenza Guttadauro, nipote di Matteo Messina Denaro. La penalista è figlia di Rosalia Messina Denaro e di Filippo Guttadauro, fratello dell’ex capomafia di Brancaccio Giuseppe Guttadauro.
Da Capaci alle stragi del ’93: così Matteo Messina Denaro entrò nella gotha di Cosa nostra. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 ottobre 2020. la Corte d’Assise di Caltanissetta, ha condannato all’ergastolo il boss latitante Matteo Messina Denaro per le stragi del 1992 di Capaci e di Via D’Amelio nelle quali persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli agenti delle loro scorte. Dopo una camera di consiglio durata 14 ore, alla mezzanotte di ieri è arrivato il verdetto di condanna per Matteo Messina Denaro, dichiarato colpevole di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, dove persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il super latitante è condannato all’ergastolo, con isolamento diurno di 18 mesi. Non solo. Oltre alle spese processuali e al risarcimento, dovrà pagare la pubblicazione della sentenza di condanna sul sito del ministero della giustizia. La condanna emessa dalla corte d’assise di Caltanissetta presieduta da Roberta Serio, è quella che chiedeva il procuratore aggiunto Gabriele Paci. Un processo voluto da lui stesso, dopo aver raccolto tutti i tasselli di un quadro complesso. Sì, perché molto si è fatto nell’ambito della complessa attività di ricostruzione della strage di Capaci e via D’Amelio grazie al lavoro investigativo condotto dalla DDA di Caltanissetta incessantemente volto alla ricerca di tasselli da inserire nel quadro di sangue che ha tragicamente segnato la coscienza di tutti. In tale contesto la Procura di Caltanissetta è giunta ad attenzionare la figura di Matteo Messina Denaro rimasto fino a poco tempo fa estraneo ai processi nei confronti di mandanti ed esecutori delle stragi siciliane del ’92. Da ricordare che il latitante è stato già figura centrale nel processo svoltosi avanti la Corte d’Assise di Firenze ed avente ad oggetto gli attentati stragisti commessi da Cosa nostra “nel continente” tra il ’93 ed il ’94, all’esito del quale venne condannato all’ergastolo per i reati di strage, devastazione ed altro.
La partecipazione di Matteo Messina Denaro alle stragi. La Procura di Caltanissetta, procedendo ad una attenta rilettura degli atti processuali, ha rielaborato il complessivo materiale probatorio stratificatosi nel corso dei vari giudizi celebratisi a carico degli attori degli eventi delittuosi riconducibili alla strategia stragista attuata da Cosa nostra tra il ’92 ed i primi mesi del ’94 e, all’esito di tale approfondimento, è giunta a formulare l’accusa che l’ha portato a processo. Si è così potuta ricostruire la vicenda. In rappresentanza della provincia di Trapani, l’attuale super latitante è stato designato da Totò Riina – a seguito del progressivo aggravarsi delle condizioni di salute del padre, Francesco Messina Denaro, storico uomo d’onore trapanese, rappresentante della provincia di Trapani oltre che del mandamento di Castelvetrano – a svolgere le funzioni di “reggente” della provincia sin dai tempi della guerra di mafia di Partanna deflagrata nell’87 e conclusasi nel ’91, e dunque ben prima della consumazione degli eventi stragisti del ’92. Denaro ha quindi partecipato alla decisione di “dichiarare guerra” allo Stato, assunta tra la fine del ’91 e l’inizio del ’92 dalla Commissione Regionale di Cosa Nostra, organo deliberativo di vertice dell’organizzazione. Ha aderito, fin dall’inizio, all’attuazione del piano iniziale tramite un gruppo “riservato” creato da Riina ed alle sue dirette dipendenze incaricato di uccidere Falcone e Borsellino in altri territori. Sì, perché inizialmente volevano uccidere Falcone a Roma ( e Matteo Messina Denaro aveva il suo uomo di fiducia nell’operazione, tale Antonio Scarano), così come volevano uccidere Borsellino quando già era procuratore di Marsala, territorio dove appunto operava Matteo Messina Denaro. Un attentato, quest’ultimo, mai eseguito perché si rifiutarono i due marsalesi poi uccisi da Riina proprio perché si erano opposti all’ordine.
La decisione di uccidere Paolo Borsellino. Matteo Messina Denaro era un referente importante di Totò Riina anche per la gestione degli appalti, tutto ciò è riscontrato anche dalle deposizioni del pentito Vincenzo Sinacori dove ha fatto i nomi delle aziende coinvolte, compreso i nomi come Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina, e Giuseppe Lipari, colui che curava gli appalti per conto di Provenzano. E proprio secondo l’impostazione accusatoria, il progetto di uccidere Borsellino è stato prospettato da Riina a Matteo Messina Denaro sulla base degli stessi presupposti già evidenziati in relazione alla strage di Capaci. Trova la sua matrice principale nell’indubbia carica simbolica che la figura del magistrato rivestiva al tempo per Cosa nostra avendo quest’ultimo già dalla fine dell’86, anno in cui prestava servizio presso la Procura di Marsala, dimostrato la tempra di magistrato che con ostinazione continuava ad applicare gli stessi penetranti metodi investigativi già sperimentati ai tempi in cui, insieme a Falcone , era stato componente del pool dell’Ufficio Istruzione di Palermo. Ma il punto cruciale è che nella sua sede giudiziaria di Marsala, aveva condotto indagini importanti sulle connessioni tra interessi criminali, appalti e politica. Come già evidenziato nell’ordinanza cautelare emessa nel procedimento Borsellino quater, i due sostituti che ebbero a lavorare con lui a Trapani, la dottoressa Camassa ed il dottor Russo, incontrarono Borsellino a Palermo nel giugno del 1992, dunque dopo pochissimi mesi dal suo arrivo alla Procura di Palermo, e lo trovarono particolarmente turbato. Come ha sottolineato anche l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Matteo Messina Denaro, nello stesso periodo Borsellino aveva sollecitato un incontro con i vertici del Ros per discutere del rapporto mafia appalti. Non solo, viene ricordato che il collaboratore Antonino Giuffrè ha riferito che i timori di “cosa nostra” erano legati non solo alla possibilità che Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia, ma soprattutto alla pericolosità delle indagini che avrebbe potuto svolgere in materia di mafia appalti. A ciò si aggiunge il fatto – come ha sottolineato il Gip che ha accolto la richiesta dell’accusa nei confronti di Matteo Messina Denaro- che Borsellino aveva manifestato, non solo con dichiarazioni pubbliche, ma anche e soprattutto con concrete attività requirenti, di avere acquisito una più chiara visione delle connessioni tra gli ambienti mafiosi di livello militare e la più vasta rete di interessi politici e affaristici, sino ad allora sapientemente mimetizzati nella pieghe della società civile. Con i suoi comportamenti e le sue pubbliche dichiarazioni, Borsellino – come si legge nell’ordinanza – «aveva chiaramente espresso la sua volontà dì investigare, scoprire e colpire questi interessi ed i soggetti che se ne facevano portatori e che egli riteneva corresponsabili della strage di Capaci, in cui perse la vita fra gli altri l’amico Giovanni Falcone». Come detto, era stato progettato di uccidere Borsellino già a Marsala, territorio di Matteo Messina Denaro. Fallito però per il diniego dei due boss Vincenzo D’ Amico e Francesco Caprarotta e, come detto, ciò comportò la loro eliminazione grazie al benestare di Matteo Messina Denaro. Il protagonismo nel progetto dell’eliminazione del giudice a Marsala rende evidente, anche alla luce della sua totale adesione al piano ideato da Riina, il suo coinvolgimento nella rinnovata volontà di uccidere Borsellino. Da ricordare che quest’ultimo riteneva importanti le indagini marsalesi sugli appalti, tanto da chiedere del perché – come si evince dalle audizioni al Csm pubblicate da Il Dubbio – tali indagini non fossero confluite nel procedimento mafia appalti curato dalla procura di Palermo. Ci riferiamo alla riunione del 14 luglio 1992. L’ultima alla quale partecipò Paolo Borsellino.
Stragi del 1992, la figura di Messina Denaro senior e quello “schiaffo” al giudice. Redazione di grandangoloagrigento.it. Pubblicato il 15 Luglio 2020. Nel gennaio del 1990 Paolo Borsellino chiese il divieto di soggiorno per Francesco Messina Denaro, vecchio campiere classe 1928 e padre del superlatitante Matteo, ma il Tribunale di Trapani rigettò la richiesta, con un decreto che “è una sorta di schiaffo a chi l’aveva avanzata”. Erano gli anni in cui don Ciccio “uscì fuori dai radar, dicendo che aveva una brutta malattia e mandando avanti il figlio Matteo che partecipò alle riunioni decisive per le Stragi del 92”. Il decreto di "non luogo a procedere" – scritto a mano e datato 13 luglio 1990 – è stato depositato dal pm Gabriele Paci e citato durante la requisitoria nel processo in corso davanti ai giudici della corte d’Assise di Caltanissetta, contro il latitante Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993 e accusato di essere il mandante dei due attentati in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quest’ultimo dall’agosto dell’86 al marzo 1992 era stato a capo della Procura di Marsala e il 23 gennaio 1990 aveva chiesto la sorveglianza speciale, il divieto di dimora e il sequestro di tutti i beni di don Ciccio. Ad ottobre dello stesso anno Borsellino – con le stesse accuse – emise un ordine di cattura nei confronti del capomafia che da allora iniziò la sua latitanza, condannato da ricercato nel 1992 e morto da ricercato nel 1998. “Rileggendo quel decreto potete apprezzare qual era lo stato dell’arte, qual era lo stato delle indagini fatto da valorosissimi inquirenti”, ha continuato il magistrato e “si fa anche dell’ironia nel provvedimento, si dice: alla fine che ha fatto questo?”. Nel decreto (presidente G.Barraco, giudici Massimo Palmeri e Tommaso Miranda) scrivono che “non risulta a carico del proposto dal 1964 ad oggi alcun precedente penale”. Sul finire degli anni cinquanta Messina Denaro senior – già allora campiere dei D’Ali’ – fu indagato per il sequestro-omicidio del notaio Francesco Craparotta e di un tale Vito Bonanno, uccisi il 9 gennaio 1957. I carabinieri di Castelvetrano lo ascoltarono il 16 maggio di quell’anno, ma nel 1964 venne scagionato da ogni accusa. “Le notizie relative agli asseriti rapporti del proposto con appartenenti a consorterie mafiose – continua il decreto del Tribunale di Trapani del luglio novanta. Inoltre, si legge, “le notizie relative agli asseriti rapporti del proposto con appartenenti a consorterie mafiose si sono rivelate per alcuni versi, stando agli elementi di fatto forniti, incontrollabili (non vi è alcun elemento agli atti che indichi Giuseppe Garamella, Paolo Marotta, Vito Guarrasi e Saverio Furnari quali affiliari alle cosche mafiose) e peraltro non certamente all’origine della presunta pericolosità qualificata (la figlia Rosalia ha contratto matrimonio con Guttadauro Filippo, sulla cui trasparente personalità non si solleva alcuna ombra di dubbio se non purtroppo, che è fratello di tale Guttadauro Giuseppe, ex diffidato e sorvegliato speciale, indiziato di mafia)”. Filippo Guttadauro, arrestato una prima volta nel 1994 dopo quelle parole assolutorie e poi nel 2006, è oggi detenuto al 41bis. “Alla fine della fiera è una sorta di schiaffo a chi aveva avanzato questa richiesta, per dire "non lo vedi che non c’è nulla"“, ha detto il pm Paci, nel corso della requisitoria. Tutti i nominativi citati poi furono condannato per mafia, meno che Guarrasi, mente occulta della politica e dell’economia siciliana dal secondo dopoguerra. Nel documento si elencano anche i rapporti con la blasonata famiglia trapanese dei D’Alì. “L’unica operazione che ha richiesto l’impiego di una consistente somma di denaro per l’acquisto di un fondo facente parte delle proprietà fondiarie dei D’Alì, risulta onorata con un mutuo – si legge nel provvedimento – contratto presso la Banca di Sicilia e di cui il Messina Denaro e la moglie risultano ancora gravati”. “Gli accertamenti bancari hanno consentito di verificare che l’odierno proposto risulta aver una situazione debitoria per svariati milioni (oltre 18 milioni per il mutuo soprannominato) e di non essere in possesso di altra liquidità economica”, continua il decreto. Per anni “l’attenzione si focalizzò su Mariano Agate, indicato erroneamente come capo della provincia di Trapani, trascurando la figura di don Ciccio Messina Denaro – ha aggiunto Paci – riportata da validi investigatori come Rino Germanà (sfuggito a un agguato sul lungomare di Mazara nel settembre 1992 ndr), che per dieci anni fu non solo il capo del mandamento di Castelvetrano, ma anche di tutta la mafia trapanese”, ha detto il pm Paci. Un’eredità raccolta dal figlio Matteo che, dopo aver condotto le faide di Alcamo e Partanna, nell’autunno 1991 affiancò Totò Riina, partecipando alla missione romana del febbraio-marzo novantadue per uccidere Falcone nella capitale e seguendolo fino alle Stragi del 92. Proseguendo con quelle al nord del 1993, di Firenze e Milano, per cui è già stato condannato all’ergastolo. (AGI)
Da iltempo.it il 17 luglio 2020. "Una latitanza così lunga come quella di Matteo Messina Denaro si può comprendere soltanto in funzione di coperture istituzionali e forse anche politiche". Ne è convinto il consigliere del Csm Nino Di Matteo parlando, a Tg2 Post, della latitanza del capomafia Matteo Messina Denaro. "E` gravissimo che, dopo 27 anni, lo Stato non riesca ad assicurare alla giustizia un soggetto condannato tra i principali ispiratori degli attentati del `93 di Roma, Firenze e Milano che fecero temere al presidente Ciampi che fosse in atto un golpe", aggiunge. Di Matteo spiega anche cosa è stata e cosa è oggi la mafia: "Cosa nostra siciliana è l’unica organizzazione mafiosa al mondo che è riuscita ad attuare stragi uccidendo servitori dello stato, politici, giornalisti e se si è fatto questo è per un motivo: perché è la più politica tra le organizzazioni mafiose, e che ha avuto la capacità di intessere rapporti con il potere e condizionare le scelte politiche nazionali. Basti pensare a quello che sono le sentenze del processo Andreotti, Dell’Utri, e a quella in primo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia».
Di Matteo (Csm): “Dietro latitanza Messina Denaro anche coperture politiche”. Il Corriere del Giorno il 17 Luglio 2020. “Matteo Messina Denaro è certamente custode di segreti di quel periodo, di quella campagna stragista del 1993 che lo rendono in grado ancora di esercitare un potere di ricatto nei confronti delle istituzioni”, ha detto ancora Di Matteo aggiungendo: “Ecco perché sarebbe veramente un segnale bello se finalmente venisse rintracciato, arrestato”. “Una latitanza così lunga come quella di Matteo Messina Denaro si può comprendere soltanto in funzione di coperture istituzionali e forse anche politiche”. Ne è convinto il consigliere del Csm Nino Di Matteo parlando della latitanza del capomafia Matteo Messina Denaro ,a Tg2 Post: “E’ gravissimo che, dopo 27 anni, lo Stato non riesca ad assicurare alla giustizia un soggetto condannato tra i principali ispiratori degli attentati del ’93 di Roma, Firenze e Milano che fecero temere al presidente Ciampi che fosse in atto un golpe“, aggiunge. Ieri, intervistato dal conduttore Luca Salerno e Francesco Vitale per Tg2 Post, ha ricordato ancora una volta il percorso fin qui svolto, ribadendo che “non è vero che non sappiamo nulla sulla strage di via d’Amelio”. “Dopo gli iniziali depistaggi ed errori – ha spiegato – già dal 1995 e dal 1996 le indagini dei processi hanno consentito di accertare passaggi importanti. I processi ci consentono oggi di dire che la strage di via d’Amelio è stata una strage di mafia, ma non solo. E per colmare questi buchi di verità, dando un nome e cognome a quegli uomini estranei a Cosa nostra che hanno compartecipato all’organizzazione e probabilmente alla stessa esecuzione della strage, dobbiamo concentrarci su due fattori: capire perché improvvisamente nel giugno del ’92, rispetto a un progetto assolutamente generico di uccidere il dottor Borsellino, viene accelerata da Salvatore Riina questa volontà di eliminare subito il magistrato. E poi dobbiamo inquadrare quella strage in contesto più ampio di sette stragi che hanno caratterizzato il biennio del 1992-1994. Dobbiamo cercare di capire quale fu la strategia di Cosa nostra e mi sento di dire, sulla base della mia conoscenza degli atti dei processi, non soltanto di Cosa nostra”. “Matteo Messina Denaro è certamente custode di segreti di quel periodo, di quella campagna stragista del 1993 che lo rendono in grado ancora di esercitare un potere di ricatto nei confronti delle istituzioni”, ha detto ancora Di Matteo aggiungendo: “Ecco perché sarebbe veramente un segnale bello se finalmente venisse rintracciato, arrestato”. “Le scarcerazioni hanno costituito un segnale devastante”. Ne è convinto Di Matteo. “Un segnale devastante da un punto di vista concreto e anche simbolico – dice il magistrato – centinaia di condannati definitivi per mafia sono tornati a casa ai domiciliari e da un punto di vista concreto perché hanno avito la possibilità di riallacciare contatti criminali e si è provocato un effetto molto pericoloso”. Per Di Matteo le scarcerazioni hanno rappresentato un segnale anche “da un punto di vista simbolico” perché “penso a come il popolo che subisce quotidianamente le violenze mafiose ha potuto interpretare il fatto che il capomafia torna a casa. Per me è il segnale di resa dello Stato”. “Con tutto il rispetto per le pronunce delle Corti europee sul 41 bis penso che risentano di un fraintendimento di fondo. Il 41 bis non è una misura afflittiva, ma è una misura di prevenzione, per prevenire il pericolo che si perpetui quello che è sempre accaduto in passato, cioè che il capomafia detenuto continui a comandare” ha detto a Tg2 Post Nino Di Matteo consigliere togato del Csm aggiungendo “Probabilmente deve essere meglio applicata nei confronti di chi effettivamente comanda“. “Ho già riferito alla Commissione antimafia, ho detto anche le parole del ministro della Giustizia Bonafede che fece riferimento a "mancati gradimenti" o "dinieghi" che erano intervenuti per la mia nomina al Dap. Bonafede dovrebbe spiegare a chi o a cosa si riferisse“, ha sottolineato.
I ricatti di Matteo Messina Denaro: la nuova inchiesta di “Repubblica”. Carlo Bonini, Attilio Bolzoni, Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta il 16 luglio 2020 su La Repubblica. Inchiesta sul latitante di mafia più ricercato al mondo: il boss di Castelvetrano accusato delle stragi del 1993 è un fantasma da 27 anni. Testimonianze inedite di chi non ha smesso di dargli la caccia e di quanti gli sono stati vicini svelano il segreto della sua eterna fuga. Messina Denaro - di cui pubblichiamo per la prima volta alcune immagini inedite dell’album di famiglia - conosce il doppio fondo di una stagione ancora oscura. Quando pezzi dello Stato scelsero di trattare con Cosa nostra, mentre il suo tritolo seminava morte a Capaci e in via D’Amelio. In questo ricatto è la ragione della sua inafferrabilità.
Inchiesta sul latitante di mafia più ricercato al mondo: il boss di Castelvetrano accusato delle stragi del 1993 è un fantasma da 27 anni. Testimonianze inedite di chi non ha smesso di dargli la caccia e di quanti gli sono stati vicini svelano il segreto della sua eterna fuga. Messina Denaro – di cui pubblichiamo per la prima volta alcune immagini inedite dell’album di famiglia – conosce il doppio fondo di una stagione ancora oscura. Quando pezzi dello Stato scelsero di trattare con Cosa nostra, mentre il suo tritolo seminava morte a Capaci e in via D’Amelio. In questo ricatto è la ragione della sua inafferrabilità.
Lo cercano tutti. I migliori tra gli investigatori dei reparti di eccellenza di polizia e carabinieri, lo Sco e il Ros. I magistrati della Procura di Palermo. Ma lo cercano anche i mafiosi. «Questo che fa? Dov’è finito? – sussurra nel ventre della Sicilia un uomo che ignora le microspie che ne catturano ogni respiro – Arrestano i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi cognati. E tu non ti muovi? Ma fai il bordello…». Lo cercava anche Totò Riina.
Il boss più misterioso della storia della mafia ha il potere di ricattare molti colletti bianchi all’interno dello Stato? . L’inchiesta di Repubblica” pubblicata sul sito on line cerca di capire il vero potere di Matteo Messina Denaro tra depistaggi e azioni di rastrellamento. Sul possibile archivio di documenti relativi alle stragi in mano a Matteo Messina Denaro e sulla conoscenza di molti fatti occulti da parte del boss ne hanno parlato diversi pentiti ritenuti credibili. In diversi articoli il nostro blog ha pubblicato i verbali del processo di Firenze che dimostrano il ruolo di Matteo Messina Denaro in strategie criminali non dettate solo dai mafiosi. E’ ormai evidente che la sua latitanza si basa sulla complicità di “pezzi grossi” anche dentro le istituzioni che fanno il doppio gioco spesso anche distruggendo il lavoro serio di alcuni magistrati. Non si può rimanere latitanti dopo anni di azioni investigative e dopo aver tolto miliardi di euro alle cosche del trapanese se non si ha qualche santo importante in paradiso. Forse un santo che conosce la verità su molte stragi italiane.
I ricatti di Matteo Messina Denaro. Inchiesta sul latitante di mafia più ricercato al mondo: il boss di Castelvetrano accusato delle stragi del 1993 è un fantasma da 27 anni. Testimonianze inedite di chi non ha smesso di dargli la caccia e di quanti gli sono stati vicini svelano il segreto della sua eterna fuga. Messina Denaro – di cui pubblichiamo per la prima volta alcune immagini inedite dell’album di famiglia – conosce il doppio fondo di una stagione ancora oscura. Quando pezzi dello Stato scelsero di trattare con Cosa nostra, mentre il suo tritolo seminava morte a Capaci e in via D’Amelio. In questo ricatto è la ragione della sua inafferrabilità. Lo cercano tutti. I migliori tra gli investigatori dei reparti di eccellenza di polizia e carabinieri, lo Sco e il Ros. I magistrati della Procura di Palermo. Ma lo cercano anche i mafiosi. «Questo che fa? Dov’è finito? – sussurra nel ventre della Sicilia un uomo che ignora le microspie che ne catturano ogni respiro – Arrestano i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi cognati. E tu non ti muovi? Ma fai il bordello…». Lo cercava anche Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra. Ancora negli ultimi giorni di vita non riusciva a darsi pace: «Se ci fosse suo padre… questo figlio lo ha dato a me per farne quello ne dovevo fare. È stato qualche quattro o cinque anni con me. Impara bene, minchia, e poi tutto in una volta…». Tutto in una volta, dopo avere partecipato alla spaventosa stagione della mafia che fa guerra allo Stato, l’unico erede della dinastia Corleonese rimasto in libertà, sparisce. Per tutti, Matteo Messina Denaro, classe 1962, trapanese di Castelvetrano, ufficialmente latitante dal giugno 1993, condannato all’ergastolo per le stragi di Firenze, Milano e Roma, diventa un fantasma. Capace di tenere in scacco l’Antimafia italiana che, pure, gli ha fatto il deserto intorno: centinaia di fiancheggiatori arrestati, milioni di euro sequestrati, un esercito che gli dà la caccia. Com’è possibile, dunque, che l’ultimo padrino della stagione delle stragi resti imprendibile? «Io penso che se n’è andato all’estero», si rammaricava lo stesso Riina intercettato in carcere. In collera con quel suo “pupillo” che ormai sembrava disinteressato alle sorti di Cosa nostra e pensava esclusivamente ai suoi affari. Di Messina Denaro restano solo alcune foto ingiallite dal tempo che risalgono agli anni Settanta e Ottanta. Quelle dell’album della famiglia Messina Denaro che Repubblica mostra in esclusiva. Matteo a 14 anni col padre Francesco, autorevole mafioso della provincia di Trapani, da cui ha ereditato il potere e soprattutto relazioni internazionali. Matteo in doppiopetto, con gli immancabili Ray-ban e la sigaretta stretta tra le dita. Matteo che brinda. Matteo che festeggia con i parenti. A vent’anni, era già un killer. Dunque e di nuovo: perché è inafferrabile? «Perché Messina Denaro era il gioiello di Riina. Perché lui ha i documenti che sono stati portati via dal covo di via Bernini dopo l’arresto del capo dei capi di Cosa nostra Totò Riina», racconta Antonino Giuffrè, uomo d’onore che prima di pentirsi aveva un posto nella Cupola. Già, i segreti. La forza di Matteo è dunque nel ricatto. Sa delle stragi del 1992 e del 1993, conosce cosa si sia mosso nel fondo ancora oscuro della trattativa fra lo Stato e la mafia. Ecco perché è da quei giorni del lontano 1992 che bisogna ricominciare a cercare Matteo Messina Denaro.
L’attentato al commissario. E un senatore intoccabile. Rino Germanà, oggi questore in pensione, se lo trovò davanti all’improvviso un giorno di settembre del 1992. «Verso le due del pomeriggio, tornando a casa, un’auto si accosta. Vedo un uomo che comincia a sparare col fucile dal finestrino. Freno, mi rannicchio nell’abitacolo e schivo i colpi. Riesco a scendere e sparo anch’io». L’agguato è sul lungomare di Mazara del Vallo. Su quell’auto – una Fiat Tipo – sono in tre. Alla guida c’è lui, Matteo Messina Denaro. L’uomo con il fucile è Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina. E, con loro, è anche Giuseppe Graviano, che imbraccia un kalashnikov. «Quei tre tornano indietro e sparano ancora. Una volta, due volte. Corro in spiaggia e riesco a salvarmi». È il 14 settembre, l’estate è la stessa di Falcone e Borsellino, delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Totò Riina vuole morto anche quel commissario di polizia che, a metà degli anni Ottanta, ha scoperto e illuminato il ruolo della famiglia Messina Denaro e dei trapanesi nello scacchiere mafioso. A Mazara del Vallo, Germanà c’è già stato come dirigente del commissariato. Ma dal ministero dell’Interno qualcuno decide di farlo tornare il 2 giugno del 1992, perché riprenda il posto che ha lasciato qualche anno prima. E’ una decisione che ha il sapore di una punizione. «Mi trasferirono all’improvviso – racconta il poliziotto – E davvero non capivo il perché. Era una sorta di passo indietro nella carriera. Soprattutto dopo che avevo diretto la squadra mobile di Trapani e la Criminalpol di Caltagirone, che aveva competenza sull’intera Sicilia centrale. Peraltro, dopo il delitto dell’onorevole Salvo Lima, nel marzo 1992, Paolo Borsellino mi aveva voluto a Palermo». Un mistero mafioso che si intreccia con un mistero ministeriale. A meno di non voler guardare meglio dentro quel trasferimento e le sue premesse. Su cosa stava indagando il commissario Germanà quando si decide di rispedirlo a Mazara del Vallo? Tra marzo e giugno di quel 1992, aveva cominciato a coltivare un’inchiesta molto particolare, delegata dalla Procura di Marsala: «Un notaio massone, Pietro Ferraro, aveva provato ad avvicinare il giudice Salvatore Scaduti, il presidente della Corte d’assise che stava giudicando gli assassini del capitano dei carabinieri Emanuele Basile». Il notaio aveva detto al giudice: «Secondo gli imputati non ti stai comportando bene». E quindi aveva aggiunto: «Mi manda un politico di nome Enzo, di area manniniana, trombato alle elezioni». Rino Germanà dà un nome a quel politico. È il palermitano Vincenzo Inzerillo, un democristiano che non era riuscito a candidarsi alle Regionali del 1991, ma era poi diventato senatore. E il giorno in cui presenta il suo rapporto alla magistratura, l’allora capo della direzione centrale anticrimine Luigi Rossi lo convoca a Roma, al Viminale. «Voleva sapere se nel rapporto si parlava del ministro Mannino», ricorda Germanà. Poco tempo dopo sarà trasferito al commissariato di Mazara. E, dopo l’attentato di settembre, in alcune indagini rispunterà quel senatore: Vincenzo Inzerillo. Un nome che conviene tenere a mente, perché – lo vedremo – tornerà ancora nel finale di questa storia. «Un’auto intestata al senatore Inzerillo – racconta ancora Germanà – andò a prendere all’aeroporto di Punta Raisi un avvocato che avrebbe dovuto aiutare i mafiosi di Mazara a realizzare un affare da 1.500 miliardi di vecchie lire con Malta per l’importazione del pesce». Una coincidenza? O qualcosa di più? Qualcosa forse la sapeva Riina che, intercettato in carcere nel 2013, dopo avere ricordato le indagini dei magistrati di Palermo sulla trattativa Stato-mafia e ordinato di assassinare il pm Nino Di Matteo («Se fosse possibile ucciderlo, un’esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo») diceva: «A chi hanno fatto spaventare, a nessuno. Tanto non hanno fatto spaventare a nessuno, che poi quello si è buttato a mare… Germanà gliela facevano là, e lui si è buttato a mare. Ma perché si è buttato a mare vorrei capire… Figlio di puttana si salvò». Perché il boss nelle sue esternazioni carcerarie salta con naturalezza dalla trattativa al nome di Rino Germanà? E cosa voleva dire Totò Riina con quel «tanto non hanno fatto spaventare a nessuno»? Cosa aveva scoperto il commissario di Mazara del Vallo indagando su Trapani e sugli affari della famiglia Messina Denaro?
Nella testa del padrino. La rincorsa. La storia di Matteo potrebbe finire un giorno di maggio del 1997, quattro anni dopo le stragi di Firenze, Milano e Roma che lui ha voluto insieme ai “falchi” di Cosa nostra. Il commissario Carmelo Marranca e gli investigatori di quella che era allora la Criminalpol sentono il suo odore, la sua “presenza”, nel covo dove si nasconde. Hanno visto la sua donna che si allontana velocemente. Lui è lì, fra le stradine della borgata marinara di Aspra, alle porte di Palermo. Via Milwaukee 40, un appartamento al secondo piano. È lì. «E poi all’improvviso scompare e noi continuiamo a chiederci cosa sia accaduto», ricorda il commissario Marranca. Nel frigorifero della casa, i poliziotti trovano una confezione di caviale. Nella dispensa, barattoli di salse austriache, la Nutella e due bottiglie di liquore. Doveva avere una gran fretta quando è scappato. Sul tavolo, un grande puzzle e un videogioco Nintendo. In un cassetto, una stecca di sigarette Merit, un foulard e un bracciale per donna comprato in una gioielleria molto esclusiva di Palermo. «Come avrà saputo che gli stavamo dietro?». Quell’appartamento di via Milwaukee è l’unico covo di Messina Denaro che sia stato mai scoperto. «Tutto comincia il giorno in cui il procuratore aggiunto Gigi Croce ci chiama e dice: “I carabinieri hanno sequestrato alcuni pizzini a un posto di blocco, erano nelle tasche di Giuseppe Cataldo. Dateci uno sguardo anche voi. E così ci immergiamo nella lettura».Carmelo Marranca è la memoria storica delle indagini antimafia a Trapani: «Quando arrivai, nel 1984, alla squadra mobile, capì subito di trovarmi in un posto pieno di misteri. I mafiosi importanti incontravano professionisti, amministratori pubblici e massoni». In uno di quei bigliettini ritrovati, una tale Meri scriveva ad Assunta. Chi erano quelle donne?«Dopo il tentato omicidio di Rino Germanà, avevamo lavorato sui tabulati di alcuni telefonini. Uno era intestato a un pensionato delle Ferrovie, ma lo utilizzava Messina Denaro per parlare con una donna. Era Maria Mesi, era Meri». Assunta era invece un nome preso in prestito: era la suocera di Anna Ventimiglia, la padrona di casa del covo. «Dove non eravamo ancora arrivati. Sapevamo solo che la Mesi nel fine settimana scompariva. Iniziammo a controllare quelle stradine di Aspra e le uscite del paese, cosa non facile». La svolta arriva la sera del 4 maggio, quando i poliziotti vedono Meri mentre sbuca da un vicolo. «Alle 23,30, camminava palesemente travisata – scriveranno nel loro rapporto gli ispettori Carmelo Marranca e Marcello Russo – cappello, occhiali e mantella, di cui si liberava appena voltato l’angolo». Marranca prosegue il suo racconto: «Le pattuglie che tengono sotto controllo le uscite del paese non hanno notato nessuna auto con quella donna a bordo. Allora capiamo che deve essere uscita da una casa del centro». «Ventimiglia e suo marito avevano chiesto al Comune un sussidio, ma intanto avevano affittato un’altra abitazione, al piano di sopra. Un fatto davvero strano: era chiaro che lì ci abitava qualcuno. Ma quella telecamera non è servita a nulla», ricorda ancora Marranca. Da quel momento Matteo Messina Denaro non andrà più in via Milwaukee 40, strada intitolata dai pescatori di Aspra come omaggio ai parenti emigrati in America. Nel covo è rimasta solo una lettera di Maria Mesi alla casa produttrice del puzzle, la donna voleva recuperare un «pezzo mancante». Il vero pezzo mancante però era e restava lui, Matteo. «In questi anni abbiamo continuato a rincorrerci. Noi che provavamo ad entrare nella sua testa e lui che metteva in giro notizie ad arte, ne siamo sicuri, per depistarci e capire quanto eravamo ancora disposti a inseguirlo».
La partita truccata. Ci sono stati giorni in cui la pm Teresa Principato si è sentita accerchiata nel suo ufficio, al secondo piano del Palazzo di Giustizia di Palermo. «Ogni volta che eravamo vicini al latitante – dice – accadeva sempre qualcosa. C’erano spifferi, notizie, che in un modo o nell’altro trapelavano. Accadevano troppe cose strane intorno alla nostra indagine. Sapevo che così non l’avremmo mai arrestato. E allora iniziai a indagare su una talpa in Tribunale. Che non ho mai trovato». Teresa Principato è la procuratrice aggiunta di Palermo che per dieci anni, fino all’inizio del 2017, ha coordinato le indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro. «Siamo di fronte a un grande latitante di mafia che ha un rapporto forte con la massoneria e la politica. E questo è il vero motivo per cui non è stato ancora arrestato». La magistrata, che oggi lavora come sostituta alla Direzione Nazionale Antimafia, racconta: «Mi sconcertò scoprire che il padre di Messina Denaro, don Ciccio, era stato campiere dei D’Alì, una famiglia influente in provincia di Trapani, proprietari terrieri, banchieri… uno degli eredi, Antonino D’Alì, sarebbe poi diventato anche senatore di Forza Italia e sottosegretario all’Interno». Le indagini hanno scoperto molto altro. «Matteo ha avuto uomini fidati in tante amministrazioni: dalle questure ai Servizi. Così, ne sono convinta, riusciva a sapere in tempo reale delle nostre indagini. Ed è sempre riuscito a fuggire». Ecco perché è stata ed è ancora una partita truccata. Cosa ha saputo davvero Messina Denaro delle indagini che lo riguardavano? E, soprattutto, da chi l’ha saputo? Teresa Principato ricorda: «All’inizio, andava e veniva spesso da Trapani. Poi, quando l’inchiesta sulla sua latitanza si è fatta più stringente, con l’arresto dei suoi familiari, non è più tornato. Credo sia avvenuto nel 2015. Ma non ci siamo fermati. Con i colleghi Paolo Guido e Marzia Sabella, abbiamo ordinato l’arresto di un centinaio di persone della sua cerchia più stretta e sequestrato beni per milioni di euro: la strategia della terra bruciata». Ma lui era già lontano. «Abbiamo fatto indagini anche all’estero. Ritenevamo che avesse rapporti stretti con alcuni personaggi in Gran Bretagna, che gli avrebbero messo a disposizione una casa. Abbiamo approfondito la pista grazie all’ottima collaborazione delle autorità inglesi, ma anche da lì non sono arrivati i risultati sperati». Nel 2015, Teresa Principato si convince che bisogna dare una svolta alla caccia: «Con carabinieri e polizia firmammo un protocollo per puntare su un solo l’obiettivo: lavorare insieme, senza più gelosie o rivalità». Inizia subito un lavoro di squadra sul campo. «Il confronto e la condivisione di informazioni fra i migliori investigatori di polizia e carabinieri fece fare un balzo importante alle ricerche. Ma non durò a lungo. Poco a poco, qualcuno a Roma iniziò a osteggiare il gruppo. Fino a che non venne sciolto. Una grande occasione persa, perché credo che mettere insieme le conoscenze e i metodi delle due forze di polizia ci avrebbe consentito di arrivare alla cattura». Come in tutte le storie italiane, le sorprese tuttavia non finiscono. «Il più grande impedimento arrivò dal mio procuratore, Francesco Messineo. Fece scattare un blitz della polizia nell’Agrigentino, per un racket delle estorsioni, quando avevo chiesto di temporeggiare, perché il Ros dei carabinieri aveva intercettato e fotografato il capomafia di Sambuca, Leo Sutera, mentre leggeva un pizzino importante. A giorni ci sarebbe stato un incontro a cui probabilmente avrebbero partecipato Messina Denaro e alcuni mafiosi palermitani. Sutera era il tramite. Il Procuratore mi chiese: “Ma sei sicura?”. Volle anche risentire le intercettazioni. “Certo che sono sicura”, gli ripetevo. Ma Sutera venne arrestato dalla polizia e l’incontro saltò. Una vicenda che è finita davanti al Csm, che poi ha liberato Messineo da ogni addebito. Ma mi è rimasta una grande amarezza. Anche perché Sutera era il mafioso che anni prima aveva preso informazioni sulla strada che facevo da Trapani verso Caltanissetta, questo ha raccontato un collaboratore di giustizia. Volevano organizzare un attentato contro di me». Talpe, sospetti, veleni. Una caccia all’uomo intossicata per troppi anni. Nonostante la strategia della “terra bruciata”. «E lui ha tratto beneficio da tutto questo. Perché lui analizza. Fa tesoro dei suoi segreti. È una persona colta, scrive bene, legge, si documenta. È soprattutto un mostro di freddezza. Gli abbiamo arrestato i familiari più vicini, ma lui continua ad avere una cura maniacale della sua latitanza e molti mafiosi lo criticano pure per questa sua capacità di distacco. Di sicuro, ha fatto tesoro degli anni trascorsi alla macchia col padre, ma usa anche metodi moderni. Sono convinta che abbia usato i social per comunicare con la sorella Anna Patrizia e il nipote Francesco Guttadauro, che erano snodi fondamentali per il suo rapporto con il territorio». Torna dunque la domanda, sempre la stessa: adesso Matteo dov’è? La procuratrice Principato ne è sicura: «Sa che c’è un’attenzione speciale dello Stato nei suoi confronti e per questo, sarà lontano. In ritiro chissà dove. Magari fa una vita normalissima. In attesa che cali l’attenzione degli inquirenti. E, lo conosciamo, starà già pensando al momento in cui potrà tornare».
Caro “Svetonio” ti scrivo. Il fantasma si racconta. Tutti parlano di Matteo, tutti sanno qualcosa di Matteo, tutti hanno una storia da raccontare su Matteo. Ma un giorno è Matteo che decide di raccontarsi, offrendo un volto inedito di se stesso in alcune lettere molto private che diventeranno inspiegabilmente molto pubbliche. Cita Orazio, l’Eneide, si infervora per Jorge Amado, ragiona su Toni Negri, prova una sconfinata ammirazione per Bettino Craxi. E, rassegnato, ammette di “essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto”, immedesimandosi in quel personaggio, di professione capro espiatorio, frutto della fantasia di Daniel Pennac. Sono corrispondenze dall’altro mondo. Lui si firma “Alessio” e il suo interlocutore si fa chiamare “Svetonio”. È un fitto scambio epistolare quello fra il 2004 e il 2006 in cui Matteo si guarda allo specchio. Assai stravaganti (per non dire altro) sono anche le circostanze di questo carteggio fra Matteo-Alessio e Svetonio, che altri non è che un ex sindaco di Castelvetrano arrestato e condannato per traffico di stupefacenti. Il suo nome è Antonio Tonino Vaccarino, proprietario dell’unico cinema della città, passione ereditata dal nonno che – dopo avere conosciuto a Parigi i fratelli Lumière – nel 1898 aprì la prima sala in Sicilia. Ma, oltre al cinema, Tonino ama il rischio: lavora per i servizi segreti. Ed entra in contatto con Matteo – non sappiamo esattamente come, neanche dopo tanto tempo – guidato dagli uomini del generale Mario Mori. «Da sempre sono un uomo dello Stato», è andato ripetendo in questi anni Svetonio. Comunque siano andate le cose, di certo il latitante con Svetonio non parla di banalità e soprattutto gli affida la sua intimità. Le prime lettere partono da lontano con frasi di Amado adattate alla sua persona: «Non c’è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica». Fa considerazioni politiche: «Craxi fu l’unico politico di razza». E così Matteo ci fa scoprire Matteo. A tratti, sembra quasi rassegnato: «Io oramai vivo fuori dal mondo, e lo preferisco perché non mi riconosco più in questa ipocrita società… Non riesco a giudicarmi da me stesso, posso solo dire che fui sempre disponibile con tutti e con chiunque, non aspiro ad essere il migliore, in medio stat virtus, ci insegna Orazio…» In altri momenti, ha un tono sprezzante: «In merito ad i singoli maestri purtroppo devo dirle che sono ormai una razza quasi estinta, ci sono in giro solo squallidi musicanti…». È sconfortato: «Non amo la vita… io non ci sono stato bene in questa terra… la mia vita è stata un guazzabuglio di sofferenze, delusioni, fallimenti». Ha un’altissima considerazione di sé: «Ancora si sentirà molto parlare di me». È sibillino: «Ci sono pagine della mia storia che si devono ancora scrivere». E poi una rivelazione che fa di Matteo Messina Denaro un esemplare unico fra i religiosissimi boss di Cosa nostra che vivono fra santini e crocifissi, statue di Padre Pio e breviari: «Ci fu un tempo in cui avevo la fede. Poi, a un tratto, mi resi conto che qualcosa dentro di me si era rotta, mi resi conto di aver smarrito la mia fede, ma non ho fatto nulla per ritrovarla. In fondo ci vivo bene così. Mi sono convinto che dopo la vita c’è il nulla e sto vivendo per come il fato mi ha destinato». Una professione di ateismo. Per uno che di scuola, per sua stessa ammissione, ne ha fatta poca, le lettere svelano una “cultura” e una sensibilità quantomeno diversa rispetto a quei mafiosi che nei loro messaggi parlano solo di “piccioli”, di affari, e di delitti. Le ha scritte davvero lui o sotto dettatura di qualche amico che si è offerto di dare una forma colta al suo pensiero? Scoperta la corrispondenza, all’ex sindaco Vaccarino un giorno è stata recapitata una lettera non troppo rassicurante: «Lei ha buttato la sua famiglia in un inferno. La sua illustre persona fa già parte del mio testamento. In mia mancanza, verrà qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti. Firmato M. Messina Denaro». Una condanna a morte. In realtà Tonino Vaccarino ha continuato a vivere tranquillamente a Castelvetrano. Continuando a frequentare gli amici del boss latitante, ha veicolato anche notizie riservate apprese da un colonnello della Dia che indagava proprio su Matteo. Vaccarino è stato arrestato un’altra volta: “Lavoro per lo Stato”, ha ripetuto. Ma non ha convinto, ed è stato condannato a sei anni. Un mistero nel mistero questo personaggio che ha voluto impadronirsi del nome del segretario dell’imperatore Adriano – scrittore latino vissuto a cavallo fra il primo e il secondo secolo dopo Cristo – per incastrare un grande boss. O, forse, Svetonio è solo un maestro del doppiogioco.
I misteri di Trapani e della sua provincia. Lì dove si trova “la mamma”. Ogni città del trapanese è una capitale di mafia. Verso il nord della provincia, se proprio non vogliamo ripetere sempre quella parola – mafia – diciamo che c’è la “tradizione”. Verso sud, ci sono misteri antichi e moderni. E in mezzo, che si protende indicibile nel mare, c’è Trapani. Sarà un caso, ma le sue piazze e le sue strade sono state scelte – e non quelle della più famosa e internazionale Palermo – come set della prima Piovra di Damiano Damiani. Era il 1984 e il commissario Cattani (uno straordinario Michele Placido) sfidava da solo tutta la mafia tenendo con il fiato sospeso 15 milioni di telespettatori. Qualche mese prima, avevano ucciso a Valderice il sostituto procuratore Giangiacomo Ciaccio Montalto che aveva scoperto magistrati corrotti nel suo Palazzo di Giustizia. Qualche mese dopo, un’autobomba mancò a Pizzolungo per un soffio il giudice Carlo Palermo ma fece saltare in aria una madre con i suoi due bambini. Poi l’agguato contro Mauro Rostagno, un giornalista che aveva capito tutto di Trapani, delle sue mafie e delle sue logge. Le radici sono quelle. In Sicilia pochi sanno che il filosofo Giovanni Gentile è originario di Castelvetrano, ma tutti sanno che a Castelvetrano la mafia (con i soliti amici) ha fatto ritrovare morto il 5 luglio del 1950 Salvatore Giuliano, il bandito che scriveva al presidente Truman e voleva far diventare la Sicilia un’altra stella della bandiera degli Stati Uniti d’America. Un po’ più su di Castelvetrano e in riva al mare c’è Marsala. Quando lì il procuratore capo era Paolo Borsellino disse a noi di Repubblica: «Qua ci sono sbarchi paragonabili a quello in Normandia e nessuno fa niente». Sbarchi di droga. Risalendo la campagna trapanese verso l’interno, ecco Salemi e le sue montagne di gesso. Salemi patria dei cugini Nino e Ignazio Salvo, uomini d’onore ed esattori a capo di un impero che è stato per almeno un quarto di secolo il polmone finanziario della politica più collusa con Cosa nostra: Stefano Bontate, Giulio Andreotti, Salvatore Inzerillo, tutti nomi che sono dentro le pagine del romanzo nero siciliano. E poi c’è l’altra parte della provincia, quella a nord. Prima viene Alcamo, poi Castellammare del Golfo. Alcamo è stato il regno dei fratelli Rimi, Filippo e Natale, imparentati con don tano Badalamenti di Cinisi e considerati negli Anni Sessanta e Settanta la “crema” della mafia siciliana. A pochi chilometri, una ripida discesa rotola verso Castellammare, città che dentro di sé ha l’aristocrazia mafiosa che ha fatto grande la mafia anche in America. I Galante, i Playa, i Maggaddino, i Buccellato, i Bonanno. Tutti emigrati nel 1925 dall’altra parte dell’Atlantico e che poi hanno conquistato il vertice delle “cinque grandi famiglie” di New York. Per scoprire l’alta mafia, dicevano i vecchi siciliani, bisogna partire da Castellammare del Golfo e attraversare l’isola fino al Mediterraneo «e là, alla fine del Valle del Belice, si troverà la mamma». La “mamma” è l’origine di tutto, alla fine della Valle del Belice c’è la Castelvetrano di Matteo Messina Denaro. E, non a caso, come viene chiamato dai suoi uomini Matteo? Viene chiamato “Testa dell’Acqua”.
Vacanze romane. Per capire davvero quali segreti custodisca Messina Denaro, c’è ora da tornare a un giorno di febbraio del 1992. L’appuntamento è per le 15, alla Fontana di Trevi. Confuso fra i turisti, Matteo è un po’ in anticipo. Ha occhiali Ray-Ban, foulard e l’immancabile sigaretta Merit fra le dita. Guarda le vetrine di un negozio di abbigliamento: gli piacciono le giacche e le camicie firmate. Ha potuto metterne poche nel bagaglio leggero che si è portato da Palermo in un lungo viaggio in auto. È arrivato proprio quella mattina, su una Fiat Uno Diesel colore azzurro guidata da Renzino Tinnirello, mafioso tra i più fidati del gruppo Graviano, del quartiere Brancaccio. Alla Fontana di Trevi arriva anche Giuseppe Graviano, un altro dei “ragazzi” nel cuore di Totò Riina, anche lui figlio d’arte, appena 29 anni ma con un robusto curriculum da sicario. Giuseppe, che i suoi chiamano “Madre Natura”, è già un ricercato. Matteo, invece, è praticamente uno sconosciuto.
Giuseppe Graviano è arrivato in treno nella Capitale, con il fidato Fifetto Cannella. “Amunì”, andiamo, gli dice Matteo. Sono già le 15, e il lavoro che li aspetta è tanto. Ma all’appuntamento mancano ancora altri due giovanotti appena giunti anche loro da Palermo. Hanno preso l’aereo e poi hanno affittato un’auto a Fiumicino, una Y10 bianca. Sono Vincenzo Sinacori e Francesco Geraci. Per loro ha garantito Messina Denaro, assicurando a Riina che sono persone di cui ci si può fidare ciecamente. Uno fa il sicario, l’altro è un affermato grossista di gioielli di Castelvetrano, la città di Matteo, dove aveva avuto problemi con le rapine, e per questo aveva chiesto protezione alla famiglia. Mettendosi poi a disposizione. Per gratitudine. Geraci accompagna Matteo quando deve andare ad ammazzare qualcuno. A Roma, l’hanno portato perché ha una carta di credito American Express nel portafoglio. Così può affittare un’auto senza problemi. Un giorno, Messina Denaro gli aveva detto: «Francè, un amico vuole regalare alla fidanzata una parure da cento milioni di lire. Provvedi subito, i soldi te li do io». E il gioielliere aveva consegnato la parure nel giro di pochi giorni. Era un regalo di Giuseppe Graviano alla sua donna, Bibbiana Galdi. Qualche giorno dopo, il boss palermitano aveva fatto avere i soldi a Matteo Messina Denaro, che li aveva rifiutati. «Noi siamo amici inseparabili», aveva tagliato corto. Gli “inseparabili” hanno una missione a Roma. Qualche giorno prima si sono riuniti tutti a Palermo, in casa di Salvatore Biondino, mafioso di peso di San Lorenzo. E lì u’ zu Totò, Salvatore Riina, ha ribadito le cose da fare. Quelle che aveva già comunicato in una riunione dell’ottobre precedente, in una villa nel cuore delle campagne di Castelvetrano. Lo racconteranno in seguito Geraci e Sinacori quando, arrestati, diventeranno collaboratori di giustizia. A Roma devono pedinare e uccidere Giovanni Falcone, che da qualche mese lavora al ministero della Giustizia come direttore degli Affari Penali.
