Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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ANNO 2020

 

LA MAFIOSITA’

 

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

      

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Metodo “Falcone”.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Tommaso Buscetta spiega “Cosa Nostra”.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Omicidio Mattarella.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: i depistaggi sulla strage di via D’Amelio.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Mafia-Appalti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il grande mistero del covo.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il Concorso Esterno. Reato fantastico.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Le Stragi del '93.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La Strage di Alcamo Marina.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Mafia-Finanziamenti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il misterioso “caso Antoci”. (Segue dal 2019)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Rosario Livatino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Bruno Caccia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Paolo Adinolfi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte di Don Pino Puglisi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte di Diabolik.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Nino Agostino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro Rostagno.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro De Mauro.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Peppino Impastato.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Mafia stracciona.

I killers della mafia.

La Mafia romana: L’Autoctona.

La Mafia romana: I Casamonica.

La Mafia romana: Gli Spada.

La Mafia romana: I Fasciani.

La Mafia romana: I Fasciani.

La Mafia Nomade.

I Basilischi. La Mafia Lucana.

La Quarta Mafia. La Mafia di Foggia.

La 'Ndrangheta tra politica e logge massoniche.

La Mafia Veneta.

La Mafia Italo-Padana-Tedesca.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Pachistana.

La Mafia jihadista. Gli affari dei califfati.

La Mafia Italo-Canadese.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Doppio Stato.

In cerca di “Iddu”.

Chinnici e la nascita del Maxi processo.

Le Ricorrenze. Liturgia ed Ipocrisia.

Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.

Guida a un monstrum giuridico: il 41-bis.

Le loro prigioni: Concorso Esterno in Associazione Mafiosa.

La Trattativa degli Onesti.

Quelli che non si pentono: I sepolti vivi come Raffaele Cutolo.

Non è Tutto Bianco o Tutto Nero.

L'antimafia degli ipocriti sinistri.

Non è Mafia…

Invece…è Mafia.

Quelle vittime lasciate sole…

Cassazione, aggravante mafiosa può essere contestata solo se c’è dolo.

Il Business del Proibizionismo.

Il Business “sinistro” dei beni sequestrati preventivamente e dei beni confiscati dopo la condanna.

La Mafia delle interdittive prefettizie.

Chiusi per (Anti) Mafia…

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Gogna Parentale e Territoriale.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giudice Onorari “sfruttati”?

Il Caporalato dei Praticanti.

Noi specializzandi sfruttati e malpagati.

Se lo schiavo sei tu.

Il lavoro sporco delle pulizie.

Il Caporalato agricolo Padano.

Schiavi nei cantieri navali.

Riders: Cornuti e Mazziati.

Caporalato nei centri commerciali.

Il Caporalato dei Call Center.

Il Caporalato degli animatori turistici.

Il Caporalato dei Locali Pubblici.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Favoritismi Curatelari.

Non è Usura…

Astopoli.

La Mangiatoia degli incarichi professionali nelle procedure fallimentari.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Io sono il Potere Dio tuo.

La Lobby del Tabacco.

Le Lobbies di Gas e Luce.

La Lobby dei Sindacati.

La Lobby del Volontariato.

La Lobby degli Studi Legali.

La Lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica.

Gli Affari dei Lobbisti.

I Notai sotto inchiesta.

Se comandano i Tassisti.

La Lobby dei Gondolieri.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Massomafia.

 

INDICE TERZA PARTE

 

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Figli di Trojan.

Il Concorso truccato per i magistrati.

Togopoli. La cupola dei Magistrati.

E’ scoppiata Magistratopoli.

Magistrati alla sbarra.

Giornalistopoli.

Voto di Scambio mafioso=Clientelismo-Familismo.

L’Onorevole Mafia.

La Sinistra è una Cupola.

Tutte tonache di rispetto.

La Mafia dei Whistleblowers.

La Mafia del Riciclaggio Bancario Internazionale.

La Mafia del Gasolio.

La Cupola delle Occupazioni delle Case.

La Mafia dello Sport.

La Mafia dei posteggiatori abusivi.

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

 

PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Metodo “Falcone”.

L’Onu vota la «risoluzione Falcone». Il metodo del giudice ispirerà la lotta alle mafie del mondo. Alessio Ribaudo su Il Corriere della Sera il 18/10/2020. A Vienna, nel corso della Conferenza delle Parti, approvato all’unanimità il documento italiano che pone l’eredità lasciata dal magistrato a fondamento della lotta alle mafie. È il primo atto di questo genere che valorizza il contributo di una singola personalità. Un ponte virtuale che collega Palermo a Vienna ma attraversa 190 Paesi di tutto il mondo. Non è una infrastruttura visionaria ma è ciò che oggi in Austria è stato costruito per la lotta alle mafie di tutto il mondo: nel nome di Giovanni Falcone e delle sue straordinarie intuizioni investigative. È stata infatti approvata all’unanimità la risoluzione italiana presentata nella capitale austriaca durante la quattro giorni della Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu contro la criminalità transnazionale. È il sogno che si avvera del giudice siciliano che, già negli anni Ottanta, aveva compreso il rischio che la criminalità organizzata diventasse un problema globale ma non aveva gli strumenti legislativi perché non c’era uno straccio di norma che prevedesse l’impegno corale degli Stati. La risoluzione è nota come la «Convenzione di Palermo», ratificata nel 2000, che fu il primo strumento legislativo universale contro la criminalità organizzata transnazionale. È stato l’unico strumento legalmente vincolante a livello mondiale contro la criminalità organizzata transnazionale. Proprio Falcone aveva intuito — grazie anche al lavoro del vicequestore Boris Giuliano poi ucciso alle spalle dal boss Leoluca Bagarella — che più che le persone bisognava seguire il fiume di denaro «sporco» che generavano e il suo «follow the money» è diventata la pietra miliare di tutte le indagini in tema di malaffare nel mondo. Un «metodo» che neanche tutto il tritolo utilizzato, il 23 maggio del 1992, per ucciderlo a Capaci hanno fermato. Un attentato, voluto dalla mafia stragista del clan dei corleonesi, nel quale morirono anche la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Nel nome di Falcone. Del resto che il giudice Giovanni Falcone fosse un’icona della lotta alle mafie non solo in Italia ma in tutto il mondo lo testimoniano due fatti: poco dopo l’attentato di Capaci del 1992 il Senato americano approvò una risoluzione che definiva la morte di Falcone «una profonda perdita per l’Italia, per gli Stati Uniti, per il mondo». Del resto il magistrato siciliano si era messo in luce con inchieste che avevano toccato nel vivo gli Usa come il processo «Rosario Spatola+119» oppure collaborando con la grande inchiesta denominata «Pizza Connection» che accertò l’immenso traffico di cocaina tra gli Stati Uniti e l’Italia e i milioni di dollari depositati. Il processo che riuscì a inchiodare a 45 anni di carcere il boss Gaetano Badalamenti fu possibile proprio grazie al «metodo Falcone» sulle inchieste economiche. C’è di più in Virginia alla Quantico Fbi Academy — la più famosa scuola al mondo per la formazione di investigatori d’eccellenza — due anni dopo fu posto nel Giardino della Memoria, adiacente all’ingresso, un busto in bronzo che raffigura il magistrato palermitano. La colonna su cui sorge è spezzata, a raccontare un lavoro interrotto, e, a terra, vi è appoggiato uno scudo che sul quale è scolpita una bilancia, simbolo della Giustizia. Chissà se oggi quel lavoro invece sarà il «motore» per alzare il velo delle mafie specialmente in Paesi che sono ancora indietro nel contrasto. Fbi che, nel 2013, ha voluto ribadire l’importanza del giudice dedicandogli la «Giovanni Falcone Gallery» nel quartier generale di Washington in cui si sottolinea come la sua «inesorabile determinazione abbia ispirato milioni di persone con la speranza che la giustizia e il rispetto della legge possano prevalere un giorno contro la criminalità e il terrorismo». Tornando a Vienna, la risoluzione è stata approvata alla fine di una quattro giorni a cui hanno partecipato, in gran parte da remoto, rappresentanti diplomatici e Ong di 190 Stati che hanno discusso dello stato della lotta alle mafie nel mondo e di come migliorare e rendere più efficace la Convenzione di Palermo. La delegazione italiana era costituita dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dall’ambasciatore italiano Alessandro Cortese, dal consigliere giuridico Antonio Balsamo, e dal primo segretario Luigi Ripamonti. Per l’Italia sono intervenuti anche il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho, il procuratore generale di Roma Giovanni Salvi, il capo della Polizia Franco Gabrielli e il viceministro agli Esteri Marina Sereni. Al dibattito hanno partecipato anche Ong italiane, come la Fondazione Giovanni Falcone, il Centro Pio La Torre e Libera che hanno raccontato le loro esperienze in prima linea sul territorio. Nella risoluzione si rende un «omaggio speciale a tutti coloro, come il giudice Giovanni Falcone, il cui lavoro e sacrificio hanno aperto la strada all’adozione della Convenzione», si sottolinea «che la loro eredità sopravvive attraverso il nostro impegno globale per la prevenzione e la lotta alla criminalità organizzata» e si esprime «seria preoccupazione per la penetrazione di gruppi criminali organizzati nell’economia lecita e, a questo proposito, per i crescenti rischi legati alle implicazioni socioeconomiche della pandemia del coronavirus (COVID-19)».

L’unanimità e le novità. Alla fine la risoluzione è stata approvata all’unanimità e contiene proposte che hanno messo — nero su bianco — l’importanza dell’eredità lasciata da Giovanni Falcone, pioniere della cooperazione giudiziaria nel contrasto ai clan, nella lotta alle mafie nel mondo. Un vero e proprio evento storico perché è la prima volta che in una risoluzione viene valorizzato il contributo di una singola personalità. Tra i «suggerimenti» indicati nel documento italiano agli Stati: l’adozione delle misure patrimoniali — sequestri e confische — che dal 1982 in Italia si rivelano uno strumento utilissimo nella lotta ai clan, l’uso sociale dei beni tolti alle mafie, l’invito alla costituzione di corpi investigativi comuni che facciano uso delle più moderne tecnologie (importanti soprattutto nelle inchieste sui traffici di migranti), l’estensione della Convenzione di Palermo a nuove forme di criminalità come il cybercrime e i reati ambientali ancora non disciplinati da normative universali e il potenziamento della collaborazione tra gli Stati, le banche e gli internet provider per il contrasto alla criminalità transnazionale. La Convenzione inoltre, per la prima volta, dà una definizione di criminalità organizzata applicabile alle mafie di tutto il mondo, parla di assistenza giudiziaria reciproca e promuove la cooperazione tra le forze dell’ordine, prevede una serie di impegni per gli Stati firmatari.

«Seguire il denaro». Nel documento, inoltre, si invitano gli Stati a condurre indagini economiche, a «seguire il denaro» con strumenti di indagine finanziaria e a identificare e interrompere qualsiasi legame tra criminalità organizzata transnazionale, corruzione, riciclaggio e finanziamento del terrorismo e a utilizzare la Convenzione di Palermo come base giuridica per un’efficace cooperazione internazionale finalizzata al sequestro, alla confisca dei guadagni illeciti indipendentemente dalla condanna penale. Il celeberrimo «Follow the money» nacque anche grazie alle straordinarie qualità investigative del capo della mobile di Palermo, Boris Giuliano. Nel 1978, trovò diversi assegni nelle tasche di Giuseppe Di Cristina: erano tutti del medesimo importo ed erano intestati a dei prestanome. Poi si scoprì che lo erano di diverse cosche mafiose. Quindi, l’anno dopo, inizia a indagare su un altro fatto «singolare»: nello scalo palermitano di Punta Raisi viene dimenticata sul nastro dei bagagli una valigia con oltre mezzo milione di dollari. Qualcosa inizia a non quadrare e iniziò a indagare sulla famiglia dei corleonesi che sino ad allora erano considerati «viddani», cioè gente di campagna. Nulla a che vedere con i modi più «felpati» di Stefano Bontade, «l principe di Villagrazia». Il messinese Giuliano era uno «sbirro da strada» fiutava prima di chiunque i criminali e i loro sporchi affari ed era anche «moderno» perché capiva che bisognava specializzarsi. Non a caso aveva frequentato un master dell’Fbi. Per Riina stava diventando un vero ostacolo e, nel 1979, gli fece sparare alle spalle mentre pagava un caffè al bar. Per freddarlo diede l’incarico direttamente a suo il cognato Leoluca Bagarella, un killer spietato. Palermo ben presto divenne un campo da battaglia per i corleonesi che fecero piazza pulita non solo della «vecchia mafia» del capoluogo siciliano ma di chiunque potesse intralciare la loro ascesa. Poco importava se fossero poliziotti, carabinieri, prefetti, magistrati o giornalisti come Mario Francese. Falcone capisce che gli assegni o la valigia su cui indagò Guliano non erano casi isolati ma che proprio dai soldi bisognava partire per inchiodarli. Nel 1980, istruì il procedimento penale contro Rosario Spatola, sino ad allora un danaroso costruttore con oltre 400 dipendenti, accusandolo di essere al centro di un grosso traffico di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove cinque «famiglie» avevano il monopolio di armi e droga. Nacque in quegli anni la grande collaborazione con la magistratura statunitense, la Dea e l’Fbi e, ora dopo ora, Falcone capì la potenza economica della mafia che aveva superato i confini della Sicilia e dell’Italia. Capì che indagare solo a Palermo era molto limitante perché bisognava colpire i capitali riciclati, ripuliti e detenuti nei «forzieri» di banche di tutto il mondo. Il giudice siciliano spesso diceva che se il traffico di droga non lascia quasi tracce, il denaro ottenuto non può non lasciare dietro di sé delle tracce fra chi fornisce gli stupefacenti e chi li acquista. Nacque così il «metodo Falcone» con accurate e mirate indagini bancarie che partono dalla Sicilia e si triangolano con Stati Uniti, Canada e istituti di credito che, a quei tempi, disponevano del segreto bancario considerato inviolabile.

Il «pool» e l’eredità. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano certamente le punte di diamante del «pool antimafia» fortemente voluto da un altro grande magistrato siciliano: Nino Caponnetto. Un’intuizione — la sua — tanto semplice quanto geniale: un nucleo di magistrati che non si occupavano più di singoli procedimenti ma che condividevano tutte le informazioni perché se la mafia si muoveva sul territorio con un progetto unitario e verticistico, la risposta dello Stato non poteva essere parcellizzata. Da questa scambio incessante di informazioni nacque un capolavoro giudiziario assoluto come il maxiprocesso di Palermo che portò alla condanna di 346 persone. «L’idea di cooperazione nasce proprio da quel “pool” — spiega Giuseppe Antoci, presidente onorario della Fondazione Caponnetto ed ex presidente del Parco dei Nebrodi, scampato ad un attentato mafioso nel maggio 2016 — se funzionava a Palermo, poteva essere replicato su vasta scala mondiale. Era proprio il sogno di Giovanni Falcone quello di investire sulla cooperazione internazionale per la lotta alle mafie. Era anzi uno dei punti essenziali, secondo il giudice, che avrebbe consentito di attuare tutti gli accorgimenti necessari per un’operazione a più ampio raggio contro le mafie nel mondo. Adesso avanti con la cooperazione internazionale sulla lotta alle mafie che può rappresentare quel salto di qualità per consentirci di affrontare il tema come problema globale, così come di fatto sono ormai diventate le mafie».

Le reazioni. «Giovanni Falcone credeva fermamente nella necessità di creare un fronte comune, una mobilitazione mondiale contro le mafie», spiega la sorella Maria che presiede la Fondazione intitolata al magistrato. «Al centro della sua visione c’è sempre stata la necessità di investire sulla cooperazione internazionale nel contrasto al crimine organizzato — aggiunge — . Nella risoluzione approvata a Vienna, frutto del prezioso lavoro del nostro Paese, sono recepite molte delle sue idee: dalla necessità di colpire i patrimoni illegali e di seguire i flussi di denaro, al potenziamento della cooperazione giudiziaria internazionale, alla costituzione di pool investigativi comuni a più Stati che potrebbero essere decisivi nella lotta alle organizzazioni transnazionali di trafficanti di uomini. Quello raggiunto alla Conferenza delle Parti è un traguardo di cui essere orgogliosi». Grande soddisfazione l’ha espressa anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: «Quale capo della delegazione italiana l’approvazione della risoluzione non può che essere per me motivo di grande orgoglio». «La lungimirante visione di Falcone — ha concluso il ministro — ha gettato le basi per questo straordinario risultato: oggi 190 Paesi del mondo hanno unito le forze e combattono insieme, in modo sempre più efficace, le mafie». Perché per combattere le mafie — per dirla come un altro grande magistrato come Gian Carlo Caselli — non basta arrestare la struttura «militare» ma anche le cosiddette «relazioni esterne»: i pezzi collusi di politica, economia e Istituzioni. Combattere davvero la mafia significa intervenire sull’uno e sull’altro versante anche perché le «relazioni esterne» sono la vera spina dorsale e, contemporaneamente, la corazza protettiva dell’organizzazione criminale.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Tommaso Buscetta spiega “Cosa Nostra”.

Tommaso Buscetta: “Cosa Nostra ha costituzione piramidale. La famiglia mafiosa prendeva il nome dal paese di origine. Tre famiglie contigue formavano il mandamento. I mandamenti formavano la Commissione provinciale o Cupola, i cui rappresentanti formavano la Commissione interprovinciale o Cupola. Di fatto i mafiosi non votavano la DC in quanto tale, ma votavano e facevano votare ogni partito che non fosse il Partito Comunista”. Per questo i comunisti, astiosi e vendicativi, ritengono mafiosi tutti coloro che non sono comunisti o che non votano i comunisti. Tenuto conto che al Sud i moderati hanno maggiore presa, in tutte le loro declinazioni, anche sinistri, ecco la gogna territoriale o familiare o come scrive Paolo Guzzanti: Il teorema della mafiosità ambientale.

L’accanimento prende forma in varie forme:

Il caso del delitto fantastico di “concorso esterno”.

Il Business “sinistro” dei beni sequestrati preventivamente e dei beni confiscati dopo la condanna.

La Mafia delle interdittive prefettizie che alterano la concorrenza.

Lo scioglimento dei Consigli Comunali eletti democraticamente.

Quando la mafia decimò la famiglia di Buscetta. Sara Scarafia su Tribunatreviso.it il 07 febbraio 2010. Vendette e ricatti. Nella lunga storia della malavita organizzata gli ex amici che hanno cominciato a «cantare» sono sempre stati puniti. Il caso più famoso è di certo la vendetta su Tommaso Buscetta. Quando nel 1981 Buscetta lasciò l'Italia e si nascose in Brasile, per la sua famiglia fu come firmare una condanna a morte: undici i parenti uccisi. Il 21 settembre del 1982 sparirono due dei suoi figli, Antonio e Benni, sequestrati, torturati e uccisi perché svelassero il luogo dove si nascondeva. Il 26 e il 29 dicembre dell'82 fu ucciso dentro la sua pizzeria Giuseppe Genova, marito di Felicia, figlia di Buscetta. Il 29 toccò al fratello di Masino, Vincenzo, e al nipote Benedetto, uccisi dentro la vetreria della famiglia. Il 6 luglio del 1984 Buscetta cominciò a raccontare fatti e misfatti di Cosa nostra. Il 7 dicembre fu ucciso anche il cognato Pietro Busetta. E fu una vedetta anche quella che portò all'omicidio, in una sola giornata, della madre, della sorella e della zia del pentito Francesco Marino Mannoia, chimico di fiducia dei corleonesi capace di affinare in una sola giornata chili e chili di brown sugar. I suoi parenti furono uccisi, nel novembre 1989, a due mesi dai primi verbali resi da Mannoia davanti al giudice Giovanni Falcone. Ancora una vendetta dietro l'atroce fine del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino, uno degli stragisti rei confessi di Capaci. Il piccolo Di Matteo fu sequestrato a 11 anni in un maneggio alla periferia di Palermo da una squadra di finti poliziotti che - dissero - dovevano accompagnarlo dal padre che già viveva in una località protetta. Il bambino in cambiò almeno sette covi e fu strangolato e sciolto nell'acido nel 1996, il giorno in cui a Giovanni Brusca fu confermato l'ergastolo in Cassazione per l'omicidio dell'ex esattore Ignazio Salvo.

Secondo Buscetta la parola «mafia» è una creazione letteraria. Cosa Nostra. Umberto Santino su centroimpastato.com. Che i mafiosi usino denominare l’associazione segreta di cui fanno parte “Cosa Nostra” è un’acquisizione recente, derivante dalle dichiarazioni di mafiosi collaboratori di giustizia, e in particolare di Tommaso Buscetta. Deponendo davanti a Giovanni Falcone Buscetta così delineava la struttura portante dell’organizzazione: “La creazione “Mafia” è una creazione letteraria, mentre i veri mafiosi sono semplicemente chiamati “uomini d’onore”, ognuno di essi fa parte di una “borgata” (questo nella città di Palermo perché nei piccoli centri l’organizzazione mafiosa prende nome dal centro stesso) ed è membro di una “famiglia”.

In seno alla famiglia vi sono: “il capo”, eletto dagli uomini d’onore. Egli, a sua volta, nomina “il sottocapo”, uno o più consiglieri (se, però, la famiglia è vasta, anche i consiglieri sono eletti, in numero non superiore a tre), e “i capidecina”.

Il capo della famiglia viene chiamato “rappresentante” della famiglia stessa.

Al di sopra delle famiglie e con funzioni di coordinamento, esiste una struttura collegiale, chiamata “commissione”, composta da membri, ciascuno dei quali rappresenta tre famiglie territorialmente contigue.

Trattasi di uno dei capi delle tre famiglie, designato dai capi delle stesse.

I membri dalla commissione, ai miei tempi, duravano nella carica per tre anni, ma non so se tuttora vengono rispettate queste regole.

Attualmente, la profonda degenerazione dei principi ispiratori della mafia, ha portato come conseguenza che queste regole vengono rispettate solo formalmente, perché nella realtà la “commissione” è lo strumento attraverso cui colui o coloro che dominano impongono la loro volontà. Nel suo insieme, questa organizzazione si chiama “Cosa Nostra”, così come negli U.S.A.” (Tribunale di Palermo 1984, pp. 4-5).

Le rivelazioni di Buscetta per un verso costituiscono una sorta di depositum fidei della tradizione di Cosa Nostra, per un altro sono un atto di accusa delle degenerazioni che avrebbero prodotto i corleonesi con la loro inesauribile sete di potere e di sangue. A prescindere dal nome, che costituisce una novità, tutti gli aspetti che concorrono a formare l’immagine compiuta di Cosa Nostra com’è stata ricostruita attraverso le dichiarazioni di vari mafiosi collaboratori di giustizia si ritrovano quasi identici risalendo indietro nel tempo.

La cerimonia iniziatica presenta varianti secondarie (il dito da cui viene fatto sgorgare un po’ di sangue, a volte è il pollice destro, a volte l’indice o il medio di una mano imprecisata, l’indice della destra, un dito qualsiasi, o quello con cui si spara), ma c’è sempre la panciuta, come pure l’immagine sacra che viene bruciata. Anche il giuramento ha qualche variante ma sostanzialmente la formula, quando è riportata, ribadisce l’irrevocabilità del vincolo contratto con il patto di sangue. Così giurano i neofiti della Fratellanza di Girgenti nel 1884: “Giuro sul mio onore di essere fedele alla fratellanza, come la fratellanza è fedele con me, e come si brucia questa santa e questi pochi gocci del mio sangue, così verserò tutto il mio sangue per la fratellanza, e come non può tornare questa cenere nel proprio stato e questo sangue un’altra volta nel proprio stato, così non posso rilasciare la fratellanza”. Così giura il medico Melchiorre Allegra nel 1916: “Giuro di essere fedele ai miei fratelli, di non tradirli mai, di aiutarli sempre, e se così non fosse, io possa bruciare e disperdermi, come si disperde questa immagine che si consuma in cenere”. E questo è sinteticamente il giuramento di Buscetta nel 1948: “Le mie carni devono bruciare come questa “santina” se non manterrò fede al giuramento” (in Gambetta 1992, pp. 367-369).

La cerimonia di iniziazione che prevede alcuni passaggi obbligati (il candidato dev’essere presentato da parte di un membro anziano dell’associazione, al nuovo arrivato vengono rivelate l’esistenza dell’organizzazione e le sue regole, il novizio deve scegliersi un padrino che praticherà il taglietto sul dito, la pronuncia della formula del giuramento) vuole avere la pregnanza simbolica di un battesimo, con precisi riferimenti alla liturgia cattolica, con l’uso di un’immagine sacra, prima cosparsa del sangue sprizzato dal dito del novizio e poi bruciata tra le sue mani. Evidente poi la valenza simbolica del sangue: è una sorta di rinascita rituale, dà vita a una nuova parentela tra i consociati e contiene un preciso riferimento alla punizione che spetta a chi tradisce il patto consociativo (Paoli 2000, p. 81). Dice il “pentito” Antonino Calderone, ricordando la sua cerimonia di iniziazione: “Col sangue si entra e col sangue si esce da Cosa Nostra! Lo vedrete da voi, tra poco, com’è che si entra col sangue. E se uscite, uscite col sangue perché vi ammazzano” (in Arlacchi 1992, pp. 57-58).

Con l’iniziazione il novizio acquista lo status di “uomo d’onore” che dura tutta la vita: l’ammissione a Cosa Nostra “impegna quell’individuo per tutta la vita. Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi” (Falcone e Padovani 1991, p. 97).

L’enfasi posta su questi aspetti sacrali non può far dimenticare che si tratta di una associazione criminale, il cui scopo è la commissione di delitti, dall’estorsione all’omicidio, mentre l’immagine di sé che danno i mafiosi, almeno i vecchi mafiosi, è ben diversa. Dice Buscetta, ricordando quel che dicevano i suoi antichi maestri che lo hanno iniziato ai segreti di Cosa Nostra: “Mi hanno detto che essa era nata per difendere i deboli dai soprusi dei potenti e per affermare i valori dell’amicizia, della famiglia, del rispetto della parola data, della solidarietà e dell’omertà. In una parola, il senso dell’onore” (in Arlacchi 1994, p. 11). Da qui ai Beati Paoli, i mitici vendicatori di torti, il passo è breve. Cosa Nostra sarebbe nata perché mancava la giustizia pubblica, per difendere la Sicilia vessata in mille modi: “Perché noi siciliani ci siamo sentiti trascurati, abbandonati dai governi stranieri e anche da quello di Roma. Cosa Nostra, per questo, faceva la legge nell’isola al posto dello Stato. L’ha fatto in diverse epoche storiche, anche quando non si chiamava Cosa Nostra. Io so che una volta essa si chiamava “I Carbonari”, poi si è chiamata “I Beati Paoli” e solo in un terzo momento “Cosa Nostra”” (ibidem, pp. 15-16).

Siamo nel pieno del mito apologetico, condito di leggende e di stereotipi. Non è da escludere che la nascita delle associazioni mafiose sia stata stimolata da un contesto in cui l’associazionismo segreto era abbastanza diffuso, con la presenza di soggetti come la Carboneria e la Massoneria, e le sollevazioni popolari in Sicilia durante l’Ottocento vedono fianco a fianco vari attori, tra cui le nascenti o già consolidate associazioni mafiose. Come pure le squadre popolari che agiscono nelle rivolte del XVIII e del XIX secolo hanno una doppia anima: uno spirito di ribellione che porterà alla nascita dei movimenti popolari in lotta per il cambiamento e un’esigenza di mobilità sociale che porterà anche all’arruolamento nei gruppi mafiosi (Santino 2000, p. 136). Ma da questo a dire che c’è una linea diretta tra Carbonari e Cosa Nostra, tramite i Beati Paoli, ci corre. Come abbiamo visto un motivo ricorrente è quello dell’onore. In cosa consiste l’onore dei mafiosi? Per Franchetti il mafioso è “un uomo che sa far rispettare i suoi diritti, astrazion fatta dai mezzi che adopera a questo fine” (Franchetti 1993, p. 97) e “il modo più efficace per farsi rispettare in buona parte di Sicilia è l’esser in fama di aver commesso qualche omicidio” (ibidem, p. 36).

Più recentemente Vincenzo Marsala, figlio del capomafia di Vicari in provincia di Palermo, ha dichiarato che “il prestigio all’interno della famiglia si raggiunge soprattutto con la consumazione di omicidi, nel senso che questo è il banco di prova nel quale si dimostra la valentia dell’uomo d’onore. In tal caso si dice che trattasi di una persona che “vale”. E più importante è l’omicidio che viene commesso, più si innalza il prestigio del mafioso” (in Paoli, 2000, p. 91).

L’abilità nell’uso della violenza ha un ruolo decisivo nello status di “uomo d’onore”. Che poi nel codice onorifico mafioso abbiano un peso altri fattori, per esempio la capacità di preservare la verginità e la castità delle donne, questo più che essere una specificità dell’organizzazione mafiosa rientra nel codice comportamentale su cui si fonda la società agro-pastorale mediterranea (Schneider 1987).

C’è da chiedersi come e perché questi “valori” entrino a far parte del bagaglio del mafioso. Si potrebbe rispondere che i membri dell’associazione criminale per coprire i loro misfatti introiettano, o manipolano, regole comportamentali delle società in cui agiscono, al solo scopo di darsi un’immagine di rispettabilità. Ma una spiegazione in termini solo utilitaristici e strumentali è insoddisfacente non tenendo conto che si è formato un codice culturale mafioso, in cui convivono aspetti diversi e contraddittori. Buscetta è stato discriminato per le sue frequentazioni femminili ed esempi recenti dimostrano che ci sono ancora mafiosi che hanno dell’onore una concezione del tipo di quella descritta precedentemente, intesa all’osservanza della morale sessuale delle donne. Nel gennaio del 2003 l’anziano capomafia dell’Acquasanta di Palermo Antonino Pipitone è stato accusato, in seguito alla rivelazioni di alcuni “pentiti”, di aver fatto uccidere nel 1983 la figlia Rosalia per punirla di una relazione extraconiugale, fingendo che si trattasse di una rapina. Questa visione legata alla tradizione etica cristiano-cattolica in materia di comportamenti sessuali convive con una pratica che considera l’omicidio un diritto-dovere dell’affiliato e ne fa il pilastro portante del codice onorifico. E va sottolineato che l’omicidio è sempre in agguato, anche quando si tratta di uccidere donne o bambini.

Dal questore Sangiorgi a Cosa Nostra. Anche l’esistenza della struttura organizzativa risalirebbe lontano nel tempo. Scriveva nel novembre del 1898 il questore di Palermo Ermanno Sangiorgi: “L’agro palermitano di cui particolarmente mi occupo con la presente relazione, è purtroppo funestato, come altre parti di questa e delle finitime provincie, da una vasta associazione di malfattori, organizzati in sezioni, divisi in gruppi: ogni gruppo è regolato da un capo, che chiamasi capo-rione, e, secondo il numero dei componenti e la estensione territoriale, su cui debba svolgersi la propria azione, a questo capo-rione viene aggiunto un sottocapo, incaricato di sostituirlo nei casi di assenza o di altro impedimento. E a questa compagnia di malviventi è preposto un capo supremo. La scelta dei capi-rione è fatta dagli affiliati, quella del capo supremo, dai capi-rione riuniti in assemblea, riunioni che sono ordinariamente tenute in campagna. Scopo dell’associazione è quello di prepotere, e quindi di imporre ai proprietari dei fondi, i castaldi, i guardiani, la mano d’opera, le gabelle, i prezzi per la vendita degli agrumi e degli altri prodotti del suolo” (Sangiorgi 1898, pp. 9-10).

L’associazione era divisa in otto gruppi insediati nelle borgate a ovest della città: Piana dei Colli, Acquasanta, Falde, Malaspina, Uditore, Passo di Rigano, Perpignano, Olivuzza. Le altre cosche disseminate dalla zona sud-est fino al mare (Pagliarelli, S. Maria di Gesù, Ciaculli, Villabate) non pare facessero parte del coordinamento, come pure non sembra sufficientemente documentata l’estensione dell’associazione su scala provinciale (Lupo 1988, pp. 466-467).

La tesi di Sangiorgi era decisamente controcorrente. Se si toglie un testo di Augusto Schneegans, console dell’impero tedesco in Sicilia, che nel 1890 pubblica un libro in cui sostiene che la mafia è una “società segreta”, “uno Stato nello Stato” (Schneegans 1890, 1990), la convinzione più diffusa era che possono esserci cosche, sodalizi criminali in vari luoghi, ma non ci sono né “regole fisse” né “gerarchia prestabilita” (Alongi 1977, p. 49).

La visione della mafia delineata nei rapporti del questore palermitano, che però non ha retto al vaglio giudiziario (il processo del 1901 si concluse con molte assoluzioni e lievi condanne), è la più vicina a quella ricostruita attraverso le dichiarazioni dei pentiti dagli anni ’80 in poi. Come abbiamo visto nella mafia palermitana degli ultimi anni dell’Ottocento e nei primi del Novecento le cariche sono elettive e questa tradizione avrebbe resistito al passare degli anni e sarebbe stata archiviata dall’avvento al potere dei corleonesi.

“La mafia è un organismo democratico, uno dei più importanti organismi democratici” dichiara il “pentito” Leonardo Messina che esalta il ruolo della famiglia mafiosa e ridimensiona il ruolo del capo: “Il capo viene eletto dalla base e non è vero che abbia un’immagine così rilevante: l’epicentro di tutto è la famiglia, il capo ne è solo il rappresentante. E’ sempre la famiglia che decide, il capo viene votato dalla base, dagli uomini d’onore” (in Paoli 2000, p. 43) ed elettivi sono pure i membri della commissione provinciale. Ci troveremmo di fronte a una struttura fondata sulla democrazia diretta, in cui almeno sulla carta preoccupazione costante sarebbe stata quella di evitare la concentrazione dei poteri. Fino agli anni ’50 del XX secolo il coordinamento tra i gruppi della provincia di Palermo sarebbe stato assicurato da rapporti informali e solo nel 1957 si sarebbe istituzionalizzata la cosiddetta “commissione provinciale”. Buscetta riferisce che sarebbe stato il boss siculo-americano Joe Bonanno a suggerire di creare un organo di coordinamento simile a quello adottato da La Cosa Nostra americana negli anni ’30, come strumento di moderazione e di pace interna (in Arlacchi 1994, pp. 65-66). Rispetto alla proposta di Bonanno furono apportati dei cambiamenti: invece di una sola commissione come negli Stati Uniti, furono costituite più commissioni, una per ogni provincia in cui era presente Cosa Nostra e venne costituita una struttura intermedia, il mandamento, una circoscrizione che comprendeva il territorio di tre famiglie contigue, con un capo che, almeno fino a un certo punto, non fosse capo di una delle famiglie, per evitare che favorisse la famiglia di appartenenza. Sempre a dire di Buscetta, alla commissione di Palermo si decise di nominare semplici “soldati” e non capifamiglia o consiglieri: “Volevamo evitare che troppo potere si concentrasse nelle mani delle stesse persone. Consideravamo inoltre il fatto che la distanza tra un uomo d’onore soldato e uno consigliere, rappresentante o vicerappresentante, in Sicilia non era mai stata molto grande. Appartenere a Cosa Nostra implicava l’essere uomini d’onore: questa era la base di tutto. Si potevano poi inventare gerarchie, cariche, commissioni, ma all’interno di una famiglia si respirava un’aria di uguaglianza perché tutti sentivamo di far parte di una élite molto speciale” (ibidem, pp. 69-70). La proposta non piace a tutti e si arriva a un compromesso; della commissione palermitana faranno parte dodici soldati e quattro capifamiglia (ibidem, p. 71).

Solo a metà degli anni ’70 si sarebbe formata una “commissione interprovinciale” formata dai rappresentanti di sei provincie, ad esclusione di Messina, Siracusa e Ragusa, dove non c’erano uomini di Cosa Nostra. Anche qui, nel progetto originario presentato dal capomafia di Catania Pippo Calderone, si voleva evitare la concentrazione dei poteri, con un caporegione, chiamato segretario, che doveva essere, solo un primus inter pares. L’irruzione dei corleonesi, ben presto sboccata nella guerra aperta, avrebbe travolto questi principi e imposto un regime dittatoriale, monocratico, a una sorta di repubblica confederale fondata sull’uguaglianza dei membri e sulla rappresentanza democratica. In effetti con la guerra di mafia dei primi anni ’80 la vecchia commissione viene decimata e si forma un nuovo organismo composto da rappresentanti schierati con i vincitori. La dittatura dei corleonesi tiene in piedi l’organismo collegiale ma esso è totalmente egemonizzato da Riina e dai suoi alleati. Già prima dell’esplosione della guerra di mafia, la struttura di Cosa Nostra aveva subìto delle modifiche in gran parte legate alla gestione del traffico di stupefacenti: la divisione in famiglie non operava più, ognuno poteva associarsi con chi voleva e si rendeva necessario il ricorso ad esterni. A dire di Buscetta, il denaro avrebbe corrotto tutto e tutti e i principi ispiratori di Cosa Nostra sarebbero stati travolti. Se la radice di questa “degenerazione” va ricercata nel traffico di droga, addossare le responsabilità ai corleonesi non corrisponde alla realtà, dato che essi avevano un ruolo secondario rispetto ai Bontate e ai Badalamenti. Quest’ultimo mantiene il suo ruolo anche dopo essere stato “posato”, cioè espulso dall’organizzazione (Santino 1992, p. 122).

I corleonesi più che di un processo di modernizzazione, per adeguare l’organizzazione ai nuovi compiti criminali, sono portatori di un surplus di violenza che all’interno mira all’occupazione delle posizioni di potere mentre all’esterno vuole abbattere gli ostacoli che il processo di espansione delle attività incontra e condizionare le dinamiche socio-politiche. Il ricorso massiccio alla violenza e i più eclatanti delitti esterni (dall’assassinio di Dalla Chiesa alle stragi del ’92 e del ’93) produrranno effetti boomerang, innescando la reazione delle istituzioni che infliggerà gravi colpi all’organizzazione Cosa Nostra, con l’arresto e la condanna di centinaia di affiliati.

Il segreto: confidenti e collaboratori. Cosa Nostra è un’associazione segreta e i suoi affiliati sono tenuti a rispettare la legge del silenzio (omertà) ma negli ultimi vent’anni l’omertà è stata platealmente violata da centinaia di mafiosi collaboratori di giustizia. Negli anni ’80 ha cominciato ad assumere sempre maggiore consistenza il fenomeno del pentitismo: i primi collaboratori della giustizia sono stati soggetti esterni a Cosa Nostra, legati soprattutto al traffico di droghe, poi con Buscetta e Contorno si è aperta la stagione dei capi e gregari che facevano ricorso alla giustizia rivelando i segreti dell’organizzazione. Più che di un vero e proprio pentimento, fondato su ragioni etiche (il caso di Leonardo Vitale, che nel 1973 si presentò spontaneamente alla squadra mobile di Palermo per fare una serie di rivelazioni e doveva finire rinchiuso in manicomio criminale e cadere ucciso nel dicembre del 1984, rimane almeno per lungo tempo un caso unico), si è trattato di una crisi della cultura mafiosa indotta dallo straripare della violenza interna. La collaborazione con la giustizia nei termini in cui si è configurata negli ultimi decenni è una novità ma in passato non era rara la pratica di passare informazioni confidenziali alla polizia. Spesso ci troviamo di fronte a rapporti così circostanziati (è il caso dei rapporti del questore Sangiorgi) che non possono non farci pensare all’uso di indicazioni provenienti dall’interno del mondo mafioso. Solo che, a differenza di quanto è avvenuto con le dichiarazioni dei collaboratori, le fonti confidenziali non potevano essere citate in dibattimento e ciò spiega il fallimento di inchieste antiche e recenti. Per fare fronte all’emorragia dei “pentiti” Cosa Nostra ha fatto ricorso per lunghi anni alla violenza, colpendo parenti esterni al mondo mafioso; più recentemente si è avviata una pratica di recupero all’interno di un mutamento strategico fondato sull’attenuazione della violenza.

Il quadro attuale. Per la mafia degli ultimi anni si parla di mafia “sommersa” o “invisibile”, la cui caratteristica più evidente è la rinuncia ai delitti eclatanti. La struttura organizzativa ha subìto una significativa torsione per ammortizzare i colpi ricevuti, procedere alle sostituzioni con la cautela necessaria per evitare defezioni e mantenere un alto livello di segretezza. Il capo dei capi sarebbe Bernardo Provenzano, la cui latitanza ha superato i quarant’anni, che sarebbe affiancato da un direttorio ristretto. Provenzano mirerebbe a una pacificazione tra l’ala “stragista” e quella “moderata” e a una ricostruzione della struttura organizzativa attraverso un reclutamento più rigoroso, limitato a soggetti appartenenti a famiglie di tradizione mafiosa, e una rigida compartimentazione. La strategia di rilancio fa perno sul controllo del territorio, con il ricorso massiccio al prelievo estorsivo riducendo l’ammontare delle somme richieste (pagare meno, pagare tutti). Nel frattempo i capi detenuti hanno più volte fatto sentire la loro voce ricorrendo anche a forme inedite. Nel marzo 2002 il boss Pietro Aglieri indirizza una lettera al procuratore generale antimafia e al procuratore di Palermo, di cui la stampa ha pubblicato ampi stralci, in cui esclude che possano essere “strade percorribili” la collaborazione e la dissociazione e propone l’apertura di un “confronto aperto e leale” con lo Stato per “trovare soluzioni intelligenti e concrete che producano veramente dei frutti positivi” (la Repubblica 18.04.2002; Dino 2002, p. 281). Nel luglio dello stesso anno Leoluca Bagarella durante un’udienza legge una “petizione” a nome anche di altri detenuti in cui dichiarano di essere “stanchi di essere strumentalizzati… dalle varie forze politiche” e di avere iniziato una “protesta civile e pacifica” contro le proroghe del 41 bis. Seguono due lettere di detenuti sottoposti al carcere duro, tra cui il capomafia Giuseppe Graviano, in cui si dichiara che dalla protesta “pacifica e civile” dello sciopero della fame, se non sarà abolito il 41 bis, passeranno “a forme più drastiche”. Accusano gli “avvocati meridionali” eletti al Parlamento che prima deprecavano il 41 bis ma ora non dicono una parola contro di esso. Il 22 dicembre allo stadio di Palermo compare uno striscione con la scritta: “Uniti contro il 41 bis. Berlusconi dimentica la Sicilia” (Narcomafie 2002, 2003). Con la legge 23 dicembre 2002, n. 279 il 41 bis è entrato definitivamente nel nostro ordinamento e i mafiosi detenuti non ci stanno a rassegnarsi al carcere a vita e alle restrizioni del carcere duro, richiamano esplicitamente o implicitamente patti non onorati e promesse non mantenute (dall’abolizione dell’ergastolo alla revisione dei processi) ma le minacce non hanno avuto seguito. Un decennio di pax mafiosa non vuol dire che Cosa Nostra abbia deposto definitivamente le armi. I segnali inviati dagli stragisti detenuti potrebbero essere le avvisaglie di una ripresa della conflittualità interna e di una nuova offensiva rivolta contro uomini delle istituzioni.Da “Narcomafie, n. 3 , marzo 2004, Dizionario di mafia e di antimafia.

Mafia, una Cupola collegiale e il divieto di tradire la moglie: così dopo Riina Cosa nostra è tornata alle vecchie regole. Le affiliazioni ma anche la "Cosa scritta", cioè la verbalizzazione delle norme da seguire: compreso il divieto di adulterio. È una piovra che cerca di tornare ai precetti di un tempo quella che emerge dall'ultima operazione della procura di Palermo. Vecchi comandamenti per cercare di riportare in auge Cosa nostra, che gli investigatori considerano oggi in una “situazione di crisi” ma con una capacità di “adottare strategie sempre più sofisticate di riorganizzazione". E che dopo la morte di Riina è tornata a dotarsi di una commissione provinciale: un organo centrale con funzioni di direzione dei vari clan. Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 4 dicembre 2018.

Non solo una nuova commissione con un nuovo capo dei capi. Ma anche una “cosa scritta”, cioè la verbalizzazione delle vecchie regole dell’onorata società che boss e gregari sono tenuti di nuovo a rispettare. Compreso uno dei precetti più antichi: un uomo d’onore non può avere relazioni extraconiugali, altrimenti è fuori dall’organizzazione. Una regola che in passato aveva bloccato la carriera criminale di Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi e dalle mille avventure sentimentali. È una mafia che cerca di tornare alle regole di un tempo quella che emerge dall’ultima operazione della procura di Palermo. Vecchi comandamenti per cercare di riportare in auge la prima piovra, che gli investigatori considerano oggi in una “situazione di crisi” ma con una capacità di “adottare strategie sempre più sofisticate di riorganizzazione volte a superare l’attuale difficile momento storico per potersi poi ripresentare con rinnovata potenza e capacità di inquinare l’ordine sociale”.

“Vitale necessità di trovare unione” – È per questo motivo che Cosa nostra aveva la “vitale necessità di trovare unione e rappresentatività comune sul territorio”. Probabilmente la scoperta più importante che ha fatto l’ufficio inquirente guidato dal procuratore Francesco Lo Voi. I carabinieri hanno ricostruito estorsioni, il sempre di moda spaccio di stupefacenti, la gestione del territorio e persino un omicidio mancato: quello di un malavitoso che infastidiva commercianti protetti dai boss di Villabate. Resta avvolto nel mistero, invece, l’assassinio di Giuseppe Dainotti, abbattuto il 22 maggio del 2017 mentre andava in bicicletta dopo più di vent’anni di galera. Un omicidio che i boss considerano tra le “cose che fanno solo male”.

L’organismo collegiale dopo la morte di Riina – Ma soprattutto gli uomini del colonnello Antonio Di Stasio hanno documentato quello che investigatori di ogni livello sospettavano da mesi: Cosa nostra ha riunito la sua Cupola e si è data un nuovo capo dei capi. Ci provava dal 2008 visto che quello in carica era recluso al 41 bis da venticinque anni. C’è riuscita soltanto sei mesi dopo la morte di Totò Riina, il dittatore che aveva accentrato su di sé ogni decisione fino alle stragi degli anni Novanta. Sarà anche per questo motivo che la nuova commissione è tornata a essere un “organismo collegiale” e democratico, con i mandamenti del capoluogo siciliano che tornano ad essere centrali, a differenza della lunga stagione dei corleonesi. Non è un caso, quindi, che nella nuova Cupola non ci sia posto per Matteo Messina Denaro, indicato come l’erede di Riina ma essendo di Castelvetrano – oltre che latitante dal 1993 – escluso dalla nuova catena di comando.

La commissione si riunisce all’ora di pranzo –  È il 29 maggio del 2018 e all’ora di pranzo in un posto rimasto segreto la piovra riunisce la nuova commissione dei capi mandamento. A presiederla è quello che viene indicato come il nuovo capo dei capi: si chiama Settimo Mineo, ed è un ottantenne già condannato al Maxi processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il suo nome era contenuto persino nelle dichiarazioni di Buscetta: il nuovo capo dei capi, dunque, non è un volto nuovo di Cosa nostra. Tutt’altro: è il più anziano e autorevole dei mafiosi in circolazione. Non usa telefoni cellulari, va in giro soprattutto a piedi, ed è uno che ai comandamenti della mafia di un tempo ci tiene. Compreso il rituale di affiliazione dei nuovi boss, che ancora oggi si compie con testimoni, “puncitine” e immagini sacre bruciate. E infatti durante la riunione prende “la parola” per chiedere “a tutti gli intervenuti il rispetto delle regole spiegandone i contenuti e le modalità di esecuzione”. Primo precetto: “I contatti intermandamentali dovevano essere mantenuti esclusivamente dai reggenti dei mandamenti (“referenti”) per cui, in caso di problematiche sorte all’interno di un mandamento, non potevano in alcun modo intervenire uomini d’onore appartenenti ad altro mandamento”. Insomma: nessuno potrà fare più di testa sua. Ogni interlocuzione tra i vari clan va tenuta soltanto tra i rispettivi vertici.

“La prima regola: non parlare a casa degli altri” – “È una regola proprio la prima! Nessuno è autorizzato a poter parlare dentro la casa degli altri… siccome c’è un referente”, dice intercettato Francesco Colletti, il reggente del mandamento di Villabate. È grazie alle sue parole se gli investigatori hanno saputo dell’ultimo summit. Anche se sono tornati alle regole di un tempo, infatti, i padrini vivono comunque la modernità. E cercano di evitare di farsi incastrare, cambiando automobili, affidando i telefoni cellulari ad altre persone mentre si recano al vertice. È per questo motivo che il luogo della riunione della commissione è rimasto sconosciuto agli investigatori. A svelare cosa è successo a quel summit, però, è lo stesso Colletti mentre parla con il suo autista Filippo Cusimano a bordo della sua automobile. “Si è fatta comunque una bella cosa.. per me è una bella cosa questa.. molto seria… molto…con bella gente.. bella! Grande! Gente di paese.. gente vecchi gente di ovunque”, dice intercettato, poche ore dopo il vertice. Era stato sempre il reggente di Villabate che già nei mesi precedenti aveva attirato l’attenzione degli investigatori su Mineo: “Lo fecero capo mandamento a Settimo, lo hanno fatto capo mandamento”, dice senza specificare se il gioielliere ottantenne fosse stato votato democraticamente dagli altri boss come avveniva un tempo, o se invece sia stato individuato senza alcuna votazione.

Niente adulterio. “Ma non è che uno non può scopare” – È sempre Colletti che l’11 ottobre redarguisce il suo autista, ricordandogli le “nuove vecchie regole” di Cosa nostra: “C’è un … una cosa scritta che ti farò leggere … ma tutti quanti.. la prima di tutti c’è scritto questo… c’è scritto che non ne puoi avere ingazzamenti (relazioni extraconiugali ndr) proprio è chiaro mettere fuori a chiunque con.. tutti sti discorsi capito?”. Tradotto: un uomo d’onore non può avere altre donne se non la sua legittima moglie. Ovviamente, però, non è proibito il tradimento tout court: è l’apparenza quella che conta. “ No – continua Colletti – non è che la c’è scritto che uno non può scopare (ride ndr), non si deve fare sapere . Però una cosa è una relazione una cosa è minchia ‘me ne sono andato alla fiera e mi sono tignato tre femmine tutte in una sera‘, questo lo sappiamo noialtri, ci siamo? Sono cose diverse, chi non ha peccato scagli la prima pietra…giusto è”.

Un summit riservato ai pezzi da novanta – A quel summit presieduto da Mineo si sarebbero seduti Gregorio Di Giovanni, il “Reuccio” di Porta nuova, Filippo Bisconti , reggente del mandamento di Misilmeri/Belmonte Mezzagno, più un’altra decina di boss. Solo i più importanti, però. A spiegarlo è lo stesso Colletti che racconta come altri padrini, “sebbene ricoprissero ruoli apicali nelle rispettive articolazioni mafiose, non ricoprivano la carica necessaria per poter partecipare alla riunione che era riservata esclusivamente ai diversi reggenti o rappresentanti dei mandamenti”. Era il caso di Salvatore Pispicia, uomo di punta del clan di Porta Nuova e cugino di Gregorio Di Giovanni, Franco Caponnetto di Villabate, Giovanni Sirchia di Passo di Rigano, presente fisicamente all’incontro ma costretto a rimanere fuori dal locale non essendo in possesso dei gradi necessari. Franco Picone, uomo d’onore della Noce, che però essendo un mandamento senza reggente, alla riunione era stata rappresentata da un “consigliere”. Seduti a discutere del futuro di Cosa nostra c’erano anche altri padrini: “Gente di paese, gente vecchi, gente di ovunque”.

Ritorno all’hotel delle Palme – Parole che per i magistrati coordinati dal procuratore aggiunto Salvo De Luca sono più di una prova. Quel summit del 29 maggio era “un incontro formale finalizzato a costituire un organo centrale con funzioni di direzione sulle attività criminali di rilievo intermandamentale, avente capacità di dirimere i contrasti tra i componenti delle varie articolazioni, potestà sanzionatoria, nonché l’autorità per scegliere i vertici delle famiglie mafiose, come a suo tempo riferito da Tommaso Buscetta nelle sue dichiarazioni”. Don Masino aveva fatto risalire l’origine del vertice codificato della piovra al summit del Grand Hotel delle Palme di Palermo, quando nel 1957 nella hall del lussuoso albergo i padrini siciliani incontrarono i gangster americani, tornati a casa per provare a fare evolvere gli antiquati cugini. Gli americani suggerirono ai siciliani anche il nome da dare all’organizzazione: Lcn, acronimo di “La Cosa nostra”. Dopo due guerre di mafia, la mattanza dei corleonesi, le stragi e più di mezzo secolo di terrore, i padrini provano a ripartire da lì.

IL DOCUMENTO. Ecco il decalogo del perfetto mafioso. La Repubblica (7 novembre 2007). PALERMO - Il decalogo del "perfetto mafioso", ritrovato tra i documenti sequestrati al boss Salvatore Lo Piccolo, è scritto a macchina in caratteri tutti maiuscoli e ha addirittura un titolo che ricorda la Costituzione: "Diritti e doveri". Seguono i dieci comandamenti che il soldato di Cosa nostra non può mai trasgredire.

Il primo comandamento recita testualmente: "Non ci si può presentare da soli ad un altro amico nostro, se non è un terzo a farlo".

Il secondo: "Non si guardano mogli di amici nostri".

Il terzo: "Non si fanno comparati con gli sbirri".

Quarto comandamento: "Non si frequentano né taverne e né circoli".

Quinto: "Si ha il dovere in qualsiasi momento di essere disponibile a cosa nostra. Anche se c'è la moglie che sta per partorire".

Sesto: "Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti".

Settimo: "Si deve portare rispetto alla moglie".

Ottavo: "Quando si è chiamati a sapere qualcosa si dovrà dire la verità".

Nono: "Non ci si può appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie".

Il decimo comandamento è il più articolato e fornisce indicazioni precise sulle affiliazioni, ovvero su "chi non può entrare a far parte di cosa nostra". L'organizzazione pone un veto su "chi ha un parente stretto nelle varie forze dell'ordine", su "chi ha tradimenti sentimentali in famiglia", e infine su "chi ha un comportamento pessimo e che non tiene ai valori morali".

Con i fogli del decalogo, gli investigatori hanno sequestrato un'immaginetta sacra con la formula rituale di affiliazione: "Giuro di essere fedele a cosa nostra. Se dovessi tradire le mie carni devono bruciare come brucia questa immagine". 

ECCO I COMANDAMENTI DELLA MAFIA. Giuseppe Cerasa e Franco Recanate il 2 ottobre 1984 su La Repubblica. Qualcuno ha già inventato un colorito sillogismo: lupara d' inchiostro. Per dire che Tommaso Buscetta adopera la penna e le parole per sbarazzarsi dei suoi nemici. Chi? I corleonesi, soprattutto: Luciano Liggio, Toto Riina, Bernardo Provenzano. Una bella fetta di mafia indicata dal boss palermitano quale scellerata responsabile di feroci delitti. Sulle confessioni di don Masino erano usciti in mattinata da un eccitato Palazzo di Giustizia nuovi particolari. Per esempio, egli avrebbe detto che fra i 366 mandati di cattura "non ci sono quelli che realmente contano". Aggiungendo: "Adesso tocca a loro, a quelli che fanno veramente male, a quelli che hanno tradito cosa nostra". Al gradino superiore, insomma, al "terzo livello". Chi? Politici, industriali, gente che da anni nutre e si nutre della mafia. Gli inquirenti affermano che Buscetta abbia fatto i nomi delle "eccellenze", ma c' è chi come il consigliere istruttore Antonio Caponnetto confida: "Le sue rivelazioni ci hanno fornito elementi per individuare gli anelli fra il secondo ed il terzo livello". Uno di questi anelli si chiama Ciancimino? E' probabile, così come appare certo che l' ex sindaco democristiano non sia il solo elemento di raccordo di quella perversa catena che lega mafia, politica e imprenditoria. Dopo il blitz di San Michele, la magistratura procede con grande celerità. I giudici parlano di "corsa contro il tempo", intendendo di voler arrivare alle prime conclusioni entro il 2 febbraio, giorno in cui scatterà la legge sulla carcerazione preventiva. Per alcuni dei 366 infatti a quella data scadrebbero i termini di carcerazione "e una volta usciti da galera prenderebbero sicuramente il volo". Un' equipe di cinque giudici istruttori e cinque sostituti procuratori procede a ritmo serrato agli interrogatori. Intanto si delinea la possibilità che i più clamorosi fatti di mafia degli ultimi 15 anni vengano unificati in un solo maxi-processo. Il tutto prende le mosse da due mesi di interrogatori cui Buscetta si è volontariamente sottoposto. Una lunga confessione-analisi degli ultimi quindici anni della storia mafiosa e anche di più, ricca di particolari inediti e di precisazioni che hanno squarciato il velo su numerosi aspetti della geografia e della genealogia delle cosche, degli obiettivi e dei delitti, con tanto di esecutori e di responsabili. Ecco in una sintesi della motivazione per i 366 mandati di cattura, che cosa ha detto e che cosa ha permesso di accertare Tommaso Buscetta.

LA STRUTTURA DI MAFIA - Secondo le dichiarazioni di Buscetta anche la mafia siciliana viene denominata Cosa nostra. Essa si articola in una struttura sostanzialmente unitaria e organizzata piramidalmente. Alla base dell' organizzazione vi è la "famiglia", rigidamente ancorata al territorio, in cui si distinguono gli "uomini d' onore", i "soldati", i "capi decina" e infine il "capo-famiglia" o "rappresentante" che si avvale di un vice o di uno o più consiglieri. Al disopra delle famiglie vi è la "commissione" o "cupola" composta dai "capi mandamento", cioè i rappresentanti di più "famiglie" contigue, e presieduta da un "capo commissione" che originariamente era denominato "segretario". A quanto dice Buscetta, in ogni provincia della Sicilia, ad eccezione di Messina e Siracusa, esiste un' organizzazione mafiosa strutturata in questo modo. Successivamente, ma già da diversi anni, sopra la commissione c' è stata una "supercommissione interprovinciale" composta dai capi delle commissioni provinciali. Un organismo segretissimo, di cui Buscetta non ha mai fatto parte, che si occupa degli affari più grossi riguardanti più province. Per esempio, un imprenditore catanese che volesse svolgere la sua attività a Palermo dovrebbe chiedere il placet della "interprovinciale". A questo proposito non si può evitare l' accostamento con quanto disse e scrisse Dalla Chiesa circa la marcia sul capoluogo degli imprenditori catanesi.

LE REGOLE - Si diventa "uomo d' onore" solo dopo aver offerto prove inconfutabili di fedeltà e avere prestato giuramento. Successivamente si può avere accesso ai fasti dell' organizzazione. Non ai principali e più delicati segreti, però, che possono essere conosciuti soltanto da chi ha un grado adeguato all' interno di "Cosa nostra". Un "uomo d' onore" è tenuto ad eseguire senza mai chiedere spiegazioni e limitarsi a prendere atto di quanto gli viene riferito. Vige, tra gli uomini d' onore, l' obbligo di dire la verità: per chi trasgredisce ci sono pene severissime, fino alla condanna a morte. La detenzione in carcere non produce nè perdita nè allontanamento del vincolo. Quando un detenuto è capofamiglia, questa passa alla direzione del vice. Nessun omicidio può essere commesso senza l' assenso del "rappresentante" della famiglia nel cui territorio deve essere eseguito il crimine. I fatti di sangue più gravi esulano dalla competenza dei capi-famiglia, ma vengono decisi dall' intera commissione che ne affida l' esecuzione ad "uomini d' onore" scelti fra le varie famiglie, senza che sia necessario neanche informarne i rispettivi capi. E' questo un meccanismo che ha provocato più di un dissidio, probabilmente anche la sanguinosa lotta di mafia fra agli anni 1981 e 1983. Occorre chiedersi a questo punto: come mai Buscetta aveva il semplice grado di "soldato" della famiglia di Portanuova? Per una questione... morale. Il boss non ha fatto carriera, pur essendo una persona di eccezionale prestigio nell' ambito di Cosa Nostra poichè le sue vicende sentimentali (divorziato sposò un' altra donna) non erano dai suoi capi ritenute degne di un "uomo d' onore".

MAFIA E CAMORRA - I fratelli Nuvoletta, Antonio Bardellino, Michele Zaza e il suo vice Nunzio Barbarossa appaiono non tanto come camorristi ma regolarmente affiliati a Cosa Nostra. Inizialmente, spiega Buscetta, i rapporti tra questi delinquenti e la mafia erano esclusivamente di affari (contrabbando di tabacchi); in seguito, però, i loro legami con Pippo Calò, con i corleonesi (Liggio e Riina) e con i Greco di Ciaculli sono diventati così intensi che anche i napoletani, unico esempio finora noto, sono diventati a pieno titolo membri di "Cosa Nostra" di Palermo. Ciò offre la certezza dei collegamenti fra le due organizzazioni a delinquere e la rivelazione che i rapporti fra di esse sono più intensi e più stretti di quanto si supponesse.

LA STRAGE DI CIACULLI - Buscetta ha squarciato un velo anche sulle grandi guerre di mafia. La prima è avvenuta nel 1963. Allora, egli racconta, a comandare la "commissione" di Cosa Nostra era Salvatore Greco, detto Cicchiteddu, con il grado di "segretario". Al numero due della gerarchia ("capo mandamento") c' era Antonino Matranga, boss di Resuttana. Salvatore La Barbera era soltanto al numero 6. Mancavano completamente dall' organico i corleonesi e infatti all' epoca i rapporti fra Greco e Liggio erano pessimi. I corleonesi avrebbero sicuramente sferrato un attacco sanguinoso ai Greco, se a precederli non fosse stato La Barbera. O meglio, il crescente potere che la famiglia La Barbera andava acquisendo. Nel dissidio fra il boss della Palermo centro e la "commissione" si intrufolarono in molti, compiendo delitti e addossandone a La Barbera l' esecuzione. Fino alle autovetture piene di esplosivo di spicco di Cosa Nostra, fino alla strage di Ciaculli, regno dei Greco. Lo scontro sanguinoso e l' attività della polizia determinarono fughe precipitose e lo scioglimento di Cosa Nostra per sei anni, cioè fino al 1969 quando i grandi processi di mafia si esaurirono con la conseguente restituzione alla libertà di molti mafiosi. Emergono dalle confessioni di Buscetta responsabilità gravissime a carico di due personaggi finora rimasti abilmente nell' ombra, quali Pippo Calò e Antonio Salomone, autori si numerosissimi delitti anche a carico di persone tuttora in vita. L' organizzazione si ricomponeva nel 1970 dopo l' uccisione di Michele Cavataio (ritenuto fra i principali colpevoli della carneficina del ' 63, la strage di via Lazio). La direzione cadeva nelle mani di un triumvirato composto da Riina (ecco comparire i corleonesi: Riina verrà poi accusato, con altri, del delitto Dalla Chiesa), Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti. Sotto questa nuova "gestione", il 5 maggio del 1971 avviene il primo grande delitto di mafia (se si eccettua la scomparsa del giornalista De Mauro, il quale - secondo Buscetta - non venne assassinato dalla mafia), con l' uccisione di Pietro Scaglione, definito dall' ex boss palermitano "magistrato integerrimo e persecutore della mafia". Voluto dai corleonesi l' omicidio fu eseguito nel territorio di Porta Nuova (lo stesso dove viveva Buscetta), della cui famiglia già da allora era capo Pippo Calò. E' evidente, dunque, quanto antichi e radicati siano i rapporti di colleganza fra i Calò e i corleonesi. Di organigrammi più recenti parla ancora Buscetta, spiegando l' evolversi della gerarchia mafiosa. Dopo il triumvirato a capo della "commissione" balza Gaetano Badalamenti con Luciano Liggio "capo mandamento". All' arresto di Liggio (16 maggio ' 74) il suo posto viene preso da Salvatore Riina o da Bernardo Provenzano (8uscetta non ricorda bene). Nel ' 78 troviamo al vertice della piramide un altro Greco, Michele, detto "il papa" e nell' 80 prende posto nella "commissione" un altro Greco, Pino, quale capo della famiglia di Ciaculli. Più in là, Buscetta non va. E' l' epoca in cui viene messo agli arresti. Sarà incarcerato a Torino, poi fuggirà approfittando della semilibertà.

GLI OMICIDI - Il primo attrito tra Bontade e Badalamenti da una parte e i corleonesi dall' altra arriva con l' omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo (20 agosto 1977). La frattura d' allarga col delitto Reina, il segretario provinciale della Democrazia cristiana assassinato nel marzo del 1978. Comincia così a scricchilare la solidità e la compattezza della "commissione". I corleonesi tendono ad emarginare sempre più Stefano Bontade, Salvatore Inzerillo e Rosario Riccobono. I tre boss non vengono nemmeno avvertiti dell' esecuzione dell' esponente politico, pagando così il prezzo di un loro progressivo isolamento. L' offesa più cocente Salvatore Inzerillo la subisce con l' omicidio di Giuseppe Di Cristina, boss di Riesi, ucciso perchè ritenuto "troppo moderato". Non solo Inzerillo viene tenuto all' oscuro dell' operazione, ma l' esecuzione avviene dentro i confini del suo territorio, indirizzando così i sospetti della polizia proprio sull' inconsapevole "don Totuccio". La stessa regola vale per i successivi delitti compiuti all' insaputa dei tre boss ormai in disgrazia. In particolare per l' omicidio di Piersanti Mattarella, ex presidente della Regione, di Boris Giuliano, capo della Mobile e di Cesare Terranova, magistrato. Secondo il racconto di Buscetta i corleonesi ormai padroneggiano su tutto il campo tanto da pretendere l' eliminazione di due personaggi scomodi come i capitani Emanuele Basile (ucciso il 4 maggio 1980) e Mario D' Aleo (assassinato il 13 giugno 1983) comandanti della compagnia dei carabinieri di Monreale definita "un vero avamposto della lotta contro la mafia". Inzerillo cerca la riscossa e si vendica a sua volta decretando l' assassinio di Gaetano Costa, il procuratore della Repubblica che aveva firmato gli ordini di cattura contro gli affiliati al suo clan. Ma ormai la sorte dei "perdenti" è segnata. L' errore decisivo è quello di Stefano Bontade che cerca di stringere una alleanza di ferro con i capi degli altri clan dicendosi disposto a "uccidere personalmente Salvatore Riina, nel corso di una riunione della commissione". Il piano viene scoperto e Stefano Bontade viene trucidato il 23 aprile 1981. E' l' inizio della guerra di mafia. Poche settimane dopo tocca a Salvatore Inzerillo incaricato dalla commissione di consegnare cinquanta chilogrammi di eroina negli Stati Uniti. Viene freddato il 5 maggio dello stesso anno nonostante avesse comprato da poco una macchina blindata. E poi tocca agli uomini del clan Badalamenti, ai parenti della famiglia Inzerillo e allo stesso Tommaso Buscetta, accusato di voler riorganizzare le fila assieme a don Tano per risalire la china. Una strage inarrestabile dunque. In questo arco di tempo viene ucciso anche il professore Paolo Giaccone. (L' omicidio viene attribuito da Buscetta alla cosca dei Marchese). Muore anche l' agente della Mobile Calogero Zucchetto. Si arriva alla strage della circonvallazione, a Catania, per eliminare Alfio Ferlita e a quella Dalla Chiesa. Il primo è una sorta di "favore" resa dalla mafia palermitana a quella catanese. Il secondo vede la partecipazione degli uomini di Benedetto Santapaola, collegato con i corleonesi. Un favore ricambiato a colpi di kalashnikov, la stessa arma utilizzata per uccidere Bontade, Inzerillo e Ferlito. "I corleonesi avevano reagito alla sfida lanciata da Dalla Chiesa contro la mafia eliminandolo. Per altro - si legge nella motivazione dei magistrati - fatto questo veramente inquietante, qualche uomo politico della mafia si era sbarazzato di Dalla Chiesa divenuto ormai troppo ingombrante".

LA DROGA - Buscetta ha parlato infine del traffico di droga. Come già risultava da precedenti indagini, la trasformazione di morfina in eroina è stata effettuata, per un certo tempo, in laboratori clandestini comuni a tutte le famiglie. In questa attività, i catanesi hanno soprattutto compiti di trasporto. L' esportazione negli Stati Uniti, fa capo prevalentemente a Giuseppe Bono e ai Caruana e ai Cuntrera della famiglia di Siculiana. In sostanza si è riproposta, per il traffico di stupefacenti, una situazione pressochè identica al contrabbando di tabacchi, con utilizzazione dei canali in precedenza usati per tale attività, ormai in declino da alcuni anni. Non è un caso, infatti, che i personaggi indicati da Buscetta come quelli maggiormente implicati nell' importazione della droga dall' est asiatico (Nunzio La Mattina, Tommaso Spadaro, Giuseppe Savoca) siano quelli che, nel passato, erano ai vertici del contrabbando di tabacchi.

L’apparato strutturale, le regole e le attività di Cosa Nostra. Girolamo Alberto Di Pisa su l'identitadiclio.com il 6 Aprile 2020. Viaggio nel ventre dell’organizzazione criminale: il passato, gli uomini, i nuovi e i vecchi affari. Per comprendere a fondo Cosa Nostra e le vicende criminali che nel corso dei decenni l’hanno riguardata occorre preliminarmente conoscerne l’apparato strutturale, le regole e le principali attività. Fino a qualche decennio fa le notizie erano frammentarie e parziali, il che finiva con il non rendere efficace l’azione repressiva dello Stato. Soltanto a partire dagli anni Settanta, grazie alla attività di indagine delle forze dell’ordine ma soprattutto alla collaborazione di mafiosi, è stato possibile avere una chiave di lettura dall’interno del fenomeno. Il primo pentito di mafia fu Leonardo Vitale che, già nel 1973, colto da una crisi di coscienza, si presentò in questura rivelando quanto era a sua conoscenza sulla mafia e sui reati da lui commessi e da altri affiliati. Purtroppo allora gli investigatori e i magistrati non seppero cogliere appieno l’importanza delle sue confessioni, con la conseguenza che la mafia continuò indisturbata nelle proprie attività criminali. Vitale, dichiarato seminfermo di mente, fu condannato e, tornato in libertà dopo pochi mesi, venne ucciso. Era il 2 dicembre del 1984, cioè pochi mesi dopo l’inizio della collaborazione di Buscetta. Evidentemente le dichiarazioni del pentito, che furono allora riprese dagli inquirenti, rafforzavano l’attendibilità di Buscetta. La collaborazione di quest’ultimo iniziò nel luglio del 1984 quando giunse in Italia, estradato dal Brasile, a seguito di un ordine di cattura per traffico di stupefacenti emesso da chi scrive. Buscetta era un mafioso di spicco e un trafficante di stupefacenti, sospettato anche, dalla polizia brasiliana, di essere autore di due omicidi. La sua decisione di collaborare con la giustizia fu determinata non certo da istanze morali, ma da banali motivi di vendetta e dalla necessità di salvare la propria vita. Scatenatasi infatti la cosiddetta “guerra di mafia”, gli avversari, per stanarlo, gli avevano ucciso numerosi congiunti. Egli inoltre, mafioso di vecchio stampo, non si riconosceva più nel gruppo emergente dei corleonesi, che faceva capo a Totò Riina e Bernardo Provenzano, e che non rispettava più le tradizionali regole dell’organizzazione in seno alla quale egli era cresciuto. Si era quindi prefisso di distruggere la “nuova mafia” e di vendicarsi dei lutti subiti. In altri termini aveva deciso di rivolgersi alla Giustizia dello Stato per attuare la sua vendetta e per salvarsi la vita. Per inciso debbo dire che tra il sottoscritto e Buscetta – che ho avuto modo di incontrare più volte sia in America che in Italia, in occasione  di interrogatori condotti unitamente a Giovanni Falcone e agli altri giudici componenti del pool antimafia di quegli anni – non si creò mai, così come accadeva con gli altri magistrati, quello che potrebbe definirsi un feeling. Non ho mai compreso il motivo, forse una antipatia istintiva da parte mia nei confronti di un personaggio supponente, che voleva decidere modi e  tempi delle sue rivelazioni, e che era pur sempre un mafioso. Ritengo che da parte sua lo infastidisse la mia abitudine di interrompere il monologo cui era abituato, con domande, richieste di chiarimenti e quando era il caso, contestazioni, cosa che lo irritava senza che si premurasse di nasconderlo. Non vi è dubbio comunque che le rivelazioni di Leonardo Vitale prima e successivamente di Buscetta, di Contorno e di altri pentiti ci consentirono di infrangere quel muro di silenzio che fino ad allora aveva protetto Cosa Nostra e i suoi crimini rendendo possibile la conoscenza del suo apparato strutturale, delle regole e delle attività illecite. Ma soprattutto da queste dichiarazioni emergeva una realtà agghiacciante: accanto all’autorità dello Stato, esisteva un potere più incisivo e più efficace, quello della mafia. Il che rendeva impellente la necessità di reagire contro questa situazione inaccettabile. Dalle dichiarazioni dei vari collaboratori e dalle indagini degli investigatori coordinati e diretti dai magistrati componenti del pool antimafia di quegli anni nacque il maxiprocesso. Che ci consentì di portare alla sbarra, per la prima volta nella storia della Repubblica, ben 760 mafiosi, accusati di gravissimi reati che andavano dall’omicidio, alle estorsioni, al traffico di stupefacenti e di armi, ai reati contro la pubblica amministrazione. Quasi tutti vennero condannati in via definitiva. Passando all’assetto strutturale di Cosa Nostra (la parola “mafia” è un termine letterario che non viene usato dagli affiliati) questa è disciplinata da regole rigide non scritte ma che si tramandano oralmente. Disse allora  Buscetta: “Nessuno troverà mai elenchi di appartenenti a Cosa Nostra né attestati di alcun tipo, né ricevute di pagamento di quote sociali”.

La cellula fondamentale di Cosa Nostra è costituita dalla “famiglia”. Questa è una struttura che controlla una zona della città o un intero centro abitato da cui prende il nome. Così abbiamo ad esempio, la famiglia di Porta Nuova, la famiglia di Villabate, la famiglia di Palermo Centro e così via. La famiglia è composta da “uomini d’onore” o “soldati” (coordinati, per ogni gruppo di dieci, da un capodecina) ed è governata da un capo che viene eletto e che è assistito da un vice capo e da uno o più consiglieri. Al capo o rappresentante è affidato il comando della “famiglia” locale; il vice capo è colui al quale ci si rivolge in assenza del capo. Il consigliere è normalmente una persona anziana che ha doti di equilibrio e che ha il compito di dare veri e propri consigli  al capo e a tutti quelli della famiglia. La nomina dei capi delle “famiglie” locali avviene per elezioni cui partecipano tutti i soldati delle famiglie interessate.

L’attività della famiglia è coordinata da un organismo collegiale denominato “commissione” o “cupola”. Di questo organismo fanno parte i “capi mandamento” e, cioè, i rappresentanti di tre o più “famiglie” territorialmente contigue. In tempi più recenti venne istituito un organismo segretissimo denominato “interprovinciale” il cui compito era quello di regolare gli affari riguardanti gli interessi di più province. La “commissione” è presieduta da uno dei capi mandamento, denominato “capo”. La funzione di questa commissione è assicurare il rispetto delle regole di Cosa Nostra all’interno di ciascuna “famiglia”, e soprattutto di comporre le vertenze che dovessero insorgere fra le “famiglie”. La “commissione” inoltre è quella che delibera i delitti più gravi, come l’uccisione di un magistrato, di un politico, di un appartenente alle forze dell’ordine, di un giornalista, di un imprenditore e così via. Si tratta dei cosiddetti “delitti eccellenti”.

Vi sono poi le regole che disciplinano l’arruolamento degli uomini d’onore. I requisiti richiesti sono in primo luogo le doti di coraggio e di spietatezza (Leonardo Vitale, di cui si è detto, divenne uomo d’onore in seguito a un omicidio), una situazione familiare trasparente e soprattutto la assoluta mancanza di vincoli di parentela con “sbirri” cioè appartenenti alle forze dell’ordine. La prova di coraggio ovviamente non è richiesta per quei personaggi che rappresentano, come disse il pentito Salvatore Contorno “la faccia pulita della mafia” e cioè professionisti, pubblici amministratori, imprenditori che non vengono impiegati in azioni criminali ma che svolgono una copertura in attività apparentemente lecite. Una volta acquisito il consenso della persona a far parte di Cosa Nostra ha luogo la cerimonia formale del giuramento di fedeltà, consistente nel dare in mano al neofita una immagine sacra alla quale viene dato fuoco. Questi, dopo averla rigirata tra le mani e  imbrattata con il sangue sgorgato da un dito che gli viene punto, ripete la formula del giuramento. Lo status di uomo d’onore cessa soltanto con la morte di chi lo ha acquisito. Il mafioso ovunque risieda, in Italia o all’estero, rimane sempre tale. E, a proposito della situazione familiare trasparente, va ricordato che Buscetta venne espulso dalla mafia per avere avuto una vita familiare disordinata e soprattutto per avere divorziato dalla moglie. Nel caso in cui l’uomo d’onore commetta gravi violazioni viene espulso dall’organizzazione, nel gergo mafioso viene “posato”. In questo caso non può intrattenere rapporti con altri membri di Cosa Nostra, i quali sono tenuti addirittura a non rivolgergli la parola. Pare comunque che. sin dall’epoca di Buscetta e fino ad oggi, i criteri di arruolamento siano divenuti più larghi nella scelta dei nuovi adepti.

Per quanto riguarda le conoscenze del singolo uomo d’onore sui fatti di Cosa Nostra, queste dipendono dal grado che lo stesso riveste nell’organizzazione. Più sarà elevato, più avrà la probabilità di venire a conoscenza di fatti di rilievo. Una regola ferrea poi è quella per cui ogni uomo d’onore non può svelare ad estranei la sua appartenenza alla mafia né tanto meno i segreti di Cosa Nostra di cui sia a conoscenza. La violazione di questa regola quasi sempre è punita con la morte.

Altra regola fondamentale è quella secondo cui, quando gli “uomini d’onore” parlano tra loro di fatti attinenti a Cosa Nostra, hanno l’obbligo assoluto di dire la verità. Chi non dice la verità viene chiamato “tragediaturi” e può essere sottoposto a severe sanzioni che vanno dall’espulsione (in tal caso si dice che “l’uomo d’onore è “posato”) alla morte. In base a questo codice si comprende come bastino pochissime parole e perfino un gesto, perché uomini d’onore si intendano perfettamente tra loro. Così, ad esempio, se due uomini d’onore sono fermati dalla polizia a bordo di una autovettura nella quale viene rinvenuta un’arma, basterà un impercettibile cenno d’intesa fra i due, perché uno di essi si accolli la paternità dell’arma e le conseguenti responsabilità, salvando l’altro.

Dal codice di Cosa Nostra è anche regolamentata la presentazione di un uomo d’onore. Un uomo d’onore infatti non si può presentare da solo ad un altro membro di Cosa Nostra perché in questo caso nessuno dei due avrebbe la sicurezza di parlare effettivamente con una persona fidata. Occorre quindi l’intervento di un terzo membro dell’organizzazione che li riconosca entrambi come uomini d’onore e che li presenti tra loro in termini che diano l’assoluta certezza dell’appartenenza. Come ha spiegato il pentito Contorno, è sufficiente che l’uno venga presentato all’altro con la frase “questo è la stessa cosa” perché si abbia la garanzia che l’altro appartenga a Cosa Nostra. Altra regola fondamentale è quella che sancisce il divieto, per l’uomo d’onore, di passare da una “famiglia” all’altra. Anche se questo dettame, con in passare del tempo, non sempre veniva osservato: specialmente dopo le vicende della guerra di mafia che segnò l’imbastardimento di Cosa Nostra. Qualora un capo famiglia sia in carcere, per tutta la durata della detenzione viene sostituito dal suo vice in tutte le decisioni che occorre adottare, anche se il capo sarà sempre in grado di fare sapere al suo vice il proprio punto di vista. Ciò spiega come un capomafia, anche se detenuto, possa fare pervenire all’esterno i propri ordini, anche per la commissione di omicidi o di altri gravi delitti. Una volta scarcerato, il capo famiglia avrà il diritto di pretendere che il suo vice gli renda conto delle decisioni adottate.

Altra norma, anche se non assoluta, è il divieto all’uomo d’onore, durante la detenzione, simulare la pazzia nel tentativo di sfuggire alla condanna. Sembra però che questa regola non venga più seguita e sanzionata dato che si registrarono numerosi esempi di uomini d’onore detenuti che simularono la pazzia. Anche questo, a parere di Buscetta, era un ulteriore sintomo della degenerazione degli antichi principi di Cosa Nostra. Altro divieto assoluto fondamentale è fare ricorso alla giustizia dello Stato. L’unica eccezione riguarda i furti di veicoli subiti da un mafioso. Questi possono essere denunciati alla polizia per evitare che il proprietario possa venire coinvolto in eventuali fatti illeciti commessi con l’uso del veicolo. A questo proposito ricordo un episodio quasi umoristico. La moglie del capo mafia Michele Greco era solita rifornirsi di abbigliamento presso una boutique di Napoli; i capi le venivano spediti tramite servizio ferroviario regolarmente assicurati contro il furto. Una volta il pacco venne sottratto da ignoti. Ebbene, pur di non fare la denuncia che le avrebbe consentito di  ottenere il risarcimento del danno da parte della compagnia assicuratrice, preferì pagare i capi di abbigliamento malgrado non li avesse mai ricevuti.

Abbiamo visto per grandi linee la struttura dell’organizzazione mafiosa e le regole che la caratterizzavano secondo quanto riferito da Buscetta e da altri collaboratori. Va tuttavia detto che, negli anni successivi a tali dichiarazioni, con l’affermarsi del predominio della mafia corleonese, dei Riina e Provenzano, si era costituito un ristretto gruppo di potere sotto la guida di questi ultimi, che aveva esteso la propria egemonia sull’intera Sicilia, da est ad ovest. In questo periodo  le strutture e l’organizzazione di Cosa Nostra erano ormai divenute delle vuote forme adattate e stravolte dallo strapotere del gruppo dei corleonesi. Basti dire che Riina non convocava più la “commissione”, ma decideva indipendentemente da questa. Va però precisato che –  dalla recente operazione antimafia che ha portato all’arresto tra gli altri di Settimo Mineo, destinato ad essere il successore di Riina, e in particolare da alcune intercettazioni – è emerso che Cosa Nostra sta tornando alle vecchie regole svelate da Tommaso Buscetta, e di cui stiamo parlando. E che era in corso la ricostruzione della “commissione provinciale della mafia” che, di fatto, era stata privata di ogni potere a causa della dittatura di Totò Riina. Da quanto emerge dalle indagini Settimo Mineo, a differenza di Riina che gestiva  un potere assoluto, era invece un capo che cercava di mediare tra le vecchie e le nuove leve.

Dobbiamo ora parlare delle attività delittuose dell’organizzazione mafiosa sia quelle tradizionali che quelle che nel corso degli anni e fino ad oggi hanno caratterizzato questa organizzazione. Bisogna in primo luogo sgombrare il campo da un pregiudizio: quello secondo cui la vecchia mafia sarebbe un’organizzazione solidaristica, che aiuta i deboli e gli indifesi. Questa convinzione è frutto di ignoranza e di ingenuità. La mafia è ed è sempre stata una associazione per delinquere: ogni specie di delitti sono sempre stati alla base del suo potere. Basti pensare alle estorsioni, ai sequestri di persona, agli omicidi, al traffico di stupefacenti, alle tangenti e così via. Per non dire dello scempio dei cadaveri che, dopo essere stati uccisi, venivano sciolti nell’acido. Così come bisogna sfatare la leggenda secondo cui la mafia non toccherebbe le donne e i bambini. Tra i tanti casi basta ricordare quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido come ritorsione nei confronti del padre che aveva deciso di collaborare con l’autorità giudiziaria. O quello di Claudio Domino, un bambino di appena 11 anni freddato con un colpo di pistola perché aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Numerosi comunque sarebbero gli esempi di assassinio consapevole di donne e bambini da parte della mafia. Una prima esigenza di Cosa Nostra è quella di tenere sotto controllo il territorio di competenza della “famiglia”. Ciò ha luogo mediante la imposizione della protezione con la minaccia di danneggiamenti preceduta da qualche consiglio o da qualche telefonata. In alcuni casi è la stessa persona interessata che si rivolge al rappresentante della famiglia nel cui territorio, ad esempio, esercita la propria attività commerciale, per la cosiddetta “messa a posto”. Nessuna attività criminale di un certo rilievo può essere compiuta senza l’autorizzazione della “famiglia” competente. La trasgressione di questa regola in passato si risolveva con una semplice bastonatura, oggi può risolversi anche con la morte del trasgressore. Ricordo che negli anni Ottanta numerosi omicidi, commessi dalla famiglia di Corso dei Mille, furono dovuti a delle rapine ad opera di delinquenti comuni che avevano agito senza avere preventivamente richiesto il permesso della “famiglia”.  In ogni caso, nessun omicidio può essere commesso senza l’autorizzazione del capo famiglia, che stabilisce anche il luogo. Anche le attività lecite, come ad esempio le imprese di costruzione, o altre attività economiche, non si sottraggono al controllo territoriale del gruppo. Nel caso di delitti cosiddetti “eccellenti” (magistrati, politici, appartenenti alle forze dell’ordine, giornalisti), questi non possono essere eseguiti senza la deliberazione e l’ordine della commissione. In questi casi è la stessa commissione che sceglie gli esecutori in qualsiasi famiglia senza informarne il capo. Così, ad esempio, i killer del capitano dei carabinieri Emanuele Basile furono scelti tra gli appartenenti a tre diverse famiglie mafiose.

Girolamo Alberto Di Pisa. Entrato in magistratura nel maggio 1971 è stato destinato con funzioni di Pretore, della Pretura mandamentale di Castelvetrano, (provincia di Trapani) zona ad alta densità mafiosa. Nel 1976 è stato trasferito alla Procura della Repubblica di Palermo con funzioni di Sostituto Procuratore dove, come componente del c.d. “Pool antimafia”, si è occupato prevalentemente di indagini e processi riguardanti la criminalità mafiosa e reati contro la pubblica amministrazione. Nel 2003 ha ricoperto l’incarico di Procuratore della Repubblica di Termini Imerese fino al 2008 anno in cui è stato nominato Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala. Nel gennaio del 2016 è andato in pensione. Attualmente ricopre l’incarico di Commissario Straordinario del libero consorzio comunale di Agrigento.

Commissione Parlamentare Antimafia 17 novembre 1992. AUDIZIONE DEL COLLABORATORE DELLA GIUSTIZIA TOMMASO BUSCETTA

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LUCIANO VIOLANTE  

(Da archivio antimafia.org)

La seduta comincia alle 10,35.  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sui lavori della Commissione.

PRESIDENTE. Prima di dare inizio all'audizione prevista all'ordine del giorno, do la parola all'onorevole Taradash.

MARCO TARADASH. Signor presidente, prendo la parola per porre la questione della pubblicità dell'audizione del collaboratore della giustizia Buscetta, riguardo alla quale mi sembra che si sia creata all'esterno un'aspettativa, maturata anche dopo l'audizione di Calderone, che credo non giovi ai lavori della Commissione, il cui compito è quello di investigare anche sui rapporti tra mafia e politica. La magistratura, o almeno la parte più corretta di questa, ha sempre avuto una gestione dei pentiti ben sapendo che tra quello che dice il pentito e la verità c'è almeno lo spazio del riscontro; invece, se le nostre audizioni continuano ad essere come quella di Calderone, in realtà non vi è alcuna gestione da parte della Commissione delle posizioni assunte dai pentiti. Credo che questo sia il nostro problema. E' molto importante ascoltare personaggi ritenuti di grande attendibilità ma non possiamo dare per scontato che tutto ciò che viene detto sia vero né possiamo eccedere nello zelo e trasformare in fatti concreti quelle che sono soltanto cose sentite. Ritengo che mantenere un certo riserbo sulle audizioni di questo tipo giovi al lavoro della Commissione. Dovremmo perciò dichiarare segreta la seduta odierna ed affidare all'ufficio di presidenza il compito di riferire, attraverso una conferenza stampa, quello che si riterrà opportuno, mantenendo riservate le parti che debbono divenire materia di lavoro della Commissione.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola ad un oratore per gruppo su tale questione, informo i colleghi di avere inviato, il 12 novembre scorso - il giorno successivo all'audizione di Calderone - ai Presidenti di gruppo della Camera e del Senato e, per conoscenza, ai Presidenti della Camera e del Senato la seguente lettera: "Onorevole Presidente, alcuni colleghi appartenenti a diversi gruppi parlamentari hanno presentato atti idonei a provocare un dibattito d'aula in relazione a dichiarazioni rese a questa Commissione dal collaboratore della giustizia Antonino Calderone nel corso di un'audizione svoltasi l'11 novembre 1992. Tale audizione si inquadra in un'indagine sui rapporti tra mafia e politica che la Commissione a larghissima maggioranza dei suoi componenti ha formalmente deliberato di condurre e che concluderà, probabilmente, entro il prossimo mese di dicembre. E' di tutta evidenza che ogni elemento raccolto nel corso dell'indagine predetta dovrà essere sottoposto ad un rigoroso accertamento per valutarne fondatezza e idoneità e dar luogo a conclusioni di carattere politico. Al termine dei lavori la Commissione presenterà al Parlamento un'apposita relazione. Non sfuggirà certamente alla sua sensibilità che le iniziative parlamentari condotte sulla base di elementi acquisiti dalla Commissione prima che ne siano state valutate fondatezza ed attendibilità rischiano di favorire, indipendentemente dalle intenzioni dei proponenti, distorsioni interpretative dannose per la reputazione di singole persone e per il lavoro stesso della Commissione. D'intesa con l'ufficio di presidenza ho ritenuto di sottoporre alla sua attenzione le considerazioni che precedono per le valutazioni che ella riterrà opportuno trarne. Prima di inviare questa lettera ho interpellato tutti i colleghi dell'ufficio di presidenza, ad eccezione dell'onorevole Tripodi con il quale, nonostante numerosi tentativi, non sono riuscito a mettermi in contatto.

MASSIMO BRUTTI. Anche secondo me è giusto fare una valutazione prudente delle dichiarazioni rese dal collaboratore della giustizia Calderone e di quelle che renderà oggi il collaboratore Buscetta. Non si può non deplorare il fatto che l'audizione odierna sia stata in qualche modo resa nota da alcuni organi di stampa e poi ripresa "a cascata" da tutti gli altri. Stabilire a priori il segreto su quanto verrà oggi qui detto non è del tutto giusto poiché non sappiamo ancora come si svolgerà l'audizione. Peraltro, fissare un vincolo rigido di segretezza può accentuare la fuga di notizie, le indiscrezioni che l'uno o l'altro può lasciarsi sfuggire all'esterno. Direi quindi che, senza adottare un criterio generale rigido, possiamo ora ascoltare il collaboratore delle giustizia Buscetta, il quale probabilmente, come ha fatto Calderone, renderà spontaneamente una dichiarazione, alla quale seguiranno le domande predisposte dal presidente. La mia proposta è di procedere all'audizione riservandoci di decidere al termine di essa, sulla base di quello che avremo sentito, quali parti debbano essere poste sotto il vincolo della riservatezza e quali, invece, possano essere rese pubbliche senza difficoltà e senza problemi. Credo che, in generale, l'opinione pubblica abbia il diritto di conoscere notizie circa il funzionamento dell'organizzazione criminale della quale questi collaboratori ci parlano ed anche circa la rete di connivenze e di complicità. Tuttavia, se dovessero esservi motivi fondati per non rendere note alcune parti, potremo prendere tale decisione al termine dell'audizione.

ROMANO FERRAUTO. Credo che l'iniziativa assunta dal presidente sia opportuna e la condivido, anche sulla base del ragionamento fatto poco fa dal collega Taradash circa l'attendibilità delle affermazioni che vengono fatte. Dunque, intervenendo proprio nel merito della pregiudiziale Taradash, ritengo che debba essere rinviata al termine dell'audizione la valutazione in merito alle rivelazioni che potrà fare il pentito Buscetta, decidendo in quella sede quali parti possano essere comunicate alla stampa e quali, invece, meritino una riservatezza particolare.

MARCO TARADASH. Saranno quelle che tutti conosceranno prima, allora!

ROMANO FERRAUTO. Concordo con la proposta di mantenere segreta l'audizione, per poi valutare rapidamente i fatti alla sua conclusione.

GIROLAMO TRIPODI. Desidero innanzitutto dare atto al presidente dell'iniziativa che ha preso e dichiarare che concordo con la posizione molto responsabile che ha assunto prospettando ai Presidenti delle due Camere l'inopportunità che nelle aule parlamentari si discuta di cose delle quali la Commissione antimafia si sta occupando. Detto questo, ritengo anch'io che dobbiamo evitare che quanto ascolteremo abbia eccessiva diffusione ed anche interpretazioni diverse. Ciò non toglie che alla fine dovremo trovare il modo di informare l'opinione pubblica nazionale, per evitare di trovarci poi di fronte a fughe di notizie che, invece, avrebbero potuto essere date dalla Commissione. Condivido dunque la proposta, avanzata dal collega Brutti, di decidere al termine dell'audizione quali parti debbano essere mantenute segrete e quali possano essere rese pubbliche. Decideremo anche se affidare al presidente l'incarico di comunicare, eventualmente attraverso una conferenza stampa, quanto si ritenga giusto. Chiarito questo punto, desidero anche precisare che se ognuno di noi ha assunto le posizioni che riteneva opportune quando abbiamo varato il programma, adesso il lavoro che abbiamo deciso e che abbiamo iniziato a svolgere non può essere messo in discussione anzi, dobbiamo dimostrare in ogni momento molta serietà, per non trovarci di fronte ad un'oscillazione di posizioni che potrebbe ostacolare lo svolgimento stesso del lavoro che ci siamo proposto.

ALTERO MATTEOLI. Non vi è dubbio che la pregiudiziale posta dall'onorevole Taradash abbia una forte motivazione. Ma devo essere sincero: senza offendere nessuno, ritengo ridicolo parlare di segretezza stamani, dopo quello che è accaduto da venerdì in poi. Neanche i rappresentanti di gruppo in Commissione - tra i quali rientro anch'io - erano stati informati su chi fosse il pentito che avremmo dovuto ascoltare oggi ed alcuni colleghi di gruppo - fortunatamente non si tratta del mio caso - sono arrivati a pensare che questi sapessero il nome ma non volessero dirlo. Dopo di che - altro che qualche indiscrezione! - abbiamo letto sui giornali ed ascoltato da radio e televisione tutte le notizie possibili sul "posto segreto".  Aggiungo che non sono assolutamente d'accordo con la proposta di delegare all'ufficio di Presidenza il compito di tenere una conferenza stampa perché, non me ne vogliano i colleghi dell'ufficio di presidenza, ritengo che i maggiori responsabili di quanto è accaduto siano loro.  Pensiamo anche al modo in cui è stato organizzato il nostro arrivo qui: siamo stati per mezz'ora davanti al palazzo di Montecitorio ad aspettare, come tanti ragazzini, un mezzo che ci conducesse in questa sede. Come tanti ragazzini, lo ripeto, mentre alcuni colleghi si sono alzati alle 4 o alle 5 del mattino per essere puntuali all'audizione! Quindi, non delego a nessuno la conferenza stampa e trovo assurdo che si parli di segretezza quando non siamo stati capaci di tenere segreta un'audizione così importante come quella odierna.  Cosa vogliamo fare? Stabilire che la seduta sia segreta mentre poi ciascuno di noi - includo anche me - si rivolgerà al giornalista amico per fornire indiscrezioni? E' assolutamente fuori luogo il solo avanzare la proposta di seduta segreta, visto il comportamento che è stato tenuto.  Dunque, che la seduta sia pubblica. Saranno i giornalisti a valutare ciò che vorranno o non vorranno scrivere e questa decisione sarà rimessa alla loro responsabilità, non a quella di qualcuno di noi.

GIOVANNI FERRARA SALUTE. A me pare che non vi sia alcun bisogno di esprimere un giudizio critico sull'accaduto. Il dato di fatto è che queste cose non sono segrete, non possono rimanerlo e - per inciso - io mi chiedo anche se sia giusto. Dopo tutto, noi siamo parlamentari, responsabili verso il corpo mistico del Parlamento italiano; siamo gli eletti dal popolo, responsabili verso gli elettori e non capisco perché io, ad esempio, dovrei tenere nascosto ai miei elettori quanto ho saputo nell'esercizio dell'attività parlamentare. Ma questa è una questione di principio che non possiamo risolvere qui. In pratica, se dopo l'audizione odierna (prescindo dal fatto se essa debba tecnicamente essere segreta o meno, perché si tratta di una scelta importante ma secondaria) i componenti della Commissione faranno i misteriosi, per cui all'esterno si viene a sapere che in questa sede sono state dette alcune cose che la Commissione ha ritenuto di tenere segrete, il risultato sarà in primo luogo che queste cose diventeranno ugualmente pubbliche; e in secondo luogo, che si speculerà sul fatto che la Commissione voglia tenerle segrete, quasi vi fossero comuni interessi inconfessabili da tutelare; in terzo luogo, si fantasticherà sulla base di ciò che verrà rivelato, per cui non avremo una realtà correttamente censurata ma del tutto deformata. A mio avviso, è perfino più pericoloso, sotto il profilo della serietà, cercare di mantenere il segreto. Esistono, invece, problemi più specifici: possono emergere in questa sede notizie che è necessario rimangano segrete per non intralciare la prosecuzione delle indagini giudiziarie; si tratta di una selezione che personalmente non sono in grado di fare e che più opportunamente potrà essere fatta solo in virtù di un rapporto con l'autorità giudiziaria che sta compiendo determinate indagini. In questo senso, e solo in questo senso, bisogna chiedersi cosa effettivamente possa essere utile non diffondere: a tal fine, ritengo che la presidenza possa avere l'autorità di operare una simile selezione; per il resto, mi rimetterei ad un rapporto responsabile ma realistico con l'opinione pubblica e con la stampa.

LUIGI BISCARDI. Desidero associarmi ai rilievi che sono stati mossi in ordine all'ampia informazione che è stata data dell'audizione odierna. Da ciò conseguono due esigenze: da un lato, quella dell'informazione che dobbiamo fornire all'opinione pubblica che di certo attende notizie; dall'altro, quella della riservatezza da parte della Commissione, soprattutto per ciò che concerne alcuni aspetti che possono risultare importanti per le indagini in corso. Ho ascoltato l'intervento del collega Ferrara Salute e sono anch'io convinto che debba esservi un rapporto tra parlamentari ed opinione pubblica ma credo che la Commissione possa dare alla presidenza il mandato di redigere un comunicato ufficiale che indichi i passi cruciali dell'audizione, naturalmente con la cautela necessaria in occasioni come queste.

MAURIZIO CALVI. Vorrei sottolineare che sotto il profilo istituzionale esiste un obbligo per tutti i membri della Commissione quando questa assuma i poteri della magistratura; in questo senso, non vi è dubbio che, nel momento in cui agiamo come una Commissione d'inchiesta, il requisito della riservatezza deve essere ancor più assicurato. Il secondo aspetto riguarda il fatto (previsto dalla legge) che i

commissari sono tenuti all'obbligo della riservatezza e sono sottoposti a tutte le conseguenze, anche di carattere penale (lo dico tra virgolette), nel momento in cui questa venga meno.  Si devono fare valutazioni non solo politiche ma anche di ordine istituzionale e queste ultime debbono risultare assorbenti in questa fase, altrimenti si corre il rischio di far venir meno gli effetti del lavoro compiuto dalla Commissione ai fini della relazione conclusiva che essa presenterà al Parlamento. A mio avviso, in questa fase si rafforza l'elemento della riservatezza, nel senso che i membri della Commissione sono tenuti ad offrire all'esterno valutazioni in qualche modo contenute. Se riuscissimo a mantenere la riservatezza di cui ho detto, certamente aumenterebbe anche l'interesse del paese nei confronti del nostro lavoro (un lavoro più esposto di altri, proprio per il carattere particolare della materia) e la considerazione nei confronti della Commissione. Per tali ragioni, riterrei opportuno in questa fase mantenere la segretezza dei nostri lavori, fermo restando che al momento della predisposizione della relazione finale sarà possibile offrire all'opinione pubblica una serie di elementi di carattere generale. Sotto tale profilo, condivido l'osservazione del collega Taradash relativamente all'obbligo della riservatezza, salvo un giudizio di carattere generale che potrà in seguito essere espresso.

OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Concordo con l'onorevole Taradash e con gli argomenti da questi portati, argomenti che non ripeterò. Mantenere la riservatezza mi sembra doveroso, anche perché tra ciò che viene affermato qui e l'effettiva verità vi è tutto l'aspetto del riscontro, che impone l'obbligo della riservatezza. Probabilmente abbiamo fatto male a non porci il problema già in occasione dell'audizione di Antonino Calderone. Se poi qualcuno verrà meno all'obbligo della riservatezza, diremo che egli ha violato una regola etica: non possiamo sostenere l'opportunità di fare a meno della riservatezza in ragione del fatto che qualcuno la violerà.  Per quanto riguarda la conferenza stampa, riterrei più sensato decidere se e come tenerla alla fine dell'audizione odierna, valutando anche l'eventualità di diramare un comunicato.

MASSIMO SCALIA. Non ripeterò le osservazioni del collega Ferrara Salute, che condivido puntualmente. Ritengo che la questione della riservatezza vada affrontata dal punto di vista metodologico, a meno che nello stabilire cosa sia riservato non ci si voglia riferire al buon senso e ad elementi pragmatici. A proposito del segreto istruttorio - problema sollevato dal collega Ferrara - proporrei al presidente di sottoporre alla Commissione, dopo lo svolgimento dell'audizione, quali aspetti di essa possano configurare ipotesi ricadenti sotto la fattispecie del segreto istruttorio, che è il solo che in qualche modo mi fa sentire vincolato a certi comportamenti. Tutto il resto, infatti, mi sembra francamente assai poco definito. Ad esempio, può configurare riservatezza una conferenza stampa, da chiunque indetta? Dobbiamo, quindi, decidere anche su questi aspetti del problema perché altrimenti, se tutto non viene definito in modo preciso, l'unico limite che possiamo porci - lo ripeto - è quello del segreto istruttorio.

ALFREDO GALASSO. Ritengo che le complicazioni nascano da un errore iniziale, quello di aver deciso di ascoltare i pentiti mentre sono in corso indagini giudiziarie. E' inutile, quindi, star qui a stracciarsi le vesti.  La questione che ora ci si pone è quella della sicurezza che può scaturire sia dalla segretezza sia dal suo contrario, vale a dire dal massimo della trasparenza. Poiché non credo che la responsabilità sia dell'ufficio di presidenza o del presidente, dico subito che sono stupefatto di quanto è accaduto: non riesco a capire per quale motivo un'audizione, che avrebbe dovuto essere segreta per ragioni di sicurezza, sia stata pubblicizzata in un modo tanto eccessivo, con un contorno di dichiarazioni e di aspettative tali da rappresentare - e lo dico senza esitazioni - quasi una provocazione. Siccome, sulla base della mia esperienza, considero ciò nient'affatto casuale, mi riservo di chiedere una discussione approfondita nel merito, che vada al di là

della protesta per il modo in cui è stata platealmente pubblicizzata l'audizione di oggi. Ritengo che vi sia qualcosa di più profondo, che va analizzato e puntualmente approfondito.  Una volta superate, mi auguro senza danno, le conseguenze di questa grave negligenza della disciplina della sicurezza, non penso ci sarà alcuna ragione - non foss'altro che per non creare disparità di trattamento in tutte le direzioni - per svolgere un'audizione segreta. Sul punto si potrà eventualmente decidere dopo, ma il mio parere è nettamente contrario perché si stanno "pasticciando" mille cose: la sicurezza, il riserbo, il riguardo dovuti alle persone che eventualmente potranno essere nominate, le aspettative che possono essersi create. Stando così le cose, sul piano politico-istituzionale la migliore difesa per la Commissione è proprio quella della visibilità, della trasparenza, quindi della pubblicità. Ritengo necessario, signor presidente, sottolineare l'assoluta opportunità di una riflessione - anche prima dell'epoca prevista - su queste vicende, in particolare sulla natura delle rivelazioni dei cosiddetti pentiti. Abbiamo infatti il dovere di fare chiarezza sul piano politico-istituzionale: non è possibile che i pentiti vengano immediatamente creduti, allorquando si tratta di accusare 200 o 300 persone, che poi vanno in galera, mentre quando si parla di politici o di magistrati, altrettanto immediatamente vengono considerati inattendibili. Così non va assolutamente bene! Ed è questione, presidente, che ci riguarda direttamente, perché è politica ed istituzionale e non giuridica. Ribadisco, quindi, la necessità di affrettare i tempi di un dibattito sul tema, magari attraverso la fissazione di una seduta straordinaria. Concludendo, desidero precisare che concordo soltanto sulla prima parte della lettera inviata dal presidente ai Presidenti delle Camere e non sulla seconda perché, a mio avviso, ciascun parlamentare deve assumersi - se non viola alcuna norma di legge - la responsabilità di presentare le interpellanze che crede avendo il diritto e il dovere di valutare ed in qualche caso di esplicitare quanto ha ascoltato: singolo o gruppo che sia.

ALFREDO BIONDI. L'atmosfera da "gita scolastica" di questa mattina ha davvero un po' turbato tutti perché abbiamo avuto la sensazione - o almeno l'ho avuta io - che la riservatezza quanto meno non fosse accompagnata al genio dell'organizzazione. Elevo una formale protesta, perché è perfettamente inutile pretendere da noi comportamenti coerenti, seri e riservati dopo ciascuna audizione quando sui giornali si legge quel che si legge. Stamani ho telefonato a mia moglie per dirle che andavo a una riunione un po' segreta; lei mi ha risposto: "La Gazzetta del lunedì dice che interrogate Buscetta". Siccome è l'ultimo giornale in Italia ad avere le notizie fresche, ciò significa che la notizia era davvero stagionata!  Queste situazioni francamente dispiacciono perché creano il problema opportunamente posto dal collega Ferrara, vale a dire fino a che punto si possa tenere nascosta una cosa di cui la gente si aspetta di aver contezza ed oltre quale limite l'esigenza di dar conto delle azioni che ciascun parlamentare compie - anche nella sua qualità di rappresentante di interessi e di valori - non impinga nelle realtà processuali, nella reputazione delle persone; aspetto, questo, non certamente trascurabile ed opportunamente richiamato dal collega Galasso quando sottolineava il valore delle parole di chi accusa tutti o qualcuno, sceglie le accuse stesse, utilizza gli spazi vuoti che gli si presentano magari per levarsi qualche soddisfazione personale e forse non solo personale, visto che molte volte le domande sollecitano le risposte. Basta leggere i verbali e chi li legge per mestiere sa benissimo che certe cose vengono fuori a seconda delle sollecitazioni che si fanno, mentre altre invece si glissano, sicché appare un aspetto piuttosto che un altro o per lo meno non appare tutto ciò che noi vorremmo invece dimostrare esistere per essere fonte di prova.  Ci troviamo, dunque, di fronte a questo problema: possiamo limitare le notizie quando il consesso di cui mi onoro di far parte è così numeroso e non controllabile sul piano personale, politico e parlamentare? Diceva bene il collega Galasso allorquando si chiedeva fino a che punto ciascuno possa contenere i propri doveri di esplicitazione. Non ho risposta per la domanda che ho posto, ma posso portare il contributo della mia esperienza. Ho fatto parte della Commissione di inchiesta sugli eventi del giugno-luglio del 1964, cioè della cosiddetta "Commissione SIFAR". Anche allora si interrogavano persone molto importanti o presunte tali in ragione della loro collocazioni in settori della vita militare, politica ed amministrativa. Onestamente devo dire che tutti hanno ottemperato all'impegno di non dir mai nulla. Non dimentichiamo, inoltre, che in processi anche molto gravi, sui quali le notizie sono molto attese, i giudici - che sono pure numerosi in camera di consiglio, come capita nelle giurie popolari - non raccontano di certo quello che è accaduto in tale sede.  Penso che tutti noi si debba assumere l'impegno d'onore che alcune cose - che possiamo individuare a conclusione del l'audizione - non vanno dette perché, come diceva il professor Biondi (mio omonimo ma non parente) "'un è utile e 'un si pole". Chi le dice commette un fatto disdicevole sul piano etico, come ha sostenuto poc'anzi la collega Fumagalli Carulli. Oppure diciamo che siamo tutti liberi, ma non procediamo alle "somministrazioni" parziali attraverso un comunicato, accompagnato dalle dichiarazioni del più disinvolto tra noi. Procedere in tal modo è pericoloso, incontrollabile e fa correre il rischio di dare una valutazione strumentale che può indebolire le conclusioni finali alle quali si perverrà. Senza un'analisi, uno studio, una "camera di consiglio" al termine della quale esprimere un giudizio complessivo, si corre il rischio di svolgere un lavoro inutile e dannoso. Dunque, si cominci da oggi, perché l'audizione precedente è stata ampiamente considerata un esperimento da non ripetere, sia dagli organi di stampa sia dalle interrogazioni parlamentari presentate.  Questa è la mia opinione, che non intendo imporre agli altri: esorto però a decidere, assumiamo impegni precisi - stavo per dire da "uomini d'onore", ma in questa sede non è conveniente! - da persone perbene, e rispettiamoli. Per il resto, affidiamo all'ufficio di presidenza il compito di fornire le notizie che non interessano a nessuno: l'opinione pubblica vuole vedere l'iride, non vuole meline, vuole capire che cosa è davvero successo. Ma se ciò non può essere detto perché crea problemi alle indagini o alle persone, assumiamo l'impegno di non dirlo. Per quanto mi riguarda, assumo tale impegno pur essendo tra i più loquaci, come ho dimostrato sempre.

FERDINANDO IMPOSIMATO. Ho già avuto occasione di manifestare le mie perplessità sulle audizioni dei collaboratori della giustizia perché temevo si verificasse quanto puntualmente sta accadendo. Tuttavia, una volta deciso di ascoltare i collaboratori della giustizia considerata la disponibilità dei magistrati a permettercelo, credo che il rischio di interpretazioni, falsificazioni o strumentalizzazioni delle dichiarazioni di Buscetta, e degli altri che incontreremo, non possa essere assolutamente evitato. Non penso che l'impegno di non parlare possa essere rigorosamente mantenuto, perciò ritengo che l'unica possibilità di evitare strumentalizzazioni sia di dare pubblicità all'audizione di Buscetta.  In proposito, vorrei richiamare alla vostra attenzione un particolare importante: quando sono stati emessi i mandati di cattura nei confronti di taluni mafiosi a seguito delle dichiarazioni di Marchese e Mutolo, la stampa era in possesso della copia dell'ordinanza di custodia cautelare che saggiamente, secondo me, la polizia giudiziaria - d'accordo con i magistrati - aveva consegnato. E' stata proprio la possibilità data alla stampa di leggere le dichiarazioni ad evitare quegli interventi strumentali che senz'altro si sarebbero verificati.  Ritengo sia possibile impedire la strumentalizzazione delle dichiarazioni di Buscetta solo consentendo alla pubblica opinione di partecipare all'ascolto delle dichiarazioni dei pentiti, come del resto avviene negli Stati Uniti d'America, dove le audizioni dei mafiosi vengono trasmesse in televisione. Ovviamente, ciò non significa che le dichiarazioni rappresentino il Vangelo, perché devono essere verificate e riscontrate, ma questo è un lavoro che svolgeremo noi da una parte ed i magistrati dall'altra. Ciò non toglie, ripeto, che così facendo si eviterà a qualcuno di noi il ricorso a dichiarazioni strumentali, parziali o faziose sulle affermazioni di Buscetta.

PRESIDENTE. Mi rincresce per l'inconveniente segnalato dai colleghi Biondi e Calvi che, devo dirlo, non è dipeso dagli uffici del Parlamento, in quanto del trasferimento dei parlamentari si erano incaricati gli uffici di polizia. Anzi, la Camera è intervenuta con una certa rapidità per mettere a disposizione mezzi e consentire ai parlamentari di giungere in tempo. Ci attiveremo affinché per il futuro non si ripetano più questi fastidiosi inconvenienti. Per quanto riguarda la questione di merito, sono state avanzate diverse proposte: quella di procedere in seduta segreta - che a norma di regolamento deve essere sostenuta da cinque membri della Commissione - sarà posta immediatamente in votazione, salvo la possibilità, in una successiva verifica, di valutare quali parti dell'audizione possano essere rese pubbliche. Voglio dire ai colleghi che a conoscenza dell'audizione del signor Buscetta erano formalmente i capigruppo, i componenti l'ufficio di presidenza (ai quali è stato consegnato venerdì un riassunto delle dichiarazioni di Buscetta), gli uffici di polizia che trattano con il signor Buscetta, e che non avevano alcun interesse a divulgare la notizia, nonché alcuni uffici giudiziari.  Devo altresì ricordare alla Commissione che, a seguito d'intese intervenute con le autorità giudiziarie di Palermo, non verranno poste domande su due specifiche questioni su cui sono in corso indagini preliminari da parte di quell'autorità. Per il resto, l'autorità giudiziaria palermitana non ha posto difficoltà né sulla forma né sull'estensione dei quesiti.

ALTERO MATTEOLI. Signor presidente, non ho ben compreso di quali questioni si tratti.

PRESIDENTE. Infatti, non le ho riferite essendo materia di indagine. Forse non mi sono spiegato: l'autorità giudiziaria di Palermo ha chiesto di non porre domande su due questioni che naturalmente ha indicato ma che per delicatezza io non dirò.

GIUSEPPE MARIA AYALA. E' corretto muoversi in tal senso.

ALFREDO GALASSO. L'autorità giudiziaria di Palermo dice a noi che cosa dobbiamo o non dobbiamo chiedere?

ALTERO MATTEOLI. Se non sappiamo di che cosa si tratta, rischiamo di porre al signor Buscetta proprio queste domande.

PRESIDENTE. Semmai, onorevoli colleghi, pregherò di non insistere su una particolare domanda. E' lo stesso criterio seguito la volta scorsa.  Nella prima parte dell'audizione verranno poste alcune domande al signor Buscetta, poi seguirà una sospensione. Il signor Buscetta uscirà dalla sala in cui ci troviamo e i colleghi potranno formalizzare altre domande da porre. A quel punto, se tra le domande che i colleghi formuleranno rientrerà anche la materia indicata dai giudici di Palermo, pregherò i colleghi di non insistere.

ALFREDO GALASSO. Insisto affinché al termine della seduta si svolga una discussione, perché non si può andare avanti così.

ALFREDO BIONDI. Non credo che i magistrati possano dirci quello che dobbiamo fare. E' un questione di principio!

PRESIDENTE. Può darsi, ad ogni modo, che non venga posta alcuna domanda sulle questioni indicate dalle autorità giudiziarie di Palermo.

ROMEO RICCIUTI. Siamo avvisati per il futuro.

ALTERO MATTEOLI. Signor presidente, vi un'altra questione che intendo evidenziare. Siamo tutti membri della Commissione, con gli stessi diritti e gli stessi doveri. Il presidente non può essere a conoscenza di notizie diverse rispetto a quelle note agli altri commissari, altrimenti si tratta di una gestione personalistica, che non possiamo accettare.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta di svolgere in seduta segreta l'audizione del signor Tommaso Buscetta. Al termine dell'audizione, decideremo se e secondo quali modalità rendere pubbliche alcune parti della medesima e in che modo dare informazioni all'esterno. 

(La Commissione approva).

(E' accompagnato in aula il signor Tommaso Buscetta).

Audizione del collaboratore  della giustizia Tommaso Buscetta.

PRESIDENTE. Signor Buscetta, le chiedo di declinare le sue generalità.

TOMMASO BUSCETTA. Mi chiamo Buscetta Tommaso, sono nato a Palermo il 13 luglio 1928.

PRESIDENTE. Intende svolgere una dichiarazione preliminare?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, preferirei: sono stato invitato, negli ultimi anni, dalla Commissione del Senato americano sulla criminalità ed anche lì mi hanno chiesto di preparare una relazione prima di presentarmi a loro, in modo che avrebbero potuto farmi delle domande sulla mia relazione. Così ho fatto. Se voi volete, posso fare così.

PRESIDENTE. Ha già preparato una relazione?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Va bene, la esponga.

TOMMASO BUSCETTA. Premetto che sono un uomo libero. Non ho più nessun conto da regolare con la giustizia. La mia presenza in questa sala è volontaria; non avrò più sconti di giustizia, non dovrò particolari ringraziamenti. Vengo in nome di quella causa che abbracciai nel 1984. Credo fermamente che l'apporto dei collaboratori, così come è visto oggi, sia una cosa molto importante. Non perdetelo di vista: è una cosa che mai si era verificata in un processo siciliano, cioè di avere collaborazione da parte di gente appartenente a Cosa nostra.  Vorrei chiarire - datemi l'opportunità di dire - che alcuni giornali, qualche politico parlano di suggerimenti. Non sono stato mai "suggerito" da nessuno. E' una cosa che mi offende. Io ho suggerito agli altri, non sono stato mai "suggerito" ed ho scelto una mia linea di condotta indipendentemente dai suggerimenti che mi potessero arrivare. Che sia ben chiaro. Perché si deve sfatare questa continua rincorsa: il politico al giornale, il giornale al politico, il politico al giornale e si fanno dei processi su cose inesistenti. Vorrei che questa mia presenza, per lo meno desidererei...scusate il mio italiano che è quello di un uomo che ha fatto la quinta elementare e certe volte fa confusione; questi sono i miei limiti. Vedo molto consenso oggi. La morte dei due giudici ha dato la possibilità che lo Stato italiano si svegliasse da quel torpore che l'ha sempre accompagnato, dal 1984 fino a pochi mesi fa, e desse quel contributo che doveva dare come forze di Stato per combattere il fenomeno mafioso.  Il fenomeno mafioso non è comune, non è il brigatismo, non è la solita criminalità di cui la polizia si intende (e la combatte bene). Il fenomeno mafioso è qualcosa di più importante della criminalità: è la criminalità più l'intelligenza e più l'omertà. E' una cosa ben diversa.  Un altro punto per me importante - ho fatto una scaletta e se non faccio bene, vi prego di scusarmi - è che è difficile per chi collabora con la giustizia puntellare le sue accuse con prove certe. Le accuse mafiose rimangono sempre nell'ambito mafioso, cioè omertose: quello che dico a te non lo dirai ad altri. Allora, quando avviene questo rapporto fra me e la persona a cui si rivolge il mafioso, sono cose che rimangono tra me e lui, cioè che non dovrò riferire neanche ai miei più diretti amici. Quando poi negli anni si parlerà di queste cose, quali sono le cose che potrà sostenere un collaboratore della giustizia? Potrà dire: io so questo. Sta a voi stabilire fino a dove arriva la prova per parlare di queste cose. Perché altrimenti nessuno parlerà mai più a favore della giustizia, perché diventa una cosa molto ridicola. Certamente mi domanderete perché fino a pochi mesi fa non avevo parlato di politica; vi prevengo e rispondo subito: il giudice Falcone - che in pace riposi - venne molte volte negli Stati Uniti per chiedermi se fossi già pronto per parlare di politica. Credo che sia venuto tre volte e sempre ho risposto di no, fino a pochi mesi fa; se fosse ancora vivo il giudice Falcone, io risponderei di no, perché le sentenze ... A me non interessa se l'imputato venga condannato o no, è una cosa che non mi interessa, a me interessa però che quando pure in tribunale riescono a fare una sentenza che poi arriva a Roma e sento che il processo ricomincia tutto da capo, non capisco più niente, rimango nella mia ignoranza e dico: ma cosa succede? Cosa è successo di nuovo? Perché lo Stato italiano non vuole combattere la mafia, questo è il mio modesto parere. Quindi quando Falcone mi domandava, io ero sicuro che dovevo rispondere di no. Questa scelta non era mai stata condivisa dal giudice Falcone, perché egli voleva la mia collaborazione fra mafia e politica e io avevo sempre detto "no", anche all'avvocato Galasso, parte civile nel maxiprocesso. Ho avuto la possibilità di leggere un documento nella rivista Avvenimenti sull'incontro fra me ed il giudice Falcone agli inizi di quest'anno. Credo che tutti voi conoscevate la dignità morale del giudice Falcone, tutti voi conoscevate la persona seria, la persona battagliera, ma era una persona che seguiva i canoni e la rigidezza della legge, egli non deviava. Il giudice Falcone venne molte volte a trovarmi negli Stati Uniti, ma sempre in compagnia di altri giudici e di poliziotti, mai solo. Ho avuto incontri con il giudice Falcone; non ho avuto telefonate con il giudice Falcone, io avrò telefonato al giudice Falcone negli anni 1986-1987. Da quell'epoca non ho mai più telefonato al giudice Falcone e lui neppure a me, perché non sapeva a quale numero trovarmi. Ma c'è di più: questo documento è falso perché dice che l'FBI ha registrato quello che io ho detto al giudice Falcone. E' stato commesso un grossolano errore: io non sono mai stato con l'FBI, io sono stato con l'FBI nel primo periodo, cioè fino a Natale 1984; dopo quel periodo sono stato preso in consegna dalla DEA e affidato a un uomo della DEA e anche quando dovevo parlare col giudice Falcone nel Dipartimento di giustizia americano, lo incontravo con la DEA. Quindi questa notizia sull'FBI è falsa.  Che cosa è cambiato dopo la morte del giudice Falcone e Borsellino? E' cambiata una predisposizione nuova, un interessamento maggiore, una volontà a fare meglio di come si è fatto fino a pochi mesi fa; quindi mi trovo pronto alla collaborazione. Oggi in questa sede non ho nessuna intenzione di fare nomi di politici, non ho nessuna intenzione di sollevare polveroni; ho intenzione di farli e li farò ai giudici i quali non solleveranno polveroni, faranno indagini ed il nome del politico verrà fuori quando sarà opportuno che ciò accada. E' assurdo che si debba sentire che Buscetta Tommaso parla a ruota libera con la trasmissione seguita, per poi domani sentirmi denunziare per calunnia. Non voglio essere calunniato e non calunnio. Le mie sono verità, ma quelle mie; se poi posso provarle o no, sarà competenza della giustizia appurare se le mie dichiarazioni siano vere o no.  E' mia convinzione che con le opportune inchieste giudiziarie, con il mio apporto - perché sono totalmente a disposizione - si potrà scoprire effettivamente questo rapporto. Non è il terzo livello, signori, scordatevelo: non esiste il terzo livello. Con il giudice Falcone abbiamo fatto delle lotte non comuni ma per me non è mai esistito e non esiste il terzo livello. Non vi sono politici che ordinano i mafiosi; non esiste questa possibilità e non è mai esistita. Il mafioso ha usato il politico e non viceversa. Avevo preso un appunto ma è di questa notte e quindi ero un po' assonnato; avevo scritto: "Lo Stato sa fare molto bene i funerali di Stato".  Ho visto alla fine degli anni settanta, quando ero carcerato a Cuneo insieme con i terroristi, tutte le forze politiche italiane convergere senza corrente, né di sinistra né di destra, per combattere il fenomeno terroristico. Perché questo non è stato fatto per la mafia? E' quello che mi domando, è quello che domando a voi politici. Perché non è stato fatto? Perché ancora ci sono le correnti per nominare un giudice, per fare un superprocuratore? E' perché non si vuole combattere o perché vi siete abituati a stare insieme ai mafiosi? I mafiosi non guarderanno in faccia nessuno; chi non farà a loro comodo è destinato ad andarsene, ora o più tardi. Convincetevi, signori miei, convincetevi: il fenomeno mafioso non è solo criminale, è un fenomeno che porta molto più lontano di quello criminale. I mafiosi non fanno volantini, non scrivono al compagno. I mafiosi hanno intese con qualunque ceto della società. Il mafioso sa accedere a tutti i livelli. Prima di finire voglio dire soltanto una cosa a me molto cara. Per me la morte del giudice Falcone e del giudice Borsellino non è la solita morte di una persona comune; per me è stata qualcosa di più. Il giudice Falcone per me era il faro di questa lotta contro la mafia: lo Stato italiano non si è reso conto di chi fossero il giudice Falcone e il giudice Borsellino; non li hanno valutati, li hanno denigrati, specialmente il giudice Falcone. Io so leggere bene tra le righe ed ho in questo un'esperienza che vorrei trasmettere ad altri. Non so spiegarmi bene a parole, ma ho molta esperienza. Ho visto la delusione negli occhi del giudice Falcone tutte le volte che l'ho incontrato, ma egli sempre rideva. L'hanno accusato di essere una primadonna, anch'io lo sapevo che l'accusavano di essere una primadonna: ma era una primadonna che lavorava, era una primadonna che voleva seriamente combattere la mafia. Se era primadonna, lo era per questa ragione, non certo per andarsene a casa a vivere tranquillo e sfoggiare la sua consapevolezza nei ristoranti o nei night. Era una primadonna che viveva come un carcerato. E' a lui che nasce l'idea della superprocura, è a lui che nasce l'idea della DIA. Signori miei, sosteneteli; li avete gli ordini.  Per me - per me, sottolineo - la mafia sta rantolando. L'ho detto anche al dottor Biagi nella mia intervista: per me la mafia sta rantolando. Ha bisogno di sentire che lo Stato non ne può più ma voi siete vicini a vincere. Resterà la criminalità, quella criminalità che la polizia saprà come combattere; ma la mafia è sull'orlo del fallimento: approfittatene. Ho finito, grazie.

PRESIDENTE. La ringrazio, signor Buscetta. Prima di passare alle domande, desidero informarla che la Commissione ha deciso di procedere in seduta segreta a questa audizione, riservandosi poi di decidere alla conclusione se rendere pubbliche alcune parti e quali.  Lei, interrogato il 1^ febbraio 1988 dal giudice Falcone, disse, tra l'altro, che il nodo cruciale del problema mafioso è costituito dal rapporto mafia-politica, cui ha fatto riferimento anche in questa sua esposizione. Può spiegare alla Commissione parlamentare il significato di tale affermazione?

TOMMASO BUSCETTA. Come significato o come personaggi?

PRESIDENTE. Cosa significa l'affermazione che il rapporto mafia-politica è tanto importante?

TOMMASO BUSCETTA. Innanzitutto voglio dire una cosa. Non so se rispondo bene, ma siamo qui e possiamo andare avanti fino all'eternità, non ho il problema di far presto.  Fin dagli anni nei quali si costituì la nuova Repubblica italiana e si formarono i partiti, la mafia votò sempre, anche per lo spauracchio che c'era - ci fu sempre, in tutte le epoche - del comunismo, dalla democrazia cristiana tutto a destra, senza il partito fascista, perché questo era un altro partito da non votare. Si aveva la possibilità di scegliere il candidato: cioè io potevo appoggiare un candidato della democrazia cristiana ed un altro poteva appoggiare un altro signore di un altro partito ma sempre dal lato destro. Quindi noi non abbiamo mai votato partiti di sinistra.  Non mi parlate del 1987 o del 1989 perché credo che già sappiate la risposta. Ma negli anni precedenti si è sempre votato dalla democrazia cristiana fino al limite del partito fascista italiano. Non so se ho risposto perché non ho capito bene la domanda.

PRESIDENTE. Questo l'abbiamo capito. Lei sostiene che il problema più importante è dato proprio dal rapporto tra mafia e politica, più importante del rapporto tra mafia e finanza, più importante del rapporto tra mafia ed altri strati della società. E' così o no?

TOMMASO BUSCETTA. Io credo di sì.

PRESIDENTE. Può spiegare perché è così importante?

TOMMASO BUSCETTA. Il mafioso ha sempre cercato - naturalmente dico fino al 1984, perché la mia vita si è fermata lì, quindi devo dire fino ad allora e non posso parlare di oggi - ed aveva l'appoggio politico del personaggio che a lui interessava per tutte le cose che si sarebbero svolte, non parliamo processualmente, perché allora non esistevano i processi o i processoni, ma per le deleghe per una importazione. Io stesso nel 1963 ero un importatore di burro a Milano, quindi anch'io avevo i miei politici ai quali rivolgermi per avere le licenze per l'importazione; quindi sto parlando in prima persona. Non dobbiamo pensare al processo, dobbiamo pensare a tutto quello che può essere inerente anche commercialmente.  Quindi ogni candidato vendeva la sua disponibilità elettorale contro i voti. Punto e basta. Credo di non avere altro da aggiungere.

PRESIDENTE. Può fare alla Commissione esempi concreti di favori ricevuti da politici? Lei adesso ha parlato di licenze di commercio, può fare altri esempi?

TOMMASO BUSCETTA. Non possiamo aspettare che siano i giudici istruttori a comunicare questo a voi?

PRESIDENTE. Io le ho chiesto esempi, non di indicare quella licenza o quel favore.

TOMMASO BUSCETTA. Ho già fatto il mio personale esempio per quanto riguarda l'importazione di burro. Nel 1963 (non so se è ancora così) lo Stato concedeva delle licenze di importazione, cioè misurava l'importazione, dava 200 tonnellate a te, 250 tonnellate a lui e quindi era una bolgia per vedere chi poteva ottenere la licenza e chi poteva fare questo. Io no: quindi avevo bisogno di qualcuno che mi

rappresentasse, in politica.

PRESIDENTE. Per quanto lei ne sa, a parte le importazioni, gli appalti rientravano in questa logica?

TOMMASO BUSCETTA. L'importazione delle banane è un'altra cosa, e non è il maxiprocesso in cassazione. E' l'importazione delle banane: io sapevo dell'importazione delle banane. Questi sono gli esempi che posso portare. Ma queste cose vanno dette in una maniera che si possa indagare prima di sollevare polveroni e fare preparare a chi sarà indagato ... facendo la figura di ...

PRESIDENTE. Gli appalti rientravano in questa logica?

TOMMASO BUSCETTA. Certo.

PRESIDENTE. Quali erano i suoi rapporti con Badalamenti e con Antonio Salamone?

TOMMASO BUSCETTA. Sotto quale aspetto? Perché erano buoni con tutti e due.

PRESIDENTE. Di che tipo di rapporto si trattava? Era un rapporto di confidenza, le parlavano, sia pure come avviene tra uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, sì. Avevo con tutti e due un rapporto molto buono. Con Badalamenti prima degli anni 1975-76; poi nuovamente, perché mi faceva pena come era stato trattato nel 1980.

PRESIDENTE. Perché Badalamenti fu accantonato, è vero?

TOMMASO BUSCETTA. Fu accantonato. Credo nel 1978.

PRESIDENTE. Sì.

TOMMASO BUSCETTA. Con Salamone sempre buoni, fino al 1984, s'intende.

PRESIDENTE. Salamone era uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Era rappresentante...

PRESIDENTE. Di quale famiglia?

TOMMASO BUSCETTA. San Giuseppe Iato.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione la struttura di comando di Cosa nostra? Come funziona Cosa nostra secondo ciò che lei sa?

TOMMASO BUSCETTA. La struttura di Cosa nostra come commissione, come famiglie?

 PRESIDENTE. Sì.

TOMMASO BUSCETTA. Le famiglie sono riunite a tre a tre ed esprimono un capo mandamento. Il capo mandamento è la persona votata dalle tre famiglie per rappresentarle nella commissione. Quindi, noi abbiamo le famiglie, un capo mandamento che rappresenta tre famiglie e una commissione. Dopo la commissione c'è la commissione interprovinciale, che è costituita dai rappresentanti delle province di Palermo, Catania, Caltanissetta, Agrigento e Trapani. Questa è la commissione interprovinciale, che sta sopra la commissione provinciale.

PRESIDENTE. Quali sono i compiti della commissione interprovinciale?

TOMMASO BUSCETTA. La commissione interprovinciale tratta problemi che vanno al di sopra dell'interesse della piccola borgata. Se si dovesse decidere (è solo un esempio) un colpo di Stato, si riunirebbe la commissione interprovinciale.

PRESIDENTE. Chi comanda davvero nella commissione interprovinciale? Hanno tutti lo stesso peso o c'è qualcuno che comanda di più o di meno, per quello che lei sa?

TOMMASO BUSCETTA. Facciamo da uno a dieci: Palermo 10, Agrigento 8, Trapani 8, Caltanissetta 6, Catania 4.

PRESIDENTE. Quando dice Palermo, a chi intende riferirsi in particolare?

TOMMASO BUSCETTA. Intendo dire la provincia di Palermo.

PRESIDENTE. Ma all'interno di questa provincia quale gruppo ha più peso?

TOMMASO BUSCETTA. Oggi io ...

PRESIDENTE. Più o meno peso nell'evoluzione dei tempi?

TOMMASO BUSCETTA. Se devo rispondere per oggi, sono i corleonesi.

PRESIDENTE. Da quando hanno cominciato la loro ascesa?

TOMMASO BUSCETTA. E' complessa questa domanda; beh, io posso rispondere. La loro ascesa - escalation, direbbero gli americani - è

cominciata nel 1963.

PRESIDENTE. Con la strage di Ciaculli? All'epoca di quella strage?

TOMMASO BUSCETTA. Sì; si sono sciolte tutte le famiglie.

PRESIDENTE. Perché si sono sciolte le famiglie?

TOMMASO BUSCETTA. Perché la polizia a quell'epoca fece sul serio, veramente, mandò in galera tutto il fior fiore e disturbò gli altri mandandoli al confino. Quindi, mancando a quell'epoca quella che era la sfera più alta, la commissione, che era già stata costituita da Salvatore Greco, detto Cicchitedda, si sbandò. Allora, si sciolsero tutte le famiglie, anche perché fu poi la volontà di un tale Cavataio Michele che si sciogliessero tutte le famiglie per riformarle secondo come lui aveva pensato nei lunghi anni che aveva passato in carcere. Ma nel 1963 il Cavataio si era reso responsabile di una cosa gravissima: aveva messo delle bombe in una macchina ed erano morti dei poliziotti ed anche gente civile. A Villabate, per esempio, è morto un fornaio; la bomba era destinata ad un certo Li Peri, ma il Li Peri non scese di casa, passò il fornaio, vide la portiera della macchina aperta e la chiuse. A quell'epoca fu ritenuta una cosa molto grave da parte del Cavataio usare bombe come potrebbero averle usate i terroristi degli anni settanta. Da parte di tutti, all'unanimità (escluso solo il gruppo di Cavataio), fu giudicato che loro avrebbero dovuto pagare, fosse anche tra cento anni, quello che avevano commesso. La guerra si era svolta tra di noi negli anni 1963 e la sola cosa che era uscita fuori dai binari era stata la morte dei poliziotti e di quel civile di Villabate, e fu uno scandalo per Cosa nostra. Ora, invece, i corleonesi possono mettere le bombe per fare saltare in aria i giudici: questa è la loro Cosa nostra, la nuova Cosa nostra.  Morendo il Cavataio, loro hanno perduto un uomo in quell'azione, Bagarella. Approfittando dell'allontanamento di Salvatore Greco detto Cicchitedda, nonché dell'allontanamento mio, di Badalamenti e di Stefano Bontade, loro imposero che la nuova commissione fosse costituita da tre persone: Salvatore Riina in sostituzione di Liggio...

PRESIDENTE. Che era in galera?

TOMMASO BUSCETTA. No, non era in galera, era molto ammalato, aveva un problema di reni, di vescica. Oltre a Salvatore Riina, Badalamenti e Bontade. Ma da questo momento ha inizio veramente la lotta contro tutti gli amici di Salvatore Greco, perché egli era responsabile di aver chiesto a Luciano Liggio negli anni sessanta perché avessero ammazzato Navarra. Qui noi andiamo a fare la storia e non so se abbiamo il tempo per poter ... Allora, Luciano Liggio non aveva sopportato questo affronto da parte di Cicchitedda e cominciò gradualmente ad eliminare tutte quelle persone che potevano essere vicine a Salvatore Greco, tra cui Badalamenti, Bontade, i Di Maggio, gli Inzerillo e ciò per una questione di potere. Potrei essere più dettagliato ma preferisco fermarmi qui, altrimenti facciamo ...

PRESIDENTE. Quali sono le caratteristiche dei corleonesi? In che cosa si differenziano come logica e come comportamenti rispetto a Cosa nostra tradizionale?

TOMMASO BUSCETTA. La ferocia, non c'è un'altra differenza.

PRESIDENTE. C'è un uso della violenza molto più ...

TOMMASO BUSCETTA. Ma non c'era prima, assolutamente, neanche da parte loro. E' una cosa che è nata ... e questo mi fa sorgere molti dubbi e mi fa pensare molto, per cui arrivo a delle conclusioni che preferisco non dire, perché sono cose che vanno oltre il problema mafioso e il problema criminale. Ci sono riflessioni molto profonde da parte mia.

PRESIDENTE. Può per cortesia accennare alla Commissione parlamentare ...

TOMMASO BUSCETTA. No, signor presidente, perché io sono certo che la seduta è segreta e che siete tutti delle rispettabilissime persone, non c'è dubbio. Però è politica, dovete fare delle dichiarazioni quando uscite da quest'aula ed io dovrei dire delle cose che possibilmente creerebbero panico ed io non voglio assolutamente che ciò si verifichi. Non voglio essere preso per pazzo, non ho quest'intenzione.

MAURIZIO CALVI. Senza fare nomi e cognomi, può fare delle riflessioni?

TOMMASO BUSCETTA. Le mie riflessioni sono gravi senza fare nomi e cognomi. Io non parlo di fare nomi e cognomi, parlo di riflessione personale e voi potreste benissimo dirmi: "Signor Buscetta, guardi, la smetta, se ne può tornare in America e lasciarci tranquilli".

PRESIDENTE. Quindi, sostanzialmente, lei teme che queste riflessioni, che sono sue, possano in qualche modo ...

TOMMASO BUSCETTA. Signor presidente, io dico una cosa. Nel 1979 io sono carcerato. L'avvocato Galasso forse si arrabbierà con me - non vedo l'avvocato Galasso ... Nel 1979 io ero carcerato a Cuneo. Non pensate che le carceri siano invalicabili; le carceri sono valicabili. In carcere si viene con un documento falso ed entra qualsiasi persona. Io ne ho avuto.

PRESIDENTE. Documenti falsi?

TOMMASO BUSCETTA. Io ho ricevuto i capi mandamento dentro il carcere. Io ho ricevuto Michele Greco dentro il carcere. E mi veniva raccomandato un dottore che era stato carcerato, quindi non pensate che le carceri siano invalicabili: sono valicabili. Era il dottore Musumeci: i poliziotti avevano arrestato una serie di collaboratori perché sembrava che gli apparecchi dentali ... Noi abbiamo in bocca non so quanti denti, mentre sembrava che fossero 92. Erano troppi denti per una sola persona. Ed allora Greco entrò nel carcere, si rivolse a me ...

PRESIDENTE. In quale carcere?

TOMMASO BUSCETTA. All'Ucciardone, raccomandandomi il dottor Musumeci, dentista. Mi disse: "Masino, mi raccomando a te. E' una persona perbene". Lui andò via poco tempo dopo, 8 o 15 giorni dopo, e andò all'ospedale e dall'ospedale poi andò in libertà. Però, io voglio dire che ho ricevuto visita anche da parte del capo della commissione.

PRESIDENTE. Stava dicendo che nel 1979 era a Cuneo.

TOMMASO BUSCETTA. Ero a Cuneo e mi mandarono l'imbasciata per parlare con i terroristi se si ammazzava il generale Dalla Chiesa in qualsiasi posto d'Italia e i terroristi avrebbero accettato di rivendicarlo, di fare il loro volantino. Io circuii un brigatista che era con me, importante perché aveva partecipato al sequestro Moro, e gli dissi, logicamente non facendo affermazioni, allo stile mafioso: sarebbe stato bello uccidere il generale Dalla Chiesa perché a voi vi dà disturbo. Ma se qualcuno lo ammazzasse il generale Dalla Chiesa, voi lo rivendicate? "No, no, noi rivendichiamo il generale Dalla Chiesa solo se uno di noi partecipa". Io mandai l'imbasciata indietro e il generale Dalla Chiesa, in quella occasione, rimase vivo perché io credo - io credo! - che l'entità che aveva chiesto il favore alla Cosa nostra di uccidere il generale Dalla Chiesa non voleva strascichi non si trovando chi aveva ucciso il generale Dalla Chiesa. Allora: ferma! Punto! Ma qual è il rimedio per uccidere il generale Dalla Chiesa? Secondo me - signori miei, non prendetemi per pazzo, per favore! - il generale Dalla Chiesa viene ucciso perché mandato in Sicilia ad andare a disturbare i mafiosi; e i mafiosi avrebbero dovuto liberarsi come un fatto fisiologico: tu ci disturbi, noi ti ammazziamo. Ma è vero questo il motivo perché viene ammazzato Dalla Chiesa? Non mi sono saputo spiegare? Solo così posso spiegarmi.

PRESIDENTE. Nel 1979, però, che interesse c'era ad eliminare il generale Dalla Chiesa?

TOMMASO BUSCETTA. Bravo! Se lo spieghi da solo. Spiegatevelo voi che siete intelligenti più di me. Io non so spiegarvelo. Certo che ancora non aveva disturbato nessun mafioso.

PRESIDENTE. Appunto.

TOMMASO BUSCETTA. O mi sbaglio?

PRESIDENTE. Ricorda se era la fine dell'anno oppure la prima parte del 1979? Era dopo l'assassinio di Terranova, che avvenne il 25 settembre del 1979, o prima?

TOMMASO BUSCETTA. Questo non posso ricollegarlo.

PRESIDENTE. Non ricorda se faceva caldo o freddo, visto che a Cuneo le stagioni si sentono?

TOMMASO BUSCETTA. Io posso ricollegarlo, attraverso il contatto con il brigatista che entrava dalla libertà, in che epoca è stato.

PRESIDENTE. Può dire il nome del brigatista?

TOMMASO BUSCETTA. E poi lo mandiamo fuori, e già va dal brigatista. Io lo posso dire, ma non lo so ... Signor presidente ...

PRESIDENTE. Non è un reato aver ascoltato una proposta di questo genere. Poi lei decida come ritiene. Non è che la inguaia.

TOMMASO BUSCETTA. No, non in questo senso. Siccome io ho intenzione di farli, questi discorsi, con i giudici istruttori di Palermo, i quali ho sentito giovedì, non dicendo questi discorsi, si intende. Io preferirei che il giudice istruttore poi facesse delle indagini per incontrare a questo per dirgli: ma qualche volta Buscetta ti parlò?

PRESIDENTE. Ho capito. Chi era la persona, o in che modo lei era stato contattato per fare questa proposta nel 1979?

TOMMASO BUSCETTA. Come?

PRESIDENTE. Come lei aveva ricevuto questo messaggio nel 1979?

TOMMASO BUSCETTA. E' molto semplice, veniva mio figlio, venivano i miei amici, attraverso ...

PRESIDENTE ... la persona che veniva da lei.

FRANCESCO CAFARELLI. Possiamo capire "l'entità"? A cosa si riferisce, nella scala gerarchica, quando parla dell'entità che prima aveva deciso e poi aveva deciso di non farlo?

PRESIDENTE. Soprassiederei a questa domanda.

TOMMASO BUSCETTA. Forse l'onorevole Cafarelli vuole sapere l'entità di Cosa nostra che aveva deciso questo? L'entità politica no! Però, se parliamo di entità di Cosa nostra, posso dirlo benissimo: la commissione.

PRESIDENTE. Comunque, mi pare che lei abbia detto questo: che qualcuno, secondo la sua idea, potrebbe aver chiesto a Cosa nostra se si poteva fare quel tipo di operazione.

TOMMASO BUSCETTA. Ecco, sì. Perché, alla Cosa nostra cosa ci interessava il generale Dalla Chiesa? Nel 1979 non aveva niente contro i siciliani, in quel momento.

PRESIDENTE. Non c'è dubbio. Visto che stiamo toccando la questione Cuneo, lei ricorda che fu contattato anche per la vicenda Moro.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione in che termini fu contattato, che cosa successe?

TOMMASO BUSCETTA. Anche questo io vorrei ... Io fui contattato, ma addirittura per questa cosa ne vorrei parlare ai giudici. Non c'è da parte mia dire: no, non voglio parlare. No! Sono già aperto. Ma da questa parte qua io ho da suggerire ai giudici di andare a rintracciare delle bobine telefoniche, che appartengono a dei processi, dove si parla molto chiaramente dell'interessamento mio per essere trasferito di carcere per andare a parlare con i brigatisti se si può salvare la vita di Moro. Questo è nelle telefonate, ed io le ho lette le telefonate.

PRESIDENTE. Si, ma questo lei l'ha già detto davanti alla corte d'assise di Palermo.

TOMMASO BUSCETTA. Ed allora si deve avvicinare la persona che telefonava e che telefonava anche a mia moglie dicendo: noi stiamo facendo il possibile perché Masino sia trasferito a Torino. E poi sono andato a finire prima a Milano e poi a Napoli. Quindi sono andato in tutt'altro posto.

PRESIDENTE. Quindi lei doveva andare a Torino per cercare ...

TOMMASO BUSCETTA. Avrei dovuto andare a Torino.

PRESIDENTE. ... di tenere contatto con qualcuno. Le dissero con chi dovesse prendere contatto?

TOMMASO BUSCETTA. No, questa me la dovevo vedere io. Loro mandavano a chiedere il favore, ma non mi indicavano la persona. Ero io che dovevo vedere a chi mi potevo rivolgere di loro.

PRESIDENTE. Il compito che lei aveva, se non ho capito male, era quello di cercare di ottenere la liberazione di Moro. E' così?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Era stata la commissione a chiederle questo?

TOMMASO BUSCETTA. Era stata la commissione ed erano stati anche elementi della malavita milanese. Dico questo perché la commissione è una cosa che non si ascolta più perché non si è ascoltata mai, mentre l'elemento milanese è chiarissimo nelle telefonate dove dice: "non vogliono liberare a Moro". L'interlocutore che parla di Roma con questa persona a Milano, dice: non vogliono farlo liberare a Moro. Questo è nelle telefonate. Queste non sono mie dichiarazioni.

PRESIDENTE. Certo. Quindi lei fu contattato tanto da esponenti della commissione, quanto da persone della criminalità comune. E' così che ha detto?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Per cercare di entrare in contatto con un brigatista perché fosse liberato Moro.

TOMMASO BUSCETTA. E' esatto.

PRESIDENTE. La commissione era d'accordo su questa strada?

TOMMASO BUSCETTA. Questo non posso stabilirlo, ma il messaggio mi veniva da Stefano Bontade. Io credo che la commissione era d'accordo. Non si sarebbe lui lanciato a capofitto in una cosa di questo genere senza che la commissione non lo sapesse. Io avrei potuto metterlo nei guai dicendo "a me Stefano mandò a dire di interessarmi".

PRESIDENTE. Dov'era a Palermo?

TOMMASO BUSCETTA. No, ero a Cuneo.

PRESIDENTE. A Cuneo ebbe questa sollecitazione?

TOMMASO BUSCETTA. No, no. Sono stato tre anni a Cuneo.

PRESIDENTE. Quando era a Cuneo ebbe questa sollecitazione?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. E doveva essere trasferito a Torino?

TOMMASO BUSCETTA. A Torino, dove c'erano i brigatisti. Invece sono stato portato prima a Milano e dopo a Napoli.

PRESIDENTE. Quindi, non ebbe la possibilità di parlare di questa cosa.

TOMMASO BUSCETTA. No, credo che Moro era già morto. Non ricordo bene... si è perso là.

PRESIDENTE. Calò era d'accordo su questa linea?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so. Non lo so questo.

PRESIDENTE. Non ha saputo di dissensi all'interno di Cosa nostra su questa questione?

TOMMASO BUSCETTA. Su questo proposito no.

PRESIDENTE. Le pongo la domanda per capire quali strategie lo Stato deve avere contro Cosa nostra: che cosa disturba di più, che cosa teme di più Cosa nostra? Che cosa possiamo fare per dare il massimo fastidio possibile? Capisce che cosa voglio dire?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. A voi non vi teme; non teme la giustizia perchè un mafioso per la strada si sente molto forte. La collaborazione di gente anche non mafiosa - questo è bene che lo fate rilevare nelle vostre interpretazioni - ...parliamo solo di mafia, mafia, mafia, ma c'è gente che collabora che non è mafiosa e collabora ad un livello altissimo, perché dà contributi notevolissimi.  Quello che disturba veramente la mafia è non poter adempiere alle promesse fatte ai carcerati. L'uomo d'onore va in carcere sicuro, in tutte le epoche, che la sua famiglia starà bene, non passerà fame e che si interesseranno al massimo per poter farlo uscire. Non ci sarà mai un uomo d'onore, non c'era stato mai - correggo - un uomo d'onore che avesse temuto qualcosa su questo proposito. Ora, non mantenere questi impegni li preoccupa. Questo è molto grave.  Quando dico "Riina sta rantolando" è perché veramente lo Stato ha risposto adesso a Riina. Ho sentito la sentenza di sabato, a lui non importa che gli abbiano dato l'ergastolo, ma ha un impegno morale con i Madonia, li ha portati allo sbaraglio, lui sarà molto, ma molto cattivo in questo momento.

PRESIDENTE. Quindi, la cosa che si teme è un rigore della giustizia tale da non consentire a Riina, ai capi, di mantenere le promesse. Un'altra persona ha detto "aggiustare i processi".

TOMMASO BUSCETTA. Esatto. E' una parola tecnica.

PRESIDENTE. Che cosa vuol dire "aggiustare i processi"?

TOMMASO BUSCETTA. E' una parola tecnica. Come spiegare? Aggiustare i processi s'intende "ho parlato con il presidente", "ho parlato con il pubblico ministero", "ho parlato con il commissario", "ho parlato con un agente", "ho parlato con il testimone", "ho parlato con la giuria". Questo è aggiustamento di processo.

PRESIDENTE. Quindi, quando questo non è possibile, c'è un problema delicato.

TOMMASO BUSCETTA. Eh, diventa delicato.

PRESIDENTE. E' un problema in quanto uno come Riina promette "state tranquilli perché poi si aggiusta il processo" o lo è indipendentemente da questo?

TOMMASO BUSCETTA. Lui si è lanciato alla conquista della Sicilia, perché la Sicilia è sua; non pensiamo alla provincia di Palermo in mano a Riina perché è assurdo, lui ha tutte le province della Sicilia. Credo che l'interprovinciale era una cosa, lui la mantiene però ci mette i pupi che dice lui.  Che cosa stavo dicendo?

PRESIDENTE. Stava dicendo che Riina comanda e che in questo momento ha lanciato una sfida molto elevata.

TOMMASO BUSCETTA. Ecco, ha lanciato una sfida molto grande allo Stato e ai perdenti. I perdenti sono finiti ormai. Non ci sono più i perdenti. Dovevamo stabilirlo e non siamo riusciti a stabilirlo nel processo chi erano i perdenti, perché io appartenevo ai vincenti. Calò ha vinto, io com'ero, perdente o vincente? Non l'abbiamo stabilito.

PRESIDENTE. Non c'erano né vincenti né perdenti. Nel passato, si aggiustavano i processi?

TOMMASO BUSCETTA. Ma certo, mica erano cose campate...il processo dei 114 recente, a Palermo, è una cosa che mi consta.

PRESIDENTE. Fu aggiustato?

TOMMASO BUSCETTA. C'era il pubblico ministero, dottor Pedone se non vado errato, che sosteneva l'accusa e per tutta la durata del processo disse "ah, all'ultimo parlerò del presidente dell'associazione; all'ultimo parlerò di Gaetano Badalamenti, perché all'ultimo..." e tutti aspettavamo all'ultimo richieste. All'ultimo parlò di Badalamenti e fece la richiesta: il carcere espiato. Cioè Badalementi ha preso un

anno e undici giorni e io due anni. E lui doveva parlare all'ultimo del presidente dell'associazione! Questi sono fatti, non dico bugie; sono fatti registrati: "all'ultimo parlerò del presidente di questa associazione".

PRESIDENTE. I processi si aggiustavano solo a Palermo o anche fuori?

TOMMASO BUSCETTA. No, anche fuori di Palermo. Specialmente in Calabria e nel napoletano. Senz'altro.

PRESIDENTE. E a Roma? Scusi, che cosa interessava a Cosa nostra di quello che succedeva a Napoli o in Calabria?

TOMMASO BUSCETTA. Signori, vogliamo smetterla? Volete pensare che non è vero che a Napoli, in Campania e in Calabria ci sia solo la 'ndrangheta e la camorra? Non è vero, c'è la Cosa nostra!

PRESIDENTE. Spieghi questo.

TOMMASO BUSCETTA. C'è la Cosa nostra e loro sempre continuano con la 'ndrangheta. Non è vero; la 'ndrangheta esiste ancora, ma a livello di servire la Cosa nostra, non come entità che fa quello che gli pare e piace. Lasci sbagliare qualcuno della 'ndrangheta; lasci sbagliare Cutolo che fu l'idolo della camorra. Cosa nostra dalla Sicilia, insieme ai napoletani, distrusse a Cutolo. Chi è Cutolo oggi?

PRESIDENTE. Sì, è vero.

TOMMASO BUSCETTA. Ne hanno ammazzati mille e mille di persone, i siciliani e i napoletani. E' Cosa nostra, non camorra.

PRESIDENTE. Quindi, quando i processi riguardavano uomini d'onore Cosa nostra si attiva?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Si attiva soltanto quando i processi arrivano in Cassazione oppure in tutti i livelli?

TOMMASO BUSCETTA. In tutti i livelli. Posso bere un bicchiere d'acqua?

PRESIDENTE. Certo. Vuole fumare? Vuole un caffè?

TOMMASO BUSCETTA. No, no, non fumo grazie. Ho smesso di fumare quattro anni fa.

PRESIDENTE. Lei ci ha spiegato che cosa reca maggiore danno a Cosa nostra: ebbene, che cosa reca maggiori vantaggi a Cosa nostra? Quali sono gli errori più gravi che, secondo lei, sono stati compiuti nella lotta contro Cosa nostra e che non bisogna ripetere?

TOMMASO BUSCETTA. Innanzitutto una giustizia no più dura, più giusta. No più dura perché già è dura la giustizia! Una giustizia giusta; la giustizia che veramente faccia i processi e non accetti... allora sì che è veramente una battaglia a Cosa nostra. E poi, come dissi al Senato americano, principalmente far vedere da parte dello Stato che è lo Stato quello che comanda, non è il mafioso. Perchè purtroppo nelle borgate siciliane chi comanda è il mafioso, non lo Stato. Sconoscono lo Stato. La figlia che scappò con il tizio? Non è allo Stato che ci si rivolge, ma al mafioso. Ancora oggi si rivolgono a Riina; tremano di paura per Riina ma si rivolgono a lui! Invece, facciamo vedere che lo Stato si interessa anche di queste cose!

PRESIDENTE. Quando Cosa nostra comincia a trafficare in stupefacenti?

TOMMASO BUSCETTA. Beh, ironicamente posso dire che sono "il re dei due mondi"... invece non è vero, sono un uomo povero, non possiedo una casa di proprietà. Questo fa parte della strategia di Cosa nostra. Sono stato perseguito e inseguito da lettere anonime che parlavano del mio contrabbando. Ma dove sono i soldi del contrabbando della droga che io avrei? Non lo so. Sinceramente non lo so!  Una volta il giudice Falcone mi disse: "Va bene, signor Buscetta, anche l'uscere del tribunale sa che non è vero che lei trafficava in droga". Ma era tardi, tardi, già la nomea. Uno scrittore come Galluzzo scrive un libro e si inventa che sono stato arrestato nel centro di New York con una valigia con 85 chili di merce.  Quindi parliamo di essere arrestato e portato in carcere. Falso! Come si può scrivere così? Lui è bugiardo; non è uno scrittore, è un bugiardo ambulante. Io non sono mai stato arrestato con una valigia che conteneva 85 chili di droga. Lasciamo perdere, questa è stata una deviazione.  Comunque, sarà cominciato intorno al 1978, c'è stato un salto di qualità. Prima c'era il contrabbando delle sigarette; poi questo non servì più e si entrò nella fase del contrabbando di droga. E lo fecero con grande rilevanza.

PRESIDENTE. Tutto ciò verso la fine degli anni settanta?

TOMMASO BUSCETTA. Verso il 1978 cominciarono il vero e proprio... Quando uscii, nel 1980, vidi che i valori si erano persi. Chi aveva la villa al mare, chi in montagna.

PRESIDENTE. Quindi, il traffico di stupefacenti ha portato cambiamenti dentro Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. E' stato il traffico di stupefacenti che ha deviato Cosa nostra, che ne ha fatto perdere i valori.  Non ridete, per favore. Sono nato così e difficilmente si può cambiare. Io credevo in quella cosa.

PRESIDENTE. Quali sono stati i cambiamenti più importanti che si sono verificati per effetto del traffico di stupefacenti?

TOMMASO BUSCETTA. Tutta la strategia corleonese. Possiamo seguirla passo passo. Per poter fare un uomo d'onore nei miei anni...

PRESIDENTE. Quando è stato fatto uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Credo nel 1946. Ero molto giovane, direi bambino.  Si mandavano dei biglietti per tutte le famiglie e per tutta la Sicilia, per sapere chi aveva da dire contro il giovane proposto per diventare uomo d'onore. Negli anni ottanta, adesso, si fa uomo d'onore chi sa sparare, mentre prima c'erano dei valori più morali. Non era necessario che sapesse proprio sparare; era necessario che ci fossero quelli che sapevano sparare, ma per essere uomo d'onore non era necessario. Sono stati fatti uomini d'onore avvocati, dottori,

ingegneri, principi. Questi non vanno a sparare e non andavano a sparare. Erano fatti uomini d'onore perché servivano alla causa comune, chi perché aveva il feudo, chi perché doveva curare le ferite.

PRESIDENTE. Anche per le perizie mediche?

TOMMASO BUSCETTA. Certamente, per le perizie mediche. Quindi, Cosa nostra aveva bisogno di queste persone, che aderivano con molta volontà. Cosa nostra non si accingeva a fare un nuovo uomo d'onore se non dopo averlo sperimentato, sperimentato, sperimentato.

PRESIDENTE. Adesso, invece?

TOMMASO BUSCETTA. Adesso!

PRESIDENTE. Sono cambiati i rapporti tra gli uomini d'onore e tra le varie famiglie per effetto del traffico di stupefacenti?

TOMMASO BUSCETTA. Sono cambiati perché si ha valore nel contrabbando della droga secondo l'entità della famiglia. Si aveva valore, perché adesso non lo so più. Questo si intende?

PRESIDENTE. Sì.

TOMMASO BUSCETTA. Si aveva valore per l'importanza che l'individuo aveva in seno a Cosa nostra. Per importanza, fino a quando sono uscito nel 1980, si intendeva chi aveva saputo sparare di più.

PRESIDENTE. Quale può essere, in questa fase, la reazione di Cosa nostra, in particolare di Riina? Cosa può accadere?

TOMMASO BUSCETTA. Possiamo procedere sulle ipotesi?

PRESIDENTE. Sulle ipotesi e sulla base delle sue conoscenze.

TOMMASO BUSCETTA. Sulle ipotesi, credo che Riina farà cose molto gravi. Voglio dire una cosa, una primizia.  Sono stato giovedì con i giudici e, ai tre che mi hanno interrogato, ho detto: state tranquilli, non siete voi quelli che va cercando Riina in questo momento. Non è per sempre; sto dicendo: in questo momento non è voi che Riina cerca. Riina cerca chi sta creando tanto fastidio a lui. Non facciamo nomi. Non sono un suggeritore e non vorrei che Riina non ci stesse pensando e io gli suggerisco a chi deve pensare. Sta cercando chi gli sta creando tanti disturbi, perché questa faccenda del pentitismo sta diventando veramente grave per lui. Non più il processo, adesso.  Ecco perché dico che la mafia rantola. Non è più il processo in Cassazione che la interessa. Adesso ha un problema molto più grave: il pentitismo. Signori miei, non denigrate i pentiti, non li prendete per napoletani.

CARLO D'AMATO. Anch'io sono napoletano!

TOMMASO BUSCETTA. Chiedo venia. Mi riferivo ai processi, non ai napoletani. Per l'amor di Dio, nessuna allusione, come mi potrei permettere! Non confondiamo il processo di Tortora con i processi mafiosi. Per favore. I mafiosi, per quanto mi risulta, non prendono gli elenchi telefonici. C'è un detto a Palermo: "u carbuni si nun tinci, mascaria"; il carbone, se non tinge, sporca. Se le dichiarazioni dei pentiti non saranno al 100 per cento di vostro gradimento, state certi che il 70 per cento c'è: approfittatene, non denigrateli e non fate che la stampa li denigri, così come è stato fatto nei miei confronti.  Ma io sono forte, non c'è niente da fare, sono forte moralmente, sono un uomo d'onore, non uomo d'onore di Totò Riina: sono nato uomo d'onore e non mi distruggono. Sono qua.

PRESIDENTE. Lei ci stava spiegando che Riina, in questo momento, starebbe pensando a qualcosa di importante, probabilmente non sul versante dei giudici.

TOMMASO BUSCETTA. Non credo.

PRESIDENTE. Piuttosto sul versante dei pentiti, per cercare di bloccare questo fenomeno.

TOMMASO BUSCETTA. Per bloccare questo apparato dello Stato che sta facendo tanto bene sotto questo profilo. Io credo che voi abbiate in mano la chiave d'oro per potervi spiegare tanti "perché" del passato e del presente. Avete la chiave d'oro per aprire il passato e il presente.

PRESIDENTE. Anche il presente?

TOMMASO BUSCETTA. Anche il presente.

PRESIDENTE. Questa chiave sono i pentiti?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. I pentiti e le nuove strutture che voi avete fatto.

PRESIDENTE. E' prevedibile un'altra guerra di mafia?

TOMMASO BUSCETTA. E chi la fa la guerra a Riina? E' possibile solo una cosa: distruggendo Riina, ci saranno le guerre di mafia veramente, dove la mafia si autoannullerà. Riina lascerà come eredità tanti rancori nei gruppi mafiosi che si ammazzeranno come bastardi in prossimo futuro.

PRESIDENTE. Come è possibile che Riina sia da tanti anni latitante?

TOMMASO BUSCETTA. Queste domande dovrebbe rivolgerle alla polizia, non a me.

PRESIDENTE. Come si fa a sfuggire alla cattura? Si vive all'estero?

TOMMASO BUSCETTA. Ora no, ma parliamo del passato, un passato molto vicino. Liggio stava a Palermo, non era necessario che andasse nei giardini o nei boschi (ora credo che ci sia); ma i mafiosi stanno in città. Quando ero latitante, nel 1980 sono stato in città, non sono andato certo a seppellirmi in un bosco.

PRESIDENTE. E nessuno è venuto a cercarla?

TOMMASO BUSCETTA. Abitavo in un condominio...

PRESIDENTE. In via della Croce Rossa, vero?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, in un condominio di via della Croce Rossa, dove abitava mio figlio Antonio. Io abitavo con mio figlio e nel palazzo di fronte abitava il commissario De Luca.

PRESIDENTE. E non si affacciava alla finestra?

TOMMASO BUSCETTA. Certo che non mi affacciavo alla finestra né potevo dire: guardate io sono qua!

PRESIDENTE. Quindi, non è venuto a cercarla nessuno?

TOMMASO BUSCETTA. No; è tanto che non sono stato arrestato; facciamo come Contorno: lei ha visto Pippo Calò? No, è qua. Se lo avesse visto, lo avrebbe ammazzato. Io non sono stato arrestato a Palermo e all'inizio del 1981 me ne sono andato in America.

PRESIDENTE. Lei pensa che Riina in questo momento sia in Sicilia?

TOMMASO BUSCETTA. C'è forse qualche dubbio? In quale altro modo potrebbe sostenere i lacci che manovra? Deve stare là.

PRESIDENTE. Poiché uno dei problemi più importanti da risolvere riguarda proprio l'arresto dei latitanti...

TOMMASO BUSCETTA. E' logico.

PRESIDENTE. ... può suggerire alla Commissione quali azioni sarebbe utile intraprendere a tal fine?

TOMMASO BUSCETTA. A me sembra una presunzione spiegare a voi cosa si debba fare per arrestare i latitanti. Avete creato un organo di Stato, di cui fanno parte, se non erro, carabinieri, Guardia di finanza e polizia; costoro avranno i mezzi, se voi politici li aiuterete, non mi rivolgo a lei personalmente ma alla classe politica italiana. Sosteneteli, perché la superprocura è una cosa importante. Dico che è importante non perché condivido quest'idea o perché vedevo in Falcone la persona degna di essa ma perché è assurdo che ogni procura spezzetti e l'altra non sappia... Lei è stato un giudice, vero?

PRESIDENTE. Sì.

TOMMASO BUSCETTA. E' assurdo che le procure non abbiano contatti fra di loro. E' bella l'idea di un centro d'informazione perché è in questo modo, processualmente, che li colpirete veramente!

PRESIDENTE. Per arrestare i latitanti non c'è bisogno di tutte queste strutture; si potevano arrestare anche prima. Come facevate se si voleva trovare una persona che si nascondeva?

TOMMASO BUSCETTA. Come facevo io? Ma c'era differenza tra come facevo io e come faceva Cosa nostra!

PRESIDENTE. Lo so.

TOMMASO BUSCETTA. Io andavo da 'o zù Peppino, poi 'o zù Peppino ciu ricìa 'o zù Ciccio, 'o zù Ciccio ciu ricìa 'o zù Jachino e poi arrivavo alla persona. Quindi è una cosa ben diversa. Forse lei, da torinese, non ha capito una parola di quello che ho detto.

PRESIDENTE. Ho capito perfettamente.  Quindi, è possibile che una persona sia a Palermo da latitante perché nessuno la va a cercare?

TOMMASO BUSCETTA. E' possibilissimo, anche perché credo che a Palermo ci sia stata molta polizia accondiscendente. Nel 1980, quando ero a Palermo e mi recavo a casa di Stefano Bontade, incontravo tutti. Allora mi raccomandavano: "Per favore, non uscire prima dell'una e mezza e non tornare a Palermo dopo le quattro e mezza!". Cosa significa? Non che fossero stati corrotti i poliziotti ma si sapeva che in quell'orario nessuno della polizia era in servizio, non so se rendo l'idea. Ecco perché mi si diceva di non uscire prima dell'una e mezza e di non tornare dopo delle quattro e mezza. Che devo dire di più?

PRESIDENTE. Molti di voi latitanti eravate a casa vostra.

TOMMASO BUSCETTA. Questo poteva essere anche cattivo servizio! Io non ho corrotto nessuno, perché direi una tremenda falsità, ma il fatto è che a casa di mio figlio non veniva nessuno. Devo anche premettere che nella casa di mio figlio ero stato come "regolare": avendo avuto alcuni permessi in stato di semilibertà per recarmi a Palermo, avevo dato l'indirizzo di mio figlio dove andavo a dormire. Quindi la casa di mio figlio era già conosciuta perché vi avevo già abitato.

PRESIDENTE. E lei tranquillamente se ne è andato lì da latitante?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Dove altro è stato da latitante?

TOMMASO BUSCETTA. Sono stato in casa di Stefano Bontade, di Inzerillo. Vi dirò che il luogo dove Inzerillo teneva i suoi affari si trovava a cento metri dall'aeroporto di Bocca di Falco e si affacciava su un burrone da dove, a distanza di 100 metri, si alzava un elicottero - non ricordo se era della polizia o dei carabinieri - che sorvegliava la città di Palermo. Come ho detto, si sollevava a 100 metri di distanza dalla proprietà di Inzerillo dove, come minimo, erano parcheggiate cinquanta automobili, a volte anche cento. Mai però questi poliziotti si sono domandati: "Guarda, sembra un posteggio! Qui non c'è un supermercato, cosa fanno qui tutte queste automobili?". Nessuno se l'è mai chiesto. Io mi lamentavo con Inzerillo e gli dicevo: "Tu fai qui tutte queste riunioni nonostante l'elicottero che si alza proprio da sotto casa tua!". La risposta: "Ah, non si preoccupi!".

PRESIDENTE. E lei non si preoccupava?

TOMMASO BUSCETTA. Io invece continuavo a preoccuparmi, tanto che non ci andavo molto spesso. Mi preoccupavo di quell'elicottero che si alzava in volo a cento metri dalla sua proprietà.

PRESIDENTE. Può fare un passo indietro e fare riferimento all'omicidio di Scaglione?

TOMMASO BUSCETTA. Dell'omicidio Scaglione parlai con il dottor Falcone ma oggi devo aggiungere qualcosa di più a quelle dichiarazioni fatte al dottor Falcone. Nel 1970... (Alcuni deputati conversano tra loro). Signor presidente, mentre gli altri parlano io posso continuare, vero?

PRESIDENTE. Colleghi, ci rendiamo tutti conto che stiamo procedendo all'audizione di un teste? Egli domanda se può continuare la sua esposizione anche mentre parlano gli altri.

ALFREDO BIONDI. Mi pare che possa farlo.

PRESIDENTE. Il problema è di evitare che si parli in due.

TOMMASO BUSCETTA. Perdo la forza perché sembra che quello che dico non sia interessante e allora non vale la pena neanche parlarne,

cioè io perdo quella carica agonistica...

PRESIDENTE. Abbiamo capito perfettamente.

GIUSEPPE MARIA AYALA. Carica agonistica?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, carica agonistica. Stavo dicendo - molto brevemente e, se sarà opportuno, ci torneremo - che nel 1970 mi incontrai con Salvatore Greco per un colpo di Stato in Sicilia; da quel momento, dopo aver parlato di colpi di Stato e di incontri...

PRESIDENTE. Ci arriveremo.

TOMMASO BUSCETTA. ... io e Salvatore Greco andammo via. Luciano Liggio stabilì di sua volontà di creare un clima di tensione nell'ambiente politico per preparare il colpo di Stato. Ognuno prese le sue mosse su quale fosse il politico da colpire. A Palermo mi pare che sia stato colpito un fascista, se non ricordo male.

PRESIDENTE. Sì, Nicosia.

TOMMASO BUSCETTA. Ma io non ero a Palermo. Queste sono cose che ho sentito in carcere. Un altro. L'obiettivo di Luciano Liggio fu il procuratore Scaglione. Perché il procuratore Scaglione? Perché aveva già incominciato l'escalation. Lui sapeva cosa ne pensasse Salvatore Greco di Vincenzo Rimini, un mafioso della provincia di Trapani. Cicchitedda vedeva in questo Vincenzo Rimini qualche cosa di padre, qualche cosa di grande, tanto da offrirgli - lui ed io - di farlo evadere dal carcere, nel 1970. Ma Vincenzo Rimini - guardi la mentalità! - mandò a dire a me e a Totò Cicchitedda se eravamo pazzi. Lui era stato condannato, innocente, e doveva espiare la pena, non doveva fuggire dal carcere. Guardi la mentalità: che metamorfosi di mentalità mafiosa. Ci mandò a dire: siete pazzi; no, no io non scappo dal carcere. E scelse il procuratore Scaglione...

PRESIDENTE. Liggio scelse il procuratore Scaglione?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, perché in quel momento, in quei tempi il procuratore Scaglione era interessato alle rivelazioni di una donna che aveva accusato Vincenzo Rimini e che era stato provato che era falsa. Diceva, fra l'altro, di aver dato anche un appartamento. Io ricordo confusamente adesso...

PRESIDENTE. Ad una figlia, sì.

TOMMASO BUSCETTA. Ma già Luciano Liggio mirava come poteva annientare quel grande uomo che era Vincenzo Rimini, che poteva ancora influenzare la provincia di Palermo attraverso l'ascendente della propria personalità. Se ne era liberato perché lo lasciava in carcere: già c'era in carcere, ci rimaneva. Allora fa ammazzare il procuratore, lo fa ammazzare nel territorio dove io appartenevo, con la conseguenza che poi abbiamo visto: hanno detto che il procuratore era vicino agli uomini d'onore, lo hanno denigrato pure dopo morto. Ma la verità non è questa, la verità era minare le basi dello Stato. Lui si è scelto Scaglione, ma non c'era niente contro Scaglione.

PRESIDENTE. La scomparsa del giornalista De Mauro rientra nella stessa logica?

TOMMASO BUSCETTA. Rientra in questa logica. E' per questo che io non voglio parlare e non voglio essere preso per pazzo; perché io ho esperienza della vita e le mie esperienze possono essere giudicate da pazzo. Si può dire: questo qua è venuto dall'America per confonderci le idee. Quindi devo andare passo per passo.

PRESIDENTE. Certo, come sta facendo. Dunque, lei ha detto che l'omicidio di Scaglione fu deciso da Liggio. E la scomparsa di De Mauro?

TOMMASO BUSCETTA. Ma tutti, tutti furono decisi da Liggio. Cioè da Liggio, da Badalamenti e da Bontade, non salviamo nessuno. Da Liggio, da Badalamenti e da Bontade.

PRESIDENTE. Anche le bombe che esplosero a Palermo in quel periodo rientrano in questo quadro?

TOMMASO BUSCETTA. Le bombe le preparava Francesco Madonia.

PRESIDENTE. Ho capito.

TOMMASO BUSCETTA. Ma Francesco Madonia fu trovato in possesso di bombe a casa sua, o fu trovato mentre metteva le bombe, non ricordo bene. Comunque era Francesco Madonia.

PRESIDENTE. Quindi rientrava in questo quadro?

TOMMASO BUSCETTA. Rientrava in questo quadro.

PRESIDENTE. Dunque, sostanzialmente, tanto l'omicidio di Scaglione quanto la scomparsa di De Mauro quanto queste bombe rientrano in un quadro che è quello di preparare le condizioni per ....

TOMMASO BUSCETTA. Per fare il colpo.

PRESIDENTE. Ho capito. Può spiegare cosa sa ...

MARCO TARADASH. Nei verbali c'è scritto che non sapeva niente. Quindi questa è una novità.

PRESIDENTE. Ha detto all'inizio che aveva da dire una novità, ha esordito così.  Signor Buscetta, può spiegare bene alla Commissione questa storia del tentativo di colpo di Stato del 1970, quello di Borghese, del quale lei ha anche parlato ai giudici? Come ne viene a conoscenza?

TOMMASO BUSCETTA. Ci chiama Giuseppe Calderone, insieme al Di Cristina.

PRESIDENTE. Cosa intende dire con "ci chiama"?

TOMMASO BUSCETTA. Perché eravamo negli Stati Uniti, anche Cicchitedda. Allora ci chiama per farci sentire che è stato preparato un colpo di Stato e che Borghese avrebbe intenzione di usare i mafiosi per farsi appoggiare in Sicilia.

PRESIDENTE. Possiamo essere chiari? Vi telefona Pippo Calderone ...

TOMMASO BUSCETTA. Ma non c'è bisogno di telefonare, viene uno e ci avvisa.

PRESIDENTE. Dunque, viene uno ad avvisarvi in America e a questo punto voi partite. Chi viene vi dice che c'è un tentativo di colpo di Stato: vi fa anche il nome di Borghese?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. A quel punto voi cosa fate?

TOMMASO BUSCETTA. Andiamo in Sicilia. Direttamente dalla Svizzera andiamo in Sicilia.

PRESIDENTE. Quindi andate dall'America in Svizzera e poi dalla Svizzera...

TOMMASO BUSCETTA. A Catania, direttamente. A Catania ci incontriamo con Calderone che ci spiega...

PRESIDENTE. Avevate i vostri documenti o documenti falsi?

 TOMMASO BUSCETTA. Falsi. Io mi chiamavo Barbieri e Totò Cicchitedda si chiamava Caruso.

PRESIDENTE. Avete preso una macchina a nolo in Svizzera?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, l'abbiamo lasciata a Catania.

PRESIDENTE. E allora?

TOMMASO BUSCETTA. Chi sapeva tutto esattamente dei miei movimenti fino ad arrivare in Sicilia, e poi dalla Sicilia tornare in Svizzera fino ad arrivare in America, è il colonnello Russo. Sapeva tutto.

PRESIDENTE. Perché?

TOMMASO BUSCETTA. Perché faceva parte del colpo. Il colonnello Russo era la persona indicata che doveva andare ad arrestare il prefetto di Palermo. Quindi quando io sono arrestato per i 114 e lui fa l'associazione dei 114, lui è il poliziotto più sicuro della vita, perché lui lo sapeva. Lui era incaricato, quando veniva il momento X, di andare ad arrestare il prefetto di Palermo. Poi la risposta dei massoni è stata "l'abbiamo addormentato", e io mi sono svegliato.

PRESIDENTE. Chi "abbiamo addormentato"?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so, è una parola tecnica.

PRESIDENTE. Lo so, ma le chiedo a chi si riferivano.

TOMMASO BUSCETTA. Al colonnello Russo. Era addormentato. E io gli ho detto: "Sì, e io mi sono svegliato dentro il carcere all'Ucciardone" pagando l'associazione, perché io sono venuto solo a questo scopo.

PRESIDENTE. Dunque, quando ci fu il processo dei 114 qualcuno protestò con i massoni per questo?

TOMMASO BUSCETTA. Io non so se protestarono o no, ma i massoni si sono interessati del processo dei 114.

PRESIDENTE. Può spiegare come?

TOMMASO BUSCETTA. Ah non lo so, non lo so. Fino a questo punto posso andare.

PRESIDENTE. Come fa a sapere che si sono interessati?

TOMMASO BUSCETTA. Perché l'abbiamo detto tra noi, che i massoni si sono interessati per il processo dei 114. Perché il processo dei 114 verteva tutto nel fermo di una macchina a Milano, macchina nella quale eravamo io, Gerlando Alberti, Giuseppe Calderone, Martino Caruso e Badalamenti.

PRESIDENTE. Quindi, voi...

TOMMASO BUSCETTA. Questa era l'associazione dei 114. E i 114 erano avvenuti così chiari perché il colonnello Russo sapeva tutto, dalla a alla zeta. Andò in Svizzera a trovare niente meno - questo il mio avvocato non se lo spiegava - il biglietto che io avevo scritto essendo ospite di quell'albergo.

PRESIDENTE. Sì. Mi scusi, la morte del colonnello Russo è legata in qualche modo a questa vicenda?

TOMMASO BUSCETTA. No, no.

PRESIDENTE. E' indipendente, non c'entra. Quindi, lei stava dicendo che dopo essere stati avvertiti negli Stati Uniti voi andate in Svizzera, dove prelevate una macchina - mi pare d'aver letto da qualche parte che si trattasse di una Volvo ...

TOMMASO BUSCETTA. Poi l'ho lasciata a Catania.

PRESIDENTE ... e dalla Svizzera scendete in macchina fino a Catania. Cosa trovate a Catania? Con chi parlate?

TOMMASO BUSCETTA. Giuseppe Calderone e Luciano Liggio.

PRESIDENTE. Che era a Catania.

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Latitante, che prendeva il bagno nudo...

PRESIDENTE. Sì, l'abbiamo saputo. E cosa vi dicono?

TOMMASO BUSCETTA. Abbiamo deciso che volevamo delle garanzie, perché si diceva che i mafiosi dovevano mettersi al braccio un bracciale per essere riconosciuti e voleva l'elenco di tutti i mafiosi della Sicilia. Noi dicemmo "sta scherzando, ma chi glieli dà?"; poi finisce come Mussolini e lui ha l'elenco delle persone. Allora si mandarono Giuseppe Calderone e Di Cristina a Roma per incontrarsi con il principe Borghese. Si incontrarono con il principe Borghese ed ottenevano niente fasce e niente nomi. E si aggiustavano i processi di Riina, di Natale Rimi e di Luciano Liggio, i due che erano veramente i più inguaiati.

PRESIDENTE. Questa fu l'offerta che fece Borghese: niente liste, niente segni di riconoscimento, si aggiustavano i processi per le persone più esposte e voi in cambio cosa dovevate fare?

TOMMASO BUSCETTA. Fare parte della rivolta e fare in modo che non ci fossere contrattacchi da parte dei civili, della polizia.

PRESIDENTE. Questo soltanto in Sicilia o dappertutto?

TOMMASO BUSCETTA. Io posso parlare solo per la Sicilia; non so cosa sia avvenuto nelle altre regioni.

PRESIDENTE. E poi come è andata?

TOMMASO BUSCETTA. Abbiamo detto a Calderone, a Di Cristina, a Bontade noi che ci siamo riuniti in quella famosa giornata in cui venne fermata la macchina con dentro me, Badalamenti e Caruso, avevamo finito una riunione a Milano ...abbiamo detto di fare in modo di non dare i nomi e poi di far mantenere quegli impegni che lui aveva preso. E ritorniamo in America; non appena sbarco in America, vengo arrestato e la prima cosa che mi domanda la polizia americana è: "Lo fate o no il golpe in Sicilia?", questa è la prima cosa che mi è stata chiesta non mi è stato chiesto quanta droga avessi portato o quanti omicidi compiuto ma soltanto: "Lo fate o no questo golpe?". Io gli ho detto: "Ma quale golpe?" "Quello con Borghese". Io dissi di non capire di cosa stessero parlando e quindi negai tutto ma gli americani ne erano a conoscenza. La risposta che poi mi arrivò negli Stati Uniti fu che il golpe non si era potuto fare perché c'era una flotta russa nel Mediterraneo, ma che gli Stati Uniti erano d'accordo. Se è vero o non è vero questo non lo so né posso controllarlo.

 PRESIDENTE. Cosa sa di Giuseppe Calderone?

 TOMMASO BUSCETTA. Era mafioso, era rappresentante.

PRESIDENTE. L'idea della commissione regionale viene da Calderone, che lei sappia?

TOMMASO BUSCETTA. No, credo di no, non lo so.

PRESIDENTE. Nel corso dell'interrogatorio dell'11 settembre ...

TOMMASO BUSCETTA. Comunque, si ricordi che alla provincia di Catania ho dato valore 4.

PRESIDENTE. Catania valeva meno di tutte, insomma. Adesso è Santapaola il referente di Riina?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, ma vale sempre 4.

PRESIDENTE. Perché vale così poco?

TOMMASO BUSCETTA. Perché non hanno il carisma, la forza che può avere quello della provincia di Palermo.

PRESIDENTE. Ho capito, c'è proprio un problema di peso.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Nel corso dell'interrogatorio dell'11 settembre scorso, lei ha detto: "Per la verità, mi risulta anche personalmente che esponenti di primo piano di Cosa nostra hanno avuto contatti politici a Roma utilizzando come ponte i cugini Salvo anche senza l'intervento di Salvo Lima. D'altra parte, come oggi ha detto, Lima Salvo era uno dei principali interlocutori politici di Cosa nostra ma non il solo. Ad esempio, per limitarci a Palermo, ci si rivolgeva anche ad altri uomini politici, ciascuno dei quali aveva un proprio punto di riferimento a Roma". Per quali questioni ci si rivolgeva a Lima?

TOMMASO BUSCETTA. Se dovessi parlare fino al 1984 ...

PRESIDENTE. Certo, per quello che sa lei.

TOMMASO BUSCETTA. ... sempre per quegli appalti e ... Io personalmente ... e lui si era scusato con me, aveva detto di non essersi potuto interessare perché il mio nome era troppo eclatante e ci saremmo fatti male a vicenda: lui politicamente ed io da un altro punto di vista. Mi disse comunque che si riteneva a mia disposizione. Quindi, Lima li aveva gli agganci a Roma per interessarsi per i processi, solo con il mio nome non si era potuto interessare. Quando chiediamo cosa facesse Lima per la mafia e di cosa si interessasse, io rispondo della vita quotidiana, di ciò di cui si può aver bisogno. Non possiamo chiedere se si interessasse di una specifica cosa, certamente non si interessava di droga (su questo potrei dare la mia parola d'onore, è fuori discussione), però si interessava di tutte le altre cose quotidiane, per esempio una licenza di caccia o un passaporto; tutte quelle cose quotidiane per ottenere le quali si ha bisogno di un'entità politica a Lima si chiedevano, sì, ma si chiedevano anche ad altri uomini politici. Io parlo di Lima e ne parlo perché si è fatta tanta polvere; mi sono lamentato con i tre giudici che sono venuti a trovarmi a Milano dicendo: "Voi avevate un impegno che avevamo scritto nel verbale: avevamo scritto che queste cose non si sarebbero ... per lo meno quando l'indagine fosse stata più completa". Però, loro erano contenti perché avevano trovato il tribunale della libertà a favore della loro indagine e quindi mi sono calmato un po'. Però, ritengo che queste cose debbono essere fatte più saggiamente: non vi potete permettere di essere deboli nei confronti di Riina, perché Riina - ricordatevelo - ... Forse questa audizione lascerà uno strascico cattivo nei miei confronti, ma io sono così, sono quello che voi vedete. Non è all'intelligenza di Riina che dovete mirare, non sappiamo chi Riina abbia dietro di sé perché lui ha la ferocia, lui ha gli uomini mafiosi in mano ma è una cosa intelligente quella che sta succedendo da Lima ad oggi?

VITO RIGGIO. Si spieghi meglio.

TOMMASO BUSCETTA. No, non lo posso spiegare, non lo posso spiegare e lei non si deve offendere.

PRESIDENTE. A cosa si riferisce dicendo "quello che sta succedendo da Lima in poi"?

TOMMASO BUSCETTA. Alle stragi, non mi riferisco ad altro. Mai in nessun'epoca si era verificato un caso come l'omicidio di Chinnici, come quelli del dottor Falcone e del dottor Borsellino, mai.

PRESIDENTE. Perché non mette anche Ignazio Salvo in questo quadro?

TOMMASO BUSCETTA. Ignazio Salvo non serviva più a Totò Riina, gli era d'incomodo, non serviva più.

PRESIDENTE. E Lima? Serviva ancora?

TOMMASO BUSCETTA. Lima serviva a denigrare Andreotti, ma queste sono supposizioni mie, signori miei, per favore fermiamoci, non andiamo oltre. Non è che io non sia disposto a dare la mia collaborazione e la mia esperienza, sono dispostissimo; io faccio un atto notarile, se lo volete. Io sono un uomo libero, vado, vengo quando voglio, mi siedo, dormo perché non sono più il "soldatino" che deve obbedire, che sta deponendo per ottenere uno sconto di pena, oggi non ho sconti.

PRESIDENTE. Lei sta formulando un'ipotesi per quello che riguarda fatti che si sono verificati mentre lei era detenuto. Poiché lei nello stesso quadro ha inserito Lima e poi Falcone e Borsellino mentre non ha parlato di Ignazio Salvo, le chiedo perché lei sostenga che Ignazio Salvo non serviva più.

TOMMASO BUSCETTA. Secondo me non serviva più.

PRESIDENTE. Non serviva più da vivo?

TOMMASO BUSCETTA. Ma noi dobbiamo andare indietro. Non posso così in due parole determinare un argomento. I Salvo, quando incontrarono me - che hanno visto Dio in terra incontrando me - fra le altre cose mi dissero che chi aveva sequestrato Corleo era stato proprio Totuccio Riina, che loro non avevano la forza di dimostrarlo perchè era tanto segreto. Ma oggi lo sappiamo più perfetto. Era stato Riina, era stato Scarpuzzedda, erano stati tra di loro anche con il signor Calò. Quindi quando i Di Salvo mi vedono a me ...

PRESIDENTE. Cioé Ignazio Salvo?

TOMMASO BUSCETTA. Ignazio e Nino.

PRESIDENTE. I due Salvo?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, i due Salvo. Dicono: possiamo cominciare a fare la guerra a questi "quattru viddani"? "Viddani" significa contadini. Io dissi che non ne valeva la pena, perché i valori si erano perduti ed ognuno pensava al suo contrabbando se andava in porto, se dall'America arrivavano i soldi. Si erano perduti quei valori, quindi io non vedevo via d'uscita. Dissi a Stefano Bontade: tu sei un uomo morto perché ti vedo già morto. E me ne andai in Brasile.  Quindi, quando Salvo è sempre in una posizione di buon equilibrio fra politica e mafia, a Riina lo lascia tranquillo: vai avanti! Nel momento in cui non serve più, è da eliminare. Perché il parente di quel Corleo che continua ancora ad indagare per vedere dove si trova il morto, perché vogliono anche il morto, le ossa ...

PRESIDENTE. Anche a tanti anni di distanza?

TOMMASO BUSCETTA. Anche a tanti anni di distanza. Non so, ma mi sembra che ci siano cose di eredità. E' una cosa molto complessa.

PRESIDENTE. Invece Lima, lei dice, serviva ancora da vivo. O no? Non ho capito bene. Abbiamo capito che Ignazio Salvo non serviva più e quindi a questo punto è fatto fuori, anche perché sta continuando a cercare una cosa che non doveva cercare. Per Lima, invece?

TOMMASO BUSCETTA. Per Lima, invece, è un politico e può darsi che non abbia mantenuto un impegno o può darsi che dietro la morte di Lima ci sia una cosa molto superiore all'impegno processuale. Siamo nel campo delle ipotesi.

PRESIDENTE. Lei ha fatto un cenno ed ha detto: Lima serviva a denigrare Andreotti.

TOMMASO BUSCETTA. Può darsi.

PRESIDENTE. Lima da vivo o Lima da morto?

TOMMASO BUSCETTA. Lima da morto. Da vivo no, certamente no.

PRESIDENTE. Quali erano i referenti romani di Lima?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Non lo sa o preferisce non dirlo?

TOMMASO BUSCETTA. Preferisco non dirlo.

PRESIDENTE. Quando lei preferisce non dirlo, lo dica. Quando non lo sa, dica che non lo sa, altrimenti non capiamo.

MARCO TARADASH. A questa domanda possiamo rispondere noi.

PRESIDENTE. Quali erano i referenti palermitani di Lima?

TOMMASO BUSCETTA. Principalmente i Salvo.

PRESIDENTE. Lima era parlamentare europeo ed era uomo anche abbastanza importante nella vita politica per cui non poteva occuparsi di tutto.

TOMMASO BUSCETTA. Ma mica gli dicevano: vammi a fare la spesa tutti i giorni. Chiedevano un favore oggi e un altro dopo un mese. Quindi erano impegni che poteva ...

PRESIDENTE. ... mantenere. Al di là dell'onorevole Lima, facendo riferimento alle cose che lei ha detto ai giudici l'11 settembre, quali erano gli uomini politici cui si rivolgeva Cosa nostra a Palermo ed a Roma? Lei ha detto che non era solo Lima e che c'erano anche altri.

TOMMASO BUSCETTA. Io preferirei dirlo ai giudici che farebbero delle indagini.

PRESIDENTE. Ho capito. Ci sono uomini politici che erano uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Sono tuttora in vita, in attività?

TOMMASO BUSCETTA. Alcuni.

PRESIDENTE. In attività politica?

TOMMASO BUSCETTA. Credo di no. Ho dato una carrellata.

PRESIDENTE. Può fare i nomi?

TOMMASO BUSCETTA. No. Li farò, però.

PRESIDENTE. Preferisce non farli.

TOMMASO BUSCETTA. Li farò, però.

PRESIDENTE. Quali sono gli uomini sostenuti da Cosa nostra nelle campagne elettorali?

TOMMASO BUSCETTA. Come corrente, come partito?

PRESIDENTE. Come persone. Quali candidati? 

TOMMASO BUSCETTA. Innanzitutto si cerca la corrente.

PRESIDENTE. La corrente vuol dire il partito?

TOMMASO BUSCETTA. Se è comunista, se è ... niente da fare.

PRESIDENTE. Comunisti e fascisti niente. Poi?

TOMMASO BUSCETTA. Poi ...

PRESIDENTE. Va bene, ho capito.

TOMMASO BUSCETTA. Si sceglie quello che ha già una caratteristica ad essere avvicinato, cioè quello a cui si possono, quando lui sarà eletto ... perché non è vero il fatto che si pattuisca prima: se tu diventerai onorevole, tu mi darai e io ti farò avere mille voti. Non è vero, per lo meno non si è mai usato, anzi si è detto: onorevole, io per lei farò le cose, speriamo che lei quando sarà onorevole non si dimenticherà. Quando poi diventa onorevole, c'è una forma di parlare con l'onorevole che è: o me la fai o me la fai! E l'onorevole fa. Sempre!

PRESIDENTE. Questo accade per tutti quelli che sono stati votati da Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. No, perché molte volte si fa confusione. Non si può stabilire quanti voti ha preso il Tizio o il Caio. E' una cosa molto difficile, solo il votato sa se ci sono stati, se sono affluiti i voti che Cosa nostra doveva dare per lui. E poi non è Cosa nostra.

PRESIDENTE. Ci spiega un po' bene?

TOMMASO BUSCETTA. E' il personaggio della Cosa nostra, non Cosa nostra. Il personaggio non dice all'altro della Cosa nostra che lui... o meglio dice: il presidente è cosa mia quindi, se tu hai bisogno di un favore dal presidente, devi rivolgerti a me. Mica ci devi andare direttamente. Quindi è una specie di monopolio il candidato eletto da me, che è differente dal candidato eletto da questo signore qui.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione come funziona questo meccanismo prima del voto? Bisogna scegliere un candidato da votare ...

TOMMASO BUSCETTA. No, non si sceglie il candidato da votare. Non è nè la commissione ...

PRESIDENTE. Mi faccia completare la domanda. Lei dice che non è Cosa nostra che sceglie, ma il singolo uomo d'onore. E' così?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, che se lo sceglie.

PRESIDENTE. Anche la famiglia o solo il singolo?

 TOMMASO BUSCETTA. No, è quasi personale.

 PRESIDENTE. Ho capito. Lei dice che questa scelta non è un contratto secondo cui io faccio questo e poi tu mi dai quest'altro.

TOMMASO BUSCETTA. No.

 PRESIDENTE. Si fa intendere. Però, si prendono prima contatti con quello che si voterà oppure no?

TOMMASO BUSCETTA. Certo.

PRESIDENTE. Può accadere che vi sia un uomo politico che è votato anche in zone, in quartieri dove una famiglia comanda senza che quest'uomo politico lo sappia?

TOMMASO BUSCETTA. No. Anzi, si può candidare qualsiasi persona. Non solo, avevamo la bontà di non impedire che lui si candidasse. Noi impedivamo solo il partito comunista nel vero senso della parola. Andavamo famiglia per famiglia a dire: partito comunista niente, è la cosa peggiore che esiste. Questo sì, ma per quanto riguarda tutti gli altri partiti, lasciavamo libertà a chi si voleva candidare. Era per questo, anzi, che l'uomo politico cercava il mafioso, perché sapeva che lui poteva ottenere molto di più di quello che si era candidato per conto suo.

PRESIDENTE. Cioè senza sostegno.

TOMMASO BUSCETTA. Senza sostegno.

PRESIDENTE. Poteva accadere che un uomo d'onore o più uomini d'onore decidessero di non votare più per un partito, o per certi candidati perché questi non li avevano sostenuti a sufficienza?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. A lei non risultano cose di questo genere?

TOMMASO BUSCETTA. No, a me non risultano queste cose.

PRESIDENTE. Per capire, se andiamo a vedere come si sia votato in un quartiere dove comanda quella certa famiglia si può dire, secondo lei, che l'uomo politico votato è persona con cui chi comanda in quel quartiere ha preso contatti?

TOMMASO BUSCETTA. Guardi, lei domanda una cosa tecnica alla quale non so rispondere. Credo che non si può vedere. L'uomo politico abitualmente - lei lo sa meglio di me - sa le preferenze che avrà, già ha una percentuale. Ha già la sua visione, ma quando questa percentuale aumenta lui sa benissimo...

PRESIDENTE. Vorrei capirlo meglio. Mi presento in un quartiere dove comanda una famiglia mafiosa particolarmente importante: se nelle elezioni precedenti ho preso pochi voti, mentre nelle attuali ne prendo tanti, ciò che significa che sono stato appoggiato? Oppure può accadere che la gente voti liberamente?

TOMMASO BUSCETTA. No, è stato appoggiato. Se il suo quoziente in quella borgata è di cento voti e improvvisamente, quando lei ha raggiunto un accordo con me, così, di benevolenza - non trattative, non ci sono trattative, per lo meno nell'ambiente mafioso - vedrà trecento voti, saprà che duecento sono venuti da parte mia, dal mio interessamento. Quindi, lei meglio di nessuno sa che mi deve rispettare perché quei voti saranno sempre suoi.

PRESIDENTE. Non può accadere, secondo quanto lei sa, che un uomo politico venga votato in modo massiccio, in un quartiere mafioso, dominato dalla mafia, se la mafia non ha deciso di votarlo.

TOMMASO BUSCETTA. E' molto difficile.

PRESIDENTE. In un interrogatorio davanti al dottor Falcone sostiene che Badalamenti mentre era con lei a Belem il 3 settembre 1982, avendo appreso dalla televisione dell'assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, ritenne che l'omicidio era stato effettuato dai corleonesi, aiutati dai catanesi, che erano a loro più vicini, ed aggiunse (Badalamenti a lei) che "qualche uomo politico si era sbarazzato, servendosi della mafia, della presenza, troppo ingombrante ormai, del generale". Può spiegare alla Commissione il significato di questa ipotesi di Badalamenti?

TOMMASO BUSCETTA. Credo che l'ho fatto mezz'ora fa, più o meno. Già l'ho fatto questo, già ho dato questa risposta.

PRESIDENTE. Ho capito.

TOMMASO BUSCETTA. Lo stesso Badalamenti non si spiega perché nel 79 deve morire, perché nel 1979 lui non è più...

PRESIDENTE. Non è ancora.

TOMMASO BUSCETTA. No, non è più il capo della commissione. E' finito; come uomo è finito, già è espulso da Cosa nostra.

PRESIDENTE. Certo.

TOMMASO BUSCETTA. Lui non si spiega come nel 1979 si doveva uccidere Dalla Chiesa da parte nostra e farlo rivendicare ai brigatisti. Poi, quando viene a Palermo il generale Dalla Chiesa e viene a disturbare i mafiosi (perché io so che li ha disturbati veramente)... lui non si spiega. Il fatto dei catanesi è un pour parler dicono i francesi, è uno scambio di vedute. Io penso che avranno usato anche i catanesi nell'omicidio, perché siccome devono agire nella pubblica via, nelle vie più centrali di Palermo, hanno usato gente sconosciuta. Lui già sapeva dei collegamenti tra Riina, i Greco e i catanesi.

PRESIDENTE. Il fatto che il generale Dalla Chiesa cominciasse a dare fastidio alla mafia e che fosse ucciso a Palermo, non necessariamente poteva far pensare al fatto che ci fosse un altro interesse ad uccidere il generale oltre a quello di difesa pura della mafia.

TOMMASO BUSCETTA. Sì, ma vede è il primo omicidio eccellente Dalla Chiesa e viene cercato. E' difficile che io trasferisca questa mia logica a voi.

PRESIDENTE. Lo sta facendo capire benissimo.

TOMMASO BUSCETTA. E' difficile. Mai la mafia si era spostata a questi livelli. Solo perché aveva detto che i fogli rosa non si dovevano dare più. Noi avevamo subìto il prefetto Mori e non lo si era ammazzato - dico noi, forse non ero nato, lo dico per sentito dire -. Non si era ammazzato il prefetto Mori né quando era prefetto, né quando si ritirò.  Cercare a Dalla Chiesa nel 79 non è più un problema mafioso; è un problema che va al di là della mafia. Poi si ammazza perché sta andando ad indagare sui costruttori di Catania o sulle patenti: è troppo in alto che si va. Questa è la mia opinione.

PRESIDENTE. Quali sono gli altri omicidi di mafia che fanno sorgere tali tipi di dubbio: quello di La Torre, poco prima dell'uccisione del generale Dalla Chiesa, può far nascere questo dubbio?

TOMMASO BUSCETTA. La Torre... Poi loro hanno attuato la legge La Torre, l'hanno messa in pratica e hanno sequestrato tutti i beni dei perdenti.

PRESIDENTE. Quando La Torre fu ucciso, il 30 aprile 1982, la legge non c'era ancora.

TOMMASO BUSCETTA. Non c'era ancora, ma loro pensavano che si stesse interessando. In virtù di tutte queste cose - perché lei, stringi stringi, si ricorda il suo mestiere di giudice istruttore e ritorna sempre sullo stesso argomento - ed è l'opinione che mi sono creato da solo, non è vero che si vuole ammazzare perché quello merita di essere ammazzato: è un mezzo. Pio La Torre stava facendo la legge antimafia per il sequestro dei beni; va bene, allora l'ammazziamo tanto...l'ammazziamo per questa ragione, poi vediamo se... Stanotte stavo leggendo un libro di Caponnetto ... no, scusate del giudice Falcone, scusate la deviazione, in cui riferisce che una volta io raccontai a lui una barzelletta. Gli dissi che un tizio ricorre al dottore per un'infezione in un posto che, per la presenza di donne, non specifico. Disse il dottore "guardi, se è stato il filo spinato è una cura; se è stata un'altra cosa è un'altra cura! Dottore, lei mi dia l'altra cura, ma le giuro che è stato il filo spinato!".

PRESIDENTE. Ho capito.

TOMMASO BUSCETTA. Quindi ... Andiamo al fatto vero: è inutile che io divago e parlo di un'altra ipotesi. Mi sono fatto una mentalità mia che può non andare d'accordo con la realtà. Non mi piace essere deriso e di essere preso in giro dicendo che sono un pazzo da legare. Le mie verità le affiderò ai giudici; le prove che loro troveranno, le porteranno avanti. Non desidero diffamare nessuno.  

PRESIDENTE. Lei deve tener conto che la Commissione parlamentare ha il dovere di porre una serie di domande.

TOMMASO BUSCETTA. Ha ragione signor presidente.

PRESIDENTE. Quali sono gli altri omicidi che fanno nascere questo tipo di sospetto?

TOMMASO BUSCETTA. Ma tutti!

PRESIDENTE. Tutti?

TOMMASO BUSCETTA. Tutti. Il giudice Falcone è stato ucciso da Cosa nostra perché fu uno strenuo lottatore contro la mafia. Strenuo, onesto e dignitoso! Però è un mezzo per coprire altre cose, secondo il mio punto di vista. E' ucciso perché combatte la mafia; è ucciso dai mafiosi. Non si venga a dire che la mafia non c'entra! Perché se ne intendono quanto i dottori si intendono di astrologia. Io vedo altre cose intorno a queste cose.

CARLO D'AMATO. Lei ha detto che il terzo livello non esiste.

TOMMASO BUSCETTA. Non esiste il terzo livello.

CARLO D'AMATO. E allora chi c'é dietro?

TOMMASO BUSCETTA. Eh, ma questo è un terzo livello interessato. Questo è un terzo livello interessato. Insisto che non c'è il terzo livello, perché i mafiosi non prendono ordini, ma possono i mafiosi dire ad altri "noi faremo così!".

PRESIDENTE. E voi cosa ne pensate?

TOMMASO BUSCETTA. Credo di averlo fatto capire cosa ne penso.

PRESIDENTE. No, i mafiosi dicono "noi faremo così" e chiedono all'altro "e voi cosa ne pensate?". E l'altro risponde di sì o di no.

TOMMASO BUSCETTA. Quello dice sì. Tranne che non è prospettato, come dire faremo questo, questa grande cosa.  In sostanza mi trovo con dei rebus. Questi miei rebus li affiderò ai giudici e i giudici li svolgeranno.

PRESIDENTE. E' chiaro.

TOMMASO BUSCETTA. Se poi diranno "signor Buscetta, dei rebus che lei ci ha dato non comprendiamo niente", tanto di guadagnato. Credo che potrò dare a loro qualche chiave perché loro possano andare avanti.

PRESIDENTE. Dobbiamo sospendere la seduta per cambiare la cassetta della registrazione televisiva. La seduta, sospesa alle 13,25, è ripresa alle 14.

PRESIDENTE. Badalamenti le ha mai detto altro su Carlo Alberto Dalla Chiesa?

TOMMASO BUSCETTA. In questo momento non ricordo. Credo di no. In questo momento non sono molto... Mi sono alzato questa mattina alle 5 per venire qui.

PRESIDENTE. Si vuole riposare?

TOMMASO BUSCETTA. No. Voglio dire che forse non sono abbastanza lucido.

PRESIDENTE. Non si preoccupi.  Dopo la strage del 3 settembre, vi capitò di riparlare di quell'omicidio?

TOMMASO BUSCETTA. Del 3 settembre?

PRESIDENTE. Si, la data dell'omicidio del generale Dalla Chiesa. Vi capitò di riparlarne tra uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Demmo sempre la versione che lui era andato in Sicilia a disturbare i mafiosi. Non abbiamo dato, almeno per quanto riguarda le persone con cui mi sono riunito, una versione diversa da quella che sto dicendo questa mattina. Abbiamo detto che avevano esagerato ammazzando Dalla Chiesa e la moglie e che ci sembrava che questo fatto fosse veramente anomalo, sempre indirizzando il nostro sguardo verso la mafia: lui li aveva disturbati e la mafia se ne era liberata. In effetti è così, signori miei, guardatelo con questi occhi: è la mafia che si è liberata di Dalla Chiesa.  Quella che voglio dire è solo...

PRESIDENTE. Un'ipotesi.

TOMMASO BUSCETTA. Nel campo delle ipotesi, del "delirio".

PRESIDENTE. Forse è il caso di spiegare che il termine delirio riporta alla breve conversazione informale che lei ha avuto, poc'anzi, con l'onorevole D'Amato e che quindi assume un significato particolare.  Le sue congetture riguardano soggetti e organismi italiani o stranieri?

TOMMASO BUSCETTA. Prettamente italiani, del nostro paese.

PRESIDENTE. Badalamenti le ha dato notizie sulle possibili cause della morte di Calvi?

TOMMASO BUSCETTA. Non mi ha dato notizie, per la verità. Mi disse: il tuo figlioccio, Calò,... Non so se lei capisce la parola "figlioccio".

PRESIDENTE. La prego di spiegarla.

TOMMASO BUSCETTA. Ho iniziato Calò, quindi ero il suo padrino. L'unico che ho portato a Cosa Nostra è stato Giuseppe Calò; l'ho iniziato io e quindi lui mi chiamava padrino.  Quando questo padrinato e questa figliolanza si erano rotte, il Badalamenti mi disse: il tuo figlioccio è coinvolto nella vicenda Calvi fino a qua. Le parole, molte volte, tra uomini d'onore sono solo cenni. Non si possono avere curiosità nè interesse: basta quello che mi dici, purché sia la verità. Il dialogo si fermò quando lui disse: il tuo figlioccio è invischiato nel delitto Calvi fino a qua. Però, trovandomi a Roma e collaborando con la giustizia, sono stato chiamato da un ufficio di polizia a tradurre un verbale dal portoghese all'italiano. Non è che io sia traduttore, ma conosco il portoghese.

PRESIDENTE. So che lei è stato in Brasile per molti anni.

TOMMASO BUSCETTA. Inoltre, ho una moglie e dei figli brasiliani. Traduco questo documento e noto che la polizia italiana, attraverso la testimonianza di una brasiliana, cognata di tale Nunzio Guido (Cosa nostra napoletana), aveva conferito con un poliziotto italiano, raccontando certi episodi che non erano di molto peso secondo la polizia italiana. Io in tutti quei personaggi ne riconoscevo due, uno era Giuseppe Calò, che all'epoca si faceva chiamare Mario Aialoro, e un altro un certo Mimmo, che conosco personalmente perché mi è stato presentato da Calò Romano.

FERDINANDO IMPOSIMATO. Balducci?

TOMMASO BUSCETTA. Esatto. Quando leggo il documento, conoscendo questi due molto bene (Mario Aialoro - Giuseppe Calò)...

PRESIDENTE. Lei sapeva che erano la stessa persona?

TOMMASO BUSCETTA. Si, lo sapevo perché ero stato a Roma a casa sua nel 1980.  Dico a questo funzionario di polizia che Mario Aialoro è Giuseppe Calò, il quale nella riunione con le mogli è in compagnia di Danilo Abbruciati, quello che va a sparare al direttore della banca di Milano. Vedete che disegno! Gli organi inquirenti non avevano fatto caso a questa cosa, che non era sfuggita a me che sono vecchio e conosco i fatti. Perché Pippo Calò stava insieme a Danilo Abbruciati pochi giorni prima della sparatoria del direttore del Banco Ambrosiano? Ci doveva essere un interesse. C'è poi la cosa che aveva detto Gaetano Badalamenti: Pippo Calò sta fino a qua nella vicenda Calvi. Io faccio un riassunto di "delirio" e dico: Pippo Calò ci sta fino a qua. Non è soltanto Badalamenti che dice una frase, perché c'è un altro riscontro, essendo difficile che si riunisse con Danilo Abbruciati, il quale pochi giorni dopo va a sparare al direttore del Banco Ambrosiano e lo ammazza. Ho finito.

PRESIDENTE. Altre notizie lei non ne ha avute?

TOMMASO BUSCETTA. Io non ne ho avute, però se per voi può essere una strategia, sappiate che i soldi guadagnati dalla mafia con la droga sono molto più ingenti di quelli che i vostri ...

PRESIDENTE. ...conti...

TOMMASO BUSCETTA. ... stabiliscono. Quindi, non è affatto impensabile che Calvi abbia avuto soldi mafiosi e ne abbia fatto cattivo uso.

PRESIDENTE. Cioè, che abbia avuto in deposito soldi mafiosi e ne abbia fatto cattivo uso?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. E per questo sia scattata la vendetta?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, una vendetta ma c'è un'altra cosa: uno molto vicino a Giuseppe Calò... Non so se queste cose debba dirle.

PRESIDENTE. Le dica pure, poi decideremo noi.

TOMMASO BUSCETTA. C'è una persona molto vicina a Pippo Calò e a Totò Riina che pochi anni fa viene trovata a Londra in possesso di eroina; viene messa in carcere in quella città dove già abitava. Quell'individuo è capace di impiccare Calvi e di metterlo sotto il ponte.

PRESIDENTE. Sta parlando di Di Carlo?

TOMMASO BUSCETTA. Esattamente. Si tratta di una serie di circostanze che mi fanno pensare, quasi vivere, che i mafiosi siano coinvolti nel caso Calvi.

PRESIDENTE. E' chiaro. Secondo lei, chi informava Badalamenti?

TOMMASO BUSCETTA. Badalamenti ha un nucleo familiare grandissimo, in America ed in Sicilia, che in parte è stato ammazzato e in parte no; comunque è un nucleo di gente che appartiene alla mafia. Un esempio tipico è che Badalamenti esce, Badalamenti viene espulso e chi assume la carica di rappresentante a Cinesi, borgata o paesino di Badalamenti, è il cugino, cioè Nino Badalamenti, che è rimasto in carica fino a quando non gli hanno sparato.

PRESIDENTE. Badalamenti ha mai fatto collegamenti tra l'omicidio Calvi e quello di Dalla Chiesa?

TOMMASO BUSCETTA. No; Badalamenti sa fare molto bene, meglio di chiunque altro, intrighi ma non è molto sviluppato intellettualmente.

PRESIDENTE. Ho capito, non è sveglio. Può parlare alla Commissione dell'invito che fece a lei Pippo Calò di restare in Italia quando voleva tornare in Brasile? Se non sbaglio, negli anni ottanta lei voleva tornare in Brasile...

TOMMASO BUSCETTA. Questo è scritto su tutti i giornali!

PRESIDENTE. Sì.

TOMMASO BUSCETTA. Mi disse di rimanere in Italia ma non era il caso: avevo sofferto tanto e me ne volevo tornare in Brasile dove sarei andato povero, non certo ricco.

PRESIDENTE. Voleva andare in Brasile per sfuggire all'eventuale cattura o no?

TOMMASO BUSCETTA. Credevo di aver già pagato abbastanza lo Stato italiano con otto anni di carcere.

PRESIDENTE. Ma doveva farne ancora qualcuno?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, dovevo fare ancora qualche anno di semilibertà. Ero stato otto anni in carcere e volevo andarmene; avevo una moglie giovane, credo bella - almeno ai miei occhi era bella - e non vedevo perché non dovessi godere mia moglie e i miei figli tranquillamente e lasciare tutti i problemi, compresi quelli avuti nel carcere dell'Ucciardone. Sebbene Ciancimino dica che io fossi l'ultimo, devo ricordare a questo signore che non ero l'ultimo, anzi ero il primo. Nel carcere dell'Ucciardone non è entrato nessuno per dire a ottocento detenuti: "Raccogliete il pane e mettetelo dentro le celle"; l'ha fatto solo Tommaso Buscetta.

PRESIDENTE. Ci spiega questa storia, che non conosciamo?

TOMMASO BUSCETTA. Hanno fatto sciopero, hanno buttato il pane fuori dalle celle.

PRESIDENTE. Quando?

TOMMASO BUSCETTA. Dal 1972 al 1977; il direttore del carcere, che mi stimava moltissimo, mi disse: "Signor Buscetta, se non interviene, io diventerò un direttore rigoroso e farò chiudere le porte". Andai nelle sezioni e dissi: "Rimettete il pane nelle celle". A far raccogliere il pane non è andato il signor Ciancimino ma ci sono andato io.

PRESIDENTE. E tutti raccolsero il pane?

TOMMASO BUSCETTA. Tutti raccolsero il pane. Questo fatto è avvenuto ed è stato oggetto di una notizia giornalistica.  All'interno del carcere passavo molti guai, perché non si possono dominare 1.200 detenuti con 1.200 idee l'una diversa dall'altra: c'era l'infamone, lo spione, il malandrino, il mafioso, il magnaccia, tutte le categorie. Necessariamente dovevo dominare tutti quanti ma non è facile, mi creda, non è facile. Però ci sono riuscito. Sono stato portato a Cuneo, perché l'unico ad essere trasferito dal carcere di Palermo ad uno di massima sorveglianza è stato Tommaso Buscetta. Se ne sono infischiati dei peggiori e hanno mandato Tommaso Buscetta, a Cuneo: lì sono rimasto per tre anni.

PRESIDENTE. L'onorevole Biondi le chiede chi intenda quando usa l'espressione "hanno mandato".

TOMMASO BUSCETTA. Forse non ho usato le parole giuste, mi correggo: le autorità preposte alla massima sorveglianza mi hanno prelevato dall'Ucciardone e mi hanno portato a Cuneo.

ALFREDO BIONDI. Le autorità preposte alla custodia?

 TOMMASO BUSCETTA. Le autorità preposte alle carceri di massima sorveglianza. Come le chiamavano allora?

 PRESIDENTE. Carceri di massima sicurezza.

 TOMMASO BUSCETTA. Lo dico più chiaramente: il generale Dalla Chiesa ha preso solo me dall'Ucciardone e mi ha mandato a Cuneo.

PRESIDENTE. Può cercare di spiegare perché fu preso soltanto lei?

TOMMASO BUSCETTA. Non me lo spiego; credo che ci sia stato un litigio tra il direttore del carcere di Palermo ed il generale Dalla Chiesa. Quando questi gli domandò quali fossero i detenuti da mandare nelle carceri di massima sorveglianza, il direttore del carcere di Palermo disse: "Nessuno". "Come nessuno? E Buscetta Tommaso?" Il direttore rispose: "Sì, c'è Buscetta Tommaso ma egli è un equilibrio dentro il carcere, non ha mai tentato di evadere o di segare sbarre, malgrado gli abbia concesso, dietro domandina, il possesso di seghetti perché egli ha l'hobby della costruzione delle navi da modellismo". "Ah, so che Buscetta si è sostituito a te!".  Quindi io sono stato il centro di una disputa tra due personalità e sono stato trasferito a Cuneo.

ALTERO MATTEOLI. Lei come sa queste notizie?

TOMMASO BUSCETTA. Dal direttore del carcere, dottor Di Cesare, personalmente. Ma c'è di più: io sono uscito in permesso dal carcere perché una mia figlia si operava a Milano di peritonite ed era sul punto di morire; mi hanno dato cinque giorni di licenza e al quinto giorno esatto mi sono ripresentato sperando di essere trasferito da quel carcere in un altro carcere dove, nei colloqui settimanali, avrei potuto baciare i miei figli. Il generale Dalla Chiesa disse: no, lui deve rimanere a Cuneo.

PRESIDENTE. Si spiega il motivo di questa scelta nei suoi confronti?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so, io non lo so.

PRESIDENTE. Non può fare neanche ipotesi?

TOMMASO BUSCETTA. Neanche ipotesi.

PRESIDENTE. Stavamo parlando dell'invito fattole da Pippo Calò di restare in Italia. Vogliamo riprendere questo discorso?

TOMMASO BUSCETTA. Pippo Calò mi disse: "Perché devi andare in Brasile?" Gli dissi: "Pippo, qua io vedo che siete tutti ricchi". "Ma tu avrai tutti i soldi che vorrai, devi dire solo quanto vuoi". "No, sennò divento schiavo di questa routine. E poi non mi piace quest'atteggiamento che tu hai in commissione, di dire sempre sì quando i corleonesi parlano". "Ma i corleonesi sono nostri amici". "Sono i tuoi amici, non i miei. Comunque, io non desidero litigare. Ti conosco da bambino. Dobbiamo fare solo una cosa: io me ne vado in Brasile, voglio essere lasciato in pace". "Ma se tu rimani qua c'è una fortuna. Si devono fare i quattro quartieri a Palermo": tuttora non so che cosa significhi i quattro quartieri, non lo so, non me lo domandi. "Va bene - gli ho detto - e i quattro quartieri?". "C'è Ciancimino che è nelle mani dei corleonesi". "E proprio perché è nelle mani dei corleonesi io non ho niente a che vedere e me ne vado in Brasile".

PRESIDENTE. Cosa vuol dire che Ciancimino era nelle mani dei corleonesi? Era nelle mani dei corleonesi o di Riina?

TOMMASO BUSCETTA. E' un linguaggio locale, che è difficile tradurre in italiano. Quando Calò dice che era nelle mani dei corleonesi intende dire come struttura portante, in mano a Riina. Perché mica può essere in mano a Bagarella!

PRESIDENTE. Cosa vuol dire essere nelle mani di qualcuno?

TOMMASO BUSCETTA. Che quello ne fa quello che vuole. O per lo meno che sono in società, o che sono molto amici.

PRESIDENTE. E' chiaro. E Ciancimino tuttora opera d'intesa con Riina, secondo lei, o questo rapporto si è rotto?

TOMMASO BUSCETTA. Dovrei entrare nel campo delle ipotesi e non lo so.

PRESIDENTE. Sulla base di ciò che lei conosce, di quello che ha visto e della capacità di interpretazione dei fatti che ha per aver fatto parte di Cosa nostra, ha tratto attualmente elementi che le possano far pensare che Ciancimino ha rotto con Riina?

TOMMASO BUSCETTA. No. Se è vero... Perché io non ho dato assicurazione al dottor Falcone che era vero, ho detto: Pippo Calò mi ha detto questo...

PRESIDENTE. Certo, certo.

TOMMASO BUSCETTA. Se è vero che Ciancimino era nelle mani dei corleonesi e Ciancimino è tranquillo, può gridare, può dire "voglio essere sentito dall'Antimafia", mi creda: Ciancimino è d'accordo con Riina, ancora. Se è vero.

PRESIDENTE. Se è vera la prima cosa, ho capito. Ciancimino era votato da Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Anche dall'inizio.

PRESIDENTE. Anche dall'inizio.

TOMMASO BUSCETTA. Però lui aveva un collegio differente da Lima.  Ma poi non c'erano ostacoli, non si creava l'ipotesi "tu questo non lo devi votare perché io voto Lima e tu non devi votare...". Ognuno era libero. L'importante è che non fosse comunista.

PRESIDENTE. Lima e Ciancimino non erano d'accordo?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Perché non erano d'accordo?

TOMMASO BUSCETTA. Che io sappia non sono stati mai d'accordo. Ma poi questi fatti si sono confermati nel 1980, quando sono uscito e mi sono incontrato con Bontade: era una rottura totale. E sembra, a dire di Bontade, che Ciancimino avesse ricevuto da Lima, per farlo restare nelle condizioni di eminenza grigia nella democrazia cristiana, questa concessione dei quattro quartieri - ripeto che non so cosa significhi - che era gestita da Ciancimino.

ALFREDO GALASSO. Quattro mandamenti, non quattro quartieri.

TOMMASO BUSCETTA. Ma ancora non so cosa significhi.

PRESIDENTE. Credo si trattasse del risanamento del centro storico. Non ho capito bene quale fosse la ragione dell'inimicizia tra Ciancimino e Lima.

TOMMASO BUSCETTA. L'inimicizia tra Ciancimino e Lima secondo me è politica, non è...

PRESIDENTE. Non dipende da rapporti...

TOMMASO BUSCETTA. ... mafiosi. No, no. Credo che sia di corrente. Quando andai via nel 1963, lasciai Lima in una corrente fanfaniana; nel 1972 l'ho ritrovato andreottiano. Credo che più che altro sia per queste correnti che si creavano in seno ...

PRESIDENTE. Quindi un'inimicizia che non dipendeva dalle alleanze degli uomini di Cosa nostra.

TOMMASO BUSCETTA. No, no, lo escludo categoricamente.

PRESIDENTE. E quali erano i rapporti di Lima con i corleonesi?

TOMMASO BUSCETTA. Io non li conosco.

PRESIDENTE. Non li conosce.

TOMMASO BUSCETTA. No, perché io credo che non ci fossero. Nel senso che non erano ... I rapporti che potevano intercorrere tra Ciancimino e Riina... Io credo che tra Riina e Lima ... fosse un altro il contatto. Ma non credo assolutamente che ci fosse il rapporto che ci poteva essere con Ciancimino, personale.

PRESIDENTE. Ho capito. Cosa sa dei rapporti tra Balducci e Calò, oltre quanto ha detto?

TOMMASO BUSCETTA. Balducci e Calò erano soci in tutti i sequestri che si facevano nel romano, nella Toscana e nelle aziende anche commerciali.

PRESIDENTE. Sequestri di persona?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Lo so molto bene, e c'è anche un giudice che lo sa molto bene.

PRESIDENTE. Lo sa molto bene. Ma non c'era un'intesa per cui gli uomini d'onore non dovessero fare sequestri di persona?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, in Sicilia.

PRESIDENTE. Solo in Sicilia. Fuori li potevano fare. Ho capito. Se un partito o un uomo politico che siano stati sostenuti durante una campagna elettorale poi non restituiscono il favore, cosa succede?

TOMMASO BUSCETTA. Innanzitutto parliamo per la prima parte: se un partito, non è ...

PRESIDENTE. Ha ragione, mi correggo: un candidato.

TOMMASO BUSCETTA. Ecco: un candidato. Ma non ci sono...Se parliamo di un candidato che va cercando terra terra un appoggio politico, che dà un pacco di pasta o il paio di scarpe, quella è una cosa; se parliamo del rapporto tra un candidato e la mafia, anzi e un mafioso non la mafia, è un'altra cosa. Là c'è un parlare elegante: cioè, noi l'appoggiamo, io ti appoggio, vedrai i voti ..., speriamo che Dio ti benedica. Ma è senza patto. Ma dopo avvengono le cessioni.

PRESIDENTE. Ma il politico deve sapere o deve capire che quello che gli sta di fronte è un uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Lo intuisce, se è siciliano lo intuisce. Certo, se viene da Trieste non capirà mai chi ha davanti.

PRESIDENTE. Neppure se viene da Torino. Ma se questo candidato, dopo che è stato eletto, non fa quello che deve fare - diciamo così - cosa avviene?

TOMMASO BUSCETTA. Ma non è stabilito quello che deve fare.

PRESIDENTE. Cosa accade se un mafioso gli chiede un favore e questi non lo fa?

TOMMASO BUSCETTA. Se è nelle possibilità del candidato di fare il favore e non lo fa, sono fatti seri del candidato. Se invece non può farlo perché è impossibilitato a farlo, è un altro discorso.

PRESIDENTE. Può accadere che un mafioso o un gruppo di mafiosi decidano di votare a dispetto, togliendo i voti a un candidato e dandoli ad un altro perché quello capisca che non ha fatto ...?

TOMMASO BUSCETTA. Lei mi fa una domanda alla quale devo rispondere per quello che ho appreso attraverso i giornali. Altrimenti non avrei una risposta da dare, perché non è successo nel passato.  Hanno dato i voti al partito socialista: ma li hanno dati proprio a dispetto, per non votare la democrazia cristiana che forse avrà negato dei favori.

PRESIDENTE. E' stato un voto a dispetto: è possibile che sia così?

TOMMASO BUSCETTA. E' possibile. Anzi potrei giurare che è senz'altro così.

PRESIDENTE. Come fa l'uomo d'onore ad orientare il voto, a dire per chi si debba votare?

TOMMASO BUSCETTA. Con i fac-simile che vengono distribuiti.

PRESIDENTE. Come fa la gente a sapere che un determinato candidato è sostenuto da un uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Lo sanno, lo sanno. Lei non ha idea delle campane che si suonano in Sicilia, erano più rapide delle telefonate, si sanno queste cose e poi c'è "u zu Peppino" che vuole che si voti ... e lei non deve neanche sapere che servirà a qualche cosa questo uomo politico.

PRESIDENTE. Ci sono anche intimidazioni o no?

TOMMASO BUSCETTA. No, la mafia non fa intimidazioni, non ne ha bisogno.

PRESIDENTE. Che ruolo ha giocato Bontade nell'attività politica di Lima?

TOMMASO BUSCETTA. Io conosco questa parte, e sa perché? Perché Bontade, prima del 1963, non votava Lima, aveva altri candidati.

PRESIDENTE. E chi votava?

TOMMASO BUSCETTA. Eh, lasciamola così questa parte, perché poi questo deputato nel tempo si è maturato di più.

PRESIDENTE. Cosa vuol dire che si è maturato di più? Che è diventato più importante?

TOMMASO BUSCETTA. E' diventato più importante, è diventato forse, chissà, qualche cosa di più importante nel Governo, non ricordo bene.

PRESIDENTE. E' in vita?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so, come faccio a saperlo?

PRESIDENTE. Forse non mi sono spiegato: le sto chiedendo se è vivo o morto.

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so, non lo so. Ho capito bene la sua domanda, ma non lo so, devo inventare che è morto e poi quello è vivo e mi denuncia per calunnia?

ALFREDO BIONDI. E' ancora parlamentare o ha avuto una "disgrazia" di tipo elettorale?

TOMMASO BUSCETTA. Io credo che non sia più parlamentare.

PRESIDENTE. La Commissione avrebbe interesse a sapere se oggi, sulla base di quello che lei sa, un'ipotesi di separazione della Sicilia dal resto d'Italia o di un'autonomia di gran lunga maggiore possa coincidere con gli interessi di Cosa nostra attuale.

TOMMASO BUSCETTA. Come ipotesi, sto rispondendo come ipotesi: sì.

PRESIDENTE. Sulla base di che cosa fonda questa sua ipotesi?

TOMMASO BUSCETTA. Le tremende condanne che si ricevono in questi anni mi fanno pensare che dovranno trovare una soluzione, perché non sarà ammazzando il giudice Falcone, il giudice Borsellino o quelli che verranno (perché ne verranno, disgraziatamente ne verranno altri) che si risolverà il problema. Le condanne rimarranno, la Cassazione ha chiuso certi processi, quindi non credo che vi saranno alternative che potranno essere favorevoli ...

PRESIDENTE. Quindi, quello delle condanne è per lei un punto fondamentale?

TOMMASO BUSCETTA. Io credo fermamente solo in questo.

PRESIDENTE. Ricorda i nomi dell'assessore Trapani e del medico Maggiore?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Erano uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, erano nella mia famiglia, entrambi consiglieri.

PRESIDENTE. Lei ha spiegato di aver conosciuto, durante il suo soggiorno a Roma presso Calò, sia Balducci sia Diotallevi. Può spiegare meglio quali rapporti avesse Calò con questi personaggi romani, con Abbruciati, e così via? Questi non erano uomini d'onore, vero?

TOMMASO BUSCETTA. No, assolutamente no.

PRESIDENTE. Un uomo d'onore può mettersi a commettere reati con gente che non è gente d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Quali reati? Se parliamo di sequestri, sì, è lui che ne assume la responsabilità. Se parliamo di omicidi, no, assolutamente, specialmente se sono omicidi decretati dalla commissione.