Ecco cosa devono fare. «È arrivato il momento», aveva sentenziato Totò Riina. Prima il giudice Falcone. E poi, il giornalista Maurizio Costanzo, che si era permesso di dire che i padrini ricoverati in ospedale erano in perfetta salute e dunque degli impostori. Totò Riina, in quei primi mesi del ’92, sembra non volersi fermare più: «Loro vogliono fare la Super Procura? E noi facciamo la Super Cosa». Si affida ciecamente a Giuseppe Graviano e a Matteo Messina Denaro. Per questo quei due sono a Roma, davanti a Fontana di Trevi. Sono armati con pistole nuove di zecca, 357 Magnum. Un camion con altre armi ed esplosivo è partito da Mazara un paio di giorni prima, il carico è stato nascosto nello scantinato di un condominio di via Alzavo 20, zona Casilino, a Roma. Qui abita un vecchio amico di Matteo, Antonio Scarano. Il boss trapanese gli ha fatto consegnare da Geraci 20 milioni di lire per affittare un appartamento nel quartiere Parioli, anche se, alla fine, la compagnia si è sistemata in periferia, in via Martorelli 41, a Torre Maura. Messina Denaro e Scarano si danno appuntamento al centro commerciale “Le Torri” di via Parasacchi, a Tor Bella Monaca, per discutere i dettagli. Mentre davanti alla Fontana di Trevi, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano sanno che devono fare in fretta. Un gruppo di quei siciliani arrivato a Roma – la soffiata l’hanno ricevuta direttamente da Totò Riina – va nel quartiere Prati, in via dei Gracchi. E si apposta, per studiare il territorio, davanti al ristorante “Il Matriciano”. È un locale, secondo le informazioni dello zio Totò, che il giudice Falcone frequenta abitualmente. Ma non è un’informazione corretta. Qualcuno ha confuso i luoghi o, più verosimilmente, i piatti della tradizione romana: il giudice mangia spesso a “La Carbonara” di Campo De’ Fiori e non al “Matriciano”. Decidono di sorvegliare anche la “Sora Lella”, un ristorante sull’isola Tiberina e pure il bar Doney in via Veneto. Fingeranno di essere turisti. Armati, aspettano il giudice Falcone.
Il capomafia ribelle. E un’esecuzione “necessaria”. La trasferta romana non dura a lungo. «Appena dieci giorni», ricostruirà il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, che ha portato Matteo Messina Denaro a giudizio per le stragi Falcone e Borsellino. Neanche il tempo di fare un po’ di shopping e frequentare i locali più alla moda, fra un pedinamento e l’altro. Perché, all’improvviso arriva il contrordine di Totò Riina: «Dovete scendere, a Palermo ci sono cose più grosse per le mani». C’è Capaci. C’è la strage che Giovanni Brusca e la squadra di sicari che guida porteranno a termine il 23 maggio. A Palermo, i capi di Cosa nostra brindano per la morte di Falcone. Nel cuore della provincia di Trapani, nel regno di Messina Denaro, c’è invece malumore. E c’è un boss di grande carisma che non ha remore a esprimere i suoi dubbi sulla scelta stragista di attacco allo Stato. Si chiama Vincenzo Milazzo, è di Alcamo, padrino giovane ma di una dinastia di vecchia mafia, almeno quanto quella dei Messina Denaro. «Aveva davvero una forte personalità», racconterà il pentito Gioacchino La Barbera, uno dei sicari che vennero incaricati di uccidere Milazzo. Lo invitano in un casolare per una “mangiata” e poi gli sparano un colpo alla testa. Ma non basta. Fra il 14 e il 15 luglio, pochi giorni prima della strage Borsellino, strangolano anche la compagna di Milazzo, Antonella Bonomo. Con la mafia non c’entrava nulla. Aveva 23 anni, faceva la maestra, ed era incinta di tre mesi. I Corleonesi la condannano a morte facendo sapere che è al corrente di tutti – proprio tutti – i segreti di Milazzo. E che ha un parente nei Servizi segreti: un pezzo grosso, un generale. Una storia che diventa ancora più misteriosa quando nel 1998, viene arrestato l’autista di Milazzo. Si chiama Armando Palmeri e così ricorda gli ultimi mesi di vita del suo capomafia: «Mi chiese un giorno di accompagnarlo a una serie di incontri con due personaggi che mi indicò come appartenenti ai servizi segreti. Tre incontri avvenuti nel 1992, a distanza di un mese l’uno dall’altro. L’ultimo, se non erro, si svolse una decina di giorni prima della sua scomparsa». Aggiunge: «Mi confidò che erano persone che conosceva già da tempo. Le prime due riunioni avvennero nelle prime ore del pomeriggio, mentre la terza in ore serali. Io da lontano li guardavo con il binocolo». Milazzo aveva confidato molte cose al suo autista: «Gli venne proposto di adoperarsi per la destabilizzazione dello Stato: una finalità da perseguire attraverso atti terroristici da compiere fuori dalla Sicilia. Ma Milazzo era contrario a queste cose. Diceva che non avrebbero portato nessun vantaggio a Cosa nostra. Anzi, avrebbero portato a una dura reazione dello Stato». Alla ricerca di tracce per individuare quegli uomini, i magistrati di Caltanissetta hanno verificato se, effettivamente, Antonella Bonomo avesse un parente nei servizi segreti. E ne hanno avuto riscontro. Si tratta di un generale dei carabinieri, che aveva allora un incarico al Sisde. Convocato dai pubblici ministeri, il generale ha negato di avere avuto mai contatti con la giovane donna e il suo compagno mafioso. Allora, cosa c’è davvero dietro quell’esecuzione del boss Milazzo organizzata con tanta fretta? C’è chi dice che quello della morte del boss di Alcamo sia un altro dei segreti che, dopo quasi trent’anni, garantisca la latitanza di Matteo Messina Denaro.
La trattativa a suon di bombe. C’è un’altra data ancora che aiuta a comprendere perché Matteo Messina Denaro sia diventato il boss che oggi conosciamo: il giorno della cattura del suo padrino Salvatore Riina. La mattina del 15 gennaio 1993 Matteo Messina Denaro è arrivato di buon mattino a Palermo, accompagnato dal fidato Vincenzo Sinacori per partecipare a una riunione importante con gli altri fedelissimi del capo dei capi. Come sempre, Matteo è l’unico che arriva da fuori provincia. Ma è ormai un pezzo fondamentale della “Super Cosa” con cui Riina si è messo in testa di muovere guerra allo Stato. Nel 1993, le breaking news non le porta ancora Internet, ma la televisione e così è anche per l’arresto di Riina. Salvatore Biondo avverte Giovanni Brusca e Gioacchino La Barbera. «È successo qualcosa di brutto», sussurra al telefono. Brusca corre a nascondersi nell’officina di Michele Traina, a Falsomiele. Intanto, Leoluca Bagarella, il cognato di Riina, parla con i suoi e sbotta: «Meno male che non l’hanno seguito. Altrimenti avrebbero arrestato pure Messina Denaro, Graviano, Biondo e tutti gli altri». In effetti quella mattina si sarebbe dovuta tenere una riunione della Commissione provinciale, la Cupola di Palermo. E, probabilmente, i capi dovevano discutere e pianificare altri attentati dopo l’uccisione di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. La cattura di Riina è in ogni caso un terremoto per Cosa nostra. Messina Denaro lascia Palermo in tutta fretta. La mafia siciliana comincia ad essere avvelenata da sospetti pesanti: chi ha tradito lo zio Totuccio? E adesso chi prenderà il suo posto? Chi sta tramando contro la strategia dei “falchi” dell’organizzazione? I “falchi” sono Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro e Giovanni Brusca. L’ala stragista, insomma. Bernardo Provenzano, da sempre l’alter ego di Riina, invita tutti “a un momento di riflessione”. E questo gli guadagna il sospetto di essere il “regista” dell’arresto di Riina. A sostenere le posizioni “moderate” di Provenzano ci sono Pietro Aglieri di Santa Maria di Gesù, Benedetto Spera e Nino Giuffrè che sono capi nella provincia palermitana. C’è poi un terzo schieramento, quello degli attendisti: Salvatore Cancemi di Porta Nuova, Raffaele Ganci della Noce; Michelangelo La Barbera di Boccadifalco. Dentro Cosa nostra si apre un “dibattito”. Bagarella, tuttavia, in ragione dell’illustre parentela con Riina, si sente già investito della successione. Progetta nuove stragi e valuta anche di dare corpo al sogno che da sempre appassiona Cosa nostra: separare la Sicilia dal resto dell’Italia per annettersi agli Stati Uniti. Bagarella ne parla con Messina Denaro proprio mentre un vecchio uomo d’onore siculo-americano, Rosario Naimo, si nasconde in provincia di Trapani. Matteo ha bisogno di sapere se Cosa nostra americana è d’accordo. «Ma la risposta non fu buona – ha ricordato Sinacori, che oggi è ormai un collaboratore di giustizia – Naimo disse che il progetto era assolutamente “fuori tempo”..». Bagarella prova comunque a battezzare un suo personale movimento autonomista, che chiama “Sicilia Libera”. Anche se il vero obiettivo resta un altro. Il primo aprile del 1993, i “falchi” convocano una riunione. Non è la Cupola, perché solo Riina potrebbe raccogliere intorno a un tavolo i capi mandamento. Ma è comunque un incontro importante. In una villetta fuori Bagheria, poco distante dall’Hotel Zagarella, arrivano Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano. Il vecchio Provenzano, invece, non si fa vedere. Il segno chiarissimo che non vuole altre bombe. Tuttavia, la decisione è presa. Si andrà avanti con la strategia stragista. E qualcuno – non è ancora chiaro chi – ne suggerisce gli obiettivi. «A metà maggio, Matteo mi mostrò un libro che raffigurava gli Uffizi», racconterà Sinacori. Il 14 di quel mese, i killer di Palermo sono a Roma e provano ad uccidere Maurizio Costanzo, con l’esplosivo che Matteo Messina Denaro aveva fatto arrivare nella Capitale nella primavera del 1992. Il 27 maggio, scoppia la bomba che sventra il cuore di Firenze, uccidendo Fabrizio Nencioni, ispettore dei vigili urbani, e la moglie Angela Fiume, custode dell’Accademia dei Georgofili, insieme alle loro figlie. Nadia aveva nove anni, Caterina meno di due mesi. L’incendio innescato dall’esplosione uccide anche lo studente universitario Dario Capolicchio che ha ventidue anni. Il gruppo di fuoco è arrivato dalla Sicilia. Ma, ancora oggi, non tutto è chiaro di quel massacro. Appena qualche mese fa, da un archivio dei carabinieri di Firenze, è riemerso l’identikit di una misteriosa donna. E c’è anche il racconto di un testimone che ha già aperto un nuovo filone nelle indagini sui complici dei mafiosi nelle stragi 1993. Età 25 anni circa, corporatura magra, capelli scuri, corti e lisci, alta circa 1,70». Tre giorni dopo la bomba che devasta un’ala degli Uffizi, il portiere di un palazzo del centro racconta che, poco prima dell’esplosione, è stato svegliato dalle voci di due giovani che tentavano di aprire a spallate il portone dello stabile. Avevano perso qualcosa: una busta gialla. Da una finestra, il portiere vede i due giovani e un’auto da cui scende una donna che indossa un tailleur scuro. Poco più in là, un Fiorino bianco, come quello poi saltato in aria in via dei Georgofili. «La donna pronunciò una bestemmia e disse ai due giovani, che tenevano un borsone: “Ci vogliamo muovere o no?”…».
Quel verbale, con allegato “Fotofit”, l’ha scoperto in una caserma dei carabinieri di Firenze un consulente della commissione parlamentare antimafia, il magistrato Gianfranco Donadio, oggi procuratore di Lagonegro. Negli anni passati, Donadio, come sostituto della procura nazionale antimafia, ha scavato nei misteri delle stragi. All’epoca, il “Fotofit” della donna era stato subito trasmesso alla Procura di Firenze, ma non venne mai diffuso. E neanche il testimone fu mai ascoltato. «Mi è sembrato sempre molto strano», ha detto lui, oggi settantenne, convocato dalla commissione antimafia in trasferta a Firenze. In quei primi mesi del 1993, intanto, Matteo, ufficialmente, per così dire, è latitante a Palermo.
I complici. I segreti di quei giorni del 1993 hanno abituato Matteo Messina Denaro a una cura maniacale delle sue relazioni, sempre più riservate, sempre più orientate verso lucrosi affari. Perché nella Seconda Repubblica nata dopo le bombe, è il business, più della politica, il vero terreno di incontro. E lui, che è diventato un fantasma, ha sempre tanti grandi imprenditori (spesso venuti dal nulla) che curano i suoi interessi. L’ultimo manager che polizia e carabinieri seguono si chiama Mimmo Scimonelli e ha 53 anni. Quando non si aggira fra masserie diroccate e vigneti di Mazara del Vallo per nascondere l’ultimo pizzino del superlatitante, gestisce tre supermercati Despar fra Partanna e Gibellina. Ma è spesso in viaggio: fra Roma, Bologna, Milano e la Svizzera. Scimonelli ha una passione per il vino. La sua azienda, la “Occhio di sole” di Partanna, può fregiarsi di alcuni importanti riconoscimenti al Vinitaly, per il Cataratto Chardonnay “Il Gattopardo-La Luna” 2009 e per il Syrah “Zu’ Terzio” 2008. Fino a quando, arrestato, non lo condannano all’ergastolo anche quale mandante di un omicidio. E tuttavia, dal giorno dell’arresto, nell’estate del 2015, non proferisce sillaba. Paura di Matteo Messina Denaro. Che, nel frattempo, è diventato un brand di successo. Negli ultimi cinque anni, il suo “valore” raggiunge quasi 6 miliardi di euro, perché a tanto ammontano i sequestri giudiziari di beni a lui riconducibili, direttamente o indirettamente. Sul suo territorio, in provincia di Trapani. E fuori dalla Sicilia. Ecco perché l’internazionalizzazione degli affari lungo il confine mafioso, porta lontano anche le ricerche di Messina Denaro. Qualche anno fa, i magistrati della procura di Palermo e gli investigatori della Dia seguono le tracce del padrino in una delle società in Lussemburgo gestite da Vito Nicastri, l’elettricista di Alcamo che nel giro di vent’anni è diventato il “re” dell’energia eolica. I “pali”, un altro settore strategico della holding Messina Denaro. Quasi una fissazione, come diceva Riina intercettato in carcere: «Questo signor Messina, questo che fa il latitante, sempre ai pali pensa (i pali eolici – ndr). Pensa ai pali per fare soldi e non si interessa a noi». Totò Riina vorrebbe un erede più aggressivo e meno imprenditore. Ma il brand Messina Denaro ha ormai segnato il mercato. È diventato un’incredibile macchina da soldi. Affidata alle cure dell’ennesimo self made man, Giuseppe Grigoli, il “re” dei Despar della Sicilia Occidentale. Il “paesano mio”, come lo chiama nei pizzini. Che lui protegge. Protegge come ogni suo “prestanome”, la sua vera ricchezza.
L’amore. Per una bizzarra coincidenza di eventi (e di voci) mai si è saputo così tanto, nella secolare storia di Cosa nostra, della vita amorosa di un capomafia. Sarà anche un po’ leggenda, o per il ricordo “epico” che ne conservano certi suoi compaesani quando – vanitoso, vanitosissimo – da ragazzo andava in giro per Castelvetrano come un manichino tutto firmato, sta di fatto che Matteo ha sempre goduto fama di sciupafemmine. I racconti si sprecano. E, probabilmente, verità e finzione si confondono fino al punto di renderle indistinguibili. Però, qualche indizio che porta il boss decisamente fuori dagli schemi classici del mafioso – moglie, figli, una sola famiglia, niente amanti “perché è poco morale” – c’è ed è anche documentato dalle inchieste giudiziarie. Se una ragazza ha fatto perdere la testa a Matteo quella è stata “Asi”, Andrea Haslehner, un’austriaca che ogni anno con i primi caldi estivi scendeva da Vienna in Sicilia per lavorare alla reception dell’hotel “Paradise Beach” di Selinunte. Bellissima, colta (in seguito si specializzerà in Germanistica e in Romanistica), parlava inglese e francese, russo, spagnolo e naturalmente italiano. «Era bionda, con gli occhi azzurri, alta circa un metro e settanta, aveva vent’anni», racconta Francesco Geraci, uno del giro di Matteo che si è poi pentito. La relazione con “Asi” è iniziata intorno al 1988 ed è finita nel 1993. Estati nei lidi di Marina di Selinunte, inverni in Austria con il boss che l’andava a trovare a Vienna. C’è però un altro uomo che si è invaghito della ragazza: Nicola Consales, il vicedirettore del “Paradise Beach”. E per questo il suo destino è segnato: viene fatto fuori a colpi di pistola dagli scagnozzi di Matteo la sera del 21 febbraio 1991. In quegli anni non c’è solo “Asi”. Perché gli altri amori del boss sono nei “pizzini” che vengono ritrovati nei covi in cui si nasconde. È alla vigilia della sua latitanza, infatti, che scrive a Sonia M., una ragazza di Mazara del Vallo: «Devo andare via e non posso spiegarti ora le ragioni di questa scelta. In questo momento le cose depongono contro di me. Sto combattendo per una causa che oggi non può essere capita. Ma un giorno si saprà chi stava dalla parte della ragione..». Tra il 1995 e il 1996, nei suoi primi anni in fuga, sono due le donne che segnano la sua vita. Una è Franca Alagna. Che, il 17 dicembre del 1995, partorisce una bella bambina. È figlia di Matteo. Ma porta il cognome della madre, anche se Franca va a vivere insieme alla figlia nella casa di Lorenza Santangelo, la madre del boss. La bimba prende il nome della nonna: Lorenza. È un rapporto molto difficile quello fra padre e figlia. Scrive un giorno Matteo al solito amico “Svetonio”: «Le confido una cosa intima, gliela confido con l’affetto di un figlio; veda, io non conosco mia figlia, non l’ho mai vista, il destino ha voluto così…». La convivenza in casa della nonna si fa complicata e Franca Alagna se ne va. Qualcuno dice che Lorenzina abbia rinnegato il padre. Ma non è così. È piuttosto un problema di “comunicazione”, come fa sapere – in una chiacchierata captata dagli investigatori – la nonna a Salvatore, il fratello di Matteo: «Devi dire a tuo fratello che ha una figlia che a dicembre ha compiuto 11 anni e che è arrivato il momento che qualcosa pure a lei scriva, perché adesso la ragazzina inizia a fare domande sul padre, inizia a capire e lui non può continuare a ignorarla come ha sempre fatto». Pragmatico, Salvatore risponde: «Si vede che nel posto in cui si trova non può scrivere, non può mandare nulla». Del resto, appena un anno dopo la nascita di Lorenzina, il boss ha già un’altra fidanzata. È Maria Mesi. Ha tre anni meno di lui, sembra però ancora più giovane. È innamoratissima. Gli fa regali. Profumi e videogiochi di ultima generazione, quelli che saranno trovati nel covo di Aspra. Maria lavora in una piccola azienda che commercializza pesce di proprietà dei Guttadauro (boss imparentati con Matteo). Spedisce messaggi d’amore: «Vorrei stare sempre con te, ho pensato molto al motivo per cui non vuoi che viva con te e credo di averlo finalmente capito…Ti amo e ti amerò per tutta la vita, Tua per sempre Mari…». Dalle carte, raccolte anno dopo anno e inchiesta dopo inchiesta dal pool che dà la caccia al superlatitante, salta fuori anche un’altra Francesca. Di lei si sa poco: che la frequentazione con Matteo era stata breve. Che non lo vedeva più dal maggio del 1993 (un mese prima che il boss diventasse ufficialmente un ricercato). Che intorno al 1995 aveva ricevuto un suo messaggio scritto, consegnatogli da un certo Giovanni Agate. Donne, tante donne. L’ultima, anche lei naturalmente bellissima, viene avvistata in un giorno imprecisato di un anno imprecisato a Valencia, in Venezuela. È in compagnia di Matteo, dall’altra parte del mondo. Vero o falso? Tutto si mischia nel romanzo nero di Matteo. Anche la fantomatica presenza di un figlio maschio. Ogni tanto qualcuno ne parla, nelle conversazioni registrate da microspie nelle case fra Castelvetrano e Partanna, fra Campobello di Mazara e Trapani. Sarebbe nato fra il 2004 e il 2005, madre sconosciuta. Una cosa si può azzardare: se questo figlio esiste veramente, si dovrebbe chiamare Francesco. Come tradizione impone: come il nonno.
Castelvetrano, la famiglia e 30.893 abitanti meno uno. L’ultima volta che siamo entrati alla Badìa, il quartiere di Castelvetrano dove vivono i Messina Denaro, di nuclei familiari con quel cognome ne abbiamo contati diciannove. Tutti in una sola strada intitolata all’eroe risorgimentale Alberto Mario, e dove Matteo (ufficialmente) non mette più piede dal giugno del 1993. Tant’è che un paio di anni fa, in occasione dell’ultimo censimento, al suo unico domicilio noto – appunto via Alberto Mario 51/5 – i messi comunali cancellarono dall’elenco dei residenti “Messina Denaro Matteo fu Francesco nato il 26 aprile 1962”. Castelvetrano, dunque. 30.893 mila abitanti meno uno: lui. O così almeno sembra, visto che da più di un quarto di secolo lì non l’hanno mai trovato. In via Alberto Mario, non ci sono più neanche alcuni familiari che, da molti anni, sono ospiti delle case di reclusione italiane. Ce ne sono altri invece, di Messina Denaro, che portano quel cognome ma tengono tanto a far sapere «che loro sono quelli buoni». C’è mezza provincia che fa il tifo per Matteo. Lo hanno consacrato a mito e – paradosso – in famiglia litigano e si dividono su di lui. In realtà le cose appaiono un po’ più complicate. La famiglia, che nelle comunità mafiose di solito è il punto di forza del boss, nel caso di Matteo si è rivelata il lato debole. Forse anche per questa ragione Matteo Messina Denaro non è più passato da via Alberto Mario 51/5. Perché non è quello che si dice un rifugio sicurissimo. Intanto, ha avuto cognati che gli hanno dato grattacapi a non finire. Uno è Gaspare Como. L’altro, Rosario Allegra. Tutti e due avevano la pessima abitudine, da sempre, di pronunciare il suo nome invano. Per farsi gli affari loro. Cominciamo da Gaspare Como, marito di Bice, una delle sorelle del latitante (l’altra si chiama Patrizia, la terza Giovanna, la quarta Rosetta che è anche la più grande), commerciante di abbigliamento che da un po’ ha lasciato Castelvetrano e si è trasferito a Caltanissetta. Probabilmente, per leccarsi le ferite. Qualche tempo prima di lasciare il paese, Gaspare è stato pestato a sangue. Naturalmente, non ha fatto denuncia ai carabinieri o alla polizia, naturalmente non si è presentato al pronto soccorso. Ma le voci a Castelvetrano corrono. E sono particolarmente veloci quando riguardano i Messina Denaro. Chi ha osato malmenare e pure pesantemente il cognato di Matteo? E perché? Gli investigatori non ci hanno messo molto ad arrivare a una sola conclusione: «Soltanto Matteo ha potuto farlo, nessun altro, a meno che non sia qualcuno pazzo da legare». L’altro cognato, Rosario Saro Allegra – marito di Giovanna e anche lui commerciante di abbigliamento, che è morto l’anno scorso – gliene ha combinata una davvero grossa. Ha promesso voti al fratello di una candidata alle elezioni regionali in cambio di 60 mila euro. Le microspie dei carabinieri hanno scoperto tutto. Anche l’imbroglio. Allegra ha preso la “stecca”, ma non si è mosso per far avere un solo voto alla signora. Il mediatore dell’operazione, a quel punto, è andato a Palermo dai Guttadauro, protestando vivacemente con il nipote prediletto di Matteo, Francesco. Le registrazioni delle conversazioni sono significative: «Abbiamo preso Saro Allegra, lo abbiamo messo sulla macchina e lo abbiamo portato in campagna». A quel punto, Francesco Guttadauro inizia l’interrogatorio: «Com’è questo fatto dei soldi e dei voti che gli dovevi portare?». E rimprovera Saro: «Tu metti la faccia della nostra famiglia, ed andiamo a fare questa gran brutta figura a Castelvetrano… Ora tu gli restituisci i soldi». Matteo non ha gradito. Avere in famiglia uomini senza parola fa perdere prestigio e potere. Le liti in famiglia si sa sempre come iniziano ma non si mai come finiscono. Quelle in casa dei Messina Denaro, prima o poi potrebbero tracimare. E poi c’è la “questione” di Lorenza, la figlia di Matteo. Per qualche tempo, lì alla Badìa, c’è un via vai di motorini e di liceali che fanno casino sotto la casa di Matteo. Tutti ad aspettare Lorenzina. Feste, fidanzatini, gite, minigonne. Uno “scandalo”. Con lei, appena diciassettenne e figlia ribelle che frequenta lo “Scientifico”, sempre più esuberante. Un giorno arriva anche a dire che «quell’uomo» – il padre – non ha alcun diritto sulla sua vita perché non lo ha mai visto in faccia. Nonna Lorenza e zia Patrizia fanno una scenata alla ragazzina. E Lorenzina e sua madre se ne vanno via da via Alberto Mario, trovando un tetto dai nonni materni. Ma non c’è mai stata pace in famiglia, perché c’è stata anche la “vergogna” di un pentito. Accade nel 2013, con il marito di una cugina di Matteo: Lorenzo Cimarosa, un imprenditore agricolo. Un vero terremoto. Cimarosa, che è morto nel 2017, ha per giunta raccontato un po’ di dettagli sugli amici di Matteo e sui suoi affari. Un brutto segnale. Legate da fedeltà assoluta a Matteo sono rimaste solo le quattro sorelle e il fratello Salvatore. E naturalmente la madre che, alla parete del salotto di casa, ha appeso un grande quadro. Un pezzo unico. Un maxi ritratto di suo figlio in stile Andy Warhol.
L’estate delle stragi. Si sentiva così al sicuro Matteo Messina Denaro che se ne andava addirittura in vacanza, in giro per l’Italia, mentre le bombe esplodevano. Dopo i cinque morti di Firenze, il 27 maggio, altri cinque morti a Milano, in via Palestro il 27 luglio. Il giorno dopo, esplosioni a Roma, a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio in Velabro.
Mentre gli uomini di Cosa nostra eseguono il mandato, gli strateghi di quella campagna di morte se la spassano a Forte dei Marmi. Matteo Messina Denaro è con Giuseppe e Filippo Graviano, fidanzate al seguito. In quel momento, Matteo ha una relazione con l’austriaca Andrea Haslnher. Per luglio e agosto la compagnia ha affittato una villa in via Salvatore Allende, a ottocento metri dal mare. Matteo si fa chiamare Paolo. Filippo e Giuseppe Graviano sono Filippo e Tommaso Militello, degli allegri siciliani che hanno pure il tempo di farsi mandare due biciclette da Palermo con un corriere espresso. Poi arriva anche il terzo fratello Graviano, Benedetto, con la fidanzata, la sorella e la cugina della fidanzata. Vacanze di grande relax, mentre l’Italia è ripiombata nel terrore. Una mattina fanno una gita a Milano, per un po’ di acquisti da Versace. Qualche giorno lo trascorrono ad Abano Terme. Altri a Rimini. Graviano e Messina Denaro sono davvero inseparabili. Condividono il passato, il presente e immaginano un futuro. «Perché le bombe servono a trovare qualcuno con cui dialogare», ragionano. I “falchi” di Cosa nostra sono insomma convinti che quella sia la strada. Al ritorno a Palermo, c’è una riunione in un villaggio turistico nella zona di Cefalù. Intorno a un tavolo, si ritrovano Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano. Si discute di colpire un collaboratore di giustizia. Poi, all’improvviso, arriva un politico amico dei Graviano, il senatore Dc Vincenzo Inzerillo. Lo ricordate, il senatore su cui aveva indagato il commissario Germanà? Bene, ora è alla riunione con l’ala stragista di Cosa Nostra. «Matteo mi fa segno di uscire dalla stanza – racconterà poi Sinacori – E sulla via del ritorno verso Trapani mi disse che quello era il senatore Inzerillo. Sosteneva che con le stragi non si sarebbe concluso niente, e che si doveva agire in altro modo». Suggeriva «la costituzione di un nuovo partito politico». C’era già in ballo “Sicilia Libera”, l’idea che piaceva a Bagarella. Ma i Graviano insistevano per un altro attentato, contro un pullman pieno di carabinieri. Erano i giorni in cui Giuseppe Graviano diceva al fidato Spatuzza, al bar Doney di via Veneto, a Roma: «Abbiamo il Paese nelle mani», facendo riferimento a Silvio Berlusconi e a Marcello Dell’Utri. Però, il tempo dei Graviano stava già scadendo. A gennaio 1994, i fratelli Graviano saranno arrestati a Milano. Nel giugno 1995, toccherà a Leoluca Bagarella. L’anno successivo, a Giovanni Brusca, che deciderà subito di collaborare con la giustizia. Solo Matteo e i suoi segreti delle stragi saranno sepolti. Solo Matteo resterà un fantasma.
Chi protegge Matteo Messina Denaro. Le donne, le auto, la famiglia, le complicità nello Stato e i grandi affari di Cosa Nostra. Il libro che svela i segreti del Boss latitante da decenni. Piero Melati il 14 luglio 2020 su L'Espresso. Alla vigilia del grande Maxiprocesso di Palermo, Giovanni Falcone tenne una scottante “lectio” sulla mafia ad una platea di addetti ai lavori, in un albergo siciliano sul mare. In quella occasione spiegò che non era mai esistito, nel codice di Cosa Nostra, un termine come quello di “terzo livello”. I boss, affermò, non si facevano comandare da nessuna più alta e misteriosa entità. Ma quel giorno Falcone rivelò anche una novità sconvolgente: per la prima volta, disse, la mafia si era quotata in Borsa. Quando, alla fine dell’intervento, Falcone si concesse un caffè al bar dell’albergo, insieme a Paolo Borsellino, l’aria si fece elettrica. Tutti volevano saperne di più. I due giudici, sorridendo, rifiutarono ogni ulteriore commento. Ma i più avveduti avevano comunque capito che il riferimento era diretto al gruppo Ferruzzi di Raul Gardini. Ricordate le imprese del natante “Moro di Venezia”, che appassionò l’Italia dei velisti? E poi la scalata alla Montedison, la nascita e il fallimento di Enimont? È proprio all’ombra di questi nuovi affari che inizierà ad allungarsi sulla storia italiana l’ombra di Matteo Messina Denaro, detto “u siccu” (il magro), considerato uno dei latitanti più pericolosi al mondo. “U siccu” è il boss che ha mandato in soffitta bombe e lupare, preferendo decisamente listini e capitalizzazioni. Attenzione: l’ultimo fuggitivo del clan dei corleonesi ha effettivamente attraversato tutta la stagione terrorista a fianco di Totò Riina; è stato apertamente uno degli irriducibili comandanti dell’offensiva contro lo Stato, a suon di attentati e stragi, nel biennio ’92-’93. Ma poi è stato anche lesto a riposizionarsi, intravedendo per primo i nuovi business all’orizzonte. Sul “secco” si è detto tutto e il contrario di tutto: è come Diabolik, non si nasconde in Sicilia, gira il mondo, guida una Aston Martin armata di mitragliatori, come 007. Si è scritto persino che non esiste: è solo un simbolo, un fantasma.
Tutte leggende. Ora Lirio Abbate, vicedirettore dell’Espresso, già autore dell’inchiesta su “Mafia Capitale”, rimette il boss con i piedi per terra, citando proprio il caso Ferruzzi-mafia, già nella prima parte del suo “U siccu, Matteo Messina Denaro: l’ultimo capo dei capi” (Rizzoli).
Affari, anzitutto grandi affari. “U siccu” ha fatto riemergere l’anima originaria di Cosa Nostra. Affari grandi e affari sporchi: per questo il ricercato numero uno, spiegano i suoi cacciatori, resta ancora oggi così pericoloso. La sua strategia non prevede più separazioni tra illegalità e istituzioni economico-finanziarie, tra politica e crimine, tra amministrazione centrale e poteri occulti. Una metamorfosi sistemica messa a punto già durante la lunga parentesi successiva alle stragi, quando dopo la cattura di Riina (gennaio 1993) Bernardo Provenzano ha governato Cosa Nostra siciliana di nuovo nell’ombra e nel silenzio, fino al suo arresto del 2006. Da quel giorno “u siccu” - ormai affrancato da ogni padrinaggio - ha proceduto da solo. Abilissimo e imprendibile.
U siccu. Matteo Messina Denaro l'ultimo dei Capi (Rizzoli)Chi è davvero Matteo Messina Denaro? Anzitutto, racconta Lirio Abbate, è la pietra di paragone della storia italiana. Se leggiamo attentamente le sue gesta, scopriamo che squadernano le nostre abituali ricostruzioni sul crollo della Prima Repubblica. Abbate mette in rilievo un dato, che si registra tra l’86 e l’87, gli anni del Maxiprocesso: la mafia fa confluire i suoi voti nelle liste elettorali dei socialisti e dei radicali di Pannella, non sentendosi più protetta da quei settori della Democrazia cristiana con cui era più abituata a “trattare”. A conferma, il 31 gennaio del 1992, la Cassazione mette il bollo definitivo alle condanne del Maxiprocesso. Cosa Nostra si sente definitivamente scaricata dai vecchi protettori. E si vendica. Vengono uccisi il potente esattore Ignazio Salvo e l’eurodeputato andreottiano Salvo Lima. E intanto, il 17 febbraio del 1992, scoppia a Milano l’inchiesta Mani Pulite.
Ma che relazione c’è tra le due cose? Nel gennaio del 2020, ricorda ancora Abbate, in una clamorosa intervista a “L’Espresso”, l’ex pubblico ministero di Mani Pulite Antonio Di Pietro dice a Susanna Turco: «Mani Pulite è una storia che andrebbe riscritta . Mani Pulite non l’ho scoperta io: nasce dall’esito dell’inchiesta del Maxiprocesso di Palermo, quando Falcone riceve riservatamente dal pentito Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia... Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio del 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire». Michele Sindona, Roberto Calvi, Raul Gardini, tre casi clamorosi di alta finanza internazionale finiti poi in odor di mafia. È questo lo spessore vero dell’ultimo latitante siciliano. Quando il 20 settembre del 2013 arriva la notizia della confisca di tre milioni e mezzo di euro al re dell’energia alternativa Vito Nicastri , che ha impiantato nel trapanese centinaia di pale eoliche, imprenditore considerato vicino a Matteo Messina Denaro, si capisce che “u siccu” sta battendo quelle piste, che per lui non sono nuove. Già il 16 settembre del 1992, a pochi mesi dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, in uno studio legale romano, era stato stretto un accordo tra algerini e maltesi per la costruzione di un complesso turistico da 1800 miliardi di lire. L’operazione, coordinata dai clan, serviva a riciclare il denaro del “secco”. Il grande latitante, nativo di Castelvetrano, figlio del boss Francesco, vera aristocrazia mafiosa, è stato un manager d’affari sin dalle origini. Bombe, stragi, guerre, solo quando occorre. Poi soprattutto “piccioli”. Quelli occorrono sempre.
Non esiste boss che abbia parlato più di Matteo Messina Denaro. Di lui sono state ritrovate lettere private, “pizzini” scambiati con Provenzano, un intero epistolario (sotto i suggestivi soprannomi di Alessio e Svetonio) intrattenuto con Antonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, accusato di favoreggiamento. Uno scambio di lettere durato quasi due anni, dal 2004 al 2006. Vaccarino si è sempre difeso sostenendo di operare per conto dei servizi segreti. La successiva scoperta del tradimento da parte di ufficiali della Dia ha scoperchiato una estesa rete di protezioni e complicità, complicata quanto un labirinto. Difficile distinguere chi lavora a catturarlo da chi, facendo finta di braccarlo, gioca nella sua stessa squadra. Ora Abbate aggiunge anche un significativo inedito: l’unico verbale ufficiale che raccoglie le dichiarazioni del boss quando, nel giugno dell’88, a 26 anni, venne fermato e interrogato. L’inchiesta di Abbate ci rivela la sua mezza dozzina di storie d’amore, la passione per la PlayStation e la musica classica, l’amore per le auto sportive, i rapporti con la madre e le quattro sorelle, l’esistenza di una figlia mai vista e dalla quale ha dovuto accettare scelte di vita non conformi alla ortodossia mafiosa. I tempi cambiano ma “u siccu” resta soprattutto un boss con il “cappuccio”. Trapani, il suo regno, è una miniera di logge non dichiarate. Una rete molto estesa, che ha fatto tornare il sospetto sull’esistenza, dentro Cosa Nostra, di un vertice segreto, un grado superiore, una “élite” chiamata a gestire enormi e intracciabili patrimoni.
C’è consenso, nel territorio, attorno al “padrino”? Come i grandi narco-leader messicani (gli Escobar, i Chapo) Messina Denaro non spreme la gente. Ha una regola: il “pizzo” lo pagano solo le grandi imprese. Il boss ha dato vita a una sorta di “welfare mafioso”: investe, aiuta, sostiene bisognosi e familiari dei detenuti, in cambio dell’invisibilità. Del “secco” non esistono impronte digitali, foto segnaletiche, registrazioni del timbro della voce. E nessuno che l’abbia descritto di recente. Nessuno, mai, che lo tradisca.
Il suo regno è stato imbottito di telecamere, microspie, registratori. Da anni, nel trapanese, ci si scherza. Microtelecamere e invisibili microfoni sono stati piazzati anche sulla lapide del padre Francesco. Una delle sorelle, in visita al cimitero con le zie, l’ha scoperto. «Nella tomba di papà c’è il Grande Fratello», ha commentato. Il padrino in fuga soffre di una malattia degenerativa della cornea, così è stato cercato anche nelle cliniche di Barcellona. Ma niente. Gli inquirenti hanno trovato tracce dei suoi viaggi d’affari (Austria, Svizzera, Grecia, Spagna, Tunisia), di collegamenti con Francia e Germania, di canali aperti con paesi produttori di cocaina. Si dilegua sempre in tempo. «Ha la forma dell’acqua, come il romanzo di Camilleri», annota Lirio Abbate.
E oggi? Attraverso Vito Nicastri, l’imprenditore delle pale eoliche condannato nel 2019 a nove anni, è emerso il nome di Paolo Arata, ex deputato di Forza Italia passato alla Lega, esperto di ambiente. Arata ha scritto il programma leghista sull’energia e sosterrà di aver avuto un ruolo determinante nella nomina del senatore leghista Armando Siri a sottosegretario alle Infrastrutture nel governo Conte I. Arata dirà al figlio, in una conversazione intercettata, che presto grazie a Siri saranno varate norme per favorire gli investimenti siciliani di Nicastri. Lo stesso figlio di Arata otterrà una consulenza a Palazzo Chigi. La Procura di Palermo definirà Arata “prestanome” di Nicastri e quest’ultimo “capofila” di una fitta rete che assicura “corsie preferenziali e concessioni” ai nuovi investimenti. Dietro i quali si staglia sempre l’ombra di Matteo Messina Denaro, l’ultimo imprendibile.
Il ruolo di Matteo Messina Denaro nelle stragi di Capaci e via D'Amelio. Il boss è sotto processo con l'accusa di essere uno dei mandanti degli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino e degli uomini delle loro scorte. Lirio Abbate il 14 luglio 2020 su L'Espresso. Il capomafia trapanese Matteo Messina Denaro, 58 anni, ricercato dal 1993, è attualmente sotto processo a Caltanissetta perché accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Le fasi del processo sono ormai giunte alla conclusione, davanti ai giudici della Corte d’assise sono sfilati investigatori, testimoni di giustizia ed ex mafiosi. Hanno raccontato e mostrato il lato violento e criminale di Messina Denaro, il suo modo di essere capo e il ruolo di “assistente” di Salvatore Riina. E le decisioni sanguinarie prese per sostenere la leadership corleonese, tra cui l’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Il processo ci restituisce una figura di stragista, carnefice, sanguinario che ha ucciso persone innocenti e bambini. All’epoca delle stragi Messina Denaro aveva 30 anni, e nel 1992 Cosa nostra sferra il suo micidiale attacco allo Stato, in risposta alle condanne del maxi processo», afferma il pm Gabriele Paci durante la requisitoria.
«Si è detto che Messina Denaro era troppo giovane a 30 anni per poter dire che fosse il mandante della strage perché nella mafia si fa carriera con gli anni. Ma è un luogo comune. Dal 1993 in poi Messina Denaro è, insieme a Brusca, i Graviano e Bagarella uno dei capi di Cosa nostra. Il 1993 è l’anno delle stragi, inizia con l’arresto di Riina e da quel momento in poi la mafia è governata da questo gruppo di persone che porta avanti la politica stragista», spiega il pm. «Da quelli che sono gli elementi di prova forniti, vedremo come questo status di Matteo Messina Denaro non verrà mai revocato. Rimarrà lui al vertice di Cosa nostra trapanese, e il suo peso politico aumenterà sempre all’interno di Cosa nostra», ha aggiunto. «Se Messina Denaro non avesse avallato la strategia stragista di Riina, decidendo di non mettersi contro lo Stato, Riina cosa avrebbe fatto?», si è chiesto il magistrato durante la requisitoria. «Intanto non avrebbe potuto contare sui trapanesi e non avrebbe potuto trascorrere parte della latitanza a Mazara del Vallo e Castelvetrano. Quindi il consenso dei trapanesi, nella persona di Matteo Messina Denaro, è un consenso fondamentale. Riina non avrebbe mai potuto ordinare quello che ha fatto senza di loro. Se tutti non gli fossero andati dietro lui non avrebbe potuto fare la guerra allo Stato, e quello che la sua mente diabolica aveva già elaborato». Senza dimenticare che anche Matteo Messina Denaro «partecipa alle barbarie cui fu sottoposto il piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e tenuto prigioniero per tre anni per poi essere ucciso e sciolto nell’acido, autorizzando che il bambino, nel corso della lunga prigionia, resti per tre occasioni ristretto nel trapanese, in un immobile vicino Castellamare e in uno vicino Custonaci». La sentenza è prevista entro la fine dell’estate.
Il sì di Messina Denaro alle stragi del ’92 era importante. E lo era per gli appalti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 25 giugno 2020. Nella sua requisitoria al processo di Caltanissetta contro il boss superlatitante, il procuratore aggiunto Gabriele Paci ha spiegato che il feudo dei Messina Denaro, in provincia di Trapani, era decisivo geopoliticamente per i grandi affari che venivano gestiti con le imprese del Nord. Matteo Messina Denaro, latitante fin dal 1993, è attualmente imputato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e di via D’Amelio. Il 19 giugno scorso il pm Gabriele Paci, in una requisitoria di oltre due ore, ha evidenziato tutti gli elementi che inchioderebbero il superlatitante. Precedentemente, il magistrato che nell’ufficio inquirente di Caltanissetta riveste funzioni di procuratore aggiunto si era dilungato a lungo sul Trapanese, il territorio in cui tutto si svolge. Ha insistito molto su quel punto, perché è la chiave di volta del collegamento tra i trapanesi e i corleonesi di Totò Riina. Da sottolineare che per “trapanesi” si intendono i mandamenti mafiosi di Trapani, Alcamo, Mazara del Vallo e Castelvetrano. La geopolitica mafiosa dell’epoca è importante, per questo bisogna spiegarla. Totò Riina era il capo indiscusso, condivideva parte della sua fortissima influenza con Bernando Provenzano. Quest’ultimo, a sua volta, aveva un forte potere in alcune zone della Sicilia. Riina, che aveva ovviamente piazzato le proprie pedine dappertutto, aveva la roccaforte non solo nel Palermitano, ma, appunto, anche nell’area di Trapani. I principali collaboratori escussi durante il processo hanno delineato chiaramente che le maggiori azioni mafiose su ordine di Riina sono avvenute proprio in quel territorio. Ed è proprio quello trapanese che era, ed è, il feudo di Matteo Messina Denaro.
Custodi dei beni dei corleonesi. In realtà, il pm di Caltanissetta Gabriele Paci ha spiegato che il rapporto tra la mafia corleonese e quella trapanese era così fiduciario che i Messina Denaro (Francesco Messina Denaro e il figlio Matteo, il superlatitante), fin dagli anni 80, erano i custodi di buona parte dei beni di Riina e di Provenzano. Ecco perché c’era un’assidua frequentazione da parte dei Corleonesi del territorio del trapanese, eletto da Riina, e dagli altri protagonisti della stagione stragista, come luogo sicuro anche dopo le stragi del ’92. Ma a corroborare tutto ciò è il fatto che già alle prime Commissioni regionali, per esempio a quella dell’83, nelle riunioni cioè di quelli che erano veri e propri organi di vertice di Cosa nostra, competenti a decidere in tema di delitti eccellenti, era presente Francesco Messina Denaro, il padre dell’attuale latitante, con il ruolo di reggente della provincia di Trapani. Dagli inizi del 1991 in poi sarà il figlio Matteo a sostituirlo. Il padre sarà ritrovato cadavere il 30 novembre del 1998 alla periferia di Castelvetrano. Ma perché, secondo il pm Paci, l’allora capo dei capi Totò Riina – conosciuto per essere abituato a decidere lui e basta – avrebbe dovuto comunque avere l’assenso di Matteo Messina Denaro per deliberare le stragi di Capaci e di via D’Amelio dove persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? Come detto, il feudo di Denaro era geopoliticamente importante per la mafia corleonese. Importante, però, soprattutto per gli affari. E si ritorna sempre lì, al discorso degli appalti. Non a caso, nel ’91, Falcone partecipò a un convengo dedicato proprio a mafia e appalti, sottolineando più volte che quello era, in assoluto, l’interesse più importante della mafia.
Quando Brusca parlò degli appalti. Ma non solo. Durante il processo Rostagno, lo stesso Giovanni Brusca disse: «Gli appalti erano il secondo mio interesse, dopo l’integrità e la sacralità di Cosa Nostra». Salvo poi, in maniera singolare, ritrattare con il tempo e dire che per loro quell’interesse non era poi così preponderante. «C’era un rapporto bilaterale – ha spiegato durante la requisitoria il pm Paci –, cioè i trapanesi fanno fortuna grazie a Riina e lui stesso deve la sua fortuna ai trapanesi». Ovvero, ha proseguito il pm, «Riina lo sa benissimo che i mazaresi erano tra i privilegiati nella spartizione degli appalti. C ’era il famoso Mastro Ciccio, mafioso potentissimo della famiglia di Agate Mariano che si occupava in particolare della spartizione degli appalti. Mazara del Vallo – ha sottolineato Paci –, su questo, non è arrivata mai seconda e quindi faceva anche comodo ai mazaresi essere particolarmente corrivi alla politica di Rina». Il procuratore aggiunto di Caltanissetta poi è ritornato nuovamente sulla questione evocando le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino (conosciuto per essere il “ministro dei lavori pubblici” di Riina), sottolineando che «i beneficiari di questi grandi appalti, ovvero la politica del tavolino dove i grandi affari vengono gestiti dalle imprese del Nord che scendono, sono stati anche i mazaresi e gli uomini della provincia di Trapani». Ecco spiegato perché, secondo la requisitoria del pm di Caltanissetta, senza il consenso di Messina Denaro, il capo dei capi Riina non avrebbe mai potuto ordinare le stragi del ’ 92 e l’attacco allo Stato.
Le indagini di Borsellino. Ancora una volta ritorna il tema di mafia e appalti. In questo caso non come “genesi” delle stragi, ma come elemento importante che lega Matteo Messina Denaro e Totò Riina ad esse. Un dato è certo. Paolo Borsellino, quando era procuratore a Marsala, stava indagando proprio sugli appalti e non a caso volle avere copia del famoso dossier mafia-appalti, visionato e depositato da Giovanni Falcone prima che lasciasse la Procura di Palermo per andare a lavorare al ministero della Giustizia. Forse si spiega anche perché il colonnello della Dia di Caltanissetta Marco Zappalà, attraverso l’aiuto dell’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, stava cercando elementi analoghi. Nelle informative dei Ros che indagavano su loro due per conto della Procura di Palermo, compaiono diverse parti giustamente omissate. Non solo, tra queste spunta anche un riferimento ad Angelo Siino, colui che, ricordiamo, è stato coinvolto nel famoso dossier mafia-appalti, considerato di primaria importanza da Giovanni Falcone, così come da Paolo Borsellino fino al giorno in cui morì stritolato dal tritolo. A tal proposito ricordiamo che è in corso il processo contro Vaccarino, accusato dai pm di Palermo di aver favorito la mafia. Come? Con l’aver passato delle intercettazioni a Vincenzo Santangelo, titolare di un’agenzia funebre già condannato per mafia. Ricordiamo che gliele avrebbe date, via mail, il colonello Zappalà. Cosa contenevano? Un dialogo tra due personaggi convinti (erroneamente) che il Santangelo avesse omaggiato delle spese del funerale la famiglia del pentito Lorenzo Cimarosa. Nel corso della requisitoria dello scorso 26 maggio, il pm Pierangelo Padova ha affermato che Vaccarino, parlando con Santangelo, «non sapendo di essere intercettato, disse di Lorenzo Cimarosa “questo fango che si è pentito e si lanzò tutto”». Eppure Baldassare Lauria, legale dell’ex sindaco, nella stessa udienza del 26 maggio ha commentato così l’interpretazione del pm: «Se fosse vero, ma non lo è, sarebbe un ragionamento assolutamente suggestivo. Dico non lo è perché se voi leggete lo stralcio della conversazione che peraltro il pm vi indica in dialetto, vi rendete conto che Vaccarino ha detto l’esatto contrario». Il 2 luglio ci sarà la sentenza. Vaccarino, ricordiamo, nel passato fu accusato di far parte della mafia dal pentito Vincenzo Calcara. Su questi fatti venne assolto, rimanendogli però la condanna per traffico di droga. Su questo c’è l’istanza di revisione perché si basa sempre sulle parole di Calcara. Quest’ultimo viene punzecchiato anche dal pm Paci durante la requisitoria del processo a Matteo Messina Denaro dicendo che egli non ha mai fatto il nome del latitante al tempo in cui uccideva. Nel frattempo sono passati 27 anni e non si riesce a catturarlo nonostante in più fasi le operazioni giudiziarie gli abbiano fatto terra bruciata intorno, così come è avvenuto la scorsa settimana con l’arresto di due suoi favoreggiatori.