PRESIDENTE. Gli omicidi decretati dalla commissione sono effettuati soltanto da uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Soltanto, non perdiamoci in chiacchiere, soltanto.

PRESIDENTE. Non possono essere altri?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Che rapporti aveva intrecciato Calò con questa gente a Roma?

TOMMASO BUSCETTA. Per quello che ho visto io personalmente, erano rapporti di briccone, di affari, andavano a sequestrare persone ed io ricordo che in quel periodo il Diotallevi voleva comprare qui a Roma una casa che costava (a quell'epoca erano molti soldi, forse oggi sono un po' svalutati) due miliardi; non so se poi l'abbia comprata.

PRESIDENTE. Antonino Rotolo aveva rapporti con questi personaggi?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione chi era Antonino Rotolo?

TOMMASO BUSCETTA. Antonino Rotolo era una persona amica nostra, di un'altra famiglia rispetto a Pippo Calò ma che si era molto affezionato a Pippo Calò e che si era dato, insieme a Pippo Calò, a questi sequestri e al traffico di droga, diventando molto ricco ed antipatico a Stefano Bontade, il quale aveva detto che si era fatto uomo d'onore un uomo il cui cognato era vigile urbano.

PRESIDENTE. Angelo Cosentino chi era?

TOMMASO BUSCETTA. Era capo decina a Roma.

PRESIDENTE. Era un uomo importante?

TOMMASO BUSCETTA. Era lui che comandava qui a Roma come Cosa nostra. Era dipendente di Stefano Bontade come decina, ma era lui che amministrava nella città tutto quello di cui c'era bisogno.

PRESIDENTE. Qual era la funzione di Cosentino?

TOMMASO BUSCETTA. Era di trovare agganci in Cassazione, di trovare case per far dormire i latitanti.

PRESIDENTE. I rapporti con i politici romani li teneva Cosentino?

TOMMASO BUSCETTA. In parte sì.

PRESIDENTE. Può chiarire quali rapporti avesse Pippo Calò con Nunzio Guida, di cui lei ha parlato un attimo fa?

TOMMASO BUSCETTA. Pippo Calò aveva rapporti con Nunzio Guida come uomo d'onore. Nunzio Guida prima era un grande contrabbandiere di sigarette insieme a Zaza.

PRESIDENTE. Ed era anche uomo d'onore Nunzio Guida?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, era anche uomo d'onore. Quindi, lo ha conosciuto come uomo d'onore insieme a Zaza e insieme hanno scaricato piroscafi e piroscafi di sigarette.

PRESIDENTE. Ha mai sentito parlare di Nunzio Guida in Brasile?

TOMMASO BUSCETTA. Ne ho sentito parlare prima, in prima persona.

PRESIDENTE. L'ha visto in Brasile?

TOMMASO BUSCETTA. No, non l'ho visto in Brasile. Lui ha delle amicizie molto elevate; quando io sono uscito dal carcere ho detto a Salamone che volevo andare in Brasile, ma il Brasile nel 1972 mi aveva espulso, per cui mi veniva un po' difficile ritornarvi. Salamone mi disse che Nunzio Guida avrebbe potuto aiutarmi in questa cosa e mi consigliò di andare da Alfredo Bono, che mi avrebbe messe in contatto con Nunzio Guida. Parlai con Nunzio Guida a Milano di questa cosa, ma la risposta, che giunse dopo vari giorni, fu che il mio nome era troppo eclatante in Brasile e che egli non poteva fare nulla, anche se si diceva che conoscesse l'allora Presidente del Brasile.

PRESIDENTE. Sa qualcosa dei rapporti tra Nunzio Guida ed Ortolani?

TOMMASO BUSCETTA. Credo che Nunzio Guida ospitasse Ortolani o che questi ospitasse lui.

PRESIDENTE. E dei rapporti tra Nunzio Guida e Gelli?

TOMMASO BUSCETTA. Questi non li conosco.

PRESIDENTE. Può dare chiarimenti alla Commissione sulla visita di uno dei Salvo a casa di Pippo Calò? Chi era, Ignazio?

TOMMASO BUSCETTA. No, era Nino. Siamo andati a pranzo a casa di Pippo Calò e nel pomeriggio io avrei dovuto incontrarmi con Salvo Lima e chi mi portava da Lima era Nino Salvo.

PRESIDENTE. Come mai andaste a mangiare a casa di Calò?

TOMMASO BUSCETTA. Calò era il mio figlioccio, il mio rappresentante, come devo dirlo? Io ero in casa di Pippo Calò, è Nino Salvo che viene a trovarmi in casa di Pippo Calò e dopo andiamo insieme a trovare Lima.

PRESIDENTE. E Nino Salvo da chi era stato interessato?

TOMMASO BUSCETTA. Da me, io conoscevo Nino Salvo.

PRESIDENTE. Vorrei capire meglio. Quindi, lei parlò con Nino Salvo e cosa gli chiese?

TOMMASO BUSCETTA. Per la verità lui mi disse: guarda che Salvo - perché l'altro si chiama pure Salvo, cioé Lima - ti vuole vedere.

PRESIDENTE. Era Lima che voleva vedere lei?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Ti vuole vedere perché si vuole scusare. Tu avrai capito.  Per la verità, Lima mi mandava dei messaggi in carcere, quando lui era segretario, e mi diceva che non poteva fare niente per me.

PRESIDENTE. Quando lui era segretario di che cosa?

TOMMASO BUSCETTA. Mi sembra che fosse sottosegretario. Non ricordo, anzi mi sembra che fosse sottosegretario alle finanze.

PRESIDENTE. E le diceva?

TOMMASO BUSCETTA. E mi diceva, attraverso Brandaleone - che è un'altra persona nella mia famiglia, che lei forse non avrà lì segnata perché non ne ho mai parlato con nessuno - che avrebbe fatto il possibile, ma che non c'era molto da fare perché il mio nome era troppo cubitale.

PRESIDENTE. E non si poteva quindi aiutarla. Andaste poi a parlare con Lima?

TOMMASO BUSCETTA. Andai poi a parlare con Lima.

PRESIDENTE. Sempre accompagnato da Nino Salvo?

TOMMASO BUSCETTA. Lui sapeva dove andare a trovare e poi io ero latitante e quindi dovevo stare attento. Andammo in un albergo, di cui non ricordo il nome.

MARCO TARADASH. L'intervento di Lima chi l'aveva chiesto?

PRESIDENTE. Buscetta dice che Lima aveva chiesto di parlare con lui.

MARCO TARADASH. Lima aveva mandato biglietti in carcere, ed allora?

PRESIDENTE. L'onorevole Taradash vuol sapere, poiché lei qui riferisce che Lima le aveva mandato dei messaggi in carcere ...

TOMMASO BUSCETTA. Non biglietti, messaggi a voce, orali.

PRESIDENTE. L'onorevole Taradash vorrebbe capire chi avesse detto a Lima: interessati.

TOMMASO BUSCETTA. Ma Lima era amico mio. Poi, non essendo più presente perché abbiamo fatto due strade completamente diverse, avevamo l'unione di un personaggio molto vicino a Lima, nella mia famiglia di Porta Nuova, che era amico nostro e che era Brandaleone, Ferdinando Brandaleone, che aveva un fratello assessore al comune di Palermo.

PRESIDENTE. E Brandaleone era un uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Era un uomo d'onore.

PRESIDENTE. E il fratello?

TOMMASO BUSCETTA. Il fratello no, l'assessore. Ma ce ne erano tanti uomini d'onore nella giunta di Lima.

PRESIDENTE. Ce ne erano tanti?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, e ne parlerò poi con i giudici. Ne parlerò: ce ne erano tanti uomini d'onore nella giunta di Lima e non perché Lima li volesse, ma perché erano votati. Portavano più voti del sindaco: dovevano essere degli assessori.

PRESIDENTE. Nelle giunte successive ci sono stati ancora uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so. Non le dirò certo di no.

MARCO TARADASH. Buscetta ha detto: Lima era amico mio. Può descrivere i rapporti personali che ha avuto con Lima?

PRESIDENTE. E' meglio rinviare a dopo questa domanda. Quali erano i rapporti tra mafia e imprese a Palermo? In altri termini, per lavorare le imprese dovevano rivolgersi a Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Sembrerà strano, ma è una parte che io non conosco perché non si facevano. Ma so benissimo che dopo il 1970, quando ero carcerato, si facevano perché entravano anche uomini d'onore che avevano subito dei processi perché avevano fatto degli attentati dinamitardi alle imprese di costruzione. Questo l'ho saputo, ma personalmente non l'ho conosciuto, questo fatto.  PRESIDENTE. Non conosce questo rapporto tra mafia ed imprese.

TOMMASO BUSCETTA. E' nato dalle intimidazioni, dalle bombe, dalle macchine che saltavano in aria, dai pilastri di cemento armato che cadevano. Quindi, è nato un rapporto di intimidazione e così ogni costruttore aveva il suo guardiano, dava una sovvenzione per i carcerati, perché questo era il nome.

PRESIDENTE. C'era stata, dunque, un'azione di intimidazione. Siccome lei un attimo fa ha detto che la mafia non ha bisogno di intimidire, come mai è accaduto ciò?

TOMMASO BUSCETTA. Ma venivano imprese che dovevano essere intimidite, venivano imprese straniere: "siamo andati dal triestino per vedere se capiva il messaggio ed il triestino non capisce il messaggio".

PRESIDENTE. Bisognava spiegarglielo bene, insomma. I nomi degli imprenditori Costanzo, Graci e Rendo le dicono qualcosa?

TOMMASO BUSCETTA. Solo Costanzo, perché lo conoscevo di nome attraverso Pippo Calderone.

PRESIDENTE. Può spiegare che cosa sa di Costanzo?

TOMMASO BUSCETTA. La persona di fiducia di Costanzo, quando lui andava a costruire ... ecco: la risposta l'abbiamo subito. Se lui andava a costruire a Palermo, a Bolognetta, era il Pippo Calderone che andava a trattare dicendo: verrà Costanzo, verrà a costruire. Di cosa avete bisogno? Gli rispondevano: abbiamo bisogno di due guardiani, due impiegati. E perciò non c'era bisogno di mettere bombe o di intimidire.

PRESIDENTE. E Cassina?

TOMMASO BUSCETTA. Cassina io credo che aveva già un sopporto molto grande da parte di Salvo Lima che io conosco dal lontano 1960, 1959.

PRESIDENTE. Chi?  TOMMASO BUSCETTA. Io personalmente conoscevo il rapporto fra Cassina e Lima.

PRESIDENTE. Mentre ci siamo, può spiegare alla Commissione questo suo rapporto d'amicizia con Lima?

TOMMASO BUSCETTA. Mio personale?

PRESIDENTE. Sì.

TOMMASO BUSCETTA. Come ho detto già in un interrogatorio diventato pubblico, il Lima era figlio di un uomo d'onore attivo. Un uomo d'onore che era nella famiglia di Palermo. Molte persone hanno scambiato che il rapporto fra Lima ed i La Barbera fosse un rapporto dovuto all'elettorato, fosse un rapporto dovuto alle intimidazioni. Non è vero. I La Barbera non avevano bisogno di questo perché avevano il padre dentro la loro famiglia, quindi loro chiedevano a Lima quello che volevano attraverso il padre, non direttamente. Mentre io ero - come dire? - l'astro nascente, il personaggio nuovo ...

PRESIDENTE. Emergente.

TOMMASO BUSCETTA. ... che frequentavo il Teatro Massimo e che non avevo niente a che vedere con le bettole; una volta, quando io ero giovanotto, si usavano le bettole, ma io non le frequentavo ed andavo al Teatro Massimo. Io conoscevo personalmente il padre di Lima e mi fu presentato Lima dal padre. Tra noi si instaurò un rapporto che non era un rapporto fatto di "io ti do, tu mi dai". Assolutamente, questo non esisteva e si instaurò un rapporto: eravamo della stessa età, frequentavamo assieme il Teatro Massimo, lui mi mandava i biglietti per tutta la stagione lirica del Teatro Massimo. Questi erano i rapporti.

PRESIDENTE. Come diceva, Cassina era sostenuto da Lima. E l'imprenditore Vassallo?

TOMMASO BUSCETTA. Credo che Vassallo era la "firma" di Lima, che Vassallo fosse scritto per sostituire il nome di Lima.

PRESIDENTE. Moncada?

TOMMASO BUSCETTA. Moncada no. Mocada era un membro della famiglia di Palermo.

ALTERO MATTEOLI. Cosa vuol dire "la famiglia di Lima"?

TOMMASO BUSCETTA. Io ho detto "la famiglia di Lima"?

PRESIDENTE. No, "la firma".

TOMMASO BUSCETTA. Forse confondo lo spagnolo con l'italiano: per "firma" intendo dire la ditta. Io credo che la ditta ...

PRESIDENTE. Era Vassallo.

TOMMASO BUSCETTA. ... che dietro quella firma ci fosse Lima. Un prestanome.

PRESIDENTE. Com'è che poi è stato sequestrato un nipote, anzi il figlio, di Vassallo, nonostante che questi avesse alle spalle Lima?

TOMMASO BUSCETTA. E perché Lima è una garanzia?

PRESIDENTE. Non era sufficiente?

TOMMASO BUSCETTA. No. E poi non credo molto a questo sequestro di Vassallo. Non lo conosco questo sequestro.

PRESIDENTE. Può spiegare?

TOMMASO BUSCETTA. Che non c'è stato il sequestro.

PRESIDENTE. E' stato finto?

TOMMASO BUSCETTA. E' stato finto.

PRESIDENTE. E perché?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so il perché.

PRESIDENTE. Però, lei sa che è stato finto.

TOMMASO BUSCETTA. Non c'è stato il sequestro. Si è autosequestrato, io credo.

PRESIDENTE. Moncada era uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, Moncada era uomo d'onore della famiglia di Palermo. Salvatore Moncada, perché erano diversi fratelli costruttori, ma l'uomo d'onore era Salvatore Moncada.

PRESIDENTE. Salvatore Moncada dava copertura anche ai fratelli?

TOMMASO BUSCETTA. E' logico.

PRESIDENTE. Ha mai sentito parlare del dottor Mandalari?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Ne ho sentito parlare in carcere da Agostino Coppola, da gente che è entrata in carcere. Era come si dice...

PRESIDENTE. Un commercialista.

TOMMASO BUSCETTA. Un commercialista di tutti gli amici nostri che venivano in carcere. Tu hai avuto un commercialista? Mandalari. Altre cose non so di Mandalari.

PRESIDENTE. Era il commercialista di tutti quelli di Cosa nostra o solo dei corleonesi?

TOMMASO BUSCETTA. Beh, lei ha fatto una bella domanda. Era amico dei corleonesi perché tutti quelli che venivano in carcere e avevano il commercialista Mandalari, incredibilmente erano tutti corleonesi. Cioè, non nati a Corleone...

PRESIDENTE. Del gruppo dei corleonesi.

TOMMASO BUSCETTA. Della corrente. Voi parlate di correnti, parlo pure io di correnti. Della corrente dei corleonesi.

PRESIDENTE. Gli imprenditori di Catania come sono entrati a Palermo? Tramite Pippo Calderone?

TOMMASO BUSCETTA. L'ho data la risposta.

PRESIDENTE. Nel corso di un interrogatorio del 9 agosto 1984 al dottor Falcone, lei ha dichiarato che se un imprenditore di una provincia intende eseguire lavori di notevole rilievo in un'altra provincia, il giudizio è riservato all'interprovinciale. E' così?

TOMMASO BUSCETTA. Bisogna vedere l'importanza della ditta. Perché se uno deve fare cento metri di strada, si rivolge personalmente all'uomo d'onore che lui conosce, anche se è di Balestrade, e dice "guardi io devo andare a fare cento metri di strada in quella borgata, in quel paese, in quella cittadina". Allora, va solo. Domanda il permesso al suo rappresentante e va.

PRESIDENTE. Se invece è un lavoro più impegnativo?

TOMMASO BUSCETTA. E allora può interessarsi l'interprovinciale e dire "guarda, c'è un appalto per vari miliardi, potremmo vedere di interessarci per non avere disturbo se andiamo a costruire a Palermo o, viceversa, se andiamo a costruire a Catania".

PRESIDENTE. Questo succede anche con gli imprenditori non siciliani?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

ALFREDO BIONDI. E la ripartizione come avviene? Quando si chiede un piacere, come avviene il conteggio dell'interesse della famiglia o dell'interprovinciale?

PRESIDENTE. Dice l'onorevole Biondi...

ALFREDO BIONDI. Ha capito, ha capito.

TOMMASO BUSCETTA. Ho capito. Posso rispondere.

PRESIDENTE. Mi scusi, onorevole Biondi, ripeterei la domanda per la registrazione.

ALFREDO BIONDI. Sono vanitoso.

TOMMASO BUSCETTA. Allora siamo due vanitosi. L'aveva capito che ero vanitoso anch'io?

ALFREDO BIONDI. E' una bella qualità aver stima di se stesso.

TOMMASO BUSCETTA. La ripartizione non avviene, non c'è ripartizione. Voleva sentire la risposta? Allora mi dia ascolto. La ripartizione non avviene, perché al momento dell'interessamento dell'interprovinciale stabiliscono loro che cosa quella firma, cioè quella ditta, darà alla borgata dove andrà a costruire.  Quindi, la ripartizione avviene con chi? Nella famiglia dove va a costruire e quello non deve ripartire con nessuno.

ALFREDO BIONDI. Ho sbagliato il termine, intendevo la quota. Come si fissa la quota?

TOMMASO BUSCETTA. La quota non c'è, non è una percentuale, è una stima.

ALFREDO BIONDI. Ho capito.

PRESIDENTE. Lei ha dichiarato al giudice Falcone di aver appreso da Stefano Bontade che il sindaco Martellucci, grazie all'intermediazione dei Salvo, aveva accettato che Ciancimino gestisse il risanamento dei mandamenti di Palermo.

TOMMASO BUSCETTA. Già non abbiamo parlato in precedenza di questo?

PRESIDENTE. Non abbiamo parlato di Martellucci. Abbiamo parlato di risanamento, c'è una cosa in più adesso. Si tratta di sapere per conto di chi i Salvo avevano svolto il ruolo di intermediazione.

TOMMASO BUSCETTA. Tra?

PRESIDENTE. Tra Martellucci e forse Ciancimino, perché Bontade le avrebbe detto che Martellucci, grazie all'intermediazione dei Salvo, aveva accettato che Ciancimino gentisse il risanamento dei mandamenti di Palermo. Martellucci era sindaco e Ciancimino assessore. I Salvo per conto di chi avevano agito? Anzi, Ciancimino non era più assessore, era responsabile degli enti locali.

TOMMASO BUSCETTA. Martellucci non è un uomo d'onore. Martellucci non è avvicinato neanche da Bontade. Martellucci in quel momento è l'attuale sindaco di Palermo. Allora che cosa si vuole? Tranquillità alla giunta di Martellucci, ma è la corrente - e questa volta è appropriato - andreottiana che va a proporre a Martellucci di lasciare, di dare un boccone a Ciancimino, perché la giunta possa andare avanti.

PRESIDENTE. Così lasciava la giunta tranquilla, insomma.

TOMMASO BUSCETTA. Esatto.

PRESIDENTE. Poi fu messa la bomba nella villa di Martellucci.

TOMMASO BUSCETTA. Sì, e difatti Bontade mi disse "ma che cosa vuole questo gran cornuto del corto (il corto sarebbe Salvatore Riina)". Insomma, quello che voleva, Ciancimino l'ha ottenuto. Ma perché andare a mettere la bomba da Martelucci? Non ho altro da aggiungere.

PRESIDENTE. Quali vantaggi trasse Cosa nostra dal fatto che il risanamento dei mandamenti fosse gestito da Ciancimino?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so assolutamente.

GIUSEPPE MARIA AYALA. Il risanamento non è mai stato fatto.

PRESIDENTE. Lo so, tant'è che recentemente è stata approvata una legge. Si tratta di capire quali siano le risposte del signor Buscetta.

TOMMASO BUSCETTA. Sarei morto di fame aspettando...

PRESIDENTE. Le è andata meglio così, signor Buscetta. Lei ha detto, a proposito del golpe Borghese, che i contatti con Cosa nostra erano stati resi possibili dal fratello massone di Morana Carlo.

TOMMASO BUSCETTA. Esatto.

PRESIDENTE. Uomo d'onore della famiglia di corso dei Mille.

TOMMASO BUSCETTA. Esatto.

PRESIDENTE. E successivamente aggiunge che Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone avevano contattato massoni di grado più elevato rispetto a Morana.

TOMMASO BUSCETTA. Morana non era massone. Carlo Morana.

PRESIDENTE. Massone è il fratello.

TOMMASO BUSCETTA. Che poi il fratello aveva introdotto ai gradi più elevati.

PRESIDENTE. Per capire, il fratello massone di Carlo Morana aveva introdotto ai gradi elevati Di Cristina e Calderone. Lei ha anche precisato che Calderone e Di Cristina sarebbero andati a Roma, insieme con i massoni palermitani e forse anche catanesi, per incontrarsi con Borghese.

TOMMASO BUSCETTA. Esatto!

PRESIDENTE. E' esatta questa ricostruzione?

TOMMASO BUSCETTA. E' esatta questa ricostruzione.

PRESIDENTE. Può chiarire meglio questo rapporto con la massoneria?

TOMMASO BUSCETTA. Chi parlò di Borghese a Cosa nostra sono i massoni. Pippo Calderone o Giuseppe Di Cristina non conoscevano Borghese. Quindi l'appuntamento viene dato dal fratello di Carlo Morana a Pippo Calderone e a Giuseppe Di Cristina. Sono poi loro che sono condotti in un altro posto, che io non so, dei massoni e viene fatta la composizione "Borghese, il patto è...".  Quando poi vanno a Roma, si vanno ad incontrare personalmente con Borghese e nasce quel fatto, le fasce...

PRESIDENTE. Sì, sì, l'elenco eccetera. Lei sa di altri rapporti tra uomini d'onore e massoni?

TOMMASO BUSCETTA. Vitale è cognato di Stefano Bontade ed era massone; Vitale era amico di Sindona; era stato Vitale a portare Sindona da Stefano Bontade e Inzerillo. Era stato Sindona a parlare a Inzerillo di golpe.

PRESIDENTE. Questo è un altro, quello del 1979.

TOMMASO BUSCETTA. No, stiamo parlando di un altro...Quando è stato Sindona in Italia?

PRESIDENTE. Nel 1979.

TOMMASO BUSCETTA. Stiamo parlando di un altro. Però non se n'è fatto niente perchè...

PRESIDENTE. Come di un altro? Prima abbiamo parlato di quello del 1970.

TOMMASO BUSCETTA. Esatto.

PRESIDENTE. Ora stiamo parlando del 1979.

TOMMASO BUSCETTA. Lei vuole sapere quello di mezzo? Del 1974?

PRESIDENTE. Qual è quello di mezzo?

TOMMASO BUSCETTA. Nel 1974 ce n'era un altro preparato.

PRESIDENTE. Vuole spiegarsi?

TOMMASO BUSCETTA. Ho ricevuto dal mio direttore del carcere, dottor De Cesare, la notizia che dopo pochi giorni sarebbe successo un colpo di Stato e io sarei passato, attraverso un brigadiere della matricola, per un cunicolo, sarei entrato in casa sua e sarei stato liberato. Sapevo che c'erano anche dei militari. Ma non vorrei dire queste cose, sennò diventa uno scandalo, per l'amor di Dio!

PRESIDENTE. Credo lo sia già stato. Nel 1974 qualcuno le disse che ci sarebbe potuto essere un tentativo di colpo di Stato - in cui lei sarebbe stato liberato - in cui c'entravano i militari. Questo le dissero?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Lo disse il dottor Di Cesare, direttore dell'Ucciardone?

TOMMASO BUSCETTA. Di massoni e militari.

PRESIDENTE. Quanto ai rapporti tra uomini d'onore e massoni, abbiamo parlato delle vicende del 1970. Successivamente, nel 1974, la mafia aveva un ruolo?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, è logico. Come faceva a conoscermi Di Cesare per dirmi che mi avrebbe portato a casa sua?

PRESIDENTE. Di Cesare era uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. No, perciò dico che era stata la mafia a dirglielo.

PRESIDENTE. Vi è poi la vicenda Sindona del 1979. Che progetto aveva Sindona?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so, perché Stefano Bontade non riuscì a spiegarmelo. Gli disse: lei mi sembra pazzo, sono stanco di colpi di Stato. Se li vada a fare lei. Lo mandarono via.

PRESIDENTE. Esistevano rapporti tra uomini d'onore e massoni anche per ragioni più spicciole, quali un processo o una licenza?

TOMMASO BUSCETTA. No, non lo so.

ROMEO RICCIUTI. Consulenze di alto livello tra università e uomini della professione tramite la massoneria?

TOMMASO BUSCETTA. No.

ALFREDO GALASSO. Il principe Alliata era massone?

PRESIDENTE. Le ripeto la domanda; per maggiore chiarezza è opportuno che sia sempre il presidente a porre i quesiti. Il principe Alliata era massone?

TOMMASO BUSCETTA. Conoscevo il principe Alliata perché ho giocato con lui. Ma, a quell'epoca, non mi intendevo di massoneria. Non so se fosse massone.

PRESIDENTE. Dopo, se n'è inteso di massoneria?

TOMMASO BUSCETTA. No, però ho cercato di sapere se c'erano dei rapporti con la massoneria.

PRESIDENTE. Il principe Alliata era uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. No. Forse la mia risposta è categorica. E' meglio dire: che io sappia, no.

PRESIDENTE. Pippo Calderone avrebbe riferito che nel 1977 Bontade avrebbe a sua volta riferito che c'era stato un pour parler perché entrassero dei mafiosi nella massoneria. Lei ha sentito parlare di questa vicenda?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Era noto che Giacomo Vitale fosse massone?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Lei sa di un intervento che avrebbe fatto Giacomo Vitale nei confronti di magistrati del processo dei 114?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Vitale aveva rapporti con le famiglie mafiose?

TOMMASO BUSCETTA. Aveva un cognato capomafia, capomandamento. Anzi, i cognati.

PRESIDENTE. Lei sa qualcosa dei rapporti tra Giacomo Vitale e Michele Sindona, oltre a quello che ha già detto?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Tra Sindona e Bontade ci fu quel colloquio...

TOMMASO BUSCETTA. E Inzerillo. Sindona aveva insieme a lui alcuni fratelli Gambino di New York. Questi sono imparentati con gli Inzerillo. Quindi hanno accompagnato Sindona. E' per questo che era presente Inzerillo. Era anche lui capomandamento.

PRESIDENTE. Cosa si sono detti durante il colloquio?

TOMMASO BUSCETTA. Io l'ho sentito raccontato: quel pazzo è venuto qua per il colpo di Stato; lo abbiamo mandato a quel paese, quale colpo di Stato!

PRESIDENTE. Lei dice di aver tentato di partecipare a due tentativi.

TOMMASO BUSCETTA. Erano tutti andati "a buca".

PRESIDENTE. Quindi, tanto valeva non provarci più. E' chiaro. Lei sapeva che Sindona era massone?

TOMMASO BUSCETTA. L'ho saputo attraverso Vitale e Stefano Bontade.

PRESIDENTE. Sapeva che Miceli Crimi era massone?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Conosce questo nome?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Sapeva che Sindona era iscritto alla loggia P2?

TOMMASO BUSCETTA. Non sapevo che esisteva la P2.

PRESIDENTE. Ha mai sentito parlare della loggia Diaz?

TOMMASO BUSCETTA. Non so parlare di queste cose.

PRESIDENTE. Quindi non sa se i Greco erano iscritti alla massoneria?

TOMMASO BUSCETTA. I due fratelli? Non so.

PRESIDENTE. E i Salvo?

TOMMASO BUSCETTA. Non so di uomini iscritti alla massoneria.

PRESIDENTE. Perché si interrompe il soggiorno di Sindona a Palermo?

TOMMASO BUSCETTA. L'hanno mandato via, l'hanno cacciato. Gli hanno detto: vai via.

PRESIDENTE. Non vi è rapporto con l'assassinio del giudice Terranova?

TOMMASO BUSCETTA. No, assolutamente.

PRESIDENTE. Perché Terranova fu ucciso?

TOMMASO BUSCETTA. Perché era stato cattivello con Luciano Liggio.

PRESIDENTE. La proposta di Sindona di un tentativo di colpo di Stato separatista fu discussa nelle famiglie di Cosa Nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Credo che Stefano Bontade ne parlò in Commissione ma quella fu la risposta: di andarsi a fare una bella camminata.

PRESIDENTE. Lei sa chi mise in contatto Sindona con il notaio Cordaro di Caltanissetta?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Non sa se Pino Mandalari sia un esponente della massoneria?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Dopo la strage di Ciaculli le famiglie si sciolsero. Poi ci furono le assoluzioni di Catanzaro. Quale fu il successivo comportamento di Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Dobbiamo andare al 1969-1970; la sentenza fu del dicembre 1969. Hanno ricominciato a ricostruirsi, attraverso Stefano Bontade, che allora era giovane e non era stato preso di mira dalla polizia. Credo che avesse vent'anni. Attraverso Stefano Bontade si sono cominciate a ricostruire, ma le cose si erano un po' fermate perché quel famoso personaggio di cui ho parlato all'inizio, Cavataio, preferiva che le famiglie si facessero così come lui voleva. Questo è un discorso lungo, da fare per la storia della criminologia. Non credo che vi interessi molto e perciò sarò succinto. Dopo la morte di Cavataio, nel 1970, si comincia la ricostruzione delle famiglie, ognuno nella sua borgata. Si istituiscono i capimandamento e si fa la Commissione. Questa però, in un primo tempo e cioè verso il 1974, è gestita soltanto da tre persone: Riina, Bontade e Badalamenti. Subito dopo l'arresto di Luciano Liggio, credo nel 1974, a Milano si comincia a fare la commissione così come si formò: ogni tre famiglie un capomandamento e si abolirono i tre.

PRESIDENTE. Cosa nostra fece qualcosa di particolare per mettersi in evidenza e per far capire che si erano riorganizzati?

TOMMASO BUSCETTA. Questa mi sembra una domanda da torinese e rispondo ad un torinese: la mafia non ha bisogno di queste cose, ognuno ha una famiglia numerosissima e questa famiglia ha altre famiglie. Già si sa, è un collegamento.

PRESIDENTE. Gli attentati degli anni settanta, l'omicidio di Scaglione, la scomparsa del giornalista Di Mauro...

TOMMASO BUSCETTA. Non erano per dimostrare che la mafia era tornata.

PRESIDENTE. Perché erano stati fatti?

TOMMASO BUSCETTA. Perché dovevano scassare la credibilità del Governo italiano. PRESIDENTE. Creare le condizioni per il colpo di Stato?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Anche l'omicidio Scaglione?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Ho spiegato che anche dietro l'omicidio di Scaglione come entità di Stato c'era un'altra cosa: Vincenzo Rimi; ha approfittato di servire Cosa nostra ma ha approfittato di servirsi lui stesso.

PRESIDENTE. Lei ha spiegato, se non ho capito male, che Cosa nostra non commette mai omicidi su commissione; sono cose che interessano lei, poi possono anche interessare altri.

TOMMASO BUSCETTA. E' logico, è questo il discorso.

PRESIDENTE. Questa è l'ipotesi.

TOMMASO BUSCETTA. No, questa è certezza, non ipotesi.

PRESIDENTE. L'onorevole Riggio le chiede se questa riorganizzazione riguardi soltanto la provincia di Palermo o tutta quanta la Sicilia?

TOMMASO BUSCETTA. Solo la provincia di Palermo, perché era questa ad essere scassata.

PRESIDENTE. Quindi, a Trapani...

TOMMASO BUSCETTA. Funzionavano regolarmente.

PRESIDENTE. Avendo lei spiegato alla Commissione che l'assassinio di Scaglione, la scomparsa di De Mauro, le bombe messe in quel periodo erano diretti a togliere credibilità allo Stato e a creare l'ambiente ed il clima favorevoli al tentativo del colpo di Stato, l'onorevole Borghezio le chiede se le stragi che si sono verificate negli ultimi tempi possano avere un significato analogo.

TOMMASO BUSCETTA. Non posso rispondere a questa domanda: non lo so. Devo rimanere "a cavallo" per quelle che saranno le indagini e per quelle che potranno essere le mie riflessioni. Quindi, devo rispondere: "Non lo so". Da dove la prendo un'affermazione simile? CARLO D'AMATO. Forse nel "delirio".

TOMMASO BUSCETTA. Di "delirio" abbiamo parlato fuori.

PRESIDENTE. Se non ho capito male, lei ha usato il termine "delirio" in senso scherzoso per indicare la sua ipotesi?

TOMMASO BUSCETTA. E' così.

PRESIDENTE. All'inizio dell'audizione lei ha fatto cenno alla pressione esercitata nei suoi confronti per la liberazione dell'onorevole Moro. Se non ho capito male, qualcuno le disse che la commissione aveva deciso che si poteva fare questa operazione di prendere contatto con i brigatisti e a tal fine lei doveva andare da Cuneo a Torino.

TOMMASO BUSCETTA. C'era un piccolo intrigo che dovevo fare nella mia qualità di uomo d'onore. Mentre avevo l'ordine di Cosa nostra di interessarmi al fine di salvare la vita di Moro, da parte della malavita milanese mi veniva lo stesso richiamo; io però non raccontai ai milanesi, che non erano uomini d'onore, che dalla Sicilia avevo ricevuto la stessa "voce". Quindi approfitto dell'occasione che mi offre la malavita milanese per essere trasferito al carcere di Torino.

PRESIDENTE. Allora era la malavita milanese che le aveva data la possibilità di essere trasferito?

TOMMASO BUSCETTA. E' così ed è registrato.

PRESIDENTE. Lei fece domanda per andare a Torino?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo ricordo; comunque, accusavo delle malattie che si sarebbero trasformate in trasferimento...

PRESIDENTE. Ho capito.

TOMMASO BUSCETTA. ...in un centro clinico, che era quello di Torino.

PRESIDENTE. Poi invece fu mandato a curarsi a Milano?

TOMMASO BUSCETTA. Mi portarono a San Vittore, da dove fui mandato a Napoli. Credo che in questo frattempo il povero Moro sia morto. Dico credo perché faccio confusione con le date.

PRESIDENTE. Non si preoccupi perché le date le controlleremo noi. A Milano incontrò dei brigatisti?

TOMMASO BUSCETTA. Incontrai quello che si interessava a me...

PRESIDENTE. Quello appartenente alla criminalità comune?

TOMMASO BUSCETTA. ...e che mi dà i verbali delle intercettazioni in cui si parla di tutto questo.

PRESIDENTE. L'uomo a cui allude era un detenuto?

TOMMASO BUSCETTA. Quando andai a Milano era già detenuto.

PRESIDENTE. Aveva i verbali delle intercettazioni?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Apparteneva alla criminalità comune?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Di Milano?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Nel senso che faceva il criminale a Milano o era milanese?

TOMMASO BUSCETTA. Nel senso che faceva il criminale a Milano ed era milanese. A Cuneo sono stato in cella con Francis Turatello che aveva tutta questa malvivenza milanese ai suoi piedi; quindi questo di cui parlo, e di cui parlerò con i giudici affinché possano essere condotte le ricerche delle bobine in questione, mi viene a trovare all'interno del carcere, dove entra con un documento falso per parlare con me.

PRESIDENTE. Nel carcere di Cuneo?

TOMMASO BUSCETTA. Sì. Mi dice appunto che c'è una certa possibilità ed io rispondo: "I terroristi che sono qui non sono all'altezza di poter rispondere a questa domanda; se andassi a Torino, potrei incontrarne degli altri a cui rivolgermi". Allora mi rispose che si sarebbe interessato attraverso un certo ministro - lo scoprite attraverso le bobine, perché è inutile che io ne faccia il nome - per farmi trasferire a Torino. Gli risposi: "Fallo". Allora mi dice: "Chiedi visita medica e dichiara che hai bisogno delle cure del centro clinico di Torino". Non ricordo se ho fatto la domandina. Poi mi disse: "Fatto! Sei trasferito!" ed io sono andato a Milano e da Milano sono andato a Napoli. PRESIDENTE. L'intercettazione riguardava il colloquio tra questa persona e lei nel carcere di Cuneo?

TOMMASO BUSCETTA. No, in quello di Milano.

PRESIDENTE. La conversazione registrata...

TOMMASO BUSCETTA. Non riguardava me.

PRESIDENTE. Riguardava altre persone?

TOMMASO BUSCETTA. Sarò più chiaro: riguardava mia moglie. Questo parlava con mia moglie...

PRESIDENTE. Al telefono?

TOMMASO BUSCETTA. ...e le diceva: "Sai, abbiamo ottenuto il trasferimento di Masino che va a Torino". Poi in altre telefonate lui era in contatto con la persona o con le persone di Roma che avrebbero attuato il mio trasferimento. Nelle telefonate c'è anche...ed allora queste "cose buone" non vogliono salvare Moro. La spiegazione è tutta nelle bobine.

PRESIDENTE. L'onorevole Biondi le chiede se si trattava di una trascrizione della registrazione o se erano dei nastri.

TOMMASO BUSCETTA. Lessi la trascrizione delle registrazioni; come potevo ascoltare i nastri? Nel verbale c'è scritto "presa dalla bobina".

PRESIDENTE. Quale interesse aveva Turatello alla liberazione di Moro?

TOMMASO BUSCETTA. Turatello non c'era più; chi ha parlato di Turatello?

PRESIDENTE. Non ha detto che a Cuneo...

TOMMASO BUSCETTA. Turatello se ne era già andato da Cuneo. Ho detto, come riferimento, di conoscere la malavita milanese, persone nate a Milano attraverso il contatto con Turatello.

PRESIDENTE. Dagli atti del maxiprocesso di Palermo risulta che lei non è mai stato a Milano.

TOMMASO BUSCETTA. Sul serio?

PRESIDENTE. Sì, risulta che il 14 ottobre 1977 è andato dalla casa circondariale di Regina Coeli alla casa circondariale di Cuneo; il 22 maggio 1978, dalla casa circondariale di Cuneo a Napoli; poi, il 15 giugno 1978, dalla casa circondariale di Napoli a quella di Cuneo. Risulterebbe che lei non è mai stato a Milano.

TOMMASO BUSCETTA. Guardi, io proprio a lei ... Io sono stato a Milano, non me lo sono sognato. Io sono stato tradotto a Milano, da Cuneo.

PRESIDENTE. Dai carabinieri?

TOMMASO BUSCETTA. Logico! Come, da solo?

PRESIDENTE. Successivamente risulta che il 16 marzo 1979 lei è stato trasferito da Palermo a Termini Imerese, il 20 marzo 1979 da Termini a Palermo, il 16 maggio 1979 da Palermo a Termini Imerese. Poi, è stato trasferito da Cuneo a Milano nel giugno 1979, praticamente un anno dopo l'assassinio di Moro.

TOMMASO BUSCETTA. Sì, ma io sono andato anche prima!

PRESIDENTE. Quindi lei insiste nel dire che è stato a Milano.

TOMMASO BUSCETTA. Io sono andato da Cuneo a Milano.

PRESIDENTE. Mentre era in corso il sequestro Moro?

TOMMASO BUSCETTA. Ma ... Sì.

PRESIDENTE. Ricorda l'anno?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Ma ricorda che era stato sequestrato Moro?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. E ricorda se era stato ucciso?

TOMMASO BUSCETTA. No, non ricordo. Non riesco a mettere insieme queste date.

PRESIDENTE. Dunque, quando le viene fatta la proposta di intervenire per vedere se sia possibile avere un colloquio con i brigatisti perché Moro venga liberato, Moro è sequestrato e lei è a Cuneo. E' così?

TOMMASO BUSCETTA. E' così, esatto.

PRESIDENTE. Lei dice che successivamente va a Milano. In quell'arco di tempo, insomma, non un anno dopo.

TOMMASO BUSCETTA. In quell'arco di tempo.

ALFREDO GALASSO. Poiché la situazione carceraria alla quale il presidente ha fatto riferimento è stata riepilogata dal giudice Grasso al maxiprocesso proprio al signor Buscetta, che non vi sia menzione di questo soggiorno a Milano dipende dal fatto che non lo ricordava o che non aveva voglia di parlarne?

TOMMASO BUSCETTA. No, no, non me ne ricordavo. Perché non avrei dovuto menzionarlo?

PRESIDENTE. Siccome lei ha deciso dopo l'assassinio del giudice Falcone di aprire ...

TOMMASO BUSCETTA. Ma non avrei motivo di omettere una traduzione. Siete in condizione di prendere l'elenco delle traduzioni dei carabinieri e di verificare quando volete.

PRESIDENTE. L'onorevole Ayala le chiede se ricorda quanto si fermò a Milano in quella circostanza.

TOMMASO BUSCETTA. Poco tempo.

PRESIDENTE. Per poco tempo intende pochi mesi o poche settimane?

TOMMASO BUSCETTA. Forse due settimane, forse venti giorni.

PRESIDENTE. E a Milano riuscì ad avere contatti con i brigatisti oppure no?

TOMMASO BUSCETTA. No. Non ne avevo più bisogno, credo, a quell'epoca.

PRESIDENTE. Sulla base delle conoscenze che lei ha delle dinamiche interne a Cosa nostra ed in particolare della commissione provinciale, può dirci se questa commissione ha avuto un qualche ruolo nella strage del rapido 904? Quella strage per la quale ora Calò è stato definitivamente condannato?

TOMMASO BUSCETTA. Guardi, per me ... Siamo sempre in quell'ipotesi di cose molto più grandi di quelle che sono la Cosa nostra. Io credo che Calò c'entrasse in quelle bombe del treno.

PRESIDENTE. Ha avuto l'ergastolo. In genere questo significa che si è colpevoli.

TOMMASO BUSCETTA. Credo che c'entrasse, ma non posso asserirlo.

PRESIDENTE. Lei ha detto che uno come Calò se voleva fare un sequestro di persona poteva farlo con chi voleva, ma quando si trattava di omicidi la cosa era diversa e bisognava concordare con Cosa nostra. Per una strage come questa - alla quale risulta da tutta una serie di atti ed anche da sentenze definitive che abbia partecipato - è possibile che Calò abbia agito senza aver preso contatto con Cosa nostra, senza avere un'autorizzazione?

TOMMASO BUSCETTA. No, è impossibile. Calò non poteva fare una cosa del genere senza che la cupola, come voi la chiamate, lo sapesse. E' impossibile. Però c'è una cosa. Sembra che le mie dichiarazioni abbiano dei contrasti. Mi potreste dire: per fare dei crimini molto gravi Cosa nostra non usa gente che va fuori? Ma ci sono delle condizioni. Per potervelo spiegare meglio: se Calò ha partecipato alla strage del treno, indubbiamente non ha fatto partecipare nessun siciliano.

PRESIDENTE. Ho capito.

TOMMASO BUSCETTA. Non partecipando nessun siciliano, quello che ha fornito le bombe ha fatto un favore a lui. Non perché lui vuole che si mettano le bombe, ma l'intenzione sua è che le mettano le bombe.

PRESIDENTE. Ma la decisione di fare questa cosa, secondo lei, è stata presa anche dalla commissione, da Cosa nostra o no?

TOMMASO BUSCETTA. Senz'altro. Lui non la fa una cosa senza informare Cosa nostra. Assolutamente non può farla. Lui rischia di morire. Può essere stato portatore e dire: "Ho un'occasione, ci sono Tizio e Caio che vogliono mettere una bomba". "Lasciali fare". "Va bene". Ma lo fanno loro, senza Pippo Calò. Quando lui si batte dietro le barre e dice "sono innocente", è innocente nel vero senso, perché può giurare la sua innocenza e non ci sono prove contro di lui. Però sotto banco lui avrà senz'altro partecipato: questa è la mia convinzione. PRESIDENTE. Anche se si trattava soltanto di fornire le bombe per la strage doveva parlarne alla commissione provinciale?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Frequentando Calò, lei ha mai avuto modo di conoscere un certo Pietro Cannizzaro?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Parente di Nitto Santapaola e che gestisce un negozio di abbigliamento a Roma.

TOMMASO BUSCETTA. No, no, non lo conosco. Sono andato in un negozio, qui a Roma, insieme a Pippo Calò, che mi ha fatto un bagaglio di diversi milioni, ma era verso via Nazionale ... Qual è quella piazza in fondo a via Nazionale?

PRESIDENTE. Piazza Esedra? Vicino alla stazione?

TOMMASO BUSCETTA. Piazza Esedra.

PRESIDENTE. L'onorevole Imposimato vuole sapere se si trattava dei soldi del sequestro Armellini.

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so da dove venivano i soldi. Li aveva lui.

PRESIDENTE. La sera famosa in cui avrebbe dovuto esserci il tentativo di colpo di Stato di Borghese, qualcuno di Cosa nostra andò a Roma?

TOMMASO BUSCETTA. Che io sappia no.

PRESIDENTE. Non sa se qualcuno ci andò?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Nessuno glielo disse dopo?

TOMMASO BUSCETTA. A me è stato detto che c'era anche la flotta russa nel Mediterraneo.

PRESIDENTE. Questa è la ragione per cui non è successo, ma se qualche uomo di Cosa nostra è andato a Roma a dare una mano lei non lo sa.

TOMMASO BUSCETTA. No, non lo so.

PRESIDENTE. Calderone ci ha detto che andò Natale Rimi: lei questo non lo sa?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Il 4 dicembre 1984 lei ha dichiarato al giudice Falcone che settori di partiti politici governativi e di altre istituzioni erano pronti a fornire il loro appoggio al golpe Borghese. Aggiunge che altri uomini d'onore, oltre a quelli da lei citati, avevano avuto rapporti con Borghese. In quell'occasione, davanti al giudice Falcone disse che avrebbe riferito in seguito su questi particolari; può far capire alla Commissione di cosa si tratti?

TOMMASO BUSCETTA. Riferirò in seguito alla magistratura. Se me lo consente e se non la prende come una scortesia.

PRESIDENTE. Se bastasse questo a farla parlare, potremmo prenderla come una scortesia, ma non credo che basti.

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Può far capire a quali istituzioni si riferisca quando parla di "altre istituzioni"?

TOMMASO BUSCETTA. Non ho detto poco fa che il colonnello dei carabinieri era quello che andava ad arrestare il prefetto?

PRESIDENTE. Questa è una risposta.

TOMMASO BUSCETTA. Non ho parlato poco fa? Il resto lasciamolo ai giudici istruttori. Il colonnello Russo è un'istituzione o no? PRESIDENTE. E' appartenente ad un'istituzione.

TOMMASO BUSCETTA. Appartenente ma è un'istituzione. Appartenente: devo correggermi, va bene. Io vedo il colonnello Russo come un'istituzione perché era il comandante ed era quello che andava ad arrestare il prefetto.

PRESIDENTE. Sarebbe stato quello ...

TOMMASO BUSCETTA. Sarebbe stato: esatto.

PRESIDENTE. Cosa nostra aveva giudici amici a Palermo?

TOMMASO BUSCETTA. Giudici? PRESIDENTE. Sì, magistrati amici, che vi facevano dei favori.

TOMMASO BUSCETTA. Ah, lei mi fa entrare in un campo che è assolutamente improponibile.

PRESIDENTE. Peggio di quello della politica?

TOMMASO BUSCETTA. Io credo di sì. Per l'amor di Dio!

PRESIDENTE. Non vuole rispondere neanche sì o no?

TOMMASO BUSCETTA. No, non risponderò a questa domanda perché ritengo che, come nella politica, se è difficile stabilire un rapporto tra due mafiosi, s'immagini con un politico, s'immagini con un giudice; ed io sarei così pazzo da avventurarmi in questo sentiero? No.

PRESIDENTE. Avete avuto favori, aggiustamenti di processi a Palermo?

TOMMASO BUSCETTA. Come ho già detto "u carbuni si nun tinci mascarìa", e ritorniamo nuovamente alla domanda di prima. Io personalmente non ho corrotto nessun giudice.

PRESIDENTE. La corruzione è un'altra cosa.

TOMMASO BUSCETTA. No, no, non posso parlare di queste cose.

PRESIDENTE. Le ho chiesto se abbiate avuto aggiustamenti di processi a Palermo.

TOMMASO BUSCETTA. Aggiustamenti di processi ci sono stati a Palermo sempre, in tutte le epoche. Però, se mi chiedessero di indicare i giudici, io risponderei che non lo so.

PRESIDENTE. Anche se lo sa?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, anche se lo so.

MARIO BORGHEZIO. Presidente, può chiedere al signor Buscetta se siano state concesse grazie ad uomini d'onore?

PRESIDENTE. Le grazie le concede il Presidente della Repubblica. Trattandosi di fatti pubblici, possiamo compiere accertamenti diretti. L'essere detenuti è un impedimento a parlare tra voi, ad avere rapporti con l'esterno? Cosa cambia trovarsi nella condizione di detenuti rispetto a quella di uomini liberi?

TOMMASO BUSCETTA. Nessuna cosa, nessunissima cosa. L'uomo d'onore si qualifica e rimane sempre la stessa persona, solo che può avere un sostituto che fa le sue veci perché lui è detenuto.

PRESIDENTE. Dovunque si sia detenuti è così? L'uomo d'onore riesce sempre ad avere colloqui, a parlare, anche con documenti falsi? TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Come si può fare, secondo lei, per isolare dalla famiglia l'uomo d'onore detenuto? Lei ha detto giustamente che bisogna essere rigorosi e fare giustizia fino in fondo, senza tentennamenti; però, una volta che sia stata fatta giustizia, gli uomini d'onore essendo detenuti comunicano con quelli che stanno fuori come prima: lei capisce che la cosa cambia, ma non di molto. Allora, vorremmo capire sulla base della sua esperienza come si possa fare per interrompere questi rapporti.

TOMMASO BUSCETTA. Asinara.

PRESIDENTE. Anche all'Asinara una volta al mese si possono ricevere visite.

TOMMASO BUSCETTA. Una volta al mese ma quando il mare è buono, perché trascorrono mesi interi senza poterci arrivare perché il mare non è buono.

PRESIDENTE. Quindi, la traduzione all'Asinara è una cosa temuta?

TOMMASO BUSCETTA. E' temuta, io lo so perché mi tremavano veramente le ginocchia quando dovevo essere trasferito all'Asinara. Mi dicevo: "Ma questo è un castigo di Dio", perché stare all'Asinara significava la rottura totale dei rapporti con il continente italiano. PRESIDENTE. Quindi significava anche essere lasciati un po' a se stessi rispetto alla famiglia?

TOMMASO BUSCETTA. E' una cosa automatica, all'Asinara non si passa facilmente tutti i mesi. Il mio primo trasferimento da Palermo all'Asinara viene disposto dal generale Dalla Chiesa nel 1977; io vado fino a Porto Torres, vi arrivo tranquillo per imbarcarmi, mi sono imbarcato per tre volte e per tre volte sono tornato indietro sulla motovedetta dei carabinieri, non una motovedetta civile.

PRESIDENTE. Dopo l'omicidio di Dalla Chiesa tutti sfuggirono alla cattura: come mai?

TOMMASO BUSCETTA. (Ride con ironia) Ogni domanda ha bisogno di una risposta.

PRESIDENTE. Sembrerebbe di sì.

TOMMASO BUSCETTA. E' perché qualcuno avrà detto che c'erano questi mandati di cattura.

PRESIDENTE. Ci sarà stata un'informazione.

TOMMASO BUSCETTA. Già era "volata".

PRESIDENTE. Quindi, per capire, questa non è una supposizione: a lei è giunta notizia che l'informazione era già "volata".

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Perché lei era negli Stati Uniti?

TOMMASO BUSCETTA. Lo so anche ... Credo che per quanto riguarda l'uccisione di Costa, si sapeva ancor prima che Costa firmasse i mandati di cattura che li avrebbe emessi.

PRESIDENTE. Però in quel caso vi furono degli arresti.

TOMMASO BUSCETTA. Ma altre volte non vi furono.

PRESIDENTE. Ha mai avuto rapporti con il giudice Campisi?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione di che tipo?

TOMMASO BUSCETTA. Il giudice Campisi è stato giudice di sorveglianza, no, io credo che mi sia messo a modello 13 per parlare con il dottor Campisi.

PRESIDENTE. A Cuneo?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, a Cuneo.

PRESIDENTE. Perché?

TOMMASO BUSCETTA. Perché volevo ottenere la semilibertà e il dottor Campisi mi disse che non era di sua competenza, che il giudice di sorveglianza era una signora, una donna.

PRESIDENTE. Quindi, lui non era giudice di sorveglianza.

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Era forse procuratore della Repubblica?

TOMMASO BUSCETTA. Forse.

PRESIDENTE. E lei perché si mise a modello 13 con il giudice Campisi e non con il giudice di sorveglianza?

TOMMASO BUSCETTA. Avevo saputo che lui aveva dei rapporti con i Calderone, che era amico dei Calderone, ma non ho avuto tempo di sollecitargli questa amicizia perché lui non era il giudice di sorveglianza e quindi non poteva fare niente per me.

PRESIDENTE. Ma lei glielo disse?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Quando lui disse che non avrebbe potuto fare nulla, chiuse lì la faccenda?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Oltre a Lima, c'erano altri uomini politici che hanno avuto rapporti con la magistratura nel vostro interesse?

TOMMASO BUSCETTA. Io credo di no. Comunque, è una cosa molto difficile stabilire qua se vi siano stati rapporti di questo tipo. Bisogna dire: "una volta tizio mi raccontò" e poi fare le indagini.

PRESIDENTE. La cosa che le chiediamo è più semplice: Lima era l'unica persona alla quale ci si rivolgeva per avere aggiustamenti di processi?

TOMMASO BUSCETTA. No, non era l'unica persona, c'erano altri politici.

PRESIDENTE. Sempre di Palermo o anche di fuori Palermo?

TOMMASO BUSCETTA. Credo anche di fuori Palermo.

PRESIDENTE. Non eletti in Sicilia, insomma.

TOMMASO BUSCETTA. Esatto.

PRESIDENTE. Cosa sa dell'omicidio di Piersanti Mattarella?

TOMMASO BUSCETTA. Mi sono ripromesso di parlare con i giudici di questa cosa, anche se già dissi a Falcone nel 1984 che era avvenuto su ordine della commissione. Credo che lo dissi, non lo ricordo più.

PRESIDENTE. Credo di aver letto qualcosa del genere.

TOMMASO BUSCETTA. Credo di aver detto al giudice Falcone che Bontade ed Inzerillo non erano d'accordo su questa cosa, che era stata la commissione e che anche loro poi avevano aderito.

PRESIDENTE. Cosa interessa ad un uomo politico non eletto in Sicilia di farvi favori nel rapporto con i giudici? Prima lei ha detto che, oltre a Lima, c'erano altri uomini politici che potevano fare dei favori.

TOMMASO BUSCETTA. Preferisco non rispondere a questa domanda perché essa ci porta in un campo molto più vasto.

PRESIDENTE. Mi fa terminare la domanda?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, scusi.

PRESIDENTE. Ci mancherebbe. Lei ha detto prima che c'erano altri uomini politici, oltre a Lima, a farvi favori anche nei rapporti con la magistratura. Le ho chiesto se si tratti di uomini politici eletti in Sicilia o eletti anche fuori e lei ha risposto eletti anche fuori. A questo punto, le chiedo quale sia l'interesse che può avere un uomo politico eletto anche fuori dalla Sicilia a fare favori a voi. Questa è la domanda: qual è la sua risposta?

TOMMASO BUSCETTA. Ma non può essere che l'uomo politico ha dei suoi amici che sono eletti in Sicilia?

PRESIDENTE. Non lo so, questo lo dice lei.

TOMMASO BUSCETTA. Io formulo ipotesi, non sto dicendo che è così. Per ipotesi posso dare questa risposta ma non posso dire: "sì, perché quello aveva l'amico ...". Io dico: e non può essere per ipotesi che quest'uomo politico abbia i suoi amici politici in Sicilia? PRESIDENTE. Quindi, essendo certo che uomini politici non eletti in Sicilia facevano questi favori, l'ipotesi è che li facessero perché avevano propri amici eletti in Sicilia?

TOMMASO BUSCETTA. No, quest'affermazione non la posso fare.

PRESIDENTE. E' un'ipotesi.

TOMMASO BUSCETTA. Ah, l'ipotesi sì.

PRESIDENTE. La cosa certa è che facevano i favori, l'ipotesi è che potevano farli perché avevano amici in Sicilia.

ROMEO RICCIUTI. Possiamo chiedere al signor Buscetta se c'erano, oltre agli uomini politici, uomini del mondo universitario o di altre professioni?

PRESIDENTE. C'erano anche altre persone, non uomini politici, ad esempio professionisti, uomini dell'università, medici, che vi aiutavano in questo?

TOMMASO BUSCETTA. Abbiamo detto sempre di sì, in tutti gli interrogatori, che c'erano. L'abbiamo detto sempre, è dal 1984 che si dice.

PRESIDENTE. La Commissione, per capire meglio, è costretta a ripetere le domande, e le chiediamo scusa di questo. Lei conosce molto bene queste cose, mentre io e gli altri colleghi le conosciamo poco.

GIOVANNI FERRARA SALUTE. Tornando al delitto Mattarella, mi pare di aver capito sarebbe stata la commissione ad ordinarlo. PRESIDENTE. Pur con qualche dissenso.

GIOVANNI FERRARA SALUTE. Ed allora come mai ci sarebbero stati dei killer non di Cosa nostra, degli estranei?

PRESIDENTE. Il senatore Ferrara Salute le chiede: se è stata Cosa nostra a decidere l'omicidio Mattarella, come mai, secondo alcune ipotesi processuali, gli esecutori materiali - cioé chi ha sparato - sarebbero stati non appartenenti a Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. A me dispiace che non potrò vedere la fine di questo processo negli anni, perché sono già abbastanza vecchio, ma le garantisco che i fascisti in questo omicidio non c'entrano. Quei due sono innocenti. Glielo garantisco. E chi vivrà, vedrà.

PRESIDENTE. Dell'omicidio Reina sa qualcosa in particolare?

TOMMASO BUSCETTA. E' nella stessa ipotesi, anzi certezza, che io dico al giudice Falcone che Reina e Mattarella sono stati uccisi per ordine della commissione.

PRESIDENTE. Ma qual è il motivo specifico per cui si uccidono Mattarella e Reina? Insomma, il danno.

TOMMASO BUSCETTA. Il danno è più che altro "impresariale".

PRESIDENTE. Che vuol dire?

TOMMASO BUSCETTA. Credo che Mattarella in special modo volesse fare della pulizia in questi appalti. Se andate a vedere a chi sono andati gli appalti in tutti questi anni, con facilità voi andrete a scoprire cose inaudite. Non è stato ammazzato perché avevano bisogno dei due fascisti. La Cosa nostra non fa agire, per ammazzare un presidente della regione, due fascisti. E' un controsenso. Non esiste questa possibilità. E quei due accusati sono innocenti.

PRESIDENTE. E Reina perché sarebbe stato ucciso? Per Mattarella più o meno si capisce: perché voleva mettere ordine.

TOMMASO BUSCETTA. Ne parlerò con i giudici.

PRESIDENTE. Ma dei motivi generali può parlare anche qui, senza dire chi lo ha ucciso, che non ci interessa.

TOMMASO BUSCETTA. Anche del motivo ne parlerò con i giudici.

PRESIDENTE. Quindi, mentre il motivo dell'omicidio Mattarella si può dire, quello dell'omicidio Reina qui non si può dire.

TOMMASO BUSCETTA. E' quasi nella stessa sintonia. Ci sono degli appalti che fanno gioco, gli interessi. Sono interessi che vanno ...

PRESIDENTE. E' anche nell'ambito di questi interessi economici di appalti che viene ucciso Reina oltre Mattarella?

TOMMASO BUSCETTA. Reina credo che è ucciso prima.

PRESIDENTE. Sì, e perciò le chiedevo. Proprio per capire.

TOMMASO BUSCETTA. Credo di sì.

PRESIDENTE. Insomma, c'è una questione di interesse.

TOMMASO BUSCETTA. Credo di sì.

PRESIDENTE. Lei ha dichiarato al giudice Falcone che Inzerillo informò la commissione solo dopo aver ucciso il procuratore Costa.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Prima lo uccise e poi informò. E questo in qualche modo per ritorsione perché i corleonesi avevano fatto la stessa cosa in altre occasioni, cioé prima avevano ucciso e poi avevano informato. Lei ha detto che questo avevano fatto per altri omicidi di illustri personalità: può spiegare, per cortesia, chi erano queste illustri personalità uccise dai corleonesi per le quali questi ultimi avevano informato dopo la commissione?

TOMMASO BUSCETTA. Uno è il capitano Basile. Un altro è il capitano D'Aleo e un altro ancora il colonnello Russo. Michele Greco a me personalmente ha detto: io non lo so chi ha ammazzato il colonnello Russo. E poi ha dovuto rimangiarselo tutto.

PRESIDENTE. Perché era stato ucciso nel suo ...

TOMMASO BUSCETTA. Lui non sapeva perché i corleonesi avevano agito per conto loro.

PRESIDENTE. La Ficuzza è a Corleone?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Oltre questi, ci sono anche altri omicidi?

TOMMASO BUSCETTA. In questo momento non ricordo, perché già sono un po' stanco, per la verità.

PRESIDENTE. Vuole riposarsi?

TOMMASO BUSCETTA. Mi riposo dopo.

PRESIDENTE. Vuole fermarsi un attimo, fare una passeggiata?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione perché Greco Salvatore era chiamato "il senatore"?

TOMMASO BUSCETTA. Era un politico. Cioé era un politico nel senso che lui era la persona più adatta a darsi da fare in campo politico e nel campo imprenditoriale, per prendere dei soldi in prestito dalle banche, per creare nuove fonti di introiti per la famiglia Greco.

PRESIDENTE. Com'è che si è costituito Salvatore Greco? Questo in genere non succede.

TOMMASO BUSCETTA. Perché c'era aria di morte intorno a lui. Anche per suo fratello Michele.

VITO RIGGIO. Anche suo fratello si è costituito?

PRESIDENTE. Non credo, perché è stato catturato nei pressi di Termini Imerese. Il ruolo del "senatore" era quello di procurare appoggi politici, di contattare istituti di credito. Era efficace questo ruolo?

TOMMASO BUSCETTA. Era efficace. Lui aveva le porte aperte in politica.

PRESIDENTE. Anche con uomini politici non eletti in Sicilia?

TOMMASO BUSCETTA. Questo non lo so.

 PRESIDENTE. Non lo sa o non intende dirlo?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Si è mai chiesto come fa Totò Riina, ed anche il gruppo dei corleonesi, a condurre un così grande traffico di stupefacenti, ad incassare tutti questi soldi, a fare riciclaggio? Come fanno i corleonesi a riciclare?

TOMMASO BUSCETTA. Il riciclaggio non lo conosco.

PRESIDENTE. Non sa chi li aiuta, chi li sostiene in queste operazioni?

TOMMASO BUSCETTA. Non ho avuto la fortuna ... così devo dire?

PRESIDENTE. Sì, tutto sommato sì.

TOMMASO BUSCETTA. ... di avere anch'io un po' di soldi per riciclarli. Il traffico della droga, però, non era cominciato così. Era cominciato che erano pochi gruppi che avevano la morfina base e quindi i corleonesi dovevano accontentare della parte che spettava loro. Poi piano piano sono riusciti ad eliminare tutti quanti. 

PRESIDENTE. Lei dice che pochi gruppi di Cosa nostra avevano la morfina base.

TOMMASO BUSCETTA. Non pochi gruppi, addirittura tre persone.

PRESIDENTE. Chi erano queste tre persone?

TOMMASO BUSCETTA. Uno era La Mattina, un altro Savoca e l'altro non mi ricordo.

PRESIDENTE. Spataro?

TOMMASO BUSCETTA. Spataro, esatto. Che è nella mia famiglia. E La Mattina è nella mia famiglia. "Nella mia famiglia" nel senso di Cosa nostra.

PRESIDENTE. Questi avevano la morfina base. Facevano la raffinazione in Sicilia?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, io credo a Palermo. In tutti i posti c'erano raffinerie a Palermo.

PRESIDENTE. Questo in che anni?

TOMMASO BUSCETTA. Sto cercando di ricordare. Fino al 1980, che io ero a Palermo, c'erano.

PRESIDENTE. Non ho capito cosa intendesse quando ha detto che i corleonesi dovevano accontentare.

TOMMASO BUSCETTA. Della parte che spettava a loro.

PRESIDENTE. Loro si dovevano accontentare?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, perché gli importatori sarebbero stati questi tre e quindi dovevano adeguarsi alla parte che poteva spettare loro.

PRESIDENTE. E le parti chi le stabiliva?

TOMMASO BUSCETTA. Qui cominciano a nascere i gruppi. Quando si andava in commissione, più che discutere dei problemi di come sarebbe andata la Cosa nostra, si discutevano queste cose. Già era iniziato con le sigarette: se le navi dovevano entrare a turno nelle acque, o se prima entrava la barca di Spataro, poi la barca di La Mattina, poi la barca di Zaza. Così è stato anche per la droga. Quindi, per la droga si doveva aspettare anche la parte che a loro spettava, poi per investimento.

PRESIDENTE. Cioè?

TOMMASO BUSCETTA. Si investiva quanto si voleva.

PRESIDENTE. Come si investiva?

TOMMASO BUSCETTA. Si investiva. Si dice "io ho un carico di droga, quanto vuoi investire?" "300 mila dollari" e si facevano le quote di 300 mila dollari.

PRESIDENTE. Nel febbraio 1975 si decise di non fare sequestri di persona in Sicilia. Si ricorda da chi partì la proposta e perchè?

TOMMASO BUSCETTA. La proposta partì da Gaetano Badalamenti e da Stefano Bontade e Riina acconsentì, ma subito dopo c'è lo sgarbo di sequestrare Corleo.

PRESIDENTE. Perché, si fece questo accordo?

TOMMASO BUSCETTA. Perché questo attraeva la polizia. Nascevano dei problemi con la polizia. Poi si riteneva che non fosse una cosa molto buona per l'opinione pubblica far vedere che i siciliani sequestrano i siciliani. E allora in Sicilia niente sequestri.

PRESIDENTE. Se invece veniva sequestrato qualcun altro, andava bene.

TOMMASO BUSCETTA. In altri posti... a ruota libera.

PRESIDENTE. Dura tuttora questa regola?

TOMMASO BUSCETTA. Che dura tuttora non ne sono a conoscenza.

PRESIDENTE. Ho capito. Sequestri mi pare non se ne facciano in Sicilia.

TOMMASO BUSCETTA. Ce n'è stato uno e mi sembra siano morti tutti i sequestratori.

PRESIDENTE. Quello della signora Mandalà?

TOMMASO BUSCETTA. Mandalà, sì.

PRESIDENTE. C'entrava Cosa nostra nel sequestro della signora Mandalà?

TOMMASO BUSCETTA. No, la Cosa nostra ha ucciso tutti i sequestratori.

PRESIDENTE. Quali collegamenti di Cosa nostra ci sono stati fuori dalla Sicilia, in Calabria, in Campania e in Puglia?

TOMMASO BUSCETTA. Sui sequestri?

PRESIDENTE. No, in generale. Ci sono uomini d'onore anche in Campania, in Calabria?

TOMMASO BUSCETTA. E basta. Ci sarebbero anche a Milano. Ma come famiglie costituite è in Campania e in Calabria. Invece a Milano ci sono ma... è personalizzata la cosa.

PRESIDENTE. Che vuol dire?

TOMMASO BUSCETTA. Ci sono i Bono, ma già i Bono è rappresentante a Baucina ... a Bolognetta. A Milano agisce come se fosse boss, perché tutti si rivolgono a loro. Anche i gruppi di altre famiglie confluiscono verso i Bono.

PRESIDENTE. L'onorevole Tripodi chiede se per caso ha avuto notizia delle ragioni per le quali è stato ucciso il pubblico ministero Scopelliti in Calabria e se per caso le risulta, direttamente o indirettamente, che l'omicidio sia stato commesso per rallentare, bloccare o impedire il giudizio di Cassazione sul maxiprocesso.

TOMMASO BUSCETTA. Non sono in condizione di poter rispondere perché sono stato in America. Non avevo condizione per controllare questa cosa. Posso dire che è morto per questa causa. Secondo me è morto per questa causa. Secondo me, ma non ho niente per...

PRESIDENTE. E' una sua deduzione?

TOMMASO BUSCETTA. E' una mia deduzione.

PRESIDENTE. E' possibile che Cosa nostra compia un omicidio in Calabria? Oppure si deve mettere d'accordo con i calabresi?

TOMMASO BUSCETTA. Non ho detto questo. Io ho detto che è Cosa nostra, ma possono agire i calabresi.

PRESIDENTE. Quindi, un delitto può essere commesso.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Ho capito. Bardellino era uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. No. Bardellino? Sì, scusi, stavo pensavo a Balducci. Bardellino era rappresentante, addirittura.

PRESIDENTE. Zaza era uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Zaza è uomo d'onore.

PRESIDENTE. Nuvoletta?

TOMMASO BUSCETTA. Sono uomini d'onore.

PRESIDENTE. Cutolo invece no?

TOMMASO BUSCETTA. No, Cutolo era camorrista.

FRANCESCO CAFARELLI. E Peppino Sciorio di San Giuliano?

TOMMASO BUSCETTA. Era uomo d'onore.

PRESIDENTE. Mi pare sia stato ucciso.

FRANCESCO CAFARELLI. Sì.

PRESIDENTE. Signor Buscetta, il giro delle prime domande è terminato. A questo punto lei si può riposare mentre i commissari formuleranno ulteriori domande da porle.

TOMMASO BUSCETTA. Okay.

PRESIDENTE. Ha qualcosa da dire?

TOMMASO BUSCETTA. No, va bene.

PRESIDENTE. Grazie.

(Il signor Buscetta è accompagnato fuori dall'aula).

PRESIDENTE. Colleghi, a questo punto potete formulare le ulteriori domande da rivolgere al signor Buscetta.

ANTONINO BUTTITTA. Ho trovato estremamente interessante la notizia data in ordine ai rapporti economico-finanziari tra Vassallo e Lima. Poichè tale notizia è stata riferita in termini generici e vaghi, vorrei che venisse approfondita. E' bene chiarire se in realtà tali rapporti siano esistiti oppure no.

GIOVANNI FERRARA SALUTE. Vorrei che si chiedesse se nella famiglia Bontade vi siano stati degli uomini politici oltre che dei mafiosi.

VITO RIGGIO. Signor presidente, vorrei che lei riprendesse un passaggio: in particolare quando viene spiegato che, a seguito del processo dei 114, erano state eliminate le famiglie nella provincia di Palermo. Il signor Buscetta può fornire qualche elemento sui rapporti tra le famiglie esterne alla città, tra le quali quella dei corleonesi, di Morreale, di Caccamo; in sostanza che tipo di rapporti esistevano tra queste famiglie e quella di Palermo?

MASSIMO SCALIA. Vorrei conoscere con maggior precisione la questione del trasferimento dal carcere di Cuneo a quello di Milano in rapporto alla richiesta rivolta, da parte della commissione, al Buscetta affinchè prendesse contatto con i terroristi presenti nel carcere di Torino. Il Buscetta sostiene di essere stato trasferito al carcere di Milano: vorrei che si facesse collimare questo periodo con quello del sequestro Moro, per altro molto breve (dal 16 marzo al 9 maggio). Vorrei che il presidente ponesse le domande in modo tale da definire con precisione - anche perchè Buscetta dice di essere stato a Milano dopo, nel 1979 - il periodo in cui è stato trasferito a Milano anzichè a Torino come sarebbe dovuto accadere secondo quello che racconta.

GIROLAMO TRIPODI. Vorrei porre una domanda sul rapporto tra criminalità organizzata, Cosa nostra e i servizi segreti. Il signor Buscetta ha detto che altre forze dello Stato hanno mantenuto rapporti, nei modi più diversi. Sarebbe opportuno affrontare il tema.

FERDINANDO IMPOSIMATO. Vorrei sapere se l'inerzia dello Stato di fronte alle richieste dei giudici Falcone e Borsellino di misure dirette a favorire la dissociazione fosse, a suo giudizio, determinata da comportamenti di uomini politici collegati a Cosa nostra. Vorrei inoltre sapere se il signor Buscetta fosse a conoscenza del fatto che anche il procuratore generale Spagnuolo venne informato della volontà della mafia (in particolare attraverso Pippo Calò, Flavio Carboni e l'onorevole Cazora) di occuparsi della salvezza di Moro. Risulta agli atti di quel processo che, durante il sequestro alcuni uomini si recarono da Spagnuolo per offrire la collaborazione della mafia e che poi questa collaborazione venne revocata.

GIANCARLO ACCIARO. Circa le ipotesi sul separatismo in Sicilia cui ha accennato il signor Buscetta, vorrei sapere se egli sia a conoscenza di contatti tra la mafia e movimenti politici (e non) della Sardegna, per una eventuale ipotesi di separatismo di quest'isola. Più volte è stato detto che vi era libertà di azione per gli uomini d'onore relativamente ai sequestri effettuati fuori dalla Sicilia. Vorrei sapere se siano stati ipotizzati sequestri in Sardegna, considerando che vi è un collegamento tra Calò e Carboni e che quest'ultimo è stato un importante imprenditore sardo.

LUIGI BISCARDI. Vorrei che si tornasse sul rapporto tra Vassallo e Lima, che è stato negato in un articolo recente da un uomo politico di grande importanza qual è il senatore Andreotti. Il signor Buscetta ha chiarito il rapporto tra Vassallo e Lima, dicendo che il primo era un prestanome. Poiché si è tanto insistito sulla sigla VALIGIO (Vassallo-Lima-Gioia), vorrei sapere qualcosa sul terzo elemento di tale rapporto, centrale per definire l'attività politico-amministrativa dell'onorevole Lima.

MARCO TARADASH. Sarebbe opportuno un chiarimento sulla dimestichezza del signor Buscetta con il direttore del carcere dell'Ucciardone, Di Cesare, il quale lo ha informato di un colpo di Stato e gli ha indicato un cunicolo dal quale evadere. Vorrei sapere per quanti anni Di Cesare sia stato direttore di quel carcere e che tipo di rapporti avesse con Cosa nostra e con il signor Buscetta stesso. In altre parole, occorrerebbe capire per chi lavorava Di Cesare, se per i servizi segreti, se per i golpisti o se per Cosa nostra. La seconda domanda è se il delitto Dalla Chiesa possa essere messo in relazione all'ipotesi di omicidio avanzata nel 1979, cioè se vi sia una continuità tra i due fatti.

ANTONIO BARGONE. Il signor Buscetta non è stato chiaro quando ha spiegato per quale motivo il generale Dalla Chiesa dava fastidio a Cosa nostra; ha sostenuto che è difficile trasferire la loro mentalità nella nostra. Forse sarebbe opportuno approfondire questo aspetto per chiarire quali fossero le iniziative di Dalla Chiesa che intralciavano l'attività di Cosa nostra. In secondo luogo, vorrei domandare se le attività criminali di Vernengo e Pecoraro durante il soggiorno obbligato fossero collegate a Cosa nostra ovvero fossero individuali, così come emerge dagli atti del maxiprocesso.

MASSIMO BRUTTI. Il signor Buscetta, nel corso degli interrogatori resi nel 1984 (il 23 luglio dinanzi al giudice Falcone e il 14 agosto), si riferisce ad alcune caratteristiche della famiglia dei corleonesi e della famiglia Madonia, cioè alla particolare segretezza dell'appartenenza a queste famiglie: "Devo far presente che caratteristica della famiglia di Corleone è quella di non far conoscere alle altre i nomi dei propri adepti. Di ciò Badalamenti Gaetano si è sempre lamentato". La stessa caratteristica viene riferita ai Madonia. Nel corso di un interrogatorio svolto ai primi si settembre, afferma: "Parlando con Gaetano Badalamenti e con Salamone, tutti e tre abbiamo avuto il sospetto che i personaggi più in vista della coalizione a noi avversa avessero in grande segretezza costituito fra di loro una distinta famiglia, al di fuori e contro le regole di Cosa nostra". Vorrei fosse chiesto se, all'interno di Cosa nostra, esista una struttura supersegreta alla quale abbiano dato vita i corleonesi, eventualmente con altri alleati. Il signor Buscetta ha parlato di alcuni delitti commessi all'insaputa di una parte della Commissione. In realtà, in base alle sue deposizioni, risulta che tutti i grandi delitti sono stati commessi all'insaputa di Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo. Ad esempio, Buscetta ha detto che il delitto Mattarella era stato deciso dalla commissione. In precedenza aveva detto che ciò era avvenuto all'insaputa di Bontade e di Inzerillo.

ALFREDO GALASSO. Veramente, aveva detto che non se ne era saputo nulla, tanto che i giudici avevano ritenuto che forse per questa ragione si erano rivolti ai fascisti.

MASSIMO BRUTTI. Dice testualmente: "Dell'omicidio di Michele Reina né Stefano Bontade né Salvatore Inzerillo né Rosario Riccobono sapevano nulla. Gli omicidi di Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella sono stati decisi dalla commissione di Palermo all'insaputa di Salvatore Inzerillo e di Stefano Bontade".

ALFREDO BIONDI. Oggi ha detto che erano in disaccordo.

MASSIMO BRUTTI. Infine, vorrei che si tornasse sul coinvolgimento di Cosa nostra in tentativi golpistici. Nel 1970 vi è il tentato golpe Borghese. Nel 1971 viene ucciso Scaglione e Buscetta ha detto che questo omicidio si collega alla strategia di tipo eversivo. Nel 1974 il direttore del carcere gli parla di un colpo di Stato. Conosciamo le tragiche vicende del 1984, cioè le due stragi di Brescia e del treno Italicus. Nel 1979 c'è la proposta fatta da Sindona ai perdenti, cioè a quelli che in quel momento stavano già perdendo peso all'interno di Cosa nostra: Bontade e gli Inzerillo. Vorrei che Buscetta chiarisse ulteriormente perché la vicenda del 1971 non possa essere appiattita su quella di un anno prima. Si tratta di altra cosa. Nel 1971 si trovano già in un'altra prospettiva, in un altro tentativo di tipo eversivo.

GAETANO GRASSO. Vorrei chiedere qualche notizia circa le altre province, oltre le sei che sono state citate; in particolare, se esistano uomini d'onore o famiglie organizzate in altre province.

ROMANO FERRAUTO. Non nego l'importanza di questa audizione, anzi ritengo che faccia luce su una serie di aspetti; tuttavia credo che sia importante capire quale sia la situazione odierna, come la strategia e la filosofia della presenza mafiosa nel nostro paese sia cambiata. Chiederei a Buscetta - anche se occorre procedere all'audizione di altri collaboratori della giustizia che conoscono la realtà attuale - in quali settori ed in quale direzione oggi si potrebbe indagare.

PRESIDENTE. Può spiegarsi meglio?

ROMANO FERRAUTO. Ritengo decisivo che i collaboratori della giustizia offrano un contributo, ma poiché Buscetta non ha voluto parlare di uomini, di vicende, di fatti, dell'attualità, chiederei in quali settori sarebbe opportuno indagare.

ERMINIO ENZO BOSO. Il signor Buscetta parlava del grosso intervento del generale Dalla Chiesa; vorrei sapere, visto che queste particolarità avevano creato tali difficoltà da far decidere l'omicidio, se i superprefetti dotati di supepoteri abbiano mai disturbato Cosa nostra. Facendo riferimento ai rapporti tra IOR e Banco ambrosiano, vorrei sapere se il clero sia stato mai interessato a Cosa nostra e in quale misura.

MARIO BORGHEZIO. Vorrei sapere se esista un archivio di Cosa nostra, di cui non saltano mai fuori le carte amministrative né i conti. Inoltre vorrei sapere se si possa ipotizzare l'esistenza di "santuari" a questo dedicati e se possano essere individuati i luoghi geografici dove trovare questi documenti. Vorrei che il signor Buscetta ci potesse dire qualche cosa sul voto mafioso al nord, in particolare a Torino e a Milano e se abbia notizia di interventi di Cosa nostra in ordine alle operazioni di investimento al sud (parlo di operazioni patrocinate attraverso le varie leggi di intervento straordinario nel Mezzogiorno); quale sia il motivo per cui non sono mai stati effettuati sequestri di esponenti del mondo bancario e finanziario (le uniche eccezioni sono stati dei sequestri del tutto anomali). Infine, vorrei sapere se sia al corrente di acquisti da parte di esponenti di Cosa nostra di quote azionarie di società presenti in Borsa.

MICHELE FLORINO. Vorrei sapere se, oltre ai collegamenti per contrabbando e traffico di stupefacenti con le famiglie calabresi e napoletane, gli uomini d'onore Bardellino, Zaza e soprattutto Nuvoletta abbiano avuto l'incarico di appoggiare nelle consultazioni elettorali determinati partiti politici.

ALFREDO BIONDI. Vorrei che al signor Buscetta venisse posta nuovamente una domanda che gli è stata già rivolta e che egli ha eluso, dal momento che ha detto che il delitto Dalla Chiesa in qualche modo ha coperto realtà diverse, superiori e peggiori di non so quale entità (ha usato proprio questo termine). Poiché ha parlato di "un uomo politico che si è sbarazzato della presenza troppo ingombrante del generale", gli chiederei qualche spiegazione sull'uomo politico e sulla presenza ingombrante. Verso chi c'era l'ingombro? Verso il mondo politico o verso quello militare in cui il generale si muoveva o verso le situazioni note al generale sui rapporti con il terrorismo? Vorrei sapere quale fosse questa entità e se fosse diversificata.

OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Vorrei che al signor Buscetta fosse chiesto di spiegare meglio la sua frase: "Lima da morto serviva a denigrare Andreotti". A chi serviva e perché? In quale senso ha detto questo? Solo come mera ipotesi o perché ha avuto notizie in merito?

ALFREDO GALASSO. Ritengo, signor presidente, che almeno un paio delle domande che desidero formulare dovrebbero essere firmate: intendo dire che sarebbe utile che Buscetta sapesse chi le ha poste perché, dato il personaggio, possono avere un senso proprio per questo. La prima domanda è in base a quale criterio egli abbia deciso di dire alcune cose e di non dirne altre. Infatti non è vero che si è riservato di rispondere su tutto: alcune cose le ha dette, anche di un certo impegno - vedi delitto Dalla Chiesa e delitto Moro - altre no. Non riesco a comprendere quale sia la ragione per cui ha compiuto certe scelte, ma ritengo sia importante saperlo. La seconda domanda è cosa stia succedendo ora all'interno di Cosa nostra. A questo riguardo, la prima cosa che mi lascia perplesso è che nell'intervista a Biagi, poi riportata testualmente, se non erro, da Panorama, alla domanda: "E' Riina?" Buscetta ha risposto: "Chissà, poi, se è Riina". Qui, stamane, ha invece fatto intendere che il soggetto più pericoloso è proprio Riina. Vorrei allora capire come stiano effettivamente le cose. (Commenti). Ha detto: "Oltre Riina"; ma nell'intervista che ho citato aveva detto: "Chissà se è Riina", quasi a far intendere che all'interno di Cosa nostra potrebbe essere successo qualcosa per cui Totò Riina o non conta più o addirittura non c'è più. L'altro punto su cui ho dubbi è la notizia, riferita come acclarata dai giudici di Palermo che hanno richiesto ed emesso il mandato di cattura, secondo cui dopo il delitto Lima sarebbe stata data agli affiliati di Cosa nostra una sorta di autorizzazione, se non proprio l'ordine, di costituirsi o di fare, comunque, ciò che volevano. Cosa molto strana, mai successa. Anche Calderone ha detto testualmente: "Questa è una strana storia" e strana sembra anche a me. Per questo vorrei chiedere a Buscetta cosa stia succedendo. Naturalmente la sua sarà un'ipotesi, un parere, comunque è interessante sapere quale giudizio dia di questa vicenda. Valuti il presidente se sia il caso di porre la domanda in termini ancora più brutali, cioè "C'è ancora Cosa nostra?". Inoltre non ho ben capito la vicenda del delitto Dalla Chiesa. Vorrei dunque che il presidente domandasse a Buscetta perché mai non abbia riferito ai giudici della corte d'assise durante il dibattimento quest'ultima notizia relativa al 1979, al terrorista e così via. Perché sono coinvolti politici e dei politici non aveva voglia di parlare o per qualche altro motivo? Non si tratta, infatti, di un piccolo particolare: alcuni personaggi sono stati condannati. Vi è, poi, la questione della commissione regionale-provinciale: fino a che epoca risulta a Buscetta che questi importanti delitti fossero deliberati a livello regionale, sia pure nella proporzione di 10, 8, 4 e via dicendo cui ha fatto riferimento? Fino a quando è stato richiesto il consenso delle altre province per delitti di una certa importanza? Ultima domanda - e questa veramente particolare - è se egli sappia chi è "lo zio", cioè quel famoso signore, piuttosto anziano, che entrava ed usciva dal tribunale informandosi o in qualche modo intercedendo rispetto alle vicende giudiziarie.

ROSARIO OLIVO. Signor presidente, vorrei chiedere al signor Buscetta un approfondimento, una valutazione sul processo di Catanzaro. Insisto ancora su tale questione perché mi pare che egli abbia espresso valutazioni abbastanza pesanti su un giudice che è stato pubblico ministero in quel processo nel 1968. Inoltre vorrei sapere qualcosa sui rapporti tra Cosa nostra e la Sacra corona unita: se si tratti di un rapporto simile a quello che Cosa nostra ha con 'ndrangheta e camorra.

MAURIZIO CALVI. Vorrei, signor presidente, che non si dimenticasse che oggetto dell'odierna audizione sono il delitto Lima, le interconnessioni mafia-politica con riferimento a Lima, lo spessore del sistema delle relazioni mafiose nonché l'estensione dei rapporti tra mafia e politica. Mi sembra, infatti, che queste audizioni si stiano indirizzando verso altre aree, pure di grande interesse, riguardanti la vita interna ed esterna della mafia, mentre ritengo che lo scopo finale debba essere quello di capire l'effetto Lima e l'estensione dei rapporti tra mafia e politica in relazione agli interessi che stavano dietro quest'uomo politico. Da questa audizione emerge che Buscetta è sicuramente l'uomo che è stato maggiormente a contatto con Lima, probabilmente perché andavano a scuola insieme, poi a teatro insieme; quindi è forse l'interlocutore che più di altri può farci capire il personaggio Lima e gli interessi che sono dietro ad esso. Vorrei quindi che cercassimo di approfondire questo rapporto per capire quali altri interessi comuni avessero, oltre quello del teatro. Approfittiamo, presidente, di questo grande rapporto di amicizia con Lima per estendere l'analisi ad un altro sistema di relazioni, perché, a mio giudizio, questo è l'interesse maggiore dell'audizione.

ALTERO MATTEOLI. Buscetta ha insinuato (uso questo termine ma è quasi un eufemismo) che Dalla Chiesa sia stato ucciso sì da Cosa nostra (il che a suo modo di vedere è fisiologico) ma anche da qualcun altro, quasi che il potere, il sistema avessero voluto morto il generale. Abbiamo ascoltato ciò che ha detto in proposito ma non abbiamo tentato di approfondire quel passaggio. Gradirei che lo facessimo domandandogli se questa sua insinuazione o per lo meno questo suo convincimento sia dato dal fatto che è legato al potere politico, alla stessa vicenda Lima ed ai collegamenti che quest'ultimo aveva con il potere centrale, con Roma, con Andreotti, per intenderci. Bisognerebbe, insomma, chiedergli se a suo avviso ambienti governativi o comunque dello Stato gradissero l'uccisione di Dalla Chiesa. La domanda posta in questi termini è molto brutale ma il presidente saprà porla in modo migliore. Nella precedente audizione, Calderone ci ha detto che il giudice Campisi fu trasferito a Cuneo; guarda caso nel periodo in cui Campisi è a Cuneo Buscetta viene trasferito nel carcere di quella città.

PRESIDENTE. Bisogna ricordare, però, che Campisi chiese di andare a fare il procuratore a Cuneo.

ALTERO MATTEOLI. Sì, si tratta di sapere se in qualche modo il trasferimento di Buscetta a Cuneo sia stato favorito. Inoltre, abbiamo accettato come normale il fatto che Michele Greco entri nel carcere dell'Ucciardone e vada a trovare Tommaso Buscetta, ma ci sarà qualcuno che avrà favorito l'ingresso di Michele Greco nel carcere. Per una persona perbene andare a trovare un detenuto è sempre complicato, mentre Michele Greco riesce a farlo agevolmente. Bisognerebbe chiedere, come suggeriva anche il collega Taradash, se ciò sia stato possibile solo grazie al direttore del carcere o se altri abbiano favorito l'accesso di Michele Greco.

ROMEO RICCIUTI. L'esperienza odierna può essere considerata interessante e di grande utilità storica, perché il personaggio è fondamentale. A noi tuttavia interessa sapere cosa faccia la mafia oggi in senso politico. Vorrei, perciò, che si insistesse in questa direzione, se vi è la possibilità di acquisire qualche altra notizia che sarebbe utilissima per la nostra attività. Un'altra domanda dovrebbe riguardare il separatismo: se si tratti di un disegno politico unitario di separatismo tra nord e sud (per cui vi può essere un collegamento con i fatti odierni) oppure se il disegno politico siciliano sia a suo avviso autonomo.

PIERO MARIO ANGELINI. Vorrei sapere se Buscetta conosca o abbia conosciuto in quanto uomo d'onore Calderone e gli altri collaboratori della giustizia Spatola e Mutolo; se conosca o gli sia stata fatta conoscere la sostanza delle loro confessioni, se li abbia mai incontrati e quale giudizio dia di loro.

CARLO D'AMATO. Nell'audizione di Buscetta è emerso un dato molto importante sotto il profilo della conoscenza del fenomeno mafioso, quello che non esistono organizzazioni separate ma esiste ormai un'unica mafia. Si tratta di un dato particolarmente significativo che, pur partendo dall'omicidio Lima, potrebbe consentirci l'individuazione di eventuali connivenze tra mafia e politica anche in Campania. Tra l'altro, Buscetta è stato anche a Poggioreale, conosce camorristi mafiosi napoletani; gli si dovrebbe chiedere se, al di là dei meccanismi di voto, sui quali è stato abbastanza esplicito (o almeno ha dato la sua versione di come avvenga questo collegamento elettorale), esistano collusioni che nel corso di questi anni abbiano potuto dare positivo riscontro alle attività mafiose della Campania utilizzando uomini politici di quella regione, tenendo anche conto che questo può essere un punto di riferimento utile per conoscere le attività mafiose in Sicilia, visto che la Campania è una regione particolarmente importante e significativa. Ho constatato anche nel corso di un colloquio ufficioso avuto con Buscetta durante la sospensione della seduta che egli si ritiene un collaboratore fondamentale, importante e si attribuisce anche una grande capacità di valutazione degli eventi, tant'è vero che, definendole deliri, parla di suggestioni e di congetture, compiendo anche un tentativo di interpretazione dei fatti. Alla luce di tutto questo, penso che potremmo chiedergli di esprimersi sull'attendibilità dei pentiti, anche perché nel medesimo colloquio di cui ho già parlato ha espresso alcuni giudizi negativi. Ad esempio, i magistrati che hanno emesso l'ordinanza di carcerazione dei componenti della cupola mafiosa per l'uccisione di Salvo Lima definiscono attendibili tutti i pentiti sulla base delle nuove leggi e dei criteri indicati dalla Cassazione: sarebbe importante avere anche a questo proposito alcuni elementi di valutazione da parte di Buscetta, elementi che potrebbero servirci per lo meno come dato culturale.

(Il signor Buscetta è accompagnato nuovamente in aula).

PRESIDENTE. Signor Buscetta, le rivolgerò adesso alcune domande formulate dai colleghi. A proposito dei rapporti economico-finanziari tra Vassallo e Lima, lei ha detto che Vassallo era la sigla dietro la quale c'era anche Lima. Può essere più preciso su questi rapporti, per quello che lei sa? La domanda le viene posta dal senatore Buttitta.

TOMMASO BUSCETTA. Queste domande che riguardano politici preferirei che fossero fatte dai giudici istruttori. Io non ho niente da nascondere a voi, perché voi potrete avere dai giudici istruttori tutte queste notizie. Quindi vi chiederei di lasciarlo questo campo.

PRESIDENTE. Non le chiedo una cosa nuova.

TOMMASO BUSCETTA. Sì, va bene, ma quando io entro nel particolare, sul perché Vassallo nasconde Lima, cominciamo a fare una storia che diventa una cosa lunga e che è di competenza del giudice istruttore. Lei è stato giudice istruttore.

PRESIDENTE. Questa è una risposta chiara. Nella famiglia Bontade c'erano anche uomini politici?

TOMMASO BUSCETTA. A mente non mi vengono, ma c'erano. Sì, c'erano.

PRESIDENTE. Quali erano i rapporti tra le famiglie di Palermo e quelle della provincia?

TOMMASO BUSCETTA. Scusi, signor presidente, in che termini?

PRESIDENTE. Lei ha detto che le famiglie si erano sciolte, dopo il 1963. In particolare si erano sciolte le famiglie di Palermo, mentre le altre, se non ho capito male...

TOMMASO BUSCETTA. No, tutta la provincia di Palermo.

PRESIDENTE. Questa domanda le è stata formulata dal senatore Ferrara. Adesso l'onorevole Riggio le chiede per chi votasse la mafia della provincia. Aveva gli stessi orientamenti vostri oppure diversi?

TOMMASO BUSCETTA. In tutta la Sicilia aveva gli stessi orientamenti. Non era solo per la provincia di Palermo non votare comunista, ma per tutta la Sicilia.

PRESIDENTE. Non votare i due estremi.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. L'onorevole Scalia le chiede maggiori chiarimenti - se ricorda - sulla traduzione a Milano. La aiuto: fu tradotto con un cellulare normale dei carabinieri o con la macchina?

TOMMASO BUSCETTA. Cellulare, e grosso.

PRESIDENTE. Con altre persone o da solo?

TOMMASO BUSCETTA. Io credo che ero insieme ad un altro. Uno.

PRESIDENTE. Era un detenuto comune, un terrorista, uno di Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Non ho parlato. Non ci siamo parlati con l'altro detenuto.

PRESIDENTE. Siete arrivati direttamente a San Vittore o vi siete fermati da qualche parte?

TOMMASO BUSCETTA. Mentre ero da solo di là pensavo che questa cosa non deve creare... Quello che dico io può essere certificato attraverso gli uffici.

PRESIDENTE. Stia tranquillo, si vedrà.

TOMMASO BUSCETTA. Io ricordo benissimo di essere andato a Milano da Cuneo.

PRESIDENTE. Volevo sapere se prima si è fermato o no da qualche parte: in una caserma o in qualche altro posto?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo ricordo. Non ho parlato con il detenuto che stava insieme a me.

PRESIDENTE. Non si ricorda se era giorno o notte quando fu trasferito?

TOMMASO BUSCETTA. Quando fui trasferito era di giorno. Credo che sia stato nel pomeriggio.

PRESIDENTE. Comunque di giorno. Insomma, c'era luce. Il senatore Tripodi le chiede se può riferire alla Commissione, per quanto è a sua conoscenza, sui rapporti fra appartenenti a Cosa nostra ed appartenenti ai servizi segreti.

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. No nel senso che non sa?

TOMMASO BUSCETTA. Non so.

PRESIDENTE. Passo ora alla domanda formulata dal senatore Imposimato. Falcone e Borsellino più volte hanno chiesto leggi particolari per i collaboratori, le quali però sono venute in ritardo. Per quello che voi ne sapevate, Cosa nostra operava, nell'ambito delle sue possibilità, per impedire l'emanazione di tali leggi?

TOMMASO BUSCETTA. Con i rapporti politici che poteva avere Riina, certo che le impediva.

PRESIDENTE. Lei pensa quindi che questi ritardi siano stati determinati dalle influenze di Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. E' sempre un'ipotesi mia, non ho certezze. Senz'altro.

PRESIDENTE. Il procuratore generale di Roma, Spagnuolo, era al corrente dell'interesse di Cosa nostra per Moro?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Ci sono stati incontri tra uomini di Cosa nostra e movimenti della Sardegna?

TOMMASO BUSCETTA. Credo di no.

PRESIDENTE. Nei sequestri in Sardegna c'è la stata la mano di qualche uomo d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. No!

PRESIDENTE. Il senatore Biscardi chiede quale fosse la funzione di Gioia nel rapporto tra Vassallo e Lima. Circolò una sigla.

TOMMASO BUSCETTA. Ritorniamo sempre alla stessa cosa. Vorrei non rispondere.

PRESIDENTE. Io devo porle la domanda. Non la consideri una scortesia.

TOMMASO BUSCETTA. Signor presidente, non ho niente contro la sua domanda. Dico che ritorniamo sempre alla stessa cosa. Rispondo: risponderò a giudici.

PRESIDENTE. Risponderà ai giudici adesso, non in futuro.

TOMMASO BUSCETTA. No, no, ai giudici adesso.

LUIGI BISCARDI. Di Vassallo e Lima ha parlato però.

PRESIDENTE. Lei ha detto che tra Vassallo e Lima un rapporto c'era. Il senatore Biscardi vuole sapere se c'era un rapporto anche tra Vassallo e Gioia.

TOMMASO BUSCETTA. Vuole un'anticipazione? C'era!

PRESIDENTE. Da che cosa nasceva questa sua dimestichezza di rapporti con il direttore del carcere dell'Ucciardone, dottor De Cesare, le chiede l'onorevole Taradash?

TOMMASO BUSCETTA. Ho detto che era massone.

PRESIDENTE. De Cesare era massone?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. E quindi?

TOMMASO BUSCETTA. E quindi venivano le raccomandazioni dai massoni al massone, per me.

PRESIDENTE. Mi scusi, c'era un rapporto tale per cui se avevate bisogno vi rivolgevate ai massoni?

TOMMASO BUSCETTA. Io non mi sono rivolto.

PRESIDENTE. Non lei, Cosa nostra.

TOMMASO BUSCETTA. Se c'era bisogno, sì.

PRESIDENTE. Quindi De Cesare non era di Cosa nostra, era massone?

TOMMASO BUSCETTA. Assolutamente, era massone.

PRESIDENTE. E in quanto tale aiutava lei o anche altri di Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Aiutando me aiutava tutta la Cosa nostra perché io facevo le richieste.

PRESIDENTE. Sempre l'onorevole Taradash le chiede se sulla base delle sue ipotesi l'omicidio del generale Dalla Chiesa - risalente al settembre 1982 - può essere in collegamento con l'ipotesi avanzata nel 1979, quando qualcuno le disse...

TOMMASO BUSCETTA. Dissi che questa è la mia ipotesi.

PRESIDENTE. La sua ipotesi è questa.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Vorrei che lei spiegasse, per cortesia, una questione che anch'io non ho capito bene forse perché mi sono distratto. Per quale motivo Dalla Chiesa dava fastidio a Cosa nostra? Lei si è riferito alla storia delle patenti e dei fogli rosa, che però non erano un problema.

TOMMASO BUSCETTA. No, no, non ho detto non era un problema, forse mi sono spiegato male. Era un problema, ma non era un problema tale da arrivare al punto di ammazzarlo pubblicamente insieme alla moglie.

PRESIDENTE. Quale fastidio dava Dalla Chiesa a Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Mah, ho citato due casi: uno era con gli imprenditori; il secondo erano le patenti, i fogli rosa... e poi chiedeva leggi speciali. Quindi, il movente per ammazzarlo c'è. Legittimamente dice: la mafia si è stancata e l'ammazza; è pacifico questo. Se devo sostenere un'altra cosa, devo accettare che posso passare anche per una perizia psichiatrica.

PRESIDENTE. Ho capito cosa vuole dire. Vernengo e Pecoraro...

TOMMASO BUSCETTA. Vernengo?

PRESIDENTE. Sì, Pietro Vernengo che ha avuto il soggiorno obbligato in Puglia, mi pare...

TOMMASO BUSCETTA. Questo non lo so. Però se è Pietro, io so chi è.

PRESIDENTE. Quando andarono in Puglia, lo fecero per collegamenti con qualcuno di Cosa nostra oppure no?

TOMMASO BUSCETTA. Guardi, in tutto il territorio nazionale - voi lo sapete - ci sono Cosa nostra.

PRESIDENTE. Anche in Puglia?

TOMMASO BUSCETTA. Ma in Puglia, in qualsiasi parte. Perché un siciliano va a Milano e va a costituire un punto fisso della Cosa nostra. L'errore più madornale che ha potuto commettere la Commissione antimafia di una volta è stato quello di mandare i siciliani fuori dalla Sicilia, a Milano, a Padova e a Bologna. E' stato l'errore più madornale perché li ha fatti espatriare. E' gente che non ha mai preso il treno, non sapeva che cos'era Bologna e voi gliel'avete insegnato. Quando dico voi intendo gli altri.

 

PRESIDENTE. Il soggiorno obbligato dette fastidio a Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Dette fastidio ma per poco, poi si aggiustarono.

PRESIDENTE. Quando lei ha riferito del fastidio che poteva dare Dalla Chiesa, ha parlato dei costruttori: a quali fa riferimento, a quelli di Catania?

TOMMASO BUSCETTA. Non ho altro riferimento da fare se non quello di Catania, perché a quelli dava disturbo Dalla Chiesa.

PRESIDENTE. A uno o a più di uno?

TOMMASO BUSCETTA. Credo a più di uno di Catania.

PRESIDENTE. Oltre al nome di Costanzo, che lei ha già fatto, è in grado di citarne altri o preferisce farlo all'autorità giudiziaria?

TOMMASO BUSCETTA. All'autorità giudiziaria.

PRESIDENTE. Un uomo politico che è vostro alleato può proporre leggi contro di voi? Come la prendete questa mossa?

TOMMASO BUSCETTA. Innanzitutto desidero chiarire ex vostro alleato.

PRESIDENTE. Certo, è come la storia dei politici.

TOMMASO BUSCETTA. Altrimenti torniamo punto e a capo. Posso dirle una cosa che mi viene alla memoria, poi quando parlerò con i giudici... Nel 1963 ci fu una riunione alla regione siciliana... No, alla provincia siciliana, ci sono due cose diverse se non sbaglio...

PRESIDENTE. Sì, certo.

FRANCESCO CAFARELLI. Diciamo amministrazione provinciale.

TOMMASO BUSCETTA. Amministrazione provinciale. Credo che il presidente fosse Reina. Allora si disse che si doveva combattere la mafia perché stava dando disturbo. Votiamo una mozione contro la mafia per alzata di mano. Hanno alzato la mano credo in novanta ed erano in novanta: quindi, tutti. Solo che là dentro c'erano anche uomini d'onore. Ho dato la risposta.

PRESIDENTE. Quindi, può darsi che lo facciano, il che è positivo. Lei ha detto, ad un certo punto, che la famiglia dei corleonesi e quella dei Madonia non facevano conoscere i nomi dei loro aderenti.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Questo può voler dire che all'interno di Cosa nostra esiste un gruppo più ristretto non conosciuto?

TOMMASO BUSCETTA. No. Non è che esiste un gruppo più ristretto, esistono delle persone non conosciute, non un gruppo più ristretto. Avere persone non conosciute non è una malvagità nei confronti della conoscenza o meno; è una malvagità perché in caso di confronto loro hanno delle basi che agli altri uomini d'onore sono sconosciute.

PRESIDENTE. Questi, quindi, non possono essere uomini che comandano.

TOMMASO BUSCETTA. No, tranne che poi nel corso della vita dirà: questo è stato messo in famiglia.

PRESIDENTE. Lei, parlando nel 1984 con il giudice Falcone, afferma: "Nel 1978 la signoria vostra mi dice che sono avvenuti gli omicidi di Michele Reina e di Giuseppe Di Cristina. Circa il primo di tali omicidi non so nulla, ma rammento alla signoria vostra che lo stesso, data la sua eclatanza, non poteva che essere stato commesso su mandato della commissione, o meglio di tutti i componenti della stessa alleati con i corleonesi. Mi risulta che né Stefano Bontade né Salvatore Inzerillo né Rosario Riccobono sapevano nulla di ciò". Ed ancora: "Per quanto concerne gli omicidi di Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, so per certo, per averlo appreso da Salvatore Inzerillo, che trattasi di omicidi decisi dalla commissione di Palermo all'insaputa di esso Inzerillo, di Stefano Bontade ed anche di Rosario Riccobono". Dice inoltre: "L'omicidio del capitano Basile, secondo quanto mi ha detto Salvatore Inzerillo, è stato voluto dai corleonesi per motivi che ignoro. Sicuramente la commissione era consenziente, ad eccezione dei soliti Inzerillo e Bontade". Dunque, vi è un complesso di omicidi commessi all'insaputa di questi due personaggi.

TOMMASO BUSCETTA. Ho cercato, in quel periodo, di spiegare al giudice Falcone i contrasti che c'erano in seno alla commissione.

PRESIDENTE. Bontade, Inzerillo e Riccobono stavano da una parte e la commissione dall'altra?

TOMMASO BUSCETTA. Credo ce ne fosse qualche altro: Gigino Pizzuti. Ho cercato di spiegarmi, ho fatto del mio meglio. Non stavo bene fisicamente.

PRESIDENTE. Quando ha svolto l'interrogatorio?

TOMMASO BUSCETTA. Non stavo bene. Ero un individuo che veniva da un trauma tremendo; in quei casi si attenua la lucidità. Mi sono state fatte iniezioni di curaro che, come sapete, rallenta l'azione dell'uomo in contrasto alla stricnina; avevo momenti in cui, anche se ero sempre presente, è potuta nascere qualche contraddizione da parte mia. Ma il fatto è che esistevano contrasti tra i gruppi e sia Bontade sia Inzerillo non vedevano la realtà. Dicevano che si doveva finire e credevano che Michele Greco facesse il giusto per tutti. Non sapevano che Michele Greco era venduto ai corleonesi. Questa la confusione di tutti i contrasti.

PRESIDENTE. Lei ha spiegato che il procuratore Scaglione venne ucciso nell'intento di gettare disordine e discredito sulle istituzioni. Il tentativo di Borghese è del dicembre 1970, mentre l'omicidio Scaglione è del 1971. Può spiegare meglio se questo vuol dire che il progetto di disordine andava anche oltre?

TOMMASO BUSCETTA. Andava oltre. Lui cercava di farsi i suoi interessi andando oltre e dicendo che era un tentativo per destabilizzare lo Stato.

PRESIDENTE. Quindi l'interesse alla destabilizzazione era presente in Liggio, anche al di fuori?

TOMMASO BUSCETTA. E' sempre stato presente. Non bisogna credere a quello che ha detto durante il maxiprocesso. Non si era reso conto che io già avevo parlato e disse, facendo l'eroe, che noi eravamo andati e lui si era rifiutato. Rifiutato a che? Un assassino come quello che si rifiutava?

PRESIDENTE. Lei ha detto che la destabilizzazione è sempre un obiettivo di Cosa nostra. O lo è di Liggio?

TOMMASO BUSCETTA. Di Liggio e quando parlo di lui parlo della corrente dei corleonesi.

PRESIDENTE. Perché perseguono l'obiettivo di creare disordine e confusione?

TOMMASO BUSCETTA. Liggio in quel momento, nel 1971, era l'uomo più rovinato; non gli altri. Era stato assolto a Bari ma sapeva che questa assoluzione durava meno di niente. Fuggì e appena fu libero si allontanò. Doveva presentarsi al commissariato di Corleone a dire che era arrivato. Non l'ha voluto fare.

PRESIDENTE. L'obiettivo della destabilizzazione perseguito dai corleonesi, secondo le sue ipotesi, sarebbe in collegamento con i soggetti di cui ha parlato prima?

TOMMASO BUSCETTA. Credo di sì.

PRESIDENTE. Può dire se esistevano uomini d'onore in province siciliane diverse da quelle che lei ha indicato, cioè Palermo, Catania, Trapani, Agrigento, Caltanisetta e Enna? A Messina ce ne erano?

TOMMASO BUSCETTA. A Messina sconosco che ci possa essere famiglia e se c'è è una cosa nuova.

PRESIDENTE. Il senatore Ferrauto le chiede, sulla base della sua esperienza, in che direzione si dovrebbe oggi indagare per raggiungere risultati particolarmente importanti.

TOMMASO BUSCETTA. La Commissione o i giudici?

PRESIDENTE. Entrambi i poteri, il Parlamento e la magistratura.

TOMMASO BUSCETTA. E' una cosa che dovete chiedere ai giudici, dopo che questi si saranno resi conto delle dichiarazioni che verranno fatte sulla politica. Dopo quel mio interrogatorio, in tempi futuri ma vicini, chiedetelo ai giudici.

PRESIDENTE. Lei intende dire che dopo le sue dichiarazioni nominative sulla politica si capirà dove "mettere le mani"?

TOMMASO BUSCETTA. Esatto. Questo il mio convincimento.

PRESIDENTE. Ciò riguarderebbe tanto la Commissione antimafia quanto la magistratura?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. I superprefetti, l'Alto commissario, i superpoteri hanno dato fastidio a Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Perché? Cosa serve?

TOMMASO BUSCETTA. Perché non hanno fatto niente per farsi temere. Non si sono viste quelle azioni per farsi temere.

PRESIDENTE. Il senatore Boso le chiede: se il generale Dalla Chiesa avesse avuto i superpoteri (tra l'altro li aveva richiesti) sarebbe stato temibile?

TOMMASO BUSCETTA. Temibilissimo.

PRESIDENTE. Perché?

TOMMASO BUSCETTA. Dalla Chiesa - secondo me, ma credo che sia provato - aveva un sentimento della patria che non ho riscontrato negli altri. Può darsi che sia questo uno dei motivi per cui era inviso a molti.

PRESIDENTE. Il senatore Boso le chiede se la Chiesa sia interessata a Cosa nostra.

TOMMASO BUSCETTA. Come?

PRESIDENTE. Mi spiego meglio. Come lei sa, l'Istituto per le opere di religione, cioè la banca del Vaticano, è stato coinvolto nella vicenda Calvi. Partendo da questo dato, il senatore Boso le chiede se le risultino rapporti tra esponenti della Chiesa e Cosa nostra.

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. L'onorevole Borghezio le chiede se esista un archivio di Cosa nostra.

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Gli uomini politici del nord eletti con i voti mafiosi a Torino e a Milano quando devono votare si comportano come gli uomini d'onore che stanno in Sicilia o no?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, se sono residenti in altri posti; se vivono in altri posti e lì fissano la loro residenza, si comportano allo stesso modo.

PRESIDENTE. Quando sono state sequestrate persone fuori dalla Sicilia - è sempre l'onorevole Borghezio che glielo chiede - si è trattato quasi sempre di persone appartenenti al mondo dell'imprenditoria ma mai persone che lavoravano nel sistema bancario e finanziario. C'è una ragione particolare o è solo un caso?

TOMMASO BUSCETTA. E' un caso.

PRESIDENTE. Le risulta che con i soldi ricavati Cosa nostra abbia acquistato quote di società per azioni?

TOMMASO BUSCETTA. Non mi risulta.

PRESIDENTE. Non le risulta o non lo sa?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Bardellino, Zaza e Nuvoletta sono tre uomini d'onore, o meglio uno era e gli altri due sono.

TOMMASO BUSCETTA. E' già scontato che è morto?

PRESIDENTE. Non è scontato. A lei risulta che possa essere vivo?

TOMMASO BUSCETTA. Non mi risulta ma non credo che sia morto.

PRESIDENTE. Come dicevo, Bardellino, Zaza e Nuvoletta sono uomini d'onore; in quanto tali avevano l'incarico di sostenere anch'essi i candidati alle elezioni a Napoli?

TOMMASO BUSCETTA. Certamente; perché no?

PRESIDENTE. Quindi anch'essi lo facevano?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

 PRESIDENTE. Chi decideva i nomi?

TOMMASO BUSCETTA. Ho sempre detto che ognuno era libero di scegliersi il candidato.

PRESIDENTE. L'onorevole Biondi, che è stato parte civile nel processo per l'assassinio del generale Dalla Chiesa, le chiede di spiegare, se possibile, una sua frase detta a proposito di tale vicenda: lei ha parlato di "presenza troppo ingombrante" del generale Dalla Chiesa. Per chi tale presenza era così ingombrante?

TOMMASO BUSCETTA. Credo per lo Stato.

PRESIDENTE. Non per Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. No, non dava tutto questo fastidio per morire assassinato in quella maniera o, per lo meno, non aveva ancora dato tutto quel fastidio.

ALFREDO BIONDI. Ha fatto cenno anche ad alcuni uomini politici.

PRESIDENTE. Può precisare meglio?

ALFREDO BIONDI. Nella rogatoria del dottor Falcone del 3 settembre 1982 si legge: "Avendo appreso dalla televisione dell'assassinio del generale Dalla Chiesa, ritenni che l'omicidio fosse stato effettuato dai corleonesi aiutati dai catanesi, che erano a loro più vicini". E aggiunge: "Qualche uomo politico si era sbarazzato, servendosi della mafia, della presenza troppo ingombrante...". Signor Buscetta, non le chiedo di fare ora il nome dell'uomo politico, le chiedo solo se lo abbia fatto in quella occasione.

TOMMASO BUSCETTA. Lo dirò al giudice.

ALFREDO BIONDI. Questo l'ho capito ma vuol dire che il nome già l'ha detto. E' quello che volevo sapere.

PRESIDENTE. Quindi, con Badalamenti vi siete detti il nome dell'uomo politico?

TOMMASO BUSCETTA. Lo dirò al giudice.

PRESIDENTE. Certo, il nome lo dirà al giudice ma lei deve rispondere sì o no alla mia domanda.

TOMMASO BUSCETTA. Non facciamo ora confusione; dirò il nome al giudice perché è possibile che quello che mi ha detto Badalamenti possa essere stato da lui inventato.

PRESIDENTE. Forse non mi sono spiegato: noi non vogliamo sapere...

TOMMASO BUSCETTA. Ho capito: ce lo siamo detto.

PRESIDENTE. Si tratta di un uomo politico che ancora fa politica?

TOMMASO BUSCETTA. Ah, ah, ora che facciamo? Dieci carte, da uno a cinque, poi da cinque a uno e poi chiede: qual è l'ultima carta? Il cavallo. Dopo quante carte vuoi il cavallo? Non possiamo fare così!

PRESIDENTE. Signor Buscetta, lei faccia il suo mestiere così come la Commissione antimafia fa il suo; poiché le stiamo rivolgendo delle domande, lei risponda.

TOMMASO BUSCETTA. Non ho più mestiere.

PRESIDENTE. Lei sta rispondendo ad alcune domande che la Commissione ha il dovere di porle. Può rispondere come vuole, non può però presumere che non le si rivolgano determinate domande. Chiedere se si tratti di un uomo politico ancora in vita, tenendo presente che gli uomini politici in Italia sono alcune migliaia, non mi pare che sia una domanda che possa pregiudicare il suo interesse. Spero di essere stato chiaro.

TOMMASO BUSCETTA. E' vivo, anzi sono vivi.

PRESIDENTE. Sono più d'uno, quindi. L'onorevole Galasso le chiede con quale criterio lei abbia scelto cosa riferire alla Commissione antimafia.

TOMMASO BUSCETTA. Forse io ho criterio? Non ho criterio, io rispondo alle domande.

PRESIDENTE. Di fronte ad alcune domande, però, lei ha detto che preferisce riferire alla magistratura.

TOMMASO BUSCETTA. Appunto, preferisco. Il criterio è di non fare niente per intralciare quello che potrà essere il lavoro della magistratura, se so farlo.

PRESIDENTE. Quello che lei pensa possa intralciare il lavoro della magistratura preferisce non dirlo qui, benissimo. In questa fase, secondo lei, cosa sta accadendo all'interno di Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. E' una domanda complessa.

PRESIDENTE. Può dare qualche indicazione alla Commissione?

TOMMASO BUSCETTA. Credo che in questo momento ci sia grande confusione perché, per quello che ho letto dai giornali e per quello che ho potuto sentire, il pentimento di Mutolo e Marchese è una cosa tremenda per loro. Questi personaggi hanno vissuto a diretto contatto con loro; questi personaggi conoscono veramente fatti per loro gravi; questi personaggi potranno indurre, con il pensiero, altri personaggi a pentirsi, quindi ci sarà una grande confusione.

PRESIDENTE. Nell'intervista rilasciata a Biagi nella scorsa estate ha detto a proposito di Riina: "Chi lo sa se è Totò Riina". Oggi lei ha fatto riferimento ad un Totò Riina molto forte ancora, che decide; è parso all'onorevole Galasso di cogliere una contraddizione tra le due affermazioni.

TOMMASO BUSCETTA. Può darsi. Quando dico "può darsi Riina" e quando dico "Totò Riina" intendo fare un riferimento, perché è impossibile se quando si fa la lotta non c'è un leader. Se Riina è caduto in disgrazia, se l'hanno strangolato, ci sarà Provenzano al suo posto ma non posso saperlo da fuori. Allora, invece di parlare di corleonesi, anche perché non posso essere compreso, preferisco dire "Riina o chi sta al suo posto".

PRESIDENTE. L'onorevole Galasso le chiede se lei abbia elaborato qualche ipotesi sulla cui base ritenere che possa anche non trattarsi di Riina.

TOMMASO BUSCETTA. Le ipotesi si fanno nella Cosa nostra. Perché può venire la sorpresa che Riina sono cinque anni che è sotto terra. Si faceva il processo a Giuseppe Greco, detto Scarpazzedda, e quello era morto già da due anni. Si pensava che Scarpazzedda stava ammazzando, ma la verità era che non si trattava più di Scarpazzedda: era nato uno molto più pericoloso di lui, che aveva preso il suo posto e continuava ad ammazzare. Sono stato chiaro?

PRESIDENTE. Sì, è stato chiaro. A questo punto si pone la domanda: Cosa nostra, così come noi la intendiamo, esiste ancora?

TOMMASO BUSCETTA. Cosa nostra? Certo che esiste. E' esistita fino al pentimento di Marchese. Io credo che è esistita.

PRESIDENTE. Quindi esiste ancora. Abbiamo letto che dopo l'omicidio Lima vi sono stati casi di costituzione in carcere di uomini d'onore, tra i quali uno si era costituito ma non c'era ...

TOMMASO BUSCETTA. Si era costituito nel posto sbagliato.

PRESIDENTE. Sì, nel posto sbagliato. E' possibile, secondo la logica di Cosa nostra, che un uomo d'onore si vada a costituire dopo un omicidio?

TOMMASO BUSCETTA. Lo ha fatto Antonio Salamone.

PRESIDENTE. Può spiegare questa cosa alla Commissione?

TOMMASO BUSCETTA. Nel 1982 Salamone si recò in un paese della Calabria e si costituì per sfuggire alle domande pressanti di dare la possibilità di fare una base per uccidere me.

PRESIDENTE. In Brasile, ho capito. Quindi è possibile.

TOMMASO BUSCETTA. Preferì tornare in Italia e costituirsi, quando era cittadino brasiliano, con passaporto brasiliano, e non aveva niente di cui rispondere in Italia. Doveva rispondere del soggiorno obbligato.

PRESIDENTE. Se uno si costituisce i capi di Cosa nostra non pensano che egli abbia violato le regole?

TOMMASO BUSCETTA. Certo.

PRESIDENTE. Quindi?

TOMMASO BUSCETTA. Io non so dov'è Antonio Salamone!

ALFREDO GALASSO. Sappiamo che questa costituzione era in qualche misura autorizzata; era una cosa generale e non particolare, come se dopo il delitto Lima si fosse detto: se volete, andate a costituirvi. Questo hanno detto i giudici di Palermo.

PRESIDENTE. E' possibile che non sia stata un'iniziativa spontanea?

TOMMASO BUSCETTA. E' possibile. E' possibile perché ad un altro si può dire: "Dobbiamo fare una cosa molto importante, non voglio coinvolgerti, ti puoi costituire". Sono due cose diverse questa e quella di Salamone. Non c'è una regola precisa.

PRESIDENTE. Cioè Salamone si costituì sostanzialmente per evitare di ucciderla, correndo, a quel punto, anche dei rischi perché costituendosi violava una regola.

TOMMASO BUSCETTA. E' esatto. Ma lui cosa diceva al maresciallo? "Non dica che mi sono costituito, dica che mi ha arrestato".

PRESIDENTE. Certo. L'altro caso si ha, invece, quando Cosa nostra dice: "Stiamo facendo una cosa grande quindi ...". E questo avviene prima di un omicidio, non dopo.

TOMMASO BUSCETTA. Prima.

PRESIDENTE. L'onorevole Fumagalli le chiede di spiegare la frase: Lima morto serviva a denigrare Andreotti.

TOMMASO BUSCETTA. Lima era il lato democratico cristiano a Palermo. Questo significava la denigrazione di Andreotti, cioè della corrente andreottiana.

PRESIDENTE. Cioè uccidere Lima era ...

TOMMASO BUSCETTA. ... denigrare Andreotti.

PRESIDENTE. Denigrare nel senso di privarlo di peso oppure...

TOMMASO BUSCETTA. No, privarlo di voti.

PRESIDENTE. Quindi denigrare nel senso di indebolire. Mi chiede ora l'onorevole D'Amato se servisse anche a far capire che c'erano rapporti fra Lima ed Andreotti e quindi a far emergere questo tipo di contatti. TOMMASO BUSCETTA. Questi discorsi preferirei farli con i giudici.

PRESIDENTE. Quindi denigrare voleva dire togliere voti.

TOMMASO BUSCETTA. Togliere voti.

ALFREDO BIONDI. Non prestigio.

TOMMASO BUSCETTA. Perdendo il prestigio perdeva i voti.

PRESIDENTE. Lei ha sostenuto in passato che l'uomo d'onore dice sempre la verità. Vuol spiegare cosa significhi questa frase? Dice sempre la verità davanti a chiunque si trovi?

TOMMASO BUSCETTA. No, no.

PRESIDENTE. L'onorevole Fumagalli, che è di Milano, come io sono di Torino, le chiede di spiegare questa frase.

TOMMASO BUSCETTA. Dire la verità significa che se è chiamato in una riunione deve rispondere con la verità. No a chiunque: se è chiamato dal suo capo deve dire la verità.

PRESIDENTE. E se è chiamato da altri uomini d'onore?

TOMMASO BUSCETTA. Non gli devono domandare, perché sono curiosi e lui ha il diritto di non rispondere.

PRESIDENTE. Quindi l'unica persona alla quale ha il dovere di dire la verità è il suo capo.

TOMMASO BUSCETTA. O la commissione.

PRESIDENTE. Proseguo con le domande dell'onorevole Galasso che mi erano sfuggite: perché non ha riferito in sede di maxiprocesso la notizia sul generale Dalla Chiesa relativa al 1979?

TOMMASO BUSCETTA. E' semplice; io sono una persona dispostissima, adesso che c'è stata questa apertura, a testimoniare se ci fosse un nuovo processo. Quindi non è una preclusione nei confronti del generale Dalla Chiesa; è un problema che mi ero posto allora, di non parlare perché avrei complicato tutto il processo.

PRESIDENTE. Alla luce di quanto è successo poi - è questa una domanda che le faccio io - gli assassinii di Falcone e Borsellino e via dicendo, le sembra che la scelta che fece allora di non parlare di queste cose sia stata saggia?

TOMMASO BUSCETTA. Lei mi mette in difficoltà. Credo che la scelta sia stata saggia sotto un profilo materiale. Sotto un profilo umano forse io ho sbagliato, ma sotto il profilo materiale dovevo comportarmi così. Se avessi parlato di politica in quell'epoca, avrei vanificato le mie dichiarazioni. Sarebbero diventate zero perché avrebbero detto: credete a questo mascalzone che parla di cose che non sa?

PRESIDENTE. E' chiaro. Può dire alla Commissione fino a quale epoca i delitti erano deliberati a livello regionale? L'onorevole Galasso le domanda se vi è un'epoca fino alla quale gli omicidi più importanti erano decisi a livello di commissione interprovinciale.

TOMMASO BUSCETTA. La commissione interprovinciale è una cosa che viene dopo il 1974-1975, quindi io sono in carcere e queste discussioni non le so. Prima non esisteva, quindi la commissione che decideva era provinciale.

PRESIDENTE. E, che lei sappia, fino a quando la commissione provinciale ha deciso se un grande delitto poteva essere compiuto?

TOMMASO BUSCETTA. Fino al 1975. Cioè partendo dal 1970, escludendo dal 1973 al 1970, è dal 1970 al 1975 che decide autonomamente.

PRESIDENTE. Lei sa chi fosse questo personaggio di Palermo, vicino a voi, credo massone, chiamato "lo zio"? Posso aiutarla dicendole che, secondo Calderone, Giacomo Vitale aveva rapporti con gli uffici giudiziari tramite questa persona anziana, chiamata "lo zio", che era un massone.

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so.

PRESIDENTE. Può spiegare meglio alla Commissione quello che ha accennato riguardo all'aggiustamento del processo di Catanzaro? Ha fatto un esempio relativo al pubblico ministero: ricorda altri fatti in ordine all'aggiustamento del processo? E' una domanda che le rivolge l'onorevole Olivo.

TOMMASO BUSCETTA. Anche a Catanzaro ci sono stati gli aggiustamenti. Il processo di Catanzaro è finito nel nulla. Sono andati tutti a casa, condannati con l'espiazione della pena.

PRESIDENTE. Ci sono rapporti, che lei sappia, tra Cosa nostra e la Sacra corona unita, l'organizzazione criminale pugliese?

TOMMASO BUSCETTA. No.

PRESIDENTE. Il senatore Calvi le chiede di precisare meglio il suo rapporto con Lima. Lei ha detto che era nata una specie di amicizia da molto tempo perché eravate quasi coetanei: il padre di Lima, che era uomo d'onore, gliel'aveva presentato, lei gli mandava i biglietti del teatro e così via. C'erano rapporti di questo tipo. Ritiene di poter dare qualche informazione in più alla Commissione?

TOMMASO BUSCETTA. La darò ai giudici, perché ho già cominciato il verbale con i giudici.

PRESIDENTE. Va bene. L'onorevole Matteoli le chiede se, secondo lei, ambienti governativi avessero interesse all'eliminazione di Dalla Chiesa.

TOMMASO BUSCETTA. Non lo so, come faccio a saperlo?

PRESIDENTE. Chi ha favorito l'ingresso di Michele Greco all'Ucciardone?

TOMMASO BUSCETTA. La matricola, l'ufficio matricola, il brigadiere Buonincontro.

PRESIDENTE. Che è stato ucciso, se non erro.

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Da Cosa nostra?

TOMMASO BUSCETTA. Credo di sì.

PRESIDENTE. C'era secondo lei un rapporto tra l'andata del giudice Campisi a Cuneo ed il suo trasferimento nel carcere di quella città?

TOMMASO BUSCETTA. Non lo conoscevo.

PRESIDENTE. Ma dopo ha saputo?

TOMMASO BUSCETTA. Sì, ma molto dopo.

PRESIDENTE. L'onorevole Ricciuti vorrebbe sapere cosa faccia oggi Cosa nostra. Secondo lei, cosa sta succedendo?

TOMMASO BUSCETTA. L'abbiamo già detto, abbiamo già risposto a questa domanda.

PRESIDENTE. Durante il primo giro di domande, gliene ho rivolta una riguardante il separatismo e l'interesse che a questo riguardo può avere Cosa nostra. Lei ha risposto in particolare richiamando la necessità di avere un alleggerimento delle sentenze e sostenendo che da questo punto di vista il separatismo potrebbe risultare utile. Secondo lei, chiede il collega Ricciuti, vi è un rapporto tra questa forma di separatismo e quello di cui si discute al nord?

TOMMASO BUSCETTA. Secondo me, secondo la mia opinione, forse sì.

PRESIDENTE. Conosce il testo delle dichiarazioni di Calderone e di Mutolo?

TOMMASO BUSCETTA. No, di Calderone ho letto un libro.

PRESIDENTE. L'onorevole D'Amato le chiede se esista un collegamento tra uomini d'onore campani e politici campani.

TOMMASO BUSCETTA. Ne parlerò ai giudici, parlerò con loro di tutto quello che riguarda la politica. D'altronde, non sono più lucido come quando sono arrivato questa mattina e non vorrei fare confusione.

PRESIDENTE. Lei ha detto prima, comunque, che anche gli uomini politici campani si comportano alla stessa maniera: lo conferma?

TOMMASO BUSCETTA. Sì.

PRESIDENTE. Inoltre, secondo lei, quali sono i criteri per valutare l'attendibilità di una persona che si presenta come pentito?

TOMMASO BUSCETTA. Eh, qua casca l'asino! Deve parlare con il pentito solo una persona competente e che ha vissuto dentro Cosa nostra.

PRESIDENTE. Uno che è vissuto dentro Cosa nostra è difficile che faccia il giudice, tranne quei casi ...

TOMMASO BUSCETTA. Ah, ah, è logico, ma chi è vissuto dentro Cosa nostra senza fare il giudice può stabilire se il pentito dice o meno la verità.

PRESIDENTE. Ho capito, ci vuole un vaglio robusto.

ALFREDO BIONDI. E' successo che qualcuno dei pentiti abbia usato l'arma del parlare, del raccontare per farsi giustizia privata, per diventare il "tragediatore" di qualcun altro?

PRESIDENTE. L'onorevole Biondi le chiede se qualcuno dei pentiti abbia usato questa sua condizione per compiere una vendetta privata dicendo il falso.

TOMMASO BUSCETTA. Dei pentiti che io ho conosciuto, Calderone no, Contorno assolutamente no; Contorno ha sostenuto confronti con tutti quanti. Quindi, quelli che ho conosciuto io no; se verranno in futuro, non lo posso sapere.

PRESIDENTE. Il senatore Ricciuti le chiede questo: accertata la sfiducia totale nei confronti dei partiti cui la mafia ha fatto tradizionalmente riferimento, adesso il rapporto con la politica può dirigersi anche verso formazioni nuove, diverse da quelle tradizionali?

TOMMASO BUSCETTA. Se vuole un'opinione personale, dico senz'altro di sì.

PRESIDENTE. Si tratterebbe di partiti che ancora debbono nascere o che già sono nati?

TOMMASO BUSCETTA. Secondo me, sono già nati.

PRESIDENTE. Se un uomo politico amico di Cosa nostra deve fare una legge contro di voi (lei ha fatto capire prima che si può fare ugualmente) deve avvertirvi e spiegarvi qualcosa?

TOMMASO BUSCETTA. Guardi, nessuno meglio di lei mi può insegnare che, prima che si approva una legge in Italia, passano degli anni. Non è che in Italia una legge si faccia in poco tempo.

PRESIDENTE. Ma se poi la legge si fa?

TOMMASO BUSCETTA. Si fa e lui deve conservare quell'immagine pubblica anche a scapito di Cosa nostra.

PRESIDENTE. E Cosa nostra capisce questa cosa?

TOMMASO BUSCETTA. Nel passato la capiva, non so se adesso la capisca più.

PRESIDENTE. Le domande sono terminate e noi la ringraziamo molto. Vorrei chiederle se lei abbia una dichiarazione finale da rendere alla Commissione.

TOMMASO BUSCETTA. Sono molto stanco, avrei una dichiarazione finale da fare alla Commissione antimafia e mi riservo di scrivere una lettera a lei, signor presidente, che potrà leggerla a tutti i componenti la Commissione presenti in aula. Sono veramente stanco e sono certo che non mi esprimerei bene, cosa che invece vorrei fare.

PRESIDENTE. Va bene, scriva senz'altro questa lettera. Essa sarà allegata al resoconto stenografico della seduta odierna.

(Il signor Buscetta viene accompagnato fuori dall'aula).

Sui lavori della Commissione.

PRESIDENTE. Sulle questioni che già sono state toccate all'inizio della seduta odierna propongo che si pronunci un rappresentante per gruppo. In primo luogo, dobbiamo decidere se mantenere o meno segreta la seduta; in caso negativo, si pone la questione di quale informazione dare (un comunicato, una conferenza stampa o altro).

LUIGI BISCARDI. Il gruppo misto sostiene che non deve esserci nessun segreto, che tutto può essere reso pubblico, viste anche le dichiarazioni dello stesso Buscetta, che si è riservato di fare ai giudici i nomi e di riferire loro sui rapporti tra mafia e politica.

GIOVANNI FERRARA SALUTE. Poiché lo stesso Buscetta ha fatto notare di non aver detto cose che possano danneggiare le indagini, tutte le altre sue dichiarazioni possono essere rese pubbliche nel modo in cui decideremo.

GIROLAMO TRIPODI. Concordo con quanto detto dai colleghi che mi hanno preceduto perché ritengo che stamani noi abbiamo anche commesso un errore: avremmo fatto bene a tenere sin dall'inizio seduta pubblica. Per queste ragioni, non posso che essere favorevole a rendere pubblica l'audizione.

MARCO TARADASH. Signor presidente, io ho posto una questione di metodo e non di merito. A me non interessa, infatti, stabilire se Buscetta abbia detto cose più o meno importanti, se abbia offeso o meno qualcuno. Ritengo che la Commissione, nel momento in cui ascolta dei collaboratori della giustizia, dovrebbe sempre tenerne segrete le audizioni, visto che tutto quanto essi dicono può essere materiale di lavoro per la Commissione stessa. Francamente, penso che oggi sia stato commesso un errore a causa del quale si è costituita una forte attesa sulla possibilità che Buscetta avrebbe fatto i nomi dei politici, così come Calderone ne aveva fatto qualcuno. Procedendo in questo modo, perderemo di vista i nostri obiettivi e non saremo più una Commissione di inchiesta ma una cassa di risonanza per chi viene qui per avere domani titoli di prima pagina sui giornali. Ribadisco, pertanto, che la questione è di metodo e perciò non mi pronuncerò a favore o contro la pubblicità dell'audizione. Semmai, tale decisione avrebbe dovuto essere assunta a prescindere da quello che Buscetta avrebbe detto. Ed io mi rifiuto di stimare se quanto ha detto debba essere tenuto segreto o meno. A me interessano i lavori della Commissione e non le dichiarazioni di Buscetta.

ANTONIO BARGONE. Arrivati a questo punto, credo che la decisione più saggia sia quella di rendere pubblica la seduta, non foss'altro perché lo stesso Buscetta ha fugato tutti i dubbi che sono stati o potevano essere avanzati in proposito. Se non rendiamo pubblica la seduta, inoltre, qualcuno - in qualche modo avendone interesse - potrebbe adombrare che qui sono state dette cose di grande rilievo su esponenti politici, o comunque su settori del mondo politico. La pubblicità della seduta rappresenta, perciò, anche un utile deterrente per quegli esponenti della Commissione che intendessero instaurare un rapporto privilegiato con la stampa.

MARIO BORGHEZIO. Siamo ovviamente favorevoli alla pubblicizzazione della deposizione di Buscetta.

ALFREDO BIONDI. Concordo con l'onorevole Taradash a proposito del metodo: non si può scegliere di volta in volta cosa dire e cosa non dire; né è affatto scontato che le frasi ed i riferimenti che Buscetta sceglie possano essere di per sé tali da determinare tranquillità. Buscetta non ha fatto delle assoluzioni, ma dei rinvii. Tenere però nascosto quanto non è stato esplicitato mi sembrerebbe un volere inutilmente complicare le cose. Per il futuro - e sarà bene riunirci per decidere sul metodo - dovremo adottare un criterio generale. In questo momento mi dichiaro a favore della pubblicità dell'audizione perché altrimenti può sembrare che sappiamo più di quanto sua eccellenza Buscetta, nella sua infinita misericordia, ci ha consentito di dire o di non dire.

ALFREDO GALASSO. Mi sono già pronunciato prima per la pubblicità della seduta, anche nel caso che Buscetta avesse detto dei nomi. Figuriamoci ora che non li ha detti!

ALTERO MATTEOLI. Stamani, in apertura di seduta e senza sapere cosa Buscetta avrebbe detto, a nome del mio gruppo mi sono espresso a favore della pubblicità della seduta. Tutti ci aspettavamo grandi rivelazioni che non ci sono state, per cui ora mi sembra davvero assurdo tenere nel cassetto le sue dichiarazioni. Non ha detto niente e chi sa quali sarebbero i titoli sui giornali per ciò che non ha detto!

CARLO D'AMATO. Al punto in cui siamo, la pubblicità della seduta diventa un fatto relativo al contenuto delle dichiarazioni rese: se fossero state di un certo tipo, le avremmo tenute segrete; se fossero state di altro tipo, le avremmo rivelate. Concordo anch'io sulla necessità di discutere sul metodo da seguire. Noi abbiamo già adottato dei filtri ed io stamattina mi ero già espresso a favore della segretezza dell'audizione, anche alla luce delle iniziative assunte da alcuni gruppi subito dopo l'ultima riunione della Commissione. In considerazione poi della lettera inviata dal presidente ai capigruppo, credevo fosse opportuno un momento di ripensamento finalizzato al recupero di un comportamento che deve essere proprio di una Commissione che ha compiti tanto delicati. Devo dire, comunque, che il metodo sin qui seguito è corretto: il presidente opera da filtro delle domande, sia nella prima sia nella seconda fase. La valutazione di ciò che può scaturire da un'audizione di questo tipo non può però essere tenuta segreta, e questo criterio va stabilito una volta per tutte. In altri termini, dovremmo stabilire che, alla luce dell'esperienza degli ultimi due incontri, la pubblicità sarà assicurata per tutti gli altri. Ove così non facessimo, verremo coinvolti in un negativo dibattito; e questo anche nel caso in cui non vi fossero gli elementi concreti per un tale coinvolgimento. Ritengo, quindi, che si debba rendere pubblica la seduta di oggi. Tra l'altro, so che sono già state fatte dichiarazioni che fanno credere che da questa seduta sia emerso non si sa bene che cosa di strabiliante! La pubblicità della seduta, diventa un atto doveroso di chiarezza e di informazione dell'opinione pubblica per fugare ogni incertezza sul nostro lavoro, fermo restando che tale decisione dovrà trasformarsi in un metodo valido per il futuro. PRESIDENTE. Secondo me, colleghi, dobbiamo decidere a prescindere dai comportamenti più o meno scorretti assunti da qualcuno di noi. Altrimenti, saltano anche i criteri utili a garantire comportamenti corretti tra di noi.

OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Signor presidente, credo che la questione riguardi il metodo, non il contenuto. All'inizio della seduta mi ero espressa a favore della riservatezza alla luce di considerazioni oggettive e prescindendo da quanto avrei ascoltato. Del resto, nella precedente riunione avevo già sottolineato la mia contrarietà all'utilizzo del metodo della pubblicità. Sconsiglierei tra l'altro vivamente di decidere di volta in volta se tenere segreta oppure no l'audizione, perché ciò darebbe luogo a letture certamente poco trasparenti e non corrette. Personalmente, ripeto, sono per la riservatezza dei nostri lavori (anche se mi rendo conto a questo punto di essere in assoluta minoranza), in quanto le affermazioni del pentito hanno bisogno di ulteriori elementi di valutazione, in termini tecnici, nonché di riscontri. Fungere da cassa di risonanza per le dichiarazioni di una persona, che non sappiamo se dice il vero o il falso, mi pare imprudente.

ROMEO RICCIUTI. Signor presidente, intervengo per motivo personale. Ho saputo che, prima ancora che si decidesse se dare pubblicità o meno all'audizione odierna, alcuni colleghi hanno rilasciato dichiarazioni agli organi di stampa. Se un fatto del genere venisse accertato presso le agenzie di stampa, le chiedo di adottare provvedimenti a carico del responsabile con grande severità: questo è il metodo più corretto per procedere. Nutro solo una preoccupazione, quella che si sappia all'esterno che il pentito, ancorché simpatico, ha trattato la Commissione con sufficienza, alla stregua di ragazzi in libertà ai quali si può far conoscere soltanto una parte della verità, dato che le rivelazioni più importanti verranno affidate ai magistrati. Ripeto, ho solo questa preoccupazione che, peraltro, mi passa subito.

PIERO MARIO ANGELINI. Poiché siamo vanitosi come Buscetta, ci preoccupiamo della nostra immagine e dell'opinione pubblica: sinceramente mi preoccuperei di più del rapporto tra noi ed i collaboratori della giustizia. Buscetta ha chiaramente affermato che ai giudici parlerà in un modo, a noi ha parlato in un altro, perché sa che dialogando con noi, parla a tutta la nazione. Quindi, personalmente mi interessa poco quello che è successo oggi, perché ormai la situazione è compromessa, mentre mi preoccupa quello che accadrà in futuro. Non è la stessa cosa se Mutolo - e gli altri collaboratori che ascolteremo - saprà di parlare ad una piazza pubblica oppure ad un nucleo di persone riservate. La riservatezza è l'unica condizione che questa Commissione deve osservare se vuole lavorare seriamente; diversamente, ci troveremo dinnanzi a confessioni evirate perché gli uditi sanno che ogni commissario riporterà le dichiarazioni secondo il proprio punto di vista. Se veramente si vuole potenziare il lavoro della Commissione antimafia, si deve dire chiaramente a Mutolo, o a chi verrà, che le rivelazioni sono raccolte da un gruppo di persone che tiene la bocca chiusa; altrimenti, che senso ha parlare con i collaboratori della giustizia?

PRESIDENTE. Colleghi, prima di procedere alla votazione vorrei segnalarvi una questione che non è stata trattata nel corso degli interventi dei commissari, ossia quella del perseguimento dello scopo. Poiché abbiamo deciso - quasi all'unanimità - di lavorare in un certo modo, facendo chiarezza su taluni argomenti e presentando una relazione compiuta al Parlamento, è necessario capire che cosa giovi o danneggi il lavoro. In quest'ottica, il tipo di reazione registrata dopo l'audizione di Calderone non mi pare abbia giovato allo scopo. Come avrete notato, Buscetta si è riferito esplicitamente al pericolo di ritorsione da parte di singoli, tanto che ha operato una scelta molto chiara nel senso cioè che i nomi li avrebbe detti ai giudici, mentre il quadro politico lo avrebbe delineato alla Commissione. Ora, senza peraltro esprimere opinioni, chiedo ai colleghi di valutare quale delle due scelte risulti più funzionale - mi riferisco alla segretezza o alla pubblicità della riunione - per la presentazione, in tempi rapidi, di una relazione seria al Parlamento. Naturalmente si pone il problema della serietà di ciascuno di noi in ordine alle dichiarazioni che si rilasciano. La Commissione non può adottare provvedimenti punitivi nei confronti di chi viola queste regole, anche se ritengo si debba assumere un orientamento tale per cui, una volta deciso per la seduta segreta, se un commissario parla deve necessariamente stabilire se stare dentro o fuori.

ALTERO MATTEOLI. Se sono state rilasciate dichiarazione agli organi di stampa, non possiamo sculacciare il responsabile. Rilevo però che il collega, con la sua azione, autorizza tutti noi a fare altrettanto. Poiché abbiamo atteso la fine della seduta per decidere sulla segretezza o sulla pubblicità - anche noi, che eravamo favorevoli alla pubblicità - non possiamo uscire dalla sala e stare zitti, perché dobbiamo rispetto agli elettori. Rilasceremo le dichiarazioni responsabilmente, perché non me la sento di non fare dichiarazioni (ai giornali di partito o agli amici giornalisti), visto che altri hanno ritenuto di rilasciarne durante la seduta.

ALFREDO BIONDI. Questo già risulta?

ALTERO MATTEOLI. L'ha detto il collega e va acclarato. Non faccio altro che prendere contezza delle dichiarazioni di qualche attimo fa del collega Ricciuti. Se effettivamente sono state rilasciate dichiarazioni, non c'è scorrettezza da parte della Commissione verso l'esterno, ma nel rapporto interno. Il presidente avrà capito che sono portato per temperamento a dire ciò che penso: all'inizio della seduta ho pensato che l'ufficio di presidenza non si fosse comportato correttamente e l'ho detto; e così intendo andare avanti. Tuttavia, se appurerò che qualcuno ha rilasciato dichiarazioni, farò altrettanto, ossia rilascerò dichiarazioni responsabili, valutandole insieme con i colleghi del mio gruppo, ma la farò perché non intendo farmi dire da chicchessia "gli altri hanno parlato, voi no!"

PRESIDENTE. Colleghi, una volta esisteva il senso dello Stato ed io chiedo che venga considerato. C'è un punto fondamentale nella tenuta delle istituzioni e concerne i rapporti tra mafia e politica: penso che la Commissione abbia la legittimità e la forza di svolgere questa difficile indagine a condizione che vengano mantenuti comportamenti coerenti con la qualità della scelta operata. Altrimenti, occupiamoci degli spacciatori e del tabacco e basta! Occorre verificare se i comportamenti, le regole e la tenuta della Commissione siano all'altezza degli obiettivi: se non dovesse esistere questo livello, ripeto, sarebbe meglio lasciar perdere. Se qualcuno ha violato la regola, non è detto che tutti siano tenuti a comportarsi alla stessa maniera. Se qualcuno ha violato io, responsabilmente ed avvertendo il senso della tenuta istituzionale, non farò altrettanto. Credo, quindi, si ponga non tanto un problema di punibilità, quanto di incompatibilità: abbiamo votato, si è imposta una regola, la dobbiamo osservare tutti. Se qualcuno l'ha violata, ripeto, credo si ponga un problema di incompatibilità (comunque, non so se qualcuno abbia rilasciato dichiarazioni, perché io non mi sono mai mosso dalla sala). Tra l'altro, poiché si è stabilito di fare il punto della situazione a dicembre, ciò significa che passeranno solo alcune settimane e quindi l'esigenza di far conoscere può essere contenuta nell'arco di pochi giorni. Quanto poi alla possibilità di ricorrere ad un comunicato, ho dei dubbi, perché ogni parola può significare venticinque cose diverse. La conferenza stampa, poi, meno che mai. Vi chiedo quindi di valutare questi aspetti, che non sono assolutamente secondari.

GIOVANNI FERRARA SALUTE. Proprio in relazione a questi aspetti tutt'altro che secondari bisogna fare alcune considerazioni. Condivido le affermazioni del presidente, si impone il riconoscimento reciproco e a priori del senso di responsabilità. Se domani appariranno sui giornali alcune notizie, ciascuno di noi potrà essere sospettato di averle divulgate, per ragioni più o meno obiettive: cosa dovrebbe fare, forse discolparsi? La materia è estremamente difficile da definire. Per quanto mi riguarda, posso dire che non parlerò con nessuno dell'audizione di oggi, anche se non mi sembra sia emerso nulla di particolarmente drammatico. Se le indiscrezioni ci saranno lo stesso, posso solo confermare di non averne colpa. Ferma restando l'opportunità che ciascuno di noi mantenga la riservatezza, esiste un altro problema: se mantenessimo segreta la seduta, riusciremmo a sapere dai pentiti più di quanto sarebbero disposti a dirci nel corso di un'audizione pubblica? Ne dubito, perché la sfiducia probabilmente è dovuta a motivi più generali, cioè al sospetto che comunque non si voglia tenere il segreto. Il presidente ha richiamato al senso dello Stato ed alla responsabilità verso il paese. Allora, in futuro, occorrerebbe chiedersi se questa Commissione non dovrebbe esercitare la propria autorità nei confronti di chi viene ascoltato. In questo caso abbiamo permesso - ed abbiamo fatto bene - che il signor Buscetta non ci rispondesse quando non voleva. Sapete che questo comportamento sarebbe molto difficile da tenere dinanzi ad una Commissione del Senato americano: si verrebbe facilmente tradotti in un carcere federale. Per il futuro dobbiamo stabilire fino a che punto possiamo consentire la libera scelta di chi viene sostanzialmente non in stato di assoluta libertà se parlare o meno. Tornando ai fatti, credo all'opportunità del segreto ma dubito che ci credano gli altri, per cui il segreto stesso rischia di diventare una pura formalità, con lo svantaggio che - in assenza di un comunicato, molto complesso da elaborare - sarà difficile contestare notizie distorte che un domani dovessero apparire sulla stampa. Di conseguenza, ritengo che sia preferibile la pubblicità dei lavori, affinché si possa controllare quanto viene riferito.

VITO RIGGIO. Ho votato all'inizio per la seduta segreta, ma devo dire che a questo punto sono necessari, oltre alla convergenza ed un forte senso delle istituzioni, anche la consapevolezza di quanto accade in questa sede. Finora abbiamo ascoltato i pentiti Calderone e Buscetta, che rappresentano la storia della mafia; ci apprestiamo ad ascoltare pentiti che sono ricercati da Cosa Nostra e che sono in pericolo di vita. Se l'approccio è di tale leggerezza, per cui affrontiamo il lavoro in questa come in una qualsiasi Commissione parlamentare, e se il membro di un gruppo viola una regola anche gli altri ritengono di doverlo fare, mi rifiuterò di partecipare alle successive audizioni. Probabilmente non si ha la percezione di cosa possa significare, in particolare per alcuni, far capire che si sanno cose e non si vogliono dire o far dire cose che non andrebbero dette. Per motivi del genere è morta della gente. E' stato per consentire un filtro che avevo votato in favore della seduta segreta, per evitare una possibile interferenza con l'inchiesta della magistratura. Questo argomento non può essere sottovalutato e credo che abbia costituito la ragione di fondo, per lo meno quella che così è stata presentata, dell'atteggiamento del signor Buscetta. Sono altresì convinto che il clamore fatto intorno all'audizione di oggi abbia finito con il vanificarne gli effetti. Deve essere perciò chiaro che a volte, sotto l'istanza della trasparenza e della pubblicità, possono nascondersi atteggiamenti di sostanziale negazione degli obiettivi dell'inchiesta. Pertanto, occorre rispettare rigorosamente le regole. Non si tratta di dare segnali: quando si vota per la segretezza di una seduta, questa deve rimanere segreta e deve esserlo per tutti. Se non siamo in grado di garantirlo, dobbiamo pagarne il costo, cioè depotenziare la nostra attività rendendola pubblica. Non vedo alternative, a causa di una nostra debolezza dobbiamo dare pubblicità perché non siamo capaci di fare altrimenti, non perché sia la scelta più corretta.

GIANCARLO ACCIARO. Confesso che questa mattina sono partito deluso perché ho sentito il giornale radio. Inorridisco però quando sento dire dal collega che durante la seduta probabilmente qualcuno ha reso dichiarazioni pubbliche. Come ha giustamente affermato il presidente, la nostra responsabilità è di rendere dichiarazioni ben ponderate, attraverso una persona che sia credibile. Se quanto è stato detto è vero, viene una gran voglia di apparire sui giornali di domani. Io non sono un deputato molto conosciuto ed ho un grande bisogno di pubblicità, ma ritengo gravissimo quanto pare sia accaduto. Un certo modo di agire sminuirebbe la portata delle dichiarazioni che sono state rese in questa sede e porterebbe a riflettere se non ci sia un modo migliore per passare il tempo, anziché stare qui ed essere poi gli "ultimi della classe".

ALFREDO BIONDI. Esistono tre problemi, il primo dei quali è stato risolto dal signor Buscetta, relativo all'interferenza tra le sue dichiarazioni e l'attività che sta svolgendo l'attività giudiziaria. In proposito, mi permetto di suggerire una preselezione delle materie che possono costituire intralcio alle indagini, anziché lasciare ai nostri interlocutori questo compito. La questione riveste aspetti di opportunità ed ha risvolti sull'efficienza delle indagini giudiziarie in corso. L'unica soluzione è la stessa segretezza seguita dall'autorità giudiziaria; la Commissione, infatti, agisce con i medesimi poteri ma anche con gli stessi limiti. Non si tratta soltanto di cortesia e rispetto reciproco, ma anche di rispetto della legge. Per quanto mi riguarda, nonostante io sia poco portato alla riservatezza, sono tentato di resistere alle pulsioni di apparenza più che di sostanza. Del resto, sarebbe buffo far sapere che Buscetta non ha risposto a tutte le domande perché non si fida di noi. Il secondo problema riguarda la pubblicità della seduta, nel senso che fin dall'inizio, qualunque cosa succeda, si deve decidere se la seduta debba essere pubblica o segreta: usque ad sidera, usque ad infera. Non vorrei che dessimo l'impressione che qui dentro non sia stato detto niente mentre, secondo me, oggi è stata una giornata molto importante. Anch'io, come il collega Galasso, ho partecipato come parte civile al maxiprocesso e devo riconoscere che il quadro generale è riemerso ed è stato sottolineato. Credo che l'audizione odierna debba essere resa pubblica; chiedo però che si riunisca quanto prima l'ufficio di presidenza per concordare il metodo di lavoro riguardo alla segretezza delle sedute di audizione dei pentiti. Ho la sensazione che, per il bene delle finalità che intendiamo perseguire, dobbiamo decidere se interferire o no in ciò che è di competenza dell'autorità giudiziaria. Non va dimenticato che c'è anche il problema di salvaguardare la reputazione delle persone che può essere messa in discussione dall'uno o dall'altro argomento o da un eccesso di "istinto venatorio" che può avere il pentito. Se decidiamo che tutto il nostro lavoro debba essere pubblico, allora assumiamo l'iniziativa di decrittare fin dall'inizio le audizioni; se invece pensiamo che in tal modo rischiamo di intralciare il lavoro dell'autorità giudiziaria, decidiamolo noi ma non lasciamo tale decisione al pentito perché è abbastanza imbarazzante che egli sia più realista del re.

PRESIDENTE. Vorrei chiarire che il problema di interferenza con il lavoro dell'autorità giudiziaria non si pone perché essa è stata informata dell'audizione odierna. Come, mi sembra con correttezza, ho ricordato ricevendo anche qualche rampogna dai colleghi, essa ha posto il limite su due temi che non sono stati oggetto di nessune delle domande poste.

ALFREDO BIONDI. Anche questa è una "mordacchia".

PRESIDENTE. Ma quale "mordacchia"! Nessuno ha posto quelle domande.

ALFREDO BIONDI. Le domande non sono state poste perché non conoscevamo gli argomenti.

PRESIDENTE. Vi prego inoltre di tenere conto che Buscetta ha fatto oggi un lavoro molto importante, ha delineato vari quadri che costringono l'autorità giudiziaria a porre una serie di domande. Non è vero che egli abbia messo da parte certe cose a favore di altre; essendo un uomo intelligente, ha considerato la nostra una sede politica e qui ha dipinto una serie di quadri politici, riservandosi di fare ai giudici i nomi. In questo modo ha costretto - sia detto tra virgolette - l'autorità giudiziaria interessata a porre certe domande che non può a questo punto più fare a meno di porre.

ALFREDO BIONDI. Mi sembra di non aver rivolto critiche alla seduta.

PRESIDENTE. Certamente, ma era mia intenzione sottolineare certi aspetti circa l'interferenza con l'autorità giudiziaria. Se sulla pubblicità dei lavori deve decidere l'ufficio di presidenza, è evidente che esso avrà luogo al termine della seduta.

ALTERO MATTEOLI. A me sembra che il problema sia superato perché abbiamo appurato che sono state rilasciate alcune dichiarazioni: secondo le agenzie di stampa, alle ore 17.40 il collega Galasso ha ritenuto di rilasciare una dichiarazione.

ALFREDO GALASSO. Bisogna vedere che cosa!

ALTERO MATTEOLI. Rimane il fatto che la dichiarazione è avvenuta prima che noi decidessimo in merito alla segretezza della seduta.

ALFREDO GALASSO. Ho fatto una dichiarazione, non ho raccontato nulla.

MASSIMO BRUTTI. Non credo che sia di particolare rilevanza il fatto che qualcuno abbia rilasciato una dichiarazione, perché su ciò deciderà l'opinione pubblica (Commenti del deputato Piero Mario Angelini). Bisogna verificare quale sia l'oggetto della dichiarazione e se infranga il principio della pubblicità; comunque, ritengo che questo non sia tema di discussione, anche perché in questo momento non abbiamo poteri sanzionatori nei confronti di colui che abbia rilasciato dichiarazioni in contrasto con il dovere di segretezza. Il punto è che all'inizio della seduta abbiamo stabilito di mantenere segreta l'audizione, riservandoci di decidere alla fine se e quali parti rendere pubbliche. Ritengo che quello di scegliere di volta in volta sia il criterio migliore da seguire perché i collaboratori della giustizia che verranno qui devono sapere che la parte delle loro dichiarazioni che tocca determinate personalità potrà essere tenuta segreta, e ciascuno di noi ha l'obbligo di rispettare il dovere di segretezza. In questo momento siamo in grado di dire che nulla di quello che abbiamo sentito oggi costituisce turbativa per le indagini in corso o lede l'onorabilità di qualcuno. A questo punto, penso che si debba mettere in votazione la proposta di rendere pubblica l'intera audizione del collaboratore Buscetta, riservandoci per le prossime audizioni di decidere dopo aver valutato il tenore delle dichiarazioni rese.

MARCO TARADASH. A me sembra che il problema di oggi si riproporrà in futuro in modo esponenziale. Le prossime audizioni riguarderanno collaboratori che parleranno dell'attualità e non della preistoria della mafia e toccheranno l'onorabilità di persone che agiscono pubblicamente. Nell'assumere una decisione dobbiamo anche tener conto delle eventuali interferenze con l'azione portata avanti dalla magistratura. Quanto ai rapporti con la stampa, nel nostro paese essa è stata abituata da alcuni esponenti della politica a riferire quello che viene detto qui dentro come se fosse acquisito e verificato. Credo che nel prossimo ufficio di presidenza si dovrà valutare l'opportunità di continuare con le audizioni dei collaboratori della giustizia. Se esse si rivelano inutili perché i collaboratori non si fidano della Commissione e questa, a sua volta, non esercita i poteri di far giurare il teste o di incriminare eventualmente quello reticente, non vedo perché si debba continuare con queste audizioni che non servono a nulla e creano soltanto sospetto, interferenze e un clima intimidatorio da parte dal mondo esterno nei nostri confronti nel caso in cui vogliamo lavorare correttamente e quindi non dichiarare pubblico tutto quello che viene detto qui dentro.

PRESIDENTE. Desidero precisare che i testimoni non giurano e che, grazie ad una serie di pressioni esercitate anche dal gruppo federalista europeo, non è più prevista la contestazione immediata del teste. Pongo in votazione la proposta di revocare la segretezza della seduta. (E' approvata).

La seduta termina alle ore 18,15. 

ALLEGATO Dichiarazione finale rimessa per iscritto dal signor Tommaso Buscetta: "Signor Presidente della Commissione Antimafia, ritengo utile e doveroso affidare a queste brevi note il mio più vivo ringraziamento per l'occasione che Ella ed i suoi colleghi parlamentari mi avete offerto di esprimere in piena libertà e con serenità le mie considerazioni su quel gravissimo fenomeno delinquenziale rappresentato dalla "cosa nostra" siciliana. Attraverso di voi ho potuto oggi esprimere con chiarezza un concreto grido d'allarme, che mi auguro sarà ascoltato da tutti sul grave rischio cui la società civile è esposta se scegliesse di continuare a convivere con la mafia e non decidesse di liberarsi, una volta per tutte, di questa realtà criminale. Con la stessa forza e con altrettanta chiarezza credo di aver espresso la mia fiducia che questa lunga battaglia contro "cosa nostra", fino ad oggi combattuta a fasi alterne, possa una volta per tutte essere affrontata con determinazione ed in modo tale da provocare la sua definitiva scomparsa dal vivere civile. Sono stato un mafioso e sono oggi un uomo libero degno di essere accettato dalla società ed in questa mia nuova veste voglio rinnovare il mio impegno a proseguire nella battaglia che ho intrapreso tanti anno addietro a fianco del giudice Falcone. In questa logica mi permetto di suggerire, attraverso di Lei e tutto il Parlamento italiano, alcune mie considerazioni sulle modalità che io, sulla base della mia esperienza di mafioso, ritengo utile per la definitiva sconfitta della mafia. E' innanzi tutto necessario che questa grave realtà delinquenziale sia conosciuta nella sua effettiva dimensione e nella sua capacità di colpire lo Stato e i suoi uomini migliori. Perché ciò avvenga non si può fare a meno di quelle persone che, avendo militato all'interno della "cosa nostra", ne conoscono a fondo le regole ed i segreti. E queste persone sono i cosiddetti pentiti. Persone che hanno spesso sofferto per primi sulla loro pelle la crudeltà e la violenza mafiosa, persone che hanno sofferto per una difficile scelta personale e che spesso non sono state nemmeno apprezzate per il contributo che hanno offerto nell'accertamento della verità e dei fatti. A queste persone bisogna offrire la possibilità di essere sereni nella loro scelta di vita e la certezza di essere sostenuti dal consenso di quanti vogliano lottare contro la mafia. Perché i loro racconti siano sostenuti da prove è anche necessario che a coloro che decidono di collaborare con la giustizia sia consentito di affrontare con serenità il giudizio della pubblica opinione e di poter contare sulla benevolenza della legge e dei giudici che sono chiamati ad applicarla. Ed ecco allora la necessità che lo stato aiuti questi collaboratori a manifestare in piena libertà tutte le loro conoscenze e anche le loro colpe nella certezza però di poter contare sul sostegno di quella società civile che in fondo stanno in qualche modo proteggendo da un male grave come la mafia. Se queste leggi arriveranno, se sarà data fiducia ai pentiti, se saranno rese operanti le strutture dello Stato e nelle stesse potranno essere chiamati a prestare la loro opera gli uomini migliori, giudici e poliziotti, allora la strada per sconfiggere la mafia sarà tutta in discesa. Scomparirà quella "cosa nostra" che ha tenuto per tanto tempo la società civile e forse resterà una normale criminalità senza regole e senza tradizioni, che le strutture dello Stato potranno facilmente tenere sotto controllo. Per quanto mi riguarda, Signor Presidente, continuerò ad essere a Sua disposizione, del Parlamento, delle Istituzioni tutte e del nostro Paese. Se sarà necessario resterò in Italia, rischiando in prima persona, offrendo la mia conoscenza pregressa e la mia capacità di interpretare i fatti di mafia e potrò così essere ancora utile. Con gratitudine, i miei ossequi. 17 novembre 1992. Buscetta Tommaso

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Omicidio Mattarella.

40 anni fa a Palermo veniva ucciso Piersanti Mattarella. Il fratello dell'attuale Presidente della Repubblica fu ucciso il 6 gennaio 1980. Ad oggi non è ancora noto l'esecutore in un intreccio tra mafia, politica e terrorismo nero. Nel 2019 il caso è stato riaperto. Edoardo Frittoli il 3 gennaio 2020 su Panorama. In via della Libertà a Palermo era il giorno dell'Epifania del 1980. Piersanti Mattarella, Presidente democristiano della Regione Sicilia, stava andando a Messa in compagnia della moglie, dei due figli e della suocera. Il politico e giurista fratello maggiore dell'attuale Presidente della Repubblica entrò con la famiglia nella sua Fiat 132 non blindata e senza scorta, perché lo stesso Piersanti aveva deciso di rinunciare alla protezione armata almeno alla domenica. Pochi istanti ed un uomo si avvicinò rapidamente alla macchina a viso scoperto, esplodendo il caricatore della sua Colt 38 Special addosso al presidente, sotto gli occhi dei familiari. Piersanti Mattarella moriva sul colpo straziato dalle pallottole al torace, alla tempia e alla spalla esplose da meno di un metro di distanza. Non erano neppure passati due anni dall'assassinio di Aldo Moro, suo principale riferimento politico all'interno della Democrazia Cristiana. Pochi minuti più tardi saranno proprio le braccia di suo fratello Sergio ad estrarlo dall'abitacolo della 132 inondato dal sangue e a correre, purtroppo senza speranza, all'ospedale Santa Sofia. Contemporaneamente nelle redazioni dei quotidiani arrivavano le rivendicazioni dei "Nar" (i Nuclei Armati Rivoluzionari, organizzazione terroristica neofascista) ma anche quelle di Prima Linea e delle Brigate Rosse. Palermo e l'Italia ripiombavano di colpo nel clima dei 55 giorni di Moro, impietriti dalla rapidità e freddezza dell'esecuzione di un "cadavere eccellente". Piersanti Mattarella, figlio di Bernardo, esponente della Dc siciliana vicina a Giorgio La Pira, era nel mirino della mafia da quando fu eletto alla guida della Regione Sicilia con un voto pressoché plebiscitario (77 voti su 100) nel 1978. La sua onestà intellettuale ed il coraggio nel portare avanti una profonda azione riformatrice delle istituzioni dell'isola ed i decisi attacchi alla criminalità organizzata furono alla base della volontà di cosa nostra di mettere a tacere per sempre la voce del nuovo presidente. Piersanti Mattarella si era contrapposto in maniera netta anche ai compagni di partito Salvo Lima e Vito Ciancimino, esponenti della corrente andreottiana e considerati gli uomini di contatto tra interessi mafiosi e politica in Sicilia. La sua giunta di centro-sinistra, infine, si era formata con l'appoggio esterno del Pci, in evidente continuità con la politica del compromesso storico inaugurata da Aldo Moro. Le indagini furono da subito caratterizzate dalla lentezza e dall'incertezza dovuta alla presenza di due piste, quella mafiosa e quella nera. Quest'ultima aveva preso corpo per le dichiarazioni successive di alcuni pentiti riguardo al ruolo degli esponenti dei Nar Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini quali esecutori materiali dell'omicidio, accuse supportate anche dalla testimonianza della moglie della vittima Irma Chiazzese Mattarella che avrebbe riconosciuto Fioravanti mentre scaricava la pistola contro il marito. La sua dichiarazione fu in seguito dichiarata "inattendibile". Giovanni Falcone, in qualità di Procuratore aggiunto, espresse durante l'iter giudiziario l'oggettiva difficoltà nell'individuare e distinguere le responsabilità e i ruoli nei cosiddetti "delitti politici" che insanguinarono l'isola (oltre a Mattarella quelli di Pio La Torre e Michele Reina). Il giudice palermitano durante il maxiprocesso sembrò nel caso dell'omicidio del Presidente siciliano propendere per la "mano nera". Fu dopo la morte dello stesso Falcone che le dichiarazioni dei pentiti Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo portarono i magistrati a propendere decisamente per la pista mafiosa che portava ai Corleonesi. Nel 1995 saranno condannati all'ergastolo quali mandanti dell'omicidio di Piersanti Mattarella i boss Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Nené Geraci e Francesco Madonia. L'assassinio del Presidente democristiano sarà una questione nodale nel corso dei processi a carico di Giulio Andreotti, specie dal 2004 quando furono accertati i contatti tra l'ex presidente del Consiglio e gli uomini di cosa nostra in due incontri avvenuti a Palermo ed aventi come argomento principale proprio il comportamento del nuovo presidente della Regione Sicilia, quella che Piersanti Mattarella avrebbe voluto una volta per tutte con le "carte in regola". All'inizio del 2018 la pista nera è emersa nuovamente, evocata dal  ritrovamento di due spezzoni di targa automobilistica che, uniti, sarebbero stati utilizzati sulla Fiat 127 utilizzata dai sicari quella mattina di gennaio del 1980. Le targhe contraffatte erano state rinvenute in due covi a Palermo e Torino utilizzati all'epoca dall'organizzazione di estrema destra Terza Posizione (poi sparite nel passaggio tra i vari uffici), fatto reso noto dal magistrato Loris D'Ambrosio, esperto di casi legati all'eversione nera. Un altro elemento che ha indotto la Procura di Palermo a decidere la riapertura del caso è stato il confronto tra l'arma utilizzata per il delitto Mattarella e quella dell'omicidio (avvenuto pochi mesi dopo) del giudice Mario Amato. In entrambi i casi a sparare fu una Colt 38 Special e nel caso di Amato è stato condannato proprio il terrorista nero Gilberto Cavallini. A quasi un trentennio di distanza dalla stesura del memoriale di Giovanni Falcone che pose l'accento sull'ipotesi di una collaborazione e di una convergenza di interessi tra la mafia e il terrorismo nero (come nel caso della strage del rapido 904) all'apice degli anni di piombo. Il giudice palermitano aveva dichiarato nel caso dell'omicidio di Piersanti Mattarella: "È un’indagine estremamente complessa perché si tratta di capire se, e in quale misura, la pista nera sia alternativa a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa".

Piersanti Mattarella, a 40 anni dall’omicidio  il dolore della famiglia  e l’omaggio di Palermo. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da Felice Cavallaro. Il capo dello Stato ha visitato con figli e nipoti la tomba del fratello. Una seduta solenne dell’Assemblea regionale siciliana, tenuta alla presenza del capo dello Stato, suggellerà lunedì alle 11.30 le commemorazioni per i 40 anni trascorsi dal delitto di Piersanti Mattarella. Un crudele omicidio consumato in un giorno di festa, il 6 gennaio 1980, per uccidere il governatore dell’isola. L’uomo che voleva mettere «la Sicilia con le carte in regola». Un omicidio consumato sotto gli occhi della moglie, Irma Chiazzese, e dei figli, tutti in auto per andare a Messa. Con il fratello della vittima, oggi presidente della Repubblica, immediatamente accorso dal suo appartamento di fronte al luogo del massacro per tirar fuori dall’abitacolo questo martire innocente allora definito l’erede di Aldo Moro. Sono i flash inevitabilmente tornati alla memoria di Sergio Mattarella che domenica ha reso omaggio alla tomba di famiglia, a Castellammare del Golfo, la città sul mare fra Palermo e Trapani, insieme con i tre figli, Bernardo Giorgio, Laura e Francesco, oltre ai due figli di Piersanti Mattarella, Bernardo e Maria. Quest’ultima segretario generale della Regione siciliana voluta dal governatore Nello Musumeci che oggi parlerà a Palazzo dei Normanni subito dopo il ricordo di Gianfranco Micciché, per la seconda volta presidente dell’Assemblea regionale. Benché in prima fila fra i banchi dei deputati siciliani, Sergio Mattarella ha fatto saper che non interverrà. Ed è come se per le polemiche di sottofondo al quarantesimo anniversario lasciasse la parola a parenti, amici stretti di Piersanti, allo scrittore Giovanni Grasso che al Quirinale coordina la Comunicazione, autore di un libro da lunedì in diffusione con il Corriere. Chi ha conosciuto da vicino e chi ha amato Piersanti Mattarella denuncia ogni anno l’immutata amarezza per un processo in cui i pentiti, demolita l’accusa, hanno «assolto» i presunti esecutori. Come è accaduto con gli storici collaboratori Tommaso Buscetta e Marino Mannoia che, solo dopo la strage di Capaci, hanno sostanzialmente scagionato due neofascisti, Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, inquisiti da Giovanni Falcone facendo leva anche sulla testimonianza oculare di Irma Chiazzese, pittrice e ritrattista di fama. (Leggi qui le parole di Falcone sull’omicidio Mattarella: «Si potrebbe riscrivere la storia del Paese»). Polemiche che riecheggeranno sin dal 9 del mattino quando diverse corone di fiori saranno deposte sul marciapiede di via Libertà, di fronte a via Pipitone Federico, a pochi metri da dove sarebbe stato ucciso con una autobomba il giudice Rocco Chinnici. È la memoria di quell’inferno che il sindaco Leoluca Orlando ha deciso di rievocare, poco dopo la cerimonia di via Libertà, nel vicino Giardino Inglese intitolandolo da oggi «Parco Piersanti Mattarella - Giardino all’Inglese». Con una lapide collocata di fronte al giardino Garibaldi, da tempo intitolato alla memoria dei giudici Falcone e Francesca Morvillo.

Repubblica Tv il 5 gennaio 2020. Piersanti Mattarella, 40 anni fa il delitto. Parla il testimone: "Vidi il killer e lo inseguii con la Vespa. Non scorderò il suo ghigno". Dopo 40 anni, ha ancora quel volto stampato nella mente. "Ci guardò, fece un ghigno e poi fuggì su una 127 guidata da un complice". Francesco aveva 14 anni, con due suoi amici scout tornava in Vespa dalla messa dell’Epifania. "Non sapevo ancora che quel giovane aveva appena ucciso il presidente della Regione Piersanti Mattarella – sussurra - Non sapevo ancora che quella mattina di gennaio avrebbe cambiato per sempre la mia vita". Parla per la prima volta il testimone del delitto di Piersanti Mattarella. Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta

Piersanti Mattarella, dopo 40 anni, la morte è ancora un mistero. Il Dubbio il 7 gennaio. «Mafia e corruzione, in Italia, restano due piaghe che occorre debellare ed estirpare in ogni loro forma e articolazione, attraverso l’impegno di tutti: istituzioni, politica e cittadini», ha affermato la presidente del Senato, Elisabetta Casellati. Mattarella quaranta anni dopo. Le corone di fiori sul luogo dell’omicidio. Poi l’intitolazione del Giardino Inglese. Infine, la seduta solenne dell’Assemblea regionale siciliana, davanti al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, tra i primi a soccorrere e a prendere tra le sue braccia il fratello subito dopo l’agguato. La mafia e la spirale terroristica avevano abbattuto la speranza politica più autorevole dell’Isola, l’allievo di Aldo Moro, siciliano tenace e capace, lucido e ostinato propugnatore di una politica rigorosa e di rinnovamento. «Mafia e corruzione, in Italia, restano due piaghe che occorre debellare ed estirpare in ogni loro forma e articolazione, attraverso l’impegno di tutti: istituzioni, politica e cittadini», ha affermato la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, che ha avvertito: «A tutt’oggi sull’omicidio Mattarella conosciamo solo una parte della verità: per le istituzioni è compito prioritario portare fino in fondo la ricerca delle responsabilità, per onorare la sua memoria e restituire giustizia ai familiari». Piersanti un «politico onesto e rigoroso, servitore dello Stato, esempio di riscatto per le giovani generazioni e per tutti coloro che hanno contribuito e continuano a contribuire con determinazione alla lotta alla mafia», ha scritto su Twitter il presidente della Camera, Roberto Fico. A Palermo anche il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano: «Se siamo qui è perchè la mafia la guerra non l’ha vinta, le istituzioni hanno reagito».

Omicidio Mattarella, finché non verrà fuori la verità in Sicilia regnerà l’oscurità. Calogero Mannino il 7 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il tragico attentato che quarant’anni fa ha stroncato la vita di Piersanti Mattarella ha aperto una ferita non cicatrizzabile. Non soltanto per i familiari più intimi. Ma anche per una cerchia, che il tempo restringe, di compagni della sua vicenda politica (di questa cerchia faccio parte anch’io). Tutti fortemente interessati alla ricostruzione della verità su questo assassinio, le cui conseguenze non si sono ancora esaurite, e del contesto d’insieme in cui fu compiuto. Quando un avvenimento di questa portata (come anche il delitto Moro), non trova la ricostruzione oggettiva e quindi ragionevolmente veritiera, il vulnus aperto non viene sanato dal tempo e dallo sbiadimento della memoria. Anzi, a volte, e certamente sin dal primo momento, vengono addensati e cristallizzati elementi di confusione e di vero e proprio sviamento dalla verità storica. Intanto la figura stessa di Piersanti Mattarella non può essere imbalsamata nel santino agiografico che ne viene fatto, a volte con marcati segni di forzatura arbitraria da parte di coloro che ancora oggi ne usano la memoria per scopi di parte. Soprattutto se si ha riguardo per la sua figura, ricca e complessa. Lo stesso crimine che lo ha colpito nasce dalla barbara reazione ai tratti forti della sua personalità. Un uomo dal carattere fermo e spigoloso, figlio, sposo, padre, politico, che si presenta sempre con i caratteri straordinari per la ricchezza della sua umanità matura e profonda, sempre illuminata da una fede religiosa autenticamente sentita. È probabile che nella determinazione dei suoi assassini ci sia stata la delusione di chi sperava di poterlo piegare. Egli fu, con un’espressione letteraria, un “uomo verticale”. Il suo impegno politico da democristiano nella Democrazia Cristiana, della cui storia – luci e ombre – andava consapevole e coerente interprete, fu un impegno totale. Le stesse linee del disegno politico che portò avanti si muovevano entro queste caratteristiche. Eletto deputato all’Ars nel 1967, si era collegato, indipendentemente dalla caratterizzazione di corrente che aveva in quel tempo, a un gruppo che faceva capo all’onorevole Nino Lombardo, il quale portava avanti in quella legislatura una politica di rinnovamento del costume, con l’abolizione del voto segreto, che nella cronaca della vita politica regionale aveva determinato non pochi passaggi complicati, anche quello del milazzismo. Mattarella era antagonista irriducibile di questo modo di far politica. Le elezioni del 1971 segnarono per la Dc un momento negativo. Accanto alla riforma della burocrazia regionale era stata portata avanti una riforma della legge urbanistica che aveva determinato una reazione di destra molto forte: una autentica onda nera, in parallelo alla contemporanea rivolta di Reggio Calabria. La Dc siciliana – tutta – ma soprattutto con il gruppo dirigente che aveva avviato il rinnovamento – D’Angelo, Lombardo, Nicoletti, Parisi e Mannino – fu ferma nell’opposizione e resistenza a un’opinione che tendeva invece verso l’avvicinamento al Movimento Sociale. Era anche una stagione politica difficile sul piano nazionale. Il centro-sinistra non godeva più dell’appoggio del Psi, si era esaurita la fase del secondo centro-sinistra. In quelle circostanze l’onorevole Moro aprì nella Dc la fase della strategia dell’attenzione verso il Pci. Con la segreteria regionale Nicoletti, che successe all’onorevole D’Angelo, la linea di riflessione proposta da Moro diventò la linea della Dc siciliana. L’onorevole Piersanti Mattarella con il padre onorevole Bernardo (scomparso nel 1971) seguivano le idee di Aldo Moro. E In Sicilia, con la segreteria Nicoletti, furono realizzate, prima di ogni esperienza nazionale, forme avanzate di collaborazione con il Pci. Il segretario del Pci, allora, era Achille Occhetto. E quando maturò il tempo, Piersanti divenne presidente della Regione sulla base di una maggioranza che ricomprendeva il Pci. Fu eletto appena cinque settimane prima del sequestro Moro e della formazione del governo Andreotti e cioè del governo di solidarietà nazionale con il Pci di Berlinguer in maggioranza. Intanto nella linea politica della Dc siciliana, proprio in quel tempo, maturò una più attenta considerazione del problema mafia. Il ritardo dello sviluppo del Mezzogiorno, con l’aggravante di una insidiosa emergenza mafiosa, determinarono l’impegno della Dc siciliana che rappresentò la base politica della presidenza Mattarella. Per fedele ricostruzione ai fatti: nel Comitato Regionale della Dc siciliana si determinò una divaricazione tra maggioranza e minoranza sulla proposta di Nicoletti di collaborazione con il Pci e la proposta per la presidenza della Regione dell’onorevole Mattarella. Gli andreottiani, cioè l’onorevole Lima, si schierarono a favore. Anche per la sincronia con il Governo Andreotti. Costituito il Governo con una maggioranza che comprendeva il PCI, che assumeva la Presidenza dell’ARS con l’on.Pancrazio De Pasquale, il presidente Mattarella fu artefice di una concreta politica di cambiamento e di forte impegno per lo sviluppo della Sicilia. Il contrasto alla criminalità mafiosa fu caratterizzato da un impegno civile e culturale del quale fanno fede gli atti pubblici del tempo. Il 9 maggio del 1978, quando fu consegnato in via delle Botteghe Oscure il cadavere dell’on. Moro, la politica di solidarietà nazionale subì una vera e propria interruzione. Anche in Sicilia il Pci interruppe l’appoggio al governo Mattarella, che andò in crisi anche perché il Psi siciliano in quel tempo era ancora sulla linea “degli equilibri più avanzati” di De Martino, cioè seguiva la linea del partito comunista. Il 6 gennaio del 1980 l‘assassinio di cui fu vittima vedeva Piersanti Presidente della Regione in crisi. Ancora oggi – condannata la cupola di Cosa nostra – non si conosce l’identità dei killer. Questo dato ha condotto le indagini sulla pista del terrorismo nero. Niente esclude la confluenza degli interessi o delle responsabilità tra Cosa nostra e terrorismo. Però la mancata ricostruzione di una verità certa non può autorizzare anche chi ha avuto responsabilità giudiziarie in quel tempo a sostenere delle pure divagazioni. Il delitto Mattarella venne in successione temporale all’assassinio di Michele Rejna, segretario provinciale della Dc palermitana, andreottiano e limiano. Ci sono molti indizi politici che dicono che tra i due delitti vi è un collegamento. Una parte politica – alla quale si sono prestati anche altri che avrebbero interesse alla verità – ha sostenuto che le cause-obiettivo dei due delitti erano l’interesse a impedire l’alleanza politica della Dc con il Pci. Ma il Pci era uscito già dalla maggioranza del governo Mattarella e ne aveva provocato la messa in crisi. Allora semmai questo dato di fatto sottolinea che la mafia, sempre attenta alle cose della politica, colpisce quando un uomo politico, la vittima, è stato reso più debole dalle circostanze della politica. Questa avvertenza non fu sufficiente per determinare un diverso orientamento politico del Pci. Allora una corretta ricostruzione politica è il contributo migliore – possibile e doveroso- per riconoscere la dimensione storica della figura di Piersanti Mattarella. Non come artefice di politiche mai pensate da lui. Orgoglioso della storia della Democrazia Cristiana come era orgoglioso di suo padre, pensava invece a rendere la Dc forte per guidare il Paese in una fase storica in cui il terrorismo aveva colpito Moro, il suo leader, ma contemporaneamente Cosa nostra muoveva all’attacco con efferata criminalità. Contro le linee del rinnovamento proposte dalla Dc e nella Dc. Il ricordo di oggi forte del sentimento che lo ispira non può rinunciare alla verità. Si farebbe torto alla storia, ma anche a quella grande e generosa di Piersanti.

Intervista ad Antonio Todaro: “Piersanti Mattarella era sereno, non temeva per la sua vita”. Redazione de Il Riformista il 5 Gennaio 2020. A quarant’anni dall’omicidio per mano mafiosa di Piersanti Mattarella, la giornalista dell’AdnKronos Elvira Terranova ha intervistato l’avvocato Antonio Todaro, che fu tra i più fidati amici del compianto politico Dc. «Incontrai Piersanti Mattarella – dice Antonio Todaro a Elvira Terranova – pochi giorni prima che venisse ucciso. Andammo insieme a una mostra. Lui venne con la moglie Irma, senza la scorta. Lo accompagnai io con la mia 124. Era sereno. Aveva la consapevolezza di potere camminare senza alcun timore, appunto sereno. Eppure mancavano pochissimi giorni alla sua uccisione». Antonio Todaro, 80 anni appena compiuti, è un avvocato in pensione. È stato uno degli amici di famiglia più cari dell’ex Presidente della Regione siciliana, il Governatore dalle “carte in regola”, ucciso il 6 gennaio 1980, mentre andava alla messa per l’Epifania. Ancora oggi, nonostante siano trascorsi 40 anni da quel tragico giorno, Antonio Todaro, che negli anni Settanta a capo del ‘Gruppo Politica’, l’iniziativa di formazione all’impegno socio-politico, proposta nel 1977, da Piersanti Mattarella e da altri suoi giovani amici e collaboratori, si commuove quando fa un salto indietro nel tempo e ricorda l’amico Piersanti.  L’avvocato Todaro ha gli occhi lucidi quando ricorda l’ultima volta in cui vide Piersanti Mattarella, quattro giorni prima dell’omicidio. «Non avrei mai pensato che non lo avrei mai più rivisto…», dice. Poi si illumina quando ricorda “quel pomeriggio”. «Era l’inizio dell’anno del 1980, quando andai a prendere Piersanti con la mia auto per andare a vedere insieme una mostra d’arte, di cui lui era un grande appassionato- racconta – Passò da casa mia e andammo insieme in macchina. E ricordo la sua sobrietà, al limite della cautela di quest’uomo che pur rivestendo un ruolo pubblico così importante come quello di Presidente della Regione. Lui, con grande serenità, salì sulla mia macchina con la moglie, senza la scorta. Questo mi fece pensare che aveva il cuor sereno». Era sereno, dunque, Piersanti Mattarella. «Solo una volta – racconta ancora l’amico Antonio Todaro – ebbe un sussulto. Ricordo che stavamo tornando da Castellammare del Golfo (città di origine di Mattarella, ndr), quando arrivando a Terrasini vedemmo una fila di costruzioni abusive. Lui ebbe un momento di riflessione sulle conseguenze che un’azione proibitiva di interruzione avrebbe potuto procurargli. Vedendo quelle schifezze lungo la costa si mise le mani nei capelli, ebbe una sorta di sussulto a pensare alle difficoltà e all’impegno, alle reazioni che si sarebbero determinate per questo intervento. Ma a me, personalmente, sensazioni di preoccupazione per la sua vita non ne esternò mai, eppure io ero molto vicino a lui. A differenza di quanto detto dalla dottoressa Trizzino». Maria Grazia Trizzino era il capo di gabinetto di Piersanti Mattarella. E in passato aveva raccontato che, di ritorno da un viaggio a Roma, alla fine del 1979, per denunciare al Governo la grave situazione siciliana e la necessità di fare pulizia nella Dc Piersanti Mattarella le avrebbe confidato di avere incontrato l’allora ministro Virginio Rognoni: «Se dovesse capitarmi qualcosa, si ricordi di quello che le sto dicendo…». Antonio Todaro ricorda ancora che Sergio Mattarella «era il confidente più fidato» di Piersanti. «Molti pensieri li ha condiviso soprattutto con suo fratello, se posso dare una mia impressione, il suo consigliere più fidato, più intimo. L’attuale Capo dello Stato non faceva ancora politica attiva, teneva il suo spazio discreto e riservato. Ma la contiguità totale più frequente era quella con suo fratello. Gli altri sì hanno avuto delle confidenze dal Governatore ma mai quanto Sergio». Poi, l’amico avvocato di Piersanti Mattarella sottolinea con commozione che «oggi manca moltissimo una persona, un politico, come Piersanti Mattarella», un «uomo la cui grande umiltà non toglieva niente alla sua autorevolezza. Manca una persona dotata della sua fantasia, della sua gioiosità della vita. Aveva il gusto della vita. La gioia della vita, senza essere bacchettone, amava anche gli aspetti più ludici, più sereni, più immediati. Amava la musica leggera, l’arte, il tutto vissuto con molta disinvoltura, senza particolari impacchettamenti, con una grande sensazione del senso dell’amicizia». E ricorda che il «giorno in cui fu nominato presidente della Regione, lui mi chiamò alle otto del mattino per chiedermi come stava mia nonna, perché sapeva che stava male». «Ricordo la sua faccia quando un commesso lo chiamò, il giorno in cui un giorno andai a trovarlo, lo chiamò “eccellenza”, lui non era pronto. Non fece cenno al commosso ma ebbe un sussulto perché riteneva quel tributo, che peraltro gli spettava, lo considerava estraneo alla sua dimensione umana e sociale». Antonio Todaro è l’autore della fotografia-icona che ritrae Piersanti Mattarella mentre è al telefono nel suo ufficio. «Ho sempre avuto la passione della fotografia – racconta oggi – e quel giorno, andai a trovare il Presidente del suo ufficio. Era una riunione direi familiare, c’era pure sua nipote Lea, la critica d’arte. Io avevo con me la Nikon che avevo comprato da poco. Era assorto e malinconico in quell’istante in cui l’ho fotografato. C’era stato qualche giorno prima un incidente aereo. E lui esprimeva con quello sguardo la sua partecipazione emotiva, stava assorto e silenzioso. Non ha parlato per alcuni minuti. Quel momento mi parve una sintesi complessiva della sua sensibilità, della sua attenzione e partecipazione umana a ciò che accadeva».

Chi ha ucciso Mattarella? Attilio Bolzoni Francesca Trotta su La Repubblica il 6 gennaio 2020. Sono passati quarant'anni e ancora non sappiamo chi l'ha ucciso. Non conosciamo il nome del sicario ma dietro l'omicidio dell'Epifania palermitana non c'è solo mafia, c'è mafia ma anche tanto altro. C'è la Sicilia dei “delitti eccellenti” e c'è l'Italia della “strategia della tensione”, ci sono boss e neofascisti che si confondono, Cupole invisibili, poteri sporchi che si mischiano per fermare uomini giusti e il cambiamento di un Paese. Il 6 gennaio del 1980, Palermo, l'uccisione di Piersanti Mattarella. Non era solo il Presidente della Regione, era l'uomo politico che più di ogni altro voleva una Sicilia “con le carte in regola” e che più di ogni altro stava raccogliendo l'eredità di Aldo Moro. Uccisi a distanza di un anno e mezzo, a Roma e in Sicilia, apparentemente due vicende lontane ma in realtà una sola vicenda italiana. Sulla sua morte ha indagato a lungo il giudice Giovanni Falcone nel filone dei cosiddetti “delitti politici”, l'assassino del segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina - 9 marzo 1979 - e l'assassinio dell'onorevole Pio La Torre - 30 aprile 1982 -, arrivando al convincimento di una convergenza di interessi fra eversione nera e Cosa Nostra, una connessione che avrebbe portato «alla necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani». Parole pronunciate dal giudice in un'audizione della Commissione Parlamentare Antimafia il 3 novembre del 1988 e diventate pubbliche qualche settimana fa grazie alla desecretazione (curata dal pm Roberto Tartaglia, consulente a Palazzo San Macuto) voluta dal presidente Nicola Morra. Giovanni Falcone per l'omicidio di Piersanti Mattarella aveva rinviato a giudizio il capo dei Nuclei Armati Rivoluzionari Valerio “Giusva” Fioravanti e come suo complice Gilberto Cavallini, successivamente assolti tutti e due, come richiesto dalla pubblica accusa di allora, fino in Cassazione. Eppure la “pista nera” è rimasta sempre lì, sospesa. Un paio di anni fa il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi ha riaperto un fascicolo "atti relativi'' sul caso Mattarella, affidato all'aggiunto Salvatore De Luca e al sostituto procuratore Roberto Tartaglia, che hanno ricominciato a indagare da dove Falcone aveva finito. Dopo tanto tempo l'attenzione si è concentrata sulle informazioni che il giudice avrebbe ricevuto - e proprio sul delitto Mattarella - nei giorni precedenti al fallito attentato dell'Addaura avvenuto il 20 giugno 1989. Falcone in quel periodo aveva ascoltato un testimone che gli avrebbe fornito nuovi elementi sui sicari dell'Epifania palermitana. Ed è appena di un paio di settimane fa la notizia di una perizia su una Colt modello Cobra calibro 38 che collegherebbe l'omicidio di Piersanti Mattarella a quello del magistrato Mario Amato, ucciso il 23 giugno 1980 dai Nar. La stessa pistola per i due delitti. La nostra Rubrica nel quarantesimo anniversario vi ripropone gli atti dell'inchiesta del giudice Falcone “Greco Michele + 18”, nella parte riguardante il delitto Mattarella. L'indagine fu seguita al principio da Pietro Grasso, l'ex Presidente del Senato che il 6 gennaio era sostituto procuratore della Repubblica a Palermo. Il deposito della sentenza ordinanza è datata 9 giugno del 1991 ed è firmata invece da Gioacchino Natoli, uno dei giudici del pool antimafia dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Falcone due anni prima era stato nominato procuratore aggiunto e sei mesi prima era volato a Roma, alla direzione degli Affari Penali del Ministero della Giustizia. Il suo ultimo anno di vita, prima di Capaci. A conclusione della serie, dopo l'inchiesta sui “delitti eccellenti”, pubblicheremo anche un estratto dell'ultimo libro del giudice Giuliano Turone, “Italia occulta” (Chiarelettere editore), dedicato all'assassinio del Presidente della Regione. E' il capitolo sul mistero della targa dell'auto utilizzata dai sicari di Mattarella. Una traccia robusta che porta sempre alla "pista nera”. Dopo quarant'anni la domanda è sempre la stessa: chi ha ucciso Piersanti Mattarella? (Hanno collaborato Marta Bigolin, Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Sara Carbonin, Ludovica Mazza, Alessia Pacini, Asia Rubbo)

Palermo, 6 gennaio 1980. La Repubblica il 6 gennaio 2020. Alle ore 12.50 del 6 gennaio 1980, l'On. Piersanti MATTARELLA, Presidente della Regione, veniva ucciso con alcuni colpi di arma da fuoco corta mentre - in compagnia della moglie, della madre e dei due figli - stava per uscire da un garage vicino alla sua abitazione, in questa via Libertà, alla guida della sua autovettura, per recarsi ad assistere alla celebrazione della Messa nella chiesa di S. Francesco di Paola. Sul posto interveniva subito il P.M., mentre la Squadra Mobile e il Reparto Operativo CC eseguivano immediatamente numerose perquisizioni ed effettuavano posti di blocco, peraltro senza esito. L'Ufficio di Procura iniziava quindi, fin dai giorni immediatamente successivi al delitto, indagini a vasto raggio, assumendo in esame i familiari ed i più stretti collaboratori dell'uomo politico assassinato. Altre indagini venivano, nel frattempo, espletate dalla Squadra Mobile, dai Carabinieri e dal Nucleo Regionale di Polizia Tributaria; veniva acquisita documentazione relativa ad alcune delle pratiche più importanti trattate dall'On. MATTARELLA e venivano, altresì, disposte perizie balistiche comparative tra i proiettili rinvenuti in occasione del delitto ed altri, sequestrati - in precedenza - in relazione ad taluni omicidi commessi in questa città ed in provincia. Le risultanze di queste investigazioni venivano riferite dalla P.G. con rapporti dell'8 e 10 febbraio, del 14 e del 26 marzo e - da ultimo - del 23 dicembre 1980, con i quali, pur esprimendo il convincimento che l'On. MATTARELLA fosse stato ucciso per bloccare la sua azione di rinnovamento e moralizzazione della vita pubblica, si formulava la conclusione che non era stato possibile identificare né gli autori materiali né i mandanti del gravissimo delitto. In data 24 dicembre 1980, gli atti venivano quindi trasmessi al Giudice Istruttore per la formale istruzione contro ignoti. Durante tale fase venivano, dapprima, continuate ed ampliate le indagini già iniziate dalla Procura della Repubblica, senza che peraltro emergessero elementi utili per la identificazione dei colpevoli. Migliori risultati non sortivano neanche dalle investigazioni compiute dall'Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa e dal SISDE, secondo quanto riferito con nota del 7.12.1982 (Vol. VII, Fot. 616679). In data 13 dicembre 1982, il Giudice Istruttore del Tribunale di Roma trasmetteva copia delle dichiarazioni rese, il 28 ottobre di quell'anno, da FIORAVANTI Cristiano, il quale, escusso in qualità di testimone da quell'Autorità Giudiziaria, aveva riferito che lui e suo padre, nell'osservare gli identikit degli autori dell'omicidio dell'On. MATTARELLA, pubblicati dagli organi di stampa, avevano notato una notevolissima somiglianza con le fisionomie del di lui fratello VALERIO (già condannato all'ergastolo quale autore di gravissimi delitti e leader riconosciuto del movimento terrorista di estrema destra, Nuclei Armati Rivoluzionari) e di Gilberto CAVALLINI, esponente dello stesso movimento eversivo. A seguito di queste e di altre dichiarazioni di FIORAVANTI Cristiano, l'istruttoria veniva quindi indirizzata, oltre che nei confronti di numerosi esponenti delle cosche mafiose della Sicilia Occidentale, anche nei confronti di alcuni appartenenti ai movimenti eversivi di estrema destra. In tale quadro ed al fine del compimento degli atti istruttori (interrogatori, confronti, perizie balistiche), venivano considerati indiziati di reato: FICI Giovanni, RACCUGLIA Cosimo, MARCHESE Antonio, SINAGRA Vincenzo, SINAGRA Antonino, ROTOLO Salvatore, DI MAIO Vincenzo, GIAMBRONE Vito, FIORAVANTI Valerio, FIORAVANTI Cristiano, MAMBRO Francesca, BELSITO Pasquale, TRINCANATO Fiorenzo, MANFRIN Angelo, SODERINI Stefano, CAVALLINI Gilberto, AMICO Rosaria e DE FRANCISCI Gabriele.

Intanto, a seguito delle dichiarazioni rese al Giudice Istruttore nel corso di altro procedimento penale (maxi-uno) - al quale il presente veniva poi riunito - dai noti BUSCETTA Tommaso e CONTORNO Salvatore, in data 24.10.1984 veniva promossa azione penale, anche in relazione all'omicidio in pregiudizio dell'On. MATTARELLA, contro: CALO' Giuseppe, GRECO Michele, RIINA Salvatore, PROVENZANO Bernardo, SCAGLIONE Salvatore, MADONIA Francesco, GERACI Antonino (n. 1917), GRECO Leonardo, MOTISI Ignazio, DI CARLO Andrea, GRECO Giuseppe fu Nicola, SCADUTO Giovanni e BRUSCA Bernardo.

Nei confronti di tutti costoro veniva emesso mandato di cattura. Il RIINA, il PROVENZANO, lo SCAGLIONE, il GRECO Giuseppe e DI CARLO Andrea restavano latitanti, mentre tutti gli altri imputati respingevano ogni accusa, protestandosi innocenti dei reati loro contestati come esponenti di primo piano nell'ambito di "Cosa Nostra" e, più particolarmente, quali componenti "pro tempore" della "Commissione provinciale" di tale associazione.

Nel corso della ulteriore attività istruttoria, le indagini si svolgevano quindi in una duplice direzione:

- da un lato, veniva sempre meglio precisato, mediante l'escussione di numerosi testimoni e l'acquisizione di altra documentazione, il quadro complessivo in cui si era svolta l'attività politica ed amministrativa del Presidente MATTARELLA;

- da un altro, venivano approfondite, mediante intercettazioni telefoniche, indagini bancarie e patrimoniali, perizie tecniche - e in particolare - balistiche, e, soprattutto, mediante le dichiarazioni di altri imputati che avevano deciso di collaborare con l'Autorità Giudiziaria (CALDERONE Antonino, MARSALA Vincenzo, MARINO MANNOIA Francesco), il  ruolo della "Commissione" e dei singoli imputati nell'ambito di "Cosa Nostra".

- sotto un ultimo profilo, infine, venivano svolte approfondite indagini su FIORAVANTI Valerio e CAVALLINI Gilberto, soprattutto dopo che FIORAVANTI Cristiano aveva dichiarato che il fratello gli aveva confidato di essere stato, insieme al CAVALLINI, l'autore materiale dell'omicidio del Presidente della Regione Siciliana.

In tale contesto, venivano interrogati numerosi esponenti dei movimenti eversivi di destra e venivano acquisiti - ex art. 165 bis c.p.p. abrogato - numerosi atti dai procedimenti penali instaurati contro di loro in varie parti d'Italia. In relazione a tali ulteriori acquisizioni, dopo che il FIORAVANTI Valerio e il CAVALLINI erano stati sottoposti a ricognizione personale da parte della Signora Irma CHIAZZESE, vedova del Presidente MATTARELLA, nonché di altri testimoni oculari del delitto, e ricevuta anche una relazione dell'Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa (basata su atti istruttori di questo e di altri processi pendenti o definiti presso altre A.G.), nei confronti del FIORAVANTI e del CAVALLINI veniva emesso, in data 19.10.1989, il mandato di cattura n. 393/89. Qualche settimana, inoltre, veniva iniziata azione penale per calunnia continuata nei confronti di PELLEGRITI Giuseppe ed IZZO Angelo, cui il reato veniva contestato con mandato di cattura, in relazione alle dichiarazioni di cui si dirà più diffusamente in appresso. Questi ultimi si protestavano innocenti del reato loro contestato; ugualmente, respingeva ogni accusa NISTRI Roberto, imputato - con mandato di comparizione - del reato di falsa testimonianza, in relazione alle dichiarazioni rese al G.I. il 14 maggio 1986. Quindi, con l'entrata in vigore del vigente c.p.p. (24.10.1989), gli atti dell'omicidio MATTARELLA venivano separati dall'istruttoria comprendente anche altri delitti di "Cosa Nostra" (proc. pen. n. 1817/85 R.G.U.I.) ed assegnati esclusivamente a questo G.I. Infine, dopo l'escussione di numerosi altri testi, anche in ordine ai rapporti tra alcuni degli imputati ed indiziati e i Servizi segreti, gli atti, previa nuova riunione Con quelli relativi agli omicidi REINA e LA'TORRE-DI SALVO, venivano trasmessi al P.M. per le richieste definitive, in relazione: al termine imposto per la definizione dei processi istruiti con il rito formale dall'art. 258, Dec. Legisl. 28 luglio 1989 n. 271. Durante la fase del deposito ex art. 372 c.p.p. abrogato, si costituiva frattanto Andrea DI CARLO (latitante per altra causa), che non veniva interrogato in quanto da prosciogliere per non avere commesso il fatto in ordine a tutte le imputazioni.

La dinamica e le prime indagini. La Repubblica il 7 gennaio 2020. Sulla base delle indagini della Squadra Mobile e del Nucleo Operativo CC di Palermo (v., in particolare, il rapporto in data 9 febbraio 1980) e delle numerose testimonianze acquisite agli atti, la dinamica del delitto può essere così sinteticamente ricostruita.

Il 6 gennaio 1980, come ogni domenica, il Presidente della Regione si accingeva, in compagnia dei suoi familiari, a recarsi alla chiesa di S. Francesco di Paola per assistere alla celebrazione della S. Messa. In tale occasione, come ogni volta che usciva per motivi privati, aveva manifestato la precisa intenzione di non utilizzare la scorta di sicurezza predisposta a cura dell'Ispettorato Generale di P.S. presso la Presidenza della Regione Siciliana.

Alle ore 12,45 circa, l'On. MATTARELLA ed il figlio Bernardo, di venti anni, erano scesi nel garage, sito in fondo ad uno scivolo prospiciente via Libertà e distante dall'abitazione circa 15 metri, per prelevare l'autovettura. Il Presidente effettuava, quindi, la manovra di retromarcia e fermava l'auto sul passo carrabile per consentire alla moglie di prendere posto sul sedile anteriore ed alla suocera di sistemarsi sul sedile posteriore. Frattanto, il figlio si era attardato per chiudere la porta del garage ed il cancello che, dallo scivolo, immette nella strada. Improvvisamente, dal lato sinistro dell'autovettura, che era rimasta con la parte anteriore rivolta verso lo scivolo, si avvicinava un individuo dell'apparente età di 20 - 25 anni, altezza media, corporatura robusta, capelli castano-chiari sul biondo, carnagione rosea, indossante una giacca a vento leggera ("piumino" o "K-way") di colore celeste, il quale, dopo avere inutilmente cercato di aprire lo sportello anteriore sinistro, esplodeva alcuni colpi d'arma da fuoco all'indirizzo dell'On. MATTARELLA, che sedeva al posto di guida. La vittima cadeva riversa sul lato destro e veniva parzialmente coperta dal corpo della moglie, che si era piegata su di lui, appoggiandogli le mani sul capo, nel tentativo di fargli da scudo. Dopo avere esploso alcuni colpi, il giovane killer si avvicinava ad una Fiat 127 bianca sulla quale si trovava un complice armato, col quale parlava qualche attimo in modo concitato e da cui riceveva un'altra arma con la quale tornava a sparare contro il Presidente MATTARELLA, peraltro già accasciatosi sul sedile dell'auto, dal finestrino posteriore destro della FIAT 132. In tale ultima occasione feriva anche la signora Irma CHIAZZESE, china sul corpo del marito. I due assassini si allontanavano poi a bordo della FIAT 127 bianca, che veniva ritrovata, verso le ore 14.00, poco distante dal luogo del delitto, abbandonata lungo lo scivolo di un garage di via Maggiore De Cristoforis, angolo via degli Orti.

Nella parte interna dello sportello sinistro dell'auto, sottostante al vetro, veniva evidenziato un frammento di impronta debitamente repertata ma risultata non utile per confronti.

Al momento del rinvenimento, sulla FIAT 127 erano montate targhe contraffatte: la targa anteriore era composta da due pezzi, rispettivamente "54" e "6623 PA"; quella posteriore da tre pezzi, rispettivamente "PA", "54" e "6623". Questi ultimi due segmenti presentavano, superiormente, del nastro adesivo di colore nero, posto per meglio trattenerli alla Carrozzeria. La FIAT 127 risultava sottratta, verso le ore 19,30 del precedente giorno 5 gennaio, a FULVO Isidoro, che l'aveva momentaneamente parcheggiata, in seconda fila e con le chiavi inserite nel quadro, in via questa De Cosmi. Le targhe originali dell'auto (PA 536623) erano state alterate, come si è detto, mediante l'applicazione degli spezzoni delle targhe PA 549016, asportate (dopo le 23.00 dello stesso giorno 5 gennaio) dalla FIAT 124 di VERGA Melchiorre, posteggiata in via delle Croci. Non venivano ritrovate le altre parti delle targhe delle due auto (PA - 53 - 0916), non utilizzate per le alterazioni di cui si è detto. Risultava quindi, e veniva evidenziato nel rapporto di P.G., che i luoghi dell'agguato, dei furti (della FIAT 127 e delle targhe della FIAT 124) e del rinvenimento della FIAT 127 distavano poche centinaia di metri l'uno dall'altro. Non emergevano elementi sicuri sulle modalità di abbandono della FIAT 127, anche se un teste (TESTAIUTI Costanzo) riferiva che l'auto avrebbe preso - lungo lo scivolo di via delle Croci - il posto di una vettura più piccola di colore verde, vista lì poco prima delle 12,00.

Un altro teste (MODICA Pietro) riferiva che, sempre poco dopo mezzogiorno, nei pressi dello scivolo erano transitati due giovani a bordo di una moto di grossa cilindrata.

Altri testimoni riferivano, ancor più genericamente, che nei pressi del luogo dell'agguato erano state notate, la mattina del 6 gennaio o nei giorni precedenti, una JAGUAR rosso amaranto targata ROMA ed una LAND ROVER verde targata CT.

Nell'arco dello stesso giorno, 6 gennaio, l'omicidio veniva rivendicato con quattro contraddittorie telefonate.

La prima giungeva all'ANSA alle 14.45: "Qui Nuclei Fascisti Rivoluzionari. Rivendichiamo l'attentato dell'On. MATTARELLA in onore dei caduti di via Acca Larentia".

La seconda giungeva al Corriere della Sera alle 18.48: "Qui Prima Linea. Rivendichiamo esecuzione MATTARELLA che si è arricchito alle spalle dei terremotati del Belice".

La terza telefonata perveniva alla Gazzetta del Sud di Messina alle 19.10: "Qui Brigate Rosse. Abbiamo giustiziato MATTARELLA. Segue comunicato".

La quarta ed ultima giungeva al Giornale di Sicilia alle 21.40: "Qui Brigate Rosse. Abbiamo giustiziato l'On. MATTARELLA. Mandate subito tutta la gente nelle cabine telefoniche di Mondello. Troverete il ciclostilato delle B.R.".

Ma, in realtà, il ciclostilato non veniva rinvenuto. Subito dopo il delitto e nei giorni successivi, gli organi di P.G. controllavano i movimenti e gli alibi di giovani appartenenti a movimenti estremisti di destra e di sinistra, di pregiudicati e di persone segnalate come somiglianti all'identikit dell'assassino, del quale i presenti avevano notato "un accenno di sogghigno che aveva sulle labbra nonché il contrasto tra i lineamenti del volto, che erano gentili, e lo sguardo che era spietato, così come il comportamento era stato di calma glaciale anche al momento di esplodere il colpo di grazia. Venivano inoltre eseguite, senza esito positivo, intercettazioni telefoniche e molte decine di perquisizioni domiciliari.

Così riassunte le risultanze delle indagini per quanto concerne la ricostruzione della dinamica del delitto, è opportuno ricordare a questo punto anche le conclusioni delle numerose perizie balistiche che sono state espletate nel corso dell'istruzione, al fine di verificare se le armi usate dagli assassini del Presidente MATTARELLA siano state utilizzate in occasione di altri delitti. Prima, però, giova riportare le conclusioni della perizia autoptica eseguita sul cadavere di Piersanti MATTARELLA.

I periti (prof. Paolo GIACCONE e dott. Alfonso VERDE) hanno così sintetizzato l'esito dei loro accertamenti: "Santi MATTARELLA venne a morte per lesioni dei visceri toraco-addominali da proiettili per armi da fuoco a canna corta. Nel cadavere si sono rinvenuti tramiti attribuibili ad almeno sei diversi proiettili (di cui cinque sono rinvenuti in corso di autopsia ed uno è stato rinvenuto al pronto soccorso nello spogliare la vittima); una lesione in sottomandibolare sinistra, apparentemente da striscio, è attribuibile sia a un settimo proiettile sia allo stesso proiettile che poi è penetrato in emitorace anteriore destro. Tre dei proiettili (tutti di piombo nudo a punta piatta) sono stati esplosi dalla sinistra verso destra della vittima e quasi orizzontalmente, mentre il MATTARELLA era seduto alla guida della propria autovettura. Gli altri tre proiettili hanno avuto direzione compatibili con una particolare posizione della vittima (rannicchiato in decubito laterale destro). La negatività della ricerca delle polveri sugli indumenti in corrispondenza degli orifici in emitorace anteriore destro e alla manica sinistra è compatibile con l'ipotesi che i relativi colpi furono esplosi quando i finestrini laterali dell'autovettura erano ancora chiusi e non frantumati; sugli altri tre orifici, esistenti sugli indumenti ed attribuibili ad entrata di proiettile, la positività della ricerca delle polveri indica che i rispettivi colpi furono esplosi entro il limite di cm. 40-45 fra bocca dell'arma e superficie del bersaglio".

Quanto invece agli accertamenti balistici veri e propri, è opportuno riportare le conclusioni della perizia eseguita nell'ambito del procedimento penale contro ABDEL AZIZI Afifi ed altri, (c.d. maxi-bis) e che ha preso in esame pressoché tutti i reperti balistici relativi a delitti di stampo mafioso disponibili fino alla data di conferimento dell'incarico (18.2.1986). I periti di Ufficio (MORIN, ARNETI, SCHIAVI LOMBARDI e STRAMONDO) hanno così concluso: "Per l'omicidio ai danni di Piersanti MATTARELLA sono stati usati due revolvers, probabilmente un Colt Cobra e una Rohm oppure un Charter Arms, utilizzando munizioni calibro 38 special con palla Wadcutter e palla Super Police da 200 grammi. Dalle comparazioni effettuate non sembra che le armi in questione siano state utilizzate in altri episodi delittuosi. In particolare sono state negative anche le comparazioni con i reperti relativi all'omicidio ai danni di SERIO Giovanni".

Per questi, invece, una precedente perizia aveva ritenuto che fossero state usate le stesse armi adoperate dai killers del Presidente MATTARELLA (cfr. Vol. LXX, anche per un elenco dettagliato dei delitti cui si riferiscono i reperti balistici sottoposti ad esame comparativo). Gli accertamenti balistici, originariamente limitati ai reati commessi nel palermitano e comunque riconducibili all'attività di "Cosa Nostra", sono stati poi estesi a tutto il territorio nazionale (Fot. 908234-236 e 917573 e segg.) con particolare attenzione, naturalmente, alla posizione di FIORAVANTI Valerio. A proposito di quest'ultimo, si deve qui ricordare che le armi sequestrate al FIORAVANTI al momento del suo arresto non erano state certamente, usate per l'omicidio del Presidente MATTARELLA (cfr. perizia depositata il 15.3.1985, Fot. 618122). Infine, poiché l'identikit dell'autore dell'omicidio di Valerio VERBANO (commesso in Roma il 20.2.1980 e riconducibile a fatti di terrorismo politico, come poi si vedrà) presentava marcate analogie con la descrizione dell'assassino del Presidente MATTARELLA, è stata altresì disposta, nel 1990, una perizia per accertare: "le modalità di silenziamento della pistola Beretta 7,65 con silenziatore rinvenuta in occasione dell'omicidio VERBANO" e per verificare "se dette modalità siano riconducibili o meno a quelle descritte nei loro interrogatori di FIORAVANTI Valerio e FIORAVANTI Cristiano".

L'accertamento ha però avuto esito negativo per le marcate discordanze esistenti tra le due modalità di silenziamento, cosicché si deve piuttosto ritenere che il silenziatore usato per l'omicidio VERBANO "non sia stato fabbricato da Valerio FIORAVANTI" (cfr. perizia FARNETI, Fot. 918220 Vol. LXIV). Per quanto riguarda, infine, le indagini per la identificazione degli autori materiali del delitto, è necessario fare rinvio a quel che si dirà in seguito, nel corso della presente sentenza-ordinanza, circa la posizione degli imputati FIORAVANTI Giuseppe Valerio e CAVALLINI Gilberto (v. infra) nonché in ordine alle dichiarazioni autoaccusatorie di GALATI Benedetto.

Si deve, invece, qui accennare al fatto che il dr. NICOLICCHIA, che nel 1980 ricopriva l'incarico di Questore di Palermo, ritenne di ravvisare una certa somiglianza tra l'identikit dell'autore dell'omicidio del Presidente MATTARELLA e le sembianze di INZERILLO Salvatore (n. a Palermo il 28.3.1957), già sospettato di essere l'autore dell’assassinio del dr. Gaetano COSTA, Procuratore della Repubblica di questa città, ucciso la sera del 6 agosto 1980 (ma recentemente assolto dalla Corte di Assise di Catania con formula ampia, dopo essere stato catturato all'estero ed estradato dagli U.S.A.). Sulla base di questa sensazione, il dr. NICOLICCHIA incaricò il Dirigente della Criminalpol, dr. Bruno CONTRADA, di mostrare le foto dell'INZERILLO alla signora Irma CHIAZZESE, vedova MATTARELLA. A tal fine, il dr. CONTRADA si recò a Londra, dove la signora CHIAZZESE si trovava nell'estate 1980, ma la donna non ravvisò alcuna somiglianza tra le foto dell'INZERILLO e l'uomo che – a pochi metri da lei – aveva sparato al Presidente della Regione. Esito negativo ebbe, peraltro, anche un successivo atto (informale) di riconoscimento fotografico che la signora CHIAZZESE venne invitata a fare, qualche tempo dopo, a Palermo, dallo stesso Questore NICOLICCHIA (cfr., sul punto le dichiarazioni della Signora CHIAZZESE, del dr. CONTRADA e dell’on. Sergio MATTARELLA, nonché il rapporto della Squadra Mobile in data 8.10.1980). Va inoltre aggiunto che la Signora CHIAZZESE non ha mai ravvisato somiglianze con l’autore dell’assassinio del marito nelle foto dei numerosissimi appartenenti a “Cosa Nostra” che le sono state mostrate in più occasioni sia dal Giudice Istruttore sia dagli organi di p.g. (v., in proposito, riassuntivamente le dichiarazioni rese al G.I. l’8.8.1986, Fot. 646412-646416 Vol. XXIII).

La ricerca del movente. La Repubblica l'8 gennaio 2020. Fin dai primissimi giorni il P.M. e gli Uffici di P.G., così come successivamente anche il Giudice Istruttore, hanno compiuto ogni tentativo per accertare nel modo più ampio e completo quali fossero le principali questioni di cui si fosse occupato il Presidente MATTARELLA, pur nella consapevolezza che la decisione di compiere un delitto così grave difficilmente può trovare origine in un singolo atto amministrativo o politico, ma piuttosto in una valutazione (di natura criminale) più articolata e complessa. A tal fine, sono stati assunti in esame i familiari ed i collaboratori del Presidente MATTARELLA, gli assessori e i principali funzionari regionali in carica nel gennaio 1980 e numerosi altri esponenti politici siciliani appartenenti sia alla Democrazia Cristiana sia ad altri partiti. Appare, quindi, opportuno esporre qui queste risultanze con riferimento ad alcune delle principali questioni affrontate dal Presidente MATTARELLA e - subito dopo - riassumere sinteticamente il quadro della situazione politica in cui si inserì l'azione dell'ucciso. Infatti, solo in relazione a questa si possono meglio comprendere la reale portata ed il valore, anche solo emblematico, di certe decisioni ed atti che, singolarmente valutati, potrebbero sembrare quasi irrilevanti.

IL C.D. "VERDE TERRASI". In data 12 gennaio 1980, l'avv. Antonino MATTARELLA, dopo aver premesso di aver avuto sempre contatti piuttosto rari con il fratello Piersanti, perché il suo lavoro di professionista e di docente universitario si svolgeva fuori dalla Sicilia, riferiva di avere avuto occasione una sola volta, in tempi recenti, di interessare il congiunto, richiedendone un qualche intervento presso uffici della Pubblica Amministrazione. Riferiva, in particolare, che un importante operatore immobiliare romano, il rag. Angelo PIPERNO, da lui conosciuto per motivi professionali, gli aveva detto che - nonostante ripetute sentenze a lui favorevoli rese dai giudici amministrativi - non riusciva ad ottenere che il. Comune di Palermo rilasciasse le concessioni edilizie relative ad un'area sita all'incrocio tra via Lazio e via Campania, che egli aveva acquistato dagli eredi TERRASI. Il PIPERNO gli aveva riferito anche di avere inutilmente interessato a tal fine il dr. Carmelo MANTIONE (Assessore Comunale) e il dr. Michele REINA (segretario provinciale della D.C.) e che nei suoi rapporti con il TERRASI e con il Comune si erano verificati episodi poco chiari, a volte di tenore minaccioso, a volte nel senso che sembrava gli venisse richiesto il pagamento di "tangenti", nonostante che il rilascio delle concessioni fosse, per il Comune, un atto dovuto. L'Avv. Antonino MATTARELLA aggiungeva, infine, che aveva fatto avere al fratello un promemoria predisposto dal PIPERNO, ma che non era in grado di dire quale esito avesse avuto tale iniziativa; probabilmente aveva avuto- solo una risposta interlocutoria o l'assicurazione che sarebbe stato interessato l'Assessore competente (Fot. 614773, Vol. I).

Veniva, quindi, assunto in esame il PIPERNO, il quale, in data 19.1.20, riferiva testualmente: "Fin dai primi mesi del 1978 ho avuto delle trattative, previo un incontro con il Prof. Aldo TERRASI, per l'acquisto del terreno di sua proprietà sito tra via Brigata Verona – via Sciuti e viale Lazio. Nel maggio 1978 stipulammo un contratto soggetto alla condizione sospensiva che il Comune rilasciasse la concessione edilizia entro gg. 180 con facoltà di rinnovo per un eguale periodo. Successivamente, diedi incarico di intraprendere tutte le possibili azioni legali in via amministrativa al Prof. Guido CORSO, genero del Prof. Aldo TERRASI, che aveva già difeso la società ESIONE nei precedenti giudizi. Contemporaneamente, intrapresi una linea che può definirsi politica, nel senso di contattare taluni uomini politici per agevolare l'iter della pratica, considerato anche che la concessione della licenza edilizia dopo il giudicato amministrativo era un atto dovuto per il Comune. Presi contatti quindi con il Dr. MANTIONE, che io conoscevo perché mio inquilino dell'immobile di via Emerico Amari e che allora era, se non ricordo male, assessore comunale all'urbanistica. In maniera generica, il MANTIONE mi diceva che avrebbe studiato la pratica e che in seguito avrebbe riferito. Dopo che quest'ultimo divenne sindaco, gli ho telefonato talvolta, ma avendo capito che avrei perso il mio tempo, ho rallentato le pressioni, cercando di rivolgermi ad altre persone. Per ottemperare alla stessa esigenza, approfittando del fatto che il partito della D.C. occupa al 6° piano dell'immobile di via E. Amari locali di mia proprietà e che c'era una controversia giudiziale in atto in materia di sfratto, presi contatto, il 5.2.1979, se non ricordo male, con il Segretario Prov.le del citato partito, Dr. REINA Michele. Esposi le mie ragioni e mi resi conto che il REINA conosceva perfettamente la questione ed era anche preparato sul piano urbanistico; egli mi disse inoltre che avevo ragione e che però la situazione politico-ambientale non consentiva una facile decisione in materia, ma che egli avrebbe contattato i diversi gruppi. Non ricordo se REINA o MANTIONE disse che problemi come questo potevano fare cadere la giunta. Il REINA mi promise che successivamente mi avrebbe riferito sulle possibilità di risolvere il problema. Il colloquio con quest'ultimo si svolse a quattr'occhi. Fui introdotto nella stanza della Direzione Prov.le della D.C. ed ivi trovai soltanto il Dr. REINA. Il Dr. MANTIONE era a conoscenza che avrei parlato con REINA e probabilmente è stato proprio lui ad indirizzarmi al REINA, prendendomi addirittura l'appuntamento. Mi sembra di ricordare che ho parlato telefonicamente con il Dr. MANTIONE, chiedendogli notizie. Egli sicuramente mi avrà dato delle informazioni di poco conto o interlocutorie, dato che non ne ho un preciso ricordo. Dopo la morte di REINA, avendo prima conosciuto per una controversia l'Avv. Antonino MATTARELLA, avendo appreso dallo stesso che era fratello del Presidente della Regione, lo pregai di presentarmi al fratello e nel contempo gli inviai un promemoria da fare avere al Presidente. Frattanto l'Avv. CORSO, seguendo la linea legale, aveva più volte diffidato il Comune ad adempiere e, trascorso il termine di gg. 60, aveva notificato alla Regione, credo all'Assessorato all'ambiente e al territorio, una istanza tendente a provocare la nomina di un Commissario "ad acta", che avvalendosi dei poteri sostitutivi dell'assessore rilasciasse la concessione edilizia. Tale notifica dovrebbe essere avvenuta nell'aprile del 1979. Il 12.5.1979 riuscii ad ottenere un colloquio con il Presidente MATTARELLA, che era venuto a Roma per far da padrino alla cresima di un figlio del fratello. Tale incontro avvenne alle ore 20 presso lo studio romano del fratello Antonino. Il Presidente MATTARELLA, al quale feci le mie rimostranze per le omissioni del Comune, mi disse che avevo ragione, ma che comunque non si trattava di questioni di sua diretta competenza, ma piuttosto dell'assessore agli Enti Locali che avrebbe curato di interessare alla questione. Credo di ricordare che successivamente a detto colloquio, che durò pochi minuti, inviai al fratello Antonino alcuni documenti e memorie in copia perché li inoltrasse al Presidente. Tramite l'Avv. Antonino MATTARELLA, riuscii ad ottenere un appuntamento con l'assessore al territorio On. FASINO per il giorno 3.7.1979 alle ore 11,00. A detto incontro erano presenti uno o due funzionari, che mi sono stati presentati come tecnici, ma di cui non ricordo i nomi. Rappresentai all'assessore le mie lagnanze per le palesi omissioni di atti dovuti da parte del Comune lasciandogli, se non ricordo male, un promemoria e le copie dell'esposto già presentato. Egli mi disse che si sarebbe interessato alla questione, ma successivamente non ho avuto più alcuna notizia" (cfr. Fot. 614889 Vol. I). Il PIPERNO esponeva poi, dettagliatamente, l'ulteriore evolversi dei suoi rapporti con il TERRASI ed altri imprenditori, da una parte, e con gli uffici comunali, dall'altra. Tali rapporti, che - come si è già accennato – presentavano aspetti poco chiari, hanno formato oggetto di indagini, con l'acquisizione anche di tutta la documentazione amministrativa, in esito alle quali la Squadra Mobile ed il Nucleo Operativo C.C. segnalarono alla Procura della Repubblica, con nota del 10.2.1980, la possibilità che nella condotta di alcuni funzionari del Comune di Palermo potessero ravvisarsi i reati di omissione di atti di ufficio e di peculato per distrazione. Tali ipotesi di reato hanno, peraltro, formato oggetto di altro procedimento penale, a seguito di separazione degli atti disposta da questo Ufficio con decreto del 13.2.1980 (Fot. 615066, Vol. II). Quel che occorre invece rilevare in questa sede è che l'intervento dell'On. MATTARELLA fu limitato a procurare al PIPERNO un appuntamento con l'Assessore Regionale al Territorio, on. FASINO, ed i suoi funzionari, al fine di illustrare le sue doglianze. Peraltro a tale incontro non fece seguito alcuna iniziativa concreta, come già detto dal PIPERNO e come risulta pure dalle dichiarazioni dello stesso On. Mario FASINO: "Alcuni mesi fa, sicuramente prima dell'estate, il Presidente MATTARELLA mi chiese di ricevere un avvocato romano che curava gli interessi della società che aveva rilevato il terreno "ex TERRASI", sito tra viale Campania - viale Lazio e via Brigata Verona, perché sentissi quali erano le sue richieste. Io ebbi tali colloqui ed invitai il predetto legale a mandarmi la documentazione concernente la questione comprensiva delle sentenze amministrative che l'avevano caratterizzato. Io riferii l'esito del colloquio al Presidente ma successivamente egli non mi richiese più alcuna notizia. In atto la situazione è immutata, nel senso che io non mi sono adoperato in alcun modo nei confronti del Comune o degli interessati" (cfr. Fot. 614787 Vol. I).

Appare quindi da escludere, come è del resto opinione sia dei familiari del Presidente assassinato sia degli Uffici di P.G. (v. rapporto del 23.12.1980, Vol. IV), che l'interessamento dell'On. MATTARELLA alla "vicenda TERRASI" abbia potuto in alcun modo costituire valida causale del gravissimo delitto.

L'inchiesta sui Lavori Pubblici. La Repubblica il 9 gennaio 2020. Fin dalle prime dichiarazioni, rese nell'immediatezza del delitto, i collaboratori del Presidente MATTARELLA hanno evidenziato che alcune delle questioni che più lo avevano impegnato e preoccupato nelle ultime settimane di vita erano ricollegate alle vicende dell'Assessorato Regionale dei Lavori Pubblici, il cui titolare, On. Rosario CARDILLO (PRI), si era dimesso, dopo essere rimasto. coinvolto in una indagine giudiziaria a Firenze per il ritrovamento di una sua valigetta contenente molto denaro. Così, per esempio, il Dr. Felice CROSTA, vice-capo di gabinetto ed amico personale dell'On. MATTARELLA, ha dichiarato il 10.1.1980 (Fot. 614603, Vol. I): "Per quanto concerne l'attività del Presidente MATTARELLA devo dire che, a parte le iniziative legislative, egli ha effettuato delle rilevanti inchieste nel campo della pubblica amministrazione. In particolare, allorché dall'Assessore CARDILLO furono presentate le dimissioni, egli immediatamente assunse ad interim l'Assessorato ai Lavori Pubblici e quindi portò alla valutazione dell'Assemblea le predette dimissioni. Ricordo che in sede assembleare il CARDILLO sostenne la tesi che si era dimesso dall'incarico affidatogli ai LL.PP. ma non da Assessore, per cui avrebbe dovuto partecipare come tale alle riunioni di Giunta. Il Presidente e l'Assemblea vennero messi in difficoltà da questo atteggiamento e solamente dopo la sospensione di alcune ore, l'On. CARDILLO si decise a rassegnare in maniera completa le dimissioni. In quella stessa seduta, poiché il Partito Repubblicano non era pronto alla designazione di un nuovo assessore, si rinviò tale nomina ad altra data. Allorché l'On. MATTARELLA assunse l'Assessorato ai LL.PP. lasciò immutato il precedente Gabinetto, provvedendo soltanto a nominare il direttore regionale Dr. GIAMBRONE, capo Gabinetto, e provvedendo, inoltre, a disporre un'ispezione in ordine ad una lamentata differenza che si era verificata nella realizzazione di una opera pubblica in un Comune, forse S. Giovanni Gemini, rispetto al programma deliberato dalla Giunta Regionale. Successivamente, un esponente del Gabinetto, tale Cafiero RENDA, se non ricordo male, non fece più parte del Gabinetto dei LL.PP. In seguito il Presidente nominò una Commissione ispettiva per indagare sull'attività dell'Assessore CARDILLO. A seguito di precisa richiesta da parte del predetto, nominò a tale veste funzionari esperti e capaci che garantissero un normale sviluppo dell'inchiesta. La relazione che ne seguì venne poi trasmessa all'assessore per i LL.PP. ed unitamente all'esito di altre ispezioni al Presidente dell'Assemblea Regionale, che ne aveva fatto esplicita richiesta per la Commissione d'inchiesta nominata dall'Assemblea Regionale". La esatta portata dell'iniziativa disposta dal Presidente MATTARELLA emergeva ancor meglio dalle dichiarazioni del Dr. Alessandro MIGLIACCIO, direttore Regionale agli Enti Locali e incaricato, insieme ad altri funzionari, di procedere all’ispezione straordinaria presso l'Assessorato ai Lavori Pubblici. Il Dr. MIGLIACCIO, dopo aver riferito che il Presidente MATTARELLA dispose che l'ispezione amministrativa avesse corso nonostante l'Assemblea Regionale avesse già nominato una commissione d'inchiesta sull'operato dell'Assessore CARDILLO (Fot. 614878, Vol. I), ha poi riferito: "Nella nostra relazione noi prendemmo in esame tutte le opere realizzate con i finanziamenti dell'Assessorato ai Lavori Pubblici. La relazione si occupa, in modo particolare, delle cosiddette opere dirette, cioè di quelle opere in cui l'assessorato interveniva, non soltanto con la provvista di fondi, ma anche con gli appalti.

A D.R. La relazione dell'inchiesta da noi redatta, che supera le 460 pagine, metteva in particolare evidenza l'ampiezza dei poteri decisionali che l'Assessore CARDILLO si era attribuito nella scelta delle ditte da invitare fra quante avessero richiesto di essere invitate. In particolare, fu rilevato che nell'elenco delle ditte figurava l'annotazione di pugno di un impiegato, Cafiero RENDA, delle ditte da invitare. Apparentemente la scelta era regolare. Senonché, ad una valutazione più approfondita, emerse un "riaccorpamento" di imprese tra di loro collegate e addirittura della stessa impresa che era inscritta all'albo sotto diversa denominazione. Noi pervenimmo a questa conclusione per il motivo che le lettere delle ditte che chiedevano di essere invitate erano scritte dalla stessa macchina da scrivere e presentavano gli stessi errori di dattilografia erano presentate da ditte che avevano differenti ragioni sociali ma identico recapito. Risultavano, pure, dagli esami degli elenchi, tutti allegati in fotocopia alla relazione, casi di partecipazione massiccia di ditte aventi tutte la sede nel Comune di San Giuseppe Jato". L'importanza che lo stesso On. MATTARELLA attribuiva a queste vicende risulta chiaramente da varie dichiarazioni. Così il fratello, On. Sergio MATTARELLA, ha riferito in proposito (cfr. Fot. 614749 Vol. I): "Allorché l'Assessore ai LL.PP. CARDILLO presentò una lettera, peraltro diretta personalmente a mio fratello e non al Presidente dell'Assemblea, come dovuto, con la quale rassegnava le dimissioni dall'incarico conferitogli ai LL.PP., dimissioni non espressamente dichiarate irrevocabili, mio fratello immediatamente, previa rapida consultazione con la Corte dei Conti, considerò operanti ed efficaci tali dimissioni ed assunse "ad interim" l'Assessorato ai LL.PP. In tale sua veste allontanò dal Gabinetto del suddetto assessorato un funzionario nel quale non riponeva alcuna fiducia e nominò come capo del Gabinetto il direttore regionale GIAMBRONE. Successivamente, allorché si discussero in assemblea le dimissioni di CARDILLO, questi sostenne che non si era dimesso come assessore ma soltanto come incaricato del ramo dei LL.PP. che pertanto tutte le sedute di Giunta alle quali non era stato invitato dovessero considerarsi invalide. Per superare tale ostacolo mio fratello minacciò le dimissioni dell'intera Giunta nel caso in cui il CARDILLO non avesse confermato in maniera inequivocabile le proprie dimissioni. Dopo una sospensione dell'Assemblea riuscì ad ottenere dette dimissioni. Sempre nell'ambito dei LL.PP. mio fratello richiese un elenco dei funzionari che normalmente venivano nominati per i collaudi di nomine pubbliche, incarichi che notoriamente costituivano fonte di notevoli introiti che a quanto pare erano affidati sempre alle medesime persone. Pertanto, non so in quale modo, egli cercò di modificare "l'andazzo"".

Anche la dott.ssa Maria Grazia TRIZZINO, capo di gabinetto del Presidente assassinato ha detto: "Il Presidente MATTARELLA non ha autonomamente preso iniziative inerenti alla sua funzione in relazione all'inchiesta amministrativa sull'operato dell'Assessore ai LL.PP. CARDILLO. Infatti, fu questo ultimo ad inviare una lettera con la quale sollecitava tale richiesta. Tale fatto venne portato in Giunta, la quale deliberò di incaricare il Presidente, per la nomina di una commissione. La scelta dei funzionari venne fatta dall'On. MATTARELLA con molta oculatezza, in quanto scelse dei funzionari che avevano competenze in materia ispettiva ed in materia di appalti di opere pubbliche, ponendo a capo della stessa un direttore regionale tra i più giovani che desse il massimo affidamento. Tale commissione ha ultimato i suoi lavori di recente depositando una relazione che è stata trasmessa in copia all'Assemblea Parlamentare Regionale per l'inoltro alla commissione nominata in relazione al "caso CARDILLO"". Ancora più significativa è poi la dichiarazione dell'On. Michelangelo RUSSO, esponente di primo piano del P.C.I. in Sicilia e, a quell'epoca, Presidente dell'Assemblea Siciliana.

L'On. RUSSO ha infatti riferito: "Il Presidente non mi parlò mai di minacce, però, qualche volta, parlando con me, dopo aver compiuto degli atti amministrativi di un certo rilievo, con tono preoccupato ebbe a dirmi: «forse me la faranno pagare». Queste espressioni uscirono dalla sua bocca quando, di ritorno da Catania dopo la visita del Presidente della Repubblica, ebbe ad accennare ai suoi interventi presso il Comune di Palermo per la questione degli appalti per la costruzione degli edifici scolastici e presso l'Amministrazione Regionale per la questione relativa ai funzionari collaudatori.

A D.R. Con riferimento ai due episodi testé riferiti, non fece mai dei nomi. Altra volta che io notai il Presidente preoccupato fu quando si discusse il caso CARDILLO" (Fot. 617131 Vol. IX). In proposito si deve aggiungere che, oltre ad acquisire tutte le relazioni cui si è fatto riferimento, sono state anche disposte indagini sul tema dei collaudi assegnati a funzionari regionali e sulle iniziative assunte in proposito dall'On. MATTARELLA. Le risultanze di tali indagini sono state esposte dalla Squadra Mobile e dal Nucleo Operativo dei Carabinieri nel rapporto in data 23.12.1980 (Fot. 616002 e segg. Vol. IV), le cui conclusioni possono essere testualmente riportate: "Il Presidente aveva avuto modo di recepire malcontenti e lamentele da parte di quei funzionari regionali, la stragrande maggioranza di essi, ai quali non erano stati mai affidati collaudi di opere pubbliche. L'assegnazione dei collaudi comporta infatti per gli assegnatari grossi guadagni, essendo il compenso ragguagliato percentualmente alla entità dell'opera eseguita. Il Presidente si proponeva di inserire in un disegno di legge di riforma dell'Amministrazione Regionale una normativa che sancisse l'assegnazione dei collaudi soltanto a tecnici qualificati, quali i funzionari del Genio Civile e del Provveditorato alle Opere Pubbliche. Si sarebbe evitato così la grossa disparità di trattamento economico nella categoria dei funzionari regionali, cioè tra quelli assegnatari di collaudi, una minima parte, e tutti gli esclusi. Tale inchiesta, come le altre che hanno formato oggetto dei precedenti rapporti, evidenzia la serietà e qualità degli intenti con i quali l'On. MATTARELLA aveva improntato la sua azione di Governo" (Fot. 616005 Vol. IV). Gli organi di P.G. hanno poi escluso, sul piano logico, la possibilità che questi atti amministrativi possano essere stati, di per sé soli, la causa del gravissimo delitto, ma hanno pure esattamente sottolineato che «gli accertamenti disposti dall'On. MATTARELLA per conoscere i nominativi dei funzionari regionali preposti ai collaudi di opere pubbliche sono da considerare parte integrante di un corretto esercizio di controllo politico-amministrativo dei vari componenti la Giunta Regionale … L'indagine conoscitiva tradiva chiaramente un intento innovatore e moralizzatore nella prassi che si era consolidata… ».

La mafia e l'incontro con il ministro Rognoni. La Repubblica il 10 gennaio 2020. Un altro dei temi emersi come essenziali, perché ritenuto dallo stesso Presidente MATTARELLA di tale importanza da poter provocare contro di lui le reazioni più gravi, è stato quello dell'incontro da lui avuto, nell'ottobre 1979, con l'On. Virginio ROGNONI, a quel tempo titolare del Ministero dell'Interno. Anche a questo proposito è opportuno riportare testualmente quanto emerge dagli atti processuali. La prima sommaria indicazione emerge dalle dichiarazioni rese, il giorno 11 gennaio 1980, dall'On. Sergio MATTARELLA (Fot. 614745, Vol. I):

"A fine settembre del 1979, mio fratello mi partecipò che intendeva parlare con il Ministro ROGNONI perché rivolgesse la sua attenzione sul Comune di Palermo. Penso che su tale punto potrebbe fornire utili indicazioni l'attuale Ministro degli Interni nel caso in cui mio fratello sia riuscito ad avere un colloquio".

L'importanza dell'incontro, quale occasione per richiedere «un intervento ben preciso dello Stato per risolvere i problemi della Sicilia in relazione alla criminalità dilagante» veniva confermata anche nelle testimonianze degli On.li D'ACQUISTO e NICOLETTI, il quale ultimo sottolineava peraltro che «il Presidente MATTARELLA non aveva rivelato nemmeno in Assemblea il contenuto dettagliato delle discussioni avute con il Ministro ROGNONI». L'On. Sergio MATTARELLA ritornava sul tema, in occasione della testimonianza resa al Giudice Istruttore il 16 gennaio 1981 (Fot. 617059, Vol. IX): "Dopo l'uccisione dell'On. Cesare TERRANOVA, mio fratello, parlando con me, mi disse che aveva intenzione di chiedere un colloquio al Ministro ROGNONI per parlargli della situazione di Palermo, che era insostenibile quanto alle infiltrazione ed alle influenze mafiose, per chiedergli un'azione più decisa e più attenta del Ministro degli Interni. Dell'argomento non mi parlò più. Però, dopo la sua morte, avendo esaminato la sua agenda, ho potuto rilevare che egli ebbe delle conversazioni telefoniche con il Ministro dell'Interno e che verosimilmente a Roma, in occasione di uno dei suoi viaggi, si sia incontrato con il Ministro. Con il Ministro ROGNONI, comunque, si era incontrato a Palermo quando fu organizzato in Prefettura, ad iniziativa di mio fratello, un incontro del Ministro ROGNONI, con mio fratello e i responsabili locali dell'ordine pubblico".

Va chiarito che, in occasione di questa riunione, tenuta in Prefettura sull'ordine pubblico il 10 ottobre 1979, il Presidente MATTARELLA fece un intervento particolarmente significativo per la lucidità dell'analisi e per la precisione delle proposte formulate (cfr. verbale in Vol. V), così da far condividere in pieno quanto affermato dal Presidente dell'Assemblea Regionale, On. Michelangelo RUSSO, secondo cui: «rileggendo tutti i discorsi fatti dall'On. MATTARELLA a partire dal suo incarico presidenziale, si denota un crescendo nella condanna della violenza della mafia in particolare».

Solo in data 10 aprile 1981, la Dr.ssa Maria Grazia TRIZZINO, principale collaboratore del Presidente MATTARELLA perché suo capo di Gabinetto, si presentava al Giudice Istruttore e dichiarava al riguardo (Fot. 617153 Vol. IX): "Verso la fine di ottobre del 1979, il Presidente MATTARELLA, di rientro da Roma con l’aereo del primo pomeriggio, venne direttamente alla Presidenza; contrariamente alle sue abitudini, non era passato da casa sua. Appena in ufficio, mi chiamò personalmente senza ricorrere all'usciere e, con aria molto grave, mi disse testualmente: «le sto dicendo una cosa che non dirò né a mia moglie né a mio fratello. Questa mattina sono stato con il Ministro ROGNONI ed ho avuto con lui un colloquio riservato su problemi siciliani. Se dovesse succedermi qualche cosa di molto grave per la mia persona, si ricordi questo incontro con il Ministro ROGNONI, perché a questo incontro è da collegare quanto di grave mi potrà accadere». Io non azzardai alcuna domanda perché conoscevo bene la riservatezza del Presidente, tuttavia rimasi alquanto perplessa e quasi incredula perché mai il Presidente si era lasciato andare ad affermazioni tanto gravi e preoccupanti. Il Presidente notò la mia espressione e mi disse testualmente: «Signora, io le parlo molto seriamente». Subito dopo si parlò del lavoro corrente. Conoscevo molto bene il Presidente e sapevo che non avrebbe azzardato alcun giudizio se non avesse avuto elementi fondati e concreti. E pertanto, quanto mi disse il Presidente non poteva che essere il frutto di una sua maturata riflessione su quanto aveva detto al Ministro ROGNONI.

Il Presidente MATTARELLA mi diceva sempre che «bisognava fare pulizia nel partito e bisognava eliminare alcuni uomini che non facevano onore al partito stesso». Quanto ho riferito nel corso di queste mie dichiarazioni non fu più oggetto, da parte mia e del Presidente di discussioni o commenti".

La testimonianza della Signora TRIZZINO veniva ripresa e precisata dal fratello del Presidente assassinato, On. Sergio MATTARELLA, che, in data 28.5.1981, dichiarava al G.I. (Vol. IX, Fot. 617156): "Qualche giorno dopo i funerali di mio fratello Piersanti, venne in casa di mia cognata la Signora TRIZZINO Maria, che era stata Capo di Gabinetto di mio fratello. La signora mi chiamò in disparte, mi portò in un'altra stanza e mi disse: «un giorno di fine ottobre, suo fratello, rientrato da Roma, mi ha chiamato nel suo ufficio e mi disse di avere avuto nella mattinata, su sua richiesta, un colloquio con il Ministro dell'Interno On. ROGNONI, nel corso del quale gli aveva parlato esclusivamente delle condizioni di Palermo, dicendomi che questo colloquio lo aveva chiesto dopo averci pensato a lungo e che, pur rendendosi conto della gravità del passo che aveva compiuto, non aveva potuto, per dovere di coscienza, farne a meno anche se il colloquio riguardava anche il suo partito». Aggiunse la Signora TRIZZINO, che l'espressione di mio fratello le sembrò molto grave e che egli le disse di non parlarne né con me né con mia cognata. Aggiunse ancora, la Signora TRIZZINO, che mio fratello ebbe a dirle: «se dovesse capitarmi qualcosa, si ricordi di quello che le sto dicendo».

A D.R. Non ritenni, né ritengo di informare di questo episodio mia cognata, dato il suo stato di salute fortemente scosso in conseguenza del trauma subito".

L'On. MATTARELLA aggiungeva di non aver mai fatto cenno dell'episodio narratogli dalla Dr.ssa TRIZZINO né ai Questori IMMORDINO e NICOLICCHIA né agli altri funzionari di polizia (con i quali pure aveva avuto numerosi colloqui, anche di carattere informale). Veniva quindi assunto in esame l'On. Virginio ROGNONI, Ministro degli Interni, che - in data 11.6.81 - dichiarava al G.I. (Fot. 617319, Vol. IX): "Nell'ottobre del 1979, non ricordo quale giorno, previo appuntamento preso, non ricordo se direttamente o per tramite delle rispettive segreterie, venne a trovarmi qui al Viminale il compianto Presidente MATTARELLA. Nel corso del colloquio si parlò della situazione dell'ordine pubblico e della sicurezza della città di Palermo e anche della Sicilia, in relazione al problema della mafia anche in dipendenza degli ultimi atti criminosi come quello del Commissario GIULIANO Boris e del Giudice TERRANOVA, avvenuti rispettivamente nel luglio e nel settembre 1979. Ricordo che il Presidente MATTARELLA mi parlò delle nuove forme criminose della mafia e di un aspetto molto importante del fenomeno relativo ai legami tra mafia e politica. Mi ricordò che la sua politica era rivolta a combattere il fenomeno mafioso e a rendere via via credibile la classe politica adottando comportamenti, che rendessero, giusto nei fatti, credibile l'azione di governo e l'azione politica in genere. Come esempio di questa politica, il Presidente MATTARELLA mi ricordò il suo intervento volto a fermare la procedura di alcuni appalti concorsi e di altri interventi nell'ambito dell'Amministrazione Regionale. Non mi nascose che questa politica poteva creare forti ostilità negli interessi colpiti. Nel corso della discussione il Presidente MATTARELLA, quasi per esemplificare il clima di paura e di intimidazione esistente e sul quale egli operava, mi ebbe espressamente a rappresentare la situazione, in quel momento veramente depressa, del segretario regionale della D.C. Rosario NICOLETTI; mi accennò finanche alla intenzione, qualche volta espressa giusto in quel periodo da NICOLETTI di troncare l'attività politica. A questo punto, ricordo anche che il Presidente MATTARELLA mi espresse serenamente la sua determinazione e volontà di continuare nella intrapresa azione di governo, portando avanti una prospettiva di riscatto della vita civile, politica e sociale della Regione. Ricordo che il Presidente MATTARELLA, in relazione ad alcune notizie secondo le quali l'ex sindaco di Palermo Vito CIANCIMINO avrebbe premuto per ottenere un reinserimento ad un livello di piena utilizzazione politica all'interno del partito della Democrazia Cristiana, ebbe a manifestarmi grande preoccupazione per un evento del genere ed il suo vivo dissenso al riguardo. A giustificazione di questo dissenso, il Presidente MATTARELLA mi disse quanto fosse discussa, ambigua e dubbia la personalità del CIANCIMINO". In sostanza, dalle dichiarazioni dell'On. ROGNONI veniva confermato il profondo impegno morale e politico del Presidente MATTARELLA, la sua volontà di non cedere di fronte a nessun ostacolo e di non aver riguardo per alcuno neanche all'interno del suo partito, come emergeva chiaramente dal riferimento alla posizione di Vito CIANCIMINO.

Da quella testimonianza risultava, però, anche che l'interlocutore, forse per una diversa percezione della realtà siciliana, non aveva avuto la sensazione della tensione e del senso di pericolo, anche personale, che pervadeva invece il Presidente MATTARELLA, come veniva ribadito 1'8 luglio 1981 dalla vedova, signora Irma CHIAZZESE, che riferiva più ampiamente e dettagliatamente al G.I. le confidenze finalmente fattele dalla Dr.ssa TRIZZINO (Fot. 617325 Vol. IX): "Da mio cognato prof. Sergio MATTARELLA ho saputo che mio marito era stato a Roma e che aveva avuto un colloquio con il Ministro degli Interni ROGNONI e che il colloquio aveva avuto per oggetto la questione politica siciliana con riferimento anche alla situazione interna della D.C. Dopo 4 o 5 giorni che mio cognato ebbe a riferirmi la circostanza, venne a trovarmi la Signora TRIZZINO che era stata capo di Gabinetto di mio marito. Alla signora riferii quanto succintamente mio cognato mi aveva detto e la signora mi riferì che un giorno mio marito, rientrato da Roma, nel primo pomeriggio, la mandò a chiamare e le disse, dopo averla invitata a sedere (la TRIZZINO abitualmente, parlando per motivi di lavoro per brevi momenti, stava in piedi): «sappia che questa mattina sono stato a Roma ed ho avuto un colloquio con il Ministro ROGNONI sulla questione politica siciliana; se dovesse succedermi qualche cosa, dico fisicamente, voglio che lei dica che io sono stato oggi a Roma a parlare con il Ministro degli interni». La TRIZZINO mi riferì ancora che mio marito le aveva raccomandato di tacere tale circostanza in maniera assoluta, sia a me che a mio cognato.

A D.R. Nel corso del colloquio che io ebbi al riguardo con la TRIZZINO, io cercai di accertare se mio marito avesse confidato alla stessa qualche altra cosa, ma la TRIZZINO negò di avere avuto altre confidenze e, nel corso della discussione seguitane la TRIZZINO precisò soltanto che la discussione tra mio marito e ROGNONI aveva avuto anche per oggetto, oltre il problema della mafia, in relazione ai collegamenti politici, anche fatti interni del partito. La TRIZZINO non fu con me ricca di particolari perché io non reagii bene, per ovvi motivi, a quanto apprendevo, in maniera così dettagliata per la prima volta; ciò perché mio cognato era stato molto più cauto rispetto a quanto non lo fosse stata la TRIZZINO.

A D.R. La TRIZZINO mi disse che mio marito era particolarmente dispiaciuto perché aveva avuto l'impressione, anzi dico meglio, era particolarmente dispiaciuto; secondo lei perché il Ministro ROGNONI non aveva dato troppo peso a quanto da lui esposto. La signora mi disse pure che mio marito era così amareggiato che lei provò un sentimento di angoscia.

A D.R. Alla Signora TRIZZINO io mossi un rimprovero quando mi riferì le circostanze di cui ho parlato; la rimproverai perché me le aveva taciute. La signora mi disse che non me ne aveva parlato perché mio marito le aveva espressamente detto di non riferire nulla dell'incontro con il Ministro ROGNONI né dell'oggetto di esso né a me né a mio cognato".

Per completare l'esposizione di quanto emerge dagli atti processuali su questo punto (che sarà oggetto di valutazione in un momento successivo), si deve solo aggiungere che sul colloquio tra il Ministro ROGNONI e il Presidente MATTARELLA non sono stati in grado di aggiungere altri particolari nemmeno i parlamentari che all'epoca rivestivano la carica di sottosegretario agli Interni (On. SANZA, LETTIERI e DARIDA), nonostante alcuni di loro fossero legati ai due interlocutori da rapporti personali oltre che politici. L'escussione di questi testi, nel 1990, si è resa necessaria per verificare se, eventualmente, all'incontro tra l'on. MATTARELLA e l'on. ROGNONI fosse stato presente uno dei Sottosegretari all'Interno, considerato che il prof. Leoluca ORLANDO CASCIO, nell'esame testimoniale del 21.9.1990 (fot. 938521 vol. LXX), aveva detto: «.... devo dire che anch'io ho memoria della presenza dell'on. SANZA, al cennato incontro o meglio ho memoria della notizia in questione. Potrebbe darsi che .... ne abbia sentito parlare dal compianto Cons. CHINNICI in occasione di una escussione testimoniale, dopo la quale rimasi a parlare con lui .... per lungo tempo». Pertanto, quest'Ufficio ha ritenuto di investigare anche in tale direzione, attesa l'importanza dell'eventuale presenza di una terza persona all'incontro per verificare l'esattezza dei ricordi dell'on. ROGNONI. Per raggiungere tale risultato, sono stati sentiti tutti i sottosegretari all'Interno D.C. dell'epoca, escludendo il solo sen. OCCHIPINTI sul rilievo logico che, ad un incontro così riservato il sottosegretario poteva partecipare solo come amico comune dei due interlocutori e l'OCCHIPINTI, in quanto neppure appartenente alla D.C., appariva sicuramente da escludere.

Le minacce per la legge urbanistica. La Repubblica l'11 gennaio 2020. Fra i momenti salienti dell'attività politica e parlamentare dell'On. MATTARELLA, vi fu certamente l'approvazione della nuova disciplina urbanistica, in occasione della quale egli ricevette anche minacce anonime. Già dal primo esame della Dr.ssa TRIZZINO, in data 9 gennaio 1980, risultava che (Fot. 614559, Vol. I): "Per quel che mi risulta, il Presidente MATTARELLA non ha ricevuto minacce se non in occasione della mancata promulgazione di parte della legge urbanistica ed in particolare di 3 articoli concernenti la sanatoria dell'abusivismo edilizio, impugnati dal commissario dello Stato. In realtà, nonostante tale impugnazione, lo statuto Regionale prevede che trascorsi 30 gg. senza che la Corte Costituzionale abbia deciso in merito, il Presidente della Regione può promulgare ciò nonostante la legge. Il Presidente MATTARELLA per un atto discrezionale di auto-tutela della Regione, in ossequio anche all'importanza del provvedimento legislativo, ha ritenuto di non promulgare detti articoli, attendendo le decisioni della Corte Costituzionale. In relazione a tale sua omissione, il Presidente ricevette una prima lettera di minaccia nel maggio '79, almeno credo, sulla quale scherzò con noi del Gabinetto. Dopo alcuni mesi, ricevette altra lettera con minacce di morte che lo turbarono in maniera più grave. Tali lettere sono state dallo stesso conservate nella sua scrivania, ove ritengo che siano tuttora custodite. Ricordo che il Presidente parlò di tale faccenda, non se personalmente o per telefono, con il Questore EPIFANIO, su consiglio di noi del Gabinetto. Non so quali esiti abbiano avuto tali contatti" (Fot. 614559, Vol I).

La questione era poi ripresa e approfondita, due giorni dopo, dal fratello del Presidente assassinato, On. Sergio MATTARELLA: "La legge urbanistica n. 71 del 1978 fu proposta su iniziativa della Giunta ed in particolare dell'On. FASINO, assessore al Territorio. Tale legge provocò un malcontento generalizzato e diffuso poiché, nel riproporre principi della Legge nazionale, abbassava notevolmente gli indici di edificabilità, danneggiando i proprietari dei terreni e lo sfruttamento degli stessi ai fini edilizi. Inoltre, la suddetta legge ha danneggiato i costruttori in quanto ha fatto diminuire i loro margini di guadagno, aumentando costi di costruzione e delle opere di urbanizzazione. Una volta deliberata dall'Assemblea, tale legge venne impugnata dal Commissario dello Stato per la parte concernente la sanatoria dell'abusivismo edilizio. A questo punto la discrezionalità di mio fratello poteva seguire tre diversi indirizzi:

1) ritardare la promulgazione dell'intera legge essendo stata la stessa impugnata dal commissario, ciò fino alla pronunzia della Corte Costituzionale, che già si prevedeva in tempi lunghi dato che la predetta Corte si occupava in quel periodo del "caso Lockeed";

2) promulgarla interamente, trascorsi i 30 gg. senza che fosse intervenuta la pronunzia della Corte Costituzionale, così come previsto dallo Statuto;

3) promulgarla solo per la parte non impugnata.

Egli scelse quest'ultima soluzione perché adottando la prima avrebbe favorito una intensificazione intensiva e massiccia dell'edilizia in un brevissimo arco di tempo, considerato che tutti i proprietari avrebbero cercato di ottenere la concessione edilizia fruendo dei vecchi indici di edificabilità notevolmente più alti. Mio fratello volle rispettare la volontà legislativa espressa dall'Assemblea per la regolamentazione urbanistica futura e quindi ritenne suo preciso impegno, resistendo a molteplici ed insistenti pressioni politiche, promulgare immediatamente la parte della legge non impugnata. Del resto, non ritenne di adottare la promulgazione della parte concernente la sanatoria per evitare che una contrastante decisione della Corte Costituzionale provocasse dei disordini amministrativi e l'obbligo di restituire agli aventi diritto le somme versate per la sanatoria" (Fot. 614745 Vol. I). L'importanza politica dell'approvazione della legge urbanistica e la entità degli interessi economici su cui essa incise è stata di recente chiarita e sottolineata nelle testimonianze del Prof. Leoluca ORLANDO e dell'On. Mario FASINO.

Il primo ha, infatti, dichiarato in data 29 maggio 1990 (Vol. LXIX, Fot. 919394): "In questo contesto, in un partito che a Palermo vedeva MATTARELLA in posizione fortemente minoritaria, quest'ultimo divenne nel 1978 Presidente della Regione, realizzando, promovendo e sostenendo, nel settore amministrativo e legislativo scelte assai incisive per la vita politico-economica della Regione e per la stessa vita politico-economica della città di Palermo. In particolare, l'approvazione della legge urbanistica regionale n. 71 del 1978, fissò autoritativamente ed in contrasto col vigente piano regolatore generale, drastiche riduzioni, sull'utilizzo edificatorio delle aree urbane. Con quella legge, tra l'altro, si ridusse l'indice massimo di edificabilità da 21 mc/mq a 7 e si portò l'indice di edificabilità del "verde agricolo" da 0,20 - mc/mq a 0,03; e, infine, con apposito comma, si stabilì per legge per il Consiglio Comunale di Palermo il divieto di edificabilità di dette aree di "verde agricolo" per fini privati, vietandosi che le stesse potessero essere oggetto di variante urbanistica, con la sola parziale eccezione (e per percentuali limitate) di edilizia economico-popolare. Fu questa legge, per gli amministratori comunali di Palermo, una sostanziale, drastica ed autoritativa riduzione di potestà discrezionale nell'uso del territorio. Ricordo, ancora, che aveva chiara la consapevolezza tanto lui quanto l'Assessore al Territorio, On. Mario FASINO, di quanto la nuova disciplina urbanistica regionale limitasse il potere dei politici cittadini ed incidesse sulla stessa capacità di manovra del "comitato di affari" palermitano. A D.R. Certamente utile, per comprendere la durezza dello scontro, è ricordare che la legge urbanistica regionale poté essere approvata soltanto a seguito di durissimi contrasti, superati per il peso politico del Presidente MATTARELLA. Al riguardo, credo che ulteriori, più precisi elementi, potrebbe fornire l'On. FASINO. Quest'ultimo, infatti, ma trattasi di una mia personale riflessione, a partire dalle elezioni successive non venne più rieletto deputato regionale nel Collegio di Palermo".

L'On. FASINO, a sua volta, escusso in data 13 giugno 1990, ha affermato (Vol. LXX Fot. 938149): "Prendo atto che il Prof. ORLANDO, recentemente, ha dichiarato che io avrei potuto fornire un contributo informativo sulle difficoltà che il Governo MATTARELLA incontrò nell'iter di approvazione della legge n. 71/78 (c.d. Legge Urbanistica Regionale). In effetti, come avevo già detto, detta legge fu una delle più qualificanti di quel Governo ed io, quale assessore al Territorio, rivendico a me il merito di essere riuscito a fare adeguare gli indici di edificabilità regionali a quelli che la legge statale (c.d. MANCINI-ponte già prevedeva da oltre un decennio. Pur essendo tale disegno di legge regionale parte del programma di Governo, la sua approvazione avvenne tra molti contrasti, evidenziatisi non tanto nel risultato numerico finale di approvazione della legge (oltre che alle forze di Governo aveva l'appoggio del P.C.I.) quanto, nel gioco degli emendamenti proposti in Commissione. Tale legge provocò la reazione di due gruppi di interessi diversi ma convergenti. Quello degli imprenditori edili, che videro ridurre notevolmente il potenziale edificatorio delle loro aree, quello stesso potenziale che aveva consentito, ad esempio, di devastare la via Libertà attraverso la demolizione delle -- vecchie palazzine "liberty" e la costruzione di moderni palazzi a più piani. E l'interesse dei proprietari terrieri di tutte le zone circostanti la città di Palermo, che attraverso l'abbassamento dell'indice di edificabilità del "verde agricolo", videro diminuire considerevolmente il potenziale edificatorio delle loro aree. A quest'ultimo riguardo, credo di poter dire senza tema di smentite che gran parte di questi terreni si appartenevano, direttamente o per interposta persona, a "famiglie" mafiose. Basti pensare alla zona di Ciaculli e Croce Verde- Giardini, ovvero alla parte alta di Via Leonardo Da Vinci, che mi risultava personalmente appartenersi all'imprenditore Michelangelo AIELLO.

A D.R. L'iter legislativo durò circa tre mesi, durante i quali l'ARS si occupò solo di questa legge: Ricordo che in questo lasso di tempo vi furono riunioni ed assemblee di sedicenti coltivatori diretti (che dalla legge, se fossero stati realmente tali, avrebbero avuto tutto da guadagnare), i quali chiedevano di non procedere alla approvazione della legge, cioè di non adeguare la normativa regionale a quella statale, operante già da molti anni. In effetti, questa legge nazionale già veniva applicata in Sicilia in tutti quei Comuni sprovvisti di un piano regolatore generale ovvero in quei pochi Comuni che avevano adeguato quest'ultimo agli standard nazionali. Delle riunioni di cui ho sopra fatto cenno, credo che sia rimasta traccia sulla stampa locale dell'epoca.

A D.R. Vero è, secondo quanto mi viene letto dalle dichiarazioni del Prof. ORLANDO, che io "pagai" politicamente tale impegno per fare approvare la legge 71/78, in quanto, dopo circa trent'anni di ininterrotta permanenza all'ARS con altissimo numero di preferenze, alle elezioni regionali del 1981 non venni rieletto, rimanendo il primo dei non eletti. Ricordo di avere perduto nella città di Palermo oltre 10.000 voti, mentre mantenni sostanzialmente i suffragi in Provincia. Di fatto, successivamente, entrai ugualmente all'ARS dopo l'elezione al Parlamento dell'On. D'ACQUISTO, ma la "bocciatura" del 1981 rimase ugualmente. Nel 1986, alla scadenza del mandato, decisi di non ricandidarmi, ma devo dire che tale decisione ha avuto motivazioni personali e non è stata connessa a quel risultato parzialmente sfavorevole.

A D.R. Per chiarire meglio, desidero precisare che pur essendo stato io l'artefice della approvazione della legge urbanistica, non avrei mai potuto riuscirvi se non avessi avuto l'appoggio incondizionato del Presidente MATTARELLA, che l'aveva inserita nel programma di governo e che mi sostenne durante l'iter legislativo.

A D.R. Quando nel mio esame testimoniale del 14.1.1980 ho espresso l'opinione che l'omicidio MATTARELLA fosse un "delitto politico", voluto dal coagularsi "di interessi di altre forze" che volevano mantenere lo stato attuale delle cose, intendevo riferirmi proprio a quelle forze che ho oggi indicato parlando della legge 71/78. Non escludo che tali forze potessero avere dei referenti in sede politica e, quindi, anche all'interno della D.C., nella quale milito da sempre. Tuttavia, per onestà intellettuale e doveroso senso di responsabilità, non posso indicare nominativamente un gruppo o una persona come referente politico di tali forze. Può sembrare strano che un uomo politico di esperienza come me non abbia conoscenze precise al riguardo, ma questa LI effettivamente la verità" (Fot. 938152 Vol. LXX).

Gli appalti del Comune di Palermo. La Repubblica il 12 gennaio 2020. Un'altra delle questioni che, secondo le testimonianze dei familiari e collaboratori, avevano maggiormente impegnato, sul finire del 1979, il Presidente MATTARELLA e destato in lui profonde preoccupazioni è la ispezione da lui personalmente disposta sulla regolarità delle procedure seguite dal Comune di Palermo per l'affidamento in appalto dei lavori per la realizzazione di sei edifici scolastici, in zone diverse della città. Nel suo primo esame, in data 9 gennaio 1980, la Signora Maria Grazia TRIZZINO, capo di Gabinetto del Presidente assassinato, segnalava fra le iniziative più importanti assunte dall'On. MATTARELLA la nomina di un ispettore: Al fine di indagare sulla concessione di sei appalti per la costruzione di scuole pubbliche da parte del Comune di Palermo con fondi erogati dall'Assessorato Regionale della Pubblica Istruzione».

Anche l'On. Sergio MATTARELLA, fin dalla prima dichiarazione resa a questo Ufficio 1'11 gennaio 1980 (Fot. 714745, Vol. I), poneva quell'appalto tra i temi meritevoli di approfondimento in relazione al gravissimo delitto: "Un'altra questione per la quale mio fratello si impegnò e si espose con la sua autorità, personalmente, fu quella concernente l'appalto di alcune scuole da parte del Comune di Palermo con fondi dell'Assessorato Regionale alla Pubblica Istruzione; su segnalazione del predetto Assessorato, mio fratello nominò l'Ispettore MIGNOSI, funzionario in cui riponeva fiducia, per accertare eventuali irregolarità. Il predetto ispettore presentò due relazioni a seguito delle quali mio fratello intervenne una prima volta sul Sindaco per bloccare le procedure e rifare le gare. Questa prima richiesta non ottenne probabilmente alcun risultato visto che ve ne fu una seconda, intervenuta nel dicembre u.s. (1979: N.D.R.). Non posso precisare con quali esiti. Ho ritenuto di dovere porre in risalto tale episodio per l'entità degli interessi economici in gioco, si trattava infatti di appalti di circa 6 miliardi".

Nell'interrogatorio reso al G.I., lo stesso On. Sergio MATTARELLA aggiungeva ancora: "Con mio fratello eravamo molto legati e non c'era cosa che ci riguardasse che non ci dicessimo l'un l'altro.  Una sola volta egli mi parlò di una lettera di minaccia, ciò fece dopo alcuni mesi dalla ricezione, forse per non preoccuparmi. Con me non parlò mai di altre minacce. Debbo però dire che uno o due mesi prima della sua uccisione, anzi nel dicembre del 1979, con specifico riferimento alle gare di appalto per gli edifici scolastici e alla ispezione da lui disposta all'Assessorato LL.PP., parlando con un suo collaboratore, il Prof. Francesco GIULIANA di Partinico, che insegna al Liceo di Salemi, ebbe a dire: «queste cose possono farmele pagare»; al che il GIULIANA: «politicamente ? »; e mio fratello: «non politicamente, ma sul piano fisico, personale».

L'episodio mi fu riferito dal Prof. GIULIANA dopo la morte di mio fratello, nel mese di gennaio 1980. D'altra parte so pure che una sera, durante il periodo natalizio del 1979, lasciando il suo ufficio verso le ore 21,00 assieme al Dott. Gaetano FAVAZZA, dell'Ufficio di Gabinetto, ebbe a dire a costui, che dimostrava meraviglia, per il fatto che non c'era alcuna sorveglianza, «noi non abbiamo nulla da temere perchè facciamo il nostro dovere»" (Fot. 617059 Vol. IX). L'importanza attribuita alla questione dallo stesso Presidente MATTARELLA emerge pure dalle dichiarazioni dell'On. Michelangelo RUSSO, esponente del P.C.I. e Presidente dell'Assemblea Regionale, che fu informato dallo stesso MATTARELLA «nel corso di un colloquio personale» della sua decisione di disporre l'indagine ispettiva (Fot; 614833, Vol. I). Anzi, l'on. RUSSO ha precisato nella sua dichiarazione al G.I. (Fot. 617131, Voi. IX), che il Presidente MATTARELLA ebbe a dirgli «con tono preoccupato: «forse me la faranno pagare» proprio mentre, dopo la visita del Presidente della Repubblica, faceva cenno «ai suoi interventi presso il Comune di Palermo per la questione degli appalti per la costruzione degli edifici scolastici e presso l'amministrazione regionale per la questione relativa ai funzionari collaudatori». Venivano, quindi, espletati approfonditi accertamenti con l'acquisizione di tutta la documentazione presso gli Uffici Comunali e Regionali, con l'escussione di numerosi testimoni ed anche con l'espletamento di indagini bancarie da parte del Nucleo Regionale di Polizia Tributaria. Dal complesso di questi accertamenti (v. in particolare il rapporto del 4.3,80, Fot. 615368, Vol. H; rapporto del 23.12.80 rot. 616002 Vol. IV e rapporto del 28.3.81, Vol. VI, Fot. 616326) emergeva in sintesi che:

- Nell'aprile 1979 il Comune di Palermo aveva pubblicato il bando di appalto concorso per la realizzazione di sei scuole (MARABITTI-MARVUGLIA, Passo di Rigano, Resuttana, Uditore, Castellana Bandiera e Piazzi) per un importo di spesa complessiva di circa L. 5.600 milioni;

- Ad ogni gara avevano chiesto di partecipare una trentina di imprese circa, metà delle quali non erano state ammesse per motivi vari, cosicché il numero delle imprese ammesse variava, per ognuna delle sei gare, da un minimo di 13 ad un massimo di 19;

- In data 2 ottobre 1979 la Giunta Comunale aveva nominato le sei commissioni giudicatrici che avrebbero dovuto esprimere un parere tecnico vincolante sulla idoneità del progetto presentato e sulla congruità del prezzo offerto;

- Per ognuno dei sei appalti era stato però presentato un solo progetto, rispettivamente dalle imprese SAGECO, Agostino CATALANO, EDIL REALE, SANSONE, CATALANO COSTRUZIONI, Gaetano Massimo BARRESI;

- Le commissioni giudicatrici avevano appena iniziato i loro lavori (tranne quella competente per la scuola di Via Castellana Bandiera, che aveva dichiarato non funzionale il progetto stralcio presentato dall'impresa CATALANO COSTRUZIONI).

Nel frattempo, fin, dal luglio 1979 erano pervenuti all'Assessorato Regionale alla Pubblica Istruzione alcuni esposti anonimi, che denunziavano gravi irregolarità nelle procedure di appalto. L'Assessore, On. Luciano ORDILE, dopo aver ricevuto in proposito generici chiarimenti dal Comune di Palermo, aveva richiesto, con nota del 28.9.1979, al Presidente della Regione di disporre gli opportuni accertamenti «tenendo conto anche che il fatto potesse riguardare anche altri Assessorati come quello agli Enti Locali» (v. ORDILE al P.M., Fot. 614901, Vol. II). Il 5 novembre 1979. la Presidenza della Regione informava l'Assessorato alla Pubblica Istruzione che aveva disposto un'ispezione straordinaria incaricando il Dr. Raimondo MIGNOSI; questi depositava in breve volgere di tempo- due relazioni, che venivano comunicate in data 14 e 28 novembre all'Assessorato P.I., che, in data 5 dicembre, inviava al Comune una nota in cui, evidenziate le irregolarità emerse in sede ispettiva, suggeriva i rimedi da adottare e cioè la riapertura dei termini dell'appalto-concorso ovvero l'annullamento degli atti e la riproposizione delle gare. Nel corso del mese di dicembre, il Presidente della Regione aveva invitato nel suo ufficio il Sindaco di Palermo, Dr. MANTIONE, e l'Assessore Comunale competente, Dr. Pietro LORELLO, e dopo aver fatto cenno, secondo quanto dagli stessi riferito, dei risultati dell'ispezione espletata dal Dr. MIGNOSI, dei criteri molto restrittivi adottati per la ammissione alla gara e della stranezza rappresentata dall'esistenza di una sola offerta per ogni scuola, aveva consigliato di riaprire i termini di partecipazione, ricevendo in proposito dai due amministratori comunali l'assicurazione della piena disponibilità del Comune. Due giorni dopo l'omicidio del Presidente MATTARELLA, e cioè l'8 gennaio 1980, il Comune aveva invece inviato all'Assessorato Regionale alla Pubblica Istruzione le proprie controdeduzioni. Nei mesi successivi, l'Amministrazione Regionale, acquisiti nuovi pareri tecnico-giuridici (del Comitato Tecnico Amministrativo Regionale, dell'Ufficio Legislativo e Legale e del consulente giuridico del Presidente D'ACQUISTO, Dr. Giorgio GIALLOMBARDO), perveniva alla conclusione che l'operato del Comune di Palermo era stato perfettamente regolare dal punto di vista della legittimità amministrativa, ma che tuttavia «ragioni di autotutela consigliavano di non dare più corso all'aggiudicazione dell'appalto» (D'ACQUISTO al G.I., Fot. 617133, Vol. IX), invito fatto proprio dall'Avv. MARTELLUCCI, subentrato al dott. MANTIONE nelle funzioni di Sindaco di Palermo. Non è naturalmente questa la sede per valutare né la linearità delle scelte della nuova Amministrazione Regionale (su cui il Dr. MIGNOSI ha espresso perplessità, Fot. 617100 Vol. IX) né la legittimità dell'azione degli uffici comunali né, infine, la liceità della condotta dei titolari delle sei imprese partecipanti ai sei appalti-concorso, i quali del resto - nel corso di altro procedimento penale - sono stati assolti con formula ampiamente liberatoria del reato 'di turbativa d'asta (art. 3.5,3 C.P.), che era stato contestato loro dopo che avevano dichiarato che tra essi non era intercorso alcun preventivo accordo e che era «solo per caso o per buona fortuna» che ognuno di loro si era ritrovato unico partecipante ad una singola gara di appalto. Va solo aggiunto che dalle indagini esperite dagli uffici di P.G., sono emersi dei collegamenti tra i titolari delle sei imprese e fra alcuni di loro e SPATOLA Rosario, esponente - com'è ben noto - della famiglia mafiosa GAMBINO-INZERILLO.

Giova, a questo proposito, riportare testualmente quanto riferito nel rapporto della Squadra Mobile e del Nucleo Operativo dei Carabinieri del 23.12.1980 (Fot. 616002 Vol. IV): "E proprio l'esistenza di un solido patto realizzato sia sul fronte internò, per evitare dispersioni di risorse e contrasti tra le sei imprese, sia sul fronte esterno, per dissuadere i concorrenti dal partecipare, che ha indotto gli investigatori a considerare le sei ditte in modo unitario, come se si trattasse di un'unica "corporation".

Ma non è solo la compattezza dimostrata dalle sei imprese che conduce a tale deduzione. Vi sono pure legami personali, associativi, familiari, societari e di altro tipo che, di seguito verranno illustrati. Infatti CATALANO Agostino, titolare di una delle sei imprese più volte citate, ha sposato una nipote di REALE Antonino, titolare a sua volta della "EDIL REALE", presentatrice del progetto relativo alla scuola da costruire a Resuttana. Inoltre, sia il CATALANO che il REALE, si sono serviti del medesimo professionista, l'Ing. MANNINO Giuseppe, per realizzare i progetti delle scuole presentati alla commissione giudicatrice. Le imprese edili facenti capo al CATALANO ed al BARRESI Gaetano Massimo fanno parte in sede regionale dell'API SICILIA (Associazione di Piccole e Medie Imprese) ed aderiscono in sede nazionale alla CONFAPI - ANIM; in considerazione dello stretto numero di imprese edili palermitane iscritte all'API SICILIA, Li da ritenere che i contatti tra il CATALANO ed il BARRESI siano quanto meno frequenti. Ma vi sono altri legami che non è il caso di sottovalutare per l'importanza che rivestono ai fini delle  indagini. SANSONE Gaetano, che pure ha ammesso di essere stato socio del noto mafioso SPATOLA Rosario, è stato di recente inquisito perché ritenuto uno degli adepti della cosca SPATOLA-INZERILLO-GAMBINO. Inoltre il SANSONE, che abita ed ha la sede sociale della sua impresa nel medesimo fabbricato degli SPATOLA, è cognato di GAMBINO Tommaso, a sua volta cugino di SPATOLA Rosario. Ma anche REALE Antonino ha stretti collegamenti con i costruttori SPATOLA, considerato che, nel corso di una perquisizione effettuata dalla Guardia di Finanza nella sede dell'Impresa ii SPATOLA Vincenzo (fratello di Rosario e di Antonino), è stata ritrovata. documentazione varia attinente ai lavori di completamento della scuola elementare C.E.P. Petrazzi), documentazione che avrebbe dovuto trovarsi negli uffici comunali. Come si vede, sono stati sufficientemente evidenziati i collegamenti esistenti fra cinque delle sei imprese partecipanti all'appalto-concorso. I vincoli di parentela tra il CATALANO ed il REALE, nonché tra il SANSONE e Rosario SPATOLA, la comunanza di interessi tra l'impresa REALE e quella CATALANO, che affidando la fase progettuale al medesimo tecnico, gli stretti legami fra le imprese SPATOLA e quella REALE, documentati dal rinvenimento negli uffici dell'impresa SPATOLA degli atti di pertinenza comunale, l’appartenenza  alla medesima associazione industriale delle imprese di CATALANO e BARRESI ed infine l'affiliazione del SANSONE all'organizzazione criminale degli SPATOLA, GAMBINO ed INZERILLO, tutto questo insomma, conduce a ritenere che il patto stretto tra gli imprenditori edili più volte già menzionati, abbia avuto la sollecitazione, l'organizzazione o quanto meno il placet dei massimi esponenti delle famiglie mafiose sopra indicate, la cui presenza traspare da ogni piega degli accertamenti. Pur senza volere affermare che le sei imprese costituivano dei semplici prestanomi, attraverso i quali l'aggregato mafioso si apprestava a monopolizzare tutti gli appalti-concorso (cosa che potrebbe anche essersi verificata stante la dovizia di mezzi di ogni genere di cui le tre famiglie dispongono), tuttavia l'essere riusciti a dimostrare che gli interessi delle imprese ammesse alla fase finale si identificano o collimano con quelli delle maggiori famiglie mafiose italo-americane, serve per evidenziare che la presa di posizione dell'On. MATTARELLA non danneggiava ciascuna delle sei imprese, impedendo a ciascuna l'aggiudicazione dell'appalto ammontante a circa un miliardo di lire, ma inibiva ad un gruppo di mafia di assicurarsi una serie di appalti per un valore globale di sei miliardi". Naturalmente, gli stessi verbalizzanti non hanno ritenuto di poter ricollegare con certezza alla vicenda dell'appalto delle sei scuole responsabilità personali in ordine all'omicidio del Presidente della Regione, ma hanno sottolineato l'importanza di quella vicenda anche, e soprattutto, alla luce di quanto riferito, in un lungo promemoria consegnato al P.M. il 26 gennaio 1980 dal Dr. Raimondo MIGNOSI, cioè dal funzionario incaricato dall'On. MATTARELLA di effettuare l'ispezione amministrativa presso il Comune di Palermo.

L'ispezione che ha fatto tremare tutti. La Repubblica il 13 gennaio 2020. Per la sua importanza è opportuno riportare testualmente ampi brani di questo pro-memoria del dottor RAIMONDO MIGNOSI. "Ricordo che, fin dall'origine della vicenda, ebbi a rilevare la particolare decisione del Presidente MATTARELLA nel disporre la ispezione tanto che, in un certo momento, ne ebbi persino una impressione di "animosità politica" (che era congeniale) perchè l'esercizio del suo potere di controllo straordinario mi sembrò spinto, ai limiti dell'eccesso rispetto alle attribuzioni istituzionali. A ciò fui indotto dalla considerazione delle seguenti circostanze:

1) Anzitutto il rilievo dato, fin dal 25 luglio, ad un esposto anonimo denunciante presunte irregolarità negli appalti, esposto sulla cui sola base il Presidente ha chiesto lo svolgimento di accertamenti e l'adozione di conseguenti provvedimenti agli Assessori regionali della Pubblica Istruzione e degli Enti Locali, mentre non Li prassi dell'Amministrazione regionale la presa in considerazione di anonimi, salvo il caso che non suggeriscano interventi che l'Amministrazione avrebbe comunque autonomamente posti in essere;

2) Secondariamente, la forma del decreto che, contrariamente alla prassi di conferire gli incarichi ispettivi con semplice lettera è stata adottata per l'instaurazione di un procedimento ispettivo nei confronti del Comune di Palermo, come per mettere al riparo l'azione amministrativa da possibili eccezioni di forma dell'Ente sottoposto a controllo; inoltre l'insolita pienezza di poteri garantiti per l'operatività dell'ispettore incaricato; ed infine l'attribuzione allo stesso, anche questo con innovazione alla prassi, dell'incarico di "formulare anche concrete proposte sugli eventuali provvedimenti da adottare";

3) Da ultimo, la legittimazione del Decreto di ispezione con riferimento alla norma dell'art. 2, lett. p) della legge 29 dicembre 1962, n. 28, la quale induce al presupposto dei "motivi di eccezionale gravità". Veniva posta, così, in essere una ispezione straordinaria per le cui eventuali conclusioni di irregolarità il Presidente della Regione non avrebbe potuto attingere ad altro rimedio amministrativo che al più grave dei propri poteri sanzionatori (scioglimento del massimo organo deliberante dell'Ente soggetto in base all'art. 2, lett. O) della legge citata, salva l'ipotesi alternativa dell'esercizio di un potere di influenza politica sugli organi del Comune per l'esperimento di un loro autonomo rimedio in autotutela, come il Presidente ha poi tentato di realizzare nel caso in questione.

Alle predette circostanze, che allora mi sembrarono già di per sé sufficienti ad evidenziare l'importanza che il Presidente MATTARELLA intendeva attribuire al problema della regolarità delle procedure di appalto nel Comune di Palermo per la realizzazione di opere pubbliche finanziate dalla Regione, debbo ora collegare anche altri fatti verificatisi nel corso dell'ispezione (direttive, colloqui e comportamenti del Presidente), che evidenzierò più avanti e che hanno consolidato in me il convincimento di una decisa volontà dell'On. MATTARELLA di impedire la aggiudicazione degli appalti con procedure meno che limpide. La lettera con cui il Presidente MATTARELLA sollecitava l'esperimento di opportuni accertamenti riguardo alle "presunte gravi irregolarità" denunciate con l'esposto anonimo del 7 luglio, era stata indirizzata agli Assessorati Regionali della Pubblica Istruzione e degli Enti Locali "per quanto di rispettiva competenza", e cioè al primo in considerazione della materia (edilizia scolastica), al secondo in considerazione del suo potere istituzionale di ordinaria vigilanza sui comuni. Le due diverse funzioni, benché sollecitate, non mi sembrarono correttamente esercitate. Quanto all'Assessorato degli Enti Locali non risulta, infatti, agli atti della Presidenza, nessun riscontro alla lettera del Presidente. L'Assessorato Regionale della Pubblica Istruzione, invece, ha dato riscontro alla richiesta presidenziale di accertamenti, proponendo però che essi venissero disposti direttamente dal Presidente. Tale sostanziale ricusazione della responsabilità competente, richiamata dal Presidente con la sua lettera del 25 luglio, non mi sembrò trovare legittima spiegazione nella motivazione dichiarata "poiché la questione può interessare sfere di competenza di diversi Assessorati..."), poiché in materia di edilizia scolastica l'Assessorato della Pubblica Istruzione ha una competenza specifica con compiti anche di vigilanza sugli Enti obbligati alla realizzazione delle opere programmate. D'altra parte è vero, al contrario, che l'Assessore alla Pubblica Istruzione si era già risolto, in un primo tempo, a disporre con proprio provvedimento lo svolgimento di indagini presso il Comune di Palermo proprio sulla materia degli appalti per la costruzione degli edifici scolastici del primo programma triennale. Di tale provvedimento io stesso ho potuto prendere visione nell'ufficio del Dott. CAPPELLANI, Coordinatore del gruppo di lavoro Edilizia scolastica e arredamenti, che lo conserva in atti, e dallo stesso ho avuto comunicazione dei nominativi dei due funzionati incaricati delle indagini, il Dott. GRILLONE e il Dott. GENTILE. Sempre dal Dott. CAPPELLANI, ho appreso che il motivo di questa vera e propria anomalia di comportamento degli organi dell'Assessorato fu dovuto all'ostinato rifiuto dei due funzionari incaricati (ed in particolare del Dott. Giovanni GENTILE) ad eseguire l'incarico loro conferito con atto assessoriale perfetto. Di fronte a tale rifiuto l'Assessore si sarebbe convinto, anche per la difficoltà di reperire altri funzionari disponibili cui affidare lo stesso incarico ispettivo, a modificare la precedente determinazione di fare eseguire le indagini ad organi dell'Assessorato, aderendo invece alla soluzione di ribaltare sul Presidente della Regione il compito di disporre la ispezione.

Non conosco i motivi della indisponibilità dei funzionari dell'Assessorato Regionale della Pubblica Istruzione a svolgere indagini presso il Comune di Palermo sulle procedure d'appalto; su questo punto posso soltanto riferire le seguenti circostanze, che mi sovvengono alla memoria come possibili espressioni di un clima, se non di paura almeno di cautela, del quale i due funzionari potevano avere risentito:

1) Agli inizi della mia ispezione, il Dott. CAPPELLANI mi disse che una sua relazione riservata, contenente rilievi sulla regolarità delle procedure seguite dal Comune di Palermo nelle gare d'appalto per la costruzione degli edifici scolastici, sarebbe stata oggetto di rielaborazione poiché la sua prima stesura, dopo il suo inoltro alla visione dell'Assessore, gli sarebbe stata restituita dal capo di Gabinetto, Dott. DI DIO, perché ritenuta troppo pesante nella forma, talché lo stesso Dott. CAPPELLANI avrebbe aderito all'invito ad una maggiore prudenza, rielaborandola. Su tale episodio grava la riserva di una memoria imprecisa, che tuttavia non altera la impressione che ricordo di averne tratto di una preoccupazione e di una reticenza degli organi dell'Assessorato della Pubblica Istruzione nel trattare la questione degli appalti gestiti dal Comune di Palermo.

2) In occasione di un mio colloquio con il Dott. Nino DI DIO, agli inizi dell'ispezione, egli mi disse di apprezzare la scelta del Presidente sulla mia persona per quell'incarico perché la materia richiedeva un particolare equilibrio che egli mi riconosceva.

Per rafforzare questo giudizio il Dott. DI DIO lo contrappose al criterio seguito, nel trattare la questione degli appalti scolastici del Comune di Palermo, dal Dott. CAPPELLANI, che egli aveva ritenuto saggio richiamare amichevolmente - ad una maggiore prudenza. E fu a tal proposito che egli ebbe ad usare, a mo’ di commento, la espressione: "A Palermo si spara per molto meno" (riferendosi alla entità del finanziamento complessivo previsto in circa sei miliardi per la costruzione delle scuole). Ricordo bene che la battuta mi colpì non solo perché se ne poteva dedurre che il Dott. DI DIO ne sapesse più di quanto appariva riguardo ai rischi connessi ad una ingerenza della Regione negli affari interni del Comune in materia di appalti, ma anche perché essa mi apparve significativa del fatto che egli riteneva prevalente l'aspetto "affaristico" degli appalti in corso per l'edilizia scolastica a Palermo su un altro aspetto, che invece mi preoccupava e sul quale avevo richiamato la sua attenzione: il quadro, cioè, delle lotte di fazione interne alla Democrazia Cristiana, quadro a cui la stampa riferiva in quei giorni quello che venne definito un vero e proprio "tiro al piccione" nei confronti degli uomini appartenenti alla corrente dell'On. RUFFINI, che a Palermo erano oggetto di scandali a getto continuo (casi GIGANTI, CASTRO, CASCIO ecc…). Che il Dott. DI DIO trascurasse quest'ultima chiave di interpretazione dell'attacco all'Assessore ai LL.PP. del Comune di Palermo LORELLO, in cui avrebbe potuto ridursi una ispezione regionale sugli appalti di scuole, è dimostrato dal fatto che egli non sapeva neppure che LORELLO fosse un fedele di RUFFINI, come si diceva, mentre invece lo riteneva amico dell'On. MATTARELLA. Proprio perché infastidito dal dubbio che io potessi essere strumentalizzato, con l'affidamento dell'incarico ispettivo e con l'esercizio della mia funzione professionale, a fini di eventuale partigianeria politica, ed allo scopo di sottrarmi ad una eventualità del genere, mi attenni al proposito di chiudere al più presto la mia ispezione, limitandomi ai termini formali dell'incarico senza cedere alla tentazione, che mi è congeniale, di approfondire, scendere in dettaglio e dilungarmi con il che solitamente svolgo il mio impegno di lavoro. Poiché il decreto di incarico mi commetteva di "effettuare accertamenti... allo scopo si verificare la regolarità delle procedure preliminari adottate" per l'appalto delle scuole e di "formulare anche concrete proposte sugli eventuali provvedimenti da adottare", ritenni pertanto di limitarmi a queste due finalità nei termini più formali possibili. E poiché fin dalle prime battute dell'ispezione mi fu subito chiara la possibilità di concludere dignitosamente, con l'accertamento di alcune irregolarità e con la proposta di una sospensione immediata delle procedure d'appalto in funzione di una loro riproduzione ex novo con attività più legittima, in data 12 novembre 1979 presentai una relazione con la quale riferivo sui vizi di legittimità riscontrati soprattutto nei bandi di appalto-concorso e nelle deliberazioni di esclusione dalle gare di alcune imprese e proponevo un intervento urgente e diretto del Presidente MATTARELLA sugli Organi del Comune per conseguire la sospensione della aggiudicazione degli appalti, nonché un intervento mediato attraverso "i competenti organi di ordinaria vigilanza" (Assessorati alla Pubblica Istruzione ed agli Enti locali) per indicare al Comune la modalità corrette attraverso cui avrebbe dovuto procedere alla reiterazione delle procedure d'appalto.

Tale relazione, presentata prima della scadenza dei limiti di tempo fissati nel decreto d'incarico (peraltro ordinatori e per prassi solitamente non rispettati in relazione alle esigenze operative degli accertamenti), venne da me stesso consegnata all'ufficio del Segretario Generale nonché personalmente al Capo di Gabinetto del Presidente Dott.ssa TRIZZINO, alla quale verbalmente feci inoltre presente quanto segue:

1) che dal punto di vista formale la ispezione era considerata conclusa, avendo io adempiuto ai compiti fissati nel decreto presidenziale di incarico;

2) che, tuttavia, la mia relazione volutamente si prestava a non essere considerata conclusiva (e conseguentemente l'attività ispettiva avrebbe potuto essere protratta), qualora ciò potesse servire a tenere il Comune sotto pressione finché non avesse deliberato formalmente di sospendere le procedure per l'aggiudicazione degli appalti;

3) che io ero personalmente restio a proseguire le indagini, perché consideravo rischiosi approfondimenti che avrebbero teoricamente ed eventualmente potuto condurre a rilievi di carattere penale, trattandosi peraltro di una ricerca estranea ai compiti istituzionali;

4) che ero restio a tale prosecuzione, anche perché la materia degli appalti è notoriamente "spinosa" per le possibili correlazioni di natura indefinibile fra organi del Comune di Palermo e taluni ambienti di appaltatori, il che avrebbe potuto comportare anche situazioni difficili;

5) che, da un punto di vista strettamente amministrativo, le conclusioni cui ero pervenuto nella mia relazione rappresentavano il massimo risultato possibile (rilievo di irregolarità e conseguente ripercorso dell'iter amministrativo per l'esperimento degli appalti, anche mediante la sola riapertura dei termini per la presentazione delle domande di partecipazione alle gare);

6) che suggerivo al Presidente l'opportunità di un intervento immediato e pressante (con lettera) per ottenere il risultato della sospensione degli appalti;

7) che, da un punto di vista politico, il Presidente MATTARELLA avrebbe potuto ritenersi soddisfatto di un tale risultato, potendosi a lui ascrivere il merito di avere tempestivamente bloccato una operazione che appariva poco limpida;

8) che, comunque, rimanevo disponibile alle istruzioni che il Presidente mi avrebbe impartito.

Il Presidente MATTARELLA ebbe la relazione lo stesso giorno, la lesse e la condivise, come poi mi confermò la Dott.ssa TRIZZINO; telefonò immediatamente al Sindaco MANTIONE, da cui ottenne l'assicurazione che il Comune aveva deciso di "bloccare tutto", ne diede atto in un appunto autografo in calce all'originale della mia relazione; inoltre diede istruzioni alla Dott.ssa TRIZZINO. Quando, l'indomani, mi recai a colloquio con essa, la Dott.ssa TRIZZINO mi comunicò il contenuto di tali istruzioni che erano le seguenti:

1) Il Presidente aveva disposto che la Segreteria Generale elaborasse una lettera da indirizzare all'Assessorato Regionale della Pubblica Istruzione, in conformità alle proposte da me formulate nella relazione ispettiva;

2) il Presidente desiderava che l'ispezione continuasse "anche se dovessero emergere rilievi penali".

Quanto alla prima direttiva, la Dott.ssa TRIZZINO la trasmise telefonicamente in mia presenza al Segretario Generale, Dott. Sergio GRIFEO, che, dopo una breve polemica sulla necessità di tenere l'originale e non una copia della mia relazione, mi convocò immediatamente ed in mia presenza diede istruzioni al suo collaboratore Dr. MICELI per la redazione di una lettera da inviare, come si concordò sul momento dietro mio suggerimento, non solo all'Assessorato della Pubblica Istruzione ma anche a quello degli Enti Locali per la eventualità che fosse necessario ricorrere in seguito ai suoi poteri sostitutivi nei confronti del Comune in caso di renitenza. Il Dott. GRIFEO non mancò, in quella occasione, di criticare punto per punto le deduzioni della mia relazione che non condivideva affatto; e poiché, ciò malgrado, si attenne alle direttive presidenziali, ne ricavai l'impressione che volesse in ogni modo sottolineare questa sua divergenza con il Presidente. Tanto più ne rimasi perplesso, in quanto collegai la circostanza col fatto che l'ispezione aveva la caratteristica formale di un'altra novità assoluta: mentre infatti tutti i precedenti incarichi ispettivi pervenivano in arrivo all'ufficio ispettivo (protocollate in partenza dal Gabinetto o dalla Segreteria Generale), questo mio per la prima volta nasceva cartolarmente da un provvedimento protocollato in partenza dall'ufficio ispettivo, per disposizione del Dott. GRIFEO. Più avanti, alcuni giorni dopo, la circostanza di quel ribadito distinguo del Dr. GRIFEO dall'orientamento del Presidente, mi tornò in mente quando appresi dalla stampa che egli si era dimesso per contrasti di fondo con il Presidente. Come altri colleghi, ritenni che le dimissioni del GRIFEO, annunciate per febbraio, sarebbero potute rientrare qualora la crisi di governo, frattanto aperta, avesse prodotto la sostituzione di MATTARELLA dalla carica di Presidente. Quanto alla seconda direttiva, che mi riguardava direttamente, debbo dire che mi vi adeguai certamente (riprendendo a recarmi in Comune per la consultazione degli atti ed elaborando appunti) ma con una riserva circa i tempi di esecuzione, nel senso che, siccome consideravo sostanzialmente esaurito il mio compito, non solo reputavo gli accertamenti che avrei potuto ulteriormente effettuare insuscettibili di modificare (ma semmai integrare con più minuziosi dettagli) le conclusioni cui ero già pervenuto, ma ritenni anche di potere proseguire il lavoro senza l'urgenza originariamente disposta ed ormai superata, e prevalentemente in funzione di supporto (con il prosieguo di una lenta ma presente attività ispettiva presso il comune) all'azione del Presidente e dell'Assessorato della Pubblica Istruzione per la definitiva e coerente conclusione della vicenda nel senso da me proposto ed accettato dal Presidente MATTARELLA. Ricordo di avere comunicato questa mia disposizione d’animo anche alla Dott.ssa TRIZZINO, alla quale precisai pure, scherzosamente, che tale mio atteggiamento era suggerito dalla preoccupazione di poter "finire in una betoniera", data la materia e data la decisione con cui avevamo (il Presidente ed io) messo le mani nel mondo palermitano degli appalti. D'altronde, da un punto di vista professionale, ero in una posizione corretta potendo sempre giustamente sostenere che avevo esaurito l'incarico, tanto che il Presidente aveva approvato le mie conclusioni, dandovi seguito in effetti anche con atti ufficiali. Permanevano, però, in me la perplessità sull'assicurazione del Sindaco data telefonicamente al Presidente, che il Comune aveva "deciso di bloccare tutto". Temevo, infatti, che il Sindaco si riferisse, più che ad un impegno di deliberare formalmente la sospensione del processo di aggiudicazione degli appalti in coerenza con le motivazioni giuridiche da me suggerite, a quanto era già stata fatto dal Comune (prima ancora della telefonata del Presidente MATTARELLA) e che si prestava a determinare una situazione di ambiguità ed incertezza. Mi riferisco a quanto operato dall'Assessore comunale ai Lavori Pubblici LORELLO, nella sua qualità di Presidente delle Commissioni giudicatrici dei sei progetti-offerta per gli appalti-concorso delle sei scuole. In data 10 novembre 1979, due giorni prima, cioè, della presentazione della mia prima relazione ispettiva, ma indipendentemente, l'Assessore LORELLO, presiedendo una delle sei commissioni, propose, ottenendo assenso unanime, di sospendere i lavori essendo in corso una ispezione regionale di breve durata. Era pertanto molto probabile che il Sindaco, nella conversazione di due giorni dopo col Presidente MATTARELLA, intendesse riferirsi, con l'espressione "il Comune ha deciso di bloccare tutto", esattamente alle determinazioni dell'Assessore LORELLO. Tanto più che questo aveva dichiarato in commissione di ritenere "la necessità che sull'argomento si pronunzi la Giunta Municipale".

Poiché una tale pronuncia della Giunta Municipale non risulta essere intervenuta (e ciò ancora a tutt'oggi), almeno non a livello di formale atto deliberativo (anche se può ipotizzarsi una irrituale presa d'atto, eventualmente risultante dai verbali della Giunta, del proposito dell'Assessore LORELLO di non procedere ad ulteriori convocazioni delle commissioni giudicatrici), avevo motivo di supporre che le assicurazioni del Sindaco date al Presidente circa il "blocco" delle operazioni fossero state date e recepite in buona fede, ma sulla base di un equivoco, che avrebbe potuto risolversi negativamente una volta cessata la pressione della Regione (o con la chiusura dell'ispezione o con la sostituzione del Presidente MATTARELLA, data la crisi di Governo in corso) mediante una possibile ripresa delle. procedure di aggiudicazione al punto in cui esse erano state sospese, potendosi rilevare quindi che “blocco" stava per "sospensione di fatto" nel lessico comunale. Mi preoccupavo anche che queste perplessità fossero presenti anche al Presidente MATTARELLA. Come ho già detto, dal punto di vista formale, potendo legittimamente considerare esaurito il mio compito, non avrei dovuto preoccuparmi degli esiti successivi alla mia relazione del 12 novembre; ma poiché il Presidente mi aveva posto, colla direttiva verbale di proseguire le indagini, in una posizione imbarazzante, e poiché dal punto di vista della mia serietà professionale giudicavo più positivo che le mie deduzioni ispettive conseguissero un risultato concreto in una conclusione dell'intera vicenda ad esse conformi, in data 23 novembre '79 mi sono risolto a presentare un secondo stralcio di relazione, limitato alla materia delle commissioni giudicatrici, che era uno degli argomenti che andavo via via approfondendo nel corso del seguito di ispezione fondato sulla direttiva verbale del Presidente. In tale relazione evidenziavo che "la sospensione dei lavori di una sola commissione giudicatrice... non soddisfa pienamente.... l'esigenza e... l'urgenza di pervenire tempestivamente, in via cautelativa, ad un provvedimento di sospensione delle aggiudicazioni degli appalti", ed avvertivo anche che "fino a quando l'amministrazione comunale non abbia formulato espressamente con apposito atto deliberativo la propria volontà di non concludere l'iter degli appalti concorso per riformarne gli atti preliminari onde procedere ad una modifica sostanziale delle gare in funzione dell'interesse pubblico di disporre di una pluralità di offerte, rimane sempre viva la possibilità che le commissioni giudicatrici... riprendano e concludano i propri lavori". La relazione del 23 novembre venne da me consegnata all'ufficio del Segretario Generale, che la fece pervenire al Presidente con una nota di accompagnamento del 27 novembre (prot. n. 509) a firma del dirigente coordinatore del servizio ispettivo. Sull'originale di tale nota di accompagnamento il Presidente annotò, il 28 novembre, una puntata duramente polemica nei confronti della Segreteria Generale e del servizio ispettivo, che non avevano sentito il dovere di formulare proposte. Da tale annotazione risulta chiaramente che il Presidente abbia ritenuto il convincimento che il Segretario Generale non condividesse le conclusioni della- mia relazione, tanto che dispose per iscritto l'invio all'Assessorato regionale della Pubblica Istruzione della mia relazione, insieme ad una bozza di lettera di accompagnamento minutata da lui stesso o dal suo Gabinetto, in cui si invitava l'Assessorato ad assumere le iniziative conseguenti ed opportune, indicando in particolare quella di invitare il Comune ad esercitare i propri poteri di autotutela nel senso da me rappresentato. L'Assessorato della Pubblica Istruzione, che aveva già scritto al Comune sulla base della mia prima relazione del 12 novembre, non ha ritenuto che la seconda relazione, pervenutagli con la lettera del Presidente sopra detta, aggiungesse nuovi elementi sufficienti a giustificare un secondo intervento sul Comune e se ne è astenuto fino al 14 gennaio 1980, dopo la morte del Presidente, data in cui ha inviato al Comune una nota di sollecito del riscontro alla prima lettera fondata sui rilievi della mia prima relazione, senza far cenno al contenuto della seconda.

Sta di fatto che fino alla data della morte del Presidente il Comune non ha dato alcun riscontro epistolare (né all'Assessorato della Pubblica Istruzione, né all'Assessorato Enti Locali, né alla Presidenza della Regione) che potesse rivelare un qualsiasi atteggiamento (se non quello noto della sospensione temporanea) riguardo alla sorte degli appalti, che rimanevano pertanto sempre in procinto di essere aggiudicati malgrado la decisa serie di interventi del Presidente MATTARELLA. Immediatamente dopo l'uccisione del Presidente, 1'8 gennaio '80, giornata di lutto cittadino, il Comune rompe il silenzio con una lettera (prot. n.165/SG/SZ 1) indirizzata all'Assessore della Pubblica Istruzione, a quello degli Enti locali ed al Presidente della Regione, nella quale sostanzialmente respinge tutti i rilievi formulati dalla Regione pur dichiarandosi disponibile ad un incontro. Per aggiungere un altro elemento a riprova della decisione con cui il Presidente MATTARELLA aveva perseguito lo scopo di bloccare l'operazione, riferisco il seguente particolare. Il 29 novembre 1979, il Presidente aveva fissato un colloquio al Sindaco MANTIONE per le ore 12,00, come ho appreso dalla Dott.ssa TRIZZINO. Non so se il colloquio avvenisse su richiesta del Sindaco (come tuttavia mi pare di aver capito) o per la convocazione del Presidente. Questi, che il giorno precedente aveva dato disposizione scritte per l'invio della lettera sopra citata, ebbe cura di raccomandare alla Dott.ssa TRIZZINO che la lettera stessa venisse indirizzata all'Assessorato della Pubblica Istruzione con data e protocollo del 28 novembre ancorché materialmente spedita il 29 mattina, allo scopo di potere ricevere il Sindaco al coperto da possibili ripensamenti e di potergli opporre, nella eventualità di prevedibili richieste in difformità alla linea da lui seguita, il fatto compiuto di una disposizione già ufficialmente ribadita nel senso della sospensione e del rifacimento delle gare d'appalto. Debbo a questo punto aggiungere che, al momento della presentazione della mia relazione del 23 novembre, ritenni doveroso inoltrare al Presidente anche una lettera riservata nella quale, oltre a richiamare la sua attenzione sulla poca attendibilità delle assicurazioni verbali del Sindaco, in quanto esse erano fondate su una sospensione di fatto pura e semplice della procedura di aggiudicazione degli appalti, avanzavo la proposta della acquisizione "da altri organi dell'ordinamento pubblico" (intendendo magistratura e polizia), di "elementi ed informazioni sulla personalità e. sui precedenti dei titolari delle sei imprese palermitane, uniche presentatrici di offerte, e sulle rispettive zone di influenza in relazione alle aree prescelte per la realizzazione delle sei scuole". Nella stessa lettera riservata, coglievo l'occasione per ribadire, in conclusione, che l'ispezione di cui ero stato incaricato poteva considerarsi esaurita, in quanto un suo eventuale prosieguo non avrebbe potuto condurre, sul piano amministrativo, a conclusioni diverse da quelle cui ero già pervenuto. La lettera venne protocollata con lo stesso numero e data, come è prassi, dello stralcio di relazione che vi era allegata. Quest'ultima, però, era stata formulata in modo da non richiedere necessariamente di essere inoltrata in allegato a lettera di accompagnamento, avendo una sua formale autonomia. Ciò mi consentì di inoltrare alla Segreteria Generale soltanto lo stralcio di relazione, mentre la lettera riservata venne da me sigillata in busta e personalmente da me consegnata alla Dott.ssa TRIZZINO, alla quale dissi: - "La prego di non considerare irriguardoso nei suoi confronti il fatto che le consegno in busta chiusa una lettera indirizzata al Presidente. Trattandosi di un riserbo a tutela del Presidente, io ho il dovere di comportarmi così, salvo il suo diritto di comportarsi come crede, dato il suo rapporto fiduciario col Presidente".

La dott.ssa TRIZZINO non mostrò di aversene a male e mi assicurò che avrebbe consegnato la busta chiusa. Allora aggiunsi: - "La prego di riferire al Presidente da parte mia che se egli ritiene inopportuno il contenuto di questa riservata, me lo dica con franchezza, e la lettera sarà come non scritta. A tal fine garantisco che non ho ancora acquisito agli atti la sua minuta".

A motivazione della insolita prassi che suggerivo aggiunsi ancora: "Questa busta odora di mafia, ed io non mi sento di coinvolgere altri, nè di esporre il Presidente su un terreno pericoloso".

Dopo alcuni giorni, il 28 novembre, la Dott.ssa TRIZZINO mi diede la risposta del Presidente. Riguardo allo stralcio di relazione, la risposta era nel senso che ho già detto (lettera alla P.I.); riguardo alla riservata, la Dott.ssa TRIZZINO mi disse testualmente: - "Dice il Presidente: la lettera resta" agli atti. Appena possibile, quindi, ne inserii la minuta nel fascicolo (ho saputo dopo che il Segretario Generale rimase sorpreso di trovarla come per incanto nello stesso fascicolo che aveva consultato altre volte senza vederla). Intrattenendomi ancora nell'ufficio della Dott.ssa TRIZZINO per commentare le decisioni del Presidente, mostravo di esserne soddisfatto perché essa chiudeva la fase ispettiva in vista di una soluzione radicale del problema di garantire una corretta gestione degli appalti per la costruzione delle scuole.

Dicevo, infatti, che il Presidente non aveva poteri amministrativi di intervento idonei allo scopo, essendo giuridicamente non ipotizzabile il ricorso alla sanzione dello scioglimento del Consiglio comunale, unica arma in suo potere, oltre, ovviamente, quella dell'influenza politica in funzione dell'esercizio del potere di autotutela del Comune. Una scelta diversa, che scontasse una insistenza nell'ispezione amministrativa - dicevo - avrebbe potuto dare, oltretutto, solo il risultato di esporre me personalmente al rischio, e concludevo scherzando: - Poi, lui continua a fare il Presidente della Regione, ed io finisco in una betoniera!

Era presente anche il Dr. CROSTA. Ad un tratto, mentre ancora ridevamo, si aprì la porta: era il Presidente che, vedendomi allegro, mi complimentò, chiedendomi dei miei figli mentre mi avvicinavo a lui ancora fermo sulla soglia. Subito entrai nel vivo della questione che mi aveva interessato, dicendogli qualcosa come: "Bisogna andarci piano, siamo su un terreno scivoloso".

Intervenendo, allora, la Dott.ssa TRIZZINO, celiando disse: - "Presidente, dice il Dott. MIGNOSI che, poi, Lei continua a fare il Presidente, e lui finisce nel cemento".

- "Io finisco nel cemento" - rispose MATTARELLA, guardandomi.

- "Ma no, Presidente" - replicai - "che c'entra? Lei è il Presidente della Regione".

- "Non è così" - insistette, e fece un gesto come per dire che sapeva bene quello che diceva, ed aggiunse, come per fare una concessione: - "Diciamo che ci finiamo tutti e due".

- e si allontanò nel salone dandomi appena il tempo di aggiungere: - "Magari in due plinti contigui!"

- ad alta voce, perché lo scherzo non pareva richiedere, allora, cautele di riservatezza.

Lasciato il Presidente, ero combattuto da opposti sentimenti: da un lato ero contento di poter considerare chiusa l'ispezione amministrativa, il che mi consentiva di estraniarmi alla vicenda; dall'altro ero preoccupato per aver contribuito, sia pure con la cautela che ho riferito, alla decisione scelta dal Presidente, che consideravo molto difficile.

Avvicinai il Dr. Felice CROSTA, Consigliere del Presidente, nel suo ufficio e, continuando a commentarne la disposizione, ne lodai il coraggio dicendo: - "ha scelto la via giusta. Era inutile proseguire un'azione strettamente amministrativa; su questo piano, al di là delle mie proposte non si può andare: occorre la volontà di autotutela del Comune. Se il Presidente vuole andare più in fondo, non deve fare altro che prendere il telefono e chiamare il Procuratore Generale o il Questore..."

Il Dr. CROSTA mi guardò con intenzione e disse, assentendo: - "Ma io credo che..." e chinava la testa lasciandomi capire che il Presidente lo avesse già fatto o intendesse farlo. Non ho approfondito: ancora oggi ignoro se il Presidente abbia interessato organi qualificati, ufficialmente o confidenzialmente, per indagini sugli appaltatori di natura diversa da quella amministrativa. E' vero che ne chiesi poi notizie alla Dott.ssa TRIZZINO, ma questa mi rispose di non esserne al corrente, aggiungendo che per questo genere di affari il Presidente si avvaleva della collaborazione del Dr. CROSTA.

Il successivo 30 novembre, due giorni dopo, rividi il Presidente. Ero andato a chiedere alla Dott.ssa TRIZZINO, che però mi disse che non aveva avuto occasione di informarsene, notizie sull'incontro del Presidente col Sindaco MANTIONE. Anche in quell'occasione, il Presidente giunse all'improvviso nell'ufficio di Gabinetto, di passaggio verso una riunione che era già in corso al piano terreno.

Lo accompagnai per chiedergli notizie "di prima mano" sul suo colloquio col Sindaco. Mi rispose che era andato "benissimo":

- "MANTIONE Li una persona seria. Mi ha garantito che rifaranno la gara d'appalto".

- "Sono contento - gli dissi - è la soluzione migliore per tutti. Avevo il timore che al Comune non fossero in condizione di tirarsi indietro, pur con tutta la buona volontà. Potevano avere degli impegni... e non riuscire a svincolarsi".

Mi rispose: - "Non ci sono problemi. Faranno una delibera di revoca, anziché di annullamento. E' giusto che salvino la faccia. Gli ho persino suggerito la motivazione: poiché siamo in presenza di una sola offerta; considerato l'interesse del Comune ad avere una possibilità di scelta fra una pluralità di progetti, ecc.".

Aggiunse anche: - "Il problema è chiuso. Ora possiamo rientrare..."

Capii che si riferiva all'ispezione e gli chiesi: - "Benissimo, Presidente - e, mentre mi salutava ai piedi dello scalone, aggiunsi: "Lei può essere soddisfatto: ha raggiunto il risultato di rimettere le cose a posto". Ricordo che successivamente, subito dopo la morte del Presidente MATTARELLA, quanto avevo appreso da lui circa i suoi colloqui col Sindaco MANTIONE mi è tornato dolorosamente alla memoria, perché il Presidente non era arrivato a coronare il suo intendimento poiché, infatti, gli impegni che egli mi diceva essere stati assunti dal Sindaco riguardo agli appalti scolastici non si erano ancora verificati.

Come ho già detto, il Comune di Palermo, dalla data dei primi esposti (luglio '79) che denunziavano pretese irregolarità nello svolgimento delle gare di appalto, per tutta la durata dell'ispezione, fino alla data della morte del Presidente MATTARELLA, ha mantenuto il silenzio sull'intera vicenda sia dal punto di vista della emanazione di atti deliberativi, sia da quello della corrispondenza con la Regione" (cfr. Fot. 614927 Vol. II). Si è riportato quasi interamente il promemoria del Dr. MIGNOSI, perché esso bene esprime la tensione e la sensazione di poricolo che quell'incarico ispettivo determinò non solo nel funzionario ma, quel che più conta, nello stesso Presidente della 577-, Regione, come Li stato confermato - secondo quanto si Li visto all'inizio di questo capitolo - dalla Sig.ra TRIZZINO, dall'On. Sergio MATTARELLA e dallo stesso Dr. CROSTA, il quale riferiva alla Squadra Mobile di essere stato presente ad` un colloquio tra il Presidente ed il Dr. MIGNOSI.

Il CROSTA precisava che, nel corso di questo, «il MIGNOSI aveva fatto rilevare che a séguito della sua ispezione, si sarebbero potuto verificare "reazioni"» e l'On. MATTARELLA aveva risposto che «se ci fossero state reazioni, a tali reazioni sarebbe stato interessato lui e non certo l'ispettore». E' peraltro da aggiungere che il Dr. CROSTA ha aggiunto che «in tale occasione il Presidente MATTARELLA aveva detto che comunque il problema si poteva considerare ormai superato, giacché se non ricordo male, nella stessa mattinata aveva avuto un colloquio nel suo ufficio con il Sindaco e con l'Assessore LORELLO, i quali gli avevano assicurato che avrebbero senz'altro proceduto al rinnovo di tutta la procedura relativa all'aggiudicazione degli appalti» (Fot. 615492, Vol. III). L'importanza attribuita alla questione dal Presidente MATTARELLA appare palese da tutto quanto precede. Va sottolineato in questa sede, rimandando ad un approfondimento successivo, che nella vicenda l'azione dell'on. MATTARELLA fu pressante, nuova nelle forme giuridiche adottate e sembrò addirittura - allo stesso dott. MIGNOSI - motivata in un primo tempo da "interessi politici". Pertanto, il tasso di esposizione del Presidente MATTARELLA fu elevato, se è vero (come è vero) che per tale iniziativa spesso, sia lui sia il MIGNOSI, ebbero a pensare - ancorché tra il serio ed il faceto - di potere "finire nel cemento". E, peraltro, si deve osservare che, ancora di recente, anche il Prof. Leoluca ORLANDO CASCIO, già stretto collaboratore del Presidente MATTARELLA e poi Sindaco della città' di Palermo dal 1985 41 1990, ha sottolineato l'importanza della «attenzione, anche amministrativa, (da parte del Presidente assassinato) per la vita comunale palermitana», rilevando che fu «certamente di grande rilievo simbolico l'ispezione disposta sugli appalti per la costruzione di alcune scuole».

Il Prof. ORLANDO ha poi aggiunto che: «tali scelte furono rese possibili tanto per la particolare ampia maggioranza che sosteneva il primo governo MATTARELLA, quanto per la stessa determinazione ed autorevolezza del Presidente».

Ha sottolineato, infine, che: «Il Comune di Palermo. prima di MATTARELLA, appariva politicamente una zona "off limits", egemonizzata da un "comitato di affari" che vedeva nei CASSINA, nei VASSALLO ed in altri imprenditori l'espressione economica e che vedeva in CIANCIMINO e nei suoi amici (dentro e fuori la D.C.) espressioni politiche». (29.5.1990, Vol. LXIX, Fot. 919394).

Appare doveroso osservare, a proposito dell'incidenza dell'intervento personale del Presidente MATTARELLA, che una ispezione ordinaria - disposta dall'Assessorato Regionale Enti Locali nei confronti del Comune di Palermo sui tema degli appalti in data 7.12.1979 - alla data del 7 maggio 1981, per difficoltà burocratiche di varia natura, non era stata ancora completata ed anzi doveva avere ancora effettivo inizio (cfr. dichiarazioni di LO FRANCO, DI VITA e MIGLIACCIO (Fott. 617239, 617243, 617270, Vol. IX). Alla vicenda relativa all'indagine sulle sei scuole, memoria difensiva della p.c. PCI-PDS del 30.5.1991 dedica una parte, in cui - rifacendosi peraltro agli atti del processo per l'omicidio del Procuratore della Repubblica dott. COSTA - lamenta che certe indagini delegate dal P.M. alla G. di F. il 14.7.1980 non vennero più espletate, di fatto, dopo la morte del compianto Magistrato. Al riguardo, non potendosi assolutamente entrare, in questa sede, nel merito di altro processo, giova solo precisare che - dagli atti di questo processo - emerge che 1' istruttoria sommaria fu condotta esclusivamente dal P.M. dott. Pietro GRASSO (ovviamente, in un ufficio gerarchicamente organizzato, con l'intesa di massima col Procuratore capo). Inoltre, l'importanza fondamentale attribuita a quell'indagine, su cui l'organo di p.g. delegato ebbe a riferire con rapporto definitivo del 28.3.1981, appare obbiettivamente sovradimensionata per due motivi logici:

1) il dott. GRASSO continuò a seguire l'istruttoria, anche dopo la formalizzazione, ed essa rimase nelle mani del Cons. Istr. CHINNICI (che, si assume nella stessa memoria, aveva avuto frequenti contatti col Proc. COSTA) per circa tre anni, di talché se il dott. CHINNICI avesse pensato che la stessa era fondamentale per le indagini, non avrebbe omesso di perseguirla con tutti i mezzi (invero notevoli) di cui era capace;

2) l'indagine, secondo quello che si è detto, portava in rotta di collisione l'azione dell'on. MATTARELLA con interessi mafiosi e questo, come diffusamente chiarito nel presente: provvedimento emerge pacificamente, onde non si vede sotto un profilo eminentemente probatorio - quale ulteriore contributo al processo sarebbe potuto venire da quegli asseriti accertamenti "inevasi", atteso che (si dirà chiaramente in prosieguo) in "Cosa Nostra" l'esistenza di un «problema MATTARELLA è pacifico, tanto che il BONTATE (cui il "gruppo INZERILLO" delle sei scuole era notoriamente vicino) aveva certamente dato il suo assenso di massima - come lo stesso INZERILLO - alla risoluzione del «problema», nei termini che appresso saranno dettagliatamente chiariti.

Vito Ciancimino e gli altri. La Repubblica il 14 gennaio 2020. Parzialmente diversa è stata, invece, la lettura degli avvenimenti fatta da CIANCIMINO Vito, il quale, in una dichiarazione resa al G.I. il 7 luglio 1990, ha affermato (loc. cit.): "Vero è che fino al periodo precedente le elezioni amministrative del 1975 io ero consigliere comunale D.C. di Palermo e capo gruppo consiliare, militando all'interno della corrente di maggioranza "fanfaniana", facente capo all'On. Giovanni GIOIA. In prossimità di quelle elezioni, il partito decise di non ricandidare più coloro che avessero già fatto tre o più consiliature, tra cui vi ero io, che ne avevo fatte quattro. Considerato che non condividevo tale forma di rinnovamento in sede locale, al quale non seguiva un analogo rinnovamento in sede nazionale, manifestai apertamente la mia opposizione. Di tal che nelle elezioni del 1975 presi le distanze da tutte le altre correnti della D.C. e feci eleggere (o meglio contribuii a fare eleggere) 7 consiglieri comunali, mettendo in crisi la maggioranza fino ad allora detenuta dall'On. GIOIA. Questa mia dissidenza aperta portò alla crisi della Giunta MARCHELLO, eletta subito dopo le consultazioni del 1975, e determinò, seppure indirettamente, quella Giunta SCOMA, appoggiata da tutte le componenti D.C. ad eccezione di quelle dell'On. GIOIA e mia. Tale dissidenza ebbe termine nel novembre 1976, esattamente il 6, a seguito di un incontro da me avuto a Palazzo Chigi con l'On. ANDREOTTI, alla presenza dell'On. LIMA, di Mario D'ACQUISTO e dell'On. Giovanni MATTA. Tale riunione era stata preceduta da una presa di contatto verso di me dell'On. MATTA, il quale, ovviamente, era solo il "nuncius" delle volontà di LIMA, di D'ACQUISTO e dello stesso ANDREOTTI. In effetti, io avevo in precedenza rifiutato un incontro con l'On. LIMA, nel senso non di non volerlo incontrare fisicamente poiché questo avveniva di frequente, ma nel senso che non avrei potuto "quagliare" alcunché di politicamente solido con lui in ordine ai motivi della mia dissidenza, giacché non lo ritenevo politicamente affidabile. Egli, infatti, era colui che - a mio avviso - a pochi giorni dalle elezioni politiche del 1968, aveva rotto un patto con l'On. GIOIA, creando grossi scompensi all'interno della corrente in cui tutti noi allora militavamo. Pertanto, accettai l'incontro con l'On. ANDREOTTI (allora - tra l'altro - Presidente del Consiglio), in quanto l'ho sempre ritenuto affidabile e tale mio giudizio, anche in quella occasione, era stato condiviso dall'On. Nino GULLOTTI, al quale avevo parlato della proposta d'incontro, persona con la quale ho sempre avuto rapporti estremamente franchi anche se talora divergenti sul piano politico. Come detto, in esito a tale incontro, la mia dissidenza sul piano locale cessò e ve ne è prova per il fatto che, nei giorni immediatamente successivi, un mio compagno di corrente, il Dott. Francesco ABBATE, su indicazione del mio gruppo, entrò a fare parte della Giunta provinciale di Palermo. A livello comunale, viceversa, il mio gruppo espresse degli assessori, esattamente due, solo dopo circa un anno (nel c.d. monocolore SCOMA della fine del 1977), in quanto dopo l'incontro con ANDREOTTI rifiutai - per questione di stile politico - di accettare la proposta dell'On. LIMA di sostituire con due miei compagni di corrente gli assessori repubblicani".

In sostanza, il CIANCIMINO cercava di minimizzare il significato del cambio di maggioranza all'interno della D.C., culminato nella formazione della Giunta SCOMA e nella elezione di REINA Michele alla Segreteria Provinciale, sottolineando l'unanimità presto ricomposta nel partito con l'adesione alla maggioranza del suo gruppo e di quello che faceva capo all'On. GIOIA. Si deve però osservare, in proposito, che (a prescindere dalla reale portata dell'incontro con l'On. ANDREOTTI - che, secondo l'On. LIMA, fu «un normale incontro politico, volto a raggiungere una pacificazione generale a Palermo, dato che anche l'On. GIOIA aveva dato il suo consenso a questa nuova stagione politica», mentre «la versione datane dal CIANCIMINO è nettamente enfatizzata per la parte che lo riguarda») dalle altre testimonianze acquisite agli atti è risultato chiaramente che l'adesione delle correnti "GIOIA" e "CIANCIMINO" alla maggioranza aveva solo un significato di "accordo tattico", mentre permanevano i contrasti di fondo sulla linea politica.

Questo è ben esplicitato dall'On. GORGONE, che ad esempio ha fatto notare che (loc. cit.): "Vero è che al congresso provinciale del 1977 il REINA venne riconfermato all'unanimità. Questo, però, non significava che i dissensi di linea politica tra le varie componenti erano spariti, ma solo che si era trovato un momento di accordo, forse occasionato anche dalla volontà dell'On. GIOIA di non continuare le ostilità interne. Taluni definiscono questo atteggiamento come arrendevolezza, la verità però - come qualche anno dopo potè verificarsi - è che l'On. GIOIA forse già covava quel male che poi lo condusse a morte" (il deputato decederà, infatti, per un tumore il 26.11.1981: N.D.R.). Pure l'On. PURPURA ribadiva che «anche la corrente dell'On. GIOIA e di Vito CIANCIMINO finirono con confluire in questa gestione politica nuova, seppure a livello semplicemente formale, in quanto permanevano le ragioni politiche di fondo da loro sempre sostenute».

In questo senso, una ulteriore conferma veniva dalle dichiarazioni dell'On. Nino MANNINO, a quel tempo segretario provinciale del P.C.I. e poi componente della Commissione Parlamentare Antimafia, il quale affermava, in data 28.6.1990 (loc. cit.): «Vero è che tra la prima e la seconda sindacatura di Carmelo SCOMA vi fu un ritorno nell'area della maggioranza interna della D.C. sia dei "fanfaniani" che dei "Cianciminiani". Ricordo di aver parlato di ciò, in termini preoccupati, sia con REINA sia con NICOLETTI, minacciando di ritirare l'appoggio programmatico del P.C.I. Essi mi risposero però che se il P.C.I. avesse fatto ciò, avrebbe lasciato sola quella parte della D.C. che voleva un rinnovamento della vita politica comunale e regionale a Palermo e in Sicilia. Fu per questo che il P.C.I. continuò, se pure per pochi mesi ancora, a mantenere aperto il dialogo con l'intera D.C.L1. In sostanza, dal complesso di tutte le dichiarazioni acquisite agli atti (alle quali si rinvia per 1'aspetto particolare della posizione delle diverse Giunte Comunali sul problema del c.d. "risanamento del centro storico"), emerge l'importanza - per gli equilibri politici della città di Palermo e dell'intera regione - del cambio di alleanze e di maggioranze, all'interno della D.C., che ebbe luogo negli anni 1975/76. Ed invero, fino a quella data, la corrente "fanfaniana" che faceva capo all'On. GIOIA, con l'appoggio dei gruppi di CIANCIMINO Vito, di Bernardo e - poi - di Piersanti MATTARELLA, nonché dei "dorotei", pur nella chiara diversità di apporti e di caratteristiche, aveva goduto di una pressoché totale egemonia all'interno del partito e, conseguentemente, anche nel governo della città, mantenuto grazie alla costante alleanza con il P.R.I. e con il P.S.D.I. Secondo il contributo ultimo dell'on. Sergio MATTARELLA (17.12.1990), tuttavia, la scelta politica di Piersanti – in favore dell'on. GIOIA (e di CIANCIMINO) - trovò giustificazione "strategica" nella valutazione (poi rivelatasi errata) che il GIOIA garantisse alle "minoranze" interne maggiore spazio di quello che avrebbe lasciato loro la corrente dell'on. LIMA. Questa posizione politica egemone era stata, quindi, caratterizzata da una netta contrapposizione - all'esterno del partito - con il P.C.I. e il. P.S.I. e, all'interno, da violenti scontri con le minoranze, facenti capo agli "andreottiani" dell'On. LIMA, all'On. NICOLETTI e all'area vicina alla CISL. Esempio importante di questi scontri è il c.d. "manifesto dei 12" del 17 novembre 1970, in cui alcuni esponenti della minoranza (NICOLETTI, AVELLONE, BONANNO, REINA, BRANDALEONE, BRUNO e PURPURA) si rivolgevano al dirigente organizzativo centrale della D.C., On. Oscar Luigi SCALFARO, per formulare pesantissime critiche, sulla situazione palermitana, non solo sul piano della linea politica ma anche del rispetto delle regole della vita di partito (tesseramenti fantasma ed altro). Il tutto contro la maggioranza di allora e per essa - emblematicamente - contro il CIANCIMINO, a quell'epoca sindaco della città (seppure solo dall'ottobre 1970 all'aprile 1971, quando fu costretto a dimettersi per le pressioni politiche rivolte da molti nei suoi confronti).

Va detto che, se pure negli anni fino al 1975 talune di queste minoranze entrarono a far parte delle giunte presiedute da Giacomo MARCHELLO (espressione dell'on. GIOIA), questo non significò cessazione dell'opposizione, ma soltanto dimostrazione di quella "flessibilità" tattica - tipica delle correnti D.C. - di cui hanno efficacemente parlato l'on. GORGONE e l'on. PURPURA. Dopo il 1975/76, invece, in coincidenza anche con i nuovi rapporti tra i partiti che stavano maturando a livello nazionale con i governi di "solidarietà nazionale", vi fu - come si è visto - un ribaltamento della situazione anche a Palermo. Questo fu determinato, peraltro, proprio dal passaggio della corrente "morotea" di Piersanti MATTARELLA e di quella "dorotea" all'alleanza con i gruppi degli On. LIMA, GULLOTTI e NICOLETTI e dell'area CISL (AVELLONE, D'ANTONI), che mise in minoranza la corrente dell'on. GIOIA (proprio in quei mesi abbandonato anche dal CIANCIMINO). E - inevitabilmente - la nuova maggioranza, ispirata dal gruppo "andreottiano" dell'on. LIMA, non poteva non assumere una posizione di apertura e collaborazione con i partiti della sinistra, sia per rispecchiare la linea nazionale sia per diminuire il peso dell'ancor forte opposizione interna dell'on. GIOIA. In questa chiave, ed in questo quadro complessivo, vanno quindi visti la nomina di Michele REINA alla Segreteria provinciale della D.C. e l'elezione di Piersanti MATTARELLA alla Presidenza della Regione. In altri termini, essendo cessata all'interno della D.C. palermitana l'egemonia di una sola corrente, l'area della maggioranza (seppur con la prevalente partecipazione della corrente "andreottiana" dell'on. LIMA) era divenuta composita. Questa circostanza nuova, unita al fatto che vi era l'appoggio (interno ed esterno) da parte dei partiti di sinistra fece sì che l'esponente di un gruppo - come il rappresentativo di una piccola frangia della D.C. (circa il 10%), potè divenire - per il proprio "peso" personale - Presidente della Regione, in quanto espressione di una larga coalizione.

La ricostruzione fin qui effettuata ha trovato sostanziale conferma anche nelle dichiarazioni rese, da ultimo in data 17.12.1990, dall'On. Sergio MATTARELLA (loc. cit.): "Vero è che nel 1968 vi fu una spaccatura tra l'On. LIMA e l'On GIOIA, che prima militavano all'interno della stessa corrente fanfaniana. Sento di precisare, però, che il rapporto fra i due non divenne di contrasto, ma che essi passarono da una fase collaborativa ad una fase concorrenziale sempre però all'interno del sistema di guida e controllo della vita amministrativa della città e della Provincia di Palermo. Questo è tanto vero che uno dei due gruppi esprimeva il sindaco e l'altro il Presidente della Provincia. In questo passaggio politico si inserì, a cavallo del 1970, la necessità di scegliere - per i gruppi minori della D.C. provinciale, tra cui quello di mio fratello Piersanti - tra LIMA e GIOIA al momento dell'elezione a sindaco di Vito CIANCIMINO o meglio tale necessità si era già posta per l'elezione degli organismi provinciali del partito nel 1968. La scelta fu in favore di GIOIA in quanto si ritenne che egli avrebbe "compresso" meno i gruppi minori ed anche perché la persona da lui indicata come candidato alla Segreteria, l'On. Giacomo MURATORE, veniva ritenuta molto equilibrata. Altro motivo della scelta di GIOIA fu quello relativo alla vicinanza tra l'On. LIMA e gli esattori SALVO, ritenuta estremamente imbarazzante in sé ed anche perché questi ultimi negli anni precedenti avevano fortemente contribuito ad interrompere l'esperienza positiva dell'On. Giuseppe D'ANGELO, quale Presidente della Regione. Questa scelta operata nel 1968 comportò, come logica conseguenza, l'appoggio alla scelta della maggioranza fanfaniana in favore di Vito CIANCIMINO quale sindaco di Palermo. Che quest'ultima scelta del gruppetto moroteo fosse legata a quella fatta nel 1968 mi pare dimostrato anche dal fatto che, all'indomani dell'elezione del CIANCIMINO, mio fratello Piersanti, unitamente all'On. RUFFINI (doroteo), altro esponente della maggioranza interna alla D.C. palermitana, fecero una dichiarazione con la quale invitavano il partito a riesaminare la situazione complessiva. Dopo alcuni anni di questa esperienza di maggioranza con "fanfaniani" (anche se i "morotei" erano solo due su quarantadue), Piersanti si rese conto che, nel concreto, le aspettative che aveva nutrito sull'On. GIOIA, soprattutto in tema di democrazia interna e di rispetto dei gruppi minori, erano infondate o meglio si erano progressivamente vanificate. Pertanto, soprattutto per i motivi politici che di seguito indicherò, nel 1976 contribuì a quel rinnovamento della D.C. palermitana, che vide Michele REINA come Segretario Provinciale e Carmelo SCOMA quale sindaco di Palermo. Il contributo del gruppetto moroteo (divenuto di 3 componenti su 42) finì con l'essere determinante, al pari degli altri gruppi minori, in quanto tutti questi facevano da ago della bilancia tra i due gruppi maggiori dell'On. GIOIA e dell'On. LIMA, mentre il gruppo del CIANCIMINO era su posizioni "aventiniane". I motivi del rinnovamento possono sintetizzarsi nella volontà di far corrispondere a Palermo quella sintonia tra l'On. MORO e l'On. ANDREOTTI, che aveva portato a Roma ad un governo caratterizzato dalla astensione del P.C.I. e, quindi, da una crescente attenzione della D.C. verso rapporti con questo partito fortemente osteggiata dalla corrente dell'On. FANFANI. Questa linea politica si stava manifestando anche alla Regione, col governo BONFIGLIO, attraverso forme di accordo programmatico col P.C.I. evidenziate già alla fine del 1975 col c.d. "patto di fine legislatura". Ma l'On. MATTARELLA ha, in questa occasione, voluto sottolineare altresì il ben diverso "peso" e la ben diversa importanza del ruolo svolto dal Presidente assassinato nell'ambito comunale ed in quello regionale.

Sostanzialmente marginale nel primo caso, di primo piano e addirittura decisivo nel secondo: "In questa linea politica era cruciale sul piano regionale il ruolo di Piersanti MATTARELLA sia per la crescente affermazione della sua personalità sia per i rapporti che egli, più degli altri esponenti del partito, intratteneva con i comunisti siciliani. Per Piersanti questa attenzione verso il P.C.I. doveva rappresentare insieme una sponda essenziale per nuovi indirizzi politici e una condizione utile per spingere sia il partito nel suo complesso sia l'intero sistema politico regionale a comportamenti politici ed amministrativi diversi dal passato e più coerenti con la posizione di rinnovamento. Tengo, peraltro, a fare presente che il gruppo moroteo siciliano ha sempre avuto un forte senso della propria autonomia ed identità propria nell'ambito del partito e, quindi, anche di diversità rispetto a tutte le altre componenti. Anche coerentemente a questo atteggiamento, il gruppo - sul piano comunale - non esitò a mantenere e quasi a sottolineare una posizione marginale all'interno della nuova maggioranza costituitasi nel 1976. Tutto ciò si concretizzò in un atteggiamento verso l'operato delle giunte comunali che pure il gruppo sosteneva e della stessa segreteria del partito che io definirei "di vigilanza" e di "attenzione critica". Si concretizzò, pure, nel rifiuto di assumere posizioni di vertice in due precise occasioni e cioè quando fu proposta la candidatura a sindaco della dr. AMBROSINI (fine 1977, dopo la prima giunta SCOMA) e quando fu proposta la candidatura del Prof. GIULIANA a Segretario provinciale, dopo la morte di Michele REINA.

In entrambi i casi gli interessati rifiutarono con l'approvazione di Piersanti MATTARELLA. Le SS.VV. mi chiedono di precisare nuovamente quale fosse la posizione di mio fratello Piersanti all'inizio del 1980 e in particolare se la lunga crisi del governo segnasse un suo momento di debolezza. In realtà, ribadisco che era assolutamente pacifico che mio fratello avrebbe presieduto anche il nuovo governo regionale e che egli vedeva la sua forza politica, secondo l'opinione generale, ancora in fase crescente sia in virtù dei suoi rapporti con i partiti della sinistra sia per il sistema di alleanze esistente tra i vari gruppi della D.C. Elemento ancor più decisivo forse erano i rapporti esistenti con mio fratello a livello nazionale del partito e in questo senso devo aggiungere che all'inizio del 1980 era convinzione generale che il Congresso Nazionale della D.C. previsto per il mese di febbraio, si sarebbe concluso - come già ho detto - con una maggioranza tra centro e sinistra, che avrebbe portato a riallacciare in tutte le sedi, almeno come linea di tendenza, il dialogo con il P.C.I.

E' chiaro che in questo quadro il ruolo di mio fratello era destinato a crescere ulteriormente. Invece il Congresso si concluse in modo del tutto diverso su una linea di chiusura al P.C.I., con la sconfitta della sinistra, ma questo esito maturò - contro ogni previsione - proprio e soltanto durante i giorni del Congresso". Peraltro è chiaro che tra i due livelli di azione politica e amministrativa, quello comunale e quello regionale, vi erano (e non potevano non esservi) molteplici interferenze; anche di questo vi sono significative conferme nelle più recenti dichiarazioni dell'On. MATTARELLA: "Dopo le riflessioni di questi giorni, ho ricordato due fatti che possono avere rilievo e che quindi intendo riferire. Il primo è che verso la fine del 1979 e precisamente tra la fine di novembre ed i primi di dicembre, mio fratello, parlò ai suoi più intimi collaboratori (Francesco GIULIANA, Andrea ZANGARA e Salvatore SAITTA) del suo programma di farli dimettere dal comitato provinciale del partito e di concludere la crisi che ne avrebbe seguito con il commissariamento del partito stesso. Devo dire che di questo programma (di cui mio fratello parlò anche con me) egli aveva parlato anche con la segreteria nazionale del partito, allora retta dall'On. ZACCAGNINI, ma che tuttavia tale programma doveva essere avviato ad esecuzione solo dopo il Congresso nazionale del partito, previsto per il febbraio 1980, se da tale congresso (come era previsto ma come non avvenne) fosse risultata, una maggioranza tra il centro e la sinistra del partito con la segreteria, verosimilmente, ad un esponente della sinistra. Il secondo fatto, che non mi risulta personalmente, ma mi è stato riferito dal Prof. GIULIANA, è che nel 1979 Vito CIANCIMINO fece in direzione provinciale della D.C. un duro attacco al governo regionale, presieduto da mio fratello, accusandolo di insensibilità ai problemi della città di Palermo. L'attacco traeva in realtà origine, secondo l'opinione comune, dalla mancata concessione di un finanziamento di alcuni miliardi all'AMAP di Palermo". Quest'ultima circostanza è stata poi confermata anche dall'On. GIULIANA, il quale ha altresì precisato che, al di là dell'episodio specifico del finanziamento di alcuni miliardi negato all'AMAP (di cui era Presidente, a quel tempo, un cugino dello stesso CIANCIMINO), egli attribuì alla presa di posizione del CIANCIMINO un significato politico di "chiara avversione nei confronti di Piersanti MATTARELLA".

Il quale peraltro, "non attribuì peso a tale attacco giacché non ne vedeva la refluenza sulla politica regionale".

Voleva una Regione con “le carte in regola”. La Repubblica il 15 gennaio 2020. Gioacchino Natoli, il giudice che il 9 giugno 1991 ha depositato l'ordinanza sui "delitti politici” Reina, La Torre e Mattarella. Come si è evidenziato in altra parte, nell'ambito dell'attività istruttoria sono stati assunti in esame i familiari e i collaboratori dell'uomo politico assassinato, i funzionari e gli assessori in carica nel gennaio 1980 nonché numerosi esponenti politici di tutti i partiti. Giova precisare, in termini generali, che il primo governo regionale presieduto dall'on. MATTARELLA fu eletto il 21 marzo 1978, ottenne la fiducia il 5 aprile successivo e si dimise 1'8 marzo 1979. Il suo secondo governo venne eletto il 15 marzo 1979, ottenne la fiducia dall'A.R.S. il 27 marzo seguente ed il 10 10 dicembre 1979 entrò in crisi, per cui al momento dell'uccisione l'on. MATTARELLA era in carica solo per l'"ordinaria amministrazione". In venti mesi di attività, le giunte regionali dirette dall'esponente politico D.C. presentarono all'Assemblea Regionale n. 110 disegni di legge, di cui ben 78 divennero leggi regionali, oltre ad altri 14 disegni che i "gabinetti" MATTARELLA ereditarono dal precedente governo dell'on. Angelo BONFIGLIO fecero approvare dall'A.R.S. Di tutto questo ponderoso carico legislativo, per come si è visto, l'unica legge che provocò la necessità di un'esposizione diretta dell'on. MATTARELLA (oltreché dell'on. FASINO) fu quella urbanistica (n. 71/78), di cui s'è ampiamente parlato. Ritornando alle dichiarazioni sopra riportate, sono emersi - in primo luogo - il rigore morale e la correttezza del Presidente MATTARELLA nonché il suo sforzo continuo, spinto fino alla cura di particolari apparentemente irrilevanti, per ottenere dall'amministrazione regionale un'azione efficiente ed imparziale, così da presentare la Regione Siciliana «con le carte in regola» nel confronto con lo Stato e con tutte le Regioni sui temi decisivi dello sviluppo civile. Basti qui ricordare soltanto alcune delle testimonianze acquisite agli atti processuali:

«L'On. MATTARELLA era un uomo serio, onesto e corretto, aperto alle spinte sociali di rinnovamento e un convinto meridionalista...» (RUSSO Michelangelo al P.M., 16.1.80, Fot. 614831, Vol. I):

«Il Presidente MATTARELLA era- fortemente interessato alla realizzazione dell'attività di programmazione...» (EPIFANIO Giovanni al P.M., Fot. 614825, Vol. I):

«Voleva dare l'immagine di un'amministrazione funzionale, operativa ed efficiente... Concepiva l'ufficio come un servizio al cittadino e dava l'esempio lavorando alacremente ed osservando per primo l'orario di ufficio. In genere non avuto richiesta da parte sua di trasferimenti o di distacchi di personale...» (SANFILIPPO Emilio al P.M., 16.1.80, f. 161, Vol. I).

«Il Presidente MATTARELLA, sui problemi di una certa rilevanza aveva l'abitudine di convocare tutti i direttori regionali per conoscere la loro opinione tecnico-burocratica sull'argomento. Tali ispezioni avvenivano senza la presenza degli assessori. Egli si faceva la propria idea e poi, allorché se ne parlava in giunta, poteva controbattere con elementi di fatto le tesi sostenute dai singoli assessori, i quali nelle loro valutazioni potevano essere influenzati dal lato politico, dando valutazioni diverse» (ALEPPO Giuseppe al P.M., 17.1.80, f. 205, Vol. I).

«L'azione politico-amministrativa del Presidente MATTARELLA e dei suoi governi si manifestò anche nella vita regionale. Basti, fra tutti, ricordare l'approvazione della legge 1/79 che realizzò in dimensione economica-finanziaria assai consistente una drastica riduzione della capacità di spesa degli assessori regionali con un ingente trasferimento di competenza ai comuni dell'isola; e basti altresì ricordare l'attenzione del Presidente MATTARELLA al settore degli appalti pubblici regionali» (ORLANDO Leoluca al G.I., 29.5.90, Vol. LXIX, Fot. 919394).

«L'On. MATTARELLA era un uomo estremamente onesto ed intransigente e considerava la sua carica come "un servizio". Arrivava in ufficio intorno alle 8 e dopo un intervallo molto breve per i pasti ritornava in ufficio, ove restava fino a sera inoltrata. Tanto per citare alcuni esempi che ne caratterizzano la dirittura morale, posso dire che distingueva in maniera precisa le funzioni espletate come personale di Gabinetto da quelle ricoperte come collaboratori politici sul piano personale...Inoltre usava in maniera rigorosa la macchina d'ufficio a sua disposizione, usando la macchina personale allorché non svolgeva mansioni inerenti alla carica... Questi suoi principi riportati pienamente nel suo lavoro costituivano un impegno continuo nel fare funzionare con la massima efficienza ed operatività la burocrazia regionale da sempre tacciata di un certo immobilismo. Ricordo che l'ultimo giorno dell'anno ci trovammo insieme da soli alla Presidenza per le scale ed io gli dissi: "siamo soli, in questo momento ci potrebbero ammazzare". Egli mi rispose "Ma perché ci dovrebbero ammazzare, facciamo il nostro dovere ed abbiamo la coscienza a posto"» (FAVAZZA Gaetano al P.M., 12.1.80, Fot. 614770, Vol. I).

«Il Presidente MATTARELLA diede all'Amministrazione Regionale la giusta dimensione inquadrandola nello spirito dello Statuto Regionale; e ciò nel senso di responsabilizzare al massimo sia gli assessori sia i funzionari. E fu in tale ottica e in tale prospettiva che venne emanata la legge regionale n. 2 del 1978 che, nell'intento di dare maggiore efficienza alla amministrazione, stabilì il principio della responsabilità collegiale della giunta di governo eliminando così clientelismo e sperequazioni. A D.R. Nei giorni che precedettero la sua uccisione il Presidente non appariva turbato in modo particolare. Egli non mi parlò mai di minacce ricevute per telefono a casa o in ufficio» (TRIZZINO Maria Grazia al G.I., 14.1.81, Vol. IX, Fot. 617035).

«E' stato colpito un politico serio, integro, impegnato e coerente» (NICOLETTI Rosario al P.M., 14.1.80, Fot. 614791, Vol. I).

«Il Presidente MATTARELLA aveva accentuato la tendenza alla collegialità nel senso che tutti i programmi che comportavano impegni di spesa di una certa rilevanza venivano valutati in sede di proposta della Giunta e inviati per il parere alle competenti commissioni legislative che sono formate proporzionalmente da tutti i partiti. Infine si arrivava alla deliberazione della Giunta, per cui i singoli assessorati in pratica sono stati privati, in parte, di quell'ampia discrezionalità nella scelta delle spese che prima caratterizzava la loro attività. Non può tralasciarsi lo spirito altamente innovativo di tali procedure che in pratica facevano partecipare il potere legislativo, seppur sotto forma di suggerimenti e di pareri, all'attività esecutiva. L'attività di coordinamento del Presidente MATTARELLA era caratterizzata da una estrema diligenza, nel senso che seguiva personalmente o tramite l'ufficio di Gabinetto le singole pratiche per cui gli pervenivano segnalazioni. Il Presidente MATTARELLA nell'ambito dell'amministrazione regionale portava avanti un discorso sulla moralizzazione e sulla efficienza dell'attività amministrativa regionale. Per esempio nell'ambito del mio assessorato sono state disposte in molti comuni tra cui anche quello di Palermo delle ispezioni straordinarie e si è proceduto anche alla nomina di commissari "ad acta" per il compimento di atti dovuti e non compiuti dalle amministrazioni locali» (TRINCANATO Gaetano al P.M., 15.1,80, Fot. 614816, Vol. I).

«Il Presidente durante la sua gestione aveva dato un impulso diverso alla funzione presidenziale nel senso che cercava di ottenere il massimo dell'efficienza e della operatività. Inoltre voleva che cambiasse sia nell'ambito nazionale che straniero la considerazione di una Sicilia "non con le carte in regola". Tutta la sua attività era rivolta con spirito di intransigenza a tali scopi...» (BUTERA Salvatore al P.M., 11.1.80, Fot. 614742, Vol. I).

Le risultanze istruttorie su questo punto sono poi confermate dalle dichiarazioni dei diretti collaboratori del Presidente assassinato (LA PLACA, CARBONE, BUTERA, FAVAZZA), che hanno sottolineato, altresì, nelle loro dichiarazioni che: «l'elettorato del Presidente MATTARELLA era costituito prevalentemente da giovani provenienti dall'Azione Cattolica o comunque di estrazione cattolica» (LA PLACA al G.I., Vol. IX, Fot. 617047); ovvero che : «la sua base elettorale era costituita essenzialmente da giovani che lo collaboravano attivamente ed inoltre da professionisti, tra cui i più giovani che avevano collaborato con lui all'università ed i più anziani che erano legati al padre. Inoltre lo appoggiavano un gruppo di intellettuali, cosiddetto "Gruppo Politica", forze sindacali come la CISL ed una larga parte dell'Azione Cattolica della quale era stato dirigente' nazionale» (CARBONE Pietro al P.M., Fot. 614737, Vol. I).

Ma, a questo proposito, interessante è anche la dichiarazione resa, il 20 settembre 1988, dall'avv. Antonino SORGI, noto penalista palermitano (già esponente politico del P.S.I.), che si è - a tal fine - presentato spontaneamente al Giudice Istruttore, ritenendo di adempire in questo modo «un suo preciso dovere civico». L'avv. SORGI riferiva di essere stato nominato suo difensore dal Presidente MATTARELLA, in relazione ad una imputazione (dalla quale venne poi assolto con formula piena) di violazione delle leggi sulla tutela dell'ambiente e che tale nomina lo aveva sorpreso perché in passato egli aveva difeso persone imputate di diffamazione proprio in danno dell'On. Bernardo MATTARELLA, padre di Piersanti. Ciò premesso, il penalista riferiva: "Durante il viaggio da Palermo ad Augusta, parlammo a lungo e potei constatare l'assoluta chiarezza di analisi della situazione siciliana da parte del mio interlocutore, soprattutto per quanto attiene al problema della criminalità mafiosa. Egli, fra l'altro, mi diceva di essere particolarmente soddisfatto perché il suo notevole consenso elettorale aveva radici diverse da quelle del padre, nel senso che, perduta la concentrazione dei consensi nelle zone che tradizionalmente avevano appoggiato suo padre, per contro l'appoggio elettorale nei suoi confronti si era dilatato in tutte le zone in cui egli era candidato. In sostanza, MATTARELLA diceva che la sua azione politica gli aveva alienato le simpatie di ben determinati gruppi clientelari che nel passato avevano appoggiato suo padre ma che, per contro, egli cominciava a riscuotere consensi spontanei da parte dell'elettorato; e tutto ciò egli lo valutava molto positivamente. Infatti, con una diagnosi che io peraltro condivido, MATTARELLA sosteneva che una delle cause principali della forza della mafia in Sicilia andava individuata nel rapporto clientelare tra mafiosi e potere politico che rendeva indissolubili, o comunque molto difficili da sciogliere, certi nodi che frenavano una piena esplicazione dell'azione politica. Per questi motivi, egli mi diceva che era stato sempre favorevole, data la situazione ambientale siciliana, a larghe coalizioni politiche di governo, senza escludere a priori il coinvolgimento anche della estrema sinistra. Ed individuava, altresì, come fattore importantissimo per la recisione di questi legami clientelari la trasparenza nella pubblica amministrazione". Va detto, peraltro, che il giudizio negativo riportato dall'avv. SORGI dal colloquio con Piersanti MATTARELLA, circa l'appoggio elettorale dato da gruppi clientelari all'on. Bernardo MATTARELLA, è stato decisamente contestato dall'on. Sergio MATTARELLA nelle dichiarazioni rese al Giudice Istruttore in data 17.12.1990. Tuttavia, non può ignorarsi che su questo giudizio, concernente ovviamente solo una parte dell'elettorato dell'on. Bernardo MATTARELLA (più volte ministro della Repubblica), esistono anche delle indicazioni in talune pagine delle relazioni delle prime Commissioni Antimafia.

Il “cambio delle alleanze” politiche. La Repubblica il 16 gennaio 2020. Nel corso dell'istruzione, si è cercato di chiarire anche il quadro della situazione politica nella quale si esplicò l'attività di Piersanti MATTARELLA negli ultimi anni di vita. Al momento della morte, invero, l'On. MATTARELLA era in carica, quale Presidente della Regione, soltanto per l'ordinaria amministrazione, a seguito delle dimissioni della Giunta da lui presieduta, provocate dal ritiro dalla fiducia da parte del Partito Socialista Italiano. In precedenza, invece, il primo Governo Regionale presieduto MATTARELLA aveva goduto anche dell’appoggio esterno del Partito Comunista Italiano (c.d. "politica di solidarietà autonomistica") ed era stato proprio il passaggio all'opposizione del P.C.I. che ne aveva determinato, di fatto, la crisi. Nella prima fase delle indagini si tendeva, quindi, a chiarire la linea politica dell'On. MATTARELLA, la posizione all'interno del suo partito ed altresì la reale possibilità che egli si facesse promotore di nuove intese con il P.C.I., nel futuro governo, fino a fare partecipare anche questo partito alla nuova Giunta. Dal complesso delle testimonianze acquisite nel corso del 1980 e del 1981 risultava, in buona sostanza, che l'On.  MATTARELLA, di cui era data praticamente per scontata la rielezione alla Presidenza della Regione, pur sensibile alle "istanze dei ceti popolari" ed attento alle posizioni delle forze politiche e sociali di sinistra, non aveva assunto (né intendeva assumere) alcuna iniziativa per una trattativa con il P.C.I., ai fini della formazione della nuova Giunta di Governo. Ciò, almeno, fino alla elaborazione di una precisa linea politica, anche su tale problema, da parte del Congresso Nazionale della Democrazia Cristiana, già fissato per il febbraio del 1980.

A tale proposito dichiarava, per esempio, in data 11.1.80, l'On. Sergio MATTARELLA (Fot. 614745, Vol. I): "Per quanto riguarda la linea politica di mio fratello, sin dall'inizio della sua attività ha seguito senza tentennamenti la corrente morotea. Egli volle comunque crearsi una propria autonoma posizione politica distinta, non come contenuto ideologico, da quella del padre, ma costituita con le proprie capacità. Anche se non era ammesso da alcuno, nemmeno da mio fratello, appariva scontata la sua nomina a Presidente del nuovo Governo Regionale. Circa la sua ventilata apertura nei confronti dei comunisti, fino alla partecipazione al Governo, debbo dire che in effetti tale decisione non poteva essere presa autonomamente da mio fratello senza prima acquisire delle indicazioni in tal senso dal congresso Nazionale della D.C. Egli era certamente disponibile a tale partecipazione di Governo, ma non lo considerava l'obiettivo essenziale. Mio fratello aveva in animo di passare alla Camera con le prossime elezioni politiche" (previste per il 1984: N.D.R.).

Analogamente, l'On. Mario FASINO dichiarava, in data 14.1.80 (Fot. 614787, Vol. I): "Le dimissioni recenti della Giunta erano state determinate dal ritiro della maggioranza del Partito Socialista e pertanto era stato inevitabile rimettere il mandato. Era comunque impressione comune che l'On. MATTARELLA sarebbe stato rieletto Presidente del, nuovo Governo. Regionale, anche se erano state ventilate altre candidature, come quelle dell'On. D'ACQUISTO e dell'On. NICOLETTI. Devo dire che, almeno con me, era stato molto cauto nel manifestare la convinzione che i tempi fossero maturi per una diretta partecipazione dei comunisti al Governo, comunque ogni decisione in tal senso, per un preciso deliberato dei direttivo Regionale della D.C., era stata rinviata all'esito del Congresso Nazionale della D.C. che si terrà nei primi di febbraio".

Ugualmente, l'On. Rosario NICOLETTI, a quel tempo Segretario regionale della D.C., riferiva in data 14.1.80 (Vol. I, Fot. 614791): "Per quanto concerne la linea politica dell'On. MATTARELLA nell'ambito della sua collocazione nella corrente "morotea", egli ha sempre seguito le linee politiche deliberate dagli organi collegiali del Partito. In particolare, egli non era fautore della proposta di risolvere la crisi regionale mediante la partecipazione dei Comunisti al Governo. Egli si adeguò alla deliberazione espressa all'unanimità della Direzione Regionale della D.C., secondo cui bisognava attendere le indicazioni che sarebbero venute fuori dal Congresso Nazionale del partito, che si dovrà tenere nei primi di febbraio. La D.C. Ei aperta ad una discussione che si Ei sviluppata nella ;fase pre-congressuale e che si svilupperà nella fase congressuale ed anche successivamente, sui modi per risolvere la crisi di assetto politico del Paese a livello centrale ed anche a livello di Governo locale. Nell'ambito di queste discussioni, si muove la linea di solidarietà nazionale rispetto alla quale vi sono varie sfumature ed interpretazioni, che corrispondono alle posizioni di gruppi e correnti del partito".

 Nello stesso senso si esprimeva, del resto, uno dei maggiori esponenti del P.C.I. siciliano, l'On. Michelangelo RUSSO, a quel tempo Presidente dell'Assemblea Regionale (Vol. I, Fot. 614831): "Per quel che mi risulta, l'On. MATTARELLA era un uomo serio, onesto. e corretto, aperto alle spinte sociali di rinnovamento e un convinto meridionalista, consapevole che la soluzione dei problemi del mezzogiorno era affidata all'unità delle forze democratiche. Non risponde alla realtà il fatto che egli stesse operando per la partecipazione dei comunisti alla Giunta di Governo, ma tale problema era certamente presente nel quadro degli sviluppi generali della politica nazionale. Ogni decisione in tal senso era stata comunque rinviata al Congresso Nazionale della D.C., che si terrà i primi di febbraio. In tale Congresso, si porrà in discussione quel veto assoluto, già posto dalla D.C., all'ingresso dei comunisti nelle Giunte locali; se questo veto potesse cadere la Sicilia Li una delle Regioni maggiormente predisposte a tale forma di collaborazione. Gli esponenti regionali della D.C. riproducono le posizioni che le varie correnti hanno assunto in ordine a tale problema a livello nazionale".

Dichiarazioni analoghe venivano rese anche dall'On. Mario D'ACQUISTO, pure assunto in esame da questo Ufficio il 14.1.80 (Fot. 614784, Vol. I): "Per quanto concerneva la sua linea politica, egli era molto aperto alle istanze provenienti dalle forze sociali e sindacali, sostenendo la politica della "solidarietà nazionale". Tuttavia, per quanto riguarda la sua posizione in relazione ad un eventuale ingresso dei comunisti nel Governo Regionale, egli era convinto che i tempi non fossero ancora maturi, ma comunque si rimetteva a quanto sarebbe stato deciso dal prossimo Congresso Nazionale della D.C. In atto, il governo regionale era dimissionario, ma tutto lasciava ritenere che egli sarebbe stato nuovamente eletto Presidente. Anche se per tale carica vi fosse all'interno del partito, oltre alla sua candidatura, quella mia e dell'On. NICOLETTI, ho manifestato l'opinione di cui sopra in quanto né io né l'On. NICOLETTI avremmo fatto una battaglia personale per ostacolare la sua elezione ed inoltre l'On. MATTARELLA era Presidente da poco tempo e non si era politicamente usurato in tale ruolo". Ma, per meglio comprendere il ruolo effettivo del Presidente MATTARELLA nella politica siciliana degli anni Settanta, al di là della posizione interlocutoria, da lui assunta, forse inevitabilmente alla vigilia del congresso nazionale del suo partito (febbraio 1980), è risultata utile l'ulteriore indagine compiuta nel corso del 1990 da questo Giudice Istruttore, con riferimento specifico alle vicende politiche della città di Palermo (della quale s'è parlato nella parte relativa al REINA). In tale ambito, ed anche al fine di chiarire i rapporti eventualmente intercorrenti tra gli omicidi in danno di Michele REINA (9 marzo 1979) e di Piersanti MATTARELLA (6 gennaio 1980), sono stati assunti in esame esponenti dei vari partiti presenti in Consiglio Comunale, dalle cui dichiarazioni è emersa una ricostruzione abbastanza univoca degli avvenimenti di quegli anni.

Così, per esempio, l'On. Sebastiano PURPURA ha dichiarato in data 22.11.1990 (loc. cit.): "Nel 1976 si crearono le condizioni politiche all'interno della D.C. palermitana per formare una nuova maggioranza interna, in opposizione all'On. GIOIA, che portò alla Segreteria, Michele REINA, ed al Comune, come Sindaco, Carmelo SCOMA. La novità di questa nuova maggioranza (correnti dell'On. LIMA, di Rosario NICOLETTI e di Piersanti MATTARELLA) consisteva in una politica di apertura al confronto col P.C.I. da realizzarsi in sede di formazione di programma della Giunta. In tal modo, al di là del fatto formale, il P.C.I. faceva parte della maggioranza di governo. L'opposizione dell'On. GIOIA e di Vito CIANCIMINO si basava sul fatto che essi pur accettando un confronto col P.C.I. in sede istituzionale (ad esempio in Consiglio Comunale), respingevano l'idea di una maggioranza politica - di fatto - che coinvolgesse il P.C.I. Dopo un periodo di opposizione, anche le correnti dell'On. GIOIA e di Vito CIANCIMINO finirono col confluire in questa gestione politica nuova, seppure a livello semplicemente formale, in quanto permanevano le ragioni politiche di fondo da loro sempre sostenute. A D.R. La scelta del REINA quale Segretario Provinciale fu determinata, in modo naturale, dal fatto che egli, dopo le amministrative del 1975 (15 giugno: N.D.R.), era capo gruppo della D.C. al Comune e rappresentava, per la sua personalità, la migliore espressione della nuova maggioranza. Ciò non toglie, però, che egli era sempre e soltanto espressione di una linea politica comune; tra l'altro, in una fase di apertura al P.C.I., i pregressi buoni rapporti del REINA (insieme a me e ad altri amici di corrente) con esponenti del P.C.I. (quale l'allora segretario provinciale Nino MANNINO), (rapporti risalenti al 1970), consentivano un migliore contatto personale nella maggioranza. Il riferimento al 1970 l'ho fatto poiché, a partire da quell'epoca, sia la componente di minoranza della D.C. (tra cui io, Michele REINA, Rosario NICOLETTI, Giuseppe Avellone e qualche altro) sia il P.C.I. fecero una forte opposizione alla corrente dell'On. GIOIA e dell'On. MATTARELLA (Piersanti), che costituivano la maggioranza del comitato provinciale D.C. Questa maggioranza, in quel periodo, portò all'elezione di CIANCIMINO a sindaco di Palermo, e la nostra opposizione, che era di tipo politico, trovò un ulteriore motivo per opporsi nel fatto che espressione della maggioranza era CIANCIMINO. Questo non perché il CIANCIMINO venisse ritenuto - come è avvenuto in tempi più recenti - vicino ad ambienti mafiosi, ma perché la sua personalità era "ingombrante" cioè finiva col dare più forza alla linea politica da noi osteggiata. A D.R. Il passaggio dell'On. Piersanti MATTARELLA dalla parte della nostra linea politica è collocabile - se non erro – verso il 1975 circa, cioè in occasione della nomina del REINA a Segretario provinciale (quindi, agli inizi del 1976: N.D.R.).

A D.R La lettera del 17.11.1970, indirizzata da me e da altri all'On. SCALFARO (quale dirigente organizzativo centrale della D.C.) esprime compiutamente la linea politica alla quale ci ispiravamo e prende il quadro dalla gestione interna del partito.

A D.R. Anche dopo le dimissioni del CIANCIMINO continuammo la nostra opposizione politica, durante le sindacature di Giacomo MARCHELLO, seppure con intensità diversa a seconda dei periodi. Infatti, se ben ricordo, sia io sia il REINA entrammo in una delle giunte comunali presiedute dal MARCHELLO (forse la seconda)".

Questa ricostruzione degli avvenimenti veniva sostanzialmente condivisa sia da numerosi esponenti della Democrazia Cristiana (Carmelo SCOMA, Nicola GRAFFAGNINI, Salvo LIMA, Francesco Paolo GORGONE) sia di altri partiti, quali il P.S.I. (Anselmo GUARRACI) e il P.C.I. (Antonino MANNINO), che sottolineavano del resto come la situazione palermitana dei gruppi politici in campo nazionale, dove l'on. ANDREOTTI presiedeva un Governo c.d. di "solidarietà nazionale", con l'appoggio esterno del P.C.I. L'on. GORGONE Francesco Paolo dichiarava, infatti, il 22.11.1980 (loc. cit.):  "Fino al 1976 circa, la maggioranza interna del Comitato Provinciale D.C. era stata della corrente dell'On. GIOIA ("fanfaniana"), appoggiata dalla mia corrente ("dorotei), da quella "morotea" dell'On. MATTARELLA e dai "CIANCIMINIANI" (fino alle elezioni comunali del 1975). All'opposizione vi era il gruppo "andreottiano" dell'On. LIMA e quello dell'On. NICOLETTI ("forze nuove"). Dopo le elezioni del 1975, vi fu un mutamento di alleanze e l'On. GIOIA rimase da solo in minoranza, mentre il CIANCIMINO aveva preso le distanze da tutte le altre correnti. Questa nuova maggioranza portò alla segreteria provinciale, già nel 1976, Michele REINA (poi confermate nel congresso provinciale del maggio 1977) ed. alla formazione della Giunta Comunale di Carmelo SCOMA. Le caratteristiche innovatrici di questa giunta possono individuarsi nel fatto che il sindaco, al contrario di quanto avvenuto in precedenza, non rispondeva più ad una sola corrente (cioè a quella dell'On. GIOIA) ma era espressione di una vera maggioranza politica, aperta anche alla collaborazione col P.C.I.".

SCOMA Carmelo dichiarava, poi, il 16.6.90 (loc. cit.): "Sono stato sindaco di Palermo dal gennaio 1976 all'ottobre 1978, presiedendo due Giunte: la prima (D.C., P.S.D.I., P.S.I. e P.R.I. con l'appoggio esterno del P.C.I.) durò fino alla fine del 1977 e la seconda fu costituita da un "monocolore di minoranza" della D.C. con l'appoggio esterno, su molti provvedimenti, della precedente area politica. La novità della mia sindacatura è costituita nel "confronto" col P.C.I., che precedette di qualche mese l'analoga esperienza nazionale del c.d. "governo di solidarietà nazionale".

La maggioranza all'interno della D.C., che portò alla mia elezione, era costituita da "Morotei", "Nuove Forze" (cioè il mio gruppo, che faceva riferimento all'On. BODRATO), dai "Dorotei", da "Impegno Democratico" (cioè al gruppo di ANDREOTTI, che era rappresentato in Sicilia dagli Onn. LIMA, DRAGO e D'ACQUISTO) e dai "Gullottiani" (On. FASINO ed altri). Si opponevano a questa nuova stagione politica "Fanfaniani" (che avevano come referente locale, l'On. GIOIA) ed i "CIANCIMINIANI", momentaneamente distaccatisi dai "Fanfaniani".

In questo contesto, mentre la segreteria Regionale continuò ad essere tenuta dall'On. NICOLETTI, appartenente alla mia stessa corrente, la segreteria Provinciale passò dal "fanfaniano" Avv. Gaspare MISTRETTA al Dott. Michele REINA, rappresentante della corrente "Impegno Democratico", i cui leaders erano gli On. LIMA, DRAGO e D'ACQUISTO".

A sua volta, CAMILLERI Stefano (capo di gabinetto del sindaco SCOMA) dichiarava il 20.6.90 (loc. cit.): "Nel febbraio 1976, dopo la formazione della Giunta SCOMA, fui invitato a diventare capo di Gabinetto del Sindaco, su cordiale "pressione" di Rosario NICOLETTI (allora segretario regionale D.C.), con cui avevo un buon rapporto umano e politico. A D.R. La Giunta SCOMA segnò l'inizio di una nuova fase politica, aperta anche al confronto con il P.C.I., basata su una larga convergenza all'interno della D.C. fra tutte le sue correnti, ad eccezione dei "Fanfaniani" dell'On. GIOIA e degli ex "Fanfaniani" di Vito CIANCIMINO. Ovviamente, appoggiavano concretamente questa nuova esperienza politica anche altre forze esterne alla D.C., quali il P.S.I., il P.S.D.I. ed il P.R.I. Ricordo che dopo la prima Giunta SCOMA che durò fino alla fine del 1977 circa (forse ottobre), il sindaco SCOMA presiedette una seconda Giunta, costituita da un monocolore D.C. di minoranza, con l'appoggio esterno delle stesse forze politiche che avevano fatto parte della precedente Giunta. In questo monocolore entrarono tutte le componenti interne della D.C. (compresi quindi i seguaci dell'On. GIOIA e CIANCIMINO), ma si continuò sostanzialmente a portare avanti la stessa linea politica della Giunta precedente, anche perché certi contrasti interni alla D.C. si erano appianati in sede di partito.

A D.R. Fino alla formazione di questa nuova maggioranza, aperta alle forze sociali ed al confronto con il P.C.I., il Comune di Palermo e la Provincia erano sostanzialmente indirizzati politicamente dalla corrente di maggioranza interna della D.C., facente capo all'On. GIOIA.

Quest'ultimo, che fino alla fine degli anni Sessanta formava una corrente unica ed omogenea con l'On. LIMA, con Giacomo MURATORE, con Vito CIANCIMINO, con l'avv. CACOPARDO ed altri, subì verso il 1968 la scissione dell'On. LIMA, che diede vita ad una propria corrente, che aveva come referente nazionale l'On. ANDREOTTI. L'On. LIMA fece questa scissione, per motivi che non conosco, con Michele REINA ed altri di cui non ricordo il nome in questo momento".

La testimonianza di Sergio Mattarella. La Repubblica il 17 gennaio 2020. Al termine di questa lunga esposizione delle risultanze delle indagini espletate, volta a dare un quadro esaustivo di tutti gli sforzi compiuti in ogni possibile direzione, che fosse compatibile con il divenire degli emergenze istruttorie, possono essere meglio valutate e comprese le dichiarazioni rese da alcuni testimoni nello sforzo di capire e di spiegare le possibili motivazioni dell'assassinio del Presidente MATTARELLA. Vanno, in primo luogo, ricordate le dichiarazioni, rese il 1 e il 14 luglio 1986 al G.I., dall'On. Sergio MATTARELLA (Fot. 648178, Vol. XXIII): "In questi anni ho maturato il convincimento - che peraltro mi si è fatto strada già nell'immediatezza dell'omicidio di mio fratello - che quest'ultimo è stato ucciso per tutta una serie di fattori fra di loro concatenati che hanno ispirato la decisione di eliminarlo. Già dalla istruttoria ritengo che sia emerso che mio fratello, quando era Presidente della Regione Siciliana, ha compiuto dei gesti molto significativi che di per sé, in un ambiente intriso di mafiosità avrebbe potuto provocarne l'uccisione: mi riferisco, in particolare, alla nota vicenda concernente gli appalti per le scuole concessi dal Comune di Palermo e alle conseguenti ispezioni da lui disposte e, soprattutto, ad un fatto apparentemente poco significativo ma che, in realtà, era gravido di conseguenze. Egli, infatti, insistette a lungo e senza successo per avere l'elenco dei funzionari regionali nominati collaudatori di opere pubbliche. E la ragione è intuitiva: attraverso gli elenchi dei collaudatori, fornitigli soltanto da alcuni Assessorati, egli si sarebbe potuto rendere conto di quali gruppi controllassero la materia dei pubblici appalti per potere intervenire più efficacemente. E in proposito mi sembra sintomatica l'inchiesta da lui disposta sull'Assessorato regionale ai LL.PP. l'impegno da lui profuso per l'approvazione della legge urbanistica regionale. Ma a parte questi fatti specifici, di per sé gravi denotanti l'impegno politico di mio fratello, mi sembra ancora più interessante rilevare che questa sua ansia di rinnovamento e l'abilità politica di cui era dotato stavano, e nemmeno tanto lentamente, creando una atmosfera diversa e migliore e, soprattutto, una classe di dirigenti, che riconoscevano la sua guida e che erano più alieni di tanti altri da compromissioni con ben individuabili ambienti di potere. E mi sembra ancora più evidente che questa mutata atmosfera certamente non era gradita a chi potesse pensare di utilizzare collaudati equilibri di potere per fini extra istituzionali. Non ritengo, infatti possibile alcuna altra causale di questo omicidio".

Ed ancora soggiungeva: "Ad integrazione del mio ultimo esame testimoniale, vorrei chiarire meglio la personalità ed il ruolo politico svolto da mio fratello Piersanti fino alla sua uccisione, al fine di un migliore inquadramento delle causali del suo omicidio. Altre attività compiute da mio fratello, che avevo trascurato di indicare, dimostrano a mio avviso, quanto fosse stato incisivo il suo slancio innovatore nel quadro politico preesistente. Mi riferisco, in particolare alla legge regionale che modificò le procedure di assegnazione delle opere pubbliche regionali; tale legge era ispirata alla filosofia di fondo di rendere quanto più possibile trasparenti i pubblici appalti, così evitando problemi che purtroppo sono noti a tutti. Se mal non ricordo, detta legge fu approvata dall'Assemblea Regionale alla fine del 1978 e mio fratello dovette constatare che in alcuni punti l'Assemblea Regionale aveva modificato l'originario disegno di legge, in senso peggiorativo rispetto alle finalità della legge stessa. Nel luglio '78, era riuscito far varare anche la legge sulla programmazione regionale della spesa pubblica; erano evidenti le finalità di tale legge, che mirava a razionalizzare e rendere costanti, ancorandoli a criteri obiettivi e di carattere generale, i vari flussi di spesa destinati ai diversi settori di intervento dell'Amministrazione regionale. Ma, oltre a ciò, egli si adoperò con ogni mezzo per far sì che il Comitato per la programmazione, previsto da detta legge, divenisse operante, come in effetti avvenne, nel più breve tempo possibile. Tutto ciò, evidentemente, impediva arbitrarie attribuzioni di spesa a determinati settori anziché ad altri e, all'interno degli stessi assessorati, rendeva più difficile certe erogazioni ispirate a favoritismo. Infatti, una volta che, geograficamente e per settori e per progetti, veniva stabilito il criterio di intervento dell'Amministrazione regionale, rimaneva poco margine per abusi e favoritismi. Ed in effetti, debbo rilevare che, dopo la morte di mio fratello, il Comitato per il programma non ha concretamente operato e, addirittura, non saprei nemmeno dire se tuttora questo Comitato, previsto dalla legge regionale tuttora vigente, sia stato o meno rinnovato. Queste e le altre iniziative di cui ho parlato nel mio precedente esame testimoniale (legge urbanistica, attività ispettiva, modificazione dei poteri della presidenza della Regione in senso maggiormente accentratore, gli episodi delle inchieste sulle sei scuole e della richiesta dei nomi dei collaudatori, l'inchiesta sull'Assessorato regionale LL.PP.) dimostrano quanto forte ed incisiva sia stata l'attività di rinnovamento, nel suo complesso ispirata da mio fratello; rendono evidente, altresì, che in siffatta maniera egli andava ad urtare contro interessi che da tale rinnovamento avrebbero innegabilmente subito pregiudizio. Ma, oltre a questa sua attività amministrativa che, come ho detto, creava timori e preoccupazioni ma anche consenso e fiducia da parte delle forze vitali della Regione, vi è da dire che egli politicamente era ormai diventato ben più che una promessa. Anzitutto, nell'ambito regionale egli era ormai un punto di riferimento e, nei rapporti con le altre Regioni e fra Regioni e gli organi politici centrali, si era ormai creato attorno a lui un vasto movimento favorevole tanto che era divenuto l'interlocutore privilegiato tutte le volte che erano in ballo argomenti che riguardavano problemi generali riguardanti l'ordinamento e la politica regionale. A ciò aggiungasi che egli era particolarmente stimato e legato da sincera amicizia a personaggi come Sandro PERTINI, Benigno ZACCAGNINI e Francesco COSSIGA. Con Aldo MORO, poi, vi era un legame particolarmente affettuoso ed intenso e quest'ultimo teneva mio fratello in grandissima considerazione. Ricordo, anzi, che, poco prima del suo rapimento, MORO, chiamò a Roma a mio fratello che ebbe con lui un lungo e riservato colloquio, sul cui contenuto mio fratello, che solitamente mi teneva al corrente di tutto, questa volta non mi riferì nulla, pur dicendomi che il colloquio era durato diverse ore. Preciso meglio che tale incontro non avvenne immediatamente prima del sequestro MORO ma circa tre quattro mesi prima. Ne consegue che con questo suo ruolo di grande prestigio, sia nell'ambito regionale, sia in quello politico nazionale (già correva voce di una sua possibile nomina a Vice segretario nazionale della D.C.) era impensabile che egli non fosse confermato Presidente della Regione Siciliana. E di ciò erano tutti ben consapevoli. Il pericolo, dunque, era che il mantenimento del potere da parte di mio fratello avrebbe reso irreversibile questa sua ascesa politica e, soprattutto, quelle condizioni di rinnovamento e di maggiore trasparenza, a qualsiasi livello, di mio fratello fermamente volute. E debbo soggiungere che, quando nel 1979 ci sono state le elezioni politiche anticipate, mio fratello, nonostante vivamente sollecitato, decise di rimanere nell'ambito politico regionale perché sentiva come impegno morale quello di completare la sua opera e temeva fortemente che, se fosse andato via questo processo di rinnovamento sarebbe rimasto incompiuto. E infatti, è un dato certo che dopo la morte di mio fratello si creò un forte arretramento ed una destabilizzazione delle condizioni politiche regionali. E proprio questa situazione di instabilità politica, creatasi per effetto dell'assassinio di mio fratello, era oggettivamente funzionale a determinati centri di interesse extra-istituzionali di vario genere, che sarebbero stati fortemente compressi e limitati da quel rinnovamento politico ed amministrativo fermamente voluto, e con successo, da mio fratello. Riassumendo, a mio parere, sia la incisiva attività amministrativa di mio fratello, sia il notevole peso politico dallo stesso acquisito, sia il pregiudizio da lui arrecato a centri di interesse extra-istituzionali, sarebbero di per se stessi, ciascuno di essi causale sufficiente per decretarne la morte. Ma io ritengo che, a parte la difficoltà di tener separate queste tre sfere di azione di mio fratello, è stato proprio il complesso di queste attività e degli interessi che venivano pregiudicati a costituire causale unica e complessiva della sua uccisione".

Orlando: “Era contro il comitato d'affari”. La Repubblica il 18 gennaio 2020. Per certi versi analoga, ma più centrata sulla situazione propria della città di Palermo, è poi l'analisi del Prof. Leoluca ORLANDO, che nel 1980 era, in qualità di consulente giuridico, uno dei più stretti collaboratori del Presidente MATTARELLA. Assunto in esame dal Giudice Istruttore il 29 maggio 1990, il Prof. ORLANDO ha innanzi tutto chiarito che egli era in grado di formulare un'analisi molto più vasta ed approfondita di quanto non avesse fatto nelle dichiarazioni rese al P.M. ed al G.I. in data 10.1.80 e 14.1.81 (dalle quali non era emerso alcun elemento significativo). Ciò perché poteva ormai giovarsi delle conoscenze acquisite e degli elementi di giudizio maturati in quasi un quinquennio quale sindaco di Palermo (fino al 1990) nonchè degli elementi di valutazione forniti dai fatti nel frattempo avvenuti ed in particolare dall'omicidio di Giuseppe INSALACO, ex sindaco della città, ucciso nel gennaio 1988.

Tanto premesso, appare opportuno riportare testualmente le dichiarazione del Prof. ORLANDO: "Per comprendere la situazione politica nella quale l'On. MATTARELLA ha svolto la sua attività bisogna far riferimento allo "scarto" esistente tra il suo ruolo politico regionale e quello nazionale, quest'ultimo vieppiù crescente, e la sua assai esigua presenza nell'amministrazione comunale (al momento della sua uccisione, al Consiglio Comunale di Palermo sedevano due soli Consiglieri Comunali vicini al Presidente ucciso). L'On. MATTARELLA aveva in più occasioni, in sede congressuale D.C., manifestato dissenso e avversità al signor Vito CIANCIMINO e si era trovato isolato nel Congresso Provinciale del 1976, avendo gli On. LIMA e GIOIA preferito allearsi con CIANCIMINO, lasciando fuori dal c.d. "listone" MATTARELLA. Il CIANCIMINO divenne responsabile degli Enti locali come tale, sostanzialmente, gestore per conto del partito delle iniziative relative alla amministrazione comunale. Ricordo, al riguardo, che un segretario provinciale della D.C., Nicolò GRAFFAGNINI, ancora agli inizi degli anni Ottanta, rinviava al CIANCIMINO le decisioni importanti concernenti il Comune di Palermo".

Dopo aver ricordato l'importanza della Legge Urbanistica regionale (la n. 71 del 1978, per la quale vedi supra, Paragrafo 7), il prof. ORLANDO aggiungeva: "Un tale intervento legislativo si accompagnò ad una attenzione, anche amministrativa, per la vita comunale palermitana. Di grande rilievo "simbolico" fu certamente l'ispezione disposta negli appalti per la costruzione di alcune scuole di Palermo, affidata al Dott. MIGNOSI. Tali scelte furono rese possibili tanto per particolare ampia maggioranza che sosteneva il primo governo MATTARELLA quanto per la stessa determinazione ed autorevolezza del Presidente, con riferimento al primo ed al secondo Gabinetto da lui presieduto. Il Comune di Palermo, prima di MATTARELLA, appariva politicamente una zona "off limits", egemonizzata da un "comitato di affari" che vedeva nei CASSINA, nei VASSALLO ed in altri imprenditori espressione economica e che vedeva in CIANCIMINO e nei suoi amici (dentro e fuori la D.C.) espressioni politiche. Vi era una consorteria politica trasversale, che teneva insieme CIANCIMINO, l'On. Salvo LIMA, l'On. Giovanni GIOIA ed esponenti di altri partiti come Giacomo MURANA P.S.D.I.). Quelle scelte, sicuramente, ruppero equilibri e lasciarono intendere un diverso più incisivo ruolo dell'On. MATTARELLA nella vita politica cittadina, ruolo che avrebbe potuto trovare espressione nelle elezioni della primavera del 1980 per il rinnovo del Consiglio Comunale di Palermo. L'azione politico-amministrativa del Presidente MATTARELLA e dei suoi governi si manifestò anche nella vita regionale. Basti, fra tutte, ricordare l'approvazione della legge 1/79, che realizzò in dimensione economica-finanziaria assai consistente una drastica riduzione della capacità di spesa negli assessorati regionali, con un ingente trasferimento di competenza ai Comuni della Sicilia; basti, altresì, ricordare l'attenzione del Presidente MATTARELLA al settore degli appalti pubblici regionali. Gli Assessorati particolarmente colpiti da tali provvedimenti furono quelli all'Agricoltura ed ai Lavori Pubblici. Il Presidente MATTARELLA viveva con qualche disagio, per come risulta da mia personale conoscenza, l'esperienza del secondo Governo, nel quale si era registrata una presa di distanza del P.C.I., che costituì un oggettivo indebolimento del Presidente MATTARELLA, coinvolto della necessità di proseguire sulla strada della moralizzazione e della riforma della Regione. Il Presidente MATTARELLA immaginava il secondo Governo da lui presieduto come un passaggio necessario della vita politica regionale e come un passaggio nella propria personale esperienza politica, che avrebbe potuto e dovuto trovare nel prossimo congresso nazionale della D.C. (febbraio 1980) un ruolo significativo con il previsto incarico di Vice Segretario nazionale del partito. L'On. MATTARELLA era portatore di una linea politica di rottura nei riguardi di vecchie compromissioni tra politica, mafia ed affari ed egli cercò di spezzare quel sistema, mantenendo però, molto forte il "senso del partito". I suoi gesti di rottura sostanziale vennero sempre consumati nel tentativo di conservare il rispetto di tradizionali regole formali della politica. Ma per il sistema dominante di potere la sua politica "delle carte in regola" era comunque dirompente e micidiale. La sua politica, rompendo sul versante dell'amministrazione degli affari, ad un certo punto incontrò anche la città di Palermo, dove affari e politica erano sovente la stessa cosa. L'Epifania dell'Ottanta, giorno della sua uccisione, appare così un passaggio decisivo dell'ulteriore prosecuzione dell'azione politica di MATTARELLA a Palermo, alla vigilia di importanti scadenze elettorali; un passaggio decisivo per la vita politica regionale, chiamata alla soluzione di una crisi di governo, che taluno immaginava potesse risolversi con un rafforzamento del nuovo governo e dello stesso Presidente MATTARELLA. Un passaggio decisivo per la vicenda politica personale e nazionale, alla vigilia del Congresso Nazionale della D.C.".

Iniziò tutto con l'omicidio di Michele Reina. La Repubblica il 19 gennaio 2020. Michele Reina, il segretario provinciale della Democrazia Cristiana di Palermo ucciso il 9 marzo del 1979. Giova, altresì, riportare testualmente le dichiarazioni di altri due esponenti politici palermitani, l'On. Antonino MANNINO, comunista, e l'On. Anselmo GUARRACI, socialista, non senza sottolineare il fatto che esse sono state rese al G.I. nel corso del 1990 e riflettono quindi, come si è già osservato a proposito del Prof. ORLANDO, le considerazioni e le valutazioni suggerite dai molti avvenimenti, spesso drammatici, succedutisi nel corso di quest'ultimo decennio.

Invero l'On. MANNINO dichiarava il 28.6.1990 Fot. 938359, Vol. LXX): "Ho conosciuto Piersanti MATTARELLA, sempre nella stagione politica di cui ho parlato, ma assai meno di REINA. Era sicuramente un uomo politico di statura elevatissima, di grosso spessore culturale e profondo conoscitore della "macchina" amministrativa regionale nonché delle pieghe del bilancio della Regione. Ovviamente, per come è noto, fu un uomo che tentò il massimo del rinnovamento politico in quegli anni e ricordo che, assieme a NICOLETTI e REINA, spingeva affinché il P.C.I. aiutasse la D.C. in quel tentativo di rinnovamento. Fu sempre oppositore di CIANCIMINO e dei metodi di quest'ultimo. Lei mi chiede, anche per l'omicidio dell'On. MATTARELLA, se io ho una causale da indicare, basandola su dati concreti, frutto di valutazione personale o di discussione all'interno del P.C.I. Al riguardo, riferendomi soprattutto ai colloqui con l'On. LA TORRE, posso solo dire che il pericolo costituito dall'On. MATTARELLA consisteva, a giudizio dei suoi avversari, non solo nel fatto che aveva portato avanti significative azioni politico-amministrative di profonda rottura col passato, ma che intendeva persistere su tale strada, anche quando era venuto meno quel quadro politico di "solidarietà autonomistica" che poteva giustificarne l'azione riformatrice. Intendo dite che a un certo momento l'On. MATTARELLA aveva chiaramente manifestato che la volontà di innovare era frutto di una sua ferma decisione personale. Quando parlo di avversari dell'On. MATTARELLA, intendo riferirmi a quel groviglio di interessi politico-affaristici, legati a criteri arbitrari e clientelari nella gestione della spesa pubblica e delle attività economiche della Regione. Non avendo elementi certi su cui basare una mia risposta, mi astengo dall'indicare - in termini soggettivi - le persone che possono avere costituito quel groviglio di interessi di cui ho parlato".

A sua volta, l'On. Anselmo GUARRACI dichiarava al G.I. in data 28.11.1990 (loc. cit.): "Lei mi chiede se abbia contributi da dare alla ricerca della verità in ordine alle causali degli omicidi REINA e MATTARELLA, sulla base della mia esperienza politica. Al riguardo, devo dire che vedo inseriti questi due omicidi in una linea criminosa che presenta due costanti e che comprende anche gli assassini di Cesare TERRANOVA, di Gaetano COSTA, di Pio LA TORRE, di Carlo Alberto DALLA CHIESA e di Rocco CHINNICI. La prima costante è quella ideologica, che si sostanzia nell'apertura concreta o nella appartenenza vera e propria al P.C.I.; la seconda costante è quella di avere colpito o di potere colpire degli interessi. Circa i due omicidi REINA e MATTARELLA la componente ideologica era ben spiccata. Ricordo, infatti, che il REINA aveva più volte detto che la fase storica non consentiva più di governare a Palermo "senza o contro il P.C.I.", il che era una novità di non secondario rilievo. Il MATTARELLA, dal suo canto, si apprestava - a mio avviso - nonostante il suo governo fosse dimissionario, a posizioni di ulteriore apertura al P.C.I. Entrambi, attraverso questi tentativi di innovare il sistema politico, avevano finito o potevano finire col colpire - anche inconsciamente - precedenti interessi consolidati, di carattere sia politico sia economico. Gli altri omicidi da me ricordati, taluni dei quali riguardanti magistrati, potrebbero avere avuto la medesima causale per l'appartenenza dichiarata o presunta delle vittime all'area del P.C.I. e per le posizioni di potere dalle stesse rivestite, che anch'esse minacciavano interessi precostituiti del tipo sopra ricordato".

In questo senso, assumono ancora maggior significato le dichiarazioni rese a questo Ufficio dall'On. Mario D'ACQUISTO il 14 gennaio 1980 e cioè appena otto giorni dopo l'assassinio del Presidente MATTARELLA (loc. cit.): "Non posso avanzare alcuna ipotesi particolare o privilegiarne qualcuna, tuttavia, a mio avviso, bisognerebbe riflettere su un eventuale collegamento tra l'omicidio REINA e quello di Piersanti MATTARELLA dato che entrambi si muovevano su una linea politica molto simile di 'apertura a forze politiche fuori dall'area di governo e di sinistra; infatti il Dr. REINA nell'ambito del Comune di Palermo aveva inserito i comunisti nella maggioranza con una forma di collaborazione esterna, anche se non inseriti nella Giunta. Evidentemente questo processo politico contrasta con gli interessi di altre forze, ma non fu facile, data la ampiezza delle ipotesi, stabilire se tali forze interessate ad una conservazione della situazione esistente abbiano una precisa matrice politica". Queste dichiarazioni dell'On. D'ACQUISTO, sul possibile collegamento tra i due delitti, hanno trovato poi un'eco in quelle dell'On. Antonino MANNINO, il quale, in data 28.6.1990, ha dichiarato al G.I. (loc. cit.): "Lei mi chiede se l'omicidio del REINA fu recepito da me o dal P.C.I. come un segnale diretto ad interrompere questa azione politica di rinnovamento, che aveva visto coinvolto per la prima volta, nella Amministrazione Comunale, seppure in termini di "confronto programmatico", il P.C.I. Posso dire di avere discusso di ciò soprattutto con PIO LA TORRE, il quale, quand'era stato componente della commissione antimafia, non aveva mancato di tenermi documentalmente informato delle varie acquisizioni a mano a mano fatte.

Frutto di tale discussione, snodatasi per molto tempo, è stata la definizione di due ipotesi:

a) la prima, secondo cui l'omicidio era finalizzato ad una pressione intimidatoria nei confronti degli esponenti siciliani della corrente di REINA, primo fra tutti l'On. LIMA;

b) la seconda, secondo cui REINA era stato l'agnello sacrificale di un nuovo equilibrio politico e di un accordo da lui vivacemente contrastato, così come appariva chiaro dal suo ruolo di punta nella contestazione di CIANCIMINO, sin dai tempi in cui questo fu sindaco, sia all'interno della D.C. sia in Consiglio Comunale.

Ancora oggi non sono in grado, nonostante l'esperienza personale maturata nella Commissione parlamentare antimafia, di indicare quale delle due tesi sia quella esatta. Posso dire, però, di essere convinto che il REINA è morto senza sapere - neppure lui - per quale motivo, giacche non era in grado forse, come tanti altri politici, di rendersi conto della chiave di lettura data dalla mafia a certe scelte politiche o politico-affaristiche. E' certo, comunque, che l'omicidio REINA è stato il primo della lunga catena di omicidi politici siciliani".

Gli “anonimi” firmati dal signor Di Marco. La Repubblica il 20 gennaio 2020. Durante la lunga e complessa istruttoria sono stati oggetto di verifica e di accertamento anche altre ipotesi investigative formulate nelle sedi più diverse o pervenute nei modi più disparati. Si dà contezza anche di queste indagini, sia perché hanno contribuito ad allungare i tempi sia per le più volte richiamate esigenze di compiutezza di informazione su quanto vi è negli atti processuali. Così va in primo luogo ricordato (seppure in estrema sintesi) che - specie nel periodo di tempo immediatamente successivo al 6 gennaio 1980 - sono pervenuti all'Autorità giudiziaria, agli uffici di P.G. e ai familiari del Presidente assassinato molti scritti anonimi, in cui venivano formulate accuse specifiche contro singole persone o - più spesso - generiche ipotesi, per spiegare l'origine e le motivazioni del gravissimo delitto. Tutti questi scritti anonimi, in particolare quelli che erano pervenuti al Presidente MATTARELLA e che sono stati sequestrati presso la Presidenza della Regione dopo la sua morte (cfr. fotogrammi 616145 - 616239 in Vol. V e tutto il Vol. XXIV) sono stati oggetto di indagine da parte degli organi di P.G. e di questo Ufficio, senza tuttavia ricavare da essi alcun elemento utile. Per gli esiti dei riscontri su di essi, si rimanda - in dettaglio - ai volumi sopra indicati, segnalando che molti scritti riguardavano presunti illeciti, disfunzioni amministrative etc. Inoltre, a partire dal luglio 1990, sono pervenuti sia alla locale Procura della Repubblica sia a questo Ufficio sia ancora a vari Uffici di P.G. esposti a firma di tale DI MARCO Domenico, già noto per avere intrattenuto - in passato - questo Ufficio sui fatti più vari accaduti in questa città ed in provincia. Tutte queste missive contenevano notizie, asseritamente da quello apprese da fonti diverse, in ordine a molti dei più gravi delitti commessi in Sicilia negli ultimi 15 anni. In particolare, per quel che rileva in questa sede, il DI MARCO ha riferito che sia il REINA sia il MATTARELLA sarebbero stati :uccisi per volontà dei corleonesi a seguito di contrasti con CIANCIMINO Vito e che un ruolo non marginale in questa vicenda avrebbe avuto il "tradimento" nei confronti degli stessi MATTARELLA e REINA da parte di Rosario NICOLETTI, il quale avrebbe così ceduto alle pressioni e alle aperte minacce del CIANCIMINO.

Il DI MARCO ha altresì scritto che gli omicidi del Presidente della Regione e del Segretario provinciale della D.C. si ricollegavano, e anzi traevano la prima origine, dalle vicende del Comune di San Giuseppe Jato, dove l'elezione di un sindaco comunista donna - in contrasto con la volontà del "prestigioso" esponente mafioso BRUSCA Calogero - aveva provocato l'ira di quest'ultimo e del di lui nipote (BRUSCA Bernardo): «che suggerì a Totò RIINA che soltanto scatenando una grossa guerra potevano mettere le mani sul potere e sui Comuni di Palermo e S. Giuseppe Jato. La guerra consisteva nell'uccidere vari D.C. e P.C.I. senza farlo sapere ai BONTATE e alle famiglie palermitane» (esposto del 22.11.90).

DI MARCO riferiva di avere appreso queste notizie da un suo cugino, BERTINI Domenico (già sottoposto a procedimento penale per spaccio di stupefacenti e altri reati), il quale ne era venuto a conoscenza: - per la parte riguardante S. Giuseppe Jato, direttamente da Antonio SALAMONE, che sfogava così il rancore contro BRUSCA Bernardo, che lo aveva soppiantato alla guida della "famiglia" mafiosa di quel centro;

- e, per la parte riguardante Palermo, assistendo casualmente ad una violentissima discussione, caratterizzata da uno scambio reciproco di accuse, tra l'on. Rosario NICOLETTI e il dr. Ernesto DI FRESCO, già Presidente dell'Amministrazione Provinciale, e del quale il BERTINI era diventato autista personale dopo che l'uomo politico era stato detenuto per alcuni mesi all'Ucciardone. Si deve a questo punto senz'altro rilevare che le accuse e in genere le dichiarazioni del DI MARCO appaiono frutto non di conoscenze originali, sia pur provenienti da fonti mediate, ma soltanto di una personale rielaborazione dell'enorme messe di notizie, pubblicate su questi tragici eventi dalla stampa nazionale. Questo è infatti il convincimento sia del Nucleo Operativo dei Carabinieri sia della Squadra Mobile, e cioè degli organi di p.g., cui sono state delegate le indagini. sulle missive del DI MARCO. Inoltre, la Squadra Mobile ha anche proceduto, su delega del P.M., ad assumere a sommarie informazioni sia il DI FRESCO che il BERTINI Domenico, il quale ha definito il DI MARCO, suo cugino acquisito, "un ragazzo alquanto disadattato", affermando di averlo visto per l'ultima volta nel 1984 e di non avergli mai parlato degli omicidi REINA e MATTARELLA. Il BERTINI ha altresì aggiunto di non avere mai conosciuto l'on. NICOLETTI, e di non avere mai lavorato alle dipendenze del DI FRESCO. Questi, a sua volta, pure assunto a sommarie informazioni, confermato di non avere mai avuto al suo servizio, quale autista, il BERTINI. Quanto, poi, al fatto che un esponente di "Cosa Nostra" del calibro di SALAMONE Antonio abbia potuto riferire notizie così gravi a un giovane appena conosciuto, come poteva essere il BERTINI, solo per sfogare il suo rancore nei confronti di BRUSCA Bernardo, appare assolutamente inverosimile, così come sembra ben strano - più in generale - che una persona come il DI MARCO, estraneo all'organizzazione criminale, possa venire in continuazione a conoscenza di notizie e particolari su molti dei più gravi delitti di "Cosa Nostra". Né si deve trascurare, da ultimo, che l'ipotesi prospettata in precedenza in ordine al fatto che il DE MARCO attinga le sue conoscenze dalle notizie di stampa, trova una ulteriore conferma nella considerazione che il DI MARCO (il quale già da alcuni anni - come si è detto - presenta periodicamente esposti e denunzie su molti dei delitti avvenuti in Sicilia), ha riferito le sue «informazioni» sull'ipotizzato ruolo dell'on. NICOLETTI nelle vicende che portarono all'omicidio di Michele REINA e di Piersanti MATTARELLA solo nel luglio 1990, e cioè dopo che tutta la stampa nazionale aveva riferito notizie ed ipotesi di analogo tenore a proposito delle dichiarazioni di Francesco MARINO MANNOIA. Vi è, infine, da aggiungere che il Giudice per le indagini preliminari di questo Tribunale ha, in data 14.1.1991, su conforme richiesta del P.M., archiviato il procedimento di indagini preliminari relative alle dichiarazioni del DI MARCO in ordine al sequestro di Graziella MANDALA'.

Il finto rapimento di Michele Sindona. La Repubblica il 21 gennaio 2020. Da ultimo, e non in ordine di importanza, si deve ricordare che nel corso dell'istruzione è stata altresì considerata l'ipotesi che vi potesse essere un qualche rapporto tra l'assassinio del Presidente della Regione e la presenza in Sicilia, nell'estate del 1979, di Michele SINDONA, circostanza più volte sottolineata ad esempio dalla vedova LA TORRE, anche sulla stampa. Come è ben noto, il finto rapimento del «finanziere» di Patti, la sua permanenza per circa due mesi in Sicilia e particolarmente nella zona di Palermo, il ruolo che in questa vicenda hanno avuto alcune appartenenti alla massoneria nonché gli esponenti di alcuni delle più importanti "famiglie" di "Cosa Nostra" siciliana e americana, hanno formato oggetto in tutti questi anni di una accuratissima attività di indagine sia da parte di più Autorità giudiziarie (e cioè quelle di Milano, Roma e Bologna oltre che di Palermo), sia da parte della Commissione parlamentare d'inchiesta sul "caso SINDONA". Questa imponente mole di accertamenti e riscontri non ha consentito, purtroppo, di chiarire tutti i punti della vicenda. E' stato, però, possibile ricostruire con precisione molte delle circostanze fondamentali, nonché il ruolo svolto da persone e gruppi spesso tra loro molto diversi. Per quanto riguarda, in particolare, la ricostruzione dei fatti connessi al finto rapimento del SINDONA, si può qui riportare, attesa la precisione degli approfondimenti, quella. effettuata dalla citata Commissione parlamentare d'inchiesta. Questo perché la stessa, in particolare, si è basata - a sua volta - sugli accertamenti dei Giudici Istruttori di Milano e di Palermo nonché su alcuni ulteriori accertamenti svolti dalla stessa Commissione. "SINDONA scomparve da New York il 2 agosto 1979, quando era passato meno di un mese da che il giudice WERKER aveva revocato li provvedimento di estradizione e quando il bancarottiere, che intanto aveva ottenuto la liberazione dalla cauzione (in precedenza prestata) di beni della moglie e della figlia, avrebbe dovuto comparire, il 10 settembre successivo, davanti all'autorità giudiziaria, in relazione al fallimento della Franklin. Per lasciare New York, SINDONA si servì di un falso passaporto intestato a Joseph BONAMICO e partì dall'aeroporto Kennedy con un volo diretto a Vienna, accompagnato da Antonio CARUSO, che aveva acquistato i biglietti con denaro procuratogli da Joseph MACALUSO. Giunto a Vienna, SINDONA, invece di proseguire in macchina per Catania come era nei programmi, si era invece recato a Salisburgo, dove aveva preteso, telefonandogli, che lo raggiungesse anche MACALUSO. Costui, CARUSO e SINDONA avevano fatto quindi ritorno a Vienna dove avevano alloggiato all’Hotel Intercontinental dal 4 al 5 agosto 1979. In questa data, quindi, Antonio CARUSO era tornato a New York, mentre MACALUSO si sarebbe recato a Catania. A sua volta, SINDONA era partito per Atene, tanto che il 6 agosto aveva alloggiato all'Hotel Hilton di quella città. Successivamente, SINDONA era stato raggiunto ad Atene, in tempi diversi, da MICELI CRIMI, Giacomo VITALE, Francesco FODERA', Ignazio PUCCIO e Giuseppe SANO, cugino di MACALUSO. Dopo alcuni giorni, quindi, SINDONA e i suoi amici abbandonarono l'idea, avanzata in un primo tempo, di raggiungere l'Italia con un'imbarcazione privata guidata dal PUCCIO e si imbarcarono invece per Brindisi su una comune nave di linea. Secondo il programma originario essi avrebbero dovuto recarsi a Catania, dove SINDONA avrebbe dovuto prendere alloggio in una villa, che gli avrebbe dovuto procurare MACALUSO. Il rifugio però era diventato indisponibile per motivi rimasti ignoti e pertanto, una volta sbarcati a Brindisi, MICELI CRIMI e PUCCIO proseguivano in taxi per Taranto e quindi in treno per Palermo, mentre SINDONA, insieme a VITALE e FODERA', si recava a Caltanissetta, dove giungeva nella notte tra il 15 e il 16 agosto. A Caltanissetta, SINDONA era atteso da Gaetano PIAZZA, un professionista avvertito da MICELI CRIMI, e da Francesca Paolo LONGO, amica intima di MICELI. Dopo aver cenato tutti insieme, VITALE e FODERA' andarono via, mentre SINDONA e la LONGO rimasero ospiti del PIAZZA. Il giorno seguente, quindi MICELI CRIMI (che intanto aveva raggiunto Palermo), si recò a Caltanissetta e da qui il PIAZZA accompagnò in macchina lui, SINDONA e la LONGO nel capoluogo siciliano dove pertanto SINDONA giunse il 17 agosto, prendendo alloggio in casa della LONGO. In seguito, dopo l'arrivo in Sicilia di John GAMBINO, e precisamente il 6 settembre 1979, SINDONA si trasferì in un villino di proprietà dei suoceri di Rosario SPATOLA, sito in contrada Piano dell'Occhio di Torretta, di cui lo stesso SPATOLA aveva consegnato le chiavi al GAMBINO, sia pure (secondo la sua versione) per un ragione del tutto diversa da quella reale. Intanto, fin dai primi giorni della sua fuga, SINDONA, evidentemente aiutato dai suoi amici, aveva cercato di accreditare la tesi del rapimento, inviando una serie di messaggi ai suoi familiari, al genero Pier Sandro MAGNONI e al difensore avvocato GUZZI. In questi messaggi, SINDONA sosteneva di essere stato rapito da un "gruppo proletario eversivo per una giustizia migliore", e, in particolare nelle lettere inviate all'avvocato GUZZI, precisava che i suoi rapitori avevano bisogno di numerosi documenti, concernenti i suoi rapporti con il mondo politico e finanziario italiano, e, tra l'altro, della "lista dei 500". In genere le lettere (ad una delle quali era allegata una fotografia SINDONA, con un cartello con la scritta: "il giusto processo lo faremo noi") erano scritte a macchina dallo stesso SINDONA, ma ce n'è anche una, caratterizzata da toni minacciosi, scritta a mano sempre da SINDONA personalmente. Tutte le missive, contenute in buste con i nomi dei destinatari venivano quindi consegnate a MACALUSO, CARUSO o altri, che provvedevano a impostarle negli USA, ovviamente allo scopo di dare ad intendere che SINDONA si trovava colà e non in Sicilia. Sempre nello stesso periodo del falso rapimento e con scopi ricattatori o di richiesta di denaro o di documenti, numerose telefonate vennero fatte da persone che si facevano passare per i rapitori di SINDONA, agli avvocati GUZZI e Agostino GAMBINO. Tra le altre si possono ricordare le telefonate estorsive o di sollecitazione dell'invio di documenti ricevute il 3 e il 18 settembre 1979 dall'avvocato GUZZI, quella del 26 settembre 1979 all'avvocato GAMBINO, con la quale si chiedeva un incontro che sarebbe dovuto avvenire di lì a qualche giorno, e quelle ancora del 1, 5 e 8 ottobre, sempre dirette ai due avvocati. Inoltre, il 18 settembre 1979 fu inviata da Roma una lettera minatoria a Enrico CUCCIA, che SINDONA - com'è noto - riteneva uno dei suoi più accaniti nemici, mentre il 5 ottobre la porta d'ingresso della abitazione milanese di CUCCIA veniva data alle fiamme e successivamente la figlia di CUCCIA riceveva una telefonata minatoria, con un esplicito riferimento all'incendio della porta. Alcune lettere risultano peraltro inviate anche alla figlia di SINDONA e al genero Pier Sandro MAGNONI che deve fondatamente ritenersi, come risulta dalle indagini compiute dai giudici milanesi e siciliani e come mette in evidenza il giudice istruttore di Palermo nel provvedimento conclusivo dell'istruzione (v. pag.831), fossero a conoscenza di quanto era in effetti avvenuto per esserne stati informati dallo stesso MICELI CRIMI, in un viaggio compiuto a New York durante la scomparsa di SINDONA. Nell'ultima lettera al genero, che è tutta una serie di allusioni e di avvertimenti in cui vengono fornite notizie e impartite istruzioni, spesso scritte come in un linguaggio cifrato, si fa tra l'altro riferimento alla circostanza che l'avvocato di Roma sarebbe stato contattato martedì o mercoledì 26 (settembre) con "notizia drammatica certamente documentabile". Si tratta, com'è chiaro, di una allusione che non può essere interpretata se non come il preannuncio del ferimento di SINDONA, da lui stesso fermamente voluto, da parte di MICELI CRIMI. Al riguardo, le istruttorie giudiziarie in corso hanno accertato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il 25 settembre 1979, nel villino della Torretta, alla presenza della LONGO e di John GAMBINO, MICELI Crimi ferì SINDONA, su sua pressante richiesta, sparandogli un colpo di pistola alla gamba, dopo- aver preso le opportune precauzioni per evitare che si potesse accertare che il colpo era stato sparato a bruciapelo. Il ferimento, voluto da SINDONA evidentemente al fine di rendere più attendibile il sequestro, costituì d'altro canto, per così dire, il primo passo della decisione da lui presa di tornare negli Stati Uniti. Infatti, dopo tre giorni la ferita era già rimarginata e SINDONA il 10 ottobre si trasferì nuovamente in casa della LONGO. Successivamente, il 2 ottobre, veniva spedita da Milano una lettera all'avvocato GUZZI, nella quale si comunicava che SINDONA avrebbe dovuto incontrarsi a Vienna 1'11 ottobre con lo stesso GUZZI e con l'avvocato GAMBINO, che pertanto per quella data avrebbero dovuto prendere alloggio all'Hotel Intercontinental. Senonché da una successiva telefonata dell'8 ottobre risultò che GUZZI non aveva ancora ricevuto la lettera e allora la LONGO provvedeva a telefonargli da una cabina pubblica, per comunicargli che l'indomani un corriere gli avrebbe recapitato una lettera dei "rapitori" di SINDONA. La lettera fu come al solito compilata da SINDONA che quindi quello stesso giorno (8 ottobre) lasciò la casa della LONGO a Palermo, insieme con GAMBINO, non mima che la donna fosse stata avvertita che in serata il messaggio per GUZZI sarebbe stato ritirato da una persona di fiducia. Infatti, verso le 18, Rosario SPATOLA ritirò il plico, per consegnarlo quindi, affinché lo recapitasse a GUZZI, al fratello Vincenzo. Costui però, alle ore 9,45 del 9 ottobre 1979, veniva arrestato, subito dopo aver consegnato la lettera all'avvocato GUZZI, dando così l'avvio alla fase delle indagini, che si è rivelata decisiva per scoprire la messinscena di SINDONA. Intanto, fallito l'incontro di Vienna, SINDONA si era recato a Francoforte e da qui il 13 ottobre 1979 aveva raggiunto in aereo New York dove era rimasto nascosto nel motel Conca d'Oro di Staten Island, per farsi poi trovare la mattina del 16 ottobre, in una cabina telefonica di Manhattan, in condizioni fisiche, che aveva volontariamente provveduto a far degradare per assumere l'aspetto di un vero sequestrato..." (Relazione AZZARO pag. 169-171; ma si deve notare che sulla ricostruzione del finto rapimento di Michele SINDONA e dei suoi rapporti con "Cosa Nostra" concordano sostanzialmente anche le relazioni di minoranza). In buona sostanza, è da ritenere per certo che il finto sequestro di Michele SINDONA fu gestito dalla mafia in tutte le sue fasi, da quella preparatoria a quella finale del rientro negli U.S.A.; altrettanto importante è stato - come si è visto - il ruolo di alcune logge massoniche.

Osserva a questo proposito la già citata relazione della Commissione parlamentare di inchiesta: "E' d'altra parte risultato, secondo quanto si è detto in precedenza, che, nei suoi vari spostamenti che da New York lo portarono prima a Caltanissetta e poi a Palermo, Sindona venne aiutato e materialmente accompagnato, oltre che da MICELI CRIMI, da altri personaggi tutti appartenenti al mondo della mafia quali MACALUSO, VITALE, FODERA', PUCCIO. Un ruolo di primo piano svolse in questa fase Giacomo VITALE, col quale MICELI CRIMI prese contatto, facendo intervenire, con una telefonata, Michele BARRESI, che in precedenza glielo aveva presentato. Il VITALE, sempre secondo il racconto di MICELI CRIMI, saputo che si trattava di aiutare un fratello massone, quale era SINDONA, non fece difficoltà di sorta, occupandosi in prima persona dell'organizzazione del viaggio di SINDONA in Sicilia, e procurando l'attiva partecipazione all'impresa di FODERA' e di PUCCIO. A Caltanissetta, secondo ciò che si è detto, intervennero il PIAZZA, che era stato presentato a MICELI CRIMI da quel funzionario massone della Regione, BELLASSAI, del quale si è pure detto prima; nonché la LONGO, anche essa massone e legata da un legame di affettuosa amicizia con MICELI CRIMI. A Palermo, infine, è appena il caso di ricordarlo, SINDONA fu ospite prima della LONGO e dopo l'arrivo in Sicilia di John GAMBINO nel villino della Torretta, appartenente ai suoceri di Rosario SPATOLA, che lo stesso SPATOLA aveva messo a sua disposizione. In questo periodo anche altre persone, come ad esempio il fratello di Joseph MACALUSO, Salvatore, e come gli INZERILLO, tra cui Salvatore, poi ucciso nel 1981, ebbero una parte non sempre marginale nell'impresa di SINDONA; mentre dal canto suo Pier Sandro MAGNONI si era spostato in Spagna dove avrebbero dovuto raggiungerlo Joseph MACALUSO e l'avvocato AHEARN, con l'intento, tra l'altro, di cercare di creare attraverso la stampa (anche provocando l'eventuale intervento di Leonardo SCIASCIA) un'opinione pubblica favorevole a SINDONA. Questo massiccio intervento della mafia a favore di SINDONA trova peraltro ulteriore riscontro nelle numerose telefonate che, durante la permanenza in Palermo dell'interessato, si intrecciarono, così come ha accertato il giudice di Palermo, tra personaggi della mafia siciliana, tra cui in primo luogo lo SPATOLA, e persone appartenenti in America al clan di John GAMBINO; mentre molte chiamate raggiunsero dagli USA le utenze di mafiosi siciliani, tra cui anche quelle degli INZERILLO. In particolare, il giudice istruttore ha anche potuto stabilire che il 10 settembre 1979, e cioè il giorno prima della partenza per la Svizzera di Vincenzo SPATOLA, dall'utenza telefonica americana di Erasmo GAMBINO era pervenuta una telefonata nella abitazione di Macia RADCLIFF, convivente con un nobile siciliano, che successivamente avrebbe ammesso di aver conosciuto ed anche aiutato in una determinata circostanza Salvatore INZERILLO. Anche il ritorno di SINDONA negli Stati Uniti fu favorito ed anzi organizzato da una parte di quelle stesse persone che lo avevano aiutato a raggiungere la Sicilia, in primo luogo da John GAMBINO. La partenza fu preceduta dal cambio di un assegno di 100.000 dollari, effettuato presso la Sicilcassa di Palermo da Rosario SPATOLA mediante l'utilizzazione del falso passaporto di Michele SINDONA, intestato a Joseph BONAMICO. Inoltre Joseph MACALUSO, ai primi di ottobre, raggiunse dall'America Catania, insieme con l'avvocato AHEARN e con la moglie di quest'ultimo. Subito dopo i tre, insieme con Salvatore MACALUSO, si erano recati a Palermo e qui i due MACALUSO avevano parlato con SINDONA, evidentemente per discutere le modalità del rientro negli USA. Quindi, dall'8 al 9 ottobre, Joseph MACALUSO, la moglie di questi e i coniugi AHEARN avevano alloggiato a Taormina e la notte successiva all'Hotel Jolly di Roma. In tutti i casi, come egli stesso ha ammesso davanti alla Commissione, i conti degli alberghi erano stati pagati dall'imprenditore GRACI, che ha affermato di aver fatto ciò per ricambiare una cortesia, ricevuta dal MACALUSO, anche se non aveva gradito che gli fosse stato addebitato dall'Hotel Jolly anche il conto degli ospiti americani del MACALUSO. Non c'è dubbio, infine, che nella fase finale del viaggio per l'America uno degli accompagnatori di SINDONA fu John GAMBINO. A queste protezioni e a questo aiuto che SINDONA ricevette per realizzare il suo disegno, bisogna aggiungere quello della massoneria. In proposito sono già significativi i nomi tante volte ricorrenti della LONGO, del PIAZZA, del BELLASSAI, del BARRESI e dello stesso MICELI CRIMI, sempre che quest'ultimo si limiti ad essere un massone e la sua personalità non abbia invece (come si potrebbe evincere da quanto si è riferito riguardo ai colloqui circa la sua appartenenza alla CIA) risvolti ed aspetti ben più inquietanti. Ma a tutto ciò bisogna aggiungere che, secondo le dichiarazioni da lui rese alla Commissione, MICELI CRIMI, durante la permanenza di SINDONA a Palermo, si recò ad Arezzo per parlare, su incarico di SINDONA, con Licio GELLI. A GELLI, MICELI CRIMI si sarebbe limitato a dire quanto gli aveva suggerito lo stesso SINDONA. In particolare, gli avrebbe domandato se non gli sembrava eccessivo il linciaggio morale a cui SINDONA era stato sottoposto e alla sua risposta positiva gli avrebbe rimproverato di non avere fatto niente, per cercare di attenuare questo linciaggio. GELLI allora gli avrebbe risposto che qualcosa aveva fatto e che gli effetti si sarebbero visti il giorno successivo. MICELI CRIMI quindi gli avrebbe chiesto se avrebbe potuto fare qualcosa ove la famiglia di SINDONA si fosse trovata in condizioni di bisogno; al che GELLI gli avrebbe detto che, se la famiglia aveva bisogno, doveva farglielo sapere, perché lui avrebbe cercato di muovere le persone adatte. A GELLI, sempre a suo dire, MICELI CRINI avrebbe parlato di SINDONA come di un rapito, ponendo le domande suggeritegli da SINDONA stesso come se fossero sue; ma la LONGO ha sostenuto di credere che GELLI sapesse che SINDONA si trovava in Sicilia...". (Relazione AZZARO fg. 172 - 174, citata)

Quanto poi agli scopi del finto sequestro e della permanenza di SINDONA in Sicilia, MICELI CRIMI ha dichiarato ai giudici di Palermo e Milano - nella prima fase delle indagini - che, secondo quanto comunicatogli dal SINDONA, che peraltro parlava pochissimo dei suoi fini e delle sue reali intenzioni, il viaggio del finanziere in Europa e in Sicilia doveva avere due obiettivi:

- il primo quello di favorire la riunificazione della massoneria (che era poi l'obiettivo che - a suo dire - muoveva realmente MICELI CRIMI) e di mettere in moto un tentativo separatista della Sicilia, in una chiave che si ricollegasse agli ideali massonici, antiateisti e anticomunisti, per estendere quindi questi ideali a tutta l'Italia;

- l'altro obiettivo era quello di ricercare in Italia documenti che avrebbero potuto aiutare SINDONA nelle sue vicende di carattere finanziario e giudiziario, anche fornendogli strumenti di pressione se non di vero e proprio ricatto nei confronti di esponenti del mondo politico, economico e delle istituzioni (si pensi al famoso "tabulato dei 500", mai ritrovato, e che sembra fosse relativo a illegali esportazioni di capitali all'estero).

Peraltro lo stesso MICELI CRIMI riferiva che durante la permanenza in Grecia, e prima ancora dell'arrivo degli altri, SINDONA lo aveva informato che il "golpe" separatista non era più attivabile, per cui egli si era reso conto, a quel punto, che la storia del "golpe" era stata un pretesto e che il Sindona in realtà voleva solo rientrare in possesso di documenti ritenuti molto importanti nella sua strategia.

E, del resto, questa era la richiesta formulata in tutte le lettere recapitate all'avv. Guzzi nonché l'unico oggetto di due lettere dirette dal SINDONA alla figlia e al genero ed acquisite agli atti (in fotocopia), nelle quali il SINDONA non scriveva nulla del "golpe separatista" ma impartiva istruzioni rientranti nella complessiva manovra da lui posta in essere per acquisire documenti e per creare un'opinione pubblica a lui favorevole.

Nella sentenza-ordinanza del 25.1.1982. conclusiva del procedimento penale contro SPATOLA Rosario ed altri, il Giudice Istruttore del Tribunale di Palermo, riassumendo l'esito delle minuziosissime indagini svolte anche dall'Ufficio Istruzione del Tribunale di Milano, ha così riepilogato gli esiti dell'attività istruttoria: "Le indagini relative ai motivi della presenza del SINDONA in Italia, ed a Palermo in particolare, ancora non sono concluse.

Può affermarsi, però, che il tentativo separatista era un mero pretesto, mentre i veri motivi erano ben altri:

- anzitutto, quello di rientrare in possesso di documenti assai compromettenti per personaggi autorevoli del mondo politico-finanziario per ottenere con l'arma del ricatto, consistenti appoggi nei procedimenti penali a suo carico;

- in secondo luogo, quello di cercare di riabilitare la sua immagine pubblica, mediante un'accorta campagna di stampa che lo presentasse come vittima di oscuri intrighi". (pag. 828, sentenza-ordinanza citata).

Sostanzialmente analoga è, a questo proposito, la valutazione della Commissione parlamentare di inchiesta, che ha però posto l'accento anche sulla pluralità di contatti e di incontri avuti da SINDONA durante la sua permanenza a Palermo con molte persone (delle quali è stato possibile identificare solo una parte), così da affermare che dalle indagini erano emersi: "segni di un tentativo, compiuto da SINDONA con il viaggio in Sicilia, non tanto di avere documenti che gli potessero servire, quanto di entrare in diretto contatto con persone che potessero venirgli concretamente in aiuto in un momento così difficile della sua vicenda che doveva precedere di poco il definitivo riconoscimento, negli U.S.A., delle sue irrefutabili e gravissime responsabilità". (Relazione Azzaro, pag.178).

Come si è già detto, le indagini sono continuate anche dopo la definizione del procedimento penale dianzi ricordato e altresì dopo la conclusione dei lavori della Commissione parlamentare d'inchiesta. Anche alla luce di nuove acquisizioni da parte dell'Autorità giudiziaria di altre città, in ordine ai contatti tra Joseph MICELI CRIMI e Licio GELLI, ai rapporti fra il SINDONA e i protagonisti del dissesto del Banco Ambrosiano, alla bancarotta delle banche di SINDONA e all'omicidio del liquidatore di una di esse, l'avv. Giorgio AMBROSOLI, nonché, infine, al ruolo che in alcune di queste vicende può avere svolto la loggia massonica P2, anche gli Uffici Giudiziari palermitani hanno preso nuovamente in considerazione la possibilità che il viaggio di SINDONA in Sicilia potesse avere avuto scopi ulteriori e più complessi di quelli accertati nella prima fase dell'istruzione, e ricollegabili ai gravissimi fatti di sangue che, sotto il segno del terrorismo eversivo di destra e della criminalità mafiosa, hanno colpito molte regioni d'Italia negli anni immediatamente successivi all'estate del 1979 ([…]).

La Cupola sapeva e non sapeva...La Repubblica il 22 gennaio 2020. Anche l'omicidio dell'on. MATTARELLA è stato naturalmente oggetto degli interrogatori resi da quegli esponenti di "Cosa Nostra", che hanno deciso di collaborare con la giustizia. In particolare, un contributo - se pur nei limiti che si indicheranno - è venuto dal BUSCETTA e dal MARINO MANNOIA, mentre nulla di specifico ha riferito il CALDERONE, ad eccezione del fatto che un omicidio di questa importanza non poteva che essere stato deciso dalla "commissione" di "Cosa Nostra" per l'assoluta mancanza di reazione- dopo l'evento - da parte della stessa (il che non sarebbe affatto avvenuto in caso di diversa matrice). Rinviando ad altra parte del presente provvedimento l'analisi delle loro dichiarazioni sui temi più generali della struttura di "Cosa Nostra" e del ruolo della "Commissione", è opportuno riportare qui, testualmente, quanto è stato specificamente riferito in ordine all'omicidio del Presidente della Regione. Va anche rilevato che sia il BUSCETTA (v. interrogatorio al G.I. del 4.12.84) sia il MARINO MANNOIA (v. interrogatorio alla Corte di Assise di Appello del maxi-uno) hanno esplicitamente ammesso la loro reticenza sui «fatti molto gravi che investono questioni politiche», nella convinzione che un turbamento degli equilibri troppo traumatico possa determinare una battuta d'arresto, gravissima, nell'attività degli inquirenti». Tuttavia, come detto in precedenza, il contesto delle loro dichiarazioni è stato comunque utilissimo per ricostruire le responsabilità dei mandanti anche dell'omicidio MATTARELLA.

BUSCETTA TOMMASO. In data 21 luglio 1984, BUSCETTA Tommaso dichiarava al G.I. di sapere che «MATTARELLA è stato. ucciso su mandato della "Commissione" e su ispirazione di Salvatore RIINA» e che «anche l'on. REINA è stato ucciso su mandato di RIINA».

Dopo aver aggiunto che «le vicende sono molto complesse e che diversi sono i responsabili di tali assassini», ha voluto «sottolineare vigorosamente che nessun omicidio può essere compiuto nella zona di influenza di una determinata "famiglia", senza il benestare del capo della "famiglia" stessa. Per gli omicidi di maggiore rilievo occorre poi il consenso della "Commissione". Trattasi di procedure che non soffrono eccezione» (Fot. 450010). Quattro giorni dopo, il 25 luglio 1984, il BUSCETTA riprendeva l'argomento affermando: «Per quanto concerne gli omicidi di Boris GIULIANO, di Cesare TERRANOVA, di Pier Santi MATTARELLA so per certo, per averlo appreso da Salvatore INZERILLO, che trattasi di omicidi decisi dalla "Commissione" di Palermo, all'insaputa di esso INZERILLO e di Stefano BONTATE ed anche di Rosario RICCOBONO. Anche questi omicidi hanno determinato l'allargamento del solco esistente tra BONTATE ed INZERILLO, da un lato, ed il resto della "Commissione" dall'altro» (Fot. 450031). In data 1 febbraio 1988, infine, il BUSCETTA, interrogato dal Giudice Istruttore in U.S.A. a proposito delle propalazioni anche auto-accusatorie di GALATI Benedetto sull'omicidio MATTARELLA (delle quali, si dirà) e del concorso dei “neri", ha soggiunto: "Circa, poi, la c.d. "pista nera" nulla mi risulta. Posso, dire, però, che io sono andato a Palermo per un breve permesso, nel marzo Ottanta, ed ho incontrato un po' tutti i personaggi più importanti di "Cosa Nostra" e non ho sentito neppure un minimo accenno all'eventualità che gli assassinii potessero essere di matrice eversiva.

Il significato di ciò può essere colto solo da chi appartiene a "Cosa Nostra"; bisognerebbe sapere, infatti, con quanta meticolosità la commissione di "Cosa Nostra" si interessa delle vicende anche banali di associati o estranei, per rendersi conto che fatti di tale gravità, come l'omicidio del Presidente della Regione, non potevano essere passati sotto silenzio, senza pervenire a conclusioni abbastanza sicure. Come ho detto stamattina, INZERILLO Salvatore ha perso il mandamento di Carini per non aver saputo dare esaurienti spiegazioni in commissione circa gli autori e i moventi di un banale omicidio, quello cioè di un certo LEGGIO. Dopo l'omicidio di MATTARELLA, invece, MADONIA Francesco, nella cui zona è avvenuto l'omicidio, non ha avuto noie di alcun genere. Né è successo nulla dopo l'omicidio dell'on. REINA né, ancor prima, a seguito della scomparsa di DE MAURO Mauro" (cfr. f. 816 vol. int. Calderone).

MARINO MANNOIA FRANCESCO. In data 8 ottobre 1989, MARINO MANNOIA Francesco dichiarava al G.I.: "Per quanto riguarda l'omicidio di MATTARELLA Piersanti, tralascio qualsiasi considerazione e mi limito ai fatti. Io ero tra gli uomini più fidati di BONTATE Stefano e, insieme con pochi altri, dipendevo direttamente da lui senza intermediazione di capo decina, sottocapo e consigliere. Quindi, ero in grado di sapere se la nostra famiglia, e BONTATE Stefano in particolare, vi fosse coinvolta. Ebbene, a meno che il BONTATE mi avesse taciuto fatti di questa rilevanza, e ciò mi sembra assolutamente improbabile, debbo dire che egli non solo non era al corrente degli autori e dei motivi dell'uccisione, ma anzi appariva particolarmente contrariato. E' certo che, a dire del BONTATE, in sua presenza questo omicidio non venne discusso in commissione; tuttavia era certo peA. tutti noi appartenenti a "Cosa Nostra" che si trattasse di omicidio di mafia, anche se ne ignoravamo, almeno io, i veri motivi. Solo in via di ipotesi, si supponeva che potesse essere stato o INZERILLO Santo o PRESTIFILIPPO Mario ma, ripeto, nessuno sapeva nulla di concreto su tale omicidio. Non mi risulta che BONTATE Stefano avesse rapporti con l'on. MATTARELLA Piersanti" (cfr. f. 6 vol. int.). Nuovamente interrogato in proposito, il 20 ottobre 1989, il MARINO MANNOIA soggiungeva: "Ho appreso dai mezzi di informazione che ieri è stato emesso mandato di cattura nei confronti di due terroristi neri per l'omicidio MATTARELLA. Nel ribadire quanto ho già detto in precedenza, rappresento alla S.V., per quanto possa essere utile, i seguenti fatti:

a) l'omicidio MATTARELLA non ha creato nessuno sconquasso in seno a "Cosa Nostra" ed alla "Commissione" in particolare e nessuna reazione all'esterno verso altri.

b) Se l'omicidio fosse avvenuto all'insaputa di "Cosa Nostra", si sarebbe creata una situazione di allarme generalizzato e si sarebbe cercato in tutti i modi di capire cosa era realmente avvenuto e i motivi di tale uccisione;

c) né BONTATE Stefano né altri hanno mosso contestazioni di sorta in seno alla commissione contro chicchessia, quale autore o ispiratore dell'omicidio, il che sarebbe puntualmente avvenuto se non ci fosse stato un previo accordo quanto meno di massima sull'omicidio stesso;

d) BONTATE Stefano, subito dopo l'omicidio, appariva particolarmente seccato ma non per l'omicidio in sé ma per altri motivi, che non mi furono mai detti e che tutt'ora non riesco a comprendere;

e) sicuramente nessuno del mandamento di BONTATE Stefano ha partecipato all'omicidio, perché altrimenti noi - ed io in particolare che ero tra i più vicini a BONTATE Stefano - lo avremmo saputo;

f) il malumore di BONTATE Stefano per questo omicidio si dissolse presto, tanto che, nella primavera inoltrata del 1980, quando sono state rinnovate le cariche elettive in seno alla nostra "famiglia" non solo BONTATE Stefano è stato rieletto rappresentante, ma erano presenti i più autorevoli esponenti di "Cosa Nostra" palermitana, tra cui io ricordo GRECO Pino "SCARPA", già membro della commissione in alternanza con GRECO Michele, e GRECO Nicola, inteso "NICOLAZZO", anch'egli uomo d'onore di Ciaculli, da tempo emigrato negli Stati Uniti, che aveva raccolto il prestigio e il carisma di GRECO Salvatore "CIASCHITEDDU".

Detto GRECO Nicola dovrebbe avere una linea di parentela con GRECO Giovannello e credo anche con "SCARPA". I personaggi più validi di "Cosa Nostra" che sicuramente, in quel periodo, avrebbero dovuto partecipare all'omicidio MATTARELLA, se ufficialmente deliberato dalla commissione, erano GRECO Giovannello, GRECO Pino "SCARPA", PRESTIFILIPPO Mario, MADONIA Antonino, INZERILLIO Santo. Spontaneamente soggiunge: se non faccio errori, l'omicidio MATTARELLA è avvenuto in territorio del mandamento di MADONIA Francesco e, anche successivamente, la famiglia del MADONIA ha sempre aumentato il suo prestigio. Poiché Lei me lo chiede, ricordo che detta famiglia da tempo è coinvolta in vicende che hanno a che fare con moventi, in certo qual modo, politici. Ricordo, ad esempio, la vicenda delle c.d. "bombe di capodanno"; inoltre, c'è un fatto singolare che io ho appreso in carcere da CALAMIA Giuseppe, uomo d'onore di Corso dei Mille (e non di Porta Nuova, come si è detto nel maxi processo). Il CALAMIA, detenuto con me a Trani, mi disse di avere appreso che MADONIA Salvatore si era sposato in carcere con una terrorista e questo è un fatto assolutamente singolare, che avrebbe comportato la messa fuori famiglia dello stesso MADONIA, data l'incompatibilità ideologica tra la mafia ed il terrorismo di qualsiasi specie. Quanto riferitomi dal CALAMIA mi è stato confermato da un po' tutti in seno a "Cosa Nostra" e, con nostro stupore, a MADONIA Salvatore non è accaduto nulla" (cfr. f. 71 segg. vol. int.). Infine, assunto nuovamente in esame dal Giudice Istruttore il 19 gennaio 1990, il MARINO MANNOIA, nel confermare le precedenti dichiarazioni, ha aggiunto: “... al riguardo, come ho già detto nel dibattimento d'appello del "maxi-uno", non voglio - almeno per il momento - aggiungere nulla, avendo detto omicidio indubbie caratteristiche politiche. Questa risposta non deve sembrarLe una mancanza di riguardo da parte mia, ma solo una esternazione del mio stato d'animo attuale, che non mi consente di affrontare certi argomenti. Posso solo aggiungere, a chiarimento di quanto già detto in precedenza, che non è senza significato - a mio avviso - che certi omicidi, aventi una certa valenza politica, siano avvenuti sempre in territori posti sotto il controllo di Francesco MADONIA da Resuttana e di Pippo CALO', che, unitamente a Giuseppe Giacomo GAMBINO ed a Salvatore RIINA, sono quei componenti della "commissione" che hanno mostrato maggiori propensioni verso i fatti politici. Per il CALO', intendo riferirmi all'omicidio del Procuratore della Repubblica Dr. Gaetano COSTA, che, come ho detto pure ieri ai Giudici di Catania, pur essendo stato commesso per volontà di Salvatore INZERILLO ed altri, non poteva non avere l'assenso del CALO', quale "capo mandamento" del territorio in cui è avvenuto. Per il MADONIA, intendo riferirmi agli omicidi MATTARELLA, REINA, GIULIANO, TERRANOVA e CHINNICI, tutti, avvenuti in territorio posto sotto il suo diretto controllo di "capo mandamento". Per il GAMBINO, il mio riferimento deve intendersi all’omicidio dell’ing. PARISI. Dimenticavo di precisare che nel territorio del CALO' è avvenuto anche l'omicidio del Prefetto DALLA CHIESA" (cfr. f. 221 vol. int. al P.M.). In conclusione, dalle dichiarazioni del BUSCETTA e del MARINO MANNOIA (estremamente caute - per loro stessa ammissione - su vicende con possibili riflessi di carattere politico) si traggono in modo chiaro queste considerazioni:

a) l'assassinio del Presidente MATTARELLA fu deciso nell'ambito del vertice di "Cosa Nostra" tanto da non suscitare né immediatamente (v. MARINO MANNOIA) né due-tre mesi dopo (v. BUSCETTA) alcuna significativa reazione. E, a questo proposito, c'è invece da ricordare che per altri episodi, certo meno importanti, per i quali erano stati tenuti totalmente all'oscuro, il BONTATE e l'INZERILLO avevano protestato violentemente (omicidio del Ten. Col. RUSSO) o, quanto meno, avevano chiesto spiegazioni a GRECO Michele nella sua qualità di capo della "Commissione" (omicidi DI CRISTINA e BASILE).

b) L'assassinio del Presidente MATTARELLA non fu discusso nella sede formale della "Commissione", tanto che il BONTATE, l'INZERILLO e anche il RICCOBONO erano all'oscuro della decisione di commettere il delitto.

E però si deve ritenere, in coerenza con quanto detto in altra parte di questo provvedimento, che anche il BONTATE e gli altri esponenti della "Commissione" a lui più vicini fossero in qualche modo consapevoli dell'esistenza di un "problema MATTARELLA" e della possibilità, insita sulla natura stessa di un'organizzazione sanguinaria come "Cosa Nostra", di un'azione delittuosa contro l’uomo politico. In questo modo si spiega che "né il BONTATE né altri hanno mosso contestazioni di sorta in seno alla Commissione contro chicchessia, il che sarebbe puntualmente avvenuto se non ci fosse stato un previo accordo quanto meno di massima sull'omicidio stesso", secondo quanto espressamente riferito dal MARINO MANNOIA. E, nello stesso senso, è pure significativo che il BUSCETTA, pur affermando di avere saputo da Salvatore INZERILLO che il delitto "era stato deciso dalla "Commissione" di Palermo all'insaputa di esso INZERILLO, di Stefano BONTATE ed anche di Rosario RICCOBONO" non accenna affatto ad alcuna reazione o anche ad una semplice protesta da parte di costoro. Una conferma di quanto fin qui sostenuto è da ultimo nelle affermazioni rese da Francesco MARINO MANNOIA il 20.10.89 (e sopra riportate) circa lo stato di «contrarietà» - se pur temporaneo - mostrato dal BONTATE dopo l'omicidio: "BONTATE Stefano subito dopo l'omicidio appariva particolarmente seccato, ma non per l'omicidio in sé ma per altri motivi che non mi furono mai detti e che tuttora non riesco a comprendere". Del resto, le conclusioni fin qui formulate sulla base delle dichiarazioni del BUSCETTA e del MARINO MANNOIA a proposito anche della posizione del BONTATE e degli altri esponenti di "Cosa Nostra" a lui più vicini, i quali non avrebbero protestato a seguito dell'omicidio del Presidente della Regione, trova in qualche modo spiegazione proprio in quello che si è detto in precedenza a proposito dell'azione di Piersanti MATTARELLA. Questa, invero, non era certo rivolta contro l'una o l'altra delle singole "famiglie" di "Cosa Nostra" ma anzi, proprio per la coerenza e la completezza del disegno politico che la ispirava, rappresentava un pericolo per le illecite attività dell'intera organizzazione (non si dimentichi, per esempio, che alcuni degli imprenditori coinvolti nella vicenda degli appalti delle sei scuole a Palermo erano certamente vicini, come a suo tempo si è visto, a SPATOLA Rosario e, quindi, alle "famiglie" BONTATE e INZERILLO). Ed inoltre, il BONTATE potrebbe avere visto in questo omicidio (come in quello del REINA) anche un "segnale" dei "corleonesi" per lui, traendo la convinzione (peraltro non esplicitata ad alcuno dei "pentiti") di una sua più che probabile posizione di debolezza in "Cosa Nostra".

Sull'omicidio del Presidente MATTARELLA sono state rese dichiarazioni anche da altre persone, che hanno comunque collaborato in vario modo con gli organi dello Stato: GALATI Benedetto, LO PUZZO Filippo e PELLEGRITI Giuseppe. Di tali contributi deve subito dirsi che sono risultati - dopo i dovuti riscontri (anche logici) - sostanzialmente inattendibili e hanno anzi dato origine, come per il PELLEGRITI, ad una imputazione nei confronti dello stesso per il reato di calunnia. In considerazione del fatto che le dichiarazioni rese dai menzionati soggetti (il GALATI, peraltro, non è mai venuto a contatto con l'A.G.) hanno dato luogo a tentativi di depistare le indagini dal corso che avevano imboccato, appare opportuno rinviare la trattazione alla parte specifica in cui si parlerà di queste situazioni.

Le accuse di Cristiano Fioravanti. La Repubblica il 23 gennaio 2020. A partire dall'ottobre 1982, cominciavano ad intervenire nel procedimento dichiarazioni di "collaboranti", inseriti a vario livello in gruppi dell'estremismo di destra, che facevano risalire a soggetti gravitanti in quell'ambiente l'esecuzione materiale dell'omicidio di Piersanti MATTARELLA. Come si vedrà, tali fonti di prova - sottoposte a rigoroso vaglio critico, con riferimento ad elementi oggettivi di verifica della attendibilità intrinseca ed estrinseca dei "collaboranti" - appaiono perfettamente compatibili con le altre significative acquisizioni istruttorie, che hanno consentito di delineare, con ragionevole certezza, la matrice politico-mafiosa dell'omicidio del Presidente della Regione Siciliana, volto a troncarne il suo coraggioso e tenace impegno per un profondo rinnovamento della politica e dell'amministrazione regionale. I primi concreti elementi di prova, in tale direzione, sono stati forniti dalle dichiarazioni di Cristiano FIORAVANTI. Questi - già appartenente, insieme al fratello Valerio, a gruppi romani dell'estrema destra - dopo il suo arresto (8.4.1981) maturava un progressivo ed autentico pentimento. Si apriva ad una fattiva collaborazione, ammettendo la propria responsabilità e fornendo precise e coerenti indicazioni probatorie in relazione a numerosi e gravissimi delitti. In particolare, con riferimento all'omicidio dell'on. Piersanti MATTARELLA, le dichiarazioni rese da Cristiano appaiono caratterizzate da una drammatica progressione, le cui ragioni egli stesso spiegherà in taluni dei suoi interrogatori. Il drammatico "iter" di ravvedimento e di dissociazione percorso da Cristiano FIORAVANTI inizia con talune caute indicazioni, fornite tra il 1982 ed il 1985, il cui significato - verificato alla luce delle dichiarazioni, ampie e complete, rese a partire dal 1986 - appare quello:

- di evitare di accusare, dapprima, direttamente il fratello, al quale è legato da un intenso rapporto affettivo;

- di fornire, tuttavia, all'Autorità giudiziaria gli elementi per un'indagine, nel cui ambito, anche con l'acquisizione di ulteriori fonti di prova, il fratello Valerio possa determinarsi a chiarire da sé le proprie responsabilità.

La prima fase delle dichiarazioni, contraddistinta da semplici "segnali", inizia con le dichiarazioni rese al G.I. di Roma, delle quali si riporteranno i passi più significativi. AL G. I. DI ROMA IL 28.10.1982 (Fot. 616682 segg., Vol. VII) “... prendo atto che in base alle dichiarazioni rese da Walter SORDI, a commettere l'omicidio di Mino PECORELLI sarebbe stato mio fratello Valerio su commissione di GELLI. In proposito posso dire che non mi risulta nulla, ma posso rappresentare all'Ufficio quella che fu la mia istintiva sensazione una volta appresa dai giornali la notizia di quel delitto. Per il tipo di arma usata, che fu una 7.65 silenziata e per il fatto che all'epoca erano da noi presi di mira giornalisti e singole redazioni, ebbi la convinzione che ho tuttora che ad uccidere PECORELLI fosse stato Valerio... Ciò che mi mandò istintivamente alla persona di mio fratello come possibile autore del fatto fu la zona dove il delitto fu compiuto, il modo di operare, l'arma usata ed il genere dei dettagli che mi fecero intravedere qualcosa di molto familiare...Un altro episodio delittuoso che, senza averne le prove, istintivamente ricollego a mio fratello Valerio è stato l'omicidio di un personaggio siciliano, non so dire se un uomo politico o un magistrato, che venne ucciso in una piazza o in una strada di Palermo in presenza della moglie. Si era nel luglio 1980 e Valerio era in Sicilia ospite di MANGIAMELI e all'epoca progettava l'evasione di CONCUTELLI ed una rapina in una mega gioielleria di Palermo. Nel vedere gli identikit convenni, assieme a mio padre, che sembravano somigliare moltissimo sia a Valerio che a Gigi" (CAVALLINI: N.D.R.).

Già in questa prima dichiarazione, Cristiano indica all'Autorità Giudiziaria alcuni importanti spunti di indagine:

1) il collegamento logico con un altro crimine assai oscuro, non rientrante nella logica "politica" dell'eversione di destra (l'omicidio del giornalista PECORELLI);

2) la connessione tra l'uccisione del "personaggio" siciliano e il progetto di evasione dal carcere di Palermo di Pierluigi CONCUTELLI;

3) la indicazione dell'altro esecutore materiale dell'omicidio (Gilberto CAVALLINI).

Gli elementi di indagine offerti all'Autorità giudiziaria divengono più numerosi e concreti nelle successive dichiarazioni rese al G.I. di Palermo.

AL G.I.DI PALERMO IL 25.1.1983 (Fot. 617333-617345 Vol. IX) “Effettivamente quando mi trovavo al carcere di Rovigo fui interrogato dal G.I. dott. GENNARO, al quale riferii circostanze a mia conoscenza intorno all'omicidio del giornalista Mino PECORELLI. Parlai pure al giudice di un omicidio che, secondo una mia sensazione, mio fratello Valerio potè commettere a Palermo tra l'inizio ed il mese di marzo del 1980. Preciso questa epoca perché io come punto di riferimento prendo la data del mio arresto che è avvenuto il 17.4.1980 (trattasi di una carcerazione che terminerà all'inizio di agosto 1980: N.D.R.). Prima di tale data mio fratello fece frequenti viaggi in Sicilia assieme a Gilberto Cavallini. Egli si recava a Palermo, andando sempre in aereo, assieme a CAVALLINI prima del mio arresto. Dopo il mio arresto continuò a recarsi a Palermo in compagnia di MAMBRO Francesca, che era la sua ragazza. I viaggi con la MAMBRO furono più frequenti nel mese di agosto. Il mese di agosto, mio fratello assieme alla MAMBRO, lo trascorse a Palermo, preciso a casa di MANGIAMELI, che so che è a Palermo ma non so se in qualche località vicino a Palermo. Preciso ancora che fino al 5/8 mio fratello era a Roma dove assieme al gruppo CAVALLINI consumò una rapina in una armeria. Dopo il 5/8, assieme alla MAMBRO, così come ho detto, andò in casa di MANGIAMELI per preparare il piano di evasione di CONCUTELLI, ma più che altro per creare appoggi in Sicilia e per procurare mezzi finanziari rapinando una gioielleria. Il periodo della mia detenzione va dal 17 aprile al 2 agosto. In quel periodo mio fratello Valerio agiva in clandestinità ma quando uscì dal carcere mi telefonò. Il giorno prima che partisse per la Sicilia ci incontrammo e parlammo oltre che della rapina all'armeria, dell'omicidio del Giudice AMATO e dell'assalto dinanzi al liceo Giulio Cesare, dove era morto l'agente EVANGELISTA e dove erano rimasti feriti due agenti. Mi chiese quali reazioni si erano avute nell'ambiente del carcere da parte dei camerati detenuti. Io gli dissi che era stato accolto bene addirittura con esultanza. Dopo questo incontro, io con la mia ragazza partii per il mare, mio fratello a quanto ho saputo, dopo, partì per la Sicilia assieme alla MAMBRO.

A D.R. Mio fratello era nella clandestinità dal settembre-ottobre 1979 e cioè da circa un mese prima dell'arresto di CALORE per l'omicidio LEANDRI.

A D.R. Durante questa prima fase della clandestinità, con mio fratello mi vedevo molto di frequente perché ancora non era colpito da mandato di cattura. Non dormiva a casa, ma ci vedevamo molto frequentemente a seguito di telefonate nei luoghi che avevamo già stabilito quando ci incontravamo di persona.

A D.R. Il luogo nel quale ci vedevamo più spesso era un appartamento alla Magliana e presso un canile che io avevo realizzato sull'argine del Tevere che utilizzavamo per deposito armi.

A D.R. Dei suoi viaggi in Sicilia parlavamo assieme al CAVALLINI e, se non ricordo male, in quel periodo lui aveva con sé un documento di identità intestato a «Riccardo CUCCO».

A D.R. Come ho detto al giudice GENNARO, io penso che mio fratello e CAVALLINI poterono consumare l'omicidio in danno di quella personalità palermitana molto importante che fu uccisa in presenza della moglie. Ciò ho detto non perché avessi avuto confidenze di mio fratello o di CAVALLINI, ma perché avendo visto i giornali e avendo osservato l'identikit, mi sembrò di riconoscere sia mio fratello che CAVALLINI. Sul piano delle considerazioni, ritenni e ritengo che essendo mio fratello ed il CAVALLINI a Palermo per preparare la fuga e per creare gli appoggi a CONCUTELLI, avranno potuto commettere l'omicidio per ottenere dei favori in cambio.

A D.R. Non vedo mio fratello dal 5.2.81, data del suo arresto. Io fui arrestato alcuni mesi dopo, esattamente 1'8.4.1981. Dai primi di settembre 1980 e fino al 5.2.1981, giorno in cui mio fratello fu arrestato, con lui vivevamo, nella clandestinità insieme; in tale periodo parlammo dell'omicidio MANGIAMELI e della rapina a Palermo di una gioielleria tra le migliori di Palermo, ma non parlammo di altro.

A D.R. Con mio fratello non si parlava mai di omicidi commessi; si parlava di rapine, si parlava di tutto ma mai di omicidi, a meno che non si fosse trattato di omicidi commessi dal nostro gruppo.

A D.R. Mio fratello utilizzava armi di tutti i tipi.

A D.R. Nel periodo che va dalla fine del 1979 alla data dell'arresto di mio fratello, nei nostri depositi avevamo armi di tutti i tipi. Pistole calibro 7,65 e di altri calibri, rivoltelle calibro 38, M. 12, fucili d'assalto, bombe a mano e financo bazooka.

A D.R. In aereo mio fratello non poteva andare armato, ma in Sicilia poteva rifornirsi di armi presso i camerati. Può darsi che qualche volta sia andato in Sicilia in macchina ed abbia portato con sé armi.

A D.R. A Palermo, sicuramente, mio fratello oltre che con MANGIAMELI aveva rapporti con altre persone, col fratello di CONCUTELLI, al quale telefonava spesso ed al quale avrebbe dovuto comunicare il giorno del trasferimento del fratello nel carcere di Taranto per effettuare l'assalto alla scorta e quindi la liberazione.

A D.R. Non so quali altre persone mio fratello contattò a conobbe a Palermo. Anche perché era stabilito tra noi, proprio per prassi di non chiedere mai niente. Con riferimento alla permanenza di mio fratello in Sicilia, mi fece dei nomi ma io non chiesi nulla. Presumo che a Palermo mio fratello, oltre che con i camerati, avesse avuto rapporti con la malavita locale, ma è solo una mia supposizione. Su queste circostanze potrebbe dare indicazioni la moglie di MANGIAMELI, perché, a quanto io so, la si voleva eliminare dopo l'uccisione del marito perché era a conoscenza di molte cose. Una persona che mio fratello conosceva e che anche io intravidi, è un certo VOLO. Io lo vidi a Porta Pia il giorno in cui assieme a mio fratello, Dario MARIANI, Francesca MAMBRO, la ragazza di mio fratello e Giorgio VALE prelevammo il MANGIAMELI. Il VOLO si trovava nella piazzetta assieme al MANGIAMELI. Il MARIANI ed io chiamammo il MANGIAMELI, preciso io ed il MARIANI con l'autovettura ci avvicinammo al VOLO ed al MANGIAMELI, mio fratello con la MAMBRO ed il VALE non si fecero vedere. Quando ci avvicinammo al MANGIAMELI, MARIANI scese dalla macchina e disse al MANGIAMELI: «c'è Valerio che ti deve parlare», MANGIAMELI salì in macchina e VOLO restò ad aspettare. Quanto ho detto alla S.V. l'ho già detto al Giudice GENNARO.

A D.R. Circa l'attività di mio fratello in Sicilia potrebbe fornire indicazioni importanti CAVALLINI, anzi lui sa tutto di mio fratello. Però, a quanto ne so, sta in Sud America. Notizie potrebbero essere fornite dalla moglie di MANGIAMELI; parlando di lei, mio fratello, era solito ripetere che era molto più pericolosa del marito.

A D.R. Mio fratello usava occhiali da vista rotondi di quelli che a Roma chiamiamo a «piotta», che sono con le intelaiature di metallo e con i vetri rotondi, a forma e delle dimensioni di una moneta da L. 100.

A D.R. Mio fratello, nell'inverno 1979-80, indossava spesso delle giacche a vento imbottite di piume d'oca, cosiddetti «piumini»; ricordo che in quell'epoca ne aveva uno di colore blu o celeste, che usava quando andava in moto. Mio fratello è alto circa mt. 1,75, robusto, capelli castani. CAVALLINI è piuttosto magro, scavato in faccia, stempiato, con i capelli neri, è più alto di qualche centimetro di mio fratello.

A D. PM. R. Non so se mio fratello avesse disponibilità di autovetture in Sicilia.

A D.R. Mio fratello aveva i capelli un po’ lunghi con la riga da una parte.

A D.R. Mio fratello nel dicembre '79 - gennaio '80 usava delle scarpe inglesi chiamate «clark» scamosciate di colore beige.

A D.R. Non ricordo se mio fratello o CAVALLINI avessero delle giacche a vento con strisce bianche su fondo blue scuro.

D.R. E' possibile che mio fratello avesse a Palermo, oltre che con MANGIAMELI, contatti con politici di destra; su questa circostanza potrebbe fornire elementi Walter SORDI, che è stato arrestato assieme a TOMASELLI. Potrebbe anche fornire notizie su CAVALLINI o su fatti o circostanze eventualmente conosciute dal predetto". Come si vede, in questa fase Cristiano FIORAVANTI non ha ancora deciso di rivelare tutto ciò che sa; ma fornisce al Giudice importantissimi elementi suscettibili di riscontro (i viaggi in Sicilia di Valerio; i falsi documenti da lui talora adoperati e intestati a "Riccardo CUCCO"; i contatti con Francesco MANGIAMELI; la possibilità di uno "scambio di favori" con la mafia), e indica, altresì, persone che utilmente potrebbero essere sentite sulla vicenda (Rosaria AMICO, moglie di Francesco MANGIAMELI; Alberto VOLO; Gilberto CAVALLINI; Walter SORDI). Seguono le dichiarazioni rese al P.M. di Bologna, che indagava sulla "strage alla stazione" del 2 agosto 1980.

AL P.M. DI BOLOGNA IL 22.3.1985 (Fot. 901961-901963 Vol. L) "Preciso che al corrente della nostra presenza a Taranto, impegnati nel progetto di evasione di CONCUTELLI, era certamente CARMINATI e dunque il gruppo della. Magliana al quale egli era collegato...L'ultima volta che sono stato a Taranto, cioè nel periodo in cui venne trovata la valigia, sul treno, era presente anche CAVALLINI. Ritenevo molto pericolosa quell'azione per cui chiedevo i motivi per i quali si dovesse realizzare ad ogni costo. Fu Valerio a dirmi che CONCUTELLI rappresentava un simbolo per tutta la destra...Per quanto riguarda gli attentati avvenuti a Roma tra il novembre 1979 ed il febbraio 1980, rivendicati dai «Nuclei Fascisti Rivoluzionari», devo dire che in quel periodo nel quartiere Prati avvenivano continuamente attentati ad' opera di ragazzi della sez. Prati del M.S.I. Prendo atto, per la prima volta, che con la sigla Nuclei Fascisti Rivoluzionari fu rivendicato anche l'omicidio a Pier Santi MATTARELLA, presidente della Regione Sicilia. Io ho sempre espresso la convinzione che gli autori materiali di quell'omicidio fossero mio fratello e Luigi (1) CAVALLINI, coinvolti in ciò dai rapporti equivoci che stringeva MANGIAMELI in Sicilia.

(1) Si tratta di un errore di trascrizione nell’originale del documento, il riferimento è ovviamente a Gilberto CAVALLINI

La storia dell'eliminazione di MANGIAMELI da parte di mio fratello richiama quei collegamenti.

Peraltro, mi risultava che in quei giorni mio fratello e anche CAVALLINI e Francesca MAMBRO erano in Sicilia per loro contatti con MANGIAMELI. Quando furono pubblicati gli identikit degli autori materiali dell'omicidio MATTARELLA sui giornali, ricordo che mio padre esclamò, per la somiglianza degli identikit con mio fratello e CAVALLINI, somiglianza che io stesso avevo rilevato immediatamente, «hanno fatto anche questo !»”. In queste dichiarazioni, Cristiano FIORAVANTI aggiunge un altro, importante, tassello nel mosaico di informazioni che via via fornisce ai magistrati: il collegamento tra il fratello Valerio e la cosiddetta "banda della Magliana", anche in relazione ad uno dei piani di evasione di Pierluigi CONCUTELLI. Tale significativo collegamento (la cui importanza verrà evidenziata in seguito) è più dettagliatamente focalizzato nelle successive dichiarazioni.

Entrano in scena i “neri”. La Repubblica  il 24 gennaio 2020.

LA TESTIMONIANZA DI CRISTIANO FIORAVANTI. "Sono del tutto estraneo all'omicidio dell'On. MATTARELLA, come, del resto, a quelli dell'on. LA TORRE e del dottor REINA. Su di essi non ho alcun elemento di fatto da riferire. Devo, in proposito, far presente che non avrei alcun problema a dire tutto ciò che potesse essere a mia conoscenza, ma, ripeto, non ho elementi oltre a quelli di cui ho già parlato con il dottor CHINNICI.

D.R. In verità l'omicidio dell'on. MATTARELLA è una «brutta storia», e non so se altri, che pure hanno ammesso le loro responsabilità in vari omicidi, sarebbero disposti a dire tutto ciò che, eventualmente sapessero. E ciò sia per problemi, di sicurezza nelle carceri, sia per problemi di «immagine» del gruppo di appartenenza.

D.R. Per quanto io ne so, il nostro gruppo non ha mai avuto rapporti con la mafia. Sapevamo che in giro si diceva che in Sicilia nulla potesse farsi senza il consenso della mafia.

D.R. I nostri obiettivi erano i magistrati, le forze dell'ordine ed i delatori. La mentalità della destra era «di vendetta», e volevamo replicare alle offese patite da magistrati, poliziotti, carabinieri, ritenuti nostri persecutori. I «politici» non erano un nostro obiettivo, per lo meno a quel tempo.

D.R. Non posso escludere che l'omicidio dell'on. MATTARELLA sia stato commesso da qualcuno appartenente al nostro gruppo, e ciò per ricambiare un qualche favore ricevuto.

D.R. Sapevo dei rapporti che intercorrevano fra Alessandro ALIBRANDI, Massimo CARMINATI e Claudio BRACCI, che erano dei «politici». Sapevo che ALIBRANDI e CARMINATI davano in deposito quanto proveniva da rapine da essi compiute a GIUSEPPUCCI, collegato con ABBRUCIATI e DIOTALLEVI, a Roma, il quale, in cambio, pagava elevati interessi mensili. I due, inoltre, riscuotevano crediti per conto del GIUSEPPUCCI, usando, al bisogno, anche le maniere forti. So che Walter SORDI ha accusato ALIBRANDI, CARMINATI e BRACCI di aver assassinato, a Roma, un tabaccaio per conto del gruppo DIOTALLEVI ed ABBRUCIATI.

D.R. Non ho mai sentito il nome di Pippo CALO' o di Mario AGLIALORO.

D.R. Non credo che mio fratello Valerio sia andato in Sicilia per far fuggire CONCUTELLI; fra l'altro, poteva mantenere i rapporti con MANGIAMELI a Roma".