Davide Milosa per "il Fatto quotidiano” il 24 gennaio 2020. Manager in Ferrari, plenipotenziari di Cosa Nostra, uomini legati alla 'ndrangheta, trafficanti di armi e droga, sequestratori. Sono tante oggi a Milano le figure che ruotano attorno ad alcuni narcos vicini a Matteo Messina Denaro. Eccola, dunque, la narcorete della primula rossa di Cosa Nostra sotto la Madonnina. Raccontata nell' inchiesta Eden 3 della Procura di Palermo che nel novembre scorso ha portato a tre arresti e a 19 indagati per un traffico di droga tra Campobello di Mazara, territorio del boss latitante da 27 anni, e il capoluogo lombardo. Reati contestati: traffico di droga e spaccio non aggravati dal metodo mafioso, anche se diversi indagati, secondo i pm, agivano per sostenere i detenuti della famiglia mafiosa vicina a Messina Denaro. Sei posizioni indagate sono state trasferite alla Procura di Milano che ha chiuso le indagini e dovrà chiedere il rinvio a giudizio o l' archiviazione. In questa storia ciò che conta non è tanto il reato quanto i nomi che ruotano attorno ai trafficanti siciliani. Di Campobello di Mazara sono Giacomo Tamburello, Nicolò Mistretta e l' ex avvocato Antonio Messina. I tre sono considerati i "vertici del sodalizio" vicino a Messina Denaro. Tutti hanno legami stretti con Milano e il suo hinterland. Ad esempio Peschiera Borromeo. Qui, ai tavolini del bar Black and White, l' ex avvocato Messina incontra il narcos Giuseppe Fidanzati, figlio di Gaetano già reggente della famiglia mafiosa dell' Acquasanta a Palermo. Fidanzati, anche lui indagato, parla di una persona chiamata "Iddu" incontrata alla stazione di Trapani. Per gli investigatori "Iddu" si "ritiene essere uno tra Matteo Messina Denaro o il nipote Francesco Guttadauro". Ripartiamo allora dall' autosalone Pegaso di viale Espinasse, già raccontato dal Fatto, e da Luigi Mendolicchio che qui, secondo la Procura di Catanzaro, faceva riunioni per affari di droga. Mendolicchio è indagato anche nel fascicolo siciliano. A lui è contestato un episodio di acquisto. Dalle carte emergono i suoi i legami con i vertici attraverso Massimo De Nuzzo, milanese, e, per come emerge dall' indagine Belgio 2 dei primi anni Novanta, già trafficante vicino alla cosca calabrese dei Di Giovine. Dirà Mistretta a De Nuzzo riferito a Mendolicchio: "Se lo vuoi chiamare ti do il numero che ha lui? Lo devi chiamare da una cabina". I due si incontreranno. Con loro c' è un' altra persona che con il telefono di De Nuzzo parla a Mistretta. Si tratta di Giuseppe Calabrò, detto "u Dutturicchiu", legato alle cosche di San Luca e in rapporti con Mendolicchio. Mistretta e Calabrò (non indagato in Eden 3) pianificano per vedersi. Dirà il calabrese: "Io ora sono a posto, sono libero, e sto qua a Milano". Mendolicchio, secondo i pm di Palermo, rappresenta "l' anello di congiunzione" tra i trafficanti vicini a Messina Denaro e il calabrese Vincenzo Stefanelli (oggi indagato), già coinvolto nel sequestro di Tullia Kauten (1981), legato alle 'ndrine liguri e a Calabrò. Tra gli acquirenti del gruppo siciliano ci sono anche Giovanni Brigante e Andrea De Curtis (indagati dalla Dda di Palermo). Entrambi sono figure note nel milieu malavitoso di Milano. Anche Brigante fu coinvolto nell' indagine Belgio 2. Secondo la Procura acquistava droga direttamente dal clan Di Giovine. Dirà Tamburello a Brigante: "Sappi che ne abbiamo, finito questo c' è pronto l' altro, io devo prendere un po' di soldi () cerchiamo anche contatti grossi". De Curtis, invece, sarà coinvolto nell' inchiesta Terra Bruciata e, secondo i collaboratori Vittorio Foschini e Giustino Fiorino, entrerà nel gruppo del siciliano Biagio Crisafulli detto Dentino, per anni il re di Quarto Oggiaro e in contatto con il gotha della 'ndrangheta lombarda. De Curtis e Tamburello saranno intercettati a discutere di partite di droga "perse". Tra gli acquirenti anche il rapinatore Andrea Sardina arrestato nel 2014 per un colpo da 163 mila euro alla società Valtrans. Durante la rapina Sardina indossava una pettorina della Guardia di finanza. Altro nome è il calabrese Giovanni Morabito. Con lui Tamburello pianifica una partita di 300 chili di hashish. Morabito, per i pm siciliani, è legato "all' articolazione milanese della 'ndrina Morabito" di Africo. Negli anni Novanta frequentava il ristorante Vico Equense ritenuto luogo di ritrovo degli uomini del boss Mimmo Branca legato alla cosca Libri di Reggio Calabria. Davanti al locale nel 1992 fu parcheggiata l' auto usata per l' omicidio di Carmine Carratù. Morabito risulta poi parente del narcotrafficante Leo Talia. In quegli anni Morabito acquistò una casa a Peschiera Borromeo, dove la Dda di Palermo ha fotografato gli incontri tra i trafficanti di Campobello di Mazara e il narcos siciliano Giuseppe Fidanzati. Insomma, nomi, contatti e luoghi di Milano sulle tracce di Matteo Messina Denaro.
Il generale Mario Mori: «Così bruciarono la cattura di Matteo Messina Denaro». Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'11 maggio 2020. L’ex sindaco di Castelvetrano Vaccarino aveva, per conto del Sisde diretto da Mario Mori, intrapreso un contatto epistolare con il superlatitante Matteo Messina Denaro. Dell’operazione in corso ne era messo a conoscenza Pietro Grasso, l’allora capo della Procura di Palermo. Ma una fuga di notizie ha vanificato l’operazione. L’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, è sotto processo con il colonnello dei carabinieri Marco Zappalà e l’appuntato Giuseppe Barcellona, con l’accusa di aver favorito la mafia e in particolare Matteo Messina Denaro. Gabriele Paci, procuratore aggiunto di Caltanissetta, è stato sentito come teste nel processo che si sta svolgendo presso il tribunale di Marsala. Domani sarà la volta dell’ex ufficiale dei Ros, Giuseppe De Donno. Sul Dubbio del 7 maggio scorso abbiamo riportato la deposizione del procuratore Paci, nella quale ha spiegato che la Procura aveva dato la delega al colonnello Zappalà per condurre indagini sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio nelle quali è attualmente imputato il superlatitante Matteo Messina Denaro. Ma, soprattutto, aveva avuto la delega per rapportarsi con l’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, ritenuto fonte affidabile di importanti informazioni. I Pm Guido, Padova e Dessì della procura di Palermo che hanno fatto arrestare gli imputati, tra le altre cose, hanno scritto che, alla luce dei nuovi fatti, nel passato di Vaccarino si coglierebbero «ambiguità, zone d’ombra, dichiarazioni tanto reticenti quanto fuorvianti». A che cosa si riferiscono? Alla sua passata collaborazione con il Sisde per la cattura di Matteo Messina Denaro attraverso dei contatti epistolari. Poi tutta l’operazione si fermò quando ci fu una fuga di notizie e una indagine – poi subito archiviata – della procura di Palermo proprio sul fatto che Vaccarino scrivesse i pizzini al superlatitante firmandosi “Svetonio”, pseudonimo indicato proprio da Matteo Messina Denaro. L’epistolario di “Alessio” (così invece amava firmarsi il super latitante), minuziosamente argomentato, talora orgoglioso e nello stesso tempo strategicamente vittimistico, è pubblico e si trova in un libro reperibile su Amazon. Il super boss esprimeva la condizione di una certa mafia siciliana sospesa tra l’antica fase contadina e quella metropolitana e transnazionale. Ma non solo. Matteo Messina Denaro cita Jorge Amado, scrive che la giustizia è marcia fin dalle fondamenta e dice di pensarla come Toni Negri. Non esita a bollare come «venditore di fumo» chi allora dirigeva il Paese, ovvero Silvio Berlusconi. Addirittura parla di questioni interiori. «Registro – scrive il boss in una delle sue missive – il travaglio interiore di un uomo che ha raggiunto livelli tanto elevati quanto non programmati, che dirige con ferma bacchetta la capacità dei singoli maestri». Segnali quasi di cedimento. Ma poi si riprende rimettendo al centro la sua persona, quasi un avvertimento: «Ancora si sentirà molto parlare di me, ci sono ancora pagine della mia storia che si devono scrivere. Non saranno questi “buoni” e “integerrimi” della nostra epoca, in preda a fanatismo messianico, che riusciranno a fermare le idee di un uomo come me. Questo è un assioma». L’operazione del Sisde parte dai primi di ottobre 2004 fino a una buona parte del 2006 e ed era sotto la dirigenza del generale Mario Mori. Ma tale operazione non era tenuta all’oscuro all’autorità giudiziaria. Ogni volta che c’era un contatto tra Vaccarino e Matteo Messina Denaro, l’allora dirigente del Sisde Mori relazionava il tutto all’allora capo della procura di Palermo Pietro Grasso (ora senatore di Liberi e Uguali). Ma per capire meglio ci affidiamo alle parole dello stesso generale Mario Mori, sentito come testimone il mese scorso al tribunale di Marsala proprio durante il processo di cui è imputato Vaccarino.Alla domanda posta dall’avvocato Baldassarre Lauria che, assieme alla sua collega Giovanna Angelo, difende l’ex sindaco di Castelvetrano, Mario Mori spiega che Vaccarino stesso interessò il Sisde mettendosi a disposizione per una eventuale attività contro Cosa nostra. «Ci fu quindi – racconta Mori – un contatto diretto tra funzionari del servizio da me delegati e il signor Vaccarino, il qual prospettò l’ipotesi di attività in direzione del latitante Matteo Messina Denaro di cui conosceva personalmente anche il suo ambito di riferimento familistico e di amicizie». Il metodo è quello classico che Mori ha sempre adottato anche quando era ai Ros. Non solo catturare direttamente il latitante, ma anche individuare i suoi circuiti di fiancheggiamento e attività imprenditoriali illecite. «Attraverso quindi i contatti che il signor Vaccarino fu sollecitato a prendere nell’ambito delle sue conoscenze dell’entourage di Messina Denaro – spiega sempre Mori –, verso l’ottobre del 2004 arrivò una lettera al Vaccarino tramite un circuito specifico di corrispondenza applicato dal Messina Denaro e dai sui fiancheggiatori». Da lì quindi iniziò lo scambio epistolare che è durato circa due anni. Una operazione che, nonostante poi sia in seguito saltata, ha comunque prodotto dei risultati. Si sono identificate un certo numero di persone, in particolare riuscirono ad ottenere l’individuazione di un imprenditore che era colui che rappresentava gli interessi del superlatitante. Così come l’individuazione di Vincenzo Panicola, il cognato di Matteo Messina Denaro. Ma come mai l’operazione sfumò? È sempre Mori a spiegarlo. «Mentre era in corso questo scambio epistolare – racconta il generale -, nella primavera del 2006 viene catturato Bernardo Provenzano. Nel materiale di cui fu trovato in possesso emersero alcuni pizzini. Uno scambio tra lui e Matteo Messina Denaro, nel quale quest’ultimo segnalava il suo collegamento con Vaccarino». L’attività si fermò, teoricamente solo temporaneamente, perché lo stesso Messina Denaro scrisse una lettera a Vaccarino per dirgli che non poteva al momento più scrivergli visto che avevano arrestato Provenzano. Il generale Mori spiega che si recò da Pietro Grasso, che nel frattempo era diventato capo della Procura nazionale Antimafia, e spiegò la situazione. Grasso poi lo richiamò informandolo che la Procura aveva preso atto dell’importanza della collaborazione di Vaccarino, ma che riteneva di non volerlo trattare come fonte o collaboratore. A quel punto ci fu una fuga di notizie. Il nome di Vaccarino fu pubblicato su alcuni organi di informazione, la Procura di Palermo che, ricordiamo, non era più guidata da Grasso, aprì un’inchiesta su di lui per associazione mafiosa, subito dopo archiviata da ben nove PM di Palermo. L’avvocato Lauria ha posto una domanda ben precisa al generale Mori, ovvero se quell’indagine aperta nei confronti di Vaccarino abbia pregiudicato la cattura di Matteo Messina Denaro. «Se la collaborazione di Vaccarino non fosse stata esplicitata pubblicamente e fosse rimasta riservata, forse lo Sco o qualche altra polizia giudiziaria avrebbe potuto continuare a sfruttare la collaborazione di Vaccarino e raggiungere a migliori risultati». I fatti sono questi. Prima iniziò la fuga di notizie sul ritrovamento del nome di Vaccarino tra i pizzini sequestrati alla dimora di Provenzano il giorno che fu catturato. Poi partì l’indagine della Procura di Palermo ed emerse pubblicamente che Vaccarino collaborava con il Sisde. L’operazione quindi si vanificò. Dopo qualche tempo, esattamente il 2 novembre del 2007, giunge a Vaccarino l’ultima lettera – ma questa volta minacciosa e rabbiosa – di Matteo Messina Denaro. «Non ha neanche da sperare in una mia prematura scomparsa o nel mio arresto – scrive il super boss nella parte conclusiva della lettera – perché qualora accadesse una di queste ipotesi, per lei nulla cambierebbe, in quanto la sua illustre persona fa già parte del mio testamento, ed in mia mancanza verrà sempre qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti, comunque vada lei o chi per lei pagherà questa cambiale che ha forsennatamente firmato. Lei è un essere snaturato che non ha voluto bene neanche alla sua famiglia, si vergogni di esistere».
Catanzaro, gli intrecci tra Lardieri e il generale Mariggiò e l’arresto del maresciallo Greco. Da Iacchite l'1 Marzo 2020. E’ da qualche tempo ormai che sono emersi clamorosi sviluppi dalle vicende che riguardano l’arresto del maresciallo dei carabinieri forestali Carmine Greco detto Carminuzzo, avvenuto nel luglio 2018 ed eseguito su disposizione della Dda di Catanzaro. Partiamo dal fatto che il fedelissimo del procuratore Gratteri, il capitano dei carabinieri Gerardo Lardieri, non ha stanato, scoperto o snidato il maresciallo Greco, come si è creduto per parecchio tempo: la realtà dei fatti è un’altra. Carmine Greco teneva sotto scacco diverse persone tra carabinieri forestali ed alti funzionari di Calabria Verde, per aver scoperto una serie di mazzette ed estorsioni finalizzate alla concessione delle autorizzazioni per il disboscamento selvaggio della Sila cosentina e crotonese. Alcuni mesi prima del suo arresto, Carmine Greco litiga verbalmente con Gaetano Gorpia, colonnello dei carabinieri forestali di Cosenza. Secondo quanto riferiscono molte fonti, lo avrebbe sputtanato davanti a tutti per le sue malefatte ed i soldi che avrebbe intascato per le concessioni rilasciate riguardo il taglio dei boschi. Da allora inizia una faida intestina tra carabinieri forestali: Gorpia e la sua banda da un lato e Carmine Greco dall’altra. Gorpia corre ai ripari, informa Calabria Verde dell’accaduto con il Greco, e che quest’ultimo ha atti e prove in mano per fare esplodere una “bomba”. Il tutto avviene durante la famigerata operazione Stige condotta dalla Direzione Antimafia di Catanzaro, ma di tali fatti non vi è traccia negli atti processuali né ci sono intercettazioni telefoniche perché fino a quel momento il maresciallo Carmine Greco è ancora un illustre sconosciuto.
Il Generale Mariggiò. Il commissario straordinario di Calabria Verde, l’ex generale dei carabinieri Aloisio Mariggiò, tramite il comandante della Regione Carabinieri Calabria, convoca il ben noto capitano Gerardo Lardieri, all’epoca comandante del Noe calabrese, ed intima allo stesso di svolgere attività intercettiva nei confronti di Carmine Greco, servendosi proprio del colonnello Gorpia. In molti riferiscono che il Lardieri, fino ad oggi, non è mai stato in grado di sviluppare indagini di polizia giudiziaria di sua iniziativa. Il suo forte – affermano molte fonti – è fare il copia e incolla dei verbali dei collaboratori di giustizia e poi acquisire atti di polizia giudiziaria presso i Comandi dell’Arma dove è stato commesso il reato. In sostanza fare quadrare i conti con quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia. Arriviamo così ai primi incontri tra il Lardieri ed il Gorpia. Tanto per mettere in chiaro le cose: a Lardieri di Gorpia non gliene fregava un tubo. Al Lardieri era stato soltanto ordinato dalla Dda di Catanzaro di fare in modo di arrestare il Greco per screditare le indagini che lo stesso svolgeva su delega della procura di Castrovillari, per poi screditare, successivamente, la professionalità del procuratore Facciolla, notoriamente inviso ai poteri forti della Dda di Catanzaro. Di conseguenza, Gerardo Lardieri scriveva sotto dettatura e Gaetano Gorpia firmava i verbali senza neanche leggerne il contenuto.
Il maggiore Gerardo Lardieri. Dopo avere fatto arrestare Greco con l’ausilio determinante di prove artefatte, il Lardieri, su input dei magistrati della Dda di Catanzaro, ha continuato a fare accertamenti per fornire le prove affinché la procura di Salerno potesse ottenere una richiesta di misura cautelare nei confronti del procuratore di Castrovillari. A questo punto, è quasi spontaneo chiedersi: la procura di Salerno sa che dopo le false accuse artefatte dal Lardieri e firmate dal Gorpia, i due non parlavano più telefonicamente e si incontravano a Catanzaro o a Cosenza temendo di essere intercettati? La procura di Salerno sa che il Lardieri, nel corso delle festività di Capodanno, in cambio del favore ha preteso le migliori suite in località Cupone nella Sila cosentina per trascorrere le festività, unitamente a gentaglia istituzionale come lui? E non è finita qui: sapete perché a Reggio Calabria in un processo penale per falsa testimonianza e favoreggiamento alla ‘ndrangheta lui è stato assolto ed il colonnello Giardina condannato? E’ di dominio pubblico: Lardieri intratterrebbe una relazione con una nota giudice dell’Ufficio GIP/GUP di quel Tribunale.
Gratteri e Pignatone. All’epoca, il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria e l’aggiunto erano Pignatone e Prestipino. Una mattina un maresciallo in servizio al Ros di Catanzaro si presenta al suo comandante e chiede di essere accompagnato dal procuratore capo, cioè il dottor Pignatone. Giunto al cospetto del predetto magistrato e del suo aggiunto, riferisce di avere avuto una notizia confidenziale che da lì a qualche giorno nel territorio di Sinopoli (RC) avrebbe trovato ospitalità il latitante Matteo Messina Denaro, in quanto bisognoso di terapie mediche presso una clinica di Villa San Giovanni. Pignatone e Prestipino ammoniscono il soggetto e il comandante del Ros che quella notizia non doveva essere portata a conoscenza di altri magistrati della procura. Sicuramente avevano fiutato che le notizie sulla cattura dei latitanti, nonostante fossero localizzati attraverso intercettazioni e attività tecniche, venivano comunicate ai Servizi Segreti ed attraverso la trasmissione della cosiddetta velina arrivavano milioni di euro poi divisi tra pochi. Il maresciallo mantiene la promessa fatta ai due magistrati, mentre il comandante del Ros avvisa subito Lardieri e lo manda ad informare Gratteri. Sarebbe stato un peccato perdere i soldi della taglia pendente su Matteo Messina Denaro. Gratteri allora avrebbe delegato verbalmente il Lardieri ed alcuni uomini di sua fiducia, a battere i territori di Sinopoli e Santa Eufemia d’Aspromonte per avere notizie certe ed intervenire, senza notiziare il procuratore capo o l’aggiunto di Reggio Calabria, visto che c’erano in ballo fior di milioni di euro ed era un peccato perderli. Sta di fatto che la presenza del Lardieri in quei territori a far domande circa un eventuale arrivo del Messina Denaro, costringe il capocosca degli Alvaro di Sinopoli ad inviare una “colomba bianca” (emissario) in Sicilia per annullare il soggiorno in Calabria in quanto i “mignu” (carabinieri) sapevano tutto. Principalmente hanno messo a rischio la vita del delatore e del maresciallo. Ma oltre il danno è arrivata anche la beffa: Matteo Messina Denaro è ancora uccel di bosco. La fratellanza tra ‘ndrangheta e mafia palermitana, del resto, ha origini lontane. La mafia siciliana per depistare l’omicidio del Generale Dalla Chiesa, fornì notizie confidenziali indicando un appartenente agli Alvaro di Sinopoli, che grazie ad un alibi di ferro, venne arrestato e successivamente scarcerato per non aver commesso il fatto. Ormai è storia… Alla prossima.
Catanzaro, guerra tra procure. Le intercettazioni che scottano. Da Iacchite l'11 Maggio 2020. Se dovessimo sintetizzare in tre righe la rovente guerra dei magistrati del Distretto di Catanzaro potremmo scrivere che altro non è che un tentativo di copertura e distruzione di intercettazioni telefoniche regolarmente autorizzate dai Gip del Tribunale di Castrovillari. Perché ci sono intercettazioni che scottano e fanno tremare i palazzi del potere. Nelle predette intercettazioni ci sono parecchi “pezzi grossi” e tanto stato deviato. E c’è da precisare che un capitolo a parte va aperto per l’indagine sulla scalata – con annesso riciclaggio di denaro sporco e finanziamento illecito al Pd – de iGreco al Gruppo Novelli in Umbria, coordinata dalla procura di Castrovillari. Pure in questo caso con intercettazioni più che scottanti e che i soliti noti stanno cercando di “neutralizzare” in tutte le maniere. Anche quella di cui parliamo oggi, tuttavia, è una storia che vede protagonisti molti carabinieri e politici, oltre al solito Luberto e ai suoi compari iGreco. Si va dal capitano Lardieri, il fedelissimo di Gratteri, al generale dell’Arma in pensione Mariggiò, commissario “mascherato” di Calabria Verde, e si continua con il colonnello dei carabinieri forestali di Cosenza Gorpia e con l’immarcescibile generale Graziano, oggi di nuovo consigliere regionale, planando poi sulla classe politica: dalla Santelli ad Ennio Morrone, per finire – appunto – con la premiata ditta iGreco, Luberto&Aiello e c’è chi dice che ci sarebbe anche lui, Gratteri. Ovviamente perché “tirato per la giacca” dalla cricca che avrebbe voluto continuare a tessere la sua tela. Più di un magistrato della Dda di Catanzaro quasi quotidianamente aveva contatti telefonici con iGreco, in particolare con la sindaca sospesa di Cariati, e compare quale intermediaria anche la moglie del famigerato Luberto. Addirittura la sindaca paramafiosa un giorno, infastidita perché Gratteri non rispondeva al telefono, chiama un altro magistrato della Dda e questi le fornisce un numero riservato non di servizio. A chi era intestato questo numero riservato? Non è dato sapere, il pm di Castrovillari Luca Primicerio non è interessato a intercettare quel numero. Eppure grazie a questo stesso decreto di intercettazione vengono disposti arresti e sequestri nei confronti di Saverio e Filomena Greco. Qualcuno avvisa il corrottissimo Luberto di quello che ha in mano e che sta accertando la procura di Castrovillari. A Catanzaro, il braccio destro di Gratteri si sente braccato: addio cene con iGreco, con Lotti, Morra, e il Gattopardo del porto delle nebbie. Bisogna passare al contrattacco, bisogna distruggere costi quel che costi il procuratore di Castrovillari che ha in mano le intercettazioni dei colletti bianchi. L’alta magistratura “democratica” degli uffici che contano a Roma, sposa la tesi di Gratteri. Ma a questo punto sorge un ulteriore ostacolo: bisogna eliminare pure il procuratore Lupacchini perché se avoca a se il fascicolo di Facciolla sono cavoli amari per tutti. Ed effettivamente, come da copione, avviene pure il trasferimento di Lupacchini, facilitato da un’intervista che diventa il casus belli ufficiale. Ma il vero problema sta in quelle intercettazioni, che fanno parte dei procedimenti penali relativi agli arresti dell’ingegnere Caruso, del dottore Procopio e di Antonio Spadafora. Del fascicolo processuale Alimentitalia de iGreco. Del fascicolo processuale per indagini sugli incendi boschivi delegato ai carabinieri forestale di Trebisacce e a personale della sezione della Polizia Giudiziaria Aliquota Carabinieri di Castrovillari. Questi ultimi sono i veri protagonisti di tutto questo gran casino, che ad un certo punto è diventato il classico vaso di Pandora. Per gli appassionati del rito giuridico, si tratta di notizie già agli atti dei fascicoli processuali predetti, quasi tutti trasferiti alla Dda di Catanzaro, che sta cercando in tutti i modi di correre ai ripari. Per gli appassionati della Santelli (c’è sempre chi ha il gusto dell’orrido, dicono che fa tendenza…), vi basti sapere che c’è un ampio repertorio dei suoi intrallazzi con il solito Luberto, soprattutto sul Tirreno per salvare Mario Russo ma anche su Cosenza per proteggere Mario Occhiuto. Ormai è storia.
· Chinnici e la nascita del Maxi processo.
“La politica vuol mettere la museruola alla magistratura”. Parola di Scarpinato. Il Dubbio il 29 luglio 2020. Il Procuratore Generale di Palermo Roberto Scarpinato non ha dubbi: la politica è all’attacco della magistratura: “Il vero cambiamento avverrà dall’interno della magistratura o non avverrà”. “La politica vuole mettere la museruola alla magistratura”. Ne è convinto il Procuratore Generale di Palermo, Roberto Scarpinato a margine della commemorazione del giudice Rocco Chinnici, ucciso dalla mafia il 29 luglio 1983, parlando del caso Palamara. “Il vero cambiamento – ha poi spiegato Scarpinato – avverrà dall’interno della magistratura o non avverrà” E alla domanda dell’Adnkronos se il Governo sta facendo bene sul fronte della giustizia, il magistrato che replicato: “Certamente il punto di partenza è la sfida ineludibile e una capacità di autoriforma della magistratura. In ogni caso dobbiamo verificare quali sono i progetti di legge”. Per quel che riguarda l’omicidio Chinnici, Scarpinato ha detto che “bisognerebbe rileggere la sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta che ha condannato gli assassini di Rocco Chinnici perché lì è stata raccontata, purtroppo, una storia ancora poco conosciuta ed è la storia di un magistrato che non è stato ucciso soltanto dai soliti Riina o Brusca ma è stato ucciso dai colletti bianchi”. “La morte di Chinnici arrivò quando decise di alzare il livello dell’indagine oltre la mafia militare e si rese conto che i cugini Salvo erano l’anello di congiunzione fra la mafia militare ed il mondo economico e politico – dice – Dal quel momento, come descritto dalla sentenza, ci sono tutta una serie di tentativi di avvicinarlo. Attraverso amici di famiglia, attraverso vertici della polizia, attraverso vertici del palazzo di giustizia”. E ancora: “Chinnici dice a Falcone che poi lo riferirà al Consiglio superiore della magistratura che pensa che dentro il palazzo di giustizia c’è qualcuno che vuole la sua morte e per questo comincia a scrivere il suo diario segreto. Ecco, un omicidio maturato nel mondo dei colletti bianchi, commissionato dal mondo dei colletti bianchi, un omicidio di famiglia della borghesia mafiosa che ha governato questo paese”.
Scarpinato: “La politica mette museruola ai Pm”. Ma intanto lui prova a metterla ai giornalisti…Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Agosto 2020. Commemorando Rocco Chinnici – valoroso magistrato palermitano ucciso dalla mafia 37 anni fa, alla fine di luglio – il Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ha polemizzato, come ogni tanto gli succede, contro la politica che cerca sempre, secondo lui, di mettere la museruola ai magistrati. Ricopio alcune delle frasi che ha pronunciato Scarpinato, riprese dalle agenzie di stampa: «Un mondo politico che da tempo ha interessi a mettere la museruola alla magistratura (…) a subordinare la magistratura al potere esecutivo». «Il vero cambiamento nella magistratura avverrà all’interno della magistratura o non avverrà (…) occorre una autoriforma». Mi ha colpito questo discorso di Scarpinato, per due ragioni. Innanzitutto perché trovo improprio paragonare questi tempi a quelli (anche se non sono sicurissimo dell’intenzione di Scarpinato, che è vecchio quanto me, di paragonare oggi e ieri). Comunque lo si fa spessissimo, nella corrente polemica politica italiana. Basta pensare a un magistrato al quale sono particolarmente legato, come Nicola Gratteri, che ama accostare la sua figura a quella di Falcone. È un errore, perché in questo modo si violenta la storia. E ai giovani si consegna una idea paludata e distorta di quella che fu la battaglia contro la mafia negli anni di Chinnici e Falcone. Combattere la mafia, o più semplicemente indagare sulla mafia, trenta o quarant’anni fa era un’impresa temeraria. Ci si lasciava la pelle. Oggi ti applaudono: i giornali, i politici, ti chiamano in Tv, ti onorano. In quegli anni di fuoco ti tiravano tutti addosso, ti lasciavano solo, ti mettevano il silenziatore, ti esponevano a tutte le vendette. I magistrati, e anche i politici impegnati, e anche i giornalisti, cadevano come mosche. Chinnici, Costa, Terranova, e poi Dalla Chiesa, che era un carabiniere, De Mauro, che era un giornalista, e tanti leader della Dc e del Pci, sindacalisti, preti. I giornalisti che si occupavano di mafia erano pochi ed emarginati. Quelli de l’Unità, di Paese Sera, de l’Ora di Palermo. Pochi altri. I grandi giornali dubitavano persino che la mafia esistesse. Oggi le cose sono cambiate abbastanza; un giornalista che vuole un po’ di spazio sul palcoscenico ha bisogno della patente antimafia, e per ottenerla deve convincere un magistrato a concedergliela, o una delle tante associazioni ufficiali, o i 5 Stelle, o la Bindi. Gli stessi Pm fanno a gara per ottenere il timbro di antimafia sulle loro inchieste, sennò le inchieste valgono poco ed è anche più difficile portarle a termine, perché non si può ricorrere a tutti quegli strumenti che rendono le indagini più facili (trojan, intercettazioni, carcere duro, pentiti eccetera). Pensate a “mafia capitale”, un giro di tangenti spacciato per il regno di Luciano Liggio. Conviene fare così: poi in Cassazione te lo smontano, ma intanto è andata. È una cosa molto scorretta, dal punto di vista politico e storico, accostare l’antimafia da operetta di oggi a quella feroce ed eroica dei primi quattro decenni del dopoguerra. La seconda ragione per la quale mi ha colpito questo intervento di Scarpinato è la parola «museruola». Mi sono chiesto: cosa intende per museruola Scarpinato? Qualcuno può citarmi delle inchieste avviate dalla magistratura e bloccate dalla politica? Può anche darsi che ci siano, ma io non le conosco. I principali partiti di governo di questi ultimi 25 anni, eccetto i 5 Stelle, sono stati tartassati dalle inchieste giudiziarie. Decine di esponenti politici sono stati azzerati e poi magari risultati innocenti. Alcuni partiti sono stati dimezzati. Silvio Berlusconi è stato messo sotto inchiesta quasi cento volte. Dov’era la museruola? E con che mezzo veniva applicata? L’ultima inchiesta su mafia e intrecci con il potere politico ed economico che io ricordi, e che è stata archiviata, è quella su mafia e appalti, avviata da Falcone e Borsellino, condotta dal generale Mori e poi archiviata dalla Procura di Palermo. Siamo all’inizio degli anni Novanta. Falcone e Borsellino finirono uccisi, il generale Mori è vivo ma lo hanno messo quattro volte sotto processo, tre volte è stato assolto, la quarta è ancora in corso. Ha ragione Scarpinato, forse, in questo caso – ma è un caso di molti anni fa – può darsi che in quella occasione la politica premette per mettere la museruola. Io non posso saperlo. Scarpinato invece può saperlo, perché fu lui a firmare la richiesta di archiviazione di quella inchiesta, appena pochissimi giorni prima della morte di Borsellino, che invece chiedeva che quella inchiesta gli fosse assegnata. Se in quel caso ci sono state pressioni, allora Scarpinato dovrebbe denunciarle. Dire: questi esponenti politici, questi partiti, questi imprenditori ci hanno chiesto di farla finita. Altrimenti non capisco a quale altra inchiesta possa riferirsi. Comunque la questione della museruola mi lascia molto perplesso anche per un’altra ragione. Insieme al mio amico Damiano Aliprandi, quando lavoravamo per il quotidiano Il Dubbio, scrivemmo alcuni articoli proprio sull’inchiesta mafia e appalti. Argomento interessantissimo. Specialmente in relazione alla morte di Borsellino. Perché nel processo in corso a Palermo, contro il generale Mori, si sostiene che Borsellino fu ucciso per dare spazio alla trattativa Stato-Mafia. L’impressione mia e di Damiano era invece che il motivo fosse l’altro: bloccare il dossier mafia e appalti. Non so chi abbia ragione. So che in quegli articoli domandammo proprio a Scarpinato di spiegare il perché della decisione di chiedere l’archiviazione (concessa poi, molto rapidamente, alla vigilia di Ferragosto di quello stesso anno: stiamo parlando del 1992). Scarpinato però non ci rispose, anzi ci querelò. Cioè chiese ai suoi colleghi giudici di processarci e di condannarci. Siamo stati rinviati a giudizio. Il processo è in corso, la pena massima prevista con tutte le aggravanti (se critichi un magistrato la pena aumenta di un terzo) può arrivare a sette anni. Ed essendo io un anziano signore di quasi settant’anni, vi dirò che mi secca parecchio l’idea di dover restare in prigione fino alla vigilia degli ottant’anni per aver fatto una domanda al dottor Scarpinato. (Per Damiano è diverso: lui ha poco più di trent’anni e a quaranta sarà fuori e potrà rifarsi una vita. Magari diventerà cancelliere…). E allora qui mi torna nelle orecchie quella parolina: museruola, museruola. Sapete, io colleziono querele di magistrati. Qualche nome? Scarpinato, appunto, Lo Forte, Gratteri, Di Matteo, Davigo (due volte), un altro membro del Csm che si chiama Marra, e poi naturalmente l’ex giudice Antonio Esposito e qualcun altro che adesso non ricordo. Voi sapete che se ti querela un politico puoi stare tranquillo, perché al 90 per cento vinci. Se ti querela un imprenditore vinci uguale. Se ti querela un magistrato le possibilità di non perdere sono tra l’1 e il 2 per cento. Più probabile l’1. A prescindere da quello che hai detto o scritto. Perché i magistrati querelano chi li critica? Non è difficile da capire: per intimidire. Peraltro ci riescono facilmente. L’idea è che la magistratura, per svolgere serenamente il proprio lavoro, per non dover sottostare alle pastoie dell’eccessivo garantismo, deve essere protetta dalle critiche. Capisco persino qual è il senso di questa idea (e capisco che possa essere ispirata da un modo un po’ contorto di coltivare il proprio senso del dovere). Su una cosa però non ho dubbi: nulla lede la libertà di stampa più di questa continua, incessante, opprimente attività intimidatoria e vessatoria di alcuni magistrati. Contro la quale non ci sono difese. O accetti la museruola, guaisci un po’ e poi ti inchini, o loro non ti mollano più.
Dossier mafia e appalti. Scarpinato mi porta a processo, ma contro Costituzione sarà a porte chiuse…Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Lunedì, ad Avezzano, inizierà un processo nel quale io sono imputato insieme al mio amico e collega Damiano Aliprandi, del Dubbio. Il processo è per diffamazione. I diffamati – i presunti diffamati – sono due magistrati famosi: Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte. Scarpinato è il Procuratore generale di Palermo, è un personaggio televisivo noto, è un commentatore piuttosto abituale del Fatto Quotidiano. Lo Forte è in pensione, ma è stato un Pm famoso anche lui. Damiano e io siamo accusati di aver chiesto conto dell’archiviazione del dossier mafia e appalti, proposta da Scarpinato e Lo Forte. Tra qualche riga proverò a spiegare meglio i termini della questione, prima però devo dirvi della decisione della Corte di Avezzano di “secretare” – se mi passate questo termine – l’udienza. Cosa è successo? Radio Radicale – come fa spesso – ha chiesto l’autorizzazione a seguire il processo e mandarlo in onda, rendendo in questo modo vivo il principio costituzionale della pubblicità del dibattimento. A Radio Radicale questa autorizzazione è sempre stata concessa. Stavolta invece il giudice ha deciso di vietare la trasmissione via radio. Perché? La motivazione è il Covid. Francamente non si capisce cosa c’entri il Covid. L’impressione – magari mi accuserete per questo di “sospetteria molesta” – è che Scarpinato abbia diritto a un processo riservato. Lasciamo stare la mia posizione di imputato, che mi pare ormai largamente compromessa. Provo ad esaminare la situazione da giornalista e da osservatore. Ci sono due magistrati molto celebri che accusano due giornalisti fastidiosi di essersi occupati di cose che non li riguardano. E li querelano. Ci sono un Gip e un Gup che danno ragione ai propri colleghi, anche se nessuno può capire in cosa consista la diffamazione (ammenochè, a sorpresa, non si scopra che l’archiviazione non è stata mai chiesta e ottenuta). E ora si svolge un processo – un pochino surreale – nel quale è evidente la ragione dei due giornalisti ma è anche evidente il fatto che – chiunque conosca queste cose ve lo può confermare – le possibilità che dei magistrati perdano una causa contro dei comuni cittadini, o addirittura dei giornalisti, sono vicine allo zero. È un fatto statistico. Se poi questi magistrati sono famosi, potenti, ben inseriti nel meccanismo delle correnti, coccolati dal sistema dei media più importanti, a partire dal Fatto e da alcune Tv, le possibilità per i poveri imputati di non soccombere svaniscono del tutto. Ora vi racconto bene in cosa consiste questo processo. Esisteva, tanti anni fa, il famoso dossier mafia-appalti. Era una super-inchiesta sulla mafia, avviata da Giovanni Falcone, condotta dai Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori, e che avrebbe dovuto finire nelle mani di Paolo Borsellino. Questa inchiesta, realizzata all’inizio degli anni Novanta, stava scoprendo tutti i legami tra la mafia siciliana e una rete di imprese e di potenze economiche del continente. Falcone ci teneva moltissimo. Anche Borsellino, che aveva cercato in tutti i modi di potersene occupare e che – poche settimane prima di morire – pare che avesse ottenuto la possibilità di essere effettivamente incaricato di seguire l’inchiesta. Borsellino riteneva che questo dossier fosse fondamentale. Anche Antonio Di Pietro, da Milano, ne aveva sentito parlare ed era molto interessato e ne aveva discusso con Borsellino. Benissimo. Arriviamo al luglio del 1992. Seguite le date. Giovanni Falcone, che aveva dato il via al dossier, viene ucciso il 23 maggio. Non è escluso che il dossier possa essere stato la causa della sentenza di morte emessa da Cosa Nostra contro Falcone. Il 13 luglio Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, improvvisamente, firmano la richiesta di archiviazione del dossier-Mori. Il 14 luglio – cioè il giorno dopo – il Procuratore di Palermo, Giammanco, convoca una riunione con tutti i sostituti e gli aggiunti, per discutere di varie questioni. C’è pure Borsellino. Scarpinato non c’è. Borsellino chiede notizie del dossier, esprime il dubbio che sia in corso una sottovalutazione del lavoro dei Ros, accenna al fatto che un pentito sta parlando, chiede una riunione ad hoc nei giorni successivi. Nessuno sa – o dice – che è stata già firmata la richiesta di archiviazione. 19 luglio: la mattina molto presto Giammanco telefona a Borsellino. Secondo la testimonianza della moglie di Borsellino, gli assicura che avrà lui la delega per seguire il dossier. Alle due del pomeriggio Borsellino viene ucciso e la sua scorta sterminata. Tre giorni dopo, il 22 luglio, la richiesta di archiviazione del dossier viene formalmente depositata. L’iter è velocissimo: il 14 agosto, giorno nel quale da due o tre secoli la Procura non ha mai lavorato, avviene l’eccezione: qualcuno lavora e l’archiviazione è accolta e definitiva. Il dossier scompare. Voi capite che questa vicenda è molto inquietante. Anche perché se non abbiamo sbagliato qualcosa in questa ricostruzione, è ragionevole il dubbio che la vera ragione dell’uccisione di Borsellino sia stato il suo interesse per il dossier-Mori. Ipotesi diametralmente opposta a quella che viene sostenuta nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato -Mafia, nella quale – paradossalmente – Mori, cioè il carabiniere di fiducia prima di Dalla Chiesa e poi di Falcone e Borsellino, è imputato, e la tesi è che Borsellino sia stato ucciso perché sapeva della trattativa e voleva fermarla. Ha un qualche interesse il confronto tra queste due tesi? Ha un qualche peso il fatto che la prima tesi sia supportata da molti elementi certi? Damiano e io avevamo posto queste domande, e chiesto a Scarpinato e Lo Forte perché avessero archiviato. Non ci hanno risposto: ci hanno querelato. E la querela, come vi ho già detto, è approdata a un vero e proprio processo che si svolgerà, di fatto, a porte chiuse, in violazione della Costituzione. Beh, ammetterete che la lezione da trarre è triste e chiara. In Italia esiste la libertà di stampa ma ha un limite invalicabile: la critica alla magistratura. O almeno, la critica a quel pezzo potente di magistratura che, solitamente, noi chiamiamo il partito dei Pm. Quella non è ammessa. È vilipendio, è lesa maestà.
Borsellino e verità nascoste: “Mafia e appalti” al tribunale di Avezzano. ESCLUSIVO - Improvvida querela per diffamazione rischia di squarciare alcuni dei misteri sulla morte di Paolo Borsellino. Polemica su pubblicità delle udienze: tribunale di Avezzano nega la diretta del processo su Radio radicale. Angelo Venti su Site.it il 20 Ottobre 2020. Si è tenuta ieri al Tribunale di Avezzano la prima udienza che vede come imputati per diffamazione a mezzo stampa i giornalisti Damiano Aliprandi e Piero Sansonetti de Il Dubbio. I presunti diffamati sono due magistrati di peso: il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, ora in pensione. Il processo è finito al tribunale di Avezzano per competenza territoriale poichè la testata, diffusa prevalentemente via internet, edita anche 8mila copie cartacee stampate in una rotativa di Carsoli. Un processo che farà discutere: al centro degli articoli incriminati l’archiviazione del dossier “Mafia e appalti“. Il tribunale marsicano nega la diretta del processo su Radio radicale. Di seguito la video intervista integrale rilasciata in esclusiva a SITe.it dall’avv. Simona Giannetti, difensore dei due giornalisti querelati.
Intervista esclusiva all’avv. Simona Giannetti, difensore dei giornalisti querelati.
La querela. I due imputati – il primo come autore degli articoli e il secondo come direttore responsabile della testata – sono stati querelati per una inchiesta giornalistica composta da una serie di articoli in cui si trattava del “dossier mafia e appalti”, frettolosamente archiviato proprio a cavallo della morte del giudice Borsellino, ucciso dalla mafia a Palermo nel luglio del ’92. E’ una vicenda inquietante. Se i due giornalisti non hanno sbagliato qualcosa nella loro ricostruzione, è ragionevole il dubbio che la vera ragione dell’uccisione di Borsellino potrebbe essere stata il suo interesse per questo dossier. Una tesi, questa, opposta a quella sostenuta nel processo sulla cosiddetta Trattativa Stato -Mafia, secondo la quale Borsellino sia stato ucciso perché sapeva della trattativa e voleva fermarla. Ha un qualche interesse il confronto tra queste due tesi? Effetto boomerang? In vista del processo, i due giornalisti hanno svolto delle indagini difensive. E arriva il colpo di scena. Nelle loro ricerche hanno recuperato i verbali delle audizioni dei Pm di Palermo, convocati tra il 28 e il 31 luglio ’92 dal Consiglio superiore della magistratura, che voleva capire cosa stesse succedendo in Procura intorno alla morte di Borsellino. Verbali che ora sono stati depositati al tribunale di Avezzano dall’avv. Simona Giannetti, difensore dei due giornalisti imputati.
Dai verbali di queste audizioni – a quanto pare mai cercati prima – emergono alcuni aspetti inediti e forse di fondamentale importanza. A suscitare un particolare interesse sono i passaggi relativi a una riunione convocata dal procuratore Giammanco il 14 luglio 1992 – cinque giorni prima dell’uccisione di Borsellino – per trattare di alcune indagini: “mafia e appalti, ricerca latitanti, racket delle estorsioni”. Secondo le dichiarazioni di alcuni dei Pm auditi dal Csm e messe a verbale, da quella riunione sarebbe emerso anche il forte interesse di Borsellino per il dossier Mafia e appalti e il suo malcontento per le modalità con cui era stata gestita l’indagine. Il 23 luglio, appena 3 giorni dopo la morte di Borsellino, proprio per quell’indagine fu invece depositata la richiesta di archiviazione.
Radio radicale. Paradossalmente, il processo incardinato ad Avezzano proprio su denuncia dei Pm Scarpinato e Lo Forte, potrebbe ora contribuire a fare chiarezza su alcuni aspetti, non di poco conto, della vicenda che ha portato alla morte di Paolo Borsellino. Non è quindi un caso che Radio radicale, che ha seguito e messo in onda tutti i più importanti processi di mafia tenutisi in Italia, ha chiesto l’autorizzazione a registrare e trasmettere via radio tutte le fasi di questo di processo. Il tribunale di Avezzano, al momento, ha negato tale autorizzazione. E, per dirla tutta, si è tentato anche di impedire anche a site.it la presenza, prima sostenendo che si trattava di una camera di consiglio e poi invocando le misure anti covid 19: ovviamente, come unico giornalista presente in una udienza che deve essere pubblica, non si è abbandonata l’aula.
Tribunale di Avezzano, primo round. Ieri, lunedì 19 ottobre, si è tenuta la prima udienza dibattimentale al Tribunale di Avezzano: Giudice Daria Lombardi, pubblico ministero Lara Seccacini. A rappresentare le parti civili, i magistrati Scarpinato è Lo Forte, l’avv. Ettore Zanoni dello studio Smuraglia, mentre l’avv. Simona Giannetti difendeva i due giornalisti imputati, Aliprandi e Sansonetti. Strano ma vero, l’udienza è iniziata con l’accertare se si trattasse o meno di Camera di consiglio oppure no: l’intenzione era di tenere fuori pubblico e stampa? L’avvocato della difesa ha poi presentato una serie di eccezioni. Innanzitutto contro il divieto del tribunale alla registrazione delle udienze da parte di Radio radicale: sul punto, per inciso, non si è opposto nemmeno l’avvocato di parte civile. Altra eccezione avanzata dall’avv. Giannetti è sulla competenza territoriale del tribunale di Avezzano a trattare questo processo. Per la difesa, Il Dubbio è una testata diffusa prevalentemente via internet e solo successivamente vengono stampate le copie cartacee nella tipografia di Carsoli, quindi il giudice naturale non sarebbe quello di Avezzano ma dove risiede il server della testata. In particolare, l’avvocato difensore si è soffermato anche su eventuali profili di nullità del capo d’imputazione, giudicato troppo generico: non sarebbero state indicate con precisione le frasi ritenute diffamanti e, trattandosi di una inchiesta giornalistica composta da 8 articoli, sarebbe quindi impossibile difendersi nel merito. Il Pm Seccacini ha ribattuto alle eccezioni avanzate dalla difesa. Sulla pubblicità del processo, per il Pm “esiste la deroga a tale principio causa Covid” e ha respinto anche le .eccezioni sulla competenza territoriale. Sulla genericità delle accuse, la Seccacini ha risposto che “l’ampiezza e la complessità dei fatti non consente al Pm di formulare in breve il capo d’imputazione”. Il giudice Daria Lombardi si è riservata la decisione nel merito e ha fissato la lettura delle determinazioni assunte alla prossima udienza che si terrà il 30 ottobre 2020.
Da Gaetano Costa a Rocco Chinnici. La Repubblica il 9 luglio 2020. Proprio con riferimento all’omicidio del Dr. Costa appare opportuno richiamare le dichiarazioni rese dal consigliere istruttore Rocco Chinnici nel corso della seduta del 25/2/1982 dinanzi alla prima Commissione referente del C.S.M.(cfr.all.7, ord.27/11/1998, integr.fasc.dib.): "La morte di Costa mi ha veramente scioccato perché Costa era da appena due anni a Palermo e fu ucciso quando, presa coscienza di quello che era veramente l’ambiente palermitano, incominciò ad indirizzare un’azione veramente efficace nei confronti della mafia, Costa è stato ucciso per avere voluto compiere il proprio dovere di magistrato. Io ho nei confronti di Costa un ricordo di affetto e anche di rabbia per l’uccisione, perché lì la mafia, in quell’omicidio, ha dimostrato tutta la sua efferatezza, la mancanza di umanità e soprattutto la criminalità, con Costa".