In questo interrogatorio inizia a trapelare l'interno travaglio che finora lo ha trattenuto dal rivelare interamente la verità e, dalle frasi sopra sottolineate, ciò emerge chiaramente. Queste contengono un implicito "messaggio", il cui significato verrà, infine, messo in chiaro nelle dichiarazioni rese, qualche tempo dopo, al P.M. di Firenze dott. VIGNA. RESE AL P.M. DI FIRENZE, il 26.3.1986 (Fot. 607528 Vol. XIII) ".... Ho chiesto di conferire urgentemente con lei per rendere le seguenti dichiarazioni, a render le quali sono mosso dal desiderio che mio fratello Valerio faccia completa chiarezza su quanto ha compiuto. Io non sono capace di accettare nel mio animo che egli possa aver commesso la strage di Bologna della quale è accusato, ma nello stesso tempo voglio porlo con le spalle al muro perché chiarisca tutto quello che ha fatto. Ed allora voglio dire quello che so dell'omicidio MATTARELLA. Noi, il giorno dell'omicidio MANGIAMELI... (...io, Valerio, Francesca MAMBRO e Giorgio VALE stavamo ad un bar... MARIANI Dario era nella piazza al luogo di appuntamento con MANGIAMELI...), eravamo in attesa che giungesse anche la moglie del MANGIAMELI che sapevamo doveva venire a prenderlo. Ma la moglie non venne poi all'appuntamento e venne invece VOLO (n.d.r.: per un preciso riscontro, vedi la sentenza della Corte di Assise di Roma 16.7.1986 relativa a quell'omicidio nonché le dichiarazioni di Alberto VOLO, infra). Dai discorsi fattimi la mattina, capii che avevano deciso di agire non solo nei confronti del MANGIAMELI ma anche nei confronti di sua moglie e perfino della bambina .... Comunque, la mattina le motivazioni delle azioni da compiere contro il MANGIAMELI erano sempre le solite e cioè la questione dei soldi, la questione della evasione del CONCUTELLI. Fu poi compiuto l'omicidio del MANGIAMELI e come ho detto sua moglie non venne all'appuntamento. Il giorno dopo rividi nuovamente Valerio e lui era fermo nel suo proposito di andare in Sicilia, per eliminare la moglie e la bambina del MANGIAMELI, e diceva che bisognava agire in fretta, prima che venisse scoperto il cadavere di MANGIAMELI e la donna potesse fuggire. Io non riuscivo a capire quella insistenza nell'agire contro la moglie e la figlia del MANGIAMELI...E allora Valerio mi disse che avevano ucciso un politico siciliano in cambio di favori promessi dal MANGIAMELI e relativi sempre alla evasione del CONCUTELLI oltre ad appoggi di tipo logistico in Sicilia. A proposito di CONCUTELLI, Valerio mi fece cenno al fatto che MANGIAMELI o chi per lui poteva, attraverso un medico, far sì che CONCUTELLI andasse in ospedale o in un altro carcere (n.d.r.: per un puntuale riscontro, v. appresso). Mi disse Valerio che per decidere l'omicidio del politico siciliano vi era stata una riunione in casa MANGIAMELI e in casa vi erano anche la moglie e la figlia di MANGIAMELI, riunione cui aveva partecipato anche uno della Regione Sicilia, che aveva, dato le opportune indicazioni e cioè la «dritta» per commettere il fatto. Mi disse Valerio che al fatto di omicidio avevano partecipato lui e CAVALLINI e che Gabriele DE FRANCISCI aveva dato loro la casa. Non mi dette altri particolari su questa casa e cioè non mi disse se era di proprietà della famiglia DE FRANCISCI o presa in affitto e da chi: mi disse, ripeto, che Gabriele DE FRANCISCI aveva dato la casa, lì a Palermo, in un luogo non lontano da quello ove si svolse il fatto di omicidio (n.d.r.: per un preciso riscontro, circa l'esistenza di abitazioni di intimi familiari del DE FRANCISCI nelle vie Tasso, Ariosto e Rapisardi di Palermo, vicine al viale della Libertà, ove venne consumato il delitto, v. appresso).

L’azione contro la moglie e la figlia del MANGIAMELI veniva motivata da Valerio col fatto che esse erano state presenti alla riunione: diceva Valerio che una volta ucciso il marito erano pericolose quanto lo stesso MANGIAMELI. Poi l'azione contro le due donne non avvenne in quanto il cadavere di MANGIAMELI fu poco dopo ritrovato" (n.d.r.: per un puntuale riscontro, cfr. la sentenza, già citata, della Corte di Assise di Roma del 16.7.1986). Con questa dichiarazione, Cristiano FIORAVANTI ha compiuto la scelta di rivelare tutto ciò che sa. Il giorno successivo, al P.M. di Roma, dopo dettagliate dichiarazioni concernenti i rapporti fra l'estrema destra e la "banda delle Magliana" nonché l'omicidio di Mino PECORELLI (sui quali v. appresso), Cristiano conferma le dichiarazioni sull'omicidio MATTARELLA.

Di questo interrogatorio conviene trascrivere le seguenti, ulteriori precisazioni: AL P.M. DI ROMA IL 27.3.1986 (Fot. 607532 Vol. XIII) "Il giorno dopo (n.d.r.: l'omicidio del MANGIAMELI) chiesi a Valerio il motivo per il quale intendeva uccidere anche la moglie e la bambina del MANGIAMELI. Mi rispose che la moglie era più pericolosa del marito perché «sapeva» più del MANGIAMELI stesso. Io gli dissi che non mi sembrava un buon motivo, in quanto se era vero che il MANGIAMELI si era approfittato dei giovani di T.P. («Terza Posizione») e si era appropriato di denaro, era sufficiente che pagasse lui e non era necessario uccidere anche gli altri. Fu allora che Valerio disse che tutta la famiglia si era approfittata di lui e in particolare, assumendo di essere in grado di procurare appoggi logistici a lui ed al costituendo gruppo CAVALLINI nonché di organizzare l'evasione di un simbolo della destra quale CONCUTELLI, aveva indotto lui ed il CAVALLINI ad uccidere un politico siciliano. La decisione era stata adottata nel corso di una riunione... alla quale, come mi disse mio fratello, aveva partecipato anche la moglie del MANGIAMELI oltre ad un amico del MANGIAMELI, impiegato alla Regione Sicilia, che aveva fornito le indicazioni necessarie per la individuazione dell'obiettivo ed il momento in cui colpirlo. Valerio mi disse che si erano avvalsi anche dell'ausilio di Gabriele DE FRANCISCI, il quale aveva fornito la disponibilità di una casa, forse di parenti, che aveva a Palermo nei pressi del luogo ove il fatto era poi accaduto. Valerio non mi parlò delle modalità del fatto. Neppure il CAVALLINI lo fece mai...Gabriele DE FRANCISCI era legato a mio fratello ed a me da strettissimi rapporti di amicizia...Debbo perciò presumere che Gabriele fosse stato messo al corrente dell'uso della casa che doveva fornire. Ciò anche nell'ottica di una correttezza di rapporti fra noi "camerati" quando, come nel caso di specie, eravamo particolarmente amici.

D'altronde Gabriele aveva partecipato con Valerio a vari episodi criminosi dell'epoca in cui eravamo al FUAN; aveva conosciuto presumibilmente il MANGIAMELI perché, come questi, aveva partecipato all'assalto al Distretto di Padova ... e avrebbe partecipato più tardi a fatti come l'omicidio EVANGELISTA del maggio 1980. (n.d.r.: cfr. sentenza Corte di Assise di Roma del 16.7.1986, nel Vol. XXX Fot. 739131). Il racconto che ricevetti da Valerio fu successivo (settembre '80) all'impressione espressa da mio padre, quando vide sul giornale gli identikit dell'omicidio MATTARELLA. Disse... « Mio Dio hanno fatto anche questo! »".

AL G.I. DI PALERMO IL 29.3.1986 (Fot. 607544 Vol. XIII) Anche di tale interrogatorio, nel quale Cristiano FIORAVANTI conferma le dichiarazioni rese nei giorni 26 e 27 marzo 1986, è sufficiente trascrivere qui alcuni passi, idonei ad illuminare il travagliato "iter" psicologico in esito al quale Cristiano decide di rivelare ciò che sa sull'omicidio MATTARELLA, nonché a fornire ulteriori precisazioni in punto di fatto."... Preciso che già nel 1982 (n.d.r.: v. dichiarazioni del 28.10.1982) io esternai la mia convinzione, sotto forma di supposizione, che mio fratello Valerio avesse ucciso un politico siciliano. Ricordo che ne parlai a proposito dell'omicidio PECORELLI con il magistrato che si occupava di quelle indagini. In realtà, io sull'omicidio MATTARELLA avevo appreso direttamente da mio fratello Valerio, ma ritenni all'epoca di esternare soltanto mie asserite supposizioni per saggiare quale fossero le reazioni di mio fratello. Preciso meglio che io ho amato molto mio fratello e ho dedicato a lui la mia vita, poiché ero convinto che agisse per ragioni esclusivamente ideali e pure. Senonché, dopo le accuse recentemente mossegli a proposito della strage di Bologna..., ho cominciato a dubitare che mio fratello fosse invece inserito in un giro diverso e che le motivazioni delle sue azioni fossero più oscure. Ho deciso pertanto di metterlo definitivamente alla prova. Io so, infatti, per avermelo lui stesso rivelato, che egli è coinvolto nell'omicidio MATTARELLA. Se egli lo ammetterà, continuando però a negare la partecipazione alla strage di Bologna, ne dedurrò che di quest'ultima è innocente. Se negherà invece anche l'omicidio MATTARELLA, che io come ho detto so che ha commesso, ne dedurrò che è possibile un suo effettivo coinvolgimento nella strage di Bologna...".

Quindi, dopo aver parlato delle promesse non mantenute del MANGIAMELI circa gli appoggi e gli aiuti da ricevere in Sicilia, ha soggiunto: “.... questi appoggi ed aiuti sarebbero venuti al MANGIAMELI ed al nostro gruppo, come mi disse mio fratello, in cambio di un favore fatto ad imprecisati ambienti che avevano interesse all'uccisione del Presidente della Regione Siciliana. All'uopo, era stata fatta una riunione a Palermo in casa del MANGIAMELI, in periodo che non so di quanto antecedente all'omicidio del MATTARELLA, e nel corso di essa erano intervenuti, oltre al MANGIAMELI, mio fratello Valerio, la moglie del MANGIAMELI, ed una persona della Regione (non so se funzionario o politico)...Aggiunse mio fratello che l'omicidio era stato poi effettivamente commesso da lui e dal CAVALLINI, mentre collaborazione era stata prestata da Gabriele DE FRANCISCI, il quale aveva procurato una casa di appoggio, sempre necessaria allorché si procede ad azioni armate. Circa l'uso della casa, debbo far presente che nelle azioni armate è sempre necessario averne una a disposizione e non ha importanza se questa è occupata o meno da persone che non debbono essere messe al corrente del fatto. Ci si può infatti ivi presentare, occultando le armi sulla persona, come amici in visita e trattenersi il tempo necessario perché venga allentata la pressione di polizia, che scatta nella immediatezza del fatto criminoso. La casa deve infatti trovarsi nelle vicinanze del luogo del delitto...

D.R. Solo recentemente ho appreso da Sergio CALORE che si trova detenuto con me a Paliano, che i primi contatti di mio fratello Valerio col MANGIAMELI risalgono al 1979, probabilmente. In particolare, tra l'altro, il CALORE mi ha rivelato che nel 1979 mio fratello, Giuseppe DI MITRI e Roberto NISTRI, capi militari di Terza Posizione, si recarono da lui per chiedergli un mitra UZI che doveva servire... in una progettata evasione del CONCUTELLI a Palermo. Il DI MITRI ed il NISTRI erano legati notoriamente al MANGIAMELI....Il MANGIAMELI, peraltro, era il responsabile in Sicilia di Terza Posizione ed ovviamente non poteva essere estraneo a quel progetto di evasione del CONCUTELLI, al quale, come ho appreso dal CALORE, anche mio fratello partecipava...”.

Perché mio fratello Giusva non parla? La Repubblica il 25 gennaio 2020. AL P.M. DI ROMA L'8.5.1986 (Fot. 639972 Vol. XXI) Da questo magistrato, Cristiano FIORAVANTI viene dapprima interrogato in merito a precedenti indicazioni di Angelo IZZO, relative ad un suo possibile coinvolgimento nell'omicidio di Mino PECORELLI (v. deposizione dell'IZZO. al G.I. di Bologna dell'8.4.1986, infra) e fornisce una spiegazione, traente origine dai rapporti che l'IZZO cercava di allacciare con Raffaella FURIOZZI, già fidanzata di Cristiano FIORAVANTI (anche su ciò, v. in particolare la deposizione di Ivano BONGIOVANNI del 17.4.1986).

In tale interrogatorio, Cristiano FIORAVANTI fornisce inoltre ulteriori dettagli sulla sua decisione di rivelare quanto a sua conoscenza sull'omicidio MATTARELLA: “... Ovviamente, dopo aver recentemente appreso dalla FURIOZZI che questa ancora innamorata di me, pur se non posso essere certo di nulla, mi viene da pensare che IZZO mi abbia accusato proprio per «eliminare il suo rivale in amore». Tale interpretazione mi sembra ovviamente riduttiva ma non riesco a dare altre spiegazioni, oltre questa o quella di guadagnare titoli di merito agli occhi dei Magistrati. Io, d'altronde, sono stato convinto dall'IZZO a dire anche quanto sapevo sugli omicidi PECORELLI e MATTARELLA; la cosa mi è costata molta fatica ma fu l'IZZO a dirmi che dovevamo mettere con le spalle al muro mio fratello e che Valerio doveva uscire allo scoperto anche sulla strage di Bologna. Ciò potevamo fare solo se riuscivamo a convincere e «chiudere» Valerio sulle cose che sapevamo...Mi aggiunse che il pentimento del SODERINI poteva comportare l'effetto che egli parlasse degli omicidi MATTARELLA e PECORELLI per averlo saputo in carcere da Valerio. Disse che sui due fatti egli aveva ricevuto notizie in carcere da Valerio e che ben poteva darsi che lo stesso racconto Valerio avesse fatto a Stefano. Tutto ciò mi veniva detto da IZZO attorno ai primi di marzo e, comunque, in periodo immediatamente prossimo al tempo in cui venne sui giornali notizia del pentimento di SODERINI (e cioè durante il processo per i fatti del Flaminio) e vennero a Paliano i Giudici di Bologna e di Firenze. Si tratta di giorni diversi rispetto a quello del mio interrogatorio del 26.3.1986 al Giudice VIGNA. IZZO mi disse che la congerie di indizi che ho sopraindicato portava inevitabilmente a Valerio e che io dovevo contribuire alla verità e ad indurre Valerio a dirla con compiutezza. Fu così che quando IZZO mi disse che il dott. VIGNA era a Paliano, io mi portai da lui dopo che IZZO mi aveva introdotto, chiedendo al dott. VIGNA se poteva interrogarmi sull'omicidio MATTARELLA. Nei giorni successivi, fui interrogato su quell'omicidio e sull'omicidio PECORELLI anche dai Giudici di Palermo e dal Giudice MONASTERO, al quale fra l'altro espressi il mio desiderio di avere un confronto allargato con IZZO, SODERINI e Valerio. Seppi poi da IZZO che aveva telefonato al dott. MANCUSO di Bologna e da questo aveva appreso della inopportunità di un confronto che precedesse l'interrogatorio da parte dei Giudici bolognesi dell'IZZO medesimo. A questo punto mi arrabbiai moltissimo, perché dissi ad IZZO che in questo modo avremmo praticamente «incastrato» mio fratello e il nostro scopo di chiarezza sarebbe venuto meno, in quanto Valerio non sarebbe «venuto con noi» e mai e poi mai avrebbe detto qualcosa, dopo aver appreso che dei due omicidi si interessavano i Giudici di Bologna...Voglio aggiungere spontaneamente, dopo aver avuto lettura del verbale, che IZZO mi convinse a dire le cose che sapevo sull'omicidio MATTARELLA e PECORELLI. Le mie dichiarazioni sul punto corrispondono pienamente al vero, nel senso che io ho effettivamente appreso da varie fonti di conoscenza indicate nei miei precedenti verbali la responsabilità di Valerio, CAVALLINI ed altri sui due fatti criminosi indicati. Ciò dico per eliminare qualsiasi dubbio che sul punto potesse essere mai avanzato. D'altra parte, a dare ulteriore contezza della veridicità delle mie affermazioni, stanno le motivazioni che precedettero quelle dichiarazioni e la volontà di chiarire la posizione di mio fratello. Il mio intento era addirittura quello di fare dichiarazioni in dibattimento durante il processo MANGIAMELI e ciò per mettere pubblicamente e «brutalmente» mio fratello di fronte alle sue responsabilità...".

AL G.I. DI PALERMO IL 25.5.1986 (Fot. 633230 Vol. XX) Dopo aver confermato le precedenti dichiarazioni, Cristiano FIORAVANTI fornisce ulteriori dettagli in ordine alla fase preparatoria ed esecutiva dell'omicidio. Anche questo interrogatorio evidenzia l'assoluta attendibilità intrinseca del dichiarante, il quale pone la massima cura nel distinguere le notizie effettivamente apprese dalle proprie deduzioni (riguardanti, ad esempio, gli eventuali ruoli di Francesca MAMBRO e Gabriele DE FRANCISCI), dà conto degli interni conflitti emotivi che hanno determinato sue dichiarazioni in senso diverso (nel giudizio relativo all'omicidio di Francesco MANGIAMELI), offre una utile chiave di lettura dei contributi di altri "collaboranti" (Angelo IZZO, Sergio CALORE). “... Confermo, previa lettura avutane, la dichiarazione da me resa ai GG.II. di Palermo il 29.3.1986. Ribadisco di avere appreso direttamente da mio fratello Valerio che egli e Gilberto CAVALLINI erano stati gli autori materiali dell'omicidio dell'On.le Piersanti MATTARELLA e che tale decisione era stata preceduta da una riunione avvenuta in casa del MANGIAMELI, alla quale avevano partecipato, oltre a mio fratello stesso, il MANGIAMELI, la moglie ed un funzionario o un uomo politico della Regione Siciliana, che aveva fornito i particolari nelle abitudini del parlamentare siciliano, necessari per la consumazione dell'omicidio. Io ritengo scontato che alla riunione avessero partecipato la MAMBRO, che non muoveva passo senza il Valerio, ed il CAVALLINI, essendo destinato alla commissione del delitto; ma trattasi di mie deduzioni personali. Ribadisco che, sempre secondo mio fratello Valerio, Gabriele DE FRANCISCI gli aveva fornito la disponibilità di una casa nei pressi del luogo dell'assassinio; mio fratello, però, non mi disse che avevano fatto effettivamente uso della casa stessa. Al riguardo faccio presente che la casa di appoggio viene usata solo quando ciò è reso necessario dalle modalità concrete dell'attentato e non quando l'azione fila via liscia e ci si può allontanare indisturbati.

A D.R. Mio fratello non mi disse come era venuto a Palermo e come ne fosse andato via; egli, infatti, si limitò a confessarmi di aver commesso l'omicidio in questione ed io, del resto, non avevo bisogno di chiedergli ulteriori particolari, dato che era evidente che si trattava di un episodio analogo ad altri da noi commessi che non richiedessero particolare spiegazione. Egli mi avrebbe informato solo se nel corso dell'azione fosse intervenuto qualche fatto imprevisto, meritevole di particolare commento.

A D.R. Per quel che ne so, in Sicilia Valerio FIORAVANTI aveva rapporti solo con Francesco MANGIAMELI, l'unico che avrebbe potuto fare da tramite con i mandanti dell'omicidio.

A D.R. In sede di confronto con mio fratello Valerio, reso davanti al G.I. di Roma, dott. MONASTERO, mi sono reso conto che il predetto teneva una linea ostinatamente negativa. Mi sono reso conto, però, durante quel confronto, che mio fratello era particolarmente oppresso dalle mie nuove accuse e ciò mi ha particolarmente toccato; pertanto, nell'udienza tenutasi successivamente (il giorno dopo), davanti alla Corte di Assise di Roma, inerente all'omicidio MANGIAMELI, ho preferito dichiarare che quanto io sapevo sull'omicidio MATTARELLA era frutto di mie convinzioni personali, che però avevo riveduto. Trattasi, lo ribadisco, di un mio comportamento processuale motivato soltanto da ragioni di affetto nei confronti di Valerio, essendo emotivamente sconvolto dalla sua reazione alle mie accuse; peraltro, in quel confronto, io e mio fratello non avevamo toccato l'argomento dell’omicidio MATTARELLA.

Spontaneamente soggiunge: se ho riferito all'Autorità Giudiziaria quanto io sapevo sugli omicidi PECORELLI e MATTARELLA non è stato certamente per trarne vantaggi sotto il profilo personale. Io sono stato arrestato nell'aprile 1981, prima che venisse approvata la legge a favore dei pentiti politici ed ho subito iniziato a collaborare con la Giustizia in misura veramente notevole. Ho ammesso le mie responsabilità per gli omicidi di due Carabinieri, avvenuti a Padova il 5.2.81, e per questi reati sono stato condannato, in virtù del mio eccezionale contributo, a tredici anni di reclusione, con sentenza ormai definitiva. Nel procedimento in corso davanti alla Corte di Assise di Roma, ho ampiamente ammesso di avere commesso gli omicidi SCIALABRA e MANGIAMELI e non mi aspetto nessun particolare aiuto per quanto ho riferito in ordine a mio fratello. Ho inteso soltanto, con la mia presa di posizione, far comprendere a Valerio che era giunto anche per lui il momento di chiarire le sue responsabilità, anche per comprendere io stesso chi sia veramente mio fratello. Mi rendo conto, però, che per lui è impossibile compiere questo sforzo di autocritica, anche perché ciò significherebbe ammettere di essere stato strumentalizzato da altri e, cioè, da quei poteri occulti che noi abbiamo sempre combattuto e ciò egli non lo farà mai.

A D.R. Per quanto riguarda Angelo IZZO, debbo dire che non sono in grado né di confermare, né di escludere che Valerio possa avergli confidato qualcosa sugli omicidi PECORELLI e MATTARELLA.

Quello che mi sento di escludere - ben conoscendo Valerio - è che possa avergli confidati eventuali contatti con la mafia siciliana o con «la banda della Magliana». IZZO, condannato all'ergastolo con pena definitiva, probabilmente ritiene che un suo contributo eccezionale in ordine ad alcuni c.d. «omicidi eccellenti» possa in qualche modo risolversi a suo favore ai fini di una riduzione della pena. E' assurdo, poi, che egli mi accusi di avere partecipato ad un omicidio come quello di PECORELLI, cui io sono del tutto estraneo e sul quale ho riferito quanto a mia conoscenza. L'IZZO da tempo (dieci anni) è rinchiuso nelle carceri speciali e di storie su tanti fatti, spesso ingigantite o distorte, ne ha apprese parecchie. Mio fratello, inoltre, era molto unito a Sergio CALORE, quale certamente avrebbe riferito di avere commesso gli omicidi in questione, se avesse voluto confidarsi con qualcuno; e ciò a differenza di IZZO...

A D.R. E' vero, come la S.V. afferma essere stata riferito da Sergio CALORE, che io mi sono recato da Bruno MARIANI per ritirare un mitra UZI. Ho eseguito questo incarico su richiesta di Valerio, che mi aveva detto che il mitra occorreva per consumare una rapina alla Chase Manhattan Bank di Roma. Il mitra non è stato riconsegnato da me ed ignoravo che Valerio ne avesse richiesto il prestito a Sergio CALORE motivandolo con la necessità di impiegarlo per far evadere CONCUTELLI.

...Spontaneamente soggiunge: mio fratello non mi disse di avere ucciso l'On.le MATTARELLA, bensì soltanto un uomo politico siciliano e che quest'ultimo era in compagnia della moglie ed era di ritorno dalla messa; mi disse anche che lo aveva ucciso con una rivoltella cal. 38. E' stato molto agevole, per me, sulla base di questi particolari, individuare l'uomo politico ucciso, anche a seguito di quanto riferitomi dai Magistrati con cui ho iniziato a collaborare. Credo che queste mie dichiarazioni risalgano alla fine del 1982 - primi del 1983 -. Nel periodo dell’assassinio, noi camminavamo armati normalmente con una rivoltella cal. 38, una pistola automatica bifilare, munizionamenti e una bomba a mano”.

AL G.I. DI PALERMO IL 19.12.1986 (Fot. 702731 Vol. XXV) Cristiano FIORAVANTI riceve dapprima lettura delle dichiarazioni, in data 7.6.1986 (v. appresso), con le quali il fratello Valerio ha respinto ogni accusa, definendo "inspiegabile" e "contraddittoria" la condotta di Cristiano. Il dichiarante spiega ancora una volta, in maniera seria e convincente, il travagliato "iter" psicologico ed emotivo che, del tutto disinteressatamente, lo ha indotto a rivelare ciò che sa sull'omicidio MATTARELLA. "... Ricevo lettura di quanto dichiarato da Valerio FIORAVANTI il 7.6.1986 (Fott. 639197-639209 Vol. XX) e, al riguardo, dichiaro quanto segue. Anzitutto, ribadisco le mie precedenti dichiarazioni, di cui ricordo perfettamente il contenuto, in ordine a quanto mi risulta circa la partecipazione di mio fratello all'omicidio MATTARELLA. Vorrei ancora una volta sottolineare, da un lato, che accusare mio fratello di un omicidio così "sporco" a me è costato e costa tuttora grandissima fatica per l'affetto che mi lega a Valerio: inoltre i miei familiari mi hanno aspramente criticato mossi da evidente affetto per Valerio. Dall'altro, non vedo proprio quale concreto interesse processuale potrei ricavare da queste mie accuse contro mio fratello. In tutti i processi a mio carico ho lealmente ammesso e mie responsabilità e quelli più gravi sono già definiti o sono sul punto di esserlo con riconoscimento della mia «qualità di pentito». Io ritengo che in tempi brevi ragionevolmente, riacquisterò la libertà e non vedo perché avrei dovuto accusare mio fratello di reati tanto gravi se fossi stato spinto, come afferma Valerio, da motivi di sconti di pena. Solo in tempi recenti ho deciso di riferire quanto a mia conoscenza sull'omicidio MATTARELLA, volendo giungere ad un chiarimento con me stesso e sulla reale personalità di mio fratello. Noto con stupore che mio fratello ha riferito fatti molto controproducenti per lui stesso come la sua presenza a Palermo nel gennaio 1980; circostanza, questa, che non aveva mai ammesso finora e della quale io nulla sapevo. Ricordo che, nell'ultimo confronto con Valerio, quest'ultimo si dichiarava del tutto tranquillo sull'omicidio MATTARELLA poiché, a suo dire aveva conosciuto MANGIAMELI soltanto nel marzo-aprile 1980; e nessuno all'infuori di lui, era a conoscenza di questa circostanza, che non era altrimenti dimostrabile se egli non l'avesse riferita. In definitiva, questo stranissimo comportamento processuale di Valerio può trovare spiegazione, a mio avviso, solo nel fatto che egli, non potendolo ammettere esplicitamente, fa di tutto affinché la sua responsabilità in ordine all'omicidio in questione venga fuori per altra via. Io ho le mie precise convinzioni circa i motivi di questo suo persistente diniego a confessarsi autore dell'omicidio MATTARELLA; ma trattandosi soltanto di supposizioni mi astengo doverosamente dal riferirle. E' certo, però, che deve esserci qualcosa di grave perché mio fratello adotti un comportamento tanto strano, specie se si considera che ha confessato gli altri omicidi da lui commessi. Vorrei sottolineare, per esigenze di chiarezza, che non mi sentirei di fare affidamento con tranquillità su quanto riferito da Angelo IZZO. E ciò non perché abbia riferito cose false sul mio conto, travisando il mio ruolo in vicende in cui, peraltro, ho ammesso le mie responsabilità (vedi omicidio DI LEO, commesso a Roma nel settembre 1980). Ma perché in realtà, egli ha sempre riferito cose francamente inattendibili e indimostrabili, rivelando col suo comportamento di gravitare in un ambiente torbido. Non si deve mai dimenticare che IZZO è quel soggetto resosi responsabile dell'inqualificabile atto delittuoso di S. Felice CIRCEO e che, proprio per questa sua personalità, non era certamente visto di buon occhio da noi, anche se faceva parte di QUEX (la rivista rivoluzionaria dei detenuti di destra): mi sembra assurdo, dunque, che tutti - anche persone di notevole spessore politico e di forte personalità - facessero quasi a gara per confidargli tutti i segreti più gravi.

A D. R. Non ho mai detto ad IZZO che il tramite della conoscenza fra Valerio e MANGIAMELI fosse Peppe DI MITRI; ciò a me non risulta e, pur avendone parlato con mio fratello, ritengo più probabile che sia stato altri ma potrei fare solo supposizioni. Per quanto ne so, è stato Sergio CALORE a far conoscere CAVALLINI a mio fratello. Io ritengo che il primo gesto commesso dai due, insieme, sia stata la rapina di Tivoli commessa alla fine del 1979 (gioielleria).

A D.R. Sono sicuro che Valerio mi abbia detto la verità nel confidarmi le sue responsabilità nell'omicidio dell'uomo politico siciliano. Egli doveva convincermi dell'utilità, dopo l'uccisione di MANGIAMELI, anche dell'uccisione della moglie e della figlia di quest'ultimo e, pertanto, doveva presentarmi una reale esigenza; e mi disse, pertanto, che la moglie aveva partecipato alla riunione in cui si era decisa l'uccisione ed era ancora più pericolosa del marito".

La lettera al giudice Falcone. La Repubblica il 26 gennaio 2020. Dalla Casa di reclusione di Paliano, il 30.3.1987, Cristiano scriveva a questo Ufficio: “Egr. Dott. FALCONE Le scrivo perché non sono sereno, non riuscendo a scindere la verità dalla falsità rendendomi conto di essere stato influenzato da una serie di fattori che mi hanno portato a fare le dichiarazioni che ho reso davanti a Lei, oggi, dopo aver riflettuto a lungo non me la sento di confermare le suddette dichiarazioni. Non è facile per me accusare mio fratello di un reato così grave ed è proprio per questo che devo avere l'assoluta certezza di quello che ho detto e purtroppo non avendola non riesco ad accettare l'idea di accusarlo su storie che non ho vissuto di persona e perciò non posso fare altrimenti, devo rendere conto anche alla mia coscienza e alla mia famiglia, gradirei parlarle di persona quando capiterà a Roma per lavoro".

Il senso della lettera, già facilmente intuibile per i suoi riferimenti alle responsabilità affettive verso il fratello e la famiglia, è dolorosamente messo in chiaro nel successivo interrogatorio. AL G.I. DI PALERMO IL 15.4.1987 (Fot. 746889 Vol. XXXIX) "Le ho scritto la lettera che le è pervenuta per rappresentarle il mio intenso stato di disagio affettivo, poiché mi sono reso conto che, inevitabilmente le mie dichiarazioni sul coinvolgimento di mio fratello Valerio avranno il loro peso, non insignificante, nel procedimento penale a suo carico in ordine, alla strage di Bologna, attualmente in corso di svolgimento davanti alla Corte di Assise di quella città. Con la lettera sopra richiamata, non ho inteso affatto ritrattare le mie precedenti dichiarazioni riguardanti l'omicidio MATTARELLA, ma soltanto esprimere la gravissima preoccupazione per la sorte di mio fratello. Io non so dire se egli è o meno responsabile dei fatti da lui riferitimi e, in particolare, dell'omicidio MATTARELLA di cui mi confidò essere autore. Però, la prego di comprendere il dramma umano che io sto attualmente vivendo e la prego altresì di rinviare il mio interrogatorio ad almeno una quindicina di giorni affinché io possa riflettere ulteriormente sulla scelta processuale da adottare in ordine alle mie dichiarazioni sull'omicidio MATTARELLA".

AL G.I. DI PALERMO L'11.5.1987 (Fot. 750288 Vol. XXXIX) "Dopo lungo travaglio, ho deciso di confermare quanto ho riferito sull'omicidio MATTARELLA, per averlo appreso da mio fratello Valerio. E' una imprescindibile esigenza di verità sapere chi è realmente mio fratello e non posso, in nome di un malinteso affetto, negare quanto in effetti è accaduto. In sostanza, non posso negare la realtà storica di fatti che sono accaduti, come le confidenze fattemi da mio fratello Valerlo sul suo coinvolgimento nell'omicidio MATTARELLA. Ci sono diversi punti oscuri nelle sue azioni che finora non sono riuscito a comprendere; lo stesso barbaro omicidio di MANGIAMELI e l'accanimento di mio fratello nel proposito di eliminare la moglie e la figlia del predetto, sono tuttora, a mio avviso, inspiegabili sulla base delle ideologie politiche che assume di professare. E c'è da dire che Valerio ha confermato anche in Corte di Assise questi suoi propositi. Altri episodi mi sembrano difficilmente spiegabili, alla luce dello spontaneismo armato di cui egli è esponente di rilievo. L'omicidio LEANDRI, avvenuto nel dicembre 1979, ha infatti una causale molto strana. LEANDRI è stato ucciso per errore di persona e, al suo posto, avrebbe dovuto essere ucciso l'avv. ARCANGELI, ritenuto responsabile di avere fatto arrestare CONCUTELLI e di essere un uomo che lavorava per i Servizi Segreti. Altro fatto singolare è la mancata individuazione della finanziaria in danno della quale io avrei dovuto, insieme con CAVALLINI, mio fratello, Francesca MAMBRO, Giorgio VALE, Luca CERIZZO ed altro soprannominato «il paglia», compiere una rapina il 5.2.1981 a Milano, oppure il giorno dopo. Andai a Milano esclusivamente per partecipare a questa rapina, che doveva essere compiuta immediatamente; il che significa che i sopralluoghi erano già stati fatti ed il piano già predisposto. Mi era stato, detto, fra l'altro, dai miei correi (non ricordo da chi) che la finanziaria era ubicata a circa cento metri dalla Questura. Senonché, come ho detto più volte, quella mattina CAVALLINI mi avvertì che un tale di Padova, di cui adesso non ricordo il nome, aveva buttato in un canalone le armi, per cui fu necessario acquistare le attrezzature di subacqueo per tentare il recupero. Poi, com'è noto, il Valerio, nel tentativo di recupero (io materialmente ero in acqua) ebbe una sparatoria coi CC. e fu ferito ed arrestato. Faccio presente, nel riportarmi a quanto ho già detto su tale episodio, che con me, quando sono arrivato a Milano ed anche a Padova nei pressi del canalone, vi era anche Gabriele DE FRANCISCI, che riuscì ad eclissarsi, a bordo di una seconda vettura da lui guidata. La mancata individuazione della finanziaria mi sembra molto sospetta, se si considera che mio fratello ha ammesso tutto; e lo stesso dicasi per CAVALLINI e la MAMBRO. La cosa mi sembra molto sospetta avendo appreso da Roberto FRIGATO che la finanziaria si occupava di riciclaggio di danaro sporco e che egli era d'accordo con un impiegato o meglio con un azionista della società che avrebbe dovuto comunicare il giorno in cui presso l'Agenzia vi sarebbe stato il danaro. L'azionista intendeva, in siffatta maniera, dare un serio colpo alla finanziaria per acquistare le azioni degli altri a prezzo vile, con la sua quota di bottino proveniente dalla rapina. A D.R. Non mi risulta che mio fratello abbia mai avuto rapporti con Roberto FIORE e con ADINOLFI; egli aveva ottimi rapporti, ma solo fino al 1979, con Giuseppe DI MITRI. Mi sembra poco plausibile, pertanto, che sia stato il FIORE a presentare MANGIAMELI a mio fratello. E' più probabile, alla luce di quanto io so, che sia stato Giorgio VALE o, addirittura, CAVALLINI, gli unici due con cui, nel 1979, mio fratello manteneva rapporti. Peraltro, tuttora mi è ignoto in quali circostanze mio fratello abbia fatto la conoscenza di Giorgio VALE".

Sentito dalla Corte di Assise di Bologna nel giudizio di primo grado relativo alla strage del 2 agosto 1980, Cristiano FIORAVANTI non confermava quanto aveva precedentemente riferito sugli omicidi PECORELLI e MATTARELLA. Successivamente, però, chiariva le ragioni del suo comportamento in Assise al P.M. di Bologna. Ancora una volta, com'era già avvenuto davanti all'Assise di Roma nel procedimento per l'omicidio MANGIAMELI, non si era sentito - psicologicamente - di mantenere ferma l'accusa contro il fratello, isolandosi affettivamente dal resto della sua famiglia (e soprattutto dal padre, Mario), schierata al fianco di Valerio.

AL P.M. DI BOLOGNA IL 4.3.1988 (Fot. 850002 Vol. XLVII) "Intendo spontaneamente riferirete chiarire talune questioni che in questi giorni mi hanno agitato. Preciso che si tratta di vecchi nodi che io non sono riuscito a risolvere e che mi hanno portato ad una parziale ritrattazione avanti la Corte di Assise di Bologna. Io avevo già detto al Dr. FALCONE che non avrei retto nel confermare le mie accuse in presenza di mio fratello Valerio. Avevo anche chiesto a detto giudice di Palermo di avvertirLa di questo, se possibile, poiché io già sapevo che non avrei retto nell'aula della Corte di Assise di Bologna alla presenza di mio fratello. Oggi però avverto l'esigenza di affrancarmi da una tale mia subalternità e condizionamento nei confronti di mio fratello, verso cui continuo a nutrire sentimenti di profondo affetto. Per fare ciò devo necessariamente spezzare un'altra serie di affetti e di rapporti collegati a tutta la mia vicenda terroristica. In particolare, devo dire che attraverso mio padre rimbalzano su di me continuamente pressioni affinché io ritratti le mie dichiarazioni. Per ragioni che non conosco, taluni legali sono convinti che io sappia molto più di quanto non abbia già dichiarato, il che peraltro mi porta ad avere comprensibili preoccupazioni. Io, sia pure in maniera sofferta e graduale, liberandomi progressivamente da una serie di affetti famigliari, sono riuscito a realizzare una collaborazione leale con le varie Autorità giudiziarie. Viceversa, l'avvocato CERQUETTI, dichiarandosi convinto che io avessi sempre confessato reati non commessi in riferimento alle accuse da me rivolte a mio fratello sull'omicidio PECORELLI e per l'omicidio MATTARELLA, ha detto a mio padre che si trattava di accuse false che io avrei dovuto ritrattare. L'avvocato CERQUETTI, nel dire ciò a mio padre, sosteneva che «i Giudici di Bologna non mi avrebbero mai fatto uscire dal carcere se io non avessi riferito loro che Valerio era responsabile della strage di Bologna». Aggiungeva anche che «i Giudici di Bologna si servivano di IZZO per raggiungere il loro scopo, che era quello di accusare Valerio e di mettere me sotto pressione perché io dicessi loro le cose che volevano che io ammettessi». Ho ricevuto per anni tante e tali di queste pressioni che alla fine mi sono convinto che effettivamente questo gioco ai miei danni fosse stato realizzato. Avvertivo l'esigenza di chiarire con Lei quanto mi è capitato ed ecco il motivo per cui ho chiesto di parlarLe di queste mie vicende personali. Intendo poi spontaneamente rivelare un altro episodio che mi è capitato durante la mia detenzione presso il Reparto Operativo dei Carabinieri di Roma. Era il febbraio 1983; SORDI era stato arrestato da poco ed aveva iniziato a collaborare riferendo particolari sull'omicidio PECORELLI. Io, per esigenze istruttorie, fui portato presso il Reparto Operativo dove c'era anche SORDI e qui venni sottoposto a numerosi interrogatori. In questo periodo mi venne più volte chiesto cosa io sapessi dell'omicidio PECORELLI, evidentemente a seguito di quanto aveva detto sul punto SORDI. Mi sembra di ricordare che io mai avevo detto nulla su tale episodio, anche se io avevo sempre nutrito seri dubbi che mio fratello c'entrasse in tale omicidio, oltre che in quello di un uomo politico assassinato in Sicilia, che solo in un secondo momento seppi trattarsi dell'onorevole MATTARELLA. Successivamente, nel 1986, sarò molto più esplicito su tali episodi con i Giudici di Roma e di Palermo. Nel 1983, invece, al Reparto Operativo fui molto più defilato. Ciò perché mio fratello aveva confessato numerosi omicidi ma non quei due, il che mi faceva capire che c'era qualcosa di oscuro in tali episodi che mio fratello voleva coprire e che io non intendevo svelare anche perché non conoscevo i retroscena. Sempre in quel periodo il mio legale, l'avvocato Maurizio DI PIETROPAOLO, mi chiese più volte cosa sapessi dell’omicidio PECORELLI durante i nostri colloqui. Io gli dissi che non ne sapevo nulla. L'avvocato DIPIETROPAOLO mi disse che se io avevo interesse a restare al Reparto Operativo e a non rientrare in carcere, potevo dare ai Giudici un «contentino». Gli chiesi cosa intendesse per «contentino», dal momento che io gli avevo riferito di non saper nulla di tale omicidio ed egli mi rispose: «nel caso ne parleremo». In pratica, io capii che il mio legale voleva incanalare le cose per favorire qualcuno o per giochi ed interessi che mi sfuggivano ed ai quali io ero certamente estraneo. Quando chiesi a mio padre, dopo le rivelazioni, di CALORE e SODERINI, se realmente il mio avvocato lo avesse avvicinato per la vicenda PECORELLI, mio padre mi rispose che ciò non era vero. L'avvocato DIPIETROPAOLO mai nessun accenno mi fece all'omicidio MATTARELLA. Mio padre mi disse che l'avvocato CERQUETTI gli aveva poi spiegato che se io avessi ritrattato le mie dichiarazioni sui due omicidi ed avessi affermato che si trattava di circostanze false nessuno avrebbe potuto togliermi i benefici di legge di cui avevo già usufruito con sentenze definitive e tutt'al più avrei potuto andare incontro ad una pena non superiore ai due anni di reclusione per calunnia e favoreggiamento. Anche ultimamente, in occasione del processo per l'omicidio DI LEO, l'avvocato CEROUETTI, difensore di Donatella DE FRANCISCI, mi ha invitato, sempre attraverso mio padre, a ritrattare le mie dichiarazioni; dico meglio: in occasione del processo DI LEO (febbraio '88) nel quale io ero imputato, confesso e chiamante in correità (avevo riferito a PEDRETTI, dopo un colloquio con la Donatella DE FRANCISCI, che era tutto pronto per ammazzare il giornalista CONCINA, che gli appostamenti erano stati positivi e che in settembre si sarebbe «proceduto»), l'avvocato CERQUETTI ha avvicinato mio padre, dicendogli che si stava facendo in modo di condannarmi e di farmi perdere i benefici per una accusa di omicidio che io non avevo confessato. Viceversa, era vero il contrario ma mio padre non lo sapeva. Devo dire a questo punto, che se io all'udienza del dicembre '87 non ho confermato quanto avevo riferito sugli omicidi PECORELLI e MATTARELLA è stato per questo clima che l'avvocato CEROUETTI è riuscito a creare nella mia famiglia; in altri termini dicendo a mio padre che io ho detto il falso su tali episodi e che era necessario convincermi a ritrattarli, egli è riuscito a condizionare mio padre, che mi considera un «infame» e che è interessato solo a mio fratello, ed a fargli esercitare nei miei confronti dei ricatti morali ed affettivi. E' da anni che l'avvocato CEROUETTI porta avanti questo compito, che come ho detto è riuscito a condizionare la mia condotta processuale. Il legale invitò mio padre ad essere presente in aula per assistere a quello che io dicevo, sapendo che la sola sua presenza mi avrebbe condizionato. A Bologna, poiché la mia deposizione slittò, mio padre presente all'udienza in cui non fui escusso e non potè essere presente quando fui interrogato. Evidentemente, però, il clima che si era già creato mi portò a quella ritrattazione sui due episodi criminosi di cui ho detto. Quanto ho detto è determinato da una esigenza, che avverto in questo momento più forte che non nel passato, di affrancarmi da ogni condizionamento nel tentativo di conquistarmi una più completa autonomia ed indipendenza. Al momento non ricordo altro".

Prescindendo, qui, da ogni valutazione in ordine alle motivazioni ed alle modalità degli interventi dei citati professionisti, è necessario ricordare che le dichiarazioni di Cristiano trovano riscontro in un altro episodio, richiamato nella sentenza della Corte di Assise di Bologna relativa alla strage del 2 agosto 1980, su "cointeressenze processuali" tra Licio GELLI e Valerio FIORAVANTI in relazione all'omicidio PECORELLI (su tale episodio v. "amplius" in appresso). Con talune precisazioni, Cristiano FIORAVANTI ritorna sull'argomento nelle dichiarazioni del 21.7.1988, rese a questo Ufficio.

AL G.I. DI PALERMO IL 21.7.1988 (Fot. 850655 Vol. XLVII) “Confermo, previa lettura avutane, la dichiarazione da me resa al P.M. di Bologna, dott. L. MANCUSO, il 4.3.1988 (Vol. XLVII, ff 183-187).

Debbo dire, però, che per quanto riguarda le mie dichiarazioni sull'avv. DI PIETROPAOLO si tratta di mere sensazioni e valutazioni, squisitamente personali, la cui attendibilità non sono in grado di riferire; pertanto, non le confermo. Vorrei soggiungere che mi trovo in uno stato di profondo disagio, perché ho appreso da mio padre, al quale ciò è stato comunicato da mio fratello, che adesso i pentiti della mafia starebbero facendo rivelazioni anche sulla esecuzione materiale dell'omicidio MATTARELLA da parte di mafiosi; e Valerio, secondo quanto mi ha riferito mio padre, ha soggiunto: «adesso, sono problemi per quelli che mi hanno accusato dell'omicidio MATTARELLA». Ignoro da chi mio fratello avrebbe appreso queste notizie; forse, ma è soltanto una mia opinione, dai giornali o dalla televisione. Ho appreso ciò da mio padre in occasione di un permesso, concessomi dal magistrato di sorveglianza, dal 1° al 13 giugno scorso, che ho trascorso a casa dei miei familiari, a Roma. In sostanza, io non posso che ribadire la verità del fatto storico di avere appreso personalmente da mio fratello Valerio, con le modalità che ho riferito nei miei precedenti interrogatori, che egli era coinvolto nell'omicidio di un uomo politico siciliano, che secondo le Autorità si identificherebbe nell'on. MATTARELLA. Per quanto mi riguarda, ribadisco di non sapere e di non avere altri elementi per stabilire se egli ha effettivamente commesso questo omicidio; ma non posso sostenere, per onestà intellettuale, che egli non mi abbia confidato ciò, anche se, ove ritrattassi, probabilmente la mia situazione ne trarrebbe beneficio.

A D.R. Per quanto concerne l'omicidio di Michele REINA, segretario provinciale della D.C. di Palermo, che la S.V. mi dice essere avvenuto, in Palermo il 9.3.1979, debbo dire che apprendo soltanto adesso di tale omicidio e che il nome di REINA non mi dice nulla.

A D.R. Escludo che mio fratello mi abbia mai detto di essere in qualche modo coinvolto nell'omicidio suddetto. Apprendo dalla S.V. che le vedova di Michele REINA ha recentemente reso una dichiarazione nel corso della quale ha fotograficamente notato una somiglianza fra il killer di suo marito e mio fratello Valerio ed ha precisato delle modalità di esecuzione dell'assassinio che ricordano gli omicidi commessi da mio fratello, secondo quanto la S.V. mi dice. Al riguardo, ribadisco che di tale omicidio non mi risulta nulla e che mai ne ho parlato, con Valerio o con altri.

A D.R. Se ben ricordo, il 6.3.1979 era l'anniversario della morte di Franco ANSELMI, che si intendeva commemorare con un'altra rapina in un'altra armeria, come quella in cui era stato ucciso l'ANSELMI. Trattasi della rapina in danno dell'armeria Omnia Sport che, però, fu commessa qualche giorno dopo, cioè, lo stesso giorno in cui io sono stato dimesso dal carcere. Io, quindi, non ho partecipato alla rapina, che però è stata commessa da mio fratello Valerio, Francesca MAMBRO, Giuseppe DI MITRI, Alessandro ALIBRANDI, Dario PEDRETTI, Alessandro PUCCI, Gabriele DE FRANCISCI ed altri. In quel periodo, Valerio era molto attivo sulla piazza di Roma e, se ben ricordo, si allontanò da questa città dopo una decina di giorni dalla consumazione della rapina, per distribuire parte delle armi sottratte ai gruppi che voleva creare nel Nord, a Trieste e Rovigo. Anzi, non sono nemmeno sicuro, adesso, se sia allontanato da Roma o se la consegna delle armi sia avvenuta nella Capitale. Quel che è certo è che non ho mai sentito parlare di un suo viaggio in Sicilia in quel periodo".

Le “pressioni” e il silenzio. La Repubblica il 27 gennaio 2020. La drammatica vicenda di Cristiano FIORAVANTI e le pressioni esercitate per condizionare la sua condotta processuale, ovviamente, non cessano. Ne è riprova la lettera al Giudice Istruttore di Palermo del 26.8.1989. LETTERA AL G.I. DI PALERMO DEL 26.8.1989 (Fot. 906374 Vol. LII) Dalla Casa di reclusione di Paliano, il 26.8.1989, Cristiano FIORAVANTI Scrive: "Io sottoscritto Cristiano FIORAVANTI dichiaro di non voler confermare le dichiarazioni rese nella fase istruttoria sull'omicidio di Piersanti MATTARELLA e di astenermi in futuro a rispondere su tale fatto, avvalendomi dell'art. 350 C.P.P. che cita «i prossimi congiunti dell'imputato o di uno dei coimputati del medesimo reato possono astenersi dal deporre». Questa mia decisione è maturata in seguito a seri motivi di famiglia".

Cristiano spiega le ragioni della sua scelta nel successivo interrogatorio del 16.3.1990. AL G.I. DI PALERMO IL 16.3.1990 (Fot. 918820 Vol. LXVII) "Intendo avvalermi della facoltà di non rispondere, anche se riconosco integralmente tutte le dichiarazioni sin qui rese, in quanto non ho più la forza né fisica né psichica per continuare ad accusare mio fratello, subendo tutte le conseguenze di carattere morale, affettivo e familiare connesse a questa mia scelta, che mi è costata e mi costa un prezzo altissimo. Tra l'altro, ho interrotto quasi del tutto ogni rapporto con l'esterno, all'infuori di mia sorella. Intendo chiarire che non è un ripensamento alla mia scelta di collaborazione, anzi sostengo tutt’oggi che sia stata la scelta più giusta che mi ha permesso di trovare la via per tentare di espiare i miei gravissimi reati. Tale collaborazione, però, per il motivo avanti indicato, non comprende proprio e soltanto il processo riguardante l'omicidio dell'on. MATTARELLA, o meglio, non intendo andare oltre nella collaborazione già resa dell'istruttoria di quest'ultimo processo. Spontaneamente aggiunge: non escludo che in futuro, se riuscirò a superare questo stato di prostrazione fisica e psichica, sarò di nuovo disponibile a rendere ulteriori interrogatori, anche perché mi rendo conto che questa mia scelta odierna cozza con la scelta precedente di recidere nettamente ogni legame con passato. A questo punto, sono le ore 16,40, si presenta l'avv. Giampiero MENDOLA in sostituzione dell'avv. DI PIETROPAOLO, il quale viene reso edotto di quanto sin qui verbalizzato. Letto, confermato e sottoscritto alle ore 16,45. Si dà atto che prima di firmare il verbale il FIORAVANTI spontaneamente accetta di rispondere solo ad una domanda concernente un piumino di colore azzurro.

A D.R. Ricevo lettura di quanto dichiarato da mio fratello Valerio, circa il possesso di un piumino di colore blu, nel suo interrogatorio del 23.10.1989. Al riguardo, devo precisare che è vero che io possedevo o meglio ho posseduto un piumino di colore azzurro, marca Moncler. Ho comprato, però, tale indumento solo dopo l'estate del 1980 e non so che fine abbia fatto. E' vero, però che Stefano SODERINI quando venne al carcere di Paliano, nel 1986 o 1987, mi regalò un piumino di colore blu, marca CIESSE, dicendomi che era stato di Valerio. Io non avevo ricordo che tale indumento era stato nella disponibilità di mio fratello. Questo capo di abbigliamento, per quel che ne so, dovrebbe tuttora trovarsi in casa di mio padre, in via del Tritone n. 94 Roma. In questo momento mio padre si trova all'estero, a Ceylon, ed in casa non c'è nessuno.

A D.R. Prima del piumino Moncler avevo avuto un altro piumino, di scarso valore commerciale, forse di origine cinese, di colore azzurro «carta da zucchero» ma non blu, che utilizzavo per andare in motocicletta. Anche di questo indumento non ho saputo più nulla da quando mi sono dato alla latitanza". Le dichiarazioni testé trascritte spiegano le ragioni del comportamento processuale assunto, nel medesimo periodo (marzo 1990), innanzi alla Corte di Assise di Appello di Bologna, che giudicava - in quel momento - sulla strage del 2.8.1980.

ALLA CORTE DI ASSISE DI APPELLO DI BOLOGNA IL 29.3.90 (Fot. 918994 Vol. LXVII) “... viene introdotto FIORAVANTI Cristiano. Si dà atto che è presente il difensore di ufficio CAVARRETTA del Foro di Bologna. Quindi, il dr. ESTI legge le dichiarazioni rese dal teste il giorno 22 marzo 1990. Non intendo rispondere a domande come quelle che la S.V. mi formula, intorno all'omicidio MANGIAMELI. Alla domanda se conoscesse il MANGIAMELI risponde: Io conobbi costui soltanto il giorno che lo prelevammo. Sapevo che era un dirigente di T.P. Non intendo rispondere alla domanda circa i rapporti intercorrenti tra il MANGIAMELI e mio fratello. Confermo le dichiarazioni da me rese nel corso del processo in ordine al delitto MANGIAMELI, non confermo dichiarazioni che abbiano ad oggetto l'omicidio MATTARELLA. Il Procuratore Generale produce documento contenente dichiarazioni rese da Cristiano FIORAVANTI al Procuratore della Repubblica il 4.3.1988 (v. prima).

A D. risponde: Effettivamente, mentre ero detenuto nelle Carceri di Paliano ove trovavasi anche il dott. MANCUSO, sentii il bisogno di fare una dichiarazione spontanea.

A D. del dr. ESTI risponde: Voglio far presente che nel fare dichiarazioni in passato in ordine alla strage di Bologna, al delitto MANGIAMELI, al delitto MATTARELLA e delitto PECORELLI, fui influenzato da IZZO Angelo. L’IZZO mise in discussione l'operato di mio fratello. Cominciava a dire che c'erano molti punti oscuri sull’operato di mio fratello. Diceva che c’erano prove che coinvolgevano mio fratello nei fatti di cui sopra. Egli mi enunciò alcuni fatti e circostanze intese a sostenere la sua affermazione. Io rimasi sconvolto. Di fronte agli elementi che enuncia l'IZZO io mi convinsi della fondatezza su guanto egli affermava a proposito di mio fratello. L'IZZO diceva che gli elementi che mi presentava li aveva desunti da confidenza dello stesso Valerio. Successivamente, mi sono reso conto che mio fratello non potesse assolutamente essere stato partecipe di fatti così infamanti. Se io avessi soltanto il dubbio che mio fratello potesse averli commessi sarei il suo più accanito accusatore. L'IZZO, tra l'altro, cominciò anche ad accusarmi di cose che io non avevo mai commesso ed io cominciai a mia volta a non avere più fiducia in lui. Egli mi ha esposto anche al pericolo di incriminazioni. Per buona fortuna disponevo di elementi di sostegno di affermazione della mia innocenza. Non confermo quanto dichiarato il 26 marzo 1986 al Procuratore della Repubblica di Firenze e il 25 aprile 1986 al Giudice Istruttore di Bologna relativamente alla volontà di mio fratello di sopprimere anche la moglie del MANGIAMELI e la figlia in relazione al fatto che egli aveva anche ammazzato un politico e la moglie ne era a conoscenza. Preciso che io non confermo perché non intendo portare avanti questa accusa.

L'avv. BALDI chiede acquisirsi il documento prodotto dal P.G. (n.d.r.: dichiarazioni rese al P.M. di Bologna il 4.3.1988 - di cui prima).

L'avv. BERTI A. VELI di parte civile si associa alla richiesta dell'avv. BALDI.

L'avv. MANCINI chiede che prima dell'acquisizione del documento si dia termine alla difesa per poter esaminare il documento prodotto.

A questo punto dà lettura del documento perché le parti siano messe in grado di concludere circa la sua acquisibilità.

Rivolge peraltro-domanda al Cristiano FIORAVANTI se ne conferma il contenuto e lui dichiara: Mi trovavo in un particolare stato d'animo, vedevo tutto nero e mi sentivo fatto segno ad un complotto. Un paio di mesi dopo feci un'altra dichiarazione al dr. MANCUSO, sempre a Paliano, nella quale non confermavo le dichiarazioni rese perché erano dettate da questa mia mania di persecuzione".

(Dopo che la Corte ha provveduto su talune istanze delle parti: n.d.r.) "Viene quindi richiamato Cristiano FIORAVANTI. A D. dr. ESTI risponde: Prendo atto della mia dichiarazione, in data 29 agosto 1983, secondo cui mio fratello dal febbraio del 1980 cominciò a frequentare la Sicilia dove era in contatto col MANGIAMELI. Confermo la medesima ma non so dire chi abbia messo mio fratello in contatto col MANGIAMELI. Valerio mi disse che stava gettando le basi per fare delle rapine di autofinanziamento in quella città. Nulla sapevo del collegamento di questi viaggi con il progetto di evasione del CONCUTELLI. Nel «covo di Taranto» io misi piede nel settembre del 1980". Le ragioni che hanno ispirato la scelta processuale di Cristiano FIORAVANTI vengono lealmente spiegate in un successivo interrogatorio, importante per la sostanziale conferma logica della veridicità delle precedenti dichiarazioni.

Si tratta dell'interrogatorio del 24.7.1990, reso a questo Ufficio. AL G.I. DI PALERMO IL 24.7.1990 (Fot. 938441 Vol. LXX) "Intendo continuare ad avvalermi della facoltà di non rispondere, anche se riconosco integralmente, le dichiarazioni sin qui rese giacché, da quando ho preso questa decisione, ho finalmente trovato quella tranquillità di animo che in precedenza avevo inutilmente cercato. Ho ripreso efficacemente un sereno rapporto familiare con mia sorella Cristina e non intendo più perderlo, anche perché è l'unico che mi è rimasto. Infatti, da circa 2 anni non vedo più mio padre, il quale, schierato apertamente dalla parte di Valerio, ritiene forse in tal modo di condizionare il mio comportamento fino a quando questa istruttoria non sarà conclusa. Intendo chiarire che la decisione ancora oggi riaffermata è frutto anche di questo comportamento di mio padre, ma è soprattutto determinata da una mia riflessione sui veri valori della vita tra i quali ritengo di collocare al primo posto quello della famiglia. E siccome, allo stato, la mia famiglia è costituita da mia sorella Cristina, intendo salvaguardare questo rapporto. Tra l'altro, dopo avere fermamente creduto nel valore della giustizia in questi ultimi mesi ho avuto la sensazione di essere stato «usato» cioè di essere stato spremuto e poi gettato via. Non posso nascondere che nella mia ansia, tuttora attuale, di capire che cosa ha fatto realmente mio fratello Valerio, avrei voglia di continuare a dare il mio apporto alle indagini e al riguardo, posso soltanto dire che, ad esempio, sono ansioso di sapere come mai una BMW (serie 7) di cui CAVALLINI aveva la disponibilità a Milano (nel 1981) e che doveva servire per il sequestro del figlio di BENETTON, è stata poi trovata a Palermo. Ho appreso questa notizia dalla D.ssa DAMENO, che mi interrogò a Milano verso il 1986 (per il significato di questa vicenda, v. appresso: n.d.r.). Comunque, nonostante questa mia ansia di conoscenza, ritengo di dover continuare nella mia scelta odierna di non rendere ulteriori dichiarazioni".

L'omicidio come “scambio di favori”. La Repubblica il 28 gennaio 2020. Come si è visto, secondo le notizie riferite da Cristiano FIORAVANTI, l'omicidio MATTARELLA rappresentò il frutto di uno "scambio di favori" tra il gruppo terroristico romano cui apparteneva Valerio FIORAVANTI e i mandanti mafiosi siciliani. Questi ultimi, per un tramite rimasto ignoto (verosimilmente MANGIAMELI ma, ipoteticamente, anche altri - come gli appartenenti alla "banda della Magliana" - incaricati dal CALO'), avevano assicurato ai N.A.R. appoggi logistici e, in particolare, una specifica collaborazione per favorire l'evasione di Pierluigi CONCUTELLI dalla Casa Circondariale di Palermo. Ciò, sicuramente, a partire da epoca antecedente al novembre 1979. Tale progetto del novembre 1979 si inserisce in una serie di analoghi progetti, ai quali i neofascisti annettevano grande importanza politica, per il valore emblematico della figura di CONCUTELLI nel mondo dell'eversione di destra. E' chiaro, infatti, che chi fosse riuscito ad attuare un simile disegno avrebbe acquisito, per ciò stesso, grande prestigio ed autorità nella "galassia" dei movimenti della destra eversiva. Nella relazione dell'Alto Commissario, pervenuta 1'8.9.1989, è contenuta una puntuale ricostruzione di ben nove progetti di evasione (v. pagg. 95-104).

Di questi, interessano particolarmente il presente procedimento:

1) il quinto, che avrebbe dovuto aver luogo nel novembre del 1979, durante la permanenza di CONCUTELLI nel carcere dell'Ucciardone, ove il detenuto, già ristretto all'Asinara, era stato trasferito 1'11.10.1979 per motivi di giustizia;

2) il sesto, che avrebbe dovuto essere attuato il 4.4.1980 sempre a Palermo, ove il CONCUTELLI era stato trasferito il 29.3.1980 per presenziare ad una udienza, fissata proprio per il 4 aprile, innanzi alla Corte di Appello.

Questi progetti di evasione sono stati ricostruiti in modo esauriente, grazie alle dichiarazioni di taluni degli stessi protagonisti e, in particolare e da ultimo, da Giuseppe DI MITRI, materiale responsabile del disegno da attuare nel novembre 1979. Sono state già ricordate le dettagliate dichiarazioni rese, su tal punto, da Sergio CALORE (al G.I. di Palermo il 29.4.1986) e da Stefano SODERINI (al G.I. di Palermo il 29.6.1986). A queste vanno aggiunte le dichiarazioni di Pierluigi CONCUTELLI, Giuseppe DI MITRI, Sergio CALORE e degli stessi Valerio FIORAVANTI e Francesca MAMBRO.

LE DICHIARAZIONI DI PIERLUIGI CONCUTELLI AL G.I. DI PALERMO IL 23.6.1989 (Fot. 904729 Vol. LII) "Il G.I. avverte il Sig. CONCUTELLI che, nell'ambito delle indagini istruttorie concernenti l'omicidio di Piersanti MATTARELLA, viene interrogato come imputato di reato connesso in relazione al procedimento penale a suo carico, in corso di svolgimento davanti alla Corte di Assise di Roma, ove è imputato del delitto di banda armata. Il CONCUTELLI dichiara: prendo atto di quanto sopra e faccio presente che intendo rispondere alle domande, ma mi preme sottolineare che non intendo trasformarmi né in delatore né in un infame. A D.R. In effetti è vero che è stato posto in essere un serio e concreto progetto per farmi evadere durante una delle mie presenze nel carcere di Palermo, in occasione di un processo a mio carico che si tenne nel marzo – aprile 1980 e comunque nella primavera di quell'anno. Il progetto era di assalire il furgone cellulare durante il tragitto fra il carcere di Palermo e il Palazzo di Giustizia, bloccandolo mediante un tamponamento, verosimilmente nella via Gaetano Daita se mal non ricordo. Una volta fermato il cellulare, i Carabinieri sarebbero stati circondati dall'esterno, mentre io dall'interno avrei compiuto opera di persuasione, approfittando della concitazione del momento, per indurli a non reagire. La portiera sul retro del cellulare sarebbe stata aperta a strappo mediante un cavo da rimorchio. Inoltre si sapeva benissimo che quasi sempre lo sportello del conducente viene lasciato aperto per cui gli assalitori sarebbero entrati nel furgone attraverso questa via dopo l'effetto sorpresa dell'urto. Pur non intendendo fornire troppi particolari, posso dire che questo progetto era tanto concreto che per ciò stesso io preferii andare a Palermo mentre, a Milano, dove mi trovavo perché vi era un altro processo a mio carico, avrei potuto partecipare ad un altro progetto di evasione che in effetti si concretizzò una decina di giorni dopo la mia partenza da Milano. In tale evasione era coinvolto VALLANZASCA con altri del suo gruppo e con appartenenti a Prima Linea; il VALLANZASCA rimase ferito. A D.R. Coloro che dovevano realizzare tale progetto erano Valerio FIORAVANTI, ed altri del suo gruppo, fra cui ricordo Francesca MAMBRO e Stefano SODERINI. Un ruolo importante, soprattutto logistico e ricognitivo della zona, avrebbe dovuto essere svolto da Francesco MANGIAMELI, mio carissimo amico fin dai tempi dell'adolescenza. Ho appreso che il progetto falli, in seguito, perché il MANGIAMELI che avrebbe dovuto essere presente anch'egli in città, si era reso irreperibile. Anzi, secondo quanto mi ha detto Valerio FIORAVANTI questa è stata una causa se non quella principale della eliminazione del MANGIAMELI stesso. Spontaneamente soggiunge: in effetti io credo che tutto fosse pronto per l'evasione e un primo urto io lo sentii da dentro il furgone; anzi in seguito il FIORAVANTI mi ha detto che l'urto era stato provocato da lui alla guida di una Fiat Ritmo o auto similare. Fra l'altro, il FIORAVANTI mi ha descritto le caratteristiche del furgone ed anche gli abiti che io indossavo, per cui ritengo che quanto da lui riferito risponde al vero.

A D.R. A Palermo gli assalitori erano in possesso di mitra e di pistole semiautomatiche. Successivamente, a Padova e a Roma, furono compiuti attacchi nei confronti di reparti dell'esercito per entrare in possesso di armi da guerra, più adatte per azioni del genere.

A D.R. In effetti, è vero che nel novembre 1979, in occasione di un'altra mia presenza carceraria a Palermo avrebbe dovuto essere posto in essere un altro progetto per farmi evadere. Io, che già allora soffrivo di ulcera gastrica, avrei dovuto simulare una perforazione ulcerosa, ingerendo sangue che mi sarei prelevato dalle mie stesse vene. Si prevedeva che sarei stato ricoverato in ospedale e, come allora mi si disse, avrei ricevuto un aiuto nel padiglione chirurgia per evadere. Io stesso, che allora ero ricoverato alla 9^ sezione, ricevetti da un detenuto dell'8^ sezione di cui non intendo fare il nome, una «farfalla», durante il percorso per andare al colloquio con il mio difensore e provvidi a ingerire il sangue estratto da un mio braccio attraverso questo strumento. Senonché, accadde che in carcere, forse perché impressionati dal mio nome, anziché ricoverarmi d'urgenza in ospedale, mi iniettarono per via endovenosa, con grave pericolo per la mia incolumità, una dose massiccia di morfina sintetica e/o baralgina. Successivamente, ho appreso da Sergio CALORE e mi è stato confermato dagli interessati, che ad attendermi in ospedale vi erano membri del gruppo romano di Valerio FIORAVANTI e quest'ultimo personalmente. Valerio FIORAVANTI mi ha confermato personalmente la sua presenza nell'ospedale di Palermo; e lo stesso ha fatto un altro del mio gruppo, di cui però non intendo fare il nome. Sergio CALORE mi ha anche riferito, durante la nostra comune detenzione a Novara, che aveva consegnato al FIORAVANTI un mitra UZI che, per le sue ridotte dimensioni si prestava meglio ad essere occultato. Anche tale circostanza mi è stata confermata dal FIORAVANTI.

A D.R. Valerio FIORAVANTI mi ha confermato non già espressamente la sua materiale partecipazione a questo progetto di evasione, bensì la sua conoscenza della partecipazione del gruppo romano all'evasione stessa. Poiché Lei mi chiede nuovamente chi sia quella persona del mio gruppo che ha partecipato al progetto in questione e mi assicura che non ne potranno derivare conseguenze penali di apprezzabile rilevanza, non ho difficoltà a riferire che il personaggio in questione è Mario ROSSI che attualmente trovasi, se non erro, detenuto per l'espiazione di un residuo di pena.

A D.R. Io ritengo che la conoscenza tra MANGIAMELI e Valerio FIORAVANTI risalga agli anni 1977 - 78, nel periodo in cui cioè il gruppo palermitano di Terza Posizione ha tollerato una certa vicinanza col gruppo dello spontaneismo armato di Valerio FIORAVANTI. Ciò, del resto, era in linea con l'atteggiamento complessivo di Terza Posizione su scala nazionale. Credo che NISTRI e ZANI potranno confermare queste mie affermazioni, con maggiore precisione. Come è noto, comunque, io in quel periodo ero detenuto all'Asinara.

A D.R. La Mia evasione è stata sempre il chiodo fisso di quella area politica di cui facevo parte e ubicata, secondo quanto io ritengo, erroneamente nell'ambito della destra eversiva. A D.R. Non ho elementi per poter stabilire in che periodo si sono conosciuti FIORAVANTI e CAVALLINI". Sul punto, è stato sentito anche Mario ROSSI (Fot. 904917 Vol. LII), in data 4.7.1989, il quale ha escluso ogni sua partecipazione a qualsivoglia progetto della specie e, comunque, a quello del novembre 1979, asserendo di avere conosciuto Valerio FIORAVANTI qualche mese dopo. Posto a confronto col CONCUTELLI, in data 18.1.1990 (Fot. 918542 Vol. LXVI), il ROSSI ha mantenuto ferma la sua dichiarazione, mentre il primo ha fatto una parziale ritrattazione, precisando che forse si era espresso male nell'interrogatorio del 23.6.1989. Ha detto, infatti, che aveva saputo da qualcuno (forse il CALORE) che il ROSSI era stato informato del progetto di evasione del novembre 1979, senza però potere essere certo che questi avesse materialmente partecipato all'attività di preparazione.

LE DICHIARAZIONI DI GIUSEPPE DI MITRI  AL G.I. DI PALERMO IL 22.11.1989 (Vol.LXIV Fot. 918016) "Vero è che nell'autunno 1979 fui incaricato da Roberto FIORE di organizzare un progetto di evasione da un ospedale palermitano di Pierluigi CONCUTELLI. In effetti, tra la fine di ottobre ed i primi di novembre 1979, scesi in aereo a Palermo da Roma (utilizzando quasi sicuramente il falso nome Andrea DELLA VALLE) per fare una ricognizione dei luoghi, previa presa di contatto con Francesco MANGIAMELI, ispiratore dell'evasione, il quale ne aveva tempo prima parlato con il FIORE e Gabriele ADINOLFI, forse nel corso di un «campo» politico tenutosi in estate a Metaponto. Giunto all'aeroporto di Palermo, telefonai al MANGIAMELI, che mi venne a prelevare e mi portò a visitare l'ospedale ove il CONCUTELLI, a suo dire, avrebbe dovuto essere ricoverato, dopo avere simulato un attacco di ulcera.

A D.R. Se ben ricordo, la mia permanenza a Palermo fu breve e non so se arrivai a passarvi una notte. Se ciò è avvenuto, sono stato sicuramente ospite del MANGIAMELI, giacché ricordo bene di essere stato a casa sua. Durante questa permanenza, non incontrai alcuno all'infuori del MANGIAMELI.

A D.R. Credo di essere in grado, ove necessario, di riconoscere l'ospedale palermitano da me ispezionato col MANGIAMELI. La responsabilità organizzativa dell'evasione incombeva esclusivamente su di me, che, in «Terza Posizione», avevo riconosciute dagli altri le migliori capacità «organizzativo-militari». Il MANGIAMELI si limitò a prospettare le esigenze sue personali di far evadere il CONCUTELLI cui era legato da antica e profonda amicizia, senza fornirmi alcuna indicazione su come avrei dovuto organizzare l'evasione. Subito dopo il viaggio a Palermo (che, ribadisco in questa sede, è stato l'unico da me compiuto), tornai a Roma e ricordo di avere incontrato a Tivoli Sergio CALORE, cui esposi il progetto, nel tentativo non solo di ottenerne l'ausilio sotto il profilo di un contributo per le armi che sapevo essere in suo possesso, ma soprattutto di coinvolgerlo personalmente nell'operazione. Infatti, io vedevo l'evasione del CONCUTELLI, che non conoscevo, come un momento di aggregazione politica di vari gruppi eversivi di destra, esistenti in quel momento storico. Ora che Lei me lo chiede, ricordo che all'incontro di Tivoli era pure presente Valerio FIORAVANTI.

A D.R. Quest'ultimo, elemento di punta dei NAR, era una delle persone cui avevo chiesto di partecipare per «l'operazione CONCUTELLI», proprio nella prospettiva politica sopra indicata. Devo dire, infatti, che io in quel momento, pur militando ed essendo un esponente di rilievo di T.P., operavo a stretto contatto con Valerio FIORAVANTI, Cristiano FIORAVANTI, Alessandro ALIBRANDI, Stefano TIRABOSCHI e Mimmo MAGNETTA nell'attività di «lotta armata», che era estranea alle finalità di T.P.

A D.R. Le persone che, a mio avviso, dovevano operare a Palermo erano quelle sopra indicate, oltre a Roberto NISTRI, Giorgio VALE e Alessandro MONTANI. Devo dire, però, che nell'organizzare il piano di evasione, io nutrivo forti perplessità sulla parte logistica successiva all'evasione stessa e, proprio per questo, avevo manifestato al MANGIAMELI tali perplessità. Egli mi assicurò che ci avrebbe aiutati, anche se per la fuga dall'ospedale io volevo che fossimo coinvolti solo noi «romani», essendo prevedibile che le forze di polizia avrebbero immediatamente cercato tutti gli aderenti palermitani ai gruppi eversivi di destra. Sta di fatto che, allorché appresi da FIORE che il CONCUTELLI aveva simulato l'attacco di ulcera in carcere, io non avevo ancora dato il mio assenso all'inizio delle operazioni, tanto che tutti noi eravamo ancora a Roma, seppure in uno stato di pre-allarme. Intendo dire che il supporto logistico palermitano, promessomi dal MANGIAMELI, non mi era stato ancora comunicato o, forse, io non avevo ancora avuto modo di verificarlo in concreto.

Difatti, i miei ricordi su questa fase non sono nitidi, dato il tempo trascorso, e posso quindi oggi avvalermi solo di ricostruzioni logiche.

A D.R. Il mio piano prevedeva un intervento armato nella corsia dell'ospedale, volto a liberare CONCUTELLI, dopo avere immobilizzato con qualunque mezzo coloro che lo sorvegliavano, compresa la «volante» che verosimilmente si sarebbe trovata all'ingresso dell'ospedale. Per quel che ricordo, con le precisazioni avanti fatte, posso dire che ritenevamo, dopo il ricovero del CONCUTELLI, di avere a disposizione alcuni giorni per potere scendere a Palermo in treno con le armi, rubare nel posto alcuni automezzi, conoscere la viabilità cittadina e portare a termine la liberazione del CONCUTELLI.

A D.R. Ricordo di aver chiesto, nell'incontro palermitano col MANGIAMELI, una base per nascondere il CONCUTELLI e noi stessi. Il MANGIAMELI mi promise che l'avrebbe trovata, anche se non so nulla sul suo effettivo reperimento. Io gli avevo consigliato di trovarla fuori città, anche se non molto distante da essa. Spontaneamente aggiunge: desidero precisare bene che, per l'inizio dell'operazione, non era necessario il mio assenso, in quanto il nostro intervento era previsto solo dopo il ricovero del CONCUTELLI in ospedale, essendo questa la necessaria condizione perché il piano partisse, infatti, non era certo (così come la realtà dimostrò) che il CONCUTELLI riuscisse a farsi ricoverare in Ospedale. Prendo atto che, secondo Alberto Stefano VOLO, il piano avrebbe dovuto prevedere un nostro intervento in concomitanza con l'arrivo in Ospedale del CONCUTELLI e che, quindi, noi avremmo dovuto essere presenti a Palermo. Al riguardo, non posso che ribadire che ciò che ho detto è la verità e che nessuno di noi, per quel che so, era a Palermo. Prendo, altresì, atto che il CONCUTELLI ha dichiarato di avere appreso da Sergio CALORE e da altri che il «gruppo romano» fu effettivamente presente in Ospedale, in quella occasione. Anche sul punto non posso che riportarmi alla risposta precedente".

Nelle dichiarazioni rese il 18.1.1990 (Fot. 918540-918541 Vol. LXVI), il DI MITRI ha poi più concretamente indicato i potenziali autori di quel progetto di evasione, distinguendo tra coloro con i quali aveva discusso il piano (Sergio CALORE e Valerio FIORAVANTI) e coloro ai quali si era riservato invece di illustrarlo: “... All'incontro di Tivoli, di cui ho detto il 22.11.1989, che oggi ricordo essere avvenuto in una trattoria sita tra Marcellina e Palombara Sabina, era pure presente Roberto NISTRI, nel senso che accompagnò in auto me e Valerio FIORAVANTI, anche se sono quasi certo che non partecipò alla discussione con il CALORE.

A D.R. Non ricordo, oggi, se lo misi al corrente dell'oggetto della discussione, ma sarei portato a dire di no, non avendo egli partecipato all'incontro. A precisazione di quanto a Lei dichiarato il 22.11.1989, devo dire che davo per scontata la disponibilità di coloro che ho menzionato in quell'atto a partecipare al tentativo di evasione del CONCUTELLI, anche se agli stessi mi riservavo di illustrare il progetto allorché mi fossi deciso a porlo in essere. Ciò vale ovviamente per tutti, ad eccezione di Valerio FIORAVANTI, che partecipò direttamente all'incontro con il CALORE". E' opportuno, infine, ricordare che le informazioni fornite dal DI MITRI sono state convalidate da un'ispezione dei luoghi, eseguita il 16.2.1990, nel corso della quale il dichiarante ha indicato con assoluta precisione:

1) l'Ospedale Civico di Palermo come la struttura nella quale CONCUTELLI, simulando un attacco d'ulcera, avrebbe tentato di farsi ricoverare;

2) il Padiglione di Chirurgia del detto ospedale come il reparto in cui esso DI MITRI aveva effettuato, insieme al MANGIAMELI, un sopralluogo per preparare l'evasione;

3) l'itinerario prescelto per la fuga, costituito da una stradina interna al nosocomio, chiusa da un cancello di ferro che avrebbe dovuto essere preventivamente forzato;

4) la casa del MANGIAMELI (v. relazione di servizio in data 16.2.1990 dell'Ispettore di Polizia Antonio ONGAR della DIGOS di Roma: Fot. 918720-918722 Vol. LXVI).

LE DICHIARAZIONI DI SERGIO CALORE AL G.I. DI PALERMO IL 22.11.1989 (Vol. LXIV Fot. 918023) "Vero è che poco dopo la mia scarcerazione del 13.11.1979, mi vennero a trovare in Tivoli Valerio FIORAVANTI, Giuseppe DI MITRI e Roberto NISTRI. Più precisamente io conoscevo molto bene FIORAVANTI, avevo incontrato qualche volta il DI MITRI e non conoscevo affatto il NISTRI. Fu Valerio FIORAVANTI a dirmi che stavano progettando un tentativo di evasione del CONCUTELLI da un ospedale palermitano, ove quest'ultimo si sarebbe dovuto far ricoverare, simulando la perforazione di una ulcera. Valerio mi chiese se potessi procurare loro una mitraglietta corta ed io gli risposi che quasi sicuramente gli avrei potuto fornire un mitra UZI privo di caricatore, cosa che in effetti feci, consegnandolo a Cristiano FIORAVANTI il giorno successivo, o meglio facendolo consegnare a lui da Bruno MARIANI, che lo conosceva giacché erano stati condetenuti da minorenni. La consegna avvenne nella zona di Tor Pignattara. Durante l'incontro, svoltosi con i tre di cui ho detto in una trattoria sita tra Marcellina e Palombara Sabina, mi fu chiesto solo dell'arma. Io dissi loro se avevano bisogno di uomini, all'infuori di me che ero sottoposto ad obblighi processuali, ma mi fu risposto che non ve ne era bisogno.

A D.R. Il mio interlocutore principale fu Valerio FIORAVANTI, ma non posso escludere che anche gli altri due siano intervenuti nel discorso. Valerio mi disse che il referente palermitano era Roberto MIRANDA; anzi, mi correggo, fu il DI MITRI a dirmi ciò. Più esattamente, fui io a chiedere se i referenti palermitani fossero per caso Enrico TOMASELLI e Roberto INCARDONA, esponenti di «Costruiamo l'Azione» da cui si erano distaccati, nel 1978, per passare a T.P. ed al Movimento Indipendentista Siciliano (o sigla simile).

Mi fu detto, invece, che era il MIRANDA.

A D.R. Non ho saputo mai che a questo progetto era interessato Francesco MANGIAMELI, di cui seppi qualcosa solo dopo la di lui uccisione. Fu il SIGNORELLI, infatti, mentre eravamo in carcere, a dirmi che lo avevo conosciuto durante una riunione in casa sua del settembre 1978 e che, anzi, lo avevo accompagnato anche alla stazione Termini.

A D.R. Non so null'altro di questo progetto di evasione".

Quella missione a Palermo. La Repubblica il 29 gennaio 2020. LE DICHIARAZIONI DI VALERIO FIORAVANTI AL G.I. DI PALERMO IL 7.6.1986 (Fot. 639197 Vol. XX) ".... Ho conosciuto Gilberto CAVALLINI qualche giorno prima della rapina commessa a Tivoli in danno di una gioielleria, avvenuta, se mal non ricordo, il 15.12.1979. A tale rapina partecipai col CAVALLINI e con altri soggetti, di cui non intendo fare il nome, anche se mi sembra che abbiano, tutti, confessato. Nell'intervallo fra la scarcerazione di Sergio CALORE, avvenuta a metà novembre 1979, ed il suo arresto, avvenuto il 17.12.1979, in relazione all'omicidio LEANDRI, mi fu comunicato, da una persona di cui non intendo fare il nome, che stava preparandosi un tentativo di far evadere CONCUTELLI, in occasione del suo arrivo al carcere palermitano dell'Ucciardone. Egli si sarebbe fatto ricoverare in ospedale, con i normali trucchi posti in essere dai detenuti, ed ivi avrebbero cercato di liberarlo. Mi si propose di partecipare a questa operazione che avrebbe avuto l'appoggio logistico di «camerati» siciliani (dei quali ho visto di sfuggita uno solo, a Roma, che non era MANGIAMELI e che non ho più incontrato) ed io chiesi notizie in merito a Sergio CALORE, per valutare se ne valeva la pena. Il CALORE mi incoraggiò ed anzi mi fornì un mitra UZI, particolarmente adatto, per le sue piccole dimensioni, ad essere portato in luogo pubblico, come un ospedale, senza farne accorgere a nessuno. Io stesso ritirai il mitra - o meglio non ricordo se lo prelevai o lo restituii; credo, comunque, che il mitra sia stato, poi, sequestrato dalla polizia. Due dei camerati romani andarono a Palermo per un sopralluogo e credo che vi siano andati in aereo; ne fecero ritorno o lo stesso giorno o il giorno successivo e mi comunicarono che, a loro avviso, l'operazione era facile per cui dovevo tenermi pronto. Dopo un paio di giorni mi comunicarono, invece, che non se ne sarebbe fatto nulla perché il CONCUTELLI non era riuscito a farsi ricoverare. Il mitra, pertanto, fu adoperato per alcune rapine e, poi, fu preso in consegna dal CAVALLINI per restituirlo, dato che il CALORE, nel frattempo, era stato arrestato. Circa 15-20 giorni dopo l'arresto di CALORE (17.12.1979: N.D.R.), Giorgio VALE (almeno questo è il mio ricordo) mi fece conoscere Roberto FIORE, il quale era a me noto in precedenza solo vagamente. Mi incontrai col FIORE in un luogo che non ricordo e quest'ultimo mi chiese di incontrarmi con un camerata siciliano che desiderava parlarmi. Fissai l'appuntamento per qualche giorno dopo a Piazza del Popolo, in Roma, e, se mal non ricordo, il siciliano era accompagnato dal FIORE, che subito dopo si allontanò. Trattavasi di Francesco MANGIAMELI, del quale feci la conoscenza in quell'occasione. Egli mi chiari che stava occupandosi dell'evasione del suo amico Pierluigi CONCUTELLI (che egli chiamava Piero) e mi chiese di andare a Palermo per effettuare un sopralluogo al fine di concretare l'operazione. Andai a Palermo, da solo, dopo qualche giorno, nel gennaio 1980, e son quasi sicuro di aver preso l'aereo, usando il falso nome «DE FRANCISCI» o, più probabilmente, un nome qualsiasi. A Palermo fui ospite per un paio di giorni nella casa di Francesco MANGIAMELI, sita in Palermo, credo in via delle Province (ma potrei sbagliare). Trattasi di un appartamento sito in uno stabile di recente costruzione, al quinto o al sesto piano o forse ancora più in alto, e di fronte allo stabile vi era un terreno, credo un agrumeto. Era una casa normalmente arredata ed ivi feci la conoscenza della moglie del MANGIAMELI, Rosaria, e della figlia, nella cui camera da letto dormii per due notti, in un letto separato. Occupai il tempo della mia permanenza in Palermo per controllare il tragitto del furgone blindato dall'Ucciardone al Palazzo di Giustizia, ritenendo che, in una città sconosciuta, l'unica possibilità di intervento per me fosse l'attacco al blindato durante il percorso. Discussi di queste mie conclusioni col MANGIAMELI, che convenne con le mie considerazioni; gli affidai l'incarico di procurarmi un appartamento sicuro in una zona di Palermo distante dal luogo dell'attacco, dove io e gli altri camerati ci saremmo nascosti per diversi giorni prima di allontanarci da Palermo. Anzi, ricordo che gli lasciai una somma di danaro, di cui non ricordo l'importo, per prendere in affitto subito un appartamento, al fine di non destare sospetti. In quel periodo, feci la conoscenza di due camerati, presentatimi dal MANGIAMELI di cui ignoro il nome e che probabilmente non sarei in grado nemmeno di riconoscere. Costoro mi aiutarono nella scelta dei percorsi ma né mi fecero capire né io chiesi, se erano a conoscenza del progetto; ciò è del tutto normale in casi del genere.

A D.R. Sono sicuro di non avere incontrato Gabriele DE FRANCISCI, che io ben conosco, a Palermo in quel periodo.

A D.R. Se mal non ricordo, in quel periodo indossavo un «piumino» azzurro-blu.

A D.R. Ritornato a Palermo cominciai a pensare al modo come procurarci le armi e, con Gilberto CAVALLINI e con altri due o più camerati, di cui non intendo fare il nome, mi recai alla Caserma di Cesano, a me ben nota perché ivi avevo prestato servizio militare come allievo ufficiale. Ci rendemmo conto che l'operazione non era possibile perché eravamo pedinati, o almeno così credemmo, e, pertanto, ci spostammo a Padova, dove, al distretto militare, riuscimmo a portare via, il 30.3.1980, quattro mitragliatrici MG, ed alcuni fucili GARAND; armi, però, che subito dopo furono abbandonate per un disguido. Comunque, per evitare che si pensasse a noi, soprattutto nell'ambiente carcerario, e che la notizia venisse alle orecchie degli organi di Polizia, apponemmo delle scritte sui muri di Padova rivendicando l'azione da parte delle Brigate Rosse. A questo punto, ritenni opportuno andare comunque a Palermo per informare il MANGIAMELI di quanto era accaduto e per studiare se era possibile improvvisare un piano alternativo che non richiedesse armi particolari. Mi recai a Palermo con Francesca MAMBRO, pienamente informata di quanto stavo facendo e prendemmo alloggio presso l'Hotel Des Palmes, dopo di avere pernottato, per una notte, presso l'Albergo Politeama. Ci recammo a Palermo in autovettura (una Volkswagen Golf rossa, rubata) e, durante il percorso, ebbi un lieve incidente stradale nel tratto Messina-Palermo privo di autostrada. Appena arrivati a Palermo, ci recammo a casa del MANGIAMELI ed il portiere dello stabile ci consegnò una lettera del predetto, colla quale ci comunicava che si era dovuto assentare da Palermo per le vacanze pasquali e che ci saremmo risentiti in seguito. Ciò ci fece adirare, poiché, proprio il giorno prima gli avevo telefonato invitandolo a non allontanarsi da Palermo per nessun motivo, poiché stavo per partire per quella città; inoltre, senza il suo appoggio logistico, non avremmo potuto far nulla in una città a noi sconosciuta. Debbo precisare che il MANGIAMELI ben sapeva del nostro progetto di rapinare delle armi al Distretto militare di Padova, perché, per coinvolgerlo definitivamente e tentare di avere da lui un comportamento meno leggero, lo avevamo indotto a parteciparvi, col ruolo di autista di una delle due autovetture di appoggio; egli avrebbe dovuto compiere un tragitto di appena duecento metri per rilevarci prima dell'attacco; invece, non lo vedemmo arrivare e fummo costretti a mandare a monte l'operazione. Successivamente, lo ritrovammo alla Stazione ferroviaria di Padova e candidamente ci disse che si era perso. Quindi, avendo dato i giornali ampio risalto all'operazione di Padova, successivamente compiuta senza il suo concorso, egli necessariamente doveva rendersi conto ché noi non avevamo le armi sperate; peraltro, quando telefonicamente lo avvertii del mio arrivo, gli dissi anche che le armi erano andate perdute ma che avremmo tentato ugualmente di far evadere CONCUTELLI con le armi a nostra disposizione, modificando il piano. Data l'assenza di MANGIAMELI, ci fu impossibile, dunque, a me e alla MAMBRO, di porre in essere alcuna attività e, pertanto, appena riparata la Golf, ripartimmo per Roma, dopo alcuni giorni. In questo periodo, a Palermo non abbiamo incontrato nessuno.

A D.R. Ignoro in quale misura l'AMICO Rosaria, moglie del MANGIAMELI, fosse a conoscenza dei nostri piani. Posso dire, però, che, durante la successiva nostra permanenza a Tre Fontane a casa del MANGIAMELI, di cui appresso dirò, l'AMICO si atteggiava a guerrigliera e sbandierava con chicchessia la sua amicizia con CONCUTELLI, indispettendomi non poco, poiché ciò era molto pericoloso.

A D.R. Circa la nostra permanenza a casa del MANGIAMELI, a Tre Fontane, nell'estate del 1980, posso dire che ci siamo recati lì perché invitati dal MANGIAMELI a trascorrervi un periodo di vacanze. In quel periodo noi vivevamo nella clandestinità, ritenendo che fosse la miglior cosa da fare, pur in assenza di mandati di cattura. E fu proprio a Tre fontane che mi resi conto della profonda incompatibilità fra le mie idee e quelle del MANGIAMELI, vecchio appartenente ad Ordine Nuovo, organizzazione, questa, della quale non condividevo l'apparato verticistico e la mancata partecipazione della base alle scelte operative.

A D.R. Non è vero che io abbia avuto un violento alterco, a Tre Fontane, coi coniugi MANGIAMELI perché trattavo male la loro figlia. In realtà, accadde che ci accorgemmo che il MANGIAMELI utilizzava il nostro danaro anche per fini personali come, ad esempio, l'acquisto di molti giocattoli alla figlia e gli facemmo notare, Francesca ed io, che ciò era profondamente immorale; ma nulla di personale vi era, ovviamente, verso la bambina.

A D.R. Vero è che, durante la nostra permanenza a Tre Fontane, il MANGIAMELI si è allontanato per alcuni giorni, per recarsi a Taranto per effettuare alcuni sopralluoghi e per prendere in affitto la casa; credo, anzi, che l'affitto sia avvenuto in altra occasione, prima o dopo.

Al ritorno, ci presentò un conto spese di L. 2.700.000, francamente eccessivo. Ma successivamente, quando ci recammo a Taranto, nella casa presa in affitto da Mauro ADDIS, ci accorgemmo che l'anticipo era stato pagato al proprietario dall'ADDIS e non dal MANGIAMELI, nonostante già corrispostogli, e che il MANGIAMELI verosimilmente non era nemmeno andato a vedere il carcere di Taranto. Infatti aveva omesso di-riferirci che lo stesso, per ben tre lati, confina con un giardino pubblico che facilita enormemente qualsiasi tipo di azione.

A D.R. Lei mi fa presente che Rosaria AMICO ha sostenuto di avermi conosciuto soltanto in occasione del nostro viaggio in Sicilia del luglio 1980. Io posso confermare che già nel gennaio 1980 sono stato ospite a casa sua e ne ho fatto la conoscenza, seppur sommaria.

A D.R. La Francesca MAMBRO, come Lei fa notare, dichiarato che nel periodo pasquale eravamo andati a Palermo per un viaggio di piacere, ciò è avvenuto perché ha reso queste dichiarazioni in un periodo in cui preferiva non riferire compiutamente quanto a sua conoscenza.

A D.R. Durante il periodo della Pasqua 1980, ed anche durante il successivo soggiorno estivo io e Francesca, senza eccessivo impegno, studiammo la possibilità di rapinare una grossa gioielleria palermitana (quella denominata «Matranga»), ma non se ne fece nulla, nonostante ritenessimo l'operazione relativamente facile.

A D.R. MANGIAMELI è stato ucciso non per uno specifico motivo ma perché, insieme con FIORE e ADINOLFI, mirava ad egemonizzare il nostro ambiente, o meglio quel che rimaneva dell'ambiente giovanile di Terza Posizione, dopo che, per effetto della strage di Bologna, un po' tutti erano dispersi e privi di guida. Non è stata resa nota immediatamente l'uccisione del MANGIAMELI - ed anzi il suo cadavere è stato nascosto - perché pensavamo di eliminare anche FIORE e ADINOLFI, inoltre, non potevano esser pubblici né i motivi di contrasto, né la programmazione dell'evasione di CONCUTELLI. Anche AMICO Rosaria sarebbe stata uccisa se fosse stato possibile catturarla, perché temevamo che potesse parlare dei nostri tentativi di far evadere CONCUTELLI. Temevamo, in particolare, che potesse parlare della casa o del carcere di Taranto, coinvolgendo Mauro ADDIS, che in quel periodo ci era molto utile. La casa di Taranto era, per noi, importantissima, essendo, allora, l'unico rifugio sicuro ed essendo saltata la copertura, nel Veneto, fornitaci da CAVALLINI. In quel periodo, infatti, CIAVARDINI era stato fermato nel pressi di Treviso con un documento falso intestato ad Amedeo DE FRANCISCI, che, allora, era in carcere o meglio era ricercato".

LE DICHIARAZIONI DI FRANCESCA MAMBRO AL G.I. DI PALERMO IL 24.6.1986 (Fot. 642924 Vol. XX) "Ho sentito parlare per la prima volta, del progetto di far evadere CONCUTELLI dal mio attuale marito, Valerio FIORAVANTI, nel marzo 1980. Egli mi disse che era opportuno che liberassimo il CONCUTELLI, anche se faceva parte di una generazione politica diversa dalla nostra, poiché gliene aveva parlato molto bene Sergio CALORE, durante la loro comune detenzione. Valerio mi prospettò questo progetto come una sua iniziativa ma ignoro se, prima di me, ne avesse parlato con altri. Non mi disse se, nel passato, avesse già tentato di far evadere CONCUTELLI e, in particolare, se fosse già stato a Palermo. Anzi, sarei portata ad escludere ciò, poiché, quando andammo a Palermo, mi accorsi che non conosceva la città. Al progetto erano interessati, secondo Valerio, anche CAVALLINI, Giorgio VALE e gli altri del gruppo, di cui non intendo fare il nome. Era sua intenzione di assaltare il furgone blindato con CONCUTELLI durante il trasferimento dal carcere al Palazzo di Giustizia di Palermo, o viceversa; per le armi necessarie per l'attacco, Valerio mi disse che ce le saremmo procurate a Padova e precisamente al Distretto dell'Esercito; l'attacco riuscì a metà poiché le armi furono prese ma poi abbandonate per un disguido. In quella occasione seppi che era già stato operato un tentativo di acquisizione di armi alla Caserma di Cesano e un altro tentativo al Distretto Militare di Padova, entrambi andati a male. Nel primo tentativo al Distretto di Padova aveva partecipato anche un certo Ciccio che era stato anzi la causa del fallimento dell'impresa perché si era allontanato nel momento cruciale. L'attacco al Distretto militare di Padova venne effettuato alla fine di marzo 1980 e, pur non avendo armi adatte, Valerio ritenne di tentare ugualmente e, pertanto, scendemmo a Palermo. Prima di partire, Valerio mi informò che ci attendeva a Palermo "Ciccio", il quale ci aveva procurato una casa da utilizzare come base pagando l’affitto con denaro datogli da Valerio. Arrivammo a Palermo in macchina (una GOLF Rossa), dopo un incidente stradale che danneggiò l'autovettura e ci recammo subito a casa del "Ciccio" e, cioè, di Francesco MANGIAMELI. Io rimasi in macchina e Valerio, ritornato dopo un po', mi disse, molto seccato, che il MANGIAMELI si era allontanato per Milano con la famiglia; su questo punto non saprei essere più precisa - non ricordandolo bene - ma mi sembra evidente che Valerio avrà parlato con qualcuno. Non ricordo se mi mostrò una lettera del MANGIAMELI. Poiché il progetto era andato a monte, rimanemmo a Palermo per alcuni giorni, prendendo alloggio presso l'Hotel des Palmes; Valerio aveva con sé i documenti di identità intestati a Amedeo DE FRANCISCI mentre io ero in possesso di quelli genuini. Attendemmo che la macchina venisse riparata e, in quei giorni, andammo in giro per la città, senza incontrare nessuno. Della città ricordo il lungomare, piazza Politeama, e i venditori di pane e panelle; ricordo anche le pasticcerie palermitane. Ho visto anche il Palazzo di Giustizia, dall'esterno. Ci siamo recati a casa di MANGIAMELI, a Tre Fontane, nel luglio 1980, soprattutto perché avevamo intenzione di rapinare alcune gioiellerie palermitane. Prendemmo alloggio, questa volta, all'Hotel Politeama e, quello stesso, giorno o il giorno successivo, il MANGIAMELI ci rilevò e ci accompagnò a casa sua, a Palermo, dopo avere comprato dei viveri; pranzammo a casa sua, dove feci la conoscenza della moglie del MANGIAMELI, e, dopo avere pranzato, nel pomeriggio ci recammo a Tre Fontane. Io già conoscevo il MANGIAMELI, perché mi era stato presentato dal CAVALLINI a Roma, a Villa Massimo; era presente anche Valerio.

A D.R. Non ricordo se Valerio e la moglie del MANGIAMELI già si conoscessero, né ricordo se, a casa del MANGIAMELI, tentò di riparare la maniglia della porta di ingresso.

A D.R. Escludo che l'AMICO avesse il comportamento tipico delle "donne siciliane"; essa assisteva liberamente ai nostri discorsi e noi non adottavamo alcuna cautela per evitare che ci ascoltasse.

A D.R. A Tre Fontane facemmo la conoscenza di Alberto VOLO e della moglie e di una coppia di coniugi, con due figli abbastanza grassi di circa dieci-dodici anni. In loro presenza e davanti a me non si parlò di CONCUTELLI.

A D.R. Durante la nostra permanenza a Tre Fontane, MANGIAMELI si allontanò per alcuni giorni, poiché doveva recarsi a Taranto per affittare una casa in vista dell'evasione di CONCUTELLI. Al suo ritorno, ci disse che aveva preso in affitto un villino bifamiliare con annesso giardino. Ci disse che si era recato a Taranto personalmente e noi comprendemmo dai suoi discorsi, anche se non ce lo disse esplicitamente, che si era fatto accompagnare da qualcuno".

La lettura coordinata delle dichiarazioni acquisite, in ordine ai piani da attuare a Palermo per l'evasione di Pierluigi CONCUTELLI, induce ad alcune interessanti riflessioni, determinate dai riferimenti ai soggetti che parteciparono ai due progetti. Invero, al piano del novembre 1979, in qualità di organizzatori e/o esecutori, avrebbero partecipato:

1) Secondo CONCUTELLI: Francesco MANGIAMELI, Sergio CALORE, Valerio FIORAVANTI e "altri del suo gruppo" (incerta, invece, la partecipazione di Mario ROSSI, del quale CONCUTELLI parla nell'interrogatorio del 23.6.1989, per manifestare poi, in un successivo confronto col ROSSI, dubbi determinati da una possibile imprecisione dei propri ricordi);

2) secondo DIMITRI: egli stesso, Roberto FIORE, Gabriele ADINOLFI, Francesco MANGIAMELI, Sergio CALORE, Valerio FIORAVANTI e, forse, Roberto NISTRI;

3) secondo CALORE: egli stesso, Valerio FIORAVANTI, Giuseppe DI MITRI, Roberto NISTRI (e, forse, Roberto MIRANDA, Stefano PROCOPIO, Mario ROSSI o Bruno MARIANI); non era nota al CALORE, invece, la partecipazione di Francesco MANGIAMELI;

4) secondo Valerio FIORAVANTI: egli stesso, Sergio CALORE, e altri non indicati, con esclusione di Francesco MANGIAMELI.

Invece, al piano programmato per l'aprile 1980, avrebbero partecipato:

1) Secondo CONCUTELLI: Francesco MANGIAMELI, Valerio FIORAVANTI e altri del suo gruppo, tra cui Francesca MAMBRO e Stefano SODERINI. In particolare, Valerio FIORAVANTI sarebbe anche passato alla fase di attuazione del piano;

2) secondo SODERINI: egli stesso, Pasquale BELSITO e "i magnifici 7" (Valerio FIORAVANTI, MAMBRO, CAVALLINI, CIAVARDINI, ROSSI, DE FRANCISCI, VALE);

3) secondo Valerio FIORAVANTI: egli stesso, Roberto FIORE, Francesco MANGIAMELI e altri "camerati" non conosciuti;

4) secondo Francesca MAMBRO: Valerio FIORAVANTI e Francesco MANGIAMELI.

La prima riflessione riguarda la composizione "politica" dei gruppi. Quello impegnato nel primo progetto (novembre 1979) è costituito da membri di varie formazioni dell'ultradestra (Terza Posizione, Costruiamo l'Azione, N.A.R.). Quello impegnato nel secondo progetto è costituito, invece, soltanto da membri del gruppo di Valerio FIORAVANTI ("i magnifici sette") e da persone a lui accostatesi in questo periodo (SODERINI, BELSITO). Di altra "matrice" politica (T.P.) resta soltanto Francesco MANGIAMELI. La seconda riflessione riguarda il momento, in cui si sarebbe stabilito un "contatto" tra Valerio FIORAVANTI e Francesco MANGIAMELI. E' significativo, a tal riguardo, che in relazione al piano di evasione concepito nel novembre 1979 Valerio FIORAVANTI esclude di aver avuto contezza della partecipazione di Francesco MANGIAMELI; laddove invece, secondo altre fonti (CONCUTELLI e DI MITRI), Francesco MANGIAMELI era colui che, per primo, aveva ideato il piano di evasione. Un'altra considerazione riguarda la presenza o meno nell'Ospedale Civico di Palermo, nell'ambito del piano di evasione del novembre 1979, di Valerio FIORAVANTI e di altri del suo gruppo. La circostanza non può dirsi chiarita, poiché CONCUTELLI, nel suo interrogatorio del 23.6.1989, ha affermato dapprima di aver saputo da CALORE e dallo stesso FIORAVANTI che costui e altri del "gruppo romano" erano presenti nell'Ospedale, aggiungendo però, subito dopo, che Valerio gli aveva confermato "non già la sua materiale partecipazione, bensì la sua conoscenza della partecipazione del gruppo romano all'evasione". D'altra parte, Sergio CALORE ha precisato (dich. 9.4.1986) che, pur ritenendo probabile che qualcuno si fosse recato a Palermo constatando l'impossibilità di attuare il piano per il mancato trasferimento di CONCUTELLI in ospedale, non poteva neppure escludere che tale impossibilità fosse stata constatata senza la necessità di spostarsi a Palermo. Infine, Giuseppe DI MITRI (dich. 22.11.1989) ha riferito che - per quanto gli constava - nessuno del gruppo era presente a Palermo. Gli anzidetti argomenti inducono, fin d'ora, ad alcune logiche considerazioni:

1) appare scarsamente credibile la tesi di Valerio FIORAVANTI, secondo cui egli avrebbe conosciuto MANGIAMELI soltanto dopo l'ideazione del primo progetto di evasione da attuarsi a Palermo;

2) nell'ambito del secondo progetto di evasione, da attuarsi sempre a Palermo, il ruolo di Valerio FIORAVANTI e del suo "gruppo" appare predominante e determinante al punto da prevedere la realizzazione preventiva di azioni contro obiettivi militari (l'irruzione al Distretto Militare di Padova del 30.3.1980 per il reperimento delle armi pesanti da utilizzare per l'attacco al furgone blindato);

3) è importantissima l'ammissione di Valerio FIORAVANTI, che fino a quel momento non emergeva da alcuna fonte riscontrata, secondo cui egli si trovava a Palermo (con un "piumino" blu), circa 15-20 giorni dopo l'arresto di Sergio CALORE, cioè entro la prima decade di gennaio 1980. Questa notizia, comunque, il FIORAVANTI l'aveva data - per la prima volta - già nell'interrogatorio del 5.7.1985.

Di tale ammissione - e dell'importanza rilevante a suo carico - si accorge lo stesso Cristiano FIORAVANTI, che, infatti, la fa notare al G.I. che lo interroga.

La strategia fascista e l'obiettivo Mattarella. La Repubblica il 30 gennaio 2020. Come si è già ricordato, secondo le notizie riferite da Cristiano FIORAVANTI, l'omicidio MATTARELLA rappresentò il frutto di uno "scambio di favori" tra il gruppo eversivo di Valerio e gli ambienti mafiosi siciliani interessati alla uccisione del Presidente della Regione. Delle prestazioni criminali reciprocamente promesse, soltanto la prima (l'omicidio) fu effettivamente adempiuta, poiché la seconda (l'evasione) non fu mai attuata a causa, principalmente, dello sfuggente comportamento del MANGIAMELI che, pure, avrebbe operato da tramite fra i neofascisti e la mafia. Tale, almeno, la tesi dello stesso Valerio FIORAVANTI (riferita da CONCUTELLI nell'interrogatorio del 23.6.1989), secondo cui proprio le gravi responsabilità del MANGIAMELI nel fallimento degli indicati progetti di evasione avrebbero costituito una delle cause della sua eliminazione. L'argomento sarà ripreso, comunque, nel paragrafo dedicato all'omicidio di Francesco MANGIAMELI. In questa sede, è opportuno invece svolgere talune considerazioni sull'"equilibrio" tra le due prestazioni previste dall'accordo criminoso. Tale "equilibrio" potrebbe sfuggire in una visione degli eventi superficiale e, soprattutto, unilaterale. Al riguardo è significativa la differenza tra i punti di vista di soggetti, pur appartenenti alla stessa area politica e culturale. Così, ad esempio, Sergio CALORE (int. del 29.4.1986) ricorda di avere ritenuto "debole", come causale dell'omicidio MATTARELLA, quella riferibile ad un "appoggio, da parte di terzi, della fuga di CONCUTELLI".

Al contrario, un omicidio pur "eccellente" come quello del Presidente della Regione Siciliana non doveva apparire un "prezzo" troppo altro da pagare nell'ottica di chi (Valerio):

1) per attuare l'evasione di CONCUTELLI, non ebbe esitazione alcuna a commettere altre azioni pericolose, come l'attacco ad obiettivi militari (il Distretto Militare di Padova e, poi, la Caserma di Cesano, un camion dei Granatieri di Sardegna);

2) aveva già commesso gravissimi omicidi (SCIALABBA il 28.2.1978; LEANDRI il. 17.12.1979)e altri ne avrebbe di lì a poco commessi (ARNESANO il 6.2.1980; EVANGELISTA il 28.5.1980; e, soprattutto, AMATO il 23.6.1980).

Il vero è che l'"equilibrio" politico-criminale tra le due "prestazioni" può cogliersi agevolmente nel quadro di una visione storica degli eventi, che spiega l'enorme importanza politica della divisata liberazione del "prigioniero" CONCUTELLI, dal punto di vista dell'area eversiva di destra. A tal riguardo, deve porsi in evidenza che l'evasione di CONCUTELLI deve essere "letta" come momento decisivo di una strategia, volta ad acquisire una posizione egemonica e unificante nell'area dell'"ultradestra", strategia che aveva registrato, come "momenti" precedenti e logicamente connessi, due altri significativi episodi:

- la fuga di Franco FREDA dal soggiorno obbligato di Catanzaro (5.10.1978);

- la divisata eliminazione dell'Avv. Giorgio ARCANGELI, risoltasi poi, per un errore di persona, nell'uccisione di Antonio LEANDRI (17.12.1979).

Meritano di essere ricordate, al riguardo, le puntuali considerazioni svolte nella sentenza della Corte di Assise di Bologna n. 4/88 dell'11.7.1988 (di per sé indipendenti dal merito del giudizio, ancora oggi non definitivo, sull'oggetto principale del procedimento, costituito dalla strage di Bologna del 2.8.1980): "Emblematico il fatto che a tale area siano ascrivibili i piani - l'uno riuscito e l'altro non portato a compimento - per la liberazione dei due leaders storici della destra eversiva: quello che portò alla fuga di Franco FREDA dal soggiorno obbligato di Catanzaro, e quello - lungamente coltivato da taluni degli odierni imputati, all'interno della progettualità specifica della banda armata in esame - che mirava a procurare l'evasione di Pierluigi CONCUTELLI, già comandante militare di Ordine Nuovo, e assassino del dott. Vittorio OCCORSIO. Inequivoca la valenza politica di un'azione volta alla liberazione di FREDA: si tratta, da parte di camerati, di un esplicito riconoscimento di leadership al priore della vecchia destra, il quale si trovava, all'epoca, in una situazione ancora non giudiziariamente definita in relazione alla strage di Piazza Fontana. Le responsabilità per la fuga di FREDA sono emerse con chiarezza in altra sede giudiziaria (l'istruttoria del procedimento romano a carico di ADDIS Mauro + 140: n.d.r.), ove ebbero a rendere dichiarazioni ampiamente confessorie non solo Paolo ALEANDRI, ma anche Ulderico SICA e Pancrazio SCORZA. Alla luce delle stesse, complessivamente risulta che l'allontanamento del FREDA dal soggiorno obbligato era stato deliberato ed organizzato da Massimiliano FACHINI, Roberto RAHO, Sergio CALORE e Paolo ALEANDRI, mentre, per la fase di attuazione, si era fatto ricorso all'opera di Benito ALLATTA, Fausto LATINO, Ulderico SICA e Pancrazio SCORZA.

Sono poi sopravvenute anche le dichiarazioni di Sergio CALORE: "... In questo periodo, verso la fine del mese di settembre ‘78, a casa di ALEANDRI a Roma, mi incontrai con FACHINI, che informò che era in fase esecutiva il progetto di permettere l'allontanamento di FREDA dal soggiorno obbligato. ALEANDRI e FACHINI mi dissero che già da diversi giorni stavano cercando di mettere a punto l'operazione ma che le persone che intendevano utilizzare per portarla a termine, si trattava di persone dell'ambiente di Vigna Clara, da quanto mi dissero, si erano dichiarate all'ultimo momento indisponibili...".

In giudizio, riprendendo il filo di tali dichiarazioni, di cui gli era stata data lettura e rispondendo alla domanda volta a conoscere cosa fosse poi accaduto, riferiva il CALORE: "Mi dissero che nel giro di 48 ore al massimo bisognava reperire delle persone e delle automobili ed allora io contattai Benito ALLATTA, Pancrazio SCORZA e Ulderico SICA, che erano tre persone più in contatto con me del gruppo e si resero disponibili. Andarono giù con la macchina di Fausto LATINO, che aveva una 127 di colore azzurro e con una 124 che mi feci prestare da una persona vicino a Tivoli a titolo personale. Andarono giù con questi mezzi e praticamente poi la cosa fu portata a termine".

Tra la liberazione di FREDA ed il progetto di far evadere Pierluigi CONCUTELLI si colloca un altro episodio criminoso del quale è necessario far menzione. Il 17.12.1979 veniva ucciso in Roma Antonio LEANDRI. E' stato giudiziariamente accertato che lo sventurato incolpevole giovane fu colpito, per un errore di persona, in luogo della vittima designata, l'avv. Giorgio ARCANGELI, al quale - in determinati ambienti della destra - si attribuiva la veste di delatore e si addebitava, tra l'altro, la cattura di Pierluigi CONCUTELLI. Responsabili dell'omicidio sono risultati essere, in concorso con altri, Sergio CALORE e Valerio FIORAVANTI. L'intento di vendicare il comandante militare di Ordine Nuovo, punendo il suo presunto traditore, seppure non determinò in via esclusiva l'azione delittuosa, rientrava tuttavia nel movente dei responsabili al di là delle proclamazioni ufficiali degli imputati di quel procedimento, occorre ricordare che di lì a qualche mese FIORAVANTI e sodali si troveranno attivamente impegnati in un rischiosissimo progetto di procurare l'evasione del CONCUTELLI. Di tale ultima vicenda - pacifica nella sostanza dei fatti - si dirà in un prosieguo di trattazione. Qui occorre rilevare - tirando le fila di quanto precede - che persone comunque legate all'area politica della banda armata oggetto di giudizio hanno concorso, sia pure in tempi e con modalità diverse, in reati o progetti delittuosi che avevano una comune finalità strategica: liberare e portare in clandestinità un leader storico della destra eversiva dalla personalità carismatica quale è Franco FREDA; vendicare l'arresto del Comandante Militare di Ordine Nuovo, sopprimendo colui che nell'ambiente era indicato come il responsabile della sua prigionia; infine, procurare l'evasione del Comandante Militare, anche a costo di enormi rischi. Va osservato - riprendendo le parole dell'ordinanza a rinvio a giudizio - essere "innegabile che tutte le azioni qui descritte non possono trovare inquadramento che in una strategia rivolta a riunificare l'ambiente della destra eversiva, galvanizzando le energie attraverso atti che in qualche modo rappresentano un esplicito riconoscimento della "leadership" dei capi storici e delle tesi politiche delle quali sono portatori".

Nella medesima sentenza dell'11.7.1988, poi, vien preso specificamente in esame il progetto di "liberazione" di CONCUTELLI, con valutazioni che meritano di essere totalmente condivise, anche alla luce delle circostanze emerse nel presente procedimento: "L'idea di far evadere l'ex comandante militare di Ordine Nuovo si fa seriamente strada negli ambienti dell'eversione neofascista, verso la fine del '79, come, del resto, l'idea dell'attentato all'avvocato romano ARCANGELI (sfociato per errore di persona – come si è detto e ripetuto - nell'omicidio del giovane LEANDRI), considerato il responsabile della cattura del CONCUTELLI. Del progetto di fuga, patrimonio di una più vasta area, si impadronì operativamente, a far tempo da una certa data, il gruppo di Valerio FIORAVANTI. Il teatro dell'azione, che prima avrebbe dovuto essere in Milano, poi in Palermo, si trasferisce in Taranto, città presso la cui Casa Circondariale il CONCUTELLI, detenuto prima in Trani e poi in Novara, doveva essere tradotto per presenziare alla celebrazione di un giudizio a suo carico..."

“... L'esame della vicenda che è possibile ricostruire nei dettagli anche e soprattutto attraverso le dichiarazioni, in definitiva sostanzialmente non dissonanti, di molti di coloro che vi presero parte - impone di riprendere e di mettere meglio a fuoco talune considerazioni già precedentemente svolte. Valerio FIORAVANTI e sodali, nel corso del 1980 e fino al gennaio del 1981, coltivano un progetto, altamente rischioso e di esito incerto, per liberare un personaggio di prestigio della vecchia destra, ancora pienamente collegato all'ambiente di Ordine Nuovo..."

"... A questo progetto è interessato, e vi partecipa a pieno titolo il CAVALLINI, vera e propria creatura del FACHINI. L'azione che si programma è espressione di una strategia unificante, che tende ad "aggregare" le componenti disperse della destra eversiva, assicurando la ripresa della leadership da parte di una persona dotata di esperienza militare e di indiscutibile carisma. Costituisce l'ideale seguito dall'operazione promossa dai vari FACHINI, CALORE, ALEANDRI, SICA, SCORZA, ALLATTA, allorché si prestarono a liberare Franco FREDA dal soggiorno obbligato di Catanzaro: operazione i cui esiti si erano rivelati solo parzialmente soddisfacenti, per il rifiuto del FREDA di darsi alla clandestinità in Italia. "Il progetto... - scrive il Giudice Istruttore... è un momento di centrale importanza all'interno di una scelta di lotta armata che prevede un'utilizzazione di più strumenti tattici: l'attentato al singolo esponente delle Istituzioni, l'attentato a carattere indiscriminato con diffusione di terrore, l'operazione militare che dà prestigio e "morale" all'ambiente eversivo, convincendolo della presenza di possibilità di successo e riempendolo, anche emulativamente, di ammirazione per coloro che più direttamente di altri agiscono sul piano militare".

A ben vedere, si tratta di strumenti tattici assai diversificati, la cui complessiva finalizzazione ad una strategia unitaria - intesa come programma "politico" - di un'unica banda armata - è dato che, se può essere compreso oggi, alla luce dei contributi forniti da ex aderenti alle formazioni armate della destra eversiva e di una visione d'insieme delle innumerevoli acquisizioni processuali, era assai meno perspicuo, all'epoca dei fatti, per i militanti di base del frastagliato arcipelago neofascista".

E' chiarissimo, alla luce di quanto sopra rappresentato, che la decisione della Corte di Assise di Bologna su questa ricostruzione mantiene intatta tutta la propria valenza probatoria, indipendentemente dal fatto che - in sede di Appello - la sentenza sia stata riformata assolutoriamente per la vicenda della "strage alla stazione". Infatti, il significato che l'eversione di destra attribuiva - nel dicembre 1979 - alla liberazione di CONCUTELLI prescinde totalmente dalla responsabilità degli imputati per i fatti del successivo 2 agosto 1980.

Le rivendicazioni dopo l'omicidio. La Repubblica il 31 gennaio 2020. Significativo riscontro alle accuse formulate nei confronti di Valerio FIORAVANTI e di Gilberto CAVALLINI è costituito dalle varie rivendicazioni (solo apparentemente contraddittorie) che seguirono la consumazione dell'omicidio. La prima giungeva all'ANSA di Palermo, alle ore 14.45 del 6.1.1980: "Qui Nuclei Fascisti rivoluzionari. Rivendichiamo l'uccisione dell'Onorevole MATTARELLA in onore ai caduti di via Acca Larentia".

La seconda, al Corriere della Sera di Milano, alle 18.48: "Qui PRIMA LINEA. Rivendichiamo esecuzione MATTARELLA che si è arricchito alle spalle dei terremotati del Belice".

La terza, alla Gazzetta del Sud di Messina, alle ore 19.10: "Qui Brigate Rosse. Abbiamo giustiziato MATTARELLA. Segue comunicato".

La quarta, al Giornale di Sicilia di Palermo, alle 21.40: "Qui Brigate Rosse. Abbiamo giustiziato l'On. MATTARELLA. Mandate subito tutta la gente nelle cabine telefoniche di Mondello. Troverete il ciclostilato delle B.R.".

Il ciclostilato non viene, però, rinvenuto. Di straordinario interesse è, nella sua struttura sintattica e "ideologica", la prima rivendicazione, giunta all'ANSA alla distanza di una sola ora dalla morte di Piersanti MATTARELLA (avvenuta presso l'Ospedale "Villa Sofia" di Palermo alle 13.40).

Al riguardo, va riportata la puntuale analisi compiuta nel rapporto della DIGOS di Bologna del 2.2.1985: "L'omicidio dell'On. MATTARELLA, avvenuto a Palermo alle ore 13.05 del 6.1.1980, ad opera di due giovani armati di pistola, venne rivendicato alle ore 14.55 con la seguente telefonata all'ANSA di quel capoluogo: "Qui Nuclei Fascisti Rivoluzionari - Rivendichiamo l'uccisione dell'On. MATTARELLA in onore ai caduti di via . Acca. Larentia". "Alla luce di quanto detto in precedenza, occorre analizzare tale rivendicazione, onde valutarne l'attendibilità sotto il profilo della sua effettiva riferibilità a gruppi di estrema destra. Dal punto di vista lessicale la rivendicazione può essere scomposta in tre parti: "Qui Nuclei Fascisti Rivoluzionari - Rivendichiamo l'uccisione.../ Onore ai caduti...", che costituiscono altrettanti elementi ricorrenti in successive rivendicazioni di crimini di certa attribuibilità all'estrema destra, quali ad es. gli omicidi dell'Appuntato di P.S. EVANGELISTA e del giudice Mario AMATO.

Il primo, infatti, avvenuto i1 28.5.1980 a Roma, fu rivendicato con la seguente telefonata alla redazione dell'Unità. "Siamo i NAR Rivendichiamo noi l'attentato di questa mattina a Piazza Istria/ Onore al camerata CECCHIN - Libertà per tutti i camerati".

Il secondo, avvenuto il 23.6.1980 a Roma, fu rivendicato con questa telefonata alla redazione di "Paese Sera": "Siamo i NAR/ rivendichiamo l'attentato del giudice Mario AMATO, avvenuto questa mattina/ Seguirà comunicato.

Dei due omicidi sono stati riconosciuti colpevoli - come noto - Valerio FIORAVANTI, Francesca MAMBRO (rei confessi) e altri componenti i NAR. Senza contare poi la prima rivendicazione pervenuta all'ANSA alle ore 13.45 del 2.8.1980, subito dopo la strage alla locale stazione F.S.: "Qui NAR/ Rivendichiamo l'attentato di Bologna/ Onore al camerata TUTI".

Non solo quindi la rivendicazione dell'omicidio MATTARELLA ricalca, dal punto di vista sintattico e "ideologico", le menzionate rivendicazioni dei NAR, ma si può anche ragionevolmente avanzare l'ipotesi che la sigla "Nuclei Fascisti Rivoluzionari" non costituisce altro che una variante, forse anche prodromica, della stessa sigla "Nuclei Armati Rivoluzionari". Identiche potrebbero quindi essere anche le persone che hanno agito usando le due sigle.

L'accertamento può avere una chiave di lettura proprio nella stessa rivendicazione che richiama "...i caduti di Acca Laurentia", ovvero l'uccisione dei due giovani aderenti al MSI, Franco BIGONZETTI e CIAVATTA Francesco, avvenuta davanti alla Sezione di Acca Larentia in Roma, il 7.1.1978. L'azione venne rivendicata da un sedicente "Nucleo Armato per il Contropotere territoriale". Nella successiva manifestazione di protesta, in uno scontro a fuoco con le forze dell'ordine, morì un altro giovane missino, RECCHIONI Stefano. L'uccisione dell'On. MATTARELLA, cade quindi nella seconda ricorrenza dei fatti, anzi, viene compiuta "in onore di quei caduti". E' tuttavia significativo che la prima ricorrenza fu sinistramente "celebrata", il 9.1.1979 con l'assalto all'emittente di sinistra di Roma "Radio Città Futura", da parte di giovani travisati che, a colpi di arma da fuoco, ferirono cinque persone.

L'azione venne rivendicata con la seguente telefonata alla redazione de "Il Tempo": "Siamo Fascisti/Rivendichiamo l'attentato a Radio Città Futura, seguirà comunicato/Onore ai camerati uccisi". Non vi è chi non veda la impressionante analogia con la rivendicazione dell'omicidio MATTARELLA e con quelli già menzionati di EVANGELISTA e del Dr. AMATO. Ebbene, del delitto sono stati riconosciuti responsabili Valerio FIORAVANTI, MAMBRO Francesca ed altri aderenti ai NAR.

La stessa MAMBRO ha riconosciuto che, nel corso dei fatti di Acca Larentia, Stefano RECCHIONI cadde proprio avanti a lei e che tale fatto fu decisivo per la sua scelta di "antagonismo" (int. del 27.4.1982 ai G.I. di Bologna dr. GENTILE e dr. FLORIDIA). Non solo, la sigla usata per l'omicidio MATTARELLA, "Nuclei Fascisti Rivoluzionari", compare poche altre volte, sia immediatamente prima che subito dopo, in occasione dei seguenti attentati, tutti compiuti a Roma:

- 26.12.1979: lancio di bottiglie incendiarie contro un autobus dell'ATAC alla stazione Tuscolana;

- 01.01.1980: lancio di bottiglie incendiarie contro l'autorimessa della SIP di via Boezio (Quartiere Prati);

- 07.01.1980: incendio di una scuola nel quartiere di Primavalle;

- 18.02.1980: incendio dell'autovettura di un iscritto al P.C.I.

Si noti poi che, in concomitanza dell'assalto a Radio Città Futura, furono compiuti, sempre la notte del 6.1.1979, a Roma, numerosi attentati incendiari ai danni di varie sale cinematografiche, rivendicati da anonimi qualificantisi: "Siamo fascisti". Il successivo giorno 8.1.1979, altri due attentati furono rivendicati da sedicenti "Fasci clandestini" e da "Gruppo di Fascisti". Il giorno dopo ci sarà l'attentato a Radio Città Futura.

E' importante constatare che tutti gli attentati di cui sopra sono avvenuti in punti attigui a Piazza Tuscolo, Quartiere Prati, Piazza dei Navigatori, ove all'epoca, era attivissima l'azione di estremisti di destra, ed in particolare di quelli del FUAN, dal quale provengono "politicamente" FIORAVANTI Valerio ed altri che hanno dato vita ai NAR. Analogamente, a Catania, 1'8 ed il 10.1.1979, vennero compiuti diversi attentati ai danni di alcuni cinema, di una caserma dei CC., di una centralina telefonica e di un autobus, rivendicati da anonimi che si qualificavano "Siamo fascisti" ovvero "Siamo un gruppo di fascisti armati..." e che richiamavano la "memoria" dei "caduti" di Acca Larentia. Da quanto sopra esposto emergono quindi fondati motivi per ritenere non solo che l'omicidio dell'On. MATTARELLA sia avvenuto ad opera di terroristi di destra gravitanti nei NAR, ma in particolare che sia stato eseguito in prima persona da FIORAVANTI Valerio. Il quale, peraltro, aveva una importante base di appoggio in Sicilia, assicuratagli da Francesco MANGIAMELI, presso il quale soggiornò dal 15 al 30 luglio '80 (insieme con la MAMBRO), certamente per preparare la evasione di CONCUTELLI da Taranto, ma forse non solo per quello". Fin qui, il citato rapporto della DIGOS di Bologna del 2.2.1985. Ma, alle considerazioni testé riferite, possono essere aggiunte quelle svolte nella Relazione dell'Alto Commissariato Antimafia (ff. 82 - 85), che appaiono ampiamente condivisibili: "... Nel caso MATTARELLA, la rivendicazione è fatta dai Nuclei Fascisti Rivoluzionari "in onore dei caduti di Via Acca Larentia" e quindi in onore di camerati uccisi da compagni. Sotto tale aspetto, dunque, la rivendicazione è omogenea rispetto alla sigla usata. Anche il riferimento all'episodio di Via Acca Larentia non è privo di significato, dal momento che esso interviene a due anni da quel fatto (7.1.1978).

Sostiene lo stesso V. FIORAVANTI, nell’interrogatorio reso al P.M. di Padova il 10.2.1981: (A partire dalla fine del 1978) "Rimangono, come momenti ed occasioni di iniziativa" (per l'ambiente di destra) gli anniversari e ricorrenze classiche, che sono quelli della morte di MANTAKAS, RAMELLI, ZICCHIERI ed altri. In queste occasioni si "affiggono manifesti di ricordo" e vengono organizzate talora azioni dimostrative, tipo il ferimento o l'accoltellamento o l'uccisione di un avversario politico". L'interrogatorio conferma, per un verso, quanto potesse essere sentita nell'ambiente del FIORAVANTI una ricorrenza quale quella di Via Acca Larentia; per un altro, colpisce la circostanza che, nel citare le varie ricorrenze, il FIORAVANTI abbia omesso di richiamare proprio quella in questione, che pure riguardava un fatto di estrema gravità quale l'uccisione dinanzi la sezione MSI di Via Acca Larentia di due "camerati" - CIAVATTA e BIGONZETTI - oltre che il successivo ferimento a morte di Stefano RECCHIONI. Un altro anniversario che FIORAVANTI non cita è quello della morte di Franco ANSELMI (7.3.1978).

Tali omissioni sono oggi significative. Alle ricorrenze "omesse" (od agli stessi fatti omessi), si collegano infatti episodi specifici ascrivibili al FIORAVANTI e dei quali, all'epoca di quell'interrogatorio, egli non voleva parlare. Si apprenderà più tardi che all'episodio in cui trovò la morte ANSELMI, il FIORAVANTI aveva partecipato personalmente; che, quale azione commemorativa della morte dell'ANSELMI, il FIORAVANTI stesso aveva organizzato l'anno dopo (il 15.3.1979) la rapina all'armeria Omnia Sport. (Si rilevi che, invero singolarmente, la rapina era stata rinviata di alcuni giorni. Il motivo del rinvio non è stato a tutt'oggi chiarito, ma merita approfondimento avendo riguardo a talune indicazioni - esistenti nel processo - circa la possibile implicazione del FIORAVANTI, il 9.3.1979, in un altro omicidio "eccellente" avvenuto in Sicilia e cioè quello di Michele REINA). Si apprenderà poi che, per commemorare i morti di Via Acca Larentia, il FIORAVANTI ha partecipato, il 28.2.1979, all'omicidio di Roberto SCIALABBA e, il 9.1.1979 all'assalto a Radio Città Futura. Di un anno dopo (il 6.1.1980) è la rivendicazione in questione...... L'assalto a Radio Città Futura, stando alla ricostruzione compiuta dal FIORAVANTI sempre nell'interrogatorio del 10.2.1981, ha una valenza particolare perché rappresenta un mutamento della politica dell'estremismo di destra e l'inizio di un atteggiamento rivoluzionario anti-sistema, emulativo, in fondo, di quello di sinistra. "Naturalmente - dice Valerio FIORAVANTI - non è che i "compagni" cessassero di essere avversari, ma anche nelle azioni contro questi avversari, negli attentati, cominciava ad esprimersi in modo di essere dei gruppi di destra diverso dal solito modello dello squadrista, ma tendenzialmente simile al modo di operare dei gruppi armati di sinistra".

Dal contesto appena descritto discendono due conseguenze:

- Il compimento di un atto di sangue ai danni di un esponente dello stato borghese, per giunta ritenuto disponibile all'apertura al P.C.I., poteva ben essere "rivendicato" anche se si trattava di un "atto su commissione". Agli occhi dell'esecutore materiale esso era pur sempre un "atto in sé rivoluzionario" e comunque un modo per vendicare chi - come i morti di Acca Larentia - intendeva reagire alla "ghettizzazione" in cui lo aveva relegato lo Stato consumistico.

- Una rivendicazione a nome dei NAR non era concepibile. Per un verso, avrebbe scatenato la "repressione" nei confronti di tutti gli estremisti di destra siciliani ed un loro più attento controllo da parte delle forze di polizia, preoccupate dell'esistenza, anche in Sicilia, di un nucleo territorialmente operante, all'epoca, solo al nord ed a Roma.

Un controllo ovviamente inopportuno per più motivi, anche in vista dell'attività da compiere in favore del CONCUTELLI. Per un altro verso, la rivendicazione NAR avrebbe potuto determinare uno spostamento delle indagini su Roma e la individuazione dei gruppi colà operanti. Infine, il fatto interveniva in un momento particolare dell'esperienza del FIORAVANTI: quello in cui egli stava formando un "nuovo gruppo", volto a coagulare intorno a sé esperienze diverse e movimenti giovanili stratificati. Lo stesso CAVALLINI non era mai stato dei NAR, ma aveva gravitato attorno ad altri movimenti. La rivendicazione NAR avrebbe legato il FIORAVANTI ad esperienze passate ed avrebbe preoccupato - attesa la gravità del fatto - gli stessi potenziali aderenti "rivoluzionari" (legandoli prematuramente in modo irreversibile). Per quanto non idonea a consentire l'individuazione del gruppo al quale il fatto era ascrivibile, la rivendicazione "Nuclei Fascisti Rivoluzionari" (rivendicazione che, come si è detto, era comunque necessaria in relazione all'atto in sé ed al suo collegamento con una commemorazione) non era però sufficientemente "depistante".

Per tale motivo fu fatta seguire da rivendicazioni richiamanti il gruppo armato di "Prima Linea" e quello "B.R.". Il FIORAVANTI si comporterà analogamente il 6.2.1980, (appena un mese dopo l'omicidio MATTARELLA) in occasione dell'omicidio dell'agente ARNESANO e, il 28.5.1980, in occasione dell'omicidio EVANGELISTA. Anche in quelle occasioni farà seguire o precedere dalla rivendicazione B.R. o Prima Linea, quella a nome dei NAR...... L'intento, come specificheranno lo stesso FIORAVANTI ed il SODERINI, era quello di apparire una "variabile impazzita", non agevolmente individuabile né dalle forze della repressione né dagli stessi estremisti dell'ambiente, non stabilmente cooptati nel nuovo gruppo e perciò facilmente "permeabili"".

La vedova e il riconoscimento fotografico. La Repubblica l'1 febbraio 2020. Oltre che elemento probatorio "ex se", un ulteriore riscontro della veridicità delle notizie riferite da Cristiano FIORAVANTI è costituito dalle ricognizioni personali e dalle deposizioni della moglie della vittima. In particolare, in occasione di una prima ricognizione fotografica (compiuta il 19.3.1984: Fott. 617383 - 617386 Vol. IX), Irma CHIAZZESE MATTARELLA ebbe a dichiarare: " ... Debbo comunque dire che ho provato una forte sensazione nel vedere le fotografie di Giusva FIORAVANTI. Lo stesso FIORAVANTI è quello, che più corrisponde all'assassino che ho descritto nell'immediatezza dei fatti. Sempre a proposito del FIORAVANTI voglio aggiungere che la nostra collaboratrice domestica, Giovanna SALETTA, ora coniugata SAMPINO, mi riferì di avere assistito all'assassinio di mio marito, essendo lei affacciata ad una finestra di casa nostra. Quando le mostrai, peraltro in modo quasi incidentale e senza voler dare peso alla cosa, una fotografia del suddetto Giusva FIORAVANTI, fotografia pubblicata sui giornali, la ragazza ebbe quasi una crisi ed affermò che per lei non c'erano dubbi che l'uomo ritratto fosse l'assassino di mio marito. La ragazza fra l'altro ignorava che il FIORAVANTI fosse ritenuto implicato nell'omicidio. Quando vide la foto essa non era più al nostro servizio. La mia impressione fu che trattavasi di una manifestazione assolutamente sincera".

La dichiarazione di Irma MATTARELLA, provoca, pochi giorni dopo (26.3.1984) l'audizione di SAMPINO Giovanna: "Non sono mai stata sentita né dagli organi di polizia, né dalla Autorità Giudiziaria. Ho prestato servizio, quale collaboratrice domestica, presso la famiglia MATTARELLA, per circa 12 anni. Il giorno in cui il Presidente MATTARELLA venne assassinato, io mi trovavo nella sua abitazione, e quando udii il primo colpo ebbi l’impressione che si trattasse di un rumore proveniente dal tubo di scarico di un'automobile. Quando, immediatamente dopo, udii un secondo colpo, ebbi la sensazione che qualcosa di grave fosse avvenuto al Presidente MATTARELLA. Mi affacciai subito alla finestra del salotto, che si affaccia sulla via Libertà, e vidi un ragazzo, vestito con un giubbotto chiaro, più esattamente azzurro, e con un piccolo cappellino sulla nuca. Il ragazzo era vicinissimo al lato guida dell'autovettura del Presidente MATTARELLA, e lo vidi sparare. Lo vidi in faccia mentre sparava, e rimasi impressionata dal fatto che fosse assolutamente tranquillo, come se stesse bevendo un bicchiere d'acqua. Corsi subito per telefonare, ma non ci riuscii per l'emozione, e mi affacciai nuovamente alla finestra. Vidi che il ragazzo stava sparando un colpo dal lato destro dell'autovettura: si trovava grosso modo al centro dell'autovettura stessa. Ebbi quindi modo di ben vederlo in viso. A questo punto vengono mostrate alla signora SAMPINO le fotografie segnaletiche di FIORAVANTI Valerio e FIORAVANTI Cristiano. Risponde: Posso escludere che il giovane rappresentato nella fotografia con l'indicazione "FIORAVANTI Valerio" sia il giovane che ho visto sparare. Sono invece certa che il giovane, ritratto nella fotografia con l'indicazione "FIORAVANTI Cristiano" sia il giovane che ho visto sparare. Dopo avere terminato di sparare, prima di salire su un'autovettura - forse una 127 o una 126, comunque di colore bianco - alzò la testa. Prese posto sul sedile "lato passeggero". Scesi subito per strada. La prima persona che vidi fu un fotografo, alto, magro e con il "codino". Ne ricordo bene il viso. Faccio ancora presente che l'assassino indossava un paio di jeans".

Invitata, a distanza di tempo (5.7:1985: Fott. 618005 - 618006 Vol. XII), a procedere a formali ricognizioni di persona, la SAMPINO non riconoscerà né Cristiano né Valerio FIORAVANTI. Il comportamento processuale della SAMPINO, apparentemente contraddittorio, può trovare spiegazione:

1) nella notevolissima somiglianza (agevolmente rilevabile da chiunque li abbia conosciuti anche soltanto per motivi di ufficio) tra Cristiano e Valerio FIORAVANTI;

2) nella ben comprensibile difficoltà psicologica incontrata dalla teste nell'assumersi, oltretutto a distanza di oltre cinque anni dal fatto, la responsabilità di una ricognizione formale.

D'altra parte, il ben maggiore valore probatorio della originaria reazione della SAMPINO è evidenziato in una successiva deposizione della vedova MATTARELLA (8.7.1986, Fot. 646416 Vol. XXIII): "... Sono a conoscenza che SAMPINO Giovanna non ha riconosciuto Valerio FIORAVANTI. Non so dire se potrei riconoscerlo io ma è certo che essa quando vide in fotografia il FIORAVANTI, sulla "Stampa" di Torino ed in mia presenza, ebbe un sussulto e scoppiò in un pianto dirotto. La SAMPINO era particolarmente legata a mio marito come del resto la famiglia tutta ed è stata l'unica a soccorrerci nell'immediatezza dell'omicidio. Spontaneamente soggiunge: a questo punto mi sembra di ricordare che la foto del FIORAVANTI vista dalla SAMPINO, fosse stata pubblicata sul "Corriere della Sera" e non sulla "Stampa"".

In sede di ricognizione formale (compiuta il 25.9.1986) Irma CHIAZZESE MATTARELLA dichiara (Fot. 665565 Vol. XXIII): "Riconosco con certezza nell'individuo posto alla mia sinistra quel FIORAVANTI Valerio la cui fotografia ho visto più volte sui giornali. Ritengo probabile, sulla base dei ricordi che ho dell'assassino di mio marito, che si tratti proprio di lui. In particolare, l'altezza coincide e lo stesso dicasi per quanto si riferisce alla fisionomia. Ritengo, comunque, che non avrei potuto dare un avessi effettuato la ricognizione personale nella immediatezza del fatto. In sostanza, quando dico che è probabile che nel FIORAVANTI si identifichi l'assassino ho inteso dire che è più che possibile che lo stesso sia autore dell'omicidio ma che non sono in grado di formulare un giudizio di certezza. Si dà atto che la teste ha reso questa dichiarazione dopo avere a lungo (per diversi secondi) esaminato i tre soggetti attraverso uno specchio a piani paralleli in modo, cioè, da non essere vista dai predetti".

Quest'ultima dichiarazione espressa in termini di forte probabilità, che testimonia peraltro l'altissimo senso di responsabilità della Sig.ra MATTARELLA, acquisisce il crisma della definitiva certezza alla luce della dettagliata deposizione (al G.I. di Palermo in data 8.7.1986: Fott. 646412 - 646416 Vol. XXIII), nel corso della quale la stessa aveva così dichiarato: "Confermo, previa lettura avutane, le dichiarazioni da me rese al P.M. di Palermo ed al G.I. di Palermo....Debbo effettuare però le seguenti precisazioni in ordine alle modalità dell'assassinio di mio marito che a suo tempo non riferii compiutamente, essendo stata interrogata nella immediatezza dell'assassinio ed essendo, quindi, ancora sconvolta per quanto era accaduto. Il giovane che poi uccise mio marito io lo vidi, ancor prima che sparasse, quando scesi da casa per prendere posto nell'autovettura, posta a circa 15 metri. Il luogo dove dovevo recarmi era lo scivolo posto davanti all'autorimessa dove mio marito custodiva l'autovettura. Detto scivolo dista dal portone di ingresso di casa mia circa una ventina di metri e, per arrivarvi, bisogna percorrere il marciapiedi di via Libertà antistante al Bar "Astoria". Nell'uscire dal portone e giunta sul marciapiedi mi vidi tagliare la strada da un giovane di statura leggermente inferiore alla media o addirittura di statura media che indossava un kawai azzurro con cappuccio in testa; infatti piovigginava. Il giovane percorse davanti a me alcuni metri e potei notare che procedeva con passo elastico ed ondeggiando leggermente le spalle; in sostanza mi diede l'impressione di un'andatura ballonzolante...Come dissi a suo tempo, trattasi di un giovane di circa 22, 23 anni dal comportamento glaciale e dal viso piuttosto rotondo e dalla carnagione chiara. Mi colpì, di questo viso, in particolare, il contrasto fra i lineamenti del volto, gentili, e lo sguardo spietato. Gli occhi, in particolare, avevano una particolarità che non so come esprimere ma che mi sembra possa riassumersi nel fatto che, forse, erano piccoli e, o troppo ravvicinati o troppo distanti tra di loro. I capelli erano castano chiari quasi sul biondo, molto lisci e con ciuffo sul lato destro... come ho già detto altre volte sono rimasta particolarmente colpita dai dati somatici dell'assassino da me testé indicati. Tuttavia né adesso né credo prima sono sicura di essere in grado di riconoscerlo. L'evento è stato tanto traumatico che non posso dire se, ora come allora, anche se mi venisse mostrato il vero assassino, potrei riconoscerlo".

Tale fondamentale deposizione acquista decisiva valenza probatoria alla luce delle successive dichiarazioni (rese al G.I. di Palermo 1'11.7.1986, Fott. 646697-646701 Vol. XXIII) di SODERINI Stefano: "La S.V. mi dà lettura delle modalità dell'assassinio dell'On. MATTARELLA, riferite alla vedova, Irma CHIAZZESE. Al riguardo posso dire soltanto che, in effetti, la descrizione del killer riferita dalla vedova MATTARELLA, si attaglia a Valerio FIORAVANTI. Quest'ultimo, inoltre, ha un'andatura ballonzolante e muove le spalle, anche se non marcatamente. In sostanza, si muove in maniera abbastanza singolare, tanto che veniva soprannominato, soprattutto negli ultimi tempi, "l'orso", per questo motivo (il FIORAVANTI confermerà questo appellativo, anche se ancorato al suo carattere: N.D.R.).

Il FIORAVANTI si muoveva così in ogni circostanza; anche quando era "in azione". Anzi, questo suo modo di comportarsi, quasi giocherellone, spiazzava le persone contro cui agiva che non si accorgevano delle sue reali intenzioni se non quando era troppo tardi"...Rimane, infine, da porre in evidenza che, nel contesto dello stesso interrogatorio, il SODERINI ha fornito alla tesi accusatoria un ulteriore oggettivo riscontro allorché ha dichiarato: "So per certo che, fin quando il CAVALLINI non ha procurato il macchinario per fabbricare targhe di autovetture false, il FIORAVANTI mi diceva che, per alterare le targhe delle vetture, era solito usare più targhe che tagliava per ricostruirne un'altra con i numeri, conseguentemente, "modificati". Ebbene, proprio tale tecnica è stata adoperata per la alterazione della targa dell'autovettura Fiat 127 usata dagli assassini dell'On. MATTARELLA. Come si legge nel rapporto preliminare della Squadra Mobile e dal Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo del 9.2.1980 (Fot. 615078 Vol. II), la targa della detta Fiat 127: "Era stata parzialmente manomessa mediante l'applicazione dello spezzone di un'altra targa, talché si leggeva PA 546623, invece dell'originale PA 536623. Lo spezzone di targa usato appartiene... alla targa 540916, asportata la notte del 6 gennaio in via delle Croci".

Il patto fra poteri per il delitto dell'Epifania. La Repubblica il 2 febbraio 2020. Per le considerazioni già svolte, deve ritenersi provato che l'omicidio di Piersanti Mattarella fu materialmente eseguito da Valerio FIORAVANTI e Gilberto CAVALLINI. Dalle fonti di prova esaminate è risultato, altresì, che l'omicidio del Presidente della Regione Siciliana fu un omicidio “politico-mafioso”, attuato in virtù di uno specifico “pactum sceleris” intervenuto fra i detti esponenti della destra eversiva e Cosa Nostra. Quest'alleanza criminosa può apparire singolare soltanto ad un'osservazione superficiale, poiché risulta ormai, da una pluralità di importanti atti giudiziari acquisiti ex art 165 bis c.p.p., e da atti istruttori specifici compiuti nel presente procedimento, un ampio contesto di non occasionali e articolati rapporti tra ambienti del terrorismo “nero”, della criminalità di tipo mafioso e della criminalità politico-economica. In tale contesto deve ricercarsi l'origine dell'omicidio dell'On. MATTARELLA, anche se si sono potute attingere risultati processualmente validi solo a livello di “Cosa Nostra” (il che, come ampiamente spiegato e dimostrato, non è poca cosa). Più particolarmente, per quanto riguarda questo gravissimo episodio criminoso, la genesi logica della scelta, da parte di “Cosa Nostra”, di due esponenti del terrorismo “nero” quali esecutori materiali deve essere individuata nella eccezionalità del crimine, le cui motivazioni trascendevano la ordinaria logica dell'organizzazione mafiosa e coinvolgevano interessi politici che dovevano restare assolutamente segreti nonché nel momento storico che questa criminale associazione attraversava per dinamiche interne. Secondo quanto risulta dalle indagini (v., in particolare l'analisi delle dichiarazioni rese da BUSCETTA Tommaso e da Francesco MARINO MANNOIA), l'assassinio del Presidente della Regione fu deciso nell'ambito del vertice di “Cosa Nostra”, tanto da non suscitare né immediatamente (v. MARINO MANNOIA) né due-tre mesi dopo (v. BUSCETTA) alcuna significativa in seno alla stessa. Un'analisi critica e ragionata di tutte le risultanze, però, porta a ritenere che il momento ed il modo di commettere l'omicidio non furono discussi nella sede formale della “Commissione”. È certo che tutti i componenti della “Commissione” erano consapevoli dell'esistenza di un “problema MATTARELLA”, il che significava la possibilità di un'azione delittuosa contro l'uomo politico, prestando il proprio assenso. Il “problema” derivava dal fatto che l'azione dell'uomo politico non era rivolta contro l'una o l'altra delle singole “famiglie” (cosa che avrebbe potuto creargli contrasti con una sola “fazione”) ma, proprio per la coerenza e la completezza del disegno politico che la ispirava, rappresentava un pericolo per gli illeciti interessi dell'intera “Cosa Nostra”. Orbene, l'esistenza di un “problema” in “Cosa Nostra” nei confronti di qualcuno è sempre foriero di gravi conseguenze per il soggetto che lo ha causato: basti pensare, ad esempio, al precedente “problema” rappresentato dal ten. Col. CC Giuseppe RUSSO. Tanto che, quando questi venne ucciso nell'agosto 1977 (all'insaputa dello stesso DI CRISTINA, di BONTATE e BADALAMENTI), il DI CRISTINA protestò vivacemente con Michele GRECO proprio per la decisione unilateralmente presa ed attuata dai “corleonesi”. Viceversa, nessuna traccia di opposizione al “problema MATTARELLA” risulta dalle emergenze probatorie: il che non può significare altro se non il fatto che neppure l'“ala moderata” (e primo fra tutti il BONTATE) aveva motivo di opporsi alla risoluzione del “problema”, anche se questo – al momento in cui se ne parlò – non richiedeva un immediato intervento. Acquisita l'adesione sull'“an” da parte di tutti i componenti la “Commissione”, i “corleonesi” ed i loto alleati si ritennero in grado – allorché giudicarono maturi i tempi in funzione dei loro interessi – di poter eseguire autonomamente il deliberato assunto in precedenza. Si deve por mente, però, alla fase storica in cui maturò questo problema, giacché questo spiega logicamente per quale motivo, ad esempio, Stefano BONTATE (leader dell'“ala moderata”) ritenne di non fare scoppiare il “caso” in seno alla “commissione”. Egli, infatti, non avrebbe potuto eccepire che non vi era stato il suo consenso all'uccisione dell'On. MATTARELLA, in quanto, quando il “problema” si era posto, non aveva speso alcuna parola per dimostrare che l'azione politica di quello non doveva condurlo a morte, in altri termini non si era opposto. Avrebbe solo potuto far rilevare che non era stato interpellato per decidere il “quando” ed il “quomodo”: ma, questa pur possibile condotta – ostavano due considerazioni. La prima era che egli aveva capito che l'averlo tenuto all'oscuro di questi “dettagli” significava che i suoi avversari lo ritenevano ormai “fuori gioco”; e, a fronte di questa consapevolezza, l'unico modo per contrastarli era quello di scatenare per primo la “guerra”. La seconda era verosimilmente che, dopo i fatti connessi all'omicidio di Francesco MADONIA da Vallelunga (per i quali egli era stato “salvato”, mentre i suoi alleati – DI CRISTINA, Giuseppe CALDERONE e BADALAMENTI – erano stati severamente puniti), il BONTATE non si sentiva “legittimato” ad invocare il rispetto delle “regole”, che, peraltro, nella sostanza erano state rispettate. Capiva che l'unico mezzo per opporsi era affidato alle armi. Ma, evidentemente, non riteneva di essere ancora pronto per fare ricorso ad esse. Questo spiega perché BUSCETTA ha sempre riferito che BONTATE era stato tenuto all'oscuro dalla decisione di uccidere l'on. MATTARELLA mentre MARINO MANNOIA ha detto che il suo capo – nei giorni successivi all'omicidio – “era contrariato”, ma qualche dopo ritornò tranquillo, tanto che alla sua rielezione della primavera 1980 parteciparono tutti i componenti della “commissione”. L'equilibrio interno del vertice di “Cosa Nostra” era ormai da tempo in fase di progressiva disgregazione, e già tra la fine del 1979 e gli inizi del 1980, il gruppo “corleonese” aveva deciso di forzare la mano alla fazione avversaria, rispettando sempre, però, le “regole” formali di “Cosa Nostra”. Per cui, la decisione di procedere all'assassinio fu, quindi, adottata e attuata dal gruppo che di lì a poco avrebbe scatenato la “guerra di mafia”, dopo avere però coinvolto nella deliberazione sull'“an” (intervenuta verosimilmente tempo prima) tutti gli avversari “politici” (BONTATE, INZERILLO, RICCOBONO, PIZZUTO). Tale gruppo, costituito dai “corleonesi” e dai loro alleati, non solo non aveva alcuna remora a realizzare un così grave omicidio politico, ma cominciava a seguire logiche “operative” diverse da quelle tradizionali. Infatti, mentre la componente di “Cosa Nostra” allora facente capo a Stefano BONTATE proveniva da una antica e collaudata esperienza di complessi ed articolati rapporti con il mondo politico (acquisendo la logica e le tecniche proprie di quell'ambiente, caratterizzato dalla ricerca del potere attraverso la realizzazione di equilibri progressivamente più favorevoli ai propri interessi, con una attenta ponderazione dei rischi e dei vantaggi di ogni azione), al contrario, la componente “corleonese” era animata da una ben diversa “filosofia del potere”. Si proponeva di realizzare la propria violenta e brutale egemonia non solo nello specifico ambito di “Cosa Nostra”, ma anche (su un “secondo fronte”) nei confronti dello stesso modo politico, considerato come una entità, da sottomettere e dominare anche con l'uso della propria potenza “militare”. In quest'ottica ed in questo contesto storico, si individua con chiarezza la piena coerenza logica della scelta di soggetti criminali estranei a “Cosa Nostra” per attuare l'omicidio.

Era necessario, invero, raggiungere una duplice esigenza di segretezza:

1) nei confronti dei “vertici” tenuti estranei alla decisione “operativa”, poiché questi, altrimenti, avrebbero potuto opporre riserve e dissensi (quanto meno in ordine ai tempi ed alle modalità dell'operazione) e paralizzare così una determinazione irreversibilmente adottata dal gruppo che si avviava, anche mediante quest'omicidio, a conquistare il dominio totale di “Cosa Nostra”;

2) nei confronti di tutti i membri di “Cosa Nostra” di livello inferiore al vertice supremo dell'organizzazione, ancorché appartenenti alle “famiglie” che quel vertice esprimevano, poiché doveva essere assicurata, anche per l'avvenire, una inviolabile segretezza delle motivazioni e dei mandanti dell'omicidio.

Si deve tener presente a quest'ultimo riguardo, infatti, che una “regola” indefettibile di “Cosa Nostra” è quella – tra “uomini d'onore” – di dirsi la verità su “fatti riguardanti altri uomini d'onore”. Pertanto, laddove fossero stati utilizzati per l'omicidio dell'On. MATTARELLA degli “uomini d'onore” e – per avventura – altri “uomini d'onore” avessero chiesto a questi ultimi notizie sul delitto, i “killers” non avrebbero potuto tacere la verità ed il fatto avrebbe potuto venire a conoscenza di un numero non definito di appartenenti all'associazione. Questo rischio, invece, veniva assolutamente evitato con l'utilizzazione di soggetti estranei a “Cosa Nostra”, giacché a quelle eventuali domande i “corleonesi” ed i loro alleati avrebbero potuto non dire la verità, senza tuttavia violare alcuna “regola” dell'associazione. La garanzia di tale duplice obiettivo non sarebbe stata possibile, evidentemente, se – in conformità alla tradizionale “prassi” di “Cosa Nostra” – fossero stati designati per l'esecuzione del delitto “uomini d'onore” appartenenti alle “famiglie” che avrebbero dovuto essere “rappresentate” nell'operazione in ragione delle motivazioni, degli interessi coinvolti e del “territorio” nel cui ambito il delitto doveva attuarsi.

Alla duplice esigenza ora indicata soddisfaceva, invece, perfettamente la utilizzazione di “esecutori” come Valerio FIORAVANTI e Gilberto CAVALLINI. Costoro infatti:

1) appartenevano ad una realtà, quella dello “spontaneismo rivoluzionario” di estrema destra, assolutamente estranea ai problemi politici e, ancor più, mafiosi della Sicilia;

2) erano forniti dei necessari requisiti di “professionalità” criminale;

3) potevano essere contattati e utilizzati, senza alcuna necessità di renderli partecipi delle motivazioni e dei mandanti dell'omicidio, grazie all'esistenza, nella capitale, di già collaudati rapporti tra ambienti della destra eversiva, della criminalità comune (la c.d. “Banda della Magliana”) e di “Cosa Nostra” (attraverso il CALÒ).

Di tali rapporti – che hanno avuto implicazioni non soltanto criminali ed affaristiche ma anche politiche, e nei quali ha ricoperto certamente un ruolo centrale Giuseppe CALÒ, “emissario romano” dei Corleonesi e dei loro referenti politici – si tratterà più diffusamente in appresso.

Qui, occorre aggiungere che – oltre al soddisfacimento delle cennate fondamentali esigenze – la scelta di “killers” neri offriva ai mandanti del crimine ulteriori non trascurabili vantaggi, poiché avrebbero potuto determinare:

1) in caso di fallimento dell'“operazione”, la riferibilità del delitto ad esponenti della criminalità politica eversiva, anziché a “Cosa Nostra” (in tal senso non va sottovalutato il significato delle scritte contro MATTARELLA intestate a “Terza Posizione” comparse a Palermo prima dell'omicidio e delle prime telefonate di rivendicazione);

2) nel caso di consumazione del delitto, invece, un depistaggio delle indagini e, comunque, una potenziale confusione investigativa , rendendo, a seconda dei casi e di volta in volta, poco credibile l'una o l'altra delle “piste investigative” (cosa che si è in effetti determinata, almeno per un certo periodo di tempo).

Infatti, basta ricordare i problemi ricostruttivi che hanno reso particolarmente complessa l'istruzione del presente procedimento, determinati proprio dalle difficoltà di “lettura” di una “pista nera” apparentemente contraddittoria perché di fatto non gestita secondo le tipologie “eversive”. Invero, il delitto non soltanto non presentava adeguate motivazioni a sostegno di una plausibile “matrice terroristica”, ma dopo le prime vaghe telefonate di rivendicazione, non fu in alcun modo “gestito” politicamente, come sarebbe stato altrimenti ragionevole attendersi. Soltanto una complessa e laboriosa attività istruttoria ha consentito, infine, di individuare la corretta   “chiave di lettura” della “pista nera”, qui priva di qualsiasi implicazione terroristica o “rivoluzionaria”, e dimostrativa invece di una nuova complessa realtà, caratterizzata dalla progressiva integrazione di settori della criminalità eversiva nell'ambiente politico-mafioso. In tale contesto, le due entità criminali finiscono col divenire reciprocamente funzionali, poiché la prima si giova della potenza economica e delittuosa di “Cosa Nostra”, con garanzia di assoluta omertà, e “Cosa Nostra”, a sua volta, acquisisce lo sfruttamento di nuove forze di cui servirsi, quando necessario, per perseguire propri interessi ovvero per colpire e distogliere da sé gli apparti istituzionali dello Stato.

L'Italia occulta e il caso Mattarella. Giuliano Turone il 3 febbraio 2020 su La Repubblica. Italia Occulta (Chiarelettere editore), il libro del giudice Giuliano Turone sui misteri del nostro Paese dal 1978 al 1980. La dinamica del delitto e la questione delle targhe. Palermo, via della Libertà, 6 gennaio 1980, ore tredici circa. Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, viene assassinato a colpi di arma da fuoco sotto casa sua. Il killer è un giovane che lo attende nei pressi del passo carraio del garage dal quale egli si appresta a uscire alla guida della sua auto. Accanto a lui siede la moglie, Irma Chiazzese. Il killer esplode numerosi colpi su Mattarella attraverso il finestrino. Subito dopo si avvicina a una Fiat 127, su cui si trova un complice dal quale riceve un’altra arma con la quale torna a sparare contro Mattarella, già colpito a morte, ferendo a una mano anche la moglie. Poi i due si allontanano a bordo della Fiat 127. (Testo, rivisto dall’Autore, del capitolo XII del volume Italia occulta. Dal delitto Moro alla strage di Bologna. Il triennio maledetto che sconvolse la Repubblica (1978-1980), Chiarelettere, 2019, pp. 227 ss). La perizia balistica stabilirà che per l’omicidio sono stati utilizzati due revolver calibro 38.L’auto degli assassini viene trovata circa un’ora dopo abbandonata in via degli Orti, a breve distanza dal luogo del delitto. È apparentemente targata PA-546623, masubito gli agenti constatano che in realtà le targhe sono state contraffatte in un modo particolare:

a) la targa anteriore si compone di due pezzi, rispettivamente: 54 e 6623PA;

b) la targa posteriore si compone di tre pezzi, rispettivamente: PA, 54, 6623;

c) questi ultimi tre pezzi «presentano superiormente del nastro adesivo di colore nero verosimilmente posto per meglio trattenerli alla carrozzeria». (Queste tre caratteristiche della contraffazione, originariamente indicate nel rapporto di polizia giudiziaria, le ritroviamo anzitutto nella «Relazione sull’omicidio dell’On.le Mattarella del 6 gennaio 1980», pp. 3-4 e 79, redatta in data 8 settembre 1989 da Loris D’Ambrosio –allora distaccato presso l’ufficio dell’alto commissario antimafia –e allegata agli atti del procedimento penale relativo ai tre omicidi «politici» (Michele Reina, Piersanti Mattarella, Pio La Torre). Sono poi riportate nei provvedimenti cardine di quello stesso procedimento: requisitoria del 9 marzo 1991 della Procura della Repubblica di Palermo c/ Michele Greco e altri, p. 140; sentenza-ordinanza del giudice istruttore di Palermo del 9giugno 1991, p. 182; sentenza del 12 aprile 1995 della Corte d’assise di Palermo, p. 19; sentenza del 17 febbraio 1998 della Corte d’assise d’appello di Palermo, p. 176. Come si vedrà, a queste circostanze relative alla contraffazione delle targhe si ricollega un elemento probatorio fondamentale, che purtroppo non è stato adeguatamente coltivato.2Nel suo rapporto, la polizia giudiziaria evidenzia la singolarità della circostanza secondo la quale i luoghi dell’agguato, dei furti e del rinvenimento della Fiat 127 dopo il delitto distano poche centinaia di metri l’uno dall’altro). Quella Fiat 127 è stata rubata la sera prima del delitto, sempre nella stessa zona di Palermo, e la sua targa autentica (PA-536623) era quasi uguale a quella poi contraffatta, dato che differiva da quest’ultima solo relativamente alla seconda cifra, che originariamente era 3 anziché 4. Indagando sull’auto con la targa contraffatta si è scoperto che, sempre la sera prima del delitto, sono state rubate anche le targhe (anteriore e posteriore) di un’altra auto –una Fiat 124 –parcheggiata sempre nella stessa zona e targata PA-540916. È risultato evidente che la contraffazione è avvenuta semplicemente asportando lo spezzone 53 dalle targhe autentiche della Fiat 127 e sostituendolo con lo spezzone 54 prelevato dalle targhe asportate dalla Fiat 124.Non viene trovata traccia, almeno per il momento, dei residui della contraffazione, vale a dire degli spezzoni avanzati dalla frammentazione delle targhe utilizzate (gli spezzoni PA, 53 e 0916). Su questi particolari torneremo più avanti, perché se si fossero approfonditi a quel tempo gli accertamenti su quelle targhe, sarebbe stato possibile ricostruire in modo completo le dinamiche dell’omicidio Mattarella, anche relativamente agli aspetti che invece sono rimasti purtroppo oscuri2.Il killer, che ha agito a volto scoperto, è stato descritto concordemente e con una certa precisione sia dalla signora Irma Chiazzese, sia da cinque testimoni oculari presenti sulla scena del crimine (compresa la colf di casa Mattarella, che ha assistito alla scena alla finestra). Si trattava di un giovane di bella presenza, di circa venticinque anni, alto all’incirca un metro e settanta, corporatura robusta e capelli castani. Indossava una giacca a vento celeste tipo k-waye occhiali scuri. Quando si muoveva procedeva con passo elastico e ondeggiando leggermente le spalle, dando l’impressione di una andatura ballonzolante. Il giovane aveva agito con grande calma e freddezza e tutti i testimoni hanno osservato che aveva sulle labbra un accenno di sogghigno. In particolare la signora Mattarella era rimasta colpita dal contrasto tra i lineamenti del volto, che erano gentili, da ragazzo per bene, e lo sguardo, che era invece spietato, così come era glaciale il suo comportamento.

La mafia e i nuovi accordi con la politica. Giuliano Turone il 4 febbraio 2020 su La Repubblica. Il ministro dell'Interno del 1980 Virginio Rognoni. Come si può leggere nel rapporto giudiziario del 23 dicembre 1980, Piersanti Mattarella nel suo operato politico si era battuto per sradicare i vincoli di reciproco condizionamento tra politici, forze imprenditoriali e organizzazioni mafiose. Egli aveva disposto, infatti, accurate ispezioni in materia di appalti, tra cui una in particolare, volta a verificare presunte irregolarità sulle procedure seguite dal Comune di Palermo nelle gare di appalto per la costruzione di sei edifici scolastici. Ciò deve essere stato enormemente sgradito a Cosa Nostra, soprattutto a quella fazione facente capo a Bontate, Spatola, Inzerillo e Gambino –specificamente interessata a quelle gare –che abbiamo visto confrontarsi addirittura con il presidente del Consiglio Andreotti in persona sul «problema» Mattarella, sia prima sia dopo l’omicidio. Pertanto non sembra casuale che, appena due giorni dopo l’omicidio Mattarella, il Comune di Palermo si sia affrettato a sostenere la regolarità delle gare d’appalto, contestando così i risultati dell’ispezione e contraddicendo anche l’impegno, che aveva assunto il sindaco pro tempore con il presidente della Regione, di annullare le procedure sino a quel momento formalizzate. Piersanti Mattarella era da tempo angosciosamente preoccupato per la crescente aggressività di Cosa Nostra e anche per le possibili reazioni mafiose alle sue iniziative, che avrebbero potuto minacciare la sua stessa incolumità fisica. Questo stato d’animo di Mattarella traspare dalle deposizioni del suo capo di gabinetto Maria Grazia Trizzino e dell’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni, che aveva avuto un colloquio con il presidente della Regione nell’ottobre 1979. In particolare, in base alla deposizione del ministro Rognoni, veniamo a sapere che in quel colloquio Mattarella: –si era ricollegato agli omicidi del commissario Boris Giuliano e del giudice Cesare Terranova (rispettivamente luglio e settembre 1979) per sottolineare che la mafia stava privilegiando nuove forme criminose e creando inquietanti legami con la politica;–aveva aggiunto che il suo sforzo era quello di recidere proprio tali legami, facendo riferimento agli interventi volti a fermare la procedura di alcuni «appalti concorso» (a proposito dell’omicidio di Piersanti Mattarella si veda G.Grasso, Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia, Edizioni San Paolo, 2014; G.Marcucci, Generazione senza rimorso, in AA.VV., Alto tradimento, P. Bolognesi (a cura di), Castelvecchi,.2016.4Deposizione Trizzino 10 aprile 1981 e deposizione Rognoni 11 giugno 1981, in Tribunale Palermo, g.i., sentenza-ordinanza 9 giugno 1991, pp. 210-214.5Il cosiddetto «appalto concorso» viene adottato quando, per l’esecuzione di lavori che presentano caratteristiche tecniche particolari, le ditte vengono invitate a presentare, a fianco delle offerte economiche, anche i relativi progetti tecnici) e ad altri interventi simili, senza nascondersi che potevano provocare ostilità nei suoi confronti e anche un clima di grave intimidazione; –aveva espresso chiaramente il suo vivo dissenso e la sua grande preoccupazione per le notizie sulle pressioni che l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino –uomo di «discussa, ambigua e dubbia personalità» – stava mettendo in atto per ottenere «un reinserimento a un livello di piena utilizzazione politica all’interno del partito della Democrazia cristiana».

Un’altra deposizione rilevante, circa le preoccupazioni che tormentavano il presidente della Regione Sicilia, è quella del suo successore, Mario D’Acquisto, secondo il quale Mattarella «era particolarmente preoccupato anche perché temeva che il terrorismo potesse cercare nuove aree di espansione nel Sud aggiungendosi al fenomeno della mafia [...]. Il presidente ucciso paventava che la mafia siciliana potesse offrire al terrorismo killer e aiuti di altro genere, ove il terrorismo politico avesse deciso l’alleanza con la mafia».

La relazione di Loris D'Ambrosio. Giuliano Turone il 5 febbraio 2020. Loris D'Ambrosio, il magistrato al tempo in servizio all'Alto Commissariato Antimafia. L’ipotesi di un’alleanza di Cosa Nostra con il terrorismo politico –segnatamente con la destra eversiva dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar) e di Terza posizione (Tp) –è quella sulla quale stava lavorando Giovanni Falcone negli anni 1986-1987, prima di venire emarginato dai capi dei due uffici inquirenti palermitani. Il suo lavoro viene proseguito nel biennio 1988-1989, come si è già accennato, dal collega Loris D’Ambrosio, grande esperto di eversione di destra, il quale sta allora operando però all’interno dell’alto commissariato antimafia, che non ha certo la stessa incisività investigativa di un ufficio giudiziario inquirente. Ciò malgrado, il risultato del lavoro –la Relazione dell’8 settembre 1989 –è davvero un testo estremamente interessante. Nella Relazione si osserva anzitutto come dalle indagini svolte sull’omicidio di Piersanti Mattarella non sia emersa nessuna pista investigativa volta a individuare gli autori materiali del fatto in soggetti gravitanti nelle organizzazioni mafiose. I collaboratori di giustizia di estrazione mafiosa hanno infatti dichiarato di non sapere chi fossero i due killer, né a quale famiglia appartenessero. Inoltre, la signora Chiazzese non ha ravvisato nessuna somiglianza tra lo sparatore e le immagini di soggetti mafiosi che le sono state sottoposte. Va detto, però, che l’inesistenza di piste mafiose riconducibili agli autori materiali del crimine non implica affatto l’esclusione della matrice mafiosa dell’omicidio Mattarella. Del resto, come si è visto nel paragrafo precedente, le presumibili motivazioni del delitto si ricollegano proprio alle logiche di Cosa Nostra e non hanno nulla di sia pur larvatamente eversivo. Certamente non con riferimento all’eversione di sinistra, ma neanche con riferimento all’eversione di destra. In particolare, per quanto riguarda il terrorismo di destra, se ci soffermiamo sulle «espressioni rivoluzionarie» che esso poteva presentare a quel tempo, dobbiamo riconoscere che il fatto criminoso di cui ci stiamo occupando non è riconducibile al cosiddetto terrorismo spontaneista (emulativo di quello di sinistra) schierato contro il sistema capitalistico e borghese, ovvero «contro una società massificante che soffoca le avanguardie “elitarie” chiamate a condurre il popolo alla rivoluzione e alla restaurazione eroica della spiritualità olimpico-solare». Né l’omicidio Mattarella è riconducibile «alle azioni esemplari in se stesse, dirette e punitive, capaci di disarticolare il sistema, e che qualunque camerata di fede è in grado di compiere». Ecco allora che nella Relazione l’omicidio Mattarella viene rappresentato come un omicidio del tutto anomalo: «Maturato in quel composito ambiente umano e politico che, al fine di accrescere il proprio potere economico, affaristico e istituzionale [...], si presta a gestire gli interessi pubblici secondo schemi e principi tipicamente delinquenziali [...]. Non si tratta, allora, di un omicidio di mafia, ma di un omicidio di politica mafiosa: nel quale, cioè, la riferibilità alla mafia come “organizzazione” deve necessariamente stemperarsi attraverso una serie di passaggi mediati, di confluenze “operative” e “ideative” apparentemente disomogenee ma in grado di dare, nel loro complesso, il senso compiuto dell’antistato». È questo – osserva ancora la Relazione – uno dei motivi, se non il motivo principale, per il quale l’esecuzione dell’omicidio non viene affidata ai killer delle organizzazioni mafiose: tanto più che, in tal modo, si ottiene anche l’effetto di «disorientare l’opinione pubblica e l’apparato investigativo» e si dà agli stessi affiliati mafiosi «l’impressione di quanto devastante ed estesa sia la capacità di espansione e controllo che l’antistato è in grado di esercitare».

Fioravanti contro Fioravanti. Giuliano Turone il 6 febbraio 2020 su la Repubblica. Tra il 1982 e il 1983 cominciano ad arrivare alla magistratura inquirente dichiarazioni di collaboratori di giustizia provenienti dalla destra eversiva, che indicano in Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, militanti dei Nuclei armati rivoluzionari, gli autori materiali dell’omicidio Mattarella. Il primo a fare questa rivelazione, sia pure in maniera ancora nebulosa, è Cristiano Fioravanti, fratello minore di Valerio, anch’egli militante dei Nar, ma dal 1981 collaboratore di giustizia. Già in un verbale dell’ottobre 1982 Cristiano comincia a collegare l’omicidio di Piersanti Mattarella a suo fratello Valerio, precisando che quest’ultimo, nei giorni in cui fu commesso l’omicidio, si trovava a Palermo ospite di Francesco Mangiameli, uno dei dirigenti di Terza posizione. Cristiano aggiunge che anche prima di quel delitto (e pure successivamente, come vedremo) suo fratello aveva fatto «frequenti viaggi in Sicilia insieme a Gilberto Cavallini» e che lì entrambi erano da tempo in contatto con Mangiameli. In Sicilia, Francesco Mangiameli, detto Ciccio, era il capo riconosciuto di Terza posizione, un gruppo dello spontaneismo armato di estrema destra la cui storia ha incrociato in più punti, non sempre pacificamente, quella dei Nar. Quando Cristiano Fioravanti inizia a fare le sue rivelazioni agli inquirenti, Mangiameli in realtà è già morto da circa due anni, essendo stato assassinato il 9settembre 1980 proprio dai due fratelli Fioravanti –sul punto ampiamente confessi –con il concorso della compagna di Valerio, Francesca Mambro, e di altri due camerati (Giorgio Vale e Dario Mariani), tutti condannati con sentenza definitiva. Le assidue frequentazioni tra Valerio Fioravanti e Ciccio Mangiameli si collocano tra il 1979 e l’estate 1980, quando i Nar e Tp si concentrano su un comune progetto «eroico», quello cioè di organizzare l’evasione dal carcere di Pierluigi Concutelli, il killer neofascista che sta scontando l’ergastolo per avere assassinato il magistrato Vittorio Occorsio nel 1976. Ciascuno ha i suoi miti, si sa, e anche per ragioni generazionali il giovane Mangiameli e l’ancor più giovane Fioravanti si appassionano all’idea di liberare il loro «eroe» Concutelli. Il progetto non verrà realizzato, ma il dipanarsi dei suoi tentativi falliti finirà per riflettersi sulle indagini relative sia all’omicidio Mattarella, sia all’omicidio Mangiameli, sia –addirittura –alla strage di Bologna del 2 agosto 1980, per la quale Francesca Mambro e Valerio Fioravanti sono stati condannati all’ergastolo con sentenza definitiva. In un interrogatorio del 22 marzo 1985 Cristiano Fioravanti dichiara con maggior precisione che gli autori materiali dell’omicidio Mattarella sono suo fratello Valerio e Gilberto Cavallini, «coinvolti in ciò dai rapporti equivoci che Mangiameli stringeva in Sicilia». Cristiano osserva che la stessa uccisione di Mangiameli «richiama quei collegamenti», e precisa che in quei giorni, intorno all’Epifania del 1980, c’era a Palermo presso Mangiameli, con Valerio e Gilberto, anche Francesca Mambro. Le dichiarazioni in cui Cristiano Fioravanti accusa suo fratello Valerio dell’omicidio Mattarella sono sempre piuttosto sofferte, ma in quelle rese tra marzo e dicembre del 1986 a Giovanni Falcone e agli altri giudici istruttori del pool di Palermo egli appare sempre meno combattuto. Queste sono, riportate fedelmente, le parti più rilevanti del suo racconto:«Della partecipazione di mio fratello all’omicidio Mattarella appresi da lui stesso dopo l’omicidio del Mangiameli [9 settembre 1980] e precisamente il giorno successivo, di mattina. Io infatti avevo partecipato a quell’omicidio senza conoscerne, né previamente chiederne, i motivi. Successivamente, specie perché mio fratello insisteva che era necessario uccidere anche la moglie e la figlia del Mangiameli, chiesi spiegazioni sul perché di tali delitti. Eravamo in auto in giro per Roma e credo fosse presente anche Francesca Mambro. Mio fratello mi disse che il Mangiameli aveva fatto delle promesse circa aiuti e appoggi che doveva ricevere in Sicilia e che queste promesse non erano state mantenute. In particolare aveva promesso che, grazie a determinati appoggi che si era procurato, sarebbe riuscito a propiziare l’evasione di Concutelli, previo trasferimento di costui in un ospedale o in un carcere meno sorvegliato di quello ove si trovava. Quanto a questi appoggi e aiuti sarebbero venuti al Mangiameli e al nostro gruppo, come mi disse mio fratello, in cambio di un favore fatto a imprecisati ambienti che avevano interesse all’uccisione del presidente della Regione siciliana. All’uopo era stata fatta una riunione a Palermo in casa del Mangiameli, in periodo che non so di quanto antecedente all’omicidio del Mattarella, e nel corso di essa erano intervenuti, oltre al Mangiameli, mio fratello Valerio, la moglie del Mangiameli, e una persona della Regione (non so se funzionario o politico). Quest’ultimo avrebbe dato «la dritta», cioè le necessarie indicazioni per poter programmare l’omicidio. Aggiunse mio fratello che l’omicidio era stato poi effettivamente commesso da lui e dal Cavallini, mentre una collaborazione era stata prestata da Gabriele De Francisci [altro membro dei Nar, n.d.a.], il quale aveva procurato una casa di appoggio, sempre necessaria allorché si procede ad azioni armate [...].Faccio ancora presente che l’episodio dell’uccisione del Mattarella narratomi da mio fratello non mi meravigliò, nonostante fossi certo che l’uccisione di un politico siciliano era estranea ai fini politici delle nostre azioni. Infatti rientrava nella nostra filosofia di azione procedere anche ad azioni criminose per procurarci favori, a condizione però che ciò non comportasse un legame stabile con diversi ambienti e gruppi. Invero azioni criminose siffatte furono commesse anche a Milano e a Roma».Per quanto riguarda invece il movente dell’omicidio di Francesco Mangiameli, Cristiano lo ricollega al timore, esternato da Valerio Fioravanti, che Mangiameli potesse rivelare ciò che sapeva sull’uccisione di Mattarella e sulla riunione che ne aveva preceduto l’assassinio. Poiché a quella riunione avevano assistito anche la moglie di Mangiameli e la sua bambina, Valerio avrebbe voluto uccidere anche queste ultime prima che venisse ritrovato il cadavere di Mangiameli, che era stato affondato in un laghetto. Fortunatamente l’ulteriore orrendo massacro è stato sventato perché il corpo del malcapitato è riaffiorato ed è stato ben presto ritrovato. Ecco come conclude Cristiano Fioravanti:«Sono sicuro che Valerio mi abbia detto la verità nel confidarmi le sue responsabilità nell’omicidio dell’uomo politico siciliano. Egli doveva convincermi dell’utilità, dopo l’uccisione di Mangiameli, anche dell’uccisione della moglie e della figlia di quest’ultimo e, pertanto, doveva presentarmi una reale esigenza; e mi disse che la moglie aveva partecipato alla riunione in cui si era decisa l’uccisione ed era ancora più pericolosa del marito13».Tuttavia è stata avanzata un’altra ipotesi, forse più plausibile, per quanto riguarda il movente dell’omicidio di Mangiameli, nel senso che esso sia in realtà ricollegabile al timore che quest’ultimo potesse rivelare ciò che certamente sapeva sulla strage della stazione di Bologna.

Quei fascisti palermitani. Giuliano Turone su La Repubblica il 7 febbraio 2020. Oltre a essere il più autorevole militante di Terza posizione in Sicilia, Francesco «Ciccio» Mangiameli era anche professore di Lettere in un liceo di Palermo ed era ovviamente in contatto con altri esponenti del mondo della scuola. Tra questi vi era Alberto Volo, che gestiva una scuola privata nel capoluogo siciliano –l’istituto Manara Valgimigli –ed era anch’egli vicino a Terza posizione. I due si erano conosciuti un paio di mesi prima dell’omicidio Mattarella e tra loro era nata una grande amicizia e confidenza, su cui Volo si sofferma nelle dichiarazioni rese ai giudici istruttori del pool di Palermo tra marzo e aprile 1989: «Circa l’omicidio di Piersanti Mattarella, posso dire quanto segue. Tutto è partito dalla mia conoscenza con Francesco Mangiameli, avvenuta [...] nell’ottobre-novembre 1979 [...]. Simpatizzammo subito data la nostra comune ideologia e così, in breve tempo, fui coinvolto dal Mangiameli in un progetto per far evadere Pierluigi Concutelli [...]. Per quanto attiene più precisamente all’omicidio di Piersanti Mattarella, io posso riferire quanto mi è stato confidato dal Mangiameli [... il quale] mi confidò che a uccidere Piersanti Mattarella erano stati Riccardo e il prete e cioè Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, della cui appartenenza ai Nar egli mi rese edotto [...]. Ricordo peraltro che il Mangiameli si diceva certo che a uccidere Mattarella era stata la massoneria che si era avvalsa dei due suddetti [...]. Il Mangiameli [...] mi confidò che egli sapeva soltanto, inizialmente, che egli doveva dare appoggio logistico ai due per una azione importante [...]. Mi riferì anche che i due, prima e dopo l’omicidio, avevano trovato rifugio nella sua villa di Tre Fontane che, specialmente allora, e in quella stagione, costituiva rifugio ideale per chi volesse nascondersi, essendo molto isolata». Sin qui, gli elementi d’accusa a carico di Valerio Fioravanti e di Gilberto Cavallini sono fondamentalmente due: le dichiarazioni di Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio, e la presenza a Palermo di quest’ultimo e di Cavallini proprio nei giorni in cui Mattarella viene ucciso, circostanza rivelata concordemente sia da Cristiano sia da Alberto Volo. Un altro elemento di accusa nei confronti dei due è costituito dall’identificazione di Valerio Fioravanti da parte di Irma Chiazzese, la vedova di Piersanti Mattarella, che aveva visto in faccia lo sparatore, il quale «indossava un k-wayazzurro con cappuccio in testa». Il riconoscimento avviene a quattro anni di distanza dal fatto, quando diventano di pubblico dominio le accuse mosse al leader dei Nar da suo fratello Cristiano. Il 19 marzo del 1984, la signora Chiazzese dichiara di avere provato «una forte sensazione nel vedere le fotografie di Giusva Fioravanti» e precisa che Valerio Fioravanti «è quello che più corrisponde all’assassino che ho descritto nell’immediatezza dei fatti»15. Due anni dopo, in sede di ricognizione formale, articola meglio la sua valutazione: «Quando dico che è probabile che nel Fioravanti si identifichi l’assassino intendo dire che è più che possibile che lo stesso sia autore dell’omicidio, ma che non sono in grado di formulare un giudizio di certezza». Infine, nel luglio del 1986, aggiunge un particolare. Racconta di aver incrociato il killer poco prima che aprisse il fuoco e di aver notato, tra l’altro, il suo strano modo di camminare, che definisce «un’andatura ballonzolante». Che Valerio Fioravanti si muovesse così lo racconta anche il suo camerata Stefano Soderini, esponente dei Nar diventato poi collaboratore di giustizia. In un interrogatorio reso al giudice istruttore Falcone nel luglio del 1986 Soderini, dopo aver affermato che «la descrizione del killer riferita dalla vedova Mattarella si attaglia a Valerio Fioravanti», rivela anche un soprannome («l’orso») affibbiato al leader dei Nar proprio per quella sua caratteristica. «Il Fioravanti» precisa Soderini «si muoveva così in ogni circostanza, anche quando era in azione. Anzi, questo suo modo di comportarsi, quasi giocherellone, spiazzava le persone contro cui agiva che non si accorgevano delle sue reali intenzioni se non quando era troppo tardi»16.In quello stesso interrogatorio del luglio 1986 Stefano Soderini fornisce a Giovanni Falcone un ulteriore oggettivo riscontro probatorio allorché dichiara quanto segue: «So per certo che, fin quando il Cavallini non ha procurato il macchinario per fabbricare targhe di autovetture false, il Fioravanti mi diceva che per alterare le targhe delle vetture era solito usare più targhe, che tagliava per ricostruirne un’altra con i numeri, conseguentemente, “modificati”»17.Si tratta dell’elemento probatorio cui si è accennato all’inizio–quello della targa falsa montata sulla Fiat 127 dagli assassini di Mattarella –che aveva suscitato l’interesse di Giovanni Falcone e poi quello di Loris D’Ambrosio, ma che è stato sostanzialmente ignorato dagli inquirenti palermitani dopo l’avvenuta emarginazione di Falcone. Ce ne occupiamo nel prossimo paragrafo.

La targa camuffata. Giuliano Turone l'8 febbraio su La Repubblica. Nella sua Relazione dell’8 settembre 1989 Loris D’Ambrosio precisa che l’affermazione di Stefano Soderini, secondo cui Giusva Fioravanti «era solito usare più targhe che tagliava per ricostruirne un’altra con i numeri conseguentemente “modificati”», riflette una prassi molto diffusa negli ambienti della destra eversiva, specialmente tra gli esponenti di Terza posizione e dei Nar. Più volte, nei relativi covi, si sono trovate targhe tagliate e/o modificate in quel modo. La Relazione si riferisce in particolare alle targhe –in gran parte tagliate –rinvenute a Roma l’8 ottobre del 1982 in occasione dell’arresto di tre membri di Terza posizione. Una di queste targhe era «composta da due parti trattenute da nastro adesivo», proprio come quella della Fiat 127 del caso Mattarella18.I tre arrestati risultavano collegati a Enrico Tomaselli, il giovane luogotenente di Francesco Mangiameli, «chiamato a ricompattare l’ambiente “tercerista” siciliano dopo la morte di quest’ultimo» (tercerista è un’espressione ispanica con cui i membri di Tp designano se stessi). Non si tratta quindi – prosegue la Relazione – di soggetti del tutto estranei all’ambiente dei Nar, dato che all’epoca del loro arresto i Nar «operavano congiuntamente al gruppo dei terceristi e disponevano anche di “covi” e “basi” comuni dove confluivano quasi indifferentemente armi, documenti, targhe, procurati dall’uno o dall’altro gruppo». Inoltre, data la frequentazione continuativa tra gli uni e gli altri, non può certo sorprendere «il reciproco scambio di esperienze, fra cui ben potevano rientrare, insieme alle modalità di falsificazione dei documenti [...], quelle concernenti le modalità di falsificazione delle targhe»19.A questo punto la Relazione si sofferma sull’esito di una perquisizione di notevole rilievo, operata dal nucleo operativo dei carabinieri di Torino il 26 ottobre del 1982 (quindi pochi giorni dopo l’operazione romana di cui sopra) in un covo di Terza posizione che si trovava in un appartamento di via Monte Asolone,nel capoluogo piemontese, affittato sotto falso nome a Fabrizio Zani, uno dei leader di quella formazione. La Relazione suggerisce agli inquirenti di Palermo di svolgere accertamenti accurati su «due pezzi di targa» lì rinvenuti, che hanno tutto l’aspetto di una «targa virtuale» componibile proprio con i pezzi residuati dal camuffamento di targa operato dagli assassini di Mattarella sulla Fiat 127: «Va pertanto sottoposto ad accurato accertamento quanto rinvenuto il successivo 26.10.1982 in Torino, nel c.d. covo di via Monte Asolone (v. RR. GG. 21.10.1982 dei CC Rep. Op. Torino, all. 14) già in uso a Zani Fabrizio, da tempo latitante, aderente a Terza posizione e particolarmente vicino a Enrico Tomaselli. Nel covo vengono rinvenuti – fra l’altro – due pezzi di targa, uno comprendente la sigla PA e l’altro contenente la sigla PA e il numero 563091. Non si precisa, nel verbale, se si tratta di parti di targa o di targa intera. La circostanza merita di essere accertata poiché, oltre che della stessa sigla PA, la targa rinvenuta a Torino risulta composta con gli stessi numeri (pur se diversamente collocati) rimasti [...] in possesso degli autori dell’omicidio dell’on. Mattarella dopo la alterazione della targa della vettura utilizzata per commettere il fatto (PA -5.3.0.9.1.6; targa rinvenuta in Torino: PA -5.6.3.0.9.1.)». Nell’intestazione del verbale di sequestro di via Monte Asolone l’appartamento preso in affitto da Fabrizio Zani viene definito, non a caso, come una base a disposizione di elementi della destra eversiva appartenenti indifferentemente ai Nar o a Terza posizione.Il materiale sequestrato è copiosissimo e comprende moduli in bianco per costruire documenti falsi, segnatamente tesserini di appartenenti all’Arma dei carabinieri, nonché divise della stessa Arma e di altri corpi di polizia. Ma vediamo anzitutto chi è Fabrizio Zani e quali sono i suoi rapporti con Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini.

Il magazzino torinese della destra eversiva. Giuliano Turone il 9 febbraio 2020 su La Repubblica. Fabrizio Zani, già esponente di Terza posizione, noto anche per avere fondato il periodico di impronta neonazista «Quex», viene arrestato una prima volta nel 1974 per alcuni attentati dinamitardi. Torna libero nel 1978 e continua la lotta armata con il gruppo dei Nar che fa capo a Valerio Fioravanti (cheverrà arrestato nel febbraio 1981), nonché a Pasquale Belsito, Gilberto Cavallini e Stefano Soderini. Zani è uno degli autori materiali della sanguinosa rapina commessa a Roma la mattina del 5 marzo 1982, da alcuni esponenti dei Nar e di Terza posizione, all’agenzia n. 2 della Banca nazionale del lavoro di piazza Irnerio. Tra i rapinatori c’è Francesca Mambro, la compagna inseparabile di Valerio Fioravanti, che proprio in quell’occasione viene arrestata. Ai preparativi, pur senza parteciparvi, ha contribuito anche Gilberto Cavallini, che il giorno prima dell’operazione ha fornito al gruppo di fuoco uno dei giubbotti antiproiettile e un mitra M3, utilizzati nel corso della rapina e del successivo scontro a fuoco con le forze di polizia. È il caso di aggiungere che nell’appartamento di via Monte Asolone è stata rinvenuta anche una pistola Beretta calibro 9 mod. 1934, risultata poi sottratta a un militare dell’Arma dei carabinieri proprio nel corso della rapina di piazza Irnerio 22. Successivamente, il 26 novembre del 1982, Fabrizio Zani, Pasquale Belsito e Stefano Soderini, unitamente ad alcuni altri camerati dei Nar, organizzano un’importazione di armi e munizioni da guerra, tra cui una bomba a mano di fabbricazione francese, tentando di introdurle in Italia di notte dal valico di Ventimiglia, a bordo del treno internazionale Les Arcs. Nell’involucro contenente le armi, intercettato da un ferroviere francese, viene trovato anche un timbro di plastica con la dicitura ANTONIO SERICOLI, che riconduce a Gilberto Cavallini, dato che l’impronta di quel timbro è stata a suo tempo rilevata su uno dei documenti falsi di cui egli si era servito. Le vicende dell’autunno 1982 (in particolare il ricco materiale sequestrato a Torino in via Monte Asolone e il borsone di armi di Ventimiglia con il timbro di Cavallini) fanno sì che l’attenzione degli inquirenti si appunti sulle figure di rilievo, appunto, di Gilberto Cavallini e di Stefano Soderini, che insieme a Pasquale Belsito sono tra i pochi componenti ancora in libertà dei Nar, o quanto meno della cosiddetta banda Cavallini. Il primo a essere arrestato, nell’aprile del 1983, è proprio Fabrizio Zani. Il 12 settembre dello stesso anno tocca a Cavallini e Soderini, che vengono fermati insieme in un bar di Milano. Stefano Soderini diventa poi collaboratore di giustizia e fornisce agli inquirenti importanti rivelazioni. Si è già ricordata quella circa la tecnica seguita da Giusva Fioravanti per 21Tribunale di Roma, procedimento penale n. 15768/81 pm e n. 3017/82 g.i. a carico di Belsito Pasquale + 68, requisitoria del pm del 27 aprile 1984, pp. 325-356 e segnatamente 344-345. È questa la requisitoria in cui Loris D’Ambrosio ha approfondito lo studio dei reperti torinesi sequestrati in via Monte Asolone, prima ancora che ci si avvedesse dell’importanza dei «due pezzi di targa» indicati al n. 42 del verbale di sequestro, importanza emersa solo nel 1989.22Ivi, p. 353. La pistola è stata rinvenuta con il numero di matricola cancellato, il quale però si è potuto ricostruire attraverso una perizia tecnica. Il camuffamento delle targhe d’auto. Ma non meno importante è la rivelazione secondo la quale Fabrizio Zani, circa tre mesi prima del tentativo d’importazione d’armi di Ventimiglia, aveva acquistato una bomba a mano da un camerata francese.

La prova dei “due pezzi di targa”. Giuliano Turone il 10 febbraio su La Repubblica. Nell’elenco degli oggetti sequestrati in via Monte Asolone, i reperti su cui ora dobbiamo soffermarci compaiono al n.42: «Due pezzi di targa di cui uno comprendente la sigla PA e uno contenente la sigla PA e il numero 563091». Va inoltre osservato che poco più sotto, al n.46, risulta repertata anche «Una confezione di pasta per modellare di marca “DAS”». La scarsa accuratezza con cui è stato redatto il verbale di sequestro fa sì che la descrizione dei due reperti indicati al n. 42 risulti piuttosto sibillina: si parla di «due pezzi di targa». Ma mentre il primo –costituito solo dalla sigla PA –è indubbiamente un pezzo di targa, il secondo reperto sembrerebbe avere l’aspetto di una targa intera, dato che il verbale dice che contiene la sigla di Palermo più le sei cifre che contrassegnavano, negli anni Settanta e nei primissimi anni Ottanta, le targhe automobilistiche (intere) del capoluogo siciliano. D’altra parte, l’ipotesi che il secondo reperto fosse in realtà una targa autentica e intatta, appartenente a un veicolo realmente e regolarmente targato PA-563091, è inconciliabile con l’espressione «pezzo di targa» con cui il verbalizzante vi si riferisce. È quindi maggiormente plausibile l’ipotesi che il poco accorto verbalizzante abbia inteso designare con quell’espressione imprecisa una targa (evidentemente falsa) costruita assemblando tra loro «pezzi» di targhe diverse. Più precisamente, dato che i pezzi di targa residuati dopo il camuffamento operato sulla Fiat 127 del delitto Mattarella erano PA, 53 e 0916, l’ipotesi concreta è quella di una targa fasulla, costruita utilizzando proprio quei pezzi: precisamente, ritagliando la cifra 6 finale e inserendola tra la cifra 5 e la cifra 3.Il «dilemma» si sarebbe potuto risolvere molto agevolmente, fin dal settembre 1989, se solo l’ufficio istruzione di Palermo avesse seguito il suggerimento contenuto nella Relazione D’Ambrosio («Va pertanto sottoposto ad accurato accertamento quanto rinvenuto») e avesse richiamato ed esaminato con attenzione il secondo reperto del corpo di reato n. 42 di via Monte Asolone. In questo modo gli inquirenti avrebbero accertato senza margini di dubbio se il reperto in questione fosse una targa palermitana autentica (quindi irrilevante ai fini dell’inchiesta in corso e approdata chissà come nel covo Nar di Torino), oppure se si trattasse –ipotesi ben più probabile –di una targa falsa assemblata nel modo anzidetto (per i Nar piuttosto usuale) con i pezzi residuati dal camuffamento operato sulla Fiat 127 dell’omicidio. Se fosse stata constatata la fondatezza di questa seconda ipotesi, sarebbe stato inevitabile domandarsi come mai i residui del noto camuffamento di targa dell’omicidio Mattarella fossero finiti proprio in quel covo dei Nar e di Terza posizione, gestito da un esponente non secondario –quale era Zani –proprio del gruppo Fioravanti-Cavallini-Soderini. Questa circostanza avrebbe costituito un ulteriore importante elemento di prova a carico di Fioravanti e Cavallini quali autori materiali di quell’omicidio. Ma c’è di più. Una volta che quel reperto si fosse rivelato una targa assemblata, sarebbe stato opportuno sottoporla a un accertamento tecnico per verificare se, nella sua parte sottostante, ci fossero tracce di componenti di quella «pasta per modellare di marca “DAS”», una confezione della quale è stata pure trovata nell’appartamento di via Monte Asolone (reperto n. 46). Quel tipo di materiale poteva servire egregiamente a tenere uniti i diversi pezzi di targa durante le operazioni di assemblaggio onde far sì che, a lavoro ultimato, il tutto si presentasse come un pezzo unico ben mimetizzato. Invece nulla di tutto ciò è mai stato fatto. Quando la Relazione D’Ambrosio giunse, dall’ufficio dell’alto commissario antimafia, sulla scrivania del consigliere istruttore di Palermo Antonino Meli, nel settembre del 1989, il pool antimafia era già stato smantellato da tempo, Giovanni Falcone –ormai emarginato dalla nuova dirigenza –si era appena trasferito alla Procura della Repubblica come procuratore aggiunto (sarà emarginato anche lì) e Paolo Borsellino era a Marsala. Non è dato sapere se Antonino Meli abbia letto la Relazione, ma è certo che l’unica iniziativa che prese fu quella di rinviare il documento al mittente per un presunto vizio di forma: mancava la firma dell’alto commissario Domenico Sica24. Non sappiamo quando la Relazione fu ritrasmessa a Palermo. Essa è comunque citata –con riferimento solo ad aspetti marginali –sia nella requisitoria finale del procedimento riguardante l’omicidio Mattarella (firmata dai pubblici ministeri il 9marzo del 1991) sia nella successiva sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio emessa dal giudice istruttore il 9 giugno 1991. Ma la parte determinante della Relazione, quella relativa alla necessità di disporre accertamenti sui «pezzi di targa» di via Monte Asolone, è stata totalmente ignorata. Che ne è oggi dei reperti di via Monte Asolone? Sequestrati il 26 ottobre del 1982, sono rimasti a Torino custoditi per qualche mese presso quel nucleo operativo dei carabinieri, dopo di che sono stati trasmessi a Roma e sono approdati al locale ufficio corpi di reato nel giugno 1983 per essere unitial processo dei Nar lì pendente a carico di Pasquale Belsito e altri25. Chi scrive ha tentato di rintracciarli ed esaminarli, ma ha trovato solo il verbale di distruzione dell’ufficio corpi di reato del Tribunale di Roma, il quale attesta che, dopo vent’anni dalla presa in consegna, i reperti di via Monte Asolone sono stati ritualmente distrutti. Precisamente il 15 giugno del 2004 (corpo di reato n. 110116 comprendente «due pezzi di targa»).La conseguenza è che, per quanto riguarda la soluzione del «dilemma» di cui sopra, a noi non resta che accontentarci di una ricostruzione in via di logica probabilistica. Ricostruzione, del resto, che può rivestire solo un interesse meramente storico, dato che Fioravanti e Cavallini sono stati ormai assolti con sentenza definitiva dall’accusa di concorso nell’omicidio Mattarella e, per il principio costituzionale del ne bis in idem, non possono comunque essere processati una seconda volta per il medesimo reato. Va anche detto che il suddetto «dilemma» non è privo di una sua ragion d’essere. Infatti, chi scrive ha consultato il pubblico registro automobilistico e ha rilevato che l’auto regolarmente targata PA-563091 (che ovviamente esisteva ed era una Renault) era stata immatricolata a Palermo il 3 marzo 1980 con quel numero di targa, ma era stata poi ritargata, sempre a Palermo, in data 28 aprile 1982, perché la targa PA-563091 era stata denunciata come «smarrita» (ironia della sorte!) in quella data. Ragion per cui, teoricamente, ci sarebbe una sia pur remota possibilità che quella targa smarrita pur contenendo le medesime cifre dei residui del noto camuffamento, sia misteriosamente finita proprio nel covo Nar di Torino e sia stata –altrettanto misteriosamente –definita «pezzo di targa» dal verbalizzante di via Monte Asolone.

Tuttavia, il fatto che la targa autentica PA-563091 sia stata smarrita a Palermo, in una situazione che non ha relazione alcuna con l’ambiente dei Nar, rende estremamente improbabile che essa sia andata a finire a più di millecinquecento chilometri di distanza, proprio in quel covo Nar di Torino. Mentre è ben più probabile –tanto più tenendo conto dei rapporti esistenti tra il Nar Zani del covo di Torino e i Nar Fioravanti e Cavallini presenti a Palermo nei giorni intorno all’Epifania del 1980 –che il reperto 563091-PA di via Monte Asolone fosse una targa fasulla, assemblata con i residui del camuffamento di targa del caso Mattarella. Abbiamo interpellato un autorevole matematico, il professor Marco Abate dell’università di Pisa, circa la possibilità di eseguire scientificamente questo calcolo probabilistico. La risposta è stata che un simile calcolo matematico non è scientificamente possibile se non tenendo conto di fattori effettivamente riconducibili a dati numerici. È però possibile –e può fornire un risultato comunque interessante che può dare un’idea di massima –un calcolo desumibile dai dati relativi al numero dei veicoli immatricolati mese per mese nel capoluogo siciliano. Il risultato è, all’incirca, una probabilità su millequattrocento. In nota si possono trovare i singoli passaggi del calcolo matematico26.La nostra conclusione ha trovato una conferma concreta quando siamo riusciti a entrare in possesso di una copia del rapporto di polizia giudiziaria del 9 febbraio 1980 relativo all’omicidio Mattarella. Sono infatti allegate al rapporto le fotografie delle false targhe montate sulla Fiat 127 (figura 3 e figura 4) nonché le fotografie degli spezzoni di targa –ripresi fronte e retro dopo la rimozione –con cui gli assassini avevano composto la falsa targa montata su quella vettura (figura 5 e figura 6)27. Nella facciata retrostante degli spezzoni (figura 6) è evidente la presenza di una materia bianca, che ben potrebbe essere proprio il Das impiegato per tenere uniti i pezzi. Inoltre appare evidente, dalle due fotografie, che lo scopo reale del nastro adesivo nero era solo quello di mascherare le cesure tra i singoli pezzi per evitare che si intravedesse il colore bianco della materia sottostante (figura 5). Informato delle circostanze illustrate in questo scritto, il procuratore nazionale. In particolare, al professor Marco Abate, ordinario di Geometria presso il dipartimento di Matematica dell’università di Pisa, è stato domandato se fosse possibile calcolare scientificamente le probabilità che il reperto torinese 563091-PA, sequestrato a Torino il 26 ottobre del 1982, fosse la targa autentica smarrita a Palermo in data anteriore e prossima al 28 aprile del 1982, a fronte delle probabilità che esso fosse invece una targa falsa assemblata con i pezzi residuati dal camuffamento operato a Palermo, ai primi di gennaio del 1980, dagli autori dell’omicidio Mattarella. La risposta è stata che un simile calcolo matematico non è possibile, dato che la soluzione al quesito dipende da troppi fattori non riconducibili a dati numerici (il luogo e il tempo dello smarrimento della targa, il luogo e il tempo del suo ipotetico ritrovamento, la distanza tra le due località, il rapporto esistente o non esistente tra chi ha operato nel luogo dello smarrimento e chi ha operato nel luogo dell’ipotetico ritrovamento e altri possibili fattori rilevanti). L’unico calcolo possibile (interessante, ancorché insufficiente per risolvere il quesito in argomento) è quello che si può desumere dai dati, ricavabili dal sito targheitaliane.com, relativi al numero dei veicoli immatricolati mese per mese nelle singole province d’Italia. Riportiamo qui di seguito il calcolo in argomento, che è una stima della probabilità astratta che il numero di una targa presa a caso a Palermo sia ottenibile come permutazione delle cifre presenti nei pezzi avanzati dalle targhe per l’omicidio Mattarella. Supponiamo che a ottobre 1982, nella provincia di Palermo, circolino solo auto immatricolate dal settembre 1967, corrispondente alla targa PA-200000, sino al 22 settembre 1982, corrispondente alla targa PA-665680: sono 465.680. Invece, i numeri di targhe che si possono comporre usando i pezzi avanzati, e che possono corrispondere ad auto in circolazione nella provincia di Palermo secondo l’assunzione precedente, sono 336. Infatti, devono cominciare con 3, 5 o 6; non possono cominciare con 2 o 4 perché queste cifre non sono presenti nei pezzi di targa, e non possono cominciare con 0, 1 o 9 perché targhe inizianti con 9 non c’erano e targhe inizianti con 0 o 1 sono precedenti al settembre 1967. Inoltre, combinazioni che cominciano con 6 sono accettabili solo se precedenti alla targa PA-665680. Quindi la probabilità che una targa presa a caso nella provincia di Palermo a settembre 1982 sia ottenibile anche ricomponendo i pezzi di targa relativi al caso Mattarella è circa 336/465680 (pari a circa lo 0,07%). Vale a dire, all’incirca, una probabilità su millequattrocento. Franco Roberti, il 30 agosto del 2017 ha trasmesso al procuratore della Repubblica di Palermo un «atto d’impulso», come previsto dall’articolo 371-bis del Codice di procedura penale, con richiesta di riaprire le indagini preliminari sull’omicidio Mattarella e di accertare se gli spezzoni della falsa targa PA-546623, montata sull’autovettura Fiat 127 utilizzata per quell’omicidio, presentino tracce della pasta per modellare marca Das. Il 4 gennaio 2018 la Procura della Repubblica di Palermo ha riaperto il caso. Al momento in cui questo libro va in stampa non è dato sapere se l’atto d’impulso della Procura nazionale abbia avuto qualche effetto.

Nino Mattarella, il fratello del presidente e i prestiti dall’usuraio Enrico Nicoletti. Quello che secondo molti è stato "il cassiere della Banda della Magliana" prestò 750 milioni di vecchie lire ad Antonino Mattarella. E' quanto emerge dal provvedimento del Tribunale di Roma che nel '95 sequestrò i beni del faccendiere romano. Marco Lillo l'1 febbraio 2015 su Il Fatto Quotidiano. Le colpe dei fratelli non ricadono sui presidenti della Repubblica però è giusto conoscere a fondo la storia delle famiglie di provenienza quando si parla di capi di Stato. Sia nella luce, come nel caso del fratello Piersanti, nato nel 1935 e ucciso nel 1980 dalla mafia, sia nell’ombra, come nel caso di Antonino, nato nel 1937, terzo dopo Caterina (del 1934) e prima del piccolo Sergio, classe 1941. Antonino Mattarella ha fatto affari con quello che è da molti chiamato “Il cassiere della Banda della Magliana” anche se quella definizione è imprecisa e sta stretta a don Enrico Nicoletti, una realtà criminale, come dimostra la sua condanna definitiva per associazione a delinquere a 3 anni e quella per usura a sei anni, autonoma e soprattutto di livello più alto. Enrico Nicoletti era in grado di parlare con Giulio Andreotti, faceva affari enormi come la costruzione dell’università di Tor Vergata, si vantava di conoscere Aldo Moro, ha pagato parte del riscatto del sequestro dell’assessore campano dc Ciro Cirillo. Ora si scopre che ha prestato, 23 anni fa, 750 milioni di vecchie lire al fratello del presidente della Repubblica. Il Tribunale di Roma nel provvedimento con il quale applica la misura di prevenzione del sequestro del patrimonio di Nicoletti nel 1995 si occupa dei rapporti tra Nicoletti e l’avvocato Antonino Mattarella, cancellato dall’ordine professionale per i suoi traffici, secondo alcune pubblicazioni che risalgono a dieci anni fa (anche se nella lettera pubblicata qui sotto il fratello del capo dello Stato sostiene che la “cancellazione” è avvenuta in pendenza di una sua esplicita richiesta). Nell’ordinanza scritta dal giudice estensore Guglielmo Muntoni, presidente Franco Testa, si descrive la storia di un palazzo in zona Prenestina comprato da Nicoletti, tramite una società nella quale non figurava, grazie anche alla transazione firmata con il curatore di un fallimento di un costruttore, Antonio Stirpe. L’affare puzza, secondo i giudici, perché il curatore, Antonino Mattarella era indebitato con lo stesso Nicoletti. Il palazzo si trova in via Argentina Altobelli in zona Prenestina e ora è stato confiscato definitivamente dallo Stato. “Davvero allarmanti sono le vicende attraverso le quali il Nicoletti ha acquistato l’immobile in questione – scrivono i giudici – Nicoletti infatti ha rilevato l’immobile dalla società in pre-fallimento (fallimento dichiarato il 20 luglio 1984) dello Stirpe con atto 9 gennaio 1984; è riuscito ad evitare una azione revocatoria versando una cifra modestissima, lire 150 milioni, rispetto al valore del bene, al fallimento. La transazione risulta essere stata effettuata tramite il curatore del fallimento Mattarella Antonino, legato al Nicoletti per gli enormi debiti contratti col proposto (dalla documentazione rinvenuta dalla Guardia di finanza di Velletri emerge che il Nicoletti disponeva di titoli emessi dal Mattarella, spesso per centinaia di milioni ciascuno)”. La legge fallimentare cerca di evitare che i creditori di un imprenditore restino a bocca asciutta. Il curatore dovrebbe evitare che, prima della dichiarazione di fallimento, i beni prendano il volo a prezzo basso. Per questo esistono contro i furbi le cosiddette azioni revocatorie che riportano i beni portati via con questo trucco nel patrimonio del fallimento. Il curatore dovrebbe vigilare e invece, secondo i giudici, l’avvocato Antonino Mattarella aveva fatto un accordo con Nicoletti e il palazzo era finito nella società di don Enrico. Per questo le carte erano state spedite in Procura ma, prosegue l’ordinanza del sequestro, “una volta che gli atti furono trasmessi dal Tribunale Civile alla Procura della Repubblica per il delitto di bancarotta si rileva che le indagini vennero affidate al Maresciallo P. che risulta tra i soggetti ai quali Nicoletti inviava generosi pacchi natalizi”. Non era l’unica operazione realizzata dalla società riferibile a Nicoletti e poi sequestrata, la Cofim, con Antonino Mattarella. “In data 23 aprile 1992 risulta il cambio a pronta cassa dell’assegno bancario di lire 200 milioni non trasferibile, tratto sulla Banca del Fucino all’ordine di Mario Chiappini”, che è l’uomo di fiducia di Nicoletti per l’attività di usura. “In data 28 aprile viene versato sul predetto c/c altro assegno di lire 200 milioni sulla Banca del Fucino, tratto questa volta all’odine della Cofim dallo stesso correntista del primo assegno: questo viene richiamato dalla società, a firma dell’Amministratore sig. Enrico Nicoletti. In data 30 aprile 1992 la Banca del Fucino comunica l’avvio al protesto del secondo assegno). ”L’assegno citato – concludono i giudici di Roma – risulta essere stato emesso dal Prof. Antonino Mattarella”. I giudici riportano le conclusioni del rapporto degli ispettori della Cassa di Risparmio di Rieti, Cariri. “A tal proposito – scrive il Tribunale – viene esemplificativamente indicato il richiamo di un assegno di 550 milioni emesso sempre dal Prof. Mattarella. Si riporta qui di seguito per estratto quanto esposto dall’ispettorato Cariri: ‘In data 15 maggio 1992 (mentre era in corso la presente ispezione), è stato effettuato dalla Succursale il richiamo di un assegno di Lire 550 milioni, tratto sulla Banca del Fucino da Mattarella Antonio, versato in data 4 maggio sul c/c 12554 della Cofim (società riferibile a Nicoletti e poi sequestrata, ndr). Il richiamo è avvenuto previo versamento sul c/c della Cofim di altro assegno di pari importo tratto dallo stesso Mattarella, essendo il primo insoluto’. La Banca del Fucino ha regolarmente informato la nostra Succursale (il giorno 21 o 22) che anche il secondo assegno, regolato nella stanza di compensazione del 18 maggio, era stato avviato al protesto. (…). L’assegno di 550.000.000 lire è tornato protestato il 4 giugno e, al termine dell’ispezione, è ancora sospeso in cassa per mancanza della necessaria disponibilità per il riaddebito sul conto della Cofim”. I rapporti tra Nicoletti e Antonino Mattarella risalivano ad almeno 3 anni prima. I giudici riportano un episodio: il 17 luglio del 1989 Nicoletti telefona al suo uomo di fiducia Mario Chiappini mentre sta nell’ufficio di un tal Di Pietro della Cariri. Chiappini prende il telefono e dice al suo boss “che aveva prelevato e fatto il versamento e che era tutto a posto. Doveva sentire solo Mattarella con il quale aveva un appuntamento”.

Il Fatto Quotidiano del 30 gennaio 2015 modificato dalla redazione web l’1 febbraio 2015. RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO “Presi quei soldi da Nicoletti, ma vi spiego come andò…” Caro direttore, leggo l’articolo pubblicato in prima pagina (edizione del Fatto Quotidiano di venerdì 30 gennaio) e scrivo per rettificarne i contenuti e chiedo la completa pubblicazione ai sensi della legge sulla stampa. A prescindere dalla circostanza che mai sono stato “radiato” dall’Albo degli Avvocati dato che si è trattata di una “cancellazione”, tra l’altro in pendenza di una mia esplicita richiesta al riguardo in quanto passato a “tempo pieno” all’insegnamento universitario, vorrete prendere nota di quanto segue: mai sono stato in affari con il Nicoletti. Ciò premesso. I movimenti di assegni segnalati nell’articolo (e altri) avevano origine da operazioni di prestiti a tasso “particolarmente elevato” ricevuti dal Nicoletti, noto operatore del settore (peraltro presentatomi, a suo tempo, da persona al di sopra di ogni immaginabile sospetto: un cancelliere del Tribunale di Roma), in ragione di difficoltà finanziarie nelle quali ero venuto a trovarmi per alcune operazioni immobiliari avviate in società con terze persone, per le quali avevo prestato garanzie personali, a cui ho dovuto far fronte in prima persona, con i proventi della mia attività professionale. Tutti i miei titoli rilasciati al Nicoletti per le operazioni di “prestito” sono stati da me pagati e, comunque, dette operazioni sono tutte successive alle vicende del fallimento Stirpe. Quanto all’immobile cui si fa riferimento, la ricostruzione dei fatti è totalmente errata. Quando è stato dichiarato il fallimento Stirpe, l’immobile in questione era già nel patrimonio del Nicoletti in quanto lo stesso aveva ottenuto il trasferimento di proprietà prima della dichiarazione di fallimento in compensazione di crediti vantati con il debitore poi fallito. Dopo avere esaminato la documentazione, nella mia qualità di curatore fallimentare, ho ritenuto opportuno proporre il giudizio per l’azione revocatoria, l’esito del quale è stato favorevole al fallimento per cui il bene ritornava nella massa attiva. La difesa del Nicoletti (assistito da professionista di chiara fama) ha proposto appello avverso la decisione di primo grado. Nelle more è stata avanzata una proposta transattiva che prevedeva la rinuncia da parte del fallimento alla sentenza favorevole contro versamento della somma di 150.000.000 di lire, ferma restando la cancellazione dei debiti pregressi dello Stirpe a suo tempo compensati con il trasferimento del bene. La proposta transattiva è stata sottoposta al comitato dei creditori che ha espresso parere favorevole ed è stata approvata dal giudice delegato cui spettava la decisione (e non al curatore). Quindi il prezzo pagato dal Nicoletti per l’immobile non è stato di 150 milioni, come riportato nell’articolo, ma a questa somma va aggiunto quanto compensato con la precedente operazione di acquisizione del bene prima del fallimento come si potrà accertare dalla documentazione relativa al fallito. Nelle more delle appena citate procedure per la formalizzazione della transazione, il giudizio di appello è andato avanti e rimesso al Collegio per la sentenza. Completate le formalità di approvazione dell’accordo transattivo, il Nicoletti ha versato l’importo concordato. Subito dopo è stata depositata la sentenza d’appello che, in accoglimento del ricorso del Nicoletti, ha rigettato la domanda in revocatoria proposta dalla curatela e accolta in primo grado! In conclusione, se non fosse intervenuta e definita la transazione con l’incasso di quanto concordato, il bene immobile, in seguito alla decisione dell’appello, sarebbe rimasto nella piena proprietà del Nicoletti senza l’esborso ulteriore di 150 milioni ottenuto con la transazione. Posso affermare che sono stato l’unico curatore fallimentare (o uno dei pochi) a proporre una azione revocatoria nei confronti del Nicoletti (nonostante i consigli contrari) e di aver definito con vantaggio per la curatela una vicenda nata da prestiti usurari risolti con acquisizione di un bene (prima del fallimento). Antonino Mattarella.

La ricostruzione dei fatti è del Tribunale di Roma nell’ordinanza di sequestro dei beni di Enrico Nicoletti. (M.L.)

Attilio Bolzoni e Francesco Viviano per “la Repubblica” 03.02.2015. C’è una piccola scossa di terremoto alle falde dell’Etna che butta lava sulla neve bianca e sbuffa. Sbuffa anche lui all’improvviso. E dice: «Sergio si deve guardare dai politici». Il fratello del Presidente della Repubblica è rintanato nel suo rifugio sotto il vulcano con i suoi quarantasette cani ed è circondato da nove ettari di vigna che si arrampica sulla roccia nera. Si presenta: «Sono io Antonino Mattarella, ho 78 anni, quattro più di Sergio, ho fatto il docente universitario — diritto del lavoro — e quando non sto a Roma sono sempre qui a Santa Venerina con i miei cani di razza che allevo e mando ai concorsi ». A Villa Grifunera, dove si produce un vino rosso e profumato che ha chiamato “Iddu” (in siciliano “lui”, dedicato al vulcano) abbiamo intervistato l’altro dei Mattarella. Nel piccolo studio di una villa di campagna tanti libri e tantissimi cd di musica classica, una sola fotografia: quella del padre Bernardo. Molti non sapevano della sua esistenza, poi nei giorni scorsi “Il Fatto” ha cominciato a scrivere su di lei...

«Sono amareggiato, io non c’entro con l’attività politica di mio fratello, non ho mai interferito con certe cose, né con Sergio e prima neanche con Piersanti… Non avevano bisogno di me».

Ci racconti questa vicenda dei suoi rapporti con alcuni criminali, quelli della banda della Magliana. Come li ha conosciuti? Come è entrato in contatto con loro e come mai prese soldi in prestito da quei personaggi?

«E’ una vicenda assurda di 25 anni fa. Lo stesso pm che l’aveva aperta ha chiesto poi l’archiviazione che il giudice ha controfirmato. Cosa dovrei aggiungere su una storia che non esiste da un punto di vista giudiziario?».

Potrebbe chiarire.

«Posso soltanto esprimere la mia opinione: non ha senso che veniate qui a tirare fuori una cosa come questa quando non la si conosce. Una ricostruzione fondata su niente».

Però lei dovrebbe spiegarci, al di là di come si è concluso il caso giudiziario, come e perché sono nate queste relazioni.

«Non ne voglio parlare più, gli ho creato già abbastanza problemi a Sergio con queste buttanate».

Andrà a Roma per il giuramento del Presidente?

«No, non mi sono mai intromesso nelle attività politiche dei miei fratelli e non lo farò certo domani. Stamattina ho mandato un messaggio a Sergio, gli ho detto: scusami se domani non sarò a Roma, se sto in disparte. Mi ha risposto: ‘Ti capisco’..».

Che rapporto ha con suo fratello Sergio?

«Fraterno, bellissimo. Non ci vediamo spessissimo ma ci sentiamo sempre. Quando andavo a Palermo dormivo sempre a casa sua».

E ieri, quando vi siete sentiti?

«Subito dopo l’elezione, prima ci siamo scambiati il solito sms e poi abbiamo parlato al telefono. Ma aveva fretta, stava preparando il discorso. E’ una grande emozione per me, io non ho mai fatto politica ma alla politica ci sono abituato. Io ho conosciuto De Gasperi, tutta la classe politica di quel tempo. Colombo, Andreotti… La Pira veniva a casa nostra a Palermo. Prima sostenevo la Dc, adesso voto Pd».

Se lo aspettava che fosse proprio lui il Presidente?

«Ero convinto che Presidente sarebbe dovuto diventare la volta precedente perché Sergio è l’uomo giusto al posto giusto. Ma l’altra volta ci fu il veto di Berlusconi, Bersani offrì una terna e lui disse no. Io, io non l’avrei invitato Berlusconi domani.. Sì, Sergio doveva diventare prima Presidente ».

Come definirebbe suo fratello in due parole?

«Una persona equilibrata. Renzi ha detto che è di grande rigore morale. Equilibrio e rigore morale, le doti di un Presidente della Repubblica».

Consigli da dare al fratello più piccolo?

«Di guardarsi dai politici, Sergio è un uomo di profondissima cultura, cosa non comune tra gli uomini politici italiani. Non mi permetterei di dargli consigli tranne uno: continui a fare quello che ha fatto sino ad ora».

E dell’altro fratello, Piersanti, cosa ricorda di quel giorno, il 6 gennaio del 1980?

«Non avrei mai pensato a una tragedia del genere, non ci pensavo assolutamente, non so se lui avesse delle preoccupazioni mai io certamente no. Ero a Roma, a pranzo con amici, presi il primo aereo».

Ucciso dalla mafia?

«Solo dalla mafia? E la matrice politica? Voleva rompere equilibri, appalti».

Lei ha solo la foto di suo padre in questo studio. E quelle degli altri suoi familiari?

«Le altre foto le tengo tutte nella mia casa di Roma. Mio padre.. mio padre era un uomo onesto con un viso aperto, un uomo veramente completo».

E un po’ chiacchierato per le sue amicizie mafiose.

«Hanno tutti rettificato e l’unico che non l’ha fatto è stato Danilo Dolci che è stato condannato. Ho sempre pensato di scrivere un libro sulla storia dei Mattarella».

Un libro per scrivere cosa?

«Mio padre è sempre stato avversato da gente come gli esattori Salvo di Salemi da Salvo Lima. Poi di tutta quell’epoca l’unico che ha pagato il conto è stato Vito Ciancimino che era l’ultima ruota del carro. La corrente fanfaniana era tutta contro mio padre. A Palermo c’erano Gioia e Lima, poi Lima è diventato andreottiano».

E la mafia che c’entra?

«Eh la mafia era quella della Sicilia occidentale, per esempio qui a Catania non era vera mafia, la mafia stava dall’altra parte della Sicilia. Oggi sono più gangster che mafiosi».

Antonino Mattarella racconta ancora della sua famiglia, della Sicilia, di Palermo, del fratello Presidente. E poi torna alle origini, al padre Bernardo. E’ un nome che ciascuno dei tre figli — Piersanti, Sergio e lui, Antonino — ha voluto dare anche ai loro figli: «Ce ne sono tre di Bernardo, uno in ogni famiglia Mattarella, quello di Sergio si chiama Bernardo Giorgio, gli altri due sono Bernardo e basta».

Antonino Mattarella e i legami con il cassiere della Banda della Magliana. Correva l'anno 2015, esattamente il primo febbraio, quando Il Fatto tirò fuori la vicenda del fratello del presidente della Repubblica, Antonino Mattarella. Si parlò di intrecci con la Banda della Magliana. Antonio Del Furbo su Zona D’Ombra il 29 maggio 2018. Antonino Mattarella, classe 1937, avrebbe fatto affari con quello che è da molti chiamato “Il cassiere della Banda della Magliana”, Enrico Nicoletti che non aveva nessuna difficoltà nel parlare con Giulio Andreotti. Nicoletti faceva affari giganteschi, come la costruzione dell’università di Tor Vergata. Tre anni fa si scoprì che nel 1992 Nicoletti prestò 750 milioni di vecchie lire al fratello del presidente della Repubblica. Il Tribunale di Roma, oltre al sequestro preventivo del patrimonio di Nicoletti, nel 1995 si occupò anche dei rapporti tra Nicoletti e l’avvocato Antonino Mattarella. Nell’ordinanza del giudice venne descritta la storia di un palazzo in zona Prenestina comprato da Nicoletti, attraverso una società nella quale non figurava, grazie anche alla transazione firmata con il curatore di un fallimento di un costruttore, Antonio Stirpe. Antonino Mattarella era indebitato con lo stesso Nicoletti e il palazzo è stato confiscato definitivamente dallo Stato. “Davvero allarmanti le vicende attraverso le quali il Nicoletti ha acquistato l’immobile in questione – scrivono i giudici – Nicoletti infatti ha rilevato l’immobile dalla società in pre-fallimento (fallimento dichiarato il 20 luglio 1984) dello Stirpe con atto 9 gennaio 1984; è riuscito ad evitare una azione revocatoria versando una cifra modestissima, lire 150 milioni, rispetto al valore del bene, al fallimento. La transazione risulta essere stata effettuata tramite il curatore del fallimento Mattarella Antonino, legato al Nicoletti per gli enormi debiti contratti col proposto (dalla documentazione rinvenuta dalla Guardia di finanza di Velletri emerge che il Nicoletti disponeva di titoli emessi dal Mattarella, spesso per centinaia di milioni ciascuno)”. "La legge fallimentare - scrive il Fatto - cerca di evitare che i creditori di un imprenditore restino a bocca asciutta. Il curatore dovrebbe evitare che, prima della dichiarazione di fallimento, i beni prendano il volo a prezzo basso. Il curatore dovrebbe vigilare e invece, secondo i giudici, l’avvocato Antonino Mattarella aveva fatto un accordo con Nicoletti e il palazzo era finito nella società di don Enrico. Per questo le carte erano state spedite in Procura ma, prosegue l’ordinanza del sequestro, una volta che gli atti furono trasmessi dal Tribunale Civile alla Procura della Repubblica per il delitto di bancarotta si rileva che le indagini vennero affidate al Maresciallo P. che risulta tra i soggetti ai quali Nicoletti inviava generosi pacchi natalizi”. La Cofim non era l’unica operazione realizzata dalla società riferibile a Nicoletti e poi sequestrata. “In data 23 aprile 1992 risulta il cambio a pronta cassa dell’assegno bancario di lire 200 milioni non trasferibile, tratto sulla Banca del Fucino all’ordine di Mario Chiappini”, uomo di fiducia di Nicoletti per l’attività di usura. “In data 28 aprile viene versato sul predetto c/c altro assegno di lire 200 milioni sulla Banca del Fucino, tratto questa volta all’ordine della Cofim dallo stesso correntista del primo assegno: questo viene richiamato dalla società, a firma dell’Amministratore sig. Enrico Nicoletti. In data 30 aprile 1992 la Banca del Fucino comunica l’avvio al protesto del secondo assegno). ”L’assegno citato – concludono i giudici di Roma – risulta essere stato emesso dal Prof. Antonino Mattarella”. I giudici riportano le conclusioni del rapporto degli ispettori della Cassa di Risparmio di Rieti, Cariri. “A tal proposito – scrive il Tribunale – viene esemplificativamente indicato il richiamo di un assegno di 550 milioni emesso sempre dal Prof. Mattarella". Si riporta qui di seguito per estratto quanto esposto dall’ispettorato Cariri: "in data 15 maggio 1992 (mentre era in corso la presente ispezione), è stato effettuato dalla Succursale il richiamo di un assegno di Lire 550 milioni, tratto sulla Banca del Fucino da Mattarella Antonio, versato in data 4 maggio sul c/c 12554 della Cofim (società riferibile a Nicoletti e poi sequestrata, ndr). Il richiamo è avvenuto previo versamento sul c/c della Cofim di altro assegno di pari importo tratto dallo stesso Mattarella, essendo il primo insoluto’. La Banca del Fucino ha regolarmente informato la nostra Succursale (il giorno 21 o 22) che anche il secondo assegno, regolato nella stanza di compensazione del 18 maggio, era stato avviato al protesto. (…)." In una lettera aperta, Antonino Mattarella diede la sua versione dei fatti, pur ammettendo di aver preso i soldi. "I movimenti di assegni segnalati nell’articolo (e altri) avevano origine da operazioni di prestiti a tasso particolarmente elevato” ricevuti dal Nicoletti, noto operatore del settore (peraltro presentatomi, a suo tempo, da persona al di sopra di ogni immaginabile sospetto: un cancelliere del Tribunale di Roma), in ragione di difficoltà finanziarie nelle quali ero venuto a trovarmi per alcune operazioni immobiliari avviate in società con terze persone, per le quali avevo prestato garanzie personali, a cui ho dovuto far fronte in prima persona, con i proventi della mia attività professionale. Tutti i miei titoli rilasciati al Nicoletti per le operazioni di “prestito” sono stati da me pagati e, comunque, dette operazioni sono tutte successive alle vicende del fallimento Stirpe. Quanto all’immobile cui si fa riferimento, la ricostruzione dei fatti è totalmente errata. Quando è stato dichiarato il fallimento Stirpe, l’immobile in questione era già nel patrimonio del Nicoletti in quanto lo stesso aveva ottenuto il trasferimento di proprietà prima della dichiarazione di fallimento in compensazione di crediti vantati con il debitore poi fallito. Dopo avere esaminato la documentazione, nella mia qualità di curatore fallimentare, ho ritenuto opportuno proporre il giudizio per l’azione revocatoria, l’esito del quale è stato favorevole al fallimento per cui il bene ritornava nella massa attiva. La difesa del Nicoletti (assistito da professionista di chiara fama) ha proposto appello avverso la decisione di primo grado. Nelle more è stata avanzata una proposta transattiva che prevedeva la rinuncia da parte del fallimento alla sentenza favorevole contro versamento della somma di 150.000.000 di lire, ferma restando la cancellazione dei debiti pregressi dello Stirpe a suo tempo compensati con il trasferimento del bene. La proposta transattiva è stata sottoposta al comitato dei creditori che ha espresso parere favorevole ed è stata approvata dal giudice delegato cui spettava la decisione (e non al curatore). Quindi il prezzo pagato dal Nicoletti per l’immobile non è stato di 150 milioni, come riportato nell’articolo, ma a questa somma va aggiunto quanto compensato con la precedente operazione di acquisizione del bene prima del fallimento come si potrà accertare dalla documentazione relativa al fallito. Nelle more delle appena citate procedure per la formalizzazione della transazione, il giudizio di appello è andato avanti e rimesso al Collegio per la sentenza. Completate le formalità di approvazione dell’accordo transattivo, il Nicoletti ha versato l’importo concordato. Subito dopo è stata depositata la sentenza d’appello che, in accoglimento del ricorso del Nicoletti, ha rigettato la domanda in revocatoria proposta dalla curatela e accolta in primo grado! In conclusione, se non fosse intervenuta e definita la transazione con l’incasso di quanto concordato, il bene immobile, in seguito alla decisione dell’appello, sarebbe rimasto nella piena proprietà del Nicoletti senza l’esborso ulteriore di 150 milioni ottenuto con la transazione. Posso affermare che sono stato l’unico curatore fallimentare (o uno dei pochi) a proporre una azione revocatoria nei confronti del Nicoletti (nonostante i consigli contrari) e di aver definito con vantaggio per la curatela una vicenda nata da prestiti usurari risolti con acquisizione di un bene (prima del fallimento)."