"Palermo, in genere è una città sonnolenta: là gli Uffici Giudiziari - salvo la Procura perché interessata e un po’ l’Ufficio Istruzione perché indirettamente interessato - non si occupano di queste cose. I colleghi del civile, beati loro, e quelli del dibattimento queste cose non le seguono. Qualche collega che è andato via dall’Ufficio Istruzione ha detto: “io sono ritornato a vivere” con ciò nessuno vuole fare l’eroe o la vittima. L’Ufficio Istruzione ha quattro magistrati che si occupano veramente dell’Ufficio Istruzione, dei grossi processi e ci si preoccupa di lavorare e di portare avanti le istruzioni, questa è la verità sacrosanta. Non ho parlato mai con nessuno, salvo ieri con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che sono i giudici impegnati molto vicino a me, del fatto che ero stato convocato, anche per ragioni di sicurezza perché io sono venuto qua e non viaggio come Rocco Chinnici ma con un altro cognome".
"Di fatto giudici ai quali posso affidare questo tipo di processi (e con ciò non voglio creare giudici di serie A e giudici di serie B) debbo dire che ho soltanto 2 o 3 al massimo giudici ai quali posso affidare questo tipo di processi perché ho un notevole carico di questo tipo di processi".
Dal verbale dell’audizione del consigliere Chinnici emerge chiaramente uno spaccato dell’ambiente palermitano come "sonnolente", sonnolenza che pare avesse contrassegnato anche gli ambienti giudiziari distintisi per una scarsa incisività. L’avvento del Procuratore della Repubblica Dr. Gaetano Costa, circondato da una certa diffidenza("ma con tanti magistrati palermitani proprio a lui dovevano mandare" cfr.aud.C.S.M.) perché estraneo all’ambiente palermitano, ma diffidente anche lui, uomo intelligente e soprattutto osservatore, che cercava di penetrare un pò in quello che era anche l’ambiente giudiziario del palazzo di giustizia che a lui era completamente sconosciuto, segnò una svolta nella gestione di quell'ufficio requirente, anche sotto il profilo di un rinnovato e significativo impulso alle indagini patrimoniali delegate alla Guardia di Finanza. Nel maggio del 1980 il Dr. Costa manifestò la sua vera vocazione contro la mafia in occasione del processo “mafia e droga”, allorchè andando in contrario avviso dei sostituti convalidò gli arresti di oltre cinquanta persone, di cui solo sei o sette sarebbero state prosciolte in istruttoria. Orbene, il quadro che si ricava dalle dichiarazioni del compianto magistrato è quello di un ufficio istruzione che condividendo i criteri di valutazione della prova del procuratore Costa nei processi di criminalità organizzata di tipo mafioso, era disponibile a svolgere una incisiva attività istruttoria quanto più possibile idonea a valorizzare ed arricchire il quadro probatorio originario esistente al momento della formalizzazione del processo; ma anche di un ufficio che poteva contare solo sulla spiccata professionalità e sull’impegno di due o tre magistrati che, non a caso, si identificavano nei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La rinnovata incisività dell'attività istruttoria del Dr. Chinnici, peraltro, risulta attestata anche dalle stesse iniziative investigative del consigliere istruttore il quale aveva cominciato a svolgere direttamente indagini bancarie e patrimoniali senza la mediazione della G.di F. acquisendo con provvedimenti di sequestro e/o ordini di esibizione la documentazione richiesta ovvero convocando i direttori degli istituti di credito.(cfr. verb. C.S.M. cit.). Fu quello un periodo in cui si registrarono più volte provvedimenti di rinvio a giudizio – citati dal dr. Chinnici nel corso dell’anzidetta audizione – adottati in difformità dalle richieste di proscioglimento dell’ufficio di Procura. Emblematico, oltre che carico di pregnante significazione, appare, pertanto, il tenore delle frequenti telefonate anonime intimidatorie ricevute dal consigliere istruttore, dallo stesso citate nel corso dell’audizione dinanzi al C.S.M, ed in particolare di quella nel corso della quale l’interlocutore chiedeva "che intenzioni ave (ha)lei di fare con i processi di Palermo?", laddove il riferimento ai processi di Palermo e non al "suo" ovvero ai "suoi" processi – di cui peraltro il consigliere era assegnatario – tradisce univocamente la preoccupazione per un nuovo modo di istruire i processi, per l’indirizzo e l’impronta che il dirigente di quell’importante ufficio aveva dato alle indagini contro la criminalità organizzata di tipo mafioso, tanto che si era diffusa la voce che l’amicizia con il Procuratore Costa e le affinità nei metodi investigativi e nei criteri di valutazione della prova indiziaria avesse indotto il dr. Chinnici ad “imporre” al dr. Falcone l’adozione di alcuni importanti provvedimenti restrittivi.(cfr. verb. cit).
Va peraltro ricordato che il dr. Rocco Chinnici aveva svolto le funzioni di Consigliere Istruttore Aggiunto presso l'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, per assumerne poi la direzione nel dicembre dell'anno 1979, a seguito dell'omicidio del Dott. Cesare Terranova, già deputato nazionale del P.C.I e membro della Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso. Il consigliere Chinnici ne raccolse, quindi, l'eredità spirituale, continuandone l’attività giudiziaria con lo stesso impegno profuso dal suo predecessore che si era distinto per la tenacia dimostrata nella lotta al fenomeno mafioso, soprattutto nei confronti della organizzazione imperante tra gli anni '60 - '70, e di Luciano Leggio in particolare. Il rinnovato impegno fatto registrare dall’attività giudiziaria svolta dall’ufficio istruzione dopo la nomina del dr. Chinnici aveva determinato una svolta decisiva nella lotta alla criminalità organizzata in un momento storico in cui le indagini venivano ancora svolte con metodi tradizionali e senza il devastante apporto probatorio dei collaboratori di giustizia, che si sarebbe rivelato decisivo negli anni successivi, ed in un ambiente definito “sonnolente” dallo stesso magistrato, sicchè le istruttorie concernenti i più gravi fatti criminosi verificatisi a Palermo negli ultimi anni avevano ricevuto un notevole e incalzante sviluppo. Il tenace zelo profuso dal magistrato segnò una svolta in un panorama investigativo che negli anni precedenti aveva fatto registrare una sostanziale stasi, senza alcuna significativa acquisizione probatoria, sicchè i nuovi metodi di lavoro assunsero un valore innovativo e dirompente per gli equilibri delle cosche mafiose e per gli stessi vertici dell’organizzazione. Decisiva si era rivelata, inoltre, l’intuizione che la circolazione delle informazioni nell’ambito dello stesso ufficio ed il lavoro di gruppo avrebbero potuto fare registrare un significativo salto di qualità nelle indagini, perché ciò avrebbe creato le condizioni per cogliere le connessioni fra i vari fatti-reato ed individuare gli intrecci ed i collegamenti operativi tra i gruppi che secondo gli equilibri dell’epoca costituivano i gangli vitali della organizzazione. Il consigliere istruttore si fece pertanto promotore di moduli organizzativi che consentissero, sul presupposto del carattere unitario del fenomeno mafioso e della organizzazione "cosa nostra", un effettivo coordinamento delle indagini ed uno scambio delle informazioni tra i titolari dei procedimenti. Sul punto hanno deposto il dr. Aldo Rizzo, già giudice istruttore a Palermo, il quale ha sottolineato come questo sistema di lavoro innovativo costituisse motivo di vanto per il dr. Chinnici, ed il dr. Giuseppe Pignatone, all’epoca sostituto procuratore della repubblica, il quale ha evidenziato come quel modulo organizzativo, che oggi appare scontato e naturale, all'epoca apparisse rivoluzionario. Nel corso della deposizione resa in data 12/8/1983 al P.M. di Caltanissetta, il dr. Giovanni Falcone, aveva riferito quanto segue sul conto del consigliere istruttore: "Ho avuto modo di apprezzarne le spiccate capacità organizzative, l'elevata professionalità e soprattutto l'adamantina personalità ed umanità. Curava personalmente l'istruttoria di procedimenti penali non meno difficili e pericolosi, soleva ripetermi che correva gravissimi rischi; l'esito pienamente positivo dei più gravi procedimenti penali contro organizzazioni mafiose istruiti in questi anni lo induceva a ritenere che i pericoli si erano vieppiù accresciuti."
E peraltro, che il dr. Chinnici non si limitasse a svolgere un pur importante ruolo di direzione e coordinamento dell’ufficio ma che fosse assegnatario di alcuni importanti processi che istruiva personalmente risulta non solo dall’elenco acquisito nel corso delle indagini, ma anche dalle deposizioni rese dal Dr. Giovanni Falcone al P.M.(12/8/1983) ed alla corte di Assise di Caltanissetta (12/4/1984) nel corso del primo dibattimento celebratosi per la strage di via Pipitone Federico a carico di altri imputati e dal dr. Paolo Borsellino in data 4/8/1983 e 30/3/1984, nonché da quest’ultimo nel corso delle indagini preliminari in data 12/6/1991. Nel rinviare alle deposizioni rese sul punto dai magistrati Pignatone, Di Pisa e Motisi, dal funzionario della Polizia di Stato dr. Accordino e dal Col. dei CC Angiolo Pellegrini, appare opportuno ricordare, anche sulla scorta delle dichiarazioni del dr. Falcone, i principali processi di cui era titolare il dr. Chinnici: il procedimento contro Bontate Giovanni ed altri definito in primo grado pochi mesi prima della morte con severe condanne;
il procedimento contro La Mattina Nunzio ed altri, imputati del delitto di associazione per delinquere e traffico di stupefacenti, i cui mandati di cattura erano stati emessi nel 1981;
il procedimento contro Greco Michele ed altri, scaturito dal noto rapporto congiunto della Squadra Mobile e dei Carabinieri, depositato il 13.7.1982, instaurato a carico dei maggiori esponenti delle organizzazioni mafiose palermitane; trattasi del c.d. "processo dei 162" nel quale venivano delineate e ricostruite le dinamiche che avevano condotto alla c.d. guerra di mafia.
Il dr. Falcone aveva riferito che poco prima della strage il consigliere istruttore aveva emesso 37 mandati di cattura originati dalle dichiarazioni di un coimputato, dedicandosi al procedimento fino a qualche giorno prima della morte. Quest’ultimo processo, scaturito dal citato rapporto giudiziario, di cui si avrà modo di parlare diffusamente più avanti, dopo l’adozione di numerosi provvedimenti restrittivi da parte del consigliere istruttore aggiunto dr. Motisi (cfr.dep.) nella fase iniziale immediatamente successiva alla formalizzazione dell’istruttoria, venne istruito dal dr. Chinnici il quale, nel prosieguo delle indagini, acquisì ulteriori elementi che consentirono di consolidare ed arricchire il quadro probatorio e di emettere altri 37 mandati di cattura. Il consigliere istruttore era inoltre titolare delle istruttorie formali relative agli omicidi c.d. politici in danno dell’on. Pio la Torre e Piersanti Mattarella, mentre il dr.Giovanni Falcone era assegnatario del fascicolo relativo all’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Orbene, dalle deposizioni rese dal dr. Borsellino, sopra citate, è emerso che circolava insistentemente voce, tanto che un giornalista ne aveva chiesto conferma al teste, che il dr. Chinnici, fermamente convinto della unicità del movente e della riconducibilità di quegli omicidi ad un disegno strategico complessivo, intendeva riunire tutti quei processi assegnandoli a se stesso. Il 13 luglio 1983, appena 16 giorni prima della strage, il dr. Chinnici aveva anche coordinato un’operazione che era sfociata in numerosi mandati di cattura, nei confronti di alcuni personaggi di spicco di “cosa nostra”, tra i quali Riina Salvatore e Provenzano Bernardo per la strage del generale Dalla Chiesa. Nella nota trasmessa il 22/8/1983 dal Consigliere Istruttore Aggiunto dr. Motisi risultano elencati i processi di maggiore rilievo nel settore della criminalità organizzata, tra i quali spicca quello nell’ambito del quale il dr. Chinnici, due mesi prima della sua morte, emise alcuni mandati di cattura, in data 23 maggio 1983, nei confronti di alcuni esponenti mafiosi di rilievo, tra i quali gli odierni imputati Riina Salvatore, Provenzano Bernardo, Montalto Salvatore e numerosi altri, appartenenti a numerosi mandamenti (Grado, Fidanzati, Vernengo, Savoca, Greco, Cucuzza, Ciulla, Carollo, Profeta, Tinnirello, Badalamenti, Contorno, Calzetta, Graviano Benedetto). E peraltro, che le intuizioni investigative del Dr.Chinnici ed i nuovi moduli organizzativi dovettero preoccupare l’organizzazione mafiosa “Cosa nostra”, che si avviava a consolidare i propri assetti organizzativi, non costituisce solo una pur fondata ipotesi, ma risulta provato da una acquisizione processuale proveniente da una fonte interna al sodalizio, il collaboratore di giustizia Mutolo Gaspare il quale ha riferito (cfr. ud. 23.4.1999) che la deliberazione omicidiaria nei confronti del dr.Chinnici risale al 1982, e quindi ancor prima del suo arresto; dichiarazioni che avrebbero trovato una significativa conferma in quelle dell’imputato Brusca Giovanni.
Chinnici e la strage “libanese”. Attilio Bolzoni, Sara Pasculli e Francesco Trotta. Sembrava Beirut. Ma la mattina del 29 luglio 1983 Palermo era peggio di Beirut. Un boato al centro della città, una colonna di fumo che si alza nel cielo, automobili sventrate, macerie, una voragine nell'asfalto. “Una strage alla libanese”, titolarono in prima pagina i giornali italiani. Un'autobomba per uccidere Rocco Chinnici, capo dell'ufficio ufficio istruzione del Tribunale, il giudice che aveva gettato il seme per far nascere il pool antimafia. I boss di Cosa Nostra avevano ucciso così uno dei suoi nemici più pericolosi. E insieme a lui il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta e anche Stefano Li Sacchi, il portiere del palazzo dove abitava il magistrato. Da oggi e per circa trenta giorni sul nostro Blog pubblicheremo ampi stralci della sentenza di primo grado del “Chinnici Bis” (presidente della Corte d’assise di Caltanissetta Ottavio Sferlazza) che nel 2000 ha condannato all’ergastolo Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele e Stefano Ganci, Antonio e Francesco Madonia, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Calò, Salvatore e Giuseppe Montalto, Vincenzo Galatolo, Matteo Motisi e Giuseppe Farinella. Nei successivi gradi di giudizio verranno assolti Motisi e Farinella mentre i collaboratori di giustizia, Giovan Battista Ferrante e Calogero Ganci saranno condannati a 18 anni, Francesco Paolo Anzelmo e Giovanni Brusca rispettivamente a 15 e 16 anni. La strage di Via Pipitone Federico rimane comunque una vicenda giudiziaria in qualche modo “incompiuta”. Sullo sfondo gli esattori di Salemi, i cugini Nino e Ignazio Salvo, uomini d'onore meglio conosciuti come "i vicerè” della Sicilia, ricchissimi, potentissimi, legatissimi alla politica che al tempo comandava. I Salvo - uno (Nino) morto nel suo letto un paio di anni dopo la strage e l'altro (Ignazio) assassinato dai Corleonesi nel settembre 1993 - erano entrati nel mirino delle indagini di Rocco Chinnici. Assolti in Cassazione anche Michele e Salvatore Greco - che erano stati condannati in primo grado - per vizi procedurali dalla prima sezione presieduta dal famoso giudice "ammazzasentenze” Corrado Carnevale. Nella strage “alla libanese” ci fu un unico sopravvissuto: Giovanni Paparcuri. Quella mattina di luglio del 1983 era l'autista di Rocco Chinnici, qualche anno dopo Paparcuri diventò l'esperto informatico del pool antimafia dell'ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. A sostituire Chinnici arrivò da Firenze il consigliere Antonino Caponnetto. Con lui la nascita ufficiale di quella straordinaria avventura che portò alla celebrazione del maxi processo contro Cosa Nostra. I quattro giudici del pool erano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
Gli articoli li trovate anche sulla pagina Instagram dell’Associazione Cosa Vostra.
Hanno collaborato: Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Francesca Carbotti, Sara Cela, Rosa Cinelli, Ludovica Marcelli, Enza Marrazzo, Sofia Matera, Asia Rubbo.
Le indagini sugli esattori Salvo. La Repubblica il 5 luglio 2020. Il dottore Chinnici personalmente stava, diciamo, gestendo tutte le indagini relative a quella presentazione di un rapporto ormai quasi storico nelle vicende di mafia palermitana, il cosiddetto rapporto Greco Michele + 161. Un rapporto, tra l'altro, relativo a varie vicende di mafia, a vari omicidio, all'omicidio - tanto per fare alcuni esempi e per farvi capire l'importanza di quell'indagine - all'omicidio Reina, all'omicidio Mattarella, all'omicidio La Torre. I primi 88 mandati di cattura erano stati emessi proprio in relazione e a seguito di quella presentazione del rapporto dei 162. Il dottore Chinnici più volte, lo provano per esempio quei verbali che oggi sono stati acquisiti al fascicolo per il dibattimento, verbali di dichiarazioni rese dal dottor Borsellino e dal dottor Falcone nell'immediatezza della strage di via Pipitone Federico, più volte aveva manifestato la sua precisa convinzione, desunta dai primi elementi di natura probatoria, che tutti quei delitti, tutti quei delitti eccellenti anche, fossero legati da un unico filo, da un unico movente ed in qualche modo riconducibili proprio alla attività dei cosiddetti corleonesi. Ancora, il dottore Chinnici, sempre sviluppando o nel tentativo di sviluppare appieno quel rapporto dei 162, stava indagando, e non ne faceva mistero, forse anche imprudentemente non ne faceva mistero, su quelli che erano i legami tra l'ala già conosciuta come ala militare di cosa nostra e due esponenti che, signori della Corte, mi rivolgo soprattutto ai giudici popolari, in quel periodo a Palermo, e chi ha vissuto a Palermo lo sa anche se non si è occupato come addetto ai lavori di queste cose, rappresentavano veramente la massima potenza che si potesse pensare in capo delle persone in Sicilia; mi riferisco a Nino ed Ignazio Salvo, i cugini Salvo di Salemi che poi dimostreremo, e lo hanno dimostrato in parte anche delle sentenze passate in giudicato, erano tra l'altro anche uomini d'onore della famiglia di Salemi, ma uomini d'onore che non esplicitavano ed esplicavano la loro attività soltanto nell'ambito della famiglia di Salemi ma erano assolutamente in stretto contatto con i vertici dell'organizzazione. Prima erano stati in stretto contatto operativo con i Bontate, con gli Inzerillo, con i Badalamenti; dopo, avendo forse fiutato il vento del cambiamento che la guerra di mafia aveva portato in seno all'organizzazione cosa nostra, erano diventati assolutamente un tutt'uno con i Riina, i Madonia, i Ganci, tutti quelli che poi rappresentano la cosiddetta fazione corleonese che prevale alla fine della guerra di mafia. Ebbene, il dottore Chinnici, già l'avete agli atti del fascicolo per il dibattimento, andava dicendo in quei giorni, in quei mesi che bisognava approfondire il rapporto e le indagini che il rapporto aveva già superficialmente prospettato proprio in relazione all'attività dei cugini Salvo; andava dicendo ad investigatori, colleghi, e andava esplicitando questa sua convinzione anche con deleghe di indagini che dietro i fatti di mafia più eclatanti in quel momento c'era, mi riferisco a... parole del dottor Borsellino, la mano dei cugini Salvo. Lo andava dicendo il dottore Chinnici nel 1983, non in un'epoca in cui poi tutti cominciarono a parlare, anche i giornali e anche, a seguito delle dichiarazioni di Buscetta e di altri pentiti, si cominciò molti anni dopo a parlare dei cugini Salvo come collusi colla mafia. Lo diceva il dottore Chinnici nel 1983. Ecco, allora, quella che noi riteniamo essere stata una componente preventiva dell'omicidio di un giudice la cui azione doveva necessariamente essere frenata, e frenata in una maniera talmente eclatante che servisse da monito anche a chi, come Giovanni Falcone in particolare, assecondava il dottore Chinnici, anche a chiunque altro in periodo in cui spesso l'azione e l'impegno della magistratura e delle forze dell'ordine nel contrasto a cosa nostra era piuttosto oscillante, servisse - dicevo - da monito anche a chi, invece, volesse fare sul serio. Noi abbiamo la possibilità ed abbiamo intenzione di dimostrare che a questo movente composto si ricollega un'attribuzione di responsabilità nei confronti dei mandanti così come individuati nella richiesta di rinvio a giudizio. A tal proposito noi intendiamo dimostrare che la decisione di uccidere il dottor Chinnici fu presa e deliberata dalla commissione provinciale di Palermo di “cosa nostra”, così come venutasi a determinare... e nella composizione venutasi a determinare al termine della cosiddetta guerra di mafia. In questo senso intendiamo appunto dimostrare che gli imputati che oggi rispondono nella loro qualità di mandanti erano tutti a vario titolo membri di quella commissione. Fin d'ora nell'esposizione introduttiva, secondo la nostra impostazione, mette conto sottolineare ed anticipare una cosa: noi dimostreremo che già nel 1982 proprio su input e disposizione precisa e volontà espressamente esplicitata dei cugini Salvo, in seguito ad una riunione che si tenne in contrada Dammusi tra i cugini Salvo, Riina, Bernardo Brusca e... non mi ricordo se Madonia Francesco o Madonia Antonino, in questo momento posso anche sbagliare, Giovanni Brusca, si diede l'incarico proprio a Giovanni Brusca, ad Antonino Madonia, a Pino Greco, detto "scarpa", successivamente ucciso, a Balduccio Di Maggio di studiare la possibilità di eliminare il dottor Chinnici già nell'estate del 1982 presso la di lui abitazione estiva a Salemi. A questo proposito e per questo scopo questi soggetti che ho detto, ed in particolare Bernardo Brusca, si recarono a Salemi, dai cugini Salvo ricevettero l'indicazione precisa della ubicazione della villa del dottor Chinnici e per alcuni giorni stazionarono lì per vedere come organizzare l'attentato che doveva essere compiuto con mezzi tradizionali, cioè attraverso l'esplosione della solita raffica di mitra o dei soliti colpi di pistola. In quel frangente quell'attentato così come già deliberato e organizzato non fu realizzato perchè il dottor Chinnici fruiva anche di una vigilanza dei Carabinieri anche durante il periodo di ferie e in qualche modo ciò comportò una difficoltà di esecuzione in quel luogo e con quelle modalità che comportò una sospensione della delibera di morte che già la commissione provinciale di cosa nostra aveva adottato nei confronti del dottor Chinnici. Nel 1983 la situazione, l'esigenza di eliminare il dottor Chinnici si ripresenta, si ripresenta ancora più urgente proprio in relazione alla attività più penetrante svolta nei confronti dei cugini Salvo e nei confronti di tutta cosa nostra e nuovamente, presidente, noi questo intendiamo dimostrarlo e lo intendiamo precisare fin da ora, nuovamente la commissione si riunì e nuovamente vennero attribuiti gli incarichi organizzativi ed esecutivi secondo lo schema che successivamente delineeremo, e stavolta si decise di porre in essere la strage pensata, o meglio l'omicidio pensato, attraverso delle vere e proprie modalità stragiste, cioè attraverso l'attivazione dell'autobomba in pieno centro a Palermo. Perchè, presidente e signori della Corte, fin d'ora ho precisato da questo punto di vista quello che intendiamo provare? Perchè dobbiamo inquadrare anche, e sarà nostro compito rendervi chiaro attraverso l'istruzione probatoria quello che sto affermando, il delitto Chinnici in un contesto di vicende di “cosa nostra” ben particolare. Attraverso i collaboratori di giustizia, ma non solo attraverso le loro dichiarazioni, proveremo che a partire dal 1981 a Palermo la fazione cosiddetta corleonese facente capo a Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, e che a Palermo aveva trovato validissimi alleati in Madonia Francesco, odierno imputato, Ganci Raffaele, odierno imputato, ed in altri soggetti odierni imputati, aveva portato a termine una vera e propria opera sistematica di sterminio di tutti coloro che erano precedentemente collegati ad altri capimandamento storici tipo Stefano Bontate, tipo Salvatore Inzerillo, tipo Badalamenti. Questa cosiddetta guerra di mafia fu portata avanti soprattutto attraverso le forze, i picciotti, gli uomini d'onore espressi dalle famiglie di questi soggetti; vi dimostreremo che, per esempio, i figli di Madonia Francesco, e in particolare Madonia Antonino, odierno imputato, fu uno dei principali artefici della maggior parte degli omicidi realizzatisi in numero di centinaia in quegli anni che vanno dall'81 alla fine dell'82. Vi dimostreremo che, per esempio, altri soggetti, i figli di Ganci Raffaele, Ganci Calogero, Ganci Domenico, il di loro cugino Anzelmo Francesco Paolo, non meno di Antonino Madonia, rappresentavano le braccia di quella forza tremenda che in quel momento era costituita dalla offensiva dei corleonesi. Vi dimostreremo che Giovanni Brusca, odierno imputato, non meno di Antonino Madonia, non meno di Calogero Ganci, di Mimmo Ganci, di Francesco Paolo Anselmo, contribuiva con decine e decine di omicidi al raggiungimento di quel fine di sterminio della fazione opposta. Vi dimostreremo che con la fine del 1982 storicamente si collega la guerra... la fine della guerra di mafia all'omicidio di Scaglione del 30 novembre del 1982 - Scaglione era un uomo d'onore della Noce, non mi riferisco all'ex procuratore ucciso nel 1970 - con il 30 novembre '82, comunque con la fine dell'82, la guerra di mafia ha fine e viene ricostituita “cosa nostra” e i mandamenti che compongono la struttura portante di “cosa nostra” a Palermo e provincia, secondo uno schema che prevedeva l'attribuzione di poteri nei mandamenti a tutti coloro i quali si erano schierati con Riina, Provenzano e i corleonesi. Vi dimostreremo che tra la fine dell'82 e il gennaio dell'83, in seguito proprio ad una riunione, sempre nella contrada Dammusi di San Giuseppe Jato, venne ricostituita la commissione provinciale di Palermo e tra l'altro vennero attribuiti, in questa sede di ricostituzione di tutta la struttura portante, dei mandamenti che prima non esistevano o che prima erano stati, seppure momentaneamente, cancellati. Guarda caso viene ripristinato il mandamento alla Noce, viene designato come capomandamento Ganci Raffaele. Guarda caso viene ampliato il territorio, già importante e ampio, facente capo al mandamento di Resuttana, quello .. alla cui guida, alla cui direzione, per usare un termine improprio, era come capomandamento Francesco Madonia. Sostanzialmente, con la ricostituzione dei mandamenti vengono premiati coloro i quali erano stati i più stretti alleati, anche alleati operativi, di Totò Riina, nella guerra di mafia da poco conclusasi. Il problema che dobbiamo fin da subito individuare: noi abbiamo, e ve l'ho già anticipato, una prima deliberazione che interviene nell'estate del 1982, quindi in costanza ancora di guerra, e quindi presumibilmente adottata, secondo le regole di cosa nostra adottata, dalla commissione provinciale di Palermo così come allora costituita. Abbiamo però una seconda nuova deliberazione che interviene soltanto qualche mese prima rispetto alla perpetrazione della strage del 29 luglio e che quindi, noi dimostreremo, è da attribuire alla commissione provinciale di Palermo, così come composta dopo la ricostituzione della commissione nel gennaio del 1983. E d'altra parte, signori della Corte, non poteva accadere altrimenti. Una cosa è deliberare l'omicidio di un magistrato, un omicidio eccellente, però fatto con sistemi tradizionali, attraverso l'esplosione di colpi di arma da fuoco, una cosa è decidere di attuare una vera e propria strage nel pieno centro di Palermo. Le regole di “cosa nostra”, che tra l'altro sono sancite nella sentenza ormai passata in giudicato, la nr. 80/92 che di qui a poco vi andremo a produrre, sono assolutamente chiare. La deliberazione dell'omicidio eccellente non può che essere fatta da tutti i capimandamento riuniti nella commissione provinciale di Palermo. Questa è una regola che noi riteniamo ancora valida, sicuramente valida, almeno fino all'epoca delle stragi del 1992, ancora più valida, ancora più pregnante, ancora più inderogabile nel 1983, nel momento in cui la commissione provinciale di Palermo a seguito della ricomposizione del gennaio '83 è nel momento di sua massima coesione e di suo massimo splendore. Riteniamo tra l'altro, e in questo senso comincio ad avviare l'esposizione introduttiva verso quello che attiene agli aspetti organizzativi, che la strage sia stata organizzata secondo dei canoni che poi vedremo essere soliti nella consumazione dei delitti eccellenti. Per la consumazione della strage furono incaricati uomini d'onore appartenenti a più mandamenti, non solo uomini d'onore appartenenti al territorio del mandamento dove la strage si sarebbe dovuta consumare, via Pipitone Federico, che ricade del mandamento di Resuttana, quello di Francesco Madonia, di Antonino Madonia, ma alla strage partecipano uomini d'onore del mandamento di San Giuseppe Jato, del mandamento di Resuttana, del mandamento della Noce, del mandamento di Ciaculli e del mandamento di San Lorenzo. Siamo in presenza, signori della Corte, dell'incarico operativo affidato proprio a quei soggetti che da poco rivestivano la qualità di capomandamento e che tale designazione avevano ricevuto come premio dell'apporto alla guerra di mafia. Mi riferisco alla Noce, mi riferisco a San Lorenzo e quindi al capomandamento Giacomo Giuseppe Gambino, mi riferisco a San Giuseppe... a San Giuseppe Jato, che, come abbiamo visto, aveva dato un apporto decisivo alla guerra di mafia, mi riferisco a quel Pino Greco "scarpa", capomandamento allora di Ciaculli che un apporto decisivo aveva dato alla guerra di mafia. Vedremo come la ripartizione del compito operativo ed organizzativo ha seguito uno schema ben preciso: quello della segmentazione tra gli incarichi dei vari mandamenti ma del rapporto costante e operativo tra gli uomini d'onore degli stessi mandamenti.
I racconti dei pentiti di Cosa Nostra. La Repubblica il 6 luglio 2020. L'impulso alle indagini in questo procedimento è stato dato dopo ben 13 anni di tempo rispetto alla data della strage, a seguito delle dichiarazioni che hanno reso alcuni collaboratori di Giustizia. Tuttavia già l'impianto accusatorio dell'83 consentiva di orientare le indagini nei confronti di questi soggetti che costituiscono gli esecutori materiali della strage. Le dichiarazioni che noi abbiamo acquisito e che vi proveremo attraverso l'esame degli imputati, e mi riferisco a Ganci Calogero, mi riferisco ad Anselmo Francesco Paolo, a Ferrante Giovan Battista e a Brusca Giovanni, consentono di ricostruire e quindi vi offriremo un quadro completo di quella che è stata la materiale esecuzione della strage. E in particolare noi vi proveremo come fu reperito l'esplosivo, chi trasportò l'esplosivo e in questo senso è Brusca che ci ha riferito e non solo, ma vorrei già indicare che le dichiarazioni del Brusca hanno trovato riscontro anche in quelli che erano atti pregressi, quali la perizia chimico - esplosivistica, perchè vedremo che il tipo di esplosivo di cui ci parlerà il collaboratore è veramente coincidente con le risultanze dei consulenti che allora venivano... erano state fatte, così come le modalità di collocamento dell'esplosivo.
Ancora, attraverso le dichiarazioni dei collaboratori noi proveremo come venne rubata la macchina. D'altra parte, che il furto fosse avvenuto in un'autoscuola e che fosse avvenuto con certe modalità è stato pienamente riscontrato attraverso le dichiarazioni dell'allora proprietario di questa autoscuola che si chiama Ribaudo Andrea e che ci ha effettivamente rappresentato che la macchina era stata posteggiata in doppia fila davanti all'autoscuola, con le chiavi inserite; è un particolare che noi rivedremo attraverso le dichiarazioni di uno dei collaboratori. Così come il fatto che la macchina recasse delle insegne lateralmente agli sportelli i... e che poi furono tolte in una traversa vicino al luogo dove ... la macchina era stata rubata ed effettivamente il titolare ci ha riferito questi particolari. Così come noi proveremo che le targhe .. che furono apposte poi successivamente nell'autobomba furono effettivamente prelevate nella notte tra il 28 e il 29, ciò per ovvie considerazioni, in modo da consentire agli attentatori di trasferire la macchina in tempo e ancor prima che il proprietario si accorgesse di questo furto. Purtroppo il proprietario si era accorto di questo furto ancor prima dell'attentato e purtroppo però le Forze di Polizia non diedero risalto a questa cosa e se si fossero accorti, poichè la denuncia fu verificata, fu presentata ... prima ancora della morte del dottore Chinnici, forse l'attentato si poteva anche sventare. Ancora, noi proveremo come venne materialmente trasferita questa autovettura che, una volta rubata e una volta che vennero …. tolte queste insegne laterali, fu portata presso un magazzino; prima ancora di essere portata in questo magazzino transitò però in una zona... in un terreno di proprietà dei Galatolo, ecco l'imputazione di Galatolo Vincenzo, e poi fu ancora trasferita in un magazzino; all'interno di questo magazzino ci fu chi procedette all'imbottitura, alla materiale predisposizione. Noi proveremo ... che tipo di telecomando sia stato utilizzato, che tipo di congegno fu predisposto all'interno dell'autovettura, così come proveremo che, una volta predisposta l'autovettura, furono fatte diverse prove di telecomando. Queste prove di telecomando vennero effettuate in diversi posti: e all'interno di questo magazzino e in questa tenuta dei Galatolo, addirittura la notte prima che il dottore Chinnici fosse ucciso. E ancor prima, proveremo che due degli odierni imputati, proprio per rilassarsi, erano andati a divertirsi, l'hanno chiamato un divertimento, presso un locale che era stato aperto da poco e che abbiamo riscontrato essere aperto proprio la notte tra il 28 e il 29. Sostanzialmente, attraverso la ricostruzione che noi vi porgeremo, attraverso la ricostruzione effettuata dai quattro collaboratori, vi proveremo come tutto fu fatto con assoluta precisione, perchè nulla fosse lasciato al caso, …. così come la prova effettuata proprio la notte del 28 - 29, così come il trasferimento nelle prime ore fatto con dei sistemi che sono consolidati, li abbiamo ritrovati nella strage di via d'Amelio: la macchina che è al centro con la staffetta in modo da evitare che possa urtare, per evitare una eventuale esplosione o che comunque possa camminare indisturbata perchè una eventuale presenza della polizia può portare a cercare di distogliere l'attenzione attraverso l'intervento di queste macchine che fanno da staffetta. Ed ancora, il posizionamento della macchina con dei particolari che veramente sono agghiaccianti. La macchina... il posto davanti all'abitazione del dottore Chinnici era stato già da tempo occupato, con ... un'attività svolta proprio dai nostri esecutori materiali e demandata prevalentemente alla famiglia dei Ganci e qua cito fra tutti Ganci Stefano che era una delle persone che avevano il compito di sostituire giornalmente ... per un certo numero di tempo lo spazio antistante l'abitazione con macchine anche non particolarmente piccole, perchè poi quella piccola, come ci spiegheranno i collaboratori, era stata posizionata in modo da lasciare uno spazio sufficie(nte)... abbastanza grande, cosicchè il dottore Chinnici dovesse prendere necessariamente quella strada per fare in modo che il colpo non andasse a vuoto. E ancora, gli accorgimenti fatti per trovare questo posto, le difficoltà a trovare questo posto, il successivo intervento con una telefonata, con un escamotage. E ancora la parte finale, la parte finale con Ferrante, che è un altro collaboratore, che è di particolare spessore. Cioè, io vorrei dire qua che questi nostri quattro collaboratori che sono interventi e che poi sono riscontrati …. come vedremo, da attività pregressa e da attività successiva, sono quattro protagonisti di allora, sono persone che hanno commesso i più gravi delitti che sono successi da vent'anni a questa parte, sono soggetti che si sono macchiati di delitti come la strage Chinnici, ma come anche l'omicidio Lima, come la strage di Capaci, come la strage del dottore Borsellino, come la strage di Ninni Cassarà. Quindi sono persone di particolare spessore, che parlano in un arco di tempo molto ravvicinato, sicchè è veramente difficile pensare che ci sia stato aggiustamento di dichiarazioni o che l'uno abbia saputo quello che diceva l'altro. E peraltro noi vi proveremo, attraverso tutti i particolari che vi forniremo, che esistono delle divergenze, questo è già fonte di genuinità, d'altra parte sono divergenze che nascono a tredici anni di distanza l'una dall'altra e che comunque non incrinano assolutamente quello che è il nucleo essenziale delle dichiarazioni che, poi potrete constatare, hanno ciascuno un'importanza particolare, perchè non sono dichiarazioni tutte uguali su tutte le varie fasi, cioè sono dichiarazioni che aggiungono particolari ad altri particolari.
Per esempio, Brusca ci parla di tanti particolari perchè vi ha partecipato personalmente. Ganci Calogero ci parlerà di altri particolari. Quindi direi un quadro probatorio, che noi vi offriremo, che verrà ovviamente arricchito dalle dichiarazioni di numerosi collaboratori di cui abbiamo chiesto l'esame e che chiediamo che poi sicura... illustrando le prove, io evidenzierò. Vorrei evidenziare l'importanza che avranno le dichiarazioni di Francesco Onorato, l'importanza che avranno le dichiarazioni dello stesso Vincenzo Sinacori, che .. già anche di recente, ed è un verbale che depositerò al più presto a disposizione degli avvocati, ha parlato del ruolo di protagonista e dello stretto contatto tra Riina e … Nino Madonia, che sostanzialmente è l'organizzatore di questa strage. Quindi, attraverso queste dichiarazioni noi quindi proveremo: qual è stato il ruolo di Galatolo; qual è stato il ruolo di Nino Madonia, che sostanzialmente è colui che preme il telecomando, è colui che si veste da muratore, sale sul cassone del camion che è stato portato sul posto a pochi metri di distanza dal luogo della strage ed aziona il telecomando e poi bussa violentemente sul cassone perchè il Ferrante ha avuto paura, ha visto questa grande esplosione, questo fumo, per dirgli di allontanarsi. Ed ancora noi vi proveremo come abbia avuto un ruolo decisivo Ganci Calogero; come abbia avuto un ruolo decisivo Anzelmo Francesco Paolo. Cioè sono soggetti, appartenenti alla Noce, che avevano già da allora un grosso spessore criminale e, purtroppo, attraverso le loro dichiarazioni, abbiamo capito che la strada che il dottore Chinnici aveva intrapreso per combattere “cosa nostra” era quella giusta e forse per questo è stato ucciso. Quindi, a conclusione di questa esposizione introduttiva, ecco, vorrei evidenziare anche il ruolo di Galatolo, perchè Galatolo è presente, non soltanto mettendo a disposizione locali di sua pertinenza perchè si svolga ... tutta la fase precedente e quindi la preparazione della strage, ma perchè Galatolo è un soggetto che ... la mattina del 29 luglio apre il magazzino e consente alla macchina che venga fuori. Noterete anche, attraverso le dichiarazioni, che Brusca si riferisce anche al collaboratore Balduccio Di Maggio.
Tutto questo è il quadro probatorio completo. L'ultima cosa che mi ricordava il collega, perchè pensavo di averla detta ma forse sono stata non troppo precisa, è il trasporto della macchina in via Pipitone Federico. Avevo già detto che era stato lasciato questo ampio spazio e... cioè, era stato predisposto lo spazio. La macchina viene materialmente collocata da Brusca Giovanni, il quale proprio ha cura di lasciare, come ho detto poco fa, essendo una piccola macchina, perchè è una 126, viene spostata in modo, dico, da consentire il passaggio e Brusca in quel momento attiva il congegno e poi ha cura di pulire con particolare precisione le eventuali impronte che avrebbe lasciato sulla macchina; dopodichè gli attentatori si allontanano e rimangono soltanto il camion con il Ferrante e con il Madonia, gli altri cominciano... pedinano tutta la zona circostante. Il pedinamento è fatto anche, ed è questo un particolare che ci riferirà Brusca, anche da Mario Prestifilippo e Pino Greco "scarpa". Gli altri alla fine, dopo avere verificato l'arrivo delle macchine, guardano lo spettacolo e si collocano esattamente alla fine della strada, in una scalinata, dove siedono guardando, davanti alla chiesa di San Michele, dove siedono a guardare quello che sta succedendo. Quando si accorgono che tutto è andato bene, perchè per loro era un grande successo, si allontanano e ognuno torna alla propria abitazione come se nulla fosse successo. Questo è tutto il contenuto delle prove che noi vi offriremo e a questo punto io credo di avere completato la fase esecutiva e passo all'esame, cioè all'illustrazione delle prove testimoniali, proprio perchè sono strettamente collegate”.
Palermo come Beirut. La Repubblica il 7 luglio 2020. Alle ore 8,00 del 29 luglio 1983, nel centro di Palermo, veniva attivata, con un sistema di telecomando a distanza, una potente carica di esplosivo collocata all'interno del cofano anteriore di una Fiat 126 parcheggiata proprio in prossimità del portone d'ingresso dello stabile di via Pipitone Federico dove abitava il dr. Rocco Chinnici, Consigliere Istruttore presso il Tribunale di Palermo. L’autovettura all’interno della quale era stata collocata la carica esplosiva era stata rubata a Palermo nei giorni precedenti ed anche le targhe apposte a detta autovettura erano state asportate nella notte tra il 28 e il 29 luglio da altra autovettura dello stesso tipo di proprietà di tale Santonocito. La devastante esplosione provocava la morte del dr. Chinnici, dei militari dell’Arma dei carabinieri, componenti la scorta, maresciallo Mario Trapassi e appuntato Salvatore Bartolotta, del portiere dello stabile Stefano Lisacchi, nonchè il gravissimo ferimento dell'autista giudiziario Giovanni Paparcuri, rimasto per un lungo periodo in stato di coma, che si era recato, come ogni mattina, a prelevare il dr. Chinnici presso l’abitazione di via Pipitone Federico per accompagnarlo al Palazzo di Giustizia. Da dette lesioni sarebbe poi residuato a carico del Paparcuri l'indebolimento permanente della funzione uditiva. Lesioni più lievi riportavano molte altre persone venutesi a trovare nel raggio di azione della devastante onda d’urto, fra le quali altri Carabinieri addetti alla scorta del magistrato. L’esplosione provocava, altresì, una vera e propria devastazione in una vasta area circostante la zona teatro dell’attentato, con la distruzione e il danneggiamento degli stabili vicini, delle automobili parcheggiate, delle saracinesche di molti negozi ancora chiusi a quell'ora del mattino. Il primo spunto di riflessione offerto dallo scenario presentatosi agli occhi degli inquirenti era certamente costituito dal rilievo che si trattava del primo attentato ad un rappresentante delle istituzioni eseguito con modalità tipicamente terroristiche, mediante il sistema dell’auto-bomba. Purtroppo gli eventi successivi avrebbero dimostrato che non si era trattato dell’ultimo attentato ma la prima di una efferata serie di stragi culminate negli attentati di Capaci e via D’Amelio del 1992 nelle quali persero la vita il dr. Giovanni Falcone, la d.ssa Francesca Morvillo, il Dr. Paolo Borsellino e i poliziotti della loro scorta.
La strategia dei delitti eccellenti. La Repubblica l'8 luglio 2020. Il quadro probatorio emergente dal complesso degli elementi processualmente acquisiti consente di ritenere che nella fattispecie dedotta nel presente giudizio un particolare rilievo probatorio deve essere riconosciuto alla individuazione del movente [...]. La correlazione del movente, quale emerge dalle acquisizioni dibattimentali, con gli altri indizi consente di pervenire, nel quadro di una valutazione globale dell’insieme, all’affermazione che il complesso indiziario, per la certezza dei dati e per la loro univoca significazione, ha raggiunto la soglia della rilevanza della prova certa. Ed invero, come già ampiamente sopra anticipato, deve ritenersi pienamente provato che l’omicidio in esame è maturato in un contesto ed in un momento storico in cui l’assassinio del dr. Chinnici, per le funzioni giurisdizionali svolte in determinati processi, per l’impegno profuso, per la fermezza dimostrata, per il rigore morale che ebbe ad ispirarne l’attività professionale, divenne funzionale ad un interesse strategico complessivo di quella potente e pericolosissima organizzazione criminosa, tipicamente mafiosa, denominata “cosa nostra”, la cui "prova ontologica", come struttura associativa monolitica e gerarchicamente ordinata, può dirsi ormai pacificamente acquisita al patrimonio della coscienza collettiva, oltre che giudiziariamente, grazie alle rivelazioni di molteplici e convergenti fonti propalatorie, la cui attendibilità ha superato il vaglio dibattimentale di merito e di legittimità. Anche il ruolo strategico ed immanente della "commissione", inteso come organismo di vertice, racchiuso già nel significato semantico di "cupola" (molto più incisivo di quello espresso dal termine "commissione") risulta definito ed accertato significativamente anche in numerosi precedenti giudiziari (cfr., da ultimo, l'importante sentenza della S.C. Sez.I, 30/1/1992, n.80, acquisita agli atti, che ha definito gran parte delle posizioni processuali del procedimento a carico di Altadonna ed altri (inizialmente Abate Giovanni ed altri) noto come il maxiprocesso di Palermo. L’approfondita istruzione dibattimentale, volta alla individuazione di una causale adeguata all’efferatezza del delitto, i cui autori non hanno esitato a sacrificare alle ferree leggi dell’organizzazione, o comunque a mettere in grave pericolo, anche la vita di persone estranee, ha consentito di riscontrare positivamente l’assunto accusatorio della rilevanza e centralità probatoria del ruolo svolto dalla vittima nell’ufficio da lui diretto, sicchè la deliberazione stragista, seguita ai vani tentativi di infrenarne l’attività investigativa, costituisce esemplare dimostrazione della capacità dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” di condizionare anche l’esercizio di funzioni giurisdizionali, modulando, grazie ad una straordinaria capacità di adeguamento alle concrete situazioni, i propri interventi attraverso un abile e calibrato ricorso ai peculiari strumenti di sopraffazione che ne qualificano le modalità operative, tipicizzati dal legislatore nell’art.416 bis c.p. attraverso i ben noti paramentri, sufficientemente obiettivi e caratterizzanti, costituiti dalla forza intimidatrice del vincolo associativo e dalla condizione di assoggettamento e di omertà. È appena il caso di rilevare come il condizionamento del corretto funzionamento delle istituzioni, che rientra certamente tra le principali finalità perseguite dalle organizzazioni mafiose, non può prescindere da una capillare attività volta a favorire il terreno di coltura dell’omertà, che si sostanzia nel rifiuto incondizionato ed assoluto a collaborare con gli organi dello Stato, non solo per timore di rappresaglie ma anche per la tendenza a negare ogni legittimazione a qualsiasi interferenza dello Stato stesso. È stato acutamente rilevato che l'omertà è una forma di opposizione passiva alle istituzioni democratiche la quale si diffonde nel tessuto sociale nella misura in cui il dominio mafioso ne impone l'assimilazione con il ricorso al terrore ed alla intimidazione e con una capillare opera di educazione alla diffidenza verso le pubbliche istituzioni. Orbene, un disegno strategico complessivo così destabilizzante per le istituzioni democratiche non può non prevedere il ricorso a vere e proprie forme di terrorismo mafioso che colpiscono rappresentanti delle istituzioni e che prevedono l’eliminazione di uomini considerati pericolosi per l’assetto del potere mafioso al fine di salvaguardarne il perpetuarsi in un’ottica di “prevenzione generale”. La storia giudiziaria degli ultimi anni è costellata di gravissimi attentati a uomini delle istituzioni, ritenuti troppo pericolosi e professionalmente preparati sul piano investigativo e giudiziario, maturati sovente in momenti storici in cui le organizzazioni si sono trovate in difficoltà ed hanno avvertito l’esigenza di riaffermare il proprio potere egemonico sul territorio facendo ricorso, spesso come estrema ratio, all’assassinio di quanti con il loro quotidiano impegno ed il rifiuto di qualunque forma di condizionamento hanno dimostrato di avere operato una scelta chiara ed irreversibile in favore dei valori della legalità e della giustizia. In questo quadro, non può certamente dubitarsi che le stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992, per le eclatanti ed efferate modalità esecutive e per le figure emblematiche delle vittime, abbiano segnato il più alto livello di attacco militare allo Stato da parte di “cosa nostra” ed il momento più drammatico di una lucida strategia terroristica articolata nel corso degli ultimi tempi da detta organizzazione per riaffermare il primato e l'intangibilità del proprio potere criminale sia rispetto alla società civile ed alle istituzioni statali sia all'interno dello stesso sodalizio. Orbene, alla stregua delle risultanze processuali e delle sentenze irrevocabili acquisite agli atti, risulta che già nel biennio 1979-1980 - e quindi in quel delicato momento storico in cui i precari equilibri esistenti in seno alla organizzazione mafiosa “cosa nostra” palermitana avrebbero ben presto portato alla c.d. guerra di mafia scoppiata con l’omicidio di Stefano Bontate, capo della “famiglia” di S.Maria di Gesù, consumato a Palermo in data 23/4/1981 - si verificarono gli omicidi di alcuni brillanti e coraggiosi investigatori, fra i quali rilevano, nel presente processo, quelli del dirigente della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano (21/7/1979), del capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4/5/1980) e del Procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa (6/8/1980). L’omicidio dell’ufficiale dell’Arma, il cui movente va individuato nella incisività delle indagini che il brillante investigatore stava svolgendo, sulla scia di quelle avviate dal commissario Boris Giuliano, su alcuni personaggi di spicco operanti nel territorio Altofonte, compreso nella giurisdizione della compagnia dei CC di Monreale, rientra certamente nel quadro di quell’attività criminosa volta a stroncare ogni tentativo delle istituzioni di prevenire e reprimere efficacemente sul piano investigativo i traffici illeciti delle organizzazioni mafiose, ma anche in quella strategia terroristica finalizzata a creare un clima di intimidazione diffusa ed a scoraggiare ulteriori azioni repressive delle istituzioni, facendo leva sui sentimenti di sfiducia e senso di sconfitta che normalmente conseguono alle lesioni inferte alla convivenza civile da gravi ed eclatanti fatti di sangue. Appare, pertanto, perfettamente coerente con la “logica” sottesa al disegno strategico destabilizzante della organizzazione mafiosa “cosa nostra” e con i metodi che ne hanno tradizionalmente connotato le modalità operative intervenire per condizionare dapprima le indagini e poi, se necessario, anche l’esito dei processi ai propri affiliati che dovessero essere coinvolti in fatti penalmente rilevanti e particolarmente gravi.