Calibro 38 e targa falsificata: Mario Francese ucciso come le altre vittime eccellenti di mafia. L’unico proiettile repertato, dei quattro che hanno ucciso Mario Francese, era di una pistola della stessa marca di quella usata per gli omicidi di Piersanti Mattarella e Michele Reina. Damiano Aliprandi il 29 gennaio2020 su Il Dubbio. Erano le 21: 15 del 26 gennaio del 1979 quando una donna di nome Ester, mentre si trovava nella stanza da letto, seduta dietro i vetri del balcone che si affacciava sul Viale Campania, a Palermo, sente una forte detonazione. Aveva istintivamente rivolto lo sguardo verso la strada proprio nel momento in cui un uomo era già caduto per terra, e aveva notato un individuo sui 35 anni con il braccio destro teso verso il basso, impugnando una rivoltella, esplodere diversi colpi. Il killer, secondo la testimonianza della donna, aveva sparato con tremenda freddezza e determinazione e, in questo brevissimo arco di tempo, aveva indirizzato ripetutamente lo sguardo verso il balcone della sua abitazione. I loro sguardi si erano incrociati, e, per un istante, aveva temuto per la propria vita. L’uomo a terra, secondo la perizia medica, fu raggiunto da almeno quattro proiettili di arma da fuoco corta: tre alla testa e il quarto al collo. La morte avvenne quasi istantaneamente per le gravissime lesioni cranio- facciali provocate dai proiettili che raggiunsero la testa. I colpi furono esplosi tutti da una distanza superiore ai 20- 25 cm. Dagli atti emerge che l’unico proiettile repertato proveniva da un revolver calibro 38 special, del tipo Smith & Wesson. Stesso tipo di arma che avrebbe ucciso due mesi dopo il segretario provinciale della Democrazia cristiana, Michele Reina e un anno dopo l’ex presidente della Regione Piersanti Mattarella. Ma non solo. Altra analogia con il delitto eccellente è l’utilizzo del veicolo per commettere l’efferato omicidio: la targa era stata sostituita con un’altra formata da due spezzoni di diverse targhe. Parliamo infatti di un omicidio mafioso e l’uomo a terra in quella fredda sera del 26 gennaio del ’ 79 era Mario Francese, colui che in quegli anni è stato il protagonista della cronaca giudiziaria e del giornalismo d’inchiesta siciliano. Abile ad anticipare gli inquirenti nell’individuazione di nuove piste investigative. Famoso anche per essere stato il primo ed unico giornalista ad aver intervistato Ninetta Bagarella, moglie di Totò Riina e sorella di Leoluca, il killer che lo ucciderà. Fu il primo ad aver messo mano su mafia- appalti. Proprio per questo fu ucciso dalla mafia. Con atteggiamento aperto, coraggioso e grande senso del comune, si immergeva nella ricerca della verità dei fatti di Cosa nostra, quei business sugli appalti che stavano insidiando la Sicilia, quegli intrecci tra politica, imprese e mafia che andavano radicandosi su un territorio già torturato dalle cosche. Secondo i giudici che hanno condannato i mafiosi per l’omicidio di Mario Francese, la casuale è chiara. Dagli articoli e dossier redatti dal giornalista, «emerge – scrivono i giudici una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi verificatisi nel corso degli anni, di interpretarli con coraggiosa intelligenza e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive dell’organizzazione mafiosa, in una fase storica nella quale emergevano le diffuse e penetranti infiltrazioni di Cosa nostra nel mondo degli appalti e dell’economia ed iniziava a delinearsi la strategia di attacco alle Istituzioni da parte dell’illecito sodalizio». Una strategia eversiva che avrebbe fatto un “salto di qualità” proprio con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, di un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all’opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di Cosa nostra. I giudici evidenziano il fatto significativo che sia stato proprio l’assassinio di Mario Francese ad aprire la lunga catena di “omicidi eccellenti” che insanguinò Palermo tra la fine degli anni 70 e il decennio successivo, in attuazione di un preciso disegno criminale che mirava ad affermare il più assoluto dominio mafioso sui gangli vitali della società, dell’economia e della politica in Sicilia. Leggendo gli articoli di Mario Francese apparsi su Il Giornale della Sicilia, saltano all’occhio le sue inchieste sugli appalti e compaiono nomi di imprese nazionali che poi ritroveremo anche nel famoso dossier mafia- appalti redatto dagli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno per volere di Giovanni Falcone. Cita l’impresa milanese Lodigiani, la Pantalena, la Garboli e in particolare la Saiseb: l’impresa con sede centrale a Roma che, conosciuta a Castelvetrano per il famoso contenzioso di oltre 3 milioni di euro con il comune, giocava un ruolo importante nella ricostruzione del Belice, facendo lavori per vari miliardi di lire, giocando molto sulle perizie di variante, facendo molto lievitare i costi degli appalti. Francese si chiese come mai un pregevole colonnello dei Carabinieri – dopo aver lasciato l’Arma- volesse andare a collaborare con questa grossa società. Francese si riferisce al colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, ucciso nel ’ 77 dai killer di Totò Riina. Secondo il giornalista Mario Francese l’omicidio Russo era collegato con la guerra di mafia che scoppiò per il giro di miliardi legato alla Diga Garcia. In seguito, dai vari documenti investigativi, risulterà un nome legato a quel giro di affari miliardari: è quello di Angelo Siino, il ” ministro dei lavori pubblici” della mafia corleonese. E sarà proprio Siino a dire che il movente dell’omicidio del colonello Russo è da ricercare nelle indagini che l’alto ufficiale aveva svolto nella costruzione della diga Garcia e nel suo interessamento per far aggiudicare i lavori della costruzione della diga Piano Campo all’impresa Saibeb. Era sembrato quasi un affronto, una vera e propria onta per Riina e il clan dei corleonesi. Il pentito Balduccio Di Maggio aggiungerà: «Riina stesso mi disse che dato che nella nostra zona non c’erano imprese in grado di concorrere a tale opera, l’unica soluzione possibile era quella di farla aggiudicare alla ditta Costanzo di Catania». E poi ci sarà Giovanni Brusca a dire: «Per volontà di Riina era stato stabilito che l’appalto andasse a Costanzo e Lodigiani». Imprese nazionali di rilievo, appalti miliardari guidati da Totò Riina. Il giornalista Mario Francese aveva capito tutto, anticipando in parte quello che poi sarà evidenziato dal dossier mafia- appalti: per questo la commissione presieduta da Totò Riina ha deliberato la sua morte. Come detto, l’omicidio di Francese inaugurò la serie di delitti eccellenti. Il modus operandi mafioso è lo stesso. Utilizzo dello stesso tipo di pistola e la contraffazione della targa utilizzando due spezzoni di targhe diverse. Un motivo in più, forse, per accettare la sentenza Mattarella che assolse gli ex nar Fioravanti e Cavallini, condannando invece i mafiosi per l’omicidio e i due falsi pentiti come Angelo Izzo e Giuseppe Pellegriti per aver depistato le indagini. Anche in quel caso si parla di appalti tra le casuali dell’omicidio. Il delitto del giornalista Mario Francese cadde nel dimenticatoio, tanto che l’inchiesta venne archiviata. Ci sono voluti anni per riaprirla su richiesta della famiglia. Il processo si è svolto con rito abbreviato, concludendosi nell’aprile del 2001, con la condanna a trent’anni di Totò Riina, Francesco Madonia, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco, Leoluca Bagarella ( esecutore materiale) e Giuseppe Calò. Anche in Cassazione l’impianto accusatorio ha retto, ma vengono assolti tre boss ‘ per non aver commesso il fatto’: Pippo Calò, Antonino Geraci e Giuseppe Farinella. A far riaprire il caso di Mario Francese fu soprattutto il figlio Giuseppe. Nella notte tra il 2 e il 3 settembre del 2002 si è tolto la vita schiacciato da un dolore che lo aveva accompagnato fin dal primo momento dopo l’omicidio del padre.

Piersanti Mattarella, l’ex magistrato Turone: «Fu un omicidio del tutto anomalo». Giovanni M. Jacobazzi il 7 gennaio 2020 su Il Dubbio. Intervista all’ex magistrato Turone: «L’ipotesi di un’alleanza di cosa nostra con il terrorismo politico è quella sulla quale stava lavorando Giovanni Falcone». «L’ipotesi di un’alleanza di Cosa nostra con il terrorismo politico – in particolare con la destra eversiva dei Nuclei armati rivoluzionari ( Nar) e di Terza posizione ( Tp) – è quella sulla quale stava lavorando Giovanni Falcone negli anni 1986- 1987, prima di venire emarginato dai capi degli uffici inquirenti di Palermo», afferma Giuliano Turone. Turone è il magistrato che indagò Michele Sindona nell’inchiesta sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli e poi dispose nel 1981 la perquisizione, insieme al collega Gherardo Colombo, a carico di Licio Gelli. Grande conoscitore della indagini di criminalità organizzata ed eversiva, ha fatto parte del primo gruppo di magistrati in servizio presso la Procura nazionale antimafia. Ha pubblicato nel 2019 per Chiarelettere Italia occulta. Dal delitto Moro alla strage di Bologna. Il triennio maledetto che sconvolse la Repubblica ( 1978- 1980), nel quale ha svolto anche una analisi sull’omicidio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, avvenuto il 6 gennaio del 1980 a Palermo. Fra le piste investigative affrontate da Turone, quella appunto di un patto fra Cosa nostra e i Nar di Valerio Fioravanti. «Dalle indagini svolte sull’omicidio di Mattarella non è emersa la possibilità di individuare gli autori materiali del fatto in soggetti gravitanti nelle organizzazioni mafiose. I collaboratori di giustizia hanno dichiarato di non sapere chi fossero i killer né a quale famiglia appartenessero. Inoltre la moglie di Mattarella, la signora Irma Chiazzese, non ha ravvisato nessuna somiglianza tra lo sparatore e le immagini di soggetti mafiosi che le sono state sottoposte», premette Turone, precisando però che «l’inesistenza di piste mafiose riconducibili agli autori materiali del crimine non implica affatto l’esclusione della matrice mafiosa dell’omicidio Mattarella». L’omicidio di Mattarella viene presentato come «un omicidio del tutto anomalo» nella relazione dell’Alto commissariato antimafia del 1989 a firma di Loris D’Ambrosio, «maturato in quel composito ambiente umano e politico che, al fine di accrescere il proprio potere economico, affaristico e istituzionale, (…) si presta a gestire gli interessi pubblici secondo schemi e principi tipicamente delinquenziali. Non si tratta, allora, di un omicidio di mafia, ma di omicidio di “politica mafiosa”: nel quale, cioè, la riferibilità alla mafia come “organizzazione” deve necessariamente stemperarsi attraverso una serie di passaggi mediati, di confluenze “operative” e “ideative” apparentemente disomogenee ma in grado di dare, nel loro complesso, il senso compiuto dell’antistato». Il coinvolgimento di Valerio Fioravanti nell’omicidio di Mattarella risale al 1982, dopo la testimonianza del fratello minore Cristiano, collaboratore di giustizia, secondo cui «Valerio si trovava in quel tempo ospite a Palermo di Francesco Mangiameli, un dirigente di Terza posizione». «Valerio – proseguì il fratello – aveva fatto numerosi viaggi in Sicilia insieme a Gilberto Cavallini», poi coinvolto nella strage della stazione di Bologna. Nel 1985 Cristiano fu ancora più preciso, affermando che anche Francesca Mambro, la compagna di Valerio, intorno all’Epifania del 1980 si trovava a Palermo. A rafforzare le dichiarazioni accusatorie di Cristiano, il riconoscimento da parte della vedova di Mattarellla di Valerio Fioravanti come il killer del marito. Una pista che non è stata seguita con la dovuta attenzione è, invece, quella relativa alla targa della Fiat 127, rubata la sera prima del delitto, con cui i killer di Mattarella si allontanarono dal luogo del delitto. Una targa “composta”: quella della vettura rubata era PA 536623, quella usata in concreto era PA 546623. Nel 1982 vennero rinvenute dei pezzi di targa in un covo romano di Terza posizione. Fioravanti era solito usare più targhe di cui modificava i numeri. Pochi giorni dopo la perquisizione romana, i carabinieri di Torino rinvennero in un altro covo di Terza posizione nel capoluogo piemontese due pezzi di targa che avevano l’aspetto di una targa componibile proprio con i pezzi residuati dal camuffamento di targa operato dagli assassini di Mattarella. Nel 2004 tali reperti vennero stati distrutti. «Se fossero approfonditi a suo tempo sarebbe stato possibile ricostruire in modo completo le dinamiche dell’omicidio Mattarella», conclude Turone, ribadendo comunque «che Fioravanti e Cavallini sono stati assolti con sentenza definitiva dall’accusa di concorso nell’omicidio Mattarella» e tale ricostruzione è ora di «interesse meramente storico».

Omicidio Piersanti Mattarella, Fioravanti: «Ucciso dai Nar? Falcone non ci credeva». Damiano Aliprandi il 3 gennaio 2020 su Il Dubbio. 40 anni fa l’omicidio. L’ex terrorista sostiene che il giudice lo avesse incriminato per le pressioni ricevute. Anche Buscetta in antimafia disse: «Cosa Nostra non fa agire due fascisti per ammazzare un presidente della regione». «Giovanni Falcone non credeva alla mia colpevolezza, egli stesso mi disse che ha dovuto procedere ugualmente nei miei confronti per via delle pressioni che ricevette». Così l’ex capo dei nuclei armati rivoluzionari ( Nar) Valerio Fioravanti, contattato da Il Dubbio, spiega il motivo per il quale, nei confronti suoi e dell’altro ex Nar Gilberto Cavallini, il giudice Giovanni Falcone aveva spiccato un mandato di cattura per l’omicidio dell’allora presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella. Il sei gennaio ricorre il 40esimo anniversario della morte di Mattarella. A colpirlo, è un giovane che lo attende in prossimità dell’uscita del garage dal quale si appresta ad uscire alla guida della sua Fiat per recarsi ad assistere alla messa. I primi a soccorrere Mattarella è il fratello Sergio, l’attuale presidente della Repubblica. È lui a tirarlo fuori dall’abitacolo ancora agonizzante. Lo tiene in braccio, gli regge la testa, si aggrappa al suo ultimo brandello di vita e versa le prime lacrime quando cessa definitivamente di respirare. Per Giovanni Falcone quegli anni sono molto difficili. Una data cruciale è il maggio del 1990. Milioni di italiani sono incollati alla tv a guardare la puntata di Samarcanda, il programma di Rai3 condotto da Michele Santoro. Si parla di mafia e prende la parola il sindaco di Palermo Leoluca Orlando: «Io sono convinto, e me ne assumo tutte le responsabilità, che dentro i cassetti del Palazzo di Giustizia ce n’è abbastanza per fare chiarezza su questi delitti». Il delitto è quello Mattarella e i “cassetti” sono quelli dell’ufficio di Falcone. Si parla anche del coinvolgimento degli ex Nar e dietro le spalle dei presenti c’è la gigantografia di Valerio Fioravanti. «Qualche giorno dopo la trasmissione – racconta Fioravanti a Il Dubbio – Falcone viene da me al carcere di Rebibbia dove ero recluso, fa uscire la sua scorta e i collaboratori dalla stanza, e dopo avermi chiesto se avevo bisogno di un avvocato mi dice “Lei ha visto la televisione? Capisce che se io non procedo divento anche io un sodale della P2?” Questa è la spiegazione data per cui Falcone ha dovuto fare il mandato di cattura nei miei confronti». In realtà Fioravanti ha raccontato questo episodio, sentito come teste, anche durante il processo per la strage di Bologna dove è imputato Cavallini. Ma è possibile? Eppure in questi giorni la commissione Antimafia ha reso pubblico il verbale integrale dell’audizione di Falcone davanti alla commissione dell’epoca, datato 3 novembre 1988, dove parla proprio della pista “nera” per l’uccisione di Mattarella. Non ne ha parlato con enfasi, ma con cautela. Di certo, da lì a poco, – lui e altri suoi colleghi – spiccheranno un mandato di cattura nei confronti di Fioravanti e Cavallini. Ma, contestualmente, Falcone ha anche inquisito Giuseppe Pellegriti e Angelo Izzo per calunnia aggravata. Non è da poco, perché parliamo di due pentiti che secondo Falcone hanno depistato l’inchiesta. «Le indagini hanno finalmente rilevato in maniera inequivocabile come sia stato in realtà Angelo Izzo la vera fonte e ispiratore delle false rivelazioni di Pellegriti», scrive Falcone nel suo ultimo atto da procuratore aggiunto, prima di volare a Roma al ministero di Grazia e Giustizia. Ma chi avevano accusato come esecutore materiale del delitto Mattarella? Proprio l’ex Nar Fioravanti. Nell’ 89 Falcone ha già capito tutto. Dopo aver incriminato per calunnia aggravata Pellegriti, ha firmato con le stesse motivazioni anche un mandato di cattura per Izzo che invece era ritenuto credibile dal magistrato Libero Mancuso, l’allora Pm che indagava sulla strage di Bologna. Falcone ritiene di aver individuato in Izzo uno di quei misteriosi personaggi che si sono serviti di Pellegriti per sollevare un polverone. L’estremista di destra, condannato all’ergastolo per il massacro del Circeo, è stato anche uno dei principali accusatori di Fioravanti e Francesca Mambro nel processo per la strage di Bologna. Ed ha indicato ancora Fioravanti come killer di Mattarella. Dai magistrati bolognesi le sue rivelazioni sono sempre state prese sul serio, nonostante abbia in più occasioni fornito ricostruzioni lacunose e confuse. Izzo aveva anche suggerito a Cristiano Fioravanti di accusare il fratello Valerio. In un interrogatorio reso a Roma, il fratello di Fioravanti afferma di essere stato convinto da Izzo a parlare dei delitti Mattarella e Pecorelli. Egli, interrogato in merito alle accuse rivoltegli da Izzo, relative a un suo possibile coinvolgimento nell’omicidio di Mino Pecorelli, ha fornito una spiegazione di tale chiamata in reità traente origine dai rapporti che Izzo cercava di allacciare con Raffaella Furiozzi ( ex Nar), già sua fidanzata, dichiarando testualmente: «Mi viene da pensare che mi abbia accusato proprio per “eliminare il suo rivale in amore”». Falcone, a proposito del depistaggio, dirà qualcosa di più nel ’ 91 davanti al Csm. Parliamo di quel famoso interrogatorio subito dopo le accuse di Leoluca Orlando, Alfredo Galasso e Carmine Mancuso dell’allora movimento politico antimafia “La rete”. Gli chiedono spiegazioni del perché aveva inquisito Pellegriti e Izzo. Falcone, dopo aver ripercorso tutti i fatti, ha anche aggiunto: «Prima di interrogare Pellegriti ci sono state tutte una serie di strane frequentazioni del personaggio, poi ci sono stati dei convegni carcerari in cui certe persone hanno incontrato Pellegriti e continuano ad alzare il polverone». Il dato oggettivo è che il processo sui delitti eccellenti poi c’è stato e gli stessi pubblici ministeri hanno chiesto l’assoluzione degli ex Nar Fioravanti e Cavallini. Saranno infatti assolti definitivamente anche in Cassazione, mentre verranno condannati Totò Riina assieme ai sei mafiosi, compreso Izzo e Pellegritti per calunnia. D’altronde tutti i pentiti mafiosi ascoltati durante il processo hanno confermato che gli esecutori appartenevano alla cupola. Interessante ciò che disse Buscetta alla commissione Antimafia e ribadito poi durante il processo sui delitti eccellenti: «Le garantisco che i fascisti in questo omicidio non c’entrano. Quei due sono innocenti. Glielo garantisco. E chi vivrà, vedrà. Credo che Mattarella in special modo volesse fare della pulizia in questi appalti. Se andate a vedere a chi sono andati gli appalti in tutti questi anni, con facilità voi andrete a scoprire cose inaudite. Non avevano bisogno di due fascisti. La Cosa nostra non fa agire due fascisti per ammazzare un presidente della Regione. È un controsenso. Non esiste questa possibilità. E quei due accusati sono innocenti». Ma quindi Falcone era convinto della responsabilità degli ex Nar, oppure è vero ciò che ha raccontato Fioravanti a Il Dubbio “sul fatto che non ci credeva affatto? C’è il libro postumo “Cose di Cosa Nostra” dove la giornalista francese Marcelle Padovani ha raccolto le interviste fatte a Falcone. In un passaggio sui delitti eccellenti, così risponde Falcone: «(…) né è poi pensabile, conoscendo le ferree regole della mafia, che un omicidio ‘ eccellente’, deciso al più alto livello della Commissione, venga affidato ad altri che a uomini dell’organizzazione di provata fede, i quali ne avrebbero dovuto preventivamente informare solo i capi del territorio in cui l’azione si sarebbe svolta». Qui sembrerebbe che Falcone indirettamente scagioni gli ex Nar. Dal 2018 la procura di Palermo ha riaperto le indagini rispolverando la pista “nera” per il delitto Mattarella. L’ultima notizia, data con molta enfasi, riguarda l’ipotesi che la pistola usata dall’ex nar Cavallini per uccidere il giudice Mario Amato, sia la stessa che avrebbe ucciso Mattarella. In realtà non sono riusciti a dimostrarlo. Piersanti Mattarella era il presidente della regione Sicilia, le sue prime azioni erano volte al rinnovamento, puntando soprattutto sulla trasparenza dell’aggiudicazione degli appalti. Avrebbe dato un duro colpo al giro d’affari miliardario di Cosa nostra. Per questo, e non solo, Totò Riina ha deliberato la sua morte.

Francesca Fagnani per il Fatto Quotidiano il 7 gennaio 2020.

Valerio Fioravanti, lei per il delitto Piersanti Mattarella è stato processato e assolto. E ha ricordato che l'allora giudice istruttore Giovanni Falcone le disse di non credere alla sua colpevolezza, ma di aver dovuto procedere ugualmente per via delle pressioni ricevute. Da chi?

«Allora Falcone veniva osteggiato da tutti: non era del Pci, non era della Dc, a Palermo non lo volevano promuovere procuratore e il Csm non lo votò. Non credeva al "terzo livello" e questo gli provocò molte critiche. A Samarcanda Michele Santoro ospitò il sindaco Leoluca Orlando che parlò di "cassetti" del Palazzo di Giustizia pieni di elementi per far chiarezza su molti delitti. Alludeva ai cassetti di Falcone».

Ci dice qualcosa di più sulla circostanza in cui Falcone le avrebbe detto di non credere al suo coinvolgimento nel delitto Mattarella?

«Venne a Rebibbia, mandò fuori tutti, compresi la scorta e il maresciallo addetto al verbale. Anch'io feci uscire il mio avvocato. Verbalizzò lui stesso, a mano. Non mi contestò fatti specifici, ma mi chiese se avessi qualcosa da dirgli. Il mio contributo - risposi - è dirle che non c' entro nulla: se avessi un mandante da proteggere, confesserei e attribuirei il fatto a un amico morto. Farei felici tutti e otterrei uno sconto di pena. Ma non è così».

Incontrerà il magistrato Roberto Tartaglia, consulente della Commissione antimafia, che l' ha invitata a collaborare?

«Ho apprezzato i toni dell' ex pm. Non ho alcun problema a incontrarlo, ma se avessi saputo qualcosa lo avrei detto a Falcone al tempo. Lui mi disse "come magistrato e come siciliano" di non credere alla mia colpevolezza, ma di essere costretto a procedere, altrimenti lo avrebbero fatto passare per un piduista. Ci salutammo, due giorni dopo spiccò il mandato di cattura. L'ipotesi era che fossi l'anello debole tra la mafia e Andreotti. Mi misero in isolamento, in teoria per proteggermi, più probabilmente per farmi pressione. Dopo un po' un mio amico e coimputato chiese a Falcone il nullaosta per sposarsi. Falcone lo firmò e gli diede un biglietto col suo telefono dicendogli: fammi sapere se i bolognesi (intendendo i magistrati) esagerano con Francesca e Valerio. Lui stesso indagò per calunnia e depistaggio i due pentiti che mi accusavano dell'omicidio di Mattarella: Giuseppe Pellegriti e Angelo Izzo».

Chi è l' amico di cui parla?

«Lasciamolo tranquillo, è stato il mio testimone di nozze».

Ad accusarla fu anche suo fratello Cristiano, che tirò dentro pure Carminati (mai entrato nel processo Mattarella), per poi ritrattare.

«Cristiano era stato arrestato nell' 81, a suo carico c' erano un omicidio commesso da minorenne e due da maggiorenne; Walter Sordi, con otto omicidi, dopo sei mesi era fuori. La ragione era chiara. Dopo otto anni di carcere, Cristiano rese dichiarazioni molto "imbarazzate" e vaghe che alludevano a un mio coinvolgimento. Poi ritirò tutto. L' accusa contro di me era nata nel carcere di Paliano, dove erano riuniti i pentiti: Pellegriti, mio fratello Cristiano, Angelo Izzo e Raffaella Furiozzi».

Eravate così ai ferri corti?

«Cristiano mi aveva fatto molto male già tentando di far uccidere Francesca (Mambro, ndr)».

Aveva dato il suo indirizzo agli agenti della Digos che, in un appostamento al confine tra la Lombardia e la Svizzera, invece della Mambro, si trovarono di fronte Massimo Carminati e gli spararono.

«Fu lì che perse l' occhio».

Era amico di Carminati?

«Siamo stati compagni di classe per un anno in un liceo di Monteverde, era la scuola dei bocciati. Metà asini di destra, metà di sinistra. Massimo non era dei Nar e non è mai stato processato con noi, né io entrai mai in un processo alla Banda della Magliana. Non volevo fare il criminale, ero disposto a violare la legge per alcune cose, non certo per arricchirmi vendendo droga o facendo lo strozzino. Un conto è lo scambio di favori eccellenti con la banda raccontato da una certa letteratura, un altro i piccoli favori che si chiedevano in quegli ambienti».

Quali piccoli favori?

«Acquistare documenti falsi, una pistola rubata Per queste cose si andava in borgata».

La sentenza che condanna lei, Mambro e Luigi Ciavardini per la strage di Bologna è definitiva, anche se molti ne discutono le lacune. Vi siete sempre dichiarati innocenti. Come si è spiegato la condanna per strage?

«Da quanto continua a emergere, sembrerebbe che i nostri servizi segreti abbiano creato dal nulla una pista neofascista per tenere riservato un accordo con i terroristi palestinesi, i quali avrebbero provocato - non è chiaro se volontariamente o meno - l' incidente di Bologna. La pista nera metteva d' accordo tutti, sorretta dalla costruzione del mito letterario di un ventenne abilissimo e cattivissimo che non lascia prove. Ma, se la mancanza di prove è un' aggravante, come ti difendi?»

La sua era una famiglia borghese, lei aveva conosciuto da piccolo il successo come attore, aveva mille strade da percorrere. Invece a 15 anni ha scelto quella della violenza e della morte. Perché?

«Erano anni drammatici e di confusione, stare alla finestra a guardare ci sembrava la scelta più grave, era meglio schierarsi dalla parte sbagliata che non schierarsi affatto».

Diversamente dalle Br, non cercavate la rivoluzione né la presa del potere: per cosa avete ucciso e vi siete fatti uccidere?

«Abbiamo difeso il diritto degli sconfitti a esistere».

Ne è valsa la pena?

«Mia figlia direbbe di no. I miei amici sono tutti morti, la corrente ci ha trascinato, è andata così, è successo».

Dov' è finita tutta quella ferocia?

«È il termine giusto. Mia madre diceva: "Ho due figli, uno è cattivo, Cristiano, l' altro è feroce, Valerio". La ferocia ha a che fare con l' adolescenza, con l' incapacità di mediare. Non cercavamo la rivincita, ma il diritto a opporci con violenza alla frase "uccidere un fascista non è reato"».

Qual è stato il dolore più grande della sua vita?

«Temo che non sia ancora arrivato».

Qual è stata la prima volta che ha sparato?

«E se le dicessi che dovrei fare mente locale e non ho voglia di farla? Ho sbagliato tante cose nella mia vita e sarebbe troppo facile dire "Mi pento". Non si può rinnegare la propria storia, gli errori si pagano e basta. È un equilibrio difficile. Non ho chiesto la riabilitazione come altri, perché sarebbe eccessivo. Chi ci odia ha il diritto di odiarci».

La pietà ha mai avuto spazio nei vostri discorsi?

«La difficoltà era unire nella stessa persona il giudice e l' esecutore della sentenza. Un terrorista può emettere solo condanne a morte, consapevole che quelle scelte possono essere sbagliate. La convivenza con questo dubbio è la cosa più angosciante».

Qualche morto più degli altri non la fa dormire?

«Sì, ma non voglio dirlo. La vicenda che più mi turbò fu scoprire che una delle nostre vittime era più giovane di me».

Lei e la Mambro avete sparato insieme molte volte, vi hanno arrestati e nel 1985 vi siete sposati in carcere e oggi state ancora insieme. Come sopravvive un amore a tutto questo?

«Ci siamo amati quando ci sentivamo vincenti, poi è arrivata la sconfitta e abbiamo conosciuto i nostri limiti. Non si può mentire o taroccare la propria biografia con un testimone che sa tutto di te, compresa la sconfitta. Essendo già stati all' inferno, nulla ci spaventa».

Le pesa rievocare le pagine più buie della nostra storia a cui lei è associato? Preferirebbe essere dimenticato?

«Ho da anni un secondo mestiere: discolparmi dalle cose che non ho fatto. Mi distoglie dal senso di disagio e di colpa che provo rispetto a ciò che ho fatto davvero, mi risparmia dal doverne parlare, che per me è molto più doloroso».

Falcone e l’omicidio Mattarella: «Si potrebbe riscrivere la storia del Paese». Pubblicato lunedì, 23 dicembre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. A quarant’anni dal delitto la Commissione Antimafia pubblica l’audizione integrale del giudice che indagava sugli attentati politici di Cosa Nostra. «È un’indagine estremamente complessa perché si tratta di capire se, e in quale misura, la “pista nera” sia alternativa a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa», diceva Giovanni Falcone, nel 1988, a proposito dell’omicidio di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione siciliana assassinato otto anni prima, il 6 gennaio 1980 nel centro di Palermo. Fra due settimane saranno passati quarant’anni esatti da quel delitto, e la commissione parlamentare Antimafia ha deciso di ricordare l’anniversario pubblicando il verbale integrale dell’audizione dell’allora giudice istruttore davanti alla commissione dell’epoca, datato 3 novembre 1988. In quel momento Falcone stava svolgendo indagini su un paio di terroristi neofascisti indiziati dell’uccisione dell’uomo politico, e nell’ipotesi della connessione tra estremismo nero e Cosa nostra aggiunse che quell’eventuale convergenza d’interessi «potrebbe significare altre saldature, e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro paese, anche da tempi assai lontani». L’audizione di Falcone e degli altri giudici istruttori del pool antimafia sopravvissuto alle polemiche con il nuovo capo dell’ufficio Antonino Meli, era finora coperta dal segreto (sebbene qualcosa fosse già trapelato in alcuni processi e qualche pubblicazione), e fa parte dei documenti che la commissione parlamentare ha deciso ora di rendere noti. In quel momento Falcone stava indagando soprattutto su Giusva Fioravanti, l’ex capo dei Nuclei armati rivoluzionari per il quale l’anno successivo avrebbe spiccato un mandato di cattura proprio per l’omicidio Mattarella, poi rinviato a giudizio insieme al presunto complice Gilberto Cavallini, anche lui militante dei Nar. Ma nel successivo processo in corte d’assise Fioravanti e Cavallini furono assolti su richiesta della stessa Procura, perché gli elementi raccolti furono giudicati insufficienti, e i verdetti di non colpevolezza furono confermati fino in Cassazione. Ma al di là delle sentenze, la cosiddetta «pista nera» ha continuato ad essere battuta dagli inquirenti negli anni successivi, fino all’ultima inchiesta della magistratura palermitana condotta dal procuratore Francesco Lo Voi e dal sostituto Roberto Tartaglia, oggi consulente dell’Antimafia che sta curando la desecretazione dei verbali. Sulle possibili connessioni tra Cosa nostra e neofascisti, Falcone nel 1988 ricordava che «i collegamenti risalgono a certi passaggi del golpe Borghese, in cui sicuramente era coinvolta la mafia siciliana. E ci sono inoltre collegamenti con la presenza di Sindona», il bancarottiere legato alla mafia che nei mesi precedenti all’assassinio del presidente della Regione si trovava clandestinamente in Sicilia, a stretto contatto con i boss della Cupola. «Questi elementi comportano la necessità di un’indagine molto approfondita che peraltro stiano svolgendo, e che prevediamo non si possa esaurire in tempi brevi», concluse Falcone. Il giudice, poi divenuto procuratore aggiunto di Palermo, fece tutto ciò che c’era da fare per portare a giudizio gli estremisti neri nel 1991, poi si trasferì a Roma per lavorare al ministero della Giustizia e un anno più tardi, nel 1992, fu ucciso nella strage di Capaci insieme alla moglie Francesca e tre agenti di scorta. Quando saltò in aria, Falcone era in corsa per guidare la neonata Procura nazionale antimafia, da dove avrebbe voluto riprendere in mano le indagini. Comprese quelle sugli omicidi politico-mafiosi, tra cui spicca il delitto Mattarella. Per il quale, nonostante la condanna dei componenti della Cupola come mandanti, a quarant’anni di distanza non si conoscono ancora gli esecutori materiali.

Piersanti Mattarella e Mario Amato uccisi dalla stessa pistola. «Due delitti fascio-mafiosi». La svolta nell'inchiesta aperta a Palermo dopo la perizia sulla calibro 38 usata dai sicari nei due agguati.  La relazione D'Ambrosio che è stata da poco desecretata, analizza la saldatura tra Cosa nostra e i Nar nell'omicidio del fratello del presidente della Repubblica avvenuto 40 anni fa. Lirio Abbate e Paolo Biondani il 23 dicembre 2019 su La Repubblica. C'è una pistola calibro 38 che collega l’omicidio del presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, con l’assassinio del magistrato Mario Amato, ucciso a Roma il 23 giugno 1980. Il primo omicidio fu deciso dalla cupola di Cosa nostra, ma gli esecutori sono sempre rimasti ignoti. Il secondo fu organizzato e portato a termine dai terroristi neri dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar). La connessione fra i due delitti sta in una Colt modello Cobra calibro 38 special. È l’arma sicuramente impugnata dal killer neofascista Gilberto Cavallini per sparare un solo colpo alla nuca di Amato. Per l’assassinio del magistrato sono stati già da tempo condannati esecutori e mandanti, tutti terroristi di destra. Un anno fa, il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, ha riaperto l’inchiesta sull’omicidio Mattarella, per cercare di dare un nome agli esecutori materiali. La svolta nelle nuove indagini emerge da una perizia sulle armi: la pistola che ha ucciso il magistrato risulta «coincidente» con la calibro 38 che era stata utilizzata sei mesi prima per eliminare l’autorevole politico siciliano, fratello dell’attuale Presidente della Repubblica, e fermare la sua azione di rinnovamento della Dc e di contrasto alla mafia e ai suoi complici. In questi mesi i carabinieri del Ros hanno fatto un grande lavoro di ricostruzione di tutti i delitti dei Nar e delle armi utilizzate. E hanno esaminato, fra tanti vecchi reperti recuperati in vari tribunali, pure la Colt calibro 38 che venne indicata per la prima volta nel 1982 dal collaboratore di giustizia Walter Sordi come l’arma usata da Cavallini per l’omicidio Amato. Quella pistola, come ha spiegato Sordi ai giudici (che lo hanno considerato attendibile) era «delicata» e aveva «dei difetti», perché poteva incepparsi. Il killer che ha ucciso Piersanti Mattarella ha sparato otto colpi con due armi diverse: dopo aver esploso i primi quattro, ha dovuto utilizzare una seconda pistola, passatagli da un complice, perché la prima si era inceppata. La nuova indagine però si è scontrata con un problema tecnico. I proiettili estratti dal corpo della vittima hanno subito in questi 40 anni microscopiche alterazioni: si sono ossidati, per il cattivo stato di conservazione dei reperti. Il piombo, poroso, ha modificato le striature provocate dall’attrito con la canna della pistola. Nonostante questo, gli specialisti del Racis dei carabinieri sono riusciti a comparare i proiettili dell’omicidio Mattarella con la Cobra usata dai Nar a Roma. Il risultato è «coincidente»: significa che c’è una probabilità molto alta che l’arma sia la stessa. La certezza assoluta non si può più avere, perché l’usura del tempo ha danneggiato i reperti: un confronto esatto al cento per cento è ormai diventato impossibile, con qualunque arma. Ma tutti i dati disponibili collegano quei proiettili proprio con la pistola dell’omicidio Amato: la calibro 38 special usata dai Nar. La procura è cauta, percorre la pista mafiosa, ma torna ad allungarsi l’ombra del terrorismo nero sull’omicidio di Piersanti Mattarella, ucciso il 6 gennaio 1980 davanti alla sua abitazione in pieno centro a Palermo. Il killer è un giovane appostato davanti al suo garage. Il presidente esce in auto, al volante, al suo fianco c’è la moglie, Irma Chiazzese. Il sicario esplode i primi quattro colpi attraverso il finestrino. Poi la Colt si inceppa. Quindi il killer si avvicina alla Fiat 127, rubata la sera prima, dove c’è un complice che gli passa un revolver Smith & Wesson. Con questa arma il killer spara altri quattro colpi contro la vittima e ferisce la moglie. L’assassino è a volto scoperto e viene visto da altri cinque testimoni: è un uomo sui 25 anni, con l’aspetto da bravo ragazzo, alto circa un metro e settanta, corporatura robusta, capelli castani, occhiali scuri a specchio. La vedova di Mattarella aiuta a disegnarne l’identikit e poi riconosce il capo dei Nar, Valerio Fioravanti, nelle foto pubblicate dopo l’arresto, come una persona molto simile a lui. «Quando dico che è probabile che nel Fioravanti si identifichi l’assassino, intendo dire che è più che possibile», precisa la testimone, «ma non sono in grado di formulare un giudizio di certezza». Nel luglio 1986 la vedova aggiunge un particolare: il killer aveva uno strano modo di camminare, «un’andatura ballonzolante». Un terrorista dei Nar, Stefano Soderini, diventato collaboratore di giustizia, viene interrogato dal giudice istruttore Giovanni Falcone, che indaga sugli intrecci tra mafia e destra eversiva. Soderini gli conferma che «la descrizione del killer riferita dalla vedova si attaglia a Valerio Fioravanti», che era soprannominato «l’orso» per quella sua andatura: «Fioravanti si muoveva così anche quando era in azione. Questo suo modo di comportarsi, quasi giocherellone, spiazzava le persone, che non si accorgevano delle sue reali intenzioni se non quando era troppo tardi». Le indagini di Falcone fanno emergere altri indizi. Dopo l’arresto, anche Cristiano Fioravanti accusa il fratello Valerio di avergli confidato di aver ucciso Mattarella insieme a Cavallini, che avrebbe guidato l’auto rubata. Una presunta ammissione che però è viziata da reticenze e depistaggi orditi dallo stesso Giusva. Poi, a partire dal 1988, il pool di cui fa parte Falcone viene smantellato. E a Palermo i vertici giudiziari abbandonano le indagini sui Nar. In mancanza di prove certe, Fioravanti e Cavallini vengono assolti in tutti i gradi di giudizio. La sentenza che li proclama innocenti è definitiva. Per l’omicidio di Mattarella vengono quindi condannati solo i mandanti: la cupola mafiosa. I retroscena politici del delitto vengono ricostruiti nei dettagli nel processo a Giulio Andreotti: l’accusa di mafia per l’ex premier è confermata fino alla primavera del 1980, ma viene cancellata dalla prescrizione. Da allora in Sicilia i collaboratori di giustizia sono diventati centinaia. Ma nessuno ha saputo indicare i due esecutori: qualche pentito ne ha parlato “de relato”, per sentito dire, senza mai una conoscenza diretta dei fatti. L’origine mafiosa, però, per la procura è fuori discussione, anche se l’identità dei killer resta un mistero perfino per i boss di Cosa nostra che in questi anni si sono pentiti. Strano, per un delitto eccellente come quello del presidente della Regione. E strane sono anche le modalità dell’esecuzione. E l’arma utilizzata. I sicari mafiosi usavano altri modelli di pistole e soprattutto mitra: quasi mai hanno impugnato una Colt. Anche per questo, Falcone ha indagato sull’ipotesi di una saldatura tra mafia e Nar, che si sarebbe realizzata attraverso i rapporti (accertati) tra la Banda della Magliana e Pippo Calò, il boss di Cosa nostra a Roma, condannato per la strage terroristico-mafiosa del treno di Natale (23 dicembre 1984, 16 vittime). Il giudice ucciso a Capaci non era il solo a credere nella pista “fascio-mafiosa”. Più di un anno fa la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi, allo scadere del suo mandato, ha tolto il segreto alla relazione sul delitto Mattarella che venne redatta nel 1989 dal magistrato Loris D’Ambrosio, allora in servizio all’Alto commissariato. D’Ambrosio era legatissimo a Falcone e ha proseguito la sua indagine. Nella relazione spiega che «l’inesistenza di piste mafiose per gli autori materiali non implica, sia ben chiaro, l’esclusione della matrice mafiosa dell’omicidio». Nel documento di 123 pagine, con decine di allegati, D’Ambrosio conclude che non era solo mafia: «Si tratta di un omicidio di politica mafiosa», che «attraverso una serie di confluenze operative ed ideative apparentemente disomogenee, è in grado di dare il senso compiuto dell’anti-Stato». Mattarella viene ucciso come «nemico dell’anti-stato». E proprio la scelta di affidare l’esecuzione a terroristi neri permette ai capi di Cosa nostra di «disorientare l’opinione pubblica e l’apparato investigativo» e dimostrare «alla stessa organizzazione quanto devastante ed estesa sia la capacità di espansione e controllo che l’anti-Stato è in grado di esercitare». La relazione di D’Ambrosio arriva al giudice Antonino Meli, il rivale di Falcone, nel settembre 1989. E Meli la ignora, rifiutandola per un vizio di forma: impone che venga firmata da Domenico Sica, il capo dell’alto commissariato. Le nuove indagini hanno scoperto altri indizi e accertato che esponenti dei Nar erano a Palermo nello stesso giorno dell’omicidio. Sulla modalità di falsificazione della targa dell’auto dei killer, identica alla tecnica usata dai Nar è stato accertato che in un covo in Piemonte furono trovati resti di una targa analoga, che però è risultata rubata dopo l’omicidio Mattarella. Le indagini proseguono, alla ricerca di altri elementi di prova, come un guanto lasciato da uno dei sicari nella Fiat 127: un reperto che i carabinieri e i pm di Palermo confidano ancora di recuperare, per sottoporlo ai moderni test del Dna. E smascherare finalmente i killer.

Quel filo nero che lega l’omicidio Mattarella all’esecuzione di Amato. Pino Casamassima il 27 Dicembre 2019 su Il Dubbio. La storia della calibro 38 che uccise il magistrato e il presidente della regione Sicilia. Il giudice fu ucciso dal Nar Gilberto Cavallini il 23 giugno 1980. In quel periodo stava indagando sull’eversione neofascista nel Lazio. Succede. Non sempre, ma succede. E cioè che la verità storica si saldi con quella giudiziaria. È successo con la strage di Brescia. Non con quella dell’Italicus. Tantomeno con Piazza Fontana, con cui debuttò la stagione delle stragi. E successo con la strage di Bologna ( già vedo insorgere le truppe dei – troppi – innocentisti pasdaran della coppia Fioravanti- Mambro cui prevedo di dare prossimamente un ulteriore dispiacere): quella dei Nar come esecutori. Quei Nar che ciclicamente tornano alla ribalta per qualche marachella nuova ( vedi Massimo Carminati) o vecchia ( vedi Gilberto Cavallini). La multiforme carriera di Carminati è stata interrotta da “Mafia capitale”. “Il Negro” – come Cavallini veniva affettuosamente chiamato nella conventicola d’appartenenza – già inguaiato per il processo che con altra imputazione rispetto alle precedenti lo vuole alla sbarra per la strage di Bologna ( la sentenza è attesa per la fine di gennaio), vede uscire di nuovo il suo nome per colpa di una pistola. Una Colt Cobra calibro 38, che torna a fumare. Con quella pistola, il 23 giugno 1980, Cavallini uccise a Roma con un colpo alla nuca il sostituto procuratore Mario Amato. L’eliminazione del magistrato che stava indagando sull’eversione neofascista nel Lazio, fu poi festeggiata dalla coppia Fioravanti- Mambro con ostriche e champagne mentre stilava il volantino di rivendicazione. Non trascurò – la coppia nera – di sottolineare le scarpe buche di un uomo che chiudeva “imbottito di piombo, la sua squallida esistenza”. Con quella pistola – dicono ora le ultime risultanze scientifiche svelate da Lirio Abbate e Paolo Biondani nell’ultimo numero de L’Espresso – fu ucciso sei mesi dopo a Palermo Piersanti Mattarella, presidente della regione Sicilia, nonché fratello dell’attuale presidente della Repubblica. Era il 6 gennaio 1980, e con quell’omicidio si chiudeva la stagione politica che aveva visto compiersi a livello regionale l’ambizioso quanto ardito ( e pericoloso…) progetto di Moro di portare il Pci di Berlinguer al governo nazionale. Grazie a una pistola si riapre quindi una vicenda drammatica. Una scoperta che dimostra come la Storia non chiuda mai il suo sipario. Nonostante i quattro decenni passati – con tutti i problemi derivanti dalla alterazione dei reperti ( anche perché, tanto per cambiare, mal conservati) – le risultanze del Raggruppamento Carabinieri Investigazioni Scientifiche ( Racis) indicano la stessa arma per i due omicidi. Un risultato che riapre lo scenario – già ipotizzato ma finora privo di prove – di una azione di mutuo soccorso fra mafia e neofascismo: nella fattispecie, i corleonesi e i Nar. Che i Nuclei Armati Rivoluzionari fossero entrati in contatto con gli “uomini d’onore” siciliani con la stessa disinvoltura con cui trafficavano con la Banda della Magliana era una ipotesi storica che potrebbe trovare ora il suo corrispettivo giudiziario Killer, che aveva agito a volto scoperto, e indicato come un giovane sui 25 anni, alto attorno al metro e settanta, dalla corporatura robusta e i capelli castani. È con queste fattezze che lo indica anche la signora Irma Chiazzese Mattarella nella ricostruzione dell’identikit dell’omicida di suo marito. Le fattezze di Valerio Fioravanti. Una identificazione irrobustita da un particolare: lo strano modo di muoversi del killer durante l’agguato. Un’andatura particolare «ballonzolante», che si addice al Fioravanti, chiamato Orso nel suo ambiente proprio per quella sua caratteristica: «Quel suo modo quasi giocherellone di muoversi – dichiarerà a Giovanni Falcone Stefano Solderini, un altro pentito dei Nar – spiazzava le vittime, che si accorgevano delle sue reali intenzioni quando era ormai troppo tardi». A uccidere Mattarella – stando anche all’accusa mossagli da suo fratello Cristiano – sarebbe stato insomma Valerio Fioravanti, con Gilberto Cavallini come complice. Ma sia Giusva che “Il Negro” saranno assolti con sentenza definitiva. Dell’omicidio verranno condannati solo i mandanti: Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Nenè Geraci, vale a dire la cupola mafiosa.

Succede insomma che – contrariamente ad altri casi – si conoscano, si mandino a processo e si condannino i mandanti, non gli esecutori. Per meglio dire, è questo che emerge dalla verità giudiziaria. Sul piano storico, possiamo ipotizzare verosimiglianze più che verità accertate, mettendo in sequenza gli avvenimenti, le ragioni dei loro intrecci, oltre a quelle parole che – per una ragione o per un’altra, non certo per momentanea follia – vengono pronunciate da “chi sa”.

In questo caso, “a sapere”, è Cristiano Fioravanti, che accusa suo fratello di aver ucciso Mattarella con la complicità di Cavallini alla guida della Fiat 127 rubata la sera prima dell’agguato. Ma tutto il castello accusatorio crolla contestualmente alla sottrazione a Giovanni Falcone delle indagini su mafia ed eversione neofascista, nonostante – o forse proprio per questo – le dichiarazioni di Francesco Mannoia, altro collaboratore di giustizia, che tira in ballo Giulio Andreotti. In almeno due incontri con capi mafiosi, Andreotti avrebbe discusso con essi di Mattarella. Riunioni – favorite da Salvo Lima ( ucciso dalla mafia nel 1992) – con Stefano Bontade, i cugini Salvo e altri capi mafiosi. «Ho saputo tutto ciò dallo stesso Bontade, che me ne parlò fra la primavera e l’estate del 1979» afferma il Mannoia. Al centro degli incontri, le lamentele di Cosa nostra nei confronti del presidente della Regione Sicilia, diventato un vero e proprio ostacolo ai loro traffici. Il teste Mannoia fu ritenuto inattendibile nel corso del processo di primo grado ad Andreotti: un giudizio completamente ribaltato in secondo grado, con successiva conferma della Cassazione. Sul punto fa chiarezza la sentenza del 12 aprile 1995 dei giudici di Palermo: «L’istruttoria e il dibattimento hanno dimostrato che l’azione di Piersanti Mattarella voleva bloccare proprio quel perverso circuito ( tra mafia e pubblica amministrazione) incidendo così fortemente proprio su questi illeciti interessi». I giudici della Corte d’Appello e della Cassazione stabilirono contestualmente che Andreotti ebbe rapporti organici con Cosa nostra fino al 1980. Agli atti resterà quindi solo la condanna nei confronti dei capi mafiosi e gli stessi autori materiali riusciranno a sgusciare fuori dalla vicenda. Finora. Vale a dire fino allo scorso anno, quando la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha desecretato la relazione redatta nel 1989 dal magistrato Loris D’Ambrosio, nelle cui 123 pagine si spiega come quella di Mattarella fosse stata «una eliminazione necessaria» contro un nemico di Cosa nostra. Relazione che una volta arrivata nelle mani del giudice Antonino Meli, viene però rigettata per un vizio di forma. Punto e a capo. A riprendere le fila della vicenda, quella che potremmo definire come una sorta di provvidenza laica. Succede infatti che le ultime risultanze d’ordine scientifico indichino un’unica pistola per due agguati: un filo conduttore che partendo dal giudice Amato e arrivando al presidente Mattarella, unisca Nar e Cosa nostra. Indagini scientifiche che potrebbero portare altri svelamenti grazie a un guanto trovato nella Fiat 127 usata per l’omicidio Mattarella, dal quali si potrebbe estrarre il Dna e da esso risalire a uno dei killer. Sul piano della ricostruzione anche grazie a quella pistola, a riportare tutto ai Nar è pure l’accertata presenza di Fioravanti a Palermo in quei giorni per incontrarsi con Francesco Mangiameli di Terza Posizione, l’organizzazione neofascista fondata nel 1978 da Roberto Fiore, Giuseppe Dimitri e Gabriele Adinolfi. Il Meli, professore di Lettere col vizio dell’eversione, sarebbe stato ucciso nel settembre successivo. Mentre Valerio lo accusava di essersi appropriato di soldi dell’organizzazione, Cristiano aveva esploso il primo colpo, passando poi l’arma a suo fratello, che dopo aver sparato l’avrebbe poi data a Giorgio Viale per il colpo finale. La vera ragione di quella eliminazione, a detta degli stessi giudici che condannarono i killer, è però riconducibile ad altro, cioè alla strage di Bologna. Non a caso, Valerio Fioravanti riteneva che bisognasse eliminare anche la moglie e la figlia del Mangiameli, che avevano avuto modo di sentire qualcosa relativamente alla strage. Sette mesi prima dell’eccidio più crudele della storia repubblicana, i Nar si sarebbero incaricati di uccidere Mattarella, che però con loro – a rigor di logica – non c’entrerebbe nulla. Se l’omicidio Amato si spiega infatti con il lavoro – pericolosissimo per i Nar – che il giudice stava svolgendo nei confronti dell’eversione neofascista laziale, quello di Mattarella era voluto dalla mafia. La spiegazione sta in una convergenza di interessi, che vede da una parte l’organizzazione neofascista e dall’altra la cupola mafiosa. Cosa nostra, utilizzando i Nar, aveva modo di intorbidare le acque, spostando l’attenzione su un movente peculiarmente terroristico. Lo stesso utilizzo di armi “incoerenti” con quelle usate dai sicari mafiosi ( mitra, non pistole) contribuiva ad allontanare il focus dal vero movente politico/ affaristico. Da parte loro, entrando in contatto con Cosa nostra, i Nar – i cui rapporti con la criminalità organizzata erano consolidati – compivano con quell’omicidio un evidente salto di qualità facendo un favore alla mafia. Lo step successivo sarebbe stata la strage alla stazione di Bologna ( su cui torneremo), il cui mosaico sta per arricchirsi di una nuova tessera con il processo Cavallini che sta vivendo le fasi finali. proprio grazie a quella Cobra. La prima volta che quella pistola fece la sua comparizione fu due anni dopo quei duplici omicidi, quando Walter Sordi, “pentito” dei Nar, la indicò come l’arma usata dal Cavallini contro Amato. Una pistola difettosa perché poteva incepparsi.

Si chiamava Piersanti…Ecco chi era il fratello del presidente Mattarella, ucciso dalla mafia il 6 gennaio 1980. Aldo Varano l'8 giugno 2018 su Il Dubbio.  Il congiunto del “Congiunto”, secondo l’imbarazzante linguaggio del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, occupa la più alta carica dello Stato, l’unica a possedere un’aurea di sacralità ( pregasi Di Maio e il Dibba prendere appunti), per la vicenda politica e umana di Piersanti Mattarella. Non sapere di Piersanti, il fratello grande di Sergio, attuale presidente della Repubblica, non significa quindi disconoscere vicende di sagre familiari e/ o parentele eccellenti ( che sarebbe perfino un merito) ma non possedere nel proprio bagaglio una delle radici più significative della storia della Repubblica. La radice degli anni Ottanta che ha unito in un groviglio tragico ed eroico le vite di personaggi come Cesare Terranova e Dalla Chiesa, Bachelet e Walter Tobagi, Pio La Torre e Giovanni Falcone, Boris Giuliano e Gaetano Costa, Basile e Borsellino e tanti altri, per non dire delle vite divorate bestie mafiosa e terroristica, donne e uomini delle scorte e/ o impegnati nelle indagini, fino a semplici e coraggiosi cittadini impegnati a far muro per difendere la Repubblica. Luciano Violante, osservatore privilegiato di quegli anni, avrebbe successivamente testimoniato: «Ci sentivamo molto impegnati, questo il mio ricordo, in una lotta per la democrazia… l’impressione era che un sistema di poteri separati e illegittimi, cogliendo l’occasione di un’assenza di strategia da parte dei partiti maggiori, ne approfittasse». Piersanti Mattarella fu uno di quegli eroi ed ebbe un ruolo di assoluto rilievo. Ucciso toccò al fratello più giovane Sergio ( minore di sei anni), caricarsi la responsabilità di raccoglierne l’eredità e lo fece spezzando una scelta di vita fin lì interamente dedicata agli studi giuridici. Chi conobbe Sergio Mattarella negli anni successivi alla sua tragedia familiare, nonostante la sua riservatezza, non ebbe dubbi sulla sofferenza e il senso del dovere di quella scelta, improvvisa e immediata come lo sgorgare del sangue di Piersanti sulla macchina da cui Sergio, con la cognata e la propria moglie, le sorelle Irma e Maria Chiazzese che avevano sposato i fratelli Mattarella, lo tirò fuori per una corsa disperata e inutile verso il pronto soccorso di Villa Sofia a Palermo dove Piersanti morì subito. Non erano ancora terminati i festeggiamenti del nuovo anno quando un po’ dopo le 12,50 di quel 6 gennaio 1980, vigilia attesissima della lotteria di Fantastico, spettacolo condotto da Beppe Grillo e Loretta Goggi, arriva l’Ansa: «Un giovane, con un complice, uccide con sei colpi di pistola calibro 38 special il presidente della Regione Sicilia, il Dc on. Piersanti Mattarella ( 45 anni) e ferisce alle mani la moglie, Irma Chiazzese, che ha cercato di proteggere il marito. L’attentato avviene a viale della libertà, mentre Piersanti Mattarella, con sua moglie, i figli Bernardo e Maria, la cognata Maria Chiazzese, sta tornando a casa in automobile dopo essere stato alla messa». «Con la morte di Mattarella – scriverà Antonio Calabrò, scrittore giornalista e già direttore editoriale di Sole24 nel suo illuminante “I mille morti di Palermo, Mondadori 2016– s’interrompe la brillante carriera politica di un uomo che avrebbe presto potuto prendere il posto di Aldo Moro, ai vertici della Dc e forse, a Palazzo Chigi, alla guida del governo nazionale», un giudizio assolutamente equilibrato, che rilancia valutazioni del tempo fondate sullo svolgimento degli avvenimenti di quegli anni. Piersanti viene ammazzato molto probabilmente grazie a una sinergia tra Cosa nostra e terrorismo nero. Giovanni Falcone firmando l’indagine sui rapporti tra mafia e neofascismo accusa Valerio “Giusva” Fioravanti, riconosciuto anche dalla moglie di Mattarella, il killer “nero” collegato alla banda della Magliana e ad altri episodi di terrorismo nero. Ma questa parte dell’indagine di Falcone, non viene ritenuta sufficiente per la condanna di Fioravanti che, invece, arriva per l’intera Commissione di Cosa nostra capeggiata da Totò Riina. L’identità dell’assassino di Piersanti farà parte dei misteri di quegli anni. Un dettaglio significativo per capire il valore e il retroscena politico, di straordinario spessore connesso all’omicidio. Piersanti dev’essere apparso come un matto a Cosa nostra e ai notabili del potere siciliano che montano e smontano affari e carriere, poteri ed appalti in un giro vorticoso e miliardario dove si entra accettando le regole del gioco in gran parte fissate dalla mafia. Non ha fatto in tempo a mettere piede nella stanza più importante di Palazzo d’Orleans che chiede al Comune di Palermo di bloccare un appalto ( 6 miliardi di lire, siamo nel 1978!) per la costruzione di alcune scuole. Un’iniziativa che alla fine svelerà che l’appalto era truccato ( allora, a Palermo, quasi la norma) e non a caso era stato vinto da un gruppo d’imprese capeggiato da Rosario Spatola, cugino di Totuccio Inzerillo e amico di Stefano Bontade, uomini importanti del mondo di Cosa nostra magnificamente introdotti nelle stanze più potenti del Comune di Palermo, dove Vito Ciancimino faceva il giorno e la notte. Come non bastasse vuole riformare gli investimenti regionali in agricoltura. Ancora: manovra per far saltare l’assessore ai lavori pubblici della Regione guidato da un parlamentare del Pri non insensibile alle pressioni mafio-malavitose. Ma Piersanti non era un matto. Aveva perfetta consapevolezza dei rischi che correva. Commemorando all’Assemblea regionale l’assassinio del giudice Terranova e del suo autista Lenin Mancuso, aveva scandito: «Oggi avvertiamo un senso di profonda preoccupazione e di inquietudine, non solo per la gravità di quel che accade in questa città, ma anche per il verificarsi di una specie di assuefazione a fatti di violenza come questi, per il verificarsi di una sorte di fuga dalla coscienza, come se questi fossero fatti ed episodi isolati che appartengono a poche persone». Siamo a fine settembre del 1979. Mancano meno di quattro mesi alla morte di Piersanti. Lui sa che non si tratta di poche persone e non ha intenzione di fuggire dalla propria coscienza. Per questo oltre al fronte del rinnovamento in Sicilia ne ha aperto un altro nazionale che tende a indebolire e scardinare il vecchio ceto politico siciliano a partire dal quello del proprio partito. Ha parlato a Roma con Benigno Zaccagnini, segretario nazionale della Dc, per aprire uno scontro con la parte arretrata Dc e punta a recuperare la tradizione e il lascito dei cattolici democratici che in Sicilia ha una storia importante da Sturzo fino allo stesso padre di Piersanti e Sergio, il più volte ministro Bernardo. Un intervento che non piace alla Dc di don Vito Ciancimino. Padre Pintacuda testimonierà davanti ai giudici: «Mattarella si sentiva isolato». E aggiunge: «Temeva qualcosa di estremamente grave, in quanto aveva visto interrompersi quell’area di crescente consenso, anche all’interno della Dc, che vi era stato sin dalla costituzione del suo primo gabinetto». La reazione cresce rapidamente tra i vecchi padroni di Palermo. Piersanti se ne rende conto. Ma anziché gettare la spugna cerca soluzioni a favore della sua terra. A Roma informa il ministro dell’Interno, Virginio Rognoni. Tornato a Palermo chiama nella propria stanza il proprio capo gabinetto, l’unica persona di cui si fida e le dice testualmente: «Le sto dicendo una cosa che non dirò né a mia moglie né a mio fratello ( Sergio, ndr). Questa mattina sono stato con il ministro Rognoni ed ho avuto con lui un colloquio riservato sui problemi siciliani. Se dovesse succedere qualcosa di molto grave per la mia persona, si ricordi questo incontro col ministro, perché a questo incontro è da collegare quanto di grave mi potrà accadere». Una chiara anticipazione di quel che accadrà. Rognoni dirà poi agli inquirenti: «Denunciò un quadro allarmante, l’esistenza di un establishment che ostacolava la sua intenzione di fare pulizia soprattutto nel campo degli appalti che aveva un referente politico dentro il partito ( la Dc, ndr) nella persona di Vito Ciancimino. Ma aggiunse che sarebbe andato avanti convintamente e serenamente e non si parlò di rischi o minacce per la sua persona». Non si è saputo altro sull’esecuzione di Mattarella. Ed è questo il particolare più illuminante della vicenda. Francesco Crescimanno, legale di fiducia della famiglia Matterella ha spiegato in Cassazione: «Il delitto del presidente della Regione appartiene a una fascia di estrema delicatezza politica, seconda per gravità solo al delitto di Aldo Moro: e per essere interamente attribuito alla mafia è curioso che all’interno di Cosa nostra non circolino molte notizie».

Omicidio Mattarella, il falso “scoop” dell’Espresso. Un tribunale ha assolto Cavallini, di nuovo tirato in ballo. Massimiliano Mazzanti venerdì 27 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo: Caro direttore, Landolfi: “Torno a vivere dopo 12 anni”. E ora l’ultima tappa della battaglia giudiziaria. Non è una novità che, a carico di Gilberto Cavallini, sotto processo a Bologna per la Strage del 2 agosto 1980, si tenti di perfezionare la così detta opera di “mostrificazione”, addossandogli l’assassinio di Pier Santi Mattarella. Addossargli è certamente il verbo più attagliato alla situazione, visto che Cavallini, per l’assassinio del fratello del capo dello Stato, è stato assolto in via definitiva. Questo, però, non preoccupa minimamente i giornalisti de “L’Espresso” – sempre ansiosi di manifestare come implacabile il loro antifascismo militante (in)degno d’altre epoche -, per i quali ci sarebbero niente di meno che “novità scientifiche” a supporto della tesi crollata in tribunale. Oddio, cosa ci sia di “scientifico” è tutto da capire, in questa storia della pistola usata per uccidere Mattarella che, secondo le suggestioni de “L’Espresso”, potrebbe essere la stessa poi usata per assassinare il giudice Mario Amato. Infatti, secondo la Procura di Palermo e gli investigatori della “Scientifica”, a collegare le due pistole ci sarebbe solo l’orientamento delle rigature sui proiettili – che vanno verso sinistra – e che farebbero presupporre l’uso di un revolver di marca “Colt” e modello “Cobra”. Orbene, può essere benissimo che quella caratteristica balistica fosse tipica proprio di quell’arma, ma è certo in modo assoluto – come scrisse, per esempio, il 3 gennaio 2017 Claudio Bigatti per la rivista specializzata “Armi e Tiro” – che la “Cobra” fosse il “revolver per difesa tra i più famosi e di successo della casa americana”. In altre parole, si tratta di una delle pistole più vendute al mondo, nel trentennio che va dal 1950 al 1981. Un po’ poco per smontare una sentenza passata in giudicato e che vide chiedere l’assoluzione in primo e secondo grado per Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini niente meno che su richiesta della pubblica accusa, rappresentata da Giuseppe Pignatone. Perché mai, allora, tanto rumore per nulla? Per di più, dopo che proprio il presidente della Repubblica, fratello della vittima, ha lanciato di recente un appello contro i revisionismi sulla storia del terrorismo in Italia? Il duplice obbiettivo sembra chiaro: da una parte, raffigurare Cavallini in modo che i giudici della Corte d’Assise di Bologna, in particolare quelli “popolari”, non abbiano esitazione alcuna nell’emettere un verdetto di condanna nei suoi confronti; dall’altra, sottacere l’unico elemento di novità emerso dal dibattimento appena concluso nel nuovo processo per la Strage alla stazione: l’esistenza – questa sì appurata scientificamente e in modo incontrovertibile – di una 86esima vittima. Una vittima in più di cui nessuno vuole parlare, poiché  sconvolge definitivamente il quadro cristallizzato delle menzogne raccontate e affermate anche nei tribunali dal 1980 sull’attentato più grave mai compiuto in Italia.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Mafia.

Trattiva, il pentito Pietro Riggio: «Incontrai “faccia da mostro” con una Bmw, ecco la targa» Ma era quella di un trattore.  Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 18 dicembre 2020. Pietro Riggio ha raccontato di aver incontrato Giovanni Aiello in Bmw e di ricordarne la targa, ma è stato accertato che era quella di un trattore. Pietro Riggio è forse il “pentito di Stato” che alcuni magistrati auspicavano per la ricerca sulla verità relativa alla presunta trattativa Stato-mafia. D’altronde è stato un agente penitenziario, prima di diventare un mafioso più o meno di rango. Di fatto è diventato organico a Cosa nostra nel maggio del duemila occupandosi delle estorsioni. Ha svolto tale mansione subito dopo aver finito di espiare la pena per favoreggiamento aggravato. Poi viene arrestato nuovamente nel 2004 per 416 bis e finisce di scontare la pena nel 2008. Ma nello stesso anno viene di nuovo arrestato.

Ha iniziato a parlare dopo la sentenza di primo grado. Ed è lì che decide di diventare collaboratore di giustizia. Attenzione, le “verità” sulla grande organizzazione Dia – servizi segreti deviati libici, italiani – Cia verrà da lui rivelata soltanto nel 2018. Il motivo? Lo ha detto Pietro Riggio stesso: si è sentito pronto nel parlarne dopo aver finalmente assistito alla sentenza di primo grado sulla trattativa. E di cose ne ha dette. Così tante che snatura, di fatto, l’impianto originale accusatorio sulla trattativa, perché non sarebbero stati infedeli solo gli ex Ros, ma anche la Dia e non solo. Due sono le novità che arrivano in corso d’opera. Punto uno. A premere il telecomando che ha azionato il tritolo a Capaci non sarebbe stato Giovanni Brusca, ma i poliziotti che collaboravano con i servizi segreti.

I servizi segreti libici avrebbero organizzato l’attentato di Capaci. Ad organizzare la logistica dell’attentato di Capaci sarebbero stati addirittura i servizi segreti libici composti da una donna, il suocero dell’ex poliziotto Giovanni Peluso facente parte del complotto e un certo Nasser, che sarebbe un medico ed ex pugile egiziano. Punto due. La Dia avrebbe utilizzato lo stesso Pietro Riggio per far finta di catturare l’ex boss dei boss Bernardo Provenzano. Il tutto sarebbe stato organizzato da un certo zio Tony, che secondo Riggio fa di nome Antonio Miceli. E attenzione, questo zio Tony avrebbe lavorato per la Cia. In realtà, tramite accertamenti da parte della squadra mobile di Caltanissetta si è scoperto che esiste, ma si chiama Antonio Mazzei. Un ex delinquente di bassa lega che effettivamente era stato convocato dalla Dia perché – secondo i carabinieri stessi-, sia lui che lo stesso Peluso (colui che ha conosciuto Pietro Riggio nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere e che gli avrebbe rivelato indicibili verità), avrebbero detto di essere in grado di poter arrivare alla cattura di Provenzano. Lo stesso colonnello Pellegrini della Dia ha poi constatato che erano dei truffaldini e millantatori. Riggio però, effettivamente, era un confidente e avrebbe infatti fornito elementi utili ai carabinieri ad individuare una talpa all’interno della Procura di Caltanissetta, ma avrebbe anche aiutato a capire le dinamiche di Cosa nostra nissena e dato informazioni su tentativi di estorsione nel territorio.

L’11 gennaio prossimo saranno ascoltati i due colonnelli della Dia. Intanto, l’11 gennaio saranno sentiti al processo trattativa proprio i due colonnelli della Dia, Angiolo Pellegrino e Alberto Tersigni, che avevano gestito Riggio e appurato le millanterie di Peluso e del napoletano “zio Tony”. Abbiamo, quindi, da una parte Riggio che era effettivamente organico alla mafia, dall’altra l’ex poliziotto Peluso che parla con tutti, si vanta di far parte di qualcosa di più grosso. Riggio non fa altro che rivelare alle autorità tutto ciò che Peluso gli ha raccontato. Durante il confronto tra i due, di fronte all’evidenzia delle lettere criptate che lui mandava a Riggio quando era in carcere, ha dovuto ammettere che parlava di traffico di droga per racimolare qualche soldo insieme. Oppure, cosa che non dice, può aver parlato di come catturare Provenzano? Il problema è che, per ora, del loro contenuto non è dato sapere. Il sospetto è che l’ultima parte del processo sulla trattativa si stia concentrando su qualcosa che non esiste. O meglio, millantato. L’ultima domanda rivolta a Peluso da parte del procuratore Gabriele Paci di Caltanissetta potrebbe proprio far pensare a questo: «Allora, mettiamola così, perché vorremmo capire una cosa: lei può essere un uomo oscuro dei Servizi Segreti deviati e può essere un millantatore, togliamo l’idea che lei sia un uomo dei Servizi Segreti deviati, siccome c’era… non so quanto c’era di taglia su Provenzano, può aver raccontato qualche stupidaggine?». In effetti all’epoca girava una taglia milionaria per la cattura del latitante. Il sospetto però diventa quasi una certezza quando si leggono le risultanze delle indagini preventive fatte nei confronti di Peluso su richiesta della procura di Palermo guidata da Pietro Grasso. Parliamo del 2001. Come si legge nell’informativa della Dia di Palermo, una fonte rivela ai carabinieri che «non meglio indicati soggetti, presumibilmente non in linea con gli attuali orientamenti di “Cosa Nostra”, potrebbero avere in mente di porre in atto un episodio eclatante, verosimilmente nel capoluogo dell’isola». La fonte dice che tali soggetti, per l’attentato, potrebbero servirsi di «tale Peluso Giovanni, ex poliziotto, che proprio in questi giorni avrebbe preso la dimora a Catania presso persone compiacenti e si sarebbe recato più di una volta a Palermo, servendosi di mezzi pubblici». Forse è in quel contesto che Peluso avrebbe detto a Riggio l’intenzione di uccidere l’ex giudice Leonardo Guarnotta?

I precedenti penali per sfruttamento della prostituzione e truffa. Attenzione, fin dalla prima informativa si evince che Peluso aveva come precedenti penali lo sfruttamento della prostituzione e truffa. Quest’ultimo reato è stato per Grasso un campanello d’allarme, tant’è vero – come si legge nell’informativa – che ha concordato l’avvio delle indagini preventive «con la possibilità, tenuto conto dei precedenti penali del Peluso, che possa trattarsi di millanterie nei confronti della fonte». Ebbene, alla fine le indagini hanno confermato questo dubbio. Si legge che «il linguaggio criptato di talune conversazioni telefoniche, il ricorso a millanterie e frasi di convenienza, nonché i suoi trascorsi, lascerebbero propendere per il coinvolgimento del Peluso in attività illecite di tipo truffaldino, i cui elementi, tuttavia, non è dato comprendere». Fine delle indagini. Peluso è risultato il tipico millantatore per trarre profitto. D’altronde non sarebbe né il primo, né tantomeno l’ultimo. Recentemente è stato arrestato un collaboratore dei servizi segreti che millantava conoscenze per truffare un imprenditore.

La targa della Bmw di “faccia di mostro” ricordata da Riggio era quella di un trattore. Ma Pietro Riggio? Forse ha davvero preso per vero tutto ciò che Peluso e compagni gli hanno prospettato? Qualcosa però non torna nemmeno nei suoi racconti. Ma, per ora, vale la pena raccontare il fatto che avrebbe incontrato Giovanni Aiello, il famigerato “faccia da mostro”, in Bmw. Alla guida una donna che sarebbe poi Marianna Castro, di origine libiche ed ex compagna di Peluso. Riggio dice pure che questa donna sarebbe scesa dalla macchina e che portava pantaloni mimetici. La Castro, fervente seguace del defunto guru indiano Sai Baba, dice però tutt’altro durante il suo interrogatorio. Ad esempio che non era una Bmw ma una Lancia Delta, che in realtà non sarebbe mai scesa da quella macchina e che indossava abiti normali. Qual è la verità? Pietro Riggio però si ricorda il numero di targa. Una memoria fotografica a distanza di decenni. La squadra mobile ha fatto degli accertamenti. La targa esiste, ma è di un trattore. Il proprietario svolge una semplice attività di autotrasportatore e hanno accertato che non ha mai subito un furto, smarrito o prestato a qualcuno la sua targa. Non ha nulla a che fare con tutti questi personaggi, ma è un semplice cittadino che fa il suo lavoro. Probabilmente Riggio si è confuso e avrà scambiato qualche numero. Tra lui e i racconti di Peluso, è difficile districarsi. I puntini non si uniscono. Più si va avanti e più viene da chiedersi cosa possa avere a che faretutto questo con la presunta trattativa Stato-mafia o le stragi di Capaci e Via D’Amelio dove persero la vita Falcone e Borsellino. Dalle presunte entità a una sorta di “compagni di merende”, il passo è davvero breve.

Lo Stato-mafia secondo Riggio: la Cia, i libici, la Dia, passando per il Sappe. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 ottobre 2020. Nel processo di Appello su Stato-mafia concluso oggi il controesame da parte di Basilio Milio e Francesco Romito, difensori degli ufficiali Ros. Se si dovesse prendere alla lettera la testimonianza del collaboratore di giustizia Pietro Riggio, un ex agente penitenziario che è poi diventato un mafioso di rango, Cosa nostra non è in realtà com’è stata dipinta da Giovanni Falcone. Il controesame a Riggio da parte dell’avvocato Basilio Milio e Francesco Romito, difensori dei Ros nel processo d’Appello Stato-mafia si è concluso oggi. La mafia non solo ha ricoperto un ruolo secondario, ma addirittura è stata presa anche per i fondelli dai poliziotti e servizi segreti perfino internazionali. Il telecomando che ha azionato il tritolo a Capaci non sarebbe stato premuto da Giovanni Brusca. O meglio, quest’ultimo lo ha premuto credendo che l’esplosione sia stata merito suo, mentre invece a premere il pulsante vero sarebbero stati i poliziotti che collaboravano con i servizi. Quindi Brusca, ma addirittura Totò Riina che fino agli ultimi giorni della sua vita (pensiamo alle intercettazioni ambientali al 41 bis) ha miserabilmente osannato le sue gesta relative agli attentati di Capaci e via D’Amelio, sarebbero stati dei poveri ingenui.

Tutto gestito da “zio Toni”. Ma non c’entrano solo i carabinieri e servizi italiani. A organizzare la logistica dell’attentato di Capaci sarebbero stati addirittura i servizi segreti libici composti da una donna misteriosa, il suocero dell’ex poliziotto Giovanni Peluso facente parte del complotto e un certo Nasser, un ex pugile egiziano ma che era al servizio di Gheddafi. Attenzione, sempre secondo Pietro Riggio, tutti loro (poliziotti, carabinieri della Dia e servizi libici) sarebbero stati gestiti da un certo “zio Toni”, che di nome fa Antonio Miceli, il quale però era al servizio della Cia. Sono sempre loro, in questo caso specifico la Dia, a chiedere a Riggio di fare una sorta di agente sotto copertura all’interno della mafia. Lo scopo? Reperire notizie per catturare Bernardo Provenzano. Anzi no. Riggio – come si evince dall’interrogatorio del 2018 davanti al procuratore di Caltanissetta Gabriele Paci e a quello di Firenze – percepisce un “doppio gioco” e dice di aver capito che la Dia in realtà lo usava per non catturare Provenzano. Qualcuno gli fece anche capire che era in pericolo. Ma non si capisce bene il perché. Ed è il procuratore Paci a farglielo presente con domande serrate e precise, visto che troppe cose da lui raccontante non sembrerebbero avere un filo logico. Dopo un botta e risposta per capire la logica, a pagina 88 del verbale dell’interrogatorio Paci gli chiede testualmente: «Riggio scusi, lei mi deve spiegare il senso di questa frase perché non ha senso: “tu sei un uomo morto, io t’ho salvato perché non hai capito che i carabinieri vogliono acquisire notizie ognuno dai referenti che hanno per non farlo prendere, per non prenderlo”. Allora io veramente non ne esco fuori, noi non ne usciamo fuori. È come dire: “tu stai facendo una cosa inoffensiva, che Provenzano lo sa perché sa che si parla con i carabinieri, gli va bene che li date le notizie. Queste notizie questi non le utilizzano perché non lo vogliono prendere, però io ti ho salvato in vita”. Non fila».

Un’incredibile memoria fotografica. La narrazione prosegue, ma – almeno da quello che si evince dal verbale – si fa sempre più fatica a comprenderla. Riggio parla di tutto, dice anche di aver incontrato il poliziotto “faccia di mostro”, ovvero quello che poi lo ha riconosciuto come tale dopo aver visto le foto sui giornali. Si ricorda che lui (si faceva chiamare Filippo) era su una Bmw, accompagnato da una misteriosa donna con la mimetica. Riggio si ricorda il numero di targa a distanza di decenni. Il pm Paci gli chiede come fa a ricordarselo senza aver segnato il numero su un foglietto, e lui risponde che ha una memoria fotografica. Sempre Paci gli fa notare che tante cose che dice (apprese dal poliziotto Peluso, il presunto 007 conosciuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere) sono notizie già uscite fuori, compresa la storia della famosa telefonata dell’onorevole Rudy Maira fatta alla mafia per avvisare che Falcone sarebbe atterrato a Capaci. Da sottolineare che ci fu un processo e fu assolto, quindi innocente. Una storia, quindi, non vera. Riggio però risponde di non aver appreso della telefonata sui giornali, ma solo da Peluso. Quest’ultimo, ricordiamo, sempre secondo il pentito sarebbe il poliziotto al servizio del Sismi che avrebbe non solo azionato il telecomando per l’attentato di Capaci, ma anche organizzato un attentato – fortunatamente mai arrivato a compimento – negli anni 2000 contro il giudice Guarnotta. Il pentito ha parlato pure del caso di Antonello Montante, anche questa notizia già conosciuta.

Riina, Brusca e co.? Degli ingenui…L’ex poliziotto penitenziario poi passato alla mafia, sembra che conosca tanti segreti. Una narrazione che però – se presa alla lettera – potrebbe far percepire che la mafia sia stata quasi ingenua, come se alla fine fosse tutto organizzato dalle altre “entità”. Riggio lo hanno voluto sentire come testimone durante il processo Capaci bis proprio gli avvocati degli imputati mafiosi. E hanno tutte le ragioni per averlo fatto: se la mafia ha ricoperto un ruolo secondario, o addirittura nemmeno ha azionato il telecomando che ha creato la terribile esplosione, la loro posizione si sarebbe dovuta affievolire. Ma fortunatamente non è stato così e il 21 luglio scorso sono stati confermati gli ergastoli per tutti e quattro i boss. Vale la pena riportare un altro racconto, questa volta delle carceri, quando Riggio faceva l’agente di custodia. Dice di aver fatto parte del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria di cui il segretario era (ed è tuttora) Donato Capece. Il pentito, sempre nel verbale del 2018, per spiegare i presunti favori che Forza Italia avrebbe fatto alla mafia, aggiunge questo dettaglio: «La segreteria si trova, per capirci, sopra il bar Mandara a Roma, vicino piazzale Clodio, perché qui ho avuto modo di verificare dove la politica si incontrava con le richieste della mafia perché Capece in contatto con dei personaggi politici che allora facevano parte, diciamo dell’entourage di Forza Italia, cominciò a battersi per la chiusura delle carceri di Pianosa e dell’Asinara». Ora il Sappe, a parere di chi scrive, ha tanti difetti proprio perché cavalca il populismo penale. Che abbia addirittura indirettamente favorito la mafia non è lontanamente immaginabile. Un po’ tutti i sindacati, per tutelare la qualità di vita lavorativa dei loro iscritti, hanno chiesto la chiusura di questi famigerati penitenziari. Carceri delle torture fortunatamente chiuse nel 1998 tramite decreto, ma non per merito di Forza Italia che nemmeno era al governo. Così come il discorso del non rinnovo automatico del 41 bis per circa 300 soggetti, di cui solo una minima parte erano mafiosi. Lo fece Giovanni Conso, ministro della Giustizia del governo di centrosinistra e per rispettare il dettame della Consulta. All’epoca, anno 1993, Forza Italia ancora non era nata. Anche la tesi della trattativa, d’altronde, non la inserisce in quel contesto. Tanta, troppa confusione sotto il cielo. Ma ci penseranno i giudici a valutare la sua attendibilità. Pietro Riggio, ricordiamo, è sentito come testimone al processo d’appello sulla trattativa Stato mafia. In quell’occasione ha aggiunto qualcosa in più: sarebbe stato Marcello Dell’Utri a dettare alla mafia i luoghi dove compiere gli attentati. Un Totò Riina ridotto a fare lo scendiletto dei politici e servizi? Se così fosse, allora è tutta da rifare l’analisi sulla natura della mafia, a partire da ciò che si evince dal libro “Cose di Cosa Nostra” scritto a quattro mani da Marcelle Padovani e Falcone. In realtà quest’ultimo l’aveva capita molto bene la mafia e i suoi interessi affaristico-politici, per questo era stato trucidato con una quantità impressionante di tritolo tanto da squarciare l’autostrada. Stessa sorte, 57 giorni dopo, a Paolo Borsellino. Nel frattempo oggi si è concluso il controesame a Riggio da parte dell’avvocato Basilio Milio e Francesco Romito, difensori dei Ros nel processo d’Appello Stato-mafia.

Dagospia il 9 febbraio 2020. Estratto del libro “Lo stato illegale” di Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte pubblicato da “il Fatto quotidiano”. La Procura di Palermo del dopo stragi ha vissuto un periodo di grande speranza, man mano che si avvertiva con sempre maggiore chiarezza come importanti strutture di Cosa Nostra stessero cedendo. () La strada si è fatta via via più in salita. E chissà quante opportunità () sono sfuggite. Sullo sfondo un' ipotesi inquietante: che ad aggravare il cambiamento di quadro, già di per sè cupo, abbia potuto contribuire la "trattativa" fra Stato e mafia. () Innanzitutto va chiarito che - secondo la Corte di assise di Palermo - le trattative sono state due. La prima, che si svolge nel biennio 1992-93, vede come protagonisti: dalla parte dello Stato, gli ufficiali del Ros dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno; dalla parte di Cosa nostra, Vito Ciancimino e il medico-mafioso Antonino Cinà, con Salvatore Riina come massimo referente. Destinatari della minaccia sono i governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. () La seconda trattativa, che si svolge fra il 1993 e il 1994 vede come attori principali Marcello Dell'Utri e Leoluca Bagarella, e come destinatario della minaccia il primo governo della Seconda Repubblica, quello di Silvio Berlusconi. Secondo la ricostruzione dei giudici, Dell'Utri si propone e si attiva come interlocutore dei capi di Cosa nostra per una serie di benefici a favore dell'organizzazione mafiosa. E agevola lo sviluppo della trattativa, rafforzando il proposito mafioso di rinnovare la minaccia delle stragi e favorendo la ricezione di tali minacce da parte del governo presieduto da Berlusconi. A sua volta Bagarella, utilizzando come tramiti Vittorio Mangano (lo "stalliere di Arcore") e Dell' Utri, avrebbe inoltrato a Berlusconi una serie di richieste finalizzate a ottenere alcuni benefici riguardanti la legislazione antimafia e l' attenuazione del carcere duro per i mafiosi reclusi. () I giudici confermano così il ruolo di "cinghia di trasmissione" di Dell' Utri fra Cosa Nostra e l' ex premier. E anche se "non v'è e non può esservi prova diretta sull'inoltro della minaccia da Dell' Utri a Berlusconi (perché ovviamente soltanto l' uno o l' altro possono conoscere il contenuto dei loro colloqui)", ci sono tuttavia "ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell'Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l'associazione mafiosa Cosa Nostra mediati da Vittorio Mangano". La prima di queste ragioni logico-fattuali è costituita - secondo la Corte - dall' esborso, da parte delle società di Berlusconi, "di ingenti somme di denaro poi effettivamente versate a Cosa nostra. Dell' Utri, infatti, senza l' avallo e l' autorizzazione di Berlusconi, non avrebbe potuto, ovviamente, disporre di così ingenti somme da recapitare ai mafiosi". Ma fino a quando Berlusconi avrebbe pagato esponenti della mafia? Nel precedente processo a carico di Dell' Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, il fatto che Berlusconi pagasse Cosa nostra era considerato dimostrato solo fino al 1992, prima dell' inizio delle stragi e del successivo impegno politico dell' imprenditore. Invece - stando alla valutazione della Corte di assise della trattativa - tali pagamenti proseguono "almeno fino al dicembre 1994". () Un' altra ragione logico-fattuale che i messaggi di Cosa Nostra fossero pervenuti al governo sta nel fatto che - secondo la Corte - in almeno una occasione il primo esecutivo guidato da Forza Italia avrebbe portato avanti iniziative legislative favorevoli a Cosa Nostra. E Cosa Nostra venne informata prima ancora degli stessi ministri del governo Berlusconi.

Giovanni Falcone: «La Gladio e la P2 estranee ai delitti eccellenti». Damiano Aliprandi il 7 febbraio su Il Dubbio. Dalle indagini condotte da Giovanni Falcone emerge che per l’esecuzione degli omicidi Cosa nostra non prese ordini da nessuno. In questi settimane alcuni giornali hanno dato notizia del rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di custodia cautelare per i boss Nino Madonia e Gaetano Scotto. Si tratta della richiesta fatta dalla procura generale di Palermo per l’omicidio dell’agente Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio. Parliamo di una brutta storia dove giustamente i familiari ancora gridano giustizia. Antonino Agostino, detto Nino, era noto come “il cacciatore di latitanti”. Agente della questura di Palermo, stava indagando sul fallito attentato al giudice Giovanni Falcone sulla spiaggia dell’Addaura, dove era stato abbandonato un borsone contenente tritolo. Ma in questa occasione, ancora una volta, parlando dei “delitti eccellenti” si ripescano interrogatori di Giovanni Falcone a un estremista di destra palermitano, Alberto Volo, definito un mitomane in più di una sentenza. Volo parla di Gladio, dice addirittura di far parte della “Universal legion”, una struttura legata ai servizi segreti che assomigliava molto a Gladio e arriva a mettere in relazione i delitti di Palermo con l’omicidio Moro, i servizi segreti e la massoneria. In un giornale, riesumando questa vicenda, scrive nero su bianco che quegli interrogatori dicono molto della grande attenzione di Falcone per le parole di Volo. Ma non è così. O meglio, l’attenzione l’ha data, perché il giudice antimafia per eccellenza aveva il difetto di vagliare attentamente le dichiarazioni dei pentiti o testimoni. Sapeva essere razionale, saper separare i deliri dalle dichiarazioni verosimili. Legittimo che un giornalista o magistrato inquirente ritenga che i racconti di Volo siano degni di nota, non corretto però far credere che Falcone prendesse in considerazione i suoi racconti. Cosa pensava di lui? Basta leggere gli atti e la sua relazione in merito al delitto di Piersanti Mattarella. «La palma del “migliore” se così si può dire – scrive Falcone -, spetta certamente ad Alberto Volo. Nei suoi racconti egli è capace di accomunare idee politiche e tarocchi, contatti con servizi segreti e vicende amorose. La vicenda nella quale è implicato esalta la sua mania di protagonismo. Vale la pena di rilevare immediatamente come il comportamento del Volo in questo processo risponda a quel ruolo fantastico e delirante del quale l’imputato ha deciso di connotare ogni momento della sua esistenza». Poi Falcone prosegue con un esempio: «Basta al riguardo aver riferimento alle notazioni contenute nella sentenza 24.5.1977 della Corte d’Appello di Palermo (con la quale il Volo fu condannato per una rapina di assegni bancari che l’imputato “pretendeva” poi di rivendere); ovvero alla lettera anonima da luì spedita alla Questura dì Palermo e nella quale si autoaccusava di far parte di organizzazioni eversive: lettera il cui intento era quello di sollecitare gli inquirenti a “non trascurarlo” nell’ambito della indagine sulla strage di Bologna». Ma quindi Falcone ha preso in considerazione Alberto Volo su quale aspetto? Presto detto. «Deve essere chiaro – spiega sempre Falcone-, peraltro, che dietro alle “mitomanie” ed al “protagonismo” del Volo(e che lo inducono alle più distorte e talvolta fantasiose ricostruzioni dei fatti ) sta comunque il suo inserimento, quantomeno a livello conoscitivo, nella realtà umana della destra eversiva. La frequentazione del Mangiameli lo ha portato a sapere molto dei fatti legati al terrorismo ed anche dei progetti in atto». In sostanza Falcone è riuscito a separare la mitomania da alcuni fatti che lo stesso Volo poteva conoscere avendo appunto frequentato la destra eversiva. Cosa sta a significare? Può essere utile una citazione messa a epigrafe del libro “Complotto!” scritto a quattro mani da Massimo Bordin e Massimo Teodori. Si tratta quella di Mordecai Richler: «Il mio problema con i teorici della cospirazione è che, se gli dai un dito di porcherie accertate, loro si prendono tutto un braccio di fantasie. O peggio». Tutto qui. La differenza con chi è affetto della patologia dei complottisti, è che Falcone sapeva distinguere i fatti concreti dai racconti fantasiosi. Sul delitto Mattarella è stato chiarissimo. Lui parla di delitto “politico mafioso” e gli esecutori materiali, che secondo lui erano i nar (ma dove, a quanto pare, non era fermamente convinto ascoltando non solo la testimonianza di Valerio Fioravanti, ma anche quello di Pietro Grasso), avrebbero fatto semplicemente da manovalanza e non ha nulla a che fare con Gladio o P2. Lo mette nero su bianco prendendo spunto proprio dalle dichiarazioni di Volo, il quale disse che «l ‘omicidio era stato deciso a casa di Licio Gelli e provocato dalle aperture al Pci che in quel periodo stavano maturando in Sicilia e di cui il Mattarella era il principale sostenitore. Per compiere l’omicidio, Gelli si avvalse di sua “manovalanza” e cioè di giovani come Fioravanti e Cavallini, quest’ultimo in particolare, legato ai servizi segreti». Falcone ha vagliato quindi anche questa ipotesi e l’ha scartata in pieno. Si convince che la «la valutazione negativa di Fioravanti come killer della P2 nasce nell’ambiente di Terza Posizione, soprattutto dopo l’omicidio di Mangiameli» e che «i rapporti presunti tra Fioravanti e Gelli non costituiscono oggetto di cognizione diretta, ma vengono dedotti dai rapporti tra Valerio e Signorelli, ritenuto in contatto con Gelli per tramite di Aldo Semerari». Falcone scarta questa ipotesi e ciò per «l’irriducibile vocazione di Cosa Nostra a salvaguardare la propria segretezza e la propria assoluta indipendenza da ogni altro centro di potere esterno». Questo è ciò che pensava Falcone e la casuale dell’omicidio di Mattarella la ritrovava nelle sue scelte politiche ben precise, soprattutto sulla questione dell’aggiudicazione degli appalti che avrebbero messo in difficoltà il potere mafioso legato soprattutto a una determinata corrente politica della ex Dc. Ma Falcone ha vagliato anche il discorso Gladio. Dopo la pubblicazione da parte dell’ex presidente del consiglio Giulio Andreotti della sua esistenza e dopo le notizie stampa che parlarono di attività deviate della stessa, il giudice Falcone ha esteso le indagini anche al Sisde e non ha trovato nulla che portasse alla pista Gladio, tranne che rinvenire un appunto dei servizi concernente uno dei presunti killers di Mattarella, ma palesemente estraneo ai fatti. Però ha potuto appurare che l’estremista Alberto Volo non ha mai avuto contatti con Gladio e servizi, nonostante le sue dichiarazioni, anche televisive. E quindi si ritorna alla questione principale. Che senso ha, ancora oggi, scrivere che Giovanni Falcone aveva grande interesse per le vicende raccontate da un mitomane che invece aveva prontamente smascherato?

La procura ricorre contro l’assoluzione di Mannino. E il processo diventa infinito. Damiano Aliprandi il 27 febbraio 202 su Il Dubbio. Nonostante le due assoluzioni sulla presunta trattativa Stato-Mafia, i procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera hanno fatto ricorso in cassazione. La procura generale di Palermo non si arrende. Nonostante le due assoluzioni del processo stralcio sulla presunta trattativa Stato-Mafia nei confronti dell’ex democristiano Calogero Mannino, i procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera hanno fatto ricorso in cassazione. Ora, quindi, quest’ultima dovrà pronunciarsi sull’ammissibilità o meno del ricorso. Da ricordare che Mannino era stato giudicato da solo, in abbreviato, ed era stato scagionato sia in primo grado, dal Gup Marina Petruzzella, il 4 novembre 2015, che in secondo, il 22 luglio 2019. In 1.053 pagine, depositate il mese scorso, il collegio presieduto da Adriana Piras, a latere Massimo Corleo e la relatrice Maria Elena Gamberini, ha letteralmente smontato la tesi accusatoria. Non solo Mannino non ha commesso il fatto, ma è proprio il fatto stesso a non essere mai avvenuto. La versione dell’accusa è nota. L’iniziativa dei Ros avuta nei confronti dell’ex sindaco di Palermo “Don” Vito Ciancimino sarebbe stata, a differenza di quanto da loro sostenuto, non autonoma e non eminentemente volta a catturare i latinanti mafiosi, bensì indotta dall’allora ministro per gli interventi straordinari per il mezzogiorno Calogero Mannino, consapevole di essere nel mirino della mafia in ragione della responsabilità attribuitagli da mafiosi di non saper rispettare i patti e del catastrofico risultato conseguito in Cassazione nel maxiprocesso. Per di più l’interessamento dei due ufficiali del Ros sarebbe stato diretto a favorire i personali interessi egoistici di tipo politico di Mannino, aspirante a prendere possesso della posizione all’interno della DC lasciata libera dalla morte di Lima, Il più potente andreottiano in Sicilia. Detta trattativa sarebbe sfociata nella presentazione da parte di Riina del famigerato “papello”, che, come è noto, è stato fornito materialmente da Massimo Ciancimino (poi rivelatosi un falso) in copia agli stessi Pm nell’ottobre del 2009, ed in cui si riassumevano in dodici punti le richieste di benefici per Cosa nostra. Ma il fulcro della “trattativa” è stato scrupolosamente smontato dai giudici che hanno assolto Mannino. Quando nel ’92 imperversava l’attacco stragista deliberato dai capi corleonesi di Cosa nostra, dopo che era stato consumato l’omicidio di Salvo Lima e anche la strage in cui aveva perso la vita Giovanni Falcone, il capitano De Donno e il suo superiore colonnello Mori pensarono di andarsi a rivolgersi al politico mafioso corleonese Vito Ciancimino, i cui affari e storici legami con Riina e Provenzano erano ad essi noti in ragione della loro professione. I due ufficiali proposero a Ciancimino una interlocuzione diretta alla cattura dei latitanti. Tale colloquio con Vito Ciancimino nacque da una spontanea e indipendente iniziativa dei Ros e fu abortita sul nascere, essendosi interrotta in uno stadio in cui si era arrivati a discutere con Ciancimino della mera ipotesi di un contatto con i capi corleonesi, e avrebbe avuto come reale finalità l’acquisizione di informazioni utili al progresso delle indagini, la cattura dei grossi latitanti, senza alcuna concessione o compromesso con l’organizzazione criminale. Tale iniziativa, in realtà, era il segreto di pulcinella. Secondo i giudici che hanno assolto Mannino, dei contatti tra i Ros e Ciancimino ne erano a conoscenza lo stesso Borsellino, la dottoressa Liliana Ferraro e anche Luciano Violante. Senza contare che nel 1993, appena se ne andò l’allora capo procuratore Pietro Giammanco, di questi contatti ne venne a conoscenza anche la Procura di Palermo. Interessante l’intervento dell’avvocata Rosala Di Gregorio, ora legale di parte civile nel processo sul depistaggio che si sta celebrando a Caltanissetta: “E’ legittimo fare il ricorso in Cassazione, ma nessuno venga più a parlare di processi lunghi, di eliminazione di gradi di giudizio e altre baggianate simili. O vogliamo dire che i tre gradi sono solo prerogativa dell’accusa e fanno perdere tempo e denaro solo se li fa la Difesa?”.

Trattativa Stato-mafia: ora la Corte vuole approfondire. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 marzo 2020. Il collegio ha ammesso le richieste di nuovi testimoni e acquisizioni documentali accogliendo gran parte delle richieste dei Pg e delle difese. Il processo d’appello sulla presunta trattativa Stato-mafia è destinato ad allungarsi. Ieri la Corte ha sciolto la riserva aprendo nuovamente l’istruttoria dibattimentale. Il collegio – presidente da Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania – ha infatti ammesso le richieste di nuovi testimoni e acquisizioni documentali accogliendo gran parte delle richieste dei Pg e delle difese. Per quanto riguarda la difesa degli ex Ros Giuseppe De Donno e Mario Mori, la Corte ammette i manoscritti e verbali di interrogatorio riguardanti l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, dove si dimostrerebbe che i contatti avvenuti tra lui e i Ros non erano volti alla trattativa come ipotizzato dall’accusa, ma per la cattura dei latitanti mafiosi. Ammesso anche l’articolo dal quale Giovanni Brusca avrebbe attinto la notizia dei contatti tra i Ros e Ciancimino e che quindi dimostrerebbe una suggestione più che testimonianza diretta. Ammesso anche il verbale di interrogatorio di Giuseppe Li Pera, uno dei coinvolti nell’indagine mafia-appalti e che in quel momento era recluso al carcere di Rebibbia, condotto da Antonio Di Pietro sotto impulso dell’ex Ros Giuseppe De Donno. Sullo specifico bisogna ricordare che l’ex magistrato Di Pietro, sentito come teste nell’ottobre scorso, parlò proprio del filone mafia-appalti come causa delle stragi mafiose. «Capii allora – aveva detto l’ex pm di Mani Pulite – che Borsellino si stava occupando di questo. Cosa di cui ebbi conferma dopo tempo, quando su input del Ros andai a sentire Giuseppe Li Pera, geometra della De Eccher che mi spiegò il sistema degli appalti in Sicilia e mi fece i nomi di Angelo Siino e Salamone». Verrà approfondita, tramite l’acquisizione di ulteriori documenti, la questione della Falange armata che la sentenza di primo grado ha dato per certo che fosse opera di alcuni componenti dei servizi segreti e quindi, nel discorso presunta trattativa, considerata come espediente per rafforzare l’effetto intimidatorio della minaccia al corpo politico dello Stato. La Corte acquisirà gli atti dell’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, rivendicato per la prima volta proprio dalla Falange armata.Secondo l’ordinanza della Corte di assise di appello di Palermo dovranno essere sentiti anche, tra gli altri, l’ex capocentro del Sisde Maurizio Navarra e l’ex tenente Franco Battaglini, autore della nota riservata secondo cui Totò Riina avrebbe avuto un cellulare nella sua disponibilità in cella, a Rebibbia, nell’agosto del 1993. Da ricordare che la fonte è rimasta anonima e si aprì all’epoca proprio una inchiesta, da parte della magistratura romana, che ha poi archiviato perché tale notizia si era rivelata infondata. Per approfondire questa vicenda sarà ascolta anche Pietro Folena, all’epoca componente della commissione Antimafia. Infatti, la Corte acquisirà anche il fascicolo di archiviazione. Si esaminerà, visto che è accaduto nello stesso periodo, la vicenda del suicidio del boss mafioso Antonino Gioè. La Corte ha, infatti, ammesso gli atti sul suicidio e la lettera testamento che lasciò Gioè. Ammesse anche le deposizioni dei collaboratori Antonino Cuzzola, Salvatore Pace e Armando Palmeri, i primi tre già sentiti a Reggio Calabria nel processo alla ’ndrangheta stragista mentre Palmeri dovrà riferire sui presunti legami tra alcuni esponenti dei servizi segreti e ambienti mafiosi. La Corte ha disposto ha disposto lo “stralcio” della posizione di Massimo Ciancimino, imputato di calunnia e condannato in primo grado a 8 anni nel processo di primo grado sulla trattativa. Nelle scorse udienze la difesa di Massimo Ciancimino – gli avvocati Roberto D’Agostino e Claudia La Barbera – aveva chiesto una sentenza di non luogo a procedere «per intervenuta prescrizione, secondo i nostri calcoli, già prima della pronuncia della sentenza di primo grado». La Corte di assise ha deciso che lo “stralcio” sarà trattato nell’udienza del prossimo 16 aprile. Probabile che la posizione di Ciancimino junior si avvii verso la prescrizione.

Accanimento dei Pm su Mannino, la sua colpa? Non essere stato ucciso. Paolo Guzzanti de Il Riformista l'1 Marzo 2020. Benché abbiamo passato anni insieme in Parlamento, quando leggo il suo nome penso sempre a quel giorno lontano in cui uscii dal suo ufficio di ministro in via Veneto, dove ero andato a intervistarlo per la prima volta con il proposito di metterlo in difficoltà perché era già sotto i riflettori. Alla fine, mise in difficoltà me perché ebbi la percezione diretta, umana, del fatto che avevo di fronte un galantuomo e so bene che questa non è una prova. Il mestiere di giornalista è (o almeno era) uno di quelli che possono mettere in crisi la tua buona fede, la tua coscienza, la lealtà. Calogero Mannino ha sempre avuto quel portamento di siciliano triste ma combattivo, forte eppure rassegnato a essere periodicamente portato in cortile, legato a un palo per veder schierarsi un plotone d’esecuzione. Ricordo che quella prima volta tornai alla mia macchina parcheggiata in qualche divieto di sosta dietro una contravvenzione e mi dissi: ma questo è un uomo innocente. Lo dissi – ed era una valutazione interna umana e anche psicologica – anche davanti a Contrada. E al prefetto Mori. Tutte persone caricate di colpe terribili e disonorevoli con toni derisori e sprezzanti. Mannino è stato proclamato ancora una volta innocente e non so quante volte è già successo, del funesto carico di accuse comprese in un teorema ideologico e opaco: quello di una pretesa trattativa Stato-mafia. Il lettore mi perdonerà se ancora una volta esprimerò una considerazione “opinionated”, come dicono gli inglesi: cioè schierata, perché sono sicuro che sia schierata dalla la parte giusta. Lo hanno accusato – pensate se fosse capitato a voi – di essersi rivolto allo Stato per essere protetto temendo di essere sulla lista nera di Cosa Nostra per essere assassinato. Non basta: il capo d’accusa, per funzionare, come la degradazione impartita a Dreyfuss che fu spogliato di tutti i suoi gradi e segni dell’onore davanti alla truppa, è stato rafforzato con l’aggravante di essere sulla lista nera della mafia per aver fatto uno sgarro alla mafia stessa e cioè per non aver mantenuto promesse criminali, lui che rappresentava lo Stato sia come membro del Parlamento repubblicano che come ministro e sottosegretario di Stato. La sentenza del 14 gennaio scorso afferma «l’assoluta estraneità dell’imputato a tutte le condotte materiali contestategli» e che «se davvero l’imputato fosse stato così vicino a Cosa Nostra da essere un suo stabile interlocutore politico, non avrebbe di certo avuto bisogno, per proporle un patto per sé ‘salvifico’, né dei militari del Ros né del suo acerrimo nemico politico, Vito Ciancimino, ben potendo presentarsi egli stesso ai vertici del sodalizio come prestigioso mediatore (all’epoca era ancora Ministro) per sé stesso e per lo Stato italiano». Ricordo bene la scena in Parlamento: Calogero Mannino era lì, sui banchi e a ogni sua assoluzione celebrata con un applauso, rispondeva con estremo pudore. È un uomo certamente molto ferito ma anche molto forte, uno di quei caratteri siciliani fatti di understatement, toni bassi e nessuna concessione scenica. La mia opinione, è che la trattativa Stato-mafia sia un’invenzione e credo anche di intuire a che cosa fosse funzionale. Quindi, tanto vale che lo dica ancora una volta. Il teorema della “trattativa” è servito per dare una sistemata sotto un manto di apparente decenza a un fatto che tanto decente non è. E cioè che tutto quanto è accaduto da Capaci e via D’Amelio in poi, fino alle bombe di Roma e Firenze e tutta quella parata di violenze totalmente estranee alla storia degli usi e costumi della mafia, sia stato fatto passare per una guerra alla pari fra Stato e Mafia, un po’ come se fosse stata la guerra tra Stato e Brigate Rosse. Dopo quei fatti, scoppiò la Grande Bonaccia di Cosa Nostra che era di colpo diventata muta e inerte. Mai più un morto ammazzato, una bomba, un attentato, se non per faccende minori. Conclusione? Lo Stato aveva fatto un patto col diavolo mafioso. A che prezzo? E qui cascano tutti gli asini: tutti i Totò Riina e compagnia sono morti in galera e Cosa Nostra sul piano internazionale non vale una cicca rispetto alla ‘ndrangheta calabrese, forte in tutti i continenti. Quale grossa merda nasconde questa storia? Abbiamo una opinione già espressa tante volte e confermata anche dall’ex procuratore generale della Federazione russa Valentin Stepankov, secondo cui l’omicidio di Giovanni Falcone – e di conseguenza quello di Paolo Borsellino – non furono affatto due mostruosi capolavori autoctoni di Cosa Nostra, ma una multiproprietà nata dall’idea di Cossiga, appoggiata allora da Andreotti, di incaricare Falcone, privo dei poteri di procuratore in quanto direttore delle carceri a Roma, di aiutare i procuratori russi a bloccare il riciclaggio del tesoro del Pcus in Sicilia. L’unica cosa che si sa di questa storia è che, benché siano ancora vivi sia Stepankov che l’ex ambasciatore russo Anatoly Adamishin che chiese aiuto a Cossiga e ad Andreotti, non risulta che alcuna procura italiana che si sia occupata della faccenda abbia aperto un fascicolo e avviato indagini. Non si sposano delle teorie a freddo e infatti non sposo alcuna teoria: sto a quello che mi dissero Cossiga e Andreotti e che ho scritto molte volte. Il punto è: bisognava sostenere una tesi. Che l’assordante silenzio di Cosa Nostra, di fatto annichilita, fosse dovuto a una trattativa. E che se la trattativa ha avuto successo, come dimostra il crollo verticale dei grandi crimini e delle stragi, ciò significa che un prezzo è stato pagato, che qualcuno ha trattato, che l’onore della Repubblica è stato venduto e che dunque alcuni uomini che rappresentano lo Stato, sono colpevoli di intelligenza col nemico. Calogero Mannino è stato prescelto come una delle vittime sacrificali: è siciliano, era democristiano e inoltre è stato un vero nemico della mafia, tanto da diventare un bersaglio dei mafiosi. Queste minacce, come è stato scritto nella sentenza, sono “pacifiche e pubbliche”, sicché avrebbero dovuto illuminare Calogero Mannino come una vittima della violenza mafiosa. Ma, ecco qui il magnifico gioco di prestigio dei “trattativisti”: se tu sei minacciato dalla mafia e chiedi allo Stato di proteggerti, vuol dire che hai fatto arrabbiare la mafia con uno sgarro. Se sei una vittima, sei un carnefice. Non puoi sfuggire al teorema. Ci serve qualcuno da accusare di aver trattato, tu dovevi morire ma non sei morto, dunque hai trattato. È infernale, ma è vero. È un teorema ed è anche un martirio applicato a una persona. In tutto questo porcaio fu coinvolto anche l’ex presidente della Camera Luciano Violante, uno storico ex Procuratore della Repubblica, che non dette alcuna importanza a un libro scritto da Vito Ciancimino sull’omicidio di Salvo Lima, e che nel 2015 testimoniò su quel che gli aveva detto l’allora ufficiale del Ros Mario Mori a proposito di queste famose rivelazioni che aveva trovato inconsistenti: «Mi fu detto che Ciancimino rinunciava al colloquio diretto con me. Aspettai che arrivasse una cosa formale, la lettera di Ciancimino, e poi informai la Commissione (antimafia). Nel terzo incontro invece mi chiese del libro e dissi che lo ritenevo inutile. Non si parlò di nulla di rilevante e non si insistette per il colloquio riservato anche se si disse che si era persa una occasione». È tutto nelle motivazioni della sentenza di assoluzione di Calogero Mannino e che illustrano l’inconsistenza di un mare di chiacchiere che fanno da sfondo a questo paesaggio spettrale e surreale su cui si sarebbe mossa la trattativa. Questo non è un articolo sulla mafia e l’antimafia, ma soltanto un ricordo personale di un uomo che va considerato un sopravvissuto. È un uomo che è stato tenacemente e crudelmente accusato di delitti infami e che è stato sempre assolto con formula piena. E questo perché il teorema è soltanto un teorema e non è una rappresentazione della realtà. Anzi, per quel che ci sembra di capire, tutta l’architettura che è stata smontata dalla sentenza che ha assolto Mannino mostra la sua natura teatrale, un prefabbricato in cui si è abusivamente insediato l’immaginario collettivo di una vicenda di cui non mancano soltanto le prove, ma la logica: chi, quando, come e perché. E, più che altro, che cosa. Noi ci permettiamo di aggiungere, in appendice a questo articolo un breve ricordo. Quando lo storico ed ex deputato Giancarlo Lehner annunciò in una intervista di voler scrivere un libro sulla vera storia della morte di Giovanni Falcone connessa con il suo incarico informale sull’oro di Mosca riciclato in Italia per cui l’ambasciatore Adamishin era andato a protestare da Cossiga (che lo ha scritto anche nelle sue memorie) Giulio Andreotti lo invitò nel suo studio e gli propose di fargli ottenere i segretissimi documenti con cui lui, in qualità di presidente del Consiglio, aveva fornito a Falcone le credenziali necessarie per la sua indagine con i magistrati russi. Lehner ricevette poi una seconda comunicazione da Andreotti il quale gli disse: «Fossi in lei, rinuncerei al suo libro su Falcone. Alla Farnesina, dove non si perde neanche una cartolina illustrata, mi dicono che i documenti che ho chiesto su Falcone non si trovano. Questo vuol dire che è meglio lasciar perdere». Che cosa c’entra con l’assoluzione e la persecuzione di Mannino? Mi sembra – e ne sono profondamente convinto per quel che mi disse il presidente della Repubblica – che nessuno si sia dedicato al movente di quella strage concepita come un’azione militare da commandos. Suprema vendetta a posteriori contro il grande nemico del maxiprocesso? Suvvia: la mafia non dà mai premi Oscar alla carriera. Uccide sempre e soltanto per motivi gravi e immediati. Valentin Stepankov, saputo che cosa fosse successo a Falcone si dimise dalla carica di procuratore generale della Federazione russa e scrive libri. Anche utili. E sulla strage di via D’Amelio sembra che siamo eternamente in presenza di un gioco di depistaggi. E le stranissime vicende in trasferta a Roma e Firenze?  E si indaga sul perché Cosa Nostra sia morta all’ergastolo senza fiatare? E come mai un fior di galantuomo come Calogero Mannino, ma anche Mario Mori e altri, sia stato sottoposto alle forche caudine della pretesa trattativa per essere finalmente riconosciuto totalmente innocente? Possibile che a nessuno suoni in testa qualche campanello?

Trattativa Stato-mafia inesistente, dopo 14 assoluzioni i pm si accaniscono contro Mannino. Tiziana Maiolo de Il Riformista il  28 Febbraio 2020. Non si arrendono mai. Perseguono fino all’ultimo grado di giudizio le proprie «ambizioni storiografiche», come disse un giorno il professor Giovanni Fiandaca. Sono gli uomini della procura generale di Palermo guidata da Roberto Scarpinato. Dopo lo schiaffo ricevuto dalla Corte d’appello che, non solo ha assolto per la seconda volta l’ex ministro Calogero Mannino, ma ha smantellato tutto il film della trattativa Stato-mafia, i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera danno l’assalto alla cassazione. Non si rassegnano perché tutto il castello accusatorio messo in piedi, un tempo dall’ex pm Ingroia e poi da Di Matteo, sta crollando miseramente. Sarebbero pronti a ricorrere fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo, pur di non mollare l’osso. Paiono non tenere in nessun conto concetti come «l’inconsistenza e l’incongruenza e l’illogicità» dell’intero sistema accusatorio con cui i giudici della Corte d’appello hanno bocciato l’intero lavoro della procura con i suoi valletti della grancassa mediatica. Tempi duri per la procura generale di Roberto Scarpinato. La trattativa Stato-mafia non c’è mai stata, ha sancito una sentenza che non si è limitata ad assolvere Mannino dall’accusa di aver tramato contro lo Stato e contro un governo di cui faceva parte stipulando un patto scellerato con Cosa Nostra per salvarsi la vita. E andrebbero rilette anche le cinquecento pagine con cui la gup Marzia Petruzzella già in primo grado aveva assolto l’ex ministro dall’accusa di «violenza o minaccia a corpo politico dello Stato». Aveva liquidato le fatiche di Ingroia e Di Matteo come fantasiosa storiografia, ricordando quante volte a Palermo come a Caltanissetta gruppi di pubblici ministeri avevano percorso l’inutile strada della ricerca di regie occulte dietro le stragi di mafia, per essere poi messi di fronte alle inevitabili archiviazioni delle inchieste: nel 2002 e nel 2003 e nel 2004. Ma ci avevano riprovato nel 2008. Le motivazioni della sentenza d’appello erano anche un vero ribaltamento della decisione della Corte d’assise che ha condannato in primo grado i coimputati di Mannino, l’unico che si era abilmente sottratto all’enfasi del circo mediatico-giudiziario, scegliendo per sé il rito abbreviato. Nei confronti degli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e del senatore Marcello dell’Utri è in corso il processo d’appello, che corre il rischio, agli occhi dell’accusa, di essere contagiato in positivo dal verdetto che ha assolto Mannino. Dove è anche scritto in modo esplicito che ciò che un gruppetto di magistrati aveva scambiato per trattativa era invece «un’azione investigativa di polizia giudiziaria» finalizzata alla cattura dei boss latitanti, in particolare Totò Riina. E chi ha arrestato il capo di Cosa nostra? Appare quanto mai chiaro che la scommessa di oggi con il ricorso in cassazione è finalizzata anche e soprattutto a non vanificare, con una sentenza d’appello che riformasse quella del primo grado, le condanne agli ex vertici dei carabinieri e a Marcello Dell’Utri, la cui presenza in aula è pur sempre utile per dare a tutto il carrozzone processuale quella patina di politicità che consente di arrivare a Berlusconi. Inutile girarci intorno, tutta questa vicenda è puro tentativo di riscrivere la storia come storia criminale. L’ha capito bene il presidente della Corte d’assise d’appello che sta processando i “corpi intermedi” e l’ex senatore di Forza Italia. Il giudice Angelo Pellino nella prima udienza ha messo subito le mani avanti con un discorso irrituale in cui ha spiegato che «può accadere che in un processo che riguarda fatti molto eclatanti la riscrittura di un pezzo di storia di un Paese sia un fatto inevitabile», concludendo poi che questa riscrittura della storia «non deve essere cercata». Ma rimane il fatto che, soprattutto per chi, come il giudice Pellino presiede una Corte d’assise composta in gran parte da giudici popolari che non sono tecnici del diritto e quindi più sensibili alla gogna mediatica, non è facile spiegare la genesi e il contenuto di questo processo. Dovrebbe convincere dei normali cittadini del fatto che, a partire dal 1992, un gruppo di mafiosi, di politici e di carabinieri si sarebbe messo intorno a un tavolo e avrebbe stretto un patto scellerato: da una parte Cosa Nostra avrebbe salvato la vita a personaggi come Calogero Mannino, reo di aver sempre combattuto le cosche, e dall’altra gli uomini d’onore avrebbero avuto un alleggerimento delle loro condizioni in carcere. La prova? Il fatto che il ministro Conso, il 2 novembre 1993 non avesse rinnovato 300 provvedimenti di sottoposizione al regime di 41 bis nei confronti di una serie di detenuti. Strana prova, visto che di quei 300 solo 5 erano detenuti per fatti legati alla mafia, e comunque non erano capi né capetti. Inoltre c’era stata una sentenza della Corte costituzionale a sostenere l’iniziativa del ministro, oltre che pressanti richieste sia dei giudici di sorveglianza che degli stessi cappellani delle carceri. Era stata una minima compensazione per quel che avevano subito una serie di detenuti, mafiosi e non mafiosi, torturati nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. Calogero Mannino sarà così nuovamente alla sbarra, sia pur metaforica. Forse a sperare che, dopo le assoluzioni di primo e secondo grado, ci sia ancora un giudice anche in cassazione. Magari un nuovo Corrado Carnevale.

L’assoluzione di Mannino ha cancellato il vecchio teorema Mafia-Dc. Giuseppe Gargani il 7 febbraio 2020 su Il Dubbio. La sentenza della Corte di Appello di Palermo del 20 gennaio 2020 ha prosciolto l’ex ministro democristiano perché “il fatto non sussiste”. La sentenza della Corte di Appello di Palermo del 20 gennaio 2020 ha dichiarato la assoluzione dell’ex ministro Mannino perché “il fatto non sussiste ”, formula che di per sé indica la pretestuosità del processo il quale non doveva essere celebrato in mancanza appunto del “fatto”. La straordinaria notizia è stata pubblicata e commentata da pochissimi organi di stampa, ignorata dai grandi giornali, ma non può essere dimenticata perché con le sue ineccepibili motivazioni la sentenza ha cancellato trent’anni di teoremi arbitrari e inconsistenti che accreditavano la contiguità di un partito con la delinquenza organizzata. Negli ultimi mesi, con sempre più insistenza si discute di un ruolo politico anomalo che la magistratura ha assunto, non in linea con la Costituzione per cui ci troveremmo in presenza di una Repubblica giudiziaria. Alcuni di noi hanno evidenziato questa anomalia dagli anni 80 e hanno, inoltre, espresso critiche anche forti per la delega che il legislatore ha concesso al potere giudiziario il quale si è assunto l’onere! di adottare, con le sentenze, decisioni che spettano al potere legislativo. Così è avvenuto dagli anni 90 per Tangentopoli e così è avvenuto per “mafiopoli“. Oggi a distanza di tanti anni possiamo dire che le indagini di Tangentopoli hanno avuto conferma nelle sentenze dei giudici soltanto per il 30 / 31% non costituendo prove per una possibile condanna; e che le indagini per “mafiopoli”, soprattutto con la sentenza dell’onorevole Mannino, sono state considerate fasulle, con una sconfitta dei pubblici ministeri che si sono succeduti nel tempo e con una condanna del loro comportamento. Per queste ragioni la sentenza non può essere dimenticata perché non riguarda solo la persona di Mannino, che forse dopo trent’anni può ritrovare un po’ di serenità! nel suo animo lacerato, ma riguarda il partito della DC in primo luogo e larga parte della classe dirigente che insieme a Mannino in questi lunghi anni hanno combattuto in tutti modi la delinquenza organizzata. Dobbiamo prendere atto, dunque, sia pure nell’anomalia prima denunziata, che i giudici hanno fatto giustizia della magistratura inquirente e hanno interpretato gli avvenimenti con il dovuto rigore logico. È doveroso dare atto al collegio della Corte d’Appello del difficilissimo lavoro svolto e della grande intelligenza nell’aver interpretato i fatti reali districandosi in una selva di supposizioni, di illazioni e di false testimonianze alimentate per trent’anni da teoremi bislacchi che sono serviti soltanto ad inquinare il clima sociale. L’onorevole Mannino dunque non è innocente, è estraneo, è “vittima della mafia”; ha rappresentato il partito nella sua costante battaglia in Sicilia e in Italia, e ha allontanato dal partito le posizioni compromesse o contigue con la mafia. A questo punto la domanda è: come è potuto avvenire tutto ciò, come è stata possibile una deviazione delle indagini così smaccata da rendere martiri alcuni servitori dello Stato e da distorcere il significato degli avvenimenti in maniera così “illogica”! Per rispondere a questa domanda, prima di fare alcuni commenti doverosi sulle motivazioni della sentenza, è necessario dare alcune spiegazioni su un piano più generale. Bisogna rendersi conto di quello che è avvenuto sin dagli anni 70/ 80 nel rapporto tra politica e giustizia per capire come sia stato possibile negli anni 90 una resa del potere politico e addirittura una sorta di sua rinunzia ad esercitare una funzione di indirizzo, di mediazione e di riferimento per le aspettative dei cittadini che hanno alimentato l’antipolitica e hanno avvilito le istituzioni Le indagini dei pubblici ministeri hanno consentito una utilizzazione politica dell’operato della magistratura e le questioni giudiziarie hanno alimentato lo scontro politico. La distinzione tra giustizia e politica è una conquista della civiltà del diritto, che ha consentito l’evoluzione dello Stato democratico e il rapporto tra giustizia e libertà, tra giustizia e diritto, ed è coretto se fa riferimento alla cultura della divisione dei poteri. Nella cultura italiana bisogna riconoscerlo e in maniera più marcata anche oggi, esiste una tendenza ad allontanarsi dalla civiltà liberale, il che si riflette nelle istituzioni e nella giustizia. Sin dagli anni ‘ 80, dunque, vi è stata una crisi del rapporto tra potere politico e potere giudiziario perché il rapporto tra i due poteri andava perdendo sempre più le caratteristiche istituzionali e accentuava gli aspetti politici e partitici. Alcuni di noi, pochi in verità, hanno fatto battaglie per scongiurare un grave pericolo, quello di un’intesa tra limitati settori della magistratura politicizzati e i partiti della sinistra, del PCI in particolare, che, inseguendo una strategia giudiziaria per la conquista del potere hanno influenzato l’azione dei giudici, immaginando di sconfiggere i partiti della maggioranza – non essendo riusciti a sconfiggerli con il confronto elettorale. La conclusione è appunto che quella che viene definita come “rivoluzione giudiziaria” altro non è stata che una banale e incerta volontà di conquista del potere da parte di una sinistra che, rinunziando a fare una profonda revisione culturale e politica della propria storia, ha rinnegato genericamente il marxismo ma ha enfatizzato e utilizzato il giustizialismo per cavalcare la “questione morale”, immaginando di consolidare la sua posizione come partito del popolo. Insomma, dopo le sconfitte degli ultimi cinquant’anni la sinistra italiana ha ritenuto di legittimare la sua presenza su una presunta diversità morale riconosciuta da minoranze giudiziarie molto attive e dalla stampa delle grandi famiglie faziosamente schierate per garantire una loro impunità. Troppo poco per chi pretendeva di governare stabilmente un paese industrializzato come l’Italia! e infatti il tentativo è fallito. È dunque questa la premessa culturale che ha consentito una funzione della magistratura fuori dalle regole istituzionali, ideologizzando il suo ruolo come un ruolo politico non al di sopra delle parti...La classe dirigente politica ha assistito in maniera passiva e remissiva o compiaciuta, aggravando ancora di più la situazione e allontanando ancora di più i cittadini dalle istituzioni. Il magistrato Falcone è stato l’unico che ha denunziato ad alta voce questo metodo, e per questo è stato osteggiato: egli aveva con lucidità il quadro della situazione e ha manifestato tante sue considerazioni che io ho riportato nel 1998 in un libro intitolato “In nome dei pubblici ministeri” ispirato anche da quello che lui mi diceva. È estremamente istruttivo riportare alcuni passi di quel libro che avrebbero dovuto ispirare le indagini giudiziarie e che oggi appaiono rivelatrici della lungimiranza di Falcone. Il quale esprimeva giudizi durissimi sui reati associativi, perché credeva nelle indagini che producono prove, e cercava riscontri materiali delle dichiarazioni verbali. Falcone immaginava il concorso esterno all’organizzazione mafiosa, come presupposto per un processo nel quale bisognava contestare reati concreti di attività mafiose. Nel suo intervento contro la zona grigia contigua alla mafia, ha evitato sempre eccessi inquisitori rivelando, che il “partito istituzionale dei pm” venerano il famoso e idolatrato art. 416 bis come fosse l’unico presidio nella lotta alla mafia”. “Non si potrà ancora a lungo”, diceva più avanti, "continuare a punire il vecchio delitto di associazione in quanto tale, ma bisognerà orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici.” Per essere ancora più chiaro, Falcone aggiungeva una smentita categorica del cosiddetto “terzo livello” perché “non esiste ombra di prova o di indizio che suffraghi l’ipotesi di un vertice segreto che si serve della mafia, trasformata in un semplice braccio armato di trame politiche”; aggiungeva ancora che: “le indagini ostinate sul “terzo livello“rallentano quelle nei confronti della mafia vera e propria”. Quanto descritto, quasi con rabbia, da Giovanni Falcone è esattamente quello che è successo a Calogero Mannino il quale non avrebbe mai potuto immaginare che Mannino sarebbe stato accusato di concorso con la mafia. L’on. Mannino ha subito vari processi per concorso con la mafia che la Cassazione già nel 2005 ha cancellato con motivazioni limpide, accogliendo la richiesta del Procuratore Generale che dichiarò che nella sentenza della Corte d’Appello di Palermo “non c’è nulla” e “la sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli editori giudiziari!” Ma i pubblici ministeri sconfitti nel 2010 hanno continuato le loro iniziative coinvolgendo Mannino della trattativa tra lo Stato e la mafia di cui abbiamo parlato all’inizio e le motivazioni della sentenza del gennaio scorso sono esemplari e indicative. La sentenza stabilisce che Mannino non è finito nel mirino della mafia a causa di sue presunte e indimostrate promesse non mantenute ( addirittura, quella del buon esito del primo maxi processo! ) ma, al contrario, è stato vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a “cosa nostra” quale esponente del governo nel 1991." "Scrivono i giudici che è “indimostrato il dato fattuale, la tesi della procura con riguardo alla posizione del Mannino ( in ordine all’input della trattativa ed allo specifico segmento della veicolazione da parte sua della minaccia allo Stato) si appalesa non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti, con la quale non combacia da qualunque punto di vista la si voglia guardare". Quindi per la Corte d’Appello di Palermo è stata acclarata l’assoluta estraneità di Mannino da tutte le condotte materiali contestategli a prescindere da una valutazione più complessiva – sia dal punto di vista della ricostruzione storica, sia di quella giuridica che della cosiddetta trattativa Stato – mafia". Se i pubblici ministeri avessero ascoltato la lezione di Falcone e avessero valutato attentamente le varie deposizione nei processi tra le quali quelle mie personali, di una persona cioè che ha seguito con attenzione e rispetto tutta l’attività politica di Mannino, avrebbero capito che in Parlamento e al Governo egli era il regista delle iniziative legislative e delle misure governative contro la mafia organizzata e i processi non andavano celebrati perché i “fatti” non esistevano. La sentenza va approfondita, e commentata perché contribuisce a scrivere la storia giudiziaria e dunque la storia politica del nostro paese. La Fondazione giuridica che ho l’onore di presiedere organizzerà un seminario per spiegare la vera storia politica e i comportamenti dei partiti, rifiutando una condanna generica e ingiusta della classe dirigente dell’epoca.

Mafia, Mannino è stato assolto ma la magistratura non può riscrivere la storia. La Repubblica l'11/12/2020. Quando parliamo di mafia non possiamo più affidarci solo alle sentenze della magistratura italiana. E' troppo riduttivo, è troppo fuorviante per spiegare cosa è o cosa è stata la complessità della Sicilia con il bollo di un tribunale o di una corte di assise. La sentenza che ha assolto per sempre uno degli uomini più potenti della prima Repubblica ci spiega che dobbiamo cambiare passo, cultura, cambiare respiro per capire i sistemi di potere e le collusioni fra le "classi pericolose" (che in Italia si chiamano Cosa Nostra, 'Ndrangheta, Camorra), ci spiega che la "via giudiziaria" non basta più per raccontare personaggi e contesti. Il verdetto di assoluzione pronunciato dalla Corte di Cassazione per l'ex ministro Calogero Mannino nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia - l'accusa era di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato - non ha nulla di scandaloso o di eccessivo. E' solo e semplicemente una decisione dei giudici che hanno vagliato indizi e prove giungendo a una onorevole conclusione. Dopo l'assoluzione di primo grado, dopo l'assoluzione di appello. E se da una parte i giudici hanno stabilito che l'ex ministro non è mai finito nel mirino della mafia siciliana per le "promesse non mantenute" per il buon esito del maxi processo, dall'altra non possiamo ignorare o cancellare chi è stato per più di una ventina di anni Calogero Mannino. Quale potere ha rappresentato, quale tipo di relazioni ha intessuto, quali pericolosi collegamenti ha subito o a volte anche cercato. Calogero Mannino, riferendosi ai procuratori che l'hanno trascinato in giudizio molti anni fa, oggi parla di "esercitazioni di fantasia" e di "ossessione persecutoria di alcuni pubblici ministeri" e che "per fortuna esistono magistrati liberi". L'ex ministro non sarà il primo anello della trattativa Stato-mafia consumata al tempo delle stragi, non ha esercitato pressioni su quegli ufficiali del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri che tramarono nelle settimane fra l'uccisione di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, ma ci sembra veramente sfrenato considerarlo ora - dopo l'assoluzione - un campione dell'antimafia o una vittima assoluta come lui vorrebbe apparire. Tutti in Sicilia sanno perfettamente chi era lui o chi era Salvo Lima, il fidatissimo proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia. Due mondi diversi, che però ogni tanto si sfioravano e si toccavano. Dalle parti di Palermo, soprattutto dalle parti di Agrigento. Sono passati quasi trent'anni dai massacri di Capaci e di via Mariano D'Amelio, un certo furore è svanito, lo Stato ha ripreso il suo ritmo, la magistratura giudicante non è più piegata implacabilmente sulle posizioni delle procure distrettuali, ogni opinione sulla materia è degna. Anche sui ras della politica siciliana a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta. Anche sui matrimoni dei rampolli dei grandi capimafia e con i testimoni eccellenti (come Calogero Mannino) che erano cerimoniosi là a presenziare. Massimo rispetto sulla sentenza, massimo rispetto sui giudici della sesta sezione penale della Cassazione. Ma la magistratura non può riscrivere la storia, non può dirci cosa abbiamo visto e come abbiamo vissuto in quegli anni in Sicilia.

Mannino, il recordman della giustizia italiana: 15 assoluzioni in 25 anni. "Mai citata l'amicizia con Falcone per difendermi". Salvo Palazzolo su La Repubblica l'11/12/2020. Quindici assoluzioni in 25 anni di processi. L’ex ministro democristiano Calogero Mannino è entrato oggi nel guinness dei primati della giustizia italiana. L’ultima assoluzione, oggi, della Corte di Cassazione, nel processo in abbreviato per la “Trattativa Stato-mafia”, che pure ha visto delle condanne pesanti col rito ordinario per altri autorevoli rappresentanti dello Stato: gli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, accusati di aver intavolato un dialogo segreto con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. L’accusa sosteneva che Mannino si sarebbe rivolto ai carabinieri dopo le minacce della mafia. E che i mafiosi avrebbero cambiato obiettivi da eliminare: non più i politici, ma i magistrati come Falcone e Borsellino. Tesi spazzata via in tutti i gradi di giudizio. Prima ancora, Mannino era stato assolto anche dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, processo per cui era finito in carcere. Assoluzione pure nel processo per la Tangentopoli siciliana. E nel processo per le misure di prevenzione. Oggi, Mannino parla di “via crucis”: «In un paese civile nessun imputato dovrebbe aspettare un periodo così lungo per essere assolto. Venticinque anni sono davvero tanti, troppi. Il mio impegno nella vita politica è stato interrotto. Il tema della giustizia resta centrale nel nostro Paese». Mannino parla comunque di “giudici liberi”. Resta però l’amarezza: «Da assolto ho già scontato una pena troppo lunga», dice. In carcere ci restò per nove mesi, altri tredici li trascorse agli arresti domiciliari. Alcuni pentiti parlavano delle “amicizie pericolose” di Mannino. Ma alla fine del processo arrivò la prima assoluzione, “perché il fatto non sussiste”.  E quando in Cassazione arrivò invece la pronuncia di altri giudici, questa volta di condanna, il procuratore generale ribadì: “Nella sentenza di condanna di Mannino non c'è nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c'è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che possa valere a sostanziare l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta”. Per una condanna non bastavano le voci, non bastavano i de relato dei pentiti, non bastavano neanche le frequentazioni con personaggi equivoci.

I giudici d’appello del processo Trattativa sono andati anche oltre, riscrivendo la narrazione della figura di Mannino che emergeva dai verbali dei pentiti: “Non è stato affatto dimostrato – hanno scritto – che Mannino fosse finito anch'egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo Maxiprocesso) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno”. Mannino uomo dei record per le assoluzioni. Ma ne ha battuto anche un altro di record fra gli imputati di mafia: non ha mai citato l’amicizia con Giovanni Falcone o con altre vittime eccellenti della mafia per difendersi. Mai. Solo di recente ha raccontato in un’intervista all’AdnKronos: “Fui io a portare il giudice Giovanni Falcone all’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Una mattina alle 8 Cossiga aprì la porta e si ritrovò me e Falcone. Il magistrato era molto amareggiato per la mancata nomina a giudice istruttore, ma anche al Csm, e voleva andare all’Onu, a Vienna. Cossiga lo fermò e gli disse che doveva continuare ad occuparsi di mafia”. Ma neanche questa volta Mannino ha parlato del rapporto di amicizia con il giudice Falcone per sostenere le ragioni della sua difesa.

Marcello Sorgi per la Stampa il 12 dicembre 2020. Chi si ricorda più di Calogero Mannino, l' ex-ministro dc siciliano inquisito 29 anni fa con l' accusa di essere uno dei capi della trattativa Stato-mafia, e solo ieri assolto definitivamente - e pienamente - in Cassazione? Ventinove anni sono metà di una vita, e sembra lontano un secolo il giorno in cui Mannino fu arrestato sulla base delle solite dichiarazioni di pentiti - nel suo caso, non certo dei Buscetta. C' era ancora la Prima Repubblica. Non c' era ancora stata Tangentopoli. L' Italia era governata da un pentapartito a guida Andreotti, ignaro anche lui che di lì poco altre accuse di mafia sarebbero piovute sul suo capo. Mannino era allora un cinquantenne giunto a un punto strategico della sua esperienza: aveva fatto il ministro, era tornato in Sicilia come segretario regionale dopo l' arresto e l' espulsione dalla Dc di Vito Ciancimino - l' ex sindaco di Palermo, lui sì un mafioso fatto e finito -, e si era impegnato in una campagna di rinnovamento e di pulizia del partito con parole d' ordine antimafia. Anche per questo era entrato nel mirino di Cosa Nostra, che lo aveva messo tra gli uomini dello Stato da eliminare, per continuare la mattanza che dalla fine degli Anni '70 tanti poliziotti, magistrati, politici aveva visto cadere. Come abbia potuto un uomo come Mannino finire invece in cima all' elenco delle personalità da arrestare, per contestargli il tentativo di trovare un compromesso tra Stato e mafia, non s' è mai capito. Ma Cosa Nostra ha diversi modi di colpire, tra cui quello di "mascariare": di rovinare, cioè, macchiandogli la reputazione, i propri avversari. Quando Mannino fu inquisito, Giovanni Falcone, allora collaboratore della "Stampa", inaspettatamente scrisse un articolo in sua difesa, che i magistrati che lo hanno giudicato in primo grado si sono sempre rifiutati di prendere in esame, solo perché non faceva esplicitamente il suo nome. Comunque, alla fine, tutto è bene quel che finisce bene. Anche se nessuno potrà ridargli i 29 anni passati nelle aule di giustizia, i giudici della Cassazione hanno almeno restituito a Mannino l' onore. Vicenda emblematica e tragica la sua, certo avrebbe interessato Leonardo Sciascia, se fosse ancora vivo. La storia di uno che si batte contro la mafia e viene arrestato e processato come mafioso.

La Cassazione conferma l'assoluzione. Mannino è innocente ed è stato perseguitato per 25 anni da Pm ossessionati. Angela Stella su Il Riformista il 12 Dicembre 2020. È stata confermata ieri dalla Corte di Cassazione l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. L’uomo era accusato di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. I supremi giudici della Sesta sezione penale hanno dichiarato inammissibile il ricorso proposto dai sostituti procuratori generali di Palermo, Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, contro il proscioglimento di Mannino emesso dalla Corte di Appello di Palermo il 22 luglio 2019. Anche in primo grado l’ex politico democristiano era stato assolto. Ci si trovava dunque in presenza di una “doppia conforme assolutoria”, ossia per ben due volte l’imputato era stato assolto nel merito. Questo punto è importante per capire l’ostinazione cieca dei pg di Palermo nel ricorrere in Cassazione. Infatti, come ha evidenziato la Procura generale della Cassazione nel dichiarare inammissibili i diciannove motivi di ricorso presentati dalla Procura generale di Palermo, la doppia conforme assolutoria, come stabilito dalla Commissione Canzio, «si basa su una ricostruzione probatoria del fatto già scrutinata nel merito, in modo concorde, da due giudici in successivi gradi di giudizio» e dunque «rafforza notevolmente la presunzione di non colpevolezza dell’imputato». Ciò, insieme a precedenti sentenze di legittimità e convenzioni internazionali, avrebbe dovuto indurre i pg di Palermo a non opporsi alla sentenza di assoluzione; e invece, addirittura, come si legge sempre nella requisitoria del Pg della Cassazione, «il ricorso presenta un vizio di fondo: esso si traduce in una rilettura, nell’ottica dell’accusa, del significato (cioè dell’interpretazione) da attribuire agli elementi di prova acquisiti (ovvero che si sperava di acquisire), priva spesso di reale confronto con la motivazione addotta dal giudice dell’appello, che rimane sempre sullo sfondo». Su questo punto interviene al Riformista anche l’avvocata Grazia Volo, che da trent’anni segue le vicende giudiziarie di Mannino. La legale innanzitutto ci dice che l’assoluzione «rappresenta la inevitabile conclusione di una sorta di ossessione giudiziaria a cui ci si dovrebbe sottrarre». E il riferimento è proprio alla “doppia conforme assolutoria”: «una modifica normativa (la riforma Orlando del 2017, ndr) – ci spiega l’avvocato Volo – ha stabilito che il ricorso per Cassazione da parte dell’ufficio del Pubblico Ministero, nel momento in cui interviene dopo una doppia sentenza conforme di assoluzione nel merito, può essere proposto solo per violazione di legge. E penso che questo sia un discorso equilibrato. Invece in questo caso la Procura generale di Palermo ha voluto sollevare questione di legittimità costituzionale per avere l’abrogazione della riforma stessa e ottenere la ricorribilità anche nel merito, presentando subito i motivi di ricorso. Tuttavia, non solo è stata respinta la questione di legittimità, ma i motivi sono stati ritenuti inammisibili perché presentati contra legem. Tutto ciò denota un atteggiamento molto pervicace di perseguire, a dispetto di tutto, il proprio convincimento». Non si sbaglia dunque a pensare che Mannino sia stato vittima di una persecuzione da parte di certa magistratura requirente: da trent’anni infatti è sotto processo, prima per concorso esterno in associazione mafiosa, poi per aver trattato con i mafiosi. Tuttavia è stato raggiunto da quindici provvedimenti tra assoluzioni e archiviazioni. Su questo aspetto è intervenuto Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane: «Mi chiedo se sia mai possibile che un uomo politico importante debba avere abbondonato la vita politica, per iniziative delle procure poi dimostratesi infondate, e impiegato 30 anni della propria vita a difendersi. Com’è possibile che di fronte a una abnormità del genere nessuno senta l’esigenza di dovere mettere mano al tema della responsabilità del magistrato? Si tratta – conclude Caiazza – dell’ennesima conferma della necessità di aprire una grande e profonda riflessione sulla individuazione di criteri di responsabilità del magistrato siano esse disciplinari, di carriera o infine risarcitorie».

Stato-mafia, fino a quando la magistratura terrà in ostaggio e torturerà la giustizia? Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Dicembre 2020. La Corte di Cassazione è stata molto chiara, anzi, aspra, con la Procura generale di Palermo che aveva presentato un ricorso contro Mannino senza capo né coda. Ha chiesto: ma se non avete in mano niente, perché avete fatto ricorso? Mannino è stato perseguitato dai Pm siciliani per circa 25 anni. Accusato di aver trescato con la mafia. Indizi zero, prove sottozero, fatti nessuno. Ora finalmente è fuori. Altri sono ancora dentro, perché c’è un gruppetto di Pm ossessionato dal sospetto che ci fu una trattativa fra stato e mafia, e che non molla. Sebbene ormai siano una decina le Corti che, in svariati processi, hanno detto che questa trattativa non ci fu, che Mannino è innocente, che è innocente il generale Mori, che è innocente Nicola Mancino, che è innocente il professor Conso che la congettura di Ingroia e Di Matteo è nient’altro che pura e inconsistente congettura. Nulla da fare, loro insistono. E fanno strame della verità storica, dei fatti, e soprattutto delle persone. Purtroppo non c’è nessuno in grado di fermarli. L’indipendenza della magistratura è diventata un “Moloch” che non ha più niente a che fare con i valori legati all’idea dell’indipendenza di giudizio: si è trasformata in un privilegio degenerato, che produce una somma inaudita di potere incontrollato e del tutto incontrollabile. Pura sopraffazione. Che corrompe lo stato di diritto. Un gruppo di Pm può tenere in pugno la vita delle persone – e anche dello Stato – per anni e anni, senza che nessuno possa muovere un dito per ristabilire la giustizia. E se poi viene sconfitto, comunque non avrà una frenata di carriera, ma probabilmente nuove promozioni. Oggi festeggiamo l’assoluzione di un servitore dello Stato e di un politico che ha sempre combattuto la mafia, come Calogero Mannino. Però ci chiediamo: usque tandem? Fino a quando la magistratura terrà in ostaggio e torturerà la giustizia?

Processo Trattativa, confermata l’assoluzione di Mannino: «30 anni di via crucis». Il Dubbio l'11 dicembre 2020. L’ex ministro: «Su di me c’è stata una narrazione menzognera con ossessione persecutoria». Confermata dalla Cassazione l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Lo ha deciso la sesta sezione penale della Suprema Corte, dichiarando inammissibile il ricorso presentato dalla procura generale di Palermo. La decisione della Suprema Corte, giunta stamane dopo lo svolgimento da remoto, è stata quindi in linea con le richieste, avanzate nei giorni scorsi con requisitoria scritta, dalla procura generale della Cassazione, che si era pronunciata per l’inammissibilità del ricorso dei magistrati di Palermo. La procura generale del capoluogo siciliano era ricorsa in Cassazione contro la sentenza della Corte d’appello che, il 22 luglio 2019, aveva confermato l’assoluzione dell’ex ministro Dc dalle accuse rivoltegli nell’ambito del processo Stato-mafia. Mannino, giudicato con rito abbreviato, era già stato assolto in primo grado dal gup di Palermo nel 2015. Definisce la sua vicenda giudiziaria «una lunga via crucis durata trent’anni» e si dice anche convinto che in Italia «c’è ancora speranza» perché «ci sono magistrati liberi che procedono secondo le regole e rendono testimonianza di verità». L’ex ministro democristiano Calogero Mannino ha atteso nella sua abitazione di Palermo la sentenza definitiva del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia che lo vedeva imputato per minaccia a corpo politico dello Stato. In una intervista esclusiva all’Adnkronos racconta il suo stato d’animo dopo avere appreso la decisione della Cassazione. «Non perché abbia trovato nel tempo e in diversi processi e gradi di processo magistrati che mi abbiano assolto, fino alla corte di Cassazione oggi che si era pronunciata altre due volte sempre in favore della mia innocenza – dice Calogero Mannino – devo dire che pur ponendosi il gravissimo problema del funzionamento della giustizia in Italia e in particolate del funzionamento di alcune procure o meglio di gruppi di magistrati, all’interno di queste in Italia c’è ancora speranza. Ci sono magistrati liberi che procedono secondo le regole e rendono testimonianza di verità a chi sopporta il processo soprattutto una testimonianza di lealtà alle istituzioni». «Detto questo – aggiunge Calogero Mannino – almeno in sede storica bisognerà affrontare il problema di 30 anni di processi con ben oltre 10 sentenze tutte di assoluzione. Hanno tenuto inchiodato me a un processo unico e la stessa narrazione menzognera che dal 1991 con salse diverse mi viene rovesciato addosso con una ossessione persecutoria che pure dovrà trovare delle spiegazioni. Ma non ho tentazioni polemiche».

Mario Ajello per il Messaggero il 13 dicembre 2020.

Onorevole Mannino, 30 anni di accuse e processi per mafia, 12 assoluzioni e ora la Cassazione ha eliminato ogni ombra sul suo conto. Che cosa prova oltre alla gioia?

«Salvatore Satta, grande giurista e grande scrittore, diceva che il processo di per sé è una condanna. Proprio per questo, per me, questi 30 anni sono stati durissimi. La sofferenza è ancora più grande quando sai che l' accusa è infondata ed è strumento di un' altra ragione».

La mafia voleva farla fuori politicamente perché ha sempre combattuto la mafia?

«Il discorso è complesso e riguarda le vicende politiche italiane della fine degli anni 80 e dentro di queste la storia del maxi-processo contro la mafia del quale è stato autore Giovanni Falcone. Nel mio caso, rispetto a Cosa Nostra, era possibile solo un rapporto di contrasto e di lotta molto decisa. Nel '79, da vicepresidente del gruppo Dc alla Camera, avevo assunto l' iniziativa della presentazione al Parlamento di una mozione che approvasse le conclusioni della Commissione Anti-mafia presieduta da Cattani. La Commissione Anti-mafia per due legislature non aveva visto le sue conclusioni in aula. Ma gli anni 70 erano stati caratterizzati dalla priorità della lotta al terrorismo».

Poi finalmente anche la mafia diventa una grave emergenza?

«A marzo '80, la Camera ha affrontato questo tema e le conclusioni della Commissione. Erano state compendiate da un documento approvato dal direttivo del gruppo Dc e elaborato da me. In quel documento vengono avanzati dei punti programmatici per l' azione di contrasto a Cosa Nostra. L' introduzione del reato associativo, il 416 bis; l' introduzione delle misure patrimoniali contro la criminalità mafiosa; la creazione di una struttura di coordinamento delle forze di polizia, praticamente quella che in seguito sarebbe stata la Dia».

Gliel' hanno fatta pagare per questo?

«Lì si apre il conto della mafia contro di me. Perché i mafiosi sono più attenti di altri che non lo sono. Nell' 82, vengono assassinati l' onorevole Pio La Torre e il generale Dalla Chiesa. La Torre aveva presentato un disegno di legge sul 416 bis. Il governo Spadolini, con Rognoni al Viminale, aveva presentato un disegno di legge di riordino delle misure di prevenzione contro la mafia. Non era stato introdotto il 416 bis. Avvenuti gli omicidi di La Torre e di Dalla Chiesa, il consiglio dei ministri dà incarico a Rognoni, per accelerare l' introduzione del 416 bis, di assumere il disegno di legge di La Torre. Tra parentesi: Cosa Nostra sapeva ciò che altri non sapevano. Ma continuo: nell' 82, c' è il congresso nazionale della Dc. E vi partecipa anche la corrente siciliana di Ciancimino».

Sta dicendo che la mafia e Ciancimino hanno deciso di farla fuori accusandola di mafiosità?

«Aspetti. Nell' 83, si svolge il congresso regionale della Dc. Al quale partecipano i delegati della potente corrente di Ciancimino. In quella sede chiedo l' estromissione dalla Dc del gruppo di Ciancimino. E per il fatto che in quel tempo la mia era la posizione più autorevole nel partito, passa quella linea».

Ciancimino escluso dalla Dc organizzò la tremenda vendetta tramite mafiosi pentiti amici suoi?

«Ci sono dichiarazioni in documenti giudiziari da cui risulta che Riina e Provenzano seguivano il congresso Dc».

In tutto ciò il fatto più rilevante non fu il maxiprocesso?

«Fu quello. E determinò l' apertura di una crisi nella Dc. De Mita, segretario nazionale, nominò Sergio Mattarella commissario provinciale della Dc a Palermo, e fino a quel momento Ciancimino era stato segretario comunale del partito. Mentre io vengo nominato da De Mita segretario regionale della Dc. Inizia una nuova fase, che permetterà al nostro partito un recupero di immagine e anche di voti a livello nazionale».

Ma lei viene fatto fuori usando l' arma giudiziaria?

«La mafia, quando deve colpire una persona, o riesce per tempo ad ucciderla oppure riesce - e qui si apre un interrogativo assai inquietante - a mascariarla».

Nota espressione siciliana che significa?

«Colpirlo con paradossali iniziative giudiziarie a carattere giudiziario».

Ce l' ha con il giudice Caselli che la mise nel mirino?

«Un gruppetto di magistrati attorno a Caselli mi ha messo in croce mi ha tenuto su quella croce per 30 anni, nonostante 12 assoluzioni e 3 sentenze della Cassazione».

E ora qualcuno pagherà?

«Tra i miei errori, c' è quello di aver sostenuto con altri deputati Dc una soluzione del problema sollevato dall' esito di un referendum sulla responsabilità civile dei giudici, nei termini di un' attribuzione di un debito a carico dello Stato. E quindi, il magistrato che ha fatto un errore grave, quando lo ha fatto deliberatamente, non è responsabile. Ecco, questo è stato il mio grande sbaglio». 

Lo sfogo di Calogero Mannino: “Processato perché non sono stato ucciso”. Angela Stella su Il Riformista il 12 Dicembre 2020. «La Corte di Cassazione ha posto termine alle esercitazioni di fantasia che l’ossessione persecutoria di alcuni pm ha messo su carta sin dal 1991 in diversi processi nei quali sono stato sempre assolto. Senza retorica, ma con l’emozione del momento, devo sottolineare l’importanza e il valore di questa sentenza che ha riconfermato il verdetto di primo grado e della Corte d’Appello, quest’ultimo presentato in modo monumentale per precisione, profondità di tutti gli accertamenti e per motivazione»: sono queste le prime parole dell’ex ministro e leader della Democrazia Cristiana, Calogero Mannino, in merito alla sentenza di ieri della Cassazione che ha confermato la sua assoluzione nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

Senatore Mannino, qual è la sua prima riflessione dopo questa ennesima assoluzione?

«Non ci sarebbe bisogno del mio commento perché la requisitoria della Procura generale della Cassazione, demolendo anche con qualche ironia il ricorso della Procura generale di Palermo, ha chiesto esplicitamente la riconferma delle sentenze di assoluzione, in particolare di quella della Corte di Appello. Posso dire che la resistenza opposta dai magistrati della Procura generale di Palermo, che hanno presentato ricorso contro la mia assoluzione in secondo grado, è stata priva di consistenza sul piano fattuale e ancor più immotivata se non artificiosa e pretestuosa sul piano del diritto. Per fortuna che ci sono magistrati liberi che procedono secondo le regole e rendono testimonianza di verità».

Quella famosa sentenza di appello aveva restituito dignità e valore alla sua storia, soprattutto nel passaggio: «Non è stato affatto dimostrato che Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra».

«Si tratta di una sentenza mirabile, monumentale, inaggredibile sul piano del diritto e su quello dell’argomentazione dei fatti, che va oltre la vicenda Trattativa. Infatti, oltre ad essere riconosciuta la mia estraneità alla cosiddetta Trattativa Stato-mafia, viene soprattutto ricostruita la lunga fase della mia vita politica dal 1979 al 1992 che è stata caratterizzata da un impegno di contrasto alla criminalità e dalla piena mia adesione alla linea che lo Stato andava apprestando per affrontare il problema della mafia».

Tra i suoi grandi accusatori ci sono stati, tra gli altri, i pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia ora al Dap. Cosa vorrebbe dire loro?

«Io a queste persone non parlo, le prendo in considerazione soltanto perché in aula indossano una toga. Però se c’è qualcosa da dire a questi magistrati l’hanno già detta le sentenze, tutte. Proprio la sentenza della Corte di Appello consente oggi di porre un interrogativo: ma questi magistrati nel momento in cui Mannino non è stato in tempo utile colpito da un atto violento, cioè ucciso, va egualmente ucciso ad opera di chi rappresenta il versante opposto della criminalità?»

Si tratta di una frase molto forte.

«Certo, e la ripeto con più chiarezza: Mannino andava processato solo perché non è stato ucciso? Questo è il paradosso di tutta la vicenda giudiziaria che mi riguarda. E andava ucciso non per le ragioni che gli accertamenti processuali hanno consentito di chiarire. Nel processo d’appello, su richiesta dei sostituti procuratori generali, era stato sentito un collaboratore di giustizia presentato come molto autorevole e quindi attendibile e credibile che testualmente ha dichiarato: «Mannino era inavvicinabile e questo in Cosa Nostra lo sapevano tutti da sempre». Non vorrei servirmi di affermazioni e testimonianze di altri perché a provare la mia innocenza basto da me con i fatti».

A differenza di certa Antimafia solo di facciata.

«La mia lotta alla mafia non è stata fatta verbalmente, teatralmente, retoricamente secondo un costume che si è consolidato in questi anni e che ha creato questo grande problema della cosiddetta Antimafia di Palermo. La mia lotta alla mafia passa per fatti concreti, senza i quali non sarebbero maturate delle svolte che si sono rivelate testate d’angolo dell’azione che lo Stato ha prestato contro la Mafia».

Calogero Mannino: «Da trent’anni difendo la mia innocenza». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio l'11 dicembre 2020. Intervista a Calogero Mannino dopo la sentenza della Cassazione che ha confermato la sua assoluzione in appello nel processo stralcio sulla trattativa Stato-mafia. «Innanzitutto voglio ringraziare Nostro Signore e lo Spirito Santo che illumina gli uomini alla ricerca della verità». Calogero Mannino lo ripete più volte. È stato definitivamente assolto dall’accusa di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato nel processo stralcio sulla trattativa Stato mafia. I giudici della Sesta sezione della Corte di Cassazione hanno dichiarato ieri inammissibile il ricorso della Procura generale di Palermo, confermando quindi la sentenza di assoluzione del processo di Appello, emessa il 22 luglio dello scorso anno. L’ex politico della Dc, difeso dall’avvocato Grazia Volo, era già stato assolto in primo grado e in appello. Contattato telefonicamente, la voce non riesce a nascondere l’emozione.

Presidente Mannino, è finita.

«È stata una lunga via crucis durata trent’anni».

Per i giudici la tesi della Procura di Palermo non era solo “infondata”, ma anche “totalmente illogica e incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”.

«Sono convinto che in Italia ci sia ancora speranza perché ci sono magistrati liberi che procedono secondo le regole e rendono testimonianza di verità».

Dice così perché è stato assolto?

«Qualcuno potrebbe pensare che dico ciò solo perché ho trovato negli anni e in diversi processi e gradi di giudizio magistrati che mi hanno assolto, fino alla Cassazione che si era pronunciata altre due volte sempre in favore della mia innocenza. Invece, pur essendo evidente il gravissimo problema del funzionamento della giustizia in Italia e in particolare del funzionamento di alcune Procure o meglio di gruppi di magistrati all’interno di queste, in questo Paese esistono ancora magistrati liberi dai condizionamenti. Magistrati che, ripeto, procedono secondo le regole e rendono testimonianza di verità a chi sopporta il processo, soprattutto una testimonianza di lealtà alle istituzioni».

Su questo aspetto ci torniamo dopo. Parliamo dei suoi processi.

«Almeno in sede storica bisognerà affrontare il problema di 30 anni di processi con ben oltre 10 sentenze tutte di assoluzione.Hanno tenuto inchiodato me a un processo unico e alla stessa narrazione menzognera che dal 1991, con salse diverse, mi viene rovesciata addosso con una ossessione persecutoria che pure dovrà trovare delle spiegazioni. Ma non ho tentazioni polemiche in questo momento».

Onorevole Mannino, lei aveva scelto l’abbreviato, a differenza dei suoi coimputati. Come mai questa scelta?

«Nel 2012 avevo scelto di essere processato con il rito abbreviato. Rito che si basa solo sugli elementi di prova portati dall’accusa. Ero certo dalla mia innocenza. Nel 2015 sono stato assolto in udienza preliminare per non aver commesso il fatto. La Procura aveva presentato appello. I pm di Palermo sono convinti da sempre che io abbia nel corso della mia vita intessuto rapporti con Cosa nostra. È una narrazione, come ho più volte detto, “funambolica” che si è trascinata per anni».

Crede che ciò sia opera di magistrati ideologizzati? Che esista un teorema?

«Qui è diverso. Quando si parla di magistrati ideologizzati si pensa sempre a quelli aderenti a Magistratura democratica. Io, vorrei ricordarlo, sono stato amico personale del dottor Marco Ramat (scomparso nel 1985, fra i fondatori di Md, membro del Csm e militante nel Partito comunista, ndr). Lui lavorava a Firenze dove c’era un centro politico in cui era molto attivo e che ho anche frequentato».

Quindi l’ideologia non c’entra? Lei democristiano contro le toghe di sinistra?

«Guardi, da ministro della Marina mercantile feci un legge per la difesa del mare. Bene, come presidente della commissione che doveva redigere il testo misi il dottor Gianfranco Amendola, un altro storico esponente di Md, all’epoca uno dei pretori “d’assalto”, con grande scandalo di tutti».

Mi vuole dire che con i magistrati di Md ha sempre avuto ottimi rapporti?

«Sì. In questo processo, invece, c’è chi ha fatto l’antimafia per “giocarci”».

Quale bilancio si sente di fare Calogero Mannino?

«Questa sentenza segna la fine della “storia d’Italia” scritta da Giancarlo Caselli e Antonio Ingroia. Un fine definitiva».

I giudici hanno riconosciuto il suo impegno nella lotta alla mafia.Io mi sono sempre adoperato per il contrasto alla mafia.

«È emerso dalla sentenza assolutoria che fossi una vittima designata della mafia, proprio a causa della mia specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991».

E qui si arriva alla tesi della trattativa Stato-mafia.

«I magistrati hanno riconosciuto la mia estraneità a questa cosiddetta trattativa Stato- mafia ed hanno ricostruito la lunga fase della mia vita politica, dal 1979 al 1992, che è stata caratterizzata da un impegno di contrasto alla criminalità e dalla piena mia adesione alla linea che lo Stato andava apprestando per affrontare il problema della mafia».

I pm di Palermo, però, non le hanno mai creduto. Anzi.

«I pm di Palermo sono convinti da sempre che io abbia nel corso della mia vita intessuto rapporti con Cosa nostra. Solo la mia forza d’animo mi ha aiutato ad andare avanti in tutti questi anni. Il tema del contrasto a Cosa nostra, lo sottolineo con forza ancora una volta, è stato un punto qualificante della mozione presentata dalla Dc alla fine del 1979, poi discussa ed approvata in Parlamento il 2 febbraio 1980. In quella mozione si approvavano le conclusioni della Commissione antimafia. Nessuno può smentirlo».

Servirebbe, adesso, una analisi lucida e senza preconcetti di quella stagione politica dove lei, onorevole Mannino, è stato uno dei protagonisti insieme a Rino Nicolosi e all’attuale capo dello Stato Sergio Mattarella.

«Non soltanto si è fatta una vittima innocente, ed io non ho mai voluto né voglio assumere animi vittimistici, ma, al di là di questo esito personale, si è tentato di consolidare una narrazione che falsa tutta la storia politica della Sicilia e dell’Italia per due decenni».

Questi processi hanno contribuito a spazzare via la Dc.

«Questo è il vero problema storico politico, tralasciando la mia assoluzione, che rimane da affrontare quando, speriamo presto, saremo usciti dalla attuale pandemia».

Mannino assolto, il processo trattativa traballa, ma spunta il pentito Riggio…Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'11 dicembre 2020. La sentenza della Cassazione è un’ulteriore tegola sul processo trattativa e sulle accuse nei confronti degli ex ufficiali dei Ros e di Marcello Dell’Utri. La trattativa Stato-mafia non c’è stata. La Cassazione, considerando inammissibile il ricorso presentato dai procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, ha sigillato la sentenza di assoluzione nei confronti dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino. L’accusa nei sui confronti si rifà all’articolo 338 del codice penale, ovvero “minaccia a corpo politico dello Stato”. Quella stessa accusa che è stata fatta nei confronti degli ex ufficiali dei Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, così come nei confronti dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Tutti loro, attualmente, stanno celebrando il processo d’appello. Calogero Mannino, come sappiamo, è l’unico degli imputati del processo sulla Trattativa Stato-mafia ad aver scelto il rito abbreviato. Che poi, tanto breve non è stato visto che sono passati quasi 7 anni per avere una sentenza definitiva. Con la sua assoluzione definitiva, compresa quella di Nicola Mancino nel primo grado del processo ordinario, di fatto la Prima Repubblica esce fuori dalla “Trattativa”. Accade così che si ritrovano sul banco degli imputati solo i carabinieri e i condannati definitivi per mafia, a incarnare l’avvio della trattativa fra Stato e Cosa nostra, svoltasi, secondo la sentenza di condanna, fra il 1992 e il 1993, giungendo al massimo ai primissimi mesi dell’anno successivo. In sostanza, rimane solo Dell’Utri che rappresenta la Seconda Repubblica. Ma è arrivato dopo. Secondo il teorema è Mannino ad aver dato l’avvio al patto sporco. Senza di lui rimangono i Ros che avrebbero agito, quindi, senza alcun mandato politico. Chiaro che qualche problema di logica emerge con tutta chiarezza.

L’accusa nei confronti di Mannino. In realtà, entrambi le sentenze di assoluzione sono motivate non solo scagionando Mannino, ma anche decostruendo l’intero impianto del teorema trattativa. Perché? Basterebbe partire dall’accusa nei suoi confronti. Mannino, temendo che la mafia lo volesse morto, nei primi mesi del 1992 avrebbe cercato contatti con esponenti di apparati investigativi, affinché acquisissero informazioni da uomini collegati a Cosa nostra e si aprisse con i vertici della stessa organizzazione criminale la trattativa Stato-mafia, finalizzata a sollecitare eventuali richieste da parte di quest’ultima per far cessare la programmata attuazione della strategia omicidiario-stragista, già avviata con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, e che prevedeva l’eliminazione tra gli altri di vari esponenti politici e del governo, fra cui appunto lo stesso Mannino. Non solo. È stato accusato di avere esercitato, in epoca successiva, in relazione alle richieste frattanto ricevute da Cosa nostra, indebite pressioni, col fine di condizionare a favore dei detenuti mafiosi la concreta attuazione dei decreti applicativi del 41 bis, agevolando così lo sviluppo della trattativa Stato-mafia e quindi rafforzando il proposito criminoso di Cosa nostra di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista. Chi avrebbe fatto da ponte per la trattativa? Don Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo. Su spinta di Mannino, sarebbe stato agganciato dagli ex Ros per agevolare l’instaurazione di una comunicazione con i capi del sodalizio criminale, finalizzato appunto a sollecitare loro eventuali richieste per fare cessare la strategia stragista.

Decostruita la trattativa Stato-mafia. Tutto chiaro, no? Nient’affatto. I giudici, assolvendo Mannino, hanno anche spiegato – con fatti e dati in mano – cosa sia in realtà accaduto. Raccontiamoli. Quando nel ’92 imperversava l’attacco stragista deliberato dai capi corleonesi di Cosa nostra, dopo che era stato consumato l’omicidio di Salvo Lima e anche la strage in cui aveva perso la vita Giovanni Falcone, il capitano De Donno e il suo superiore colonnello Mori pensarono di andarsi a rivolgersi al politico mafioso corleonese Vito Ciancimino, i cui affari e storici legami con Riina e Provenzano erano ad essi noti in ragione della loro professione. I due ufficiali proposero a Ciancimino una interlocuzione diretta alla cattura dei latitanti. Tale colloquio con Vito Ciancimino nacque da una spontanea e indipendente iniziativa dei Ros e abortì sul nascere, essendosi interrotta in uno stadio in cui si era arrivati a discutere con Ciancimino della mera ipotesi di un contatto con i capi corleonesi, e avrebbe avuto come reale finalità l’acquisizione di informazioni utili al progresso delle indagini, la cattura dei grossi latitanti, senza alcuna concessione o compromesso con l’organizzazione criminale. Tale iniziativa, in realtà, era il segreto di pulcinella. Secondo i giudici che hanno assolto Mannino, dei contatti tra i Ros e Ciancimino ne erano a conoscenza lo stesso Borsellino, la dottoressa Liliana Ferraro e anche Luciano Violante. Senza contare che nel 1993, appena se ne andò l’allora capo procuratore Pietro Giammanco, di questi contatti ne venne a conoscenza anche la Procura di Palermo.

Sconfessata l’unica “prova”. Ma è stata decostruita anche l’unica “prova” dell’avvenuta trattativa. Ovvero il mancato rinnovo del 41 bis a centinaia di detenuti. La vicenda – come ha chiarito il collegio della corte d’Appello presieduto da Adriana Piras, a latere Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini – è originata dall’invio della nota del 29 ottobre, finalizzata ad aprire – dopo la sentenza della Corte costituzionale che invitava il governo a valutare il 41 bis caso per caso – un’articolata istruttoria con le autorità giudiziarie e di polizia competenti, per acquisirne i relativi pareri. Così avvenne. Nelle motivazioni di assoluzione si evidenziano diversi dati oggettivi che smentiscono la tesi basata sul fatto che l’omessa proroga dei 336 decreti applicativi del 41 bis sia stato effetto della cosiddetta trattativa. Punto primo. Tale mancata proroga era stata posta in essere dall’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, il quale giustamente non è stato indagato per questo. Punto secondo. Se fosse stato frutto della “trattativa”, non si capisce quale vantaggio avrebbe avuto Cosa nostra a fronte delle cosiddette “stragi di continente”. I giudici hanno anche sottolineato che dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo, soltanto 18 appartenevano alla mafia (a sette dei quali, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato). Dunque gli aderenti a Cosa nostra erano pari a meno del 5,5% di tutti i detenuti con decreto in scadenza. Ma non solo. I giudici scrivono che «né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia, né dalla Dna, né dalle altre forze politiche richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro».

Arriva in soccorso il pentito Pietro Riggio. In realtà, durante il processo d’appello principale, quello presieduto dal giudice Angelo Pellino, grazie al susseguirsi di varie deposizioni sono state già chiarite molte cose. A partire dalla mancata proroga del 41 bis fino ai colloqui dei Ros con Ciancimino. A ciò si aggiunge la sentenza di assoluzione nei confronti di Mannino sugellata dalla Cassazione che, di fatto, entra nel processo principale. Tutto l’impianto accusatorio sembra, appunto, franare. D’altronde a questo serve un processo: deve occuparsi di fatti, illuminando le ombre. E proprio mentre tutto sembra dipanarsi, ecco che giunge come un fulmine a ciel sereno il pentito Riggio, ex agente penitenziario diventato mafioso di rango. Con la sua testimonianza, dove fa cambiare in corso d’opera la tesi originale visto che mette in mezzo addirittura la Dia e i sevizi segreti libici, l’accusa nei confronti degli ex Ros e Dell’Utri sembrerebbe riacquistare linfa vitale. Eppure, le sue testimonianze – vere o meno – sono tutte de relato. Potranno mai avere valore, visto anche i racconti illogici che sono trasparsi fin dai primi verbali di interrogatorio? Saranno i giudici della Corte d’appello a emettere l’ardua sentenzia.

Le due magistrature che si scontrano sulla trattiva Stato-Mafia. Damiano Aliprandi l'11 Febbraio 2020 su Il Dubbio. La deposizione che Davigo rese nel 2012 e le recenti dichiarazioni di Di Pietro smontano l’indagine palermitana. Nessuno ci avrebbe mai scommesso, ma può accadere che il fronte giustizialista della magistratura si spacchi sulla tesi della presunta trattativa Stato Mafia. Da una parte ci sono i Pm che hanno imbastito il processo che vede alla sbarra alcuni imputati tra i quali gli ex Ros e l’ex senatore Marcello Dell’Utri per aver minacciato i governi del 92 -93 attraverso presunte richieste mafiose; dall’altra ci sono i fautori dell’inchiesta mani pulite che – attraverso le loro dichiarazioni – smontano i pilastri che reggono la tesi processuale. Dell’ex giudice Antonio Di Pietro è stato già ampiamente detto, soprattutto quando – da testimone – ha inquadrato che la casuale delle stragi mafiose di Capaci e di Via D’Amelio in cui persero la vita Falcone e Borsellino sono da inquadrare nell’ interessamento da parte di quest’ultimi per il dossier mafia appalti e del collegamento con l’indagine milanese. Ora, grazie alla richiesta di acquisizione degli atti da parte di Basilio Milio e Francesco Romito, legali degli ex ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, si viene a conoscenza delle sommarie informazioni rese dal magistrato Piercamillo Davigo alla Procura di Palermo il 20 settembre 2012. Testimonianza, quella di Davigo, non di poco conto perché egli era legato da una lunga amicizia con il dottor Francesco Di Maggio, ex vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. L’attuale consigliere del Csm aveva precisato determinate circostanze in merito a quello che era l’orientamento, in generale, del Di Maggio sul modo di fare il suo lavoro da magistrato sul contrasto alla criminalità organizzata. Dalla descrizione fatta da Davigo, l’ex vicecapo del Dap non appare come una persona moderata e con una forma mentis di contrasto ai metodi forti. Anzi, tutt’altro. «Una volta – ha raccontato Davigo – mi parlò di avere creato una squadra di agenti di Polizia penitenziaria Barbaricini per sorvegliare Riina e mi fece una battuta, quando Riina gli rivolge la parola gli dicono: ‘Taci, prigioniero!’. Mi rimase impressa questa cosa ma non mi disse mai null’altro della sua attività. Tra l’altro, appunto era, anche questo era assolutamente in linea con l’idea che io avevo di lui, per cui quando ho letto sui giornali queste notizie sono rimasto assolutamente sorpreso perché continuo a ritenere del tutto inverosimile che lui possa avere avuto parte a una cosa di questo genere perché è così lontana dal suo modo di essere, perché era un soggetto per certi versi molto simile a me, poco incline alla mediazione». Ciò che ha detto Davigo, è in linea con quanto raccontato da Andrea Calabria, ex direttore dell’ufficio detenuti del Dap. Quest’ultimo ha raccontato che con Di Maggio non scorreva buon sangue, descrivendolo come un accentratore, poco incline alla collegialità e non amante della burocrazia. La testimonianza di Davigo va a rafforzare ciò che in realtà già scrissero i giudici che hanno assolto Calogero Mannino nel rito abbreviato, accusato di aver avviato la presunta trattativa stato mafia. Secondo la tesi accusatoria, l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro si adoperò per rimuovere dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Niccolò Amato, ritenuto troppo duro con i boss, e per sostituirlo con Adalberto Capriotti (con Francesco Di Maggio come vice), nel giugno del 1993. Fu lì, secondo l’accusa, che il Dap avrebbe soddisfatto la richiesta di Totò Riina. Ovvero di non prorogare il 41 bis ai mafiosi. Tutto falso. La vicenda è originata dall’invio della nota del 29 ottobre, finalizzata ad aprire – dopo la sentenza della Corte costituzionale che invitava il governo a valutare il 41 bis caso per caso – un’articolata istruttoria con le autorità giudiziarie e di polizia competenti, per acquisirne i relativi pareri. Così avvenne. Dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo, soltanto 18 appartenevano alla mafia (a sette dei quali, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato). Dunque gli aderenti a Cosa nostra erano pari a meno del 5,5% di tutti i detenuti con decreto in scadenza.

Ma non solo. I giudici che hanno assolto Mannino scrivono che «né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia, né dalla Dna, né dalle altre forze politiche richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro».

La difesa di Mori: “Acquisire l’intervista in cui Di Pietro svela i retroscena di via d’Amelio”. Il Dubbio il 10 febbraio 2020. L’ex pm di Mani pulite aveva spiegato che il movente dell’omicidio Borsellino sarebbe da ricondurre al suo interessamento al dossier mafia e appalti redatto dagli ex-Ros. La difesa degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno ha richiesto alla corte d’appello di Palermo, dove si sta celebrando il processo sulla presunta trattativa Stato Mafia, l’acquisizione di alcuni documenti. Il primo riguarda la sentenza d’assoluzione di Calogero Mannino dove i giudici hanno demolito il teorema della trattativa. Mannino non solo non ha commesso il fatto, ma è il fatto stesso a non esserci stato. Altra acquisizione richiesta è l’intervista che l’ex giudice di Mani Pulite Antonio Di Pietro ha rilasciato recentemente all’Espresso. Un’intervista che integra la deposizione già resa dal medesimo davanti alla corte. Di Pietro, nell’intervista, ha parlato della nascita della sua inchiesta, che si interromperebbe quando arriva alla connessione mafia – appalti; e racconta delle carte e di documenti di cui è in possesso, e che vorrebbe divulgare: “Sembra di vedere la storia del mondo capovolto, ma ci sarà un momento per rivalutare questa storia. Ci sarà. Mani pulite non l’ho scoperta io: nasce dall’esito dell’inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il gruppo Ferruzzi e la mafia. E Falcone dà l’incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui viene trasferito”. Un dossier al quale si sarebbe interessato Palo Borsellino. Secondo Di Pietro, quest’ultimo fu ucciso proprio per questo: “Non per il maxiprocesso insieme a Falcone, ma perché insieme a Falcone doveva far nascere Mafia pulita”. Secondo Di Pietro “Mani pulite” fu la conseguenza di “Mafia pulita”. Di Pietro ha anche ribadito nell’intervista che “sarebbe potuto finire in manette, proprio mentre stava per arrivare alla cupola mafiosa, “grazie alle dichiarazioni che mi aveva fatto il pentito Li Pera su un certo Filippo Salamone, imprenditore agrigentino intermediario tra il sistema mafioso e il sistema imprese-appalti, il nord che veniva gestito soprattutto da Gardini e dalla Calcestruzzi spa di Panzavolta”. Oltre a questo l’avvocato Basilio Milio, che rappresenta la difesa di Mori, ha chiesto l’acquisizione anche di una sit del magistrato Davigo riguardante una sua dichiarazione su Francesco Di Maggio, l’allora vice capo del Dap e che secondo la tesi sulla trattativa lui sarebbe stato il braccio operativo dei ros per ammorbidire il 41 bis. Tesi, ricordiamo, decostruita da diverse sentenze, non ultima quella di Mannino. Il procuratore generale si è opposto all’acquisizione dei documenti, mentre il giudice Angelo Pellino deciderà alla prossima udienza che si terrà il 2 Marzo. Nel frattempo, invece, la difesa di Massimo Ciancimino ha chiesto la prescrizione subentrata “già prima della sentenza di primo grado”. Gli avvocati esplicitato la loro richiesta al giudice sottolineando che la prescrizione sarebbe già subentrata “prima della sentenza di primo grado”. Sì, perché secondo i legali, i giudici del primo processo avrebbero utilizzato impropriamente i giorni di astensione per lo sciopero degli avvocati. “Non avremmo mai immaginato di dover computare nei termini di sospensione della prescrizione anche tutte le astensioni proclamate dalle Camere Penali a prescindere dalle nostre dichiarazioni di astensione, visto che l’udienza in cui avremmo dovuto manifestare la nostra volontà di aderire o meno, non veniva proprio calendarizzata né tantomeno celebrata”, denuncia l’avvocata Claudia La Barbera.

Condannò Berlusconi alla prigione ora spara sentenze sul Fatto Quotidiano. Redazione de Il Riformista il 7 Febbraio 2020. Se vi andate a leggere il Fatto Quotidiano di ieri troverete diversi articoli sulla prescrizione. Tutti naturalmente favorevoli alla riforma Bonafede, che la sospende dopo il primo grado di giudizio. Tutti in linea e a sostegno dei 5 Stelle. E questo è molto logico, perché Il Fatto Quotidiano, in modo quasi ufficiale, è il giornale dei 5 Stelle. Colpisce però che l’articolo più feroce contro avvocati e magistrati che criticano la riforma Bonafede sia stato firmato da un ex magistrato. Si chiama Antonio Esposito ed è stato un alto magistrato di Cassazione. Poi qualche anno fa è andato in pensione per raggiunti limiti di età e si è messo a fare il polemista, sempre a sostegno dei 5 Stelle. Lo ha fatto con molti articoli sul Fatto Quotidiano. Nell’articolo di ieri, tra le altre cose, sostiene che l’articolo 111 della Costituzione, quello che garantisce la ragionevole durata del processo, non c’entra niente con la prescrizione (che è stata inventata per evitare processi troppo lunghi) e che poi quell’articolo non stabilisce misure tassative, più che altro è un suggerimento. Per fortuna Esposito non ha mai fatto parte della Corte Costituzionale. Ve l’immaginate a giudicare la costituzionalità di una legge con questa idea che in fondo ‘sta Costituzione è lì per fare un po’ da stimolo, ma non va presa troppo alla lettera. Però, come dicevamo, Esposito il giudice Costituzionale lo ha fatto. E anche ad alto livello. È stato presidente di una delle sezioni penali della Cassazione, e in questa veste, il primo agosto del 2013, ha giudicato l’ex presidente del Consiglio, Berlusconi, che era accusato per un’evasione fiscale (di modesta entità: circa il 2 per cento del dichiarato) compiuta dalla Fininvest. Gli avvocati sostenevano che Berlusconi, quando fu depositata quella dichiarazione fiscale, era presidente del Consiglio, e ovviamente non si occupava direttamente delle questioni che riguardavano i suoi commercialisti. I giudici non gli credettero e alla fine la sezione presieduta da questo Esposito decretò quattro anni e qualche mese di prigione. Definitivo. Berlusconi fu affidato ai servizi sociali, Forza Italia in pochi mesi dimezzò i suoi voti. Ora uno, magari perché è troppo malizioso, dice: ma è tutto regolare se un giudice, che poi si scopre essere un tifoso acceso dei 5 Stelle viene chiamato a giudicare il capo del partito che si oppone ferocemente ai 5 Stelle? Ti rispondono: ma allora non si sapeva che Esposito fosse amico dei 5 Stelle. Va bene, facciamo che è così davvero. Ma poi? Quando scopri che quella sentenza fu evidentemente una sentenza politica ci resti male, no? Non aumenta la tua fiducia nella giustizia. E la prossima volta certo non dirai: “Io ho piena fiducia nella giustizia”.  Eh no, se è giustizia di partito no. Fiducia zero.

Il boss Graviano ci ripensa, non risponde al pm del processo sulla 'ndrangheta. Pubblicato venerdì, 29 maggio 2020 su La Repubblica.it da Alessia Candito. Aveva stupito tutti, rompendo un mutismo durato più di 20 anni. Ma il boss palermitano Giuseppe Graviano è tornato a chiudersi nel silenzio. Tramite il suo legale, l'avvocato Giuseppe Aloisio, ha fatto sapere di non aver intenzione di rispondere ulteriormente alle domande di pm, parti e Corte al processo "Ndrangheta stragista", che a Reggio Calabria lo vede imputato, insieme al mammasantissima calabrese Rocco Filippone, come mandante degli attentati contro i carabinieri serviti alla 'ndrangheta per sottoscrivere la propria partecipazione alla stagione delle stragi continentali. "Non vi è il timore di rispondere, ma vi è la consapevolezza che le sue dichiarazioni rimarranno prive di riscontro", ha detto in aula il suo legale per spiegare l'improvviso cambio di rotta del boss di Brancaccio. "Doveva essere fatto tramite alcuni collaboratori, non ultimi Mandalà e Spataro, ma su alcune domande questo non è stato permesso". Il riferimento è al pentito Totuccio Contorno, storica bestia nera di Graviano, che per il boss avrebbe avuto un ruolo nella sua caduta. "Non ci è stata data la possibilità di esplorare questi temi", ribadisce il legale. E in aula scoppia la bagarre. Collegato in videoconferenza, 'Madre Natura' - che fino ad una settimana fa non ha mai mancato di interloquire con la presidente - non ha proferito verbo. In silenzio ha assistito alle schermaglie fra accusa e difesa, fra presidente della Corte e avvocato. Non ha avuto niente da ridire neanche quando il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha comunicato che si riserverà di valutare se e in che misura acquisire i file audio delle conversazioni registrate in carcere fra Graviano e la sua "dama di compagnia", il camorrista Umberto Adinolfi. E dire che da mesi 'Madre natura' fa il diavolo a quattro per avere quelle registrazioni, in passato da lui definite "l'unica cosa vera di tutta l'ordinanza". Al riascolto di quegli audio, ormai mesi fa, aveva subordinato la prosecuzione del suo esame. Ma adesso sembra aver cambiato idea. Una decisione arrivata non più di venti minuti dopo l'avviso di deposito di nuovi atti di indagine che hanno a che fare con i rapporti fra Fininvest e uno dei grandi imprenditori della galassia della famiglia Piromalli, grande mattatore nel settore di antenne e ripetitori. "Questo diventa un modo per spiegare perché una serie di collaboratori di giustizia ascoltati in questo processo abbia fatto riferimento al clan Piromalli, dunque Filippone, in relazione all'ambito imprenditoriale di antenne e ripetitori - ha spiegato in aula  il procuratore - Gli stessi ambienti imprenditoriali milanesi in cui, come ci ha detto Graviano, aveva interessi anche che la sua famiglia, tramite il nonno". Insomma, strade diverse che finiscono per incrociarsi dalle parti di Fininvest. Contrariamente ai mesi scorsi, quando ogni accenno ai suoi provocava una reazione, Graviano rimane in silenzio. Ascolta, ma tramite il suo avvocato fa sapere di non voler più parlare. Per mesi però, ha mandato messaggi. Con l'arroganza di chi crede di avere il boccino in mano, ha fatto intendere di sapere e poter raccontare. Ma di non avere intenzione di farlo del tutto, almeno per adesso. Tra il dire e il non dire, ha puntato il dito contro Silvio Berlusconi, accusato di essere socio occulto e per giunta moroso della famiglia Graviano: "E deve rispettare i patti". Contro parte della procura di Palermo che negli anni Novanta lo avrebbe incastrato. Contro i misteriosi autori del "progetto di più persone per farmi arrestare", contro il pentito Totuccio Contorno e "due donne, quando faremo gli interrogatori vi dirò". Accenni, mischiati a ricostruzioni dettagliate degli incontri con Berlusconi e ostinati silenzi, come su quel figlio concepito in carcere o Marcello Dell'Utri, nominato solo una volta e per dire "anche lui fu tradito". O sulla "cortesia" che gli sarebbe stata chiesta dal padre padrone di Forza Italia. O sul reale significato di quell'espressione, "avevamo il Paese nelle mani" intercettata in carcere. E poi minacce di rivelazioni. Sull'omicidio del poliziotto Agostino e sull'agenda rossa trafugata a Paolo Borsellino il giorno della strage di via D'Amelio. Su pezzi dell'intelligence e quegli uomini dei servizi inquadrati nel protocollo Farfalla "che a me non si sono mai avvicinati" ma che evidentemente conosce.  Sulla classe politica della stagione degli attentati continentali e "primo ministro che chiese di informarsi al riguardo a amici di Enna", lì dove si riuniva la Cupola, e per questo ha rischiato di essere eliminato da chi "voleva che le stragi continuassero". Su Berlusconi "che non era fra chi le voleva fermare" e i misteriosi imprenditori milanesi che insieme a lui avrebbero beneficiato dei soldi delle famiglie siciliane senza restituirli. Denaro servito per "Milano 3, le televisioni, Canale 5, tutto". Tramite il suo legale di fiducia, Niccolò Ghedini, Berlusconi ha respinto le accuse. Per settimane però Graviano ha continuato ad aggiungere un dettaglio in più, un tassello in più ad ogni udienza. Messaggi su messaggi, forse destinati più all'esterno dell'aula che alla Corte e alle parti. Un fiume in piena durato settimane e che a marzo, poco prima del lockdown, si è arrestato solo - almeno in apparenza - per una difficoltà tecnica. Un balletto durato mesi, con 'Madre Natura' che fino a questa mattina ha chiesto di ascoltare quei file per poter concludere il suo esame. Improvvisamente però, l'urgenza di "dire la verità", come più volte il boss di Brancaccio ha ribadito, sembra essersi esaurita. O forse, per la prima volta, Graviano è stato preso in contropiede.

 “Mai conosciuto Dell’Utri”: così Graviano delude i teorici della trattativa Stato-Mafia. Damiano Aliprandi il 21 febbraio 2020 su Il Dubbio. Al processo ‘ndrangheta stragista a Reggio Calabria va in scena il duello tra il boss e Ingroia. «Lei ha conosciuto Marcello Dell’Utri?», domanda l’avvocato Antonio Ingroia all’ex boss Giuseppe Graviano. «No, mai conosciuto». Ingroia però insiste. «No, le dico che non l’ho mai conosciuto», ribadisce. Ingroia però lo incalza: «Durante le intercettazioni lei dice al suo compagno di socialità Adinolfi che Marcello Dell’Utri dovrebbe farsi un esame di coscienza». Allora Graviano risponde: «Sì, mi riferisco al fatto che lui, avendo fatto parte del governo Berlusconi, ha contribuito ad inasprire il regime duro». Ingroia poi fa una ulteriore domanda: «Ma lei con le scorse sue dichiarazioni ha ritenuto che Berlusconi sia stato uno dei veri mandanti delle stragi?». Graviano prima di dire di non ricordalo, risponde partendo da lontano, dal periodo che a detta sua è stato chiuso per 38 anni – dall’82 al 2019 – nei cassetti della Procura di Palermo il vero motivo dell’uccisione di suo padre. «In questi anni esercitava anche lei in quella procura!», aggiunge Graviano rivolgendosi a Ingroia. «Io non mi sono mai occupato di questo procedimento», replica Ingroia. «Male!», ribatte Graviano. Un battibecco sempre più crescente, fino a far sfociare di rabbia Graviano, tanto che è dovuta intervenire la presidente della Corte che l’ha ammonito circa la possibilità di allontanarlo dall’aula.Se prima le parole di Graviano sono state accolte con entusiasmo dai magistrati che imbastirono il processo di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia, ora però viene considerato reticente, oppure portatore di altri messaggi criptici. Durante l’udienza di ieri al processo ‘ndrangheta stragista, al tribunale di Reggio Calabria, Giuseppe Graviano, rispondendo alle domande poste dall’ex Pm Antonio Ingroia, ora nelle vesti di avvocato di parte civile, in sostanza ha negato di aver conosciuto l’ex senatore Marcello Dell’Utri e di non ricordare se Berlusconi fosse stato effettivamente il mandante delle stragi. Ma non solo. Nomina pure la famosa “agenda rossa” di Borsellino, spiegando che la verità della sua sparizione sarebbe da ricercare sempre nella Procura di Palermo, salvo poi precisare che ne riparlerà solamente dopo aver letto tutte le intercettazioni fatte nei suoi confronti quando dialogava con il suo compagno di socialità al 41 bis. Non placa la sua rabbia nei confronti della Procura di Palermo e Graviano ha aggiunto: «Avete avuto in Procura qualche magistrato responsabile. Là troverete tutto, sul motivo perché in questi 38 anni qualche procuratore non ha esercitato la professione con tutti i crismi. È una vergogna. Non continuate a fare domande a me. Io risponderò solo dopo che avrò le risposte. Prima voglio i responsabili della morte di mio padre». È un chiodo fisso di Graviano la vicenda di Michele, il padre ucciso nel 1982 in pieno periodo di guerra di mafia a Palermo. C’è da sottolineare che lo stesso Graviano si è costituto parte civile in un processo sull’omicidio del padre, dove la sentenza di secondo grado ha ben cristallizzato il fatto che l’omicidio del padre è avvenuta nella guerra di mafia tra i corleonesi e i palermitani, sterminati ai primi anni 80. I Graviano avevano scelto di stare dalla parte dei corleonesi di Totò Riina: per questo motivo i palermitani uccisero Michele. Quindi, quale verità sta cercando Graviano se una sentenza gli ha dato ragione visto che si era costituto parte civile contro l’ex palermitano Gaetano Grado? Difficile districarsi in questa narrazione contorta. Ma invece a quale magistrato si riferisce Graviano? Secondo Ingroia, il riferimento sarebbe Giovanni Falcone. Però non è così scontato, Graviano si riferisce nell’arco temporale di “questi 38 anni” e, come sappiamo, purtroppo Falcone è stato trucidato dalla mafia di Totò Riina quasi 28 anni fa. Graviano attacca pure il pentito Spatuzza che avrebbe scagionato, a detta sua, alcuni colpevoli della strage di via D’Amelio. Da ricordare che la testimonianza di Spatuzza è stata fondamentale per riaprire il processo sulla strage nella quale morì Paolo Borsellino e la sua scorta e svelare, quindi, il grande depistaggio avvenuto tramite le parole del falso pentito Scarantino. Giuseppe Graviano si è dimostrato sempre più insofferente e ha promesso che risponderà solamente quando leggerà tutte le intercettazioni che lo riguardano. Giovedì prossimo si vedrà.

Alessia Candito e Salvo Palazzolo per repubblica.it il 14 febbraio 2020. I rapporti con Berlusconi ("Deve rispettare i patti"), la nascita di suo figlio durante la detenzione ("Grazie a una distrazione degli agenti"), la strage di via D'Amelio ("Ancora tante malefatte, porterò i documenti"). Il boss Giuseppe Graviano torna a parlare al processo ‘Ndrangheta stragista, a Reggio Calabria. E parla ancora da boss, annunciando di avere pronto un libro sulla sua vita, con la sua versione naturalmente. “Avevo chiesto al mio compagno dell’ora d’aria, Umberto Adinolfi, di avvicinare persone vicine a Berlusconi per ricordargli il suo debito. Doveva rispettare i patti”. Rispondendo alle domande incalzanti del pm Giuseppe Lombardo, il capomafia palermitano dice: “C'erano soldi che mio nonno aveva consegnato a Silvio Berlusconi, all'inizio degli anni Settanta, si era stabilita la percentuale del 20 per cento da allora in poi”. Soldi, che secondo Graviano, non sarebbero mai tornati in Sicilia. “E io non volevo fare brutta figura con l’impegno di mio nonno verso quelle persone a Palermo che avevano partecipato all'investimento”. Anche se poi nel corso dell'udienza ammette: "A mio cugino Salvatore arrivavano di tanto in tanto dei soldi: 500 milioni di lire, 300 milioni. E lui li investiva, a Palermo e in altre parti d'Italia. Aveva dato 600 milioni per comprare dei magazzini, affare che poi non si concretizzò. E investì nell'Iti caffè". Alla scorsa udienza, il boss delle stragi aveva raccontato di un investimento fatto dal nonno materno e da tre palermitani, all’inizio degli anni Settanta: venti miliardi di lire, che sarebbero finiti nella costruzione di Milano 3, “ma anche nelle televisioni”, aveva detto il boss. "C'era una scrittura privata che diceva di quell'investimento - ribadisce Graviano - la teneva mio cugino: nel 2002, quando stava per morire, sua moglie mi mandò una lettera perché lui voleva parlarmi. E' andato mio fratello, ma lui voleva parlare con me. Forse, voleva dirmi dov'era la lettera". Graviano, il boss condannato all'ergastolo per le stragi del 1992-1993, continua a mandare messaggi. "Non ho fatto le stragi, sono innocente - dice - ho una dignità, una serietà, non dico bugie". E annuncia di volere parlare anche di "altri argomenti, quando mi interrogherete in nuove occasioni". Nella scorsa udienza, aveva detto di avere qualcosa da dire sull'omicidio del poliziotto Agostino e sull'agenda rossa trafugata a Paolo Borsellino il giorno della strage di via D'Amelio: un altro messaggio, le due vicende sono intrecciate dal mistero dei rapporti fra i mafiosi e ambienti deviati dei servizi segreti. A chi parla Graviano? Nell'udienza di oggi racconta di un "progetto di più persone per farmi arrestare". E chiama in causa i carabinieri, che nel gennaio 1994 lo bloccarono a Milano, ma anche il pentito Contorno, parla pure di "due donne che erano arrivate, quando faremo gli interrogatori vi dirò". Messaggi su messaggi. Mentre ribadisce: "Non collaborerò mai, mai accetterò un ricatto, possono venire quanto vogliono, possono mettermi in croce. Qualcuno non vuole la verità, ma una verità. Per fare carriera". Il procuratore aggiunto Lombardo fa domande su domande, Graviano torna ad accusare Berlusconi: "Ha tradito anche Marcello Dell'Utri. Le leggi che ha fatto Berlusconi hanno danneggiato pure lui, che è stato condannato". Fra i misteri di Giuseppe e del fratello Filippo Graviano ci sono anche i due figli, nati mentre i boss erano rinchiusi al 41 bis. Il capomafia disconosce le parole pronunciate in carcere e intercettate nel processo "Stato-mafia": "Mia moglie non è mai entrata in carcere, nella cesta della biancheria. Forse, parlavo di mio fratello, che venne messo nella mia stessa cella". Una retromarcia clamorosa. "Non posso raccontare come andò, ci fu solo un momento di distrazione degli agenti - aggiunge - ma mia moglie non è mai entrata in carcere". Il pm contesta ancora le intercettazioni ("Io tremavo, lei era nella cesta delle robi"), il boss dice: "A cosa interessa una cosa mia personale in questo processo?" Lombardo dice: "Vuole che glielo spieghi? Secondo me, l'ha capito perché ho fatto questa domanda. Vorrei capire se un passo verso di lei venne fatto, con un attimo di distrazione, facendo entrare sua moglie". Graviano risponde: "La politica non c'entra in questa situazione, questa intercettazione non risponde alla realtà". E aggiunge: "Non racconterò mai a nessuno come ho concepito mio figlio, dico solo che non ho fatto nulla di illecito, ci sono riuscito ringraziando anche Dio e sono rimasto soddisfatto. Non ho chiesto alcuna autorizzazione, ma ho approfittato della distrazione degli agenti Gom".

Mafia e B., per giornali e tv il boss Graviano è un mezzo bidone. E Travaglio diventa una furia. Marzio Dalla Casta domenica 9 febbraio 2020 su Il Secolo D'Italia.  Ossessionato da B. Come prima, più di prima. Marco Travaglio non si smentisce e piuttosto che fare le pulci al boss Giuseppe Graviano, che accusa il Cavaliere facendo parlare i morti, le fa a giornali e tv troppo reticenti – a suo dire – nel darne notizia. Ci risiamo. La mafia, B. e l’accusatore di turno, versione sicula dell’Isso, essa e ‘o Malamente che furoreggiava sotto il Vesuvio. Vecchia storia, solito schema. Questo: nessuno, oltre al Fatto Quotidiano, fa davvero la guerra a B. Che poi è tutta una questione di concorrenza, cioè di copie e quindi di soldi, con Repubblica. Proprio come tra Pd e M5S è solo questione di voti. Competition is competition: là nelle edicole, qua nelle urne. A contendersi i manettari, lettori ed elettori. Senza stare troppo lì a spaccare il capello in quattro.

Travaglio dedica due pagine al padrino di Brancaccio. Già, a Travaglio poco importa se la sua “bomba” spesso è solo un tricchetracche e, quanto a rumore, peggio di una fetecchia. Fedele alla consegna per cui «non è importante quel trovi alla fine della corsa, ma quel che provi mentre corri», che entusiasma tutti tranne chi soffre di diarrea, il Direttore sa che il bello è soprattutto nell’attesa. Lo ha scoperto maneggiando il Ciancimino Jr. Chissà quanti e quali fremiti d’emozione avrà provato portandolo in processione come una reliquia o nei tanti incontri in tv, ospitante Michele Santoro e officiante  Antonio Ingroia. Un “ dai e dai” senza requie. Purtroppo per loro, invece di vedere B. in galera, si sono ritrovati con il giovane Ciancimino condannato per calunnia, riciclaggio di denaro e detenzione di esplosivi.

Il precedente di Ciancimino Jr. Una vera mammoletta, sincera soprattutto. Ma la premiata compagnia di giro unita dal grido “la mafia non deve morire perché noi dobbiamo campare” lo aveva arruolato comunque. Giusto per assaporare il gusto dell’attesa. Quella di trovare conferma ai propri deliri. Ora è il turno del padrino di Brancaccio. «Graviano chi?», ha polemicamente urlato il Fatto in prima pagina per sottolineare la tiepida accoglienza riservata dai media alle sue accuse. Di nuovo fremiti e brividi percorrono la schiena di Travaglio. La corsa a consacrare la mafiosità di B. è ripartita. Come prima, più di prima. E poco importa se sarà ancora una volta il beffardo «ritenta, sarai più fortunato» tutto quel che troverà al posto del traguardo.

Alessandro Sallusti difende Silvio Berlusconi: "Le accuse di Graviano? I mafiosi sono uomini di merda". Libero Quotidiano l'8 Febbraio 2020. Alessandro Sallusti dalla parte di Silvio Berlusconi. La difesa del direttore del Giornale arriva più puntuale che mai dopo le  accuse del boss Giuseppe Graviano. "Nel 1993 fu tra i protagonisti delle stragi che volevano mettere in ginocchio lo Stato. Oggi, 27 anni dopo, pensa di ripetersi, ma essendo in carcere non può usare il tritolo. Quindi usa le parole e dice che nel 1993, da latitante e insieme al cugino, incontrò a Milano Silvio Berlusconi per concludere certi affari immobiliari". Poi la stoccata: "Dicono che i mafiosi siano uomini d'onore, ma io non ho mai capito che c'entri la mafia con l'onore. Io penso che i mafiosi siano uomini di merda, perché la mafia è merda. Sono uomini che non possono più sparare proiettili e sparano cazzate". Per Sallusti molte colpe sono da imputare a "una certa magistratura che non vede l'ora di dimostrare che Forza Italia è nata mafiosa", per tre volte hanno infatti provato a incardinare un processo, ma per tre volte hanno dovuto arrendersi ancora prima di iniziare. Eppure non c'è verso di trovare un indizio che Berlusconi sia stato colluso con Cosa nostra, neppure le parole pronunciate dallo stesso Graviano. Se ne facciano una ragione.

Il boss Graviano: «Vidi Berlusconi tre volte a Milano, da latitante» Ghedini: «Falso». Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Carlo Macrì. Il boss di Cosa Nostra al processo «‘Ndrangheta stragista». Il legale di Berlusconi: «Da Graviano astio verso il Cavaliere per le leggi del suo governo contro i mafiosi». «Nel dicembre 1993, mentre ero latitante, incontrai Berlusconi a Milano. Berlusconi sapeva come mi chiamavo. E sapeva che ero latitante da dieci anni. Alla riunione ha partecipato anche mio cugino Salvo e con Berlusconi c’erano persone che non conoscevo. Dovevamo discutere dell’ingresso di alcuni soci nelle società immobiliari di Berlusconi». A rivelarlo, deponendo in videoconferenza al processo sulla `ndrangheta stragista a Reggio Calabria, è il boss mafioso Giuseppe Graviano. «Verso la fine del 1993 - spiega rispondendo alle domande del pm Giuseppe Lombardo - si tenne una riunione a Milano 3, per regolarizzare questa situazione. Siccome Berlusconi aveva detto di sì mio cugino ha detto di andare a incontrarlo. `Vediamo che intenzioni ha´, disse, ed così è stato fissato l’appuntamento a Milano 3. Fino a quel momento questi soggetti che dovevano entrare in affari con Berlusconi non apparivano». «In quell’occasione fu programmato un nuovo incontro, per febbraio, ma io il 27 gennaio 1994 venni arrestato a Milano. un arresto anomalo...», dice ancora Graviano. «Da latitante ho incontrato Berlusconi almeno per tre volte», ha detto, proseguendola sua deposizione Graviano. Che racconta: «Fu mio nonno ad avere i contatti con gli imprenditori milanesi. Poi, quando è morto mio padre, mi prese in disparte e mi disse “Io sono vecchio e ora te ne devi occupare tu”. Poco dopo mio nonno, che aveva più di 80 anni, morì». «Io ho condotto la mia latitanza nel milanese tra shopping in via Montenapoleone e teatri, insomma facevo la bella vita», dice il boss, che è stato latitante dagli anni Ottanta al 27 gennaio 1994. E deponendo in videoconferenza ha confermato alcuni passaggi che il pm Giuseppe Lombardo gli legge delle intercettazioni con il boss Umberto Adinolfi nel carcere di Terni: «Con Berlusconi cenavamo anche insieme. È accaduto a Milano tre, in un appartamento». E ancora: «Tramite mio cugino avevamo un rapporto bellissimo». E fu lo stesso Berlusconi ad annunciare «a mio cugino Salvo» la decisione di entrare in politica. Ma poi «Berlusconi fu traditore - aggiunge Graviano - perché quando si parlò della riforma del Codice penale e si parlava di abolizione dell’ergastolo mi hanno detto che lui chiese di non inserire gli imputati coinvolti nelle stragi mafiose». «Le dichiarazioni rese quest’oggi da Giuseppe Graviano sono totalmente e platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà nonché palesemente diffamatorie». Lo afferma in una nota il legale di Silvio Berlusconi, l’avvocato Niccolò Ghedini. «Si osservi - prosegue - che Graviano nega ogni sua responsabilità pur a fronte di molteplici sentenze passate in giudicato che lo hanno condannato a plurimi ergastoli per gravissimi delitti». «Si comprende, fra l’altro, perfettamente - aggiunge il legale - l’astio profondo nei confronti del presidente Berlusconi per tutte le leggi promulgate dai suoi governi proprio contro la mafia».

Mafia, il boss Graviano: "Mentre ero latitante incontrai Berlusconi a Milano". Lo rivela in videoconferenza a Reggio Calabria. "Io ho condotto la mia latitanza nel milanese tra shopping in via Montenapoleone e teatri, insomma facevo la bella vita". Alessia Candito il 07 febbraio 2020 su La Repubblica. Non solo ha più volte incontrato Silvio Berlusconi, “ma la mia famiglia con lui era in società”. È un fiume in piena il boss Giuseppe Graviano, l’uomo della stagione delle stragi, che per vent’anni si è trincerato dietro il più assoluto silenzio, incassando condanne su condanne. Ascoltato al processo “’Ndrangheta stragista” a Reggio Calabria, “Madre natura” ha aperto la diga e in aula ha parlato in dettaglio dei rapporti che storicamente legano la sua famiglia a Silvio Berlusconi, conosciuto e frequentato dai Graviano ancor prima della sua discesa in campo con Forza Italia. “Mio nonno materno, Quartanaro Filippo, era una persona abbastanza ricca. Era un grande commerciante di ortofrutta. Venne invitato a investire soldi al nord, perché era in contatto con Silvio Berlusconi”. Una valanga di miliardi da investire nell’immobiliare, con quota di partenza di 20 miliardi raccolta fra diverse famiglie. Un affare in cui anche Giuseppe Graviano entra dopo l’omicidio del padre, che all’avventura milanese – a suo dire – era sempre stato contrario. “Mio nonno mi disse che era in società con queste persone, mi propose di partecipare pur specificando che mio padre non voleva. Io e mio cugino Salvo abbiamo chiesto un consiglio a Giuseppe e Michele Greco, che mi dissero che qualcuno doveva portare avanti questa situazione e abbiamo deciso di sì. E siamo partiti per Milano. Siamo andati dal signor Berlusconi, mio nonno era seguito da un avvocato di Palermo che era il signor Canzonieri”. Un affare “ufficiale, era tutto legittimo perché - sostiene Graviano, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo - mio nonno sosteneva che dovessimo essere scritti”. Almeno loro. Perché dietro c’erano altre famiglie palermitane a titolo di finanziatori. “Il primo incontro avvenne nell’hotel Quark, nell’83. C’erano Berlusconi, mio nonno e mio cugino Salvatore. Noi affiancavamo mio nonno perché era anziano e dovevamo essere pronti a prendere il suo posto. Siamo andati con questa situazione, di tanto arrivavano un po’ di soldi e mio cugino non li divideva, ma li reinvestiva”. Qualcuno dei vecchi finanziatori nel tempo si è sfilato, ma l’affare – sostiene Graviano – sarebbe andato avanti spedito fino al ‘93. “A dicembre di quell’anno, c’è una nuova riunione a Milano. Io ero latitante dall’84. Mio cugino mi invita a partecipare. Si era arrivati alla conclusione che si dovesse regolarizzare la situazione e far emergere il nome dei finanziatori. Ci siamo incontrati con Berlusconi, con lui c’erano altre persone che non mi sono state presentate. Berlusconi sapeva che ero latitante”. E Graviano lo era da tempo, quasi dieci anni, sebbene – specifica – quel periodo passato a nascondersi non abbia mai implicato particolari privazioni. “Stavo ad Omegna, ma Milano mi serviva per gli incontri e la frequentavo, senza usare particolari precauzioni. Andavo a fare shopping in via Montenapoleone, andavo al cinema e a teatro”. Ecco perché incontrare Berlusconi – sostiene il boss – non sarebbe stato un problema. “L’idea era di legalizzare la situazione per far emergere i finanziatori nella società immobiliare di Berlusconi in cui c’era mio nonno, che avevano appoggiato mio nonno, perché i loro nomi apparivano solo su una scrittura privata che ha in mano mio cugino”. Del resto, il volume d’affari era ormai imponente. Gli interessi nell’immobiliare riguardavano anche Milano 3, “lì Berlusconi aveva regalato a mio cugino un appartamento, abbiamo fatto anche una cena”. E stando a quanto racconta il boss, è stato proprio durante uno di questi incontri che il padre padrone di Forza Italia avrebbe annunciato ai Graviano la propria intenzione di lanciarsi in politica. “Io sono a Omegna, lui lo dice a mio cugino Salvo, a cui chiede una mano in Sicilia”. Il boss non lo dice, ma Graviano lo fa capire che quell'aiuto c'è stato. Ma non riesce a non perdere la calma quando parla del "tradimento" di Berlusconi. "Berlusconi fu un traditore, perché quando si parlò della riforma del Codice penale e si parlava di abolizione dell'ergastolo mi hanno detto che lui chiese di non inserire gli imputati coinvolti nelle stragi mafiose". Quasi le stesse parole che Graviano si era fatto scappare in carcere, parlando con Adinolfi. "Berlusconi prese le distanze e fece il traditore" aveva detto all'epoca. Ma oggi va oltre ""Un avvocato di Forza Italia mi disse che stavano cambiando il Codice penale - dice ancora Graviano - e che doveva darmi brutte notizie. Perché in Parlamento avevano avuto indicazioni da Berlusconi di non inserire quelli coinvolti nelle stragi. Lì ho avuto la conferma che era finito tutto. Mio io cugino Salvo era morto nel frattempo per un tumore al cervello. E nella riforma del Codice penale non saremmo stati inseriti tra i destinatari dell'abolizione dell'ergastolo". Ecco perchè  "questo mi portò a dire che Berlusconi era un traditore".

Il boss Graviano ci ricasca e tira in ballo Berlusconi: “Ci vedevamo in albergo”. Damiano Aliprandi il 7 febbraio 2020 su Il Dubbio. Nulla di nuovo nella deposizione dell’uomo condannato per le stragi del ’92-’93 che cerca di riscrivere la nascita della seconda Repubblica…Non ha ucciso nessuno, non ha commesso nessuna strage. In compenso elogia Totò Riina dicendo che grazie a lui non ci sono state le stragi islamiche, anzi dice pure che l’ex capo dei capi era stato colui che ha cambiato – in meglio – l’organizzazione mafiosa istituendo la democrazia. Ma non solo. Giuseppe Graviano, deponendo in videoconferenza nel processo “ndrangheta stragista” in corso di svolgimento a Reggio Calabria, aggiunge pure che Silvio Berlusconi incontrò nel 1992 suo cugino Salvo annunciandogli che voleva entrare in politica. Tutto qui? Nemmeno per sogno. Graviano aggiunge un particolare, ovvero che si vedeva spesso con Berlusconi, anche in albergo, e che avevano un rapporto bellissimo. Tira in ballo perfino la recente sentenza della Consulta dicendo che hanno dichiarato incostituzionali alcune leggi. Quali leggi? “Quelle fatte per non farci uscire dal carcere, dopo che ci hanno accusato delle stragi“, risponde.  Forse avrà letto alcuni giornali che in quei giorni hanno raccontato che la sentenza avrebbe fatto uscire tutti i mafiosi stragisti. Notizie fuorvianti che hanno illuso i mafiosi stessi. Se dovessimo credere a tutto ciò che ha raccontato, si dovrebbe buttare a mare tutto ciò che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno combattuto, rimettendoci anche la vita stessa. Riina era un buono, Graviano non ha mai commesso nulla e la mafia era in fondo al servizio stesso di Berlusconi. L’organizzazione mafiosa, quindi, non è altro che un’appendice della politica. Riina un buono che si era fatto guidare da altri. Ma non solo. Da riscrivere anche la storia della politica italiana. Graviano dice che Berlusconi realizzò il partito di Forza Italia nel 1992, quindi un lungimirante: la prima Repubblica era ancora lontana da essere travolta da tangentopoli. Ma Berlusconi a quanto pare già sapeva tutto. Graviano, in fondo, è stato abbastanza coerente con quanto disse nei colloqui, intercettati al 41 bis, con il suo compagno d’ora d’aria Mario Adinolfi. Dalle intercettazioni stesse emerge chiaramente che Graviano sapesse di essere intercettato. La maggior parte del suo tempo era volto a discolparsi di tutto quello per cui è stato condannato. Il 41 bis d’altronde è un inferno, lui è anche in area riservata, un 41 bis ancora più duro. Già lì, in quel colloquio, tirò in ballo Berlusconi.Come sappiamo, Graviano venne arrestato nel 1994. Restavano solo i fratelli Brusca e i loro fedelissimi di S.Giuseppe Jato. Finirono in galera un anno dopo. La paranza stragista, mai riorganizzatasi, era sgominata. Lo stesso Graviano, proprio in quel colloquio intercettato, si lasciò infatti scappare: “Mi arrestarono e finirono tutte cose”. Finì tutto, tranne determinati teoremi che ancora perdurano in alcuni tribunali.

Mafia, il boss Graviano a processo: “Incontrai Berlusconi da latitante tre volte, lui sapeva”. Redazione de Il Riformista il — 7 Febbraio 2020. “Nel dicembre 1993, mentre ero latitante, incontrai Berlusconi a Milano. Berlusconi sapeva come mi chiamavo. E sapeva che ero latitante da dieci anni. Alla riunione ha partecipato anche mio cugino Salvo e con Berlusconi c’erano persone che non conoscevo. Dovevamo discutere dell’ingresso di alcuni soci nelle società immobiliari di Berlusconi”. Lo ha detto il boss di cosa nostra, Giuseppe Graviano, detenuto dal 1994 e condannato all’ergastolo, durante la sua deposizione in videoconferenza nel processo ‘Ndrangheta stragista a Reggio Calabria, in cui è imputato. Graviano, rispondendo alle domande, precisa “da latitante ho incontrato Berlusconi almeno per tre volte. Fu mio nonno ad avere i contatti con gli imprenditori milanesi. Poi, quando è morto mio padre, mi prese in disparte e mi disse ‘Io sono vecchio e ora te ne devi occupare tu’. Poco dopo mio nonno, che aveva più di 80 anni, morì”.

GHEDINI: “FALSO, ASTIO PER LEGGE CONTRO LA MAFIA DI BERLUSCONI” – “Le dichiarazioni rese quest’oggi da Giuseppe Graviano sono totalmente e platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà nonchè palesemente diffamatorie”. Lo afferma Niccolò Ghedini, legale di Silvio Berlusconi, replicando a quanto dichiarato dal boss Graviano, nel corso della sua deposizione in videoconferenza al processo ‘Ndrangheta stragista in corso a Reggio Calabria. “Si osservi – sottolinea Ghedini – che Graviano nega ogni sua responsabilità pur a fronte di molteplici sentenze passate in giudicato che lo hanno condannato a plurimi ergastoli per gravissimi delitti. Dopo 26 anni ininterrotti di carcerazione, improvvisamente il signor Graviano rende dichiarazioni chiaramente finalizzate ad ottenere benefici processuali o carcerari inventando incontri, cifre ed episodi inverosimili ed inveritieri. Si comprende, fra l’altro, perfettamente l’astio profondo nei confronti del Presidente Berlusconi per tutte le leggi promulgate dai suoi governi proprio contro la mafia. Ovviamente saranno esperite tutte le azioni del caso avanti l’autorità giudiziaria”.

LA ‘PERSECUZIONE’ CONTRO BERLUSCONI SULLA MAFIA – L’ex presidente del Consiglio ha alle spalle moltiplici accuse sui presunti legami con la mafia. Nel 1996 venne indagato indagato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, così come negli anni successivi a Firenze e a Caltanissetta in merito alle stragi mafiose del periodo 1992-1994. Tutte le inchieste contro l’ex premier sono state archiviate. Nel 2009 invece Berlusconi venne accusato da un ex collaboratore dei Graviano, Gaspare Spatuzza, di essere stato in contatto con i vertici di Cosa Nostra nei primi anni ’90, ma anche in questo caso le accuse non portarono a nulla.

Il boss Graviano: “Da latitante cenavo con Berlusconi”. Ma i testimoni sono tutti morti. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Febbraio 2020. Giuseppe Graviano sostiene di avere incontrato tre volte Silvio Berlusconi tra gli anni ottanta e novanta. Graviano era considerato uno dei boss importanti della mafia, in quel periodo, ed è accusato di avere partecipato all’uccisione di Falcone e di Borsellino. Il primo incontro con Berlusconi sarebbe avvenuto nel 1983, a Milano, allora Graviano era molto giovane, 30 anni, ma nella mafia le carriere erano veloci. Silvio Berlusconi, attraverso Niccolò Ghedini, ha fatto sapere che la deposizione di Graviano è falsa. Totalmente falsa. Non lo hai mai conosciuto, non lo ha mai incontrato. All’epoca dei presunti incontri Berlusconi era seguito giorno e notte da una scorta della polizia. Graviano non cita un solo testimone vivente di quegli incontri. I testimoni di Graviano o sono morti o sono persone che lui non conosceva e che non può indicare. Fuffa, pura fuffa, dice Ghedini. La deposizione di Graviano è avvenuta durante un processo a Reggio Calabria che si celebra per accertare chi siano i killer di due carabinieri uccisi nel gennaio del ‘94 in un agguato sull’autostrada. Il Pm Lombardo ha interrogato Graviano, che attualmente sconta due o tre ergastoli al 41 bis, e che qualche anno fa era stato intercettato – forse a sua insaputa, forse no – mentre parlava proprio dei suoi rapporti con Berlusconi. La deposizione di Graviano – che in questo processo è accusato di omicidio – ha riguardato poco l’uccisione dei due carabinieri, avvenuta una settimana prima del suo arresto. La cosa forse è stata giudicata meno interessante (ai fini processuali?) del racconto sui suoi rapporti con Berlusconi. Non sono sicuro che avvenga molto spesso che in un processo per omicidio ci si occupi di altre faccende, che non riguardano per niente quel processo e che peraltro, a occhio, non hanno rilevanza penale. Vediamo prima chi è Giuseppe Graviano e poi in cosa è consistita la sua deposizione e quali possono esserne le conseguenze. Graviano è figlio di Michele Graviano, che era considerato il capo della cosca di Brancaccio. Michele venne ucciso il 7 gennaio del 1982 nel corso della famosa seconda e sanguinosissima guerra di mafia, quella scatenata da Totò Riina, capo dei Corleonesi, contro il gruppo dei palermitani, guidato da Gaetano Badalamenti e da Tommaso Buscetta. I corleonesi sterminarono i palermitani, nel 1981; i palermitani reagirono l’anno successivo e la prima vittima riinista sarebbe stato proprio il papà di Giuseppe Graviano. Salto di dieci anni e arriviamo all’anno chiave dell’offensiva della mafia corleonese contro lo Stato. 1992. Nei processi, Giuseppe Graviano è stato condannato per aver partecipato un po’ a tutti gli attentati stragisti di quell’anno e dell’anno seguente. Secondo i tifosi della tesi della trattativa stato-mafia, Graviano sarebbe stato un uomo chiave di questa trattativa, in collegamento con Dell’Utri. In realtà la tesi della trattativa è un po’ confusa, perché ipotizza che sia avvenuta, questa trattativa, con il governo Berlusconi, e cioè nel 1994, quando le stragi erano finite da un pezzo. E di essersi fondata sulla richiesta di abolizione del 41 bis, che invece fu rafforzato. Ora, in questa deposizione, Graviano torna a parlare di Berlusconi. Non parla per la verità di Dell’Utri ma direttamente di Berlusconi, e non parla di trattativa ma di questioni economiche e di investimenti finanziari. Cosa racconta? Un fatto grave e altri fatti innocui. Dice di avere incontrato Berlusconi nel 1993, poco prima di essere arrestato, e mentre era latitante. Berlusconi, durante quell’incontro – gli è stato chiesto dal Pm, che a quel punto aveva dimenticato lo scopo del processo – era consapevole che lui era latitante? Graviano ha risposto di non saperlo, ma di pensare che lo sapesse perché conosceva il suo nome. Quale era lo scopo degli incontri tra Berlusconi e i Graviano (lui e suo cugino Salvo, che ha partecipato a tutti gli incontri con Berlusconi e che era, secondo Giuseppe, il vero tramite tra la famiglia e il cavaliere)? Discutere su come regolarizzare la partecipazione dei Graviano ad alcuni fondi di investimento  intestati a Berlusconi. Pare che fosse soprattutto il cugino Salvo quello interessato a questa faccenda. Il problema era di ufficializzare un investimento realizzato una decina di anni prima dal nonno materno di Graviano, un certo Filippo Quartararo. Che evidentemente era il nonno di Giuseppe, ma non di suo cugino Salvo Graviano e perciò non si capisce bene perché fosse Salvo a occuparsi della questione. Questa operazione era un delitto? No, pare che fosse perfettamente lecita. Anche se Berlusconi nega che sia mai avvenuta e nega di avere mai sentito parlare di questo nonno di Graviano né di questi 20 miliardi. Ma allora, se in tutto questo non c’è ombra di reati (l’unico potrebbe essere la mancata denuncia da parte di Berlusconi della latitanza di Graviano, ma è discutibile che sia un reato e poi sicuramente dopo 30 anni è prescritto) per quale ragione in un processo per duplice omicidio, il presunto killer o mandante viene interrogato su tutt’altro? Sicuramente il racconto di Graviano non ha interesse penale, indubbiamente ha un grosso valore giornalistico. Diciamo che più che di un processo dobbiamo parlare di una conferenza stampa, o di un talk show senza telecamere. Questo forse è il punto.La deposizione di Graviano non avrà conseguenze giudiziarie ma conquisterà i giornali. E permetterà di tornare alla vecchia idea che in fondo Berlusconi c’entra con la mafia. Anche se tra i grandi imprenditori italiani è quello che meno di tutti ha avuto a che fare con la Sicilia. Anche se è l’unico che è stato passato al setaccio per anni e anni, senza risultati, dai migliori magistrati italiani. Anche se è stato intercettato, pedinato e se – comunque – è sotto scorta da quarant’anni, e dunque tutti i suoi movimenti sono monitorati. Infine una piccola testimonianza personale. Mi si dice – la notizia l’ha pubblicata un piccolo giornale siciliano – che nell’intercettazione in carcere, Graviano sostenne che stava per scrivere, con me, un libro di memorie. Non era vero. Nessuno me lo aveva mai chiesto. Un anno dopo – circa – e un po’ più di un anno fa, vennero a trovarmi al giornale dove lavoravo (Il Dubbio) due persone mandate da Graviano, due avvocati credo, che mi proposero effettivamente di scrivere un libro. Dissi di no, spiegai il perché, e la cosa finì lì. Immagino però che effettivamente queste dichiarazioni di Graviano non siano nate all’improvviso. Immagino che da tempo pensa a questa uscita. Non ne immagino invece i motivi.

Attilio Bolzoni per “la Repubblica”l'8 febbraio 2020. I boss lo sapevano che "Iddu pensa solo a Iddu", che lui pensava solo a se stesso. Ma ora il mafioso che - dopo la morte di Totò Riina - custodisce i segreti più segreti di Cosa Nostra - glielo sta rinfacciando a modo suo, come è lui: spietato. Ora, dopo tanti anni di tira e molla, di cose dette e non dette, di messaggi storti, Giuseppe Graviano apparentemente fa saltare il banco e chiede il conto a Silvio Berlusconi su quelli che sono stati i veri o presunti rapporti che l' ex Cavaliere di Arcore ha avuto con la mafia siciliana. Apparentemente. Perché quello che i suoi venerano come una divinità e chiamano "Madre Natura" è un maestro del doppio e anche del triplo gioco. Dice Berlusconi ma può aver mandato messaggi a qualcun altro, in chiaro parla di soldi e di investimenti ma forse in codice parla di stragi. "Madre Natura" interpreta sempre se stesso e forse sta mischiando le carte un' altra volta. Perché lo fa adesso, e in maniera così spudorata e rumorosa, non lo sappiamo. Cosa si aspetti di ottenere, al momento è ancora un mistero. Si sta comunque scoprendo troppo e non è mai stato nel suo stile. Una ragione importante (per lui) sicuramente ci sarà. Anche perché se avesse vuotato il sacco su Berlusconi quando lo arrestarono, le sue dichiarazioni avrebbero fatto esplodere l'Italia. Le parole pronunciate ieri, seppur devastanti, passeranno nel migliore dei casi alla storia probabilmente come una "crisi individuale" del più astuto fra i Graviano. È in ritardo di ventisei anni e un mese "Madre Natura", fermato a Milano nel gennaio del 1994 dopo una soffiata - raccontano i bene informati - di un senatore della Repubblica molto amico di Berlusconi. L' effetto delle sue rivelazioni ci sarà comunque, ma il tempo - si sa - scolorisce tutto. Avremo solo un po' di informazioni in più sui patti fra l' associazione denominata Cosa Nostra e un' imprenditoria rapace, su come è stato costruito un impero economico, sulle trattative indicibili fra "classi pericolose" e poteri in un paese dove si stava fondando la seconda Repubblica. Ma è questo che ci ha voluto comunicare "Madre Natura", è davvero questo? "Iddu pensa solo a Iddu" era la voce che avevano fatto circolare sin da subito in carcere e che poi era stata trasportata fuori, di bocca in bocca, prima sussurrata e poi gridata in quell' inizio degli anni '90. Quando Iddu, Silvio Berlusconi, era diventato per la prima volta Presidente del Consiglio. Iddu capo del governo e loro sepolti come morti vivi al 41 bis, Iddu potente e intoccabile e loro braccati come animali, Iddu sorridente fra i potenti della terra e fra quelle simpatiche signorine un po' scollacciate e loro con tutti i beni sequestrati e gli ergastoli sul groppone. Poi erano arrivati i Graviano, a provare a rimettere ordine. I due fratelli, Filippo e quell'altro, Giuseppe. E, proprio in quel momento, tutti noi abbiamo cominciato a vedere i riflessi lontani di una storia che c'era e non c'era, un gioco degli specchi, un fratello che ammetteva e l'altro che smentiva, il secondo che ricordava e il primo che dimenticava, una volta parlavano di mafia e un' altra di Borsa, in un' udienza si dibatteva sulle stragi e nel processo dopo di «un famoso imprenditore del Nord». Tutto vischioso, indistinto, quasi vero. Quasi. Chiacchiere ricattatorie di gente accusata di avere organizzato stragi e che tentava di coinvolgere il nuovo padrone d' Italia negli affari più loschi, lui e anche l' amico - Marcello Dell' Utri - che lo aveva trascinato nell' arena politica fondando Forza Italia. Ma un "Madre Natura" inedito e fragoroso ha scelto di fare il nome e il cognome di "Iddu" inserendolo nel peggiore dei contesti possibili, quantifica l' investimento di famiglia (quella di Brancaccio) - venti miliardi di vecchie lire con l' interesse del venti per cento - per accreditare la sua versione non esita a chiamare in causa il nonno Filippo e il cugino Salvatore, confessa candidamente di avere incontrato "Iddu" almeno tre volte quando era latitante e già pienamente immerso nelle investigazioni sulle uccisioni dei giudici Falcone e Borsellino. Parole che oltrepassano il già visto e il già sentito. Ma eccessivamente. Una sregolatezza un po' sospetta. Queste parole nel ' 94 avrebbero fatto esplodere l' Italia. Oggi avremo solo un po' di informazioni sui patti tra Cosa Nostra e un' imprenditoria rapace.

Francesco La Licata per “la Stampa” l'8 febbraio 2020. Alla fine il timer sembra essersi fermato e la bomba deflagra. Giuseppe Graviano, mafioso di primo livello tanto da essere soprannominato «madre natura», rompe i freni inibitori che dovrebbero caratterizzare il suo essere «uomo d'onore che non parla mai» e, invece, parla a ruota libera in pieno processo. Tutti eravamo al corrente che i fratelli Graviano (è toccata a Giuseppe la responsabilità di una decisione non facile) costituissero una specie di bomba ad orologeria, pronta ad esplodere quando lo avessero scelto i detentori dell'esplosivo. L'incognita era rappresentata - e continua ad esserlo anche adesso, visto l'andamento e la «sapienza» delle «rivelazioni» - dal quando e perché avrebbero deciso di togliere la sicura all'ordigno. Certo, ce n'è voluto di tempo, visto che era rimasto inerte per più di un quarto di secolo, cioè da quando i fratelli palermitani furono arrestati (1994) a Milano in circostanze davvero strane, come oggi afferma lo stesso Graviano quando invita i magistrati a indagare sulle modalità di quella cattura. Ma ora che l'orologio è saltato non vuol dire che tutto sarà più semplice e decifrabile. Anzi, forse proprio adesso viene il difficile, almeno sino a quando non si troveranno pezze d'appoggio alle parole di Graviano che, senza riscontri, resteranno messaggi cifrati ad uso e consumo di «trattative private» fra il boss e i suoi interlocutori interni ed esterni alla mafia. L'impressione, infatti, è che per un quarto di secolo i capi di Cosa nostra se ne stiano stati buoni e fermi in attesa del miracolo che, purtroppo per loro, non è arrivato, seppellendoli al 41 bis per un tempo che forse è divenuto non più sopportabile. Ma proprio per questo non potranno bastare le semplici affermazioni di «madre natura» che, durante il dibattimento, gli avvocati potrebbero relegare nell'ambito dell'indimostrato, per di più motivato dal rancore verso chi avrebbe dovuto aiutarli e non lo ha fatto. In questo senso potrebbe prendere forma concreta la suggestione che descrive i Graviano molto «destabilizzati» dal recente «evento» che sembra aver rotto il sodalizio fra Berlusconi e Dell'Utri, quest'ultimo amareggiato e deluso dal rifiuto opposto dal cavaliere alla richiesta di testimonianza (leggi aiuto) inviata a Berlusconi. Anche a bomba esplosa, dunque, la presa di posizione del boss di Brancaccio resta un enigma. Forse bisognerà attendere ancora un po' per capire perché Graviano parla e, soprattutto, a chi sta parlando. Non sfugge il sapiente tentativo, utopistico, del boss di tirarsi fuori dal terreno giudiziario rigettando qualunque accusa di stragismo: «Noi non c'entriamo». Ma nello stesso tempo rivolge il dito accusatorio verso indefiniti «industriali di Milano» che non volevano le stragi si fermassero. E a proposito di fermare le stragi, con la consueta malizia di boss navigato invita i giudici a «indagare sul mio arresto». Giuseppe e Filippo Graviano furono catturati nel 1994, all' indomani del fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma (che avrebbe dovuto chiudere il cerchio del «ricatto stragista» di Cosa nostra allo Stato) e alla vigilia delle elezioni politiche che per la prima volta vedevano la partecipazione di Forza Italia. Ciò che non nega, Graviano, riguarda il legame della sua famiglia con Silvio Berlusconi che fa risalire alla fine degli Anni Settanta, quando suo nonno, Filippo Quartararo, «ricco commerciante di ortofrutta venne invitato a investire al Nord perché era in contatto con Silvio Berlusconi». Affari «legittimi» («il legame non era criminale ma economico») che, però, era necessario ufficializzare con carte scritte. Per questo i Graviano si incontrarono con Berlusconi. «Ci siamo incontrati almeno tre volte, anche mentre ero latitante», aggiunge senza rinunciare alla collaudata malizia. E offre particolari: l'Hotel Quark indicato come sede di uno degli appuntamenti e il cugino Salvo testimone, che, come nelle migliori tradizioni dei processi di mafia, è morto e non potrà essere interrogato. Insomma, rimane il dubbio iniziale. Perché Graviano ha tolto la sicura alla bomba ad orologeria? La risposta più immediata è che si è stancato di stare in carcere ad aspettare qualche beneficio che continua a non arrivare, seppure in qualche modo promesso. Le leggi rigide hanno impedito (e non solo per lui ma per tutti i boss di Cosa nostra) qualsiasi attenuazione della pena, qualsiasi deroga all'isolamento (per avere un figlio ha dovuto fare ricorso a un vero e proprio gioco di prestigio che gli ha permesso di ingravidare la moglie dalle sbarre della cella). Ma adesso, con la recente sentenza della Corte europea sull'ergastolo ostativo, si potrebbero aprire spiragli. Un atteggiamento collaborativo del detenuto, anche se non di vera e propria collaborazione, potrebbe favorire provvedimenti premiali anche per i mafiosi. Sarà per questo che Graviano assicura di voler rispondere anche a domande dei magistrati sui suoi famosi colloqui col compagno di cella Adinolfi, «ma solo dopo aver avuto la possibilità di ascoltare le registrazioni». Cosa possibile soltanto se disponesse di un computer, ma chi sta al carcere duro non può avere un pc. Se glielo dessero sarebbe una prima, piccola deroga alle limitazione al regime del 41 bis. Forse, però, potrebbe ascoltare le sue registrazioni sotto il rigido controllo di un pubblico ministero, ma finora questa idea non è venuta a nessuno.

"L'obiettivo di Graviano non è Berlusconi". Intervista a Claudio Fava. II presidente della Commissione Antimafia dell'Ars: "Non mi fido delle sue presunte verità centellinate. Dica perché parla adesso. Si rivolge ai suoi compari in carcere, allo Stato, a pezzi deviati delle Istituzioni?" Federica Olivo il 07/02/2020 su huffingtonpost.it. Perché parla adesso Giuseppe Graviano? E, soprattutto, a chi si sta rivolgendo, a chi sta lanciando il suo messaggio? Per Claudio Fava sono queste le domande a cui bisogna rispondere, o meglio, a cui il boss delle stragi deve dare una risposta. Solo dopo, le dichiarazioni come quella fatta oggi sui presunti incontri - tre, sostiene - avuti con Silvio Berlusconi ormai tanti decenni fa potranno essere prese in considerazione. “Graviano dice che non si fida dei magistrati. Io non mi fido di Graviano”, sostiene il presidente della Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana parlando con HuffPost. “La giustizia non è un mercato. La verità è tale o non è”, tuona Fava, che si chiede chi sia il vero obiettivo delle parole del boss. “Non credo proprio sia Berlusconi”, aggiunge.

Graviano ha dichiarato di aver visto per tre volte, quando era latitante, Silvio Berlusconi, allora imprenditore. Cosa ci dicono le sue parole?

«Premetto una cosa: lui dice che non si fida dei giudici. Io invece non mi fido di Graviano. Non mi fido di verità centellinate, raccontate con tempi, forme e modi discutibili, come se il suo fosse un capriccio, e le sue dichiarazioni rispondessero solo ed esclusivamente ai suoi interessi. Stiamo parlando di verità presunte, tirate fuori a tempo scaduto. Graviano spieghi perché non ha parlato prima. Poi possiamo ragionare».

Perché parla di “verità tirate fuori a tempo scaduto”?

«Perché siamo di fronte a sentenze sulle stragi passate in giudicato, a un depistaggio smascherato. Le sue mi sembrano verità ad orologeria. È come dire “io non c’entro nulla con le stragi. Incontravo Berlusconi per fare affari”».

Il boss davanti al pm ha affermato che potrebbe dire ancora altre cose. A chi si sta rivolgendo?

«Non so a chi stia parlando. Se a un magistrato, se ai suoi compari. Ecco, prima spieghi perché parla proprio adesso. La giustizia non è un mercato, né una soap opera a puntate. La verità è o non è. E, finora, quella di Graviano non è mai stata una verità». 

E allora queste parole cosa significano?

«Secondo me sono messaggi in codice. Lanciati non sappiamo a chi. Graviano sta giocando la sua partita, in modo subdolo e opaco. Poi, chiaramente, può darsi che le cose che sta dicendo siano vere. Ma le forme e i tempi con cui vengono raccontate, per step, mi fanno dire: ‘io non ho alcuna fiducia nel fatto che questo signore abbia buone intenzioni, o buona fede’. Penso, però, che il messaggio che sta lanciando con le sue dichiarazioni non sia rivolto a Berlusconi. I destinatari di queste affermazioni sono altri. Il suo è comunque un linguaggio sgradevole, per le forme in cui arriva. Per le allusioni cui si aggrappa». 

Se non è un messaggio a Berlusconi, a chi parla Graviano?

«Il tema principale di questa vicenda è: qual è l’obiettivo del boss? Io non credo sia Berlusconi.  Penso si stia rivolgendo a gente che è in carcere, o a gente che è fuori. A pezzi delle istituzioni, forse a pezzi deviati delle istituzioni che attorno alle stragi si sono mosse, hanno manipolato, depistato. Graviano ha molte colpe sulla coscienza, ma anche molti segreti indicibili. E fino a quando non dice perché sta parlando proprio ora, io continuerò a non fidarmi di quello che afferma».

Processo Trattativa Stato-mafia, Bagarella morde agente. Entrambi finiscono in infermeria. Il cognato di Riina è andato in escandescenze mentre veniva portato nella saletta delle videoconferenze per assistere alla nuova udienza. La Repubblica il 16 gennaio 2020. Il boss Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina e superkiller di Cosa nostra, autore di centinaia di omicidi, ha aggredito con un morso un agente del Gom, il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria. È accaduto ieri mattina, nel supercarcere di Sassari, dove il boss corleonese è rinchiuso al carcere duro: stava per essere trasferito dalla sua cella alla saletta delle videoconferenze, per assistere all’udienza del processo d’appello per la “Trattativa Stato-mafia”. All’improvviso, è andato in incandescenza, l’agente è rimasto lievemente ferito, ma poi  anche Bagarella ha dovuto fare ricorso alle cure dei medici dell’infermeria, perché dopo l’aggressione al poliziotto  era ancora in stato di agitazione. Anche per questa ragione, ha rinunciato a  partecipare all’udienza, che è dunque iniziata in ritardo. In primo grado, Bagarella è stato condannato a 28 anni, ma sta scontando anche diverse condanne all’ergastolo.

Stato-mafia nasconde la verità sulle stragi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Novembre 2019. Silvio Berlusconi ieri ha fatto scena muta davanti alla Corte d’appello che dovrà decidere le sorti del processo sulla famosa trattativa Stato-Mafia. Era stato convocato come testimone, e la sua testimonianza sarebbe probabilmente servita a Marcello Dell’Utri per tirarsi fuori dalla trappola dove l’hanno infilato i Pm. Lui però ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. Perché aveva questa facoltà? Perché recentemente la Procura di Firenze gli ha spedito un avviso di garanzia per le stragi del 1993 e per l’attentato fallito a Maurizio Costanzo. Berlusconi a questo punto si trova a essere sotto accusa in un procedimento giudiziario che riguarda delitti connessi al processo di Palermo. Il fatto che entrambi i processi siano del tutto strampalati non cambia le cose. Essendo i due processi collegati, Berlusconi ha la facoltà di non presentarsi come testimone, e ieri ha dichiarato che i suoi avvocati lo hanno consigliato di fare così. Il suo avvocato è Franco Coppi, che conosce bene questa materia e conosce anche i magistrati che se ne occupano: evidentemente ha immaginato che in questo momento per Berlusconi sia più opportuno evitare deposizioni.  Naturalmente non esiste neppure una persona sola nell’intero mondo che creda che Berlusconi possa avere avuto qualcosa a che fare con quegli attentati, e in particolare con quello al suo amico Costanzo, che in quel periodo era oltretutto un pilastro delle sue televisioni. Però la giustizia, si sa, è così: burocratica, burocratica, burocratica. E di conseguenza ritiene che sia un indizio sufficiente una frase smozzicata pronunciata da un boss in carcere (Graviano) intercettata durante un colloquio con un altro detenuto e intercettata dai magistrati (poi si è saputo che Graviano sapeva di essere intercettato, e tutto quel che diceva lo diceva per qualche ragione). Graviano disse: «Berlusca mi ha chiesto un piacere». Dal punto di vista degli inquirenti l’inverosimiglianza assoluta dell’affermazione, e la totale assenza di riscontri non valgono niente. La mancata deposizione di Berlusconi, però, danneggia Dell’Utri. Il quale è accusato di avere fatto da tramite tra Cosa Nostra e Berlusconi in questa benedetta e molto improbabile trattativa Stato-Mafia. L’ipotesi dell’accusa è questa: la mafia aveva deciso di attaccare lo Stato per poi trattare. Uccise Lima (deputato andreottiano), poi Falcone, e Borsellino, nel 1992, e l’anno successivo realizzò gli attentati che provocarono stragi a Firenze, a Milano e anche a Roma, dove provò – sbagliando – a uccidere Maurizio Costanzo e Maria de Filippi. La mafia – sostiene l’accusa – chiese al governo, in cambio della pace e della fine dell’attacco militare, una serie di concessioni, tra le quali soprattutto la fine del 41 bis. Dell’Utri, secondo l’accusa, fece da intermediario tra la mafia e il premier Berlusconi. Però c’è un problema di date, e poi un problema di fatti. Le date: gli attentati finiscono il 23 gennaio del 1994, quando per un errore (o forse per un ripensamento) non salta la bomba che avrebbe ucciso decine di carabinieri allo Stadio Olimpico, pochi minuti prima della partita Roma-Udinese. Dicevamo: 23 gennaio. A quel punto evidentemente la trattativa si conclude perché gli attentati cessano. Però Berlusconi andò al governo solo quattro mesi più tardi, e nessuno, in gennaio – proprio nessuno – poteva nemmeno immaginare che avrebbe vinto le elezioni a primavera. Tutti erano certi della vittoria di Occhetto. È strano chiedere delle misure di tipo legislativo a un imprenditore che non ha mai messo piede in Parlamento.

La seconda contraddizione riguarda i fatti. Quando Berlusconi andò al governo non prese nessuna misura di allentamento della lotta alla mafia, non cancellò il 41 bis anzi inasprì tutte le misure. Se ciò non vi basta ancora, tenete conto di un altro elemento di questa storia che lascia davvero molto perplessi. Oltre a Dell’Utri sono accusati di avere guidato la trattativa Stato-Mafia tre ufficiali dei carabinieri. Il più famoso è Mario Mori. Che mentre la trattativa – secondo i giudici – era in corso con Totò Riina, cosa fece? Arrestò Riina. Negoziato più bislacco di questo non poteva essere immaginato. E allora come stanno le cose? Beh, è chiaro un po’ a tutti che il processo sulla trattativa Stato-Mafia, e l’ipotesi che questa trattativa sia stata il motivo per il quale furono uccisi Falcone e Borsellino (i quali peraltro furono uccisi quando la prima Repubblica appariva ancora ben salda e Berlusconi in politica non era neppure un fantasma) sono un processo e un’ipotesi di quelli che a Roma si definiscono “una bufala”. Non stanno in piedi neanche coi cerotti, anche se fin qui hanno già prodotto una condanna in primo grado, alla quale è giunta una giuria popolare spinta da una gigantesca campagna di stampa, e hanno rovinato la vita a molte persone, alcune delle quali – come il generale Mori – sono tra i pochi ad avere dato gran parte della loro vita alla lotta strenua alla mafia. Quelli che non sono chiarissimi a tutti sono gli effetti di questo gigantesco depistaggio. Gli effetti sono che è stato calato un velo sulla vera indagine che Falcone e Borsellino stavano conducendo, servendosi del lavoro di Mori e della sua squadra; era un’indagine, che aveva un’ampiezza impressionante e stava per svelare i rapporti tra la mafia e un pezzo molto consistente del mondo imprenditoriale italiano (ma in quel pezzo di mondo non c’era Berlusconi). Si tratta del dossier mafia-appalti, che era stato promosso da Falcone, realizzato da Mori, e che sarebbe stato ereditato da Borsellino se Borsellino non fosse stato ucciso nel luglio del ’92.  Tre giorni prima della sua uccisione i Pm di Palermo chiesero l’archiviazione del dossier, e l’archiviazione venne ratificata il 14 agosto. Tutto questo è raccontato dettagliatamente nel fotoromanzo curato da Giovanna Corsetti, che pubblichiamo oggi in prima e seconda pagina e che pubblicheremo ancora nei prossimi giorni.  Ecco spiegato il processo Stato-Mafia. Che sicuramente è stato voluto dai Pm per altri motivi, ragionevolissimi, ma che alla fine (così come il depistaggio del pentito Scarantino, che aveva accusato delle persone non colpevoli dell’uccisione di Borsellino, guidato, a quanto pare, da uomini dello Stato) è servito solo a depistare, a impedire che si scoprisse perché e chi aveva ucciso Borsellino e a seppellire un’indagine su mafia e imprenditoria che avrebbe sconvolto l’Italia. 

Di Matteo, il diritto per un ex Pm di calunniare. Tiziana Maiolo il 5 Novembre 2019 su Il Riformista. Il pubblico ministero e membro del Csm Nino Di Matteo non perde occasione per raccontare, soprattutto in occasioni in cui non ha contraddittorio, la storia dei rapporti tra Silvio Berlusconi e la mafia. Diciamo la verità, alcuni magistrati sembrano un po’ dischi rotti, anche se nessuno di loro può affermare che mai il presidente di Forza Italia sia stato condannato per reati che abbiano a che fare con la criminalità organizzata. Si è dovuto inserire il suo nome nella sentenza che ha condannato Marcello Dell’Utri a 7 anni di carcere per un reato inesistente nel codice, il concorso esterno in associazione mafiosa. Per giustificare una vera persecuzione che ha tenuto in carcere una persona anche quando era gravemente malata, lo si è dovuto qualificare come “garante” del patto tra Berlusconi e la mafia. In che cosa consistesse questo patto e quali ne fossero gli scopi non è dato sapere. Ma è quanto basta a Di Matteo per affermare le sue certezze sulla base di “sentenze definitive”. Io parlo solo di quelle, dice. Eh già, gli conviene. Perché di fatti gravissimi, ai quali lui era presente, come quello del “depistaggio di Stato”, che hanno impedito di sapere come e perché sia stato assassinato Paolo Borsellino, lui non parla. Nella prossima intervista televisiva, dottor Di Matteo, potrebbe raccontarci qualcosa su Vincenzo Scarantino, l’Enzino piccolo truffatore della Guadagna di Palermo che qualcuno ha trasformato, a suon di schiaffi pugni minacce e ricatti nel Pentito di Stato della strage di via D’Amelio. Forse lei era un pm-ragazzino quando faceva parte di un pool in cui oggi gli altri due suoi colleghi sono indagati a Messina per calunnia, aggravata dal fatto di aver favorito Cosa Nostra, proprio per quei depistaggi. E forse non ricorda che a Caltanissetta vengono processati per quei gravi fatti un ex funzionario della squadra mobile di Palermo e due sottufficiali. E forse i nomi del procuratore Tinebra e del questore La Barbera non le dicono più niente. E forse non ricorda che in quegli anni, parliamo del 1992 e 1993, esistevano due carceri speciali nelle isole di Pianosa e di Asinara dove con vere e proprie torture si costruivano i “pentiti”. E che Enzino Scarantino fu uno di quelli, come denunciò subito la moglie. È un vero peccato che, ventisette anni dopo quella strage, emergano 19 bobine di intercettazioni che dimostrano quel che si era sempre saputo ma che solo nelle aule di tribunale non si è voluto vedere, e cioè che Scarantino, dal luogo segreto dove era protetto, parlava al telefono con funzionari della squadra mobile e anche con gli stessi pubblici ministeri. E anche che, prima di andare a deporre ai processi, veniva preparato. Insomma, qualcuno gli suggeriva quel che doveva dire. Più volte lui ha tentato di scrollarsi di dosso quel ruolo, preferendo tornare in carcere, ma più volte, per lunghi quindici anni, è stato ricondotto al suo ruolo. Il depistaggio di Stato non poteva essere fermato. E vogliamo parlare di quei verbali del 13 gennaio 1995 in cui altri tre collaboratori di giustizia ritenuti attendibili avevano smentito clamorosamente Scarantino e che furono “persi” dai pubblici ministeri di Caltanissetta e mai depositati al processo? Eh sì, dottor Di Matteo, più comodo raccontare in tv la favola di Berlusconi.

Che scandalo il silenzio sulle parole del Pm Di Matteo. Gian Domenico Caiazza de Il Riformista il 25 Aprile 2020. La polemica pretestuosa e mistificatoria sulla scarcerazione per gravissime e conclamate ragioni di salute, di un detenuto per fatti di mafia, peraltro anticipatoria solo di pochi mesi della totale espiazione di una pesante pena detentiva, ha di gran lunga superato i limiti della decenza. L’Unione delle Camere penali ha già espresso solidarietà e vicinanza ai giudici di Sorveglianza di Milano, fatti oggetto di questa indegna gazzarra. Ma il vero scandalo è il silenzio calato sulle parole del dott. Di Matteo, membro del Csm, che liquida lo scrupoloso lavoro dei suoi colleghi milanesi come cedimento dello Stato al ricatto mafioso delle rivolte carcerarie, senza che nessuno abbia nulla da dire. Un silenzio tanto più scandaloso nel giorno in cui dallo stesso Csm provengono censure sulle valutazioni espresse, in modo certamente meno scomposto, da un membro laico dello stesso organismo, su altri magistrati milanesi, ma questa volta appartenenti all’Ufficio di Procura. Il nostro è proprio il paese dei due pesi e delle due misure, purtroppo. 

 Chi è Nino Di Matteo, il Pm che sognava di fare il ministro nonostante i fallimenti processuali. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 25 Aprile 2020. Domani è il compleanno di Nino Di Matteo. E’ nato a Palermo il 26 aprile del 1961. Quell’anno Leonardo Sciascia compiva sessant’anni e pubblicava Il giorno della civetta, il romanzo che, sotto le vesti del poliziesco, svelò al mondo quel che lo Stato ancora nascondeva, l’esistenza della mafia. I compleanni, specie dopo una certa età, e a maggior ragione se le candeline poco riescono a illuminare il buio dei giorni difficili come quello dell’oggi infestato dal virus, sono spesso momento di riflessione. Il momento in cui si fa il punto della situazione. Del magistrato Di Matteo si dice sempre che era giovane, che era troppo giovane per potersi assumere responsabilità, per esempio sulla più grande falsificazione della storia, la costruzione a tavolino di un falso pentito di mafia, quel tal Scarantino, “convinto” alla calunnia da un carcere speciale dove si torturavano i detenuti. Era sicuramente giovane quel 10 gennaio del 1987 (entrerà in magistratura nel 1991), quando sul Corriere della sera uscì l’articolo di Sciascia sui “professionisti”, coloro che, in politica come nella magistratura e nel giornalismo, si pavoneggiavano sul palcoscenico dell’antimafia di facciata. Era sicuramente troppo giovane per mettersi al riparo della tentazione di diventare “professionista” e anche “antimafia”. Quindi sarebbe stato al fianco di coloro che, punti sul vivo, prepararono il rogo allo scrittore di Racalmuto. Quelli come il sindaco Leoluca Orlando, per intenderci. Coloro che, con l’eroismo di chi sta sempre da un’altra parte quando c’è da combattere, si fregiano del titolo dell’”antimafia”, e questo loro basta. Certo, quel tipo di vanità non manca, al giovane Di Matteo, e neppure la parola pronta. Lo ha dimostrato in questi ultimi giorni, quando ha accusato lo Stato di «aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato-mafia». Una frase roboante e fuori proporzione rispetto al semplice fatto che una sua collega magistrato del tribunale di sorveglianza di Milano avesse disposto gli arresti domiciliari per un vecchio boss malato. Se il compleanno di domani sarà occasione per rivedere un po’ della sua vita, forse gli bruceranno le parole di Fiammetta Borsellino, figlia di un magistrato ucciso dalla mafia cui lui e i suoi colleghi non hanno saputo dare giustizia. Perché sarà anche stato giovane nel 1992 e nel 1993 e nel 1994, il dottor Di Matteo, ma il processo-farsa è andato avanti con la sua presenza fino al 2017, fino a quando non i giudici, ma un “pentito” di nome Spatuzza gli ha risolto il caso. Risolto per modo di dire, perché dopo la morte di Borsellino è stata buttata nel cestino l’inchiesta mafia-appalti, probabile movente dell’uccisione del magistrato. Su cui neppure lei, dottor Di Matteo, neanche nelle sue tante interviste, ha mai mostrato curiosità. O forse ricorderà quando sognava di diventare ministro, intorno al 2018, e non escludeva di poter entrare in politica mentre in politica c’era già, con l’evanescenza delle sue dichiarazioni e la realtà di due fallimenti processuali. Non aver saputo contribuire, insieme ai suoi colleghi, a fare giustizia per Borsellino, e aver puntato tutte le sue fiches su quel processo Stato-mafia che si sta sgretolando un pezzetto per volta. Ogni tanto, mentre ripensa alla sua vita, vada a rileggere le 500 pagine della sua collega giudice Marzia Petruzzella, quella che prima ha assolto Calogero Mannino e che aveva liquidato tutta la vostra inchiesta come “fantasiosa storiografia” e ricerca accanita di inesistenti complotti. Complotti già archiviati nel 2001, nel 2002 e ancora nel 2003 e nel 2004. E poi, di pensiero in pensiero, ne rivolga uno anche a Silvio Berlusconi che lei ritiene di poter calunniare ogni volta in cui rilascia un’intervista. Cioè continuamente. Lei crede veramente che Marcello Dell’Utri, condannato per un reato che non esiste nel codice, fosse “garante” per conto della mafia nei confronti di un presidente del consiglio vittima di un ricatto? Non può crederlo, eppure lo dice. Il suo mantra è sempre lo stesso. Nella sua visione da “professionista” c’è sempre il “cedimento dello Stato che subisce un ricatto”, oppure lo Stato che tratta con la mafia. Ma chi è “Lo Stato” nella sua fantasia? Lo Stato sono tutti gli altri. I colpevoli. Mentre lei non ha mai peccato. Così si ribaltano le responsabilità, quando nel 2018 si è convocati davanti al Csm e dopo le accuse della famiglia Borsellino, si può impunemente affermare che lei non c’era, che era giovane e che comunque i parenti della vittima sono stati “strumentalizzati”. Così non si è fatto niente di male quando si parla a ruota libera e per 42 minuti in una trasmissione televisiva parlando di indagini in corso sulle stragi e rivelando qualche particolare di troppo. E quando il capo dell’Antimafia ti caccia per la caduta del rapporto di fiducia, tu puoi fare spallucce e riuscire, per un fortuito caso di dimissioni di colleghi e con l’aiuto dell’amico Davigo, a infilarti al Consiglio Superiore della magistratura. Ma anche da lì continuare a farsi “professionista”. E parlare. Anche contro il governo che cerca timidamente di sfollare un pochino le carceri per impedire le stragi da coronavirus. Forse è arrivato il momento di riflettere, dottor Di Matteo. Ministro non è diventato, e vista la triste situazione del Movimento cinque stelle, difficilmente lo diventerà. Le sue interviste –ripetitive e noiose, diciamo la verità- ormai escono solo sul Fatto quotidiano. I maxiprocessi sono ormai nell’ombra. Non sarebbe ora di fare il semplice magistrato che non lotta, che non è “anti”, ma si limita a fare indagini in silenzio e a onorare la toga che indossa? Buon compleanno, Nino Di Matteo. E rilegga Sciascia, ogni tanto. C’è sempre da imparare.

Stato-Mafia, l’assoluzione di Mannino sconfessa la “trattativa”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 15 gennaio 2020. Depositate le motivazioni della sentenza di appello. Per I giudici I rapporti dei Ros con Ciancimino erano finalizzati alla cattura dei latitanti e ne erano a conoscenza Borsellino e in seguito Caselli. Non solo l’ex ministro Calogero Mannino è del tutto estraneo alla trattativa Stato – mafia, ma quest’ultima non c’è mai stata. Ieri i giudici di Palermo hanno depositato le motivazioni della sentenza che ha confermato l’assoluzione di primo grado dell’ex ministro democristiano. Sono oltre mille le pagine in cui il collegio presieduto da Adriana Piras, a latere Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini, spiega perché Mannino è innocente. Nello stesso tempo piccona anche la trattativa, intesa come patto sporco con la mafia dall’accusa al processo a Mannino, ma anche nel troncone principale che si è chiuso – in primo grado – con condanne pesantissime. «Non è stato affatto dimostrato che Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute ( addirittura, quella del buon esito del primo maxi processo) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991», scrivono i giudici. La corte smantella la tesi dell’accusa secondo la quale Mannino, minacciato da Cosa nostra per non aver mantenuto i patti, avrebbe avviato, grazie ai suoi rapporti con i carabinieri del Ros, una trattativa finalizzata a dare concessioni ai clan in cambio di una assicurazione sulla vita. Ma la presunta trattativa c’è sta o no? Secondo i giudici no e smontano la prova del teorema basata sul mancato rinnovo del 41 bis ad alcuni mafiosi. Infatti delle circa 300 persone a cui non si è rinnovato il 41 bis, solo 18 appartenevano alla mafia. Ma non solo. A seguito di una nuova applicazione, si era ridotto a soli undici soggetti mafiosi. Secondo i giudici, il mancato rinnovo del 41 bis è frutto di scelta dettata dalla sentenza della Corte costituzionali e altri fattori che nulla c’entrano con la tesi accusatoria. Interessante il passaggio dove i giudici scrivono che gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno avviarono le interlocuzioni con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino esclusivamente per la cattura dei latitanti. Inoltre i giudici smontano la tesi che tale iniziativa fosse stata tenuta all’oscuro. Infatti sottolineano che – tramite Liliana Ferraro, magistrato, amica e braccio destro di Falcone -, era stato avvisato Paolo Borsellino, così come – dopo l’arresto di Ciancimino -, anche il procuratore della Repubblica di Palermo, Giancarlo Caselli. Ma non solo. I giudici mettono in evidenza anche una palese contraddizione sul presunto favore che gli ex Ros avrebbero fatto a Mannino. A proposito della loro famosa indagine su mafia- appalti e di quelle successive sul concorso esterno in associazione mafiosa, gli uomini del Ros non avevano mai lesinato indagini a carico di Mannino. I giudici hanno anche stigmatizzato la teoria – portata avanti dall’accusa- della cosiddetta “doppia informativa” del dossier mafia- appalti. La tesi dei pm, in sostanza, dice che i Ros avrebbero depurato il dossier di alcuni nomi, tra i quali quelli di Mannino. Ma i giudici della Corte d’appello smontano tale ricostruzione, rimandando al capitolo 6 dell’ordinanza di archiviazione a firma dell’allora Gip Gilda Loforti della procura di Caltanissetta. I Pm avevano detto che la vicenda mafia appalti come concausa delle stragi sarebbe diventato un boomerang difensivo. Invece i giudici non solo hanno smentito ciò, ma bacchettano i pm di non aver inserito la sentenza Loforti sulla vicenda mafia- appalti.

Intervista a Calogero Mannino: “Storia d’Italia cancellata, va riscritta”. Giovanni Altoprati il 16 Gennaio 2020 su Il Riformista. «Questa sentenza segna la fine – definitiva – della “storia d’Italia” scritta da Giancarlo Caselli e Antonio Ingroia», afferma Calogero Mannino, senatore ed ex ministro della Democrazia cristiana, all’indomani del deposito delle motivazioni della sentenza che ha confermato l’assoluzione dall’accusa di “minaccia a corpo politico dello Stato”. Secondo i giudici della Corte d’Appello di Palermo, presidente Adriana Piras, Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini a latere, Mannino «non ha commesso il fatto». Per la Corte di Palermo Mannino è estraneo alla “trattativa” fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia. In primo grado, al termine del rito abbreviato, il gup Marina Petruzzella aveva rigettato la richiesta di condanna a nove anni sollecitata dai pubblici ministeri. Calogero Mannino oggi ha 80 anni. Li ha compiuti ad agosto. E’ un siciliano nato a Sciacca. Ha iniziato a fare politica da ragazzino. Sempre nella Dc. Faceva parte della corrente di sinistra di Donat Cattin. Nel 1961, a 22 anni, fu eletto per la prima volta in una assemblea, e cioè al Consiglio provinciale di Agrigento. Poi nel ‘72 entra in Parlamento e ci resta per quasi quarant’anni, fa anche il ministro: Mezzogiorno, Agricoltura, Trasporti. Poi a metà degli anni novanta la mazzata: carcere. Mafioso. Inizia la persecuzione di una parte della Procura di Palermo contro di lui. Ora finalmente esce definitivamente dall’incubo. Un incubo durato tre decenni. ne esce adesso che non è più un ragazzino…

Senatore Mannino, i giudici hanno dunque fatto a pezzi il teorema secondo il quale lei, minacciato dalla mafia per non aver mantenuto i patti, avrebbe avviato grazie ai carabinieri dei Ros una trattativa finalizzata a dare concessioni ai clan in cambio di una “assicurazione” sulla vita. Per i giudici non è stato dimostrato che lei “fosse finito nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute – addirittura quella del buon esito del primo maxi processo – ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991”.

«Esatto. Mi permetta di considerare questa sentenza come la “Cattedrale della verità”.»

Arrestato nel 1994 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo nove mesi di carcere, tredici di arresti domiciliari e una trafila giudiziaria estenuante, nel 2010 lei era stato assolto definitivamente dalla Cassazione perché il fatto non sussiste. Ora questa nuova assoluzione.

«Sì. I giudici hanno chiarito l’aspetto relativo al mancato rinnovo del 41 bis ad alcuni mafiosi…Delle trecento persone a cui non fu rinnovato il 41 bis, solo undici erano mafiosi: i giudici hanno ribadito che il mancato rinnovo del 41 bis fu il frutto di una sentenza della Corte costituzionale ed altro… Io mi sono sempre adoperato per il contrasto alla mafia».

Secondo la ricostruzione dell’accusa, lei sarebbe stato il “primo anello della trattativa”: temendo per la sua incolumità, grazie ai suoi rapporti con l’ex capo del Ros Antonio Subranni, nel ’92, si attivò per avere protezione.

«Non so cosa abbiamo fatto gli ufficiali dei Carabinieri, i generali Mario Mori e Subranni. I carabinieri avviarono una “interlocuzione con Vito Ciancimino solo per la cattura dei latitanti”. Lo scrivono i giudici. Nessuno era stato tenuto all’oscuro. Tramite Liliana Ferraro, magistrato al ministero della Giustizia, amica di Giovanni Falcone, era stato avvisato Paolo Borsellino, così come dopo l’arresto di Ciancimino, anche il procuratore di Palermo, Caselli. Nella indagine “mafia e appalti” i carabinieri avevano svolto indagini anche nei miei confronti. In questo processo era tornato a deporre il pentito Giovanni Brusca, confermando il progetto di attentato nei suoi confronti e riferendo di un tentativo di avvicinarla da parte di Totò Riina. Dice Brusca che “Mannino era stato cercato da Riina per alcune richieste, per aiutarlo ad aggiustare qualche processo o qualche altro favore. Tra gli anni ‘80 e ‘90 aveva cercato un contatto con lui tramite un tale notaio Ferraro, di Castelvetrano. L’interesse riguardava il processo Basile, con imputati Giuseppe Madonia, Vincenzo Puccio e Armando Bonanno”. Ripeto, sono stato già assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, sentenza definitiva».

Che effetti avrà questa sentenza sul processo d’appello trattativa Stato-mafia?

«La Corte d’assise, presieduta da Alfredo Montalto ha condannato a dodici anni Mori e Subranni e l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, 8 anni per l’ex colonnello Giuseppe De Donno. Non faccio il magistrato, ritengo però che sarà molto difficile per il collegio non tenere conto di questa pronuncia.»

Ed i pm di Palermo? Nino Di Matteo è al Csm.

«I pm di Palermo sono conviti da sempre che io abbia nel corso della mia vita intessuto rapporti con Cosa nostra. È una narrazione “funambolica” che si è trascina per anni. Solo la mia forza d’animo mi ha aiutato a sopportare questo calvario».

Pensa che faranno ricorso in Cassazione?

«Facessero quello che vogliono. Come sono stato assolto fino ad oggi, sarò assolto anche domani».

La storia riscritta. Trattativa Stato Mafia, una bufala enorme per nascondere la verità. Piero Sansonetti il 16 Gennaio 2020 su Il Riformista. Le fake news inondano i social. Già. Le fake news, spesso, inondano anche i giornali. Non ci stupiamo più. Alle volte leggiamo le prime pagine e pensiamo che la metà delle cose scritte non sono verificate, o addirittura son propaganda. Forse però c’è da stupirsi almeno un po’ se una Corte d’Appello solennemente giura che anni e anni di indagini, e di processi, e di gigantesche e potenti campagne di stampa – guidate da qualche Procura – e ore infinite di trasmissioni televisive, tutto questo è stato prodotto e alimentato da fake news create e sostenute, a voce altissima, da un gruppetto di Pm un po’ arruffone. Fake news di Stato. O di palazzo. O di palazzo di Giustizia.

E poi giura che la storia della trattativa Stato-Mafia, quella che ha portato a condanne infamanti contro alti ufficiali dei carabinieri con la carriera gloriosa, come il generale Mori e il colonnello De Donno e il generale Subranni, e anche Marcello Dell’Utri, era una storia di fantasia. Anzi, di più: di una fantasia impazzita, perché non si limitava a modificare la storia reale ma la rovesciava, facendo passare per amici della mafia alcuni uomini che invece alla lotta alla mafia hanno dedicato la loro vita. È successo esattamente questo, capite? Le motivazioni con le quali la Corte d’Appello di Palermo ha mandato assolto l’ex ministro Calogero Mannino – democristiano, accusato di essere stato il cervello e il motore della trattativa Stato-Mafia, e anche di essere un amicone dei corleonesi – non solo riabilitano Mannino e proclamano “l’inconsistenza e l’incongruenza e l’illogicità” del lavoro dei Pm, ma smantellano tutta la teoria della trattativa Stato-Mafia. Diciamolo meglio: spiegano come quello che un gruppetto di magistrati aveva scambiato per trattativa era il contrario esatto: “un’azione investigativa di polizia giudiziaria” pensata e realizzata con l’obiettivo di arrestare Totò Riina, cioè il capo della mafia. Proprio così: la Corte d’Appello, nelle motivazioni della sentenza che ha depositato l’altra sera, conferma la sentenza di primo grado (di assoluzione piena), sostiene che le obiezioni dell’accusa sono “infondate illogiche e incongruenti”, spiega che Mannino non trattò con la mafia ma al contrario contrastò la mafia, e per questo si guadagnò l’inimicizia delle cosche, afferma in modo drammaticamente solenne che non ci fu alcuna “violenza o minaccia ad un corpo politico o istituzionale dello Stato”. E questa frase, testuale, è molto importante perché è esattamente questa (“violenza o minaccia…”) l’accusa che era stata rivolta a Mannino, ai Ros e a Dell’Utri dalla Procura di Palermo, e precisamente prima dal Pm Ingroia e poi dal Pm Di Matteo. Poi i due processi si indivisi. Mannino ha chiesto il rito abbreviato, e finalmente è arrivato a sentenza di secondo grado e a completa e tardivissima riabilitazione. I carabinieri e Dell’Utri invece sono andati a processo senza rito abbreviato e sono stati condannati in primo grado per un reato che ora la Corte d’appello definisce inesistente e per una trattativa anche questa negata da un collegio giudicante. Ora come si può serenamente continuare il processo di appello contro Dell’Utri e i carabinieri – che è in corso alla Corte d’Appello di Palermo – se la stessa Corte d’Appello ha già detto che quelle accuse sono fantasiose e incongruenti? Dovremo alla fine assistere a una sentenza politica che stabilisce che alcune persone sono colpevoli di qualcosa che una Corte ha accertato non essere mai avvenuta? E questo solo per provare a incastrare in qualche modo Berlusconi? Beh, è un po’ troppo persino per la magistratura italiana, no? Le motivazioni della sentenza d’appello vanno ancora oltre le cose che abbiamo scritto fin qui. Parlano di Paolo Borsellino. E rovesciano il teorema Di Matteo. Di Matteo sostiene che Borsellino fu ucciso perché stava opponendosi alla trattativa Stato-Mafia condotta dai carabinieri dei Ros (dal generale Mori, in primo luogo). Questa sentenza sostiene il contrario. Dice che Borsellino si fidava solo dei Ros, e che pochi giorni prima di morire aveva voluto incontrare il generale Mori per avere notizie sul dossier Mafia-Appalti, preparato da Mori (su input e sotto la direzione di Falcone) nel quale si puntava il dito contro molte aziende del Nord e anche contro alcuni politici. Borsellino voleva mandare avanti quel dossier e non si fidava della procura di Palermo, né del procuratore Giammanco né dei suoi sostituti (alcuni dei quali ancora in attività). E infatti chiese a Mori di vedersi in caserma e non in Procura. La storia (quella vera) racconta che pochi giorni dopo questo incontro, e mentre stava per prendere in mano quel dossier, Borsellino fu ucciso e la sua scorta sterminata. E che la Procura di Palermo, pochi giorni dopo, archiviò il dossier Mori. Forse Mori ha pagato carissimo per quel dossier, così fastidioso. Le motivazioni della sentenza di Palermo dicono: se volete risolvere i misteri di quegli anni lasciate stare la trattativa, scavate qui. E cercate di capire perché polizia e settori della magistratura depistarono le indagini su Borsellino, e perché cancellarono il dossier mafia-appalti, e forse bisognerà capire come è successo che la punta di diamante della lotta contro la mafia, e cioè il colonnello Mori (che poi fu quello che catturò Riina, dando un colpo mortale a Cosa Nostra) fu addirittura mandato sotto processo sulla base di accuse strampalate. Ha ragione Mannino, che dice nell’articolo sul Riformista, che ora, per fortuna, non esiste più la storia scritta da Ingroia e Caselli. E santificata da stampa e Tv. E la storia vera qual è? È troppo tardi per stendere un velo sulle fake e provare a ricostruire la verità di quei tragicissimi anni? Forse, purtroppo, sì.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: i depistaggi sulla strage di via D’Amelio.

Il grande depistaggio. A.BOLZONI, C.FRATI e F.TROTTA su La Repubblica il 2 novembre 2020. Il giudizio della Corte di Assise di Caltanissetta: «E' uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». Quello c'è scritto nella sentenza sul cosiddetto Borsellino quater è stato oggetto di lunga indagine anche da parte della Commissione Antimafia siciliana, presieduta da Claudio Fava. Un’ottantina di pagine che tratteggiano la lunga vicenda processuale sulla strage di via d’Amelio e le gravi anomalie succedute nel corso del tempo. Da oggi e per circa trenta giorni pubblichiamo sul nostro Blog ampi stralci della relazione. A partire dalle domande che ha posto Fiammetta Borsellino, che coraggiosamente e lucidamente, ha individuato colpe ed errori di alcuni uomini dello Stato. Dodici domande, quelle della figlia del procuratore, che attendono ancora risposta. Un “vuoto di verità” che scandisce da quasi trent'anni le morti di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Claudio Traina, Emanuela Loi ed Eddie Walter Cusina.

La commissione Fava evidenzia come “ben tre Corti di Assise di Caltanissetta (d’Appello nel giudizio Borsellino 1, di primo grado nel Borsellino bis e ter), disponendo sostanzialmente dello stesso patrimonio probatorio valutato successivamente dalla Corte d’Appello nel Borsellino bis, erano pervenute ad identici risultati valutativi, tutti radicalmente negativi, sull’attendibilità di Scarantino”. Eppure si è andati avanti ugualmente con la storia del picciotto della Guadagna, il “pupo vestito” che doveva apparire per forza attendibile. Nella relazione Fava si spiega anche come il depistaggio sulla strage sia iniziato prima, ancora prima che la strage venisse realizzata. Scrive la Commissione, a conclusione della sua indagine: «Se i molti che ebbero consapevolezza delle forzature avessero scelto di non tacere, se non vi fosse stata - più volte e su più fatti - una pervicace reticenza individuale e collettiva, non saremmo stati costretti ad aspettare la collaborazione di Gaspare Spatuzza per orientare le indagini nella direzione opportuna». Depistaggi, omertà, falsi pentiti, funzionari infedeli. Una strage non di sola mafia. Gli articoli li trovate anche sulla pagina Instagram dell’Associazione Cosa Vostra.

Hanno collaborato: Linda Bano, Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Francesca Carbotti, Sara Cela, Rosa Cinelli, Ludovica Marcelli, Marta Miotto, Enza Marrazzo, Sofia Matera, Sara Pasculli, Asia Rubbo. Supervisione Tecnica a cura di Alessia Pacini.

L'inchiesta della commissione Fava. La Repubblica il 2 novembre 2020. Tra i poteri che la riformata Legge r. n. 4/1991 attribuisce alla Commissione Regionale Antimafia vi è quello di indagare sul rapporto tra mafia e politica e sulle manifestazioni di questo rapporto che, nei successivi momenti storici, hanno determinato stragi di carattere politico-mafioso. Una caratteristica, quella appena enunciata, che trova un paradigma perfetto nella strage di via D’Amelio, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Claudio Traina, Emanuela Loi ed Eddie Walter Cusina. La lunga vicenda processuale, il cui culmine è rappresentato dalla sentenza emessa il 20 aprile 2017 dalla Corte di Assise di Caltanissetta per il cosiddetto Borsellino quater, arriva alla conclusione che - nell’ambito della gestione delle attività investigative atte a fare luce su chi fossero gli esecutori ed i mandanti, interni ed esterni, dell’attentato - si consumò, così come si legge nella motivazione depositata il 30 giugno 2018 “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Questa Commissione intende condividere senza riserve gli interrogativi lanciati nelle conclusioni della citata sentenza, nonché aderire a quell’esigenza di verità che la dottoressa FIAMMETTA BORSELLINO – da noi audita il 18 luglio 2018 - ha ancora una volta coraggiosamente rappresentato anche in questa sede. Un lavoro d’inchiesta che la Commissione ha svolto nel pieno rispetto dell’attività dell’Autorità Giudiziaria, cui non ha inteso sovrapporsi, cercando di mettere a fuoco il perimetro delle responsabilità politiche, giudiziarie e istituzionali, ancorché senza rilievo penale, che hanno determinato, accompagnato o coperto il depistaggio di cui parla la sentenza citata in premessa. Il nostro ciclo di audizioni ha ripercorso i fatti attraverso diversi testimoni di quella stagione, tutti a vario modo protagonisti (per ragioni d’ufficio giornalistico, investigativo o giudiziario) delle indagini sulla strage di via D’Amelio. In particolare la Commissione ha ascoltato due degli inquirenti che all’epoca si occuparono dei processi Borsellino 1, bis e ter (i magistrati PAOLO GIORDANO e CARMELO PETRALIA); uno degli inquirenti che si è occupato del Borsellino quater (il magistrato NICO GOZZO), l’ex responsabile del servizio ispettivo del DAP (il magistrato ALFONSO SABELLA); l’ex Procuratore Nazionale Antimafia (il magistrato PIETRO GRASSO); la presidente di sezione del Tribunale di prevenzione di Napoli (il magistrato ANGELICA DI GIOVANNI); i difensori di alcuni imputati falsamente accusati da Scarantino e dagli altri sedicenti “pentiti” (gli avvocati GIUSEPPE SCOZZOLA e ROSALBA DI GREGORIO); uno degli investigatori di punta del gruppo investigativo Falcone/Borsellino (il dottor GIOACCHINO GENCHI); il più stretto collaboratore di Paolo Borsellino (il colonnello dei carabinieri CARMELO CANALE); due giornalisti che, in tempi diversi, sono stati testimoni di alcuni degli avvenimenti che hanno caratterizzato questo depistaggio (SALVO PALAZZOLO del quotidiano La Repubblica ed ANGELO MANGANO, ex corrispondente di Italia 1). La Commissione ha altresì acquisito – e utilizzato – tutti gli atti giudiziari ostensibili, documentazioni e corrispondenze (anche personali), nonché i verbali delle testimonianze rese nel corso del processo di Caltanissetta dai magistrati ILDA BOCCASSINI, FAUSTO CARDELLA, NINO DI MATTEO, ANNA PALMA e ROBERTO SAJEVA. Ciascuno di loro è stato invitato per essere audito dalla nostra Commissione ma tutti, adducendo diverse giustificazioni, hanno scelto di declinare l’invito.

Le domande di Fiammetta Borsellino La Repubblica il 3 novembre 2020. Attraverso questa indagine, la Commissione ha inteso focalizzare le forzature e le omissioni investigative che hanno caratterizzato, nella loro prima fase, le indagini sulla strage di via D’Amelio, e segnatamente:

• i primi rilievi investigativi effettuati il 19 luglio 1992;

• il rapporto tra magistratura inquirente e i servizi di sicurezza nell’organizzazione e nella gestione delle indagini;

• la genesi del gruppo d’investigazione “Falcone-Borsellino”;

• il mancato coordinamento nelle indagini tra la Procura della Repubblica di Caltanissetta e quella di Palermo;

• la gestione della collaborazione di Vincenzo Scarantino e degli altri sedicenti collaboratori di giustizia;

• le anomalie procedurali e documentali registrate nel corso del Borsellino 1 e bis.

A questi vulnus si aggiunge la particolarità delle relazioni fra il dottor Paolo Borsellino e le due Procure, Palermo e Caltanissetta, nei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via D’Amelio. Anche su questi elementi, emersi nel corso dell’indagine, la Commissione ha inteso proporre un approfondimento. L’indagine non si è sottratta, naturalmente, alla necessità di ricostruire, accanto alle parziali certezze acquisite nelle sentenze di Caltanissetta, il contesto criminale ed eversivo in cui maturò la decisione di uccidere il giudice Borsellino. Arrivando alla conclusione, come vedremo, che la stessa mano non mafiosa che accompagnò Cosa Nostra nell’organizzazione della strage potrebbe essersi mossa, subito dopo, per determinare il depistaggio ed allontanare le indagini dall’accertamento della verità. Architrave dell’indagine, come detto, sono state le domande che la famiglia del dottor Paolo Borsellino ha rivolto per anni in ogni ambito e livello istituzionale, ricevendo risposte a volte parziali, a volte contraddittorie, spesso reticenti. Interrogativi che la dottoressa Fiammetta Borsellino ha voluto ripercorrere con noi durante la sua audizione in Commissione:

1. Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino?

2. Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i pubblici ministeri di Caltanissetta non convocarono mai il dottor Borsellino per ascoltarlo sulla morte del dottor Falcone?

3. Perché i pubblici ministeri di Caltanissetta dell’epoca non ritennero di interrogare il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco?

4. Che ruolo ebbe l’allora Sisde sul falso pentimento di Vincenzo Scarantino?

5. Che ruolo ebbe l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera?

6. Perché i pp.mm. di Caltanissetta non depositarono nel Borsellino 1 i verbali del confronto fra il presunto pentito Scarantino e i collaboratori di giustizia Cancemi, Di Matteo e La Barbera che lo smentivano palesemente?

7. Perché i pp.mm. di Caltanissetta – e, successivamente, i giudici - non tennero in considerazione le due ritrattazioni di Scarantino?

8. Perché la dottoressa Ilda Boccassini e altri pubblici ministeri autorizzarono i componenti del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino” a fare dieci colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia?

9. Perché non fu mai redatto un verbale del sopralluogo della polizia assieme a Scarantino nel garage dove sosteneva di aver trasportato la 126 poi trasformata in autobomba?

10. Chi è l’ispiratore dei verbali, con a margine delle annotazioni a penna, consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino prima dei suoi interrogatori?

11. Perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione ma ai poliziotti del gruppo “Falcone-Borsellino” diretto da La Barbera?

12. Perché i pubblici ministeri Palma e Petralia annunciarono un tentativo della mafia di inquinare le indagini subito prima dell’intervista televisiva in cui Scarantino ritrattava le proprie accuse?

Al di là del giudizio in dibattimento che determinerà se vi siano state, e da parte di chi, responsabilità penali, questa relazione, per le testimonianze raccolte, i documenti recuperati e i fatti ricostruiti, ha individuato – come vedremo - certe e circostanziate responsabilità istituzionali, investigative e processuali. Anche ad esse va attribuita la responsabilità morale di questo depistaggio.

Un ringraziamento, infine, ai consulenti, il presidente Bruno Di Marco e il dottor Agatino Pappalardo, che hanno reso possibile, con il loro lavoro e la loro competenza, produrre questa relazione, frutto di cinque mesi di intenso lavoro in cui l’intera Commissione ha profuso tempo, dedizione e responsabilità.

Prima sentenza e “deviazioni” istituzionali. La Repubblica il 4 novembre 2020. Come detto, questa inchiesta parlamentare trae origine da quanto affermato dalla Corte di Assise di Caltanissetta nella sentenza conclusiva del cosiddetto Borsellino quater ove, a pagina 1735 delle motivazioni, si osserva: “le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna e alla pena detentiva perpetua di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, per il loro ritenuto concorso nella strage di via D'Amelio”, quali autori materiali nella fase esecutiva dell'attentato che, la domenica del 19 luglio 1992, costo la vita del dottor Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Claudio Traina, Emanuela Loi ed Eddie Walter Cusina, tutti appartenenti alla Polizia di Stato. Appare, tuttavia, corretto interrogarsi ulteriormente se le richiamate condanne siano riconducibili esclusivamente all'asserita deviazione istituzionale (sulla quale, così come richiesto dalla sentenza, oggi la Procura di Caltanissetta e chiamata a far chiarezza), ovvero non siano anche scaturite da clamorosi errori giudiziari, forzature procedurali, violazioni di regole processuali, reticenze e inerzie investigative. A tal fine e utile ripercorrere – nei loro passaggi, negli esiti e in talune sovrapposizioni – i quattro processi che si sono succeduti sulla strage di via D’Amelio.

Borsellino 1. La sentenza pronunciata dalla Corte d'Assise di Caltanissetta il 27 gennaio 1996 ha riconosciuto colpevoli del delitto di strage, sulla base delle propalazioni accusatorie di Scarantino, Andriotta e Candura, per aver partecipato a vario titolo alle fasi esecutive dell'attentato e alla decisione deliberativa lo stesso Scarantino (autoaccusatosi), Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto, condannando il primo ad anni diciotto di reclusione e gli altri tre all'ergastolo. Con riferimento allo Scarantino la sentenza e divenuta irrevocabile in quanto non impugnata. La Corte d'Assise di Appello di Caltanissetta, con sentenza del 23 gennaio 1999, ha assolto Giuseppe Orofino e Pietro Scotto dal delitto di strage e confermato, viceversa, la condanna di Salvatore Profeta. È molto importante precisare che in tale giudizio di secondo grado sono stati acquisiti, con il consenso delle parti, i verbali delle dichiarazioni rese dai collaboratori nel dibattimento in corso in primo grado, davanti alla locale Corte d'Assise, nel processo cosiddetto Borsellino bis. Egualmente significativa e la circostanza che, sempre in tale giudizio di secondo grado, il procuratore generale Roberto Sajeva aveva chiesto l’assoluzione di Orofino e Scotto, ritenendo non attendibile la chiamata in correità di Scarantino in ordine ai predetti imputati. La Suprema Corte di Cassazione (Prima Sezione) con sentenza del 18 dicembre 2000, depositata il 19 gennaio 2001, ha pienamente confermato la sentenza di secondo grado pronunciata nel corso del cosiddetto Borsellino 1. In quest'ultima sentenza, le dichiarazioni accusatorie di Scarantino vengono ritenute attendibili solo con riferimento al segmento della fase esecutiva relativa al furto della Fiat 126. Per contro, nel resto, le propalazioni accusatorie di Scarantino e Andriotta vengono valutate non attendibili e precisamente, con riferimento:

• alla presunta riunione organizzativa di fine giugno o dei primi giorni di luglio 1992 nella villa di Calascibetta, cui avrebbe accompagnato il cognato Profeta;

• al trasferimento e al caricamento nell'officina di Orofino della Fiat 126;

• all'incontro di Scarantino con Gaetano e Pietro Scotto in cui avrebbe avuto conferma dell'avvenuta intercettazione in corso sulle telefonate del dottor Borsellino;

• alla presenza nell'autocarrozzeria di Orofino al momento dell'arrivo dell'esplosivo da caricare a bordo dell'autovettura rubata del Profeta e di altri soggetti;

• al numero e all'identità dei soggetti presenti alle operazioni di trasporto della Fiat 126, di caricamento dell’esplosivo e del trasporto della stessa automobile il 19 luglio 1992 in via D’Amelio.

In tal modo le assoluzioni di Orofino Giuseppe e di Scotto Pietro sono divenute definitive, e altrettanto definitiva la condanna all’ergastolo di Profeta Salvatore.

Nel segno del “pupo” Scarantino. La Repubblica il 5 novembre 2020.

Borsellino bis.

Il cosiddetto Borsellino bis ha avuto come imputati sia alcuni dei mandanti che taluni degli esecutori materiali della strage, fra i quali anche quelli chiamati in correità da Scarantino, in concorso con gli imputati del Borsellino 1, e precisamente Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Urso Giuseppe e Murana Gaetano. In primo grado, la Corte d'Assise di Caltanissetta, con sentenza del 13 febbraio 1999, ha confermato sostanzialmente, quanto agli imputati chiamati in correità da Scarantino, i risultati cui era pervenuta la Corte d'Assise d'Appello in secondo grado nel processo Borsellino 1, in ordine alla attendibilità delle propalazioni accusatorie dello Scarantino e dell'Andriotta. E, pertanto, ha assolto gli imputati Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Urso Giuseppe, Vernengo Cosimo e Murana Gaetano dal delitto di strage, ritenendo le dichiarazioni dello Scarantino e dell'Andriotta sul loro conto prive di riscontri.

La Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta, con sentenza del 18 marzo 2002 , relativamente ai sopra richiamati imputati, ha ribaltato le conclusioni del giudice di primo grado e ha rivalutato integralmente le dichiarazioni accusatorie di Scarantino e Andriotta. Per tali ragioni, in riforma della sentenza impugnata, ha condannato gli stessi imputati per il delitto di strage. Tale sentenza è stata confermata dalla Cassazione in data 3 luglio 2003. Per le considerazioni che si svilupperanno a margine del presente capitolo, il dato più inquietante o quantomeno poco comprensibile risiede proprio nell’esito della sentenza d’appello del cosiddetto Borsellino bis, con riferimento specifico agli imputati chiamati in correità da Scarantino, e assolti in primo grado.

Borsellino ter. Nell'estate del 1996 le indagini sulla strage di via D'Amelio, mai cessate nonostante la celebrazione dei due giudizi di cui sopra, subivano una ulteriore svolta a seguito della cattura e della decisione di collaborare di alcuni mafiosi direttamente implicati negli avvenimenti. I racconti dei collaboratori permettevano così di arricchire il quadro degli esecutori materiali e di risalire a parte dei mandanti interni diversi dagli imputati nei due precedenti processi. In tale processo, benché fra gli imputati non figurassero quelli chiamati in correità da Scarantino, venivano in ogni caso analizzate e valutate in primo grado le dichiarazioni accusatorie dello stesso e, in ordine ad esse, la Corte d'Assise con sentenza del 9 dicembre 1999 ha concluso ritenendo espressamente che non se ne dovesse tenere alcun conto per la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle responsabilità in ordine alla strage di via D'Amelio perché inattendibili intrinsecamente ed estrinsecamente (benché ancora non si fosse verificata la collaborazione di Gaspare Spatuzza). L’impianto di detta sentenza, parzialmente modificato dalla sentenza d’appello del 7 febbraio 2002 (depositata il 6 maggio 2002), sempre senza che venisse intaccato il ragionamento valutativo in ordine alla figura di Scarantino, veniva definitivamente confermato dalla Corte di Cassazione con sentenza del 17 gennaio 2003, con la quale venivano annullate le assoluzioni di Benedetto Santapaola, Antonino Giuffrè, Giuseppe Farinella e Salvatore Buscemi, pronunciate in secondo grado, e veniva disposto il rinvio davanti alla Corte d’Appello di Catania che con sentenza divenuta definitiva condannava all’ergastolo i suddetti imputati.

I falsi pentiti e la clamorosa revisione. La Repubblica il 6 novembre 2020. Solo successivamente alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (avvenuta a decorrere dal giugno 2008), le cui dichiarazioni, puntualmente, concordamente e costantemente riscontrate (anche per il tramite di altro collaboratore, Fabio Tranchina), smentivano radicalmente le propalazioni accusatorie di Scarantino, Andriotta e Candura, il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Caltanissetta chiedeva, in data 13 ottobre 2011, alla Corte d'Appello di Catania la revisione delle sentenze di condanna inflitte in esito dei processi cosiddetti Borsellino1 e Borsellino bis. Il 13 luglio 2017, la Corte d’Assise d’Appello di Catania ha accolto tale richiesta di revisione, scagionando definitivamente tutti coloro che erano stati ingiustamente condannati sulla base delle dichiarazioni dei falsi pentiti. Sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza, pertanto, la Procura di Caltanissetta ha svelato il clamoroso depistaggio operato dai collaboratori Scarantino, Candura e Andriotta, i quali, dopo un iniziale tentennamento, hanno confessato di aver dichiarato il falso nel corso dei procedimenti denominati Borsellino 1 e Borsellino bis su pressione di alcuni componenti del gruppo investigativo “Falcone- Borsellino”. Con sentenza del 20 aprile 2017 la Corte d’Assise di Caltanissetta ha condannato all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino e a 10 anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Per Scarantino, invece, e stata dichiarata la prescrizione del reato in considerazione del riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 114, comma 3, c.p.p. per essere stato determinato da altri a commettere il reato.

Segnatamente, quanto allo Scarantino, la Corte d'Assise ha riconosciuto la completa falsità di tutte le sue dichiarazioni, emergente con assoluta certezza: “…non solo dalla dall’esplicita ammissione operata dallo stesso Scarantino, ma anche, e soprattutto, dalla loro inconciliabilità con le circostanze univocamente accertate nel presente processo, che hanno condotto alla ricostruzione della fase esecutiva dell’attentato in senso pienamente coerente con le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza… Da tale ricostruzione emerge in modo inequivocabile, oltre alla inesistenza della più volte menzionata riunione presso la villa del Calascibetta, la mancanza di qualsiasi ruolo dello Scarantino nel furto della Fiat 126, la quale, per giunta, non venne mai custodita nei luoghi da lui indicati, né ricoverata all’interno della carrozzeria dell’Orofino per essere ivi imbottita di esplosivo”.

La Corte, inoltre, cercando di dare una risposta sulle ragioni del falso pentimento di Scarantino, e giunta ad affermare che questo sarebbe stato determinato: “…da altri soggetti, i quali hanno fatto sorgere tale proposito criminoso abusando della propria posizione di potere e sfruttando il suo correlativo stato di soggezione. Al riguardo, va segnalato un primo dato di rilevante significato probatorio: come si è anticipato, le dichiarazioni dello Scarantino, pur essendo sicuramente inattendibili, contengono alcuni elementi di verità … È quindi del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte”. La citata sentenza non ha individuato gli autori di tali suggerimenti, limitandosi ad ascriverli, comunque, ad un'area istituzionale; né tanto meno ha chiarito quali siano state le ragioni che hanno determinato una simile condotta e le finalità che attraverso questa si intendevano realmente perseguire. Rimangono ancore occulte anche le richiamate fonti che avrebbero, per così dire, suggerito ai suggeritori di Scarantino quelle circostanze dimostratesi veritiere e, quindi, estranee al patrimonio cognitivo diretto del picciotto della Guadagna. La Procura di Caltanissetta e chiamata oggi a rispondere a questi interrogativi e con non poche difficoltà. Lo scorso 28 settembre 2018, il Gip di Caltanissetta ha disposto il rinvio a giudizio di tre dei componenti del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino” guidato, all'epoca delle indagini, dal dottor Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002). Si tratta del dirigente della Polizia di Stato Mario Bo, dell'agente Michele Ribaudo e dell'ispettore, oggi in pensione, Fabrizio Mattei. Per loro l'accusa e di calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa Nostra.

Tre episodi per un depistaggio. La Repubblica il 7 novembre 2020. Il depistaggio sulla strage di via D’Amelio comincia pochi istanti dopo l’esplosione in cui perdono la vita il dottor Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Quella domenica 19 luglio – come ha ricostruito il dott. Gozzo nel corso della sua audizione - si succedono almeno tre diversi episodi “di un'azione coordinata”, destinati a manipolare la scena della strage, a trafugare documenti, a sottrarre prove. Il primo, il più macroscopico, ha come teatro proprio via D’Amelio: vi torneremo diffusamente più avanti. Altri due interventi riguardano la casa di campagna del giudice Borsellino e il suo ufficio alla Procura di Palermo. Spiega il pm Gozzo:

GOZZO. “Sapevano tutti che Borsellino, prima di morire va nella casa di campagna, a Villagrazia di Carini e in effetti dopo qualche settimana viene trovato un portacenere pieno di sigarette (…) Fatto è che quando (i familiari) vanno là per la prima volta, la porta era stata aperta perché lo studio era a soqquadro (mentre) tutto il resto era perfettamente a posto. Quindi, un ladro “anomalo” perché non aveva toccato nulla delle cose che c’erano all’interno della casa..”.

Il secondo intervento avviene nello studio di Paolo Borsellino al palazzo di giustizia:

GOZZO. “(I figli) hanno verificato immediatamente che qualcosa non andava. Sebbene il padre avesse lavorato moltissimo in ufficio e di meno a casa, sopra la scrivania non c’era quasi niente. Tutto sembrava perfettamente messo in ordine. I familiari avevano pensato: ‘qualcun altro ha ripulito tutto…’”.

Infine via D’Amelio, il luogo della strage. Nei minuti successivi all’esplosione in quel tratto di strada si raccoglie una moltitudine di persone appartenenti alle forze dell’ordine, colleghi di Paolo Borsellino, giornalisti, vigili del fuoco e - con modalità del tutto anomale – personale dei servizi segreti. Modalità anomale soprattutto nei tempi per la sospetta tempestività – come vedremo - con cui uomini del SISDE saranno notati in via D’Amelio dopo l’attentato. Di quei primi convulsi e confusi istanti, la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino resta il vulnus più grave, l’inizio dell’opera di depistaggio che si consumerà per i sedici anni successivi producendo sentenze di condanna definitiva (poi revocate, nel luglio 2017, a seguito dell’accoglimento della richiesta di revisione) ai danni di chi era del tutto estraneo a quella strage.

Ha detto in Commissione il pm Gozzo: GOZZO. “La cosiddetta sparizione dell’agenda rossa, sul teatro della strage di via d’Amelio, non può averla compiuta la mafia. Questa è un’ovvietà che dicono tutti, ma è un’ovvietà vera. E, quindi è chiaro ed evidente che se questa cosa è successa, ed è successa, deve essere stata compiuta da qualcun altro”.

Eppure per molto tempo (almeno fino alla primavera 2005, data in cui ha avvio l’inchiesta della procura di Caltanissetta sulla sottrazione dell’agenda, conclusasi poi con il proscioglimento in udienza preliminare del colonnello dei Carabinieri Giovanni Arcangioli ) questa “ovvietà” viene negata da tutti: dai pubblici ministeri di Caltanissetta che indagano sulla strage, dagli investigatori del cosiddetto gruppo “Falcone-Borsellino” che detengono la cabina di regia di quelle prime indagini, dai loro referenti e protettori politici. La sparizione dell’agenda rossa di Borsellino non sarà mai motivo di indagine. Solo in occasione del Borsellino quater si coglie l’urgenza di investigare su questo episodio e su chi materialmente fece scomparire (o ordinò di far scomparire) l’agenda del giudice.

Ricorda in proposito il pm Gozzo: GOZZO. “L’intento (processuale) era quello di trovare questo “qualcun altro”, magari di vedere se c’erano collegamenti tra questo “qualcun altro” e quel soggetto che viene descritto da Spatuzza come presente all’imbottitura della macchina per l’esplosivo, in via Villasevaglios, poco prima della strage del 19 luglio…”.

La presenza del Sisde in Via D'Amelio. La Repubblica l'08 novembre 2020. Torniamo in via D’Amelio, nei minuti immediatamente successivi alla strage. Il primo dettaglio anomalo, come anticipavamo, è l’immediata presenza di uomini del SISDE sul luogo dell’esplosione. Riferisce alla Commissione Pietro Grasso:

GRASSO. “…le incongruenze determinate dalla presenza accertata in via D’Amelio, nell’immediatezza della strage, di appartenenti a Servizi di sicurezza intenti a cercare la borsa del magistrato attorno all’auto. Sono le testimonianze del sovrintendente Maggi e di un vice sovrintendente, Giuseppe Garofalo, che danno l’idea di questo attivismo di persone tutte vestite allo stesso modo che avevano già visto presso gli uffici di La Barbera, nel corso delle indagini di Capaci e che si aggiravano lì…”.

Un contesto peraltro puntualmente ricostruito nella sentenza del Borsellino quater (pag.783 e ss.): “(…) è innegabile che vi sono delle oggettive incongruenze nello sviluppo delle primissime indagini per questi fatti e che rimangano diverse zone d’ombra. (…) Tutt’altro che rassicuranti, ad esempio sono le emergenze istruttorie relative alla presenza, in via D’Amelio, nell’immediatezza della strage, di appartenenti ai servizi di sicurezza, intenti a ricercare la borsa del Magistrato. Infatti, uno dei primissimi poliziotti che arrivava in via D’Amelio, dopo la deflagrazione delle ore 16:58 del 19 luglio 1992, era il Sovrintendente Francesco Paolo Maggi, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo. (…) Il Sovrintendente Maggi, dunque, confidando di poter trovare qualche altra persona ancora in vita, si faceva strada fra i rottami, (…) notava quattro o cinque persone, vestite tutte uguali, in giacca e cravatta, che si aggiravano nello scenario della strage, anche nei pressi della predetta blindata: “uscii da... da 'sta nebbia che... e subito vedevo che arrivavano tutti 'sti... tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu' 'u stesso abito, una cosa meravigliosa”, “proprio senza una goccia di sudore”. Si trattava di “gente di Roma”, appartenente ai Servizi Segreti; infatti, alcuni erano conosciuti di vista (anche se non davano alcuna confidenza) ed, inoltre, venivano notati a Palermo, presso gli uffici del Dirigente della Squadra Mobile, Arnaldo La Barbera, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci. La circostanza (mai riferita prima dal teste, nonostante le sue diverse audizioni) veniva confermata da un altro appartenente alla Polizia di Stato, vale a dire il Vice Sovrintendente Giuseppe Garofalo in servizio alla Sezione Volanti della Questura di Palermo che arrivava sul posto ad appena cinque minuti dalla deflagrazione. Il poliziotto notava, nei pressi della Croma blindata di Paolo Borsellino, un uomo in borghese, con indosso la giacca (nonostante il torrido clima estivo) e pochi capelli in testa. Alla richiesta di chiarimenti sulla sua presenza lì, l’uomo si qualificava come appartenente ai “Servizi”, mostrando anche un tesserino di riconoscimento. “…non riesco a ricordare se questo soggetto mi chiede della valigia, della borsetta del dottore o se lui era in possesso della valigia. Con questa persona, alla quale io chiedo, evidentemente, il motivo perché si trovava su quel luogo. Questo soggetto mi dice di appartenere ai Servizi”.

Ricorda in Commissione, su questo punto, il giornalista Salvo Palazzolo:

PALAZZOLO. “Nel contesto delle stragi ci sono altre presenze. A 50 metri dal cratere di Capaci un agente del Centro Sisde di Palermo perde un bigliettino... Viene ritrovato questo bigliettino che dà atto di un guasto a un telefono, una utenza di un cellulare 337, che è riconducibile al vicecapocentro (del SISDE) Lorenzo Narracci. E fa riferimento a un guasto ‘numero due’ che, nel codice dei telefonini dell’epoca, è riferito a una possibilità che il telefonino sia clonato. Questa è una storia piena di coincidenze. Perché clonato era anche il telefonino di uno degli attentatori della strage. E sicuramente è una coincidenza, una strana coincidenza, che quel bigliettino sia caduto lì e che faccia riferimento a Narracci che poi è personaggio molto vicino a Contrada. Soltanto cinque anni dopo l’agente Festa (che aveva materialmente ricevuto in consegna quel telefonino ndr.) si presenta alla magistratura per dire ‘non sono venuto prima perché avevo timore di polemiche però voglio riferivi che avevo ricevuto questo telefonino da un altro collega che mi aveva detto: tu hai tuo suocero che lavora alla SIP, il telefonino del vicecapocentro del SISDE non funziona, vedi se puoi darlo a tuo suocero per farlo riparare…’. Sembra alquanto inverosimile che un telefonino così delicato del vicecapocentro del SISDE, in caso di guasto, non sia stato affidato a una agenzia specializzata, quindi con procedure specializzate, ma venga affidato al suocero di un collega”.

Ed ancora: PALAZZOLO. “Un'altra coincidenza molto strana è quella relativa alla presenza, il pomeriggio della strage, su una barca a largo di Mondello, di Bruno Contrada, di un imprenditore del settore degli abiti da sposa e di Narracci. Cosa accade? Un minuto dopo la strage risultano dei contatti telefonici sui telefonini delle persone che stanno in barca. Questo imprenditore sostiene che fu la figlia a dargli la notizia un minuto dopo la strage che c’era stato l’attentato a Borsellino. I magistrati si sono interrogati come avesse fatto questa ragazza un minuto dopo a sapere che l’attentato era ai danni del Borsellino… Questo imprenditore del settore degli abiti da sposa rilevano le indagini, aveva avuto contatti con personaggi legati alla famiglia mafiosa dei Ganci”.

È di quei primi concitati momenti la sparizione dell’agenda rossa del giudice Borsellino. Così la ricostruisce il pm Gozzo: GOZZO. “Io sono alla procura di Palermo dal 1992 e quindi molti di questi soggetti li conoscevo. Ad esempio il capitano Arcangioli. Ho visto che ha preso la borsa dalla macchina, o qualcuno gliel’ha consegnata, e lui l’ha portata impettito lontano dalla macchina, praticamente fuori dalla zona transennata… Ha riportato, poi, di nuovo, la borsa nella macchina in fiamme e l’ha rilasciata dentro. Io gliel’ho chiesto: ‘E’ normale, secondo lei, comportarsi in un modo del genere?’. La risposta che mi venne data dal capitano Arcangioli fu che era una cosa che si usava fare in Polizia e tra i Carabinieri, cioè si usava vedere se una cosa fosse utile, prenderla ed eventualmente poi rimetterla nello stesso posto. Io ho detto: ‘Guardi a me non è mai capitato di verificare una cosa di questo genere in tutta la mia carriera professionale…’”.

Ed ancora: GOZZO. “Il collega Ayala ha reso diverse versioni… non so quanto tutto questo appartenga al modo di essere di Ayala oppure evidentemente a una voglia in qualche modo di depistare le indagini. Saranno i colleghi di Caltanissetta a stabilirlo”.

Singolare è anche la gestione dei reperti recuperati nella macchina del giudice Borsellino.

GOZZO. “…gestione assolutamente sui generis. Prima da parte della Squadra mobile e della Questura di Palermo, poi da parte della Procura di Caltanissetta. Perché parlo di Squadra mobile? Perché successivamente al riposizionamento della borsa all’interno dell’autovettura, fu poi un agente della Squadra mobile, tale Maggi, a prenderla e portarla nello studio di La Barbera. Ma La Barbera sostiene di essersi accorto di questo solo a cinque mesi dai fatti. Stiamo parlando da luglio a fine dicembre. Questa borsa sembra che abbia giaciuto là senza nessuna attenzione per tutti questi mesi. Dai colleghi (magistrati) a cui viene infine riportata la borsa viene fatta una repertazione di ciò che c’era all’interno della borsa. Una repertazione che però non comprende l’agenda marrone… Tra l’altro non esiste un verbale di restituzione di tutto questo, c’è semplicemente a margine di un verbale: ‘vengono restituiti alla signora Borsellino alcuni effetti personali appartenuti e ritrovati in via D’Amelio’. Punto”.

L'agenda rossa di Borsellino. La Repubblica il 9 novembre 2020. Sollecitato su questo punto, il dottor Paolo Giordano, all’epoca pm applicato alla procura di Caltanissetta e in seguito procuratore aggiunto di Tinebra, offre un ricordo assai vago:

FAVA, presidente della Commissione. Tornando al 19 luglio, inizialmente fu riferito ai familiari di Borsellino che la cartella del dottor Borsellino era andata distrutta nell’esplosione e poi fu invece consegnata dal dottor La Barbera ai familiari senza l’agenda rossa. Lei sa spiegarci questa discrasia di tempi, e sa se ci fu un’indagine visto che i familiari reclamavano quest’agenda rossa?

GIORDANO. No, credo di no… di questa cosa credo che si occupò specificatamente il collega Cardella con il procuratore Tinebra, credo che se ne occupò lui… e all’epoca La Barbera non fece parola di questa cosa quindi nessuno se ne occupò…

A tal proposito, è utile leggere quanto riferito dal pm Fausto Cardella, in qualità di testimone, dinnanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta nel corso del dibattimento del Borsellino quater:

TESTE CARDELLA - … Non era repertata. Adesso non ricordo, forse il termine non è esatto, ma non si sapeva nulla; si sapeva dell'esistenza, ma non si sapeva dove fosse… Fui incaricato io, ecco, questo è uno dei casi in cui nel gruppo investigativo a uno si dice: "Vacci tu". Ricordo che andai a Palermo, presso gli uffici della Squadra Mobile… c'era questa borsa che era o era stata abbandonata su una poltrona degli uffici della Squadra Mobile e io la aprii, la repertai e credo, se non ricordo male, ci deve essere un verbale fatto da me dei contenuti di questa borsa…

P.M. Dott. GOZZO - (…) Lei ebbe modo di parlare con il dottore La Barbera del contenuto della borsa? E se soprattutto… il contenuto della borsa era soltanto quello che voi avete avuto modo di repertare, o c'erano delle altre cose che la borsa aveva contenuto.

TESTE CARDELLA - Allora, intanto devo dire che io non ricordo la genesi della mia andata a Palermo per questa borsa… E quindi, ecco, andai lì. Il contenuto non ricordo quello che ci fosse; posso escludere che ci fosse la famosa ormai agenda rossa, ma di quello che c'era dentro mi pare roba di... di non eccessiva importanza, però onestamente non ricordo nulla, comunque è sicuramente indicato nel verbale. Ovviamente ne parlai... ne parlammo, vorrei dire, con il dottor La Barbera, con il quale c'era una assidua frequentazione, professionale ovviamente e investigativa in quel periodo, ci vedevamo quasi quotidianamente, perché per una legittima, doverosa direi, curiosità di sapere: "Ma come mai 'sta borsa?" E ricordo che egli disse che lui questa borsa se l'era ritrovata lì, perché mi pare fosse proprio su una poltrona del suo ufficio, e non sapeva esattamente come ci fosse arrivata. Almeno questo è quello che io ricordo, e soprattutto che non sapeva nulla, ovviamente, del... del contenuto di questa borsa…

Essenziale anche la versione fornita da Tinebra nel corso del suo esame in dibattimento:

AVV. REPICI - Il suo ufficio, per quel che è il suo ricordo, ebbe contezza della pubblica denuncia a mezzo dei principali organi di informazione, di stampa del Paese, avvenuta il 25 o il 26 luglio 1992 da parte del dottor Antonino Caponnetto della scomparsa dalla borsa di Paolo Borsellino dell'agenda rossa della quale egli faceva uso?

TESTE TINEBRA - So solo che se c'era un'agenda, non l'abbiamo vista noi, non l'abbiamo proprio vista.

AVV. REPICI - Sì, ma aveste notizia di questa pubblica denuncia sulle prime pagine di tutti i quotidiani nazionali del 25 e 26 luglio '92?

TESTE TINEBRA - Ricordo poco, ma penso che sia uscito qualche cosa.

Dalle parole in dibattimento della dottoressa Palma, pm anche lei a Caltanissetta e impegnata nelle indagini su via D’Amelio, apprendiamo invece che la sparizione dell’agenda rossa fosse circostanza nota agli inquirenti già a far data dai funerali del dottor Borsellino (24 luglio 1992):

TESTE PALMA - Il 24 luglio già si sapeva che era sparita questa agenda. (…) Sull'agenda abbiamo fatto degli accertamenti, diversi accertamenti e abbiamo fatto anche diversi esami testimoniali... diversi verbali di persone informate sui fatti, etc., e mi ricordo anche che a un certo punto, siccome c'era un bel rapporto con la famiglia Borsellino, io andai a trovare Agnese e Agnese mi fece vedere lo studio di Paolo, che io conoscevo già perché ci frequentavamo, insomma, non... E mi di... e vidi che c'era un'altra agenda e allora... C'era... credo che ci fosse anche Manfredi, ora non me lo ricordo bene, e mi disse, dice: "Questa era l'agenda di papà". Ho detto: "Ma scusami, ma se la stanno cercando, non è che è questa?" Dice: "No, questa è l'agenda dove papà ...ricopiava, appena ne aveva la possibilità, tutto quello che faceva, che annotava però sull'agenda rossa".

Perché hanno rubato l'agenda rossa? La Repubblica il 10 novembre 2020. Riepilogando, appare chiaro che attorno alla scomparsa dell’agenda rossa del dottor Borsellino si registrano molte coincidenze negative sul piano investigativo e processuale: reticenza di taluni testimoni, presenze non giustificate dei servizi di sicurezza sul luogo della strage, incomprensibili omissioni, ingiustificati ritardi d’indagine. Ma perché questa preoccupazione per l’agenda rossa di Borsellino? Perché la necessità di farla sparire dalla scena della strage e dalle indagini?

GOZZO. “Le agende di Borsellino erano tre. C’era quella rossa, c’era quella marrone e c’era quella grigia. Quella grigia era a casa e l’ha trovata la figlia. Quella marrone e quella rossa, ci dice la figlia, furono prese quella mattina e furono messe all’interno della borsa… L’agenda rossa era quella in cui il dottor Borsellino conservava le cose più scabrose, almeno questo, purtroppo, il maresciallo Canale aveva rivelato a moltissimi suoi superiori ed era conosciuto anche a livello di altre forze di polizia. È ben possibile che ci sia stata una paura da parte di qualcuno...”.

Riferisce alla Commissione su questo punto l’allora maresciallo Canale, oggi tenente colonnello:

CANALE. Il dottor Borsellino… aveva tre agende… quella dell’Enel, e lui in questa agenda scriveva e documentava tutte le spese che faceva, poi ne aveva un’altra che sembrava un quadernone dove lui aveva tutti i numeri telefonici e poi ne aveva una terza… io la chiamo la cosiddetta “agenda rossa”… Su questa agenda lui annotava le cose serie, come le definisco io. Questa agenda lui la teneva sul tavolo. Da quell’agenda rossa lui non se ne staccava mai, mai, chi dice che l’agenda rossa non era al fianco di Paolo Borsellino racconta menzogne, perché lui da quell’agenda non si staccava mai.

FAVA, presidente della Commissione. Quando lei parla di quest’agenda al Pubblico Ministero a Caltanissetta spiegando quanto fosse importante, preziosa per Borsellino, ha avuto la sensazione che questa fosse un'informazione di poco conto?

CANALE. Mi dispiace doverlo dire… riportai la sensazione cie loro fossero convinti che io avessi detto un cumulo di fesserie.

FAVA, presidente della Commissione. Nel 1992 nemmeno una attività investigativa venne fatta sull'agenda? Non fu presa assolutamente in considerazione?

CANALE. Zero… Io, quando la vidi, la borsa, naturalmente mi misi a piangere perché vedere la borsa come era ridotta... Ma non era una borsa dove dentro si poteva bruciare l’agenda. Perché all’interno della borsa fu rinvenuta la batteria del cellulare di Paolo Borsellino, batteria regolarmente funzionante…

Laconico su questo punto il ricordo del pm Cardella nel corso della sua deposizione in dibattimento a Caltanissetta:

TESTE F. CARDELLA - …ci deve essere un verbale, nel quale raccontò, se non ricordo male, di questa agenda, di Paolo Borsellino che qualche tempo prima era stato visto scrivere qualcosa su questa agenda. Ma tutto questo è quello che ricordo che Canale disse a proposito di questa agenda.

Su quell’agenda rossa Borsellino “era stato visto scrivere qualcosa”, come dice Cardella? O era l’agenda da cui “Borsellino non si staccava mai” come riferisce Canale? Sul punto Pietro Grasso non ha dubbi:

GRASSO. C’era una frenetica attività di scrittura di Borsellino su questa agenda rossa che poi non è stata trovata. Una volta che la dimenticò in un albergo fece come un folle per andarla a recuperare… Cioè l’importanza che le persone vicine a Borsellino davano a questa attività frenetica di Borsellino di annotare alcune cose in questa famosa agenda. In prospettiva di che cosa? Proprio del fatto di andare a riversare tutte le sue intuizioni…”.

“Riversare” a chi? E qui si innesta l’altro vulnus registrato nelle settimane che precedettero la morte di Paolo Borsellino: la sua mancata convocazione presso la Procura di Caltanissetta per poter condividere valutazioni, convincimenti e informazioni che il magistrato aveva raccolto indagando sulla morte del collega ed amico Giovanni Falcone.

Mai ascoltato in 57 giorni. La Repubblica l'11 novembre 2020. Perché Paolo Borsellino non fu mai ascoltato dal Procuratore Tinebra e dai pm di Caltanissetta che stavano indagando sulla strage di Capaci? Che avesse intenzione di condividere con i colleghi nisseni le sue conoscenze, la sua esperienza e le convinzioni maturate sulla morte di Giovanni Falcone, era manifesto. Eppure non fu convocato a Caltanissetta. Anche se su questo punto si registrano due versioni. C’è chi ricorda che l’incontro con il procuratore Tinebra fosse fissato per la mattina successiva alla sua morte, ovvero il 20 luglio. Riferisce in Commissione il pm Giordano:

GIORDANO. Guardi Presidente Fava, c’era un appuntamento, manco a farlo apposta, l’appuntamento era per il 20 luglio che era il lunedì, c’erano stati dei contatti telefonici tra Tinebra e Borsellino…

E aggiunge il pm Petralia (che ammette – per la verità - di non aver saputo di alcun incontro fissato con Tinebra per il 20 luglio):

PETRALIA. Devo dire che non sapevo nemmeno che il dottor Borsellino, cosa che ho letto o comunque ho sentito dire, avesse manifestato la sua volontà di essere sentito dai magistrati di Caltanissetta. (…) io sono certo che se avesse manifestato questa sua volontà con uno scritto, una telefonata, saremmo corsi da lui.

Sarebbero corsi da lui, dice Petralia. Eppure sono di tenore ben diverso i ricordi che altri auditi hanno consegnato a questa Commissione. L’allora maresciallo dei carabinieri Canale era il più stretto e fidato collaboratore del giudice Borsellino, era al corrente della sua agenda e lo ha accompagnato, quasi come un ombra, in tutti gli spostamenti, gli appuntamenti, gli interrogatori di quelle ultime settimane di vita. La sua ricostruzione è netta:

FAVA, Presidente della Commissione. Le risulta che fosse stato fissato l’incontro tra Borsellino e il procuratore Tinebra?

CANALE. No. Ma chi l’ha fissato?

FAVA, Presidente della Commissione. E’ ciò che fu detto poi dal procuratore Tinebra: “avevamo deciso di ascoltare Borsellino….”

CANALE. Quando?

FAVA, Presidente della Commissione. Proprio il lunedì successivo.

CANALE. No, no, no, no… io non so chi…

FAVA, Presidente della Commissione. Lei l’avrebbe saputo?

CANALE. Ma che c’è dubbio che l’avrei saputo!

Va ricordato, a proposito del maresciallo Canale, la scelta di trasferirlo immediatamente, dopo la strage di via D’Amelio, e di non interrogarlo per i quattro mesi successivi.

CANALE. La mattina del 20 luglio io vengo immediatamente trasferito… A me fu detto che per motivi di sicurezza io dovevo lasciare la Sicilia. Mi fu detto dall’allora Comandante Generale Viesti: “Da oggi ti occuperai per qualunque esigenza dei familiari di Borsellino, quando si spostano su Roma te ne occupi tu” (…) Vengo sentito la prima volta Dalla Procura di Caltanissetta dalla dottoressa Boccassini e dal dottor Fausto Cardella il 26 novembre del 1992 (…) Siccome quando io facevo le indagini avevo una brutta abitudine che quando succedeva un fatto grave, era norma andarsi a prendere tutti i familiari e portarli in caserma per sentirli nell’immediatezza, la cosa mi destava preoccupazione, anche perché io potevo essere depositario di qualche notizia importante di Paolo Borsellino… La seconda volta sono stato risentito il giorno 15 dicembre del 1992, e ancora il giorno 25 giugno del 1993, dove per la prima capisco che il dottor Cardella, evidentemente, non crede a quello che dico io… e io ero veramente risentito perché mi dovrebbe spiegare qualcuno che motivo avrei avuto di inventare nomi e personaggi...

Torniamo al punto: perché non viene ascoltato Paolo Borsellino durante quei 57 giorni?

Tinebra e la Procura di Caltanissetta. La Repubblica il 12 novembre 2020. A prescindere dalla verità o meno sull’incontro fissato con Tinebra per il 20 luglio – da taluni riferito, da altri smentito – la giustificazione che è stata fornita a questa Commissione è un’altra: l’interrogatorio con Borsellino non appariva necessario in seguito all’applicazione di uno dei pm del pool di Caltanissetta, il dottor Vaccara, presso la Procura di Palermo. Vaccara avrebbe dovuto lavorare a stretto contatto fisico con il dottor Borsellino per poi riferire ai colleghi di Caltanissetta tutto quello che Paolo Borsellino avrebbe potuto informalmente o confidenzialmente dirgli sulla strage di Capaci.

Una modalità quanto meno bizzarra: invece di ascoltare dalla viva voce di Borsellino ciò che aveva da riferire, s’incaricò un magistrato di Caltanissetta di andare a Palermo per fare da “ufficiale di collegamento”.

Ecco cosa dichiara il pm Giordano alla Commissione: GIORDANO. Apro una parentesi: si sapeva quello che Borsellino voleva dichiarare a Caltanissetta! Perché si sapeva? Perché Vaccara lo incontrava ogni giorno a Palermo. Poi nelle riunioni che abbiamo fatto, Vaccara aveva un’agenda in cui segnava queste cose e ci veniva a riferire. (…) Vaccara ci disse che Borsellino quello che voleva dire era, praticamente, tutta la storia dei famosi “diari di Falcone”, che poi erano semplicemente tutti i veleni del Palazzo di giustizia di Palermo. (…) Borsellino, parlando con Vaccara, questo secondo le cose che ci riferiva Vaccara, dice: “sì, è tutto vero quello che c’è scritto sui diari”, perché sui diari si parla di tutta una serie di rapporti abbastanza… di attriti tra magistrati, eccetera, eccetera, dentro il Palazzo di giustizia. Quindi, noi sapevamo questa circostanza ed eravamo tranquilli che il 20 ci sarebbe stato questo incontro”. Per il dottor Giordano, insomma, tutto ciò che Borsellino avrebbe voluto riferire sulla strage di Capaci si sarebbe limitato ai cosiddetti “veleni” del palazzo, i contrasti che avevano opposto Falcone ad altri colleghi palermitani. Possibile che intuizioni investigative, convinzioni maturate e notizie acquisite da Borsellino su quella strage non andassero oltre? Perché non pensare piuttosto che non fosse nel suo carattere rivelare confidenzialmente le proprie informazioni a un collega “applicato” a Palermo ma di attendere – nelle forme di rito – di poterle fornire direttamente al procuratore Tinebra?

Sentiamo cosa dichiara in proposito alla Commissione il pm Petralia: PETRALIA. Uno dei tre magistrati che eravamo stati applicati in prima battuta (a Caltanissetta ndr), e cioè a dire il dottor Piero Vaccara, era amico personale del dottor Borsellino, appartenevano - purtroppo, in magistratura queste cose contano pure - alla stessa corrente, erano tutte due di Magistratura Indipendente, non dico amico personale ma sicuramente si incontravano ai congressi, si vedevano. (…) Ritenemmo utile che il dottor Vaccara stesse stabilmente a Palermo, che utilizzasse una specie di dependance della Procura di Caltanissetta costituita da una stanza che l’allora Procuratore Generale Bruno Siclari mise a disposizione. E quindi aveva questo ufficio con il suo computer, con del personale che lo aiutava… ma poi era commensale abituale, stava lì, mangiavano, parlavano, chiacchieravano a lungo con il dottor Borsellino. E questo aveva la funzione, a nostro modo di vedere, di riuscire ad acquisire elementi di utilità che potessero essere in qualche modo approfonditi in un successivo contatto istituzionale. (…) Debbo dire che non è pervenuto granché… abbiamo capito che forse il dottor Borsellino non riteneva (Vaccara) all’altezza di potere essere depositario di queste conoscenze, ma su questo non ci possiamo fare niente, insomma, purtroppo non è bellissimo doverlo dire, ma le cose sono andate quasi certamente così”. Se davvero le cose sono andate così – e questa Commissione non ha ragione di non credere nel ricordo del dottor Petralia – l’intera vicenda appare anomala, irrituale, non giustificata. Come ha modo di riferire in Commissione Pietro Grasso.

GRASSO. Chiariamo un fatto. Passarono 57 giorni senza che la procura di Caltanissetta chiamasse Borsellino a testimoniare sulla strage di Capaci. Il che e assolutamente impensabile… Cioè giaà l’uso di questo strumento di coordinamento di un magistrato che andasse a frequentare, perché di questo si trattava, l’ufficio della Procura di Palermo non poteva sortire nessun effetto se non un effetto assolutamente formale e ma non sostanziale, conoscendo Borsellino… Che il dottor Borsellino avesse invece molto da riferire lo si desume da molti episodi che sono stati affidati a questa Commissione.

Sempre il dottor Grasso: GRASSO. E poi c’è tutta quella parte riferita dalla moglie di Borsellino, da Agnese Piraino Leto, che riferisce negli ultimi tempi della sensazione di Borsellino… che ci fossero dei rapporti tra mafia e istituzioni… così come le dichiarazioni di due sostituti, la Camassa e Massimo Russo, che riferiscono che un giorno lo videro addirittura piangere sulla poltrona del suo ufficio dicendo che un amico lo aveva tradito. Queste sono tutte cose che ci fanno capire che Borsellino raccoglieva tutta una serie di elementi e di intuizioni che era pronto a riversare alla procura di Caltanissetta. Cosa che però non avvenne mai”.

Ricorda il colonnello Canale: CANALE. Borsellino mi diceva sempre che sulla strage di Falcone era lui che doveva rendere testimonianza perché lui sicuramente avrebbe certamente indirizzato le indagini nella giusta maniera e che lui sapeva tutto, di Falcone sapeva tutto. Centomila volte chiese lui di essere sentito...

Sospetti, collusioni, tradimenti...La Repubblica il 13 novembre 2020. Rapporti tra mafia e istituzioni, collusioni istituzionali, “tradimenti”… Secondo i pm di Caltanissetta, Borsellino li avrebbe dovuti rivelare a pranzo al collega Vaccara. Sul quale in verità il suo giudizio, per ciò che è stato riferito a questa Commissione, era piuttosto severo. Ricorda il colonnello Canale.

CANALE. Chi era il dott. Vaccara? Era un sostituto che lavorava a Messina, applicato a Caltanissetta e mandato a Palermo per le indagini sulla strage di Falcone. Di questo Paolo Borsellino non ne faceva mistero con chi conosceva, era molto seccato perché il dott. Vaccara non sapeva nulla di mafia e lui doveva sistematicamente, giornalmente, spiegargli cosa fosse la mafia nella provincia di Palermo.

E ricostruisce il pm Gozzo. GOZZO. Ricordo, almeno quello che mi dicevano i colleghi, che hanno raccolto accenni di disperazione di Borsellino per la scarsa conoscenza del fenomeno mafioso che aveva il Vaccara”. Accenni di disperazione. Che qualcuno non colse e che altri scelsero probabilmente di ignorare. Restano i fatti: Paolo Borsellino non fu mai ascoltato dai pm di Caltanissetta. Così come non fu mai ascoltato, dopo la strage di via D’Amelio, il procuratore di Palermo Giammanco, nonostante vi fossero molte buone ed ovvie ragioni per raccoglierne la testimonianza. Giammanco s’era contrapposto al suo aggiunto Paolo Borsellino in modo manifesto, in quei 57 giorni fra le due stragi, decidendo di sottrargli la delega territoriale su Palermo e affidandogli le provincie di Agrigento e Trapani.

Riferisce in Commissione il colonnello Canale. CANALE. Non appena mise piede a Palermo, già dall’indomani, il Procuratore Giammanco lo avvisò che lui si poteva occupare solo ed esclusivamente della provincia di Trapani da dove lui proveniva e la Provincia di Agrigento che per noi era una provincia totalmente sconosciuta, totalmente ignota…

E aggiunge Pietro Grasso, all’epoca dei fatti sostituto della DNA applicato alla procura di Palermo: GRASSO. C’era anche un problema di comunicazioni che arrivavano per esempio al procuratore Giammanco e che non venivano trasferite… Il fatto che era arrivato dell’esplosivo che doveva servire per Borsellino, Borsellino lo apprende in un aeroporto dal ministro della difesa Andò, il che è assolutamente impensabile una cosa del genere! (…) C’è una posizione chiaramente di contrasto all’interno dell’ufficio tra il procuratore Giammanco e Borsellino che addirittura… viene estromesso dalle indagini su Capaci! L’interrogatorio di Mutolo, il famoso interrogatorio di Mutolo, lo deve fare insieme al sostituto Aliquò e non da solo, per esempio. Soltanto la mattina (del 19 luglio 1992 ndr), alle sette del mattino, la mattina della strage, riceve dal Procuratore Giammanco l’autorizzazione ad occuparsi anche di Palermo... Questo era il clima… Ma c’era un’altra ragione, urgente e necessaria, per ascoltare a Caltanissetta il procuratore Giammanco.

Ed è quello che il colonnello Canale riferisce in Commissione di aver appreso da Paolo Borsellino pochi giorni prima della strage. CANALE. Io sapevo che lui (Borsellino, ndr) doveva andare a Roma di nuovo… mi aveva fatto la confidenza che c’era Mutolo che si era incontrato con Giovanni Falcone ed era disposto a collaborare… Paolo Borsellino chiese a Giammanco di andarlo a interrogare, Giammanco non era per niente felice di questa storia, tutt’altro, tant’è che gli affibbio Aliquò… Io quella settimana parlo con Borsellino e dico “Vabbé, allora vengo pure io, la seguo io” perché io lo seguivo sempre durante gli interrogatori… Allora lui mi disse: “Carmelo, lei a questo interrogatorio non può venire”… In quella circostanza Borsellino mi fa: “Ma non si preoccupi… tanto passa l’estate cie a Giammanco lo arrestiamo!”… Io l’ho dichiarato questo! Io ho dichiarato tutto quello che mi ha detto! Io sono stato chiamato diverse volte, le ho dette tutte queste cose! Non sono cose che tengo per me!

I silenzi del procuratore capo Giammanco. La Repubblica il 14 novembre 2020. Giammanco impedisce a Borsellino di indagare su Palermo. Tace sulla nota con cui lo avevano informato sull’arrivo dell’esplosivo per un attentato. E Borsellino – ci riferisce Canale – era certo che il procuratore di Palermo sarebbe stato arrestato prima della fine dell’estate. Eppure il procuratore di Caltanissetta Tinebra e l'aggiunto Giordano non ritengono utile interrogarlo. Ecco cosa ci riferisce il dottor Giordano.

FAVA, presidente della Commissione. Come mai non è mai stato ascoltato il Procuratore Giammanco?

GIORDANO. Perché guardi, nelle graduatorie delle urgenze, questa era una delle cose che si sarebbe dovuta fare…

FAVA, presidente della Commissione. Parlo della fase tra Capaci e via D’Amelio, parlo di quando vennero fuori alcune cose, sul fatto che Giammanco non aveva avvertito Borsellino sulla nota del Ros, sul fatto che …lo aveva collocato ad indagare su altre province, gli aveva dato Palermo soltanto all’alba della domenica, ecco su tutto questo, come mai non ci fu….

GIORDANO. Guardi questo spessore di indagini lo seguivano Cardella e la Boccassini, perché nella suddivisione dei compiti, c’era questo… e poi Tinebra che certamente… Tinebra era uno molto accentratore, voleva sapere tutto interveniva su ogni argomento.

FAVA, presidente della Commissione. Ecco ricorda se ci furono discussioni all’interno del vostro pool sull’opportunità di sentire Giammanco?

GIORDANO. Non mi ricordo, si probabilmente l’avremmo discussa, ma ad essere sincero non ho un ricordo preciso, anche perché… poi per Giammanco credo fu aperto un procedimento di incompatibilità ambientale, ci fu una lettera dei sostituti che chiedevano l’allontanamento di Giammanco…

FAVA, presidente della Commissione. Le risulta che c’erano delle indagini alla Procura di Caltanissetta nei confronti di Giammanco?

GIORDANO. Quando? A che epoca?

FAVA, presidente della Commissione. Prima che morisse Paolo Borsellino.

GIORDANO. Si, certo! Si, si, si, ma se n’è occupata la Boccassini di questo argomento…. Diciamo che, adesso non ho ricordo preciso, però c’era una questione che riguardava, può essere… gli accertamenti patrimoniali sui Giammanco, una cosa del genere…

FAVA, presidente della Commissione. Glielo chiedo anche perché qui c’è stata riferita dal colonnello Canale una battuta di Paolo Borsellino, dopo avere ascoltato Mutolo: “prima che finisca l’estate Giammanco verrà arrestato”. Paolo Borsellino era una persona molto prudente…….

GIORDANO. Sicuramente!

FAVA, presidente della Commissione. …per cui l’inchiesta doveva essere in stato piuttosto avanzato per arrivare a far formulare a Borsellino questa…

GIORDANO. Il mio ricordo è vago, su Giammanco è vago! Ricordo che c’era un qualcosa che credo si discusse in una delle riunioni, si discusse della necessità o dell’opportunità di svolgere degli accertamenti bancari e patrimoniali su Giammanco, e basta, solo questo! Però io non me ne sono occupato in prima persona quindi non le posso dire (…)

FAVA, presidente della Commissione. Che fine ha fatto poi l’inchiesta sul procuratore Giammanco, quella di cui si occupava la Procura di Caltanissetta?

GIORDANO. Non lo ricordo. A memoria, credo che uno spezzone di questa inchiesta andò a finire in dibattimento ed un altro spezzone penso che sia stata archiviata. Però non sono sicurissimo di questa cosa perché, ripeto, non l’ho fatta io, quindi non ho una memoria precisa. Pochi e vaghi ricordi. Nessuna comprensibile giustificazione dell’omesso interrogatorio. Certamente un’occasione perduta sul piano investigativo.

I “servizi” e le indagini della Procura. La Repubblica il 15 novembre 2020. Com’è noto, la legge di riforma dei servizi segreti del 2007 esclude in modo categorico impulsi di indagine da parte dell’autorità giudiziaria alle agenzie di sicurezza (AISI e AISE). Ma già la precedente legislazione era molto chiara nell’escludere ogni delega d’indagine tra magistratura inquirente e servizi (all’epoca SISMI e SISDE). Su questo punto, le prime indagini sull’attentato di via D’Amelio si muovono su un crinale diametralmente opposto alle prescrizioni e ai divieti di leggi, registrando un'anomala, significativa e determinante (negli esiti) collaborazione tra la procura di Caltanissetta e i vertici dell’allora SISDE. Il primo contatto lo accende il procuratore Tinebra, con una iniziativa personale assolutamente sui generis (ma senza che alcuno, tra i suoi pm, sollevi o registri obiezioni). Il giorno dopo la strage, Tinebra convoca nel proprio ufficio il dottor Bruno Contrada, all’epoca numero 3 del SISDE, e gli chiede di collaborare direttamente alle indagini con la procura di Caltanissetta.

Ecco come Contrada, nel corso del dibattimento del Borsellino quater, ha ricostruito gli avvenimenti in questione: TESTE CONTRADA- La mattina dopo, il 20 luglio 1992, ebbi una telefonata dal dottor Sergio Costa, funzionario di Polizia, commissario di Pubblica Sicurezza, aggregato... nei ruoli del SISDE… ed era il genero del Capo della Polizia Vincenzo Parisi… il quale mi dice che, per incarico di suo suocero, il Capo della Polizia Parisi, ero pregato di andare dal Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, dottor Giovanni Tinebra. (…) Io andai quella sera dal dottor Tinebra, che non conoscevo, con cui non avevo avuto mai rapporti, e il dottor Tinebra mi disse se io ero disposto a dare una mano, sempre in virtù della mia pregressa esperienza professionale, per le indagini sulle stragi. Io feci presente varie cose al dottor Tinebra: innanzitutto che ero un funzionario dei Servizi e quindi non rivestivo più la veste di ufficiale di Polizia Giudiziaria, quindi non potevo svolgere indagini in senso proprio, la mia poteva essere soltanto un'attività informativa, non operativa; che per Legge noi non potevamo avere rapporti diretti con la magistratura; che, in ogni caso, io avrei dovuto chiedere l'autorizzazione ai miei superiori diretti, e parlo del mio direttore, che era allora il Prefetto Alessandro Voci, e che anche una collaborazione sul piano informativo poteva avvenire soltanto previ accordi con gli organi di Polizia Giudiziaria che erano interessati alle indagini. Nell'occasione il dottor Tinebra mi disse anche, così, per inciso, dice: "Sa, io mi rivolgo a lei perché a Caltanissetta è stato costituito un ufficio della DIA, Direzione Investigativa Antimafia, ma da poco tempo e mi sono reso conto che c'è personale che di fatti di mafia ne comprende ben poco".

Un dato emerge con forza: di questa anomala collaborazione tra servizi segreti e procura di Caltanissetta non era al corrente solo il procuratore Tinebra, che la sollecitò, ma anche i vertici della Polizia di Stato. E non solo loro, stando alla ricostruzione che Pietro Grasso ha proposto in Commissione: GRASSO. C’è una testimonianza del Capocentro del Sisde di Palermo, il colonnello Ruggeri, che espressamente dice che - mentre si trovava in ferie - venne chiamato dal genero del capo della Polizia, Parisi, Sergio Costa, un funzionario aggregato nei ruoli del Sisde, che gli fa interrompe le ferie per parlare con Tinebra. Da Tinebra Ruggeri riceve l’incarico, irrituale assolutamente, di fare indagini sulle stragi. Il colonnello però non accetta l’incarico se non autorizzato dal suo centro Sisde di Roma e di intesa con la Polizia di Stato e l’Arma dei Carabinieri, a cui secondo la normativa andavano le notizie di qualsiasi informazione che potesse aiutare le indagini. Non dimentichiamo che il tramite tra i Servizi e la Magistratura e soltanto la Polizia giudiziaria e non altro.

FAVA, Presidente della Commissione. Quando Ruggeri chiede l’autorizzazione a Roma, questa autorizzazione arriva?

GRASSO. Certo, c’è l’autorizzazione di Roma, c’è anche l’intesa con le forze di polizia giudiziaria che vengono informate che c’è questa attività … Questa attività porterà ad un rapporto su Scarantino che viene tirato fuori dal cilindro come un personaggio, probabilmente influenzabile, ma che aveva un rapporto familiare, in quanto era cognato di Salvatore Profeta, riconosciuto boss mafioso della Guadagna e un collegamento anche con Orofino… Ecco come viene costruito il tutto. Nella notte tra il 19 e il 20 luglio 1992, il numero tre del SISDE, Contrada, e il capocentro di Palermo, Ruggeri, si attivano – dopo aver preso contatto con il procuratore di Caltanissetta – facendo sì che i servizi segreti assumono, di fatto, la guida delle indagini sulla strage di via D’Amelio. E il primo frutto di quella collaborazione e un appunto che verrà trasmesso alla Direzione di Roma del Sisde poche ore dopo la strage. Così riferisce Contrada davanti alla Corte di Assise di Caltanissetta:

TESTE B. CONTRADA - … In quella occasione, e parlo della sera del 20 luglio, cioè 24 ore dopo la strage, io detti al Procuratore della Repubblica di Caltanissetta quelle che, a mio avviso, erano le direttrici di indagine, una delle direttrici di indagine, fondamentale. Gli dissi: "Guardi, signor Procuratore, ogni volta che a Palermo ci sono stragi con esplosivi, attentati dinamitardi, bombe, e interessata la famiglia Madonia".

P.M. Dott. LUCIANI - Oh, su questo, appunto, scusi, scusi un secondo se la interrompo, cioè quindi, lei da questa indicazione da subito.

TESTE B. CONTRADA - Subito, la sera stessa.

P.M. Dott. LUCIANI - (…) Io adesso le mostro un appunto, che risulta essere stato trasmesso via fax alle ore 01.00 del mattino del 20 luglio '92 alla direzione, per capire se si tratta di una cosa che ha redatto lei o se, invece, sono cose redatte da altri. (…)

TESTE B. CONTRADA - Queste sono cose che ho riferito io al capocentro del SISDE la sera stessa, dopo il colloquio.

P.M. Dott. LUCIANI - E quindi era appunto che redige il capocentro del SISDE... e lo manda in direzione. (…)

TESTE B. CONTRADA - Questo e un appunto redatto dal colonnello Andrea Ruggeri… capocentro del SISDE di Palermo a quella data. (…) Chiesi anche, perchè pensavo che era una responsabilità che non volevo mia soltanto, …che il vicedirettore operativo del SISDE, Prefetto Fausto Gianni, con altri funzionari, il caporeparto operativo, il capo della divisione criminalità organizzata, il dottore De Biase, il dottore Sirleo, tre o quattro funzionari, credo il dottore De Sena, che era il capo dell'UCI, dell'Unita Centrale Informativa, venissero giù a Palermo e poi a Caltanissetta e tutti insieme venimmo qui a Caltanissetta ed avemmo un contatto con il Procuratore Capo e con i suoi Sostituti che lo collaboravano. Dunque, di questa irrituale collaborazione fra servizi segreti e Procura di Caltanissetta, a Roma erano tutti informati: sapevano (e approvarono) i vertici del SISDE; sapevano (e approvarono) i vertici della Polizia di stato e dei Carabinieri.

E il governo? Poteva non sapere?

FAVA, Presidente della Commissione. Ecco, sempre su questo passaggio sui servizi… il Ministro della Difesa e il Ministro dell’Interno potevano essere non informati del fatto che agenzie ed intelligence stessero avviando un’attività di collaborazione nella più importante inchiesta giudiziaria che era in corso in quel momento?

GRASSO. Potrebbe essere anche il Presidente del consiglio in persona, perché è una delega (quella ai servizi ndr), quindi sempre fanno riferimento alla Presidenza. Ma naturalmente, anche il capo della Polizia o il Comandante generale dei Carabinieri ricevono le informative del SISDE… Un rapporto corretto non può celare nulla al responsabile politico…

Obiettivo: controllare le indagini. La Repubblica il 16 novembre 2020. Riepilogando, siamo di fronte ad una forzatura investigativa, normativa e procedurale di cui molti (i livelli apicali delle forze di polizia e di sicurezza) sono perfettamente consapevoli e che tutti assecondano, nonostante le disposizioni legislative all’epoca vigenti precludessero al personale dei servizi di informazione e sicurezza di intrattenere rapporti diretti con la magistratura. Resta un altro dubbio: questa collaborazione dei servizi resta solo un’anomalia o servì anche a produrre, nell’immediatezza della strage, elementi utili al futuro depistaggio?

Su questo punto il giudice Pietro Grasso, riferendo in Commissione, non ha dubbi:

GRASSO. Sono aspetti assolutamente anomali… Nel sospetto ci potesse essere (nell’organizzazione della strage, ndr) una presenza di elementi esterni alla mafia e dei servizi, il capo della Polizia Parisi fa sì che lo stesso SISDE prenda in mano la direzione delle indagini. Controllare l’andamento delle indagini, dalla notte stessa in cui muore Paolo Borsellino. E condizionarne il percorso per condurlo verso ciò che verrà poi definito il più clamoroso depistaggio dell’Italia repubblicana. Un condizionamento che produce i suoi primi frutti proprio sull’attendibilità mafiosa di Scarantino. Agli atti processuali c’è la nota del centro Sisde di Palermo, protocollo 2929/Z3068 del 10 ottobre 1992, con cui si ricostruisce la parentela mafiosa di Scarantino.

Così ricorda in Commissione il giornalista Salvo Palazzolo:

PALAZZOLO. Con quella nota il Centro Sisde di Palermo informa il centro di Roma e la questura di Caltanissetta, che Scarantino ha parentele illustri in Cosa Nostra, in qualche modo accreditando questo balordo di borgata come un mafioso, cosa che era assolutamente inverosimile. Quindi i Servizi Segreti hanno in qualche modo rafforzato, le indicazioni che venivano dalla squadra mobile.

Della stessa opinione anche il giudice Gozzo:

GOZZO. Se parliamo di intervento dei servizi non c’è di strano soltanto la nota che viene fatta da Contrada e poi viene in qualche modo veicolata alla Procura di Caltanissetta sui Madonia… però devo dire questo richiamare un’inesistente parentela, perché è praticamente inesistente, stiamo parlando di un parente acquisito… cioè fa ridere… perché questo diceva la nota essenzialmente, molto probabilmente per far sì che Scarantino sembrasse più attendibile… E questa cosa avviene in un ambito strano …e cioè di contatti in cui i Servizi segreti non sono in seconda battuta, ma sono in prima battuta in rapporto con l’autorità giudiziaria… È la negazione di quello che normalmente è il lavoro di intelligence, e che rimane sempre dietro le quinte…

Un punto che lo stesso Contrada ha confermato dinanzi la Corte di Assise di Caltanissetta:

TESTE CONTRADA - Su Scarantino io non ho mai fatto nessuna indagine, so soltanto però, perché poi mi fu fatto leggere l'appunto dal direttore del centro, che il dottor Tinebra chiese personalmente al capocentro, al colonnello Ruggeri, un appunto sulla personalità di Vincenzo Scarantino e sui suoi eventuali legami con ambienti della criminalità organizzata, cioè della mafia, e di riferire direttamente a lui tutto questo. Come si dirà anni dopo, bisognava “vestire il pupo”. E il “pupo”, il futuro collaboratore di giustizia, era proprio Scarantino. Sul quale si concentra la prima informativa del SISDE, il primo fattivo contributo della struttura coordinata in Sicilia da Bruno Contrada al procuratore Tinebra e ai suoi sostituti. Sorvolando sul contenuto delle dichiarazione rese dal dottor Tinebra nel corso del dibattimento del Borsellino quater, è di preliminare importanza comprendere se di questa irrituale collaborazione ne avessero avuto sentore o, addirittura, contezza anche gli altri magistrati che, in varie fasi storiche, si sono occupati delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Ecco cosa hanno riferito alla Corte di Assise di Caltanissetta nel corso dei loro esami:

- Dottoressa Ilde Boccassini:

P.M. Dott. LARI - Dall'esame degli atti del fascicolo nostro risulta che la Polizia inoltrò una nota dei Servizi Segreti… del 10 ottobre del '92 relativa a presunte parentele di Scarantino Vincenzo con la famiglia Madonia. Per quanto è a sua conoscenza nell'ambito delle indagini su Capaci e via D'Amelio, vi sono stati mai ulteriori contributi investigativi dei Servizi Segreti?

TESTE BOCCASSINI I. - Ricordo che c'era un'informativa che riguardava la parentela con Profeta, ma non è che ci voleva il SISDE per dirci che erano parenti, bastava un certificato anagrafico, era il cognato…

AVV. REPICI - Le vorrei chiedere se lei ha contezza di relazioni dirette, interlocuzioni dirette sui temi di indagine fra il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, dottor Tinebra, ed esponenti dei Servizi di sicurezza.

TESTE BOCCASSINI I. - Cioè lei intende se Tinebra riferiva ad apparati dei Servizi Segreti le notizie?

AVV. REPICI - Il flusso informativo lo intendevo esattamente al contrario, cioè dai Servizi al Procuratore.

TESTE BOCCASSINI I. - Allora, io posso soltanto rispondere per quello che ricordo di Capaci… Sono certa che per Capaci sono state trasmesse informative del SISDE e del SISMI. Sui contenuti ora, a distanza di ventitré anni, sinceramente non mi ricordo.

AVV. REPICI - La mia domanda era diversa, e cioè... se c'erano incontri fisicamente fra il Procuratore dottor Tinebra e funzionari dei Servizi.

TESTE BOCCASSINI I. - Non lo so, non lo so. AVV. REPICI - Non lo sa.

TESTE BOCCASSINI I. - Io non ne ho mai visti.

• Dottor Fausto Cardella:

P.M. Dott. LUCIANI - Lei ricorda di un apporto fornito, anche a livello informativo, da parte dei Servizi di sicurezza, in riferimento soprattutto alla strage di via D'Amelio?

TESTE F. CARDELLA - Può darsi che ci sia stato, però... intanto gli apporti dei Servizi di sicurezza...

P.M. Dott. LUCIANI - Cioè io dico… richiesto dal Procuratore Tinebra al dottore Contrada… che riguardava in principal modo l'esplorazione, come dire, del contesto familiare di Scarantino Vincenzo o comunque di investigare su Scarantino Vincenzo.

TESTE F. CARDELLA - No, questo... questo, francamente, non... in questo momento non lo ricordo, insomma, non so.

- Dottoressa Anna Maria Palma:

P.M. Dott. LUCIANI - Le chiedo, innanzitutto, se lei abbia mai saputo che nelle fasi iniziali delle investigazioni sulla strage di via D'Amelio venne richiesta una collaborazione ai Servizi di informazione e sicurezza.

TESTE A. PALMA - No, assolutamente no.

P.M. Dott. LUCIANI - Ha mai avuto modo di visionare o di leggere un documento del SISDE nel quale si ipotizzavano, tra le altre cose, rapporti di parentela, sia pur molto lontani, tra Scarantino Vincenzo e appartenenti alla famiglia Madonia di Resuttana?

TESTE A. PALMA - No, no, no.

AVV. REPICI - Lei, ex post, direttamente o indirettamente, ha mai saputo di contatti con il Procuratore Tinebra nel periodo, diciamo, luglio '92 - dicembre '92 del dottor Contrada?

TESTE A. PALMA - No, assolutamente no.

• Dottor Antonino Di Matteo:

P.M. Dott. LUCIANI - Mi interessava chiarire due aspetti, il primo… se aveva saputo che nella fase iniziale delle indagini… vi era stata una collaborazione da parte degli appartenenti ai Servizi di informazione… e se sì qual è la sua fonte e in che cosa si era sostanziata questa attività.

TESTE A. DI MATTEO - All'epoca non seppi nulla. Intorno alla fase finale della mia permanenza a Caltanissetta seppi, dalla lettura di atti, che c'era stata una nota dei Servizi, credo del Centro SISDE all'epoca di Palermo, che riguardava, tra l'altro, la possibilità del coinvolgimento di un tale Scarantino e non si specificava, naturalmente, a quale titolo né in quale modo, nella vicenda della strage di via D'Amelio del 19 luglio del '92. Rimasi abbastanza, diciamo, sorpreso da questa cosa, che non avevo mai saputo prima. (…)

P.M. Dott. LUCIANI - Senta, e una volta appresa, diciamo, in maniera cartacea questa iniziale collaborazione, ebbe modo di approfondire il punto e di capire come era originata questa collaborazione tra la Procura e gli ambienti dei Servizi di informazione, o si è limitato a prendere il dato?

TESTE A. DI MATTEO - No, ho appreso... ho appreso il dato. Già stavo andando via…

AVV. REPICI – (…) Al di là di quella nota, lei ha mai avuto contezza, naturalmente in epoca successiva rispetto all'immediatezza, di contatti fra l'allora Procuratore dottor Tinebra e il dottor Bruno Contrada sulle indagini su via D'Amelio?

TESTE A. DI MATTEO - No, rapporti diretti Tinebra – Contrada non ne ho mai constatati. Con il senno di poi, ma riferendomi a fatti, invece, notati fin da allora, ho constatato una situazione diversa: …spesso negli uffici della Procura c'era un soggetto... che credo che all'epoca fosse il capocentro del SISDE a Caltanissetta, un soggetto che si chiama Rosario Piraino, e questo soggetto, diciamo, era solito, io lo incontravo negli uffici della... della Procura, ogni tanto veniva, ogni tanto era venuto e aveva bussato anche da me; io, sinceramente, non capivo che cosa... cosa volesse, non gli davo più... ma non per sfiducia, non avevo nessun elemento di sfiducia, ma proprio non riuscivo a capire quale fosse il motivo per il quale un componente dei Servizi di sicurezza dovesse, diciamo, interloquire con i magistrati.

Quel pranzo fra pm e agenti segreti. La Repubblica il 17 novembre 2020. C’è un altro episodio che descrive meglio di tutte le note del SISDE il clima di empatia e di collaborazione tra la Procura di Caltanissetta e i servizi segreti in quelle prime settimane di indagine.

È un episodio riferito in Commissione dal pm Petralia, testimone diretto di una lunga giornata conviviale che vide insieme, allo stesso tavolo, i vertici della Procura di Caltanissetta e quelli del SISDE, pochi giorni prima che Bruno Contrada venisse arrestato.

FAVA, Presidente della Commissione. Di questo coinvolgimento del SISDE eravate a conoscenza? Ne aveste percezione? Se sì, quando?

PETRALIA. Io ne ebbi una chiara, proprio una plastica, materiale percezione perché vi fu un incontro a cui venni invitato a partecipare e io facevo parte dell’organico della Procura, anche se come applicato. Quindi partecipai… Era un incontro conviviale. Fu un pranzo all'hotel San Michele di Caltanissetta… un pranzo al quale partecipammo: il procuratore capo, l'aggiunto, io ed altri colleghi della distrettuale, tra applicati e titolari. C’era sicuramente Giordano… e c’erano i vertici del SISDE. Tra questi, questo signore dai capelli bianchi, che io non avevo mai visto, se non forse in fotografia e che poi seppi essere Contrada… C’era molta… non dico familiarità… comunque mi accorgevo di essere, io e i sostituti, in un ambiente dove gli altri si conoscevano tutti quanti abbastanza bene… In quell’occasione, anche se era un’occasione conviviale, si parlò, o meglio, il procuratore capo fece riferimento a quel contributo che era stato richiesto con la nota, cui lei prima faceva riferimento…

FAVA, Presidente della Commissione. Cioè la nota è precedente?

PETRALIA. Certo, la nota è precedente di molto. Però, voglio dire, a me il fatto che sia stata fatta una richiesta al SISDE, espressamente, cosa assolutamente anomala per una procura, di dare un contributo alle indagini, sfuggiva. Ne ho avuto consapevolezza materiale in occasione di quel pranzo.

FAVA, Presidente della Commissione. Ma dopo che apprendeste di questa richiesta del procuratore, di questa nota del SISDE che lei, opportunamente, ritiene abbastanza anomala… ci fu una discussione in procura? Chiedeste al procuratore come mai si fosse rivolto proprio al SISDE?

PETRALIA. No, perché questo accadeva come una delle tante cose che venivano fatte e, comunque, chiaramente rientrava in quel patrimonio di disponibilità di poteri che aveva il procuratore capo, che era quelli su cui magari non si andava a sindacare… Quello che veramente mi ha colpito è stato il pranzo… Una colazione di lavoro si fa sempre anche con i colleghi, con gli ufficiali di p.g…. Lì era un po’… non è che avessi diffidenza, sinceramente non ne sapevo assolutamente niente di chi fosse Contrada, o meglio magari il cognome mi evocava qualcosa di sinistro però – se devo essere sincero – proprio nulla che avesse un senso. Io ricordo l’episodio soprattutto perché di lì a una settimana Contrada è stato arrestato.

FAVA, Presidente della Commissione. Questa nota che arrivò dal SISDE in qualche modo ha determinato delle conseguenze dal punto di vista investigativo?

PETRALIA. Non mi ricordo neanche qual era il contenuto… non mi pare che dicesse cose spettacolari.

In realtà, come abbiamo visto, è proprio in quella nota dei servizi (con cui ricostruisce la presunta caratura criminale e le parentele mafiose di Vincenzo Scarantino) che troviamo i prodromi del depistaggio. Resta ancora un dubbio: il ruolo di Bruno Contrada e l’assoluta mancanza di coordinamento tra la Procura di Palermo e quella di Caltanissetta, visto che il tempo trascorso fra il pranzo all’hotel San Michele e il successivo arresto del numero tre del SISDE è di appena una manciata di giorni. Com’è stato possibile che, proprio mentre a Caltanissetta si delegava a Contrada e ai suoi uomini la direzione di fatto sulle indagini sulla strage, la procura di Palermo fosse ormai alle ultime battute di un’indagine sullo stesso Contrada che avrebbe determinato il suo arresto pochi giorni dopo? Com’è stato possibile che tra Palermo e Caltanissetta non ci sia stata una minima trasmissione di informazioni? Com’è stato possibile che l'investigatore principale st Borsellino a Caltanissetta fosse considerato a Palermo, nello stesso istante, un poliziotto colluso con Cosa Nostra? E che nulla abbia contribuito a mettere in discussione la partnership investigativa che il procuratore capo Tinebra chiese al SISDE? Lo abbiamo chiesto al procuratore Giordano, all’epoca applicato e poi procuratore aggiunto a fianco proprio di Tinebra nell’indagine su via D’Amelio.

FAVA, presidente della Commissione. Dunque, ci interessa intanto approfondire e fotografare il rapporto di collaborazione che si determinò nei fatti, in quella prima fase di indagine, tra il SISDE e la Procura della Repubblica di Caltanissetta.

GIORDANO. Allora, guardi, io all’epoca non fui a conoscenza di questa richiesta da parte del dottor Tinebra di compulsare i servizi… sapevo che il procuratore Tinebra aveva una consuetudine, diciamo, di frequentazione col SISDE... so che aveva la possibilità di disporre del volo CAI, tuttora credo gestito dai Servizi, poi ricordo che periodicamente lo veniva a trovare una persona dei Servizi di Palermo o di Caltanissetta, e io lo vedevo nell’anticamera, noi avevamo un anticamera comune… Poi veniva Piraneo che fu nominato referente (del SISDE) di Caltanissetta… quindi diciamo lui aveva questo rapporto così… Ricordo soltanto che una mattina venne a Caltanissetta una persona che io non conoscevo e che poi mi fu detto che essere il dottor Contrada. Io non mi ricordo se fui chiamato oppure entrai casualmente nella stanza del dottor Tinebra, e c’era questo funzionario, forse era accompagnato da qualche altro funzionario, e la discussione verteva sulle attività dei servizi nella lotta contro la mafia… si parlò di questo, diciamo, cattura di latitanti nel contrasto alle organizzazioni mafiose…

Prima “operativo”, poi arrestato per mafia. La Repubblica 18 Novembre 2020. Sul pranzo di Caltanissetta tra i magistrati della Procura e i funzionari del SISDE, presente Contrada, il ricordo di Giordano contrasta nettamente con quello di Petralia:

GIORDANO. Ho letto sulla stampa le dichiarazioni del mio collega Petralia, dice che c’era stato un pranzo a Caltanissetta, presenti Contrada, Tinebra, lui include anche me, io lo escludo assolutamente, io non ho mai partecipato a pranzi, a riunione conviviali coi Servizi…nella maniera più assoluta. Lui si sbaglia. Io ricordo solo questa riunione, questa visita di Contrada nell’ufficio di Tinebra e basta. Poi non so altro.

FAVA, presidente della Commissione. Ecco, senta, ma quando Contrada incontra Tinebra e lei è presente, è già indagato - e da tempo - dalla Procura di Palermo.

GIORDANO. Noi non lo sapevamo.

FAVA, presidente della Commissione. Come è possibile che da una parte Contrada avesse questo rapporto così operativo con la Procura che indaga sulle stragi e nessuno da Palermo si premurò di dirvi: “C’è il rischio che lo arrestiamo”? Perché fu arrestato una settimana dopo quel pranzo…

GIORDANO. Ho un ricordo preciso, fu un fulmine a ciel sereno questo arresto, perché noi non avevamo nessuna contezza… Poi, dopo molto tempo, abbiamo ricostruito le dichiarazioni di Mutolo, Paolo Borsellino che sentiva Mutolo e in cui praticamente si cominciò a parlare di Contrada come uno dei personaggi coinvolti nei contatti con le organizzazioni criminali… ma in quel momento noi, almeno io personalmente non seppi nulla…

FAVA, presidente della Commissione. Ma non vi capitò di approfondire con il dottor Tinebra? Fu un arresto abbastanza clamoroso per l’intero Paese, Contrada era il numero tre dei Servizi e qualche settimana prima gli era stato chiesta una nota informativa su Scarantino. Vi capitò di confrontarvi su questo punto?

GIORDANO. Non ho un ricordo preciso, sicuramente avremo parlato perché, diciamo, ogni giorno eravamo lì a discutere tutte queste cose qui, e certamente fu una sorpresa… ecco.

FAVA, presidente della Commissione. La nota che riceveste il 10 ottobre del ’92… un’altra cosa abbastanza insolita è che è una nota che poteva essere data da qualsiasi Commissariato di quartiere a Palermo, nel senso che ci si limitava a spiegare: “Scarantino ha questi legami parentali, familiari, queste frequentazioni…” punto.

GIORDANO. Guardi, Presidente, io ricordo semplicemente una riunione a Caltanissetta, una riunione alla quale c’erano presenti molte persone, forze dell’ordine, eccetera, in cui il dottor La Barbera espose questa, non so se chiamarla teoria, collegamento, ce l’ho proprio qua davanti agli occhi e disse “Scarantino-Profeta-Aglieri” cioè il discorso che voleva dire e che voleva sottolineare era che Scarantino, sebbene fosse un balordo di quartiere, aveva un pedigree, un collegamento parentale con Salvatore Profeta che era un personaggio importante del mandamento della Guadagna e che era il braccio destro di Pietro Aglieri e di Carlo Greco, cioè dei vertici del mandamento. Quindi questa fu una delle cose che probabilmente hanno ingannato un pochettino…In Commissione il dottor Giordano non ha mancato di fare riferimento ad Arnaldo La Barbera, in arte Rutilius (il suo nome in codice durante gli anni, 1986-1988, della sua collaborazione con il SISDE), che nel 1992 era il capo della squadra mobile di Palermo. Ad Arnaldo La Barbera fu affidata dal procuratore Tinebra la costituzione di una task force investigativa, che avrà un ruolo determinante nella gestione dei tre falsi collaboratori di giustizia, Scarantino, Candurra e Valenti. La testimonianza del procuratore Giordano lo propone subito come uno dei protagonisti di quella stagione d’indagini.

GIORDANO. Devo aprire anche un'altra parentesi a proposito del dottor La Barbera, perché sia io che Tinebra che Petralia… nessuno di noi aveva esperienza lavorativa per quanto riguarda le organizzazioni criminali di Palermo e anche di Caltanissetta… quindi quando noi siamo stati proiettati in questa nuova realtà, noi avevamo fiducia in quello che diceva La Barbera, perché La Barbera a quell’epoca era, non voglio esagerare ma sicuramente era non so il migliore o tra i migliori investigatori d’Italia.

FAVA, presidente della Commissione. Sapevate che era legato ai Servizi…

GIORDANO. No questa è un’altra cosa che leggo sui giornali… All’epoca non lo sapevamo assolutamente, almeno io non lo sapevo. Vedremo nelle prossime pagine come il ruolo di La Barbera e dei suoi uomini, alcuni dei quali imputati nel dibattimento in corso a Caltanissetta per il depistaggio, rappresenti uno dei tratti più opachi dell’intera vicenda. Ci sia consentita solo una riflessione, a margine dei molti ricordi prudenti ed offuscati dal tempo che abbiamo collezionato: di tanta solerzia da parte della procura di Caltanissetta nel coinvolgere nelle indagini immediatamente – ed inopportunamente - un alto dirigente dei servizi (Bruno Contrada) e l’intero stato maggiore del SISDE non vi è traccia nei 57 giorni che trascorsero inutilmente, fra Capaci e via D’Amelio, senza che Paolo Borsellino venisse mai ascoltato da Tinebra e dai suoi sostituti. Si decise immediatamente (poche ore dopo la strage) di chiedere l’ausilio investigativo dei servizi segreti (tassativamente vietato dalla legge); si decise di dar credito alle improvvide ricostruzioni che il SISDE e La Barbera proposero sulla caratura criminale di Scarantino; si decise una scorciatoia investigativa che produrrà – due anni più tardi – il finto pentimento di Scarantino e il definitivo travisamento della realtà dei fatti. E si decise, al tempo stesso, di non utilizzare la collaborazione, le conoscenze, le intuizioni, l’esperienza e la cristallina buona fede del dottor Paolo Borsellino. Anche se di tutto ciò non vi sarà traccia nel processo in corso sul depistaggio, va sottolineato che quella scelta (dentro il SISDE, fuori Borsellino) resta una pagina oscura e una gravissima responsabilità che sarebbe riduttivo attribuire solo all’allora capo della procura di Caltanissetta. Del ruolo improprio del SISDE, a fianco di quella procura, molti seppero. E tutti tacquero. Come tacquero in quei 57 giorni in cui si ridusse il contributo di Paolo Borsellino a qualche chiacchiera informale a pranzo tra lui e un giovane sostituto applicato a Palermo.

A chi sta a cuore la sorte di Contrada? La Repubblica il 19 novembre 2020. Resta infine da annotare, a margine della vicenda che qui ricostruiamo, l’attenzione che sulle sorti della detenzione di Bruno Contrada manifesteranno, negli anni successivi, altissime cariche dello Stato. Ecco cosa ha riferito alla Commissione la dottoressa Angelica Di Giovanni, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Napoli (fornendo a questa Commissione copia dei documenti da lei citati):

FAVA, presidente della Commissione. Lei era presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli… Contrada era detenuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere e lei è stata chiamata a pronunciarsi sulle richiesta di scarcerazione per ragioni di salute… Vi furono in tal senso sollecitazioni in una direzione piuttosto che in un’altra nei confronti di questo detenuto?

DI GIOVANNI. Diciamo che la vicenda che mi riguarda risale al dicembre 2007… nasce da una telefonata dell’allora consulente del Presidente della Repubblica il dottore Loris D’Ambrosio, che io già conoscevo da tempi pregressi per motivi chiaramente di ufficio, il quale mi telefona, credo sia stato prima del Natale perché poi ci fu una seconda telefonata il 24 dicembre… La prima telefonata fu una telefonata quasi di sorpresa “Angelica, tu hai Bruno Contrada, come sai dai giornali, lui ci ha mandato una lettera ed io non so se debbo interpretarla come istanza di grazia o meno”. Al che dico “Loris, mi telefoni per dirmi una cosa del genere? Interpretatela come volete, tanto il problema non è mio, sulla grazia al limite me la mandate per il parere, ma poi dovete pronunciarvi voi”. Dice “sì, vabbe’, ma io volevo sentire te che hai esperienza”. Nel mio ambiente mi conoscono un poco tutti, a questo punto dico “Loris, ma vuoi andare al di là, mi vuoi sollecitare qualche cosa?”. Lui dice “no, me ne guarderei bene, ti conosco”. Dico “vabbe’, allora fate quello che volete...”. Dice “Vabbe’, ci sentiremo”. Intanto arriva in ufficio, datata 24 dicembre, una nota ufficiale in cui mi dice “Angelica, su sollecitazione del Presidente della Repubblica… ti scrivo su incarico del Presidente della Repubblica se se puoi anticipare l’udienza”…

FAVA, presidente della Commissione. L’udienza che avrebbe dovuto decidere sulla scarcerazione o meno di Contrada.

DI GIOVANNI, magistrato. Premetto che l’udienza in tribunale è fissata per l’art. 147 c.p. per il differimento dell’esecuzione della pena… chiaramente io il 24 dicembre non ero in ufficio. Lui (D’ambrosio, ndr) mi telefona e mi dice “guarda, ti ho mandato questa nota, è arrivata la nota?” Dico: “sì guarda, ma il Presidente della Repubblica non è parte in causa, non è figura processuale, quindi che tu mi scriva questa nota non mi serve a niente. Se volete l’anticipazione dell’udienza fai fare la domanda ufficiale all’avvocato… Comunque gli dissi “guarda che io, comunque, allego la lettera con tutta la busta ufficiale al processo”. E così è stato, la nota ufficialmente inserita negli atti del processo.

FAVA, presidente della Commissione. Lei ebbe occasione in quel momento di chiedergli in quel momento come mai il Presidente della Repubblica intervenisse in modo incongruo per chiedere l’anticipazione di un’udienza su un detenuto?

DI GIOVANNI, magistrato. No, non gliel’ho chiesto perché appunto già mi conoscono come un tipo polemico… Arrivò la nota dell’avvocato di sollecitazione dell’udienza… era fissata più o meno verso la fine di gennaio, la anticipammo alla prima di gennaio… e che si chiuse con un rigetto delle istanze. Credo che Contrada da noi abbia cumulato, da questo primo rigetto fino a giugno, per lo meno una decina di rigetti di domande, insomma gliela concedemmo (il deferimento della pena, ndr) soltanto il 27 luglio del 2008. (…) Però la cosa non finisce lì… perché se il 24 dicembre mi telefona Loris D’Ambrosio per il Presidente della Repubblica, …il 31 dicembre… di sera mi telefona Carlo Visconti che allora era il segretario del Consiglio Superiore della Magistratura presieduto da Nicola Mancino e mi dice “Angelica, tu hai Contrada”, dico “vabbe’, questa storia sta diventando… già mi ha chiamato Loris”, “sì ma io ho sentito Loris, perciò ti sto chiamando”. A questo punto feci la domanda che non avevo fatto a Loris “scusate, ma di che cosa vi preoccupate, insomma? Perché mi state telefonando?”. (…)

FAVA, presidente della Commissione. Mi scusi, ma quando la chiama il dottor Visconti le dice che la chiama a nome del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura?

DI GIOVANNI, magistrato. Sì, mi aggiunge la frase successiva che fu: “allora domani mattina, 1 gennaio 2008, quando vado a fare gli auguri al Presidente gli posso dire che siamo tranquilli?”…

FAVA, presidente della Commissione. Ma c’era stata in questa telefonata una sollecitazione o una richiesta o era semplicemente una telefonata per capire? …cosa le venne detto?

DI GIOVANNI, magistrato. Non ci fu scopo. C’era solo la preoccupazione, c’era questa preoccupazione…

FAVA, presidente della Commissione. Preoccupazione su cosa?

DI GIOVANNI, magistrato. Che potesse succedere qualche cosa. (…) Tutti e due mi parlano in forma ufficiale e quindi credo che è come se volessero dare dei segnali, come se volessero far sapere ad altri che loro comunque si erano mossi.

Nome in codice "Rutilius". La Repubblica il 20 novembre 2020. Le indagini sulla strage di via D’Amelio vengono affidate, sin da subito, al capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Lo stesso era accaduto per quelle su Capaci. La Barbera era arrivato a Palermo nell’agosto 1988, per volere espresso del Capo della Polizia di Stato Vincenzo Parisi che gli affida il compito, citando la stampa dell’epoca (Repubblica, 4 gennaio 1992), di «"rifondare" gli uffici investigativi di piazza della Vittoria, dilaniati dalle polemiche sulla presunta "talpa" e decapitati dopo il trasferimento del dirigente Antonino Nicchi e di alcuni funzionari definiti "la memoria storica" nella lotta alla mafia». All’epoca La Barbera, che arriva da Venezia, è considerato uno degli uomini di punta della Polizia di Stato. Lo precede una fama da “duro”. In due scontri a fuoco ha ucciso due rapinatori; un terzo lo ucciderà a Palermo, nel gennaio 1992, reagendo ad una tentata rapina: «Sono stato più veloce, ho sparato prima di loro e li ho colpiti» dichiarerà alla stampa.

Qui interessano solo le modalità investigative nelle indagini sulle stragi (non sempre ortodosse) di La Barbera. Ben riassunte in Commissione dal ricordo che ne ha il dottor Gozzo:

GOZZO. Quello che è emerso immediatamente è il modus operandi… del gruppo di persone che faceva capo La Barbera, un modo un po’ predatorio – diciamo così – di intendere la giustizia… come disse una collega, “La Barbera non fa prigionieri” nel senso che quando è convinto che tu sia responsabile di qualcosa ti attribuisce una serie di piccole contestazioni fino a quando non arriva alla contestazione più grossa. Ed è effettivamente è quello che è successo in questo processo, nel senso che tutti questi sono stati incredibilmente inseriti in questa vicenda meramente molto più grande di loro.

La tecnica, ha spiegato di giudice Gozzo in Commissione, era quella di fare avvicinare in carcere i soggetti – le vittime, sarebbe meglio dire – da altri detenuti che avevano avuto precedentemente problemi giudiziari con La Barbera o con persone di sua fiducia.

GOZZO. Queste persone venivano detenute assieme e stimolavano i soggetti, se la vogliamo vedere in maniera positiva, a rivelare quello che sapevano veramente, se la vogliamo vedere negativamente, probabilmente anche a dire cose che non c’entravano. E questa è una tecnica che è stata utilizzata per tutti i soggetti coinvolti in questa vicenda, non solo Scarantino, che viene avvicinato nel carcere di Venezia da tale Pipino. Lo stesso Candura subì lo stesso trattamento, e si trattava sempre di ex detenuti sulla base di indagini compiute da La Barbera.

Le indagini sulla strage di via D’Amelio hanno sin da subito un avvio alquanto singolare. L’ufficio diretto da La Barbera dispone un sopralluogo – delegato alla Polizia Scientifica di Palermo – presso la carrozzeria di Giuseppe Orofino già alle 11 del lunedì 20 luglio 1992, perché quest’ultimo aveva denunciato, appena un paio d’ore prima, il furto delle targhe (ed altro) da una Fiat 126 di una sua cliente all’interno della sua autofficina. Perché quel sopralluogo, di fronte al semplice furto di una targa? Nessuno, la mattina del 20 luglio, sa ancora che l’auto imbottita d’esplosivo fosse proprio una 126. A quell’ora non sono stati ancora rinvenuti né la targa né il blocco motore: la conferma sul modello di auto arriverà solo il giorno dopo. Eppure a poche ore dall’esplosione si individua – senza alcuna plausibile giustificazione - nell’Orofino e nel suo garage una probabile pista investigativa. E dalla squadra mobile di Palermo si ipotizza (così come rilanciato da un’Ansa) che per l’autobomba sia stata utilizzata un’utilitaria di piccole dimensioni, probabilmente proprio una 126. Come faceva La Barbera a conoscere il modello di auto prima ancora che in via D’Amelio si recuperasse il blocco motore della 126? Perché mandare la polizia scientifica in un garage per un banale furto di targhe? Solo il 13 agosto arriverà la nota del Centro Sisde di Palermo sugli autori del furto della 126 e si legittimerà la pista che porterà rapidamente a Candura e Valenti: dopodiché Scarantino avrà i giorni contati. Come faceva La Barbera a predire questi sviluppi a poche ore dalla strage? Qualcuno informò il capo della squadra mobile di Palermo e quegli elementi (l’atto, la targa, il furto…) erano, come dire, già noti per altre vie agli investigatori?

Come è nato il "Gruppo Falcone-Borsellino". La Repubblica il 21 novembre 2020. Approfondiremo più avanti le molte forzature procedurali e investigative che si registreranno nel gruppo d’indagine “Falcone-Borsellino”, la gestione - a tratti disinvolta, a tratti irrituale – di Vincenzo Scarantino, le contraddizioni e le reticenze che prefigurano, fattualmente, un depistaggio nelle indagini su via D’Amelio. Qui intanto interessa approfondire il collegamento fra La Barbera e i servizi segreti, atteso un contesto assai confuso di presenze, interventi e interferenze delle agenzie di intelligence sul teatro della strage e nel corso delle prime indagini. È certo – come già detto - che La Barbera sia stato un collaboratore del SISDE, regolarmente a busta paga dei servizi fra il 1986 e il 1988. Chi era al corrente di questi suoi legami nel momento in cui il procuratore capo di Caltanissetta lo investe della direzione delle indagini sulla strage di via D’Amelio? Apparentemente nessuno.

Ricorda in Commissione l’avvocato Gioacchino Genchi, all’epoca il più stretto collaboratore di La Barbera fra Palermo e Caltanissetta:

FAVA, Presidente della Commissione. Quando ha saputo, se lo ha saputo, che il questore La Barbera era legato ai servizi segreti?

GENCHI, Guardi, io della sua amicizia con De Sena (all’epoca direttore dell'Unità Centrale Informativa del Sisde, ndr) ne ho avuto percezione sin dall’agosto dell’88. De Sena è l’unica persona dei servizi segreti che ho incontrato in vita mia…

FAVA, Presidente della Commissione. Come aveva saputo che De Sena faceva parte dei Servizi?

GENCHI. L’ho saputo perché mi fu presentato così quando venne a Palermo, la prima volta che ci incontrammo. Lui alloggiava all’hotel delle Palme e ci invitò a cena con La Barbera…

FAVA, Presidente della Commissione. Lei in questa fase sa già della collaborazione di La Barbera con il Sisde?

GENCHI. No, io sapevo che lui aveva un rapporto con De Sena personale e che, grazie a questo rapporto personale, determinati finanziamenti per delle esigenze logistiche di La Barbera… La Barbera detestava l’idea di abitare in una casa… era innamorato degli alberghi, voleva dormire in albergo! Questo, in polizia è possibile nei primi mesi quando si viene trasferiti, ma non puoi stabilirti permanentemente prima all’Excelsior e poi al Politeama, per altro nella suite che era stata di Rino Nicolosi... E questo gli veniva consentito attraverso passaggi di denaro a copertura di quelle spese che venivano fatti attraverso il capo della Polizia Parisi o con i fondi riservati o, probabilmente, attraverso passaggi che venivano circuitati dai servizi.

Dunque, al protagonismo del SISDE a fianco di Tinebra e della sua procura si aggiunge la direzione delle indagini affidata a un ex collaboratore del SISDE, La Barbera. L'ingiustificata pervasività dei servizi segreti nelle indagini sulla strage di via D’Amelio è provata e manifesta. L’arresto di Contrada a Palermo di fatto conclude (o, quantomeno, ridimensiona notevolmente) la collaborazione fra la Procura di Caltanissetta e il SISDE ma determina anche una brusca interruzione dell’incarico che La Barbera aveva ricevuto da Tinebra per le indagini su via D’Amelio. Ma è un’interruzione assai breve: anzi, è proprio questo allontanamento di La Barbera dalla Sicilia a determinare, da lì a pochi mesi, la formale costituzione – con decreto del ministro dell’Interno, Nicola Mancino, il 15 luglio 1993 – del cosiddetto gruppo d’indagine “Falcone-Borsellino”.

Riferisce in Commissione Genchi:

GENCHI. L’anti vigilia di Natale del 1992 La Barbera viene trasferito con telex - senza che nessuno ne sappia niente - al Ministero, a disposizione. Gli viene tolta la stanza, la macchina, il cellulare, tutto. Io non riesco più a parlare con Parisi e mi accorgo da molte cose che sostanzialmente Parisi non esiste più, cioè nel senso che non ha più poteri. Perché all’interno del Dipartimento della Pubblica Sicurezza il punto di riferimento è il Prefetto Rossi, allora vice Capo della Polizia. Parisi sarà poi tolto da capo della Polizia, qualche mese dopo. Siamo al 23 dicembre, la vigilia dell’arresto di Contrada… Questo decapita sostanzialmente le indagini… La Barbera va a Roma, riesce ad avere un incontro con Parisi dopo diversi giorni. Parisi gli dice: “stai tranquillo, Arnaldo, tu sei tutelato. Genchi è tutelato, però purtroppo noi dobbiamo fare un passo indietro con l’arresto di Contrada. La polizia deve togliersi. Non possiamo continuare. Tutto deve passare in mano ai Carabinieri”. La Barbera torna da Roma, mi racconta questo, mi dice che i carabinieri avrebbero arrestato Riina con il colonnello Mori, quindi già sapevano prima della fine dell’anno, che Riina sarebbe stato catturato e noi avremmo dovuto fare un passo indietro. Io non ci sto, La Barbera non ci sta, noi non ce ne andiamo, noi lavoreremo in albergo, a casa, lavoreremo non so come, con le deleghe ad personam… Vengono a Palermo Fausto Cardella e Ilda Boccassini, ci incontriamo, loro sono molto più incazzati di noi, avvertono proprio quello che è stato lo schiaffo che hanno fatto alle indagini.. I magistrati ci danno delle deleghe ad personam, Cardella e Boccassini… Noi notifichiamo le deleghe al Ministero dell’Interno. Il Ministero dell’Interno è costretto a prendere atto, perché il rischio sarebbe stato che l’indomani si andava in televisione e questa cosa usciva… Anche Tinebra devo dire che appoggiò questa scelta delle deleghe ad personam… Boccassini, Cardella, Tinebra, Petralia, tutti appoggiarono questa decisione. Il Ministero fu messo con le spalle al muro. E, quindi, fu costituito il gruppo “Falcone-Borsellino”. Mi creda Presidente, che motivo c’era? Qual è l’esigenza di creare un ufficio nuovo quando ci sono gli uffici istituzionali? La genesi nasce dal cilindro di Parisi…

Riepilogando: con l’incriminazione e l’arresto di Bruno Contrada si consuma uno scontro all’interno delle forze di polizia. E a subirne le conseguenze è anche La Barbera, immediatamente rimosso e trasferito a Roma a disposizione. A richiamarlo in Sicilia è l’iniziativa dei pm della procura di Caltanissetta (certamente Ilda Boccassini e Fausto Cardella) che scavalcano le determinazioni del ministero attribuendo a La Barbera e ai suoi uomini una serie di deleghe investigative ad personam. E insediandolo di nuovo alla direzione delle indagini su via D’Amelio. Le conseguenze di questa rilegittimazione si manifesteranno, nel volgere di pochi mesi, nel modo in cui La Barbera e i suoi uomini gestiranno – e manipoleranno, secondo l’ipotesi accusatoria oggi in dibattimento a Caltanissetta - la falsa collaborazione di Scarantino, CandurComea e Valenti.

L'imbarazzante indagine e il falso pentito. La Repubblica il 22 novembre 2020. Vincenzo Scarantino decide di collaborare la notte del 24 giugno 1994, quasi due anni dopo essere stato arrestato e formalmente accusato d’aver partecipato all’organizzazione della strage di via D’Amelio. A partire da quella notte (e da un “pentimento” a lungo precedentemente costruito) l’indagine colleziona un’imbarazzante serie di forzature investigative e procedurali, tutte collegate alla gestione del collaboratore Scarantino. Che possiamo riassumere come segue:

• perché furono autorizzati colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione?

• perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione ma ai poliziotti del gruppo “Falcone-Borsellino” diretto da La Barbera?

• perché i pm di Caltanissetta non depositarono nel Borsellino 1 i verbali del confronto fra il presunto pentito Scarantino e i collaboratori di giustizia Cancemi, Di Matteo e La Barbera che lo smentivano palesemente?

• perché i pm di Caltanissetta, e successivamente i giudici, non tennero in alcuna considerazione le due ritrattazioni di Scarantino?

• perché non fu mai redatto un verbale del sopralluogo della polizia assieme a Scarantino nel garage dove sosteneva di aver trasportato la 126 poi trasformata in autobomba?

• chi è l’ispiratore dei verbali, con a margine delle annotazioni a penna, consegnati a Scarantino prima dei suoi interrogatori?

• Perché non si tennero in alcuna considerazione le note critiche trasmesse dalla Boccassini e da Sajeva al pool di Caltanissetta?

Sono solo alcune delle domande che da 26 anni attendono una risposta, i vulnus che ha registrato l’indagine e che hanno condizionato l’esito dei primi processi su via D’Amelio. Come detto in premessa, questa relazione intende contribuire alla ricostruzione degli atti, dei fatti e delle responsabilità (istituzionali, politiche e procedurali: non penali) che hanno determinato, attraverso ciascuno di questi vulnus, le condizioni per il depistaggio sulla strage di via D’Amelio.

Procediamo con ordine.

I COLLOQUI INVESTIGATIVI

La prima anomalia sono certamente i colloqui investigativi autorizzati con Vincenzo Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione. Li ha ricostruiti in Commissione l’avvocato Di Gregorio:

FAVA, presidente della Commissione. Senta chi ha autorizzato, che lei sappia, i componenti di questo gruppo investigativo Falcone, Borsellino ad effettuare i colloqui investigativi con Scarantino?

AVV. DI GREGORIO ROSALBA, L’ho scoperto qua nel quater, ce ne sono dieci di seguito, dal 4 luglio al 13 luglio 1994 …a Pianosa, dentro il carcere. Vengono richiesti da Arnaldo La Barbera, vengono autorizzati, dieci, uno appresso all’altro: due da Sajeva e Boccassini, gli altri tutti dalla Boccassini. Abbiamo sentito (in dibattimento, ndr) uno dei tizi che andarono a fare questi, questi… colloqui investigativi… in realtà erano l’unica forma che c’era per avere il permesso di entrare al carcere e stare accanto a Scarantino… Quello ci dice: “non era un colloquio, era il permesso per stare a fargli compagnia per dieci giorni dentro il carcere perché si spaventava…”. E la notte? “No! La notte andavamo a dormire fuori…”, e quindi di notte Scarantino non si spaventava! (…) Poi invece ci sono una serie di colloqui… che coincidono - e questo è inquietante – con… le fasi in cui ognuno di questi tre collaboratori (Candurra, Andriotta e Scarantino ndr) si allineava al discorso che aveva fatto l’altro…

Dunque dieci colloqui investigativi consecutivi, dopo la decisione di Scarantino di collaborare, tutti gestiti dai poliziotti del gruppo “Falcone-Borsellino” agli ordini di Arnaldo La Barbera. Alla luce di ciò che si rivelerà essere la collaborazione di Scarantino, ovvero una collezione di suggestive menzogne, non si può non immaginare che quei colloqui – sia prima che dopo il cosiddetto “pentimento” - siano serviti anche a istruire il falso pentito. Eppure furono tutti autorizzati, non sappiamo con quanta consapevolezza dei risultati che quella procedura – certamente anomala – avrebbe potuto produrre.

Ecco cosa ricorda e riferisce in Commissione il dottor Petralia:

FAVA, Presidente della Commissione. Perché questi colloqui investigativi, dopo? Voi ci insegnate che nel momento in cui comincia una collaborazione i colloqui investigativi cessano…

PETRALIA. In realtà la normativa che sterilizza il collaboratore di giustizia per 180 giorni dopo l’inizio della collaborazione, vietando contatti con chiunque che non sia il magistrato che ne acquisisce i verbali illustrativi del contenuto della collaborazione, è normativa del 2001.

FAVA, presidente della Commissione. Però ci hanno confermato i suoi colleghi che non c’era assolutamente prassi dei colloqui investigativi…

PETRALIA. Sotto un profilo puramente formale non c’era nemmeno una norma che lo vietasse. Naturalmente, non era buona regola tant’è che poi il legislatore - sia pure dopo un po’ di tempo - ha ritenuto di vietarlo. Però c’è da dire anche che… c’era una forte commistione in quel momento. Debbo dire non riguardava solo Scarantino, riguardava molti fenomeni di collaborazione. Tra la fase investigativa, tra chi si occupava dell’aspetto investigativo e chi si occupava dell’aspetto “gestionale” del collaboratore. Io non so cosa diavolo si siano detti in questi colloqui investigativi... Peraltro, per legge dovevano essere autorizzati già allora dal procuratore Capo… mi ha sconvolto leggere tutto quel numero di colloqui investigativi, ve lo dico sinceramente.

Questo è quanto ci ha riferito sul punto l’allora procuratore aggiunto Paolo Giordano

FAVA, presidente della Commissione. Come mai sono stati autorizzati colloqui investigativi con Scarantino?

GIORDANO. Allora, io ho una mia spiegazione… una mia spiegazione postuma, non dell’epoca, perché all’epoca credo che, in buona fede, insomma, venne fatta questa valutazione, perché tenga conto che il colloquio investigativo viene introdotto, se io non sbaglio, nel decreto legge dell’8 giugno 1992, viene aggiunto questo famoso articolo 18bis dell’ordinamento penitenziario, viene introdotto a giugno del ’92 per la prima volta. Quindi le prassi applicative ancora erano, diciamo, di là da venire…

FAVA, presidente della Commissione. Però tutti i magistrati con cui abbiamo parlato ci hanno detto che era totalmente fuori da qualsiasi consuetudine che una persona che già collaborava venisse interrogata dalla polizia giudiziaria.

GIORDANO. Certamente, non c’è dubbio.

FAVA, presidente della Commissione. Però sono stati autorizzati…. GIORDANO. Appunto, per questo…

FAVA, presidente della Commissione. Dieci colloqui investigativi consecutivi…

GIORDANO. …all’epoca si aveva l’idea di conseguire comunque dei risultati perché si brancolava nel buio più assoluto e, quindi, la spiegazione, se una giustificazione ci può essere, perché effettivamente è inopportuna assolutamente… tenga conto che le prassi applicative, le interpretazioni, la normativa secondaria avviene dopo il ’92… Quindi dal ’92 al ’94 siamo in un momento così...come possiamo dire…di rodaggio di questi istituti… Probabilmente certamente non era il massimo della trasparenza, questo lo debbo riconoscere.

Di tenore assai diverso le affermazioni del magistrato Alfonso Sabella, che ebbe ad occuparsi di Vincenzo Scarantino a Palermo, con valutazioni sulla sua attendibilità (come vedremo) del tutto opposte a quelle dei colleghi di Caltanissetta.

FAVA, Presidente della Commissione. Era possibile, non dico normale, ma accadeva che potessero essere autorizzati dei colloqui investigativi dopo che era stata avviata la collaborazione? In carcere ovviamente!

ALFONSO SABELLA, magistrato. E per quale ragione? Cioè io non ne ho mai fatte… Insomma lo scopo del colloquio investigativo non ci sta, non è quello, lo scopo del colloquio investigativo spinge ad acquisire informazioni, a spingere la collaborazione insomma…

I ricordi dei pm dell'epoca. La Repubblica il 23 novembre 2020. Ecco infine come i pm Ilda Boccassini e Roberto Sajeva, nelle testimonianze rese in dibattimento durante il Borsellino quater, ricostruiscono la genesi dei colloqui investigativi con Scarantino (sia successivi alla sua decisione di collaborare che precedenti).

P.M. Dott. LARI - Questi colloqui investigativi …nascono da un'iniziativa del gruppo Falcone - Borsellino, nel senso che sono loro che li richiedono, o nascono da un input dei Pubblici Ministeri che chiedono che vengano fatti?

TESTE I. BOCCASSINI Scarantino …da Pianosa …faceva arrivare dei messaggi tramite gli agenti penitenziari, di voler parlare, di non voler parlare, di dire cose, etc. Tinebra decise, ovviamente sempre discutendo… con il dottor La Barbera, rispetto a questi colloqui... tant'è che quando, a giugno, poi si decise, si andò a Pianosa ad interrogare Scarantino… Ricordo un viaggio allucinante in elicottero da Roma a Pianosa in piena notte con il collega Petralia, se non mi sbaglio, e il dottor La Barbera. (…)

P.M. Dott. LUCIANI – (…) Dalla documentazione che abbiamo acquisito risulta che questi colloqui investigativi furono autorizzati da lei, quindi se ricorda questa circostanza e che cosa le venne prospettata come esigenza in relazione a questi colloqui investigativi tenuti a Pianosa.

TESTE I. BOCCASSINI - … Allora, la gestione, lo ripeto, del processo in quel momento, dell'attività investigativa, era di altri Pubblici Ministeri, non mia.

P.M. Dott. LUCIANI - … Siccome documentalmente risulta che, appunto, questi colloqui investigativi furono autorizzati dalla Procura di Caltanissetta, nella sua persona, era per capire che esigenza le venne rappresentata nel momento in cui si dovettero autorizzare questi colloqui investigativi.

TESTE I. BOCCASSINI - Ma fu rappresentata... fu rappresentata al Procuratore Tinebra, dopodiché, ovviamente, io firmai, se è così non mi ricordo questi colloqui investigativi.

P.M. Dott. LUCIANI - Ma lei seppe qual era l'esigenza che motivava questa richiesta di colloqui investigativi rappresentata dal dottore Tinebra?

TESTE I. BOCCASSINI - No, non mi... non mi ricordo, cioè erano questioni che forse non stava bene anche, non... non mi ricordo, non mi ricordo sinceramente. Però Tinebra teneva molto... diciamo che aveva preso molto a cuore la situazione di Scarantino.

P.M. Dott. LUCIANI - … Le volevo chiedere se lei o comunque i magistrati della Procura di Caltanissetta in quel periodo ebbero contezza del fatto che vi fossero stati dei colloqui investigativi con lo Scarantino prima della sua decisione formale di collaborare… se voi aveste contezza di colloqui investigativi effettuati da appartenenti al gruppo Falcone - Borsellino prima di quella data… e se vi fu partecipato l'esito di questi colloqui investigativi. …Ce ne sono stati quattro prima... tre prima della formale collaborazione dello Scarantino, il 20.12.93 ad opera del dottor Bo, il 22.12.93 ad opera del dottor La Barbera e il 2 febbraio del '94 ad opera sempre del dottor La Barbera, e poi c'è un colloquio investigativo lo stesso giorno in cui Scarantino decide di collaborare, cioè il 24 giugno del 1994. Fermandoci a questo: aveste contezza voi di questi colloqui investigativi, dei motivi per i quali si facevano questi colloqui investigativi? E se vi venne partecipato poi informalmente l'esito da parte di chi li fece.

TESTE SAJEVA R. - Poco fa ho fatto riferimento ad una manifestazione di disponibilità che proveniva dal carcere di Pianosa dello Scarantino e che determinò, appunto, lo spostamento a Pianosa dei colleghi Boccassini e Petralia per procedere ad un esame. Onestamente non ricordo dopo tutto questo tempo quale sia stato il mezzo attraverso cui questa disponibilità venne acquisita, se fu una sua dichiarazione, se fu per il tramite del gruppo investigativo che venne rese nota, non lo ricordo…

P.M. Dott. LUCIANI - …Successivamente a questi interrogatori …aveste contezza del fatto che dal 4 luglio del '94 sino al 13 luglio del '94, anche qua è documentale, risultano espletati dieci colloqui investigativi con lo Scarantino, consecutivamente per nove giorni, cioè dal 4 luglio al 13 luglio del '94? Se aveste contezza delle ragioni per le quali si fecero questi colloqui investigativi e se vi fu partecipato l'esito o...

TESTE SAJEVA R. - Non lo ricordo.

Resta una certezza: nell’indagine sulla strage di via D’Amelio ci fu un uso spesso disinvolto e non limpido dello strumento dei colloqui investigativi da parte di La Barbera e degli uomini del gruppo “Falcone-Borsellino”. Un uso destinato – come è stato detto in Commissione con metafora efficace – a “vestire il pupo”.

Questa la ricostruzione del procuratore Grasso in Commissione:

GRASSO. Dalla ricostruzione che si è fatta Scarantino viene arrestato il 24 settembre 1992. Pochi giorni prima avevano acquisito le dichiarazioni di Luciano Valenti e di Candurra Salvatore, secondo le quali avevano rubato la macchina su commissione di Scarantino ed era stata consegnata la macchina a Scarantino. [...] Poi Scarantino viene trasferito nel carcere di Busto Arsizio e nella cella accanto gli mettono Andriotta. Lì nasce la costruzione specifica del depistaggio (con) una dichiarazione di Andriotta che riferisce delle cose come dette dal vicino di cella Scarantino. …Se si esaminano tutti i colloqui investigativi in carcere di Arnaldo La Barbera e di alcuni funzionari, si può ricostruire che ogni volta che Andriotta dichiara qualche cosa, c’è nello stesso giorno o nel giorno precedente un colloquio investigativo… perché il depistaggio viene compiuto attraverso elementi veri che la squadra investigativa Falcone e Borsellino ha da fonti che non rivelerà mai.

IL GRUPPO “FALCONE-BORSELLINO”

Le recenti ricostruzioni processuali ci consegnano oggi un dato: fu il gip di Caltanissetta, in data 16 luglio 1994, ad affidare Vincenzo Scarantino alle “cure” del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino”. Una scelta che estromise, di fatto e per un lungo periodo, il personale del servizio centrale di protezione da qualsiasi contatto diretto con Scarantino.

Ecco cosa ha dichiarato in Commissione il dottor Petralia:

FAVA, Presidente della Commissione. … La prima domanda è la ragione per cui Scarantino era stato affidato, nella sostanza, al Gruppo “Falcone-Borsellino” e non al personale del Servizio Centrale di Protezione. Da quello che c’è stato spiegato, il Servizio Centrale di Protezione si occupava di vigilare l’esterno dell’edificio, di accompagnare a scuola i figli, la moglie, ecc., ma all’interno della casa non avevano accesso. Gli unici che avevano accesso all’interno della casa erano funzionari e sottoufficiali del gruppo “Falcone-Borsellino”, che è una cosa abbastanza insolita.

PETRALIA, magistrato. Insolita perché era personale che si occupava anche degli aspetti investigativi e, quindi, alla luce non solo di quello che poi si è potuto sapere, ma anche secondo una buona prassi, non sarebbe stato, forse, opportuno. Anche se debbo dire che… siamo, non dico all’inizio del fenomeno del pentitismo, ma siamo in una fase ancora in cui tutte le Procure si muovevano in maniera un po’ artigianale. Ora è chiaro che queste … non voglio dissociarmi, nel senso che io avrei potuto benissimo dire “guardate io qua non ci voglio stare più perché si fa questa cosa”. Non l’ho autorizzata io, però ne ho preso atto e comunque io interagivo regolarmente con il dottor Bo, con gli altri … con il resto del personale.

FAVA, presidente della Commissione. Era il Procuratore della Repubblica in questo caso ad autorizzare?

PETRALIA, magistrato. Erano decisioni dell’Ufficio… cioè chi poteva realmente opporsi era ovviamente il capo. È chiaro che anche i sostituti o l’aggiunto potevano dire “a noi questa cosa non va”. La gestione dei pentiti in genere era, ed è tuttora, fonte di problemi e criticità. Quella di Scarantino lo era moltiplicato per mille.

Questo il ricordo degli altri pm in servizio a Caltanissetta, così com’è stato acquisito dalla loro testimonianza nel corso del Borsellino Quater.

Ilde Boccassini:

AVV. SCOZZOLA - … Premesso che Scarantino …nel mese di luglio è stato portato in località protetta a Jesolo …sapeva che della sua protezione se ne occupava il gruppo Falcone - Borsellino?

TESTE BOCCASSINI I. - No, non lo sapevo.

AVV. SCOZZOLA - Non lo sapeva. Neppure, diciamo, i suoi colleghi le hanno mai detto questo?

TESTE BOCCASSINI I. - Ma lei mi parla di agosto, che io ero in ferie; settembre è stato un mese piuttosto...

AVV. SCOZZOLA - Io le parlo di luglio, agosto e settembre. Agosto è in ferie, va bene.

TESTE BOCCASSINI I. - No, non... non ho memoria né... no, assolutamente non sapevo dove è stato portato, ma che ci fossero anche uomini di La Barbera, io non ho questo ricordo, però non... è possibile, però non... non glielo so dire, sinceramente non ho memoria su questo.

Antonino Di Matteo:

AVV. SCOZZOLA - … lei è venuto a conoscenza con quali modalità Scarantino Vincenzo fosse stato tutelato quando si trovava agli arresti domiciliari? …mi riferisco alla continua ed assidua presenza, per quanto ci ha detto qualcuno, del gruppo Falcone - Borsellino...

TESTE A. DI MATTEO - Sì, certamente, non per conoscenza diretta, ma per quello che... che vivevo e sentivo dagli altri colleghi e dalla stessa forza di Polizia di cui parlerò. Io so che dopo l'ammissione, mi pare, al regime degli arresti extracarcerari, così come avveniva in quel periodo anche per altri collaboratori, il collaboratore di giustizia era, in qualche modo, tutelato e protetto dalla... dalla stessa forza di Polizia che si occupava delle indagini e quindi, in quel caso, dalla Polizia di Stato. Questo, Presidente, lo ricorderà, non era un caso, diciamo, anomalo rispetto al panorama dell'epoca; io ricordo di avere interrogato decine di volte, per esempio, il collaboratore di giustizia -, tanto per rimanere a collaboratori di giustizia che parlavano, non parlavano della strage - Salvatore Cancemi, che era ristretto in regime detentivo, addirittura all'interno della Caserma del ROS dei Carabinieri, tutti gli interrogatori di Cancemi avvenivano e non potevano che avvenire attraverso, diciamo, un contatto con il ROS dei Carabinieri. Quindi io sapevo che... anche la Polizia di Stato e anche funzionari ed agenti della Questura di Palermo e del gruppo investigativo Falcone - Borsellino per un periodo si alternarono nella località protetta dove stava Scarantino, in funzione, per quello che mi risultava, diciamo, di protezione e tutela della sua sicurezza…

AVV. SCOZZOLA - Quindi, praticamente, devo dedurre, da quello che lei mi ha detto, eventualmente mi corregga, che l'ufficio della Procura non sapeva le modalità di protezione e che, conseguentemente, non le aveva mai autorizzate?

TESTE A. DI MATTEO - … Io dico che la Procura della Repubblica, almeno nella mia persona, non solo non sapeva le modalità attuative ed operative, ma guai se le avesse sapute; nell'ordinamento, allora ed ora, la protezione e la tutela del collaboratore di giustizia è una funzione e una mansione che è propria di altri organismi. All'epoca non c'era ancora, diciamo, la norma che stabiliva la competenza esclusiva degli operatori del Servizio Centrale di Protezione, e quindi si verificavano anche queste situazioni in cui la forza di Polizia che faceva le indagini partecipava alla protezione. Io dico che la Procura della Repubblica non solo non sapeva, ma non doveva sapere…

Anna Maria Palma:

TESTE A. PALMA – rispondendo alla domanda dell'Avvocato Scozzola: la tutela di Scarantino. Io seppi che era stata affidata al gruppo Falcone - Borsellino... Non mi curai molto di questa cosa, perché devo dire che io venivo dalla Procura di Palermo, dove mi ero occupata di reati contro la pubblica amministrazione e che obiettivamente... il fatto che potesse essere in gestione presso una forza di Polizia o presso l'altra, o presso il Servizio Centrale di Protezione, non mi creò nessuna... nessuna domanda, ecco.

Veri e falsi pentiti faccia a faccia. La Repubblica il 24 novembre 2020. Altra irrituale – e grave, a giudizio di molti – decisione processuale è consistita nel mancato deposito dei menzionati verbali di confronto fra il presunto pentito Scarantino e i collaboratori di giustizia Cancemi, Di Matteo e La Barbera. Ecco cosa ha riferito l’allora procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano in sede di audizione:

FAVA: Ci furono poi dei confronti fra Scarantino con Cancemi e Di Matteo nel gennaio ’95, lei era già Procuratore aggiunto e mi pare fosse presente.

GIORDANO: Sì, si, io ero presente perché fu La Palma che mi chiese di partecipare perché io, ripeto, non mi occupavo di questa tranche di indagine.

FAVA: Ecco, da tutte le fonti e anche dagli atti acquisiti ai dibattimenti di processi che si sono svolti, questi verbali non confortarono la credibilità (di Scarantino).

GIORDANO: No, assolutamente!

FAVA: Che accade dopo questi confronti? Ci fu una riunione all’interno (della procura)?

GIORDANO: Guardi, su questo punto lei deve sapere, se non ricordo male, questi confronti furono fatti a gennaio del 1995… poi io dal febbraio del 1995 al settembre del 1997 mi occupo del procedimento della strage di Capaci in dibattimento assieme a Tescaroli…

FAVA: No, no, le chiedo il giorno dopo avere fatto il confronto fra Cangemi e Scarantino, non ci fu un momento di approfondimento della situazione?

GIORDANO: Si certo! Il problema era questo, c’era la gestione di questi verbali, si dovevano depositare chiaramente come attività di indagine integrativa etc, etc… però la gestione di questo deposito venne fatta da Tinebra e da coloro che andavano in udienza. (…)

FAVA: Però le chiedevo come era stata valutato questo confronto… perché quando poi un altro collaboratore di giustizia mostra la manifesta non attendibilità del pentito chiave, immagino che il giorno dopo il pool che lavorava su questa indagine si sia riunito per dire: valutiamo, confrontiamo…

GIORDANO: Dalle ricostruzioni che posso fare io, la valutazione che fu fatta fu questa: che praticamente siccome, come le stavo dicendo, i primi processi andavano bene, i risultati c’erano, al Borsellino 1 c’erano state delle condanne etc., …anche in Cassazione, c’erano sentenze della Cassazione che convalidano tutto il discorso di Scarantino… quindi la valutazione che si fece di questi verbali è che questi verbali dovevano essere oggetto di discussione in dibattimento.

FAVA: Naturalmente! Ma non vi fu un elemento di dubbio su Scarantino?

GIORDANO: Sì certo! Sì, il dubbio c’era, però la tesi che era prevalsa e che fu mantenuta, diciamo, in maniera costante e che fu accolta anche dai giudicanti era che questo Scarantino alla fine, proprio per questa parentela che c’era, tutte le volte che poteva essere riscontrato andava bene, altrimenti no. Tenga presente che Scarantino, …almeno quello che ricordo io, …insomma si parlava del fatto che lui era psicologicamente molto debole, molto labile, quindi occorreva un sostegno psicologico, quindi la tesi che prevalse nella discussione fu questa. (…)

FAVA: Al dibattimento questi verbali quindi non vennero depositati.

GIORDANO: No, dopo vennero depositati… Ma vennero depositati nel processo in cui erano imputati i personaggi che accusava Scarantino, si fece un discorso di questo tipo… però la gestione di questi verbali venne demandata a Tinebra e a coloro che andavano in udienza cioè a dire La Palma, Di Matteo e Petralia, sono loro che decidono…

Le asserzioni del dottor Giordano contrasterebbero con il suo ruolo di procuratore aggiunto che gli avrebbero consigliato, per un verso, di riferire immediatamente al procuratore capo sull’esito non positivo di quei confronti e, per altro verso, quale superiore gerarchico, di suggerire ai sostituti che insieme a lui avevano proceduto al confronto l’immediato deposito dei verbali, come sancito dall’art. 430 c.p.p. Va poi ricordato che, alla data dei confronti, ovvero il 13 gennaio 1995, nessuno dei processi riguardante la strage di via D’Amelio era stato ancora definito. La sentenza del primo processo concluso, il Borsellino1, viene pronunciata solo nel gennaio del 1996, a distanza di oltre un anno dall’avvenuta assunzione dei confronti. Il deposito di quei verbali demolitori della figura di Scarantino, quanto al profilo e criminale quanto al contenuto delle dichiarazioni, avrebbe potuto incidere sensibilmente sulle conclusioni di quel processo. Che invece, com’è noto, si concluse accettando l’intero impianto accusatorio basato sulla parola di Scarantino e condannando all’ergastolo persone totalmente estranee alla strage di via D’Amelio. Di tenore non dissimile le giustificazioni che ha fornito alla Commissione il dottor Carmelo Petralia, affermando - nel corso dell’audizione - che tali verbali non furono depositati in quanto sussistevano dubbi circa l’attendibilità del Cancemi e del Di Matteo, e comunque, perché riguardavano indagini inerenti altri procedimenti.

FAVA: I confronti con i tre collaboratori Cancemi, La Barbera, Di Matteo del gennaio 1995 che, diciamo, rivelano alcune contraddizioni: quale fu la ragione per cui voi pensaste che questi confronti non meritavano di mettere in discussione la credibilità del collaboratore di giustizia Scarantino?

PETRALIA: No, che non meritasse di mettere in discussione no, potevano rappresentare, di fatto rappresentavano altrettanti momenti di criticità, di dubbi e di riflessione. Però su ciò che si aveva. E altro non c’era. Altro non c’era perché quell’altro che sarebbe potuto venire ed è venuto, per esempio Totò Cancemi nel 96-98 ancora non c’era (…) Per quanto riguarda Salvatore Cancemi non mi permetterei di dire… che vi fosse una assoluta e univoca convinzione della pienezza ed esaustività della sua collaborazione fino a quel momento. (…) Gioacchino La Barbera era un grande killer di Cosa nostra, ma non era uno stratega, forse dei tre era quello con il minore carisma dal punto di vista diciamo del peso proprio dentro l’associazione criminale (…) Per Santo di Matteo c’erano perplessità ancora decuplicate rispetto a quelle riguardanti Cancemi, perché Di Matteo… dal momento del sequestro del figlio… praticamente ha chiuso la sua collaborazione.

FAVA: In questo caso depositare i verbali per l’accusa in un processo è un obbligo o una facoltà, valutando anche l’importanza, la sensibilità di questo verbale?

PETRALIA: Per questo tipo di valutazione non sono intervenuto perché non mi occupavo più, perché l’unico processo che era in corso in quel momento era il bis… Gli altri colleghi mi dicono, però potranno dirlo loro personalmente, che non li abbiamo depositati subito perché c'era addirittura un ulteriore procedimento istituito, in cui credo che fosse stato già iscritto Salvatore Cancemi… c'erano delle ragioni, come le possiamo chiamare, di cautela processuale, per quanto riguardava le acquisizioni che si sarebbe dovuto fare in un altro procedimento…

Anche la dottoressa Anna Maria Palma, pm a Caltanissetta durante le indagini, e sentita in qualità di teste nel dibattimento di primo grado del Borsellino quater, ha sostanzialmente reso giustificazioni simili a quelle del collega Petralia.

TESTE A. PALMA: … questi confronti ci hanno lasciato nella posizione in cui eravamo, perché c'era la parola di uno contro la parola di un altro; Di Matteo diceva che lui non c'era e Scarantino diceva: "Ma tu c'eri, eri sul... eri al tavolo". La Barbera diceva che lui non c'era e Scarantino diceva che c'era. Cancemi... quella di Cancemi... mi colpì molto questo confronto tra Cancemi e Scarantino, perché io vidi proprio questo ossequio di Scarantino nei confronti di Cancemi, che ne riconosceva un capo, e il disprezzo con cui Cancemi trattava Scarantino dicendogli: "Ma tu sei bugiardo, tu dici menzogne, tu non sai come ci si comporta in Cosa Nostra, tu non conosci i termini di Cosa Nostra". Quindi fatti questi confronti, siamo andati... abbiamo continuato ad andare avanti.

(…)

AVV. SCOZZOLA: … Si ricorda i motivi per i quali non sono stati depositati prima alle parti questi verbali?

TESTE A. PALMA: No, assolutamente no.

AVV. SCOZZOLA: Due anni prima, praticamente.

TESTE A. PALMA: Assolutamente no.

AVV. SCOZZOLA: Non se lo ricorda.

TESTE A. PALMA: No. Devo dire, però, che di questi confronti lei poc'anzi mi ha detto: la parola di uno contro la parola di tre… ma erano tre personaggi che in quel momento avevano grossi problemi, perché Cancemi, che era il capo di Porta Nuova, non aveva ancora parlato della strage di via D'Amelio e noi eravamo convinti, questo mi consenta di dirlo, che lui non potesse non sapere sulla strage di via D'Amelio, tant'è che poi parlò nel giugno, credo, del '96. Per quanto riguarda Di Matteo, il fatto che abbia smentito Scarantino era in qualche modo giustificato dal sequestro del figlio… Per quanto riguarda La Barbera, in quel periodo fece una serie di pasticci, che credo che fu... fu trovato con delle armi. Quindi lei mi dice la parola di uno contro di parola di tre, ma tre che in quel momento erano fragili, tre che in quel momento cominciavano a vacillare e che dovevamo vedere fino a che punto fossero attendibili o meno i fini della strage di via D'Amelio.

AVV. SCOZZOLA: Ma La Barbera non torna nel '96 a Palermo? TESTE A. PALMA: Come torna nel '96 a Palermo?

AVV. SCOZZOLA: I fatti a cui lei si riferisce di La Barbera sono del '96...

TESTE A. PALMA: Ma io ricordo che in quel periodo c'erano delle perplessità; ora di che tipo fossero, forse… fu trovato con delle armi, io non le ricordo le date… Quando li abbiamo depositati non me lo ricordo e abbiamo ritenuto sul momento che questi... che i tre signori che Scarantino chiamava in causa, avessero dei problemi loro tali da non renderci sicuri sul fatto che l'uno dicesse la verità e l'altro dicesse una cosa falsa…

Il mancato deposito dei verbali. La Repubblica il 25 novembre 2020. Per la verità, sia le giustificazioni del dottor Petralia che quelle della dottoressa Palma non appaiono condivisibili. Non può che ribadirsi che i verbali di quei confronti (sempre a norma del citato articolo 430 c.c.p.) dovevano essere immediatamente depositati nella segreteria dei pubblici ministeri. E soprattutto, di essi ne doveva essere comunicato avviso senza ritardo ai difensori: che ebbero “notizia” di quei confronti nel corso dell’udienza preliminare del Borsellino bis. Tali confronti – così come si avrà modo di spiegare meglio, citando la memoria difensiva dell’avvocato Di Gregorio – verranno, tuttavia, depositati per la prima volta soltanto il 13 febbraio 1997 nell’ambito del Borsellino ter, e solo in tale data le difese ne conosceranno il contenuto. Sul mancato deposito dei verbali di quei confronti è utile richiamare anche la deposizione del dottor Antonino Di Matteo, anch’egli pm a Caltanissetta nell’indagine su via D’Amelio, nel corso dell’esame testimoniale reso nella fase di dibattimento del Borsellino quater:

TESTE A. DI MATTEO: Tutta la DDA si espresse, a partire dal Procuratore, ma anche gli Aggiunti, l'Aggiunto e gli altri, per una scelta processuale, che ben motivata, venne presa sulla base... di un art. 130 delle Disposizioni di Attuazione, in particolare il I comma che, lo sapete meglio di me, afferma che nel momento in cui con la richiesta di rinvio a giudizio si mandano gli atti, si devono mandare gli atti che sono pertinenti direttamente agli imputati e alle imputazioni ascritte a quegli imputati. Siccome Di Matteo, La Barbera e Cancemi erano indagati nell'altro procedimento, in quel momento non si depositarono gli atti relativi a questo confronto… In quel momento si ritenne che, per consentire la prosecuzione delle indagini, quegli atti dovessero ancora essere coperti per un certo periodo dal segreto investigativo…

In sostanza il dottor Di Matteo giustifica il mancato immediato deposito di quei verbali invocando il disposto dell’art. 130 delle disposizione di attuazione del codice di procedura penale e, di fatto, sostenendo (non diversamente da Petralia e Palma) che tali verbali si riferivano a procedimenti diversi, in quanto i tre collaboratori - Cancemi, Di Matteo e La Barbera - erano sottoposti ad indagine in altro procedimento. In realtà il richiamato articolo riguarda solo la documentazione dell’attività compiuta nella fase delle indagini preliminari fino alla richiesta di rinvio a giudizio. Al contrario, i confronti in questione – come è pacifico – sono successivi al rinvio a giudizio nei confronti di Scarantino nel processo Borsellino1 e quindi, coinvolgendo Scarantino, già indagato, nei confronti di questi configuravano vere e proprie attività integrative d’indagine.

Peraltro è lo stesso Di Matteo a fornire la conferma che quei confronti costituivano attività integrativa d’indagine allorché afferma:

TESTE A. DI MATTEO: Senz'altro ricordo che i tre soggetti smentirono Scarantino. Il confronto, naturalmente, era fatto sulla base di un dato preciso: la partecipazione o mancata partecipazione ad una riunione operativa a casa di Calascibetta alla Guadagna nel luglio del '92, una decina di giorni prima della strage.

Non si può tacere, infine, su come tale “gestione” processuale e procedurale dei verbali di confronto fu stigmatizzata dalle difese degli imputati. È utile riportare quanto dichiarato dall’avvocato Rosalba Di Gregorio nel corso della sua audizione dinanzi questa Commissione:

AVV. DI GREGORIO: Noi siamo all’udienza preliminare del bis, quindi siamo se non ricordo male nel 1996… facciamo le copie degli atti, tra le copie degli atti spunta fuori una missiva strana, una lettera di trasmissione dal Procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano, al procuratore aggiunto Guido Lo Forte di Palermo dove gli dice: “Ti mando, per quanto di interesse, i confronti fra Scarantino-Cancemi, Scarantino-Santino Di Matteo, Scarantino- Gioacchino La Barbera”. Cerchiamo questi confronti ma non ci sono… cioè non sono stati depositati, quindi noi chiediamo al giudice dell’udienza preliminare di fare depositare i confronti. La risposta a verbale è “Non esistono”. Gli abbiamo detto: “Non è possibile che non esistono… Se li avete trasmessi a Palermo, evidentemente esistono quindi non ci dite non esistono, dite non ve li vogliamo depositare”, “Non esistono e se esistono non riguardano gli imputati di questo processo, quindi voi non li potete avere”.

FAVA: Scusi ma queste risposte venivano date…

AVV. DI GREGORIO: Sono a verbale, sono nel verbale di udienza che io tra l’altro ho preso ed ho prodotto al Borsellino quater… La voce registrata al verbale di udienza preliminare è di Carmelo Petralia e i PM presenti sono Petralia, Palma e Di Matteo. A questo punto io faccio… un’istanza al dott. Guido Lo Forte come indagine difensiva e chiaramente sono andata a parlargli, e mi ha detto: “Lei è pazza – graziosamente, cordialmente – se pensa che io le do una cosa che Caltanissetta non le vuole dare”. Io ho detto “No, no, ma io lo voglio messo per iscritto: non te la posso dare, fattela dare da Caltanissetta…”. E così abbiamo fatto. Il dott. Lo Forte scrive nella mia istanza “Non te la do, te la fai dare da Caltanissetta”, quindi io prendo la risposta e la porto a Caltanissetta a Paolo Giordano dicendo: “Siccome esistono e me li devi dare tu, ti dispiace che me li dai?” “Non se ne parla assolutamente, non ti interessano, non ti riguardano, non riguardano gli imputati, non riguardano questo processo”. Niente

Certo, se l’esito di quei confronti fosse stato tempestivamente utilizzato, se fin dal 1995 le parti avessero potuto disporre di verbali che mostravano palesemente la inattendibilità di Scarantino, la storia processuale della strage di Via D’Amelio sarebbe cambiata. E il depistaggio sarebbe stato sventato, indipendentemente dalla successiva collaborazione di Spatuzza.

Il pentito si pente di essersi pentito. La Repubblica il 26 novembre 2020. Le ritrattazioni di Vincenzo Scarantino sono uno snodo essenziale nelle indagini su via D’Amelio, anche per il modo in cui si decise di non tenerne affatto conto. E di prendere per buoni, invece, i successivi ripensamenti di Scarantino. Ricostruiamo la prima, la più clamorosa, attraverso il racconto che ne ha fatto in Commissione il giornalista Angelo Mangano.

MANGANO. Io sono uno del quartiere. Meglio, io nasco e sino ad una certa età vivo tra via Oreto, Brancaccio e la Guadagna. E Scarantino lo conosco. Vincenzo Scarantino, Enzuccio Scarantino, lo conosco. Lo conosco perché? Perché da lui si vanno a comprare le sigarette di contrabbando. Lui a Piazza Guadagna …si metteva lì , con un banchetto fatto di cassette per la frutta, a vendere le sigarette di contrabbando… Candura e un altro che conosco. E un ladro di auto. Valenti e il figlio di uno che noi chiamavamo “gli spazzini”. una famiglia numerosissima, che abitano in un pianterreno di queste case popolari… Quindi, tutto tranne persone di un certo spessore criminale. Sicuramente, Presidente, non gente che organizza una strage.

(…)

Quindi, quella mattina (il 27 luglio 1995 ndr), dopo una serie di telefonate tra colleghi, c’era questo tam-tam “Scarantino ha ritrattato…”. Intorno a mezzogiorno, su questo tam tam, Presidente, quindi sul nulla, …arriva una smentita dalla Procura di Caltanissetta. Subito dopo arriva un’ansa dal Ministero dell’Interno che smentisce questa notizia. (…) A questo punto chiamo il mio direttore, che era Paolo Liguori e dico: “senti Paolo, io un po’ il quartiere lo conosco, la famiglia di Scarantino in qualche modo so dove sta, se mi dai una troupe verifichiamo questa notizia”. Il direttore mi da una troupe, vado alla Guadagna, cortile Buonafede. Casa Scarantino. Mi riceve la madre… E questa signora mi racconta che il figlio aveva chiamato al telefono di casa, aveva detto che lui si era inventato tutto, che non era vero nulla, che aveva accusato delle persone innocenti e che aveva voglia di andare in galera, di non fare più il pentito.

(…)

Non faccio in tempo ad arrivare in via Ugo La Malfa dove c’e la sede Mediaset …che Scarantino mi chiama al cellulare… e lui mi dice io guardi non sono un pentito vero, ho accusato delle persone innocenti voglio andare in carcere, voglio andare ai processi del dott. Borsellino, io gli dico, scusi ma allora perché tutto questo? Perché mi hanno costretto a farlo. A Pianosa dove lui viene rinchiuso, dice, mi torturavano, mi facevano urinare sangue… volevano che io dicessi quello che mi suggerivano, quello che mi dicevano. A questo punto gli chiedo: chi lo ha torturato? Il dott. La Barbera… Finisco la registrazione, il mio portatile squilla, 091.210111, il centralino della Questura: ti stanno cercando insistentemente dalla Questura, il dott. La Barbera ti vuole parlare. Capisco allora due più due, sanno allora che Scarantino ha parlato con me. Sanno perché hanno il telefono sotto controllo... Faccio il pezzo per l’edizione delle 18.30 di quel giorno, che va in onda… Quindi, torno tardi la sera, arrivo a casa. Segreteria telefonica, una delle segretarie del gruppo “Falcone-Borsellino” aveva chiamato più volte dicendo: “il dottore La Barbera ti vuole parlare”. La mattina successiva scendo per tornare al lavoro e il portiere mi ferma e mi dice: “ieri pomeriggio sono arrivate delle persone, si sono qualificate come poliziotti però non mi hanno fatto vedere nulla… hanno fatto domande su di lei, su sua moglie, dove insegna sua moglie… Dove vanno i bimbi a scuola…”.

(…)

Il giorno successivo si presentano due poliziotti e chiedono la registrazione… Arrivano in sala montaggio, in sala RVM, ed hanno perfettamente idea di quello che devono fare, cioè dicono “scusi, il master dov’e ? I pezzi montati dove sono?” (…) Dicono “le portiamo via” e se le portano via con una rapidità tant'è che nessuno riesce a dire “scusate, ma il mandato, un tesserino, un qualunque cosa?”. Contestualmente la Procura di Caltanissetta invia all’ufficio legale Mediaset a Milano una disposizione, un’ordinanza dove si chiede di eliminare dai nastri e dai server questa registrazione… Un tecnico disubbidiente di Milano, siciliano, sente quello che c’e per cui dice “questa e una storia strana” e conserva una copia di quello che e andato in onda. Quando siamo andati a cercare questa cosa (l'ordinanza, ndr), …non abbiamo trovato nulla; cioè questo documento non c’e , non si trova.

(…)

FAVA, presidente della Commissione Antimafia. Lei non è mai stato ascoltato in un'Aula di giustizia.

MANGANO. No.

FAVA, presidente della Commissione Antimafia. Senta, ha avuto mai la sensazione che attorno a questa vicenda della cassetta, della registrazione, si siano mossi anche, diciamo, uomini che facevano riferimento non soltanto alla squadra “Falcone-Borsellino” ma anche a servizi di sicurezza?

MANGANO. Sì , assolutamente sì.

E qualcuno poi “veste” il pupo. La Repubblica il 27 novembre 2020. Dunque, la mattina del 27 luglio 1995 Scarantino ritratta. La sera dello stesso giorno ci ripensa e “ritratta” la sua ritrattazione. È accaduto che – appena avuta notizia delle intenzioni di Scarantino – il dottor Bo, del gruppo “Falcone-Borsellino”, e il pm Petralia raggiungono il collaboratore di giustizia nella località protetta in cui si trova. E Scarantino, dopo quel colloquio, si convince a rivedere la sua precedente versione: tutto falso, ha mentito, solo uno sfogo:

“C’ho avuto un momento di debolezza perché io volevo cambiare casa e allora… con questa cosa, io acceleravo il mio trasferimento e poi ero preoccupato perché, in realtà, pensavo che i magistrati non mi volessero credere più e pensavo che lo Stato mi scaricasse… Però è stato un momento di debolezza, la stupidaggine che ho fatto è stato chiamare mia madre al telefono…”.

Questa la ricostruzione di quelle convulse giornate, fornita in Commissione dall’avv. Di Gregorio:

DI GREGORIO. Su quello che è accaduto quel giorno, siamo riusciti per puro caso, a fare chiarezza dei tempi e dei movimenti della Procura… interrogando (nel quater, ndr) come testi il dottore Di Matteo, il dottore Petralia, la dottoressa Palma, il dottore Bocca, che sarebbe il funzionario del gruppo… Abbiamo chiesto com’è che si erano mossi e perché erano andati a sentire Scarantino… e sono venute fuori una serie di risposte che, alla luce di quello che, poi, abbiamo per caso scoperto, sono sostanzialmente delle testimonianze non rispondenti al vero… Perché ci hanno detto di essersi mossi per andarlo a sentire in virtù della ritrattazione televisiva… invece si sono mossi il giorno prima, disponendo nel pomeriggio del 25, quindi quando lui non aveva ancora ritrattato nulla, l’interrogatorio per le tre del pomeriggio del 26 a Genova, telefonando al dirigente della Mobile di Imperia che si chiama Coltraro… e dando incarico a Mario Bo di andare a prenderlo… Quindi erano partiti solo per la manifestata volontà (di Scarantino) alla madre di volere ritrattare.

(…)

E, a questo punto avviene un corpo a corpo tra il collaboratore e il dottore Bo ed i suoi uomini che viene testimoniato… dalla moglie (di Scarantino), dal dottore Coltraro, cioè dal capo della Mobile di Imperia che si trova presente e cerca, diciamo così, di sedare gli animi… Scarantino dice che gli hanno messo pure una pistola in bocca ma questo non è stato provato assolutamente… Ci saremmo aspettati una relazione di servizio da parte di Bo e di Coltraro, un’iniziativa assunta dal dott. Petralia. Ma di tutto questo, non c’è nulla agli atti.

FAVA, Presidente della Commissione. Un passo indietro su un dettaglio. Quando si presentano alla redazione della televisione per sequestrare… esibiscono un ordine, c’è un documento che autorizzi questa decisione, c’è traccia di questo documento?

Avv. DI GREGORIO ROSA ALBA. C’è stata una richiesta da parte della Corte di Assise del Borsellino quater di acquisizione a Milano di eventuali documenti con i quali si ordinò la cancellazione dai server di tutto …ma non ci sono più i documenti che provano la richiesta. Però il dottore Petralia, quando glielo abbiamo chiesto, ci ha confermato che aveva fatto gli ordini. Il materiale dov’è, gli ho domandato? Non lo sappiamo, ha risposto.

Il dottor Petralia era il pm incaricato, quel giorno, di andare a verificare in Liguria la genuinità della ritrattazione di Scarantino. E ne ricava un’impressione netta: qualcuno lo ha costretto a ritrattare. Qualcuno chi? Ecco quello che ci ha riferito in Commissione:

FAVA, presidente della Commissione. Non le chiedo come andò l’incontro, perché c’è ampia cronaca, resoconti giudiziari anche su, diciamo, l’asprezza del confronto fra Scarantino e il dottor Bo e gli altri sottoufficiali. Le chiedo, invece, di una dichiarazione che lei fece subito dicendo “intanto si apre un’inchiesta” su questa ritrattazione di Scarantino. Per cui le chiederei se questa inchiesta a qualche cosa ha portato, qual è stato l’esito. E poi lei dice in un’intervista al Giornale di Sicilia: “C’era un apparato di supporto al gruppo mafioso, affinché Vincenzo Scarantino recedesse dalle sue confessioni”… Le volevo ricordare anche un’altra sua affermazione, sempre dello stesso periodo: e il Giornale di Sicilia del 27 luglio del ’95, “Da Caltanissetta fa sentire la propria voce il sostituto Procuratore della Repubblica Petralia, che parla di assurdità, di storie campate in aria, che non hanno alcun senso, alle quali non si deve dare credito. Un’eventuale ritrattazione di Vincenzo Scarantino non può comunque incidere sostanzialmente sul processo”.

PETRALIA, magistrato. Questa frase e un po’ …

FAVA, presidente della Commissione. Le ho letto un virgolettato.

PETRALIA, magistrato. Sì. Spero di non averla detta proprio in questi termini… però poteva voler dire, volendole dare un senso, che “comunque i dati che si sono acquisiti sono tali che anche quando dovesse ritrattare …”. In questo senso poteva essere un messaggio alla controparte, quella che almeno avvertivamo, forse sbagliando, come controparte mafiosa che voleva fare recedere Scarantino, come dire: “guardate e inutile che ci mettete mano, perché tanto quello che abbiamo…”. Insomma la posso interpretare così, quasi per mandare un segnale di dire “smettetela con questi ripetuti attacchi alla granitica volontà di Scarantino di collaborare”.

(…)

Cioè, certamente oggi abbiamo maggiore consapevolezza dell’assoluta fragilità proprio del costrutto dichiarativo di Scarantino… Però c’erano vari segnali, adesso non me ne ricordo qualcuno in particolare… Insomma, si avvertiva una certa pressione. Allora, in un momento in cui comunque in un processo, per lo meno era il primo, c’era una posizione determinante… non potevamo credo reagire in modo diverso. Poi, sia chiaro, signori… chi arriva dopo ne sa sempre molto di più di chi arriva prima ed anche chi e arrivato per primo…

FAVA, presidente della Commissione. Noi abbiamo raccolto alcune considerazioni su questa vicenda che però sembrano avere già fotografato allora che Scarantino era personaggio abbastanza di frontiera. Il giornalista che lo intervista e che è dello stesso quartiere, la Guadagna, qui ci dice “sapevamo tutti che Scarantino era un poveraccio che sbarcava il lunario andando a vendere sigarette di contrabbando la mattina alla Guadagna in piazza, mettendo le cassette di frutta usate come banchetto” ed il dottor Sabella ci dice “io lo ascolto Scarantino, non quando si sa già perché è arrivato Spatuzza e Scarantino è un millantatore, ma quando Scarantino è il collaboratore” ed arriva alla conclusione che lui non c’entra nulla con i vertici di cosa nostra per le cose che lui non sa raccontare ma anche per quello che racconta. Cioè ci spiega Sabella che l’idea per come era organizzata cosa nostra, per il livello di riservatezza con cui si assumevano le decisioni, che ci potesse essere una riunione del consiglio di amministrazione di cosa nostra con Riina a capotavola e Scarantino che entra ed esce dalla stanza ed ascolta Riina in diretta dire “ammazziamo a Borsellino”, non e cosa che con un suo collega qualche punto di dubbio, che poi lui ha messo per iscritto ed inviato alle due Procure, ha determinato. Non avete mai avuto in questo senso, ben prima che arrivasse Spatuzza, la sensazioni, ed al di là delle sue ritrattazioni, dell’equilibrio un po’ labile del personaggio, che il racconto che lui faceva di quel summit in cui si decidono i destini di Borsellino, di quella strage fosse un po’ fantasioso?

PETRALIA, magistrato. Sì lo so, …lo rende ancora meno credibile di quanto in realtà già poco credibile fosse. … il punto e questo, ci sono anche dei criteri di valutazione della prova ...allora accettati anche dalla Cassazione …c’erano dei punti delle dichiarazioni che erano attendibili… E anche se c’era un’altra parte di dichiarazioni che, o non erano riscontrate, o apparivano poco verosimili o comunque erano tali da incriminare un po’ l'attendibilità intrinseca ma non in modo completo, si poteva anche accettare di dare valenza probatoria alla parte invece non inverosimile e riscontrata.

FAVA, presidente della Commissione. La domanda e se… Scarantino possa essere stato anche imbeccato nel fornire alcuni elementi di verità …

PETRALIA, magistrato. Questo è il cuore del problema. E’ chiaro che, mi permetta un se, se Scarantino veramente non c’entra niente, il fatto che lui abbia reso vari elementi di verità, ci deve fare pensare che ovviamente gli sono stati forniti. Il punto e chi li ha forniti, li ha forniti perché a sua volta li aveva, questo e quello che adombra la sentenza… Come si dice a Palermo: "Vesto il pupo"…

Un altro episodio che non può essere ignorato è quello relativo al colloquio investigativo del 26 giugno 1998 che il procuratore nazionale Pier Luigi Vigna ed il suo vice, Pietro Grasso, ebbero con Gaspare Spatuzza (all’epoca non ancora divenuto collaboratore di giustizia).

Sul punto, è lo stesso Grasso a fornire particolari dettagli alla Commissione:

GRASSO. … i colloqui investigativi della Direzione nazionale antimafia sono l’unico atto che può compiere il Procuratore... Il colloquio investigativo con Spatuzza veniva dal fatto che Spatuzza era stato già condannato per le stragi di via dei Georgofili di Firenze e di Milano…, dopo avere accolto il suo sostanziale pentimento per quello che era avvenuto, ma pentimento di ordine morale non di ordine collaborativo da un punto di vista della giustizia... A noi serviva soprattutto comprendere, capire se oltre la mafia c’era qualcos’altro intorno alle stragi di Firenze, quella di Roma, quella di Milano… Dobbiamo anche precisare che il colloquio investigativo e un atto assolutamente non utilizzabile sotto il profilo processuale e che all’inizio di ogni colloquio viene proprio detto questo all’interlocutore che qualsiasi cosa dirà non potrà essere usata a livello processuale né contro di lui né a favore di altri. Sono degli spunti che poi possono dar luogo a ulteriori indagini. Nel corso di questo colloquio investigativo del ’98, arrivato ad un certo punto, quando io ed il procuratore Vigna andiamo a parlare della strage di via D’Amelio e soprattutto dell’autovettura utilizzata… su Scarantino, Spatuzza dice espressamente che Scarantino non sa nulla, non c’entra… Lui dice che ha ammazzato un cristiano che doveva ammazzare e gli hanno suggerito quello che doveva dire…

FAVA, Presidente della Commissione Questo verbale viene mandato alla Procura di Caltanissetta?

GRASSO. Si, il Procuratore (Vigna) aveva informato appunto la Procura di Caltanissetta di questo colloquio investigativo. (…) Ricordo comunque che il clima di quel periodo… rispetto alle dichiarazioni di Scarantino, era sempre stato un clima che non dava nessuna affidabilità a tutti i tentennamenti di Scarantino, alle ritrattazioni che c’erano state precedentemente… e quindi il clima e quello che Cosa Nostra, almeno così viene rappresentata la sua ritrattazione, Cosa Nostra sta facendo delle pressioni per fare ritrattare Scarantino e quindi potere fare venire meno le responsabilità di coloro che vengono da lui accusati… Questo clima che porta addirittura a dire, ai pubblici ministeri dell’epoca, uno era Di Matteo e l’altra era Anna Maria Palma, che intanto è Cosa Nostra che sta cercando di fare ritrattare e addirittura che la ritrattazione è una conferma della veridicità delle dichiarazioni di Scarantino.

I primi sospetti su Scarantino. La Repubblica il 28 novembre 2020. Uno degli passaggi più opachi dell’indagine riguarda la mancata redazione del verbale di sopralluogo eseguito da Vincenzo Scarantino in via Messina Marine per il riconoscimento della carrozzeria di Orofino. Sopralluogo che ebbe, per ciò che ha potuto ricostruire la Corte di Assise di Caltanissetta nel Borsellino quater, esiti abbastanza negativi sull’attendibilità dello Scarantino:

“Dell’esecuzione di un siffatto sopralluogo presso la carrozzeria di Orofino, vi è traccia anche per le dichiarazioni testimoniali rese dagli inquirenti dell’epoca... Tuttavia, del verbale di sopralluogo, sicuramente eseguito con Vincenzo Scarantino, non vi è alcuna traccia nei fascicoli dei precedenti processi né dell’atto vi è alcuna menzione nelle sentenze dei precedenti processi”…

Così ricostruisce quella vicenda in Commissione, con ricordi per la verità assai lacunosi, l’allora procuratore aggiunto Paolo Giordano:

FAVA, presidente della Commissione. Come mai non ci fu un verbale del sopralluogo che fece la Polizia con Scarantino nel garage dove… la 126…

GIORDANO. Ah non lo so, come mai…non ho partecipato a questo sopralluogo…

FAVA, presidente della Commissione. No, questo sopralluogo non ebbe alcun magistrato presente… infatti, come mai non c’era nessun magistrato?

GIORDANO. Non lo so, questo non glielo so dire. Questo non lo so. Queste sono sempre da interpretare, sempre in quel discorso lì, di un La Barbera, insomma, che viene accreditato come il numero delle investigazioni, ci fidiamo di lui…

FAVA, presidente della Commissione. Cioè c’è una delega piena sul piano della fiducia…

GIORDANO. C’era…perché è vero che il pubblico ministero, teoricamente, dovrebbe sorvegliare, dovrebbe criticare, ecc. Ma quando ha l’attrezzatura, le conoscenze, il sapere investigativo, cosa che nessuno di noi…

FAVA, presidente della Commissione. In questo caso era soltanto un sopralluogo per verificare la compatibilità tra le cose che diceva Scarantino e le cose che lì trovava. Quindi non c’era bisogno di una grande esperienza…

GIORDANO. Sì, il riscontro lo faceva il gruppo Falcone…sulle dichiarazioni di Scarantino, erano loro che prendevano cognizione dei riscontri…

Anche la pm Palma, ascoltata in dibattimento durante il Borsellino quater, non ha saputo offrire valide spiegazioni sulla scomparsa di quel verbale (ammesso che sia mai stato redatto) né sul motivo per cui le palesi contraddizioni di Scarantino non vennero mai acquisite in sede di indagine: la credibilità del collaboratore di giustizia rimase incredibilmente integra.

P.M. Dott. LUCIANI - … Senta, le volevo chiedere se lei ha avuto contezza di attività di sopralluogo svolta da Scarantino Vincenzo in Palermo dopo l’espletamento dei primi interrogatori con l’Autorità Giudiziaria. Anzitutto se le risulta questo dato.

TESTE A. PALMA – Sì.

P.M. Dott. LUCIANI – Che Scarantino fece dei sopralluoghi a Palermo. TESTE A. PALMA – Sì, sì, sì. (…)

P.M. Dott. LUCIANI – Ora io le chiedo, chiaramente… uno sforzo di memoria: se lei ha contezza di aver visto la relazione che faceva riferimento a quei sopralluoghi, cioè il documento in cui la Polizia Giudiziaria consacra quello che è stato fatto alla presenza di chi e quant’altro.

TESTE A. PALMA – Io non le posso dire no, perché le devo dire non ricordo proprio, ecco, non ricordo proprio, che è un no.

P.M. Dott. LUCIANI – Cioè lei ha contezza del dato che vennero fatti dei sopralluoghi con Scarantino?

TESTE A. PALMA – Sì, sì, sì, questo mi ricordo. Non so da che… da che cosa me lo ricordo, forse da qualche domanda che è stata fatta nel corso dei tre dibattimenti, dei sopralluoghi me lo ricordo. Ma d’altra parte non mi meraviglia più di tanto, perché spesso ai collaboratori si fanno fare i sopralluoghi.

P.M. Dott. LUCIANI – …siccome noi non riusciamo a reperire il documento… TESTE A. PALMA – Ah! No, no, no, io non…

P.M. Dott. LUCIANI – La relazione di servizio, per questo io glielo chiedo. TESTE A. PALMA – No, no, no.

P.M. Dott. LUCIANI – Se lei ha avuto contezza.

TESTE A. PALMA – No, io non… non ho mai visto una cosa del genere, ecco. (…)

P.M. Dott. LUCIANI – Ma lei ricorda di essersi poi confrontata con qualche appartenente al gruppo Falcone – Borsellino dopo che apprese questa circostanza…

TESTE A. PALMA – No.

P.M. Dott. LUCIANI - …per verificare che tipo di sopralluoghi fossero stati fatti, dove, alla presenza di chi?

TESTE A. PALMA – No, non mi sono confrontata… Io non li… non li avevo nel fascicolo ‘sti sopralluoghi e quindi non avevo motivo di approfondire. Io ho approfondito tutto quello che ho trovato nei fascicoli.

P.M. Dott. LUCIANI – Però perdoni se insisto: nel momento in cui lei apprende dibattimentalmente…

TESTE A. PALMA – No, no, no.

P.M. Dott. LUCIANI - …se ho capito bene, che erano stati fatti dei sopralluoghi e lei non ne aveva materialmente nel fascicolo, come ci dice ora…

TESTE A. PALMA – Non mi sono posta assolutamente il problema, devo dire forse sarò stata ignorante.

I VERBALI “ANNOTATI”

Altro nodo cruciale della vicenda in esame è rappresentato dai verbali delle dichiarazioni di Scarantino con annotazioni in calce non sue, annotazioni scritte da uno dei poliziotti del gruppo “Falcone-Borsellino” che – è il sospetto degli inquirenti - avrebbero dovuto aiutare e “accompagnare” il collaboratore nell’affrontare in dibattimento l’interrogatorio su quegli argomenti.

A tal proposito, preziosa è stata l’audizione dell’avvocato Scozzola:

AVVOCATO SCOZZOLA: Dopo i fatti di questa ritrattazione (quella televisiva del luglio ‘95, ndr), la signora Basile, la moglie, è venuta a Palermo, perché ha lasciato sia pure con difficoltà il luogo protetto del marito… A quel punto ho saputo tutta una serie di fatti ivi compreso quello studio terribile che è stato fatto fare a Scarantino quindici giorni prima per la precisione, dal 12 maggio del ’95 sino al momento dell’audizione al Borsellino 1… Per quindici giorni Scarantino si esercitò, diciamo, a memorizzare domande e risposte per come sarebbe potuto andare il dibattimento…

Sull’entrata in scena di tali verbali, ha riferito dinanzi questa Commissione anche l’avvocato Rosalba Di Gregorio:

FAVA, Presidente della Commissione. Sui verbali annotati, diamo per acquisita la vicenda e non abbiamo bisogno di ricostruirla nel dettaglio, ci può ricordare quali erano i verbali a cui si faceva riferimento, chi notò, rilevò questa anomalia, quali sono state le diverse versioni di Scarantino su queste annotazioni e la versione invece del sottufficiale di polizia che avrebbe materialmente annotato.

Avv. DI GREGORIO ROSA ALBA. Vengono consegnati alla Corte nel processo Borsellino bis 1° grado dopo la ritrattazione del settembre 1998 fatta in udienza a Como, dove Scarantino accusò tutti i magistrati, tutti i poliziotti… Disse tra le altre cose che aveva dei documenti a casa che sono i verbali che gli facevano avere per studiarli. Una parte c’è ancora. …li consegnò alla Corte ed è quello che noi chiamiamo… la ‘carpetta azzurra’ che contiene i verbali. (…) Su questi verbali ci sono tutte le parti segnate, annotazioni ai margini e in più ci sono dei fogli protocollo di domande che non si capisce a chi avrebbero dovuto essere rivolte e che sono annotate dall’ispettore Mattei che se ne assume, già dal Borsellino bis, la paternità dicendo che fossero dettature di Scarantino: “noi ci sacrificavamo a leggere gli interrogatori a Scarantino, essendo lui incolto ed ignorante, e lui ci dettava le correzioni e i dubbi”.

FAVA, Presidente della Commissione. Annotazioni dietro dettatura e suggerimento di Scarantino.

Avv. DI GREGORIO ROSA ALBA. Cosa che non reggeva già allora per il semplice fatto che c’erano scritte delle cose che non erano compatibili con questa versione e non regge più oggi nel momento in cui si sa che questi ricordi non poteva perfezionarli perché non erano ricordi suoi ma erano cose che ha dovuto imparare. C’è la richiesta di rinvio a giudizio per questo perché nel Processo quater si è fatta pure una consulenza grafica e si è visto che la scrittura è dell’ispettore Mattei.

LA NOTA DI BOCCASSINI E SAJEVA

La compattezza con cui l’intero pool di Caltanissetta asseconda la direzione impressa da La Barbera alle indagini su via D’Amelio dando credito alle propalazioni di Scarantino viene messa in discussione, improvvisamente, da due lettere con cui la pm Ilda Boccassini (assieme al collega Roberto Sajeva, cofirmatario della seconda lettera) prende le distanze dall’indagine e dalle conclusioni cui si sta arrivando.

La prima lettera è a firma della sola Boccassini (10 ottobre 1994). I destinatari sono il procuratore aggiunto Giordano e, per conoscenza, il procuratore capo Tinebra; la Boccassini lamenta il proprio mancato coinvolgimento nella definizione degli indirizzi investigativi successivi alle (“sorprendenti” le definisce) dichiarazioni di Scarantino. Sottolinea la Boccassini nella sua lettera a Giordano e Tinebra:

“…di una dissonanza delle opinioni da me espresse, in una riunione tenuta nei primi giorni di settembre, da quelle degli altri colleghi in ordine: alle assunzioni delle dichiarazioni con le quali – mi si diceva –Scarantino Vincenzo aveva chiamato in correità nella strage di via D’Amelio i collaboratori di giustizia Cangemi, La Barbera e Di Matteo; alla valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni suddette (che io giudicavo, sulla base di argomenti logici, scarsamente credibili); alla necessità di tempestivi interrogatori – da assumere esclusivamente con le forme con le forme imposte dal codice di rito - dei collaboratori chiamati in correità ed eventualmente ai successivi confronti con Scarantino Vincenzo; all’opportunità di dare tempestivo avviso delle nuove emergenze investigative alla D.D.A di Palermo; alla necessità di adoperarsi per un rinvio del dibattimento relativo ai primi quattro imputati della strage di via D’Amelio…”

La seconda lettera, firmata assieme a Sajeva, è datata 12 ottobre 1994 (con nota di trasmissione del 19 ottobre 94): destinatari il Procuratore di Caltanissetta e quello di Palermo e si mettono in discussione, in modo assai critico, le dichiarazioni di Scarantino e di Andriotta raccolte tra il settembre e l'ottobre di quell'anno. Scrivono in conclusione nella loro nota Sajeva e la Boccassini:

“L’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in ordine alla partecipazione alla strage di via D’Amelio – prima affermata come certa e poi come possibile – di Cancemi, La Barbera e Di Matteo suggerisce di riconsiderare il tema della attendibilità generale ditale collaboratore…”

La colpa fu solo di La Barbera? La Repubblica il 29 novembre 2020. Ecco come ricostruisce l’episodio la stessa Boccassini, interrogata nel corso del dibattimento del Borsellino quater.

TESTE BOCCASSINI I. - Sì, ricordo perfettamente questa relazione a firma mia e di Roberto Sajeva, come ricordo perfettamente l'altra relazione prodromica che riguarda… in particolare la situazione di Scarantino… Ci rendemmo conto di quello che aveva detto Scarantino… cioè proprio la sua collaborazione ha determinato la convinzione, almeno in me, di dire: "Siamo di fronte ad una persona che sta raccontando un sacco di fregnacce", scusate il termine… Quindi, a questo punto, naturalmente, io ne parlai con Tinebra, con gli altri colleghi, dicendo che a mio giudizio andava sospeso tutto, cioè nel senso che dovevamo verificare, fare... fare confronti, avvisare subito Palermo, perché naturalmente c'era il coinvolgimento di tre grossi collaboratori e quindi Palermo doveva essere avvisata. …secondo me, bisognava fare prima luce su Scarantino e dopodiché ricominciare da capo.

P.M. Dott. LARI - Vorrei che lei dettagliasse di più queste affermazioni... Ha detto: "Non era credibile", però in quella lettera sono specificate le ragioni, le ricognizioni fotografiche, cioè se lei potesse...

TESTE BOCCASSINI I. - Allora, parlava di una riunione che c'era stata prima della... della morte del dottor Borsellino, proprio in preparazione, dove erano presenti anche Gioacchino La Barbera, Di Matteo Santo e Cancemi Salvatore… gli vengono fatte vedere delle fotografie e non riconosce le singole persone… Quindi rispetto a questo abbiamo deciso di fare questa relazione… e quello che io dissi a Tinebra e agli altri colleghi: "Guardate - c'era la Palma, c'era Di Matteo, c'erano bene o male quelli che si stavano occupando - guardate che proprio la sua collaborazione ci sta facendo capire che le perplessità iniziali erano corrette, e cioè che una persona con quel background criminale non poteva avere avuto un qualsiasi tipo di incarico rispetto alla strage di via Capaci".

[…]

P.M. Dott. LARI - La posizione assunta da lei e dal suo collega Sajeva la poneva anche in conflitto con l'impostazione investigativa del dottor Arnaldo La Barbera e del gruppo Falcone - Borsellino… cadeva e crollava tutta la ricostruzione di Arnaldo La Barbera con riferimento a Candura, Andriotta, Scarantino e tutto il resto. La domanda è se, a fronte di questa sua presa autorevole di posizione lei avesse avuto modo di parlarne con Arnaldo La Barbera, come sarebbe stato, diciamo, in un certo senso naturale.

TESTE BOCCASSINI I. - Allora, se non ricordo male, Arnaldo La Barbera era presente anche alle riunioni che si fecero in Procura prima di questi fatti. Teniamo presente che in quel periodo, se non ricordo male, era stato già nominato Questore di Palermo… Io le posso dire come io mi sarei comportata e come mi sono comportata e non posso che ribadire quello che ho detto prima: il dominus delle indagini sono i Pubblici Ministeri, non gli investigatori, quindi delle due l'una. Se si è ritenuto di andare avanti per quella strada, evidentemente gli altri colleghi che sono subentrati dopo di noi erano convinti che Scarantino avesse avuto un momento di debolezza.

Questa è la deposizione, sempre nel corso del al Borsellino quater, di Roberto Sajeva:

TESTE SAJEVA R. - …sotto la data del 12 ottobre compilammo una relazione che voleva essere un sunto della storia della collaborazione di Vincenzo Scarantino, mettendo in evidenza tutti gli elementi di contraddizione e gli elementi di debolezza delle sue dichiarazioni. Venne redatto, quindi, questa sorta di appunto di lavoro, che avrebbe dovuto servire da traccia ad una riunione della DDA che si sarebbe dovuta tenere per fare, appunto, il punto della situazione il giorno successivo.

P.M. Dott. LARI - Benissimo. Lei ricorda questo documento a chi fu consegnato? E se ci sa spiegare per quale ragione non fu protocollato, perché questo documento non è stato trovato agli atti di protocollo dell'ufficio della Procura di Caltanissetta.

TESTE SAJEVA R. - Il documento fu consegnato sicuramente al dottor Tinebra e venne inviato, lo stesso giorno 12 ottobre, per fax alla Procura di Palermo. Questo è il mio ricordo.

P.M. Dott. LARI - Che lei ricordi, poi fu celebrata questa assemblea della DDA? TESTE SAJEVA R. - Quella riunione non si tenne.

P.M. Dott. LARI - Non si tenne. E chi altri venne a conoscenza del documento, oltre il Procuratore Tinebra?

TESTE SAJEVA R. - Immagino che siano... ma posso solo immaginarlo, immagino che siano venuti a conoscenza anche gli altri magistrati che si occupavano della trattazione.

Ma cosa accadde a Caltanissetta quando i colleghi della Boccassini e di Sajeva ricevettero quella nota? Chi la legge? Che credito le si attribuisce? Perché non produce alcuna conseguenza sugli assetti dell’indagine?

Ecco cosa hanno riferito in Commissione l’allora procuratore aggiunto Giordano e l’allora pm Petralia:

GIORDANO. Guardi, la valutazione di questa nota, questa nota ha sorpreso un po’ tutti perché erano delle cose risapute quelle che lei aveva scritto… poi lei aveva, non mi ricordo se in questa nota ci sono altre cose che lei voleva, perché lei era del parere che non si poteva celebrare il processo, i processi sulle stragi non si potevano celebrare a Caltanissetta, perché Caltanissetta era inadeguata a fare questa cosa, occorreva una modifica legislativa, i processi dovevano essere fatti a Roma…

FAVA, presidente della Commissione. Ma nelle note che abbiamo questo non c’era, forse era aggiunto.

GIORDANO. …ecco nella nota no, non c’è, si parla solo di… io non lo ricordo preciso, però ricordo questo punto, il problema almeno ricostruzione postuma mia personale. La Boccassini, dopo la chiusura dell’applicazione, perché si poteva essere applicati solo per 24 mesi, lei ambiva essere applicata a Palermo. Cosa che poi fu fatta, mi pare che rimase sei mesi, una cosa del genere. Ora, a Palermo, diciamo, la valutazione su Scarantino era assolutamente opposta…

FAVA, presidente della Commissione. Negativa…

GIORDANO. …opposta a quella che avevamo dato noi. Quindi l’interpretazione che si è data…

FAVA, presidente della Commissione. Una captatio benevolentia nei confronti della procura di Palermo?

GIORDANO. Ecco, probabilmente era questo…

FAVA, presidente della Commissione. Le cose che dicevano erano cose oggettive…

GIORDANO. Si, però, tenga presente che c’era il processo in Corte d’Assise in corso… Quindi questa nota non poteva sortire l’effetto di una debacle del collaboratore, se c’era già un rinvio a giudizio, c’era stata l’udienza preliminare e c’era il processo in corso, quindi la nostra, la nostra… la tesi che insomma rimase, era questa di meraviglia un po’ su questa nota perché, insomma, erano tutte cose risapute, non c’era bisogno di consacrarle in un… però probabilmente lei l’aveva fatto perché, dovendosene andare, voleva lasciare traccia di questo cambiamento, perché in un primo momento era favorevole.

(…)

PETRALIA. Io proprio del testo della lettera ho avuto conoscenza molto successiva. Ricordo perfettamente della maturata posizione di dissenso sulla attendibilità e sull’utilizzabilità di Scarantino nel procedimento della strage di Via D’Amelio da parte della dottoressa Boccassini. Però debbo precisare, anche se penso sia un dato ampiamente acquisito, che Scarantino è nato in mano alla collega Boccassini, io sono stato invitato dal Procuratore capo a recarmi a Pianosa perché Scarantino forse stava iniziando a collaborare, quando io arrivo a Pianosa c’erano il dott. La Barbera e la dottoressa Boccassini già sul posto e il primo verbale reca la firma di entrambi. La dottoressa Boccassini aveva avuto un ruolo determinante anche nel fornirci la collaborazione di Andriotta che era, per così dire, il veicolo della prima attendibilità e comunque il primo elemento di riscontro alla genuinità delle dichiarazioni che poi avrebbe rese o stava per rendere Scarantino… perché Andriotta viene da Milano, io questo lo ricordo perfettamente, la collega disse “bisogna andare subito a sentirlo” e credo che il primo verbale, i primi interrogatori siano stati fatti proprio da lei. (…) Non ricordo di una riunione a cui io abbia partecipato una riunione nella quale si sia discusso della nota Boccassini-Sajeva, questo non lo ricordo, può darsi che ci sia stato… la valutazione… era che non potevamo comunque in quel momento dire, scusatemi abbiamo scherzato ritorniamo completamente indietro... Poi il perché la collega in quel preciso momento abbia ritenuto di formalizzarlo per iscritto, in un momento in cui stava scadendo la sua applicazione…. mi scusi, debbo essere un po’ sgradevole nei confronti della collega, stava scadendo la sua applicazione, sapeva già che non sarebbe stata riapplicata, che il suo periodo come applicazione a Caltanissetta non poteva assolutamente prorogata… e quindi lei ci teneva molto ad essere applicata a Palermo dove la valutazione delle dichiarazioni di Scarantino era già stata data in maniera negativa sia pure insomma quasi senza conoscerlo. Ci abbiamo visto una specie di ‘captatio benevolentiae’ nei confronti della Procura di Palermo, però questa e una mia cattiveria, ma siccome in quel periodo ero particolarmente in dissenso sul modo di approcciare la tematica processuale e soprattutto il lavoro di equipe che si dovrebbe fare in una DDA con la collega…

Magistrati "a confronto". La Repubblica il 30 novembre 2020. Chi afferma di non aver mai avuto notizia della nota in questione, più per ragioni legate ai rapporti personali che per motivi professionali, sono la dottoressa Palma e il dottor Di Matteo, entrambi pm a Caltanissetta in quei giorni:

AVV. SCOZZOLA - ... della lettera che è stata inviata agli altri Sostituti dalla dottoressa Boccassini e dal dottor Roberto Sajeva del 12.10.94, lei ne è mai venuta a conoscenza?

TESTE A. PALMA - No. Assolutamente no. Le ho anche detto che la Boccassini mi salutava a stento, nonostante siamo dello stesso concorso, e che non mi disse... non l'ho più vista, non l'ho più vista e non so... io non l'ho più vista assolutamente, non è venuta neanche a quella cosa...

AVV. SCOZZOLA - La dottoressa Boccassini, se non erro, ha dichiarato che l'ha data personalmente...

TESTE A. PALMA - …la mia parola contro la sua, metteteci a confronto, scusi. (…)

AVV. SCOZZOLA - Lei ha mai avuto la possibilità di leggere delle missive inviate a tutti i Sostituti, dalla dottoressa Boccassini e dal dottore Sajeva, in ordine alle perplessità su Scarantino?

TESTE A. DI MATTEO - …la mia risposta è assolutamente no, non ho letto… Ma le dirò di più: la dottoressa Boccassini, che andò via proprio credo in quel periodo, non ricordo... io con la dottoressa Boccassini non solo non ho mai parlato, o meglio, lei non mi ha mai parlato di Scarantino o di altro, ma io, che, appunto, ero stato designato nell'ottobre del '94 per far parte assieme ad altri del pool, non ho ricordo, e sono certo del mio ricordo, di avere mai parlato con la dottoressa Boccassini di vicende relative ad indagini… come io non ho mai parlato di vicende relative a queste indagini con il dottor La Barbera… Probabilmente loro nemmeno sapevano chi fossi; con la dottoressa Boccassini ho avuto il piacere di parlare qualche volta in occasione di un caffè al bar, ma non ho... non ho mai partecipato ad una riunione operativa della DDA con la dottoressa Boccassini, ad una riunione investigativa con le forze di Polizia, e la dottoressa Boccassini non ha mai avuto occasione con me di dirmi qualcosa o semplicemente di espormi le sue valutazioni e le sue considerazioni.

Ben diversa, infine, è la valutazione di Alfonso Sabella, all’epoca pm presso la Procura di Palermo. Anche lui lesse la nota della Boccassini e di Sajeva, e così ricostruisce l’episodio in Commissione:

ALFONSO SABELLA, magistrato. Io l’ho letta la nota della Boccassini e ci credo ancora! Questa nota era arrivata a Palermo, io l’ho letta, è arrivata a Palermo.

FAVA, Presidente della Commissione. Ecco! Ci aiuti a capire al di là delle forme, nella sostanza, in una indagine come questa, quando da Palermo la Procura della Repubblica manifesta preoccupazione sull’attendibilità del teste chiave, un Sostituto della Procura che sta indagando scrive una lettera così puntuale e preoccupata chiedendo una verifica… cosa sarebbe dovuto accadere?

ALFONSO SABELLA, magistrato. È chiaro che in una fisiologia occorreva fare quello che ha suggerito Ilda Boccassini, cioè andare a riverificare punto punto… faccio un esempio, quando Giovanni Brusca iniziò a collaborare con noi e ci comincia a propinare tutta una serie di fesserie, è chiaro che noi, io le metto nero su bianco tutte le fesserie che mi dice Giovanni Brusca, facciamo una riunione alla Procura nazionale, lo comunica alle altre Procure, dico “per me Brusca è inattendibile per questo, questo, questo, questo e questo, su questo ha mentito, qua probabilmente mira a proteggere Giovanni Riina, qua mira a scansare Vito Vitale, qua vuole accollare un omicidio in più a Di Maggio e toglierlo al fratello e così via”, mi presento in Procura nazionale davanti alla buonanima di Bruno Siclari con tutte le Procure, rappresento quali sono le perplessità, la Procura di Firenze perfettamente d’accordo con noi, la Procura di Caltanissetta nicchia un pochino perché in realtà vorrebbe continuare a interrogare Brusca, poi a quel punto si fa una linea comune, decidiamo d’intesa con la Procura nazionale di congelare gli interrogatori di Brusca e non andiamo avanti fin quando poi Brusca non si mette la testa a posto e inizia a collaborare più o meno seriamente. Credo che poteva essere adottato un meccanismo di questo tipo, insomma, …si poteva ragionare in termini di Procura nazionale però lo ripeto…

FAVA, Presidente della Commissione. La Procura nazionale in questi casi da chi dovrebbe essere attivata?

ALFONSO SABELLA, magistrato. Da una delle due Procure sicuramente! Palermo non aveva un grande interesse ad attivare la Procura nazionale, parliamoci chiaro, perché per noi Scarantino era un tossicodipendente, spacciatore della Guadagna…

Sul ruolo che avrebbe dovuto avere la Procura Nazionale è d’accordo anche il dottor Gozzo:

GOZZO. … scusatemi se qui lo dico e lo sottolineo, ma la collaborazione sia nel 1992 che nel 2009-2010 andava preservata dalla Procura nazionale antimafia che ci sta, proprio per questo motivo. Falcone è morto anche per questo ed è incredibile che la Procura nazionale antimafia non sia riuscita né nel 1992, né nel 2010, di fatto, a coordinare le indagini… Una maggiore presenza della Procura nazionale antimafia o, addirittura perché no, la Procura nazionale antimafia ha il potere di avocare: perché non avocare?