Mutolo: "Chinnici era da sempre nel mirino”. La Repubblica il 10 luglio 2020. Esigenze di propedeuticità espositiva rendono opportune alcune brevi considerazioni sulla personalità e sul ruolo svolto in seno all’organizzazione “cosa nostra” dal Mutolo, al fine di delibarne l’attendibilità, atteso che le sue dichiarazioni dovranno essere fra breve esaminate per inquadrare il contesto in cui è maturata l’iniziale determinazione criminosa nei confronti del consigliere Chinnici, rinviando la valutazione dell’attendibilità di altri collaboratori – ed in particolare di quelli che rivestono anche la posizione di imputati - alla specifica trattazione che sarà svolta nei capitoli riservati ad altri argomenti che hanno costituito oggetto del loro più specifico contributo probatorio.
MUTOLO Gaspare è stato affiliato nel 1973 alla famiglia di Partanna Mondello, del mandamento di Partanna Mondello, all’epoca retto da Riccobono. Particolarmente vicino a quest’ultimo, il Mutolo era stato in contatto con Riina il quale durante la latitanza si era fatto autorizzare da Provenzano e da Liggio, ad appoggiarsi alla famiglia di Partanna Mondello, per cui il collaboratore insieme a Micalizzi Salvatore era stato designato con il preciso incarico di “mettersi a disposizione” del Riina. Il suo patrimonio conoscitivo, quindi, appare particolarmente ricco di informazioni per la lunga militanza (circa ventanni) in “cosa nostra”, di cui aveva avuto modo di conoscere i personaggi di maggiore rilievo ed in particolare quelli vicini al Riina, fra i quali ha menzionato Nino Madonia, Pietro Vernengo, Franco Di Carlo, Pippo Gambino ed altri. Dopo avere fornito alcune informazioni sui periodi di detenzione che si riveleranno particolarmente utili in relazione a talune indicazioni circa i rapporti intrattenuti in carcere con altri uomini d’onore e le notizie apprese nei vari istituti, ha riferito di avere iniziato a collaborare nel giugno del 1992, precisando di non avere avuto alcuna possibilità di incontro con altri collaboratori se non in occasione di qualche spostamento per motivi di giustizia ma sempre sotto il costante controllo del personale di scorta.
Con riferimento alla fase iniziale della collaborazione ha riferito quanto segue: MUTOLO - Ecco, io dopo ... una volta o due volte, cioè dopo le prime volte che parlai con il magistrato Vigna della Procura di Firenze, va bene, ho detto espressamente che io volevo parlare con la Procura di Palermo e desideravo parlare però con il giudice Borsellino, perchè io, quando io collaboro già il giudice Falcone è morto, quindi l'unico giudice in cui io diciamo sono tranquillo perchè so che la mafia lo vuole uccidere è il giudice Borsellino, non perchè io non ho fiducia agli altri magistrati, quantomeno so che quel giudice Borsellino è un uomo che la mafia, insomma, lo cerca per ucciderlo ed io faccio espressione con richiesta di espressione propria con il giudice Vigna a dire: "Senta, io purtroppo, sì, sto collaborando con la Procura della Toscana però a me mi interessa, io sto collaborando perchè voglio parlare con la Procura di Palermo", va bene, però non è che io mi rendevo conto che il giudice Borsellino era a Marsala o a Trapani, io, insomma, . completamente ci ho detto: "Io parlo con questa persona oppure non parlo".
Il Mutolo ha inoltre aggiunto: “Guardi, io quando .. ho deciso, dopo una grande meditazione, dopo un grande... cioè, riflessione, insomma, interna, io non è che avevo paura che i mafiosi .. mi potessero uccidere, questa è una cosa che non ho pensato mai e che non penso, è una cosa che... prima che mi uccidono meglio è, .. quindi, per me la paura non esisteva; io però volevo parlare con persone competenti. Quindi la persona più competente chi era? 'Nfina nel( fino al) 1991. Perchè la mia nasce nel '91, va bene. Il giudice Giovanni Falcone. Quindi, io cerco e mi metto in contatto con il giudice Falcone e il giudice Falcone gentilmente mi viene a trovare a Spoleto, credo il 16 dicembre del 1991, però io non è che capivo che il giudice non era più Giudice Istruttore di Palermo, che era passato a Roma, cioè, non è che capivo queste cose. Quindi, quando io vedo al giudice Falcone per dirci le gravità e che io volevo parlare a lui perchè sapevo che comunque il giudice Falcone - e mi dispiace, perchè... - era destinato a morire perchè la mafia vedeva in lui il persecutore, il nemico, il nemico da sconfiggere ….quindi le dico che io volevo parlare con lui, persona competente, persona che già aveva avuto, diciamo, personaggi come Buscetta, come Mannoia e come Contorno, perchè in quel periodo già questi collaboratori, diciamo và, però io a lui le dico, guardi, io oltre i fatti mafiosi, personaggi importanti, io so anche e ci faccio qualche nominativo di qualche persona delle Istituzioni, va bene, ci dico: "Guardi che il suo Ufficio è uno scolabrodo; guardi che appena c'è un ordine di cattura i mafiosi lo sanno, insomma..." e quindi io ci faccio i nominativi ma sempre diciamo con una riserva che non si doveva mettere niente per iscritto, perchè prima si dovevano togliere a questi criminali di in mezzo la strada.”
Sulla progressione della sua collaborazione il Mutolo ha fornito i seguenti chiarimenti:
P.M. - Al di là di queste motivazioni che lei ha dato sulla necessità di eliminare proprio il braccio armato di "Cosa Nostra" c'erano anche altre motivazioni che l'hanno portato a dare questo ordine di progressione delle sue dichiarazioni?
MUTOLO - Guardi, il braccio armato era questo, che io, insomma, togliendo il braccio armato, diciamo, i mafiosi importanti che avevano la decisione di fare qualsiasi cosa .. su Palermo ma sull'Italia, quindi io potevo affrontare con più serenità diciamo l'altro problema dei politici, dei magistrati, degli avvocati; cioè, io non capisco proprio, insomma... era questo il motivo in cui io ho voluto ed ho parlato, diciamo, principalmente del braccio armato mafioso.
Quanto ai motivi della scelta collaborativa, il Mutolo ha dichiarato quanto segue: MUTOLO - Guarda, i motivi sono stati ... principalmente sono questi: cioè, che io non mi vedevo più quel mafioso che io mi vedevo convinto nei primi anni, quando io sono stato ... a entrare in "Cosa Nostra", che andavo a uccidere, andavo a sequestrare, ... facevo io tutto per la mafia, perchè davo una giustificazione che comunque la mafia faceva... diciamo, c'era un motivo; i mafiosi erano persone perbene, i mafiosi avevano dei principi in cui non si toccavano le donne, non si toccavano i bambini; una persona che si comportava bene e veniva ucciso .. per un motivo, la famiglia era garantita. Insomma, c'era un codice d'onore e dopo io so che i mafiosi avevano amicizie in qualsiasi livello; certo, . dopo il 1978 - '79 le cose sono radicalmente capovolte, si uccidevano le persone soltanto perchè si volevano eliminare presunti rivali, ... non toccando dopo le donne, i bambini, insomma, e ancora... ancora oggi, insomma, nel giro di due giorni che sono stati uccisi due bambini; se si faceva questo al tempo dei Badalamenti, a tempi dei Calderoni, va bene, eh, certamente non si faceva questo. A Catania si è messo a fare questo dopo l'entrata del Santapaola. Il collaboratore ha dichiarato di avere confessato tutti i reati commessi, compresi gli omicidi di cui si era reso responsabile dal 1973 in poi, fornendo un contributo di notevole rilievo probatorio in ordine alla ricostruzione storica dell’evoluzione dell’organizzazione fin dal tempo del c.d. triumvirato. Non può dubitarsi che la scelta collaborativa sia stata determinata dalla progressiva non condivisione della strategia criminale dell’organizzazione e dei metodi di gestione dei suoi vertici, nonché dalla revisione critica di precedenti scelte di vita. Il suo contributo si è rivelato particolarmente significativo, come si avrà modo di dimostrare più avanti nel corso della presente trattazione, in relazione alla collocazione temporale del momento genetico del progetto criminoso nei confronti del dr.Chinnici e di altri uomini delle istituzioni rimasti vittime della strategia criminale di “cosa nostra”, con particolare riferimento alla prima metà del 1982. Sotto tale profilo le informazioni fornite, sulla scorta delle notizie apprese dal Riccobono prima di essere tratto in arresto – il Mutolo è stato libero dall'aprile 1981 al giugno 1982 - hanno trovato riscontro in argomenti di ordine logico che ne suffragano l’attendibilità, mentre le confidenze ricevute in carcere dal Madonia Francesco, del pari rilevanti, risultano suffragate anche dall’esito degli accertamenti compiuti sui vari periodi di detenzione sofferti da quest’ultimo e dal collaboratore. Tanto premesso, appare opportuno anticipare quanto costituirà oggetto di più approfondita disamina nel prosieguo della presente motivazione.
Mutolo ha testualmente dichiarato : “ Sì, sì, io ci dico che già nel 1982 - no nell'83, nell'82 - il dottor Chinnici si è salvato, non so per quale motivo, insomma; perchè non è, insomma, perchè la mafia magari guarda che deve uccidere a una persona, può nascere un contrattempo e... e viene rimandato, cioè non... però già dal millenovece... da giugno, ma anche di maggio, di aprile, del 1982 il dottor Chinnici era sotto, diciamo, la minaccia di essere ucciso, perchè già si sapeva che stava, diciamo... voleva cambiare l'andamento che c'era al Tribunale di... di Palermo e forse, secondo... secondo me, si è ritardato un anno, perchè dopo con l'incalzare del giudice Falcone, che ha messo a fare processi, che c'erano eh, eh, cioè un pe... per un qualche periodo la figura di questo giudice Chinnici magari è stata un pochettino accantonata, perchè avevano altro da fare. Però già io ci parlo del 1982, il dottor Chinnici si sapeva che voleva reinserire, va bene, quel concetto dell'associazione mafiosa che fa - purtroppo bisogna anche comprendere, va bene - tanta paura ai mafiosi, perchè logicamente hanno sempre il fianco scoperto, perchè un discorso è che imputano un omicidio o un'estorsione, un... qualsiasi cosa, un discorso è che tutti assieme fanno un mandato di cattura per associazione a delinquere e quindi questo è stato sempre il cruccio dei mafiosi, che per un certo periodo avevano ottenuto questa tranquillitudine al Tribunale di Palermo.”
Un magistrato che faceva paura. La Repubblica l'11 luglio 2020. La tenace determinazione investigativa del dr. Chinnici risulta inequivocabilmente dal tenore della deposizione resa dal dr. Accordino cfr.ud.cit.) il quale ha dichiarato : "lui sostenne chiaramente e con forza che non intendeva rassegnarsi alla chiusura con esito negativo delle indagini su una serie di delitti; per cui fece riesumare, fece prendere dei fascicoli che magari erano messi da parte per cercare, anche con metodi balistici, anche con comparazioni balistiche, anche con contatti fra i vari organi che avevano esperito le indagini, tutti questi accertamenti per cercare di tirare fuori, alla luce di quella che era la sua convinzione, cioè di quella strategia unitaria della mafia che tendeva ad eliminare le persone che gli davano fastidio per la sua attività". Il teste ha precisato che questo convincimento era stato esternato pubblicamente dal dr. Chinnici: "lo diceva addirittura in pubblici dibattiti nelle scuole, perché lui aveva anche questa convinzione, che bisognava già dalle scuole, nelle scuole...partecipava a moltissimi incontri all'interno degli istituti scolastici per dire, per comunicare a queste nuove generazioni i concetti di legalità di giustizia di Stato, in contrapposizione alle ingiustizie alle prepotenze e agli assassini e ai delitti delle organizzazioni mafiose". Anche il col. Pellegrini (ud.15/6/1999) ha confermato la circostanza riferendo testualmente : "mi parlò, anche, e ne parlava non solamente a me, perché il Dott. Chinnici intanto era molto aperto, possiamo dire che il suo ufficio, da capo dell'Ufficio Istruzione, era sempre aperto, nel senso che chi voleva conferire con lui entrava liberamente. Mi parlò anche di alcuni progetti che aveva, proprio per provare la riconducibilità di tutti gli omicidi c.d. eccellenti ad un'unica matrice, di procedere alle perizie balistiche sulle armi usate negli omicidi più importanti di Palermo e quindi si consigliava e chiedeva anche se era possibile redigere, realizzare un archivio, di modo tale che nel momento in cui veniva sequestrata un'arma, si poteva vedere se quest'arma era stata usata par qualche omicidio......Queste sue idee di portare avanti l'indagine nei confronti dell'organizzazione criminale, non esprimeva solamente ai funzionari delle forze di polizia o ai suoi colleghi, ma le esprimeva in vari dibattiti che si tenevano sulle organizzazioni criminali, sulla lotta alla criminalità organizzata...tenne anche alcune lezioni all'Università...tutta la sua attività era protesa in questo senso: combattere la criminalità organizzata come fenomeno unico e responsabile di tutti i delitti, soprattutto di quelli eccellenti.”
Il dr. Giuseppe Pignatone (cfr. ud.16/4/1999) ha confermato il convincimento del consigliere istruttore in ordine al collegamento tra gli omicidi del gen. Dalla Chiesa e dell’on. Pio La Torre in quanto quest’ultimo era stato uno dei promotori della nomina del primo a Prefetto di Palermo, tanto che questi aveva anticipato la sua immissione in possesso proprio a seguito dell'omicidio dell’uomo politico. Il teste Pignatone ha inoltre riferito che il dr. Chinnici aveva avviato l'espletamento di una maxi-perizia comparativa sul materiale balistico rinvenuto e sequestrato in occasione di omicidi ritenuti di mafia avvenuti non solo a Palermo e provincia ma anche in altre province siciliane, rilevando che all'epoca, non essendo ancora maturata la collaborazione di Buscetta e Contorno, "era un'intuizione investigativa che poi la storia dimostrerà sostanzialmente esatta, ma mancavano i riscontri si sperava tramite questa perizia, così come tramite tanti altri tipi di indagine, di trovare dei riscontri a questa intuizione perché di questo si trattava nel 1983" .
Di questo intendimento erano a conoscenza numerose persone, non solo magistrati, poliziotti e cancellieri, ma anche altri soggetti estranei all’amministrazione della giustizia, perché il primo problema era stato quello di recuperare i fascicoli e sulla base di questi anche i reperti balistici, talvolta risalenti ad una decina anni addietro, sicchè fu necessaria una vasta ed articolata attività di reperimento del materiale balistico custodito in molteplici uffici, particolarmente complessa, che richiedeva mesi di preparazione e comportava una inevitabile diffusione della notizia.
Questa attività, iniziata nel giugno-luglio 1983, che si fondava su una felice intuizione investigativa del consigliere istruttore, fu portata a termine dopo la sua morte, con l'espletamento di una vasta perizia nell'ambito del primo maxi-processo che consentì di accertare il collegamento tra i fucili mitragliatori del tipo kalashnikov utilizzati per l’esecuzione degli omicidi in pregiudizio del gen. Dalla Chiesa, di Bontate Stefano, Inzerillo Salvatore ed il danneggiamento delle vetrine blindate della gioielleria Contino di via Libertà, eseguito proprio per verificarne la potenzialità lesiva.
Come sopra anticipato, dall’istruzione dibattimentale è emerso un interesse investigativo particolare del consigliere istruttore per il ruolo dei cugini Nino ed Ignazio Salvo nel quadro dei rapporti tra l’organizzazione “cosa nostra” e centri di potere politico ed economico di cui i noti esattori costituivano certamente espressione. È appena il caso di accennare brevemente, anticipando un tema che sarà più compiutamente sviluppato nel corso della presente sentenza, che il coinvolgimento dei Salvo nelle vicende connesse con la c.d. guerra di mafia scoppiata negli anni ’80 era ancorata ad un precisa emergenza investigativa costituita dal tenore di una intercettazione telefonica in data 11/6/1981 nel corso della quale tale Roberto – che sarebbe stato poi identificato per il noto collaboratore di giustizia Buscetta Tommaso, in quel momento residente in Brasile – veniva invitato dal suo interlocutore, tale l’ing. Lo Presti, parente dei Salvo, poi rimasto vittima di “lupara bianca”, a far rientro in Italia per sistemare le cose (“Cose troppo tinte ci sono qua…) con chiari riferimenti a “Nino” (Salvo) con il quale il Lo Presti diceva di avere parlato per organizzare il suo rientro. (“…Ma se lei comunque pensa di venire noi diciamo organizziamo la cosa….”).
Il dr. Borsellino, nel corso della deposizione resa il 30/3/1984 dinanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta, riferiva che qualche giorno prima della morte del dr. Chinnici, la Procura aveva richiesto la trasmissione della trascrizione di quella conversazione telefonica che si trovava allegata al fascicolo relativo all’omicidio del gen. Dalla Chiesa, richiesta che tuttavia il consigliere istruttore non aveva avuto il tempo di evadere.
Il famoso rapporto sui 162 mafiosi. La Repubblica il 12 luglio 2020. Il dr. Alberto Di Pisa (ud. 31/3/1999) ha riferito che il c.d. “rapporto dei 162” era stato presentato da organi investigativi congiunti e riguardava sia i gruppi “perdenti” che i “vincenti”, precisando che si trattava della prima grossa indagine concernente direttamente la fazione di “cosa nostra” dei c.d. corleonesi" e che il dr. Chinnici fino alla morte era stato l'unico interlocutore della Procura per quel processo; l'istruttoria fu chiusa nel 1985, dopo la sua morte. Il col. Angiolo Pellegrini (ud. 15/6/1999), ufficiale da sempre a stretto contatto con l'Ufficio Istruzione penale, quale comandante della I sezione del Nucleo Operativo Carabinieri, ha riferito che il dr.Chinnici "...aveva ereditato dal dott. Terranova una gran voglia di fare qualcosa di concreto nei confronti della criminalità organizzata, un fenomeno unico da combattere in maniera organica e anche se aveva istituito il pool antimafia di magistrati dell'Ufficio istruzione, egli continuava a dirigere le più importanti indagini, tenendo anche la titolarità di alcuni processi” ed ha ricordato il processo per i fatti-reato connessi con la ricostruzione del Belice, il processo per l'omicidio del giornalista Mario Francese, e quelli relativi agli omicidi dell’on. Piersanti Mattarella, dell'on. Pio La Torre e del Prefetto Dalla Chiesa. L’ufficiale ha aggiunto che il consigliere istruttore “Aveva l'idea che tutti questi omicidi fossero legati da un qualcosa e sicuramente tutti riconducibili alla criminalità organizzata e proprio per questa idea aveva approfondito indagini che riguardavano uno dei killer delle famiglie mafiose, Prestifilippo Mario". Quanto alla genesi del “rapporto dei 162”, consegnato alla Procura il 13 luglio 1982, il col Pellegrini ha precisato che il rapporto era nato “dall'emergenza determinata dalla guerra di mafia” ed era “il frutto dell'intuizione degli investigatori di ricostruire non più il singolo delitto e di individuare il singolo autore, ma di elaborare la situazione complessiva di cosa nostra esistente nei primi mesi dell'anno 1982; si concluse con la denuncia di 161 persone tra le quali Michele Greco che fino a quel momento era un personaggio particolarmente rispettato anche nella Palermo bene” ed ha aggiunto: “possiamo dire che il dott. Chinnici con la sua attività di lavoro aveva posto le basi del primo maxi processo perché da quel rapporto scaturirono poi altri successivi rapporti importanti e iniziò la collaborazione di Tommaso Buscetta il quale, oltre a confermare la ricostruzione della situazione criminale mafiosa operata dalle forze di Polizia, forniva ulteriori decisivi elementi che conducevano alla scoperta dall'interno di questa organizzazione e che inchiodavano alle proprie responsabilità i cugini Salvo; da quel rapporto, e dal sacrificio della vita del giudice e degli altri servitori dello Stato, nacquero ottocento richieste di rinvio a giudizio e tre maxi processi”. Le concordi dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia consentono di ritenere che “cosa nostra” sapeva di quelle indagini e temeva quel rapporto; sul punto è appena il caso di ricordare che il Mutolo ha definito il Palazzo di Giustizia un colabrodo e che egli stesso aveva avuto diretta conferma dell'esistenza del rapporto da una conversazione con Riccobono Rosario dell'esistenza del rapporto. Anche il collaboratore di giustizia Cancemi ha più volte ribadito le molteplici possibilità per l’organizzazione di acquisire informazioni riservate Significative sono anche le dichiarazioni rese dall’imputato Brusca Giovanni (ud. 1/3/1999) che appare opportuno riportare testualmente:
P.M. - Lei ha detto: "Per ''cosa nostra” Chinnici era un individuo da eliminare, anche perchè in quel periodo stava facendo delle indagini sul famoso rapporto", etc. Come voi eravate a conoscenza? Erano già stati emessi i provvedimenti restrittivi?
Brusca - Non mi ricordo se già erano stati emessi, siccome... sa perchè non mi ricordo? Perchè io non ero imputato, erano stati emessi, però forse li doveva firmare e poi non li ha firmati più, perchè su questo rapporto 162 c'è stata una lotta all'interno della Procura…
P.M. - E voi come eravate di queste... che erano poi dei segreti all'interno dell'Ufficio?
Brusca - Dottoressa, allora se crediamo, chiedo scusa, ai segreti di Pulcinella, senza offesa per nessuno. Ne conoscevano i Salvo, ne conosceva Salvatore Riina tramite altri canali.”
Come si avrà modo di precisare più avanti i Salvo erano a conoscenza di quelle indagini tanto che cercarono di "avvicinare" il consigliere istruttore.
Né lo stato di detenzione poteva costituire un ostacolo per “cosa nostra” all’acquisizione di informazioni riservate tanto che l’imputato Madonia Francesco informò il Mutolo dell’esistenza di quel rapporto e che sarebbero stati emessi i mandati di cattura.(cfr.Mutolo,ud.cit.).
Quanto poi alla irreprensibile dirittura morale del dr.Chinnici nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali, va rilevato che qualificate fonti probatorie hanno riferito circostanze probatoriamente rilevanti, facenti parte del personale patrimonio conoscitivo dei dichiaranti in quanto direttamente acquisite.
Di Carlo Francesco (ud. 15.2.1999), il cui profondo radicamento nella realtà mafiosa palermitana e la lunga militanza in “cosa nostra” ne conclamano la sicura affidabilità – in ordine alla quale si rinvia alle considerazioni che saranno svolte più avanti - ha riferito che “cosa nostra” sapeva bene che il dr. Chinnici era "irremovibile nelle cose, almeno aveva questa reputazione già da anni" e che egli stesso era stato incaricato personalmente di contattare il prof. Bonanno, originario di Misilmeri, padrino di battesimo o di cresima del magistrato, radiologo con studio nei pressi della stazione ferroviaria di Palermo.
Il collaboratore ha riferito che il medico fornì la seguente risposta: "guardate che conosco mio figlioccio, mi rispetta, lo voglio bene, ma quando si tratta di lavoro non c'è"; il Bonanno era andato comunque a trovare il dr. Chinnici il quale aveva risposto che avrebbe chiesto il proscioglimento soltanto se si fosse convinto dell'inesistenza delle prove a carico della persona raccomandata.
Il Bonanno era un vecchio e caro amico del consigliere Chinnici, anch'egli originario di Misilmeri ed effettivamente, come ha riferito il figlio del giudice, Chinnici Giovanni, (ud. 31/3/1999), era padrino di battesimo o di cresima del padre, precisando che tra le famiglie vi era stata una certa frequentazione con visite, come quelle che solitamente si fanno alle persone anziane.
Ciononostante i tentativi di avvicinamento, anche in epoca piuttosto recente rispetto all'attentato, non erano venuti meno, e sul punto l’imputato Brusca Giovanni (ud.1/3/1999) ha testualmente riferito : “In quel momento hanno detto: "Finalmente è arrivato il momento di romperci le corna", però sapevo che i Salvo avevano il problema con il dottor Chinnici, che lui indagava su di loro. Loro avevano fatto tanti tentativi di poter avvicinare il dottor Chinnici, ma non ci sono mai riusciti, cioè politicamente. …. me lo dicono i Salvo stessi; i Salvo, mio padre, Salvatore Riina. Capito? Al sud non c'è bisogno di... di fare tanti argomenti, cioè loro dice: "Abbiamo fatto tanti tentativi di poterlo avvicinare, ma non ci siamo mai riusciti".
Alla luce di quanto sopra esposto appare evidente l’interesse dell’organizzazione di eliminare un magistrato determinato e professionalmente preparato come il dr. Chinnici i cui innovativi metodi di lavoro potevano costituire un più efficace sistema di contrasto della criminalità organizzata, come risulta dalla deposizione resa dal dr. Accordino il quale ha riferito che il consigliere istruttore "aveva incoraggiato, aveva portato avanti la necessità di un sistema di indagine congiunta, di pool investigativi....con riferimento a magistrati e con riferimento a forze dell'ordine, in quanto giustamente lui sosteneva che di fronte a un fenomeno unitario gerarchico piramidale come la mafia occorre che lo Stato si organizzi in maniera analoga e non in maniera frammentaria con mille rivoli di indagine ognuno nelle mani di un magistrato che non sa quello che fa l'altro"(cfr.ud.1/6/1999). La circostanza è stata confermata anche dal teste dr. Aldo Rizzo, all'epoca parlamentare, con il quale il giudice Chinnici, in occasione degli incontri nei fine settimana, aveva avuto modo di parlare dei propri orientamenti sul piano organizzativo. A conferma del convincimento del consigliere istruttore in ordine alla matrice unitaria dei c.d. omicidi politici va rilevato che lo stesso magistrato lo aveva manifestato apertamente a colleghi ed investigatori, tanto che intendeva disporre una perizia balistica comparativa tra le armi utilizzate per l’esecuzione dei vari delitti.
Quei vicerè (mafiosi) della Sicilia. La Repubblica il 13 luglio 2020. Con riferimento all’interesse investigativo per i Salvo ed al loro coinvolgimento nelle vicende connesse con la guerra di mafia, va rilevato che il dr.Antonino Cassarà, già dirigente della Squadra Mobile di Palermo, ucciso nell’agosto del 1985, nel corso della deposizione resa in data 20/3/1984 alla corte di Assise di Caltanissetta riferì di avere appreso dai sostituti procuratori della repubblica Di Pisa Alberto e Geraci Vincenzo, dopo la morte del consigliere Chinnici, dell’intendimento di quest’ultimo di emettere mandati di cattura nei confronti dei cugini Salvo i quali fino a quel momento erano destinatari di una comunicazione giudiziaria per il reato di cui all’art 416 bis c.p. nell’ambito del procedimento per la scomparsa dell’ing. Lo Presti, valorizzando detta posizione processuale. Anche il teste Accordino ha confermato che il dr.Chinnici aveva manifestato precise opinioni sui cugini Salvo (f.46, ud.cit) e sulla opportunità di arrestarli. In un contesto come quello sopra delineato non può sorprendere il clima di preoccupazione e di emarginazione che traspare dalle dichiarazioni rese al C.S.M. e da talune annotazioni figuranti nel diario del dr. Chinnici, atteso che, in un momento storico in cui le organizzazioni mafiose erano ancora indenni dagli effetti devastanti che il fenomeno della collaborazione avrebbe provocato sui tradizionali equilibri e sulla consolidata impunità dei suoi affiliati, il nuovo clima di impegno giudiziario, i nuovi metodi di indagine e, soprattutto, il diverso approccio culturale ed investigativo con il fenomeno mafioso non poteva non suscitare viva preoccupazione ed allarme nell’organizzazione mafiosa in un momento di riacquistata stabilità negli assetti organizzativi. Ma era soprattutto il rinnovato ed insolito impegno civile di un magistrato come il dr. Chinnici, a capo di un ufficio che costituiva, per il modello processuale vigente, il centro propulsore delle indagini in un’area geografica di primaria importanza strategica per ragioni storiche e sociali, che costituiva motivo di preoccupazione per i centri di potere politico-mafioso, atteso che il dr. Chinnici si era fatto promotore di iniziative sociali volte a favorire tra i giovani e soprattutto tra gli studenti lo sviluppo di un’autentica cultura della legalità. Ad avviso della Corte la partecipazione a dibattiti in pubblici convegni e nelle scuole depone per la presa di coscienza di quello che deve essere l'obiettivo privilegiato, innanzitutto, della scuola ed in genere di chiunque, privato o istituzione pubblica, abbia il compito di formare le coscienze dei giovani: educare per favorire la crescita di una coscienza collettiva che consenta una scelta chiara e consapevole in favore di quei valori in nome dei quali molti servitori dello stato hanno sacrificato la loro vita. Questi valori possono sintetizzarsi in una parola, carica di pregnante significazione civile e sociale : legalità, intesa quale valore etico che deve entrare a pieno titolo non solo nella deontologia di determinate categorie professionali che più specificatamente operano nel sociale, ma nello stile di vita di qualunque cittadino.
Egli aveva colto l'importanza che in una società civile e in uno stato di diritto la scuola, in ogni ordine e grado, assume sul piano della formazione delle coscienze, che devono essere orientate verso la formazione di una autentica cultura antimafiosa, e ciò nella piena consapevolezza che la battaglia sociale per una nuova moralità pubblica, di cui solo dopo le stragi del 1992 cominciano ad intravedersi i primi segnali di successo, non può prescindere da una crescita culturale e politica complessiva della società civile e delle istituzioni che deve manifestarsi attraverso l'impegno di tutti per un profondo risanamento del tessuto istituzionale, dell'organizzazione sociale e produttiva.
Estremamente significativo appare, sul punto, riportare le dichiarazioni rese dal teste Rizzo Aldo all’udienza del 18/1/1999: “ … per iniziativa, lo possiamo dire, di Rocco Chinnici fu creato il centro studi Cesare Terranova, centro che lui volle creare per onorare la memoria di un altro grande magistrato, di Cesare Terranova, e lui volle essere il segretario generale; mi impose, io direi, di essere il presidente di di questo centro. Perchè Rocco Chinnici concepiva il suo impegno per la legalità, per la Giustizia e contro la mafia, non soltanto come magistrato, cioè prestando servizio nel Palazzo di Giustizia. Riteneva che la lotta contro la mafia si dovesse portare fuori dal Palazzo di Giustizia, e quando lui sosteneva questa tesi era un periodo in cui ancora non c'era quel grande canto corale che poi si è sviluppato nel tempo e che ha consentito un coinvolgimento anche di grandi masse. A quel tempo c'era una grande sostanziale indifferenza all'esterno, eppure lui con notevole impegno ebbe a sviluppare questo suo lavoro con convegni, seminari, partecipando a tavole rotonde, non soltanto a Palermo, ma anche fuori Palermo, e volle creare questo centro Cesare Terranova, che voleva essere un punto di collegamento in fondo tra la Magistratura e l'ambiente esterno di Palermo”.
Alla stregua delle considerazioni che precedono e tenuto conto del fatto che le organizzazioni mafiose si sono progressivamente imposte e radicate nel tessuto sociale soprattutto nelle aree geografiche in cui più sensibilmente si è manifestata la crisi etico-sociale delle istituzioni, non può seriamente revocarsi in dubbio che il consigliere istruttore Chinnici - soprattutto per l’interesse investigativo, di cui non aveva fatto mistero, per il ruolo dei cugini Salvo - costituiva certamente un magistrato particolarmente “pericoloso” in un momento storico in cui la tradizionale impunità delle organizzazioni mafiose poteva essere messa in discussione da una maggiore incisività delle indagini e, soprattutto, dalla presa di coscienza del loro rapporto strutturale, ora parassitario, ora organico, ora simbiotico con gruppi e centri di potere politico- economico. La centralità del ruolo dei cugini Nino e Ignazio Salvo nella ricostruzione del movente della strage per cui è processo, come emerge univocamente dalle circostanziate dichiarazioni rese dall’imputato Brusca Giovanni, di cui si dirà più avanti, cominciava già a delinearsi nel corso delle indagini esperite nell’ambito del primo processo celebratosi nel 1984, imponendosi progressivamente, nel complessivo contesto probatorio, come una acquisizione processuale dotata di univoca valenza indiziante. Ed infatti, come sopra anticipato, nel corso delle indagini esperite in relazione al procedimento penale scaturito dal “rapporto dei 162”, ed in particolare nel corso di quelle relative all’omicidio di Salvatore Inzerillo (11/5/1981), il consigliere istruttore Chinnici cominciò ad acquisire i primi concreti elementi che deponevano per un coinvolgimento operativo dei cugini Nino ed Ignazio Salvo nelle vicende connesse con la c.d. guerra di mafia scoppiata agli inizi degli anni ’80, elementi che solo successivamente, attraverso una complessa istruzione formale, ed in particolare dopo le circostanziate dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia Buscetta Tommaso e Contorno Salvatore, avrebbero consentito l’acquisizione di prove inconfutabili in ordine all’affiliazione dei predetti all’organizzazione “cosa nostra”, sì da consentirne dapprima l’arresto con mandato in data 12/11/1984 e poi il rinvio a giudizio, con la nota sentenza-ordinanza dell’8/11/1985, dinanzi la corte di Assise di Palermo per rispondere del delitto di cui all’art.416 bis c.p., unitamente ad altri 474 imputati nell’ambito del c.d. primo maxi processo. Le successive acquisizioni processuali avrebbero consentito di delineare lo spessore criminale dei predetti cugini, uomini d’onore della “famiglia” di Salemi, ed il loro ruolo di raccordo, nel panorama politico siciliano, quali esponenti di spicco di un importante centro di potere politico-finanziario, tra l’organizzazione “cosa nostra” ed una certa classe politica, con conseguente notevole capacità di influire - grazie al tradizionale controllo, fin dagli anni ’60, di una larga fetta dell’elettorato trapanese - sulle scelte delle istituzioni politiche regionali a precipuo vantaggio del loro gruppo finanziario. L’interesse investigativo del dr.Chinnici per gli esattori di Salemi era ben noto negli ambienti investigativi e lo stesso magistrato non ne faceva mistero. Nel corso della deposizione in data 3/8/1983 il dr. Borsellino dichiarava testualmente: " Chinnici era convinto che ai fatti di mafia, almeno di un certo livello, fossero coinvolti anche gli esattori Salvo...contemporaneamente lamentava, ed era amareggiato per questo fatto che finiva con l'intralciare il rapido ed efficace svolgimento di attività, che nei confronti di costoro si agisse con i guanti gialli da parte di tutti ed anzi aggiunse nei loro confronti una volta, che se gli stessi elementi li avessero avuti nei confronti di altri, certamente si sarebbe proceduto". Lo stesso magistrato, nel corso della deposizione dibattimentale del 30/3/1984, dichiarava che il dr. Chinnici aveva chiesto pochi giorni prima della morte la trasmissione delle intercettazioni telefoniche allegate alla strage del generale Dalla Chiesa. Le intercettazioni riguardavano principalmente una conversazione tra l'Ing. Lo Presti - parente acquisito dei Salvo, avendo sposato una Corleo, poi rimasto vittima di lupara bianca nel settembre del 1982 - e Buscetta Tommaso, nel corso della quale si faceva riferimento ad un incontro tra quest’ultimo e Salvo Nino. Anche il dr. Giovanni Falcone, nel corso della deposizione dibattimentale resa all’udienza del 12/4/1984 nell’ambito del primo processo per la strage di via Pipitone Federico, aveva riferito che sul cadavere di Inzerillo Salvatore erano stati trovati appunti sui quali erano annotate le utenze telefoniche dell'ing. Lo Presti e di una società di Milano di cui era titolare Gaeta Carmelo, imputato per associazione mafiosa nel blitz di San Valentino. Come sopra anticipato, la telefonata tra il Lo Presti e Buscetta (Roberto) conteneva la richiesta a quest’ultimo di far rientro in Italia per tentare la riappacificazione tra le varie famiglie ed arginare la guerra di mafia in corso; il Lo Presti riferiva di parlare per conto di un certo Nino poi identificato in Salvo Antonino. Anche il Salvo Ignazio venne indiziato di associazione mafiosa sulla base di alcuni elementi emersi da conversazioni telefoniche intercettate sull’utenza del Lo Presti nelle quali si faceva riferimento a tale Giuseppe, poi identificato nel predetto Salvo Ignazio.
Il dr. Antonino Cassarà, (cfr. dep. dib. 16-20-21 marzo 1984), ucciso nell'agosto 1985, riferì nel corso di quel dibattimento sul contenuto di dette intercettazioni telefoniche e sulla stretta contiguità tra i Salvo e gli esponenti mafiosi Bontate Stefano e Inzerillo Salvatore fino alla loro morte, precisando che successivamente i cugini Salvo si erano avvicinati al gruppo vincente facente capo a Greco Michele. Estremamente significativa appare la seguente dichiarazione del teste : "È inevitabile che gruppi finanziari dell'importanza di quello dei Salvo abbiano bisogno dell'appoggio della mafia per potere operare verificandosi una situazione qual è quella che si era verificata in quel particolare momento;...si sono verificati dei fatti particolari che sono appunto indicativi di questo avvicinamento dei Salvo al gruppo dei Greco e precisamente a Giuseppe Greco figlio di Michele". Il teste riferiva, altresì, che dopo la morte di Inzerillo i Salvo si erano improvvisamente allontanati in crociera per due mesi e mezzo, facendo addirittura rinviare il matrimonio di una nipote; a questo allontanamento gli inquirenti avevano attribuito il significato di un’attesa da parte dei Salvo che si ristabilisse la calma attraverso nuovi equilibri.
Il teste Di Pisa Alberto (verb. 31/3/1999), ha riferito che il dr.Chinnici era di Salemi e conosceva i Salvo, precisando che le citate intercettazioni telefoniche erano state acquisite qualche giorno prima della strage tanto che lo stesso magistrato aveva commentato con il collega Ayala la possibile esistenza di un nesso con l’attentato. Ha inoltre confermato l’intenzione del dr. Chinnici di arrestare i Salvo – determinazione, questa, che venne adottata solo dopo le rivelazioni di Buscetta, che li indicò come uomini d'onore – nonché l'abitudine del consigliere istruttore di esternare le sue convinzioni, tanto che ne aveva parlato con lui, con il collega Geraci e certamente con altri. Il teste ha altresì riferito che nel mese di luglio si era sparsa la voce che era andata smarrita una richiesta di cattura per i Salvo, circostanza appresa dal collega Signorino, sicchè si era recato insieme al dr. Geraci presso l’ufficio del consigliere istruttore il quale aveva smentito la notizia, aggiungendo tuttavia che il suo ufficio avrebbe comunque accolto qualunque richiesta della Procura in tale senso.
Ulteriori conferme sono state fornire dal teste Accordino, il quale nel corso della deposizione dibattimentale (ud.1/6/1999) ha testualmente dichiarato: "Il dr. Chinnici aveva più volte manifestato, non credo nemmeno in maniera diciamo nascosta, la sua convinzione che i cugini Salvo fossero dei personaggi... dei referenti molto importanti dell'organizzazione mafiosa. Più volte aveva manifestato anche la sua convinzione che i cugini Salvo dovessero essere colpiti da provvedimenti giudiziari....…Lo ha fatto sapere non soltanto a me, ma lo diceva in maniera, diciamo, anche abbastanza aperta; anche se nell'ambiente circolava la famosa battuta che chi tocca i Salvo muore, cioè che bisognava stare molto attenti, in quanto si trattava di persone, diciamo, di una certa pericolosità.... Era convinto che i Salvo erano degli importanti referenti delle famiglie mafiose emergenti".
Anche il teste Accordino ha riferito circa il contenuto dell'intercettazione telefonica riguardante l'ing. Lo Presti, ribadendo che il dr. Chinnici intendeva perseguire i Salvo per il reato di associazione mafiosa. Il quadro ricostruttivo sopra delineato in ordine alla centralità del ruolo dei Salvo nella presente vicenda processuale non può prescindere dalla deposizione del col. Pellegrini, dalla quale emerge una significativa circostanza che assume una particolare rilevanza probatoria se valutata in correlazione con le dichiarazioni dell’imputato Brusca Giovanni il quale, come si avrà modo di esporre più diffusamente nel prosieguo della motivazione, ha riferito di una riunione tra Salvo Nino, Brusca Bernardo e Riina Salvatore in contrada Dammusi, nell'estate 1982. Nel richiamare quanto sopra evidenziato in ordine alla rilevanza ed al contenuto della intercettazione telefonica più volte citata, di poco successiva all’omicidio Inzerillo, va rilevato che di quel contatto telefonico e dei relativi spunti investigativi, che avrebbero potuto gravemente compromettere il loro prestigio e la loro impunità, i Salvo dovettero essere stati informati attraverso i canali sui quali potevano contare, così come certamente dovettero temere l’adozione di provvedimenti restrittivi, tanto più che l’intendimento più volte manifestato in tale senso dal consigliere istruttore, sia pur nell’ambito dell’ambiente giudiziario, non pare fosse stato connotato dalla dovuta riservatezza. Il teste Pellegrini (ud. 15/6/1999, ff. 35 e segg.) ha riferito che : "si premeva un pò la magistratura perché emettesse dei provvedimenti nei confronti dei cugini Salvo.....due pareri diversi: mentre il dr. Falcone e alcuni funzionari anche delle forze di Polizia erano dell'idea che occorreva ancora di più approfondire questa indagine prima dell'emissione di un provvedimento restrittivo, d'altra parte altri magistrati e tra questi anche il dr. Chinnici era dell'avviso che si sarebbe potuto emettere anche in base alle circostanze che erano emerse nel corso delle indagini". È evidente che l'interesse investigativo del consigliere istruttore nei confronti dei cugini Salvo risale ad epoca immediatamente precedente all'incontro tra Salvo Antonino, Riina e Brusca, essendo stato il rapporto dei 162 depositato il 13.07.1982...
E peraltro, le preoccupazioni dei Salvo risultano ulteriormente confermate dal predetto teste il quale ha riferito di un episodio occorso in epoca in cui si celebrava il primo dibattimento per l’eccidio di Via Pipitone Federico. In relazione alle notizie riportate dalla stampa dell’epoca (cfr.articolo del Giornale di Sicilia acquisito agli atti) in ordine al contenuto delle deposizioni rese in quel processo dal dr. Cassarà e dal dr. D'Antona in ordine alla volontà del dr. Chinnici di emettere provvedimenti restrittivi nei confronti dei cugini Salvo, il teste Pellegrini ha riferito che ancor prima del dibattimento i Salvo avevano tentato inutilmente di avere un colloquio con lui, fino a quando il Salvo Antonino si era presentato nel suo ufficio lamentando che quelle indagini erano scaturite da un interesse del Partito Comunista che, sfruttando la loro incriminazione, intendeva contrastare la D.C. in Sicilia e principalmente gli on. Lima e Gullotti; in quel contesto il Salvo aveva minacciato di sporgere querela nei confronti dell'autore del rapporto giudiziario che inopinatamente aveva inserito il suo nome e quello del cugino Ignazio. L'episodio di cui il quotidiano siciliano si era occupato, riguardava la testimonianza del dr. Cassarà il quale aveva confermato di avere appreso dal dr. Chinnici dell'intenzione di arrestare i due esattori; questa testimonianza, non confermata da altri funzionari, tra i quali il dr. D'Antona, era stata invece pienamente avvalorata dallo stesso ufficiale, destinatario delle stesse confidenze.
Sul punto il teste ha riferito: "..a me il dott. Chinnici lo aveva riferito personalmente. Aveva detto che avrebbe sicuramente arrestato i Salvo e come lo aveva detto a me lo sapevano parecchie persone dell'entourage e anche fuori dell'entourage della Procura e dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo e allora dopo questa testimonianza, chiaramente ci fu un pò di polemica sui giornali e uscirono dei titoli nei confronti dei Salvo che furono chiamati i grandi gabellieri della Sicilia e cose varie" (cfr.ff. 45-46). Il col Pellegrini ha inoltre deposto sul contenuto di una conversazione telefonica intercettata tra l'avv. Guarrasi e Nino Salvo - la cui bobina non è stato possibile reperire (cfr.documentazione acquisita) - riferendo testualmente alcune delle frasi più significative pronunciate dagli interlocutori a commento della deposizione del dr. Cassarà: "ricomincia l'altalena e qui è difficile che ci siano smentite. Cosa ci vuole a fare questa puntatina? A me nessuno mi ha parlato, mi ha parlato, ma solo il defunto. però io lo...spavento...no spavento, lo schianto, perché faccio bile dentro di me...........Ti pare giusto? continua a dare timpulate a noialtri che gliel'abbiamo data prima di lui." L’importanza del ruolo dei cugini Salvo nel contesto politico-mafioso dell’epoca risulta conclamata univocamente dalle concordi testimonianze di ufficiali di p.g. e collaboratori di giustizia, con particolare riferimento a quelle rese dal Di Carlo, in ordine alla consapevolezza dei Salvo circa le indagini condotte nei loro confronti dal dr. Chinnici, e dal Brusca che ne ha delineato il ruolo nella fase di ideazione dell’attentato. I collaboratori escussi hanno riferito dell’affiliazione dei Salvo a “cosa nostra”, sottolineandone anche lo stretto rapporto politico con certi settori della D.C. siciliana facenti capo agli onorevoli Lima e Gullotti.
Il “problema” Ciancimino. La Repubblica il 14 luglio 2020. Quanto al ruolo dei cugini Salvo in seno all’organizzazione mafiosa, i collaboratori Di Carlo, Brusca e Siino ne hanno concordemente rilevato l'originaria vicinanza alla fazione rappresentata da Bontate, Inzerillo e Badalamenti, sottolineando la situazione di pericolo per la loro incolumità venutasi a determinare a seguito della guerra di mafia e del sopravvento del gruppo dei “corleonesi” ed il loro conseguente graduale avvicinamento al Riina, il quale aveva ritenuto più conveniente revocare la loro condanna a morte, preferendo allearsi con loro. La circostanza è pienamente coincidente con le risultanze investigative dell'epoca ed in particolare con la citata deposizione del dr.Cassarà circa il temporaneo allontanamento dei Salvo da Palermo, subito dopo l’omicidio Inzerillo, ed il rinvio della data già fissata delle nozze di una nipote, allora correttamente interpretato dagli inquirenti come la decisione di sottrarsi al pericolo di essere coinvolti nella sanguinosa strategia di sterminio degli avversari da parte del gruppo corleonese. Sulla personalità ed il ruolo dei Salvo appare opportuno ricordare le seguenti testuali dichiarazioni del collaboratore Di Carlo Francesco (ud. 25.2.1999), il quale, pur avendoli conosciuti fin dagli anni '60, ebbe piena contezza della loro affiliazione a “cosa nostra” a casa di Badalamenti Gaetano dopo la scarcerazione di quest'ultimo negli anni '75 - '76 : "Erano i più forti veramente....oggi quando si parla dei Salvo specialmente processualmente….., c'è gente che li vuole fare diventare come due criminali qualsiasi. No, no, manovravano la politica siciliana perchè avevano quella filoandreottiana e dorotea a Trapani, infatti Ignazio aveva i dorotei che portavano nella provincia di Trapani, mentre Nino a Palermo, anche con Ignazio, portavano gli andreottiani. Ma erano veramente una potenza economica. Poi avendo alle spalle cosa nostra e cosa nostra a chi è molto ricco pur essendo un soldato semplice e che non può usufruire di...benefici , perché si interessavano su tutto, sia per come posti di lavoro, come Giustizia, qualsiasi cosa. Questi erano i Salvo" (cfr.f.100). Il Di Carlo ha riferito che dal 1978 in poi gli equilibri interni all'organizzazione erano cambiati e che a seguito del declino di Bontate ed Inzerillo, ai quali i Salvo erano legati, si era registrato il graduale avvicinamento dei due cugini a Greco Michele e successivamente, in concomitanza con l'allontanamento del Badalamenti, al gruppo dei corleonesi all'interno del quale avevano stretto legami con Provenzano Bernardo in cerca di nuovi appoggi politici. In quel contesto, già nell'estate 1982, i Salvo erano a conoscenza delle indagini sul loro conto da parte del consigliere Chinnici e secondo un metodo ormai collaudato dall’organizzazione si tentò dapprima il c.d. ”avvicinamento” tramite i parenti di Salemi della moglie del magistrato, evidentemente andato a vuoto, ("perché hanno trovato una roccia come si suole dire in Chinnici"- cfr. Di Carlo), per decretarne poi la morte. Il Di Carlo ha testualmente dichiarato : “E così il Salvo si è trovato a gestire questa situazione, voleva fare bella figura con Michele Greco. Da interessarsi si è trovato interessato diretto, perché Chinnici comincia a fare indagare sui Salvo e l'ultima volta che ho incontrato Nino Salvo mi ricordo che mi diceva che era avvelenato, nel senso di nervi, dicendo che il Chinnici aveva scatenato un'inchiesta sotto sotto su...su tutti i movimenti (bancari) di Salvo” (cfr.f.97), episodio collocato temporalmente nell'estate del 1982 allorchè i Salvo si allontanarono da Palermo.(f.105). Ed ha aggiunto: "Noi eravamo in condizioni, specialmente con i Salvo, con Lima di arrivare dovunque e allora potevamo arrivare dentro lo Stato, infatti quante volte si è stati a fare trasferire a qualcuno i Salvo proprio" (f. 251)
Il collaboratore ha altresì precisato che i profondi sentimenti di astio nutriti dai Salvo nei confronti del dr. Chinnici erano noti in seno a Cosa Nostra, riferendo delle confidenze ricevute da Riccobono Rosario, che a sua volta le aveva apprese da un funzionario della Polizia di Stato (f. 107), il quale con riferimento al consigliere istruttore gli avrebbe detto testualmente: "picca dura"(nel senso che avrebbe vissuto ancora per poco), perchè sapeva dell'interesse diretto dei Salvo e di Greco Michele, fino ad allora mai raggiunto da provvedimenti giudiziari.