Insomma, l’indagine prosegue, incredibilmente, senza alcun ripensamento. Scarantino continua ad essere il perno dell’inchiesta, il teste d’accusa su cui si avviteranno più giudizi e più sentenze, fabbricando e accompagnando nei fatti il depistaggio sulla strage di via D’Amelio.

Anche il gruppo di indagine “Falcone-Borsellino” perde qualche pezzo. Se ne va Genchi, il numero due di La Barbera, dopo una violenta discussione con il capo della mobile di Palermo. Che così Genchi ricostruisce in Commissione:

GENCHI. La Barbera mi dice che sono uscite le motivazioni della sentenza del maxi processo, in quei giorni, da poco, da qualche settimana. L’avevamo letta, l’avevano letta, e il “sinedrio” – senza di me ovviamente – aveva chiuso le indagini. Ormai è fatta, due più due fa quattro, la strage non può che essere responsabilità di Cosa nostra. Noi qui dobbiamo trovare qualche elemento minimale, addebitiamo tutto alla Cupola. Io divento Questore, tu vieni promosso per merito straordinario, vai dove vuoi andare…tra tre quattro anni diventi questore pure tu …. Queste sono le ultime parole di La Barbera. Abbiamo un duro scontro che dura tutta la notte fino alle cinque di mattina …

FAVA, presidente della Commissione. Le ultime parole di La Barbera quali sono? Qui abbiamo risolto tutto …

GENCHI. Esatto. Chiudiamo così, chiudiamo con Scarantino …

FAVA, presidente della Commissione. Collochiamo nel tempo quest’ultimo incontro…

GENCHI. Il 4 maggio.

FAVA, presidente della Commissione. 4 maggio del 1993?

GENCHI. Inizia la sera intorno alle 19, non siamo andati neanche a cenare, e dura fino alle 5.45 del mattino. Io esco sbattendo la porta, La Barbera piange. Per la prima volta in vita mia ho visto piangere La Barbera…(…)

FAVA, presidente della Commissione. In questa ricostruzione che faceva La Barbera c’erano soltanto le carriere di voi due?

GENCHI. Sì, chiudiamo, arrestiamo Scotto. Chiudiamo sulla Cupola, sono tutti legati a Cosa nostra e si chiude così. Abbiamo chiuso.

FAVA, presidente della Commissione. E lei su quale punto non era d’accordo? A parte, diciamo la decisione di procedere all’arresto di Scotto.

GENCHI. Veda, un investigatore può anche accelerare un arresto. A volte si fanno anche nel tentativo di fare emergere qualche elemento in più dall’arresto, perché poi si intercetta in carcere, intercettano i parenti, etc. Quello che è accaduto con la strage di Via D’Amelio non sono delle scelte errate o delle scelte avventate o delle scelte sprovvedute, Presidente, questo è l’aspetto grave, gravissimo. Questi signori hanno individuato dei falsi colpevoli e li hanno perseguiti e fatti condannare non allo scopo di fare carriera o chiudere le indagini, ma allo scopo di non individuare i veri colpevoli di quella strage. E i veri responsabili sotto il profilo dei mandanti!

FAVA, presidente della Commissione. Quindi diciamo che quella cosa che le proponeva La Barbera quella sera, le carriere, chiudiamo il caso, risolviamo, era copertura rispetto ad una intenzione diversa che era quella di portare le indagini in un'altra direzione per coprire i mandanti?

GENCHI. Questo è l’aspetto eversivo diciamo di quello che è accaduto in Italia.

L'appello del Borsellino Bis. La Repubblica l'1 dicembre 2020. Come si è già accennato nel capitolo sui processi, per una corretta comprensione di questa tormentata e sconcertante vicenda processuale è utile infine soffermare l’attenzione sulla sentenza di appello del processo cosiddetto Borsellino bis, pronunciata il 18 marzo 2002, precisamente quella poi travolta dalla revisione. In precedenza, ben tre Corti di Assise di Caltanissetta (d’appello nel giudizio Borsellino1, di primo grado nel Borsellino bis e ter), disponendo sostanzialmente dello stesso patrimonio probatorio valutato successivamente dalla Corte d’Appello nel Borsellino bis, erano pervenute ad identici risultati valutativi, tutti radicalmente negativi, sull’attendibilità di Scarantino. Sentenze che, giova precisare, sebbene non utilizzabili nell’ambito del processo di secondo grado del Borsellino bis, costituivano, comunque, una sorte di significativo campanello d’allarme perché la Corte di Assise d’Appello di Caltanissetta valutasse con estrema cautela e prudenza l’attendibilità intrinseca ed estrinseca dello Scarantino, dell’Andriotta e del Candura. Con la sentenza della Corte di Cassazione del 19 gennaio 2001 (che confermava la sentenza d’appello del Borsellino1 e ne sanciva l’irrevocabilità, suggellando come inattendibili le propalazioni accusatorie di Scarantino) l’allarme si trasformava in vero e proprio dato processuale utilizzabile, a norma dell’art. 238- bis c.p.p., nell’appello del Borsellino bis. La sentenza del 18 marzo 2002, tuttavia, ha restituito piena credibilità all’intero racconto del picciotto della Guadagna rivalutandone integralmente le dichiarazioni, anche in quelle parti del racconto che potevano apparire perfino inverosimili (per esempio la descrizione con particolari della riunione della cupola di Cosa Nostra presso la villa di Calascibetta). Resta allora mestamente da interrogarsi, se la Corte di Assise d’Appello di Caltanissetta nel processo Borsellino bis sia incorsa, suo malgrado, in un clamoroso errore giudiziario, ovvero sia stata fuorviata da una sorta di annebbiamento processuale. In entrambi i casi, ha finito, inconsapevolmente, per stendere un velo e, sostanzialmente, sanare tutte le contraddizioni procedimentali, le inerzie e le omissioni investigative, le indagine deviate e soprattutto le eventuali violazioni di molte regole processuali, la più grave delle quali – come abbiamo visto - quella concernente l’omesso tempestivo deposito dei confronti tra lo Scarantino ed i collaboratori di giustizia Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo in data 13 gennaio 1995. Non può sfuggire la circostanza che l’esito di questi confronti, rivelatosi radicalmente devastante per Scarantino, avrebbe determinato il crollo ed il dissolvimento della credibilità del collaboratore, facendo così venir meno il perno accusatorio. Non aver portato a conoscenza dei difensori l’esito dei confronti ha impedito agli stessi di utilizzare i relativi verbali per chiedere nel dibattimento in corso di primo grado del Borsellino1 il confronto tra i quattro collaboratori che smentivano la credibilità della principale fonte d’accusa. Inoltre, il mancato deposito di detti verbali nella segreteria del pubblico ministero ha sicuramente determinato una grave deviazione processuale, perché ha impedito alla Corte di Assise di Caltanissetta una piena cognizione ed una corretta valutazione dello scarsissimo spessore criminale e dell’inesistente affidabilità di Vincenzo Scarantino. E l’incredibile ed inquietante iter processuale della strage di via D’Amelio avrebbe avuto un esito radicalmente diverso per gli imputati condannati ingiustamente sulla base delle dichiarazioni di Scarantino e solo successivamente assolti con formula piena in sede di giudizio di revisione.

Un depistaggio pieno di indizi. La Repubblica il 2 dicembre 2020. Mai una sola investigazione giudiziaria e processuale ha raccolto tante anomalie, irritualità e forzature, sul piano procedurale e sostanziale, come l’indagine sulla morte di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta. Mai alla realizzazione di un depistaggio concorsero tante volontà, tante azioni, tante omissioni come in questo caso. Mai gli indizi seminati, in corso di depistaggio, furono così numerosi e così ignorati al tempo stesso come nell’indagine su via D’Amelio. Lasciando al processo di Caltanissetta il compito di dirci se vi furono - e a carico di chi - responsabilità penali, si può ragionevolmente concludere che la regia del depistaggio comincia ben prima che l’autobomba esploda in via D’Amelio. Questo induce a pensare che “menti raffinatissime”, volendo mutuare un’espressione di Giovanni Falcone, si affiancarono a Cosa Nostra sia nell’organizzazione della strage, sia contribuendo al successivo depistaggio. E’ certo il ruolo che il SISDE ebbe nell’immediata manomissione del luogo dell’esplosione e nell’altrettanto immediata incursione nelle indagini della Procura di Caltanissetta, procurando le prime note investigative che contribuiranno a orientare le ricerche della verità in una direzione sbagliata. E’ certa la consapevolezza (ma anche l’inerzia) che si ebbe in procura a Caltanissetta sull’irritualità di quella collaborazione fra inquirenti e servizi segreti, assolutamente vietata dalla legge. Certa è anche l’irritualità dei modi (“predatori”, ci ha detto efficacemente un pm audito in Commissione) attraverso cui il cosiddetto gruppo “Falcone-Borsellino” condizionò le indagini, omise atti e informazioni, fabbricò e gestì la presunta collaborazione di Vincenzo Scarantino e degli altri cosiddetti pentiti. Certo, infine, ripetiamo, il contributo di reticenza che offrirono a garanzia del depistaggio – consapevolmente o inconsapevolmente – non pochi soggetti tra i ranghi della magistratura, delle forze di polizia e delle istituzioni nelle loro funzioni apicali. Ben oltre i nomi noti dei tre poliziotti, imputati nel processo in corso a Caltanissetta, e dei due domini dell’indagine (oggi scomparsi), e cioè il procuratore capo Tinebra e il capo del gruppo d’indagine “Falcone-Borsellino”, Arnaldo La Barbera. Se taluno di quegli indizi fosse stato raccolto tempestivamente anche da chi non aveva funzioni direttive, se i molti che ebbero consapevolezza delle forzature avessero scelto di non tacere, se non vi fosse stata - più volte e su più fatti - una pervicace reticenza individuale e collettiva, non saremmo stati costretti ad aspettare la collaborazione di Gaspare Spatuzza per orientare le indagini nella direzione opportuna. In conclusione, alla luce di tutte le considerazioni svolte, ciò che veramente inquieta non è tanto la riconosciuta falsità delle dichiarazioni dello Scarantino, sul piano processuale, come si è constatato, suscettibili di essere difficoltà disvelate bensì l’apparizione del personaggio in quanto tale. La sua improvvisa e immediata irruzione nello scenario processuale probabilmente doveva servire, con le sue propalazioni, ad escludere ogni possibile sospetto che mandanti della strage potessero essere anche soggetti estranei all’associazione mafiosa. In tal modo venivano appagate le ansie e le aspettative di verità della pubblica opinione per la pronta scoperta di mandanti ed esecutori, tutti mafiosi, ed al tempo stesso si esorcizzava l’incubo di indicibili partecipazioni diverse ed occulte. Infine, se le domande che questa Commissione ha voluto raccogliere, per poi rivolgere a chi era in condizione o aveva il dovere di rispondere, fossero state formulate anche in passato, non avremmo dovuto attendere 26 anni per avere contezza e certezza di questo depistaggio. Resta un vuoto di verità su chi ebbe la regia complessiva della strage e del suo successivo depistaggio. E quale sia stato – nel comportamento di molti – il labilissimo confine fra colpa e dolo, svogliatezza e intenzione, distrazione e complicità.

Addaura, la verità nelle carte dell’attentato fallito a Falcone. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 23 maggio 2020. Per quell’azione fallita sono stati condannati in via definitiva Totò Riina, Antonino Madonia e Salvatore Biondino. Successivamente anche Vincenzo e Angelo Galatolo. All’indomani del fallito attentato all’Addaura, il giudice Giovanni Falcone, stritolato esattamente 28 anni fa dall’enorme quantità di tritolo a Capaci, parlò di “menti raffinatissime”. Al di là della rivelazione del giornalista Saverio Lodato, ricordandosi dopo decenni dal fatto che Falcone gli avrebbe fatto il nome di Bruno Contrada, è difficile credere che Falcone si riferisse ad “entità esterne” alla mafia. Bisogna parlare con i fatti che sono tutti cristallizzati nelle sentenze che hanno portato, per il fallito attentato, alla condanna definitiva di Totò Riina, Antonino Madonia e Salvatore Biondino. Successivamente, dopo un nuovo rinvio a giudizio, sono stati condannati anche Vincenzo e Angelo Galatolo. Nel 2008, a seguito delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Angelo Fontana e Vito Lo Forte, sono state riaperte nuove indagini. Secondo il pentito Vito Lo Forte all’Addaura ci sarebbe stata pure la presenza di uomini dei servizi segreti. Per questa ragione, i magistrati disposero anche il confronto fra i Dna ritrovati sulla scogliera dell’Addaura e quelli identificati da Lo Forte, ma nulla emerse. Quindi le dichiarazioni del pentito, rese ai magistrati il 10 agosto 2009 non hanno trovato alcun riscontro. Passiamo ora al dato certo. Ovvero la preparazione dell’attentato. Si è accertato che Totò Riina ha deliberato l’eliminazione fisica di Falcone per essere stato quest’ultimo il magistrato che aveva, con la sua lunga attività giudiziaria presso il Tribunale di Palermo, posto in concreto pericolo la stessa sopravvivenza dell’organizzazione, nonché la dottoressa Carla Del Ponte, all’epoca Sostituto Procuratore pubblico di Lugano, del Giudice Istruttore Carlo Lehmann, anche in considerazione delle indagini che stavano conducendo in collegamento con Falcone. Quali indagini nello specifico? Questo lo vedremo più avanti. Agli atti risulta che Totò Riina ha fornito a Salvatore Biondino l’autorizzazione a consegnare ad Antonino Madonia l’esplosivo da impiegare nell’attentato. Emerge che Biondino ha partecipato ad una riunione preparatoria dell’attentato svoltasi presso una abitazione. Ha provveduto all’organizzazione e all’effettuazione di sopralluoghi nella zona interessata all’attentato, nonché alla fornitura dell’esplosivo costituito da 58 cartucce di pulverulento nitroglicerinato Brixia B5 e all’individuazione di un sito idoneo per la collocazione degli attentatori posti ad azionare il telecomando. Antonino Madonia e Vincenzo Galatolo hanno partecipato ad una riunione preparatoria dell’attentato svoltasi sempre presso la medesima abitazione e hanno contribuito, in particolare il primo anche a livello organizzativo, all’effettuazione di sopralluoghi preliminari e di controllo nella zona teatro dell’attentato e alla collocazione dell’ordigno precedentemente predisposto sulla piattaforma antistante la residenza estiva di Falcone.

LE “MENTI RAFFINATISSIME”. Ma per la preparazione dell’attentato sono state utilizzate “menti raffinatissime”? Sembrerebbe di no. Sempre dagli atti emerge che, a seguito della strage di Capaci, in una riunione al la presenza di Riina, Biondino disse che quell’attentato non sarebbe servito se il Madonia non si fosse affidato, in occasione dell’Addaura a dei “picciutteddi”, ovvero a dei ragazzini. Quindi tutto ciò non fa che scartare l’ipotesi servizi segreti o varie “entità” estranee alla mafia per la preparazione di un attentato del tutto fallimentare. Ma allora a cosa si riferiva Giovanni Falcone quando parlò, appunto, di menti raffinatissime? La “fine” strategia della delegittimazione, per caso? Tutto fa sospettare di sì. È noto che la mafia usasse questi stratagemmi. Secondo la sentenza che ha condannato i mafiosi per l’Addaura, i giudici hanno considerato che l’attentato era stato preceduto da un’azione di delegittimazione e discredito nei confronti del magistrato, secondo un copione mafioso ormai collaudato. Ed è vero. Poche settimane prima del fallito attentato giunsero continue lettere diffamatorie nei confronti soprattutto di Falcone e inviate a vari rappresentanti delle istituzioni. Parliamo del ribattezzato “Corvo”. Verso la fine di maggio del 1989, Salvatore Contorno, noto collaboratore di giustizia, trasferitosi da tempo negli Usa dopo la celebrazione del primo maxiprocesso, veniva arrestato in Sicilia in una operazione finalizzata alla cattura del latitante Gaetano Grado in una villetta di S. Nicola l’Arena. Pochi giorni dopo venivano indirizzate a varie autorità una serie di missive anonime scritte a macchina, note come le lettere del “Corvo”, che contenevano gravissime accuse nei confronti di vari magistrati e appartenenti alla polizia, tra cui innanzitutto Falcone e Gianni De Gennaro, poi diventato vicedirettore della Dia, accusati di avere ordito un diabolico piano per contrastare la fazione corleonese di Cosa nostra attraverso il ritorno in Sicilia di Salvatore Contorno per favorire la cattura o la eliminazione fisica dei capi corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano e per guidare la vendetta delle cosche perdenti con una serie di omicidi. Si mette in diretta correlazione il rientro di Contorno con una serie di omicidi che effettivamente si erano registrati nel territorio di Bagheria, tra il marzo ed il maggio del 1989, ai danni di persone legate alle cosche mafiose vincenti dei corleonesi. Le accuse, ovviamente, si sono rivelate assolutamente calunniose anche nel contesto delle indagini svolte per individuare l’autore delle lettere e che le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia successivamente acquisite hanno concordemente attribuito la responsabilità degli omicidi indicati negli anonimi al gruppo corleonese escludendo la responsabilità di Salvatore Contorno. Al riguardo, lo stesso generale Mario Mori ha riferito nel suo esame dibattimentale ( udienza del 7 febbraio 2000) che aveva concordato con Falcone nel ritenere che le lettere del “Corvo”, rappresentassero un “atto di delegittimazione di personaggi delle Istituzioni particolarmente esposti nella lotta alla criminalità organizzata” e che nella prassi mafiosa le manovre di isolamento e delegittimazione fossero spesso il primo passo per giungere, “all’annientamento” di chi si contrapponeva ai programmi della organizzazione mafiosa. Purtroppo sappiamo che poco prima dell’attentato di Capaci, girava una seconda lettera del Corvo. Menti, appunto, raffinatissime che avevano lo scopo di disinnescare indagini scomode. Il solo fatto che Falcone si vedesse con Carla Del Ponte e Carlo Lehmann, sta a significare l’irritazione della mafia per l’aver avviato una attiva cooperazione con autorità di varie nazioni (ed in particolare con gli Usa e la Svizzera) estendendo i confini anche geografici della lotta al crimine organizzato ed al riciclaggio del denaro sporco. Non di poco conto il fatto che famiglie mafiose dei Madonia e dei Galatolo, all’epoca dell’attentato gestivano un imponente traffico internazionale di stupefacenti e che negli anni tra il 1987 ed il 1988, era stata sequestrata una nave ( la Big John) carica di cocaina appartenente alle due famiglie. Analogamente il collaboratore di giustizia Lo Forte aveva precisato che il riciclaggio degli introiti relativi al traffico di stupefacenti avveniva in Svizzera, soprattutto ad opera di Gaetano Scotto e Vincenzo Galatolo. Ma c’è anche la tematica, mai sviluppata, che i conti svizzeri fossero i terminali tanto delle operazioni di costituzione di fondi neri da parte delle imprese per destinarle a tangenti ai politici, quanto di operazioni di riciclaggio della criminalità organizzata, e che Falcone avesse iniziato a interessarsi di tutto ciò.

Mafia, il giornalista Saverio Lodato accusa Bruno Contrada: "Falcone mi fece il suo nome". Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 da La Repubblica.it. Bagarre in diretta ieri sera su La7 nel corso del programma Atlantide condotto da Andrea Purgatori, dedicato alla Strage di Capaci (23 maggio 1992) della quale sabato ricorre l'anniversario. Purgatori dapprima intervista Alfredo Morvillo, magistrato e cognato di Giovanni Falcone, sul fallito attentato all'Addaura avvenuto il 21 giugno 1989 nei pressi della villa che il giudice aveva affittato per il periodo estivo. "Falcone mi parlò esplicitamente di menti raffinatissime - spiega Morvillo -. Un attentato organizzato da qualche uomo delle istituzioni che ha tradito. Nessuno poteva sapere che sarebbe andato a fare il bagno sugli scogli. Qualcuno ha tradito Giovanni". Ma il colpo di scena avviene quando a parlare è il giornalista Saverio Lodato, un passato nel quotidiano L'Ora e oltre 30 anni a L'Unità come corrispondente da Palermo. Lodato, infatti, rivela un particolare inedito e punta il dito contro Bruno Contrada, ex dirigente del Sisde (accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in Cassazione a 10 anni di carcere), indicato come il sospetto "traditore" tra le forze dello Stato: "Chiesi a Falcone chi fossero le “menti raffinatissime” che avevano guidato la mafia e a cui lui aveva fatto riferimento dopo il fallito attentato dell’Addaura - racconta il cronista -. Fui molto insistente. Il nome era quello del dottor Bruno Contrada. Ma mi diffidò dallo scriverlo pena più nessun rapporto". Le accuse di Lodato scatenano le proteste dell'avvocato di Contrada Stefano Giordano, che telefona in diretta e pretende scuse formali: "Il mio cliente è incensurato, si deve chiedere scusa al mio assistito". Giordano, sostenendo l'innocenza del suo assistito, ricorda anche il provvedimento della Corte Europea. Nel 2015 infatti la Corte europea dei Diritti dell'uomo aveva emesso una sentenza secondo cui Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Con ordinanza depositata il 6 aprile 2020, la Corte d’Appello di Palermo ha liquidato a favore dell'ex 007 Bruno Contrada la somma di 667mila euro a titolo di riparazione per l'ingiusta detenzione patita nel procedimento penale. Lodato, in chiusura di puntata, replica al legale ribadendo che "quando Giovanni Falcone mi disse quelle cose era il 1989. Bruno Contrada non era neanche sotto inchiesta per mafia. Non era arrivata a sentenza definitiva di Cassazione la sentenza di sua colpevolezza. Non c'era neanche la sentenza della Corte d'Appello di Palermo che recepisce le indicazione della Corte Europea. Io prendo atto di quello che dice l'avvocato Giordano. Afferma che il suo cliente è innocente, ma devo dirgli che il giudizio di Giovanni Falcone nei confronti di Bruno Contrada non era lusinghiero. Tutt'altro. Questo mi ricorreva l'obbligo di dire e confermare".

"Falcone disse Contrada". Scoppia la bufera in tv. L'ex Sisde: "Massacrato". Botta e risposta a distanza tra il giornalista Saverio Lodato e l'ex capo del Sisde Bruno Contrada. Secondo la rivelazione dello scrittore il magistrato Giovanni Falcone avrebbe parlato di menti raffinatissime dietro il fallito attentato dell'Addaura del 1989. Roberto Chifari, Giovedì 21/05/2020 su Il Giornale. La miccia che ha fatto scoppiare il caso è stata la trasmissione di La7 Atlantide condotta da Andrea Purgatori, interamente dedicata alla strage di Capaci del 1992 e di cui tra due giorni ricorre l'anniversario. Sono passati 28 anni da quel maledetto 23 maggio che ha stravolto la coscienza civica di Palermo, ma ci sono ancora punti oscuri di una vicenda dai contorni foschi. Durante la trasmissione, in cui sono stati ricostruiti i passaggi chiave dell'attentato e l'ascesa dei Corleonesi negli anni Settanta, è intervenuto in diretta il giornalista Saverio Lodato, cronista de L'Ora di Palermo e poi corrispondente da Palermo per L'Unità. Durante il suo intervento Lodato, ha rivelato un particolare inedito che getterebbe l'ennesima ombra sulla trattativa Stato-mafia e che punta ancora il dito contro Bruno Contrada, ex dirigente del Sisde. Secondo Lodato, sarebbe lui "traditore" dello Stato, lui avrebbe fatto da trait d'union tra lo Stato e Cosa nostra: "Chiesi a Falcone chi fossero le menti raffinatissime che avevano guidato la mafia e a cui lui aveva fatto riferimento dopo il fallito attentato dell’Addaura - racconta il cronista durante la trasmissione -. Il nome era quello del dottor Bruno Contrada. Ma mi diffidò dallo scriverlo in qualunque mio articolo. Falcone mi disse che non dovevo scriverlo se volevamo continuare ad avere un rapporto". La frase ha avuto l'effetto di un terremoto perché sul banco degli imputati finisce ancora una volta il nome di Contrada. Poco dopo in diretta interviene l'avvocato di Bruno Contrada, Stefano Giordano, che ha difeso il suo assistito partendo da un assunto: quello che sulla vicenda Contrada è intervenuta la Corte europea dei Diritti dell'uomo che ha disposto con una sentenza favorevole, l'illegittima condanna di Contrada per concorso esterno in associazione mafiosa. Lo scorso aprile, la Corte d’Appello di Palermo ha liquidato a favore dell'ex 007 la somma di 667mila euro a titolo di riparazione per l'ingiusta detenzione patita nel procedimento penale. Nell'ordinanza si parla di detenzione "illegittima", in mancanza di una norma tipica perciò "in violazione del principio stesso di legalità". L'avvocato Giordano contatto dal Giornale.it ha precisato che: "In sede giudiziaria si produrranno evidenze documentali attestanti la non corrispondenza al vero dichiarato nella trasmissione televisiva. Relativamente alla diffidenza e al sospetto che lo stesso Falcone avrebbe nutrito nei confronti di Contrada". Bruno Contrada, però non ci sta e oggi passa al contrattacco annunciando di volere "adire per vie legali, sia in sede penale che civile", e in una intervista all'Adnkronos, spiega: "Ieri sera sono stato diffamato e calunniato - racconta -. Provo solo disprezzo e nient'altro. Devono trovare un colpevole ad ogni costo, e lo hanno trovato in me. Non si rassegnano. Ma io non ci sto. Basta. Denuncio tutti". C'è un punto su cui Contrada insiste ed è poi la chiave su cui si regge la sua difesa: perché se Falcone ha fatto questa rivelazione a Lodato nel 1989, la presunta verità sarebbe uscita con 31 anni di ritardo? Una domanda a cui prova a dare una risposta lo stesso Contrada. "Sono indignato - dice - provo una rivolta morale. È incredibile sentire quelle frasi. Perché Lodato ha aspettato più di 30 anni per dirlo? Perché il giornalista non lo ha detto il 24 maggio del 1992, cioè all'indomani della strage di Capaci? Visto che aveva promesso al giudice di non scriverlo...". Contrada, arrestato il 24 dicembre 1992 per concorso esterno in associazione mafiosa, dopo la condanna definitiva a dieci anni di carcere, trascorsi tra la cella nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere e gli arresti domiciliari a Palermo, ha ottenuto dalla Corte di Cassazione, un annullamento della sentenza di condanna, dopo il parere della Corte europea. Un'accusa, quella di concorso esterno, che per la Cedu "non era sufficientemente chiara e prevedibile per Contrada ai tempi in cui si sono svolti gli eventi in questione". Ecco perché Contrada difende la sua innocenza e ribatte allo stesso Lodato. "Bisognava chiedere al dottore Falcone quello che voleva dire quando parlava di menti raffinatissime - aggiunge ancora l'ex 007 - Ieri sera ho provato disprezzo nel sentire quelle parole da Lodato. Non ho provato né odio né altro, ma solo disprezzo". Contrada parla di massacro mediatico e giudiziario. Gli ultimi trent'anni della sua vita sono passati a difendersi tra aule di tribunali e sentenze. "Io ogni volta che ho sbagliato ho chiesto scusa. Perché si può anche sbagliare ma bisogna avere la correttezza e la dignità di ammettere di avere sbagliato - continua Contrada -. Invece no, non ci si rassegna. Io posso portare dieci sentenze di assoluzione ma devo essere colpevole ad ogni costo. Perché questi hanno provato a colpirmi e massacrarmi, per anni. Non gli basta che il capo della Polizia mi ha reintegrato - dice - e neppure la sentenza della Corte di appello che ha riconosciuto, dopo avermi condannato, che ho subito una ingiusta detenzione. E lo Stato non mi potrà mai restituire otto anni di privazione di libertà". Contrada non ci sta e ha deciso di passare al contrattacco. "Adesso dico basta, non mi farò più diffamare e calunniare. Non so quanto tempo mi resta da vivere, ma non permetto più a nessuno di massacrarmi". Un altro capitolo della vicenda è stato scritto, si attende quanto prima l'epilogo di una storia che va avanti da oltre trent'anni e su cui sarebbe bello conoscere la verità. Lo si deve ai palermitani onesti, lo si deve soprattutto alla memoria di Giovanni Falcone.

Magistratopoli, parla Giuseppe Ayala: “Csm verminaio, Falcone capì tutto 30 anni fa”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 3 Giugno 2020. Giuseppe Ayala, Pm antimafia per anni affiancato al pool di Falcone e Borsellino, dall’alto dei 75 anni appena compiuti ha ancora tanta voce, quanta memoria. “The voice”, lo chiamava Falcone: «Tu sei la Voce, ma la canzone la scriviamo insieme». E poi andavano a far cantare gli imputati, nelle aule di giustizia in cui Ayala teneva le requisitorie. «Nell’aula bunker del maxi processo rimasi chiuso dentro per otto giorni e otto notti: per sicurezza dovevo rimanere blindato». Una storia di magistratura in prima linea, negli anni roventi dello scontro frontale con Cosa Nostra. «Ero un Pm competitivo, dicevano di me Borsellino e Caponnetto. E posso dire di non aver mai perso un processo». In quegli anni, nessuna comparsata televisiva. Una passione civica mai sopita lo porterà invece a Roma, dove è stato parlamentare quattro volte: due alla Camera e due al Senato. Oggi è vicepresidente della Fondazione Giovanni Falcone e gira le scuole per portare la memoria della sua guerra alla mafia.

Che cosa sta succedendo alla magistratura?

«Non conoscevo da vicino i modi di fare di certi personaggi rappresentativi del Csm. Ma sostengo da anni che il Csm è il peggior nemico dei magistrati. Il ministro della Giustizia Vassalli una volta disse: «Ogni Csm riesce ad essere peggiore del precedente». E questi tempi non fanno eccezione. È emerso un verminaio».

Non è sorpreso, quindi.

«Diceva Giovanni Falcone nel 1988: «Se i valori dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura sono in crisi, questo dipende in maniera non marginale dalla crisi che da tempo investe l’associazione dei giudici, rendendo l’Anm un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi. Le correnti dell’Anm si sono trasformate in macchine elettorali per il Csm e quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata in seno all’organo di governo della magistratura con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica». Io non ho l’autorevolezza di Falcone, ma penso la stessa cosa».

Che cosa le ha insegnato la sua esperienza politica?

«I tre poteri di Montesquieu devono rimanere indipendenti, la confusione e la debolezza della politica implicano il rafforzamento del potere giudiziario, e non è mai un bene. Se le istituzioni fossero forti, autorevoli, indiscutibili, chi esercita altre funzioni tornerebbe nel suo alveo».

E lei quando decise di passare dalle aule giudiziarie a quelle del Parlamento?

«Giorgio La Malfa mi telefonò e mi disse di andarlo a trovare. Ero con Falcone, che volle accompagnarmi. Mi chiese di candidarmi alla Camera, chiesi 24 ore di tempo per riflettere. Aspettavamo l’ascensore, Falcone mi disse: «Sai quali sono le scommesse che si perdono sicuramente? Quelle che non si accettano». Il suo incoraggiamento fu decisivo: rientrai nell’ufficio di La Malfa, dicendogli: «Le 24 ore sono passate. Accetto». Ma non ho mai preso la tessera di un partito, perché un magistrato non deve prendere tessere di partito».

Anche perché i partiti dei magistrati sono le correnti, come insegna Palamara.

«Io non voglio difendere Palamara, me ne guardo bene. Ma in questa vicenda lui ci è incappato perché aveva il trojan nel telefono, ma penso che altri Palamara ce ne sono. E chissà quanti. Lo strapotere delle correnti è un problema strutturale. Ma tengo anche a dire che la magistratura è fatta da donne e uomini che ogni giorno vanno a svolgere il proprio lavoro con serietà e sobrietà».

Ha notizia di altri casi Palamara?

«Non voglio fare nomi, ma anni fa sostenni che ci sono dei colleghi che facendo i magistrati, seguono una carriera parallela. Usano la carriera di magistrato per assumere ruoli di potere. Sto pensando a un nome che non farò, ho certamente in mente qualcun altro alla Palamara. E potrei mettere giù un elenco. Non c’era solo Palamara, ma diciamo che si era conformato bene a questa logica della carriera parallela».

Lei ha letto la bozza di riforma?

«Ho letto questo discorso del sistema elettorale; con priorità di genere e ballottaggio. È una sperimentazione; la cosa peggiore nella vita è stare fermi, poi non è detto che sia la soluzione migliore. Io ho parlato con qualche collega, tutti si aspettano un intervento tempestivo e efficace».

Lo auspicano a bassa voce.

«Non parlano perché in fondo hanno subìto. Ma tutti vogliono che cada questo sistema».

La corruzione è fisiologica, quando troppo potere si cristallizza sempre nelle stesse mani.

«Esattamente. Quando gestisci troppo potere e troppo a lungo e diventi di fatto il referente di chi vuole condizionare la vita pubblica e le porte della corruzione si aprono».

Che rapporto avevano Falcone e Borsellino con la magistratura associata?

«Paolo (Borsellino, ndr) era militante autorevole di Magistratura Indipendente, l’area più conservatrice. Ma di giochi di potere di questo genere non ne sognava neanche di notte. Era una persona trasparente e pulita che credeva molto nei valori altissimi del magistrato. Falcone era meno impegnato nelle aree associative, anche se per la verità insieme demmo vita a una corrente che chiamammo I Verdi. Non per attenzione all’ambiente, ma perché casualmente il foglio su cui avevamo scritto i principi fondamentali era verde. Era un impegno di rottura, che poi si trasformerà nel tempo nella corrente di Area. Non ci impegnammo però poi molto, anche perché eravamo sin troppo occupati con il lavoro quotidiano per dedicarci a queste attività».

Come ogni anno, nell’anniversario di Falcone tutti si riscoprono suoi buoni amici. Anche la politica. Ma lui in realtà da che parte stava?

«A me e Falcone ci chiamavano Toghe Rosse. Avevamo una sensibilità di sinistra ma né Falcone né io abbiamo mai votato Pci. Avevamo votato tutti e due Pri. Quando io mi candidai nel 1992 alla Camera con i Repubblicani, fui spronato e sponsorizzato da Falcone. La famosa fotografia in cui Falcone e Borsellino sorridono insieme, spalla a spalla, è stata scattata dal fotografo Tony Gentile al comizio del Pri di Palermo che facemmo per lanciare la mia candidatura».

Falcone aveva rapporti stretti con la politica?

«Nessuno in particolare, era un elettore repubblicano convinto, come dicevo: un ammiratore di Ugo La Malfa. Non intrattenne mai rapporti, e tantomeno chiese favori. Abbiamo convissuto per dieci anni, lo so con certezza. Con il ministro della Giustizia Claudio Martelli andava d’accordo, più per ragioni istituzionali che per simpatia politica».

Sulle commistioni di affari tra mafia e politica avevate lavorato anni.

«Il mandato d’arresto per Ciancimino lo avevamo firmato io e Falcone. I cugini Salvo, che erano i due uomini più ricchi e potenti della Sicilia, legati a Salvo Lima, su mia richiesta sono stati arrestati con mandato emesso da Giovanni Falcone. Che poi fu addirittura accusato da esponenti dei movimenti antimafia, con un esposto firmato al Csm, di nascondere nel cassetto le prove del rapporto tra mafia e politica. Puttanata gigantesca che però gli provocò una grande amarezza. Nei cassetti di Giovanni non c’era nulla di nascosto: quando adottavamo una iniziativa, avevamo gli elementi che in dibattimento portavano alla sentenza di condanna. Non facevamo cose per finire sui giornali. E la storia parla per noi: i processi li abbiamo vinti tutti».

I tempi sono cambiati, le luci della ribalta piacciono a tutti.

«Oggi c’è una sensibilità mediatica di alcuni magistrati. Comparire sui giornali e andare in tv piace a molti, con alcuni giornalisti tengono ad avere rapporti tali per garantirsi quel successo mediatico cui tengono. Falcone era l’opposto. Noi non abbiamo mai fatto un comunicato stampa. Lavoravamo con la riservatezza dovuta al nostro ruolo, al riparo dai giornalisti».

A proposito: Saverio Lodato, L’Unità di Palermo, ha rivelato una confidenza di Falcone…

«Ho visto che dopo trentun anni ha ricordato che Falcone, con cui si davano del lei, gli avrebbe riferito un sospetto, una cosa così riservata, facendogli il nome di Contrada come mente dietro all’attentato dell’Addaura. Sarà vero ma non ci credo. Mi suona strano, per l’accortezza di Giovanni».

Che idea si è fatto di Contrada?

«Anni prima del 1989, Contrada mi venne a trovare in ufficio. Giovanni mi mise in guardia: “Accura a Contrada”, mi disse in siciliano. Quando Contrada andò a processo venni ascoltato, e lo raccontai».

Quindi le riserve di Falcone su Contrada c’erano.

«Sì. Da molto prima dell’Addaura».

Andiamo a via D’Amelio. «Dopo Falcone e Borsellino, il terzo sarà Ayala», si disse.

«Mi fu detto esplicitamente da livelli istituzionali molto alti, e infatti non le dico dall’attentato di via D’Amelio in poi quali misure di sicurezza furono prese. Mi fu sconsigliato di andare a Palermo. Le rare volte in cui andavo, con volo di Stato da Roma, trovavo ad attendermi due elicotteri: io dovevo scegliere all’ultimo su quale salire, senza dirlo prima a nessuno. In volo, gli elicotteri dovevano seguire sempre percorsi diversi, una volta sul mare, un’altra sull’interno. Cambiò tutto il protocollo di sicurezza, e funzionò».

Con Falcone e Borsellino le misure non furono così attente.

«Ci furono dei buchi incredibili nella rete di sicurezza. Dentro Palermo per andare al Palazzo di giustizia ogni giorno ci facevano cambiare percorso, poi per prendere l’aereo si andava dritti a Punta Raisi con l’unica strada esistente. Una volta Falcone fu profetico, eravamo in macchina insieme e mi disse: «Ma se ci fanno un attentato qui, in autostrada?» – ed ebbe anche quella volta ragione. E per Borsellino, che aveva l’abitudine di andare a trovare spesso l’anziana madre, è assurdo che nessuno abbia pensato di mettere un presidio di protezione lì in via D’Amelio».

Che successe quando lei arrivò, tra i primi, in via D’Amelio il giorno dell’attentato?

«Stavo a duecento metri, arrivai subito, con la scorta. Fu uno choc incredibile, tra fuoco e fiamme mi ritrovai tra le gambe un corpo carbonizzato: era Paolo Borsellino. Presi la sua borsa dalla macchina e la consegnai a un ufficiale dei Carabinieri».

L’agenda rossa però da lì in poi è scomparsa.

«Io di una sua agenda rossa non sapevo neanche l’esistenza».

È diventata un’icona. Un simbolo. Forse anche un mito.

«Se ne è parlato moltissimo, ma non ne sapevo niente. Paolo Borsellino nel 1986, tre anni prima di morire, diventò Procuratore della Repubblica di Marsala. Tornò a Palermo a fine 1991 o inizio 1992. Dunque fino a poco prima non ci eravamo frequentati, non conoscevo i suoi oggetti personali. Comunque ognuno di noi ha la sua agenda con i propri impegni, ma posso dire una cosa per certo: nessun grande magistrato affida tutti i suoi segreti a un’agendina. Esistono archivi, schedari, fascicoli. E Paolo era puntuale e meticoloso: appena appurava qualcosa lo andava a riferire a chi di competenza o aggiornava gli atti di indagine».

Giovanni Falcone aveva una sua agenda riservata?

«Aveva un’agenda con gli appuntamenti, come la avevo io. Una volta doveva andare a New York, dove in aeroporto vendono a buon prezzo il profumo preferito di mia moglie, “Tatiana” di Diane Von Funstenberg. Un profumo che a Palermo non si trova facilmente. Gli chiesi di farmi la cortesia di comprarmi un paio di confezioni e Giovanni annotò “Tatiana” sulla pagina, alla data di New York. Pensai: se succede qualcosa, se smarrisce l’agenda, chi la trova immaginerà subito che c’era un’amante con questo nome ad aspettarlo. Le agende sono fatti privati».

Oggi nell’agenda di certi magistrati ci sono invece gli studi televisivi.

«C’è una propensione alla notorietà, oggi, che noi non conoscevamo. Una bella intervista a Davigo, che spara cose forti, ci sta. Capisco che tiri su gli ascolti. Ma questo non giova alla magistratura. A noi insegnavano che la riservatezza è una dote fondamentale per chi vuole far bene questo mestiere. Piercamillo è un uomo molto intelligente che si è andato radicalizzando, negli anni. Questa sua frase per cui «non vanno aspettate le sentenze» è una frase che non devi dire, se fai il magistrato».

Forse non la devi neanche pensare.

«Non la devi neanche pensare, ma men che mai dirla. Poi è vero che in Italia manca il controllo sociale, che il senso civico è spesso scarso. Il mio sogno è che l’amore per la giustizia sia tanto diffuso da portare all’autocontrollo, a un senso più alto di responsabilità e del pudore. Se la politica recupera dignità e riesce a selezionare meglio la classe dirigente, lo strapotere giudiziario si arresta».

I misteri dell'Addaura. Di Attilio Bolzoni, L. Marcelli e F. Trotta l'8 giugno 2020 su La Repubblica. Sono passati più di trent'anni e quello che tutti conosciamo come “il fallito attentato dell'Addaura” resta uno dei grandi misteri italiani. Di sicuro c'è solo che, in quel giugno del 1989, Giovanni Falcone ha iniziato a morire. A partire da oggi e per circa trenta giorni, il nostro Blog pubblicherà ampi stralci della sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta (presidente Giacomo Bodero Maccabeo, consigliere Michele Barillaro) pronunciata l’8 marzo 2003. E' un documento che ricostruisce dinamica e movente intorno a quei cinquantotto candelotti che dovevano far saltare in aria il giudice che, per primo, aveva fatto paura alla mafia e ai suoi complici. Nonostante le prove trovate contro Totò Riina, Nino Madonia, Salvatore Biondino, Giovan Battista Ferrante e Francesco Onorato (questi ultimi due diventati in seguito collaboratori di giustizia) e le condanne in un successivo processo contro Vincenzo e Angelo Galatolo il fallito attentato sulla scogliera dell’Addaura, dove Giovanni Falcone ogni estate prendeva una villa in affitto, rimane ancora una pagina di storia tutta da scrivere. In quel fine primavera dell'89 Falcone era impegnato, insieme alla giudice svizzera Carla Del Ponte, su un’importante rogatoria intorno a operazioni di riciclaggio di denaro. E la Del Ponte, accompagnata dal suo collega Claudio Lehman, il giorno del fallito attentato era stata invitata proprio nella villa dell'Addaura. Solo una coincidenza? O qualcuno conosceva tutte le mosse di Falcone e dei suoi ospiti? Il giudice parlò di "menti raffinatissime” dietro quel tentativo di ucciderlo, menti raffinatissime «che tentano di orientare queste azioni della mafia... esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi». Insomma, già da allora c'era qualcuno altro, oltre Cosa Nostra, che lo voleva morto. E lui l'aveva capito. Al tempo, l'inchiesta sul fallito attentato fu ostacolata da depistaggi e grandi silenzi. In un primo momento si ipotizzò che i sicari fossero venuti dal mare su un gommone, piazzando poi l'esplosivo sugli scogli. Molti anni (e pentiti) dopo le investigazioni hanno fatto qualche piccolo passo avanti ma senza mai scoprire chi aveva "aiutato” i boss. Ancora avvolte nel mistero anche le uccisioni di Nino Agostino ed Emanuele Piazza, il primo poliziotto del commissariato San Lorenzo e il secondo collaboratore dei servizi segreti. La loro morte è legata a quel fallito attentato. Dopo l'assassino dell'agente Agostino, il capo dei capi Totò Riina ordinò addirittura un'indagine interna a Cosa Nostra per sapere chi era il mandante. Evidentemente non era stato lui. Il fallito attentato dell'Addaura è arrivato dopo mesi e mesi di   tentativi per delegittimare il giudice Falcone. Un clima infame, che cominciò con lettere anonime che lo descrivevano come un “killer di Stato” che aveva fatto scendere in Sicilia il pentito Totuccio Contorno per consentirgli di scovare e uccidere i nemici di cosca. Naturalmente, subito dopo il ritrovamento dell'esplosivo sugli scogli, qualcuno mise in giro una sola voce su Falcone: «L'attentato se l'è fatto lui». Hanno collaborato: Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Francesca Carbotti, Sara Cela, Rosa Cinelli, Enza Marrazzo, Sofia Matera, Sara Pasculli, Asia Rubbo

L'esplosivo sulla scogliera. La Repubblica l'8 giugno 2020. Il procedimento trae origine dalle vicende verificatesi il 21 giugno del 1989 nei pressi della località palermitana denominata Addaura ed esattamente nella scogliera antistante una villa, dove soggiornava il Giudice Istruttore dott. Giovanni FALCONE, sul lungomare Cristoforo Colombo n. 2731. Alle ore 7.30 antimeridiane, gli agenti di polizia addetti alla protezione personale del magistrato, Lo Re, Di Maria, Lo Piccolo e Lindiri, rinvenivano nel corso di una ricognizione di quella parte della villa che presentava un diretto sbocco sul mare, attraverso un passaggio che terminava in una piattaforma in cemento ove si giungeva tramite una rampa di sei gradini accanto ad uno scoglio, una muta subacquea, un paio di pinne, una maschera tipo “Solana” ed una borsa sportiva blu con la scritta Veleria San Giorgio contenente una cassetta metallica. All’interno della cassetta si trovava un congegno la cui elevata potenzialità distruttiva veniva immediatamente percepita e che, in seguito ad analisi degli artifcieri, risultava essere composto da 58 candelotti di esplosivo per uso civile del tipo “BRIXIA B5”, per un peso complessivo di circa 8 kg. prodotto da una società bresciana innescati con due detonatori elettrici collegati ad un congegno elettro-meccanico comandato da una apparecchiatura radio-ricevente. Subito venivano coinvolti gli esperti artifcieri dei Carabinieri ed in particolare il Brigadiere TUMINO - giunto sul luogo attorno alle 11.30, alcune ore dopo l’originario richiesto intervento - il quale, per impedire lo scoppio della carica radiocomandata, provvedeva a separare la sostanza esplosiva dall’innesco, mediante esplosione controllata, non prima di avere esaminato l’ordigno ed avere fatto sgombrare l’area, temendo che un intervento immediato potesse farlo deflagrare, per la possibile presenza di congegni antirimozione o a tempo. L’intervento     dell’artifciere,     pur    rendendo inoffensivo il congegno, danneggiava fortemente il comando di attivazione della carica esplosiva - una ricevente radio FM, marca “EXPERT SERIES SANWA” operante sulla frequenza VHF di 35 Megahertz - costringendo gli inquirenti ad una delicata e laboriosa opera di rastrellamento, estesa anche allo specchio di mare antistante la piattaforma, tramite l’impiego di unità subacquee, allo scopo di ricercare tutti i frammenti che componevano l’ordigno esplosivo. La collocazione del congegno induceva subito a ritenere che l’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra avesse voluto realizzare un attentato nei confronti del predetto magistrato, da tempo impegnato in prima linea in numerosi processi, proprio contro la criminalità organizzata, quale componente dello specifico settore antimafia costituito presso l’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo dal consigliere Rocco CHINNICI, già vittima, nel 1983, del drammatico attentato di via Federico Pipitone. Il giorno dei fatti, si sarebbero potuti trovare peraltro, presso la villa del dott. FALCONE, ove egli si recava saltuariamente, due Magistrati elvetici, il Pubblico Ministero Carla DEL PONTE ed il giudice istruttore Carlo LEHMANN, della giurisdizione sottocenerina, entrambi da pochi giorni a Palermo per completare un’attività giudiziaria, in sede di commissione rogatoria internazionale, consistente nell’esame di diversi soggetti, tra cui esponenti di spicco della criminalità mafiosa palermitana, per un’indagine collegata ai reati di criminalità organizzata di cui si occupava il dott. FALCONE nell’ambito della propria competenza territoriale. La particolare circostanza aveva indotto gli inquirenti a ritenere possibile, anche in considerazione dei pregressi intensi rapporti di cooperazione nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa tra l’autorità giudiziaria italiana e la magistratura elvetica, ed in particolare tra il dott. Giovanni FALCONE – recatosi mesi prima in Lugano per una rogatoria - ed i magistrati ticinesi sopra indicati, che l’attentato in questione fosse diretto a colpire, oltre che lo stesso FALCONE, anche i componenti della delegazione svizzera. Nel corso di una prima fase istruttoria, mirata a verificare anche tale ipotesi, venivano espletate approfondite indagini, per scoprire chi fosse transitato dalla scogliera, e disposte consulenze esplosivistiche che consentivano di ricostruire con sufficiente chiarezza le modalità esecutive del programmato attentato e risalire ai moventi del medesimo che apparivano comunque di matrice mafiosa. Peraltro, solo in una seconda fase ed a vari anni di distanza, le dichiarazioni di vari collaboratori di giustizia, tra cui innanzitutto Giovambattista FERRANTE e Francesco ONORATO, portavano ad individuare in concreto, BIONDINO Salvatore, MADONIA Antonino, GALATOLO Vincenzo e GALATOLO Angelo come autori materiali dell’attentato e RIINA Salvatore come mandante dell’azione delittuosa oltre ad altri soggetti non completamente identificati. In esito al complessivo svolgimento delle indagini, veniva poi emessa ordinanza custodiale dal GIP presso il Tribunale di Caltanissetta nei confronti dei predetti imputati. In data 15 giugno 1998 poi, veniva disposto il rinvio a giudizio degli stessi, innanzi la competente Corte d’Assise di Caltanissetta per rispondere dei reati di strage porto e detenzione illegale di esplosivi. Si costituivano parte civile l’Avvocatura dello Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, i Ministeri della Giustizia e degli Interni, la Regione Siciliana, Provincia Regionale di Palermo ed il Comune di Palermo, Maria FALCONE di Fresco, Anna FALCONE Cambiano (sorelle del defunto magistrato) e la dott.ssa Carla DEL PONTE. Nel corso del dibattimento di I° grado la Corte dava corso all’esame di consulenti tecnici, che riferivano dettagliatamente sull’esito delle indagini svolte, nonchè ai sensi dell’art. 210 c.p.p., di vari collaboratori di giustizia, tra cui BRUSCA Giovanni, Siino Angelo, Lo Forte Vito, Di Maggio Baldassare, Di Carlo Francesco, Favaloro Marco, Anzelmo Francesco Paolo, Ganci Calogero, Cancemi Salvatore, Mutolo Gaspare, oltre a FERRANTE Giovan Battista e ONORATO Francesco pure imputati, nonchè all’esame in dibattimento, o in sede di rogatoria internazionale, dei componenti la delegazione elvetica Tatiana Brugnetti Guglielmini (assistente del G.I dott. LEHMANN), Daniele Rusconi (perito contabile), Filippo Gianoni (difensore di Oliviero Tognoli unitamente al padre Avv. Franco non presente a Palermo), Claudio LEHMANN ed infine a quello di numerosi testi, e dell’imputato MADONIA Antonino. All’esito del dibattimento, in data 27 ottobre 2000 la Corte pronunciava sentenza, dichiarando RIINA Salvatore, BIONDINO Salvatore, MADONIA Antonino, ONORATO Francesco e FERRANTE Giovambattista colpevoli dei reati loro ascritti condannando RIINA, BIONDINO e MADONIA alla pena di anni 26 di reclusione ciascuno, l’ ONORATO alla pena di anni 10 di reclusione ed il FERRANTE, colpevole dei soli reati di porto e detenzione di esplosivo, ad anni 3, concedendo a questi ultimi due imputati la speciale diminuente di cui all’art. 8 dl. 152/91 ritenuta prevalente sulle aggravanti contestate, con applicazione delle pene accessorie e le conseguenti statuizioni risarcitorie civilistiche e con condanna in solido alle spese processuali ed a quelle di custodia cautelare preso?erta da ciascuno. La Corte assolveva ai sensi dell’art. 530, 2° comma c.p.p. invece, GALATOLO Vincenzo, ordinandone la scarcerazione ex art. 532 c.p.p. se non detenuto per altro titolo ed il nipote GALATOLO Angelo, già scarcerato dal Tribunale del Riesame, dai medesimi reati di strage e connessi, loro ascritti, escludendo la diretta responsabilità dei medesimi nell’attentato.

Una carica mortale. La Repubblica il 9 giugno 2020. Lo sviluppo delle indagini tecniche, si era sostanzialmente snodato attraverso due momenti investigativi, subito successivi ai primi accertamenti in loco di cui si è detto: la consulenza esplosivistica disposta dal PM procedente, ed affidata agli esperti Cabrino, De Logu, Lo Torto e Corazza, ed il fascicolo fotografico collazionato prima del disinnesco. Tali attività consentivano di scoprire come all'interno della borsa, lungo la chiusura lampo, era stato cucito un filo elettrico, con guaina nera spellata ad una estremità, in funzione di antenna ricevente. La cassetta di acciaio a forma di parallelepipedo contenente l’esplosivo ed i detonatori, presentava un foro nelle due pareti laterali più piccole attraverso cui passavano i reofori di innesco dei detonatori. L’esplosivo sopra indicato consisteva in candelotti di circa 25 centimetri di lunghezza per 25 millimetri di diametro, avvolti in carta cerata di colore avana con stampigliato il nome del prodotto. I candelotti di esplosivo rinvenuti all’Addaura risultavano fabbricati nello stabilimento di Ghedi (Brescia) della Società Esplosivi Industriali (SEI) entro l’anno 1985, atteso che i candelotti di Brixia B5 dopo quella data sono stati prodotti dalla medesima società presso lo stabilimento di Domus Novas (Cagliari) ed avvolti in carta cerata color magenta. Attraverso le specifiche indicazioni fornite dalla casa produttrice e le verifiche tecniche svolte, emergeva come ciascun candelotto contenesse 135 grammi netti di esplosivo, per cui si accertava  che  il  peso  della  carica  esplosiva totale corrispondeva a poco meno di 8 chilogrammi. In seguito alle considerazioni di carattere tecnico riferite in dibattimento dai consulenti, la Corte riteneva pacificamente che il circuito di attivazione della carica esplosiva fosse stato realizzato in modo assolutamente efficace al fine di assicurare l’attivazione dei detonatori e, quindi, lo scoppio della sostanza esplosiva contenuta nella borsa. In particolare, i reofori dei detonatori erano collegati - come poteva notarsi anche dai rilievi fotografici - ad una leva metallica a forma di “T” (peraltro non ritrovata a causa dell’esplosione "controllata" del TUMINO), mossa da un servocomando del tipo in uso per aeromodelli, che in posizione di attesa dell’impulso radio non toccava l'altra estremità del congegno elettrico destinato ad attivare i detonatori e che serviva appunto per chiudere il circuito di fuoco nell’istante in cui il servocomando radiocomandato, facendo ruotare la leva, avrebbe creato il contatto con l’estremità del circuito collegato all’accumulatore. Le verifiche sperimentali consentivano poi alla Corte di ritenere accertato che la ricevente, di fabbricazione giapponese ("SANWA", serie EXPERT), comunemente usata dagli aeromodellisti, era perfettamente funzionante e che l’alimentazione di tale congegno, sicuramente idoneo per attivare la carica esplosiva, era composta da quattro pile a secco marca MAZDA cilindriche da 1,5 Volt ciascuna collegate in serie, che assicuravano una autonomia in stand-by di oltre 20 ore. I rilievi compiuti e gli accertamenti tecnici condotti dai consulenti tecnici, consentivano poi di fugare ogni dubbio circa la possibile esistenza di meccanismi di attivazione della carica diversi dal radiocomando di cui era stata rinvenuta la ricevente. Nessuna traccia veniva rinvenuta infatti, del congegno antirimozione, attivabile “per contatto tra i manici della borsa”, ipotizzato dall'artificiere TUMINO, ed alimentato da una pila piatta da 4,5 Volt: tale possibilità veniva scartata dai consulenti e dalla stessa Corte anche in considerazione del fatto che le foto scattate dalla polizia scientifica di Palermo prima del disinnesco dell'ordigno, non rivelavano alcun filo elettrico sui manici della borsa che avesse potuto fungere da congegno antirimozione. Il verosimile errore del TUMINO peraltro ammesso in deposizione, poteva dunque essere determinato dall’aver scambiato il filo d’antenna della ricevente per quello di contatto di un possibile congegno antirimozione. Dalle indagini non emergeva neppure traccia alcuna di un possibile timer, che l’artificiere TUMINO, aveva sostenuto fosse presente nell’ordigno all’atto del suo intervento e che lo stesso aveva in un primo momento erroneamente indicato come potenziometro nella sua relazione di servizio, datata 1 luglio 1989, non essendo stato rinvenuto nessun reperto riconducibile al suddetto timer ritenuto dagli esperti un elemento del tutto inutile in presenza di radiocomando funzionante. Da ultimo, attraverso un apposito sopralluogo ed una prova pratica di scoppio con una carica esplosiva esattamente corrispondente a quella del fallito attentato, confinata in un contenitore metallico con caratteristiche corrispondenti alla cassettina in cui vennero rinvenuti i candelotti di esplosivo, i consulenti erano pervenuti alla conclusione - ritenuta dalla Corte assolutamente condivisibile perché fondata su argomentazioni tecniche incontestate e convincenti - che il raggio di letalità della carica dell'Addaura per effetto dell'onda d'urto e della vampa termica sarebbe stato di circa 2 metri ed avrebbe coinvolto, con esiti quasi certamente mortali, ogni persona che si fosse trovata al momento dello scoppio sulla scaletta e sulla piattaforma con le spalle rivolte al mare: la medesima onda d’urto poi, per effetto della proiezione di schegge pesanti, avrebbe avuto, nel raggio di circa 60 metri, esito parimenti mortale per ogni persona che si fosse trovata in tale ambito, in relazione alla parte del corpo raggiunta.

Quegli strani movimenti il giorno prima. La Repubblica il 10 giugno 2020. Ancora con riferimento alle investigazioni svolte nell’immediatezza dei fatti, aveva riferito innanzi la Corte di I° grado, il dott. Arnaldo LA BARBERA, all’epoca dirigente della squadra mobile della Questura di Palermo, descrivendo gli infruttuosi tentativi di risalire ai soggetti che potevano avere acquistato alcuni oggetti, come la muta, la borsa, le pinne e la maschera nonché quelli, sempre negativi, finalizzati ad individuare l’origine del telecomando e degli strumenti utilizzati per confezionare l’ordigno esplosivo. Parimenti improduttivo si erano poi rivelate le indagini seguite alle segnalazioni anonime che avevano indicato la presenza di un tale MADONIA, non collegato ad alcuno degli odierni imputati, armato di cannocchiale nel tratto di mare antistante la villa.

Il teste dr. Guido LONGO, all’epoca vice dirigente della squadra mobile, aveva precisato che dall’esame degli oggetti rinvenuti sulla piattaforma era emerso che la maschera da sub presentava il cinturino male allacciato e, come le pinne e la muta, appariva poco usata. La Corte riteneva invece di particolare utilità ai fini della ricostruzione della dinamica dell’attentato, le dichiarazioni rese da numerosi testi sentiti sia nel corso delle indagini che in dibattimento sui movimenti notati in prossimità della villa presa in affitto dal dott. FALCONE e circa gli spostamenti della delegazione svizzera presente per ragioni di giustizia a Palermo nei giorni immediatamente precedenti l’attentato. In particolare gli agenti addetti alla protezione del dott. FALCONE Gaetano Lo Re, Angelo Lo Piccolo e Gaspare Di Maria (escussi il 18 marzo 1999 ed il 7 febbraio 2000) riferivano che, intorno alle ore 16.00 del 20 giugno 1989, durante una perlustrazione eseguita prima che il magistrato uscisse dalla villa, avevano notato sugli scogli, la borsa sportiva, la muta, le pinne e la maschera poi rinvenute il mattino successivo, precisando che, tuttavia, non avevano avuto alcun sospetto poiché la zona era frequentata da bagnanti.

Le testimonianze SCOLARO e PALIANO, confermavano pure, la presenza sulla scogliera della borsa e di alcuni ragazzi sulla stessa piattaforma ove il giorno successivo era stato poi rinvenuto l'ordigno esplosivo.

I testi LONGO e LA BARBERA avevano poi aggiunto come taluni agenti di scorta avessero notato un gommone, probabilmente carico, nel tratto di fronte alla piattaforma a mare tra  le 11,00 e le 14,30 del 20 giugno spinto da due persone in acqua con mute subacquee. La circostanza era stata poi confermata dagli agenti PERRONE, SCINETTI, CORRADI e BERTOLINI, i quali avevano precisato che il colore del gommone era arancione pur fornendo versioni leggermente discordanti quanto agli orari di avvistamento.

La Corte di I° grado dava altresì atto - riferendo della deposizione resa dall’isp. Luigi Siracusa, incaricato di predisporre le misure di protezione nei confronti dei magistrati esteri - degli accertamenti dibattimentali mirati a seguire gli spostamenti dei componenti della delegazione svizzera di cui facevano parte il giudice Claudio LEHMANN ed il PM Carla DEL PONTE, nei giorni precedenti l’attentato, e dell’invito che il dottore FALCONE aveva rivolto a detti componenti a trascorrere parte della giornata del 20 giugno presso la villa dell’Addaura per prendere un bagno in mare. Alla luce degli elementi raccolti in istruttoria e prima riassunti dunque, la Corte d’Assise non riteneva acclarate con assoluta certezza le modalità di trasporto dell’ordigno sulla piattaforma dell’Addaura, escludendo la prova dell’e?ettivo impiego per il trasporto del piccolo gommone spinto a nuoto e notato il 20 giugno: nessuno dei testi aveva infatti visto il gommone - presenza comunque usuale sulle spiagge in quel periodo - sbarcare a terra. La Corte riteneva in ogni caso, poco verosimile il trasporto via mare, a causa dei gravi rischi per l’efficienza dell’ordigno stesso ed attribuiva un ruolo meramente ‘coreografico’ e di tutela da scoperte accidentali dell’esplosivo, all’attrezzatura subacquea collocata  in prossimità dell’ordigno. Maggiormente certo veniva invece ritenuto, il tempo di collocazione dell’ordigno, poiché, dagli esami testimoniali dei vari agenti di vigilanza e di alcuni bagnanti era emerso che la borsa contenente l’esplosivo, rinvenuta al mattino del 21 giugno 1989, era già stata notata prima delle ore 16,00 del giorno precedente. Dalle dichiarazioni sostanzialmente convergenti rese dai componenti della delegazione svizzera risultava poi, che proprio dopo la pausa pranzo del 20 giugno era stata ventilata la possibilità di recarsi all’Addaura, accettando l’invito del giudice FALCONE. Alla luce di quanto emerso in dibattimento dunque, la Corte riteneva frutto di “straordinaria coincidenza temporale” la collocazione dell’ordigno attivo sulla piattaforma dell’Addaura e la visita dei magistrati svizzeri, poi sfumata solo per una serie di coincidenze, ritenendo così provato che gli attentatori avessero potuto sfruttare proprio la notizia - misteriosamente trapelata - dell’invito del dott. FALCONE per organizzare l’attentato, con quelle modalità esecutive ed in un giorno non festivo in cui non si poteva ragionevolmente prevedere una discesa al mare della vittima designata. La ritenuta coincidenza di tempi, autorizzava dunque la Corte a ritenere possibile che l'attentato potesse essere finalizzato in modo diretto a colpire anche i magistrati che componevano la delegazione svizzera e soprattutto la dott.ssa DEL PONTE già oggetto di minacce e di cui erano noti i legami investigativi con il dott. FALCONE nell’opera di contrasto alla criminalità organizzata internazionale. Poiché peraltro risultava dimostrato, che la presenza dei due magistrati era in realtà assolutamente incerta, avendo aderito all’invito con entusiasmo la sola segretaria BRUGNETTI, veniva ritenuta più credibile - dai Giudici di prime cure - la diversa ipotesi di un’intenzione mirata all’eliminazione certa del  dott. FALCONE e solo eventuale di quei componenti della delegazione svizzera che avessero accettato l’invito, conseguendo in tal caso, a prescindere dal soggetto colpito, l’ulteriore  risultato, prezioso per gli interessi strategici dell’intera organizzazione, di potere intimorire le Autorità elvetiche e di raffreddare così la cooperazione avviata a livello giudiziario ed investigativo.

Il pentito Ferrante e i candelotti. La Repubblica l'11 giugno 2020. Gli elementi emersi nella prima fase delle indagini, venivano dunque ritenuti, dagli investigatori prima e dalla Corte d’Assise poi, sufficienti per individuare la vittima designata e per inquadrare genericamente il fatto nelle dinamiche della associazione mafiosa “Cosa Nostra” operante in varie province siciliane, ma non idonei ad identificare autori e mandanti dell’attentato, né a comprendere il reale significato di detta azione ed il suo collegamento con altri episodi verificatisi nel periodo precedente e successivo. Di conseguenza l’attentato, rimaneva quindi, per lungo tempo, avvolto nel mistero più fitto. L’inizio della collaborazione di Giovambattista FERRANTE, uomo d’onore di San Lorenzo, collocabile nel luglio 1996, dava nuovo impulso alle indagini fornendo notizie concrete e precise circa le modalità di reperimento dell’esplosivo utilizzato per l’attentato. Poco dopo nel successivo mese di settembre, Francesco ONORATO, già reggente (ovvero responsabile in assenza del titolare designato) della famiglia mafiosa di Partanna Mondello, forniva il proprio apporto collaborativo - ritenuto decisivo nell’impugnata sentenza - confessando il proprio diretto coinvolgimento nella fase esecutiva dell’attentato, concretizzatosi essenzialmente in pattugliamenti e appostamenti sul luogo del delitto, e raccontando in particolare di una riunione operativa, svoltasi per organizzare l’azione criminosa, presso l’abitazione palermitana di Mariano Tullio TROIA. Altri collaboratori di giustizia avrebbero poi fornito i propri singoli contribuiti per far luce sull’episodio delittuoso fornendo notizie apprese però solo “de relato”. Le dichiarazioni di ONORATO e FERRANTE, tra loro in toto convergenti, venivano ritenute, la fonte di prova primaria, avendo essi parlato della rispettiva partecipazione alla preparazione ed alla materiale esecuzione del crimine, unitamente a quelle di Giovanni Brusca per il ruolo di vertice rivestito in “cosa nostra”. La Corte compiva dunque un approfondito iter attraverso le singole dichiarazioni dei collaboranti esaminati - cui evidentemente è solo il caso di richiamarsi - giungendo a determinate conclusioni che verranno in seguito riassunte. Nel contesto della sua scelta di collaborazione con l’A. G. ammetteva di avere fatto parte di “Cosa Nostra” e di essere stato inserito nella “famiglia” di S. Lorenzo, confessando di avere partecipato attivamente a numerosi e gravissimi fatti di sangue per i quali non era, all’epoca delle prime dichiarazioni, neppure indagato. Con riferimento specifico all’attentato dell’Addaura il FERRANTE narrava che, circa tre giorni prima dell’attentato, Salvatore BIONDINO, all’epoca reggente il mandamento, gli aveva chiesto di aiutarlo per reperire un certo quantitativo di esplosivo che doveva essere fornito ad Antonino MADONIA, figlio di Francesco, capo del mandamento di Resuttana: insieme al BIONDINO dunque, lo stesso si era recato presso il deposito clandestino sito in contrada Malatacca, vicino all’ospedale “Cervello” nel territorio del mandamento, cui potevano accedere solo loro due e pochi altri. Il collaboratore, dichiarava di non sapere se il BIONDINO fosse stato a conoscenza dello scopo per il quale doveva essere impiegato l’esplosivo, confermando così - a giudizio della Corte di I° grado - l’assenza di ragioni di risentimento nei confronti del principale accusato. Egli si limitava a riferire di avere da lui appreso che la richiesta proveniva direttamente da MADONIA Antonino e di avere ritenuto, in base alla sua esperienza, che il BIONDINO fosse stato autorizzato a consegnare l’esplosivo nella disponibilità del mandamento direttamente dal RIINA, sotto le cui direttive il BIONDINO, reggeva il mandamento in assenza del capo Giacomo Giuseppe GAMBINO, all’epoca detenuto. Ampia e dettagliata descrizione veniva poi fornita della provenienza dell’esplosivo procurato denominato Brixia e confezionato con carta oleata marrone. Di grande importanza veniva poi ritenuto dalla Corte d’Assise, il contributo relativo alla provenienza della partita di esplosivo da cui era stato prelevato il quantitativo fornito al MADONIA: in tal senso il FERRANTE ricordava che, nel 1985, prima dell’attentato al giudice Carlo PALERMO, su incarico del Gambino, egli, in compagnia di Salvatore BIONDINO e dei cugini, Salvatore Biondo (cl. 1955) “il corto” e Salvatore Biondo (cl. 1956) “il lungo”,uomini d’onore di San Lorenzo, avevano prelevato, utilizzando ben 3 vetture, da tale Bruno Calcedonio, uomo d’onore della famiglia di Mazara del Vallo, un quantitativo di circa 150-200 kg di esplosivo BRIXIA caricandolo sulla Renault 4) del BIONDINO e recandosi a custodirlo prima alle “case Ferreri”, poi in C.da Malatacca. Di tale esplosivo il collaborante aggiungeva di averne lui stesso utilizzati tra il 1989 ed il 1990 due o tre candelotti per compiere, sempre con BIONDINO ed i Biondo, un atto intimidatorio ai danni della ditta CO.GE.MI. di cui titolare era il dott. Nistico che non era puntuale nel versare il “pizzo”. Infine aggiungeva che il rimanente quantitativo di esplosivo del tipo Brixia, unitamente a due telecomandi, era stato da lui stesso distrutto verso la fine del 1993, insieme ai cugini Biondo, sciogliendolo in acqua e disperdendolo negli scarichi fognari.

Il FERRANTE precisava poi di avere avuto la certezza che l’esplosivo da lui fatto avere ad Antonino MADONIA, tramite BIONDINO, fosse proprio quello rinvenuto all'Addaura quando, nel corso del processo per la strage di Capaci, aveva riconosciuto nelle fotografie dei candelotti di Brixia ritrovati all’Addaura, quelli che egli aveva prelevato nel deposito di Malatacca. In relazione alle modalità esecutive, il FERRANTE dichiarava di non sapere chi avesse collocato l’ordigno pur nella consapevolezza che il MADONIA per l’esperienza maturata e per i numerosi motoscafi posseduti, fosse stato “l’artefice di tutto” ed anche in considerazione del fatto che proprio lui aveva richiesto l’esplosivo tramite il BIONDINO, e che fosse già stato, in precedenza, destinatario dell’incarico di uccidere il giudice FALCONE (tentativo attuato con l’impiego di una carabina quando il magistrato aveva preso in locazione una villa in località Valdesi). Gli elementi di riscontro oggettivo ed esterno ravvisati dalla Corte a tali dichiarazioni sono così riassumibili, dovendosi subito precisare come talune imprecisioni nella descrizione dimensionale dei candelotti sono state ritenute superate o comunque superabili dal complessivo tenore della versione resa. la Corte ha evidenziato innanzi tutto la coincidenza tra la descrizione dell’esplosivo e la reale consistenza del medesimo come individuato dai consulenti; in secondo luogo la effettiva untuosità dei candelotti e solubilità in acqua del medesimo composto; inoltre è stata verificata - sempre tramite i consulenti - l’utilizzazione per gli attentati compiuti nel trapanese da Cosa Nostra di esplosivo della medesima componente del tipo Brixia (nitrato di ammonio) ed analogo riscontro è stato fornito con riferimento all’attentato alla CO GE MI sempre riferito dal FERRANTE; di importanza relativa per il caso di specie e quindi solo marginalmente rilevante, è stata poi ritenuta la effettiva disponibilità di imbarcazioni marine in capo ai MADONIA.

Brusca e quei “picciutteddi” di Madonia. La Repubblica il 12 giugno 2020. Francesco ONORATO ha iniziato la propria collaborazione nel settembre del 1996, dopo il FERRANTE, ammettendo di avere fatto parte di “Cosa Nostra” come uomo d'onore della famiglia di Partanna Mondello, inserita nel mandamento di San Lorenzo, giungendo a ricoprire la carica di reggente dal 1987  fino al suo arresto, avvenuto alla fine del 1993, per l’omicidio dell’On. LIMA. Le dichiarazioni rese dal collaboratore, considerato personalmente credibile al pari del FERRANTE, sono state valutate dalla Corte, complessivamente attendibili sotto il profilo intrinseco così come apprezzabili sono state ritenute le motivazioni che hanno guidato la sua scelta collaborativa e di analogo giudizio positivo, sotto il profilo probatorio, ha beneficiato la convergenza tra le dichiarazioni dell’ONORATO e quelle del FERRANTE, ritenute fra l’altro dalla Corte d’Assise, scevre da qualsiasi inquinamento o condizionamento reciproco. ONORATO, con riferimento specifico all’episodio delittuoso di cui è causa, si era riferito ad una riunione preparatoria diretta ad organizzare l’esecuzione dell’attentato alla vita del dott. FALCONE presso l’abitazione di Mariano Tullio TROIA, alla presenza anche di questi, vicino all’ospedale Cervello, cui erano intervenuti oltre al dichiarante rimasto però in disparte, l’odierno appellante Antonino MADONIA, Salvatore BIONDINO che non ha proposto impugnazione facendo acquiescenza alla condanna inflittagli in primo grado e Vincenzo GALATOLO assolto in primo grado con sentenza gravata sul punto dall’appello del P.G. Al termine dell’incontro, BIONDINO lo aveva riservatamente incaricato di eseguire dei sopralluoghi, anche di sera, nel territorio dell’Addaura, per accertare se vi fossero movimenti di organi di polizia, confidandogli che si doveva far “saltare FALCONE in aria” (sentenza di 1° grado f. 167 verbale 16-03-1999) ed esortandolo ad assicurarsi che i suoi familiari non transitassero nella zona del programmato attentato, per recarsi allo stabilimento balneare “La Marsa”. Il collaborante, nel corso di detti sopralluoghi, in esito ai quali aveva riferito al suo mandante che la situazione era tranquilla, aveva poi incrociato Antonino MADONIA, Vincenzo GALATOLO, il nipote Angelo, lo stesso Salvatore BIONDINO ed una volta, incontrato casualmente anche il FERRANTE come poi precisato innanzi a questa Corte. Aveva poi riferito che Angelo GALATOLO - giovane nipote di Vincenzo - con la sua vettura Y10 di colore scuro si recava con una certa frequenza allo stabilimento “La Marsa”. Lo stesso ONORATO - il quale precisava di avere proseguito nei sopralluoghi fino al giorno della scoperta dell’esplosivo - avrebbe poi suggerito inutilmente al BIONDINO la opportunità di utilizzare, come luogo di appostamento per gli attentatori la zona del “Belvedere” sita sul vicino Monte Pellegrino, che avrebbe consentito una ottima visuale sul tratto di costa dell’Addaura teatro dell’attentato. Nel corso di un incontro presso l’hotel Villa Igiea, l’ONORATO ricordava di essere stato messo in guardia da GALATOLO V. affinchè evitasse di far passare i suoi familiari lungo la strada dell’Addaura, perché doveva “saltare la bomba”, senza tuttavia fare riferimento specifico al dott. FALCONE come vittima designata del progetto delittuoso. Aggiungeva poi, che anche Angelo GALATOLO, aveva dimostrato di essere addentro all’organizzazione dell’attentato, vantandosi con  i suoi fratelli, Salvatore e Domenico ONORATO, di avere avuto un ruolo nella vicenda delittuosa, e confidando addirittura a Domenico, con il quale aveva un rapporto di assidua frequentazione, di essere stato proprio lui “a mettere la borsa al dott. FALCONE”. Di tali pericolose “vanterie” il collaboratore aveva informato il BIONDINO, il quale, visibilmente irritato, aveva censurato detto comportamento, pericolosamente imprudente oltre che contrario ad ogni regola mafiosa. Sostituto del padre Bernardo a capo del mandamento di S. Giuseppe Jato, veniva arrestato il 20 maggio 1996 in località Cannatello, ed iniziava anch’egli la propria travagliata collaborazione nell’estate di quell’anno come i due precedenti soggetti. Le dichiarazioni del BRUSCA venivano valutate dalla Corte pienamente attendibili in quanto il collaboratore aveva definitivamente fugato le originarie ragioni di perplessità che si erano in un primo tempo profilate. Con riferimento all’attentato per cui è processo, BRUSCA forniva in sostanza, due indicazioni:

una prima di carattere generale sulla volontà in capo a “Cosa Nostra” di eliminare il dott. FALCONE già da tempo maturato;

una seconda assai specifica relativa ad una conversazione nel corso di una riunione seguita alla esecuzione della strage di Capaci da cui si poteva evincere che Salvatore BIONDINO, in presenza di Salvatore RIINA, nel raffrontare l’esito dell’ultima azione delittuosa con quello, deludente per l’organizzazione, dell’attentato dell’Addaura, si era espresso in modo fortemente critico nei confronti dell’operato in quest’ultima azione di Antonino MADONIA, dicendo testualmente che l’attentato di Capaci sarebbe stato inutile se il MADONIA non si fosse affidato in occasione dell’Addaura a dei “picciutteddi”, ovvero dei ragazzini. Il RIINA aveva risposto che la questione era ormai chiusa, invitandolo a non tornare sull’argomento.

Le circostanze richiamate dal collaborante venivano dunque ritenute dai Giudici di prime cure di particolare utilità e dotate di una elevata attendibilità intrinseca, per la loro logicità interna, la mancanza di animosità nei confronti dei soggetti accusati, la assoluta coerenza con le dichiarazioni di altri collaboratori.

Tutte le voci dentro Cosa Nostra. La Repubblica il 13 giugno 2020.

Francesco DI CARLO. Collaboratore anch’egli dal giugno 1996, aveva rivestito un ruolo di particolare rilievo – rappresentante della famiglia di Altofonte – prima di trasferirsi, per non chiariti contrasti interni a “Cosa Nostra”, in Inghilterra, dove era stato poi arrestato nella metà degli anni Ottanta per un grosso traffico di stupefacenti. Pur con le perplessità legate dunque all’atipica esperienza del DI CARLO, la Corte riteneva le sue dichiarazioni, già oggettivamente riscontrate in numerosi altri procedimenti, positivamente caratterizzate da logicità, costanza e coerenza e dunque dotate di elevato valore di attendibilità ed importanza, in considerazione dell’alto livello di conoscenze acquisite grazie al ruolo di primo piano svolto all’interno di “Cosa Nostra” fino ai primi anni ’80 ed ai contatti costantemente mantenuti con i fratelli ed il cugino Antonino Gioè, tutti investiti di ruoli operativi nell’ambito della consorteria. Il collaborante narrava così che suo fratello, Giulio DI CARLO, gli aveva detto che nell’ambito di “Cosa Nostra”, per scopi dichiaratamente infamanti, si era deciso di spargere la voce che era stato lo stesso dott. FALCONE a inscenare un finto attentato per acquistare maggiore prestigio anche all’interno degli ambienti giudiziari e per contrastare il calo di tensione nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa. Il cugino Antonino Gioè gli aveva confermato che in realtà l’attentato era stato organizzato da “Cosa Nostra” e che non vi avevano preso parte uomini d’onore dei mandamenti di Corleone e S. Giuseppe Jato, desumendo attraverso le proprie conoscenze delle regole mafiose e la personale esperienza, che l’attentato non poteva che essere opera della famiglia mafiosa dei MADONIA, particolarmente vicina ai “corleonesi” di Salvatore RIINA, dato che era stato eseguito sul loro territorio.

Vito LO FORTE per lungo tempo legato da rapporti criminali a diversi esponenti di potenti famiglie mafiose come quelle dei MADONIA, dei Fidanzati e dei GALATOLO, il LO FORTE non era però mai stato affiliato a Cosa Nostra. Aveva confessato la propria responsabilità in ordine a molti fatti delittuosi e le sue dichiarazioni venivano positivamente valutate dalla Corte nonostante fosse emerso in dibattimento un omicidio commesso dal LO FORTE dopo l’avvio della collaborazione. In relazione ai fatti dell’Addaura, il collaboratore, - ritenuto intrinsecamente attendibile dai primi giudici, sentenza f. 200, -dichiarava di avere ricevuto nel dicembre 1989, mentre si trovava agli arresti domiciliari presso l’abitazione della sorella, la visita di Angelo e Vito GALATOLO, cugini, in quanto, rispettivamente, figli di Giuseppe e di Vincenzo e, nell’occasione aveva parlato con il primo di loro, sia delle indagini in corso sull’omicidio di tale Matteo Corona - effettivamente ucciso il 07/12/1989 - cui aveva partecipato, sia dell’attentato dell’Addaura, in relazione al quale il giovane GALATOLO gli aveva detto che era stato proprio lui, insieme ad altri, a collocare la bomba e che l’azione era stata decisa per intimidire il giudice FALCONE ed i componenti della delegazione svizzera venuta in Sicilia. Lo stesso collaborante affermava però di ben conoscere le vanterie del giovane GALATOLO e quindi di non poter essere certo che quanto appreso fosse la verità.

Angelo SIINO. Con riferimento specifico alla vicenda dell’Addaura, Angelo SIINO, soggetto non inserito ritualmente nell’associazione mafiosa ma certamente assai attivo come emerso nel corso di altri procedimenti, nel settore degli appalti e dei contatti con il mondo politico contiguo a Cosa Nostra, ha dichiarato, in sostanza, che mentre andava in onda un programma televisivo in cui venivano mostrate le immagini di tale fallito attentato, nel 1993 a Termini Imerese, il GALATOLO Vincenzo, suo co-detenuto, aveva avuto una forte reazione di stizza, lasciandosi andare ad espressioni scurrili ed offensive nei confronti del dott. FALCONE, attraverso cui egli aveva ritenuto di arguire che il suo compagno di detenzione aveva partecipato in modo diretto alla esecuzione dell’attentato. Peraltro il collaborante precisava di non potere escludere che si trattasse di una pura messa in scena di un suo compagno di detenzione.

Falcone era il nemico numero uno. La Repubblica il 14 giugno 2020. Le conclusioni dei Giudici di primo grado in esito alla compiuta istruttoria dibattimentale possono riassumersi in due tronconi essenziali. Il primo di essi è sostanzialmente incentrato, sul contesto storico nel quale era maturato l’attentato, nell’ambito del quale la Corte ha approfondito, una volta ritenuto di individuare con certezza in Cosa Nostra la matrice originaria del crimine, le ragioni per cui gli associati si erano determinati a commettere, in quel luogo ed in quel momento, l’attentato contro un personaggio, certamente da molto tempo “nel mirino”, e nei cui confronti erano stati avviati in precedenza numerosi progetti omicidiari. Gli stessi collaboratori avevano infatti dichiarato, come posto in evidenza nell’impugnata sentenza, quali e quanti fossero stati i molteplici tentativi di uccidere il dott. FALCONE già in preparazione da alcuni anni sottolineando concordemente la circostanza, nota all’interno dell’organizzazione, che la vittima rivestiva un posto di assoluta preminenza nell’elenco dei soggetti da eliminare, sin dai primi anni Ottanta. ONORATO riferiva espressamente di un progetto degli anni 83/84 risalente al GAMBINO Giacomo Giuseppe, il quale aveva dato incarico di studiare le abitudini del magistrato in un periodo in cui lo stesso era stato notato recarsi con una certa frequenza in via Cristoforo Colombo. Gaspare MUTOLO aveva menzionato, un analogo progetto che doveva essere eseguito con l’impiego di un lanciamissili verso gli anni 84 - 85 lungo la strada all’interno del parco della “Favorita” che il magistrato percorreva per recarsi in una villa nella zona di Valdesi ove soggiornava nel periodo estivo. Giovambattista FERRANTE raccontava di avere ricevuto nel periodo 83 - 84 sempre dal Gambino, l’incarico di studiare la possibilità di colpire il giudice FALCONE durante il suo soggiorno in una villa a Valdesi di fronte al ristorante “La Sirenetta”, di cui all’epoca era direttore tale Minneci, cognato del collaboratore. Giovanni BRUSCA riferiva di diversi progetti di eliminazione fisica del dott. FALCONE, alcuni dei quali giunti in avanzata fase di esecuzione ed in particolare di un primo attentato che si sarebbe dovuto eseguire nel 1983 presso il palazzo di giustizia di Palermo, di un secondo che si pensava di compiere mentre il dott. FALCONE si recava in una palestra di via Belgio e di uno ulteriore che prevedeva l’uso di un bazooka o di un fucile da caccia grossa. Il collaborante aveva poi narrato di specifico mandato ricevuto nel 1983, unitamente ad Antonino MADONIA, da Salvatore RIINA e poi revocato per dar spazio ad altre priorità, di seguire i movimenti del dott. FALCONE in vista di un attentato che si sarebbe dovuto compiere, utilizzando come base logistica uno studio notarile di fronte al palazzo di giustizia. Infine aveva raccontato di un ennesimo progetto di attentato con uso di armi da fuoco tradizionali che si doveva eseguire lungo la strada che conduce a Castellammare, ove il dott. FALCONE a volte si recava a trovare un amico. Il secondo aspetto approfondito dalla Corte, attiene gli specifici ruoli attribuiti agli odierni imputati e dunque le ragioni che, appunto uti singuli, potevano animarli a compiere l’attentato anche in rapporto ai diversi ruoli rivestiti in seno all’organizzazione. Dunque, la matrice dell’attentato era stata immediatamente ed intuitivamente ricollegata alla corposissima attività di contrasto alla criminalità organizzata portata a  compimento dal dott. FALCONE. In tale ambito, alcuni elementi spiccavano particolarmente, a giudizio della Corte d’Assise, che ne evidenziava la rilevanza:

il ruolo del dott. FALCONE in Palermo, di punto di riferimento per tutti coloro, magistrati ed organi inquirenti, che erano impegnati nella azione di contrasto alla organizzazione mafiosa “Cosa Nostra”, per le riconosciute capacità di aver allargato e reso trasversali i confini di tale azione, anche a livello internazionale;

le pesanti condanne inflitte in numerosi processi all’esito di attività inquirenti condotte dal dott. FALCONE (quello contro le famiglie mafiose Spatola, Inzerillo e Gambino, quello noto come primo maxi- processo agli esponenti di “Cosa Nostra”, quello relativo alla operazione cd. “Big John”, contro le famiglie mafiose dei MADONIA e dei GALATOLO, concernente un carico di 600 kg. di cocaina);

i numerosi procedimenti ancora in corso in cui era impegnato il dott. FALCONE al tempo dell’attentato per cui si procede, (quelli sull’omicidio dell’On. Piersanti Mattarella e  di Pio La Torre, sull’attività illecite dell’ex sindaco Vito Ciancimino, e sull’omicidio dell’ex Sindaco Insalaco);

L’avere avviato una attiva cooperazione con autorità di varie nazioni (ed in particolare con gli USA e la Svizzera) estendendo, come già detto, i confini anche geografici della lotta al crimine organizzato ed al riciclaggio del denaro sporco.

La Corte, nell’affrontare le singole dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia con riferimento al movente dell’attentato premetteva – sotto il profilo valutativo - come la rilevanza di esse dovesse ricondursi non solo al grado di attendibilità dei soggetti, ma anche al livello dagli stessi occupato nella gerarchia ma?osa ed alla conseguente possibilità di acquisire le relative conoscenze. Ciò posto, veniva osservato come le dichiarazioni rese sul punto da ONORATO e LO FORTE pur provenendo da soggetti dalle limitate conoscenze strategiche dell’organizzazione mafiosa, tuttavia, meritavano una particolare attenzione poiché entrambi gravitavano nei due mandamenti di San Lorenzo e Resuttana più direttamente coinvolti - territorialmente e logisticamente - nell’esecuzione dell’attentato. L’ONORATO aveva ammesso infatti di ignorare se vi fossero motivi particolari e specifici per uccidere il dott. FALCONE, aggiungendo, però, che le famiglie mafiose dei MADONIA e dei GALATOLO (della famiglia dell’Acquasanta rientrante in tale mandamento), nel cui territorio si trova la zona dell’Addaura, all’epoca dell’attentato gestivano un imponente traffico internazionale di stupefacenti e che negli anni tra il 1987 ed il 1988, era stata sequestrata una nave (la Big John) carica di cocaina appartenente ai MADONIA ed ai GALATOLO. Analogamente il LO FORTE, precisava che il riciclaggio degli introiti relativi al traffico di stupefacenti avveniva in Svizzera, soprattutto ad opera di Gaetano Scotto e Vincenzo GALATOLO, ed in tal senso poneva specificamente in correlazione il fallito attentato dell’Addaura con quanto appreso da Giuseppe FIDANZATI e  Gaetano SCOTTO relativamente alla volontà di colpire i magistrati svizzeri che erano venuti in Sicilia per indagare sul riciclaggio: la Corte non mancava peraltro di sottolineare come il LO FORTE forse l’unico tra i collaboranti ad indicare i magistrati elvetici come obiettivi diretti ed immediati dell’attentato.

Di   ben   maggiore   spessore   venivano   ritenute, invece,   le   dichiarazioni   relative   al  movente dell’attentato rese dal collaboratore di giustizia Giovanni BRUSCA, tenuto conto anche del livello di vertice rivestito in “cosa nostra”, oltre che del legame tra la sua famiglia ed il gruppo “corleonese” di RIINA. Egli riferiva, come già detto, che l’eliminazione fisica del dott. FALCONE era già stata decisa in “Cosa Nostra”  sin  dal 1983 per una serie di ragioni direttamente collegate all’attività giudiziaria del predetto, facendo espresso riferimento al primo maxiprocesso palermitano, alla collaborazione di BUSCETTA, CONTORNO e MANNOIA, al coordinamento internazionale delle indagini sul traffco di droga nonché all’approfondimento di quelle sugli esattori Salvo, sui cavalieri del lavoro Costanzo e su Vito Ciancimino. Di limitato spessore venivano ritenute invece dalla Corte, sotto il profilo della causale, le dichiarazioni di Baldassare DI MAGGIO, Salvatore CANCEMI e Gaspare MUTOLO.

La Corte di I° grado, giudicava poi scarsamente pertinenti, perché permeate da misteriose risvolti, le dichiarazioni del DI CARLO sui moventi che avevano determinato l’attentato. In tal senso il collaboratore, aveva infatti accennato ai contatti avuti con esponenti dei servizi segreti internazionali, apparentemente interessati alla vicenda, senza però fornire elementi di chiarezza. Significativa veniva ritenuta piuttosto, la considerazione manifestata dal DI CARLO il quale, dopo avere appreso che l’attentato si era svolto all’Addaura in una zona che ricade nel territorio del mandamento di Resuttana, ne aveva tratto la immediata conseguenza, che dovevano esservi coinvolti i MADONIA a conferma della regola fondamentale della territorialità delle aggregazioni locali in cui si articola l’organizzazione mafiosa, dalla quale discendeva - secondo l’impugnata sentenza - il corollario che nessun delitto tanto più, come quello in esame, potesse essere commesso sull’area di un qualsiasi mandamento senza l’apporto dei vertici del medesimo. Infine le dichiarazioni di Angelo SIINO venivano considerate di limitata rilevanza nella parte relativa ad un sorta di “sfogo” fatto da GALATOLO Vincenzo, durante una comune detenzione (dato riscontrato oggettivamente dep. Dr. Mario BO del 18-10-99) nella casa circondariale di Termini Imprese. Il Siino aveva peraltro significativamente precisato che “cosa nostra” era fortemente allarmata dalle indagini avviate dal dott. FALCONE nel settore di appalti e politica. Conclusivamente, secondo i Giudici di I° grado, dalle dichiarazioni dei vari collaboratori nel loro complesso, emergevano chiaramente  gli specifici motivi di timore di “cosa nostra” per i propri peculiari interessi gravemente compromessi dalle iniziative giudiziarie assunte dal dott. FALCONE, nelle quali, di conseguenza, la ideazione ed esecuzione dell’attentato dovevano inevitabilmente affondare le proprie radici.

E prima le lettere del Corvo. La Repubblica il 15 giugno 2020. Esaurito tale quadro di valutazioni sui fatti dell’Addaura, l’impugnata sentenza si dilungava nell’approfondimento di una serie di episodi, dichiarazioni, misteriose intromissioni e depistaggi pur solo indirettamente ricollegabili alle vicende per cui è processo. La Corte pur ancorando ad una precisa matrice, il movente dell’attentato, non trascurava altri inquietanti scenari, sulla scorta di quanto emerso da talune testimonianze, che potevano ben costituire, secondo i Giudici di I° grado, indice della volontà di abbattimento dei simboli dell’opera di contrasto alla mafiosa attraverso un attacco binario proveniente dall’esterno (gli attentati) e dall’interno (la sottile politica di delegittimazione). Sotto questo secondo profilo venivano, pertanto, evidenziati in primo luogo la nota vicenda delle cd. lettere del “corvo” e, di seguito, i numerosi attacchi istituzionali subiti dal dott. FALCONE, in occasione della sua candidatura per le elezioni del CSM, della copertura del posto di Consigliere Istruttore dopo il pensionamento di Antonino Caponetto, ed ancora in occasione della designazione dell’Alto commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa. La Corte ravvisava soltanto una tenue correlazione tra questi fatti e l’attentato dell’Addaura – conferendo specifico rilievo al solo episodio delle lettere del cd “corvo” che aveva immediatamente preceduto, tra maggio e giugno ‘89, l’episodio di cui è corso – sottolineando però, come anche tali attacchi avessero comunque contribuito, sotto il profilo oggettivo, ad alimentare il contesto di delegittimazione del soggetto da colpire che, attraverso l’isolamento istituzionale, favorisce da sempre le azioni delittuose eclatanti della criminalità mafiosa. In ogni caso, secondo la stessa Corte d’Assise, tali risultanze dibattimentali, non fosse altro che per la possibile connessione territoriale, logica, logistica o semplicemente temporale con le vicende dell’Addaura, apparivano meritevoli di un analitico esame.

L’arresto di Salvatore Contorno e le lettere del c.d. “Corvo”. Verso la fine di maggio del 1989 veniva dunque arrestato in Sicilia, unitamente ad altro latitante di nome GRADO Gaetano, Salvatore CONTORNO noto collaboratore di giustizia, trasferitosi da tempo negli USA dopo la celebrazione del primo maxiprocesso. Pochi giorni dopo venivano indirizzate a varie autorità una serie di missive anonime scritte a macchina, le cd. lettere del “corvo”, che contenevano gravissime accuse - poi rivelatesi totalmente infondate - nei confronti di vari magistrati ed appartenenti alla polizia, tra cui innanzitutto il dott. FALCONE ed il dott. DE GENNARO, accusati di avere agevolato il ritorno in Sicilia del CONTORNO per favorirne l’opera di contrasto alla fazione corleonese e rendere possibile l’eliminazione fisica dei capi RIINA e PROVENZANO, ponendo in diretta correlazione il rientro del collaborante con una serie di omicidi che effettivamente si erano registrati nel territorio di Bagheria, tra il marzo ed il maggio del 1989, ai danni di persone legate alle cosche mafiose uscite vincenti dalla seconda “guerra” dell’81/82. La Corte non mancava di sottolineare come i testi La Barbera, Manganelli e lo stesso De Gennaro, avevano escluso in dibattimento qualsiasi collegamento tra gli omicidi di Bagheria ed il CONTORNO pur avendo ipotizzato tale pista inizialmente, per essere appartenuto alle cosche “perdenti”, anche il GRADO. Su tale vicenda aveva pure riferito il dott. SICA dal 1988 Alto Commissario per la Lotta al Crimine Organizzato ricordando come il dott. FALCONE aveva attribuito una grande importanza agli anonimi del “corvo” avendogli manifestato la convinzione che l’autore potesse essere il collega Alberto DI PISA, all’epoca sostituto procuratore a Palermo e peraltro poi processato, scagionato dall’addebito e definitivamente assolto dalla Corte di Appello di Caltanissetta con la sentenza 14/12/93 (irrevocabile dal 13.3.94) dopo la condanna subita in I° grado dal Tribunale nisseno. La verosimile provenienza da ambienti istituzionali delle lettere e la natura di attacco verso i soggetti più esposti nella lotta al crimine, erano state sottolineate in dibattimento da tutti   i testi escussi sul punto tra cui il Gen. MORI i Funzionari di P.S. DE GENNARO, MASONE e MANGANELLI, che avevano concordemente confermato la valutazione delle lettere anonime in oggetto come una azione calunniatrice svolta dalla associazione “Cosa Nostra” in avvio di una manovra di destabilizzazione e di isolamento di alcuni uomini delle istituzioni come il dott. FALCONE nel solco di tristi ed analoghi precedenti quali quelli che avevano riguardato gli omicidi di Boris GIULIANO, e del Colonnello RUSSO. Sul punto, conclusivamente, la Corte riteneva dunque che non dovesse escludersi che la concomitanza di interessi sulla attentato alla vita del dott. FALCONE, non fosse riconducibile alla sola organizzazione mafiosa, ma potesse provenire dallo stesso mondo istituzionale, a tutela di interessi che, secondo l’impugnata sentenza, potevano essere stati coltivati comunemente o semplicemente sfruttati da Cosa Nostra con eccezionale tempismo, l’insorgere in quel tormentato periodo.

I misteriosi omicidi di Piazza e di Agostino. La Repubblica il 16 giugno 2020. Nel marzo del 1989, veniva ucciso in Palermo il nobile e ricco possidente Barone Antonio D’ONUFRIO. In seguito al delitto era nata un’opera di depistaggio e disinformazione diretta ad accreditare l’idea di una gestione spregiudicata dei collaboratori di giustizia da parte delle Autorità. La vittima, benestante proprietario di terreni nella zona di Ciaculli ed amico del dott. Montana della Squadra Mobile di Palermo, Sezione catturandi, già assassinato nel luglio del 1985, aveva avviato dei contatti informativi con la Polizia fornendo indicazioni per la ricerca di latitanti ed in tale ottica si era più volte incontrato a Roma ed anche in Palermo pochi giorni prima dell’omicidio con il dott. DE GENNARO. Nello stesso periodo in cui erano state diffuse le lettere del “corvo” due giornalisti Attilio Bolzoni e Francesco La Licata avevano pubblicato, la notizia, poi rivelatasi del tutto falsa, che il DE GENNARO si fosse recato a casa del barone D’ONUFRIO con BUSCETTA poco prima che lo stesso fosse ucciso. Con riferimento alla pubblicazione di tale falsa notizia i giornalisti Bolzoni e La Licata, inviati de “La Repubblica” e de “La Stampa”, avevano riferito di essersi determinati a pubblicarla ritenendola degna di fede in quanto acquisita nei primi di giugno del 1989 da più fonti di natura istituzionale e vicine alla Polizia ed all’Ufficio dell’Alto Commissariato. Altre circostanze approfondite dalla Corte d’Assise nel corso dell’istruttoria e poi esaminati nella motivazione, erano quelle relative al duplice omicidio ai danni dell’agente di polizia Antonino AGOSTINO e della moglie Ida CASTELLUCCI, avvenuto in una villetta nei pressi dell’autostrada per Punta Raisi nell’agosto del 1989, e alla scomparsa di Emanuele PIAZZA nel marzo dell’anno successivo. Alcuni suggestivi elementi raccolti in fase d’indagine ed evidenziati dalla Corte d’Assise, avevano avvicinato i due episodi all’Addaura:

sia il PIAZZA che gli AGOSTINO erano infatti vicini agli ambienti dei Servizi segreti;

il PIAZZA era un appassionato subacqueo;

manteneva costanti contatti con AGOSTINO;

sia la il primo che il secondo omicidio erano rimasti per lungo tempo avvolti da un alone di impenetrabile mistero;

lo stesso dott. FALCONE aveva ipotizzato un simile collegamento, soprattutto tra la scomparsa di Emanuele PIAZZA e l’attentato dell’Addaura come sottolineato in particolare dal teste MORVILLO, sostituto procuratore a Palermo e cognato del compianto Magistrato.

La Corte sottolineava comunque che le dichiarazioni autoaccusatorie di FERRANTE ed ONORATO relativamente all’omicidio Piazza, avevano sostanzialmente svuotato di significato il possibile collegamento tra i fatti dell’Addaura e quell’omicidio. Anche con riferimento al secondo fatto di sangue, la conclusione della Corte si poneva nei medesimi termini poiché il collaboratore Giovanni BRUSCA, aveva riferito di avere appreso da RIINA che lo stesso era stato voluto dalla famiglia MADONIA perché l’agente Agostino aveva fatto catturare Nicola Di Trapani, esponente della stessa famiglia mafiosa di Resuttana. Lo stesso FERRANTE aveva manifestato forti perplessità che il delitto Agostino fosse di matrice mafiosa. Peraltro, secondo la Corte, gli elementi acquisiti dovevano considerarsi insufficienti ad ipotizzare un concreto collegamento, al di là del lato cronologico, tra l’attentato per cui è processo e gli omicidi sopra indicati.

La mafia e gli “organismi deviati”. La Repubblica il 17 giugno 2020. Le dichiarazioni di Francesco DI CARLO, collaborante sulla cui attendibilità la Corte si era positivamente espressa come già ricordato, concernevano due incontri, avutisi intorno al 1990, durante la di lui detenzione nel Regno Unito, tramite tale NEZZAR HINDAWI, terrorista palestinese coinvolto nell’attentato all’aereo Pan Am precipitato in Scozia, con persone appartenenti ai servizi segreti. Nel primo incontro quattro persone, di cui una sola forse italiana e le altre di varia nazionalità, gli avevano chiesto un appoggio per un progetto di eliminazione fisica del dott. FALCONE al quale si stava lavorando in Italia e lui aveva fatto il nome di suo cugino Antonino GIOÈ, che in seguito a tale colloquio, gli aveva confermato di essere stato effettivamente contattato. Nel secondo incontro altre persone che parlavano con accento “americano ed inglese” lo avevano esortato a collaborare con la giustizia chiedendogli notizie sulla morte del banchiere CALVI e minacciandolo di morte. Il DI CARLO precisava inoltre di avere informato di ciò, tramite il proprio fratello Giulio ed Antonino GIOÈ, Salvatore RIINA, il quale lo aveva rassicurato promettendogli che si sarebbe occupato della vicenda, fugando così i suoi timori. Il collaborante SIINO invece, riferiva di essersi incontrato nell’estate del 1990 con un autorevole “personaggio della massoneria”, di cui taceva il nome, il quale dopo averlo messo in guardia in relazione alle indagini che il dott. FALCONE conduceva anche nel campo degli appalti, gli aveva detto che se lo stesso non fosse stato trasferito da Palermo, sarebbe stato ucciso. I Giudici di I° grado ritenevano i pur marginali episodi riferiti dal collaboratore, di elevata attendibilità intrinseca, rafforzative  dei  sospetti  di possibili coinvolgimenti di organismi deviati  delle istituzioni, già emersi in base ai fatti evidenziati in precedenza. Tali episodi, ancorché utili a meglio delineare il quadro ambientale che faceva da sfondo alla vicenda, sono stati considerati di mero contorno nell’impugnata sentenza, con motivazione in toto condivisibile, non essendo emerso alcun elemento di sostanziale novità nell’istruzione rinnovata.

La “fretta” sospetta dell'artificiere. La Repubblica il 18 giugno 2020. La Corte d’Assise ha affrontato, sempre nell’ambito di eventuali depistagli emergenti dal dibattimento, le anomale modalità operative con cui l’artificiere dei Carabinieri Francesco TUMINO aveva disattivato l’ordigno esplosivo rinvenuto all’Addaura. Già si è sottolineato, infatti, come tale intervento avendo avuto la caratteristica di disperdere il meccanismo di attivazione della carica, di cui erano stati faticosamente recuperati solo alcuni frammenti, aveva destato numerose perplessità. Il TUMINO, esaminato al riguardo e chiamato a rispondere a vari livelli del suo operato, aveva inizialmente affermato di avere rilevato un congegno antirimozione collegato ai manici della borsa che avrebbe reso estremamente pericoloso ogni intervento sull’ordigno se non si fosse provveduto a disattivarlo prima con l’impiego della microcarica. Successivamente, aveva aggiunto di avere temuto l’imminente esplosione dell’ordigno innescata da un possibile strumento a tempo. Aveva ancora riferito - ammettendo in un secondo tempo di aver mentito - che, dopo l’esplosione della microcarica era stato avvicinato da un alto funzionario, con i baffi, appartenente alla Criminalpol di Roma, successivamente riconosciuto nel funzionario Ignazio D’Antone, il quale, a suo dire, si era appropriato di alcune parti del congegno elettronico di innesco. Escusso in dibattimento dalla Corte ex art. 210 c.p.p., essendo stato precedentemente sottoposto a procedimento per falso ideologico e false dichiarazioni al PM, in cui aveva peraltro patteggiato la pena ex art. 444 cpp, aveva attribuito le ragioni del proprio ritardato intervento al suo superiore diretto, maggiore Luigi Finelli, che aveva preteso, per autorizzare il suo intervento, una formale richiesta da parte della Polizia di Stato, intervenuta sul luogo, e che gli aveva vietato di lasciare la caserma se prima non avesse indossato la divisa di ordinanza, nonostante che il colonnello Mori, vedendolo ancora in attesa nel cortile della caserma, gli avesse detto di recarsi immediatamente sul luogo, senza cambiarsi d’abito. A causa di ciò era giunto all’Addaura solo intorno alle ore 11,30 ed aveva dovuto affrettare il suo intervento per la presenza di un “timer” programmato per far esplodere l’ordigno alle dodici, precisando che non aveva riferito prima tali circostanze perché non gli erano mai state chieste e per non accusare altre persone. La Corte, valutate e riesaminate le testimonianze dei testi di riferimento Mori, Garelli, Finelli e Fagiano, e gli accertamenti tecnici esperiti sui reperti esplosivistici riteneva dimostrato che l’intervento dell’artificiere TUMINO, improntato ad eccessiva frettolosità, non fosse stato tecnicamente ineccepibile, attesa l’assenza di rischi imminenti di esplosione e di possibili pericoli per la pubblica incolumità. Gli elementi di valutazione acquisiti peraltro, inducevano la Corte, in presenza di talune dichiarazioni del TUMINO, ritenute menzognere anche se finalizzate a coprire gli errori tecnici commessi, a non escludere del tutto (f. 293) un residuo dubbio che tale condotta fosse inserita in un contesto di sviamento delle indagini, in linea con gli oscuri episodi prima sottolineati.

I giudici svizzeri e le “soffiate”. La Repubblica il 19 giugno 2020. Nell’ambito di ricerca del movente e di tutti gli obiettivi dell’attentato, la Corte di 1° grado, sottoponeva ad attento esame, un dato oggettivamente di interesse, determinato dalla presenza della delegazione svizzera a Palermo il giorno dell’attentato, per via dai rapporti di collaborazione professionale da tempo in corso con il dott. FALCONE incaricato dell’esecuzione in Italia della Commissione rogatoria richiesta dall’A.G. sottocenerina su fatti di criminalità organizzata e di riciclaggio di danaro sporco che riguardavano entrambi i paesi. In tale ottica, pertanto, ed anche alla luce della possibile fuga di notizie sull’invito del dott. FALCONE ai colleghi elvetici per il giorno 20, nella villa dell’Addaura in concomitanza con il rinvenimento dell’esplosivo, la Corte d’Assise riteneva di dover verificare se taluno dei componenti di detta delegazione potesse essere stato individuato dagli attentatori come obiettivo diretto o solo potenziale insieme alla vittima originariamente designata. Data la portata delle indagini svolte in comune, che coinvolgevano, tra gli altri, personaggi quali il finanziere Oliviero TOGNOLI, riuscito alcuni anni prima a sottrarsi alla cattura in Palermo per riparare all’estero, lo stesso dott. FALCONE non aveva escluso che l’azione delittuosa potesse essere diretta a colpire anche i giudici svizzeri ed in particolare la dott.ssa DEL PONTE. Quest’ultima, escussa in dibattimento nell’ud. del 18-03-1999 aveva ripercorso alcune tappe dell’inchiesta sul TOGNOLI,     evidenziando in particolare un episodio svoltosi nel febbraio 1989 in Lugano, in coda ad un interrogatorio, condotto insieme al dott. FALCONE, quando l’imputato aveva ammesso – fuori dal verbale ed allontanatisi il proprio difensore ed il dott. AYALA che pure partecipavano all’atto - di aver avuto confidenziale notizia dell’emettendo mandato di cattura a suo carico, dal dott. Bruno CONTRADA della Questura di Palermo, il   quale gli aveva anche suggerito di darsi alla latitanza. La dott.ssa Del Ponte (sent. p. 305) aveva poi aggiunto (verb. 18/3/1999 p. 10-18 e 94-96 del 17-7-2000) che il Tognoli dopo essersi rifiutato di rispondere alle domande sul punto, nel pomeriggio dello stesso giorno, avanti il G.I. dott. LEHMANN, in una successiva rogatoria nel maggio 1999, aveva indicato nel funzionario di Polizia palermitana, Cosimo Di Paola, la persona dalla quale aveva ricevuto il prezioso avvertimento. A sua volta il Commissario Clemente GIOIA, della Polizia elvetica, pure presente a Palermo con la delegazione svizzera, aveva confermato di avere appreso dal dott. FALCONE che la persona da cui era stato avvertito Oliviero TOGNOLI era il dott. Bruno CONTRADA, precisando che l’imputato si era rifiutato anche in epoca successiva di verbalizzare le sue iniziali ammissioni. Il teste AYALA, all’epoca sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, confermava di avere notato, in occasione della trasferta giudiziaria a Lugano nella quale era intervenuto come P.M., il collega FALCONE rimanere in disparte con la dott.ssa DEL PONTE ed Oliviero TOGNOLI dopo l’interrogatorio da quest’ultimo reso la mattina del 03/02/89 e di avere, poi, appreso dallo stesso FALCONE il contenuto della conversazione. Soltanto il difensore di Oliviero TOGNOLI, avv. Franco GIANONI, escusso in occasione della rogatoria internazionale espletata nel corso dell’istruttoria, aveva negato la circostanza ammettendo che il TOGNOLI avesse solo rivelato la “soffiata” ma non l’autore. Tale deposizione peraltro lungi dal potere incrinare il quadro probatorio complessivo, confermava anzi, a giudizio della Corte, l’attendibilità piena di quelle di tenore del tutto contrario sopra indicate che valorizzavano, in tema di movente criminoso, la forte ed intensa collaborazione investigativa tra la magistratura palermitana e quella elvetica al tempo dei fatti, specie nell’esplorando campo del riciclaggio di denaro di provenienza illecita. Gli ulteriori approfondimenti sull’argomento svolti da questa Corte in sede di istruzione rinnovata, ex art. 603 c.p.p., non sono valsi a fare chiarezza sull’ipotizzata fuga di notizie in ordine al programmato accesso balneare all’Addaura, né a dare un volto o un nome all’autore della “soffiata” grazie alla quale Oliviero Tognoli riuscì a sottrarsi all’arresto e a rimanere latitante per oltre quattro anni.

La sentenza di primo grado.  La Repubblica il 20 giugno 2020. Le conclusioni della Corte in ordine a ciascun elemento emerso nell’istruttoria dibattimentale, sono dunque così riassumibili:

1. L’attentato, curato nei dettagli da “Cosa Nostra”, era destinato ad uccidere il giudice FALCONE e chi si fosse trovato con lui, ivi compresi i magistrati elvetici.

2. I moventi erano, sia di natura ritorsiva, per le innumerevoli iniziative giudiziarie portate avanti dal Magistrato, sia di ordine preventivo per interrompere il corso di tali attività giudiziarie.

Su tali aspetti, da un lato venivano richiamate le dichiarazioni concordi dei collaboranti, dall’altro gli elementi oggettivi quali la perfetta funzionalità e l’elevato potenziale distruttivo dell’ordigno radiocomandato. Infine veniva considerato che l’attentato era stato preceduto da un’azione di delegittimazione e discredito nei confronti del magistrato, secondo un copione mafioso ormai collaudato, escludendo in nuce la Corte, la possibilità di un mero atto intimidatorio che sarebbe suonato del tutto inutile, per la conclamata impermeabilità della vittima designata ad ogni azione di minaccia e pressione, espressa o velata.

3. Sotto il profilo del cd. “dolo eventuale”, la Corte ipotizzava che gli attentatori avessero inteso colpire anche uno o più componenti della delegazione svizzera presente in quei giorni a Palermo, conseguendo un risultato, doppiamente apprezzabile nell’ottica mafiosa.

In tale contesto, così dovevano pertanto valutarsi i singoli contributi degli odierni imputati al gesto criminale: Con riguardo alla posizione di FERRANTE Giovambattista richiamati i principi generali di credibilità personale relativi al collaborante, la versione descrittiva dell’esplosivo altamente coincidente con i rilievi tecnici dei consulenti e pertanto, la validità complessiva le dichiarazioni auto ed etero accusatorie rese in giudizio, la Corte ne affermava la penale responsabilità per le contestate imputazioni di porto e detenzione illegale di esplosivi in relazione al quantitativo di candelotti “Brixia” consegnati al MADONIA a richiesta del BIONDINO. Gli elementi acquisiti, a giudizio della Corte, non potevano comunque consentire di ritenere una diversa e cosciente partecipazione del FERRANTE alla esecuzione dell’attentato, del resto non contestata, non essendo stato provato che la sua presenza sul posto, indicata peraltro dal solo ONORATO, non fosse occasionale o comunque inconsapevole. ONORATO Francesco, chiamato a rispondere anche del delitto di concorso in strage, veniva ritenuto penalmente responsabile di tutti i reati ascrittigli, sulla scorta di considerazioni analoghe a quelle già espresse con riferimento al ruolo svolto dal FERRANTE. Secondo l’impugnata sentenza, peraltro, l’inserimento del collaborante nel medesimo mandamento del BIONDINO con il quale aveva intensi rapporti di frequentazione, giustificavano pienamente la diretta partecipazione all’azione. In questo senso militavano inoltre le confidenze ricevute dal capo mandamento sulle finalità dell’azione mirata a far saltare il dott. FALCONE, nonché, infine, gli avvertimenti dati allo stesso BIONDINO, allorché aveva appreso dai propri fratelli delle vanterie del giovane GALATOLO Angelo. La responsabilità piena e diretta nell’esecuzione della strage di BIONDINO Salvatore uomo di fiducia di Salvatore RIINA e capo del mandamento di San Lorenzo, doveva discendere secondo i Giudici di prime cure, dalla convergenza ex art. 192 III co. cpp delle dichiarazioni di FERRANTE ed ONORATO. Tali dichiarazioni, peraltro potevano dirsi ulteriormente accreditate dall’episodio citato dal BRUSCA - già richiamato - quale esplicita conferma e riscontro individualizzante non solo della partecipazione, ma anche del ruolo preminente di BIONDINO nella vicenda, sottolineato peraltro anche da chi, tra i diversi collaboranti escussi, lo aveva individuato come reggente il mandamento di San Lorenzo dopo l’arresto del GAMBINO. Quanto alla posizione di assoluto rilievo all’interno di Cosa Nostra ricoperta da RIINA Salvatore, la Corte muoveva, oltre che dagli specifici elementi emersi a di lui carico cioè dalla convergenza delle dichiarazioni del FERRANTE, dell’ONORATO e del Brusca dai presupposti già accertati in tal senso da diverse sentenze passate in giudicato, prima fra tutte la n.80/92. Da ciò, discendeva la indiscutibile partecipazione quantomeno alla fase ideativa del fallito attentato per i principi verticistici che governavano Cosa Nostra, che secondo la Corte, non erano stati, nella circostanza, violati o disapplicati non essendosi verificato dopo l’attentato, alcun fenomeno tipicamente riconducibile all’alterazione di un assetto precostituito. In specie, le dichiarazioni del FERRANTE relative al reperimento degli esplosivi venivano ritenute indice di una “regìa” riconducibile senza dubbio dal RIINA, in quel momento, tra l’altro, diretto controllore della reggenza di S. Lorenzo, informalmente affidata al BIONDINO. Altre dichiarazioni di collaboranti (DI MAGGIO - CANCEMI), venivano utilizzate dalla Corte per chiudere il cerchio relativamente alla volontà, da tempo consolidatasi in capo al RIINA di eliminare il dott. FALCONE. In particolare veniva attribuita rilevanza alla risposta dello stesso RIINA, finalizzata a troncare la polemica di fronte al commento del BIONDINO nell’imminenza della strage di Capaci, teso a rimproverare il MADONIA per i soggetti inesperti cui si era rivolto in occasione del precedente fallito attentato dell’Addaura. Anche in relazione alla posizione di MADONIA Antonino, pur non risultando provato nel trasporto dell’esplosivo l’uso di imbarcazioni marine, analoghe a quelle in suo possesso, non potevano comunque sussistere dubbi, a giudizio della Corte d’Assise, in ordine al di lui coinvolgimento diretto nel fallito attentato concordemente riferito da tutti i collaboranti. Riscontri alle dichiarazioni di ONORATO e FERRANTE venivano comunque ritenuti la coincidenza oggettiva degli esplosivi, rinvenuti con la descrizione fattane dal secondo, e le indicazioni di BRUSCA sul ruolo primario avuto da MADONIA nei precedenti tentativi di eliminare il dott. FALCONE oltre alla riconosciuta qualità di reggente il mandamento - territorialmente competente - in assenza del padre Francesco.

Da ultimo la Corte sottolineava la sussistenza proprio in capo alla famiglia mafiosa dei MADONIA di uno specifico ed attuale interesse per la morte del dott. FALCONE legato alla necessità di interrompere le indagini comuni con la Svizzera mirate a colpire i traffici gestiti proprio da quel gruppo maioso. L’assoluzione di GALATOLO Vincenzo discendeva, ex art. 530, II° comma, c.p.p., a giudizio della Corte, dall’unicità della chiamata proveniente dall’ONORATO, che lo aveva collocato tra i partecipanti alla riunione in casa di Mariano Tullio TROIA, senza però che a tale elemento, si fossero aggiunti riscontri ulteriori dotati del necessario carattere individualizzante. In tal senso la vicinanza ai MADONIA, la comunanza del movente diretto, la disponibilità di imbarcazioni, o ancora il possesso di una taglia fisica compatibile con l’uso delle pinne e della muta rinvenute vicino all’ordigno esplosivo ed infine le già richiamate dichiarazioni del SIINO, non erano ritenuti elementi univoci ed efficaci a fungere da riscontro alle succitate dichiarazioni di ONORATO. Analoghe considerazioni venivano espresse per il GALATOLO Angelo, nei confronti del quale le dichiarazioni rese sempre da ONORATO Francesco sulle “vanterie” riferite ai suoi fratelli, avendo natura “de relato”, necessitavano, secondo i Giudici di prime cure, di riscontri ben più consistenti per potere assurgere al rango di elemento di prova idoneo a fondare una affermazione di penale responsabilità, specie in presenza di elementi, valutati come scarni e non individualizzanti, quali la compatibilità  della muta e delle pinne con la taglia fisica dell’imputato. Forti perplessità dovevano poi nutrirsi, ad avviso della Corte, sulla veridicità della confessione resa dal GALATOLO Angelo al LO FORTE per l’accentuata propensione del confidente ad attribuirsi episodi criminosi, in realtà mai commessi per accreditare il suo ruolo in campo associativo. Ne scaturiva di conseguenza, come per lo zio Vincenzo, un’assoluzione ex art. 530 comma II cpp. Le ultime considerazioni della Corte erano riservate alla natura del reato di strage contestato, in rapporto all’attribuibilità di tale fattispecie agli imputati di cui venivano ravvisati gli estremi oggettivi e soggettivi. La Corte concludeva ritenendo che la collocazione di una carica esplosiva radiocomandata di siffatta potenza, dotata di una elevatissima micidialità entro un raggio di una sessantina di metri, in luogo ad alta frequenza in quel periodo dell’anno, costituisse elemento univocovamente indicativo della volontà di cagionare una strage, e cioè di compiere, al fine di uccidere il dott. FALCONE e quant’altri si trovassero con lui, atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità, reato per il quale dovevano dunque essere ritenuti responsabili i soggetti indicati. La natura di mero pericolo del reato in esame, toglieva inoltre qualsiasi rilievo, ai fini della configurabilità della delittuosa ipotesi di strage, al fatto che l’evento voluto non si fosse verificato per cause indipendenti dalla volontà degli ideatori ed esecutori.

Il ruolo dei Galatolo dell'Acquasanta. La Repubblica il 21 giugno 2020. Avverso la sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta, muoveva specifiche doglianze il PG con atto depositato il 20 febbraio 2001 con il quale, pur premettendo di condividere gran parte delle conclusioni e del ragionamento motivazionale della Corte, si doleva delle assoluzioni di GALATOLO Angelo e Vincenzo basato, in sostanza, sulla scorta dei medesimi elementi probatori giudicati invece sufficienti a carico degli altri imputati.

Le doglianze dell’appellante concernevano la valutazione frammentata delle dichiarazioni di ONORATO F. e, di conseguenza, la insufficiente carica individualizzante di esse e la mancata valorizzazione, su un piano unitario, degli indizi ritenuti sussistenti a carico di GALATOLO V. ovvero:

a) La vicinitas dei GALATOLO al clan MADONIA;

b) la sussistenza di un comune movente al GALATOLO Vincenzo ed al MADONIA legato alle indagini sul traffco di droga condotte dal dott. FALCONE nelle quali erano entrambi coinvolti;

c) la taglia fisica di GALATOLO Angelo, compatibile con pinne e muta da sub rinvenuti vicino al sacco contenente l’ordigno.

La necessità di valutare unitariamente i suddetti indizi in senso diverso rispetto al percorso seguito dalla Corte d’Assise, doveva discendere a giudizio dell’appellante PG, da alcuni eloquenti elementi storici processualmente emersi. In primo luogo la riunione operativa cui gli odierni imputati MADONIA, BIONDINO ONORATO e lo stesso GALATOLO Vincenzo avevano preso parte presso l’abitazione del TROIA addivenendo alla decisione di compiere una serie di sopralluoghi nella zona dell’Addaura per valutare la idoneità dei luoghi al compimento dell’attentato. In secondo luogo il contemporaneo coinvolgimento di MADONIA A. e GALATOLO V. nelle operazioni Iron Tower e Big John entrambe al centro di inchieste giudiziarie condotte dal dott. FALCONE nel periodo subito precedente i fatti per cui è processo, e le convergenti affermazioni dei collaboranti LO FORTE Vito e BRUSCA Giovanni in ordine alle ragioni che avevano portato il dott. FALCONE in cima alla lista degli obiettivi di Cosa Nostra, già dal 1983. In terzo luogo la connessione tra le famiglie GALATOLO e MADONIA, appartenenti al medesimo mandamento di Resuttana gestito da Antonino MADONIA in sostituzione del padre Francesco, era tale da escludere necessariamente che il GALATOLO V. (capo dell’autorevole famiglia dell’Acquasanta) potesse essere confinato al di fuori di una decisione di tanta rilevanza per la natura dell’atto criminale e la qualità della parte offesa. In quarto luogo, la compatibilità fisica tra gli accessori da sub ritrovati sul luogo e la taglia di GALATOLO Angelo, “rampollo” della famiglia e direttamente collocato in sottordine rispetto allo zio Vincenzo, era idonea a spiegare la partecipazione della famiglia all’attentato anche in forza di una reciproca utilizzabilità tra i due GALATOLO, zio e nipote, dei singoli indizi a carico dell’uno o dell’altro. Una serie di ulteriori riscontri, pur dotati di minor rilevanza ma sempre e comunque apprezzabili a carico di entrambi gli imputati, erano poi costituiti a giudizio del PG:

dalle numerose basi logistiche – oltre che dalla conoscenza piena di fondali ed approdi dell’antistante specchio di mare - possedute in quella zona dai GALATOLO, e dagli stessi MADONIA;

dall’accertata disponibilità in capo ai primi delle vetture indicate dai collaboranti;

dalle dichiarazioni di SIINO Angelo relativamente al colloquio intervenuto con GALATOLO Vincenzo nel corso di comune detenzione, ove questi si era rammaricato in termini volgari del fallito attentato, mostrando di esserne a conoscenza.

In relazione alla posizione del GALATOLO Angelo, l’appellante P.G., nel rimarcare gli elementi di comunanza mafiosa già sottolineati in precedenza e legati quindi alla famiglia ed alle modalità esecutive, ha posto l’accento sulle ampie chiamate in correità o in reità da parte di ONORATO e LO FORTE ed in particolare sulle dichiarazioni relative  alle confidenze raccolte dai fratelli del primo e direttamente dal secondo, nei colloqui con lo stesso GALATOLO A. il quale più volte si era vantato, di aver collocato di persona l’ordigno sulla scogliera. L’appellante ha sottolineato inoltre che, la compatibilità con muta e pinne, sussisteva bilateralmente per entrambi gli oggetti solo per la taglia di GALATOLO A. mentre per quella degli altri imputati MADONIA e GALATOLO V., tale coincidenza era solo relativa ad uno dei due capi. A ciò doveva aggiungersi, sempre a giudizio dell’appellante P.G., che la giovane età dell’imputato, pressocchè sconosciuto alle Forze di Polizia all’epoca e la passione per la pesca subacquea ne facevano una figura ideale per il compito da svolgere. L’appellante ha sottolineato inoltre che, la ricostruzione operata dalla Corte, che aveva privilegiato l’ipotesi di un collocamento via terra dell’ordigno e la contestuale funzione coreografica di muta e pinne non era in contrasto con l’ammissione dei fatti resa da Angelo GALATOLO a Vito LO FORTE, che non aveva specificato quale fosse stata la via di accesso alla scogliera. Da ultimo il PG ha richiamato le dichiarazioni di BRUSCA Giovanni, che aveva raccolto le lagnanze di BIONDINO in relazione all’attentato, sull’utilizzazione da parte di MADONIA Antonino di ragazzini che parlavano troppo, ulteriore elemento questo che ben si attagliava alla figura del GALATOLO Angelo. Conclusivamente le richieste del PG erano dunque di riforma della sentenza con affermazione di responsabilità e condanna alle pene di legge per gli imputati assolti in 1° grado GALATOLO Vincenzo ed Angelo e di inasprimento della pena irrogata nei confronti di RIINA Salvatore, MADONIA Antonino e BIONDINO Salvatore, ritenuta troppo mite in rapporto alla eccezionale gravità del fatto e della quale chiedeva conseguentemente, un congruo aumento ex art. 78 – 81 cpv c.p...In data 20/12/01, il Procuratore Generale proponeva poi, mediante motivi d’impugnazione aggiunti, istanza di riapertura dell’istruttoria dibattimentale al fine di escutere l’imputato di reato connesso RUVOLO Baldassarre il quale, interrogato dal Procuratore della Repubblica di CL il 20/10/2001, aveva dichiarato di essere a conoscenza di aspetti rilevanti della vicenda per cui è processo.

Il pentito Giuffré: “ Una fava e due piccioni”. La Repubblica il 22 giugno 2020. In seguito alla disposta riapertura dell’istruttoria dibattimentale veniva pertanto celebrata una prima udienza presso l’Aula    Bunker   ‘Dozza’ di Bologna dove, in data 7 giugno 2002 si dava corso, innanzi tutto, all’esame ed al successivo confronto tra i collaboranti Francesco ONORATO e Giovambattista FERRANTE   appellanti in questa sede con espresso riferimento al contrasto insorto su un presunto incontro tra i due, nei pressi dell’Addaura e nel periodo subito precedente i fatti. L’ONORATO dichiarava così di essere stato reggente della famiglia di Partanna Mondello dal 1987 al 1993 e, relativamente ai fatti di causa, aggiungeva di avere ricevuto da Salvatore BIONDINO, capo mandamento di San Lorenzo, l’incarico - nel periodo estivo 1989 - di studiare la zona dell’Addaura, controllarla e perlustrarla: a tale attività si era dedicato per circa 15 giorni – un mese. Aveva così avuto modo di notare la presenza in loco di Enzo GALATOLO, Angelo GALATOLO, Nino MADONIA, Giovambattista FERRANTE. Quest’ultimo in particolare lo aveva incontrato una sola volta in quella zona, qualche giorno prima incrociandolo in automobile mentre lui era alla guida di una Fiat Panda ed il FERRANTE di una Mercedes 190 grigia lungo la strada di grande scorrimento che costeggia la scogliera dell’Addaura: tra i due non vi era stato alcun colloquio. Sottolineava ONORATO di aver ritenuto che lo stesso FERRANTE avesse partecipato al pattugliamento senza però avere notizie certe in tal senso. Giovambattista FERRANTE, escusso immediatamente dopo, affermava essere per lui abituale il transito in quella zona nel periodo estivo ed aggiungeva di spostarsi normalmente a bordo della sua Mercedes 190 marrone metallizzato utilizzandola alternativamente ad una Audi verde. Sosteneva di non aver avuto alcun incarico di pattugliamento ed asseriva di non essersi accorto di aver incrociato l’ONORATO. Il confronto ex art. 210 cpp tra i due collaboranti veniva, in esito a tali dichiarazioni, revocato per i chiarimenti forniti sia dal FERRANTE che dall’ONORATO sulle modalità dell’incontro automobilistico del tutto isolato ed occasionale che non presentava dunque estremi di incompatibilità nelle due versioni. Successivamente ai predetti atti istruttori veniva dato corso all’esame di Baldassarre RUVOLO collaborante la cui escussione era stata oggetto di espressa richiesta da  parte del PG. RUVOLO dichiarava di aver iniziato a collaborare nel gennaio 2001 a causa delle estorsioni e dei ricatti subiti dalla propria convivente. Aveva fatto parte della famiglia di Borgo Vecchio accompagnandosi - oltre che con tutti i personaggi di quella famiglia anche con altri tra cui Giuseppe Lucchese, Pino Greco ‘scarpuzzedda’, Giuseppe Giacomo Gambino e Salvatore Cocuzza che era stato reggente della famiglia sin dal 1981. Nell’aprile del 1981 si era poi trovato a Torino quando veniva ucciso Stefano Bontate. La sua abitazione in Palermo era collocata in via Amm. Cursani, all’interno del quartiere dell’Acquasanta, dove aveva anche un’attività di rivendita di pesce congelato, denominata Maregel. Si era occupato di traffco di stupefacenti (cocaina – eroina), pur non essendo uomo d’onore, insieme con  i fratelli GALATOLO venendo per tale ragione, condannato a 13 anni di reclusione. Aveva avuto contatti, per i traffci con Vincenzo GALATOLO, il fratello Raffaele e Salvatore MADONIA che aveva conosciuto nel 1990 tramite un appuntamento fissatogli da tale Marco Favaloro. Era a conoscenza del fatto che i GALATOLO fossero a capo della zona territoriale dell’Acquasanta avendo traffcato stupefacenti per loro conto. Nel 1982 era stato arrestato, al momento dell’uscita dal carcere a capo di Borgo Vecchio c’era tale Romano. Al RUVOLO veniva poi sottoposto album fotografico nell’ambito del quale egli si era così pronunciato con riferimento alle effigie sottopostegli numerate come di seguito indicato:

1. BONANNO Giovanni della famiglia di Resuttano.

2. uno dei fratelli DI GIOVANNI.

3. un uomo d’onore della famiglia dell’Acquasanta, nipote di Enzo GALATOLO, figlio della sorella di cui non ricordava il nome (la foto corrispondeva a Fontana Angelo).

4. Angelo GALATOLO detto ‘u fodde’, figlio di Vincenzo capo dell’Acquasanta.

5. Angelo GALATOLO, figlio di Giuseppe (detto ‘Pinuzzo’ fratello di Vincenzo di Raffaele, Gaetano "Tanuzzo" padre anche lui di un altro Angelo, Vito il più grande e la sorella sposata Fontana).

6. Vito GALATOLO.

7. GRAZIANO Mareddu, costruttore detto "u cavaleri". Lui abitava in un appartamento costruito da costui che era vicino ai GALATOLO.

8. MARCIANTE Benedetto.

9. Tale PILLITTERI della famiglia di Resuttana comandata da Antonino MADONIA.

10. un soggetto a lui noto    ma del    quale non ricordava il nome.

11. VEGNA Placido (Gaetano).

12. RIINA Salvatore.

13. BIONDINO Salvatore.

14. MADONIA Antonino.

15. GALATOLO Vincenzo capo famiglia Acquasanta, padre di Angelo "u fodde", zio di Angelo figlio di Enzo.

Il collaborante riconosceva poi anche l’imputato ONORATO, frattanto sopraggiunto in aula, sostenendo che gli era ben noto sin da bambino. Ancora in merito ai rapporti con di uomini di Cosa Nostra in quelle zone della città, RUVOLO aggiungeva che la conoscenza con la famiglia MADONIA gli era derivata dal fatto che i figli si recavano regolarmente presso il suo esercizio a fare la spesa per il padre detenuto. Nella famiglia dell’Arenella conosceva invece il Vegna e poi certo Antonino Carollo ed i due fratelli Lo Cicero. Quando Salvatore Cocuzza era stato arrestato erano stato collocato in cella insieme a lui, nella settima sezione dell’Ucciardone, ed a Dainotto, Antonino Cillari, Gioacchino Cillari, Giovanni Di Giacomo. Con specifico riferimento ai fatti processuali sottolineava di essere a conoscenza dell’attentato per averlo ascoltato dai giornali: aveva peraltro ricollegato il fatto con le pattuglie di Polizia notate in località Addaura potendo così individuare anche il punto esatto della villa. Una settimana prima dell’attentato aveva notato che le visite dei GALATOLO erano diminuite ed aveva anche chiesto ai GALATOLO (Enzo ed Angelo) come mai fossero abbronzati, se andassero al mare ottenendo come risposta che avevano molto da fare in quel periodo per frequentare la spiaggia. Il giorno esatto del fallito attentato dell’Addaura, fatto del quale egli aveva saputo la sera dalla TV, era venuto al suo spaccio un nipote di tale Giovanni, detto "u parrineddu", per avere notizie di Enzo GALATOLO ed egli, di conseguenza, egli si era posto alla ricerca di quest’ultimo presso il porticciolo dell’Acqua Santa. Aveva dunque potuto notare da lontano sul primo pontile del porto dell’Acquasanta accanto al motoscafo (dei cantieri Abbate) di tale Enzo Alicata cognato di Marciante, un gruppo di persone composto da: Angelo GALATOLO che stava attraccando la barca, Enzo GALATOLO, Salvatore ed Antonino MADONIA, Stefano Fontana ed una persona a lui ignota che discutevano animatamente. Al gruppo si era avvicinato solo dopo aveva visto terminare la discussione. Alcuni giorni dopo l’attentato Enzo GALATOLO gli aveva detto che si doveva disfare di un motoscafo praticamente nuovissimo. Aggiungeva di essersi recato a vederlo a vederlo e di avere constatato che era uno scafo di circa 3,50-4,00 metri con un 25 HP potenziato fino a 50 HP, tanto che lui ebbe a criticare questa soluzione tecnica. Lui disse che non gli interessava e quindi GALATOLO disse che avrebbe tentato di restituirlo al venditore che era del quartiere Vergine Maria. Nel corso del controesame il RUVOLO descriveva i mandamenti mafiosi palermitani indicando, tra quelli a lui noti, Resuttana, Palermo centro, Brancaccio – Ciaculli e Santa Maria di Gesù. Sottolineava di aver ottenuto le informazioni da Pietro Abate, uomo d’onore oggi defunto, della famiglia di Borgo Vecchio, con il quale si accompagnava e commetteva anche reati e da Giovanni Romano, capo famiglia di Borgo Vecchio. Aggiungeva di aver conosciuto Salvatore Cocuzza sin dal 1975, di ave lavorato per lui e che questi, nel 1983, lo aveva fatto spostare alla VII° sezione dell’Ucciardone con altri uomini d’onore già indicati, perché vi era questa prassi di stare insieme: in quel periodo Cosa Nostra gestiva a suo piacimento il carcere dell’Ucciardone e per ogni sezione c’era un capo, la VII° in particolare era comandate da Salvatore Montalto. Su domanda del difensore degli imputati GALATOLO ricordava poi di aver conosciuto Enzo GALATOLO, sia pure superficialmente, sin dal 1967 quando giocava nella squadra di calcio dei Cantieri Navali. Nel 1981 la conoscenza era poi divenuta diretta perché Salvatore Cocuzza lo aveva spesso inviato in vicolo Pipitone dai MADONIA o dai GALATOLO stessi. Aveva poi conosciuto i due GALATOLO Angelo (il figlio di Enzo ed il figlio di Pino) intorno al 1987 essendo a conoscenza che il figlio di Pino era vicino a Cosa Nostra: nel 1988 si era infatti trovato insieme ad Enzo GALATOLO, Salvuccio MADONIA, Nicola Di Trapani anche in presenza di Angelo GALATOLO, percependo dunque che quest’ultimo era avvicinato. Concludeva infine che la ragione per cui non era stato acquistato il motoscafo di GALATOLO V. era legata ad un debito che aveva nei suoi confronti ammontante a circa 100 milioni. Come già detto, nel corso della discussione, la Corte ex art. 523 comma VI°, disponeva che venisse sottoposto ad esame Antonino GIUFFRE’, capo mandamento di Caccamo già titolare da molti anni di un ruolo di vertice all’interno di Cosa Nostra, in relazione alle notizie conosciute sull’attentato per cui è processo. Il collaborante, nel corso dell’udienza tenutasi il 12 febbraio 2003 asseriva di aver riferito solo il 4-12-02 all’A.G. di Roma quanto appreso, per una pura casualità, anche in considerazione del poco tempo avuto per le dichiarazioni iniziali. Chiariva che nel 1989 faceva parte di Cosa Nostra già come capo mandamento di Caccamo, carica assunta nel 1987 sostituendo Francesco Intile che era stato messo da parte e poi si era ucciso in epoca largamente successiva. Le notizie avute in Cosa Nostra riguardo all’attentato dell’Addaura gli erano pervenute tramite personaggi di vertice quali lo stesso Provenzano con il quale in quel periodo ‘faceva degli appuntamenti’, ovvero si incontrava, ogni 10-15 giorni. Nello specifico gli pareva ricordare che, l’incontro nel quale si era parlato del fallito attentato, si era tenuto nel quartiere Pagliarelli in un’abitazione rustica periferica. I contatti con il Provenzano  peraltro,  erano iniziati già dalla fine del 1985 e sarebbero durati fino all’arresto del dichiarante medesimo avvenuto il 17 aprile 2002. Circa una settimana dopo l’attentato, GIUFFRE’ aveva dunque commentato l’episodio con Provenzano riferendosi alla presenza in questa villa dell’Addaura di un magistrato svizzero e forse di un altro ancora. In particolare FALCONE e la DEL PONTE erano considerati magistrati molto pericolosi e veniva vista male’la collaborazione tra di loro: ricordava in particolare una frase del Provenzano il quale aveva affermato che "con una fava si volevano prendere due piccioni". Aggiungeva di essere un frequentatore del mandamento di Michelangelo La Barbera e della famiglia Ganci (Domenico e Raffaele) nell’ambito dei quali aveva ulteriormente commentato l’episodio. I discorsi fatti, successivi all’attentato, e sempre dello stesso tenore e riguardavano il  dott.  FALCONE,  la sua pericolosità ed i rapporti con la dott.ssa DEL PONTE. Era verosimile che fosse presente anche Salvatore Cancemi almeno in taluna di queste circostanze. Gli appuntamenti con Provenzano erano relativi a faccende del tutto diverse rispetto agli incontri con gli altri personaggi citati: con La Barbera si incontrava in un ufficio di assicurazioni di tale Franco Marcianò e con i Ganci in uno dei negozi appartenuti alla famiglia, presso via Notarbartolo. Gli pareva poi di ricordare che anche con Carlo Greco e Pietro Aglieri avesse avuto uno scambio di idee sul punto. Il collaborante precisava nuovamente che, anche i contatti   con Provenzano, erano avvenuti dopo l’attentato. In quel periodo il territorio dell’Addaura rientrava nel mandamento di Resuttana che faceva capo ai MADONIA ed in particolare ad Antonino MADONIA. Egli aveva appreso che la decisione di perpetrare l’attentato era stata presa dal gruppo ristretto facente capo a Salvatore RIINA, Antonino MADONIA, Salvatore BIONDINO,    Raffaele GANCI e Giovanni BRUSCA. In particolare le ragioni che avevano spinto il RIINA a tentare di eliminare il dott. FALCONE erano tutte riguardanti la ‘scomodità e pericolosità’ di quest’ultimo, già da tempo notoria in Cosa Nostra.  A ciò si era aggiunto che il dott. FALCONE e la dott.ssa DEL PONTE stavano intensamente cercando di ‘scoprire i capitali’ che da Palermo andavano in Svizzera e questa collaborazione era considerata negativamente e pericolosamente. L’attentato, in ogni caso, era mirato appositamente ad eliminare tutte e due le persone. La decisione limitata del comitato ristretto (e non della commissione) era da giustificarsi con la singolare delicatezza e riservatezza del fatto ed anche con il legame particolare di RIINA con alcuni mandamenti (tra cui quello di Resuttana) e con i loro capi con i quali poi l’esponente corleonese avrebbe detenuto il controllo di Cosa Nostra non solo a livello palermitano ma regionale. Su domanda del Procuratore Generale precisava poi di non essere a conoscenza di un ruolo preciso svolto dai Ganci e da Giovanni BRUSCA nell’attentato, mentre gli constava di persona che BIONDINO e MADONIA si fossero occupati direttamente della vicenda. Relativamente a Bernardo Provenzano poteva solo dire che questi era a conoscenza di quanto accaduto senza poter precisare se lo avesse saputo prima o dopo il fatto. Nessuno aveva chiesto al RIINA del perché il delitto non era stato portato all’attenzione della commissione provinciale. Aggiungeva con riferimento alla dott. ssa DEL PONTE che il nome del magistrato svizzero in Cosa Nostra girava, forse addirittura prima dell’arresto del Calò (che il collaborante ricollegava cronologicamente al 1986). Quest’ultimo, in particolare, insieme a Lorenzo Di Gesù (uomo d’onore di Caccamo ma molto legato al Calò) si occupava del commercio di droga ed aveva interessi in Svizzera. Al termine dell’esame del GIUFFRE’, l’imputato Antonino MADONIA rendeva spontanee dichiarazioni affermando che nel processo n. 12/94 il GIUFFRE’ diceva di aver presenziato alle riunioni di commissione sin dal 19 giugno 1987. Lui però si trovava detenuto dal 6 maggio 1987 e lo era rimasto fino al novembre del 1988, quindi con GIUFFRE’, in commissione, non poteva incontrarsi. In esito a tali affermazioni la difesa MADONIA chiedeva di acquisire i verbali del procedimento n.12/94, celebrato innanzi la Corte d’Assise di Palermo oltre al certificato di detenzione, e la Corte si riservava di provvedere unitamente al merito.

La sfilata dei testimoni. La Repubblica il 23 giugno 2020.

Il Maggiore dei Cc. Giuseppe DE DONNO. Nel corso dell’udienza del 7 giugno 2002 veniva esaminato il Maggiore dei Carabinieri Giuseppe DE DONNO. Il teste aveva ricordato la cena del 20 giugno 1989 tenutasi alla presenza di circa 20 commensali in un unico tavolo collocato all’interno di una sala isolata del ristorante Charleston. Nella circostanza si era parlato del possibile passaggio dall’Addaura da parte della delegazione elvetica ma nel contempo delle difficoltà di realizzarlo stante la ristrettezza dei tempi: si era dunque rinviato al giorno seguente per stringere eventuali accordi. Sottolineava la propria convinzione che l’attentato fosse diretto esclusivamente al dott. FALCONE per le difficoltà di conoscere i movimenti della delegazione elvetica di quei giorni. In relazione ai mandanti dell’attentato si era ipotizzata, come eventualità più accreditata la matrice ma?osa, con responsabilità del capo mandamento competente. Non si era però del tutto esclusa una pista alternativa proprio per la scadente tipologia di organizzazione.

Il dott. Ignazio DE FRANCISCI. All’udienza del 10 giugno era stato escusso il dott. Ignazio DE FRANCISCI, nel 1989 in servizio presso l’Ufficio Istruzione di Palermo che aveva trattato il I° maxi processo. Il teste aveva ricordato la presenza della dott. ssa DEL PONTE e del dott. LEHMANN ed in particolare la cena del 20-06-1989, cui aveva partecipato insieme ad altri colleghi e rappresentanti delle forze dell’ordine, perché ne aveva personalmente curato l’organizzazione contattando il ristorante Charleston. Non poteva escludere che si fosse parlato del bagno all’Addaura, pur parendo argomento non consono alla usuale riservatezza del dott. FALCONE che soleva parlare spesso di lavoro sentendosi a disagio nell’affrontare argomenti "leggeri". In ogni caso egli non era seduto vicino ai colleghi svizzeri. Ricordava l’incontro in ufficio da FALCONE la mattina della scoperta dell’ordigno, presente anche il Cons. Meli accorso a confortare il collega, con il quale peraltro non aveva rapporti particolarmente cordiali, motivo per cui il particolare era rimasto impresso. Aggiungeva che le attività istruttorie concernenti i rapporti con i magistrati elvetici erano seguite in particolare dal dott. Natoli. Il dott. De Francisci non ricordava di minacce portate in danno della dott.ssa DEL PONTE anche per i rapporti non confidenziali intrattenuti con il Pm elvetico. Il dott. FALCONE non aveva comunque parlato di bersagli svizzeri, commentando l’episodio. Ricordava invece il suo gesto di stizza quando aveva saputo che era stato fatto saltare il detonatore.

Il dott. Cosimo DI PAOLA. Sempre nel corso della medesima udienza veniva escusso il dott. Cosimo DI PAOLA già appartenente all’ Ufficio Misure di Prevenzione della Polizia di Stato sin dal 1984 – 1985, indicato da Oliviero Tognoli (sentenza di I° grado f.305), quale “talpa” autore della soffiata, circostanza smentita dall’interessato, che gli aveva consentito nell’84, di sottrarsi all’arresto mentre si trovava all’Hotel Ponte di Palermo. La conoscenza con il finanziere italo-svizzero Oliviero Tognoli risaliva al 1968, quando avevano frequentato insieme, divenendo molto amici, l’Istituto scolastico Jacopo del Duca di Cefalù. In seguito egli si era recato a trovarlo a casa (a Concesio in provincia di Brescia) ed aveva conosciuto anche il fratello Mauro che studiava sempre a Cefalù. Il teste ricordava poi che il padre del Tognoli aveva lasciato l’attività imprenditoriale intrapresa a Campofelice di Roccella conseguendone per la famiglia il trasferimento a Pozzallo (RG). Il giovane Oliviero aveva sposato Mariannina Matassa una donna di Cefalù, peraltro sua parente, tornava spesso in quel centro, sicchè c’erano occasioni d’incontri. Non era a conoscenza dell’indagine a carico del Tognoli che, per lui, era stata una terribile notizia – allorquando l’aveva appresa - trattandosi del suo migliore amico. Circa sei mesi prima dell’arresto di Tognoli aveva iniziato a diradare le visite a Cefalù e lui non lo aveva più visto dopo una cena svoltasi a casa sua circa sei mesi prima dell’inizio latitanza (circa ottobre 1983) in esito alla quale ricordava che avevano visto il film "L’inferno di cristallo". Il teste aggiungeva di aver appreso la notizia dell’arresto recandosi a svolgere ordine pubblico all’Ippodromo e leggendo il titolo del quotidiano l’Ora. Ricordava che il Tognoli nominava l’Hotel Ponte ma non gli risultava se vi avesse soggiornato, dichiarava di non sapere se il Tognoli avesse avuto altri amici nella Polizia.

Il sovrint. Giuseppe LINDIRI. Sempre nel corso della medesima udienza veniva escusso l’agente Giuseppe LIRDIRI, all’epoca dei  fatti tutela personale del dott. FALCONE. Ricordava di aver preso servizio il 20 giugno alle ore 14.00 apprendendo dalla scorta che cessava il servizio, come il dott.     FALCONE si    dovesse incontrare all’Addaura con la dott.ssa DEL PONTE in serata: ricordava in particolare che l’altro agente di tutela aveva detto ‘guarda che stasera fate tardi’. Erano    arrivati    all’Addaura qualche minuto prima delle 16 notando, all’atto di bonificare la zona sulla scogliera insieme al collega Lo Re, numerosissimi bagnanti ed anche il borsone la maschera e le pinne cui non avevano dato peso. Erano partiti poi alle 16.30 per il Palazzo di Giustizia e lui era rimasto con FALCONE fino alle 24.00 anche se il turno ?niva alle 20.00. La sera il dott. FALCONE si era recato a cena venendo poi riaccompagnato a casa all’Addaura, dove non era stata fatta nuova bonifica. L’indomani mattina, 21- 06 avevano chiesto alla vigilanza fissa (che era svolta dal Reparto Mobile di Palermo) se qualcuno avesse ritirato la maschera le pinne e la muta accanto al borsone ed alla risposta negativa si erano insospettiti, avvicinatisi lui aveva aperto solo un centimetro del borsone avvedendosi dei ?li e della cassetta: ciò aveva reso palese la presenza dei fili e dell’ordigno.

La sig.ra Barbara SANZO. All’udienza del 24 giugno 2002 veniva esaminata la sig.ra Barbara SANZO, diretta collaboratrice del dott. FALCONE dal 1984 al 1991. La teste affermava di non avere alcun ricordo relativo a pericoli o prospettate minacce nei confronti della delegazione svizzera. Nella circostanza aveva incontrato in ufficio, sia il 19 che il 20 i rappresentanti dell’AG ticinese. In particolare il giorno in cui poi si era svolta la cena al Charleston, ovvero il 20 giugno, il dott. FALCONE in mattinata aveva proposto che, finito l’interrogatorio antimeridiano (probabilmente si trattava di quello di Greco Leonardo) che stava per avere inizio, si interrompesse la sessione lavorativa, verso le 13, e ci si recasse per il bagno alla villa dell’Addaura. Nel pomeriggio, intorno alle 16, ci sarebbe stato il secondo interrogatorio in programma. La proposta era stata ben accolta ma in seguito non si era concretizzata essendosi protratto l’interrogatorio più a lungo del previsto, ciò che non aveva consentito la sospensione per il pranzo. La teste ricordava esclusivamente la presenza dei due giudici, di due rappresentanti della polizia giudiziaria, la segretaria Tatiana, ed un difensore. Il giorno precedente, lunedì 19 giugno vi era stato un altro incontro, il primo, al quale non aveva partecipato. Nel pomeriggio, sempre del giorno 20, la teste ricordava di essere stata chiamata, sempre nel pomeriggio del giorno 20, dal dott. FALCONE che l’aveva invitata alla cena data anche la presenza della segretaria di LEHMANN, Tatiana, e allo scopo di evitare che la stessa potesse sentirsi a disagio. La cena aveva avuto inizio verso le 20.30-21.00 al ristorante Charleston alla presenza di almeno 20 convitati: la teste ricordava di aver sentito dire che gli interrogatori erano terminati verso le 19.00. Ricordava poi un commento di rammarico della segretaria Tatiana, per non aver potuto recarsi a fare il bagno secondo l’invito del dott. FALCONE non potendo più presentarsi l’occasione a causa della loro partenza già fissata per l’indomani, mercoledì 21 nel primo pomeriggio. Precisava infine che Leonardo Greco, il soggetto da interrogare detenuto era stato tradotto in ufficio; nel pomeriggio erano stati escussi altri soggetti tra cui anche alcuni a piede libero.

Il dott. Gioacchino NATOLI. Sempre nel corso della medesima udienza, si procedeva all’esame del Cons. Gioacchino NATOLI, già giudice istruttore a Palermo, anch’egli, come il dott. De Francisci componente di quell’ufficio sin dal 1986  quando aveva sostituito il dott. Paolo Borsellino nominato Procuratore di Marsala. Il teste ricordava di essersi occupato in quel periodo, dei vari maxi processi di Palermo, nonché di altri processi di mafia, trattando anche delle rogatorie anche se non specificatamente di quella per cui è causa. Il dott. LEHMANN era stato, comunque, il secondo Giudice Istruttore elvetico ad occuparsi del caso, sostituendo il precedente. Il teste ricordava che tra i soggetti da escutere vi era certamente, in qualità di indiziato, tale Salvatore Priolo. La deposizione del dott. Natoli non aggiungeva sostanzialmente nulla di significativo al quadro, relativo all’invito balneare presso l’Addaura ed alla cena del 20-6 al ristorante Charleston. Il teste aggiungeva soltanto che il dott. Ignazio Dantone, dirigente della Criminalpol in Sicilia e l’Isp. Siracusa, erano incaricati di sovrintendere agli spostamenti della delegazione svizzera. Conclusivamente, il teste sottolineava la particolarità e la flessibilità del sistema di sicurezza che ruotava intorno al dott. FALCONE. Ricordava inoltre il convincimento espresso dal collega, secondo cui l’attentato era di assoluta riferibilità a Cosa Nostra proprio per le indagini congiunte in atto, per la prima volta anche in tema di riciclaggio del denaro sporco, di cui uno dei terminali erano certamente le banche svizzere. In tal senso, il dott. FALCONE era convinto che vi fosse un interesse anche verso i magistrati svizzeri, anche perché se lui si trovava a Palermo tutto l’anno e l’attentato era stato progettato proprio in quel giorno, questa poteva essere l’unica spiegazione possibile: in tal senso il dott. FALCONE era certo che Cosa Nostra fosse a conoscenza della presenza della delegazione in quei giorni. Nell’udienza del 24 giugno l’appellante MADONIA Antonino aveva reso dichiarazioni spontanee in ordine ai suoi rapporti con la famiglia BRUSCA.

Dinamica e movente di un attentato. La Repubblica il 24 giugno 2020. L’inquadramento logico e cronologico del procedimento deve necessariamente prendere le mosse, a giudizio di questa Corte, dal contesto in cui ebbe a verificarsi l’attentato dinamitardo del 21 giugno 1989 che, pur senza conseguenze effettive, costituì la più concreta e drammatica premessa di quanto sarebbe poi accaduto in Capaci il successivo 23 maggio 1992. Già numerose precedenti pronunce giurisprudenziali hanno, ormai irrevocabilmente ricostruito, l’evoluzione dell’associazione criminosa denominata Cosa Nostra, sviluppatasi in Sicilia e rapidamente diffusasi in altre zone del territorio nazionale ed all’estero, a partire dall’inizio del secolo scorso. Tali pronunce costituiscono patrimonio acquisito e definitivo di quanto giudiziariamente accertato sulle condotte riconducibili a Cosa Nostra e sul fenomeno mafioso in generale e, tra di esse, un posto di riguardo merita senz’altro la sentenza n.80 pronunciata dalla I° sezione della Suprema Corte il 30/01/1992. La sentenza, pronunciata in sede di  legittimità all’esito del cd I maxi, (istruito tra gli altri proprio da Giovanni FALCONE e Paolo BORSELLINO sulla scorta delle dichiarazioni di Tommaso BUSCETTA), oltre ad accertare la natura piramidale e verticistica di Cosa Nostra (in tal senso con un cambio radicale di  indirizzo rispetto alla precedente giurisprudenza) aveva ricostruito definitivamente molte decine di omicidi avvenuti in Palermo, tra cui quello del Prefetto gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa (3/9/82), fissando per la prima volta il principio secondo cui   per i delitti cd. ‘eccellenti’ e cioè strategici ai fini dell’organizzazione, la responsabilità a titolo di concorso morale, quali mandanti, ricadeva  sugli organi di vertice e  cioè  sulla  commissione provinciale ed in particolare sul capo della vincente fazione corleonese, Salvatore RIINA, che nell’ambito della stessa rivestiva una posizione egemone. A tale sentenza avevano poi fatto seguito le stragi di Capaci e via d’Amelio dove persero la vita, unitamente agli uomini di scorta il dott. Giovanni FALCONE, la di lui moglie dott.ssa Francesca MORVILLO ed il dott. Paolo BORSELLINO. Queste pronunce hanno potuto investigare su moventi e condotte delle più gravi vicende criminali consumatesi in Sicilia tra la fine degli anni Ottanta  e l’inizio degli anni Novanta, tutte unificate sotto il comune denominatore della cd "strategia stragista", conseguenza immediata e diretta della volontà di attaccare "il cuore dello Stato": artefici di tale attacco le cosche corleonesi, uscite vincitrici dalla guerra di mafia del 1981/82 contro le vecchie ‘baronie’ mafiose palermitane, e con esse il loro incontrastato capo, Salvatore RIINA, odierno appellante. Ciò sinteticamente premesso, sotto un profilo generale, deve aggiungersi che, l’attentato per cui  è processo, si inserisce senz’altro nel quadro di quella spietata determinazione di “cosa nostra” sempre attuata con i metodi più cruenti e volta alla eliminazione fisica di quei magistrati o rappresentanti delle Forze dell’ordine che riuscivano ad esercitare un’azione di contrasto alla criminalità di particolare incisività grazie a conoscenze assai approfondite del fenomeno non disgiunte da penetranti intuizioni investigative. In particolare, grazie all’esperienza e alla professionalità del dott. FALCONE, oltre che per il determinante contributo dei collaboratori di giustizia, (in primis Tommaso BUSCETTA), le istruttorie formali da lui condotte (e soprattutto quella del primo maxi) avevano fatto un vero e proprio salto di qualità, orientandosi sulle connessioni e sui collegamenti nazionali ed internazionali delle lucrose attività illecite di “cosa nostra” per chiarirne, in profondità, i risvolti economici con incisiva capillare opera di ricostruzione e di accertamento bancario. Autorevole portatore delle nuove metodologie d’indagine finalizzate anche a scoprire in Italia ed all’estero i patrimoni illecitamente accumulati, dotato di conoscenze approfondite nell’ambito degli organigrammi della criminalità e soprattutto tra i primi ad utilizzare concretamente il contributo dei collaboratori di giustizia, il dott. Giovanni FALCONE, da anni Giudice Istruttore in Palermo, era ritenuto, da Salvatore RIINA e dai suoi accoliti, il ‘nemico numero uno’ di Cosa Nostra, e pertanto, quindi, già da molto tempo prima dei fatti per cui si procede, in cima alla lista dei soggetti da uccidere. In tale contesto, l’attentato per cui è processo si incastona perfettamente, senza che possano rilevarsi incongruenze logiche di sorta o contraddizioni con la consueta tipologia di azione di Cosa Nostra e ciò per alcune considerazioni di carattere oggettivo:

1. innanzi tutto l’astratta idoneità della condotta posta in essere a perseguire l’evento voluto dagli attentatori e cioè a cagionare la morte del dott. FALCONE e di quanto si trovassero con lui sulle scale in discesa verso il mare. Come infatti si vedrà, due diverse consulenze erano state disposte dal Pm nella fase delle indagini preliminari, la prima affidata al Capitano Delogu ed agli Ingegneri Corazza e Lotorto avente ad oggetto gli accertamenti sulle tipologie di esplosivi e detonatori, la seconda all’Ammiraglio Vassalle ed al dott. Cabrino, concernente i congegni elettronici connessi all’ordigno, la loro funzionalità ed efficacia. Gli esiti di tali accertamenti hanno consentito di verificare da un lato la micidialità della bomba che – secondo gli esperimenti svolti – avrebbe consentito di attingere chiunque si fosse trovato nel raggio di circa 60 m. con schegge potenzialmente mortali, dall’altro che i congegni di azionamento erano verosimilmente due (la mancanza di assoluta certezza era determinata dall’assenza di alcune parti a causa dell’esplosione controllata causata dall’artificiere dei Cc. Tumino, autore del primo, maldestro e per alcuni versi difficilmente comprensibile, intervento): un primo connesso ad un radiocomando e dotato di batterie, ritrovate in posizione ‘ON’ (acceso) con led rosso acceso ed autonomia di 20 ore circa, ed un secondo che avrebbe assicurato comunque l’esplosione all’atto di apertura dei manici del borsone. A tali considerazioni tecniche, può aggiungersi un dato promanante dal collaborante Giovambattista FERRANTE, il quale, narrando di un altro attentato dinamitardo ai danni dell’azienda di tale Nisticò (f.91 del 17/5/99) di cui si era personalmente occupato nell’aprile 1991, utilizzando lo stesso esplosivo dell’Addaura, aveva parlato di "un piccolo attentato" avente natura squisitamente intimidatoria con riferimento al collocamento di 2-3 candelotti di esplosivo, con ciò ponendo un implicito ma evidente, quanto sintomatico, distinguo con l’attentato per cui è processo nel ne erano stati impiegati ben 58.

2. In secondo luogo l’oggettivo impiego di mezzi e risorse (esplosivo, pattugliamento della zona, verifica degli spostamenti del dott. FALCONE, conoscenza dei luoghi) che fa senza alcun dubbio ritenere sussistente, nella preordinazione delle attività esecutive, non certo un atteggiamento di improvvisazione ma, per contro, un’organizzazione logistica che può definirsi capillare ed approfondita. Come confermato ampiamente dalle dichiarazioni di Giovanni BRUSCA (esame 29-6 e 20-9-1999) gli attentati già progettati in danno del dott. FALCONE, la cui esecuzione era stata rinviata o non si era concretizzata definitivamente per diverse circostanze, avevano sempre preso le mosse da un attento studio degli spostamenti della vittima – protetta di un dispositivo di sicurezza personale assai elevato – al fine di poterla colpire in uno dei luoghi di frequentazione abituale (la zona della Favorita, l’abitazione di un amico trapanese, la piscina frequentata ed addirittura il palazzo di giustizia) con esplosivi o armi ad alto potenziale (tra cui anche un “bazooka” f.74 del 29-6-99). In ogni aspetto, dunque, l’attentato dell’Addaura sembra ripercorrere le tappe di altri drammatici “appuntamenti” che Cosa Nostra aveva già approntato per il dott. FALCONE con analoghe modalità ed ai quali egli era inconsciamente riuscito a scampare per circostanze contingenti.

3. Da ultimo il contesto di delegittimazione nel quale la vittima, (come detto già da tempo inserito da Cosa Nostra ai vertici della lista di obiettivi da eliminare fisicamente), si trovava, per essere al centro di vicende che ne avevano appannato l’immagine pubblica. Numerose testimonianze hanno, chiarito non soltanto le connotazioni del difficile momento vissuto del dott. FALCONE in quegli anni, ma anche il verosimile, diretto interessamento di Cosa Nostra perché si venissero a creare le condizioni ideali per poter eliminare poi un nemico ormai indebolito.

In tal senso è significativo quanto riferito dal dott. Longo dirigente della Polizia di Stato (f. 14 es. 22-1-99) il quale affermava espressamente che: (…) anche l'invio di queste lettere anonime era stato interpretato come un tentativo di delegittimazione del dottore FALCONE per poi cercare di farlo fuori fisicamente. Del resto questo è... questi sono... questi erano i sistemi usati dai corleonesi, dal gruppo facente capo  a  Totò  RIINA.  Queste... queste forme di screditamento e quindi queste forme di delegittimazione con  la  susseguente  eliminazione fisica rientravano  in  questo  modus  operandi, in queste logiche. Tra l'altro, si rilevava che la nomina del dottore FALCONE come Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo, per cui questa... questo nuovo incarico certamente avrebbe... avrebbe potuto dare molto fastidio ai corleonesi, a "Cosa Nostra". Analogamente il collaborante Giovanni BRUSCA aveva significativamente riferito le affermazioni di Ignazio Salvo, (ambiguo personaggio contiguo a Cosa Nostra, potente esattore delle imposte di Salemi, già condannato irrevocabilmente nel “I° maxi” per associazione mafiosa e da ultimo eliminato dallo stesso BRUSCA come asserito ‘traditore’ il 12-9-92) così dichiarando espressamente: quando ci fu, nell'88, a questa... comunque, si può vedere la data con precisione, quando fu il dottor Giovanni FALCONE, fra virgolette, fu silurato quando... come Consigliere Istruttore, Ignazio Salvo mi disse, dice: "Siamo riusciti a delegittimarlo", in quella occasione io vado da Salvatore RIINA e Salvatore RIINA mi dice: "A me non mi interessa, noi abbiamo stabilito di eliminarlo; loro si sono sistemati i fatti suoi, noi dobbiamo eliminarlo comunque".

L'attendibilità dei pentiti. La Repubblica il 25 giugno 2020. La valutazione probatoria dei giudici di prime cure dev’essere, ad avviso della Corte, sostanzialmente condivisa. L’impianto probatorio ha preso le mosse, innanzi tutto, dalle indagini tecniche svolte sulla tipologia di esplosivo ritrovato, sia nelle immediatezze del fatto, sia negli anni successivi. In seguito, l’accesso alla collaborazione con lo Stato di personaggi organicamente inseriti in Cosa Nostra, infittitosi tra la tarda primavera e l’estate del 1996, ha fornito, per la convergenza di più dichiarazioni d’autonoma fonte, un contributo processuale che può senz’altro definirsi decisivo ai fini della individuazione dei mandanti e degli esecutori materiali. In particolare le dichiarazioni dei coimputati, Giovambattista FERRANTE, Francesco ONORATO, di Giovanni BRUSCA – del tutto attendibili ed indipendenti e come tali idonee a fornirsi reciprocamente riscontro nell’ambito della c.d. convergenza del molteplice ex art. 192 comma 3° c.p.p. - ed in minor misura di Salvatore Cancemi, hanno contribuito a squarciare il velo di mistero che per molti anni aveva avvolto l’episodio chiarendo le modalità decisionali ed esecutive che avevano condotto alla collocazione dell’ordigno presso la scogliera dell’Addaura.

La rinnovazione parziale dell’istruttoria dibattimentale ai sensi dell’art. 603 cpp ha peraltro consentito di integrare il quadro di prove dichiarative mediante l’esame in contraddittorio di due soggetti addivenuti, nelle more, al programma di collaborazione: Baldassarre RUVOLO ed Antonino GIUFFRE’. La Corte d’Assise di primo grado ha correttamente individuato i parametri di valutazione della prova dichiarativa, secondo la lettura interpretativa dell’art. 192 cpp fornita dalle numerose sentenze della Suprema Corte che, nel corso del tempo, hanno indicato l’iter da seguire per una rigorosa verifica critica, delle dichiarazioni dei collaboranti sottraendole a quel naturale alone di sospetto che, proprio per la loro natura, le contraddistingue ab initio. Lungi dal voler ripercorrere quei parametri, peraltro già ampiamente richiamati in precedenza, la Corte ritiene non soltanto che sia del tutto condivisibile quella metodologia valutativa della prova, ma che in concreto essa sia stata applicata correttamente nell’esame singolo e comparativo delle diverse dichiarazioni dei collaboranti escussi. Richiamata dunque la pronuncia di primo grado in merito ai principi generali, rimane però onere del giudice d’Appello esaminare in dettaglio le singole dichiarazioni onde giustificare le ragioni che l’hanno condotto a condividere la soluzione adottata. Al fine di meglio valutare il contributo probatorio dei singoli collaboratori escussi in primo e secondo grado, la Corte reputa indispensabile illustrare, per ciascuno di essi, sotto il profilo della credibilità personale e della attendibilità intrinseca del narrato, il ruolo rivestito in “cosa nostra”, le specifiche conoscenze sull’episodio di cui è processo e quindi, in sintesi, l’incidenza di esse s sul complessivo quadro probatorio.

Giovambattista FERRANTE. [...] La piena veridicità delle dichiarazioni rese nel presente procedimento è fondata sul fatto che esse riflettono solo i frammenti di condotta da lui direttamente conosciuti per avervi partecipato. In sostanza il collaborante sfugge alla tentazione di addentrarsi in ipotesi e prospettazioni fondate su altre e più generali conoscenze indirette, ovvero su semplici deduzioni limitandosi a riferire il frutto della di lui diretta percezione. Nello specifico, il FERRANTE ha raccontato di aver saputo da Salvatore BIONDINO, un paio di giorni prima del 21 giugno 1989, che si doveva prelevare un certo quantitativo di esplosivo Brixia da consegnare ad Antonino MADONIA, il quale non aveva precisato la causale della richiesta. Il BIONDINO gli aveva     poi detto che si sarebbe informato presso chi di dovere – da individuarsi secondo le  logiche di     “cosa    nostra”     in Salvatore RIINA – sulla necessità di dar seguito a quella richiesta ed effettivamente, “qualche giorno dopo”, lo aveva contattato per andare a prendere la dinamite avendo avuto le necessarie rassicurazioni. Insieme si erano recati, dunque, a prelevarlo presso il deposito di c.da Malatacca in San Lorenzo, per lasciarlo poi a casa del BIONDINO da dove, per quanto gli era noto, il MADONIA doveva poi passare a ritirarlo, nel pomeriggio. La attendibilità intrinseca del racconto di FERRANTE, soggetto la cui credibilità personale è già stata positivamente accertata, emerge chiarissimamente innanzi tutto dalla circostanza secondo cui il BIONDINO, avrebbe sentito la necessità, prima di dar corso alla richiesta di esplosivo, di accertarne la ragione: non può trascurarsi infatti che il BIONDINO – secondo le dichiarazioni unanimi di tutti i collaboranti – era stato collocato al vertice del mandamento di San Lorenzo dallo stesso RIINA, di cui godeva l’assoluta fiducia e al quale normalmente faceva da autista nei vari spostamenti tanto da essere da ultimo tratto in arresto in sua compagnia il 15 gennaio del 1993. In presenza di tale stretto rapporto fiduciario e dei canoni vigenti in Cosa Nostra, il BIONDINO non poteva agire certamente di propria iniziativa, bensì quale esecutore di volontà riconducibili espressamente al RIINA, sicché è del tutto plausibile che egli abbia ritenuto indispensabile accertare preventivamente la causale e l’eventuale obbligo di adempimento, verso la richiesta del MADONIA. In tutto ciò il FERRANTE (di cui si riporta la specifica dichiarazione sul punto f.50 del 17-5-99) non ha mai espressamente riferito di aver sentito pronunciare il nome del RIINA dal proprio capo mandamento BIONDINO, né ha riferito di aver saputo con certezza che MADONIA aveva ritirato (e poi utilizzato) l’esplosivo con ciò avvalorando ulteriormente quanto affermato non essendo emersa alcuna acrimonia da parte sua. FERRANTE GIOVAN BATTISTA: - Sì. E allora, come  epoca precedente praticamente il... la richiesta è stata fatta innanzitutto non a me, ma a Salvatore BIONDINO. Salvatore BIONDINO era il nostro capodecina, però dopo l'arresto di Pippo Gambino diciamo che è stato lui che reggeva la nostra famiglia, l'intero mandamento di San Lorenzo, e la richiesta, appunto, è stata fatta credo due... o due o tre giorni prima, diciamo, del fallito attentato. Praticamente è successo che il Nino MADONIA, da quello che mi ha riferito Salvatore BIONDINO, il Nino MADONIA è andato a chiedergli del... dell'esplosivo dicendo, appunto, se avevamo... se poteva dargli... se poteva Salvatore BIONDINO fargli avere l'esplosivo. Quando il Salvatore BIONDINO mi disse questo praticamente gli ho chiesto: "Ma scusa, ma Nino MADONIA come fa a sapere se noi abbiamo dell'esplosivo?" Lui mi rispose, dice: "Può darsi che gliel'avrà detto Pippo... Pippo Gambino, comunque - dice - io se lui non..." Praticamente non gli aveva detto a cosa serviva, a cosa doveva servire questo esplosivo, dice: "E se prima io non lo vado a riferire e a dire - dice - l'esplosivo non glielo do. Quindi dice - Tieniti pronto che eventualmente glielo dobbiamo dare". Dopo qualche giorno Salvatore BIONDINO ci siamo rivisti, perchè ci vedevamo molto... molto spesso; ci siamo rivisti e mi disse che si doveva andare a prendere dell'esplosivo per consegnarglielo. Ed ancora (f. 55) FERRANTE GIOVAN BATTISTA: - Allora, la persona con cui parlava Salvatore BIONDINO era appunto Salvatore RIINA, dopo l'arresto di Pippo Gambino, però Salvatore BIONDINO, con tutta sincerità, non mi disse: "Lo vado a dire a Salvatore... diciamo, a Totò RIINA"; mi disse soltanto che lo doveva andare a dire. Per me era scontato che si trattava di Salvatore RIINA, perché, ripeto, appunto, il Gambino era già detenuto da un po' di tempo e l'unico punto di riferimento per andare a chiedere, diciamo, un'autorizzazione, una spiegazione del genere era appunto Salvatore RIINA.[…].

Francesco ONORATO. […] Il contributo del collaborante è stato valutato dai giudici di prime cure come autenticamente veritiero ed utile ai fini della ricostruzione del fatto: non vi è in effetti alcun motivo per dubitare della credibilità dell’ONORATO personale e dell’attendibilità intrinseca della dettagliata versione da lui resa benchè qualche specifico episodio narrato, non abbia trovato riscontro esterno. In particolare,    l’incontro presso l’abitazione     di Mariano Tullio Troìa, cui il collaborante ha ricordato di aver assistito e nel corso della quale si sarebbero definiti ruoli e condotte nell’esecuzione dell’attentato, è confortato solo da    una generica indicazione da parte del FERRANTE (f.68 del 17-5-99) relativa soltanto alla prassi di quel periodo per Cosa Nostra, tenere delle riunioni in quei luoghi. Ora se il racconto dell’ONORATO pare intrinsecamente  e soggettivamente credibile sul punto, non può farsi a meno di rilevare che, in ogni caso, il corpus indiziario relativo alla circostanza narrata, (l’incontro citato) non essendo suffragato da ulteriori elementi, non potrà essere elevato al ruolo di prova, diversamente da altri particolari, sempre evidenziati dall’ONORATO che, pacificamente coniugatisi con le convergenti dichiarazioni di Giovambattista FERRANTE, hanno sostanzialmente inciso sul reale quadro di elementi a carico degli imputati. Parimenti, per ciò che concerne la chiamata di correo del collaborante nei confronti dei due imputati Angelo ed Enzo GALATOLO, deve ritenersi che la unicità di tale fonte, pur apparendo solidamente ancorata ai dettagli riferiti ed alla generale coerenza del narrato, non consenta uno sviluppo valutativo tale da farlo assurgere al ruolo di prova ex art. 192, 3° comma c.p.p.. In sostanza dunque, deve condividersi l’assunto dei giudici di prime cure relativamente alla decisività dell’apporto di Francesco ONORATO, pur dovendosi distinguere - in forza del noto principio giurisprudenziale della frazionabilità delle chiamate di correo - tra quella porzione di contributo che è subito apparsa riscontrata da altri elementi di prova, e quanto invece è rimasto sguarnito delle necessarie sponde di riferimento.

Giovanni BRUSCA. Capo mandamento della famiglia di San Giuseppe Jato sin dal 1989, era succeduto al padre Bernardo dopo l’arresto di quest’ultimo. La sua collaborazione, iniziata sin dal momento immediatamente successivo all’arresto del 20 maggio 1996, si è manifestata chiaramente dal mese di agosto dello stesso anno ed ha fornito un contributo che, pur riguardando solo indirettamente di fatti concernenti l’attentato dell’Addaura, si è rivelato di grande utilità per la ricostruzione del complessivo quadro di verificazione degli eventi soprattutto con riferimento a quanto dichiarato sui precedenti, numerosi tentativi, di eliminazione del dott. FALCONE dei quali egli stesso si era personalmente occupato. In particolare il collaborante ha riferito (f.67 del 29-9-1999) che i primi progetti di Cosa Nostra per uccidere il dott. FALCONE risalivano al 1983, circa una settimana dopo l’attentato di via Pipitone Federico (29-7-1983) dove aveva trovato la morte il Cons. Istruttore Rocco Chinnici. Erano stati lui stesso ed Antonino MADONIA ad occuparsi di predisporre il collocamento di un’autobomba, su diretto incarico del RIINA. All’uopo avevano studiato gli ingressi al palazzo di Giustizia della vittima ipotizzando la sistemazione del tritolo all’interno di un “vespino” da parcheggiare davanti al Tribunale oppure nel furgone Fiorino della pasticceria che riforniva ogni mattina gli uffici. Il dispositivo sarebbe stato azionato a distanza sfruttando lo studio del Notaio Morello definito “amico dei corleonesi” (f.70), situato sempre nei paraggi del Tribunale. In seguito, nel 1984, al ritorno da un breve periodo di detenzione, il Di Maggio gli aveva raccontato di aver provato, sempre con la medesima finalità, un bazooka che però non pareva adatto alle necessità prospettate. Lui stesso poi, nel 1987/88, aveva studiato il possibile impiego per quel tipo di arma, (f.79 ibidem) non semplicissima da usare, essendo pronto dunque ad utilizzarlo. Ancora nel 1983, avendo avuto notizia di una frequentazione tra il dott. FALCONE e tale Bulgarella, risalente alla fine degli anni settanta quando il magistrato lavorava a Trapani, aveva progettato, insieme a Giuseppe Giacomo Gambino (f.80 ibidem) e Nino Madonia, un altro attentato, da commettersi, in quel territorio, con armi tradizionali. Di tale quadro dei tentativi reiterati di eliminare fisicamente il dott. FALCONE, non può seriamente dubitarsi sia perché il BRUSCA ebbe a parteciparvi direttamente (almeno nella maggior parte dei casi) così fornendo un contributo frutto di diretta scienza, sia perché le dichiarazioni del collaborante hanno trovato pieno riscontro nel ritrovamento di parte di quelle stesse armi (tra cui il bazooka) pervenute a Cosa Nostra con il dichiarato intento di utilizzarle contro il magistrato. Deve   peraltro   aggiungersi   che   gli innumerevoli progetti omicidiari non realizzati o falliti, danno atto della loro oggettiva difficoltà di esecuzione che aveva comportato il notevole impegno degli uomini incaricati e smentiscono la tesi (proposta da taluni difensori nel corso della discussione) secondo cui dovrebbe ritenersi – in base a quanto accaduto a Capaci ed in via d’Amelio - una sorta di ‘infallibilità’ di Cosa Nostra nella perpetrazione di attentati omicidiari: così evidentemente non è, sia per quanto detto dallo stesso BRUSCA, sia perché i sistemi di sicurezza applicati rendevano oggettivamente non scontato   l’esito   del   programma   criminale,  pur fondato su consistenti basi logistiche e mezzi del tutto idonei a raggiungere l’obiettivo. Come già rilevato in precedenza poi, oltre a giustificare l’antefatto rispetto all’attentato dell’Addaura, la deposizione del BRUSCA chiarisce assai bene la collocazione temporale di tale vicenda giustificandone pienamente la esecuzione in quel momento che si presentava particolarmente favorevole. Era stato lo stesso Ignazio Salvo (come sottolineato in precedenza) a riferire al BRUSCA che era già in atto da tempo l’opera di delegittimazione della vittima (f.97 ibidem), tanto profonda e sottile da rendere non più necessario commettere quell’omicidio: tali perplessità, peraltro, erano state immediatamente fugate, quando il BRUSCA le aveva manifestate dallo stesso RIINA il quale, more solito, riteneva indipendenti i due fatti e voleva a tutti i costi portare a compimento il progetto omicidiario indipendentemente dalla campagna denigratoria in atto. Così letteralmente il collaborante: BRUSCA GIOVANNI: - Guardi, la richiesta di non eleggere il dottor Giovanni FALCONE come Consigliere a "Cosa Nostra" non interessava, cioè non è che da parte di Salvatore RIINA dice: "Impedite questo fatto". Nella maniera più categorica no. Era un fatto prettamente politico, per i fatti loro, e Ignazio Salvo, Ignazio Salvo, quando è successo questo fatto dice: "Tramite amici, ancora qualche amico c'è ", e si riferiva al... mi ha fatto il nome, cioè il dottor Vitalone e l'onorevole Andreotti: "Siamo riusciti a non fare eleggere Consigliere Istruttore il dottor Giovanni FALCONE. Cioè, fra virgolette dice: "Lo hanno silurato".

P.M.: - E in altro...

BRUSCA GIOVANNI: - E lì dice: "Fagli sapere a Totuccio... fagli  sapere a Totuccio - cioè a Salvatore RIINA - al tuo padrino, che non c'è più bisogno di eliminarlo, in quanto lo abbiamo delegittimato". Io questo... le stesse parole li portai a Salvatore RIINA e Salvatore RIINA in quella occasione esternò dicendo, dice: "Loro si sono sistemati i fatti loro - cioè che in quanto Ignazio Salvo era giuridicamente attaccato da parte del, prima, dottor Chinnici e poi dal dottor Giovanni FALCONE, dici - e a noi ci vogliono lasciare con i piedi di fuori". Non parlò: "Mi vogliono; ci vogliono lasciare con i piedi di fuori. - dici - Mi vogliono fare (venire) a mettere fumo? - dici - Noi abbiamo stabilito che lo dobbiamo eliminare, noi lo eliminiamo. - dici - A me non mi interessa quello che lui vuole fare o quello... quello che vogliono.

Ed è ancora BRUSCA a riferire come, sempre alla sua presenza nel corso di un incontro in Contrada Dammusi, (f.92 ibidem) si era parlato della possibilità, di uccidere il dott. FALCONE a Roma: di tale progetto si era fatto portatore Bernardo Provenzano, alter ego del RIINA all’interno della commissione provinciale e suo successore dopo l’arresto del gennaio 1993, titolare di un diverso e parallelo ruolo, rispetto al RIINA, con una maggiore propensione per una strategia meno cruenta, basata più che sullo scontro diretto, su un’opera sottile di infiltrazione e di artificioso aggiramento. Ciò avvalora la credibilità del racconto di Giovanni BRUSCA sul progetto di eliminazione del magistrato nella capitale dove, tenendo lontani i ‘riflettori’ dalla Sicilia, si sarebbe comunque ottenuto il risultato voluto facendo ricadere colpe e sospetti su altri ambienti, evitando la prevedibile reazione dello Stato su Cosa Nostra. Le dichiarazioni di Giovanni BRUSCA hanno poi chiarito – sempre sotto il profilo d’inquadramento cronologico della vicenda per cui è processo – il contrasto solo apparente tra la progettata eliminazione del magistrato e l’aspettativa per gli esiti del I° maxi-processo palermitano che aveva indotto Cosa Nostra ad un periodo di ‘stasi’, nell’attacco diretto al cuore dello Stato, onde non pregiudicare l’auspicata conclusione positiva di quel procedimento (f.131). Il collaborante ha infatti sottolineato che solo in epoca successiva al 1990 (e quindi, evidentemente, dopo l’attentato all’Addaura) il progetto omicidiario era stato sospeso, e con esso anche lo studio delle nuove abitudini del magistrato, già trasferito a Roma, di cui lo stesso BRUSCA si era talvolta occupato, (il periodo è quindi successivo al febbraio 1991 data d’insediamento del dott. FALCONE al Ministero della Giustizia). La sospensione del progetto era dichiaratamente legata alla decisiva svolta che si attendeva – ed in cui, invano, si sperava – dalla celebrazione del maxi processo presso la Corte di Cassazione: così BRUSCA letteralmente (f.132 ibidem): C'è stato un momento di stasi, nel senso per dire: "Fermiamoci, che non si deve dire che il processo va male a causa dell'attentato contro il dottor Giovanni FALCONE". Tanto è vero che prima della sentenza già qualcuno a Roma studiava per poterlo eliminare, e qualche volta ci sono andato pure io, però poi, alla fine, si è aspettato che uscisse la sentenza per poi mettere in atto il progetto criminoso nei confronti del dottor Giovanni FALCONE. L’ultima considerazione relativa al contributo del BRUSCA si riferisce ad una precisa circostanza, narrata dal collaborante sempre per averla vissuta in prima persona, (f.116 ibidem). Il collaborante ha rammentato in particolare un commento di censura verso Antonino MADONIA, sfuggito a Salvatore BIONDINO, qualche giorno dopo la strage di Capaci quando gli autori di quel crimine si erano incontrati per “festeggiare” con uno squallido brindisi, la riuscita eliminazione del nemico di Cosa Nostra. BRUSCA GIOVANNI: - Con Salvatore BIONDINO io non è che ne parlai, quando abbiamo commesso la strage di Capaci... quando abbiamo commesso la strage di Capaci, a strage fatta, quando siamo tornati, cioè tornati... quando ci siamo riuniti che dovevamo fare il brindisi, in quella circostanza, mentre che stavamo salendo, il BIONDINO esternava... cioè, esternava contro Antonino MADONIA per dire: "Se allora avrebbe chiesto aiuto, avrebbe chiesto collaborazione, cioè non c'era bisogno di arrivarci ora e no che si è affidato a 'na pocu di picciutteddi". E questo è successo mentre che noi stavamo salendo la scala. Poi, nel frattempo, lui continuava a polemizzare sul punto e poi è intervenuto Salvatore RIINA dicendo: "Totù, nun ni parliamo più, è successo, lo abbiamo fatto, non ne parliamo più". Questo è stato dicendo... stava... cioè, salendo la scala che molte volte... cioè le riunioni le facevamo al primo piano, salendo quando siamo nella scala, poi siamo arrivati dentro la stanza, quando ci siamo seduti è successo questo. C'ero io, c'era Cancemi, c'era Raffaele Ganci, c'era Pietro Rampulla, e precisamente, io che posso darle con precisazione, fu quando dovevamo fare il brindisi. Però l'argomento è stato tra me, BIONDINO, Salvatore RIINA, però gli altri erano pure presenti. Non so se c'hanno fatto caso o lo hanno sentito, questo non glielo so dire.

P.M.: - Sì. Ecco, vuole spiegare esattamente a quale incontro, a quale riunione fa riferimento?

BRUSCA GIOVANNI: - Dunque, il 23 maggio succede la strage di Capaci; dopo una settimana, otto giorni, dopo poco tempo, ci siamo incontrati un'altra volta a... per festeggiare la riuscita dell'attentato e in questa circostanza e' venuto fuori questo commento. Nell’episodio narrato dal BRUSCA, la cui credibilità personale e attendibilità intrinseca, sono conclamate dalle plurime concessioni della speciale diminuente di cui all’art. 8 della l.203/91, non è individuabile alcun concreto interesse specifico a mentire. Lo specifico particolare, presenta sul piano della valutazione probatoria un carattere altamente individualizzante ex art 192 cpp, sia per il RIINA, attesa la di lui qualità egemone all’interno di Cosa Nostra, che per il MADONIA, a carico del quale, oltre al dato della richiesta dell’esplosivo, del tutto identico a quello rinvenuto all’Addaura (FERRANTE), milita l’elemento della cd territorialità poiché  la villa del dott. FALCONE era ubicata proprio nel mandamento di Resuttana da lui comandato. Il racconto del BRUSCA vieppiù attendibile poiché riguarda una vicenda di cui è stato testimone diretto, ha trovato un pur solo parziale, conforto nelle dichiarazioni del CANCEMI, partecipe all’incontro citato anche se non coinvolto nella conversazione con il BIONDINO. La circostanza, di indubbio rilievo, se valutata unitamente a tutti gli altri elementi provenienti dalle dichiarazioni di ONORATO e FERRANTE, su due aspetti autonomi della vicenda, (l’opera di pattugliamento ed il reperimento dell’esplosivo) contribuisce a fissare almeno due elementi di indiscusso valore probatorio: l’attribuibilità dell’attentato a Cosa Nostra la partecipazione ad esso di Antonino MADONIA, insita nel commento critico, poiché diversamente le lamentele del BIONDINO e la risposta del RIINA, sarebbero prive di senso comune.

Salvatore CANCEMI. Il CANCEMI che aveva sostituito Pippo Calò sin dal 1985 alla guida del mandamento di Porta Nuova, per poi costituirsi il 22 luglio del 1993 ed iniziare una collaborazione altalenante, pur riferendosi solo in modo marginale alla vicenda dell’Addaura, ha fornito un elemento, che può ben utilizzarsi quale riscontro temporale, di luogo e di compartecipazione, a sostanziale conferma della circostanza narrata dal BRUSCA sul commento del BIONDINO successivamente alla strage di Capaci. Il collaborante, pur senza ricordare l’esatto tenore di tali espressioni, ha però sottolineato che, in occasione del famigerato brindisi, aveva percepito un commento di critica rivolto ad Antonino MADONIA (f.107), responsabile del fallimento dell’Addaura. La circostanza, pur sguarnita di dettagli che possano renderla particolarmente significativa, è positivamente utilizzabile, solo quale riscontro di circostanza alle dichiarazioni di Giovanni BRUSCA. […] Altri contributi di ancor meno significativa rilevanza sono venuti dai diversi collaboratori escussi in primo grado. Tra di essi, merita alcune considerazioni per avere riferito notizie specifiche sull’attentato, coinvolgendo espressamente uno degli imputati assolti in primo grado (Angelo GALATOLO), Vito LO FORTE, soggetto non affiliato ma vicino a Cosa Nostra e sottoposto a programma di protezione sin dal 1992. Al narrato del collaborante deve attribuirsi, ad avviso della Corte, scarso rilievo. In sostanza il Lo Forte (esame del 4/10/99) aveva riferito di aver ricevuto, nel dicembre 89, mentre si trovava agli arresti domiciliari, la visita di Angelo GALATOLO, odierno appellato, con cui aveva partecipato, nell’aprile dell’89, all’omicidio di tal Matteo CORONA conf. Dott. Mario BO (?. 7-9 del 18-10-1999). Il GALATOLO, con il quale avevano tra l’altro affrontato l’argomento relativo alla vicenda per cui è processo, aveva detto che era stato proprio lui, insieme ad altri a collocare la bomba e che l’azione era stata decisa per intimidire il Giudice FALCONE ed i componenti la delegazione svizzera. Dubbi sulla stessa veridicità della confidenza e della  confessione stragiudizialmente ricevuta, sono stati peraltro espressi dallo stesso LO FORTE (ibidem) il quale ha riferito di non poter escludere, conoscendo il giovane GALATOLO, che costui potesse aver mentito per farsi grande. Sul punto pur non ravvisandosi ragioni per disattendere il motivato giudizio dei primi giudici sull’intrinseca attendibilità del collaborante (sent. f. 200-201), nonostante i contrasti che lo avevano contrapposto poi alla famiglia GALATOLO, anche alla luce dei riscontri positivamente emersi, resta insuperabile ad avviso della Corte il dubbio relativo alla effettiva rispondenza al vero delle circostanze apprese de relato, attesa la pacifica propensione alle vanterie e alle esagerazione della fonte, il giovane GALATOLO, che aveva fornito le notizie, violando incautamente i canoni di riservatezza tipici di cosa nostra. Da ultimo merita di essere evidenziato che la stessa vittima designata sfuggiva notoriamente a qualsivoglia forma intimidatoria alle quale si era in passato più volte mostrato impermeabile. Ciò rende a maggior ragione inverosimile sul punto le confidenza del Giovane Galatolo al LO FORTE sugli obiettivi e sulle finalità dell’attentato. [...]

Antonino GIUFFRE’. Il collaborante Antonino GIUFFRE’, il cui accesso al programma di protezione risale agli ultimi mesi del 2002, è soggetto il cui ruolo in Cosa Nostra ha avuto certamente spessore elevatissimo, sia per la carica di capo mandamento di Caccamo mantenuta dal 1987 fino al giorno dell’arresto (17 aprile 2002), che per la indubbia vicinanza a Bernardo Provenzano, rimasto a capo della consorteria dopo l’arresto del 1993 di Salvatore RIINA e tuttora latitante. La credibilità personale del GIUFFRE’, scaturisce  ad avviso della Corte, dalla sua qualità di capo mandamento e di componente della commissione provinciale, per oltre 15 anni che gli ha offerto la possibilità di apprendere alla    fonte le notizie di maggior rilievo oltre che di dare il proprio contributo anche per il rapporto privilegiato che lo legava al Provenzano, a scelte strategiche di ordine generale e di verificare di persona di    volta in volta,    le motivazioni alla base delle singole azioni criminose. Sul piano dell’attendibilità interna, il narrato appare (ancorché di fonte non diretta) non assimilabile alle notizie meramente de relato trattandosi di dati che costituivano un patrimonio conoscitivo comune dell’associazione come tali destinate ad essere inevitabilmente noti ai personaggi che nell’ambito di essa rivestivano un ruolo di rilievo, nonchè caratterizzato da disinteresse, spontaneità, coerenza logica, senso della misura, senza che si possa intravedere ragionevolmente alcun intento di accusare falsamente altri ovvero di nascondere la propria partecipazione diretta all’episodio che non risulta in alcun modo aliunde ricavabile. Dal punto di vista dei riscontri esterni, nell’ambito della convergenza del molteplice, il racconto del GIUFFRE’ è in toto compatibile con la ricostruzione del fatto, eseguita in modo del tutto indipendente in ordine a segmenti autonomi della vicenda da ONORATO, FERRANTE e BRUSCA L’esame del collaborante, disposto dalla Corte in conseguenza del verbale di dichiarazioni rilasciato in data 4-12-02 ai Pubblici Ministeri di Roma e Palermo dal GIUFFRE’, quando il procedimento odierno si trovava già nel corso della discussione, ha senz’altro contribuito a corroborare il quadro probatorio già formatosi in precedenza. GIUFFRE’ ha confermato, infatti, conoscenza approfondita delle logiche e delle modalità di azione interne a Cosa Nostra, ed ha narrato di frequentazioni periodiche, "quasi settimanali" anche nell’immediatezza del suo arresto con il Provenzano, con il quale aveva modo di affrontare argomenti attinenti le attività illecite della consorteria. Nell’ambito di tali frequenti incontri, sia con il Provenzano che con altri personaggi, pure di elevato spessore quali Raffaele e Domenico Ganci, Michelangelo La Barbera, Carlo Greco e Pietro Aglieri, il ritrovamento della borsa contenente l’esplosivo – secondo il collaborante - era stato oggetto di commenti e di scambi di idee avvenuti, tra i consociati alcune settimane dopo il fallito attentato. In merito all’attribuibilità a Cosa Nostra di tale episodio criminoso il GIUFFRE’ non ha manifestato alcun dubbio o perplessità sottolineando anzi che, l’atipicità di una delibera omicidiaria non assunta dall’organismo di vertice (la Commissione provinciale) nella sua completezza, ma soltanto da parte del RIINA e di pochi suoi “fedelissimi”, rientrava in una logica perfettamente compatibile con le strategie di Cosa Nostra in quel periodo. Il collaborante ha infatti precisato che, se da un lato il “comitato ristretto” facente capo a Salvatore RIINA gestiva di fatto molte importanti questioni e deliberava in autonomia rispetto al resto della commissione, è pur vero che nell’attentato per cui  è processo, non erano state violate le regole interne essenziali venendo coinvolti quei personaggi che, non soltanto erano particolarmente vicini al RIINA (BIONDINO e MADONIA) ma erano altresì a capo dei due mandamenti (San Lorenzo e Resuttana) a cavallo dei quali doveva consumarsi lo stesso attentato. E’ di tutta evidenza conclusivamente che, le autonome affermazioni del collaborante devono essere considerate attendibili, per essere prive di contraddizioni e soprattutto coerenti, con quanto già sostenuto, in modo del tutto convergente, dal FERRANTE e dall’ONORATO in merito alla fase esecutiva dell’attentato.

Deve dunque ritenersi che la forte egemonia dei corleonesi e del RIINA stesso, uscito vincitore dalla seconda guerra di mafia degli anni Ottanta, abbia condotto quel gruppo di potere, in esecuzione delle deliberazioni di morte nei confronti degli storici nemici  di  “cosa  nostra” quale il dott. FALCONE a tentare di portare a compimento quei piani criminosi avvalendosi dei più fidati consorti e scegliendo, per l’esecuzione, i territori facenti capo a costoro. In tal senso, come già sottolineato, le affermazioni dei collaboranti che hanno contribuito al procacciamento dell’esplosivo (FERRANTE) ed all’organizzazione logistica del crimine (ONORATO) si coniugano perfettamente con il quadro tracciato dal GIUFFRE’, per il denunciato ed effettivo coinvolgimento di uomini e territori afferenti la ristretta sfera dei fiduciari di Salvatore RIINA.

Le indagini su congegno ed esplosivo. La Repubblica il 26 giugno 2020. Un ruolo determinante nell’accertamento dei fatti per cui si procede, è stato correttamente assegnato, dai giudici di prime cure – come questa Corte integralmente condivide - alle indagini tecniche svolte sulla tipologia di esplosivo utilizzato nell’attentato. Senza voler ripercorrere il dettagliato e condivisibile esame svolto nell’impugnata sentenza con riferimento alle dichiarazioni dibattimentali dei consulenti escussi va sottolineata la piena e totale concordanza delle conclusioni a cui sono pervenuti i due collegi tecnici, ai quali erano stati conferiti dai Pm procedenti i rispettivi incarichi:

un primo, affidato, con incarico del PM di Caltanissetta del 25.7.89 agli Ingegneri Corazza e LoTorto ed al dott. Delogu, avente ad oggetto la descrizione dell’apparecchiatura rinvenuta, la possibile provenienza dei materiali e l’accertamento sulla funzionalità del congegno di esplosione unitamente all’autonomia di cui era dotata; un secondo, affidato il 3.7.97, sempre dal PM nisseno al dott. Cabrino ed all’Ammiraglio Vassalle, per la specifica individuazione del raggio di azione dell’ordigno esplosivo rinvenuto.

Le conclusioni dei due collegi tecnici non avevano lasciato spazio a serie e fondate perplessità sull’efficienza della bomba (af. 1581). Nel primo caso era stata accertata l’azionabilità dell’ordigno mediante radiocomando che poteva agire da “qualche centinaio di metri” (af. 1580) ed anche, verosimilmente, mediante dispositivo a contatto (accostamento dei manici del borsone); il gruppo di alimentazione era idoneo a garantire l’azionamento del congegno con autonomia “illimitata del detonatore” e stimata in “20 ore circa relativamente al ricevitore”.

Il secondo collegio aveva poi individuato tra le caratteristiche di lesività del congegno un peso complessivo di 7,83 Kg, un raggio di letalità pari a circa 2 metri per effetto dell’onda d’urto e pari a circa 60 metri per la proiezione di circa 100 schegge del peso medio di 6,3 grammi ciascuna. Il frutto di tali elaborazioni tecniche è stato ampiamente confermato e precisato in dibattimento, dove è peraltro emerso che il congegno si trovava in posizione attiva, con un led rosso acceso e pronto ad esplodere non appena avesse ricevuto l’impulso: in questo senso hanno precisato, sia il consulente dott. Delogu (f. 99 del 22.1.99) che lo stesso brigadiere Tumino (f. 62 20.12.99), materiale autore del primo intervento.

Alla luce di tali considerazioni pertanto, non è possibile condividere alcuna delle perplessità manifestate nei motivi di appello (avv. Impellizzeri f.3 ss.) relativamente al raggio d’azione, al radiocomando ed alla posizione di chi avrebbe dovuto azionare il radiocomando. E’ infatti dato acquisito ed incontrovertibile – anche perché non è stata apportata alcun tipo di prova contraria – che il raggio d’azione del telecomando fosse di ‘qualche centinaio di metri’: dato che consente di ipotizzare che l’operatore potesse essere collocato in qualsiasi appostamento inserito nel suddetto raggio, pur non essendovi elementi per individuare in concreto quale fosse il punto esatto e non apparendo, invero, affatto necessario tale operazione. Diversamente dall’assunto del difensore del MADONIA (f.4), le dichiarazioni dell’ONORATO non sono affatto in contrasto ad avviso della Corte, con tale ricostruzione, poiché il Belvedere del Monte Pellegrino è stato individuato dal collaborante (f. 28 e 31 del 16.3.99) non già come concreto luogo di osservazione scelto da Cosa Nostra, ma solo come ipotesi da lui stesso, buon conoscitore della zona, prospettata al BIONDINO il quale gli aveva peraltro risposto di occuparsi solo di pattugliare il lungomare dell’Addaura dato che “c’era chi si stava interessando” degli altri problemi organizzativi. Tali affermazioni sono peraltro coerenti con le logiche di Cosa Nostra, tradizionalmente inclini alla compartimentazione delle conoscenze ed anche delle azioni esecutive, generalmente ripartite tra i vari uomini coinvolti, senza che gli uni fossero a conoscenza dei dettagli di quanto svolto da altri.

Anche le doglianze relative alla durata delle batterie non hanno fondatezza. Sempre il difensore del MADONIA (f. 6) ha infatti sottolineato che la limitata durata (20 ore) del ricevitore, facesse sì che al momento del ritrovamento esso fosse praticamente già inerte: tale affermazione non ha in sé, nulla di incoerente con la condivisibile ricostruzione eseguita nella sentenza di primo grado. E’ ben verosimile, che l’azione criminosa fosse stata progettata per il pomeriggio del 20 giugno e non già per il 21 (data del ritrovamento) anche in considerazione del fatto che – come si dirà in prosieguo – era proprio quello il momento ipotizzato per la visita presso la villa ed il conseguente bagno prospettato dal dott. FALCONE ai colleghi svizzeri. E’ chiaro, d’altro canto, che in presenza delle conclusioni tecniche suddette, provenienti da soggetti altamente qualificati, non possono trovare spazio le indicazioni (nulla più se non supposizioni i sospetti), evidenziati da taluni testi escussi in dibattimento che avevano ipotizzato la non funzionalità dell’ordigno. Così infatti sia il dott. Sica che il Col. Mori ed il dott. Misiani, tutti testi le cui dichiarazioni vengono citate (.7,8) a fondamento delle doglianze difensive, avevano soltanto riferito considerazioni non tecniche ma semmai conseguenti alla ridda di ipotesi – anche fantasiose – susseguitesi nell’immediatezza dell’attentato. La potenzialità e la concreta lesività dell’ordigno - con riferimento alla vittima designata ed ai suoi occasionali compagni - è dunque un punto di riferimento processuale ineludibile, frutto di solide e coerenti affermazioni provenute da soggetti di alta specializzazione: intorno a tale certezza molteplici ipotesi ricostruttive sono state inutilmente rincorse senza un fondamento probatorio certo. Ad avviso della Corte, tali ipotesi e congetture, qualora fossero state suffragate da prove, avrebbero semmai potuto riempire caselle marginali della vicenda criminosa per cui è processo, senza incidere sulla sostanza della ricostruzione operata dai consulenti tecnici che la Corte integralmente condivide.

L'artificiere e le troppe anomalie. La Repubblica il 27 giugno 2020. Altro aspetto della complessa vicenda processuale sul quale molteplici dubbi sono insorti e numerose doglianze sono state mosse allo sviluppo delle indagini ed alla pronuncia di primo grado (f.10 motivi appello avv. Fileccia), è quello relativo al primo intervento sul borsone contenente l’esplosivo, operato dal Brigadiere Francesco Tumino, artificiere dei Carabinieri di Palermo. A giudizio della Corte, anche  tale vicenda dev’essere in realtà, ridimensionata e valutata limitatamente ai dati certi processualmente emersi. Come dettagliatamente esposto (in termini del tutto condivisibili) nell’impugnata sentenza,  la fase immediatamente successiva al ritrovamento dell’ordigno sulla scogliera dell’Addaura, aveva visto il coinvolgimento – a fronte di un   massiccio intervento degli uomini della Polizia di Stato peraltro addetti alla tutela personale del dott. FALCONE – di un artificiere appartenente invece ai Carabinieri di Palermo. Una densa cortina di anomalie e di inestricabili misteri si era concentrata    sui particolari    di tale intervento, conducendo alla fine il sottufficiale stesso a subire procedimento penale, poi definito ex art. 444 c..p.p., per i reati di falso ideologico e false dichiarazioni al PM, relativamente a talune affermazioni dal Tumino stesso prima condensate nel verbale d’intervento e poi riferite al Pm di Caltanissetta che lo aveva interrogato. Si era dunque ipotizzato e sospettato, per talune anomalie tecniche che avevano caratterizzato l’intervento inspiegabilmente tardivo del sottufficiale, che il Tumino avesse agito spinto dalla volontà (non tanto propria quanto di altri non identificati e fantomatici ispiratori e mandanti), finalizzato a confondere i possibili spunti indiziari legati al borsone contenente l’esplosivo. In realtà le conclusioni della pronuncia di I° grado paiono del tutto condivisibili alla Corte anche alla luce di alcune ulteriori considerazioni. L’impugnata sentenza prospetta una soluzione che, lungi dall’inquadrare il Tumino nel corpo di non meglio individuati complotti depistatori – pur sempre astrattamente possibili ma non ancorati a qualsivoglia elemento di prova – attribuisce gli errori tecnici nell’intervento dell’artificiere, a frettolosità, superficialità, pressioni ambientali ed inesperienza. In tal senso militano in effetti - a giudizio della Corte - almeno due elementi chiaramente emersi dall’istruttoria che non lasciano spazi a soluzioni alternative dotate di concretezza processuale: in primo luogo l’assenza oggettiva di spunti concreti di approfondimento investigativo relativo alle cosiddette "piste alternative". In tal senso le numerose tracce rilevate nel corso del dibattimento non hanno superato lo stadio larvale di sospetto. Così le diverse testimonianze di ufficiali delle Forze dell’Ordine di magistrati ed alti funzionari, hanno più volte richiamato quali fossero le stesse idee del dott. FALCONE in merito all’attentato ed alle "menti raffinatissime" che potevano aver operato "dietro le quinte". Il dott. D’Ambrosio, all’epoca componente del CSM, rammentava come il magistrato palermitano aveva ipotizzato (f.64 del 11.10.99) un vero e proprio "complotto" alle proprie spalle, di cui Cosa Nostra era solo una componente. Il dott. Fici (f.180 del 25.10.99), ricordava come lo stesso dott. FALCONE gli avesse sottolineato di aver voluto inviare un preciso messaggio ai misteriosi artefici, mediante l’intervista nella quale aveva parlato delle già menzionate "menti raffinatissime". La stessa deposizione del Col. Mori (?.18 ss del 7.2.00), a quasi 12 anni dal fatto, con riferimento all’incontro con il Tumino la mattina del fatto, non ha consentito di fare assoluta chiarezza sui motivi del ritardo. Sempre nella medesima direzione, che attribuisce al Sottufficiale un ruolo marginale, alieno da cointeressenze sospette del resto non provate, deve prendere le mosse, ad avviso della Corte, la valutazione sulle modalità di intervento del Tumino. E’ pacifico, infatti, che l’ingresso sul teatro dei fatti da parte del Tumino, era avvenuto secondo modalità pressocchè casuali e indicative di un fisiologico disorientamento determinato dall’inquietante ritrovamento. Sul punto due le versioni presenti, accomunate proprio dalla non "premeditata" chiamata del Tumino: il dottor Galvano, (f.83 del 10-7-00) all’epoca dirigente dell’Ufficio scorte presso la Questura di Palermo non ha sostanzialmente ricordato le modalità di convocazione del Sottufficiale, escludendo però di averlo chiamato personalmente ed ipotizzando che ciò fosse avvenuto tramite Sala Operativa solo a causa della dichiarata incompetenza a procedere dell’artificiere proveniente dall’esercito. Lo stesso Tumino ha invece ricordato di essere stato allertato una prima volta a casa, telefonicamente, da tale dott. Muscato caposcorta del dott. FALCONE (46 ss. 17.1.00) ed in seguito di aver avuto conferma, una volta giunto in caserma, dalla centrale operativa. Entrambe le versioni, pur parzialmente incompatibili tra loro, hanno un punto di contatto - l’intervento casuale dovuto alle carenti risorse in quel momento, delle altre forze dell’Ordine - che contribuisce sul piano logico ad allontanare – ad avviso della Corte – un’inquietante ipotesi da ritenersi non compatibile con i dati sopra riassunti. Alla luce di tali considerazioni, cui devono doverosamente aggiungersi, gli elementi evidenziati con estrema puntualità dell’impugnata sentenza in merito ai numerosi mutamenti di direzione adottati dal Tumino nel racconto dei fatti in cui è stato coinvolto, con riferimento sia all’opinabilità che all’oggettiva inefficienza dell’intervento tecnico, attuato attraverso l’esplosione del congegno, non può che convenirsi con i primi giudici, che nell’azione del sottufficiale residui legittimamente il dubbio che essa si possa inserire in un contesto di sviamento delle indagini in un periodo storico segnato pesantemente da troppi episodi tuttora misteriosi (sent. Corte d’Assise p. 293)

Totò Riina e la Cupola. La Repubblica il 28 giugno 2020. Il complesso quadro probatorio emerso dall’approfondita istruttoria dibattimentale e da quella rinnovata ex art. 603 cpp, è assolutamente univoco nel dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la determinazione volitiva ad uccidere il dott. Giovanni FALCONE e la concreta partecipazione di taluni tra i personaggi di vertice in Cosa Nostra, all’attentato mirato a recidere le trame investigative che la vittima tesseva, a livello internazionale, anche in collaborazione con la dott.ssa Carla DEL PONTE, Procuratore elvetico, nel delicato settore del contrasto alla criminalità organizzata ed in particolare al riciclaggio del denaro sporco. Non vi è dubbio alcuno, come meglio si dirà in tema di movente, che Cosa Nostra avesse da tempo ‘nel mirino’ il dott. Giovanni FALCONE, e che dell’intensa attività portata avanti dal magistrato si fossero già occupati i vertici dell’associazione criminale come riferito concordemente da numerosi collaboranti i quali hanno descritto i precedenti progetti omicidiari.

Effettivo era nel 1989 l’organismo che presiedeva alle questioni di interesse per Cosa Nostra era denominato commissione provinciale di Palermo o "cupola". Pacifica la competenza di tale consesso a deliberare fatti di sangue, a maggior ragione se ritenuti di particolare incidenza sugli equilibri complessivi per essere indirizzati contro soggetti istituzionali. Su tali vicende il collaborante, investito della più alta carica in seno alla consorteria, ed altresì particolarmente vicino a Salvatore RIINA dal quale era stato addirittura "iniziato" a Cosa Nostra, è certamente Giovanni BRUSCA. Le sue dichiarazioni costituiscono, pertanto, su questi aspetti, un punto di riferimento certo che merita pieno giudizio di attendibilità e veridicità anche perché in sintonia con quelle pronunce giurisprudenziali (per tutte ancora una volta valga la citata sentenza n.80/92 della Suprema Corte) che hanno già definitivamente accertato logiche e modalità esecutive di "Cosa Nostra". BRUSCA, componente della cupola in sostituzione del padre Bernardo, ha ribadito senza alcuna perplessità non soltanto la concreta operatività dell’organismo in quel periodo, ma anche la vigenza delle "regole mafiose" per cui i vertici di Cosa Nostra "dovevano" essere coinvolti nelle deliberazioni, per evitare pericolosi contraccolpi alla consorteria. Così il BRUSCA ha testualmente affermato (52 ss del 29.6.99):

P.M. : - Sì. Sa se esistono organismi in seno a "Cosa Nostra" denominati commissione Provinciale e regionale? Nell'affermativa  dica quali funzioni hanno.

BRUSCA GIOVANNI: - Sì. Il capoprovincia è quello che... che coordina e comanda un po' tutti i capimandamento, cioè per i vari mandamenti della provincia palermitana; quella regionale che c'è il capoprovincia... il caporegione che poi con i vari capiprovincia.

P.M. : - Sì. Ecco, quali funzioni sono attribuite a questi organismi?

BRUSCA GIOVANNI: - Queste funzioni... c'è il vertice di  "Cosa Nostra" che decide tutte le sorti di "Cosa Nostra", nel bene e nel male, cioè l'andamento di "Cosa Nostra", per avere sempre un bene? cio, sempre... cioè come si suol dire, andare verso gli interessi di "Cosa Nostra". Quindi qualsiasi cosa nasce era solo ed esclusivamente per gli interessi di "Cosa Nostra".

P.M. : - Sì.

BRUSCA GIOVANNI: - Dagli omicidi alle... ai profitti, un po' a tutti gli interessi di "Cosa Nostra".

P.M. : - Ecco, sa dire a quali organismi compete di uccidere in ordine ai cosiddetti omicidi eccellenti o strategici per la vita dell'organizzazione?

BRUSCA GIOVANNI: - Mah, i vertici dovrebbero essere, come regola, tutti informati per fatti importanti e per quanto riguarda l'andamento di "Cosa Nostra". Sennò... sennò sarebbero una banda di... cioè ognuno camminerebbe ognuno per i fatti suoi.

P.M. : - Quindi, le risulta una regola che per commettere questi delitti serva l'assenso dei membri di queste commissioni?

BRUSCA GIOVANNI: - Sì. E le regole, le regole di "Cosa Nostra", perché esiste in quanto le regole di "Cosa Nostra" per l'andamento di "Cosa Nostra". Ripeto, per rispettare le regole, andare tutti d'accordo e andare avanti nelle regole di "Cosa Nostra".

Nel medesimo senso e pur nell’ottica di dichiarazioni certamente più vaghe e mirate, prima di tutto, ad escludere qualsiasi proprio coinvolgimento anche solo conoscitivo, Salvatore Cancemi ha ribadito che l’eliminazione del dott. FALCONE doveva ritenersi senza ombra di dubbio uno dei cd "omicidi eccellenti" e che lo stesso sarebbe dunque ricaduto de plano nelle competenze deliberative della commissione di cui egli stesso aveva fatto parte dopo l’arresto (1985) di Pippo Calò capomandamento di Porta Nuova (esame 18.10.99 f. 96). Altro punto di cui non è possibile dubitare è la individuazione da parte della "cupola" sin dai primi anni Ottanta, del dott. FALCONE quale uno degli obiettivi primari da colpire. Il BRUSCA ha poi chiaramente riferito, nel brano di seguito riportato, (?. 95 ss del 29.6.99) che il dott. FALCONE era oggetto di ripetute "citazioni" in seno alla “cupola” – della quale egli stesso faceva parte in sostituzione del padre Bernardo - quale bersaglio da eliminare al più presto:

P.M. : - Sì. Signor BRUSCA, sa dire se in epoca prossima all'attentato fallito per cui è processo vi siano state riunioni della commissione...  o meglio, altre riunioni della commissione provinciale o di quella regionale?

BRUSCA GIOVANNI: - Riunioni di commissioni successive al...

P.M. : - No...

BRUSCA GIOVANNI: - ... al processo che si sta celebrando?

P.M. : - Cioè, in epoca prossima, in epoca... cioè un po' prima o in periodo coevo, nello stesso periodo dell'attentato per cui è processo del giugno dell'89 o nello stesso anno, comunque subito dopo? Ecco.

BRUSCA GIOVANNI: - Io gli posso dire che prima e dopo sono state fatte riunioni di commissione.

P.M. : - Sì.

BRUSCA GIOVANNI: - Cioè prima e poi.

P.M. : - Sì. Lei sa dire se vi sia stata l'adesione di tutti i membri della commissione provinciale di Palermo nella decisione di eliminare Giovanni FALCONE?

BRUSCA GIOVANNI: - Guardi, io gli posso rispondere per quello che già le ho detto, nel senso che le regole venivano rispettate, commissioni se ne sono fatte e prima dell'attentato al dottor Giovanni FALCONE, dove hanno partecipato Di Maggio, Mimmo... Mimmo Ganci, Salvatore RIINA, BIONDINO e tanti altri, Angelo La Barbera. So che hanno parteci... non so se hanno partecipato tutti, so però che hanno fatto delle riunioni. Quindi, essendo che però le regole venivano rispettate e si dovevano rispettare, però io non ho visto se ce n'è stata una dove si è deciso all'unanimità, cioè tutti i presenti a questa riunione. Questo non lo so, non... cioè, io non l'ho visto se erano tutti o meno, questo non glielo so dire.

P.M. : - Sì. Senta, venendo ora al fallito attentato per cui e' processo, vuole riferire da chi venne organizzato ed eseguito questo fallito attentato?

BRUSCA GIOVANNI: - Guardi, di questo fallito attentato mi ricordo che quando fu di questo attentato, dopo poco tempo, incontrandomi con Salvatore RIINA, era successo che sui giornali si parlava di Servizi Segreti, attentato, non mi ricordo con precisione, comunque a me quello che mi interessava era l'attentato, nel senso se... se eravamo stati noi o no. Perchè dico se eravamo stati noi? Perchè mi era venuto un minimo di dubbio quanto veniva scritto sul giornale, nel senso che ci poteva essere qualche cosa che non apparteneva a "Cosa Nostra", anche se io mi ero già convinto come territorio, come fatto, quindi non è che mi... io ero convinto diversamente, però a volte nella vita non si può sapere, come tante volte succedeva che qualche fatto all'interno di "Cosa Nostra", "Cosa Nostra" non sapeva parlare, quindi io incontrandomi con Salvatore RIINA mi dice sì. Gli chiedo cosa era questo fatto di "Cosa Nostra" e lui mi dice: "Sì", era un fatto di "Cosa Nostra", che avevamo fatti noi, nel senso l'avevamo fatto "Cosa Nostra" e in particolar modo Antonino MADONIA, e mi ha detto pure: "Peccato che... che non è successo, perchè era il momento buono", in quanto il dottor Giovanni FALCONE era in quanto discusso, delegittimato, quindi il momento storico non... il momento storico era favorevole per "Cosa Nostra", però peccato che non è successo l'attentato, perchè poteva essere favorevole a "Cosa Nostra".

P.M. : - Sì. Lei ha parlato di, qualche tempo dopo, un fatto. Ecco, vuole essere più preciso e indicare un margine di giorni o di mesi, quanto tempo era passato?

BRUSCA GIOVANNI: - No, no, io parlo quando... una settimana, quindici giorni, dieci giorni, ma non più di tanto; alla prima occasione che mi incontrai con Salvatore RIINA mi è venuto spontaneo chiedergli del fatto e poi nell'argomento siamo... ci siamo allargati, i motivi, il... le deduzioni giornalistiche, però il mio pensiero prima di tutto era il fatto e poi ci siamo scesi nei particolari, un po' quello che, diciamo, scrivevano i giornali. "Peccato che non è successo". Il momento era buono, in quanto si parlava di Servizi Segreti e si parlava di tanti... di tanti altri fatti che non co... che non avevano niente a che vedere con "Cosa Nostra", quindi il momento era buono per... per sfruttare tutto quello che veniva scritto sui giornali. Però a me mi interessava se il fatto era nostro o no, e lui mi ha risposto che era un fatto di "Cosa Nostra".

Ulteriore aspetto, ormai assodato in virtù delle concordi dichiarazioni di tutti i collaboranti escussi ed in particolare di quelle convergenti di Francesco ONORATO e Giovambattista FERRANTE, con il conforto delle verifiche tecniche sulle tipologie di esplosivo utilizzate è il quadro di ambientazione logistica del perpetrato attentato. Due dati in particolar modo sono emersi e meritano di essere evidenziati:

1) l’avere affidato la gestione esecutiva ad uomini di estrema fiducia del RIINA quali Salvatore BIONDINO e Nino MADONIA;

2) l’aver utilizzato esplosivo proveniente dai depositi della famiglia di San Lorenzo.

Entrambe le circostanze connotano l’episodio criminoso nel segno più tipico dell’azione di Cosa Nostra che, a volte anche prescindendo da taluna delle rigide regole pur imposte al suo interno, soleva rispettare le competenze settoriali e specialistiche di ciascun mandamento e famiglia, salvaguardando comunque, ed in ogni caso, un principio basilare, appunto quella sulla competenza territoriale. In particolare, le dichiarazioni del FERRANTE e dell’ONORATO convergono eloquentemente ex art. 192, comma 3, c.p.p., pur essendo di fonte assolutamente autonoma e quindi prive di qualsiasi pericolo di reciproca interferenza sul ruolo centrale del BIONDINO e del MADONIA nella fase organizzativa dell’azione criminosa nonché sulle modalità e finalità dell’attentato. Fu appunto il BIONDINO a chiedere e ad ottenere dal FERRANTE l’esplosivo, poi consegnato al MADONIA, con il quale (come disse espressamente all’atto di conferire all’ONORATO, l’incarico di effettuare i pattugliamenti) si doveva eseguire il crimine. Questa la plastica affermazione del collaborante “mi ha detto subito che si doveva far  saltare  FALCONE” (f.19 del 16-3-99). Nel caso di specie non è stata peraltro raccolta una prova certa che l’attentato eccellente per la qualità della vittima e per la presumibile reazione dello Stato in caso di successo dell’azione criminosa, come poi avvenuto per la strage di Capaci, sia stata preceduta da una formale delibera della Cupola, che l’aveva del resto avallata da tempo, tanto che reiterati tentativi (vedi dichiarazioni del BRUSCA) si erano infruttuosamente conseguiti. Ciò è dimostrato dal fatto che tra gli imputati non figura Bernardo Provenzano, luogotenente del RIINA nel mandamento di Corleone nonchè suo portavoce in commissione  pur  "nell’alternanza   delle   presenze" (Cass. 80/92), il quale., come emerge dalle dichiarazioni del GIUFFRE’, ebbe un ruolo defilato nella vicenda. Nondimeno, gli elementi raccolti consentono di ritenere che il RIINA, dette impulso al progetto da lungo tempo covato da Cosa Nostra, per eliminare un nemico storico, non in forza di un’iniziativa individuale, ma nel rispetto delle regole mafiose ed avvalendosi sotto il profilo organizzativo, del personaggio a lui più vicino (Salvatore BIONDINO), e di quelli territorialmente interessati dall’azione criminosa: di Resuttana (ove era compresa l’Addaura), comandata dal MADONIA e di San Lorenzo (capeggiata appunto dal BIONDINO). Al mandamento di San Lorenzo apparteneva peraltro anche nil FERRANTE, che aveva prelevato l’esplosivo, mentre per l’opera di pattugliamento fu reclutato l’ONORATO, appartenente alla famiglia di Partanna Mondello, oltre al concorso inevitabile di altri compartecipi riusciti a mantenere l’anonimato. Si trattò dunque, come esigeva d’altronde la qualità della vittima e la natura dell’operazione, di un’azione corale nella quale il RIINA mobilitò le forze a lui più fedeli e coinvolse i personaggi più qualificati sotto il profilo territoriale e logistico perché l’attentato potesse avere successo come invece non avvenne per contingenti ragioni.

Dunque, il coordinamento delle operazioni fu affidato a Nino MADONIA, già nel recente passato, coautore con il BRUSCA di numerosi tentativi di assassinare il dott. FALCONE nei confronti del quale aveva, per così dire, maturato uno specifico movente ad eliminarlo personalmente, essendo da tempo - lui e la sua famiglia - il collettore dei traffici illeciti nel settore degli stupefacenti, che il magistrato seguiva con non comune professionalità investigativa. Per l’esplosivo ci si rivolse a chi ne deteneva il quantitativo forse più ingente e nel covo più sicuro, quello di contrada Malatacca, nel mandamento di San Lorenzo, per essere tradizionalmente affidato al FERRANTE – che spesso ne faceva uso per attentati estorsivi – ed alla famiglia di appartenenza del collaborante. Infine, per il pattugliamento, fu incaricato l’ONORATO, giovane già messosi in luce con alcuni omicidi personalmente commessi e reggente della famiglia di Partanna Mondello, rientrante nel mandamento di San Lorenzo (il cui capo era Salvatore BIONDINO), territorio a cavallo del quale l’attentato è da compiersi. In conclusione, la logica, le regole e l’azione di Cosa Nostra furono perfettamente coniugate anche per gli accadimenti dell’Addaura. Anche in questa occasione, l’evento delittuoso – pur senza successo – fu il frutto della concertazione di più sinergie, frutto della deliberazione criminosa di Salvatore RIINA, dei suoi accoliti ed in particolar modo di coloro i quali ne condividevano il suo cruento modus operandi, tipico dell’emergente fazione corleonese. Tali considerazioni consentono pertanto, ad avviso della Corte, di fugare anche quei dubbi prospettati dalla difesa che potrebbero residuare, dal contrasto, in verità solo apparente, tra il delitto per cui è processo e le vicende criminose di pochi anni successive (omicidio Lima, strage di Capaci, strage di via d’Amelio, omicidio Salvo) per le quali è stato irrevocabilmente ritenuto provato il coinvolgimento, almeno a livello decisionale e quindi di concorso morale, della commissione provinciale di Cosa Nostra. Costituisce, come detto, un elemento ormai acquisito l’inserimento in calendario da vecchia data dell’esecuzione di Giovanni FALCONE (la cui penetrante azione giudiziaria non era più sopportabile per Cosa Nostra), anche in assenza di prova certa sulla data e sulle modalità della delibera omicidiaria. In sostanza, se il mancato coinvolgimento processuale degli vertici di Cosa Nostra è la conseguenza della carenza di elementi indiziari a loro carico (diversamente da quanto accaduto per le altre vicende criminose citate), è per altro verso indubitabile che nei confronti degli odierni imputati invece un quadro di prova piena si è consolidato potendosi così individuare in essi lo zoccolo decisionale ed esecutivo di Cosa Nostra - dal quale RIINA non poteva e non voleva prescindere - per il crimine di cui è causa. Ciò è del resto confermato da alcune dichiarazioni dei collaboranti che paiono esattamente orientate a suffragare un quadro di tal fatta. Calogero Ganci (f. 188 del 11.10.99) ha infatti precisato che, in conseguenza dell’armonia che regnava tra le famiglie di Resuttana (MADONIA) San Lorenzo (Gambino-BIONDINO) Ciaculli (Greco) e Noce (Ganci), non necessariamente tutti dovevano partecipare a ciascun delitto deliberato da Cosa Nostra. L’esempio citato è quello dell’assassinio del Cap. D’Aleo (f.190) ucciso nel territorio della Noce senza che vi fosse coinvolto Antonino MADONIA il quale poi rimarcò l’episodio: GANCI CALOGERO: …dopo alcuni giorni, si è fatto vivo e scherzando ci disse, dici... dici: "Che fa, mi avete lasciato fuori?".

Lo stesso Giovanni BRUSCA – le cui dichiarazioni sono state in precedenza ampiamente riportate – aveva chiaramente sottolineato come le regole venissero sempre rispettate pur essendo possibile che non tutte le riunioni della cupola fossero estese alla generalità dei capi-mandamento. Un significativo apporto è stato però conferito dal collaborante Antonino GIUFFRE’, il quale, escusso in data 12/02/2003 previa interruzione della discussione in atto, da questa Corte d’Assise d’Appello, ha sostanzialmente confermato il quadro di conoscenze già delineatosi, aggiungendo taluni particolari di certo utili ad una ricostruzione ancor più coerente ed incisiva. In sostanza il GIUFFRE’ ha affermato che, pur mantenendosi inalterati i poteri della commissione provinciale di Cosa Nostra, il RIINA per talune decisioni che andavano assunte con particolare celerità e, contestualmente, coinvolgevano zone a lui particolarmente legate, poteva avvalersi, ed in concreto si avvaleva, dei suoi più fidi consiglieri appartenenti ai mandamenti della Noce (Ganci), di San Lorenzo (BIONDINO) e di Resuttana (MADONIA). Così ha riferito testualmente il collaborante sul ruolo del gruppo ristretto facente capo al RIINA rispetto ai poteri più ampi della commissione:

PRESIDENTE: - Ecco, sul ruolo della commissione rispetto al gruppo ristretto che lei prima ha menzionato, se mal non ho interpretato il suo pensiero, come mandante dell'azione criminosa. Prego, cedo la parola al collega.

CONSIGLIERE: - Sì, GIUFFRE’, mi sente? Sono il Consigliere a latere. Le volevo chiedere questo: in relazione alla sua carica di capomandamento e quindi alla sua partecipazione in quel periodo anche alle riunioni di commissione provinciale, lei ha fatto capire, ma mi corregga se ho capito male io, che in questa circostanza di questo attentato dell'Addaura questo comitato ristretto cui lei ha fatto espresso riferimento in un certo senso si sostituì alla commissione provinciale per deliberarlo. E' così?

GIUFFRE' ANTONINO: - Sì, confermo.