In particolare il Riccobono sosteneva che il magistrato era destinato a morire per l'intraprendenza che aveva avuto iniziando a svolgere indagini nei confronti dei Salvo. Il Di Carlo ha altresì riferito di un incontro tra Salvo Antonino e Provenzano Bernardo a Bagheria nella fabbrica di chiodi di Greco Leonardo durato circa quattro ore, antecedente alle confidenze ricevute dal Riccobono, sempre dell'estate 1982. Evidentemente, superato il momento difficile che li aveva indotti ad allontanarsi da Palermo, i Salvo avevano cercato nuovi equilibri ed alleanze, sicchè "allora sono diventati nell'82 tutti corleonesi tutti hanno rialzato di nuovo la testa i Salvo"(cfr.Di Carlo).
Quanto ai rapporti tra i Salvo ed il Riina il collaboratore Cucuzza Salvatore (ud. 28/1/1999) ha riferito che "in quel periodo erano di totale abbandono nelle mani di Totò Riina; erano...prima erano molto vicini a Gaetano Badalamenti, parlo degli anni '70; poi nei primi anni '80, dopo il sequestro del suocero cominciò ad avvicinarsi a Totò Riina e dopo l'estromissione, diciamo di Gaetano Badalamenti, si è avvicinato a Riina. Comunque nella guerra si è schierato dalla parte di Totò Riina"(cfr.ff.92- 93).
Anche il collaboratore di giustizia Siino Angelo (ud. del 21/6/1999)- sulla cui personalità ed attendibilità intrinseca si rinvia alle considerazioni che saranno svolte più avanti - ha reso dichiarazioni di estremo interesse, riferendo di avere incontrato Salvo Antonino nell'ufficio del dr. Purpi, funzionario del 2° Distretto di Polizia a Palermo, prima ancora dell'omicidio di Bontate. In quell'occasione il Salvo si era rivolto al funzionario affinchè intercedesse per fargli ottenere un colloquio con il dr. Chinnici e all'arrivo del Siino aveva cambiato discorso. Su questo specifico tema appare opportuno riportare integralmente le dichiarazioni del collaboratore:
P.M. - Senta, io vorrei chiederle se lei, che ha frequentato e ambienti mafiosi e ambienti non mafiosi, avesse mai sentito parlare e in che termini, eventualmente, del dottore Chinnici.
SIINO - Sì, signora, io debbo dire proprio una cosa, che io ho avuto modo di sentire parlare del dottore Chinnici come personaggio originario di Misilmeri e, in un certo senso, personaggio inavvicinabile. Visto che il povero dottore Chinnici è morto lascio immaginare gli epiteti che si sfuggivano a personaggi di rilievo della mafia di Misilmeri, che io ben conoscevo, quale Gabriele Cammarata,…..Comunque, tutti personaggi di rilievo della mafia di Misilmeri, tutti morti in maniera violenta, che praticamente mi parlavano come di un grande, insomma, personaggio cattivo del dottore Chinnici, mi dicevano che era inavvicinabile... Mi dicevano che era inavvicinabile, mi dicevano che era arteriosclerotico, insomma si cercava di sminuire in ogni... in ogni modo e in ogni maniera la figura del povero dottore Chinnici. Devo dire che questa è una cosa, una chicca che le do ora: io ebbi modo di sentirne parlare anche di Nino Salvo, parlare proprio intorno al 1981 o '82, ancora vivente Stefano Bontade, nel senso che un giorno mi trovavo all'interno del secondo Distretto di Polizia, dove ero andato per questioni ... del mio porto d'armi, allora avevo sia il porto d'armi di fucile che il porto di pistola. Io ero molto amico del dottore Piero Purpi, vicequestore allora ... del secondo Distretto di Polizia e in quel periodo ebbi modo di vedere... c'era... entrando lì trovai Nino Salvo; io conoscevo molto bene Piero Purpi, eravamo abbastanza amici. E, praticamente, vidi che quando io arrivai Nino Salvo interruppe quello... il discorso che aveva con Piero Purpi. Dopodichè... e allora ci disse: "Piero, me ne vado", ... e io rimasi con Piero Purpi e Piero Purpi mi disse: "Ma - dice - minchia, Nino sta impazzennu, pirchì vulissi ca io vado a parlare con il dottore Chinnici, ma assolutamente io non ci vado, perchè chiddu m'assicuta e mi butta dalle scale". Questo è quello che mi riferì e che mi ricordo.
P.M. ... il dottore Purpi le disse perchè Nino Salvo voleva che parlasse con il dottore Chinnici?
SIINO - ... non me lo disse, perchè praticamente, in un certo senso, il dottore Purpi era un personaggio, diciamo, sanguigno, era una persona (generosa), che praticamente gridava sempre quando parlava: "Oh, oh... ma chissu voli ca io vaiu a parlu a chiddu". Pero' io... .. non ho avuto modo di interferire in questa situazione, anche perchè avevo visto che come ero entrato io Nino Salvo aveva cambiato discorso.”
Il collaboratore ha, inoltre, dichiarato testualmente: “Chinnici non si faceva i fatti suoi, nel senso che si stava addentrando su certe situazioni che erano off limits, cioè nel senso che stava cercando di indagare quali erano i veri rapporti tra l'organizzazione militare della mafia e l'organizzazione politica ed economica....allora i Salvo reggevano l'economia siciliana nel senso che erano dei personaggi di tutto rilievo politico, imprenditoriale, mafioso ".
Il collaboratore ha inoltre delineato la potenza politica ed economica di quella famiglia, gli agganci di ogni tipo e la particolare vicinanza con l'On. Salvo Lima. Quanto poi ai collegamenti con “cosa nostra” ed alle nuove alleanze delineatesi dopo la morte di Stefano Bontate, il Siino ha riferito che dopo l'omicidio di quest’ultimo i Salvo erano passati "nelle mani" di Bernardo Brusca, che aveva delegato il figlio Giovanni. Questa significativa acquisizione processuale non solo suffraga l’attendibilità delle dichiarazioni dell’imputato Brusca Giovanni che ha riferito circa la propria frequentazione assidua dell’abitazione e degli uffici dei Salvo, ma chiarisce le ragioni per le quali, come si dirà più avanti, sia stato proprio il predetto Brusca ad accompagnare nell'estate del 1982 Salvo Antonino in contrada Dammusi per l'incontro con il proprio padre ed il Riina. Anche Brusca Emanuele (ud. 22.6.1999) ha confermato i contatti tra il Salvo ed il proprio padre, nonchè le frequenti visite del primo in contrada Dammusi dove, tra l'altro, trascorreva la latitanza il Riina nei primi anni '80. Le cointeressenze e gli stretti legami operativi tra i Salvo e “cosa nostra” risultano significativamente attestati da quanto riferito dal Brusca circa la loro sintomatica presenza in c.da Dammusi in concomitanza con il verificarsi di gravi delitti contro esponenti delle istituzioni dell'epoca, quali ad esempio gli omicidi La Torre e Dalla Chiesa. Sul punto il collaboratore ha testualmente dichiarato ( cfr. Brusca, ud. 2.3.1999, f. 154) "in quel momento vedevo i comportamenti con i Salvo e i comportamenti con gli uomini d'onore ...cioè man mano che si riunivano con i Salvo però si riunivano con altri capi mandamento a due a tre a quattro o uno e avvenivano sempre quasi nello stesso periodo, quindi una settimana, un giorno, due giorni. So solo e semplicemente che in quel momento, cioè così, con i...quando si incontravano con i Salvo dopo riunioni, incontri, succedevano i fatti ".(cfr.anche f.147,ud.1/3).
Gli equilibri politico-mafiosi delineatisi a seguito delle nuove alleanze erano perfettamente funzionali agli interessi di “cosa nostra” che attraverso i Salvo manteneva i contatti con settori del mondo politico ai quali poteva assicurare appoggi elettorali ricevendo a sua volta in cambio favori. Brusca ha peraltro chiarito i pessimi rapporti tra Riina e l’esponente politico Ciancimino, riferendo che il primo gli aveva detto "Non ne posso più di questo mio paesano", perchè a causa di quest’ultimo aveva commesso gli omicidi Mattarella, Reina e l'attentato al Sindaco Martellucci. Con specifico riferimento ai rapporti tra Cosa Nostra e certi settori della D.C. siciliana per il tramite dei Salvo, il collaboratore ha testualmente dichiarato: “Ma gli argomenti di discussione erano che loro (i Salvo) erano interessati principalmente nel mondo politico e Salvatore Riina aveva sempre problemi con Ciancimino; Ciancimino che politicamente lo volevano estromettere e con la forzatura di Salvatore Riina loro dovevano digerire all'interno della Democrazia Cristiana la presenza di Vito Ciancimino, perchè i Lima o i Salvo non volevano accettare... per la posizione che si era venuta a creare di Vito Ciancimino additato come mafioso, cioè lo volevano espellere, cioè allontanare dalla Democrazia Cristiana. Ma con l'intervento di Salvatore Riina dovevano, a forza maggiore, cioè sopportare queste persone. Quando poi ci fu l'elezione di Mario D'Acquisto loro sono intervenuti per fare votare Mario D'Acquisto, farlo mettere nella lista della D.C. come “limiano” e d'accordo con Salvatore Riina e in prima persona con i cugini Salvo e Salvatore Riina si è deciso di votare Mario D'Acquisto, e abbiamo votato Mario D'Acquisto”.(cfr.ff.135-136 ud.cit). “….c’erano all'interno della Democrazia Cristiana problemi, in particolar modo i problemi li aveva Ciancimino. Salvatore Riina li mandava a chiamare o loro(i Salvo) chiedevano l'appuntamento con Salvatore Riina per sanare questi disappunti o disaccordi all'interno della Democrazia Cristiana nella persona di Vito Ciancimino. Cioè, Salvatore Riina tanto è vero che a un dato punto si è stuffato di avere problemi per sostenere il Ciancimino, cioè perchè era Bernardo Provenzano che sosteneva di più il Ciancimino. E ad un dato punto il Salvatore Riina dice: "Non ne posso più io di questo mio paesano con il Ciancimino", perchè per causa sua Salvatore Riina aveva commesso degli omicidi e mi riferisco a quello Mattarella, mi riferisco a Reina e tanti altri piccoli fatti che loro avevano commesso e l'attentato al sindaco Martellucci. Quindi, questo per quanto riguarda il Riina. I Salvo venivano per lamentare comportamenti negativi nei confronti del Ciancimino o viceversa.” (cfr.ff.145-146).
Il Brusca ha riferito che nel 1982 la sua organizzazione aveva appoggiato l'on. Mario D'Acquisto facendo confluire su di lui circa 30000 voti. Il collegamento con la D.C. tramite i Salvo risulta inoltre confermato dalle dichiarazioni del Dr. Borsellino. Il Dr. Chinnici aveva avuto un colloquio con Lima, sollecitato dall'on. Silvio Coco, nel corso del quale il Lima gli aveva fatto presente che l’iniziativa giudiziaria concernente il Palazzo dei Congressi e l’arresto dell’imprenditore catanese Costanzo e Di Fresco, veniva considerata una forma di persecuzione per la D.C.; il magistrato aveva risposto che l'Ufficio Istruzione si interessava di fatti specifici contestati a determinate persone, senza che potesse avere rilevanza l'appartenenza politica. Intendeva quindi andare avanti ad ogni costo, senza guardare in faccia nessuno. Il quadro politico-mafioso di riferimento ed il sistema delle alleanze delineati da Brusca Giovanni (cfr. ud. 1.3.1999), appare connotato, inizialmente, negli anni '70, dalla vicinanza dei Salvo al gruppo facente capo a Badalamenti Gaetano, Greco Michele ed Inzerillo Salvatore, tanto che il Riina era solito indicare i Salvo come “sbirri”.
Nino e Ignazio al servizio dei Corleonesi. La Repubblica il 15 luglio 2020. Significativamente coincidente con quanto già dichiarato dal dr. Cassarà, nella deposizione sopra citata, risulta inoltre lo spostamento degli equilibri preesistenti registratosi dopo la “guerra di mafia” nel senso che, secondo quanto riferito dal Brusca, i Salvo si avvicinarono alle posizioni dei c.d. “vincenti” tramite Greco Michele. In questo nuovo contesto Brusca divenne il referente unico perché Riina diede l'ordine a tutti gli uomini d'onore di non rivolgersi più direttamente ai Salvo ma di filtrare gli incontri tramite il predetto collaboratore per chiedere favori e cortesie e fu lo stesso Brusca ad essere delegato dal padre Bernardo e dal Riina per riferire i messaggi e procurare gli appuntamenti. Gli argomenti di discussione concernevano prevalentemente l'interesse dell'organizzazione per il mondo politico, settore questo caratterizzato dai difficili rapporti tra Riina e Ciancimino. I Salvo avevano avuto inoltre l’incarico direttamente dal Riina di avvicinare i giudici del processo per l'omicidio del cap. Basile e si erano inoltre interessati per un esito favorevole del processo a carico dei Rimi, noti esponenti mafiosi di Alcamo(ff.137-138,ud.cit). Alla specifica domanda del P.M. se Riina avesse chiesto a Nino Salvo di attivarsi con alcuni giudici perchè sapeva che li conosceva personalmente o perchè sapeva che Salvo poteva contare su un personaggio politico tale da potere influenzare anche i magistrati, Brusca Giovanni ha testualmente dichiarato: “No, lui ci arrivava perchè... Salvatore Riina mi disse: "Lui direttamente o fai intervenire all'onorevole Lima", perchè politicamente ci potevano arrivare. Vuol dire che Salvatore Riina per dirmi questo in maniera sintetica vuol dire che lui sapeva che ci poteva arrivare per quello che vi ho detto. Cioè, nel senso: se io devo decidere il discorso per me è così, siccome io vi devo raccontare quello che so, mi ha detto: "Vai da Nino Salvo e ci dici che interviene perchè lui può fare questo". Sennò quando mi dice: "Gli rompo le corna a lui e a tutti", anche se io gliel'ho detto in tono scherzoso, però nella sostanza c'era e ... e Nino Salvo si mette pure a ridere, dice: "Va bè - dici - ora io faccio la forzatura", perchè in primo tempo il Nino Salvo mi aveva fatto delle difficoltà, dici: "Ma ci vediamo, vediamoci, viene difficile, mi viene un pò duro". Io porto queste rimostranze a Salvatore Riina e mi rimanda subito, tanto è vero che ci vado in giornata e... con la forzatura e Nino Salvo si attua per potere ottenere questi benefici, che poi sono... sono avvenuti, almeno in primo grado al processo.” Brusca ha inoltre riferito che nel periodo della guerra di mafia i referenti politici romani, tramite i Salvo, avevano invitato Riina a "darsi una calmata" proprio per evitare interventi legislativi pesanti, invito al quale questi aveva risposto facendo sapere attraverso lo stesso canale dei Salvo di "lasciarli fare”, in considerazione dei tanti favori fatti. Sul punto il collaboratore ha testualmente dichiarato : “ Poi il secondo input che io ho da parte loro fu... a Palermo c'era una... una grandissima... c'era una grandissima... i morti era due - tre - quattro al giorno, questo non me lo posso completamente dimenticare, che a Palermo a un dato punto il giornale "L'Ora", quelli che vendevano in mezzo alla strada e anche la TV, cioè i mezzi di informazione nell'82 davano... che contavano i morti, dici: "Siamo arrivati a cento nell'arco di pochi mesi", e a un dato punto questo fatto dal Governo centrale di Roma arriva una segnalazione, un input da parte dell'onorevole Andreotti, facendo sapere a Lima, Lima ai Salvo, i Salvo me lo dicono a me in prima persona e io lo porto a Salvatore Riina e mi dice di darci una calmata perchè lui era... sennò era costretto a prendere dei provvedimenti. Io vado da Salvatore Riina, gli dico questo particolare. Salvatore Riina mi ci rimanda, dici: "Fagli sapere che gli fanno sapere che ci lascia fare, che noi siamo a disposizione per tanti favori che gli abbiamo fatto". Ora, cosa si riferiva i favori io posso solo immaginarlo, però poi cosa... cosa abbiano fatto non glielo so dire. Dopo la strage Chinnici, dove loro(e cioè i Salvo, specificazione, questa, fornita a richiesta del presidente – f.142) erano responsabili in prima persona, parlando con me Ignazio Salvo questa volta...direttamente mi dice che dopo avere fatto una marea di, tra virgolette, sacrifici o di tentativi di potere salvare le esattorie uccidendo una serie di persone, l'ultimo credo che sia il dottor Chinnici, dopo una serie di tentativi non sono riusciti a poterli salvare e dici: "Prima che ce li... ce li tolgono è meglio che noi ce li... glieli diamo".(ff.140-143,ud.cit). Il collaboratore ha precisato che proprio in quel periodo erano frequenti in contrada Dammusi incontri tra Riina, Brusca Bernardo ed i cugini Nino ed Ignazio Salvo. Da quest’ultimo, dopo l’attentato al consigliere Chinnici, aveva appreso che i potenti esattori avevano fatto tanti sacrifici e si erano prestati per la realizzazione di vari fatti criminosi, l'ultimo dei quali l’omicidio per cui è processo per potere salvare le esattorie e che erano arrivati alla determinazione di cederle, prima che con qualche intervento giudiziario fossero loro tolte. ( “abbiamo ucciso il Dott. Chinnici, abbiamo fatto tanto, però non siamo riusciti a trattenercele - le esattorie - prima che ce li tolgono noi ce li diamo”). Il contributo probatorio di maggior rilievo fornito dal Brusca riguarda proprio la fase deliberativa e preparatoria della strage, con particolare riferimento al movente ed al pieno e diretto coinvolgimento dei cugini Salvo e di tutti gli esponenti di spicco che costituivano il vertice dell’organizzazione mafiosa. Nel corso dell’esame reso all’udienza dell’1/3/1999 Brusca ha testualmente riferito: “Le motivazioni sono che il dr. Chinnici doveva morire, credo perché dava fastidio a “cosa nostra”, aveva stilato il rapporto dei 162, aveva fatto qualche altro provvedimento. Ma quelli che insistevano di più per uccidere il dr. Chinnici erano i Salvo, in quanto il dr. Chinnici si era concentrato su di loro…. per indagare sulle esattorie ...e sui contatti politici....E in quel momento …. i Salvo erano in condizione di sapere tutto, avevano tanti informazioni, cioè funzionari, magistrati. Comunque credo che siano a conoscenza che il dr. Chinnici indagava su di loro. E da lì, cioè con le pressioni da parte di cosa nostra, perché per esempio c'è Antonio Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino, tanti altri che spingevano per uccidere il dr. Chinnici, so solo e semplicemente che in una di quelle riunioni che io ho fatto con Salvatore Riina e mio padre ed i cugini Salvo dopo una lunga riunione che loro hanno avuto dentro questo caseggiato, quando escono, Ignazio Salvo esce e mi chiama e Salvatore Riina mi chiama in maniera euforica e Salvatore mi dice "mettiti a disposizione di don Antonino". Bene o male io già sapevo qual era l'argomento, perché mi doveva imparare dove abitava e tutto il resto. Però il motivo era perché il dr.Chinnici aveva preso di mira i Salvo sia nell'esattoria, nel mondo politico e stava cominciando ad indagare su di loro......perchè le esattorie erano fonte di guadagno dei Salvo e credo di sostentamento politico verso la corrente andreottiana. limiana, quella che era”. (ff. 157-158, ud.cit.).
Sul pieno coinvolgimento dei Salvo nella strage per cui è processo, secondo le dichiarazioni del Brusca, appare opportuno riportare testualmente il seguente brano dell’esame reso dal collaboratore all’udienza dell’1/3/1999(cfr.ff.160 e segg.):
P.M. - .… . Io volevo capire una cosa: questo fatto delle indagini del dottor Chinnici sull'esattoria, sulla gestione dell'esattoria, le viene detto proprio in esito a questa riunione a Dammusi?
BRUSCA - Mi viene detto in maniera molto sintetica prima e poi quando ho detto poco fa: quando Ignazio Salvo mi dice a me: "Abbiamo fatto tanto, cioè abbiamo ucciso anche il dottor Chinnici, però non siamo riusciti a trattenerceli", siccome erano continuamente indagati, dice: "Prima che ce li tolgono, noi ce li diamo".
P.M. - Quindi, lei dice sia prima... BRUSCA - Prima che dopo.
P.M che dopo.
BRUSCA - Senza bisogno di dire: "Abbiamo ucciso il dottor Chinnici, però i sacrifici che abbiamo fatto, cioè tutto quello che abbiamo fatto", ma in riferimento... Siccome io e lui eravamo oggetto, sapevamo di che cosa avevamo parlato, cioè lui mi fa riferimento a quel fatto senza... non c'è bisogno tra uomini d'onore cioè di dire: "Ah, abbiamo fatto l'omicidio di Chinnici". Non. non c'è bisogno ogni volta di fare questa trafila, ma in maniera sintetica ed allusiva si capisce di cosa stiamo parlando.
P.M. - E prima? A me interessa intanto prima, quando in contrada Dammusi c'è...
BRUSCA - Prima...
P.M questo incontro?
BRUSCA - Prima io gli posso dire che loro dici: "Finalmente – dici - è venuto il momento di romperci le corna a questo". Cioè, con molta euforia, cioè, sono venuti con entusiasmo, che finalmente era arrivato il momento di commettere questo omicidio. Quindi...
P.M. - E fanno riferimento al problema delle indagini sull'esattoria o si limitano a dire: "Finalmente è arrivato il momento di romperci le corna a questo"?
BRUSCA - In quel momento hanno detto: "Finalmente è arrivato il momento di romperci le corna", però sapevo che i Salvo avevano il problema con il dottor Chinnici, che lui indagava su... su di loro. Loro avevano fatto tanti tentativi di poter avvicinare il dottor Chinnici, ma non ci sono mai riusciti, cioè politicamente.
P.M. - E questo come le risulta, signor Brusca?
BRUSCA - Che me lo dicono i Salvo stessi; i Salvo, mio padre, Salvatore Riina. Capito? Al sud non c'è bisogno di... di fare tanti argomenti, cioè loro dice: "Abbiamo fatto tanti tentativi di poterlo avvicinare, ma non ci siamo mai riusciti".
La riunione è stata collocata dal Brusca a fine estate 1982 (“settembre- ottobre”), sulla base di riferimenti specifici che conferiscono attendibilità al racconto, inizialmente caratterizzato dall’incerto e fuorviante riferimento ad alcuni mesi prima della strage ( “sei-sette-otto mesi prima”) ma successivamente, dopo la contestazione del verbale in data 24/10/1997, pienamente confermativo di una precedente e più puntuale ricostruzione fondata sul rilievo che “Nino Salvo si trovava ancora vicino a Bagheria, dove hanno la villa estiva e che loro a Salemi di solito ci andavano per il periodo della vendemmia”(cfr.ff 165-166,ud.cit.). Uno o due giorni dopo al massimo ( “cioè il tempo di metterci d’accordo”) dall'incontro con Riina e Bernardo Brusca, Giovanni Brusca, a bordo della propria autovettura Volkswagen Golf aveva seguito fino a Salemi Nino Salvo che guidava la sua autovettura Mercedes; giunti presso la villa dei Salvo, poco distante da quella del dr. Chinnici, avevano posteggiato la Mercedes ed a bordo della Golf avevano perlustrato la zona dove era sita l'abitazione estiva del magistrato; percorrendo una vicina stradella asfaltata sita a circa 200 - 300 metri dalla villa – circostanza confermata dal teste Chinnici Giovanni - avevano notato che era ivi parcheggiata un'autovettura Alfa Sud dello stesso tipo di quelle in dotazione alla polizia. Secondo il racconto del Brusca (cfr.f.170,ud.cit.), questi, successivamente, si era recato nello stesso luogo qualche altra volta in compagnia di Antonino Madonia (almeno due volte) e di Pino Greco "scarpa" (un'altra volta); sia il Madonia che il Greco, che all'epoca, pur non rivestendo alcuna carica, aveva ruolo decisionale e di rilievo all'interno del mandamento di Ciaculli (che avrebbe successivamente retto dopo la destituzione di Michele Greco) erano pienamente consapevoli del significato di quella visita. L'azione, tuttavia, non era stata portata a compimento per le difficoltà di assicurarsi una fuga agevole, determinate dalla particolare situazione dei luoghi. Il Brusca ha precisato che la prima volta che si era recato nei pressi della villa di Salemi, aveva notato la presenza del dr. Chinnici.
Sulla scorta della documentazione acquisita, dalla quale è emerso che il consigliere istruttore nell’anno 1982 aveva fruito di un periodo di ferie a decorrere dai primi giorni del mese di agosto, ed alla luce delle indicazioni fornire dal Brusca la data della riunione può agevolmente collocarsi nel mese di agosto 1982. Sebbene l’originario progetto con le modalità sopra descritte non sia stato eseguito, il proposito criminoso non venne certamente revocato - essendone stata solo differita la realizzazione - attesa la “visita” nel palazzo del consigliere istruttore nel dicembre 1982 da parte del Madonia Antonino ( episodio che, più avanti, costituirà oggetto di specifica disamina) e le successive attività preparatorie che, secondo le stesse indicazioni del collaboratore, ebbero inizio qualche mese prima della strage. Anche con riferimento alla seconda fase le acquisizioni probatorie hanno consentito di accertare il coinvolgimento dei cugini Salvo, i quali misero a disposizione la loro autovettura per consentire una verifica della consistenza dei vetri blindati. Come si avrà modo di precisare più avanti, l’esecuzione del delitto venne solo differita, nel settembre 1982, per volontà del Riina che dovette privilegiare altre “operazioni” di prioritario interesse strategico, connesse con gli equilibri interni all’organizzazione, nelle quali certamente dovettero rientrare gli omicidi di Riccobono e Scaglione. Per mera esigenza di completezza espositiva va rilevato che sulla qualità di uomini d’onore della famiglia di Salemi rivestita dai Salvo hanno concordemente deposto, inoltre, i collaboratori di giustizia Contorno Salvatore (ud. 3/2/1999, ff.61-64), Anzelmo Francesco Paolo (ud.9/3/1999, ff.42-43; 92-93), Ganci Calogero (ud.24/3/1999, f.91), Cancemi Salvatore (ud.3/5/1999), Di Maggio Baldassare (ud.24/5/1999), Onorato Francesco (ud.25/5/1999).
La testimonianza di Giovanni Paparcuri. La Repubblica il 16 luglio 2020. Prima di passare all’esame della ricostruzione della fase preparatoria ed esecutiva dell’attentato, fornita dai collaboratori di giustizia che ne furono protagonisti, appare opportuno preliminarmente delineare un quadro topografico, quanto più possibile chiaro, della zona in cui la strage fu consumata, dell’apparato di sicurezza apprestato a tutela del consigliere istruttore, delle abitudini e degli spostamenti per recarsi al palazzo di giustizia ed, infine, dello scenario di distruzione presentatosi agli inquirenti subito dopo l’attentato, anche al fine di comprendere meglio il contenuto del racconto dei collaboratori e valutarne appieno l’attendibilità. Dalle deposizioni rese all’udienza del 18/1/1999 dai sottufficiali dell’Arma dei carabinieri Calvo Cesare e Amato Alfonso, componenti la scorta dell’autovettura blindata utilizzata dal dr. Chinnici, e Pecoraro Ignazio, componente l’equipaggio dell’autovettura di appoggio fornita ogni mattina dal Nucleo Radiomobile, è emerso che il consigliere istruttore era estremamente abitudinario, conduceva una vita molto riservata e ogni mattina si recava al Palazzo di giustizia tra le ore 8,00 e le ore 8,10 utilizzando per gli spostamenti l’autovettura blindata del Ministero di Grazia e Giustizia condotta da un autista giudiziario, a bordo della quale prendeva posto il militare di tutela, app.to Bartolotta, mentre una seconda autovettura Alfa Sud non blindata fungeva da scorta con un equipaggio composto dal m.llo Trapassi, con funzioni di caposcorta, dall’autista Calvo Cesare e dall’app.to Amato. L’autovettura blindata si poneva al centro della strada e mentre gli uomini si predisponevano, l’app.to Bartolotta si recava personalmente a prelevare il dr. Chinnici. La via Pipitone Federico era a senso unico di marcia con direzione dalla via Libertà verso la chiesa di San Michele. L’auto di scorta, invece, veniva posizionata nella parte a monte della via Pipitone Federico, all’altezza dell’incrocio con la via Villa Sperlinga; ciò consentiva di bloccare il transito nel senso di marcia e controllare l’eventuale afflusso in controsenso di persone e mezzi per evitare che qualcuno potesse avvicinare il giudice. Quasi ogni mattina, inoltre, a richiesta del caposcorta, veniva fornito l’ausilio di un’Alfetta del Nucleo Radiomobile il cui equipaggio, prima che il giudice uscisse di casa, provvedeva a bloccare il flusso veicolare proveniente dal lato mare ed in particolare dalla via Libertà fino alla traversa che incrociava la via Pipitone Federico nel punto più vicino all’abitazione del giudice (trattasi della via Prati, come risulta dalle piante della città di Palermo acquisite agli atti processuali - ud.29/3/2000).
Si è accertato che la mattina dell’attentato l’equipaggio dell’Alfetta era formato dal Vicebrigadiere Lo Nigro e dal Carabiniere Pecoraro. Non esisteva una zona di divieto di sosta con rimozione e le auto erano parcheggiate regolarmente ai lati della strada. All’epoca dei fatti, inoltre, non erano state ancora adottate le misure di “bonifica” preventiva della zona a rischio, per cui nessun accertamento veniva svolto sulle auto in sosta, mentre ogni accorgimento e misura di protezione erano finalizzati a prevenire il pericolo, o farvi fronte, di un eventuale conflitto a fuoco nel breve tragitto che il giudice percorreva dalla portineria del palazzo fino all’autovettura di servizio. Il quadro sopra delineato consente fondatamente di presumere che i soggetti incaricati dall’organizzazione di predisporre quanto necessario per la preparazione e l’esecuzione dell’efferato crimine erano perfettamente consapevoli delle difficoltà operative insite in un attentato di tipo tradizionale, ancorchè eseguito con armi da fuoco micidiali, e della inevitabilità di un conflitto a fuoco con i militari dell’Arma addetti alla tutela del magistrato, tanto da indurli ad accantonare l’originario progetto che aveva comportato delle prove pratiche di sparo contro un vetro blindato, come riferito dal Brusca. Da qui l’esigenza di privilegiare modalità esecutive più affidabili oltre che dotate di maggiore carica intimidatoria ed “esemplarità sanzionatoria”.
La situazione esistente al momento della terribile deflagrazione è stata descritta dal teste Calvo Ignazio il quale, dopo aver riferito che dopo una sosta al bar a circa duecento metri di distanza dall’abitazione del giudice, alle ore 7.55, tutti a carabinieri si spostarono sotto l’abitazione del giudice dove nel frattempo era arrivata l’autovettura blindata, ha testualmente dichiarato: “l’alfetta praticamente ferma davanti al portone, cioè dopo il marciapiede; lo sportello dove saliva il Dott. Chinnici aperto già; l’autista della blindata in macchina; il maresciallo Trapassi sul lato destro, entrando davanti al portone; l’App. Bartolotta sulla sinistra dello stesso portone: Io vicino all’autista, girato di spalle verso il portone e l’altro collega più avanti, diciamo, ...del portone, verso sopra, in modo da controllare che c’era un altro incrocio ed eventualmente di fermare qualche macchina e l’Alfetta a monte per bloccare un altro..diciamo, quel passaggio che dicevo prima. Erano le otto e dieci, questo me lo ricordo bene. Il maresciallo ci ha fatto segnale che il dottore stava per scendere ed allora tutti ci siamo messi come di solito guardinghi e si sentivano i passi del... perché c’è un androne; c’è l’androne, lui usciva dall’ascensore, si sentivano i passi, magari parlare un pochettino. E io appoggiato alla... alla macchina, in modo che quando il magistrato saliva sull’auto sentivo che lui era salito, allora potevo allontanarmi e finchè lui non saliva in macchina io non mi allontanavo. Appena lui ha messo piede nel marciapiede, fuori diciamo l’uscio... fuori il portone, c’è stata l’esplosione: Che in un primo momento sembrava un colpo di pistola, il classico colpo di pistola della 92 che abbiamo noi in dotazione, un rumore abbastanza forte e l’istinto mi portò, diciamo a chinarmi, perché pensavo che ci stavano sparando; vi era qualche... Ma subito dopo si... è iniziato un boato, un boato fortissimo, accompagnato da un forte calore, di cui pensai: ”Sto bruciando”. Mi sono ritrovato quasi a dieci metri dall’altra parte e non riuscivo a capire più nulla, non si riusciva a capire niente. Cioè vedevo gente che piangeva, gente...palazzi a terra, macchine bruciate, vetri dappertutto. Mi guardavo addosso, non riuscivo a capire se era colore, se era sangue, non... Guardavo il collega Amato, che era più distante di me e mi rendevo conto che lui era come se non ci fosse, non era neanche in sè, nonostante che lui era più distante. E niente, poi...poi non mi ricordo più nulla”.
Non meno drammatica è stata la deposizione dell’autista giudiziario Paparcuri Giovanni (ud.3.12.1998), il cui ultimo ricordo prima dell’esplosione è stato quello del dr. Chinnici che stava uscendo dal portone; poi ha aggiunto: ”niente, dell’esplosione non mi ricordo niente, se non solo dei colori intensi: un bianco intenso, un rosso intenso... Niente, non ho sentito ne boato e non ho sentito niente, perché... l’unica cosa bella in questi momenti è che si passa dalla vita alla morte e tu non senti niente. E poi mi sono risvegliato a terra pieno di sangue, con le dita che mi pendevano ed un bel pò di cose. poi sono svenuto di nuovo. Il teste, che venne sbalzato fuori dall’autovettura, ha altresì dichiarato: “io ho capito che era successo qualche cosa, non so quanto tempo sia passato, mi sono ritrovato, appunto, a terra e vedevo la macchina blindata deformata sopra di me e con i vetri rotti e poi mi sono visto pieno di sangue”. Anche gli altri testi escussi, abitanti nello stesso stabile o in quelli adiacenti, hanno riferito le loro impressioni e sensazioni, i danni fisici e materiali riportati, fornendo la descrizione di un agghiacciante scenario di morte e devastazione.
Quanto alle prime indagini prontamente avviate dagli inquirenti, va rilevato che dalla deposizione del dr. Accordino (ud. 1.6.1999) è emerso che la prima telefonata pervenne al centralino del “113” alle ore 8,10 del 29 luglio 1983 cui seguì l’intervento immediato di tutte le Forze dell’ordine e della Polizia Scientifica. La prima intuizione investigativa deponeva per l’uso di una potente carica di esplosivo collocata nel cofano anteriore di una FIAT 126 di colore verde, la cui parte posteriore era rimasta pressochè intatta, mentre l’avantreno si era disintegrato; l’autovettura era stata proiettata a distanza di circa cinque metri dal punto dove l’esplosione aveva provocato un cratere all’altezza del civico n. 59 ove abitava il magistrato. Tutte le abitazioni circostanti erano state interessate dallo scoppio, tanto che pezzi metallici di autovetture erano stati proiettati a notevole distanza dal punto dell’esplosione ed in particolare il tettuccio dell’auto- bomba fu trovato nel pozzo-luce della portineria di un immobile sito in via Villa Sperlinga, proiettato a dodici metri di distanza dopo avere superato il palazzo di via Pipitone Federico alto 26 metri. L’Alfetta blindata a bordo della quale si trovava l’autista Paparcuri, unico superstite, presentava il tetto bombato. Nel rinviare alle risultanze del fascicolo dei rilievi tecnici e fotografici in ordine allo stato dei luoghi ed alla posizione dei cadaveri, va rilevato che il corpo del mar.llo Trapassi venne proiettato all’interno dell’androne; sul marciapiede, tra il civico 59 ed il civico 61, il corpo straziato del dr. Chinnici privo di abiti, con il volto sfigurato; a quattro metri di distanza dal giudice, il corpo dell’App. Bartolotta venne rinvenuto mutilato negli arti superiori e inferiori, mentre il cadavere del portiere dello stabile Stefano Li Sacchi era stato spostato dai primi soccorritori a poca distanza nel tentativo di prestargli le prime cure. La situazione degli immobili circostanti appariva caratterizzata dalla presenza di numerose scalfitture sui muri determinate dalle schegge metalliche, mentre l’androne dello stabile sito al n. 59 era andato completamente distrutto. Numerose persone erano rimaste ferite oltre al Paparcuri ed ai carabinieri della scorta Lo Nigro, Amato e Pecoraro. Tra i reperti più significativi meritano di essere segnalati: le targhe apposte sull’auto-bomba (PA 426847), risultate rubate nella notte tra il 28 ed il 29 luglio 1983 dall’autovettura di Santonicito Salvatore che aveva sporto denuncia orale già alle ore 6.45 del 29 luglio 1983 ed il numero del telaio dal quale era stato possibile risalire al proprietario del mezzo, Ribaudo Andrea, titolare di una autoscuola, che aveva presentato denuncia alla Stazione CC di Uditore qualche ora dopo il furto avvenuto alle ore 11,30 del 27 luglio 1983, dinanzi all’Autoscuola sita in via Marino Magliocco. Il Col. Pellegrini (ud. 15/6/1999 ), redattore del rapporto giudiziario, ha così ricostruito lo scenario della strage di via Pipitone Federico: “macchine danneggiate, vetrine e saracinesche danneggiate, le mura dei palazzi circostanti sembravano colpiti da bombe da colpi di mitragliatrice e di fronte al portone dove c’era l’abitazione del dottore Chinnici c’era un... la strada risultava scavata, c’era una fossa profonda, abbastanza profonda e quindi si vedeva chiaramente che c’era stata una fortissima esplosione che aveva coinvolto per alcune decine di metri tutto ciò che esisteva sulla strada”.
Il cratere fu localizzato sotto il marciapiede di fronte all’ingresso dell’abitazione del magistrato, presentava un diametro di 70 cm. e circa 15 cm. di profondità; l’autobomba era rimasta disintegrata nella parte anteriore e proiettata a 5 metri di distanza dal cratere. La prima ipotesi privilegiata dagli inquirentei fu quella di una carica esplosiva collocata nel vano anteriore dell’autovettura FIAT 126 di colore verde attivata a distanza con un telecomando. La fondatezza dell’ipotesi sarebbe stata poi suffragata dall’esito degli accertamenti peritali esperiti da un collegio di esperti composto dal Ten. Col. Lombardi del CCIS e dal Cap. Di Matteo. I quesiti formulati concernevano la natura dell’esplosione, l’individuazione dei componenti di eventuali miscele, la quantità, il sistema di innesco, il sistema di attivazione della carica esplosiva, il numero del telaio e di motore del veicolo e quant’altro utile ai fini delle indagini. La relazione di consulenza, acquisita al fascicolo per il dibattimento, ha accertato alcuni elementi che conferiscono attendibilità, riscontrandone l’assunto, alle dichiarazioni rese sul punto dai collaboratori di giustizia personalmente coinvolti nell’esecuzione dell’attentato, ed in particolare:
l’ordigno esplosivo ebbe un raggio di azione di cento- centocinquanta metri lungo la via Pipitone Federico;
tra i frammenti rinvenuti anche a notevole distanza dal punto di scoppio, alcuni erano riconducibili alla struttura della FIAT 126, mentre altri pezzi metallici, pur dimostrando lo stesso stress termico – meccanico, non erano riconducibili all’autobomba;
il cratere del diametro di 90 - 100 centimetri, le deformazioni del terreno e del manto di asfalto ripiegato verso l’interno, portavano alla conclusione che la carica esplosiva non era a contatto con il manto stradale ma era sopraelevata rispetto allo stesso;
l’individuazione della FIAT 126 come autobomba era avvenuta sulla base della rilevanza e della natura dei danni rispetto a quelli individuati nella altre vetture parcheggiate sulla via; quelli della FIAT 126 erano più rilevanti;
la carica di esplosivo era stata collocata nel vano anteriore, poichè l’auto era rimasta integra nella struttura posteriore, nel motore e nella parte del vano con i mozzi delle ruote posteriori, il fascione posteriore dove era allocata la targa; tutto quanto facente parte della struttura anteriore risultava “assente, frammentato, disperso”, la FIAT 126 per effetto dell’esplosione era stata sbalzata a distanza di sette metri dal luogo dove era parcheggiata;
il motore dell’autobomba, perfettamente conservato aveva consentito l’individuazione del numero di serie (A0000137223) attraverso il quale era stato fatto l’abbinamento con il numero di telaio (A0046106), così pervenendosi all’identificazione del proprietario del mezzo; tra i frammenti repertati ne era stato, tra gli altri, rinvenuto uno con alcune cifre del numero del telaio così come individuato attraverso l’abbinamento con il numero di motore;
quanto ai due frammenti metallici apparentemente estranei all’autovettura, il primo di metallo pesante e con superfici lucenti, presentava un bordo curviforme alettato che ricordava la forma cilindrica; fu ipotizzato che avesse costituito parte della struttura del contenitore, sicuramente coinvolto, in quanto a diretto contatto con l’esplosivo;
le deformazioni, le morfologie ed i principi di fusione rilevati portavano a ritenere che il frammento fosse prossimo alla sorgente dell’esplosione; la forma di quel frammento era compatibile con quella di una bombola di gas per uso domestico;
la carica esplosiva, inserita in un contenitore metallico ( c.d. carica intasata) subiva per effetto dell’esplosione, un aumento della pressione e determinava effetti più dirompenti “sia per una completezza della reazione esotermica dell’esplosione e sia per la proiezione che poi parte del contenitore viene disintegrandosi ad esercitare, quindi sono due fattori che potenziano gli effetti”;
era perfettamente visibile il colore “verde oliva” della FIAT 126;
quanto al sistema di attivazione del congegno, i consulenti sulla base della dinamica dell’evento ( l’esplosione si era verificata nel momento in cui il dr. Chinnici era uscito dalla portineria dello stabile e si accingeva a scendere dal marciapiede) avevano ipotizzato l’impiego di un comando a distanza del tipo radiocomando come quelli adoperati per modellismo, in considerazione dell’affidabilità degli apparati il cui raggio di azione può in alcuni casi raggiungere i due chilometri; questo tipo di radiocomando era idoneo ad attivare la carica. Quanto, poi, all’apparato ricevente, veniva ipotizzato l’utilizzo di un apparato già fornito dalla casa costruttrice oppure un radiocomando che poteva essere costruito da una persona fornita di media preparazione in materia elettronica, acquisita anche attraverso la consultazione di riviste specializzate;
l’attivazione doveva essere a vista, perché l’obiettivo da colpire doveva essere sotto il controllo diretto di colui che avrebbe dovuto inviare il radio-impulso;
per predisporre il congegno non erano necessarie capacità tecniche elevate ma era sufficiente una media cultura di elettronica ed elettrotecnica;
quanto al tipo di esplosivo, alla quantità ed al metodo di analisi adoperato sui reperti per addivenire all’identificazione tipologica di quello utilizzato per la strage, la tecnica era quella, largamente usata in laboratorio, della “cromatografia su strato sottile”, metodo che consentiva di accertare innanzitutto se fosse stato adoperato un unico tipo o più tipi di esplosivo.
Le analisi erano state effettuate prevalentemente sui reperti dell’autobomba che, in quanto a contatto con l’esplosivo, offrivano maggiori garanzie di attendibilità. Tuttavia era stata sottoposta a campionamento ed a repertamento anche la borsa professionale che il dr. Chinnici aveva con sé al momento dello scoppio. Il lavaggio dei reperti era stato effettuato con acetone e con metodologie (quali, ad esempio, l’utilizzo di guanti), idonee ad evitare qualsivoglia involontario inquinamento e nello stesso tempo ciascun reperto era stato trattato singolarmente per scongiurare il pericolo di un inquinamento reciproco. Le analisi peritali consentirono di accertare che l’esplosivo adoperato per l’attentato era del tipo “tritolo” che, come ha precisato in dibattimento il cap Di Matteo, “è la versione civile dell’esplosivo di cava” aggiungendo che in campo civile il tritolo è miscelato con un sale inorganico, il nitrato di ammonio, in percentuali diverse che dipendono dal produttore, in quanto questa sostanza aumenta il potere deflagrante del tritolo”. A specifica domanda il C.T. ha precisato che in ogni caso le analisi non avrebbero potuto evidenziare l’eventuale presenza di “nitrato di ammonio” trattandosi di un composto dell’ammoniaca che alle elevate temperature si volatilizza. Quanto alle caratteristiche fisiche del tritolo, i consulenti hanno precisato che trattasi di esplosivo polverulento che, tuttavia, allorchè miscelato con il nitrato di ammonio, assume una aspetto granuloso ed una struttura di tipo salino (che si apprezza al contatto); se il nitrato di ammonio, al quale il tritolo viene miscelato, è in condizioni di buona purezza, la colorazione della miscela è bianca, viceversa assume un colore giallino. In ordine alla quantità di esplosivo adoperato per determinare gli effetti di quella esplosione, i consulenti hanno spiegato che la valutazione di 10 - 20 chilogrammi, in relazione allo stato dei luoghi e anche allo spazio all’interno del quale l’esplosivo era stato occultato, era relativa alla quantità minima necessaria per determinare quell’effetto, precisando che si trattava di un dato di orientamento, che doveva essere tenuto presente anche il sistema di intasamento e che la valutazione era stata effettuata in maniera estremamente approssimata. Hanno, infine, rilevato che per ampliare l’effetto deflagrante, sarebbe stato consigliabile riempire completamente il contenitore metallico, senza lasciare spazi, atteso che l’ossigeno viene fornito dal nitrato di ammonio, e che non era necessario chiudere ermeticamente il contenitore. Una più precisa determinazione quantitativa avrebbe richiesto l’esecuzione di prove da scoppio che non erano state espletate. È appena il caso di rilevare, anticipando quanto più avanti costituirà oggetto di una più specifica disamina, che le risultanze peritali hanno consentito di riscontrare le dichiarazioni dei collaboratori.
Giovanni Brusca e il piano criminale. La Repubblica il 17 luglio 2020. Uomo d’onore della famiglia di S.Giuseppe Jato e figlio di uno dei maggiori esponenti di “cosa nostra”, venne affiliato formalmente nel 1975 con un “padrino” prestigioso, Riina Salvatore, legato da forti vincoli di amicizia con il padre Bernardo, che tradizionalmente ne era stato uno dei più fedeli alleati tanto che dopo il trasferimento in Brasile del capomandamento Antonino Salamone, aveva assunto la reggenza prima quale sostituto e poi quale capo mandamento a tutti gli effetti del territorio di San Giuseppe Jato. L’esame della sua condotta, connotata da spiccate attitudini operative, consente di delinearne uno spessore criminale tra i più elevati all’interno dell’organizzazione, in seno alla quale ha progressivamente assunto un prestigio sempre maggiore, dapprima come semplice uomo d’onore alle dirette dipendenze di Riina e successivamente, a seguito dell’arresto del padre Bernardo, come sostituto di quest’ultimo il quale, nel 1982, dopo l’eliminazione degli avversari interni, aveva assunto dapprima la carica di “rappresentante” dell’anzidetta “famiglia”, succedendo a Scaglione Salvatore e nel 1983 quella di capomandamento. La sua vicinanza a Riina, favorita dai vincoli di sangue con il padre Bernardo, elemento di spicco dell’organizzazione, a sua volta legato al primo da una solidissima amicizia, ha consentito al Brusca Giovanni di acquisire un rilevante patrimonio di conoscenze che gli ha consentito di ricostruire le fasi e le ragioni della c.d. guerra di mafia alla quale partecipò attivamente, nonché i rapporti tra l’organizzazione e centri di potere politico ed economico, tra i quali i Salvo. È appena il caso di ricordare che la vicinanza al Riina si estrinsecava anche in una assidua frequentazione in quanto il Brusca accompagnava il padre “per tutta la Sicilia; stessa cosa per Salvatore Riina. Anzi per un periodo più per Riina che per mio padre”(cfr.f.23,ud.1/3/99). Peraltro anche il fratello Emanuele nonché uno zio materno, un cugino del padre, Mario, ed il di lui figlio Calogero avevano assunto la qualità di uomini d’onore. […] Con riferimento alla strage per cui è processo ha precisato che nella prima fase, nel corso dei colloqui investigativi, si era limitato a dare indicazioni sommarie (“No, solo sommariamente, cioè: "Sono responsabile e posso parlare della strage Chinnici”). […] Passando ora alla specifica disamina della ricostruzione della fase esecutiva dell’attentato fornita dal Brusca e ricollegandoci a quanto sopra evidenziato in ordine all’abbandono dell’originario progetto esecutivo per l’inadeguatezza delle vie di fuga e degli appoggi logistici nella zona di Salemi (ff.7-8,ud.2/3), va sottolineato che il Brusca ha ipotizzato che il temporaneo accantonamento dell’esecuzione della strage sia da ascrivere al fatto che si era in piena guerra di mafia e la presenza di qualche “scappato” in zona talvolta imponeva repentine modifiche di piani criminosi, non escludendo, peraltro, che possa avervi contribuito l’esecuzione della strage di via Isidoro Carini in danno del prefetto Dalla Chiesa. Il Brusca ha riferito che la ripresa operativa del progetto criminoso risale al maggio 1983 e comunque a circa 15-20 giorni prima della strage, senza essere tuttavia in grado di fornire indicazioni temporali precise (“ non glielo so dire con precisione comunque un pò di tempo prima”) allorchè gli venne affidato dal Riina o dal padre l’incarico di reperire un vetro blindato per effettuare sullo stesso una prova di sfondamento. Dopo avere personalmente verificato, unitamente a Madonia Antonino, la consistenza di tale tipo di vetro, esaminando presso il fondo Pipitone dei Galatolo quelli montati sull’autovettura blindata Alfa 6, che i Salvo avevano a tal fine messo temporaneamente a loro disposizione, il primo si assunse l’incarico di reperirne uno tramite la “famiglia” napoletana dei Nuvoletta. Non è stato in grado di precisare se fu uno degli affiliati a tale gruppo mafioso che provvide a recapitare il vetro ovvero se di ciò ebbe ad occuparsi lo stesso Madonia, recandosi a prelevarlo personalmente nel napoletano e portandolo poi a S.Giuseppe Jato, dove furono eseguite le prove. Insieme al Madonia e al Di Maggio, che aveva frattanto predisposto un telaio per appoggiare a terra il vetro, si era recato presso una cava abusiva di proprietà della famiglia Di Maggio, sita in territorio di San Giuseppe Jato e con un fucile Kalashnikov avevano effettuato prove di sfondamento con esito positivo. Subito dopo si erano trasferiti, ad eccezione del Madonia, in contrada Dammusi dove il padre Bernardo, alla presenza anche di Salvatore Lazio, aveva distrutto definitivamente il vetro, colpendolo con un fucile di grosso calibro. Trascorsi alcuni giorni il progetto criminoso subì delle modifiche nelle modalità esecutive (ff.23-24, ud.2/3) e si era cominciato a parlare di auto-bomba. Il Brusca ha attribuito l’ideazione di tale tipo di attentato a Madonia Antonino, previo concerto con il Riina e con il padre Bernardo, prendendo spunto da analoghi fatti commessi nel napoletano. Proseguendo nel suo racconto il collaboratore ha riferito che da quel momento lo scambio di informazioni era divenuto continuo ed egli aveva ricevuto l’incarico di reperire l’esplosivo, di procurare una bombola di gas da riempire con l’esplosivo e di portare il tutto a Palermo. Frattanto, qualche giorno prima che gli venisse assegnato quell’incarico, aveva assistito alla prove di funzionamento di un telecomando in contrada Dammusi ove a tal fine erano giunti Madonia Antonino, Ganci Raffaele e Gambino Giuseppe Giacomo; in quell’occasione era stato il Madonia a portare un telecomando dello stesso tipo di quello poi utilizzato per la strage di Capaci e normalmente impiegato nell’aeromodellismo. Il Brusca ha così descritto le caratteristiche tecniche e strutturali del congegno ricetrasmittente (ud.2.3.1999.f.29): “Dunque, la ricevente era combinata in una cassetta... una scatoletta di legno, piccola scatoletta di legno larga dieci - quindici centimetri, dodici, quadrato o rettangolare leggermente, alta sette - otto - nove - dieci centimetri, ma non più di tanto, dove c'era montato il servo, che sarebbe un motorino che faceva girare una levetta per poi andare a fare il contatto con il detonatore, un chiodo per fare il... il falso conta... cioè il falso contatto, per poi fare esplodere il telecomando; poi c'erano le batterie sia per fare funzionare il servo sia per alimentare... cioè, per dare la carica al chiodo e fare poi il contatto per poi dare l'impulso al... al detonatore elettrico e scoppiare. E credo che abbia... anche su questo ho fatto pure uno schizzetto su... su un pezzo di carta. Poi c'era... e con l'antenna, era un filo... un filo... proprio un filo di colore nero, se non ricordo male, proprio finissimo che faceva da antenna, che poi siccome l'ho montato io questo apparecchio usciva dallo sportello e l'ho fatto scendere nel... nel correntino della... della 126. .. la trasmittente era un piccolo apparecchio... cioè un piccolo apparecchio, un... anche una specie di scatoletta con due... due levette e un'antenna centrale, se non ricordo male di colore argento o nero - argento. Sono passati tantissimi anni, quindi... però in linea di massima era colore nero - argento e anche su questo ho fatto pure un altro... in linea di massima uno schizzetto”. Ha inoltre precisato che per effettuare questa prova il Madonia e Lazio Salvatore si erano allontanati a circa trecento metri di distanza, recandosi nella proprietà limitrofa di tale Campione, mentre gli altri presenti, e cioè il Gambino, Ganci Raffaele e suo padre Bernardo, avevano il compito di verificare se il detonatore, posto a debita distanza dalla ricevente e che lui stesso provvedeva a montare e smontare, esplodesse a seguito dell’impulso proveniente dalla trasmittente. Alla specifica domanda del P.M. se tutti i presenti fossero perfettamente consapevoli che quel telecomando sarebbe stato utilizzato per l’attentato al dr. Chinnici, il Brusca ha così risposto (ff. 36-37- ud.2/3) : “Al centouno per cento che era destinato al dottor Chinnici”.
P.M. - Lei era presente, sentì anche fare ai presenti discussioni con riferimento al dottore Chinnici? Cioè, sentì proprio dei discorsi specifici in questo senso?
BRUSCA: - Dottoressa, non c'era ogni volta bisogno di far il nome del dottor Chinnici. Bastava una volta, due volte, quindi poi il progetto era quello e non si parlava più, non c'era bisogno più di fare il... il nome.
P.M. : - E al momento di questa prova qualcuno dei presenti aveva già previsto in quale luogo si sarebbe realizzato l'attentato?
BRUSCA : - Sì, si sapeva che già era previsto, cioè davanti la porta, quando lui usciva da casa, .. a Palermo.; cioè davanti l'abitazione, cioè la porta dove lui usciva, la portineria. E c'era chi aveva studiato le abitudini, cioè i movimenti, quando entrava, quando usciva.
P.M.: - E lei come l'ha appreso questo fatto?
BRUSCA : - L'ho appreso perchè poi si è parlato che si stava preparando questo attentato a Palermo e già c'era tutto pronto, si conoscevano le abitudini. Però io non sapevo sino alla mattina quando sono arrivato, non conoscevo le altre persone che erano dedicati a questo tipo di attività.
Ha inoltre precisato che fino al momento del trasporto dell’esplosivo a Palermo, le persone che più frequentemente si recavano a San Giuseppe Jato, “per questo e per altri fatti”, erano Raffaele Ganci, Giuseppe Giacomo Gambino e Antonino Madonia, “quindi per i preparativi poi se la sbrigavano loro, cioè delegare o chiedere altri aiuti, ognuno poi metteva le sue persone a disposizione”. Quanto al reperimento dell’esplosivo, il collaboratore ha dichiarato che la richiesta era stata fatta dallo zio Brusca Mariuccio ad un parente, tale Piediscalzi Franco, fuochino presso la cava INCO di Modesto Giuseppe, persona a disposizione già da tempo dell’organizzazione mafiosa e che la consegna gli era stata fatta personalmente dal Piediscalzi presso la cava; l’esplosivo era stato poi custodito per un paio di giorni in contrada Dammusi. A specifica domanda ha precisato che del quantitativo necessario “si parlò in famiglia” e “l’argomento come prima cosa l’affrontò Mariuccio Brusca…noi abbiamo chiesto un bel pò di polvere e ce ne ha dato un bel pò”. Quanto poi al tipo di esplosivo, il Brusca ha chiarito che non ne fu richiesto uno specifico, ma essendo il Piediscalzi un “fuochino” aveva la possibilità “nel momento in cui lo collocava, non lo collocava tutto, ne toglieva una parte e lo conservava.. cioè lo detraeva dall’esplosione che lui faceva in generale”
L’esplosivo consegnato in due sacchetti del tipo di quelli utilizzati per il sale chimico presentava le seguenti caratteristiche:
BRUSCA :“ No, era tipo granuloso, un bianco leggermente scuro; .. non rotondo, ma era un pò sformato, non era proprio rotondo a palline, però granuloso. Credo che ho fatto sul punto, un paio di mesi fa, tre mesi fa, con dei consulenti da parte vostra, sul punto ho specificato nel dettaglio il tipo di esplosivo che io ho maneggiato per Capaci.
P.M. : - Per Capaci?
BRUSCA : - ... siccome per Capaci sono stati adoperati tipo di esplosivo e siccome stesso materiale che è adoperato per il dottor Chinnici, è stato adoperato per Capaci, quindi siccome in quella occasione sono stati adoperati diversi qualità, però una era quella del dottor Chinnici, in parte era uguale a quella del dottor Falcone. O perlomeno la fonte era la stessa, poi non so se il... quella di allora era la stessa ditta fornitrice che... che il Piediscalzi ci aveva dato.”
In ordina alla fase di confezionamento e trasporto dell’esplosivo, il Brusca ha riferito quanto segue. La quantità contenuta nei sacchetti era all’incirca di 40-50-60 chilogrammi. Egli aveva richiesto al Di Maggio di costruire una scatola in ferro con un’apertura nella parte superiore, fornendogli anche le dimensioni – preventivamente concordate con Madonia Antonino - e facendogli presente che avrebbe dovuto essere collocata nel portabagagli di una FIAT 126. Frattanto aveva reperito in un garage di contrada Dammusi una bombola di gas e dopo averne svitato il rubinetto, collaborato dal Di Maggio all’interno dell’officina meccanica di quest’ultimo, aveva provveduto a riempire la bombola, collocando la rimanente parte di esplosivo in due scatole di “aspor”, e sistemando il tutto (bombola, scatole e scatola metallica) nel portabagagli dell’autovettura Golf del Di Maggio. Nelle prime ore del pomeriggio del giorno antecedente la strage, messosi alla guida della predetta autovettura, preceduto dal Di Maggio che gli batteva la strada a bordo della FIAT UNO intestata al fratello Giuseppe, si erano diretto a Palermo, recandosi in una traversa della via Ammiraglio Rizzo, davanti all’esercizio commerciale “Gammicchia gomme”, dove aveva appuntamento con il Madonia. A quel punto il DI Maggio, dopo avere offerto la propria disponibilità a rimanere qualora la sua presenza fosse stata utile, si era allontanato; subito dopo il Brusca a bordo della GOLF ed il Madonia a bordo di una FIAT UNO si erano introdotti in uno scantinato, sito nelle vicinanze in una traversa della via Ammiraglio Rizzo, all’interno del quale aveva notato una FIAT 126 di colore “verde oliva” poi utilizzata per compiere l’attentato; non ricordava se in quell’occasione fosse presente anche Ganci Calogero o se fosse sopraggiunto dopo.
Erano, quindi, iniziate le operazioni di preparazione e collocazione dell’ordigno esplosivo, che il collaboratore ha così descritto:
“ BRUSCA: - Dunque, da quel momento in poi subito ci siamo messi in moto per cominciare a preparare, cioè passare i fili, montare tutta la ricevente, posizionare la bombola dell'esplosivo.
P.M. : - Cominciamo con il posizionamento dell'esplosivo. Dove l'avete collocato e se avete utilizzato determinati accorgimenti.
BRUSCA: - Dunque, mi ricordo che abbiamo messo prima la bombola di gas, poi questa scatola di cart... questa scatola di ferro e nel mezzo dei due, di laterale, abbiamo messo del cartone non farli sbattere, cioè non fargli fare attrito eventualmente qualche imprevisto strada facendo.
P.M. : - Avete tolto la ruota di scorta?
BRUSCA : - Non me lo ricordo, dottoressa, non... è un particolare che non... non mi ricordo.
P.M. - Che altra attività avete fatto, compiuto sulla macchina oltre a collocare l'esplosivo?
BRUSCA : - Poi abbiamo passato... cioè dovevamo passare i fili... i fili dall'interno della macchina; abbiamo dovuto passare il detonato... cioè i fili del detonatore che si doveva andare a posizionare dentro il cofano della macchina, cioè dovevamo prendere il detonatore e poi infilarlo dentro...
P.M. : - Chi ve li aveva forniti i detonatori?
BRUSCA: - Sempre Franco Piediscalzi, sempre la stessa ditta. Quindi abbiamo perso un bel pò di tempo per potere fare tutto questo tipo di lavoro. La ricevente l'abbiamo collocata proprio sotto il seggiolino della macchina.
P.M.: - Seggiolino... BRUSCA: - Guida.
P.M.: - ... lato guida? BRUSCA : - Lato guida, sì.
P.M.: - Avete collocato anche un'antenna?
BRUSCA: - L'antenna era quella a filino, ricoperta di plastica, che poi l'abbiamo fatto fuoriuscire per quattro - cinque centimetri tra sportello e correntino della macchina.” Dopo avere precisato, a specifica domanda, che il detonatore, anch’esso fornito dal Piediscalzi, era stato collocato la mattina successiva dopo una breve sosta, prima di posteggiare l’auto dinanzi allo stabile del Dott. Chinnici - attività, questa, di cui si parlerà più avanti – il Brusca ha riferito che durante la preparazione dell’auto-bomba curata da lui e dal Madonia era presente anche Ganci Calogero, pur non ricordando se si trovasse già all’interno del garage o fosse sopraggiunto dopo il loro arrivo, mentre “Enzo Galatolo andava e veniva”, portando acqua, attrezzi ed altro materiale necessario; non ricordava se in quella circostanza avesse notato la presenza di Anzelmo Paolo, certamente visto successivamente. Tutta l’attività “per assemblare dentro la macchina i pezzi” li aveva impegnatati per 4-5-6 ore ed era stata ultimata “tardissimo”, senza essere tuttavia in grado di precisare l’orario esatto. Ricordava che subito dopo insieme al Madonia aveva rubato le targhe di un’auto che l’indomani mattina, prima di uscire dal garage, avevano montato sulla FIAT 126; le targhe erano state asportate nel corso della notte(“era notte fonda”) da un’altra FIAT 126 posteggiata in una traversa della via Sampolo di fronte ad alcuni negozi, precisando che nei pressi vi era un panificio ed un Hotel. Subito dopo, insieme al Madonia, erano andati a dormire per qualche ora in un appartamento sito in via D’Amelio, curando di mettere la sveglia per le ore 5,30 ed attivando altresì la sveglia telefonica.
A specifica domanda se oltre alle prove di funzionamento del telecomando in c.da Dammusi ne avessero effettuato altre in luoghi diversi ed in particolare nello scantinato, dichiarava testualmente (ff.65- 66):
BRUSCA : - Non me lo ricordo. Cioè, nello scantinato sì, il funzionamento dentro lo scantinato cioè lo abbiamo fatto qualche prova, se funzionava, c'era qualche .. cioè qualche stupida... no stupidaggine, qualche cosa che non funzionava, ma era cosa momentanea. Cioè, abbiamo fatto le prove, ma subito li abbiamo...
P.M.: - E dopo queste prove all'interno dello scantinato lei ricorda se avete effettuato altre prove in altri posti prima proprio dell'attentato?
BRUSCA - Dottoressa, non me lo ricordo, cioè proprio...
P.M. : - Ricorda se nel corso della notte, prima o dopo il furto delle targhe, lei si è nuovamente recato a fondo Pipitone?
BRUSCA : - Dottoressa, non me lo ricordo se io sia andato in fondo Pipitone, ..non sono in condizioni nè di escludere nè di confermarlo, perchè non ho un ricordo ben preciso.”
Ha inoltre riferito che la mattina della strage insieme al Madonia, a bordo della Fiat Uno, si spostarono dall’appartamento di via D’Amelio – dove la sera precedente aveva posteggiato la Golf – al garage in cui era custodita la FIAT 126, precisando che Galatolo Vincenzo aveva aperto la saracinesca. Dopo avere montato le targhe rubate si era messo alla guida della FIAT 126, mentre il Madonia con la FIAT Uno aveva fatto da battistrada fino alla via Pipitone Federico. Giunto sulla strada, aveva avuto modo di vedere a circa cento metri di distanza, all’altezza della Fiera del Mediterraneo, il Gambino Giacomo Giuseppe e Ganci Raffaele nella via Ammiraglio Rizzo, a bordo di un’autovettura, i quali si erano subito allontanati certamente per perlustrare la strada. Poco prima di arrivare nella via Pipitone Federico si era fermato, era sceso dall’auto, e dopo avere aperto il cofano aveva inserito il detonatore nella bombola del gas; ripresa la marcia, giunto nel luogo della strage, aveva notato Ganci Calogero e Anzelmo Francesco Paolo, all’interno di un’autovettura bianca, probabilmente una FIAT 127 o una GOLF, che stavano liberando il posteggio dinanzi all’abitazione del dr. Chinnici per far posto alla FIAT 126. Secondo le istruzioni ricevute dal Madonia, aveva quindi provveduto ad occupare il posto lasciato libero, avendo cura di posteggiare l’auto- bomba in posizione orizzontale e cioè parallela rispetto al marciapiede, lasciando altresì uno spazio davanti la parte anteriore dell’autovettura e si era trattenuto all’interno dell’abitacolo per effettuare alcune operazioni.
All’udienza del 2/3/1999 il Brusca ha così descritto la fase sopra menzionata:
BRUSCA - Esce Calogero Ganci ed entro io. Entro io e posiziono la macchina, già stabilito, in modo che il dottor Chinnici quando esce dal portone esca proprio davanti alla 126. Cioè, lascio proprio lo spazio, perchè c'erano due piante, cioè due vasi con delle piante posteggiati davanti la portineria e io posiziono la 126 in maniera che il dottor Chinnici appena usciva di casa non doveva svirgolare fra le macchine. Cioè, direttamente dalla portineria si andava a mettere in macchina, cioè proprio in modo che passasse proprio davanti alla 126. Io esco, chiudo... cioè, esco con molta cautela, perché c'era già tutto azionato. L'unica cosa che faccio è che quando scendo dalla macchina alzo il sediolino; siccome preventivamente avevamo preso... dove c'era il chiodo avevamo messo un tubicino di plastica per ricoprire il chiodo di ferro in modo che se succedeva qualche falso contatto, qualche cosa, il contatto, cioè la levetta che avevamo costruito antecedentemente non andava a fare contatto o se si muoveva c'era l'isolante, che era questo tubicino di ferro. Alzo l'isolante di gomma, cioè che sarebbe come lo spessore era questo, il tubicino che si adoperava per i motorini per la benzina, non so se lei ne ha presente. Dopodichè io alzo il sediolino, tolgo questa custodia, alzo il sediolino, prendo l'antenna, la faccio fuoriuscire dalla macchina tre - quattro - cinque centimetri proprio sotto lo sportello; chiudo lo sportello con molta calma, lo appoggio e poi per chiuderlo definitivamente con... di dietro cioè lo spingo e siccome l'avevo toccato con le mani, cioè, faccio in modo che tolgo pure le impronte digitali, perchè non sapevo se usciva, se non riusciva tutto. E avevo un pezza per non farla vedere, che se qualcuno possibilmente affacciava dal balcone non la faccio notare. Dopodichè scendo da questa macchina, la chiudo regolarmente e me ne vado. Me ne vado... in un primo tempo ricordavo che me n'ero andato a piedi verso via Libertà.
P.M. : - Come l'ha chiusa la... lo sportello...?
BRUSCA : - L'occhietto... cioè, l'occhiello l'ho appoggiato e poi...
P.M. : - Poggiato, perfetto.
BRUSCA : - ... e l'ho spinto con il di dietro, cioè in maniera da chiudersi definitivamente……Per non dargli lo botto.”
Sceso dall’auto, dopo avere percorso 30-40-50 metri fino al luogo in cui era posteggiato il camion ed in cui notò la presenza del Ferrante, era salito sull’auto del Ganci e dell’Anzelmo che lo avevano accompagnato “verso la via Libertà” (f.80) e più precisamente nelle immediate vicinanze del camion, nei pressi del quale era posteggiata la FIAT Uno prima condotta dal Madonia nella fase di trasferimento dal garage al luogo dell’attentato. Era quindi salito su tale ultima autovettura, a bordo della quale si trovava ancora il Madonia, il quale subito si era collocato sul cassone del camion, probabilmente un modello FIAT 110, alla guida del quale aveva riconosciuto Giovan Battista Ferrante. Sul punto Brusca ha precisato che in realtà quella era la prima volta che vedeva il Ferrante, uomo d’onore che non conosceva e che rivide successivamente, riconoscendolo, in occasione dell’omicidio di Puccio Pietro. Precisava che il camion era posteggiato nella via Pipitone Federico, con direzione di marcia verso la chiesa di S.Michele, a circa cento- centocinquanta - duecento metri dalla FIAT 126 - rispetto alla quale era collocato più a sud e cioè più vicino alla via Libertà - sul lato opposto rispetto a quello dove era posteggiata l’auto-bomba ed era accostato ad un’impalcatura e distaccato rispetto al marciapiede. Sul cassone del camion vi erano bidoni di calce e materiale per l’edilizia ed il Madonia era vestito da muratore, con canottiera e pantaloncini corti. Per evitare di destare sospetti sostando a bordo dell’autovettura aveva effettuato dei giri di perlustrazione nella zona, nel corso dei quali aveva notato la presenza di altri uomini d’onore che effettuavano lo stesso servizio: Pino Greco detto “Scarpa” assieme a Vincenzo Puccio a bordo di una SIMCA Talbot ed Enzo Galatolo a bordo di una Lancia Beta coupè di colore azzurro. Ad un certo punto aveva notato l’arrivo delle auto del servizio di scorta al Dott. Chinnici ed i Carabinieri avevano provveduto a chiudere la strada bloccando il traffico nelle due traverse che, a monte ed a valle, intersecavano quel tratto della Via Pipitone Federico dove era ubicata l’abitazione del giudice. A quel punto aveva posteggiato la FIAT Uno dietro al camion e il Madonia, che era già salito sul camion portando con sè il telecomando custodito all’interno di una busta di plastica, si era posto sul cassone dietro la cabina con le mani appoggiate sulla c.d. “forca”, aveva premuto il telecomando ed “era successo il finimondo”. Ha precisato che il Madonia si era collocato a ridosso della cabina la cui altezza consentiva al primo di sporgere con il capo oltre il tettuccio e di avere quindi una comoda visuale. Il telecomando aveva le dimensioni di circa venti centimetri ed un’altezza di circa 5-6-7 centimetri, ed era del tipo di quello utilizzato per gli impulsi a distanza delle macchinette-giocattolo, con le levette, di colore argento metallizzato. Ha inoltre riferito di avere notato il Madonia nell’atto di richiudere l’antenna del telecomando, mentre il camion si era mosso repentinamente imboccando una traversa sulla destra e dopo avere percorso pochi metri aveva effettuato una sosta per consentire al Madonia di scendere e di salire sull’auto guidata dallo stesso Brusca. Giunti in via D’Amelio, il Brusca aveva posteggiato la FIAT Uno e si era recato con la propria Golf presso uno studio notarile sito nei pressi del palazzo di giustizia per stipulare un atto; dichiarava di non ricordare il nome del notaio precisando tuttavia di avere appreso frattanto che era morto suicida. Il Madonia era poi salito su un’Alfa Beta coupé, che il Brusca non è stato in grado di precisare se fosse quella del Galatolo o quella dello stesso Madonia, possedendo entrambi un’autovettura dello stesso tipo. Il quadro ricostruttivo della fase esecutiva della strage offerto dal Brusca appare qualificato, ad avviso della corte, da indubbi connotati di originalità e specificità che depongono per la provenienza delle informazioni fornite da un patrimonio di conoscenze proprio del collaboratore, non essendo ravvisabile, anche alla luce della ricostruzione fornita dagli altri coimputati, di cui si dirà più avanti, né una pedissequa ripetitività né un mero recepimento manipolatorio del racconto degli altri protagonisti della stessa fase. Quanto, poi, all’attendibilità intrinseca, sub specie della coerenza e della costanza delle dichiarazioni, va innanzitutto rilevato che molte delle contestazioni mosse dalla difesa in sede di controesame devono ritenersi ampiamente superate alla luce dei plausibili chiarimenti forniti dallo stesso imputato, con particolare riferimento ai seguenti punti(cfr.ud.3/3). […]
Va peraltro rilevato che nel verbale in data 24/10/1997(f.20) il Brusca aveva riferito della presenza del Galatolo indicandolo come colui che aveva aperto la saracinesca. Il 13/8/1996, inoltre, a distanza di due giorni dal primo interrogatorio, Brusca, mentre parlava di altri fatti, aveva riferito spontaneamente: "A proposito della strage Chinnici ho ricordato ieri sera che probabilmente ho visto anche Enzo Galatolo all'interno dello scantinato, di cui ho già detto, il giorno della consumazione della strage. Se non ricordo male entrò per portarci dell'acqua e subito dopo andò via. Ho rivisto il Galatolo anche l'indomani mattina nella zona in cui fu consumata la strage. Preciso di averlo visto con una Lancia Beta Coupè". (cfr.f.50, ud.3/3/1999 e verbali acquisiti ex art.503 c.p.p.). Alla domanda della difesa se fosse rimasto a dormire in via D'Amelio nel “covo” di Antonino Madonia o fosse andato nel fondo Pipitone, il Brusca ha ribadito di avere dormito nella casa di Madonia e di non ricordare di essere andato nel fondo Pipitone, pur affermando di non poterlo escludere.(“ Non sono neppure in condizioni di poterlo escludere perchè non me lo ricordo... non lo escludo perchè non me lo ricordo. Io escludo una cosa quando sono sicuro”). Anche in ordine alle prove del telecomando ed in particolare alla domanda se oltre che in contrada Dammusi fosse stato provato altre volte, il Brusca ha ribadito testualmente: “Io ho detto, ho dichiarato che mi ricordo solo quello in contrada Dammusi, poi dentro lo scantinato abbiamo fatto qualche prova così, momentanea. In altri posti non mi ricordo. Non lo posso neanche escludere perchè non me lo ricordo”.
Nel corso del controesame, con riferimento al furto delle targhe ed alla sostituzione di quelle originarie della Fiat 126 con quelle sottratte nel corso della notte(nelle prime ore del 29 luglio) unitamente al Madonia, la difesa ha contestato il contenuto del verbale in data 11 agosto 1996 dal quale risulta (pag.13) che "a questo punto il Pubblico Ministero formula altre domande a specificazione di quanto sin qui dichiarato e lo stesso risponde….Non è in grado di riferire chi si era occupato della 126 nè se ci fosse stata una sostituzione di targhe nè il modello delle targhe montate sopra", ciò che contrasta con quanto dichiarato sia in dibattimento che nel corso dell’interrogatorio reso al P.M. il 24 ottobre '97, e cioè di essersi attivato unitamente ad Antonino Madonia prima per il furto delle targhe e poi la loro sostituzione.
Invitato a fornire chiarimenti, il Brusca ha dichiarato: “ Signor Presidente, che non ho rubato la 126, non so chi l'ha rubata; non mi ricordo delle targhe, non mi ricordavo del furto delle targhe. A forza poi di ricordare piccoli particolari, mi sono ricordato di avere rubato le targhe assieme ad Antonino Madonia e della sostituzione della macchina... cioè della macchina, delle... delle targhe prima di uscire dal garage. Questo particolare. Tutto il resto, 126, che targhe aveva, non me li ricordo, Signor Presidente. Credo che siano quelle vecchie, però non me lo ricordo con... con certezza”.
Nel corso del controesame, su sollecitazione della difesa, il Brusca, confermando quanto dichiarato nel corso dell’udienza precedente, ha ribadito che subito dopo la collocazione della FIAT 126 si diresse verso la chiesa di S.Michele, ammettendo di avere inizialmente (verb.11/8/1996) fornito una versione parzialmente diversa: […] A quel punto la difesa ha contestato all’imputato il verbale in data 13/6/1997 dal quale risulta che il Brusca aveva dichiarato testualmente: “… essendo che stiamo fermi in via Pipitone Federico facciamo ogni tanto qualche giro per non stare fermi sempre in un punto, io e Antonino Madonia".
Invitato a precisare se i giri intorno all’isolato li avesse fatti da solo, il Brusca ha dichiarato : “ Signor Presidente, io li ho fatti da solo. Ripeto, non escluso che ne abbia fatto qualcuno con Antonino Madonia, ma li ho fatti da solo e facevo qualche giro; passavo dalla macchina, cioè dov'era posteggiata la macchina, tenevo sempre sotto controllo la macchina, non mi muovevo da là. Cioè, io se facevo... il tempo di girare l'angolo, però ero sempre là, sulla zona, non è che mi allontanavo o mi spostavo che me ne andavo al Politeama o me ne andavo a piazza Leone. Il tempo di fare la traversa e giravo, cioè non stavo fermo. Ogni dieci minuti - un quarto d'ora mettevo in moto e facevo un giretto, ma era... in sostanza ero sempre là.”
Quanto all’orario di arrivo del camion, il collaboratore ha dichiarato:
BRUSCA “Il camion non l'ho visto arrivare. Gli posso dire che il camion era lì, però se era arrivato prima, un'ora, due ore, tre ore, cinque ore, non... se è pernottato là...
PRESIDENTE: - Quindi, lei lo ha trovato lì il camion.
BRUSCA : - Sì, me lo ri... e quando sono sceso dalla macchina con i due l'ho trovato lì.
AVV. IMPELLIZZERI: - E a che ora l'ha visto?
BRUSCA: - Avvocato, io sono arrivato intorno alle sei e mezza - sette meno un quarto - sette meno venti, non... non è che mi sono puntato l'orologio. Sicuramente prima delle sette che cominciasse il traffico, che aprissero le portinerie, che prima di aprire le portinerie noi dovevamo essere già sul posto, che di solito le portinerie aprono alle sette - sette e un quarto - sette e dieci. Almeno questo mi fu stato detto.
AVV. IMPELLIZZERI: - Quindi quando voi facevate i giri attorno all'isolato il camion era lì?
BRUSCA: - Quando io facevo i giri e dopo che sono sceso dalla macchina con Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci il camion l'ho trovato lì. Dopodichè io mi sono messo in macchina nella macchina di Antonino Madonia e ho fatto quell'attività che poco fa ho detto.
Altro punto di contrasto con precedenti dichiarazioni, oggetto di specifica contestazione da parte della difesa, riguarda l’autovettura con la quale il Madonia ed il Brusca si sarebbero allontanati dalla via Pipitone Federico subito dopo l’esplosione per raggiungere via D’Amelio. Il collaboratore ha infatti ribadito di avere raggiunto la Via D’Amelio con il Madonia a bordo di una sola autovettura, la FIAT uno più volte citata, mentre nel corso dell’interrogatorio reso il 24 ottobre '97 aveva riferito della presenza di un'altra macchina con la quale sarebbe andato via Antonino Madonia.
A pag. 29 del citato verbale, infatti, il Brusca aveva dichiarato: "Dottoressa, io sono rimasto sul punto cento per cento e tanto è vero che io era d'accordo con Antonino Madonia che appena il Ferrante fra un pò di... cioè appena si fa l'attentato Antonino Madonia scende dal camion, lo prendo io e poi gli consegno la macchina che Enzo Galatolo aveva portato per mettersi a sua disposizione. Io e Antonino. Io con la Fiat Uno ed Antonino Madonia con la Lancia Beta ci rechiamo in via D'Amelio. Io posteggio la Fiat Uno e subito me ne vado; poi non so loro cosa hanno fatto e cosa non hanno fatto".
Alla contestazione Brusca ha fornito la seguente risposta: “ Sì, ho capito. Io ho visto... no, l'ho chiarito ieri. Ho visto la presenza di Enzo Galatolo. Siccome mi ricordavo che Enzo Galatolo, avevo pensato che se n'era andato con Antonino Madonia, ma invece Antonino Madonia se n'è andato con me, mi ricordo che se n'è andato con me. Siamo arrivati in via D'Amelio, la presenza di Enzo Galatolo sul posto l'ha visto, la... era con la Lancia Beta e pensavo che se n'era andato con Antonino Madonia, cioè Enzo Galatolo e Antonino Madonia, invece no, ricordo che Antonino Madonia se n'è andato con me. Siamo arrivati sul posto, abbiamo posteggiato la macchina; io ho preso la mia macchina e me ne sono andato, cioè la mia, quella di Di Maggio che era una Golf, che poi ho dato a mio fratello Emanuele e se n'è andato, che io sono rimasto con la mia macchina, con la macchina di... di mio fratello, dopodichè ci siamo divisi, cioè ognuno per la sua strada.”
Va peraltro rilevato che la versione fornita in dibattimento è conforme a quella resa in precedenza al GIP nell’interrogatorio in data 13/6/1997, nel corso del quale aveva riferito di avere raggiunto la via D’Amelio insieme al Madonia a bordo della FIAT Uno. Successivamente, il ricordo di avere visto la Lancia Beta nel luogo della strage aveva fuorviato la sua ricostruzione mnemonica inducendolo a ritenere che il Madonia si fosse servito di quell’autovettura per allontanarsi dalla via Pipitone Federico ( “successivamente avevo fatto questa valutazione. La Lancia c'è, l'ho visto sul territorio e avevo pensato che se ne stava andando Antonino Madonia con Enzo Galatolo; invece ricordo che Antonino Madonia se n'è andato con me e la Lancia c'è, Enzo Galatolo c'è. Pensavo che aveva avuto questo compito, ma Antonino Madonia se ne viene con me”). Alla luce di quanto sopra evidenziato appare chiaro che, anche in relazione a taluni punti significativi della ricostruzione della fase preparatoria ed esecutiva della strage, la “formazione progressiva” degli elementi di prova forniti dal Brusca non tradisce affatto un tardivo e strumentale recepimento manipolatorio di dichiarazioni rese da altri correi, frattanto apprese, ma sottende, piuttosto, un fisiologico processo di memorizzazione tanto più plausibile quanto più, come nel caso del Brusca, il vissuto criminale sia intenso ed il correlativo patrimonio conoscitivo ricco di contenuti descrittivi. Tanto più, poi, eventuali lacune mnemoniche devono ritenersi fisiologicamente assorbibili in quel margine di incertezza ricostruttiva che discende dal tempo frattanto trascorso e dalla enorme ricchezza dei particolari di cui si compone il patrimonio conoscitivo del soggetto, quando, come nel caso di specie, il successivo ricordo di un elemento descrittivo sia del tutto spontaneo e non già il frutto della “suggestiva” contestazione di altre fonti di prova alle quali il collaboratore decida di allinearsi compiacentemente. Non può non rilevarsi, inoltre, che il Brusca ha offerto ulteriori elementi probatori del tutto nuovi rispetto alle propalazioni degli altri collaboratori, in relazione alla specificità del ruolo svolto nella fase preparatoria ed esecutiva, fornendo una ricostruzione connotata da indubbi profili di originalità ed autonomia che, da una parte, hanno trovato riscontro in elementi idonei a suffragarne l’attendibilità, e, dall’altra, depongono per la provenienza delle sue dichiarazioni dal bagaglio proprio del dichiarante, con esclusione di qualsivoglia pedissequa ripetitività o “contaminatio”. Sotto altro profilo, le pur innegabili discrasie con quanto riferito dagli altri chiamanti in correità, che saranno compiutamente analizzate più avanti, anche in relazione a fasi o segmenti della condotta criminosa connotati dal contestuale protagonismo dei dichiaranti, depongono per l’assenza di reciproche influenze e di successivo allineamento di elementi e dettagli in origine divergenti in ciascuna propalazione. Il quadro ricostruttivo offerto dalle sue dichiarazioni ha consentito di far luce non solo sul movente e sui rapporti tra “cosa nostra” e centri di potere politico-economico, ma altresì di accertare la provenienza ed il tipo di esplosivo, le modalità della preparazione dell’auto-bomba, il furto delle targhe apposte alla FIAT 126, contribuendo, quindi, ad arricchire un quadro probatorio che senza il suo apporto sarebbe stato destinato a rimanere inevitabilmente lacunoso. Non può inoltre tacersi che la collaborazione del Brusca si è rivelata estremamente significativa - in relazione al prestigio goduto ed alla centralità del ruolo operativo rivestito, avuto riguardo al rilievo della sua famiglia di sangue ed alla particolare vicinanza al Riina - per la ricostruzione dei meccanismi operativi della “commissione” e per l’identificazione dei suoi componenti. La sua lunga militanza nell’organizzazione, connotata da quella particolare posizione sopra ricordata che ne ha favorito una cognizione e valutazione delle dinamiche interne da un osservatorio privilegiato, ha inoltre consentito al suo patrimonio informativo di acquisire una enorme mole di conoscenze anche in ordine alla c.d. guerra di mafia, sicchè il suo contributo probatorio si è rivelato particolarmente prezioso in relazione alla ricostruzione delle alleanze, delle contrapposizioni ed in genere degli equilibri interni fino all’assunzione della incontrastata e definitiva preminenza gerarchica da parte del Riina. Brusca ha inoltre chiarito le ragioni non solo delle diverse modalità esecutive della strage rispetto all’originario progetto che prevedeva un attentato nella casa di villeggiatura in Salemi, ma anche della decisione di sospenderne temporaneamente l’esecuzione per privilegiare altre esigenze prioritarie connesse con le dinamiche interne a “cosa nostra” in quel momento storico, per poi riprenderlo con rinnovato impegno operativo prevedendo, per la prima volta, ben più eclatanti e devastanti modalità “perché si è voluto dare un’impronta forte”(cfr.f.132, ud.3/3/1999). Non può peraltro essere sottaciuto che le propalazioni del Brusca, il cui protagonismo operativo ha connotato tutte le fasi del progetto criminoso, ha costantemente assunto i caratteri tipici della incondizionata chiamata in correità, senza atteggiamenti riduttivi nei confronti della propria responsabilità, né compiacenti nei confronti di altri correi ed in particolare del padre Bernardo. Alla stregua delle considerazioni che precedono va rilevato che le pur innegabili reticenze ed omissioni, peraltro ammesse dallo stesso imputato, nella fase iniziale della sua collaborazione, sulla quale hanno pesantemente influito le vicende relative alla ripresa dell’attività criminosa nel suo territorio di origine da parte dei collaboratori di giustizia Di Matteo, la Barbera e Di Maggio, quest’ultimo considerato suo nemico personale e della sua famiglia, non autorizzano a screditarne l’attendibilità complessiva, disconoscendone il rilevante apporto probatorio, ma impongono una doverosa particolare cautela nella valutazione della sua attendibilità, in applicazione del principio della frazionabilità della stessa, valorizzando quelle parti del racconto propalatorio che risultino positivamente riscontrate e certamente immuni dal sospetto di inquinamento, di fraudolente concertazioni o tardivo allineamento alle dichiarazioni di altri correi. […].
Il faccia a faccia fra Brusca e Di Maggio. La Repubblica il 18 luglio 2020. […] Come sopra anticipato, i contrasti tra le dichiarazioni del Brusca e del Di Maggio su circostanze dotate di notevole rilevanza probatoria hanno indotto la Corte a disporre d’ufficio un confronto tra i due collaboratori svoltosi a Roma con la comparizione personale di entrambi. […] In ordine alle ragioni che avevano determinato il progressivo deterioramento dei loro rapporti, appare opportuno ricordare che il Brusca ha riferito che il Di Maggio aveva iniziato una relazione con tale Elisa Scalici, che avrebbe poi sposato, la quale aveva avuto in precedenza un “flirt” con lo stesso Brusca. Poiché il Di Maggio era già coniugato con figli, lo aveva più volte invitato ad interrompere la relazione perché contraria alle regole di Cosa Nostra. Brusca lamentava altresì che il Di Maggio spendeva il suo nome per favorire gli incontri con la donna e poichè la circostanza era nota all’organizzazione questo comportamento aveva notevolmente indisposto il Brusca che peraltro era fidanzato; quest’ultimo lo aveva pertanto richiamato con toni decisi, intimandogli “o la finisci o te la faccio finire”. […] Il Brusca ha ricordato al Di Maggio, invitandolo ad uno sforzo di memoria, che alla fine, ogni volta che gli erano state contestate le sue dichiarazioni, per vari motivi era stato costretto ad ammettere le circostanze dapprima negate, ed il contraddittore, di rimando:
DI MAGGIO - “dipende e... sei costretto... ...in che cosa? Mica posso dire tutto quello che dici tu”.
[...] Nel corso del confronto il Brusca ha incalzato il suo contraddittore contestandogli altri episodi in relazione ai quali le sue chiamate in correità - per esempio nei confronti di tale Virga Vincenzo per un quadruplice omicidio in pregiudizio di tale Barbaro ed altri di Alcamo – nonostante la negazione del Di Maggio, avevano poi trovato riscontro in quelle di altro collaboratore, Sinacori Vincenzo.(cfr.f.108) [...] Dal confronto sono inoltre emerse le seguenti posizioni su specifici punti che possono essere schematicamente così sintetizzati:
- Di Maggio ha chiarito che al di là dei motivi strettamente personali ed altri collegati alla gestione del mandamento da parte sua, non ve ne sono altri da rappresentare in ordine ai sentimenti di astio e odio che il Brusca nutrirebbe nei suoi confronti. (“lui sa benissimo, Signor Pubblico Ministero, non posso scendere ai fatti personali”).
- Di Maggio ha precisato di non avere mai in precedenza riferito ai Pubblici Ministeri nisseni dell’occultamento del vetro blindato sul quale erano state fatte prove di sfondamento.
- Di Maggio ha dichiarato che durante le fasi preparatorie di un omicidio il Brusca talvolta gli riferiva preventivamente quale fosse l’obiettivo da colpire, talaltra “c'erano momenti che … si andava sul posto ed arrivati sul posto poi diceva: "dobbiamo commettere questo omicidio".
- Brusca ha confermato che quando il Di Maggio gli batteva la strada per trasferire oggetti vari o per altri motivi, questi ne conosceva sempre il motivo.
- Dopo avere precisato che il suo primo arresto successivo alla strage di via Pipitone Federico risaliva al 29 settembre '84, Brusca ha escluso di avere effettuato un trasferimento di esplosivo con consegna a Vincenzo Milazzo, negando categoricamente, in particolare, ogni fornitura in relazione all’attentato al sostituto procuratore della Repubblica di Trapani dr. Carlo Palermo ( commesso in località Pizzolungo, il 2/4/1985) anche in considerazione del fatto che a quell’epoca si trovava a Linosa, quale soggiornante obbligato. Non ha escluso invece la consegna di armi prima della esecuzione di omicidi, antecedentemente al suo arresto, atteso che in territorio di Alcamo ne avevano consumati molti.
- Di Maggio ha per contro sostenuto che il trasferimento di esplosivo fu eseguito prima che Brusca fosse arrestato. Alla domanda se sul punto intendesse rettificare quanto dichiarato in precedenza, e cioè che la consegna dell’esplosivo risaliva ad epoca immediatamente precedente alla strage di Pizzolungo, il Di Maggio ha testualmente dichiarato: “diciamo l'attentato quando è avvenuto di preciso non mi ricordo, però mi ricordo l'attentato è stato o che lui era stato arrestato o era, diciamo al confine, a Linosa, però la polvere da sparo è stata portata prima che Vincenzo Milazzo si doveva organizzare, e tutte ste belle cose”. Non è stato in grado di precisare quanto tempo prima fosse stato fornito l’esplosivo.
A fronte di queste accuse il Brusca ha replicato ribadendo di essere stato arrestato il 29 settembre 1984 e di essere rimasto in stato di detenzione fino al 14 marzo del 1985, raggiungendo entro le 24 ore successive alla scarcerazione l’isola di Linosa. Sul punto ha precisato di essere stato accompagnato a Porto Empedocle per imbarcarsi da Siino Angelo e dallo stesso Di Maggio, il quale ha spontaneamente ricordato la circostanza al Brusca. Nel corso del soggiorno obbligato aveva fruito di un permesso di tre giorni per il matrimonio del fratello in data 5 luglio 1985, rimanendo ininterrottamente lontano da S. G. Jato fino al 31/1/1986. In considerazione del contrasto emergente tra quanto dichiarato in precedenza, secondo cui l’esplosivo era stato consegnato dal Brusca pochi giorni prima della "strage di Pizzolungo", e quanto sostenuto in sede di confronto ("prima che tu fossi arrestato"), al Di Maggio venivano richiesti i seguenti chiarimenti:
DI MAGGIO - ...però il discorso è che il mio ricordo va diventando sempre più lucido e più ne parliamo più lucido diventa.
PRESIDENTE: - tenga conto che, dico questa consegna sarebbe avvenuta un anno prima della Strage, cioè un anno prima, insomma...
DI MAGGIO - sì, sei mesi prima...
PRESIDENTE: - ...sì.
DI MAGGIO - ...sette mesi prima.
PRESIDENTE: - lei ha chiaro questo ricordo?
DI MAGGIO - sì, sì, abbiamo...
BRUSCA : - e serviva per Carlo Palermo?
DI MAGGIO - sì, sì, perché l'e... e infatti quando è successo...
BRUSCA - va bene, va bene.
P.M.: - ……quindi lei ricorda con precisione che questo esplosivo fu consegnato prima dell'arresto di Brusca, quindi questo è un nuovo fatto, mi conferma questo dato?
DI MAGGIO - sì, sì.
P.M.: - ..…lei sta riferendo che l'esplosivo fu consegnato a Milazzo, io vorrei sapere se lei nel momento in cui trasferiva l'esplosivo a Milazzo, assieme a Brusca come si sta affermando, sapeva che quell'esplosivo doveva essere finalizzato a commettere l'attentato in danno del Giudice Carlo Palermo?
DI MAGGIO - no, io non lo sapevo il discorso, perché neanche sapevo, in quel momento stavamo trasportando esplosivo, quando nel momento che si è alzato cofano per aiutarlo ed allora là lui ha detto “questo ho trovato, esplosivo, più di questo non ti ho potuto trovare” e là è una fase prima, successivamente quando è successo il fatto il padre si è sollevato dalla sedia, quando ha sentito la notizia, dicendo: "Vincenzo ce l'ha fatta"... ed allora io collego il discorso che abbiamo portato l'esplosivo e il fatto del Giudice Palermo.
P.M.: - il padre di chi?
DI MAGGIO - di Giovanni Brusca.
P.M.: - ma le disse il padre di Giovanni Brusca parlando... oltre a quella frase "Vincenzo ce l'ha fatta", "in questa cosa c'entra pure mio figlio?", le fece qualche collegamento?
DI MAGGIO - no, no.
Circa le ragioni che avrebbero potuto indurre il Di Maggio a negare ogni coinvolgimento nella strage per cui è processo il Brusca ha dichiarato di non essere a conoscenza di fatti specifici che potessero spiegare questo atteggiamento, ma di potere fare solo deduzioni personali. Con riferimento alla ferita riportata all’arcata sopracciliare a causa del rinculo del fucile, Brusca ha precisato, a specifica domanda, che in quella circostanza, collocata nell’86-’87, non era presente Angelo Siino e che avevano provato un M16 - che dovrebbe essere stato ritrovato in contrada Giambascio attualmente ancora otturato, perché un proiettile si era messo di traverso - un Kalashnicov e un 358,( non 303) che era un fucile da caccia per elefanti di grosso calibro. Poiché disponevano di un solo cannocchiale ne richiesero un altro al Siino, appassionato di armi, il quale gli spiegò anche il funzionamento. Non ricordava di avere riferito a quest’ultimo dell’infortunio occorsogli, ma non escludeva che lo stesso potesse averne notato i segni. A fronte di queste precisazioni il Di Maggio sosteneva che il fatto andava collocato nel periodo antecedente l’arresto del Brusca nel 1984, ma non era in grado di precisare se prima o dopo la strage. A domanda del Brusca se fosse stata fatta prima la prova col fucile munito di cannocchiale o quella con il Bazooka, il Di Maggio ha dichiarato: “è prima della prova del Bazooka, perché alla prova del Bazooka tu non c'eri”. Il Brusca a quel punto replicava, precisando : “ eh infatti, siccome non c'ero e siccome le prove delle armi è stata fatta dopo, quindi mi ricordo benissimo, avevo una Suzuki, siamo saliti in montagna con il mio suzukino, che lui l'aveva pure... ne avevamo due, uno lui e uno io, e me lo ricordo benissimo. Lo abbiamo fatto io senza patente, però mi rischiavo di camminare ugualmente”.
Anche dopo questa nuova indicazione del Brusca, il Di Maggio confermava la data in precedenza fornita. Richiesto di specificare il mese in cui sarebbe stata eseguita la prova delle armi, il Brusca ha dichiarato di non essere in condizioni di precisarlo, aggiungendo quanto segue: “Io le posso dire che avevo una Suzuki che mi ha venduto Miceli Giuseppe e che io, per i tre anni di sorveglianza speciale, essendo che evitavo le strade principali, camminavo cioè in mezzo ai vigneti, terreno, cioè prendevo le strade più... più disastrose per evitare posti di blocco, siccome lo ricordo benissimo questa Suzuki l'ho avuta dopo che sono ritornato da Linosa (31/1/1986) in quanto mi hanno ritirato la patente, il fatto è avvenuto nell'87/'88, però non le so dire con precisione quando è avvenuto”. Richiesto di precisare se ricordasse la circostanza della scalfitura al muro di una abitazione sita nei pressi, il Di Maggio ha sostanzialmente confermato la circostanza.( “al muro diciamo di cinta che c'era per portare dentro la casa, quello sì. Ma se è arrivato fino al cancello, quello non mi ricordo….. ho detto ha sfondato il vetro, la lamiera e è andato a finire nel muro”). Per quanto riguarda, infine, i frequenti accompagnamenti nei pressi dell’esercizio commerciale “Gammicchia”, riferiti dal Brusca, il Di Maggio ha dichiarato: “…in quel periodo '82/'83 io diciamo, gli battevo spesso la strada e andavo là, successivamente mi sembra poche volte, forse ci siamo andati da Galatolo. “ no, tutti questi accompagnamenti che sono successi in quel periodo... il periodo per dire dopo l'81, così. Va bene, fino all'84 perché lui era la…”. L’insanabile contrasto tra le dichiarazioni dei predetti collaboratori impone alla corte di valutarne l’attendibilità con particolare attenzione e rigore, tenendo conto dell’eventuale interesse del Brusca a coinvolgere calunniosamente il Di Maggio nella fase preparatoria e quello di quest’ultimo a respingere ogni addebito. Nel rinviare alle dichiarazioni del Brusca in ordine al ruolo del Di Maggio nella preparazione della bombola e della scatola di ferro, nel trasferimento dell’esplosivo a Palermo ed infine in ordine alla sua presenza in c.da Dammusi in occasione di una prova di funzionamento del telecomando, va subito rilevato che sebbene il Di Maggio abbia confessato molti delitti comuni, è plausibile ritenere che egli abbia voluto tacere un così grave reato in danno di uomini delle istituzioni, così come peraltro solo tardivamente aveva ammesso il proprio coinvolgimento nell’attentato contro la villa dell’ex sindaco di Palermo Elda Pucci.
Il DI Maggio, inoltre, mentre collaborava con l’A.G. si riorganizzava nel territorio ritornando a San Giuseppe Jato e commettendo nuovi omicidi. Va inoltre rilevato che se il Brusca avesse effettivamente accusato ingiustamente il Di Maggio dei gravissimi fatti per cui è processo, molto verosimilmente nella successiva fase della sua evoluzione collaborativa avrebbe finito per palesare il vero, così come si è avuto modo di registrare in relazione ad altri episodi in ordine ai quali il Brusca ha ammesso la propria iniziale compiacente reticenza ovvero le false accuse. Ma a prescindere dalle considerazioni di ordine logico sopra svolte, ciò che appare decisivo è il rilievo che in sede di confronto gli argomenti addotti dal Brusca a sostegno del proprio assunto si sono rivelati ben più convincenti, non solo sul piano della costanza e coerenza logica interna della ricostruzione di alcune fasi del comune vissuto criminale, ma soprattutto risultano suffragate da elementi obiettivi che in relazione ad alcuni fatti specifici conferiscono al racconto del Brusca connotati di ben maggiore attendibilità anche alla stregua di valutazioni di ordine logico. Ed invero, il prospettato coinvolgimento del Brusca nel trasporto e nella fornitura di esplosivo al Milazzo Vincenzo per l’esecuzione dell’attentato al dr. Carlo Palermo, commesso il 2/4/1985, non solo non appare suffragato da elementi di riscontro, ma risulta addirittura smentito da alcune circostanze che rendono estremamente improbabile il protagonismo che il Di Maggio gli ha attribuito. È appena il caso di rilevare, infatti, che la verificata insostenibilità della iniziale datazione del fatto - collocato in epoca immediatamente precedente la strage di Pizzolungo, a causa dello stato di detenzione del Brusca dal 29/7/1984 al 14/3/1985, seguito dalla immediata partenza per il soggiorno obbligato nell’isola di Linosa - ha costretto il Di Maggio a retrodatare la condotta attribuita al Brusca al mese di settembre 1984, sostenendo altresì che questi era consapevole che l’esplosivo trasportato sarebbe stato utilizzato per l’attentato al dr. Palermo. Dalla nota del C.S.M. trasmessa in data 12.1.2000, è emerso che quel magistrato aveva presentato la domanda di trasferimento alla Procura della Repubblica di Trapani soltanto il 2.11.1984, sicchè appare evidente che nel settembre del 1984 l’attentato non avrebbe potuto essere già stato programmato, né ovviamente essere pervenuto addirittura ad una fase preparatoria avanzata, in quanto la determinazione del dr. Palermo doveva ancora essere presa. Altra imprecisione che incrina fortemente l’attendibilità del Di Maggio attiene all’epoca del ferimento del Brusca all’arcata sopracciliare mentre effettuava una prova da sparo con un fucile di grosso calibro. Il Di Maggio ha insistito nel collocare l’episodio in epoca antecedente alla strage del dr. Chinnici, correlandolo ad atti preparatori diretti proprio ad individuare le armi idonee ad eseguire l’attentato in danno del consigliere istruttore, mentre il Brusca ha riferito l’episodio all’anno 1989. Sul punto deve rilevarsi che le indicazioni fornite dal collaboratore di giustizia Siino Angelo, di cui è stato a tal fine disposto un nuovo esame, hanno consentito di verificare positivamente quanto affermato sul punto dal Brusca, atteso che il Siino ha infatti riferito che quelle prove erano finalizzate ad alcune verifiche operative per attentati in pregiudizio dei giudici Falcone e Borsellino. Estremamente significativa appare, inoltre, l’inverosimiglianza dell’assunto del Di Maggio in ordine all’incarico ricevuto dal Brusca di predisporre una bombola di gas, opportunamente modificata e poi non più richiesta dal committente perché non più necessaria, nel tentativo di smentirne l’assunto, atteso che il Brusca, pur ammettendo l’episodio, ha tuttavia fornito plausibili giustificazioni per dimostrare che la richiesta effettivamente rivolta al Di Maggio, in altra epoca, di costruire una bombola rispondente alle caratteristiche tecniche descritte da quest’ultimo era finalizzata alla predisposizione di un “secretaire”, atteso che l’apertura della bombola, recidendo con il flex la parte superiore quasi a farne una sorta di coperchio, la rendeva assolutamente inidonea a qualsiasi utilizzazione per il confezionamento di un ordigno esplosivo per l’impossibilità di collocarvi i detonatori e per la mancanza del necessario “intasamento”.
La “cantata” di Calogero Ganci. La Repubblica il 19 luglio 2020. In relazione alla fase preparatoria ed al pieno coinvolgimento di alcuni componenti del proprio nucleo familiare, facente capo a Ganci Raffaele, un decisivo contributo probatorio è stato fornito proprio dal figlio di quest’ultimo, Calogero, il quale ha consentito di fare piena luce anche sull’apporto operativo fornito da altri coimputati, integrando significativamente le dichiarazioni del Brusca e l’ampia confessione che sarebbe stata resa dal Ferrante Giovan Battista ed Anzelmo Francesco Paolo. Le dichiarazioni di Ganci Calogero non solo hanno consentito di acquisire un contributo di eccezionale rilevanza per la ricostruzione dei fatti, ma hanno altresì permesso di delineare più chiaramente la fase preparatoria dell’attentato, con particolare riferimento all’attività di reperimento e di costante disponibilità dello spazio utilizzato per posteggiare l’auto-bomba, per avervi egli stesso direttamente partecipato, consentendo di chiarire alcune fasi del programma criminoso. Uomo d’onore della famiglia della Noce e figlio di Raffaele, capo dell’omonimo mandamento e fedelissimo alleato di Riina, Ganci Calogero fu ritualmente affiliato a "Cosa Nostra" nel 1980 all’interno di un magazzino sito in Via della Resurrezione, di proprietà di Salvatore Scaglione, apprendendo in quell'occasione che questi era il rappresentante della famiglia mentre “Pippo” Calò, presente, era il capomandamento. [...] Tanto premesso, va rilevato che il contributo probatorio fornito dal Ganci in ordine alla ricostruzione della fase preparatoria della strage appare qualificato da una rilevanza particolarmente significativa. Le dichiarazioni rese e le chiamate di correo effettuate dal Ganci devono ritenersi pienamente attendibili. Ed invero, il suo apporto collaborativo si è contraddistinto per peculiare e rara genuinità, spontaneità, disinteresse, costanza, ricchezza di dettagli, precisione, coerenza logica interna del racconto e incondizionata disponibilità. Come già sopra rilevato, ai fini della valutazione dell'attendibilità' intrinseca, particolare rilevanza deve essere riconosciuta alla ammissione di responsabilità in ordine allo stesso fatto-reato narrato. Sotto tale profilo non può essere sottaciuta la circostanza che il Ganci abbia confessato fatti criminosi tra i più gravi ed efferati dell’ultimo quindicennio di storia criminale del nostro Paese, ai quali egli stesso ha partecipato e per i quali, in taluni casi, non era neppure indagato. Va peraltro rilevato, sotto il profilo del disinteresse, che dagli atti non è dato desumere l'esistenza di qualsivoglia sentimento di astio nei confronti degli accusati, sicchè può fondatamente escludersi che le sue propalazioni accusatorie siano state mosse da propositi di vendetta o, comunque, dalla volontà di danneggiare o calunniare i chiamati. Non può, inoltre, essere sottaciuto che il ruolo rivestito in seno alla famiglia mafiosa di appartenenza e i rapporti intrattenuti con noti personaggi di spicco di "cosa nostra", fra i quali il suo stesso genitore, giustificano la conoscenza da parte del Ganci di una enorme mole di fatti e circostanze specifici concernenti la vita e l'evoluzione dell'organizzazione, segnate dalla commissione di una lunghissima serie di gravissimi fatti-reato, molti dei quali contro l'incolumità individuale. La sua attendibilità, pertanto, risulta suffragata dalla sua lunga militanza operativa in uno dei “gruppi di fuoco” più spietati ed efficienti di “cosa nostra”, sin dal 1980, e, segnatamente, al gruppo che ne ha costituito tradizionalmente la roccaforte ed uno dei gangli vitali. Tutto il racconto, invero, appare qualificato dalla puntigliosa ricostruzione, con dovizia di particolari, di episodi criminosi riconducibili alla spietata strategia criminosa di cosa nostra, ciò che conferisce al racconto stesso anche alla stregua di criteri di razionalità e plausibilità, caratteri di attendibilità, avuto riguardo anche alla accertata compatibilità con le acquisizioni investigative già a disposizione degli organi inquirenti. Alla stregua degli elementi processualmente acquisiti la collaborazione del predetto appare il frutto di una autonoma e spontanea autodeterminazione le cui motivazioni, secondo quanto dallo stesso prospettato sulla base di convincenti argomentazioni meritevoli di apprezzamento sul piano logico, vanno ricondotte ad un processo interiore di revisione critica di precedenti scelte di vita e di recupero progressivo di valori umani e sociali dapprima sacrificati alle ferree leggi vigenti all'interno della organizzazione criminosa di cui faceva parte. Và altresì rilevato che nella vasta gamma degli adeguati riscontri normalmente valorizzati in funzione della valutazione dell'attendibilità intrinseca, una doverosa preferenza deve essere accordata, conformemente ad un costante orientamento giurisprudenziale, al confessato personale coinvolgimento del dichiarante nello stesso fatto- reato narrato, specie in relazione ad episodi criminosi altrimenti destinati all'impunità. In particolare ha reso ampia ammissione, tra gli altri, in ordine gli omicidi di Bontate Stefano ( 23 aprile 1981), di Inzerillo Salvatore ( 11 maggio 1981), del vicequestore Cassarà Antonino e dell'agente Antiocchia Roberto (6 agosto 1985) nonché delle stragi di via Isidoro Carini (nella quale il 3 settembre 1982, venivano uccisi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta), della circonvallazione (in cui il 16 giugno 1982, venivano uccisi il boss catanese Ferlito Alfio, tre Carabinieri e l'autista, durante una traduzione da Enna a Trapani), oltre alla strage di via Pipitone Federico. Quanto, poi, agli specifici fatti per cui è processo, la convergenza di molte chiamate in correità e la sostanziale coincidenza delle propalazioni del Ganci in ordine ad taluni episodi con le dichiarazioni di altri collaboratori coimputati contribuisce a corroborare vieppiù la valenza probatoria del suo apporto probatorio. È appena il caso di rilevare come lo stesso contesto spazio-temporale in cui è maturata la collaborazione del Ganci, ristretto dal giugno 1993, consente fondatamente di escludere ogni ipotesi di collusione o reciproco condizionamento psicologico con altri collaboratori, atteso che il suo proposito collaborativo è maturato in carcere, durante la sottoposizione al rigido regime carcerario previsto dall’art. 41 bis O.P.. Venendo ora agli specifici fatti oggetto del presente processo ed al ruolo avuto dal Ganci, le dichiarazioni rese dal collaboratore possono essere così sintetizzate. L’imputato ha riferito di avere ricevuto l’incarico dal padre e dal Gambino Giuseppe Giacomo di mettersi a disposizione di Antonino Madonia, il quale gli aveva poi indicato l'abitazione del dr. Chinnici sita in via Pipitone Federico, spiegandogli che bisognava tenere uno spazio di posteggio sempre fisso e disponibile davanti la portineria dello stabile ove abitava il magistrato. Aveva appreso, pertanto, anche le modalità dell’attentato che avrebbe dovuto essere eseguito per mezzo di un'auto-bomba. L’incarico gli era stato affidato nella sua macelleria di via Lancia di Brolo, alla presenza dei suoi fratelli Stefano e Domenico e del cugino Anzelmo Paolo, e consisteva nel reperimento di un’autovettura di piccola cilindrata, “come una 126 ovvero una 500 che avrebbe dovuto essere messa a disposizione del Madonia. Messosi alla ricerca di quel tipo di autovettura, ne fu adocchiata una, modello 126, di pertinenza di un’autoscuola, sita in una via che il collaboratore ha indicato, con qualche incertezza, come via Migliaccia, (“…una cosa del genere, comunque è una strada che congiunge via Lancia di Brolo e via Campolo). È appena il caso di rilevare che trattasi della Via Migliaccio che effettivamente incrocia la Via Campolo, come può agevolmente evincersi dal settore “H4” della pianta della città di Palermo acquisita all’udienza del 29/3/2000, in cui esisteva una autoscuola (cfr.Pianta F.M.B. ). L’imputato ha comunque fornito una dettagliata descrizione della zona e dell’itinerario che in base al senso di circolazione del traffico veicolare bisognava seguire per raggiungere la via in cui era ubicata l’autoscuola, perfettamente conforme alla risultanze planimetriche.(cfr. anche settore “C 9” di altra pianta della città – I.A.C. - allegata agli atti). [...]
Il Ganci ha fornito la seguente descrizione: “ Allora, questo garage era un garage... diciamo, grezzo, le mura erano grezze, tutte in calce, a terra incementato, pieno di pilastri ed era una forma tipo triangolare, diciamo, non... non era retto, ecco; era un garage di circa cinquecento metri quadrati, una cosa del genere”. Ha precisato che vi erano custoditi “macchine e borsoni con le armi” ed era stato usato tante volte “sia per le guerre di mafia e sia per commettere omicidi” come nel caso degli omicidi Dalla Chiesa e Cassarà, in occasione dei quali vi avevano custodito e poi prelevato autovetture e motociclette. Quanto alle targhe, ha aggiunto che : “poi si rubavano due targhe di due macchine diverse, si tagliavano a metà, si attaccavano dietro... si attaccavano... o meglio, si spaccavano le targhe a metà, si attaccavano con della colla, quindi, il bostick e cose varie, e le due targhe unite e si formava una targa nuova…; io mi ricordo pure che nella macchina che poi è stata prelevata, la 126, c'era anche le targhette della scritta autoscuola e queste ci furono tolte, e ci furono messe anche le targhe, come io ho detto, con quel procedimento, mi ricordo pure che ci fu tolta anche la ruota di scorta per fare posto alla bombola del gas”. All’ulteriore domanda circa l’autore del furto della 126 il Ganci ha ribadito l’incertezza del ricordo, trattandosi di una attività molto frequente, e non ha escluso che potesse avervi provveduto lui stesso […]. Il Ganci non è stato in grado di precisare quando venne esattamente rubata l’autovettura rispetto all’attentato, ma ricordava di averla notata “in doppia fila, messa quasi... quasi... quasi vicina. All'autoscuola, accanto c'è la pasticceria Oscar", che loro spesso frequentavamo. […] Riprendendo la ricostruzione dell’attività preparatoria, l’imputato non è stato in grado di precisare quando il Madonia Antonino lo condusse presso lo stabile del magistrato, ma ha riferito che quando giunse davanti la portineria, insieme al cugino Paolo Anzelmo, vi trovò già un’autovettura posteggiata che fu spostata per far posto ad un’altra. In quella circostanza il Madonia disse loro di ripetere una o due volte al giorno quell’operazione per evitare che vi sostasse sempre la stessa autovettura, attività che il Ganci ha riferito di aver svolto un paio di volte insieme al cugino Anzelmo, nel senso che uno provvedeva a spostare quella posteggiata e l’altro collocava nel posto lasciato libero una autovettura diversa. L’attività sopra descritta veniva svolta normalmente la mattina ed all’ora di pranzo in concomitanza con gli orari di chiusura della portineria per evitare di essere notati dal portiere e l’incarico era stato affidato alla sua famiglia, nel senso che vi provvedevano senza una particolare alternanza predeterminata lo stesso Ganci Calogero ed il cugino Anzelmo, ovvero quest’ultimo con Ganci Raffaele ed ancora uno dei suoi fratelli, Domenico o Stefano, precisando che in quel periodo lui lavorava nella macelleria di Via Lancia di Brolo con il fratello Stefano, per cui non si potevano mai assentare contemporaneamente. L’autovettura FIAT 126 rubata era di colore “azzurro chiaro, azzurrino chiaro” e sugli sportelli presentava una targhetta con l’indicazione "autoscuola" e la relativa denominazione. Sull’attività svolta all’interno del garage il Ganci ha riferito quanto segue: “ la macchina fu portata nel garage di Madonia ed io ci cambiai le targhe, mi ricordo, Madonia mi ci fece levare anche la ruota di scorta, ha preso la bombola, e in quell'occasione eravamo io, Brusca Giovanni e Madonia Antonino e, se non ricordo male, anche mio cugino Paolo, anche se, diciamo, non me lo ricordo tanto bene se lui c'era in quell'occasione o no, ... e io notai questa bombola che ci mancava... dove va la manopola del gas...” Dopo avere precisato, a specifica domanda, che la bombola era vuota e di essere entrato nel garage un paio di giorni prima della strage, ha descritto la seguente attività svoltasi all’interno di quel locale : GANCI : - E allora, mi ricordo di preciso che il Madonia chiese al Brusca il funzionamento di come avveniva il contatto per fare avvenire l'esplosione, e il Brusca con questo motorino, perchè era un motorino elettrico, in mano ha indicato, dice: "Lo vedi questo chiodo? Questo chiodo girando su questo asse arriva al punto che tocca un'altra cosa, qui avviene la scintilla e avviene l'esplosione", io mi ricordo anche questo particolare, dottoressa. […] Il Ganci ha inoltre precisato che quando quella mattina si recò per i preparativi della strage nello scantinato e il Madonia chiese informazioni sul motorino, non fu fatta all'interno dello scantinato la prova di funzionamento. […] Dopo avere precisato di non avere partecipato alle operazioni di preparazione materiale dell'auto-bomba, ha chiarito che al fine di effettuare una prova di collocazione della bombola nel vano portabagagli della 126 il Madonia gli chiese di togliere la ruota di scorta perchè “dava impaccio alla bombola”, le cui dimensioni erano quelle del tipo da venticinque chili. La bombola, inoltre, era stata modificata nel senso che era priva della manopola che serve per aprire l’erogatore del gas e “c'era solo il buchetto”. Con riferimento al “giardino” dei Galatolo sito nel “fondo Pipitone”, già citato, il Ganci ha fornito le seguenti ulteriori informazioni e precisazioni: GANCI : - il fondo Pipitone era un luogo chiamato fondo Pipitone dove abitavano la famiglia Galatolo, io le parlo: Enzo Galatolo, Giuseppe Galatolo, (Fontana) Stefano, Galatolo Angelino, Raffaele Galatolo, cioè, sono uomini d'onore della famiglia dell'Acqua Santa che abitavano lì(del mandamento di Resuttana); era un luogo di ritrovo nostro; quando io, per dire, capitava che dovevo cercare a Madonia lo andavo a cercare lì, e quello era un luogo dove, come ripeto, noi abbiamo usato per tante azioni criminali, ecco, diciamo, attività criminali e... e noi lo chiamavamo "al giardino", però, il giardino si... (intendeva) dire il fondo Pipitone; (vi) si arriva dal... la via dove c'è il cantiere navale e... si arriva alla manifattura tabacchi, ... si prosegue per altri cinquanta metri, sulla sinistra c'è una traversa, si entra in questa traversa e alla fine... quasi alla fine della strada c'è un altro vicoletto sempre sulla sinistra e si accede qua all'abitazione dei Galatolo. Dove c'è un edificio di circa quattro - cinque piani al pianoterra c'è un'entrata, che è tipo... è un garage e da questo garage poi c'è una porticina che si accede a un giardino interno, quindi, all'interno di... alle spalle di questo edificio, dove c'è.. c'è o c'era, non lo so, uno spiazzo di circa un centinaio di metri .. poi c'è un locale ... dove si poteva anche mangiare, c'era un frigorifero, .. un tavolo, un tavolo lungo, una tettoia pure all'esterno, e poi sul lato destro, proprio sul muro di cinta c'è tipo... tipo un bagno.
L’imputato ha precisato che gli incontri e le riunioni avvenivano proprio all’interno di quel locale, dotato di un tavolo con le sedie, fornendone una dettagliata descrizione. Vincenzo Galatolo era il rappresentante della famiglia dell'Acquasanta ed il fondo Pipitone era “il punto di ritrovo del Madonia” sicchè era il luogo dove normalmente lo si poteva cercare. Quanto allo scantinato in cui fu ricoverata la Fiat 126, il Ganci ha precisato di sconoscere a chi fosse intestato, ma era nella disponibilità tanto del Madonia che del Galatolo che ne possedevano le chiavi. Proseguendo nella esposizione dell’attività preparatoria, il Ganci ha riferito che trascorsi un paio di giorni dalle operazioni effettuate all’interno del garage, il Madonia gli diede appuntamento per le tre o quattro del mattino presso il fondo Pipitone dove erano presenti suo padre Raffaele, il Gambino, e Paolo Anzelmo. […] Con riferimento alla prova del telecomando effettuata nel fondo Pipitone, cui il Ganci aveva in precedenza accennato, l’imputato, a specifica domanda del P.M., ha precisato che la stessa aveva avuto luogo “nell'arco di qualche paio di giorni”; […]. Si erano pertanto spostati dal fondo dei Galatolo formando un corteo di autovetture composto come segue : egli era in macchina con il cugino Paolo Anselmo, Nino Madonia con il Brusca ed Enzo Galatolo con un'altra macchina. Giunti all'altezza della traversina che conduceva al garage, il Galatolo, il Madonia ed il Brusca si immisero in detta strada per raggiungere il garage da cui prelevarono la FIAT 126. Il Madonia si mise alla testa del corteo, seguito dalla 126 condotta dal Brusca ed ancora più indietro dal Ganci Calogero e dall’Anzelmo a bordo di altra autovettura, seguiti dal Ganci Raffaele, fino alla via Pipitone Federico. Con riferimento al proprio padre, in sede di controesame, preciserà che nel momento in cui la 126 uscì dal garage lo stesso era presente ma non lo aveva più visto nel momento in cui erano partiti da quel posto verso la via Pipitone Federico; il padre si era poi incontrato con il Gambino in quella traversina dove lo aveva rivisto insieme a quest’ultimo con la R5.( cfr.f.212,ud.17/3) Ha quindi ribadito che il corteo era composto da tre autovetture disposte nell’ordine sopra precisato.(ff.111-112,ud.cit). Ha inoltre precisato che il Galatolo aveva avuto il compito di aprire e richiudere il garage, mentre il Madonia ed il Brusca erano usciti dal garage, rispettivamente, a bordo della sua autovettura e della FIAT 126. Quanto al Galatolo, ha dichiarato di non averlo più visto e che, per quanto a sua conoscenza, era rientrato al fondo Pipitone, escludendo di averlo rivisto nelle ore successive. Richiesto di precisare l’itinerario seguito per raggiungere la Via Pipitone Federico, il Ganci ha dichiarato di avere percorso la Via Ammiraglio Rizzo e giunti in Via Libertà avevano imboccato la via Petrarca o la Via Pirandello; giunti in via Pipitone Federico avevano svoltato all’altezza della “Pasticceria Svizzera” per poi raggiungere l’abitazione del magistrato. […]
Alla specifica domanda su chi avesse provveduto a liberare il posto poi occupato dalla 126 guidata dal Brusca, il Ganci ha fornito la seguente risposta: GANCI “Guardi, io mi ricordo o il Nino Madonia o il Paolo Anzelmo, uno dei due. A quel punto il P.M. ha contestato all’imputato il diverso tenore delle dichiarazioni rese nel verbale in data 12/8/1996(f.13);
P.M. Lei così dichiara: "Il Nino Madonia diciamo si è fermato prima; capisce? Chiaramente si fermò in qualche traversa nei dintorni, ma io non lo so dove lui si è fermato. Quindi che successe? Che noi avevamo il compito di levare la macchina pulita dalla portineria. Non mi ricordo se fui io o fu Paolo a prelevare la macchina davanti la portineria. Nel momento in cui uscì la macchina, lasciò libero il posto, il Brusca si ci infilò e piazzò la macchina, la 126".
GANCI : - ... Io confermo quello (ho detto) nel verbale, però, ripeto, siccome le direttive cioè era... a noi ce le dava il Nino Madonia e come ripeto, mi ricordo anche il fatto che diciamo si sono fermati in questa traversina prima dell'edificio, dove lì... io (ho avuto modo)... ho visto poi il Giuseppe Giacomo Gambino, anche se l'ho intravisto, non mi sono fermato nè a parlare nè a conversare con lui. [… ]
Quanto all’attività di cancellazione di eventuali impronte digitali, il collaboratore ha precisato che il Brusca aveva pulito sia la “parte interna” che la maniglia esterna dello sportello. Non è stato in grado di precisare, stante il tempo trascorso, se il Brusca si fosse allontanato “con la macchina che portava il Madonia, perchè forse era la sua macchina”, ma era certo che si fosse comunque allontanato a bordo di un’autovettura perché poi non lo aveva più visto. Insieme al cugino aveva poi fatto il giro del fabbricato e passando davanti la pasticceria aveva notato Nino Madonia che scendeva dalla cabina di un “Leoncino” di colore rosso - sul cui cassone vi erano “dei bidoni di calce” e “dei tavoloni questi di edilizia” - e dopo qualche minuto lo aveva visto salire sul cassone con un telecomando in mano. Avendo notato che il Madonia aveva allungato l’antenna e, quindi, avendo intuito che tutto era pronto, si era diretto verso la Piazza San Michele, dove c'è l’omonima chiesa, percorrendo la via Pipitone Federico e passando davanti l’edificio del magistrato. Il camion era posizionato sulla via Pipitone Federico, quasi ad angolo con altra via che incrociava la prima, forse la via Luigi Pirandello, o la via Petrarca, ad una distanza dall’auto-bomba di circa 80-100 metri. A specifica domanda sulla posizione esatta del “Leoncino” rispetto alla pasticceria, tenendo presente la direzione di marcia dalla via Libertà verso la chiesa di San Michele, il collaboratore ha dichiarato che provenendo dalla via Libertà e svoltando sulla via Pipitone Federico la pasticceria era ubicata dopo un paio di isolati e quindi a non più di cento metri, mentre il camion era posteggiato, nella stessa direttrice di marcia prima descritta, sulla sinistra proprio davanti le saracinesche della pasticceria stessa, “quasi in doppia fila perchè è più largo di una macchina”, e quindi, dal lato opposto della strada rispetto alla 126 posta sulla destra. Ha ulteriormente precisato di avere notato sul cassone del camion “uno o due bidoni, questi che si usano dove si ci mette la calce ..da 200 litri” ed un tavolone largo una ventina di centimetri con uno spessore di 5 cm, del tipo di quelli usati per erigere i ponteggi quando bisogna eseguire lavori alle facciate dei palazzi; era lungo 4 metri ed era collocato tutto all’interno del cassone “con la punta che usciva verso la cabina del leoncino”. […] Insieme al cugino si era collocato sulla parte più alta della gradinata della chiesa ed in quel frangente aveva notato sopraggiungere il Gambino a bordo della R5 sulla quale, poco dopo, aveva preso posto l’Anzelmo (f.30, ud.17/3) dal quale si era pertanto separato rimanendo al proprio posto ad una distanza di circa 150 metri dall’auto- bomba. Trascorsa all’incirca mezzora, aveva sentito arrivare le macchine di servizio e dopo dieci minuti si era verificata l’esplosione; si era quindi allontanato con il cugino Paolo recandosi in via Lancia di Brolo, dopo essersi fermato per qualche minuto nella macelleria di Via Lo Iacono dove si trovava il padre Raffaele. Precisava che durante la fase di perlustrazione e fino al momento dell’esplosione non si era allontanato da quella zona tranne che, forse, per consumare un caffè in un bar sito all’angolo tra la via Pipitone Federico e la piazza San Michele. Il Ganci ha inoltre riferito che ancor prima della strage conosceva il coimputato Ferrante G.Battista, precisando che, pur avendo avuto “la sensazione che dietro il camion” vi fosse un’altra persona, tuttavia non ne aveva potuto rilevare l’identità perché lui si trovava in macchina. Aveva conosciuto il Ferrante qualche anno prima di quell’estate perché avevano fatto “la guerra di mafia”, partecipando insieme ad altri - tra i quali Biondo “il corto”, Biondo “il lungo”, Biondino Salvatore, Buffa Salvatore e Buffa Giuseppe – all’omicidio di tale Nicoletti, uomo d’onore di Partanna Mondello, nel novembre del 1982. Con lo stesso Ferrante avevano partecipato ad altri gravissimi fatti tra i quali la strage di Capaci, “quella della Circonvallazione e quella di viale Croce Rossa”(omicidio del dr.Cassarà). L’imputato ha riferito di avere avuto la piena consapevolezza del progetto criminoso e dell’impiego della 126 per l’attentato nel momento in cui aveva notato la bombola di gas vuota ed aveva sentito parlare tra loro il Brusca ed il Madonia. Invitato a precisare i tempi delle fasi dell’operazione, il Ganci ha dichiarato che l’attività di periodica sostituzione delle autovetture “pulite” davanti l’abitazione del magistrato, alla quale lui aveva partecipato due o tre volte, era iniziata qualche settimana prima della strage e che il furto dell’autovettura era già stato consumato; sul punto, tuttavia, non ha escluso di ricordare male[…].
La “famiglia” della Noce. La Repubblica il 20 luglio 2020. Anzelmo Francesco Paolo rivestiva il ruolo di vice rappresentante della “famiglia” della Noce, la quale, prima del 1983, faceva parte del mandamento di Porta Nuova il cui rappresentante era Calò Giuseppe. Nel novembre del 1982, conclusasi con la vittoria della fazione corleonese la fase più acuta della c.d. seconda guerra di mafia, all’interno di Cosa Nostra si era proceduto alla ricostituzione delle “famiglie”, con nuovi assetti nelle cariche di vertice, con particolare riferimento a quelle famiglie i cui capi erano stati in precedenza schierati con la c.d. mafia perdente. Ganci Raffaele, da sempre legato da solidi rapporti di amicizia a Riina Salvatore, di cui ha sempre costituito uno dei più fedeli alleati, era stato eletto rappresentante con votazione unanime degli “uomini d’onore” della “famiglia” della Noce, mentre l’Anzelmo era stato nominato suo vice. Nel gennaio del 1983 la fedeltà del Ganci era stata premiata con l’attribuzione allo stesso della carica di capomandamento, essendo stata la “famiglia” della Noce scorporata dal mandamento di Porta Nuova. La stretta vicinanza dello Anzelmo ad uno degli uomini d’onore che maggiormente aveva contribuito all’attuazione ed affermazione della strategia criminale perseguita dal Riina ne aveva ben presto comportato il coinvolgimento in alcuni dei più efferati delitti che avevano rappresentato l’esempio più evidente della strategia di attacco alle istituzione, fra i quali gli omicidi del Capitano dei Carabinieri D’Aleo e del Commissario Cassarà, nonché la c.d. strage della Circonvallazione di Palermo, in cui vennero uccisi il boss catanese Ferlito Alfio e gli uomini addetti alla sua traduzione dal carcere, e l’omicidio del Generale Dalla Chiesa, Prefetto di Palermo. Oltre a riferire su fatti costituenti reato, con numerose chiamate in reità e correità, l’Anzelmo ha fornito un notevole contributo informativo in ordine alla consistenza del proprio patrimonio mobiliare ed immobiliare, con particolare riferimento ai beni di provenienza illecita, intestati a prestanomi, non solo di sua pertinenza ma anche appartenenti ai componenti della famiglia Ganci (Calogero. Mimmo, Raffaele e Stefano Ganci), consentendo l’adozione di provvedimenti di sequestro.
Ha inoltre riferito notizie probatoriamente rilevanti sul conto di imprenditori vicini a “cosa nostra” ed in genere su fatti di criminalità economica ed imprenditoriale. Nel quadro di una complessiva valutazione della personalità dell’Anzelmo e di alcuni profili della sua attendibilità intrinseca non può peraltro essere sottaciuto che al momento della decisione di collaborare il predetto rivestiva la posizione processuale di imputato nell’ambito del c.d. processo “Agrigento” in cui era stato colpito da provvedimento restrittivo per associazione mafiosa ed una “scomparsa”(c.d. lupara bianca), ma la sua collaborazione era stata decisiva perché lo stesso Balduccio Di Maggio, per le particolari modalità di quel sequestro di persona non avrebbe potuto chiamarlo in correità anche per l’evento letale, sicchè il quadro probatorio era tale da consentirgli apprezzabili margini di difesa. […] Ha inoltre precisato che nell'ambito del processo “Agrigento”- definito nei suoi confronti con sentenza di condanna frattanto divenuta irrevocabile perché da lui non appellata - prima di rendere l'esame dibattimentale non aveva avuto modo di conferire con il proprio difensore e che dall’inizio della collaborazione fino al momento della revoca della misura cautelare era trascorso più di un anno, nel corso del quale(dal 12 luglio '96 al 14 agosto del 1997) era rimasto “chiuso in una stanza da solo”, priva di finestre, senza poter vedere “nemmeno il cielo” e senza alcun contatto umano tranne che con gli agenti di custodia perchè era ospitato in una struttura destinata esclusivamente a lui. Quanto poi agli altri gravi episodi delittuosi confessati, ed in particolare ai fatti omicidiari (cap. D’Aleo, dr. Cassarà, strage della circonvallazione) l’Anzelmo non era stato chiamato in causa da altri collaboratori. Ha inoltre dichiarato che mentre era a conoscenza della collaborazione del Ganci, per esserne stato informato preventivamente dallo stesso, nulla era in grado di riferire in ordine ai tempi della collaborazione del Ferrante né in particolare se avesse iniziato a collaborare prima di lui. La scelta collaborativa dell’Anzelmo, maturata, come sopra ricordato, poco dopo quella del Ganci, è stata contraddistinta da un rilevante contributo probatorio fornito proprio in ordine ai delitti sopra citati. Sebbene non possa disconoscersi che la decisione del cugino dovette esercitare una indubbia influenza sulla scelta dell’Anzelmo, ciò non ne incrina affatto l’autonomia del patrimonio conoscitivo e la rilevanza del contributo probatorio fornito nel presente processo. Ed invero, mentre da una parte la sua collaborazione appare contraddistinta da una innegabile disponibilità incondizionata a confessare i crimini più efferati senza atteggiamenti riduttivi in ordine alla propria responsabilità, dall’altra, il breve incontro con il Ganci, sopra ricordato, prima dell’inizio della loro collaborazione, non può certamente averne compromesso l’autonomia, attesa l’ampiezza della collaborazione su un rilevante numero di fatti criminosi ed in particolare la circostanza che l’Anzelmo nulla ha riferito in ordine alla preparazione delle stragi del 1992: ciò che depone univocamente per l’assenza di pedissequa ripetitività rispetto al racconto di altri collaboratori. Anche il quadro ricostruttivo della fase esecutiva della strage offerto dall’Anzelmo appare qualificato, ad avviso della corte, da indubbi connotati di originalità e specificità che depongono per la provenienza delle informazioni fornite da un patrimonio di conoscenze proprio del collaboratore, non essendo ravvisabile, anche alla luce della ricostruzione fornita dagli altri coimputati, un mero recepimento manipolatorio del racconto degli altri protagonisti della stessa fase. La mancata partecipazione dell’Anzelmo alle fasi organizzativa ed esecutiva delle stragi di Capaci e di via D’Amelio non appare in contrasto né con l’importanza del suo ruolo all’interno del mandamento della Noce né con la sua vicinanza a Ganci Raffaele, ove si consideri che il grave effetto disarticolante prodotto all’interno della rigida e monolitica struttura dell’organizzazione dal fenomeno della “collaborazione” indusse i vertici della stessa ed in particolare il Riina ad introdurre la regola di una sempre più ferrea “compartimentazione” dei ruoli di ciascuno dei partecipanti a un disegno criminoso. Anzelmo ha dichiarato di essere stato “combinato” nel marzo-aprile del 1980 nella famiglia della Noce in una proprietà di Salvatore Scaglione, che all'epoca era il rappresentante, insieme ad altri sette: Mimmo Ganci, Pippo Spina, Franco Spina, Totò Severino, Enzo (Mistreri) e Aurelio Sciarabba. A quell’epoca la famiglia della Noce era aggregata al mandamento di Porta Nuova, con a capo Pippo Calò che era anche il rappresentante dell’omonima famiglia. L’Anzelmo apparteneva ad un famiglia di sangue mafiosa in quanto i fratelli del padre, Rosario e Vincenzo, erano tutti uomini d’onore e vi erano anche rapporti di parentela con la famiglia Ganci in quanto lo zio Anzelmo Rosario (capodecina), fratello del padre, Giuseppe, aveva sposato Spina Caterina, sorella di Spina Giuseppina, moglie di Ganci Raffaele. […] Dopo avere illustrato i periodi di detenzione ha riferito di avere ucciso nel 1984, per ordine di Ganci Raffaele, lo zio, Anzelmo Salvatore, fratello del padre, perché aveva iniziato a collaborare, reato per il quale venne tratto in arresto il 7 marzo del 1989 in esecuzione di un mandato di cattura del 1986 dopo un lungo periodo di latitanza. L’omicidio era stato consumato a casa della vittima dove erano presenti alcuni familiari, uno dei quali dapprima aveva fornito elementi a suo carico che aveva poi ritrattato. Dopo diciotto mesi di custodia cautelare, infatti, venne prosciolto per non aver commesso il fatto e scarcerato il 7 settembre del 1990; rientrato a Palermo venne arrestato per l’ultima volta il 10 giugno del 1993 insieme a Ganci Raffaele e Ganci Calogero nell’ambito della "Operazione Corleone", il cui processo venne poi chiamato "Agrigento" dal nome del capolista. Nel 1995, durante la detenzione, a seguito della riapertura delle indagini per l’omicidio dello zio, venne raggiunto da un nuovo provvedimento restrittivo. Richiesto di chiarire i motivi della scelta collaborativa, l’Anzelmo ha dichiarato quanto segue:
P.M. - Lei quando ha iniziato a collaborare?
ANZELMO - Io a luglio '96.
P.M. - Ci sono stati dei motivi particolari che l'hanno indotta a collaborare?
ANZELMO - Sì, ci sono stati, diciamo, dei motivi particolari, perchè... ho maturato questa decisione, principalmente diciamo per... perchè io venivo da questa famiglia mafiosa e quindi da piccolo avevo vissuto quest'aria, cioè non è che potevo diventare ingegnere. E questo dovevo diventare perchè... fin da bambini i miei zii, anche mio padre, per dire, che non era uomo d'onore però diciamo c'era questa avversità con le Forze dell'Ordine, e quindi diciamo che ho vissuto diciamo in questo clima ed era una cosa naturale che io sarei finito per come sono finito. E quindi diciamo che poi cominciai a pensare, diciamo, dopo, quando mi hanno arrestato, cominciai a pensare a mio figlio Pippo, che porta il nome di mio padre, e... io a mio figlio lo avevo fatto crescere mentre che c'ero io in libertà, diciamo, in una gabbia dorata, fuori di tutto, senza... invece ora, venendo a mancare io, pensavo che mio figlio sarebbe stato avvicinato dai parenti e magari diciamo portato, diciamo, in una via diversa di quella che io ci stavo insegnando, visto che avevo fatto questa esperienza, che c'ero entrato io in questa storia. E poi diciamo perchè non... in poche parole, non mi ci riconoscevo più in questa situazione, ma la cosa principale è stata questa del mio bambino che non volevo che...Quando sono stato arrestato io nel '93 mio figlio aveva 11 anni, quando nel '96 già ne aveva quasi 15. Quindi diciamo che l'età era quella già da cominciare a tenerlo d'occhio e quindi io, se c'ero io fuori, sicuramente magari potevo fare qualche cosa ma essendo in carcere io che potevo fare? E quindi questa situazione non mi faceva dormire la notte, avevo gli incubi; poi - le ripeto - non mi ci riconoscevo più. Poi ho visto pure al processo "Agrigento" la videoconferenza di Santino Di Matteo che si scagliava contro Giovanni Brusca per il discorso di suo figlio e quindi diciamo... ho detto, và...
P.M. : - Perchè lei non si riconosceva più in "Cosa Nostra"?
ANZELMO : - Perchè... non... non mi ci riconoscevo più perchè vedevo diciamo che non c'era più... più nessuna cosa, và, anche questo... questo fatto del figlio di Santino Di Matteo, del bambino; cioè io, io per dire, quando mio zio collaborò e si decise.…... che doveva morire mio zio Salvatore, io se volevo mi potevo pure rifiutare, per dire, và, "Zù Raffaele, mandiamoci a un altro" e invece io no, ci sono andato io propria perchè sapevo che a casa di mio zio c'erano i bambini e se ci andava un altro non è che sapevo quello che faceva; io, invece, a rischio di andarmi a prendere l'ergastolo, ci sono salito io in casa di mio zio, davanti a mia zia, davanti ai miei cugini e ai miei cuginetti e ci ho sparato io a suo padre proprio per... per evitare diciamo di... di toccare i bambini; i bambini che colpa avevano? Che c'entravano i bambini? Non è che a me Ganci Raffaele mi impose che ci dovevo andare io.
P.M. : - Senta, la sua collaborazione è precedente o successiva a quella di Calogero Ganci?
ANZELMO : - No, successiva, anche perchè io con Calogero Ganci, proprio in virtù dei discorsi che noi avevamo in carcere, perchè mentre che eravamo detenuti, eravamo messi pure nella stessa cella, per certi periodi diciamo, qua, nel processo "Agrigento", per i discorsi che avevamo avuto e lui lo vedeva che io ero stanco, lui mi mandò a chiamare per dire: "Vedi che io sto collaborando", però io in quel momento, preso alla sprovvista, ci dissi: "No, lasciami stare a me", anche perchè prima dovevo avere pure la certezza se mia moglie e i miei figli mi seguivano, sennò se io... mia moglie e i miei figli non... non mi seguivano, io non... non li mettevo diciamo in difficoltà a mia moglie e i miei figli.” [...]
Ma in realtà il lento processo interiore di revisione critica di precedenti scelte di vita, con particolare riferimento ai fatti omicidiari, aveva già cominciato a manifestare i primi segnali di disagio durante un periodo di detenzione nel 1989. Ed infatti, dopo avere riferito che l’ultimo omicidio commesso per conto di “cosa nostra” risaliva al 1987- duplice omicidio Caccamo – Gallarate – l’Anzelmo ha dichiarato quanto segue:
ANZELMO : - No, poi a me, diciamo, nel... il 7 marzo dell'89 mi hanno arrestato, perchè io, come ho detto, ero latitante e io sono stato detenuto per diciotto mesi, perchè sono stato scarcerato il 7 settembre del 1990, e mentre che ero detenuto avevo detto in me e me che non dovevo uccidere più nessuno; basta, ero... non dovevo uccidere più. Infatti poi, quando io sono stato scarcerato, nel '91, Ganci Raffaele mi mandò un appuntamento da... dal cugino di Totò Cancemi, qua, da Carmelino Cancemi, che c'ha un deposito di... che lui fa lavori di sbancamento qua, vicino al "Baby Luna", una mattina presto, e là, diciamo, io trovai a Ganci Raffaele, a Totò Cancemi, Ciccio La Marca, Giovanni Brusca, Santino Madonia, Giuseppe Graviano, Pietro Salerno e qualche altro, e dovevamo andare a commettere un omicidio ai danni di un alcamese, che in quel periodo c'era questa situazione di Alcamo, che si doveva andare a visitare, perchè forse era rimasto ferito in un precedente attentato; si doveva andare a visitare al civico e ci dovevo sparare io e Ciccio La Marca, e gli altri, diciamo, servivano come copertura. Fortunatamente quel giorno non arrivò questo e quindi si rinviò l'appuntamento per... fra quindici giorni. Io, forte di quella promessa che avevo fatto e sapendo che fra quindici giorni mi sarei dovuto presentare là, sono partito, me ne sono andato a Merano, nel Veneto, e mi sono andato a ricoverare che c'ho una lussazione nella spalla, dove per un... perchè avevo fatto questa promessa che non dovevo uccidere più a nessuno. E quindi, diciamo, non... in quell'appuntamento poi io ero ricoverato, non so pure nemmeno come finì.
P.M. : - Ma com'era maturata questa sua intenzione durante il periodo di detenzione di non partecipare più ad omicidi?
ANZELMO : - E perchè non avevo... non ne volevo... cercavo il modo possibile di... di tirarmi fuori, anche se non è che era facile tirarsi fuori, però ne avevo fatti tanti, tanti ne avevo fatto, tantissimi.
P.M.: - Lei questa sua, diciamo, decisione o questa sua volontà la comunicò in qualche modo a qualcuno?
ANZELMO : - No, assolutamente, assolutamente.
P.M. : - Ma a lei è stato chiesto di attivarsi in qualche modo per le stragi del '92? Mi riferisco alla strage in danno del dottor Falcone e a quella in danno del dottor Borsellino.
ANZELMO : - No, no, io non... non c'entro niente, e meno male.
P.M. : - Ma lei in quel periodo era a conoscenza di eventuali attività di altri appartenenti alla famiglia della Noce o era stato tenuto, diciamo, al di fuori da questa situazione?
ANZELMO : - No, io diciamo che poi, dal '90 in poi, quando sono stato scarcerato, mi sono occupato più che altro degli... degli affari della famiglia, che curavo gli interessi con i costruttori dove noi eravamo interessati, e quindi diciamo che per questa situazione Ganci Raffaele non mi chiamò, anche se per la strage di Capaci lui sapeva che io avevo un lavoro... stavo facendo un albergo a Terrasini e lui mi disse di... di non prendere l'autostrada. [...]
Sui tempi della collaborazione rispetto a quella del cugino Ganci Calogero e del Ferrante, che lo precedettero sia pur di poco tempo, e sulla eventuale conoscenza dello loro dichiarazioni, l’Anzelmo ha dichiarato:
ANZELMO : - “No, ma io non lo sapevo che collaborava Ferrante Giovan Battista. Non lo so quando quando cominciò a collaborare Ferrante Giovan Battista”.
Ha decisamente escluso di avere avuto la possibilità di conoscere, anche sulla base di resoconti giornalistici, il contenuto delle dichiarazioni rese dai predetti sui fatti più gravi: ANZELMO: - No, ma forse non mi sono spiegato. Io di Giovanni Ferrante, l'ho saputo dopo che collaboravo io che lui collaborava. Io non è che sapevo che lui collaborava, Giovanni Ferrante. Anche, anche perchè non so quando cominciò lui a collaborare Ferrante. Io, io ho collaborato a luglio, lui non lo so quando iniziò a collaborare”.
Quanto al Ganci ed alla conoscenza delle sue dichiarazioni sulla strage per cui è processo, ha precisato : ANZELMO: - No, come facevo...? Cioè, non è che avevo ricevuto niente io. Non avevo... non è che avevo io... che avevo ricevuto mandato di cattura, io niente avevo ricevuto”.
Sul ruolo rivestito in seno al mandamento il collaboratore ha dichiarato di essere stato nominato sottocapo della famiglia della Noce nel dicembre 1982, precisando che nel 1987, dopo l’arresto di Ganci Raffaele, aveva retto il mandamento per circa un anno insieme a Ganci Domenico, senza tuttavia assumere formalmente alcuna carica. Ha spiegato che quella di sottocapo non è una carica elettiva, perchè venivano eletti solo il rappresentante e il consigliere, mentre il sottocapo era scelto dal rappresentante quale persona di sua massima fiducia. Nel caso di specie, poiché la famiglia Ganci esprimeva già il capomandamento, Ganci Raffaele per una precisa regola interna non poteva nominare uno dei suoi figli e, pertanto, aveva nominato l’Anzelmo che aveva sempre trattato quasi come un figlio. Appare opportuno, a questo punto, al fine di introdurre il tema della fase esecutiva e del ruolo svolto dall’imputato in esame, accennare brevemente, anticipando quanto sarà più diffusamente esposto nella parte dedicata alla fase deliberativa, alle modalità delle riunioni del massimo organo deliberativo di cosa nostra, la commissione provinciale.
L'ordine partito dalla macelleria dei Ganci. La Repubblica il 21 luglio 2020. L’Anzelmo ha dichiarato che dette riunioni venivano tenute in vari luoghi, ed in particolare “ a Dammusi, a San Giuseppe Jato, a borgo Molara da Raffaele Ganci, a San Lorenzo”. Ha aggiunto che nei primi periodi le riunioni si facevano in forma plenaria; a seguito delle dichiarazioni di Buscetta e dei mandati di cattura che seguirono si era evitato, per ragioni di sicurezza, di concentrare troppe persone in uno stesso luogo e si era preferito procedere a gruppi in giorni diversi con modalità tali che comunque era assicurato il pieno coinvolgimento di tutti i componenti. Nel periodo della strage che ci occupa, vale a dire nel 1983, (“quando ci fu il fatto del dottore Chinnici”) le riunioni avvenivano in forma plenaria. Alla domanda se avesse avuto modo di constatare personalmente la partecipazione di tutti i capimandamento alle riunioni, l’Anzelmo ha fornito la seguente risposta:
ANZELMO : - Ma per quelle che io mi ricordo sì.