CONSIGLIERE: - Era una cosa che poteva accadere usualmente o abitualmente o era accaduta in altre circostanze per fatti di questo genere? Non c'era una competenza della commissione provinciale a deliberare su tutte queste vicende che riguardavano obiettivi di particolare importanza e rilevanza? Come mai ne parlaste lei ed altri autorevoli esponenti al di fuori della commissione provinciale e non all'interno di essa?

GIUFFRE' ANTONINO: - Perché ricordo… se ricordo bene nel periodo successivo non vi è stata riunione di… di commissione. Fra l'altro il discorso ristretto nell'ambito della commissione provinciale per affrontare determinate situazioni a volte anche di una certa premura o di una certa riservatezza o che andasse ad interessare in modo particolare determinate zone molto care a Salvatore… a Salvatore RIINA, cioè queste cose succedevano. Fra l'altro tengo a precisare che vi era da sempre un gruppo, che poi è il gruppo che per tantissimo tempo è stato legato a Salvatore RIINA e che per mezzo dello stesso gruppo ha preso nelle mani il… la guida di “Cosa Nostra” sia per quanto riguarda la provincia di Palermo, ma anche per quanto riguarda la Regione Siciliana.

CONSIGLIERE: - Quindi, un'ultima cosa: conclusivamente mi par di capire che, quindi, questo tipo di decisione sia da ricondurre anche al fatto che l'attentato doveva essere commesso in una località rientrante in uno dei mandamenti particolarmente vicini al RIINA anche per via dei legami con il responsabile di questo mandamento o la famiglia responsabile che erano i MADONIA. E' così quindi?

GIUFFRE' ANTONINO: - Perfetto, Signor Presidente.

Come già sottolineato dunque, tale prospettazione oltre ad essere in linea con le dichiarazioni degli altri collaboranti, conferma sostanzialmente il quadro di ricostruzione degli eventi di quel periodo e degli anni subito successivi sino al compimento delle due stragi di Capaci e via d’Amelio. Infatti il ruolo egemone del RIINA, lungi dall’aver svuotato di significato la commissione, astrattamente titolare del potere di ogni delibera, avevano semplicemente concentrato nelle mani di alcuni uomini a lui fedelissimi talune scelte di natura strettamente operativa che meritavano di essere gestite in tempi rapidissimi ed in luoghi ‘garantiti’ nel rispetto del principio di trerritorialità, come accaduto nella specie.

Una “ghiotta” opportunità per i boss. La Repubblica il 29 giugno 2020. Non è necessario ripercorrere in questa sede le ampie ed approfondite considerazioni svolte, in modo del tutto condivisibile, nell’impugnata sentenza sui molteplici, e talvolta oscuri, aspetti relativi alla cd "delegittimazione" patita dal dott. FALCONE proprio nel momento in cui Cosa Nostra attentava alla sua vita con l’esplosivo. Numerosissime, in tal senso, le indicazioni dei testimoni riferite ai veri e propri attacchi, anche di natura istituzionale, portati in quel periodo nei confronti del magistrato palermitano, personaggio che risultava, di fatto, scomodo a molti, non soltanto per le metodologie di lavoro foriere di rilevanti risultati investigativi (tradottosi in particolare nel I° maxi a carico di oltre 400 imputati), ma anche per gli atteggiamenti di intransigenza e forte autonomia manifestati che rendevano inefficace qualsiasi tentativo di condizionamento o d’intimidazione. Fu dunque la ghiotta concomitanza offerta dal sopraggiungere della delegazione svizzera a fornire l’occasione propizia per l’attentato (imponendo conseguentemente a Cosa Nostra, la necessità di agire a tambur battente, sul piano organizzativo e logistico), in relazione al quale il RIINA si affidò ai suoi fedelissimi, primo tra essi il BIONDINO che appunto procurò tramite il FERRANTE l’esplosivo poi consegnato al MADONIA. Molti e convergenti sono poi gli elementi processualmente emersi idonei a dimostrare che l’attentato, lungi dall’avere scopi meramente dimostrativi o intimidatori, era in realtà finalizzato ad uccidere. Innanzi tutto il BRUSCA, uno dei soggetti più coinvolti nei precedenti progetti di Cosa Nostra finalizzati ad eliminare il dott. FALCONE “perché indagava su tutto e su tutti” (f.135 del 26/9/99), ha ripetuto in più sedi ed anche nella presente, (f.115 del 29/6/99) che “l’Addaura non era un attentato fasullo” e cioè aveva un effettivo intento omicida. Ciò del resto trova una espressa conferma nelle modalità del fatto e nella micidialità della carica che poteva avere effetti letali, come specificato nell’esaminare la questione tecnica, nell’ambito di oltre 60 metri dal punto di scoppio, oltre che nella ben nota impermeabilità del dott. FALCONE alle minacce di cui era stato ripetutamente oggetto in passato. Ciò svuotava di per sé, anche nell’ottica criminale, di qualsiasi significato concreto, l’ipotesi che si sia trattato di una messa in scena con finalità meramente intimidatorie nei termini ricordati da Vito LO FORTE. Tra i funzionari di Polizia escussi, il dott. Guido Longo (22.1.99 f.15) ha affermato che l’episodio relativo alle lettere del cd corvo era stato interpretato come vicenda risalente anche a Cosa Nostra e finalizzata a destabilizzare la figura istituzionale del dott. FALCONE. Così il funzionario ha sottolineato testualmente:

TESTE LONGO: - Eh, modalità di esecuzione, chiaramente, considerata anche la personalità e lo spessore professionale del dottore FALCONE era... è apparso subito ovvio che ci fosse lo zampino di "Cosa Nostra", anche in considerazione di tutto... di tutte quelle polemiche che erano venute fuori a seguito delle famose lettere del "Corvo". Praticamente, quindici giorni prima di questo attentato erano state mandate a tutti gli alti vertici istituzionali, al Presidente della Repubblica, al Presidente della Commissione Antimafia, al capo della Polizia, capi delle varie Armi, delle lettere in cui si accusava il dottore FALCONE assieme ad altri vertici della Polizia di Stato di aver gestito disinvoltamente alcuni collaboratori... ex collaboratori di Giustizia per cercare di scovare RIINA; questa era l'accusa che veniva mossa al dottore FALCONE. E chiaramente questo... anche l'invio di queste lettere anonime era stato interpretato come un tentativo di delegittimazione del dottore FALCONE per poi cercare di farlo fuori fisicamente. Del resto questo è... questi sono... questi erano i sistemi usati dai corleonesi, dal gruppo facente capo a Totò RIINA. Queste... queste forme di screditamento e quindi queste forme di delegittimazione con la susseguente eliminazione fisica rientravano in questo modus operandi, in queste logiche. Tra l'altro, si rilevava che la nomina del dottore FALCONE come Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo, per cui questa... questo nuovo incarico certamente avrebbe... avrebbe potuto dare molto fastidio ai corleonesi, a "Cosa Nostra", e quindi ritenevamo che si fosse predisposto qualcosa per eliminarlo preventivamente.

Il dott. Antonio Manganelli (17.7.00 f. 22) ha significativamente affermato che dopo un primo iniziale approccio alla vicenda delle lettere che aveva portato "più a sorridere che a riflettere", chi, come lui si era occupato delle relative indagini, ne aveva concluso che si trattava invece di un serio attacco al magistrato siciliano, anche in considerazione del fatto che "nulla accade per caso in questa terra".

Il dott. Giovanni de Gennaro (15.11.99 f.24) ha parimenti ribadito che, essendo contenuti nelle missive basaste su elementi di fatto totalmente infondate ed inverosimili, costituivano un chiaro attacco ai vertici della magistratura palermitana ed al dott. FALCONE in particolare.

Il dott. Giuseppe Ayala, Sostituto Procuratore di Palermo, che aveva svolto il ruolo di P.M. anche in numerose istruttorie formali condotte dal dott. FALCONE, aveva sottolineato anche, (11.10.99 f.130) come di seguito riportato, quali fossero le ispirazioni sottaciute di quelle lettere ed a quali ambienti dovessero necessariamente risalire proprio per quanto in esse veniva detto, contribuendo peraltro anche a chiarire ulteriormente come dovesse intendersi la scelta temporale coincidente con la presenza dei magistrati svizzeri:

TESTE AYALA: - Chi la scri... mi scusi, chi la scrive, per capire, soltanto per rendere più chiaro il mio pensiero, chi la scrive sa che nè FALCONE nè Giammanco nè io siamo gli assassini di Stato, lo sa perfettamente, perchè viene da dentro quella lettera. Questo è poco, ma è sicuro. Quella lettera allora ha un'altra finalità ed è una finalità di delegittimazione delle persone indicate in quella lettera. Questo è un genere... un percorso che prelude a un attacco nei confronti del delegittimato, e per esempio, se la vogliamo chiudere tutta, cosa che FALCONE sa bene perchè ne abbiamo... sa, va bene, insomma, si è portato con sè. Il discorso di avere scelto il giorno della presenza dei Giudici svizzeri rientra in questo quadro, perchè è addirittura un momento depistante dell'attentato, perchè tutti avranno pensato che l'attentato è stato fatto quel giorno non per FALCONE, ma per impedire che le indagini che FALCONE aveva insieme agli svizzeri potessero andare avanti. Per me invece non era vero niente, non c'entrava niente. Dice: ma si uccidono due persone...? E va bè, ma la logica mafiosa altro che due, e una logica paramafiosa è peggio ancora. Questo è un paese pieno di stragi di cui non conosciamo i colpevoli, quindi figurarsi.

Da ultimo anche il Gen. Mario Mori, al tempo dei fatti responsabile del Reparto Operativo Speciale presso il capoluogo siciliano, aveva confermato (7.2.00 f.45) quali fossero state le risultanze investigative ed anche logiche in merito a quella vicenda. Le circostanze evidenziate, su cui già la Corte di I° grado aveva diffusamente e condivisibilmente motivato, non hanno condotto con certezza all’accertamento della fonte di tali attacchi nei confronti del dott. FALCONE - su cui vi è peraltro accertamento giudiziale definitivo - ma hanno chiarito, da un lato l’intensità dei medesimi, indipendentemente dalla volontà omicida di Cosa Nostra che aveva colto l’opportunità di sfruttare la coincidenza cronologica per attentare alla vita del magistrato in un momento in cui appariva in posizione indebolita ed isolata.

L'obiettivo svizzero. La Repubblica il 30 giugno 2020. Un aspetto di specifico approfondimento sviluppato dalla Corte d’Assise d’Appello ha riguardato la determinazione di Cosa Nostra a colpire, non soltanto il dott. FALCONE quale vittima designata, ma anche i componenti della delegazione svizzera che si era trovata in Palermo sin dal 18 giugno e, segnatamente, la dott.ssa Carla DEL PONTE, Pubblico Ministero elvetico che portava avanti una proficua collaborazione con il collega siciliano finalizzata anche alla individuazione dei canali di transito del danaro proveniente da operazioni illecite. In particolare si è cercato di chiarire se, gli uomini di Cosa Nostra fossero stati in grado di percepire furtivamente la notizia dell’invito a prendere un bagno presso la villa dell’Addaura, che il dott. FALCONE aveva porto al gruppo poco dopo il loro arrivo in Palermo.

Specifico oggetto di approfondimento ha costituito la cena di commiato organizzata dal dott. FALCONE per gli ospiti, la sera del 20/6/1989 presso il ristorante Charleston di Mondello. La Corte ha, in particolar modo, ritenuto opportuno estendere l’esame dibattimentale anche ad altri, tra i partecipanti al convivio, che non erano stati escussi in primo grado.

Così sono stati esaminati tra i colleghi del dott. FALCONE il dott. Ignazio De Francisci , il dott. Gioacchino Natoli, il maggiore DE DONNO e la sig.ra Barbara SANZO. Nessun elemento ulteriore è emerso da tali approfondimenti, essendo però del tutto verosimile come, la notizia degli spostamenti della delegazione, non fosse del tutto ‘blindata’: a molti era infatti noto che il giorno seguente la cena, il gruppo avrebbe fatto ritorno in Svizzera e non può escludersi che vi fosse stata una – più o meno dolosa - fuga di notizie anche sull’invito presso la villa dell’Addaura.

Sempre  a  tal  proposito,  la  teste  Barbara  Sanzo prima collaboratrice del dott. FALCONE escussa il 24 giugno 2002, ha precisato – compatibilmente con la rilevante distanza temporale dai fatti – che la proposta del bagno, durante la pausa pranzo degli interrogatori, era stata avanzata la mattina del 20 giugno, ovvero lo stesso giorno, nel quale poi vi era stata la cena al ristorante di Mondello. Ha aggiunto peraltro che tale proposta era stata formulata in ufficio alla presenza di diverse persone non ricordando esattamente però di chi si trattasse rammentando il rammarico espressole dalla segretaria del dott. LEHEMANN, la signora Brugnetti, per non avere potuto cogliere l’opportunità cortesemente offerta dal magistrato palermitano. Da tali dichiarazioni, emerge che l’invito poteva astrattamente, essere stato percepito in modo casuale da soggetti ai quali non si è potuto risalire. E’ poi altrettanto pacifico, stando alle dichiarazioni rese da Barbara Sanzo e conformi con quelle già rese dalla teste Brugnetti in I° grado, che invece la decisione di non recarsi presso la villa, era stata assunta in seguito, nel pomeriggio del 20 giugno, quando il borsone con l’ordigno era già stato collocato, stante il protrarsi degli interrogatori programmati.

E’ dunque possibile che vi sia stata fuga di notizie quanto all’invito balneare all’Addaura, ma è altrettanto certo che non ve ne fu alcuna sul mutamento di tale programma – e la prosecuzione degli interrogatori in Tribunale – elemento questo, che avrebbe verosimilmente indotto a rinviare l’attentato rimuovendo l’ordigno medesimo. Il teste Roberto Lindiri, al tempo dei fatti tutela personale del dott. FALCONE, ha affermato che (f.45 esame del 10/6/02) il 20 giugno aveva appreso dai colleghi cui aveva dato il cambio, che il giudice doveva incontrarsi con la dott.ssa DEL PONTE presso la villa dell’Addaura, pur senza essere in grado di fornire ulteriori dettagli o ancorare il ricordo a qualche specifico particolare. Il Lindiri ha così fornito un elemento nuovo, che dev’essere valutato unitamente a tutti quelli già raccolti sul punto ed in tale ottica può costituire – anche per la spontaneità e genuinità del racconto - elemento sintomatico, se non autonomamente significativo, in riferimento ad un incontro che doveva verificarsi e del quale diverse persone erano a conoscenza. A tali scarni ma univoci elementi di fatto, derivati dall’approfondimento istruttorio ex art. 603 cpp, deve aggiungersi però     che, sotto il profilo del movente, pareva assolutamente coerente, oltre che tempestiva, la volontà di colpire ove possibile, ed approfittando della “straordinaria coincidenza temporale” (sentenza di I° grado f.88) un personaggio, la dott.ssa DEL PONTE, che, con la principale vittima designata, non soltanto stava intessendo    una collaborazione efficacissima sotto il profilo investigativo, ma utilizzava metodologie d’indagine di pari    incisività, che si erano rivelate particolarmente "dannose" per la consorteria, ed in particolare per quelle famiglie che erano dedite al riciclaggio di danaro sporco. Vengono a coniugarsi perfettamente sotto questo profilo, due spunti derivanti l’uno dalle dichiarazioni del teste dott. Manganelli, l’altro dall’esame reso in II° grado dal collaboratore Antonino GIUFFRE’. L’alto funzionario di Polizia ha infatti letteralmente precisato (f. 37 del 17/7/00), quanto segue, ribadendo quale fosse la natura dell’attentato e ricordando le stesse convinzioni del dott. FALCONE in merito:

TESTE MANGANELLI: - Certo. Che era un attentato finalizzato ad ucciderlo, probabilmente con il valore aggiunto di una presenza importante e non frequente nella casa che prendeva in affitto ogni anno, della dottoressa Carla DEL PONTE, magistrato che aveva con lui individuato una serie di canali del rinvestimento all'estero di denaro provento di traffici di stupefacenti e quant'altro, e quindi ritenne che quella potesse essere una chiave di lettura. Analogamente il GIUFFRE’, in merito alle cui dichiarazioni deve richiamarsi il generale giudizio di credibilità personale ed attendibilità intrinseca già manifestato, espressamente escusso dalla Corte sul punto, ha fatto ricorso ad una significativa quanto incisiva locuzione, riferita ad un commento del Provvenzano, di tenore analogo rispetto a quanto emerso dalle altre risultanze di cui si è, sin qui, dato conto: (f.16 del 12/2/03).

GIUFFRE' ANTONINO: - E allora, vi era la presenza in questa villa all'Addaura anche di un magistrato, non ricordo bene addirittura se assieme a quest'altro magistrato della Svizzera, DEL PONTE, ce ne fosse anche un'altra… un altro. E siccome questi avevano intrapreso dei contatti o della collaborazione tra la Svizzera e Palermo e cioè in modo particolare tra il dottore FALCONE e la dottoressa DEL PONTE ed era un discorso visto con una certa pericolosità, perché sia il FALCONE e sia la DEL PONTE erano considerati dei magistrati molto pericolosi e...

GIUFFRE' ANTONINO: - Ragion per cui ricordo una frase del… del Provenzano, dice si era cercato appositamente, come ho detto, erano considerati dei magistrati molto pericolosi e di prendere con una  fava due piccioni. In tale contesto, dunque, la dott.ssa DEL PONTE, al pari del dott. FALCONE, appariva quale fisiologico e naturale obiettivo per Cosa Nostra che aveva saputo cogliere al volo la favorevole opportunità data dalla coincidenza cronologica. Già nell’impugnata sentenza era stato attentamente affrontato l’argomento relativo alla fuga di Oliviero Tognoli, finanziere ricercato dalla A.G. palermitana: era emerso nella circostanza che una "soffiata", confidata al dott. FALCONE ed alla dott.ssa DEL PONTE, che lo avevano interrogato dopo l’arresto, in sede di commissione rogatoria a Lugano, avesse posto il personaggio in condizione di sottrarsi – pur temporaneamente – all’arresto.

In relazione all’autore di quel "suggerimento" il Tognoli si era mostrato reticente, salvo poi confidare fuori d’interrogatorio ed in separata sede ai due magistrati (senza poi voler verbalizzare il dato), che si era trattato del dott. Bruno Contrada noto funzionario della Questura di Palermo (poi tratto a giudizio per il delitto di cui all’art. 416 bis cp.).

La dott. ssa DEL PONTE (f. 24 del 18/3/99) aveva ricordato che il Tognoli, nell’interrogatorio svizzero dopo l’arresto, aveva detto di conoscere Contrada e Di Paola, funzionari di Polizia a Palermo, ma di essere stato avvertito dell’ordine di custodia a suo carico dal proprio fratello Mauro.

Il dott. Ayala (f. 114 del 11/10/99) pure presente a quegli interrogatori, aveva ribadito che il Tognoli aveva fatto i nomi di Contrada e De Paola con riferimento alla sua fuga.

L’avv. Franco Gianoni, difensore del Tognoli e non presente alla rogatoria palermitana dove era stato sostituito dal figlio Filippo, (f. 27 e 72 del 31/5/00) aveva nuovamente sottolineato quanto già emerso dal verbale di interrogatorio in sede di rogatoria, da dove emergeva il nome di De Paola con esclusivo riferimento ad un ‘avvertimento’ che questi aveva dato al vecchio compagno di scuola Tognoli.

Infine il Commissario della Polizia ticinese Clemente Gioia, (che faceva parte della delegazione elvetica  a Palermo), ha riferito testualmente (f.85 del 18/3/99) di aver appreso dalla viva voce del Tognoli, (nell’ottobre del 1988 allorchè era andato a riceverlo, all’atto della costituzione all’aeroporto di Agno, dopo 4 anni di latitanza), che costui era riuscito a sottrarsi all’arresto, in quanto preventivamente informato della imminente emissione di un provvedimento restrittivo nei suoi confronti da un suo pari grado riferendosi evidentemente a un funzionari di polizia italiana.

Tali elementi appaiono, ad avviso della Corte, rilevanti sotto il profilo della individuazione del movente omicidiario, sia con riferimento al dott. FALCONE che dei componenti    della delegazione svizzera, ed in particolare della dott.ssa DEL PONTE. Le risultanze processuali inducono pertanto la Corte a ritenere provato che sussistano nella specie, in linea con le argomentazioni del tutto condivisibili dei primi Giudici, gli elementi di ordine oggettivo che caratterizzano il reato di strage, come confermato dalle dichiarazioni    del BRUSCA    e dalla micidialità dell’ordigno.

Sotto il profilo dell’elemento psicologico si impone invece una puntualizzazione, rispetto alla differente soluzione adottata in I° grado nei confronti rispetto agli obiettivi destinati ad essere colpiti, ovvero il dott. FALCONE ed i suoi accompagnatori svizzeri.

Secondo i primi giudici infatti, gli attentatori agivano per un ?ne diretto costituito essenzialmente dalla uccisione del Giudice FALCONE e per un altro, di carattere eventuale, rappresentato anche, in ipotesi, dalla eliminazione di quanti si trovassero in sua compagnia (f. 89/90 sentenza di I° grado). E’ di tutta evidenza invece, ad avviso della Corte, che concordino temporalmente e logicamente vari elementi che, tra loro concatenati, consentono di ricondurre, sotto il profilo psicologico, l’azione adottata da ‘Cosa Nostra’ nell’ambito della configurabilità del dolo diretto e specifico. Il forte movente determinato dalle indagini congiunte che attingevano pericolosamente i canali di approvvigionamento e di riciclaggio di Cosa Nostra, la notizia dell’invito presso la villa formulato ai colleghi dal dott. FALCONE, la durata limitata temporalmente dell’ordigno che sposa il breve arco di tempo nel quale il bagno doveva svolgersi, sono tutti indizi che convergono verso l’unica soluzione possibile: un attentato che prevedeva e voleva espressamente la eliminazione del dott. FALCONE, considerando incidentalmente (ma con altrettanta determinazione) la forte probabilità di poter attingere un secondo obiettivo la cui eliminazione sarebbe risultata parimenti “utile” per Cosa Nostra  e quindi un’azione che, in sostanza, utilizzando le colorite espressioni del collaborante Antonino GIUFFRE’ (f.16), era mirata a “prendere due piccioni con una fava”.

Tale tipologia di azione, secondo una giurisprudenza della Suprema Corte che deve ritenersi condivisibile, non rientra nell’elemento del dolo eventuale essendo   in   sostanza   “eventuale”   non   tanto la verificazione dell’evento (la morte di più persone) ma solo la individuazione dell’obiettivo da colpire. […].

La condanna di Totò Riina. La Repubblica l'1 luglio 2020. Diversamente dalla tesi sostenuta nei motivi di gravame, secondo la quale l’affermazione di penale responsabilità di Salvatore RIINA affonderebbe le proprie radici esclusivamente nell’asserito ruolo di capo di Cosa Nostra a lui attribuito, è avviso della Corte che correttamente i primi Giudici, abbiano individuato in elementi incontrovertibilmente emersi gli indici in equivoci del ruolo di decisiva rilevanza svolto dall’appellante nella fase di ideazione e di impulso dell’attentato all’Addaura. Oltre al movente, tali elementi, sono essenzialmente riconducibili alle affermazioni del FERRANTE, al decisivo impiego organizzativo del “fedelissimo” BIONDINO (acquiescente all’affermazione di responsabilità in primo grado) ed al sintomatico commento di quest’ultimo, dopo la strage di Capaci, sul precedente impegno da parte del MADONIA dei “picciutteddi” (come riferito dal BRUSCA). Le doglianze dell’appellante avverso la sentenza impugnata, vertono essenzialmente sulla mancata individuazione di uno specifico mandato ad eseguire la strage in   capo al RIINA stesso, e della conseguente carenza di prova in ordine al di lui diretto coinvolgimento nella vicenda. Si offre per contro, nei motivi di appello, un coacervo di elementi che avrebbero dovuto condurre la Corte, a giudizio dei difensori del RIINA, a ritenere che il crimine fosse frutto di determinazioni esterne a Cosa Nostra. Le dedotte circostanze relative alla eventuale partecipazione di soggetti estranei alla consorteria mafiosa alla deliberazione ed esecuzione dell’attentato, sono state oggetto di attenta ricostruzione sia nella sentenza di primo grado che nei precedenti paragrafo della presente motivazione: in tal senso più volte si è detto di come, taluni aspetti di tutta la vicenda, debbano effettivamente considerarsi di incerta definizione, e non idonei a dissipare l’alone inquietante di sospetto che aveva accompagnato l’avvio delle indagini. E’ altrettanto certo però, che nessun elemento di prova credibile e solido sia stato acquisito, sì da far ritenere che la responsabilità dell’attentato potesse attribuirsi, in via esclusiva o concorsuale, a soggetti esterni a Cosa Nostra. Se dunque l’interesse di taluni, non individuati soggetti, poteva essere opportunisticamente coincidente  con la deliberazione di uccidere il dott. FALCONE, le determinazioni di Cosa Nostra in tal senso erano chiarissime e storicamente consolidatesi anche attraverso i precedenti attentati di cui si è ampiamente detto. Proprio i numerosi episodi richiamati in precedenza, e narrati in via principale da Giovanni BRUSCA che ne era stato protagonista diretto, spingono a ritenere che, se da un lato manca la prova certa di un incontro ove il mandato specifico a perpetrare la strage sia stato conferito, non è affatto carente ed anzi ampiamente riscontrata, la volontà del RIINA di colpire il magistrato palermitano. Tutte le dichiarazioni dei principali collaboranti escussi, ed in particolare di quelli che già facevano parte della commissione provinciale di Cosa Nostra, hanno fatto espresso riferimento all’accanita propensione del RIINA verso quella "strategia stragista" che avrebbe poi condotto agli efferati crimini di Capaci e via d’Amelio e che già dalla fine degli anni Ottanta aveva inserito in cima alla lista degli obiettivi proprio il dott. FALCONE. Ancora una volta sintomatiche sono le affermazioni di Giovambattista FERRANTE: il quale pur sottolineando la propria, solo parziale conoscenza, degli sviluppi relativi alla consegna dell’esplosivo al BIONDINO, aveva precisato che: con tutta sincerità non mi disse lo vado a dire a Totò RIINA; mi disse soltanto che lo doveva andare a dire. Per me era scontato che si trattava di Salvatore RIINA (…) l’unico punto di riferimento per andare a chiedere, diciamo un’autorizzazione (17/5/99 f. 55).

La evidenza e la spontaneità di tale affermazione, promanante da soggetto la cui credibilità soggettiva è stata più volte accertata e dimostrata, non fanno che supportare ulteriormente il quadro probatorio nei confronti del RIINA, contribuendo a tratteggiarne ancora una volta il ruolo di capo assoluto della consorteria e di unico detentore dei poteri d’impulso nella deliberazione ed esecuzione di determinati crimini. A ciò deve aggiungersi poi il più volte richiamato episodio verificatosi dopo la strage di Capaci e narrato da BRUSCA (f. 116 del 27/6/99), con una sostanziale conferma fornita da Cancemi (f.107), nel quale le lamentele di BIONDINO per l’operato di Nino MADONIA - affidatosi in occasione dell’Addaura ad un manipolo di picciutteddi – erano state "spente" dallo stesso RIINA il quale invitava tutti a considerare ormai chiuso il problema dopo il "buon esito" dell’attentato di Capaci. Sintomatico appare poi che sia stato proprio il BIONDINO luogotenente ed uomo di fiducia del RIINA, ad occuparsi in prima persona dell’attentato, come riferito concordemente dal FERRANTE e dall’ONORATO, di concerto con il MADONIA. Non rileva infatti, ad avviso della Corte, che non sia stato possibile individuare con assoluta certezza i tempi e i modi con cui la delibera omicidiaria sia stata assunta e con essa conferito il mandato alla consumazione dell’attentato. Infatti, deve ritenersi accertato, come desumibile dalle convergenti chiamate in correità dei collaboranti, in conformità alle modalità di azione tipiche di “cosa nostra” ed al linguaggio criptico spesso utilizzato che il RIINA titolare della carica di vertice in seno alla commissione provinciale, avesse da tempo progettato l’eliminazione del dott. FALCONE, delegandone poi l’esecuzione ai suoi uomini più vicini e affidati oltre che territorialmente "competenti" nei luoghi frequentati dalla vittima. Lo stesso BRUSCA peraltro (f.94 del 29/6/99), ha ricordato un episodio in cui, affrontando il tema dell’attentato dell’Addaura al fine di chiarire talune sue perplessità, era stato rassicurato dal RIINA stesso – il quale mostratosi rammaricato per l’esito negativo dell’attentato, riconducibile a “cosa nostra”, la cui organizzazione era stata afifdata al MADONIA:

BRUSCA GIOVANNI: - Guardi, di questo fallito attentato mi ricordo che quando fu di questo attentato, dopo poco tempo, incontrandomi con Salvatore Riina, era successo che sui giornali si parlava di Servizi Segreti, attentato, non mi ricordo con precisione, comunque a me quello che mi interessava era l'attentato, nel senso se... se eravamo stati noi o no. Perchè dico se eravamo stati noi? Perchè mi era venuto un minimo di dubbio quanto veniva scritto sul giornale, nel senso che ci poteva essere qualche cosa che non apparteneva a "Cosa Nostra", anche se io mi ero già convinto come territorio, come fatto, quindi non è che mi... io ero convinto diversamente, però a volte nella vita non si può sapere, come tante volte succedeva che qualche fatto all'interno di "Cosa Nostra", "Cosa Nostra" non sapeva parlare, quindi io incontrandomi con Salvatore Riina mi dice sì. Gli chiedo cosa era questo fatto di "Cosa Nostra" e lui mi dice: "Sì", era un fatto di "Cosa Nostra", che avevamo fatti noi, nel senso l'avevamo fatto "Cosa Nostra" e in particolar modo Antonino Madonia, e mi ha detto pure: "Peccato che... che non è successo, perchè era il momento buono", in quanto il dottor Giovanni Falcone era in quanto discusso, delegittimato, quindi il momento storico non... il momento storico era favorevole per "Cosa Nostra", però peccato che non è successo l'attentato, perchè poteva essere favorevole a "Cosa Nostra".

P.M. : - Sì. Lei ha parlato di, qualche tempo dopo, un fatto. Ecco, vuole essere più preciso e indicare un margine di giorni o di mesi, quanto tempo era passato?

BRUSCA GIOVANNI: - No, no, io parlo quando... una settimana, quindici giorni, dieci giorni, ma non più di tanto; alla prima occasione che mi incontrai con Salvatore Riina mi è venuto spontaneo chiedergli del fatto e poi nell'argomento siamo... ci siamo allargati, i motivi, il... le deduzioni giornalistiche, però il mio pensiero prima di tutto era il fatto e poi ci siamo scesi nei particolari, un po' quello che, diciamo, scrivevano i giornali. "Peccato che non è successo". Il momento era buono, in quanto si parlava di Servizi Segreti e si parlava di tanti... di tanti altri fatti che non co... che non avevano niente a che vedere con "Cosa Nostra", quindi il momento era buono per... per sfruttare tutto quello che veniva scritto sui giornali. Però a me mi interessava se il fatto era nostro o no, e lui mi ha risposto che era un fatto di "Cosa Nostra".

P.M. : - Sì. Vuole spiegare meglio quale rilievo aveva avuto il fatto dei Servizi Segreti che ha menzionato? Ecco, ci faccia…

BRUSCA GIOVANNI: - Ma io, guardi...

P.M. : - ... capire bene.

BRUSCA GIOVANNI: - ... dopo questo attentato, o forse anche prima, sui giornali cominciava... si cominciava a dire che questo attentato poteva essere opera dei Servizi Segreti; si commenta pure... si commentò, non mi ricordo se venne scritto sui giornali o tra di noi, cioè tra uomini d'onore si diceva che se la fa... se l'era fatto lui stesso. Ma queste erano tutte illazioni, giustificazioni che venivano disseminati così, in maniera gratis. E però mi ricordo che sui giornali si parlava di Servizi Segreti o una mente raffinata, una mente raffinata, quindi erano questi i commenti. Però, ripeto, questo per me era in secondario fatto, a me mi interessava sapere se eravamo stati noi o meno.

P.M. : - Sì. Senta, dove eravate quando parlò con Riina di questo particolare?

BRUSCA GIOVANNI: - Ma se non ricordo male eravamo a casa di Guddo Girolamo, dietro Villa Serena.

P.M. : - E quale uomo... quale Girolamo Guddo?

BRUSCA GIOVANNI: - Non uomo d'onore, quello dietro Villa... giusto, Villa Serena.

P.M. : - Sì.

BRUSCA GIOVANNI: - Dove c'è il portone verde, dove abbiamo fatto la riunione...

P.M. : - Ho capito.

BRUSCA GIOVANNI: - ... nel '92.

P.M. : - Sì.

Anche Antonino GIUFFRE’, ultimo in ordine di tempo tra i collaboratori di giustizia, non soltanto ha fornito con le proprie dichiarazioni già ampiamente richiamate, un quadro di sintesi della gestione oligarchica di Cosa Nostra in quel periodo e della forte predominanza degli uomini di RIINA, ma ha altresì indicato la genesi stessa dell’attentato sia sotto il profilo motivazionale che logico ed organizzativo, fornendo una ricostruzione del tutto coincidente con quanto sin qui affermato. Irrilevante, appare poi, ai fini della valutazione probatoria, l’errore del tutto marginale in cui è in corso il DI MAGGIO (4-10-1999) che ha indicato tra i partecipanti ad una riunione preparatoria dell’attentato svoltasi nel 1987, anche GANCI Raffaele, pro tempore detenuto, come documentato dalla certificazione carceraria acquisita ad istanza della difesa ai sensi dell’art. 603 c.p.c..

Per tali ragioni, oltre che per tutte quelle già indicate in precedenza nel corso della motivazioni, deve confermarsi integralmente l’impugnata sentenza nei confronti di Salvatore RIINA. Non può altresì trovare accoglimento l’appello del PG relativo all’inasprimento della pena, fino al massimo di anni trenta, ex art. 78 c.p.p. in relazione all’art. 81 cpv. c.p., laddove il difensore non ha proposto in tema sanzionatorio, istanze subordinate. Valutate le circostanze ex art. 133 c.p. e la singolare pericolosità del soggetto emergente dalla numerose pronunce giudiziarie, desumibili dal certificato penale in atti, è avviso della Corte che i primi Giudici, abbiano fatto corretto uso del potere discrezionale loro concesso in tema sanzionatorio dall’art. 132 cp, irrogando la pena base per il più grave reato di strage nel massimo edittale, ai sensi dell’art. 23 c.p. a fronte di un minimo di anni 15, con un aumento del tutto congruo di un anno di reclusione per ciascuno dei due reati satelliti concernente la detenzione ed il porto illegale degli esplosivi utilizzati unificati in continuazione, ex art.81 cpv. c.p., fino alla concorrenza unica finale di anni 26 di reclusione. Infatti la qualità delle persone offese, la potenziale lesività dell’ordigno collocato sulla scogliera e la gravità delle conseguenze che avrebbe determinato in caso di esplosione, nonché l’intensità dell’allarme sociale derivatone, sono tali da giustificare ampiamente la scelta seguita dai primi Giudici anche alla luce del grave ed immanente pericolo insito per la società civile, nella organizzazione criminosa di Cosa Nostra, che intendeva con tale azione, riaffermare e potenziare il proprio ruolo. Il fatto si appalesava, stante la natura di pericolo del reato di strage di eccezionale gravità, benché l’evento non si sia poi verificato per circostanze non previste né prevedibili dagli organizzatori. Ciò, a giudizio della Corte, induce a ritenere che la pena irrogata in primo grado, sia equa, tenuto conto della componente base nel massimo edittale, per il reato di strage, e degli aumenti singolarmente e globalmente eseguiti per la ritenuta continuazione in rapporto al fatto, oggettivamente e soggettivamente considerato (di per sé ostativo all’applicazione delle attenuanti generiche ex art. 597, 5° comma, c.p.p.), sicchè non può essere accolta sul punto la richiesta di inasprimento fino al massimo di anni 30 invocata dal PG. Consegue, ope legis, la condanna del RIINA ex art. 592 c.p.p. alle spese del presente grado del giudizio.

Il ruolo di Nino Madonia. La Repubblica il 2 luglio 2020. Le doglianze dell’imputato MADONIA attengono diversi aspetti della sentenza di primo grado e meritano un esame che, seppur già anticipato nei precedenti paragrafi secondo i vari spunti motivazionali affrontati, dev’essere organicamente ripreso. Deve innanzi tutto richiamarsi, quale elemento indiziario univoco nei confronti dell’appellante, il principio della cd ‘territorialità’ – basilare nella struttura di Cosa Nostra - secondo cui nessun delitto, in particolar modo se perpetrato nei confronti di vittime ‘eccellenti’, poteva essere commesso senza l’avallo, l’apporto ed insomma la consapevole adesione, da parte del responsabile e garante di quel territorio per la consorteria.

La regola mafiosa delle "territorialità" costituisce. dunque un caposaldo delle condotte di Cosa Nostra non soltanto per quanto riferito dai collaboratori del tutto unanimemente ma anche per ciò che emerge dagli accertamenti giudiziari già irrevocabili, prime fra tutte la più volte citata sentenza della Suprema Corte n.80’/92, nonché la sentenza resa nel proc. cd "Libro Mastro" acquisita in atti su richiesta del pg. e ritenuta esaustiva anche senza ulteriori approfondimenti istruttori.

Tale ultima pronuncia in particolare, offre uno spaccato delle attività illecite della famiglia MADONIA e della rendicontazione dei relativi proventi, specie estorsivi, grazie al ritrovamento - avvenuto a ridosso dei fatti per cui è processo – di ampia documentazione "contabile" nel covo della cosca, situato in un palazzo di quella stessa via d’Amelio dove, il 19 luglio 1992, avrebbe trovato la morte, sempre per mano di “cosa nostra” il dott. Paolo BORSELLINO ed i componenti della sua scorta. E’ agevole desumere dunque, da detta pronuncia, quanto forte e radicato fosse il legame tra la famiglia MADONIA ed il territorio da essa ‘presidiato’ nel quale (oltre alla predetta via d’Amelio) rientrava la scogliera dell’Addaura, al confine con il mandamento di San Lorenzo, già denominato Partanna Mondello in passato ed affidato, dopo la morte di Rosario Riccobono, nel 1982, prima a Giuseppe Giacomo Gambino e poi a Salvatore BIONDINO. Da tale legame territoriale, cui peraltro non si sottraeva alcuna delle altre famiglie, derivava il coinvolgimento nelle fasi culminanti o in comparti secondari dell’azione criminosa, soltanto di uomini ‘propri’ ovvero appartenenti a quelle dette aree (es. BIONDINO e FERRANTE di San Lorenzo, ONORATO di Partanna Mondello) il tutto sotto la supervisione del responsabile di zona mandamentale individuato nella specie proprio in Antonino MADONIA, capo del mandamento di Resuttana in sostituzione del padre Francesco già detenuto. Ciò premesso e venendo ad affrontare invece le perplessità sottolineate nei motivi (?. 4 e segg.) relativamente alla efficienza della carica collocata  ed alla lesività dell’ordigno, sarà sufficiente riportarsi a quanto già affermato in precedenza in merito sia all’astratta potenzialità del congegno che al funzionamento del telecomando nonché al raggio d’azione del medesimo. Le affermazioni rese da alcuni testi in primo grado (tra cui il dott. Sica ed il dott. Misiani) che ipotizzavano un non corretto funzionamento dell’ordigno, sono riferibili esclusivamente alle congetture affastellatesi nelle immediatezze del fatto e che avevano portato ad ipotizzare un attentato simulato ma nessuna connessione hanno – al di là dei sospetti indotti – con i dati di tutt’altro tenore raccolti mediante le due consulenze disposte. Così anche per quanto concerne le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia di cui si è sottolineata l’asserita incongruità specifica, deve ribadirsi che, il supporto probatorio, della sentenza impugnata, in termini in toto condivisi da questa Corte, si incentra essenzialmente sulle dichiarazioni di Francesco ONORATO, Giovambattista FERRANTE e Giovanni BRUSCA, che hanno poi trovato sostanziale coincidenza con quanto affermato da Antonino GIUFFRE’ in sede di istruzione rinnovata. In rapporto a tali dichiarazioni, deve considerarsi, pienamente operante sul piano del reciproco conforto probatorio ex art. 192, comma 3°, c.p.p. il già richiamato principio della convergenza del molteplice. I collaboranti escussi in primo grado hanno infatti fornito elementi di indubitabile oggettività il  primo con riferimento alla organizzazione logistica del crimine, il secondo sulla fornitura dell’esplosivo ed il terzo sul movente elementi che, lungi dall’apparire astrattamente precostituiti e callidamente coordinati, sono invece frutto di conoscenze e partecipazione dirette collimando tra loro quanto al nucleo centrale della chiamata di correo. Così il FERRANTE – come già rilevato con riferimento alla posizione del RIINA - non si è mai spinto oltre il dato, personalmente acquisito, relativo al prelievo dell’esplosivo ed alla consegna al BIONDINO del medesimo perché lo fornisse poi al MADONIA, senza che venissero indicate le reali finalità del fatto delle quali era rimasto totalmente all’oscuro. Nelle dichiarazioni dichiarazioni di ONORATO invece, si è proceduto ad una differenziazione tra quanto affermato e non riscontrato (la riunione a casa del Troìa) e il dato invece direttamente accertato con riferimento all’incarico eseguito del pattugliamento. Va sottolineato, inoltre, che il suggerimento relativo al supposto posizionamento    sul Monte Pellegrino altro non era se non un’ipotesi prospettata    dallo stesso collaboratore e subito spenta da Salvatore BIONDINO. La chiamata del collaborante nei confronti del MADONIA si è sostanzialmente incentrata sul ruolo a lui personalmente noto di capo mandamento e, in conseguenza di ciò, di ‘regista’ delle operazioni di coordinamento dell’attentato. Anche in questo caso, la principale ragione di credibilità di tali affermazioni dell’ONORATO, discende proprio dal fatto che non ha attribuito all’appellante alcuna condotta non riscontrata ma esclusivamente quegli elementi di fatto, frutto di sua conoscenza diretta. Da ultimo anche con riferimento alle affermazioni di Giovanni BRUSCA inconsistenti appaiono le doglianze dell’appellante. L’espressione di BIONDINO, ascoltata dal collaborante dopo l’attentato di Capaci, (si è affidato a na’ pocu di picciutteddi) e riferita proprio al MADONIA non ha nulla di inverosimile ed anzi, sposa benissimo le circostanze del fatto proprio ove si consideri che il BIONDINO stesso si era occupato solo della fase riguardante il procacciamento dell’esplosivo e di alcune circostanze di contorno (l’incarico di pattugliamento all’ONORATO) rimanendo in mano al MADONIA proprio la fase conclusiva e determinante del collocamento del borsone esplosivo, della quale il coimputato si doleva espressamente anche dopo la strage di Capaci. Sempre in riferimento alle dichiarazioni di Giovanni BRUSCA poi, va ricordato che vi è una chiamata in reità diretta nella quale il collaborante, la cui provata attendibilità è stata ampiamente dimostrata, narra (f. 102 e 104 del 27/6/99) delle rivelazioni fattegli dal RIINA nel colloquio avuto in merito all’attentato.

BRUSCA GIOVANNI: - Il fatto dell'attentato, guardi, dopo una settimana, quindici giorni, quando io mi sono... cioè, viene fuori che l'attentato viene sventato. Poi io mi incontro con lui e gli chiedo se era... se era un fatto nostro e lui mi conferma che è un fatto nostro e mi dice che era "Ninuzzu", cioè Antonino Madonia e... e poi, successivamente, c'è stato altri commenti, altre discussioni man mano che si facevano. […]

P.M. : - Sì. Lei sa dire come venne organizzato ed eseguito il fallito attentato dell'Addaura?

BRUSCA GIOVANNI: - No, io quello che so lo so tramite cronaca,  cioè non... non so nel dettaglio come è stato fatto, so solo che uno dei responsabili è Antonino Madonia, però come è stato fatto l'ho saputo tramite stampa, cioè ho visto che era stato fatto con il telecomando, che si doveva fare pure con il telecomando a distanza, però più di questo... Cioè, il resto lo... lo so tramite cronaca.

Il Brusca, appare sul punto del tutto credibile per aver omesso qualsiasi deduzione o personale considerazione sullo svolgimento dei fatti, limitandosi a riferire esclusivamente il segmento di propria conoscenza diretta appresa dal RIINA ammettendo di aver conosciuto i dettagli logistici solo tramite notizie di stampa. Per concludere, anche quanto alle ragioni poste a fondamento dell’appello con riferimento alla matrice dell’attentato, non può che rimandarsi alle ampie considerazioni già svolte in precedenza, dovendosi aggiungere che di nessuna rilevanza è apparsa la questione attinente le dichiarazioni di Ilardo Luigi, collaboratore di giustizia dell’area catanese, poi riversate in alcuni articoli di stampa tramite le affermazioni di un Ufficiale dei Carabinieri che aveva escusso l’Ilardo stesso poi ucciso in carcere. La morte dell’Ilardo escluderebbe in nuce, sotto ogni profilo, la verificabilità delle affermazioni che, per quanto prospettato non hanno in ogni caso rilievo autonomo neppure sotto il profilo indiziario in ordine ai fatti di causa. In tal senso la Corte ha disposto quindi la restituzione della documentazione posta a disposizione dall’imputato MADONIA nel corso delle spontanee dichiarazioni rese all’ultima udienza. Attraverso le dichiarazioni spontanee, rese all’udienza del 12/2/03 (f.76), il MADONIA ha inteso contestare l’attendibilità del collaborante GIUFFRE’ sostenendo che costui avrebbe erroneamente indicato l’epoca della loro conoscenza e conseguenti loro incontri in commissione a partire dal 19-6-1987 facendo riferimento ad un periodo in cui egli risultava invece detenuto (dal 6 maggio 1987 al novembre 1988). Il particolare appare di trascurabile rilievo se riferito al contesto generale della narrazione, ben potendo ipotizzarsi un errore di ordine meramente cronologico, in merito alla data, non idoneo ad inficiare il nucleo fondamentale delle dichiarazioni. Tali considerazioni inducono a ritenere superflua la produzione documentale sullo stato detentivo richiesta dal MADONIA, nonché l’eventuale acquisizione del verbale reso in altro procedimento dal GIUFFRE’ per circostanze non strettamente legate al procedimento. In ogni caso poi l’argomento esulerebbe del tutto dal presente procedimento essendo relativo a presunte riunioni della commissione provinciale di Cosa Nostra, tenutasi tra il 1987 ed il 1988, ovvero assai prima dell’attentato e quando semmai altri tentativi di uccidere il dott. FALCONE, erano in cantiere. Sotto il profilo sanzionatorio la sentenza impugnata merita conferma, dovendosi disattendere  sia  l’appello del PG che ha invocato inasprimento della pena ?no al massimo edittale di 30 anni, ex art. 78 con riferimento all’art. 81 cpv. c.p. che la doglianza difensiva che ha chiesto la irrogazione nel minimo, ovvero anni 15 di reclusione ex art, 422 comma II cpp. Per quanto riguarda l’appello del PG, vanno richiamate integralmente in ordine alla congruità della pena irrogata in primo grado, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, le argomentazioni svolte nell’esaminare la posizione del RIINA. In ordine alla doglianza difensiva va osservato invece che pur in presenza di un attentato che non ha prodotto, come potenzialmente avrebbe potuto  e con gravissime conseguenze, danni alla incolumità pubblica, limitandosi a far sorgere una situazione di inquietante pericolo, la decisione dei primi giudici è totalmente condivisibile. Il trattamento sanzionatorio adottato, è ampiamente giustificato, ad avviso della Corte, oltre che dai precedenti specifici, concernenti gli esplosivi e dagli episodi di sangue di cui il MADONIA è gravato, dal suo ruolo preminente sul piano organizzativo, legato alla condizione di capo mandamento nel rispetto del principio di territorialità fondamentale per Cosa Nostra. Come già rilevato, nei confronti dell’imputato RIINA, i primi giudici hanno determinato la pena base per il più grave dei reati tra quelli ritenuti in continuazione capo A) strage ex art. 422 c.p., nel massimo edittale, (ex art. 23 c.p.) operando poi un aumento del tutto congruo in rapporto alle componenti oggettive e soggettive dell’episodio, di un anno in relazione agli altri due addebiti concernenti la detenzione ed il porto illegale dell’esplosivo capi B) e C), sino alla concorrenza globale di anni 26 di reclusione. L’esame di tutte le circostanze indicate nell’art. 133 cp, induce a ritenere che sussistessero le condizioni di ordine oggettivo e soggettivo perché per la singolare intensità del dolo che ha caratterizzato la condotta e per l’eccezionale motivo di allarme sociale ad esso connesso, tenuto conto della natura della specie, dei mezzi, del luogo e della modalità dell’azione, la determinazione sanzionatoria fosse ispirata da tali criteri di severità. Analoghe considerazioni inducono ad escludere ex art. 133 c.p. le concessioni delle attenuanti generiche, del resto non espressamente richieste dalla difesa che si è limitata a richiamarsi all’irrogazione del minimo edittale. Va pertanto confermata la sentenza di primo grado. Consegue, ope legis, ex art. 592 c.p.p. la condanna dell’appellante MADONIA alle spese del    presente grado del giudizio.

I complici del Corto. La Repubblica il 3 luglio 2020. L’imputato non ha interposto appello avverso la sentenza di primo grado. Nei di lui confronti era stata originariamente proposta impugnazione dal Procuratore Generale ai soli fini di un asprimento della pena irrogatagli ma a tale gravame (dichiarato, quindi, inammissibile ex art. 591, comma 1, lettera d, c.p.p.) lo stesso appellante ha rinunciato con conseguente irrevocabilità nei confronti del BIONDINO della sentenza di primo grado escluso ogni effetto estensivo derivante dagli appelli proposti dagli altri imputati nei confronti dei quali è stata peraltro confermata la dichiarazione di penale responsabilità per i fatti contestati.

ONORATO Francesco. Le doglianze del collaboratore di giustizia ONORATO, così come quelle del FERRANTE, sono sostanzialmente incentrate sulla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche invocate sulla scorta della confessione e delle chiamate in correità, ampiamente rese sulla vicenda. Incisivo e concreto, in particolare, deve considerarsi il contributo reso dall’ONORATO che, come si è ampiamente sottolineato, ha fornito agli inquirenti dettagli organizzativi importanti e spesso anche riscontrati ab externo, non tacendo nulla sul proprio coinvolgimento nell’azione criminosa e sul ruolo svolto dai complici. Altrettanto pacifica deve ritenersi l’astratta compatibilità tra il già concesso beneficio della collaborazione (art. 8 dl 152/91 conv. nella legge 203/91) e le circostanze attenuanti generiche, strumenti questi di diversa natura e finalità nonché tendenti ad adeguare su un piano di equilibrio l’entità della sanzione alla gravità della condotta posta in essere. E’ noto, infatti, che tale diminuente speciale di cui all’art. 8 dl 152/91, ha riguardo essenzialmente all’entità del contributo investigativo e probatorio fornito dal collaboratore definitivamente dissociatosi dal sodalizio criminoso. Le attenuanti generiche, proprio per la già richiamata funzione normativa, lungi dal costituire un premio da elargire in assenza di elementi negativi (nella specie immanenti per la eccezionale gravità del reato), devono ancorarsi al riconoscimento di connotazioni di segno positivo e cioè ad un quid pluris rispetto al dato oggettivo della collaborazione. Di ciò peraltro, ad avviso della Corte, il dibattimento non ha consentito di cogliere ex art. 133 c.p. chiare ed univoche indicazioni indipendenti dalla decisione dell’ONORATO di recidere i rapporti con il mondo criminale, alla base dell’ammissione al trattamento premiale che è stata già adeguatamente considerata sotto il profilo sanzionatorio con la concessione della diminuente di cui all’art. 8. Anche a prescindere dal giudizio di gravità generale dei fatti – che peraltro è evidentemente da confermarsi - deve pertanto condividersi l’orientamento dei primi giudici che hanno negato le attenuanti di cui all’art. 62 bis cp. Peraltro, valutati gli elementi di cui all’art. 133 cp, può operarsi una riduzione parziale, sia della pena base, che nell’aumento eseguito ai sensi dell’art. 81 cpv. c.p., nell’ambito della ritenuta continuazione. In tal senso pertanto dovrà essere rideterminata la pena irrogata, ex art. 133 cp, nei confronti dell’ONORATO nei termini seguenti: pena base  anni 17 e mesi 6 di reclusione (lievemente superiore al minimo edittale di anni 15 ed inferiore di mesi 6 a quella stabilita in I° grado di anni 18) diminuita della metà ex art. 8 dl 152/91 ad anni 8 mesi 9, aumentata di mesi 7 (a fronte dei 12 irrogati in I° grado) per la ritenuta continuazione ex art. 81 cpv  e così complessivamente determinata in anni 9 mesi 4 di reclusione.

FERRANTE Giovambattista. Considerazioni analoghe devono valere anche per la posizione del FERRANTE, il cui appello era, del pari, finalizzato esclusivamente alla concessione delle attenuanti generiche in aggiunta alla già riconosciuta diminuente di cui all’art. 8, d.l. 152/91, conv. dalla l..203/91. Indiscutibile la effettività del contributo reso dal FERRANTE che, come si è ampiamente sottolineato, ha riferito con particolare ricchezza di particolari spesso anche riscontrati ab externo, sulla consegna dell’esplosivo richiesto dal BIONDINO al MADONIA, fornendo così un decisivo impulso alle indagini. Altrettanto pacifica deve ritenersi l’astratta compatibilità tra il già concesso beneficio della collaborazione (art. 8 dl 152/91 conv. nella legge 203/91) e le circostanze attenuanti generiche, strumenti questi di diversa natura e finalità nonchè tendenti ad adeguare sul piano di equilibrio l’entità della sanzione alla gravità della condotta posta in essere. E’ noto, infatti, che tale diminuente speciale di cui all’art. 8 dl 152/91, ha riguardo essenzialmente all’entità del contributo investigativo e probatorio fornito dal collaboratore definitivamente dissociatosi dal sodalizio criminoso. Le attenuanti generiche, proprio per la già richiamata funzione normativa, lungi dal costituire un premio da elargire in assenza di elementi negativi (nella specie immanenti per la eccezionale gravità del reato), devono ancorarsi al riconoscimento di connotazioni di segno positivo e cioè ad un quid pluris rispetto al dato oggettivo della collaborazione. Di ciò peraltro ad avviso della Corte il dibattimento non ha consentito di cogliere ex art. 133 c.p. chiare ed univoche indicazioni indipendenti dalla decisione del FERRANTE di recidere i rapporti con il mondo criminale, alla base dell’ammissione al trattamento premiale che è stata già adeguatamente considerata sotto il profilo sanzionatorio con la concessione della diminuente di cui all’art. 8. Anche a prescindere dal giudizio di gravità generale dei fatti – che peraltro è evidentemente da confermarsi - deve pertanto condividersi l’orientamento dei primi giudici che hanno negato le attenuanti di cui all’art. 62 bis cp. Peraltro può accedersi alla richiesta formulata in via subordinata di operare una riduzione parziale sulla  pena globalmente da irrogarsi, determinata in I grado  in complessivi anni 3 di reclusione e £. 1.200.000 di multa. Ferma la determinazione nella pena base nei confronti del FERRANTE, che risponde, lo si ricordi, dei soli reati afferenti la detenzione e il porto dell’esplosivo, nella misura di anni 5 di reclusione ed € 1032 di multa, diminuita la stessa ex art. 8 dl 152/91 ad anni 2 mesi 6 e € 516, la riduzione sanzionatoria in questa sede, in accoglimento dello specifica istanza difensiva, può riguardare esclusivamente l’aumento per la continuazione contenuta nella presente sede, in mesi 2 di reclusione ed € 84 di multa. Ne consegue che la pena unica finale da irrogare al FERRANTE è di anni 2 e mesi 8 di reclusione ed € 600 di multa.

I fatti e il movente, la requisitoria. La Repubblica il 4 luglio 2020. Alle ore 8,00 del mattino del 29 luglio del 1983 veniva attivata a distanza, con il sistema del telecomando, una carica di esplosivo collocata all'interno del bagagliaio di una Fiat 126 parcheggiata proprio in prossimità del portone d'ingresso dello stabile di via Pipitone Federico a Palermo dove abitava il dottor Rocco Chinnici, all'epoca Consigliere Istruttore e quindi dirigente dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. L'autovettura all'interno della quale era stata collocata la carica esplosiva era stata rubata nei giorni precedenti, sempre in Palermo, e le targhe che erano state apposte a questa autovettura erano state rubate nella notte tra il 28 e il 29 luglio da un'altra 126 di proprietà di tale Santonocito. La terribile esplosione provocava la morte del dottor Chinnici, di due componenti della scorta dei carabinieri: il maresciallo Trapassi e l'appuntato Bartolotta, del portinaio dello stabile Stefano Lisacchi, nonchè il ferimento grave, gravissimo - Presidente, il soggetto rimase per un lungo periodo in stato di coma - dell'autista giudiziario Paparcuri, che si era recato, appunto, a prendere il dottor Chinnici, come faceva ogni mattina, presso l'abitazione di via Pipitone Federico per portarlo al Palazzo di Giustizia. Residuavano, poi si accerterà, nei confronti del Paparcuri delle lesioni di carattere permanente e consistenti nell'affievolimento permanente dell'organo dell'udito e delle funzioni dell'udito. Ancora, si provocava il ferimento più lieve di innumerevoli altre persone, compresi altri carabinieri addetti alla scorta del dottor Chinnici. L'esplosione provocava altresì la vera e propria devastazione del teatro della zona con la distruzione e il danneggiamento degli stabili circostanti, delle automobili parcheggiate, delle saracinesche di molti negozi ancora chiusi a quell'ora del mattino. Ci trovavamo di fronte, eravamo al 29 luglio del 1983, non al primo omicidio cosiddetto eccellente, non alla prima eliminazione di un rappresentante delle istituzioni, di un rappresentante così autorevole come poteva essere ed era il capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo; ma ci trovavamo però di fronte al primo episodio di omicidio eccellente realizzato mediante il sistema dell'autobomba, mediante un sistema ed una metodologia tipicamente terroristica. Purtroppo ci troviamo in presenza di quello che è stato solo il primo episodio di una serie che poi è sfociata negli attentati del 1992, nelle stragi del 1992, nelle quali rispettivamente persero la vita il dottor Falcone, la dottoressa Morvillo, i poliziotti della loro scorta, il dottor Borsellino e i poliziotti della sua scorta. Dicevo, un parallelismo con le stragi di Capaci e di via D'Amelio; un parallelismo che non sta soltanto nelle modalità esecutive che sono drammaticamente e palesemente analoghe, soprattutto con riferimento alla strage di via D'Amelio, ma un'identità ed un parallelismo che va ben al di là di questi dati strettamente riconducibili alla fase esecutiva. Per quanto riguarda il prosieguo di questa esposizione introduttiva, volevo innanzitutto dire che noi l'affronteremo in questo modo,  tra l'altro attenendoci a quello che è lo spirito e il disposto del codice, senza approfondimenti eccessivi e senza, soprattutto, il riferimento specifico a fonti di prova che poi, invece, verranno esaminate e valutate dalla Corte nel corso dell'istruttoria. Volevo però dire quello che il Pubblico Ministero intende dimostrare e volevo dire che io mi occuperò in questa breve prolusione, in questa breve esposizione introduttiva di quello che intendiamo dimostrare in ordine al movente e ai mandanti dell'attentato; la collega nel prosieguo proseguirà in relazione alle fasi più strettamente esecutive. Dicevo del movente, signori della Corte. Noi intenderemo e intendiamo dimostrare che, come spesso accade nei delitti di mafia, forse come sempre accade, il movente della strage di via Pipitone Federico è un movente di carattere complesso, dove certamente c'è una componente fondamentale di vendetta nei confronti del dottor Chinnici; dove, però, altrettanto fondamentale, se non ancora più importante, è un movente - per così dire - di prevenzione in relazione ad una attività che il dottor Chinnici, quale dirigente dell'Ufficio Istruzione, stava approfondendo e stava organizzando proprio in quel periodo. Dobbiamo riportarci innanzitutto a quel periodo 1983 che è un periodo assolutamente diverso rispetto a quello che viviamo oggi nel contrasto, nell'azione di contrasto alla criminalità organizzata; ed è anche un periodo completamente diverso rispetto al 1992 quando furono perpetrate le stragi di Capaci e di via D'Amelio. Siamo in un periodo, primi anni '80, nel quale sostanzialmente ancora non abbiamo alcun apporto, non solo decisivo ma addirittura importante, rilevante dei collaboratori di giustizia, di soggetti che, fuoriuscendo dall'ambito criminale di cosa nostra, aiutano gli inquirenti con le loro dichiarazioni a capire il mondo di cosa nostra, a capire l'organizzazione, a parlare dei singoli delitti-fine posti in essere dall'organizzazione. Siamo in un periodo in cui le indagini si muovono soltanto sulla capacità e in base alla capacità investigativa ed organizzativa di pochissimi giudici, tra l'altro ancora non organizzati in strutture efficienti, in quelli che poi verranno chiamati e poi istituzionalizzati come “pool antimafia”. Ebbene, il dottore Chinnici, e lo dimostreremo nel corso dell'istruzione dibattimentale, era stato l'antesignano dei pool antimafia, era stato il primo magistrato che, nella sua qualità di Consigliere Istruttore a Palermo, aveva organizzato il lavoro suo e dei suoi colleghi d'ufficio in maniera che ciascuno conoscesse quello che stava facendo l'altro, in maniera che tutte le indagini su un fenomeno che il dottore Chinnici considerava unitario, qual era il fenomeno dell'attività di cosa nostra a Palermo e in Sicilia, venissero coordinate e viste in un'ottica di insieme. Oggi ci appare scontato, oggi, nel 1991 sono state costituite le Direzioni Distrettuali Antimafia, è stato in un qualche modo istituzionalizzato il lavoro di pool, lo scambio continuo di informazioni, il travaso continuo di dati processuali da un fascicolo processuale all'altro, il collegamento tra i vari giudici che si scambiavano tutte le informazione relative ad indagini rispettivamente compiute. Oggi ci sembra tutto scontato. Allora no; allora il dottore Chinnici avvertì questa esigenza di affrontare in maniera sistematica l'attività di indagine di cosa nostra. E quello che dimostreremo, Signori della Corte, nel corso di questo processo è che cosa nostra, almeno nei suoi esponenti più avvertiti, e non sono pochi, e più intelligenti, avvertì il pericolo che quella organizzazione in pool del lavoro dei giudici antimafia avrebbe costituito. Lo dimostreremo attraverso dichiarazioni di collaboratori di Giustizia. Parlavo anche di motivazioni di vendetta. Produrremo documentazione atta a provare quello che il dottore Chinnici, personalmente e come coordinatore del lavoro degli altri giudici istruttori e del dottore Falcone in particolare stava facendo in quel periodo tra la fine del 1982 e il 1983. Per la prima volta a Palermo, e veramente per la prima volta, vengono spiccati dei mandati di cattura numerosi e ciascuno nei confronti di decine e decine di persone, proprio nei confronti di coloro i quali - oggi lo sappiamo anche in virtù di sentenze passate in giudicato - in quel momento erano i capi e i capi emergenti dell'organizzazione, i capi praticamente sconosciuti. Andremo a vedere come pochi mesi prima di morire, per esempio, il giudice Chinnici avesse spiccato un mandato di cattura, allora così si definivano, nei confronti di 88 componenti di cosa nostra tra i quali, tanto per fare dei nomi, il Riina, il Provenzano, i Pullarà della famiglia di Santa Maria di Gesù, i Vernengo, Greco Michele, che fino a poco tempo prima era stato il capo incontrastato dell'organizzazione, Greco Salvatore, Profeta Salvatore e compagnia cantante. Dimostreremo come il 13 luglio, 15 giorni prima del... 16 giorni prima della strage il dottore Chinnici insieme al dottore Falcone aveva coordinato una operazione che era sfociata in - mi pare - 14 mandati di cattura, tra gli altri c'era Riina, tra gli altri c'era Provenzano, in relazione all'omicidio del generale Dalla Chiesa, in relazione all'omicidio di Stefano Bontate, in relazione ad altri fatti, eliminazioni di capomafia tipo Salvatore Inzerillo, che erano frutto di quella guerra di mafia che da poco si era conclusa e che aveva insanguinato in maniera irripetibile e irripetuta le strade di Palermo. Siamo in presenza di un'attività dell'Ufficio Istruzione che in quel momento è particolarmente penetrante, e per la prima volta penetrante nei confronti di quella che poi verrà definita la fazione corleonese dell'organizzazione criminale cosa nostra. Ma vi è di più, e qui si inserisce, Signori della Corte, quello che io definisco l'aspetto preventivo del movente.

Dietro l’attentato all’Addaura c’era la mafia, solo la mafia. E’ Falcone a raccontarlo. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 24 maggio 2020. A smentire i complottisti è lo stesso Falcone, che nel suo libro racconta: «Tra i rari attentati falliti, voglio ricordare quello organizzato contro di me nel giugno 1989. Gli uomini della mafia hanno commesso un grosso errore, rinunciando all’abituale precisione e accuratezza pur di rendere più spettacolare l’attacco contro lo Stato. Al punto che qualcuno ha concluso che quell’attentato non era di origine mafiosa. Mi sembra che, più banalmente, capita anche ai mafiosi di sopravvalutare le proprie capacità, sottovalutare l’avversario, voler strafare”.

Giovanni Falcone: «Il fallito attentato all’Addaura è stato un grossolano errore della Mafia». Da diversi anni, se non decenni, va di moda parlare di Giovanni Falcone – ma anche di Paolo Borsellino– non per le azioni giudiziarie che ha svolto, non su cosa ha scritto negli atti giudiziari e nemmeno di cosa diceva durante i convegni o scriveva nei suoi libri o articoli da pubblicista. No. Va di moda parlare di cosa avrebbe riferito, trascurando tutto ciò che ha detto chiaro e tondo. In questi giorni, grazie al programma TV Atlantide di La Sette dove si è affrontato con superficialità l’argomento, si parla del fallito attentato all’Addaura verificatosi il 21 giugno del 1989 nei pressi della località palermitana ed esattamente nella scogliera antistante una villa, dove soggiornava il Giudice Falcone e dove, in quel momento, erano ospiti la dottoressa Carla Del Ponte, all’epoca Sostituto Procuratore pubblico di Lugano e il Giudice Istruttore Carlo Lehmann.  Questi giorni – in merito alla vicenda dell’Addaura – si evocano “entità”, persone esterne alla mafia e addirittura si fa il nome dell’ex 007 Bruno Contrada che Falcone avrebbe fatto al giornalista Saverio Lodato. Ma a qualcuno interessa sapere cosa ne pensasse Falcone stesso in merito al fallito attentato? Basterebbe leggere il libro “Cose di Cosa Nostra” scritto da Marcelle Padovani assieme a Falcone. Uscì nell’Ottobre 1991 in francese poi fu tradotto in italiano a novembre, dunque sei mesi prima dell’attentato di Capaci. Trascriviamo direttamente le riflessioni del Giudice: «Tra i rari attentati falliti, voglio ricordare quello organizzato contro di me nel giugno 1989. Gli uomini della mafia hanno commesso un grosso errore, rinunciando all’abituale precisione e accuratezza pur di rendere più spettacolare l’attacco contro lo Stato. Al punto che qualcuno ha concluso che quell’attentato non era di origine mafiosa. Mi sembra che, più banalmente, capita anche ai mafiosi di sopravvalutare le proprie capacità, sottovalutare l’avversario, voler strafare.

Poi Falcone ha aggiunto: «L’attentato coincise con un momento per me difficile al tribunale di Palermo e venne preceduto da una serie di lettere anonime, attribuite dalla stampa al “corvo”, che mi accusavano, insieme con altri magistrati, di aver manipolato il pentito Salvatore Contorno, inviandolo in Sicilia per combattere e uccidere i “Corleonesi” e i loro alleati. Rievoco il “corvo” per rilevare come non siano solo i mafiosi a utilizzare messaggi trasversali, anche se questi senza alcun dubbio lo sanno fare molto meglio degli altri».Da ricordare che poi, purtroppo, il “corvo” ricominciò a svolazzare dopo la pubblicazione del libro e poco tempo prima della strage di Capaci. Al riguardo, lo stesso generale Mario Mori ha riferito nel suo esame dibattimentale ( udienza del 7 febbraio 2000) che aveva concordato con Falcone nel ritenere che le lettere del “Corvo”, rappresentassero un «atto di delegittimazione di personaggi delle Istituzioni particolarmente esposti nella lotta alla criminalità organizzata» e che nella prassi mafiosa le manovre di isolamento e delegittimazione fossero spesso il primo passo per giungere, «all’annientamento» di chi si contrapponeva ai programmi della organizzazione mafiosa. Ma allora a cosa si riferiva Giovanni Falcone quando parlò di menti raffinatissime? Molto probabilmente alla “raffinata” strategia della delegittimazione da parte della mafia, per poi arrivare – una volta non ottenuto i risultati sperati – all’annientamento. Sempre nel libro “Cose di Cosa Nostra”, Giovanni Falcone è chiaro sul punto: «La mafia è razionale, vuole ridurre al minimo gli omicidi. Se la minaccia non raggiunge il segno, passa a un secondo livello, riuscendo a coinvolgere intellettuali, uomini politici, parlamentari, inducendoli a sollevare dubbi sull’attività di un poliziotto o di un magistrato ficcanaso, o esercitando pressioni dirette a ridurre il personaggio scomodo al silenzio. Alla fine ricorre all’attentato. Il passaggio all’azione è generalmente coronato da successo, dato che Cosa Nostra sa fare bene il suo mestiere». Parole, le sue, purtroppo profetiche. Ventotto anni fa, insieme a Falcone, a Capaci, persero la vita la moglie Francesca Morvilio, magistrato, e gli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro.

Il Pm iperspecializzato secondo Giovanni Falcone. Redazione su Il Riformista il 27 Maggio 2020. Giovanni Falcone il 3 ottobre 1991, pochi mesi prima di essere trucidato a Capaci, in una intervista sottolineava come il nuovo codice di procedura penale, che da pochi anni era entrato in vigore, esigesse un pm iperspecializzato che «nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non deve essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice.  Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano in realtà indistinguibili gli uni dagli altri ». Ma questa posizione non gli veniva perdonata, veniva accusato di voler rendere il pm succube della politica. E lui così si difendeva: «Chi, come me, richiede che siano due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico della indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’Esecutivo. È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del pm con questioni istituzionali totalmente distinte». Sono le parole di Falcone che ancora oggi danno fastidio e nonostante le celebrazioni in ricordo della strage di Capaci in pochi ricordano questa sua battaglia che da vivo gli fece il vuoto intorno.

Contrada, Falcone lo elogiava e chi oggi lo scredita nel ’92 lo lodava. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 giugno 2020. Nel 1982 Falcone scrisse un encomio alla questura di palermo, con particolare riferimento Contrada, per la collaborazione nella lotta alla mafia. «Chiesi a Giovanni Falcone chi fossero le “menti intelligentissime e raffinatissime” che avevano guidato la mafia e a cui lui aveva fatto riferimento dopo il fallito attentato dell’Addaura. E lui me lo fece. Il nome era quello del dottor Bruno Contrada». Questa è stata la famosa rivelazione del giornalista Saverio Lodato, intervenuto su La7 nello speciale di “Atlantide”, condotto da Andrea Purgatori, dedicato alla memoria del giudice ucciso a Capaci il 23 maggio 1992.Molti si sono chiesti del perché, dopo trentun anni dal fatto, Lodato ha ricordato che Falcone gli avrebbe riferito un sospetto, facendogli il nome di Bruno Contrada come mente dietro al fallito attentato dell’Addaura.

Il lavoro di Contrada per il processo Spatola. Ma a questa domanda Il Dubbio, in esclusiva, ne aggiunge un’altra. C’è un libro dal titolo “Falcone vive”, pubblicato a giugno del 1992, quindi dopo la strage di Capaci, scritto da Luciano Galluzzo, Francesco La Licata e dallo stesso Saverio Lodato. Nel libro non si fa alcun cenno a questa confidenza. Anzi, tutt’altro. A pagina 51 gli autori scrivono che l’azione giudiziaria di Giovanni Falcone, che portò a una sentenza dura del famoso processo Spatola, raccoglieva i risultati del lavoro al quale hanno partecipato gli uomini che poi si sarebbero rivelati fra i principali investigatori del fenomeno mafioso. Tra di loro – si legge nel libro a firma anche di Saverio Lodato– c’è «Bruno Contrada, il più esperto poliziotto palermitano, che ebbe ruolo fondamentale nella ricerca fruttuosa del perverso bandolo del grande affaire del finto sequestro Sindona. Anni di lavoro sotterraneo». Un riconoscimento da parte degli autori, tra i quali Lodato stesso, al lavoro svolto da Contrada non solo per il processo Spatola, ma anche per la vicenda del famoso finanziere Michele Sindona che poi morirà in carcere avvelenato con un caffè al cianuro. D’altronde Bruno Contrada, alla fine degli anni 70 stava indagando da tempo sulla mafia siculo-americana e sulle famiglie Gambino, Spatola e Inzerillo. Indagando anche sul coinvolgimento di Michele Sindona con la mafia. A pagina 43 del libro “Falcone vive” viene riportato anche un virgolettato giudice stesso nel quale parlava proprio del processo Spatola. «La mafia – si legge -, vista attraverso il processo Spatola, mi apparve come un mondo enorme, smisurato, inesplorato. Il processo trasse impulso da un rapporto che era il risultante di tre filoni investigativi: le indagini di Bruno Contrada, segreteria dell’alto commissariato, di Ferdinando Imposimato e di Giuliano Turone». In sostanza Giovanni Falcone affianca il lavoro dell’allora poliziotto Contrada a quello dei suoi due colleghi magistrati.

“Falcone vive”, il libro scritto nel ’92. E tutto questo viene riportato nel libro scritto da Galluzzo, La Licata e Lodato. Quindi inevitabilmente c’è da porsi una domanda. Come mai nel libro non solo non traspare la confidenza che Falcone avrebbe fatto a uno degli autori, Saverio Lodato, ma addirittura un vero e proprio elogio a Contrada da parte da quest’ultimo? Ribadiamo che il libro “Falcone Vive” è uscito a giugno del 1992, subito dopo la strage di via Capaci proprio per ricordare il grandissimo sacrificio svolto dal giudice di Palermo contro la mafia.A tutto ciò va aggiunto un altro documento che rafforza ulteriormente la stima che Giovanni Falcone avrebbe avuto nei confronti di Bruno Contrada. Una stima dovuta al suo lavoro contro la mafia. Si tratta di un encomio del 1982 rivolto alla questura di Palermo. «Mi è gradito esternarle i miei più vivi ringraziamenti per la intelligente e fattiva collaborazione della squadra mobile e della Criminalpol di Palermo delle indagini istruttorie relative al procedimento penale contro Spatola Rosario ed altri, imputati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e di altri gravi delitti».

L’encomio del giudice all’ex 007. Poi Falcone sottolinea: «Mi consenta di segnalare, in particolare, il dottor Bruno Contrada, dirigente dalla Criminalpol Sicilia, il dottor Ignazio D’Antone, dirigente della squadra mobile di Palermo, il vicequestore dottor Vittorio Vasquez, il commissario capo dottor Guglielmo Incalza ed il maresciallo Santi Donato, i quali, pur in mancanza di strutture adeguate rispetto alla gravità ed alle dimensioni del fenomeno mafioso, hanno portato allo scrivente continua e ed incisiva assistenza, rivelando, altresì, nel compimento delle indagini delegate, ottime doti di capacità professionale». Sappiamo che Bruno Contrada verrà condannato – secondo la Cedu ingiustamente e infatti la Cassazione ha revocato la condanna – per il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso commesso tra il 1979 e il 1988. Periodo nel quale Falcone gli aveva riconosciuto di aver svolto un ottimo lavoro contro la mafia. Possibile che il giudice stritolato a Capaci non si fosse accorto del suo presunto coinvolgimento con la mafia? A noi piace onorare la memoria del giudice e la sua indiscussa genialità. Se avesse avuto un minimo sentore di qualche collusione, Giovanni Falcone avrebbe evitato quell’encomio e soprattutto non lo avrebbe ribadito come riportato nel virgolettato del libro di Galluzzo, La Licata e Lodato.

Intervista a Bruno Contrada: “Falcone sospettava di me? Una calunnia”. Giorgio Mannino su Il Riformista il 22 Maggio 2020. “Mi rivolgerò al mio avvocato, Stefano Giordano, per agire in sede penale e civile contro i responsabili della trasmissione e dunque contro l’emittente La 7”. Il tono di Bruno Contrada, ex dirigente della Squadra Mobile di Palermo, poi passato al Sisde, è deciso: “Ancora una volta – sottolinea – sono stato diffamato e calunniato”. Riavvolgiamo il nastro. Sono circa le 23 di mercoledì. Su La 7, durante la trasmissione Atlantide, dedicata alla strage di Capaci, condotta da Andrea Purgatori, il giornalista Saverio Lodato rivela: “Chiesi a Giovanni Falcone chi fossero le ‘menti intelligentissime e raffinatissime’ che guidavano la mafia e a cui lui aveva fatto riferimento dopo il fallito attentato dell’Addaura (21 giugno 1989, ndr). Lo incalzai su quel nome e lui me lo fece. Era quello del dott. Bruno Contrada. Falcone mi disse  – continua Lodato – ‘se tu scrivi il nome di Bruno Contrada attribuendolo a me, con me non avrai più alcun tipo di rapporto’”. Per la prima volta, a distanza di 30 anni da quel fallito attentato ancora gravido di misteri, dietro le “menti raffinatissime” ci sarebbe un nome. Quello di Bruno Contrada. Già condannato in via definitiva nel 2007 a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma per i giudici della Corte Europea di Strasburgo, l’ex poliziotto non doveva essere condannato perché all’epoca dei fatti il reato non era ancora previsto dall’ordinamento giuridico italiana e dunque “non era sufficientemente chiaro”.

Dottore Contrada cos’ha provato quando ha sentito il suo nome accostato alle “menti raffinatissime”?

«Lodato è stato spinto a dire il mio nome da Andrea Purgatori».

Ma Lodato ha riportato una confidenza che gli avrebbe fatto il giudice Falcone dopo il fallito attentato dell’Addaura.

«Conoscendo la correttezza del dottore Falcone, non credo assolutamente che potesse fare una confidenza del genere al giornalista. E se mai l’avesse fatta posso capire la riservatezza di Lodato di non pubblicarla quando il giudice era ancora in vita ma dopo il 1992 l’avrebbe potuto fare. Perché non l’ha fatto? Poi quando si parla con un giornalista si può dire una cosa per distrazione, per confusione».

Sta dicendo che Giovanni Falcone potrebbe essersi sbagliato?

«Non sto dicendo questo. Tutto nasce dall’equivoco che segue alla rogatoria in Svizzera di Oliviero Tognoli che riciclava il denaro sporco della mafia».

Quale equivoco?

«Tognoli non ha mai fatto il mio nome. Falcone gli ha chiesto chi lo avrebbe aiutato a sfuggire al mandato di cattura e, in forma di domanda, gli ha fatto il mio nome. Tognoli ha sorriso, non disse sì. Durante la seconda rogatoria, quando Falcone e Ayala andarono in Svizzera e interrogarono nuovamente Tognoli, questo raccontò come andarono le cose. E cioè che fu suo fratello ad avvertirlo che in albergo sarebbe arrivata la polizia di Brescia ad arrestarlo».

Quindi lei non ha fatto alcuna soffiata a Tognoli?

«Io non conoscevo Tognoli. Non sapevo neanche che fosse stato arrestato. Al tempo, non facevo più parte della polizia, ero capo gabinetto dell’Alto Commissario”».

Ma la giudice svizzera Carla Del Ponte, durante il processo per il fallito attentato all’Addaura, dichiarò al pm Luca Tescaroli che durante l’interrogatorio Tognoli “disse sì con la voce” alla domanda di Falcone “Bruno Contrada?”

«“Vabbè. La verità è che Tognoli non dice il mio nome e non dice “sì”. Sorride soltanto. Questa faccenda che non aveva detto ‘Sì’ ma aveva fatto un sorriso, Falcone la riferì poi in due occasioni diverse: al dottore Francesco Di Maggio e all’allora colonnello Mario Mori durante un viaggio che avevano fatto insieme”».

Però il suo nome lo farebbe Falcone a Lodato: perché?

«“Se è veramente così è possibile che il dottor Falcone sia stato tratto in inganno. Perché quando Tognoli parla di un funzionario di polizia che poi era andato in un’altra amministrazione dello Stato, intendeva riferirsi al suo amico e compagno di banco, Cosimo Di Paola. Quando Tognoli ha parlato col funzionario di polizia svizzero e gli ha detto che era stato informato del suo arresto da un poliziotto che lavorava a Palermo e che aveva fatto il concorso per giudice amministrativo a Bari, si è creato l’equivoco. Evidentemente al dottore Falcone era sfuggito che Tognoli fosse del 1951, così come Di Paola, mentre io sono del 1931. Fu tutto un errore, un equivoco. Falcone potrebbe avere pensato a me perché sapeva di un funzionario di polizia passato ad un’altra amministrazione dello Stato. Io lascio la polizia nel 1982 per andare al Sisde. Di Paola l’aveva lasciata per diventare giudice amministrativo. Falcone è stato messo sulla cattiva strada dal funzionario di polizia che aveva ricevuto le confidenze di Tognoli. Se fosse risultato qualcosa al mio carico, Falcone avrebbe agito penalmente e invece non hanno fatto niente perché dopo è stato chiarito tutto”».

Ma come mai Lodato, secondo lei, ha tirato fuori questa rivelazione?

«Non esprimo giudizi perché non voglio passare dalla parte del torto».

Ha lavorato a Palermo per tanti anni. Lei si è mai fatta un’idea su chi potrebbe esserci dietro le menti raffinatissime di cui parlava Falcone?

«Onestamente non lo so. Sicuramente chi ha architettato l’attentato dell’Addaura, mente raffinatissima non lo era, considerando com’è andata».

Sabato ricorrerà il 28° anniversario della strage di Capaci: qual è il miglior modo per ricordare il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta?

«Dire la verità, senza fare teoremi, inventare storie su presunte colpe di uomini dello Stato. Ci sono stati processi lunghi, articolati, pentiti che hanno parlato, condannati”».

Quindi, secondo lei, la strage di Capaci è stata solo mafia?

«“Non intendo entrare in questo argomento. Parlo solo delle indagini che ho fatto io. Io non vestivo i pupi”».

Atlantide e Cose Nostre influenzano i processi col teorema della trattativa Stato-mafia. Redazione su Il Riformista il 9 Giugno 2020. Una lettera, indirizzata ai direttori di Rai 1, Stefano Coletta, e La7, Andrea Salerno, per evidenziare come durante i programmi “Cose Nostre” e “Atlantide”, sia stato “riproposto il teorema di una trattativa fra Stato e mafia” che ignora le “prove contrarie” e le “sentenze” definitive che “lo smentiscono”.  A firmarla sono stati gli avvocati Basilio Milio, Francesco Romito e Cesare Placanica, che difendono rispettivamente gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, imputati nel processo sul presunto “patto” fra pezzi di Istituzioni e corleonesi.  “Egregi Signori Direttori – si legge nella missiva -, la presente per segnalare con rammarico e indignazione come il 20 e 27 maggio scorso, in occasione della ricorrenza della strage di Capaci del 23 maggio 1992, durante il programma di La 7 “Atlantide”, per il secondo anno di seguito, sia stato riproposto il teorema di una “trattativa” tra Stato e mafia, oggetto di delicati processi, dei quali uno ancora pendente in grado di appello. Ciò si è fatto anche attraverso interventi ed interviste di giornalisti, presunti protagonisti dei fatti e magistrati che hanno diretto le indagini, senza alcun contraddittorio e senza neanche citare la esistenza di prove contrarie, di sentenze passate in giudicato o ancora non irrevocabili, che smentiscono tale teorema”. La “cosa – prosegue la lettera dei legali – si è ripetuta il 1° giugno anche con la Tv pubblica, su Rai 1, nel programma “Cose Nostre” dedicata alla ricerca del latitante Messina Denaro, con la presenza di un magistrato – pm in tali processi -, il quale ha parlato di un tema estraneo all’oggetto della trasmissione – l’uccisione del dr. Borsellino – ribadendo le proprie unilaterali convinzioni, anche qui senza alcun contraddittorio né citando prove contrarie, né sentenze passate in giudicato e non, che hanno accertato il contrario e che giornalisti professionisti dovrebbero ben conoscere”. La “oggettiva influenza che sui delicati processi ancora pendenti possono avere tali modalità di fare informazione – concludono i tre avvocati -, ci fa dire, con sconforto e amarezza, di trovarci di fronte ad un giornalismo di parte, che accanto alla legittima libertà di informazione e di critica, risulta, però, lontano dal rispettare la libertà e la personalità altrui – quindi anche quella di chi è imputato – come dall’obbligo di rispettare la verità sostanziale dei fatti, in base ai doveri di lealtà e buona fede. Tanto si doveva a tutela dei diritti di chi assistiamo, nella doverosa aspirazione ad una informazione pluralistica”. Della lettera inviata a La7 e Rai1, i legali hanno messo a conoscenza anche la Corte d’Assise d’Appello di Palermo, di fronte alla quale si sta celebrando il processo di secondo grado della cosiddetta “trattativa” Stato-mafia, chiedendo di acquisirla. Alla Corte i legali hanno espresso la loro “preoccupazione per siffatto modo di fare informazione sui temi di questo delicato processo ancora in corso”.

Atlantide di La7 “Gogna studiata a tavolino, Falcone stimava Contrada”. Parla il legale dell’ex poliziotto.  Giorgio Mannino su Il Riformista il 22 Maggio 2020. «Quello andato in onda mercoledì sera su La 7 è stato uno squallido esempio di giornalismo». È durissima la critica dell’avvocato Stefano Giordano, legale di Bruno Contrada, nei confronti della trasmissione “Atlantide” dedicata alla strage di Capaci. E nella quale il giornalista Saverio Lodato, intervistato da Andrea Purgatori, ha rivelato il nome dell’ex poliziotto dietro le “menti raffinatissime” che avrebbero organizzato il fallito attentato dell’Addaura. Una confidenza che gli avrebbe fatto il giudice Giovanni Falcone. «Ma al momento giusto, sicuramente in sede legale, tireremo fuori i documenti che provano la profonda stima che il giudice Falcone nutriva nei confronti del dottor Contrada», aggiunge Giordano.

Di che documenti parla?

«Abbiamo documenti che provano il contrario di quanto ha detto Lodato. E che esibiremo al momento opportuno. Documenti che provano la stima che Falcone aveva nei confronti del dottore Contrada. E ce n’è più di uno. Al momento non posso dirle di più perché li utilizzeremo per intentare una causa nei confronti del dottor Lodato e di Purgatori che non ha preso le distanze da quanto ha detto il suo collega».

Cosa non ha gradito della puntata?

«La sensazione è stata quella dell’imboscata preparata a tavolino. Il dottore Purgatori aveva inizialmente detto che ci sarebbero stati degli scoop. E poi sentiamo la rivelazione del nome di Contrada come “mente raffinatissima”, detta in modo ambiguo. Come se dietro il fallito attentato del 1989 ci fosse Bruno Contrada. Non c’è stato alcun contraddittorio. E Purgatori sapeva benissimo che Lodato avrebbe pronunciato quel nome. Poco prima, infatti, era già pronta la foto di Contrada».

In diretta ha chiesto a Purgatori di scusarsi: perché?

«Quando si fa un’accusa e l’accusato non è presente, deontologia vuole che s’interpelli l’accusato in tutti i modi possibili. Invece Purgatori ha detto che “si apre uno squarcio sulla verità…”, come se, quanto dichiarato da Lodato, fosse già vero. E poi perché Lodato dice solo ora queste cose?»

Lei che idea si è fatto?

«Perché non gli sta a genio il fatto che Contrada sia stato liquidato dallo Stato per ingiusta detenzione. Ma non è questo il punto. L’interesse di Lodato era quello di diffamare Contrada, Purgatori ha avuto un atteggiamento acquiescente. I fatti riportati sono falsi. Presto, insieme al mio assistito, verificheremo quale sarà la cosa migliore da fare. Personalmente sono contrario alle cause penali per diffamazione, penso sia meglio l’aspetto risarcitorio. Ma vedremo come agire».

 Falcone era isolato ma da parte della magistratura, Purgatori sponsor del processo Stato-mafia. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 22 Maggio 2020. La trasmissione di mercoledì sera, Atlantide (La7), curata da Andrea Purgatori, nella sua parte iniziale è stata dedicata ad una ricostruzione dell’opera di Giovanni Falcone che, anche secondo noi, ha avuto il merito storico di aver impresso un salto di qualità alla lotta alla mafia, precedentemente inesistente o del tutto disorganica. Con Falcone la lotta alla mafia fece un salto di qualità sia perché essa si fondò su un’analisi del fenomeno preso nella sua organicità e considerato nelle sue gerarchie interne, sia perché fece leva su strumenti quali le intercettazioni telefoniche, ma specialmente i pentiti con una attenzione assai rigorosa sulle loro caratteristiche e sulla loro genuinità. Su questa tematica la trasmissione ha utilizzato come apprezzabile testimonial le riflessioni di Alfredo Morvillo magistrato e cognato di Giovanni Falcone. Una prima grande perplessità nasce quando Saverio Lodato ha affermato che, dopo il fallito attentato dell’Addaura, Falcone lo volle incontrare nella sua qualità di giornalista dell’Unità per lanciare la battuta-messaggio «sulle menti raffinatissime che avevano progettato quell’attentato» per sottolineare che si trattava di più di un soggetto esterno alla mafia e che faceva parte dello Stato.

Dopo 28 anni di silenzio Saverio Lodato ha voluto indicare uno di questi soggetti in Bruno Contrada. L’operazione è discutibile da molti punti di vista: perché Lodato parla dopo 28 anni? Quale credito si può dare a questa “rivelazione” priva di riscontro (è evidente che Falcone non può né parlare né smentire)? Per di più essa è stata seguita da una durissima riproposizione della trattativa Stato-mafia con un selvaggio attacco a Giorgio Napolitano. Come minimo una testimonianza di questo tipo avrebbe richiesto un dibatto ad hoc che non c’è stato. Solo due ore dopo, a mezzanotte e mezza, c’è stata una polemica telefonata dell’avvocato di Contrada Stefano Giordano. Ma questa sortita di Lodato era l’antipasto della seconda parte della trasmissione che è consistita in una riproposizione della teoria della trattativa Stato-mafia la cui veridicità è stata data per scontata anche perché è stata fondata non solo sulle esposizioni di magistrati che la stanno portando avanti da tempo come Di Matteo e Ingroia, ma anche con quella di Massimo Ciancimino, considerato da Di Matteo e da Ingroia una sorta di icona dell’antimafia, ma invece anche per le condanne avute ritenuto da molti altri personaggio di estrema ambiguità e di altrettanto estrema inattendibilità. È noto che storici, avvocati, altri magistrati – per tutti valgano i libri e i saggi del prof. Fiandaca – contestano alla radice questa teoria: a nessuno di costoro è stata data la parola. Detto tutto ciò, vogliamo prendere in considerazione due questioni sulle quali la trasmissione o ha sorvolato o ha fornito una versione insieme reticente e fuorviante. Stranamente una trasmissione così mirata contro le carenze, le doppiezze, le perversioni dello Stato ha sorvolato su quello che è stato, ed è tuttora, uno scandalo straordinario, cioè il depistaggio avvenuto nel corso del processo per l’assassinio di Borsellino con la costruzione del falso pentito Scarantino che ha provocato la condanna all’ergastolo di una serie di persone risultate innocenti. In quella vicenda processuale, diversamente dal pm Di Matteo, Ilda Boccassini aveva capito che si trattava di un pentito fasullo. Ma a parte questi marchiani errori commessi dai magistrati inquirenti e da quelli giudicanti in quel processo, rimane aperto un interrogativo grande quanto una casa: chi ha ispirato quel depistaggio? Chi ha ordinato al superpoliziotto Arnaldo La Barbera, allora esponente della polizia di Stato e forse anche dei servizi segreti, di minacciare Scarantino affinché svolgesse il ruolo del pentito e si assumesse la responsabilità della strage? Su questo nodo la trasmissione ha addirittura taciuto e si è guardata bene di ascoltare la figlia di Borsellino, Fiammetta. Ma un’altra questione su cui la trasmissione ha dato una versione del tutto imprecisa ha riguardato un aspetto fondamentale della vicenda Falcone. La trasmissione ha giustamente ritenuto che negli ultimi anni Falcone era isolato. Ciò in parte è vero. Anche se va ricordato che così come Bettino Craxi fu fino al suo assassinio molto vicino al gen. Dalla Chiesa (Craxi aveva in testa il disegno di farlo diventare prima o poi ministro dell’Interno) così (ma ciò è stato detto nella trasmissione) Claudio Martelli, allora ministro della Giustizia, diede a Falcone il ruolo di direttore degli Affari Penali al ministero di via Arenula. Quello che la trasmissione però non ha affatto ricordato è che Falcone andò a ricoprire quel ruolo perché era stato del tutto emarginato all’interno della magistratura. Quest’emarginazione però era stata messa in atto non solo dalle correnti della magistratura a cui poteva riferirsi ad esempio un Giammanco, ma egli fu emarginato proprio da Magistratura democratica e fu attaccato dall’Unità. Quando nel gennaio 1988 fu in discussione la nomina a consigliere istruttore di Palermo e i candidati erano Falcone e Meli, Elena Paciotti, di Md, motivò in modo assai circostanziato la sua scelta in favore del secondo. Il testo lo si può ritrovare nel libro di Bonini e Misiani La toga rossa. Elena Paciotti era una delle più autorevoli esponenti di Magistratura Democratica. Quando si discusse il progetto della superprocura antimafia ideato proprio da Giovanni Falcone, una vasta coalizione – composta da Pci, Magistratura democratica, Csm e da personaggi come Leoluca Orlando – fu contro la sua istituzione e ancora di più contro la sua assegnazione al magistrato palermitano. Né fu considerato bene il suo ruolo di direttore degli Affari Penali. Sull’Unità del 12 marzo 1992 Alessandro Pizzorusso scrisse un articolo dal titolo: “Falcone superprocuratore? Non può farlo. Vi dico perché”. Il principale collaboratore del ministro non dava più garanzia d’indipendenza. Pizzorusso affermava che la collaborazione fra il magistrato e il ministro si era fatta così stretta: «Che non si sa bene se sia il magistrato che offre la sua penna al ministro o se sia il ministro che offre la sua copertura politica al magistrato. La prima deduzione è che fra i magistrati è diffusa l’opinione secondo cui Falcone è troppo legato al ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello di procuratore nazionale antimafia». È evidente che la dichiarazione di voto di Elena Paciotti e quest’articolo di Pizzorusso andrebbero iscritti in una nuova edizione della Storia della colonna infame. Comunque, la maggioranza del Csm preferì Agostino Cordova a Giovanni Falcone per la carica di procuratore antimafia. Questo era il rapporto autentico fra Falcone e la corrente di Magistratura democratica che poi, insieme agli esponenti dei Ds, ha fatto di tutto per riappropriarsi della memoria di “Giovanni” dopo il suo assassinio, operazione che provocò la clamorosa reazione di Ilda Boccassini che, in un’assemblea, fece un clamoroso discorso: «Anche voi avete fatto morire Falcone con la vostra indifferenza, le vostre critiche, voi che diffidavate di lui. Due mesi fa ero a Salerno ad un’assemblea dell’Anm, non dimenticherò quel giorno, le parole più gentili erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. E tu, Gherardo Colombo, tu che diffidavi di Giovanni che sei andato a fare al suo funerale? L’ultima ingiustizia l’ha subita proprio da voi di Milano, gli avete mandato una rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi telefonò quel giorno e mi disse: “Che tristezza, non si fidano del direttore degli Affari Penali”». Su tutto ciò la trasmissione ha rigorosamente taciuto perché contraddiceva lo schema semplicistico e fazioso su cui essa era fondata. Ma è evidente che essa aveva uno scopo preciso, quello di influenzare un delicato processo tuttora in corso.

 (ANSA il 7 aprile 2020)- La Corte d'Appello di Palermo ha accolto la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione presentata da Bruno Contrada, ex numero due del Sisde, condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. A Contrada, difeso dall'avvocato Stefano Giordano, sono stati liquidati 670mila euro. La condanna dell'ex poliziotto venne giudicata illegittima dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e dalla Cassazione. "I danni che io, la mia famiglia, la mia storia personale, abbiamo subito sono irreparabili e non c'è risarcimento che valga. Io campo con 10 euro al giorno. Stare chiuso per il coronavirus non mi pesa: sono stato recluso 8 anni". Lo dice l'ex dirigente generale della polizia di Stato Bruno Contrada dopo aver appreso della decisione della Corte di appello che lo risarcisce per ingiusta detenzione.

Contrada risarcito per ingiusta detenzione, all’ex 007 finito in carcere per mafia 667mila euro. Redazione de Il Riformista il 7 Aprile 2020. Un risarcimento da 667mila euro a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione patita nel procedimento penale. È la liquidazione decisa dalla Corte d’Appello di Palermo in favore dell’ex numero due del Sisde Bruno Contrada. La condanna dell’ex poliziotto  a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa venne giudicata illegittima dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla Cassazione.

LA BATTAGLIA GIUDIZIARIA – Contrada, 88 anni, era stato arrestato alla vigilia di Natale del 1992 e trascorse 4 anni e mezzo in carcere, altri tre e mezzo agli arresti domiciliari. In favore dell’ex 007 si era espressa nel 2015 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con una sentenza nella quale osservava che la condanna di Contrada per il reato concorso esterno in associazione mafiosa “all’epoca dei fatti contestati, tra il 1979 e il 1988” non era “sufficientemente chiaro e prevedibile”. Nel 2017 arrivò quindi la revoca della condanna a 10 anni da parte della Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dal legale di Contrada, Stefano Giordano.

IL COMMENTO DI CONTRADA – Dopo aver appreso della decisione della Corte d’Appello, Contrada ha ricordato come “i danni che io, la mia famiglia, la mia storia personale, abbiamo subito sono irreparabili e non c’è risarcimento che valga. Io campo con 10 euro al giorno. Stare chiuso per il Coronavirus non mi pesa: sono stato recluso 8 anni”. L’ex numero due del Sisde ha sottolineato come “il denaro non può risarcire i danni che ho subito in 28 anni. Quando nel 2017 la Cassazione ha recepito la sentenza della corte europea per i diritti dell’uomo, confortata dalla decisione della grande Camera di Strasburgo dove 17 giudici hanno dichiarato inammissibile il ricorso dell’Italia ho provato un momento di gratificazione. L’Europa riconosceva la mia sventura umana e giudiziaria. Ma io provavo sofferenza solo a leggere i documenti di quella causa che cominciava con ‘Bruno Contrada contro l’Italia”.

Ingiusta detenzione, 667mila euro di risarcimento a Contrada. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 aprile 2020. Nel 2014 la Cedu ha stabilito che l’arresto dell’ex 007 fu illegittimo. Con ordinanza depositata il 6 aprile 2020, la Corte d’Appello di Palermo ha liquidato a favore del dottor Bruno Contrada, assistito dall’avvocato Stefano Giordano del foro di Palermo, la somma di euro 667.000,00 a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione patita nel procedimento penale già oggetto della nota pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della successiva sentenza della Corte di Cassazione. «Riteniamo – dichiara Giordano – che la pronuncia della Corte d’Appello sia perfettamente in linea con la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e ne dia la giusta esecuzione: al di là del quantum liquidato, la Corte d’Appello – con un provvedimento libero e coraggioso – ha statuito che Bruno Contrada non andava né processato, né tanto meno condannato e che, dunque, non avrebbe dovuto scontare neppure un solo giorno di detenzione, disattendendo le obiezioni della Procura Generale e dell’Avvocatura dello Stato. Ci riserviamo ora di esaminare attentamente il provvedimento, per valutare eventuali spazi per l’impugnazione avanti la Corte di Cassazione». Da ricordare che l’istanza accolta dalla Corte D’Appello trova titolo nella sentenza della Corte di Cassazione del 2017, con la quale – in ottemperanza di quanto statuito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2015 – è stata dichiarata ineseguibile e improduttiva di effetti la sentenza con cui la Corte d’Appello di Palermo aveva a suo tempo condannato Contrada a dieci anni di reclusione per il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Contrada è stato tratto in custodia cautelare in carcere il 24 dicembre 1992 (all’età di sessantuno anni) e vi è rimasto sino al 31 luglio 1995, quando la misura è stata revocata (nel corso del processo di primo grado) per le precarie condizioni di salute dell’imputato. A seguito dell’intervenuta irrevocabilità della sentenza di condanna, l’11 maggio 2007 è entrato in carcere per l’espiazione della pena di dieci anni di reclusione. Il 24 luglio 2008, sempre in ragione delle sue sempre più gravi condizioni di salute, gli è stata concessa la detenzione domiciliare. Il 12 ottobre 2012 (grazie allo “sconto” di due anni di pena per buona condotta), Bruno Contrada (all’età di ottantuno anni) è stato rimesso in libertà, dopo una dolorosa vicenda processuale durata vent’anni e dopo avere trascorso, complessivamente, quattro anni in carcere e quattro anni agli arresti domiciliari. Contrada ha subito anche danni biologici, perché durante la detenzione il suo stato di salute si è aggravato, tanto da essere ricoverato, più volte, all’ospedale. Sia per problemi di salute fisica, ma anche psichica. Da ricordare che la sua incompatibilità con il regime detentivo è stata cristallizzata nel 2014 dalla sentenza della Corte europea dei diritti umani (Cedu) che ha accertato la violazione, da parte dello Stato italiano, dell’articolo 3 Cedu che vieta di sottoporre alcuno a trattamenti inumani o degradanti. La stessa Corte aveva rivelato che Contrada era “affetto da diverse patologie gravi e complesse”. Ma i danni subito si sono anche riversati nei confronti dei suoi familiari. Il figlio più piccolo ha avuto ripercussioni sulla sua autostima, tanto da abbandonare il suo lavoro come agente di polizia, non credendo in sé e nemmeno nello Stato che amava servire come il padre. Era un ventitreenne agente della polizia penitenziaria all’epoca dell’arresto del padre, a tale evento ha reagito con incredulità e sgomento, tanto da cominciare, in preda a uno stato confusionale, ad assumere alcolici (finché il fratello più grande non gli ha intimato di interrompere). Una vita, la sua, rovinata per sempre. Così come la moglie di Contrada, morta purtroppo a gennaio dell’anno scorso. Una donna – insegnante di liceo – che si era vista crollare improvvisamente e definitivamente il mondo addosso dal momento in cui suo marito, colui che era suo compagno di vita da quasi quarant’anni è stato tratto in arresto. Lei si è trovata brutalmente gettata nel ruolo di capo- famiglia, diventando l’unico punto di riferimento dei due figli, ma anche del marito visto che l’ha dovuto supportare emotivamente.

Parla Bruno Contrada: “Il risarcimento non mi ripaga della persecuzione”. Angela Stella de Il Riformista l'8 Aprile 2020. Con ordinanza depositata il 6 aprile 2020, la Corte d’Appello di Palermo ha liquidato a favore di Bruno Contrada la somma di Euro 667.000,00 a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione. Nel 2008 sempre la Corte d’Appello di Palermo lo condannava alla pena di dieci anni di reclusione e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici per concorso esterno in associazione mafiosa, relativamente a fatti commessi tra il 1979 e il 1988. Nel 2015, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto illegittima la precedente condanna perché all’epoca dei fatti contestati a Contrada il reato di concorso esterno non era sufficientemente tipizzato, quindi il processo sarebbe stato celebrato illegittimamente. Abbiamo raggiunto telefonicamente il dottor Contrada, assistito dall’avvocato del foro di Palermo, Stefano Giordano».

Si sente ripagato da questa decisione?

«No, perché questa decisione riguarda solo l’ingiusta detenzione e non tutti i danni che mi ha provocato la mia vicenda. Sono danni irreparabili per me e la mia famiglia. Non ci sono somme che possano risarcire questo danno. Gli episodi da raccontare sono infiniti, come le assurdità relative alla mia condanna. La mia è stata una condanna ingiusta. Ho considerato una strana coincidenza il fatto che oggi (ieri, ndr) Papa Francesco abbia detto “Preghiamo per chi soffre una sentenza ingiusta”. Ovviamente non si riferiva a me ma è stato strabiliante».

Questa decisione riuscirà a riabilitarla agli occhi di tutti?

«Io comprendo queste persone che continuano ad avere dei dubbi su di me: se per anni hanno sentito dire di me tante cose – dall’arresto alla prigione, alla condanna – diranno “qualcosa devi esserci”. Purtroppo tutto questo è successo ad un servitore dello Stato che per circa 35 anni ha indossato una divisa, arrivando al grado più elevato della Polizia di Stato perché ero un dirigente generale. In tutta la mia vita neanche una contravvenzione ho preso».

Nel 2017 Franco Gabrielli ha revocato il suo provvedimento di destituzione, reintegrandolo come pensionato nella Polizia di Stato.

«Sì, sono stato reintegrato ed è stata aggiornata anche la mia pensione».

Lei veniva arrestato alla vigilia di Natale del 1992. In tutto questo tempo, che idea si è fatto di quanto accaduto?

«Sono stati anni di sofferenza continua. E per capire bisogna contestualizzare: nel 1992 è caduta la Prima Repubblica, sono stati distrutti i 5 partiti che per 50 anni avevano retto le sorti del nostro Paese; cosa è successo con Tangentopoli nel ‘92? E in Sicilia c’è stato Mafiopoli, poi il processo al senatore Giulio Andreotti; e chi ricorda cosa accadde a Corrado Carnevale, Presidente della prima sezione penale della Corte suprema di Cassazione? Io a quei tempi ero un rappresentante della Polizia, impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, durante la quale ho inseguito e arrestato i peggiori criminali. Ho avuto anche encomi ed attestati per il mio servizio. Però poi c’è la questione del pentitismo: si sono voluti vendicare di me».

Qualcuno però anche all’interno delle istituzioni ha remato contro di Lei.

«In ogni campo ci sono gli sciacalli, gli avvoltoi che si avventano sul corpo caduto e sanguinante».

Lei si sente vittima di quell’ondata giustizialista?

«Pensi che la mia custodia cautelare è durata 31 mesi. Mi sento vittima di una perversione della giustizia italiana. Io sono stato condannato per un reato inesistente: concorso esterno in associazione mafiosa. Oltre 140 rappresentanti delle Istituzioni sono venuti a testimoniare non in mio favore, ma in favore della verità. Ma non è bastato perché quello che contava erano le dichiarazioni dei delinquenti, dei sanguinari: quello che dicevano era oro colato».

Che considerazione ha dello Stato che lo ha condannato e poi risarcito?

«È una conseguenza necessaria, visto che la Cassazione ha recepito la sentenza della Cedu. Sempre la Cedu nel 2014 aveva condannato l’Italia per avermi sottoposto ad una pena inumana per la palese incompatibilità del mio stato di salute col regime carcerario. Io comunque continuo a rispettare le Istituzioni, compresa la magistratura».

Molti non riescono ancora a legittimare pienamente le decisioni della Cedu. Parlano di eccessiva ingerenza.

«Ai giustizialisti non piace!»

Cosa ne pensa della possibilità che la Procura possa fare ricorso contro il risarcimento?

«Ha il diritto di farlo, come anche io ho il diritto di ricorrere perché la nostra istanza non è stata accolta integralmente».

Il sito Antimafiaduemila scrive che adesso arriverà il “solito giro di dichiarazioni sulla “persecuzione” nei confronti di Bruno Contrada, di “ingiustizie subite” e di “restituzione dell’onorabilità”.

«Quello che scrivono non ritengo sia meritevole di un mio commento. Non voglio proprio leggerli: per me non esistono».

Si pente di qualcosa?

«Non rinnego nulla, non ho da rimproverarmi nulla. Ho la coscienza perfettamente a posto».

Cosa può dire della Trattativa Stato Mafia?

«Perché non si è parlato di Trattativa in merito all’applicazione della legge dei pentiti? Non sono quelle trattative che lo Stato fa con i criminali? Quello è un do ut des: tu criminale mi dai notizie per scoprire reati e catturare latitanti e io, Stato, ti do sconti di pena, ti do danaro, sicurezza, provvedo alla tua famiglia, a cambiarti l’identità, a darti una occupazione, una casa. Ma poi nel codice penale esiste un reato che si chiama “trattativa”?».

Risarcimento a Contrada: per Caselli e Ingroia la magistratura ha sempre ragione, tranne quando assolve…Piero Sansonetti de Il Riformista il 10 Aprile 2020. La decisione della Corte d’appello di Palermo di risarcire l’ex numero due dei servizi segreti italiani – che fu accusato ingiustamente di avere fatto patti con la mafia e fu sbattuto in galera per lunghi anni – non ha fatto molto scandalo. I giornali se ne sono occupati poco. La sentenza arriva in applicazione di una precedente sentenza della Corte europea, la quale aveva stabilito che il numero due dei servizi segreti, e cioè Bruno Contrada, era stato condannato per un reato che non esisteva. E dunque era ingiusta la condanna e sommamente ingiusta la detenzione (durata 10 anni tra carcere e domiciliari). Il reato in questione è quello di “concorso esterno in associazione mafiosa”, che non sta scritto nel nostro codice penale. È stato usato molto spesso negli ultimi anni quando non è stato possibile provare la partecipazione alla associazione. In assenza di prove si risolveva con l’uso della parolina magica: “esterno”. Beh, non vi pare un fatto clamoroso? Uno dei più importanti investigatori italiani sospettato di infamia, condannato, imprigionato, massacrato, e poi riconosciuto innocente tanto che lo Stato ha deciso di ripagarlo in denaro per ottenere il suo perdono. A me sì: sembra un’enormità. E una grossa umiliazione per la macchina della nostra giustizia che per 25 anni non si è accorta che i suoi pm e i suoi giudici non conoscevano il codice penale e sulla base di questa mancanza molto grave, e di questa colpa, hanno commesso una violazione imperdonabile del diritto e dei diritti di un cittadino italiano e di un uomo delle istituzioni. Potrei fermarmi qui. Son cose che conosco. So che l’opinione pubblica e la stampa sono pronte a infilzare un medico o un architetto per un qualunque piccolo sospetto di mancanza professionale. Un Pm o un giudice mai. Anzi, sì, in un solo caso: se assolve. Non mi fermo qui perché nelle ore successive a questa sentenza due esponenti prestigiosissimi della magistratura, l’ex Procuratore di Palermo e quello di Torino, Gian Carlo Caselli e l’ex Pm palermitano Antonio Ingroia, che qualche responsabilità ce l’hanno nella faccenda Contrada, hanno rilasciato dichiarazioni furiose alla stampa, giurando che Contrada è colpevole, è colpevole ed è colpevole. Di cosa? Sicuramente non del reato inesistente per il quale è stato condannato. Non basta questo a dire che la magistratura italiana, di fronte al mondo, ha fatto una figura barbina, e che ha leso mortalmente i diritti della persona? No, anzi Ingroia arriva a protestare per il risarcimento, e a dire che è una vergogna che lo Stato debba pagare quasi 700mila euro – per decisione della Corte d’Appello, proprio in questi giorni di crisi e di virus. La dichiarazione di Ingroia mi lascia allibito non perché penso che sia in malafede ma perché, purtroppo, so che lui è in perfetta buona fede. Ingroia, come un pezzo non piccolissimo della magistratura italiana, crede a un principio che non è in grado di mettere mai in discussione. Questo: l’accusa ha ragione. Che è diverso, e molto più estremista, del principio, diffusissimo: la magistratura ha sempre ragione. Ingroia pensa che la magistratura abbia sempre ragione, salvo quando assolve. La Cedu ha torto. La Corte d’appello di Palermo ha torto. E si stupisce come un bambino quando vede che la sua idea non è universalmente riconosciuta, e che c’è chi considera il Diritto un valore superiore al valore della magistratura. Naturalmente uno potrebbe anche prendere alla lettera Ingroia, e chiedersi: ma perché deve pagare lo Stato per l’errore di alcuni professionisti, cioè di alcuni magistrati? Se sbaglia l’ingegnere paga l’ingegnere, se sbaglia il medico paga il medico. Non paga il magistrato? No, perché i magistrati, che hanno un potere politico cento volte superiore a quello dei medici e degli ingegneri e degli avvocati, hanno ottenuto di essere l’unica piccola e divina casta che non risponde civilmente dei propri errori. È una legge molto ingiusta. Ingroia vuole metterla finalmente in discussione? Beh, se è così, questa è una buona notizia. P.S. Caselli ci invita, per capire meglio come stanno le cose, a leggere un libro che lui ha scritto col suo collega Guido Lo Forte. Non sono sicuro di poter trovare le spiegazioni in quel libro. Al suo collega Guido Lo Forte chiesi alcune volte – con articoli di giornale – perché avesse archiviato l’inchiesta su Mafia e Appalti condotta da Falcone e dal Generale Mori. Perché l’avesse archiviata proprio nei giorni dell’uccisione di Borsellino. Era un’inchiesta considerata importantissima anche da moltissimi magistrati, compreso il big di Mani Pulite Antonio Di Pietro. Lo Forte non mi ha mai risposto. Anzi, mi ha querelato, perché lui ritiene che porre domande antipatiche ai magistrati sia un reato. Siamo messi bene…

Col risarcimento a Contrada si chiude il secondo caso Tortora. Tiziana Maiolo de Il Riformista l'8 Aprile 2020. Fosse solo per l’ “ingiusta detenzione” di quattro anni e mezzo in carcere e tre e mezzo ai domiciliari, si potrebbe anche dire che 670.000 euro di risarcimento da parte dello Stato per Bruno Contrada possano essere una cifra equa. Ma se parliamo di una vita buttata giù, mentre altri, che oggi immaginiamo a masticare amaro, facevano carriera e i pentiti si accordavano e brindavano come già avevano fatto per Enzo Tortora, allora ecco che nessuna cifra sarà mai sufficiente. Vive da recluso negli ultimi 28 anni della sua vita, da ben prima del Coronavirus, Bruno Contrada, ucciso da un altro virus, quello nutrito dalle invidie per la sua brillante carriera e dalle vociferazioni di pentiti ben addestrati e ben istruiti, negli stessi anni e negli stessi ambienti del finto collaboratore Scarantino. Messo in ceppi la vigilia di Natale del 1992, l’anno in cui è successo tutto. Fatto fuori in modo definitivo dalla carriera e dalla libertà. Poi se lo sono giocato, se lo sono rimpallato, gli uomini delle toghe: condannato assolto condannato, in un gioco dell’oca che lo faceva sempre tornare al punto di partenza. Finché la prima (tardiva) soddisfazione non gli è arrivata “dall’estero”, e non da un tribunale italiano, come sarebbe stato giusto. Siamo nel 2015, e sono passati ventitrè anni da quando nei suoi confronti è stato arbitrariamente applicato un articolo che non esiste nel codice penale, il concorso esterno in associazione mafiosa, sulla base del quale Bruno Contrada è stato arrestato e gettato nel buco più profondo della sua vita. Sono trascorsi ventitrè anni, cioè una storia intera, quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) condanna l’Italia a risarcirlo. Il suo arresto è stato illegale e illegittimo. Solo da quel momento, e piano piano, la sua strada pare in discesa. Anche se chi ha assassinato la sua libertà e la sua dignità e tutto ciò che un uomo può possedere per poter dire di essere una persona, non pagherà mai. Un reato inesistente nel 1992, aveva sancito la Corte, dicendo che la giurisprudenza lo aveva poi chiarito e definito in seguito. Quasi ignorasse che, almeno in teoria, nel nostro ordinamento, la giurisprudenza non dovrebbe costituire precedente o addirittura giudicato, come è invece nei paesi anglosassoni di common law. È una giustizia un po’ strana, la nostra. Ti tormenta tutta la vita. Poi aspetta che tu abbia 80 anni e sia perseguitato da trenta come Calogero Mannino, o 88 e sia sulla graticola da altrettanti come Bruno Contrada. E solo allora, mentre tu sei lì che speri solo che i tuoi nipoti abbiano un buon ricordo di te, solo allora comincia a ricucire maldestramente gli strappi con cui ti ha sbudellato. Certo, nel 2017 la Cassazione ha recepito la sentenza della Cedu che diceva che Contrada non andava né arrestato, né processato né condannato. E ha revocato la condanna. E oggi arriva non solo il risarcimento economico, ma quello che è il vero modo di rimettere le cose al loro posto, definendo “illegittima e illegale” l’azione giudiziaria nei confronti di Bruno Contrada. Quell’azione fondata solo sul reato inesistente nel codice, quello che alcuni magistrati usano quando vogliono colpire in chiave politica il famoso terzo livello in cui Giovanni Falcone non ha mai creduto. Piccole soddisfazioni, oggi, e anche un po’ di rabbia per chi c’era in quel 1992, e ricorda fatti e personaggi. Il “caso Contrada” è da manuale, con i pentiti gestiti nel modo che conosciamo: mai notizie da fonti dirette, sempre versioni “de relato”, preferibilmente dichiarazioni attribuite ai morti, versioni concordate. Nel caso di Contrada anche storie esilaranti, bevute da magistrati finti creduloni, come la descrizione di una sala di ristorante inesistente, un’anfora mai trovata, un’amante mai vista, una chiromante che sogna Falcone il quale punta il dito contro l’imputato. Accertamenti? Mai svolti. Vogliamo ricordare i nomi degli eroi di quei giorni? Il pubblico ministero Ingroia che svolgeva una requisitoria lunga ventidue udienze e Gianni De Gennaro, l’uomo della carriera parallela, che andava avanti nella storia anch’essa parallela in cui uno nasceva mentre l’altro moriva. Quanti Caino hanno partecipato al banchetto sul corpo ferito di Bruno Contrada? Ma oggi siamo nel 2020 e c’è il virus che ci perseguita, e nessuno, o quasi, sa più chi sia e chi sia stato Bruno Contrada. Colpito da un altro virus. Ma un po’ di giustizia serve a lui e serve a quei nipotini che devono sapere e che un giorno dovranno ricordare. Ma serve anche a noi, che abbiamo memoria. Ma che vorremmo anche giustizia. E cioè che qualcuno prima o poi, toga o non toga, pagasse per queste vere porcherie che si sono sviluppate sotto i nostri occhi.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” l'8 aprile 2020. La vera notizia è che Contrada è ancora vivo, ossia che ha resistito sino alle sue attuali 88 primavere (e mezzo) dopo tutto quello che gli è successo. La notizia ufficiale invece è che l'ex poliziotto Bruno Contrada, anche ex numero due del Sisde, sarà liquidato con 670mila euro come risarcimento per ingiusta detenzione dopo sette anni di carcere complessivi: questo ha deciso la Corte d' Appello di Palermo. «Ci sono danni che non si possono ripagare con i soldi - ha commentato lo stesso Contrada -, danni irreparabili. Ed è quello che ho subito non solo io, ma anche la Polizia, i Servizi di sicurezza. Poi, a 88 anni e mezzo cosa me ne faccio dei soldi?». Per capire il suo caso, che è particolare, val la pena di riesumare due significati del termine «garantismo» secondo la Treccani: 1) «Richiamo a una maggiore osservanza delle garanzie giuridiche nello svolgimento delle indagini e dei processi penali, al fine di tutelare adeguatamente il diritto di difesa e di libertà dell' imputato»; 2) Connotazione negativa per denunciare pretese esagerazioni che certe leggi o interpretazioni giuridiche determinerebbero». Ecco: se siete avidi lettori di giornali, preparatevi a veder sposare una o l'altra definizione, secondo fazione. Qui siamo per la prima, anche in omaggio a un altro precetto fondamentale: verità storica a verità giudiziaria sono due cose diverse. Ci interessa la seconda. Altri, forse la maggioranza, oggi tenderanno a trattare Contrada come uno che l'ha fatta franca grazie a questo e quel cavillo: anche se nel sistema accusatorio anglosassone, per capirci, i cavilli e la giurisprudenza sono tutto. Ma c'è anche un'altra grande differenza tra il nostro sistema bastardo (nel senso di misto) e quello anglosassone: da noi nessuno, tantomeno lo Stato, ti chiede mai scusa. Dopodiché possiamo raccontare la vicenda partendo quasi dalla fine. Contrada era stato condannato in via definitiva a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa ma poi era stato protagonista di una sentenza storica, almeno per l' Italia: nel 2017 la Cassazione revocò la sua condanna, pur passata in giudicato, privando la sentenza dei suoi effetti pratici e penali. Questo dopo che la Corte Europea dei Diritti dell' Uomo, due anni prima, aveva condannato l'Italia a risarcire Contrada (a cui avevano anche sospeso la pensione) perché a suo dire l' imputato non doveva neppure essere processato: all' epoca dei fatti, infatti, il cosiddetto reato di «concorso esterno in associazione mafiosa» non era chiaro né in sé concepibile. Non che oggi lo sia molto di più, nonostante le tonnellate di sentenze sul tema: il cosiddetto 416 bis infatti è un'invenzione giurisprudenziale che nel Nuovo Codice del 1989 non compariva e non compare: infatti è la libera somma di due ipotesi di reato (il «concorso» previsto dall' art.110 e la «associazione mafiosa» prevista dall' art. 416 bis) ) a mezzo del quale una magistratura forse un pizzico onnipotente ha ritenuto di colmare una lacuna legislativa: col risultato, noto, di aver creato una configurazione molto generica le cui applicazioni sono continuamente reinventate e stilizzate ben fregandosene dei supposti «principi molto rigorosi» con cui le Sezioni unite della stessa Suprema Corte hanno cercato più volte di disciplinarlo. Niente di strano, dunque, che ogni tanto spunti un giudice assolutamente normale e ricordi che il reato, in teoria, non esiste. Questo mostriciattolo giuridico, in sostanza, dovrebbe realizzarsi quando una persona pur non inserita in una struttura mafiosa svolga un' attività anche di semplice intermediazione che sia utile a questa struttura. Hanno tentato di disciplinare il «reato» nel 1994, poi nel 2005, è una revisione senza fine. Ogni volta che hanno proposto di abolire il mostriciattolo, il leitmotive che risuonava era sempre questo: cancellarlo avrebbe significato fare il gioco della mafia. Spesso si cita Giovanni Falcone perché fu lui, il 17 luglio 1987, a firmare una delle prime sentenze che prefiguravano il 416 bis: ma, nei fatti, il giudice non si sognò mai di contestare questo reato da solo, senza un corollario di altre e individuate ipotesi di reato. Ecco perché, in un suo libro scritto con Marcelle Padovani, Falcone vide lungo: «Il 416 bis non sembra abbia apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare, ai fini di una condanna, elementi sufficienti solo per aprire un' inchiesta». Tornando al Contrada risarcito, va ricordato che alcuni dei fatti contestati dalla procura sono da ritenersi formalmente provati: ma è verità storica, non giuridica. Non puoi condannare una persona per un reato che lui non sapeva neppure che esistesse, perché in effetti all'epoca (anni Ottanta) non esisteva. Resta che fu arrestato nel Natale 1992, rimase per 31 mesi e sette giorni in carcerazione preventiva (accusato da vari pentiti di aver passato informazioni a Cosa nostra) ma dopo un tira-molla infinito, e assoluzione e condanne, furono ancora i giudici europei (2008) a stabilire che Contrada avrebbe dovuto beneficiare degli arresti domiciliari che tuttavia gli furono negati per nove mesi e sette domande: «Non c'é alcun dubbio», si lesse, «che Contrada fosse affetto da numerose patologie gravi... il suo stato di salute era incompatibile con il regime carcerario cui era sottoposto». In Italia non se n'erano accorti. In Europa invece si sono accorti, pure, che il «non-reato» 416bis non esisteva in nessun altro codice del mondo, e che Bruno Contrada, quando fu arrestato, non poteva certo conoscere i «principi molto rigorosi» con cui le Sezioni unite della Cassazione avrebbero cercato più volte di disciplinarlo. Contrada fu arrestato a 51 anni. Lo Stato gli ha rubato i successivi 28.

Strage di via D’Amelio, Petralia su Contrada: «Lo vidi per la prima volta e mi colpì la sua faccia». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 gennaio 2020. Il procuratore aggiunto di Catania al processo sul depistaggio di via d’Amelio. Il magistrato prende le distanze dall’ex numero tre del Sisde e sulle indagini dice che inizialmente «erano nelle mani di Ilda Boccassini». Non solo il Sisde, ma ad indagare sulla strage di Via D’Amelio, oltre ovviamente alla Procura di Caltanissetta e alla squadra mobile guidata da Arnaldo La Barbera, c’era l’Fbi e persino il Bundeskriminalamt tedesco. A dirlo ieri è stato l’attuale procuratore aggiunto di Catania, Carmelo Petralia, all’epoca dei fatti tra i pm che a Caltanissetta indagarono sull’autobomba che il 19 luglio del 1992 uccise Paolo Borsellino e cinque uomini della scorta. Ha deciso di non avvalersi della facoltà di non rispondere in quanto indagato di calunnia aggravata insieme alla collega Anna Palma, nel procedimento connesso a quello nisseno, aperto a Messina. Secondo la ricostruzione della Procura, gli inquirenti dell’epoca avrebbero creato a tavolino pentiti imbeccandoli, costringendoli ad accusare otto innocenti e depistando, così, le indagini. Nei mesi scorsi, ricordiamo, i pm di Messina, che per legge hanno la competenza sulle indagini a carico dei colleghi catanesi – da qui la loro inchiesta su Petralia e Palma – ha scoperto una serie di bobine, mai analizzate prima, con le registrazioni delle intercettazioni di telefonate tra il falso pentito Vincenzo Scarantino, uno dei protagonisti chiave del depistaggio, alcuni investigatori dell’epoca e i due pm. A giugno la Procura di Messina notificò ai due magistrati l’avviso di garanzia e l’iscrizione nel registro degli indagati contestualmente alla notizia che sulle bobine sarebbero stati effettuati accertamenti tecnici. Quelle conversazioni sono ora agli atti del processo in corso a carico dei poliziotti. A proposito delle telefonate registrate tra Scarantino e il magistrato Petralia, così ha riferito in aula: «Spiegavo a Scarantino che iniziava la fase prodromica della deposizione e lui era in una fase di stress. Come ogni pm che si è occupato di processi con collaboratori di giustizia, anche problematici – ha sottolineato -, volevo spiegare a Scarantino che non doveva andare fuori dalle righe e che doveva evitare di replicare e di avere ad aver quei codici comportamentali che ogni collaboratore di giustizia deve avere». In sintesi la spiegazione di Petralia è che non ha ammaestrato nessuno, ma solo dato dei chiarimenti visto che Scarantino era problematico. Per quanto riguarda il rapporto tra la Procura di Caltanissetta e il Sisde tramite Bruno Contrada, l’attuale procuratore aggiunto Petralia ha spiegato che i rapporti li avrebbe curati l’allora capo procuratore Giovanni Tinebra. Il magistrato Petralia però ha voluto aggiungere che Contrada non gli piaceva. «Io lo vidi per la prima volta e mi colpì la sua faccia. Poco tempo dopo seppi che venne arrestato». Non solo, Petralia ci ha tenuto a precisare che la sua presenza gli evocava qualcosa di sinistro, perché i collaboratori di giustizia «mi riferivano del rapporto di scarsa stima che Giovanni Falcone aveva nei confronti di Contrada». Da ricordare che Contrada ha deposto, nel medesimo processo, ad aprile scorso dove ha spiegato alla corte che se avesse avuto la possibilità di continuare, avrebbe svolto indagini nei confronti dei Madonia, a differenza delle indagini che poi vennero indirizzate verso Scarantino, il falso pentito della Guadagna. Ma le indagini di supporto non le ha potute portare a compimento, come inizialmente si era prefissato, anche perché non aveva acquisito ancora elementi certi. Da ricordare, anche, che a distanza di 5 mesi dall’attentato, ovvero alla vigilia di Natale del 1992, viene arrestato con l’accusa di “concorso esterno in associazione mafiosa” sulla base delle dichiarazioni di quattro pentiti di mafia. Uno dei quattro era Gaspare Mutolo, perseguitato e fatto condannare a nove anni per estorsione proprio dallo stesso Contrada quando era capo della squadra Mobile di Palermo. Carmelo Petralia rimarca le distanze dall’ex numero tre del Sisde e dice che inizialmente le redini dell’indagine sulla strage di via D’Amelio «erano nelle mani di Ilda Boccassini».

Depistaggio Borsellino, Ilda Boccassini: “Ho sempre detto che Scarantino era un falso pentito”. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 22 Febbraio 2020. «Prima degli interrogatori il procuratore capo Giovanni Tinebra si chiudeva per ore nell’ufficio con il falso pentito Enzo Scarantino». Una mitragliata di accuse e sospetti sull’ex capo che non può difendersi perché non c’è più. E poi, un po’ di vittimismo, un pizzico di ossessione antiberlusconiana, ma anche una ripetuta verità sul falso pentito Enzo Scarantino. Come sempre protagonista, Ilda Boccassini, ex pubblico ministero della Direzione nazionale antimafia da due mesi in pensione, ha deposto come teste e ha movimentato il processo di Caltanissetta nei confronti di tre poliziotti accusati di aver favorito i depistaggi sulla strage di via D’Amelio. La scenografia pare diretta da Michael Moore. In videoconferenza dal tribunale di Milano, la principale protagonista mostra la schiena, quasi a significare che, pur non essendo lei né il capitano Ultimo con il viso mascherato né Tommaso Buscetta dopo la chirurgia plastica, sempre di mafia stiamo parlando. Ha lavorato due anni alla Dda di Caltanissetta, dal 1992 al 1994, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, Ilda Boccassini, dopo aver lasciato Milano in modo turbolento e dopo aver accusato – anche quella volta in modo scenografico nell’aula magna del palazzo di giustizia di Milano in cui si era presentata tutta vestita a lutto- i colleghi di aver abbandonato “Giovanni”. Falcone, di cui era stata grande amica. A Caltanissetta lei era andata in particolare proprio per seguire le indagini sulla strage di Capaci, e di quello era stata incaricata dal procuratore capo Tinebra. Ho trovato, dice oggi con un po’ di supponenza, una massa di carte informi e senza nessun ordine. «Cocca mia», mi aveva detto il capo «queste sono le carte, fai quello che devi fare». E lei per prima cosa fa ripetere, «zolla per zolla» il sopralluogo a Capaci, «che era stato fatto male». Non teme di crearsi antipatie, come sempre, e come sempre le sue frasi le tornano indietro, tanto che a un certo punto, nell’aula di Caltanissetta, si accapiglia con il pm Stefano Luciani, che dopo aver sentito l’ennesima reprimenda («Non fa onore a chi indossa la toga aver raccolto certe dichiarazioni…») sbotta, rivolto al presidente del tribunale: «Presidente, la invito a fare presente alla teste che si deve limitare a rispondere alle domande, non siamo qui per prendere lezioni di nessuno…». Ma, scenografie e battibecchi a parte, su una cosa Ilda Boccassini non transige, e continua a dirlo fino alla fine della deposizione, che durerà, con qualche intervallo, dalle dieci del mattino fino alle sette di sera: lei al falso pentito Enzo Scarantino non ha mai creduto. Denuncia, e non è la prima volta, visto che l’ex pm ha già deposto al processo “Borsellino-quater”, di aver messo nero su bianco, insieme al collega Roberto Sajeva, tutti i suoi dubbi. Un documento che però è sparito. Fatto sta che nell’estate del 1994, quando Ilda Boccassini aveva chiesto al procuratore capo di poter partecipare agli interrogatori di Scarantino, non c’era riuscita. Aveva tentato di rinunciare alle ferie, ma invano. Abbozza oggi a un riferimento politico, quasi come se Tinebra avesse cambiato atteggiamento nei suoi confronti dopo le elezioni vinte da Silvio Berlusconi, chissà perché. E questo pare solo il piccolo incubo di chi ha clamorosamente perso un processo come quello su Ruby. «Capii che non me ne dovevo occupare», insiste. Solo perché aveva espresso dubbi sull’attendibilità del meccanico palermitano o non anche perché Ilda Boccassini, con il suo protagonismo, è sempre stata un po’ “scomoda”, a Milano come in Sicilia? Non ha più molta importanza, ormai, visto che il problema lo ha paradossalmente, e con quindici anni di ritardo, risolto il “pentito doc” Gaspare Spatuzza. Ma lei insiste, e vuole ancora avere l’ultima parola. Prima che la videoconferenza si spenga, riesce ancora a gridare: «Scarantino non era credibile, come ve lo devo dire? Era un mentitore». Titoli di coda, buio in sala.

Da ilfattoquotidiano.it il 26 febbraio 2020. Era attesa la testimonianza di Ilda Boccassini e oggi in videoconferenza da Milano, l’ex procuratore aggiunto di Milano in pensione da due mesi, ha risposto alle domande davanti ai giudici di Caltanissetta nel processo contro tre poliziotti per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, testimoniando soprattutto sulla gestione del falso pentito Scarantino. Una testimonianza in cui emerge che, a un certo punto, il magistrato venne tenuto fuori dalla “dinamica investigativa” ovvero dopo “le elezioni del 1994”, con l’affermazione di Forza Italia e Silvio Berlusconi, quando “l’atteggiamento” nei suoi confronti “cambiò”. Prima di queste dichiarazioni Boccassini ha parlato delle indagini sulla strage di Capaci e della figura del consulente Gioacchino Genchi. “Il sopralluogo a Capaci era stato fatto male” – “Quando arrivai la prima decisione fu quella di rifare il sopralluogo a Capaci, perché leggendo le carte, e non solo la ricostruzione, mi resi conto che era stato fatto male. Mancava una regia” . Il magistrato, andata da poco in pensione, è inquadrata di spalle. Rispondendo alle domande del Procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, sta ripercorrendo il periodo in cui era stata applicata alla Procura nissena dopo le stragi. “Arrivai nell’ottobre del ’92 e rimasi fino al 1994”. Così ricorda che fu rifatto il sopralluogo a Capaci “coinvolgemmo tutte le forze dell’ordine, dai Carabinieri alla Guardia di Finanza, alla Polizia fino all’Fbi e tutte le forze possibili. Il primo periodo fu dedicato esclusivamente a questo – dice – ci fu una divisione di compiti delle forze di polizia che dovevano partecipare all’indagine sulle stragi ma con competenza specifica”. “Collaborazione con servizi segreti? Non mi sembra una cosa terribile” – Rispondendo a una domanda la teste ha spiegato che seppe “della notizia di una collaborazione tra i servizi segreti e la Procura di Caltanissetta solo da giornali. Io vidi Contrada per la prima volta durante un interrogatorio a Forte Braschi. Da quando sono stata a Caltanissetta non ho saputo di un rapporto con i servizi – dice – che poi, non in mia presenza, colleghi si incontrassero con esponenti dei servizi segreti non lo so. Ma devo aggiungere una cosa: davanti alle due stragi che hanno sconvolto il mondo e hanno destabilizzato le istituzioni che il procuratore abbia avuto contatti con i servizi non mi sembra una cosa terribile ma fa parte delle cose di un normale nucleo di rapporti che sono nati e cresciuti e mantenuti nel limite della legge. Ma questo non lo so”. “Scarantino? Si doveva capire subito che era inattendibile” – Boccassini ha poi affrontato il tema Scarantino, il falso pentito che aveva iniziato ad accusare alcune persone per la strage in cui erano morti Paolo Borsellino e i componenti della sua scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli. Quelle accuse si erano poi rivelate false, ma nel frattempo sette persone hanno scontato fino a 18 anni di carcere da innocenti. E già allora Ilda Boccassini aveva intuito che le parole di Scarantino erano false. Secondo i giudici del processo Borsellino quater le indagini che seguirono a quelle dichiarazioni furono “il più grande depistaggio della storia d’Italia“. “Quando io sono arrivata alla Procura di Caltanissetta, anche parlando con i colleghi che già c’erano e con il capo dell’ufficio e lo stesso dottor Arnaldo La Barbera, i dubbi su Scarantino già c’erano. I dubbi su una persona che non era di spessore, anzi che non era per niente di spessore. Il suo quid, se così possiamo chiamarlo, era una parentela importante in Cosa nostra, però sin dall’inizio, io avevo delle perplessità. Forse all’inizio avevo meno perplessità – dice Boccassini – perché non ero ancora entrata nelle carte, nella mentalità. Io ero lì in attesa, ma anche degli altri nessuno gridava ‘ma che bella questa cosa’. Tutti erano con i piedi di piombo su questa cosa. era l’inizio ancora e bisognava andare avanti per vedere se l’indagine portava a qualcosa di più sostanzioso. La prova regina della non credibilità di Vincenzo Scarantino proviene dalla sua collaborazione, da quel momento era una persona che non solo stava facendo un danno ma il danno poteva essere devastante”. “Fui mandata in ferie e quando tornai lessi che diceva sciocchezze” – “Si doveva capire subito che era inattendibile”. Alla domanda su chi fossero i magistrati che “davano credito” all’ex picciotto della Guadagna di Palermo Boccassini replica: “I pm Annamaria Palma e Carmelo Petralia”, cioè i due magistrati che oggi sono indagati dalla Procura di Messina per calunnia aggravata in concorso con l’accusa di avere indotto Scarantino a fare delle dichiarazioni. Poi il magistrato, che fu applicata a Caltanissetta dal 1992 al 1994, ricorda che nell’agosto 1994, poco prima che lasciasse Caltanissetta, aveva chiesto al Procuratore Giovanni Tinebra di potere partecipare agli interrogatori di Scarantino e rinviare le ferie, ma il Procuratore la mandò in vacanza. “Dopo il mio ritorno venni tenuta fiori dai giochi. Non ero più la protagonista della dinamica investigativa. Quando tornai dalle ferie di agosto del 1994 ed ebbi modo di vedere il contenuto degli interrogatori di Vincenzo Scarantino, lessi che diceva sciocchezze e che bisogna fare in modo di fermarlo per evitare che dicesse altre sciocchezze“. E poi: Io ero disponibile persino a un trasferimento d’ufficio da Milano alla Procura di Caltanissetta, ero disposta a restare anche per la tutela delle indagini. Ma l’allora Procuratore Tinebra disse "assolutamente no", cioè non mi volevano…Sì, sono stata così imbecille da essere disposta a trasferirmi a Caltanissetta”. “Relazione che scrissi con Roberto Sajeva era sparita” – “La relazione che io e il collega Roberto Saieva facemmo sulla non credibilità di Vincenzo Scarantino era sparita da Caltanissetta ma io ne avevo diverse copie – prosegue – Fino alla fine dissi ai colleghi che bisognava cambiare metodo che Scarantino andava preso con le molle. Vedendo che c’era questa voglia che io andassi via da Caltanissetta scrissi la seconda relazione. Soltanto con il pentimento di Spatuzza nel 2008, ricevetti una telefonata dall’allora procuratore della Repubblica di Caltanissetta che mi chiese se era vero che io avevo scritto delle relazioni con Roberto SaJeva. Erano sparite. Io e Sajeva, dopo averne parlato con Giancarlo Caselli, mandammo le relazioni direttamente a Palermo”. “Sono qui per la quarta volta – sottolinea l’ex pm – a ripetere sempre le stesse cose sentendomi quasi in colpa per aver scritto quelle relazioni che avrebbero potuto dare una scossa diversa a quei processi”. “Se non avessi fatto queste relazioni – continua – oggi avrei avuto le colpe di questo mondo. Ma con queste relazioni è più complesso…”. “Tinebra si chiudeva in una stanza prima degli interrogatori” – Prima degli interrogatori il Procuratore Tinebra si chiudeva in una stanza, solo, con Vincenzo Scarantino. Non so il tempo preciso ma per un bel pò. Poi Tinebra apriva le porte e si entrava a fare l’interrogatorio”. Lo ha rivelato, deponendo al processo sul depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio, Ilda Boccassini, l’ex Procuratore aggiunto di Milano. Il periodo era quello dell’inizio estate 1994, quando Scarantino decise di collaborare con la giustizia. Anche se poi le sue dichiarazioni si rivelarono false. “Non mi volevano, signor pubblico ministero. ero servita a far fare carriera a tutti, ma io non ero andata per questo scopo. Non vedevano l’ora che io abbandonassi Caltanissetta – dice ancora il magistrato andato in pensione a dicembre – Se avessero seguito le mie indicazioni, sia i pm che gli avvocati avrebbero avuto il tempo, la professionalità per capire che Scarantino non era credibile“. Il magistrato ha parlato del suo arrivo in Sicilia: “Ricordo con affetto, quando arrivai alla Procura di Caltanissetta, una frase dell’allora Procuratore capo Giovanni Tinebra, che io non conoscevo, e mi disse: ‘Cocca mia, qua ci sono le carte. arrangiati, vedi cosa devi fare’. Questo fu il primo impatto. Nel primo periodo studiavo solo le carte. Una massa di carte. Con il collega Fausto Cardella – dice – anche lui applicato, che si occupava con altri colleghi della strage di via D’amelio ci fu un confronto, anche perché nacque quasi subito un rapporto di amicizia. Gli altri collegi che si occupavano delle stragi che erano volontari, si occuparono in quel momento della indagine ‘Leopardo’ a seguito delle dichiarazioni di Leonardo Messina. Non conoscevo Tinebra e mi stupii molto quando mi arrivò la richiesta per essere applicata a Caltanissetta”. Boccassini: “Genchi pericoloso per le istituzioni”, la replica: “Prima vera responsabile del dei depistaggi” – Il magistrato parla anche di Gioacchino Genchi, ex poliziotto ed ex consulente informatico della Procura di Caltanissetta. “Questa persona non mi piaceva, diffidavo di lui e mi sembrava che non fosse una presenza necessaria e importante per le indagini. Se lui ha litigato con La Barbera non lo so e non mi interessa. Feci capire a Tinebra che se ne poteva fare a meno. Era una persona pericolosa per le istituzioni, aveva conservato un archivio con i tabulati raccolti. E poi vedeva complotti e depistaggi ovunque. Ne parlai anche a La Barbera – ha aggiunto – che era d’accordo sul fatto che non si poteva pendere dalle labbra di uno come Genchi. Il suo apporto alle indagini fu nullo. Era un tecnico, non un investigatore, quindi non poteva apportare nulla a un’indagine così seria”. All’Adnkronos Genchi replica: “È stata lei la prima responsabile del depistaggio. Ilda Boccassini a distanza di quasi un trentennio da quegli eventi non si rende ancora conto di essere stata – probabilmente senza volerlo, perché indotta da altri sentimenti – la prima vera responsabile dei depistaggi delle indagini sulle stragi che grazie a lei Arnaldo La Barbera ed altri, sopra e sotto di lui, hanno potuto compiere. La sua repentina fuga da Caltanissetta dopo avere contribuito ad accreditare il falso pentito Scarantino, il suo infausto passaggio da Palermo e il ritorno a Milano, da dove era andata via per le note vicende a tutti note, ne sono una conferma. Ilda Boccassini, all’epoca in cui era pubblico ministero a Caltanissetta, dopo avermi richiesto ed autorizzato ad analizzare i computer e i dispositivi informatici di Giovanni Falcone, oltre che ad acquisire i tabulati delle sue utenze cellulari, non mi ha consentito di verificare dalle sue carte di credito l’effettiva trasferta in America alla fine di aprile del 1992, che Falcone aveva scrupolosamente annotato nel suo data bank Casio, che delle manine di Stato su cui la Boccassini non volle mai indagare avevano provveduto a cancellare”. Botta e risposta tra pm e la testimone – Botta e risposta tra pm e Ilda Boccassini al processo sul depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio. Ad innescare la polemica sono le parole di Ilda Boccassini che, rispondendo alle domande dell’avvocato Fabio Repici, che le chiede perché “in questi anni non aveva mai detto degli incontri tra il Procuratore Tinebra e Vincenzo Scarantino prima degli interrogatori”, ha controreplicato: “Sono 30 anni che mi chiedo perché su questi fatti Tinebra non è mai stato sentito da Caltanissetta”. A questo punto il procuratore aggiunto Gabriele Paci ha detto: “Evitiamo di trasformare questo processo in una sorta di mercato. Tinebra fu sentito nel Borsellino quater e quindi evitiamo di fare commenti”. A quel punto è intervenuto il presidente del Tribunale Francesco D’Arrigo che ha chiesto a “tutti di abbassare i toni”. Momenti di forte tensione si sono registrati anche quando Boccassini ha detto: “Non fa onore a chi indossa la toga avere raccolto certe dichiarazioni, come quando Scarantino disse di essere stato minacciato da me e da La Barbera. Questa era una calunnia bella e buona ma non sono stata tutelata”. Immediata la replica del pm che attacca: “Presidente la invito a far presente alla teste che si deve limitare a rispondere alle domande. Non siamo qui per prendere lezioni da nessuno. Visto che si parla di decoro delle toghe, cosa si doveva fare in quel caso, non verbalizzare quello che diceva Scarantino?”. L’ex aggiunto di Milano ha anche raccontato che tra il 1992 e il 1994 “diversi collaboratori di giustizia parlarono di moltissimi magistrati siciliani, tantissimi, oppure ne volevano parlare, ma non era mai il momento buono”. E ha fatto il nome di Pietro Giammanco, ex procuratore capo di Palermo. “E’ stato poi iscritto nel registro degli indagati dopo le dichiarazioni rese da alcuni collaboratori – dice – era uno dei tanti magistrati indagati a Caltanissetta”.

 “BOCCASSINI ERA CON CHI DEPISTÒ. MI ATTACCA SOLO PER ASSOLVERSI”. L’EX CONSULENTE TIRATO IN BALLO DALL’EX PM: “IL PENTITO SCARANTINO FU ACCREDITATO GRAZIE ALLA SUA COLLABORAZIONE CON LA BARBERA”. il Fatto Quotidiano - 21 febbraio 2020 - di Giuseppe Lo Bianco.

Avvocato Genchi, Ilda Boccassini nei suoi confronti va giù duro, la definisce una persona “pericolosa per le istituzioni perché aveva creato un archivio di dati pazzesco”. Secondo la pm milanese lei vedeva “complotti e depistaggi ovunque”. A parte il fatto, piuttosto ovvio, che dopo 27 anni le indagini le hanno dato ragione, il depistaggio di via D’Amelio è ormai un fatto acclarato, lei come replica?

«Piuttosto che infangare l’onorabilità di persone per bene, Ilda Boccassini farebbe bene a riflettere sul suo passato e chiedere scusa alle istituzioni per i suoi errori se non altro per rispetto di Giovanni Falcone del quale sosteneva di essere amica anche se, invero, nei tabulati dei suoi cellulari non ho trovato nemmeno il frammento di una sola telefonata con lei dai primi mesi del 1990 fino al 23 maggio del 1992».

Boccassini sostiene di avere contribuito a esautorarla dalle indagini: “Non mi piaceva il suo modo di lavorare, così fu allontanato –ha detto –Tinebra non voleva perdere la mia capacità lavorativa, quindi da quel momento Genchi non si è più occupato di stragi”.

«Guardi, io non sono mai stato cacciato dal gruppo “Falcone Borsellino” e c’è una lettera che lo dimostra, inviata da Boccassini e Sajeva dopo che Arnaldo La Barbera aveva diffuso la voce che avevo abbandonato le indagini per “motivi di sicurezza”. Nella lettera i due pm comunicano a Tinebra di essere “sorpresi ” della mia decisione, perché avevo mostrato di essere “ben consapevole dell’onere e dei rischi dell’indagine”. In realtà io sono andato via per non avere voluto partecipare ai depistaggi delle indagini che La Barbera sia apprestava a compiere e che ha potuto portare alle estreme conseguenze solo grazie allo stretto rapporto che in quel periodo ha intrattenuto con Ilda Boccassini. Rapporto che ha imposto anche agli altri magistrati della Procura di Caltanissetta che a lei sono subentrati e che non hanno potuto fare a meno che continuare ad avvalersi di La Barbera che lei e solo lei aveva accreditato fino al punto da renderlo insostituibile nelle indagini di tutte e due le stragi».

E questo rapporto di fiducia con La Barbera che conseguenze ha avuto, secondo lei, per le indagini?

«Ilda Boccassini a distanza di quasi un trentennio da quegli eventi non si rende ancora conto di essere stata – probabilmente senza volerlo – la prima vera responsabile dei depistaggi delle indagini sulle stragi che grazie a lei Arnaldo La Barbera ed altri, sopra e sotto di lui, hanno potuto compiere».

È un’accusa grave. Cosa glielo fa pensare?

«La sua repentina fuga da Caltanissetta dopo avere contribuito ad accreditare il falso pentito Vincenzo Scarantino, il suo passaggio dalla Procura di Palermo e il ritorno a Milano, ne sono una conferma. E poi c’è un episodio personale».

Si riferisce alla pista americana?

«Esattamente: quand’era pm a Caltanissetta, dopo avermi richiesto ed autorizzato ad analizzare i computer e i dispositivi informatici di Giovanni Falcone, oltre che ad acquisire i tabulati delle sue utenze cellulari, non mi ha consentito di verificare dalle sue carte di credito l’effettiva trasferta in America alla fine di aprile del 1992, che Falcone aveva scrupolosamente annotato nel suo data bank Casio, che delle manine di Stato su cui la Boccassini non volle mai indagare avevano provveduto a cancellare».

LE BUGIE DELLA BOCCASSINI. UN RISERVATO DOCUMENTO INEDITO LO CONFERMA. Comunicato stampa - 21 febbraio 2020 - di Gioacchino Genchi. “Non avevo alcuna fiducia in Gioacchino Genchi. Il suo apporto nelle indagini era stato praticamente nullo, era una persona pericolosa”. Queste quanto riferito da Ilda Boccassini, ex procuratore aggiunto di Milano, da poco in pensione, al processo sul depistaggio dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio. La p.m. Boccassini, però, non nutriva gli stessi sentimenti nei confronti del dottor Genchi nel 1992 e fino al 25 maggio 1993, quando dopo averlo incaricato di svolgere le indagini più riservate sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, inveì per la sua improvvisa decisione di lasciare il gruppo di indagini per asserite “ragioni di sicurezza”, come La Barbera aveva dato a credere ai magistrati di Caltanissetta, che di contro hanno ritenuto di chiedere conto a Genchi delle sue decisioni solo 16 anni dopo, agli inizi del 2009, con una audizione che è stata la vera causa della sua strumentale “sospensione” dal servizio e della sua successiva destituzione dalla Polizia di Stato, proprio per avere riferito nel corso di un pubblico convegno dei depistaggi di Arnaldo La Barbera e dei vertici del Ministero dell’Interno dell’epoca sulle stragi del 1992. Facciamo un passo indietro nel tempo. I primi giorni dell’ottobre del 1992 sembrano decisivi per risolvere il rebus delle stragi: su via D’Amelio, Genchi aveva contribuito ad individuare l’intercettazione a casa della sorella di Borsellino e pensava di aver scovato il telefonista, Pietro Scotto. Quanto a Capaci, ci sono i contenuti delle agende elettroniche di Giovanni Falcone, con l’annotazione del viaggio in America alla fine di aprile del 1992. Non appena la consulenza viene depositata, nonostante le pressioni per non farlo, i “ringraziamenti” a Genchi per il recupero dei dati non mancano: gli vengono revocati i due incarichi. E viene trasferito dalla direzione della Zona Telecomunicazioni per la Sicilia Occidentale e dal Nucleo Anticrimine, che per volontà del Capo della Polizia Parisi congiuntamente dirigeva da alcuni giorni prima della strage di Via D’Amelio, all’XI Reparto Mobile di Palermo, per occuparsi di manifestazioni e cortei. Dalle stragi agli stadi, in un lampo. Il questore di Palermo Matteo Cinque – Genchi si rifiuterà di salutarlo con la sciabola durante una parata, sapendo del suo arresto che sarebbe stato eseguito alcuni giorni dopo – gli prospetta “necessari provvedimenti di autotutela”, e gli assegna una scorta di 1° livello con due macchine blindate. Il primo passaggio per giustificare il futuro trasferimento. Genchi rinuncia e rifiuta decisamente e rintuzza con una lunga lettera e continua ad usare la sua Fiat Uno, muovendosi da solo e pure disarmato, come aveva sempre fatto prima, senza però abbandonare la sua vera e unica arma di difesa: il computer. È chiaro, quindi, che Genchi non aveva nessuna paura a fare il suo lavoro, come La Barbera aveva voluto far credere nel maggio del 1993 ai magistrati di Caltanissetta che non hanno ritenuto nemmeno di chiedere conto a Genchi sulle effettive ragioni del suo volontario e repentino abbandono del gruppo di indagini sulle stragi, dopo l’epico scontro con Arnaldo La Barbera, protrattosi per tutta la notte dei giorni fra il 4 e il 5 maggio 1993. Eppure, Arnaldo La Barbera diffonde la voce che Genchi aveva abbandonato le indagini sulle stragi perché temeva per la sua sicurezza. Ma, privata del poliziotto su cui fa perno l’inchiesta, i magistrati di Caltanissetta titolari delle indagini, Fausto Cardella e Ilda Boccassini, puntano i piedi. Prendono carta e penna, e scrivono al procuratore Giovanni Tinebra. Agli atti della Procura di Caltanissetta, infatti, è stato depositato un documento riservato che sbugiarda Ilda Boccassini su tutta la linea. Dopo la sua sua deposizione è giusto che gli italiani abbiano piena cognizione di quel reperto documentale di ineguagliabile valore che smentisce le falsità dichiarate da Ilda Boccassini ai giudici di Caltanissetta. 

Così scriveva la pm milanese e al suo procuratore: “La parte più complessa e delicata di tale attività investigativa era stata affidata al dr. Gioacchino Genchi che appariva idoneo per le sue specifiche conoscenze tecniche e per la sua competenza nel settore della telefonia”, si legge all’inizio. Poi l’affondo finale: “Ha sorpreso, quindi, molto sorpreso il fatto che, pochi giorni orsono, il dott. Genchi abbia improvvisamente deciso di non collaborare più alle indagini, secondo quanto riferisce il dr. A. La Barbera, adducendo giustificazioni generiche e non del tutto convincenti”. Quindi Genchi ha volontariamente abbandonato il gruppo di indagini sulle stragi e non è vero che è stato “cacciato”, come la Boccassini ha cercato di accreditare in più occasioni negli ultimi 20 anni.

E fu così che si arrivò al gruppo d’indagine Falcone-Borsellino, una soluzione posticcia per mettere una pezza al trasferimento di Gioacchino Genchi e lasciare indisturbato ad Arnaldo La Barbera il pieno controllo delle indagini. E non ce ne sarebbe stato alcun bisogno visto che la polizia aveva già valide strutture, come la squadra mobile, la Criminalpol e lo Sco, che potevano proseguire il lavoro con la stessa tenacia con cui lo avevano intrapreso. Poi, la collaborazione del falso pentito Vincenzo Scarantino, l’uscita definitiva di Gioacchino Genchi dal gruppo Falcone-Borsellino sbattendo la porta dell’ufficio di La Barbera, ormai fa parte della tragica storia di questo Paese. Accreditato dallo stretto rapporto personale e professionale che Arnaldo La Barbera aveva instaurato con Ilda Boccassini, intrapreso l’abile depistaggio delle indagini, a La Barbera è stato facile condizionare l’agire e l’operare dei magistrati che a Ilda Boccassini (e Fausto Cardella) si sono succeduti nella conduzione di quelle indagini, condizionando e subornando gli esiti dei processi, con lo scopo – si badi bene – di fare condannare degli innocenti per non cercare e tenere nascosti i reali autori e i mandanti di quelle stragi. Questo è l’aspetto più eversivo di quella vicenda, del quale Arnaldo La Barbera non è stato l’unico ed esclusivo protagonista, posto che sugli esiti di quelle indagini si sono fondate le carriere dei capi della Polizia che dopo Fernando Masone e prima di Franco Gabrielli si sono succeduti ai vertici del Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Vero è che Ilda Boccassini, in più occasioni, ha invitato e diffidato i suoi colleghi della Procura di Milano a diffidare di me e a non affidarmi degli incarichi. È vero pure, però, che molti magistrati della Procura di Milano, che hanno dimostrato di fidarsi più di me che della collega Boccassini, mi hanno affidato numerosissimi incarichi in vari processi di criminalità organizzata e di stampo mafioso, di traffico internazionale di sostanze stupefacenti, armi, per reati contro la pubblica amministrazione e reati fiscali. Fra questi la consulenza tecnica nel processo per frode fiscale che ha portato alla condanna in via definitiva di Silvio Berlusconi, che ne ha anche determinato la decadenza da Senatore della Repubblica, a differenza dei processi istruiti a carico di Silvio Berlusconi da Ilda Boccassini, dai quali è stato sempre assolto e che hanno contribuito alla sua martirizzazione, al punto da conservare ancora lo status di leader di una forza politica, che con il pensionamento della Boccassini prevedo vada in estinzione, per “cessazione della materia del contendere”.

Quanto alla storia dell’ “archivio” dei tabulati, la Boccassini ha ripreso un tema tirato in ballo da altri suoi illustri colleghi, fra i quali l’ex procuratore aggiunto della Procura Nazionale antimafia Alberto Cisterna ed altri magistrati e politici calabresi, primo fra tutti l’ex senatore Giancarlo Pittelli, che leggerà questo post dal carcere di Nuoro. I tabulati che io ho acquisito ed elaborato come consulente tecnico dei pubblici ministeri sono sempre rimasti a disposizione dei magistrati che li avevano acquisiti ed utilizzati nei processi. La mia attività è diventata sospetta e “criminale” (secondo alcuni, fra cui la Boccassini) solo quando io ho iniziato a svolgere delle indagini su dei magistrati calabresi, che ho trovato in combutta con dei mafiosi, con degli affaristi e con dei politici. Una recente sentenza del Tribunale di Palermo ha annullato la sanzione che il Garante della privacy mi aveva inflitto, mettendo la parola fine a questo ritornello dell’ “archivio”, anche sul quale Ilda Boccassini ha perso una ulteriore occasione per stare zitta. Avendola conosciuta bene, la cosa non mi sorprende affatto, posto che non è stata la prima volta e sono certo che non sarà l’ultima. 

La versione di Nino Di Matteo: “Così ho preparato i collaboratori di giustizia. Era la norma…”. Il Dubbio il 3 Febbraio 2020. Il neo consigliere del Csm parla al processo sul depistaggio della strage di via D’Amelio. «A quei tempi i collaboratori scontavano varie pretese, giuste o meno, e vedevano nell’ufficio del procuratore una speranza alla risoluzione di quelle problematiche. In quel periodo a me è capitato che mi telefonassero Cancemi, Mutolo, Di Carlo. Capitava che negli uffici accadesse questo». Lo ha detto il consigliere del Csm, Nino Di Matteo, deponendo al processo sul depistaggio sulle indagini di via D’Amelio, in corso davanti al Tribunale di Caltanissetta. Imputati di calunnia aggravata tre poliziotti, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, ex componenti del gruppo Falcone-Borsellino della Squadra mobile di Palermo che si occupò di gestire Vincenzo Scarantino, rivelatosi poi un falso pentito. L’ex pm Nino Di Matteo ha risposto alle domande del procuratore aggiunto Gabriele Paci. «In quel momento stavamo facendo il massimo sforzo sulle stragi e per imbastire i processi. C’erano centinaia di latitanti, con i mafiosi che venivano in queste aule. Se ti chiamavano i collaboratori lo facevano – ha detto – per i problemi che avevano in carcere. Ma mai nessuno di loro si è mai sognato di parlarmi di processi. Io parlo per me ma, all’epoca, io ho “preparato” Cancemi, Ferrante, praticamente quelli che smentivano Scarantino: prepararli significava ricordargli di non entrare in polemica con le parti processuali, di mantenere un comportamento educato e ricordare l’oggetto del processo. All’epoca era una prassi seguita da tutti».

Di Matteo: «Mai saputo che i Servizi segreti avessero rapporti con il procuratore capo». Damiano Aliprandi il 4 Febbraio 2020 su Il Dubbio. L’ex pm al processo sul depistaggio di via d’Amelio. Il consigliere Csm ha detto anche che secondo lui la strage «non era solo di cosa nostra» e ha spiegato cosa si intende per “preparazione” dei collaboratori di giustizia agli interrogatori. «Non ho mai percepito, constatato o mi fu detto che il gruppo Falcone e Borsellino aveva rapporti con i Servizi. Constai che un soggetto, che si presentava come capo centro della sede Sisde di Caltanissetta, Rosario Piraino, aveva l’abitudine di frequentare non solo la procura nissena ma anche alcuni colleghi della giudicante. Io non ho mai avuto rapporti con i Servizi, che sappia neanche i colleghi Petralia e Palma». Lo ha detto Nino Di Matteo, consigliere del Csm ed ex pm a Caltanissetta, rispondendo ieri alle domande dell’aggiunto Gabriele Paci, al processo sul depistaggio sulle indagini di via D’Amelio, in corso al tribunale di Caltanissetta. Imputati di calunnia aggravata tre poliziotti, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, ex componenti del gruppo Falcone- Borsellino della Squadra mobile di Palermo che si occupò di gestire Vincenzo Scarantino, rivelatosi poi un falso pentito. Mentre a Messina sono indagati per reato connesso i magistrati Carmelo Petralia e Annamaria Palma. L’attuale consigliere del Csm ha fatto anche chiarezza circa gli interrogatori nei giorni in cui per la prima volta, nel 1994, sentì Scarantino a Genova. «Non ci furono pause durante quegli interrogatori – ha spiegato – e lo ricordo bene perché a un certo punto era necessario per Scarantino rifocillarsi e io non gli consentii di uscire chiedendo di portare dei panini nella stanza in cui eravamo. Ci mettemmo in due angoli diversi e mangiammo e mentre eravamo lì pensavo: “sto mangiando nella stessa stanza con chi ha detto di aver partecipato a un fatto per cui io ho pianto amaramente”». E delle segnalazioni da parte di Ilda Boccassini che appurò le falsità di Scarantino? «Seppi delle note della Boccassini e delle sue osservazioni critiche sulla gestione del pentito Scarantino – ha spiegato Di Matteo – solo tra il 2008 e il 2010. Con la collega Boccassini non ho mai avuto la possibilità e la fortuna di parlare non solo delle stragi ma di indagini in generale. Per me era ed è un magistrato da stimare moltissimo, ma con la quale la conoscenza si limitava a incontri al bar». Sul discorso di Bruno Contrada, l’ex numero 3 dei servizi segreti, Di Matteo ha spiegato che indagò su di lui sull’ipotesi della sua presenza in via D’Amelio dopo la strage. «Fui io – ha spiegato il consigliere del Csm – a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende». Vedendo quegli atti Di Matteo si accorse che c’era stato un ufficiale del Ros, Carmelo Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. «I poliziotti – ha spiegato Di Matteo – avevano fatto una relazione che poi era stata strappata in questura. I colleghi avevano preso a verbale Sinico e mandato tutto a Caltanissetta, dove Sinico si era rifiutato di rivelare la sua fonte». La vicenda è nota. È su Contrada a cui, nell’ordine il maggiore dei carabinieri Carmelo Sinico, il maresciallo Carmelo Canale e poi i pentiti Gaspare Mutolo e Francesco Elmo, rivolsero le loro dichiarazioni accusatorie, in merito al suo ritenuto coinvolgimento nelle stragi mafiose e via D’Amelio. Ci vollero 3 anni perché le dichiarazioni mai riscontrate dei primi due venissero archiviate: era il 7 marzo del 1995 quando il gip di Caltanissetta provvedeva all’archiviazione del procedimento, che nel frattempo era stato aperto con la contestazione dell’art 422 cp, cioè per il delitto di strage nell’attentato di Via D’Amelio. Scrive il gip di Caltanissetta a proposito della traccia investigativa che fu offerta da Sinico, che «quanto alla dichiarazione del Cap. Sinico circa la presenza di Contrada in Via D’Amelio nell’immediatezza dell’esplosione, nessun elemento è stato acquisito nel corso delle indagini tale da suffragare detto assunto». A ciò si aggiunge il fatto è che Contrada, parlando con gli inquirenti, provava, anche citando testimoni a sostegno delle sue affermazioni, che in quei giorni non era neppure a Palermo ma che si trovasse a bordo di una barca. Il giudice definisce questa circostanza come un «alibi di forte persuasività, in quanto confermato da diversi testimoni che hanno riferito che l’indagato si trovava sulla barca in loro compagnia quando fu compiuta la strage». Nelle scorse settimane, dopo la pubblicazione delle intercettazioni tra i pm e l’ex collaboratore Vincenzo Scarantino, era nata una polemica sulla “preparazione” del falso pentito da parte dei magistrati. E oggi l’ex pm del pool sulle stragi mafiose, ha voluto spiegare la parola “preparazione”. Sul punto Di Matteo ha detto dice: «Si è parlato dell’attività di preparazione del collaboratore di giustizia. Ricordo che in occasione di interrogatori che venivano verbalizzati e che erano prossimi all’impegno dibattimentale del processo Borsellino ter io ho preparato i collaboratori Salvatore Cancemi, o Giambattista Ferrante oppure Onorato. Cioè tutti quelli che smentivano Scarantino. Ma che cosa significa preparare, dire al collaboratore “lei giorno tot comparirà davanti alla Corte d’assise”. Oppure “gli argomenti saranno questi” e ancora “dica la verità”, né una cosa in più né una cosa in meno. Oppure “esponga in chiarezza, non entri in polemica”. Questo vuol dire preparare un collaboratore». Poi Nino Di Matteo ha voluto anche dire che secondo lui la strage di via D’Amelio non era solo di Cosa nostra, ma è una tesi che ha portato avanti da sempre, fin da quando imbastì il processo sulla trattativa Stato- mafia.

 “Il depistaggio? Di Matteo non si è accorto di nulla e per lui è solo un contorno”. Damiano Aliprandi il 5 Febbraio 2020 su Il Dubbio. Parla l’avvocato Rosalba Di Gregorio, parte civile nel processo ai tre agenti accusati di calunnia aggravata. «Certo però che , con tutte queste carte, piste e indagini , a lui Scarantino, il depistaggio, gli innocenti in galera e poi la revisione sembrano solo un “ segmento” , una cosa con cui noi disturbiamo , mentre magari secondo lui dovremmo tutti quanti (dai PM agli avvocati e pure il Tribunale) portare avanti la pista Contrada e quella Berlusconi!», così scrive Rosalba Di Gregorio, l’avvocata che assiste come parte civile tre di coloro che subirono un ingiusto ergastolo a causa del depistaggio accertato dalla sentenza del Borsellino Quater. Si riferisce a l’ex pm Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm, che ha deposto lunedì scorso al processo sul depistaggio di Via D’Amelio.  Nino Di Matteo, in sintesi, ha detto di non aver mai parlato con chi in precedenza aveva fatto le indagini, nemmeno con la collega Ilda Boccassini o con il dottor La Barbera allora capo del pool investigativo. Non aveva nemmeno saputo dei colloqui investigativi, dal 4 al 16 luglio 1994, mentre Scarantino si trovava detenuto nel carcere di Pianosa. Non aveva saputo nemmeno che Scarantino aveva ritrattato ad Angelo Mangano nel 95, all’epoca giornalista di Studio Aperto. L’avvocata Di Gregorio, quindi, tuona: «Ai tempi sequestrarono tutto il trasmesso e il non trasmesso, ma non glielo hanno detto. La signora Scarantino ai tempi scrisse lettere a mezzo mondo accusando La Barbera e i suoi di tante cose, ma tutte queste lettere i suoi colleghi e i poliziotti non gliele hanno fatte leggere. E nemmeno gli hanno raccontato che belle telefonate c’erano fra Scarantino e loro PM e i poliziotti. Gli raccontavano che era tutto per cose logistico amministrative». DI Gregorio aggiunge sempre riferendosi a Di Matteo: «E mentre prima di lui e dopo, a pochi metri da lui, si costruiva, prima, e si manteneva in piedi, poi , il pentito farlocco (mentre si faceva il processo “ bis” e persino a uno dei due PM titolari ( Palma e Di Matteo) , cioè a lui, non si davano tutte le carte ), il “Nostro” già si occupava di collegare Berlusconi alle stragi. E per giunta gli facevano fare pure i processi a Gela, mentre gli altri facevano solo il pool stragi!». L’avvocata di parte civile Di Gregorio in sostanza polemizza con Di Matteo sul fatto che secondo lui la storia del falso pentito Scarantino è solo un “segmento” del depistaggio. «Ma noi, che siamo limitati – scrive l’avvocata Di Gregorio – , ci stiamo occupando del “segmento “ ancora e non planiamo nei cieli alti delle indagini, perché stiamo qua miserelli a cercare ancora di rimediare agli inchiappi fatti da altri nel “segmento” . E se siamo qui a fare un processo facciamo le domande: capziose o provocatorie non importa. Sono tutte domande ammesse dal Tribunale e perciò considerate legittime e appropriate». Ricordiamo che a fine udienza, Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato assassinato dalla Mafia, ha espresso queste amare parole: «Mi veniva quasi di mettermi in gabbia in quell’aula di giustizia mi sento ingabbiata. Penso che c’è un’enorme difficoltà a fare emergere la verità. Non ho constatato da parte di nessuno una volontà di dare un contributo al di là delle proprie discolpe personali per capire quello che è successo e questo mi fa molto male. Io penso che di mio padre non abbia capito niente nessuno di questi magistrati».

Depistaggio Scarantino, l’ex Pm Di Matteo ricorda poco: non sapremo mai chi ha ucciso Borsellino. Paolo Comi su Il Riformista il 4 Febbraio 2020. Ieri, al processo sul depistaggio che “murò” la verità sull’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta, ha parlato l’ex Pm Nino Di Matteo, attuale membro del Csm (dopo una breve esperienza alla Procura nazionale antimafia, dalla quale fu allontanato per eccesso di interviste).  Di Matteo, che è sempre molto facondo quando parla con i giornalisti, stavolta è stato molto più sobrio. L’interrogatorio doveva aiutare a capire se il famoso pentito Vincenzo Scarantino (quello che con la sua testimonianza falsa deviò le indagini, ottenendo la condanna di alcuni innocenti e soprattutto impedendo agli inquirenti di arrivare alla verità sull’attentato), fosse stato imbeccato, e da chi. Escluso che sia stata la mafia, ad imbeccarlo, si è capito che è stato lo Stato. Ma chi, precisamente? La politica? La polizia? O addirittura un pezzetto della magistratura. La politica, stavolta, è stata esclusa. Gli indagati per questo depistaggio, che è stato definito recentemente, da un magistrato, il più grave depistaggio della storia della Repubblica, sono tre poliziotti e due magistrati. I due magistrati sono due di quelli che, agli ordini del Procuratore Tinebra, raccolsero e forse guidarono le deposizioni del pentito Scarantino. Di Matteo viene interrogato in quanto anche lui faceva parte di quel pool di magistrati, anche lui credette a Scarantino, e anche quando si capì che Scarantino mentiva, sostenne che probabilmente il suo contro-pentimento era guidato dalla mafia. Diciamo che fece parecchio casino. Tutto ciò avvenne sebbene la Pm Ilda Bocassini aveva messo tutti sull’avviso, spiegando che la credibilità di Scarantino era praticamente zero. Di Matteo non ha aiutato molto con la sua deposizione. Si è giustificato, sostenendo di non aver saputo niente, fino al 2008 dell’avvertimento della Boccassini (bisogna dire che questi magistrati, quando gli dici di seguire un caso, non lo mollano e si informano di tutto…) e di essersi stupito quando si accorse che Scarantino disponeva del suo numero di telefono (come è emerso da alcune intercettazioni) e di avere saputo poi che glielo aveva dato il Procuratore Tinebra. Tinebra e La Barbera (l’ex capo della squadra mobile e poi alla guida della squadra che indagò sull’omicidio Borsellino) sono le uniche due persone sulle quali Di Matteo ha scaricato qualche responsabilità (per il resto il depistaggio è stato prodotto dal destino, nessun complotto, del resto, si sa che Di Matteo è uno di quei giudici molto ostile all’idea che esistano i complotti…). Il problema è che Tinebra e la Barbera sono gli unici protagonisti di questa vicenda che non saranno controinterrogati, perché purtroppo sono morti. Poi Di Matteo ha parlato dei suoi sospetti su Contrada (l’ex numero due dei servizi segreti) e sull’ipotesi – già smentita in un altro processo – che Contrada fosse in via D’Amelio pochissimi minuti dopo, o addirittura prima dell’attentato. E che sia stato lui a far sparire l’agenda rossa, la famosa agenda rossa che forse Borsellino aveva con sé e che forse conteneva delle informazioni interessanti. L’ipotesi però – che dimostra che alcuni magistrati in ogni caso non difettano mai di fantasia – non è stata presa in considerazione.

Depistaggio omicidio Borsellino, non parlano i magistrati che credettero al falso pentito Scarantino. Tiziana Maiolo il 29 Gennaio 2020 su Il Riformista. Non furono solo i pubblici ministeri di Caltanissetta Annamaria Palma e Carmelo Petralia (cui va aggiunto Nino Di Matteo, l’unico non indagato per calunnia) a costruire il cordone sanitario intorno al falso pentito Enzo Scarantino in modo che nulla potesse turbare quella “verità” costruita a tavolino sull’omicidio di Paolo Borsellino. Arrivò un momento in cui, mentre il primo processo era pronto in grande spolvero, si mossero all’unisono i massimi vertici siciliani della magistratura e dello Stato. Dopo la diffusione, grazie anche alla brava giornalista di Epoca, Silvia Tortora, la figlia maggiore di Enzo, della lettera della moglie di Scarantino che denunciava le torture che avevano preceduto la costruzione del “pentito” chiamando in causa esplicitamente il questore Arnaldo La Barbera, si decise di correre al riparo. A prendere l’iniziativa fu il procuratore capo Giancarlo Caselli, da poco giunto a Palermo, che chiamò i giornalisti facendo trovare al proprio fianco anche il procuratore generale Antonino Palmeri e il prefetto Achille Serra. Conferenza stampa delle grandi occasioni, ufficialmente per difendere la reputazione del questore La Barbera. In realtà l’incontro con la stampa fu dedicato alla difesa della reputazione di Enzo Scarantino, senza la cui testimonianza sarebbe crollato l’intero impianto dell’accusa. Echeggiò in quelle stanze e quel giorno il lamento di chi temeva anche solo un granellino nell’ingranaggio del castello di accuse. A ripensarci oggi, vien da domandarsi se davvero tutti quei bravi magistrati e uomini dello Stato fossero convinti del fatto che un meccanico semianalfabeta con frequentazioni alquanto trasgressive anche per le regole delle cosche, avesse potuto, insieme a qualche altro ragazzotto come lui, organizzare la strage di via D’Amelio. I discorsi furono chiari, quel giorno: la divulgazione di informazioni su Scarantino, sugli abusi subiti, la lettera della moglie, la ritrattazione, tutto ciò era orchestrato dalla mafia e faceva parte di una «campagna di delegittimazione nei confronti dei collaboratori di giustizia». Negli stessi giorni i procuratori di Caltanissetta aprirono il fascicolo sulla “sovrastruttura” di politici e giornalisti governati dalla mafia per screditare Scarantino. Fu anche sequestrato il filmato di Studio aperto con due interviste in cui il falso pentito diceva di voler tornare in carcere ( dopo la collaborazione era stato sistemato con la famiglia in un appartamento a Jesolo) e di non voler collaborare più. Poi lui sparì e la moglie tornò in Sicilia. Iniziarono infine i processi, uno, due e tre. Fioccarono gli ergastoli contro persone che non solo erano state vessate e torturate, come Enzino, nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara, ma erano anche del tutto estranee all’omicidio Borsellino. Scarantino fu trattato da vero collaboratore, con pene più lievi degli altri. Tutti i processi parvero volare con primo, secondo grado e Cassazione senza che mai un dubbio solcasse la fronte di magistrati togati e popolari. I pubblici ministeri di Caltanissetta, proprio coloro che oggi sono sospettati di aver suggerito e poi calunniato, erano i trionfatori. Sentiamo le dichiarazioni di uno di loro, Nino Di Matteo, nella requisitoria del 1998: «La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancora di più le sue precedenti dichiarazioni». E ancora: «L’avvicinamento dei collaboratori per costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nella strategia di Cosa Nostra». Non è mancata, nelle sue parole, la stilettata politica: «Lo sparare a zero sui pubblici ministeri, l’accusarli di precostituirsi arbitrariamente le prove a carico dei loro indagati, è diventato una sorta di sport nazionale praticato non tanto dai pentiti, ma da molti di coloro che hanno lo scopo di fare esplodere il sistema giudiziario». Dieci anni dopo, al processo quater, sarà il pentito doc Gaspare Spatuzza a smentirlo. Sono passati sedici anni dall’omicidio Borsellino e finalmente gli innocenti possono essere scarcerati e Scarantino, che non sapeva neanche dove fosse via D’Amelio né chi fosse Borsellino, sarà creduto: lui con quella strage non c’entra affatto. E neppure tutti quelli che lui aveva accusato, non certo spontaneamente. E tutto quell’apparato dei vertici dello Stato che partecipò al grande circo della costruzione a tavolino del falso pentito, che fine ha fatto? Qualcuno come Tinebra e La Barbera non c’è più, altri come Caselli e Serra sono in pensione. Ma altri non demordono. C’è ancora il processo Stato-mafia, no?

Depistaggio Borsellino, la Pm indagata scoppia in lacrime. Redazione de Il Riformista il 14 Dicembre 2019. È una cosa che succede di rado che un magistrato si metta a piangere in un’aula di tribunale. È successo ieri, a Caltanissetta. La magistrata che è scoppiata in lacrime si chiama Annamaria Palma Guarnier, e stava in quell’aula non come giudice o Pm, ma come testimone, e più precisamente come testimone indagata per reato connesso a quello che veniva discusso in aula. Annamaria Palma è sospettata di calunnia aggravata dal favoreggiamento a Cosa Nostra, per la vicenda famosa del pentito Scarantino, il ragazzo che depistò le indagini sull’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta, e aiutò a seppellire la verità sulla stagione delle stragi siciliane. Annamaria Palma è una delle magistrate che interrogò e trattò Scarantino. Insieme al suo collega Carmelo Petralia è sospettata di avere responsabilità, oggettive o soggettive, nel depistaggio. È una brutta storia, perché sta dentro la storia bruttissima della magistratura palermitana di quegli anni. Un covo di rancori, di dispetti, di corvi. Che travolse Giovanni Falcone, lasciandolo solo e rendendolo preda facile della mafia. E poi la faida è proseguita. Si è dipanata nel tempo, negli anni, fino ad oggi. Ieri la dottoressa Palma ha pianto. La stavano interrogando come testimone proprio al processo contro tre poliziotti che sono accusati del depistaggio. Si è sentita per la prima volta in vita sua vittima, e non padrona, in un’aula di giustizia. Si è sentita perseguitata, accusata ingiustamente, si è sentita debole, forse ha avuto paura. Noi, sul caso Scarantino, abbiamo avuto sempre un atteggiamento molto critico verso i magistrati che lo gestirono. Ora una di loro sente la rudezza e l’ingiustizia della giustizia dei sospetti. Probabilmente ha ragione. E magari anche a noi viene il dubbio di essere stati troppo severi e apodittici con lei. Difficile, di fronte a quelle lacrime, lacrime vere, non provare un sentimento, comunque, di simpatia. È la storia della giustizia che pretende di essere infallibile. Che ha portato i magistrati del caso Scarantino, nonostante le diffide di Ilda Boccassini, a procedere come carrarmati. Ora, alcuni di loro, stanno procedendo come carrarmati nel processo di Palermo contro Mario Mori, che sicuramente è un eroe vero dell’antimafia. Altri contro la dottoressa Palma. Chissà se un giorno si capirà che i pentiti non sono oro colato? E che se non sei Falcone è molto difficile gestirli?

Via d’Amelio, chiesta l’archiviazione per gli ex pm accusati del depistaggio del falso pentito Scarantino. Pubblicato venerdì, 05 giugno 2020 da Salvo Palazzolo su La Repubblica.it. E’ stato definito “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria d’Italia”, ma è destinato a restare un mistero. La procura di Messina chiede l’archiviazione per i due ex sostituti procuratori di Caltanissetta Annamaria Palma (oggi avvocato generale a Palermo) e Carmelo Petralia (procuratore aggiunto a Catania) indagati per calunnia aggravata. L’accusa era pesante, aver costruito ad arte il falso pentito Vincenzo Scarantino, assieme all’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002. Attualmente, ci sono tre poliziotti sotto processo al tribunale di Caltanissetta: il funzionario Mario Bo’, l’ex capo del gruppo d’indagine Falcone Borsellino, e gli ispettori in pensione Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Anche loro imputati per calunnia aggravata. L’inchiesta di Messina era nata due anni fa, dopo che la procura di Caltanissetta aveva trasmesso la sentenza “Borsellino quater”, l’ultimo troncone del processo per la strage di via d’Amelio. Il pool coordinato dal procuratore di Messina Maurizio de Lucia ha riascoltato il falso pentito Scarantino e ripercorso tutti i passaggi di questa vicenda drammatica, che ha tenuto lontana la verità per tanti, troppi anni, fino a quando nel 2008 il pentito Gaspare Spatuzza ha fatto riaprire il caso: era stato lui, e non Scarantino, a rubare la Fiat 126 poi trasformata in autobomba. E undici condannati sono stati scagionati. Indagini e processi fin qui svolti hanno fatto emergere le pressioni di La Barbera e dei suoi uomini su Scarantino. Possibile che sia avvenuto tutto all’insaputa dei magistrati? Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice Paolo, ha chiesto a gran voce di conoscere la verità chiamando in causa gli ex pm. Ha anche sollecitato la procura generale della Cassazione ad avviare dei procedimenti disciplinari, un fascicolo preliminare è stato già aperto. “Perché i pm di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino – si è chiesta Fiammetta – e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione? Perché non fu mai fatto un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la 126 poi trasformata in autobomba? Perché i pm non ne fecero mai richiesta? E perché nessun magistrato ritenne di presenziare al sopralluogo? Chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione?”. E ancora: "Perché furono autorizzati dieci colloqui investigativi della polizia con Scarantino, quando già era iniziata la collaborazione con i magistrati?  Domande su domande. Che sono destinate a restare senza risposta. Almeno, per il momento. Bisognerà leggere la richiesta di archiviazione della procura di Messina per comprendere come si è arrivati a questo ulteriore passaggio della vicenda. Sulla richiesta dei pubblici ministeri dovrà pronunciarsi un gip, che potrà chiudere il caso o sollecitare nuove indagini. Le "parti offese", ovvero i condannati ingiustamente sulla base delle dichiarazioni di Scarantino, possono anche presentare opposizione alla richiesta di archiviazione.

Messina, chiesta l’archiviazione per i magistrati Palma e Petralia. Il depistaggio su Borsellino: tante anomalie nelle indagini, ma nessun reato dei pm. Giovanni Bianconi l'11 giugno 2020 su Il Corriere della Sera. Responsabilità penali da parte dei magistrati che le condussero non ce ne sono, ma le inchieste che portarono alla falsa verità giudiziaria sulla strage di via D’Amelio(sette innocenti condannati all’ergastolo per la morte del giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, a causa delle bugie del finto pentito Vincenzo Scarantino) furono caratterizzate da «anomalie tecnico-giuridiche e valutative» che non trovano spiegazioni convincenti. Dopo due anni di lavoro la Procura di Messina ha chiesto l’archivizione del fascicolo a carico degli ex pubblici ministeri di Caltanissetta che dal 1992 portarono avanti indagini e processi basati sulle dichiarazioni del presunto «collaboratore di giustizia»; dovendosi limitare «esclusivamente all’accertamento di condotte aventi rilevanza penale» ha alzato bandiera bianca. Ogni altra valutazione «esula» dai compiti del pool guidato dal procuratore Maurizio De Lucia, tuttavia dalle oltre 160 pagine della richiesta di archiviazione traspare il rammarico e una certa incredulità per come «il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana» (così lo definirono i giudici di Caltanissetta che inviarono gli atti a Messina per indagare sui magistrati) abbia potuto resistere per oltre 16 anni, fino al pentimento (ritenuto autentico, e dopo 12 anni non sono arrivate smentite) del mafioso vero (a differenza di Scarantino) Gaspare Spatuzza. Una storia per la quale sono alla sbarra, a Caltanissetta, tre poliziotti che fecero parte del gruppo investigativo guidato dall’ex questore Arnaldo la Barbera (morto nel 2002), che si conferma torbida anche dagli atti raccolti dai pm di Messina. Di indizi sulla inattendibilità di Scarantino ce n’erano molti, ma nessuno degli inquirenti di allora ascoltati (sia i due indagati, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, che i testimoni, da Ilda Boccassini a Nino Di Matteo e altri) ha saputo spiegare come non si riuscì a evitare il depistaggio. Persino la lettera dell’ottobre 1994 in cui Boccassini e il suo collega Roberto Saieva misero in dubbio la credibilità di quello strano pentito diventa un mistero, con gli altri pm che dicono di non averla mai ricevuta. «Io non ho tanti elementi sul dopo, però il fatto che Scarantino mentisse in maniera grossolana era percepibile dal primo o secondo interrogatorio», ha ribadito Boccassini. A smentire il falso pentito furono ex boss di ben diverso calibro sedutisi davanti a lui; ora s’è scoperto che pure a Francesco Marino Mannoia, nel ricordo del suo avvocato di allora, «bastò un minuto di colloquio appartato con Scarantino, e disse che non era uomo d’onore»; eppure di questa conclusione del pentito «vero» non c’è traccia nel verbale di confronto ufficiale. E ci sono una ventina colloqui investigativi di poliziotti con Scarantino, regolarmente autorizzati dai magistrati, da cui presumibilmente è scaturita la falsa verità che ha resistito per tanto tempo. «Stranisce tra l’altro — denuncia la Procura di Messina — che le autorizzazioni siano state rilasciate dagli stessi magistrati con cui, proprio in quel periodo, Scarantino rendeva le dichiarazioni “collaborative” a mezzo interrogatorio. In questo senso, generiche e poco convincenti appaiono le risposte fornite da costoro circa le motivazioni a sostegno delle autorizzazioni rilasciate». Tra le «anomalie» ci sono anche i «contatti informali (dei magistrati, ndr) con il collaboratore ed i suoi familiari», che non hanno trovato adeguate giustificazioni. E che ancora oggi consentono al falso pentito e alla ex moglie di lanciare accuse o insinuazioni che però si sono rivelate false, o non hanno trovato conferme. Contribuendo a intossicare ulteriormente la vicenda. Nella quale non mancano i servizi segreti, con l’anotazione del Sisde che anticipò la «pista Scarantino» e l’irrituale coinvolgimento richiesto dall’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, morto nel 2017. Ma tra i danni maggiori provocati dal depistaggio c’è quello raccontato da Fiammetta Borsellino, una delle figlie di Paolo, quando ha testimoniato la risposta avuta nell’incontro con Giuseppe Graviano, uno degli assassini di suo padre a cui aveva chiesto un contributo di verità: «A un certo punto, l’ha buttata sui magistrati, della serie: “Perché viene da me a chiedere le cose? Non l’ha visto che hanno fatto i depistatori?”... Uno dei grandi danni che hanno fatto queste persone è stato anche quello di fornire un alibi per non parlare, l’alibi perfetto per deresponsabilizzarsi di tutto».

Via D’Amelio e quei giudici che non c’erano e se c’erano, dormivano. Per le non-indagini sulla strage di Via D’Amelio, “uno dei maggiori depistaggi della storia repubblicana”, chiesta l'archiviazione dei pm. Borsellino è servito. Fuori dal Coro di Fabio Cammalleri su lavocedinewyork.com il 5 giugno 2020. Ma i magistrati, possono mai entrarci qualcosa, con un’indagine preliminare? Perciò: si archivi. Ancora, a cercare “verità”? Cara Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, 28 anni sono passati: non lo capisci? Siamo in Sicilia. Anzi Italia. Non tira più. Basta...Va bene così. I Pubblici Ministeri potevano non sapere. Ce lo dice un altro Pubblico Ministero. E non se ne parli più. Anche se le non-indagni sulla strage di Via D’Amelio costituiscono “uno dei maggiori depistaggi della storia repubblicana” (secondo la sentenza che ha concluso il Processo Borsellino quater), nè il Capo, nè i Sostituti della Procura di Caltanissetta del tempo, videro, seppero, vollero alcunché. Di ingiusto, di illecito, s’intende. Solo giustizia. Al più, qualche “anomalia”. Lo dice, anzi, lo scrive, la “Collega” Procura di Messina. Notizia fresca fresca. È tutto chiarito. E che volete? Mica erano Ministri? O, generalmente, “politici”? Magistrati erano; addetti alla direzione e al coordinamento delle indagini con al centro il collaborante Scarantino; e chi ne sa niente, di una fonte di prova? Quale magistrato assegnatario delle indagini, può mai sapere nulla di una fonte di prova? Ma qui si vuole forse scherzare? La Polizia, odorosa di “politica”: lei sí, che sa. Ma i magistrati, possono mai entrarci qualcosa, con un’indagine preliminare? Perciò: si archivi. Che poi, a parte Fiammetta Borsellino, la quale, diciamocelo, pare che non voglia capire come si sta al mondo, con tutte le sue domande, a chi interessa, di suo padre Paolo, e dei giovani agenti fatti a pezzi? Sono cose vecchie. Ancora, a cercare “verità”? 28 anni sono passati, Fiammetta: non lo capisci? Sicilia, Italia? Non tira più. Basta. Peraltro, tutto quello che dovevano fruttare, le stragi, lo hanno fruttato. Si deve distruggere un uomo? E che ci vuole? Abbiamo pure un Codice Antimafia. Basta la parola “mafia” e comincia il divertimento. Gli sequestrano tutto: due lire, se ha due lire, mille, se ne ha mille; non occorre nemmeno mandarlo in galera. Basta far sapere che il suo nome è “iscritto”, ed è già un paria. L’ebreo in un ripristinato III Reich. Nessuno lo guarda come un uomo; ma ciascuno è in diritto, anzi, “in dovere”, di scansarlo come un rognoso, un infetto. Perché, “è” un rognoso, un infetto. È “un iscritto”. La P.A. lo esclude da ogni contatto. I vicini, i conoscenti, se non vogliono finire pure loro male, si girano dall’altra parte. Le banche? Non ne parliamo nemmeno. Già hanno ricevuto la notificazione dei sequestri, e chi si ci mette, a “distinguere”? Qui si parla di “soldi”. E, se si parla di “soldi”, schiere di decenni, legioni di “pubblicazioni”, eserciti di “pensieri critici” e di “elaborazioni consapevoli”, si ergono a scovare il maligno Capitale, la sentina di ogni nequizia, il germe della “disuguaglianza”. Ci esercitiamo da un secolo, “noi”, con simili schifezze: hai voglia a “mascherarti”, sporco capitale, “noi” ti riconosceremo sempre. L’Armata della Retorica Palingenetica, del “levati di qua, che mi ci metto io”, ha sostituito “ricco” (qualsiasi cosa s’intenda: anche un auto, due smart-phone e un appartamento incolore in comunione dei beni), con “mafioso”; e “l’accumulazione primitiva” col “denaro di provenienza illecita”. Si vuole “difendere”, “il sudicio mercante/mafioso”? Faccia pure: sempre che facciano entrare il suo avvocato in Tribunale (con il Covid è richiesto il passaporto e il visto all’ingresso, a parte la play-legal-station, così carina da usare come narcotico collettivo verso l’ingombrante presenza della sofferenza in carne ed ossa), in ogni caso deve provare lui di “non essere”. Non di non aver fatto, detto, agito; ma di “non essere mafioso”: giacché, ogni parola, azione, non valgono per sè, ma solo quale “sintomo” di uno status, di una “condizione”; anche se l’azione è lecita o, addirittura, evidentemente imposta, come il prezzo di un’estorsione, o la rata di un “prestito” usurario. Non importa. La “condizione” qualifica l’atto e, da bianco, lo rende nero. E la condizione si stabilisce “per contatto”. Non è magnifico? Non è un sistema perfetto? E sapete perché? Perché “la mafia” ha fatto le stragi, e ognuno che sia “sospettato”, porta in sè tutto il carico di quell’abominio. Il “contatto rende complici”. Una moltitudine di “non possono non sapere” è posta, suo malgrado, ad alimentare un Apparato votato alla perennità, che si bea, lui solo e alla faccia vostra, della opposta “regola”: non potevano sapere. E chi lo smonta? Ciascun buono a nulla, ciascun frustrato e parassita, ciascun imbecille che abbia imparato a memoria il suo piccolo Mein Kampf Antimafia, può aspirare ad ogni sorta di carriera, togato-dirigenziale, avvocatesco-ministeriale, giudiziario-narrativa, sceneggiatrice, fictional, prodiga di lubríco appagamento materiale e morale. Può definire “società giusta” un sistema che non chiede mai scusa, che afferma immoralmente di non sbagliare mai; perché se rovina, “c’era il sospetto”, e se il sospetto risulterà farneticante o anche solo inconsistente, “c’è l’assoluzione, che vuole ancora?”; che pone “una regola” e la divide in due, come una mela; e di qua, staranno quelli della “metà sbagliata”, e di là, quelli della “metà giusta”. Che ha capito come fottere il prossimo alla grande: in nome della Legge. Perciò, a chi interessa, sapere “la verità”, questa sopravvalutata? A cialtroni finiti a fare i petrolieri? A mestatori che per trent’anni, in prime time, hanno lanciato ogni specie di avventuriero togato? Che hanno chiesto a folle di fanatici se erano pubblicamente entusiaste di un omicidio? A saltafossi che hanno sputato sul cadavere di Falcone, “a futura memoria”, e poi passando il resto della vita ad illustrarsi del suo sangue, come fosse un cosmetico cannibalesco? Ai “fustigatori della casta”, 5000 Euro a pezzo, capaci di fare le pulci a tutto quello che sa “di politica”, fino al consigliere di quartiere, ma mai, mai, leggere la busta-paga di un magistrato (e non parliamo delle sue “progressioni in carriera”)? Sulle “stragi” si sa tutto. Sappiamo anche che chi le ha fatte finire, incastrando i colpevoli, è stato messo sulla graticola, e ve lo hanno fatto rimanere senza sosta da oltre vent’anni, nonostante la catasta delle assoluzioni e delle archiviazioni ormai sia venuta raggiungendo altezze himalayane. E si deve capire, insomma; il Generale Mori e i suoi collaboratori rischiavano di rompere l’Apparato/Giocattolo. E come avrebbero fatto, allora, tutti quei “decenni”, di “pubblicazioni”, di “elaborazioni” condotte sin dai tempi della “partitocrazia”, a farsi mestiere, rendita, sopraffazione sistemica, culturale, istituzionale, politica? Come avrebbero fatto, a sostituire ai partiti democratici, il Partito Unico, immune dal “peccato del voto”, dalla turpitudine del consenso democratico? Come avrebbero fatto, poverini? È stata legittima difesa. D’altra parte, “la difesa è sempre legittima”, sappiamo. E sappiamo anche che la menzogna rende forti: alla stessa maniera di come “il lavoro rende liberi”.

Inchieste. DEPISTAGGIO BORSELLINO. TUTTI I “NO” ALL’ARCHIVIAZIONE DI MESSINA. Andrea Cinquegrani il 26 Giugno 2020 su lavocedellevoci.it. Depistaggio Borsellino, nuovo atto al tribunale di Messina. E’ stata infatti appena deposita l’opposizione alla richiesta di archiviazione, avanzata dai pm della procura, della posizione dei magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, accusati di aver taroccato il pentito Vincenzo Scarantino. Ad opporsi è l’avvocato Rosa Alba De Gregorio, che patrocina Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana e Cosimo Vernengo, i quali hanno scontato 16 anni di galera per la strage di via D’Amelio, pur non avendo niente a che vedere con quell’eccidio. E ciò in base alle dichiarazioni fasulle di Scarantino. “Ottime e abbondanti” per mandare in galera sette innocenti (tra cui i tre) e mandare in tragica sceneggiata un depistaggio che più colossale non si può. Sul depistaggio è in corso un processo a Caltanissetta, che vede alla sbarra tre poliziotti che facevano parte del team all’epoca guidato dall’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera. Il quale non può più difendersi dalle accuse, perché da quindici anni è passato a miglior vita. Nei confronti dei tre poliziotti il processo va avanti. Mentre per ora viene stoppata l’inchiesta di Messina, che vede sotto i riflettori i due magistrati che per primi si sono occupati della strage di via D’Amelio, Palma e Petralia, cui dopo alcuni mesi si aggiunse anche l’icona antimafia Nino Di Matteo. La procura ha chiesto l’archiviazione. Ma adesso ha appena presentato opposizione a quella richiesta l’avvocato De Gregorio. Un vero e proprio j’accuse, durissimo nella sostanza, nella ricostruzione del giallo, nella individuazione delle lacune presenti nella richiesta di archiviazione formulata dalla procura messinese. Passiamone quindi in rapida carrellata i passaggi-base.

LE DUE FASI DEL DEPISTAGGIO. Esordisce De Gregorio. “Il primo aspetto che emerge, con evidenza, alla lettura delle motivazioni della richiesta di archiviazione, è il metodo adottato dalla Procura di Messina, che ha ‘letto’ gli atti assunti e acquisiti rifuggendo da una analisi di insieme e privilegiando la parcellizzazione, l’atomizzazione degli atti medesimi”. “A ciò si aggiunge anche la mancata valutazione e presa in esame di risultanze anche dibattimentali relative ai procedimenti, pure acquisiti e citati (Borsellino quater – procedimento Bo+2), da cui ricavare la eventuale consapevolezza, da parte dei magistrati della procura di Caltanissetta del tempo, e in particolare dei dottori Palma e Petralia, della condizione di falso collaboratore, in particolare, di Scarantino Vincenzo”. “Il depistaggio, definito così sia nella revisione di Catania, sia nel processo cosiddetto Borsellino quater, può senza dubbio ritenersi posto in essere in due distinti momenti storici e con diverse condotte”.

“Il primo periodo è certamente quello in cui lo Scarantino (chiamato in causa da due altri due falsi collaboratori), viene preparato a recitare il ruolo di pentito, interprete e spettatore di tutte le fasi di una strage alla quale era assolutamente estraneo”.

“Il secondo momento è quello in cui lo Scarantino è stato trattenuto a svolgere quel ruolo che male aveva accettato e peggio portato avanti, indotto a continuare a fare il falso pentito”.

“Ora, se in relazione alla prima parte (la creazione del falso pentito) non si ha prova della partecipazione di alcun magistrato al processo di vestizione del pupo, non è condivisibile, invece, estendere tale giudizio benevolo anche al secondo momento, riconoscendo, al più (come si legge nella richiesta oggi opposta) la commissione di comportamenti anomali e, dunque, rilevanti solo da un punto di vista deontologico”. “Ed invero, fin da subito dopo il 24 giugno 1994, data dell’inizio della falsa collaborazione, esiste già in atti la concessione quanto meno irrituale di 10 ‘colloqui investigativi’ (così richiesti dalla polizia e autorizzati dai pm) che, se anche all’epoca non erano regolamentati come oggi, tuttavia non potevano né dovevano essere consentiti per la finalità con cui sono stati concessi”. “E che non fossero veri colloqui, usati per la finalità per cui anche all’epoca si usavano, è testimoniato anche dal fatto che a nessuno importò e nessuno chiese l’esito di questi incontri, ben sapendo che non erano ‘colloqui investigativi’”.

IL GIALLO DELLE INTERCETTAZIONI. Continua il j’accuse del legale dei tre condannati a 16 anni di galera pur non entrandoci per nulla nella strage di via D’Amelio. “Non appare condivisibile la valutazione di irrilevanza espressa dalla Procura di Messina in ordine alle telefonate registrate e trascritte, relative alle conversazioni telefoniche tra Scarantino e i dottori Palma e Petralia. Ed invero, nelle conversazioni con il pentito si ricava che:

1) la dottoressa Palma e il dottor Petralia, diversamente da quanto dichiarato al quater, sapevano che c’era un telefono a casa Scarantino a San Bartolomeo;

2) sapevano, diversamente da quanto dichiarato al quater, che i poliziotti del gruppo Falcone Borsellino (e guidati da La Barbera, ndr), stazionavano lì nelle località predette e, addirittura, conoscevano le turnazioni e la presenza in loco di un poliziotto piuttosto che un altro;

3) la dottoressa Palma ricorda a Scarantino in una telefonata che qualcuno ha disposto che Scarantino venisse accontentato nella scelta di uomini che avrebbero dovuto affiancarlo e accudirlo;

4) il dottor Petralia ha parlato con Scarantino della preparazione che nei giorni a venire avrebbero dovuto affrontare per l’audizione dibattimentale al Borsellino 1”.

Andiamo avanti. Sottolinea De Gregorio: “Dimenticano, però, i pm escussi (Palma e Petralia, ndr) e sottovaluta, sembra, la procura di Messina che, in questo caso, il pentito era falso e la preparazione, pertanto, prima di essere accettata come neutra, andava indagata come sospetta”. Una differenza abissale! “Dimentica ancora, e sottovaluta, la richiesta di archiviazione oggi opposta, che Scarantino era stato sostenuto e reso presentabile anche attraverso il mancato, rituale, tempestivo deposito dei tre confronti in cui Cancemi, La Barbera e Santino Di Matteo lo avevano fatto a pezzi in punto di attendibilità”. Da non poco. Eppure, chissenefrega. “La decisione assunta dal pool stragi e, nello specifico, dai dottori Palma, Petralia e Di Matteo, di non depositare i confronti già all’udienza preliminare, ha consentito e contribuito a tenere in piedi il pupo vestito che invece, come auspicato da Boccassini e Sajeva, andava rivalutato, rivisitato e, se del caso, cestinato”.

PERCHE’ NESSUNO DIEDE RETTA A BOCCASSINI E SAJEVA? Uno dei punti bollenti di tutta la vicenda, infatti, sta nelle missive di fuoco indirizzate da Ilda Boccassini e Roberto Sajeva ai componenti del pool, per metterli in guardia sulla attendibilità e credibilità di Scarantino come teste. Come mai i colleghi pm che hanno ricevuto quelle comunicazioni di Boccassini e Sajeva se ne sono altamente fregati e hanno continuato a dar credito ad un pentito di tutta evidenza non affidabile e non credibile? E come mai oggi nessuno oggi a Messina cerca di dare una risposta a questo interrogativo da novanta?  Scrive l’avvocato De Gregorio. “Tali atti e tali fonti testimoniano che, almeno dal 27 luglio 1995 in poi, ai Pm del tempo (già allertati dai tre confronti, dal giudizio negativo di Mannoia, dalle intemperanze di Scarantino e dai messaggi ricevuti dal ‘pentito’ e testimoniati dalle intercettazioni, oltre che dalla contrarietà di Boccassini e Sajeva), ed in particolare ai Pm Palma, Petralia e Di Matteo, era noto che Scarantino si era dichiarato estraneo ai fatti e non possedeva più il requisito della ‘costanza’ delle dichiarazioni”.

Senza mezzi termini scrive: “I Pm indagati hanno saputo che Scarantino si professava innocente. Hanno occultato gli atti che, in qualunque modo, avrebbero potuto dar contezza dell’essere traballante di Scarantino, perché ‘costruito’ a tavolino e non spontaneo”.

Inchieste. NINO DI MATTEO. TUTTE LE BUFALE SUL DEPISTAGGIO BORSELLINO. Andrea Cinquegrani il 5 Febbraio 2020 su lavocedellevoci.it.

La strage di via D’Amelio? “Non credo sia solo mafia”.

La sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino? “Abbiamo fatto il possibile per accertare chi fosse stato”.

Il caso di Vincenzo Scarantino? “Un piccolo segmento di una lunga storia”.

La preparazione del teste Scarantino? “Una normale attività, seguita da tutti i magistrati”.

Le note critiche e di messa in guardia su Scarantino espresse da Ilda Boccassini? “Non ne sono mai venuto a conoscenza, l’ho saputo solo successivamente, tra il 2008 e il 2010”.

Sono solo alcune delle sbalorditive dichiarazioni rese da Nino De Matteo, l’icona antimafia, davanti ai magistrati del tribunale di Caltanissetta, nel corso del processo per il depistaggio sulla strage di via D’Amelio che vede alla sbarra, come imputati, tre poliziotti componenti del team all’epoca guidato dall’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, il quale dal canto suo non può più rispondere perché da quindici anni è passato a miglior vita. Lo stesso Di Matteo e l’altro pm che ha indagato per primo su quella strage, Anna Maria Palma, sono poi sotto inchiesta a Messina proprio per il taroccamento di Scarantino. Per la serie: processo a Caltanissetta sui pesci piccoli, i poliziotti del gruppo La Barbera, ossia Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Inchiesta a Messina sui pesci grossi, tra i quali non è presente lo stesso Di Matteo per il solo motivo che è entrato nel team degli inquirenti mesi più tardi.

IL J’ACCUSE DI FIAMMETTA BORSELLINO. Ma basta la verbalizzazione resa a Caltanissetta il 3 febbraio scorso per palesare la marea di anomalie e contraddizioni che hanno caratterizzato il suo comportamento.

Come del resto ha denunciato in modo clamoroso (ma ovviamente ignorato dai media, che se ne fottono di tutto il processo nisseno, una pietra miliare nella nostra storia, in una con l’inchiesta messinese) Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo, da anni grande accusatrice di tutti gli inquirenti che hanno fatto solo finta di indagare, in realtà insabbiando e depistando. Nel mirino di Fiammetta, dopo l’udienza del 3 febbraio, ovviamente c’è Di Matteo.

“Mi sento ingabbiata”, esordisce Fiammetta.

“Non trovo da parte di nessuno una volontà di dare un contributo al di là delle proprie discolpe personali per capire quello che è successo”.

“Vedo una difficoltà enorme a far emergere la verità”: “Ho ascoltato molto attentamente la deposizione del consigliere Di Matteo e rimango sempre stupita da questa difesa, oltre che personale, a oltranza di questi magistrati e poliziotti che si sono occupati delle indagini sulla strage. Mi sembrano tutti passati lì per caso”. “Sembra che tutto quanto riguarda la vicenda di Scarantino e del depistaggio sia avvenuto per le virtù dello spirito santo. Si tende a stigmatizzare la vicenda Scarantino come un piccolo segmento di una questione più grande. Io non penso che quello di Scarantino sia un segmento così piccolo”.

“Ci si riempie la bocca del lavoro in pool, ma io di pool non è ho visto nemmeno l’ombra”.

“Tutte le volte in cui si chiede come mai non sapessero nulla dei colloqui investigativi, della mancata audizione di Giammanco, cadono dalle nuvole. Tutti dicono che sono venuti in un momento successivo, ma ciò non vuol dire non venire a sapere ciò che accadeva prima”.

“Io penso che di mio padre non abbia capito niente nessuno di questi magistrati”.

Parole dure come macigni, tanto più se pronunciate dalla figlia che da anni cerca invano verità e giustizia. Ed invece raccoglie omissioni & depistaggi.

UN SEGMENTO PICCOLO PICCOLO. Ma torniamo alla verbalizzazione shock griffata Di Matteo, analizzando passaggio per passaggio. A proposito del giallo Scarantino, sulla base delle cui dichiarazioni taroccate sono stati condannati e hanno scontato 16 anni di galere 6 innocenti, ottimi e abbondanti per realizzare un depistaggio che più clamoroso non si può. Ma per Di Matteo si tratta di un fatto piccolo piccolo. “Oggi ci si concentra molto su questo piccolo segmento, seppur inizialmente importante, di una storia che già in quegli anni era molto più ampia. Una questione che portò ad altri 26 ergastoli definitivi per strage mai messi in discussione dopo il pentimento di Spatuzza, e alle indagini su Contrada, Berlusconi e Dell’Utri”. Ma che c’azzecca?, direbbe l’ex collega Di Pietro. Quando solo grazie alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza dopo anni e anni è stato scoperto il taroccamento di Scarantino, che non era né credibile né attendibile. Come del resto, a tempo debito, mise nero su bianco Ilda Boccassini, che aveva indagato sulla strage nei primi mesi per poi essere trasferita a Milano. Quanto bastava, comunque, per capire subito che Scarantino non era un pentito attendibile, né credibile. In una missiva inviata agli inquirenti e firmata con il collega Carmine Sajeva, Boccassini metteva tutti in guardia. Ma cosa tira adesso fuori dal cilindro Di Matteo? Che lui non era stato informato, che quelle lettere erano arrivate a sua insaputa!!

QUELLE MISSIVE LETTE 15 ANNI DOPO. Ecco le sue incredibili parole davanti ai magistrati di Caltanissetta: “Ho saputo delle lettere della Boccassini solo successivamente, tra il 2008 e il 2010, quando a Palermo mi occupavo di Gaspare Spatuzza. Le lessi in epoca successiva. Posso dire che fino al 1994 non fui mai informato delle indagini sulle stragi e non partecipai a nessuna delle riunioni in procura in cui fosse presente anche Ilda Boccassini. Con la collega Boccassini non ho mai avuto la possibilità e la fortuna di parlare non solo delle stragi ma di indagini in generale. Per me era ed è un magistrato da stimare moltissimo, ma con la quale la conoscenza si limitava a incontri al bar”. Invece di lavorare pancia a terra per scoprire killer e mandanti di via D’Amelio incontri al bar! Ai confini della realtà.

Eccoci ad un altro passaggio clou. Il taroccamento di Scarantino, il fatto che poliziotti (su questo si basa il processo di Caltanissetta) e magistrati (per ora solo Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, sotto inchiesta a Messina) abbiano insegnato praticamente a memoria la parte, il copione a Scarantino, lo abbiamo ammaestrato in modo scientifico perché potesse recitare come un ottimo alunno, un eccellente burattino. Bazzecole, pinzellacchere per Di Matteo, che liquida tutto quel pasticciaccio che più brutto non si può come una semplice “preparazione”.

COSI’ TI “PREPARO” IL PENTITO. Così paradossalmente ricostruisce: “Mai nessuno si è permesso di dire che volevamo aggiustare qualche dichiarazione (di Scarantino, ndr). Quando si parla di preparazione di un pentito bisogna dire che è un’attività normale, seguita da tutti. Io ho preparato Cancemi, Ferrante, Onorato, tutti quelli che smentivano Scarantino. Preparare significava semplicemente "giorno tot comparirà davanti alla corte d’Assise, gli argomenti saranno questo, questo e quest’altro, dica la verità, né una cosa in più né una in meno, esponga i fatti non chiarezza". Si chiedeva al collaboratore di essere chiaro, sincero, lineare”. Ma ci faccia il piacere, consigliere Di Matteo! Altro cuore della story la famosa agenda rossa di Borsellino. Quell’agenda che – secondo la ricostruzione della giornalista Roberta Ruscica più volte riportata dalla Voce – è transitata anche per le mani di Anna Maria Palma, che ha già verbalizzato (come del resto Petralia) al processo di Caltanissetta. Da rammentare che sul versante dell’agenda rossa è stato istruito un processo ad hoc, che ha visto la rapida assoluzione di un capitano dei carabinieri, Giovanni Arcangioli. Ecco cosa tira fuori dal magico cilindro l’icona antimafia: “Il mio impegno era finalizzato a capire per mano di chi fosse sparita (l’agenda rossa, ndr). Abbiamo fatto il possibile per accertarlo, anche scontrandoci con reticenze bestiali sulla presenza di esponenti delle istituzioni sul luogo dell’attentato. Da qui sarei voluto ripartire per tante altre cose”. Finto qui, già chiuso il capitolo!

CARO AMICO TI TELEFONO. Un altro tassello del mosaico. Le tante telefonate degli inquirenti (magistrati e poliziotti) al pentito Scarantino. Un fatto del tutto anomalo: perché mai dovrebbero conversare come amiconi al cellulare gli inquirente e il loro pentito? Siamo alle comiche? Ecco la pezza a colori anche stavolta piazzata dall’intrepido Di Matteo: “Ci tengo a dire che sono stato il primo a dire che Vincenzo Scarantino aveva il mio numero di telefono cellulare e mi chiamava. Mi telefonava perché qualcuno gli aveva dato il mio telefono”. Qualcuno? Possibile mai? Il teste eccellente continua: “Poi seppi che glielo aveva dato il procuratore Tinebra”. Traduzione: il procuratore capo dà ad un pentito il cellulare di un pm; per di più a sua insaputa! Ai confini della realtà. Continua nella favola, Di Matteo: “Io non dò spiegazioni ma mi preme dire una cosa: in quel momento – siamo nel ’93-’94 – era un momento nel quale i collaboratori di giustizia scontavano dei problemi e vedevano nell’ufficio del Procuratore la speranza di una risoluzione di quelle problematiche. Poteva capitare, dunque, che in ufficio telefonassero. A me è accaduto con Cancemi, Mutolo o Di Carlo, ma certo non per parlare di indagini, ma per dire "io qui sto scoppiando, datemi una soluzione dignitosa per me e la famiglia". Mentre per me è stato un dato eccezionale, e mi ha fatto incavolare, che qualcuno gli avesse dato il mio numero?”. Incavolare? Qualcuno? Che è poi il Procuratore capo. Ma dove siamo, in una procura centroamericana ai tempi di Noriega?

Inchieste. CARMELO PETRALIA. LA “SCENEGGIATA” AL PROCESSO PER DEPISTAGGIO SULLA STRAGE DI VIA D’AMELIO. Andrea Cinquegrani il 23 Gennaio 2020 su lavocedellevoci.it. “So di essermi comportato un po’ da mafioso con Scarantino. Me ne scuso”. Sono le incredibili parole pronunciate da uno dei pm di punta che per primi hanno indagato sulla strage di via D’Amelio, Carmelo Petralia, all’udienza del processo in corso di svolgimento a Caltanissetta per il depistaggio consumato proprio nelle prime inchieste (e nei primi processi) per l’assassinio di Paolo Borsellino e della sua scorta. In questa occasione Petralia verbalizza in qualità di teste, come del resto è successo circa un mese fa con un’altra deposizione clou, quella del pm che, con Petralia, per primo ha indagato sulla strage, Anna Maria Palma. Sia Palma che Petralia, poi, sono sotto inchiesta a Messina per calunnia: in sostanza gli inquirenti vogliono oggi capire in che modo sono stati (Palma e Petralia, e per conto di chi) i registi del depistaggio, in particolare taroccando il pentito Vincenzo Scarantino, sulla base delle cui dichiarazioni farlocche, tutte costruite a tavolino, sono stati condannati nei primi gradi di giudizio 7 innocenti (mafiosi sì, ma del tutto estranei alla strage di via D’Amelio), i quali hanno scontato 16 anni di galera senza aver preso parte in alcun modo a quei crimini.

Al processo di Caltanissetta sono alla sbarra tre poliziotti che facevano parte del team investigativo coordinato dall’ex questore di Palermo, Arnaldo La Barbera, che non può più rispondere di quel depistaggio perché da oltre quindici anni è passato a miglior vita.

A TUTTI SERVIZI. Ma vediamo alcuni tra i passaggi salienti della verbalizzazione griffata Petralia. A proposito dei contatti tra i Servizi segreti e l’allora procuratore capo Giovanni Tinebra che indagava – sic – sulla strage di via D’Amelio, così racconta Petralia: “I contatti li aveva il procuratore capo Tinebra. Ma personalmente la presenza di appartenenti al Sisde per me ha un ricordo preciso: un pranzo all’Hotel San Michele dove c’era anche Bruno Contrada, un nome che mi evocava qualcosa di sinistro”. Sul ruolo dei pm e la suddivisione dei compiti per le indagini sulla strage di via D’Amelio, osserva: “In principio per via D’Amelio vi fu una partecipazione da parte di tutti i magistrati della DDA alle attività di indagine. Poi si è proceduto ad una suddivisione dei compiti. Già nel 1992 arrivarono Ilda Boccassini e Roberto Sajeva. Su Capaci ci fu Giordano mentre la Boccassini credo, ma non voglio essere impreciso, che si sia occupata esclusivamente di via D’Amelio. La dottoressa Palma arrivò nel luglio 1994 e fu applicata a via D’Amelio quando vi era stata già l’udienza preliminare davanti al Gup per il Borsellino uno. Sul fronte della polizia giudiziaria ricordo che vi fu un’evoluzione. Un nostro interlocutore privilegiato, dal punto di vista investigativo, all’epoca era sicuramente la Squadra mobile di Palermo, guidata da Arnaldo La Barbera. Continuai a interlocuire con lui fino a quando fu nominato Questore a Palermo, non essendo più ufficiale di polizia giudiziaria”. Nella sua testimonianza Petralia fa riferimento ai Servizi di mezzo mondo che all’epoca bazzicavano in Sicilia. Usa, per farsi capire, un complesso giro geografico di parole. “L’Italia, il mondo evoluto, è stato scorso in maniera incredibile e vi fu un concorso di contributi incredibile. C’erano dei momenti in cui io volevo scappare dalla stanza di Tinebra. Un giorno c’era l’FBI, non so se c’è stato il KGB, il Mossad”. Un mondo incredibile, per quel giglio candido di Petralia. Rammentiamo a tutti i lettori che non siamo su Scherzi a parte, ma alla verbalizzazione di un pm di punta del team d’indagine sulla strage di via D’Amelio. Povera Italia…Ancora sui rapporti tra la Procura e il Sisde. “Non posso dire che Tinebra li avesse, ma il primo contatto era certamente il procuratore capo. Vi fu un contributo informativo da parte del Sisde. In che modo sia stato sostanziale e quanto sia durato non lo so”.

IL TAROCCAMENTO DI SCARANTINO. Sulla gestione di Vincenzo Scarantino, lo snodo fondamentale per il depistaggio, così Petralia ricostruisce. “Io ho partecipato ai primi due interrogatori di Scarantino del 24 e 29 giugno 1994 al carcere di Pianosa con i colleghi della procura di Caltanissetta, tra cui Ilda Boccassini. Ho provato grande stupore, leggendo la sentenza del Borsellino quater, nell’apprendere di colloqui investigativi precedenti a questi interrogatori. Mi permetto di dire che in questa tranche di indagine la mia partecipazione fu limitatissima, e non per esimermi da errori eventuali o peggio ancora, ma le redini delle indagini erano tutte della dottoressa Boccassini che all’epoca aveva l’assoluta fiducia del procuratore capo ed aveva un rapporto privilegiato con il dottor La Barbera”. A proposito, poi, delle note di fuoco scritte qualche mese dopo dalla stessa Boccassini (e anche da Sajeva) sulla non attendibilità di Scarantino, mettendo quindi in guardia i colleghi circa ogni affidabilità, così osserva Petralia. “Della nota della collega Boccassini ho saputo dopo. Se avessi avuto contezza delle parole della collega, che sottolineava la necessità di interrogare urgentemente Mario Santo Di Matteo, Gioacchino La Barbera e Salvatore Cangemi, i tre collaboratori tirati in ballo da Scarantino, precisando che si doveva far rispettare le norme del codice, sarei saltato in aria, perché io non ho mai effettuato interrogatori al di fuori della legge”. A saltare in aria era invece stato Paolo Borsellino con la sua scorta! Prosegue la sceneggiata firmata da Petralia davanti ai giudici del tribunale di Caltanissetta. Eccoci all’episodio della ritrattazione di Scarantino via etere. “Mi arrivò la notizia che aveva ritrattato quanto ci aveva raccontato sulla strage di via D’Amelio nel corso di una trasmissione televisiva (andata in onda su Fininvest il 26 luglio 1995, ndr), e decisi di andarlo a interrogare subito perché se ritrattazione doveva essere, questa si sarebbe dovuta fare in udienza e non in tv”. Accipicchia! Ed eccoci ad un altro punto bollente, “la preparazione”, il taroccamento, l’impupazzamento del teste cardine, la confezione a tavolino. Così il ‘pacco’ viene del tutto minimizzato da Petralia. I giudici nisseni, nel ricostruire quella vicenda, partono dalle stesse parole del pm che così a suo tempo si rivolgeva a Scarantino: “Scarantino, ci dobbiamo tenere molto forti, perché siamo alla vigilia della deposizione”.

COME TI PREPARO IL COLLABORATORE CHIAVE. Ecco cosa risponde il principale inquirente di allora, con Palma: “Ci sarà tutto quanto lo staff delle persone che lei conosce, potrà parlare di tutti i suoi problemi, così li affrontiamo in modo completo e vediamo di dargli soluzione. Contemporaneamente iniziamo un lavoro importantissimo che è quello della sua preparazione alla deposizione al dibattimento. Non volevo prepararlo ma solo dargli dei chiarimenti. Spiegavo a Scarantino che iniziava la fase prodromica della deposizione e Scarantino era in una fase di stress”. Ora comincia la telenovela in chiave psicologica. Petralia precisa: “Nel caso di specie prego di contestualizzare, stavamo parlando del primo processo della strage di via D’Amelio. E il soggetto era problematico”. Più in dettaglio: “Il concetto di preparazione del collaboratore, anche se è stato equivocato a livello mediatico, è quello di rappresentargli come deve comportarsi, che non deve andare fuori dalle righe, che deve evitare di replicare ad eventuali provocazioni: quel codice di regolamentazione che ogni collaboratore di giustizia deve avere di fronte ad una Corte d’Assise composta anche da giudici popolari. Ricordo che si era alla vigilia dell’avvio del primo processo per la strage di via D’Amelio”. Da una precisazione all’altra, eccoci alla chicca finale. Imperdibile. “E’ un po’ un discorso da mafioso che ho fatto: cose di cui non parlare per telefono, me ne scuso”. Avete sentito? Un pm di peso, come Petralia, chiede scusa davanti alle toghe del tribunale di Caltanissetta per il comportamento che ha tenuto nella gestione del pentito Scarantino? Ai confini della realtà. Ma ai cittadini, ai familiari di Borsellino e a tutti coloro che hanno un minimo a cuore i destini delle nostre sempre più traballanti istituzioni, interessa sapere ben altro: cosa hanno effettivamente combinato non solo i poliziotti del team La Barbera, ma soprattutto quei magistrati – come Palma e Petralia – che all’epoca dirigevano l’orchestra? Nonostante tutti gli avvisi lanciati – inutilmente – da Boccassini e da Sajeva? Saranno in grado, i magistrati nisseni e gli inquirenti messinesi, finalmente, di far luce su quel depistaggio e quelle vergogne di Stato? Non è finita. Perché la verbalizzazione di Petralia riserva ancora qualche pennellata finale. Sempre a proposito di quel più che anomalo comportamento nella gestione del pentito Scarantino, ecco le sue parole: “Riletto oggi (quel discorso, ndr) chissà quale impressione può dare. L’attività che veniva svolta, anche in casi meno problematici, è quella di mettere i collaboratori in una condizione tale da poter essere efficacemente assunti in sede dibattimentale. Il soggetto Scarantino – ripete Petralia per l’ennesima volta – era problematico: nel senso che sicuramente tra le tante criticità che hanno i collaboratori, lui era uno di quelli che ne aveva di più”.

AMMAESTRAMENTI & TELEFONATE. Uno Special One, insomma, Scarantino per “l’allenatore” e “preparatore” Carmine Petralia, in perfetta collaborazione con la collega Anna Maria Palma. E prosegue ancora, nella sua verbalizzazione fiume, con espressioni che sfiorano il ridicolo e incarnano una autentica sceneggiata alla napoletana: “Per tutto questo bisognava prepararlo ad una dignitosa deposizione dei fatti. Si tendeva a dargli degli ammaestramenti”. Adesso siamo finiti in un circo con tanto di tigri? Continua la toga nella sua deposizione. “Si tendeva a dargli degli ammaestramenti non nel senso distorto che è stato usato mediaticamente, che non erano altro che quel tipo di indicazioni che gli consentissero di superare lo stress nell’incombenza dell’inizio dell’esame dibattimentale”. Ancora. A quanto pare Scarantino e i gli inquirenti si sentivano di continuo al telefono. Come degli amiconi. Loro – raccontano gli stessi pm – lo facevano per rassicurarlo, farlo sentire al sicuro, a suo agio: proprio come un bambolotto che deve andare il giorno dopo ad esibirsi nella recita a scuola. Così racconta, su quelle telefonate, l’ineffabile Petralia: “Non escludo che quei numeri telefonici possano essere stati dati singolarmente da ogni magistrato o comunque con il consenso degli stessi”. Vi immaginate processi dove testi, collaboratori e magistrati si scambiano i telefonini e si sentono il giorno prima delle udienze? E Petralia precisa: “Io ricordo che al tempo accadeva che alcuni collaboratori si mettevano in contatto”. Ma in quale Paese crede di vivere il signor Petralia? Certo, nella repubblica delle banane marce. Capace di tollerare tali comportamenti indecenti e di chiudere gli occhi su un depistaggio che più criminale e devastante non si può.

Di Matteo: «No alla protezione a Spatuzza, rimette in discussione le stragi». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 13 giugno 2020. Le dichiarazioni dell’ex pm di Palermo sono in un verbale della Dna dell’aprile del 2009. La scomparsa dell’allora capo della procura di Caltanissetta Giovanni Tinebra e di Arnaldo La Barbera, le dichiarazioni contraddittorie dello pseudo pentito Vincenzo Scarantino che perdurano nel corso degli anni e il silenzio – ineccepibile in punto di diritto – del quale si sono avvalsi gli imputati di reato connesso i poliziotti Mario Bo’, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, fa «ritenere che non si sia giunti alla concretizzazione di alcuna notizia di reato nei confronti degli indagati». Così il procuratore di Messina Maurizio de Lucia ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei due ex pm di Caltanissetta, Carmelo Petralia e Annamaria Palma, i quali nei mesi successivi alla strage di Via D’Amelio, dove perse la vita Paolo Borsellino credettero al falso pentito Vincenzo Scarantino. In 164 pagine il pool guidato dal procuratore De Lucia ricostruisce l’inchiesta avviata dopo la scoperta dei nastri con le registrazioni delle telefonate che l’allora – considerato superpentito – Scarantino fece ai Pm che, coordinati dal capo procuratore Tinebra, seguivano le indagini del gruppo investigativo “Falcone/ Borsellino” guidati da Arnaldo La Barbera. Indagini che, anni dopo, si scoprirono, grazie alla collaborazione del vero pentito Gaspare Spatuzza, inquinate dalle false dichiarazioni di Scarantino indottrinato per allontanare la verità. Da chi sarebbe stato eterodiretto ancora bisogna accertarlo processualmente. Per la procura di Messina il depistaggio c’è stato ( così come sentenziato dal Borsellino Quater), ma non per opera dei magistrati Palma e Petralia. Ma una riflessione, nelle conclusioni della richiesta di archiviazione, c’è stata. Le indagini, secondo la richiesta della corte di Assise di Caltanissetta che ha chiesto di valutare la condotta dei magistrati all’epoca in servizio, non hanno consentito di individuare alcuna condotta penalmente rilevante, posta in essere dai magistrati indagati o da altre figure appartenenti alla magistratura. «Indubbiamente – scrive la procura di Messina – senza la successiva collaborazione di Gaspare Spatuzza, di tale falsità non vi sarebbe stata alcuna certezza». Eppure, come vedremo più avanti, inizialmente qualche dubbio sulla sua attendibilità c’è comunque stato. «Tale dato – osserva il procuratore De Lucia – deve fa riflettere sulle possibili disfunzioni sotto il profilo dell’accertamento della verità, di vicende processuali incentrate prevalentemente su prove di natura dichiarativa provenienti da soggetti che collaborano con la giustizia, al punto da determinare che, in ben tre gradi di giudizio, non si riuscisse a svelare tale realtà». Ma Spatuzza è stato subito ritenuto credibile a differenza di Scarantino? Per esempio, come riportato dalla richiesta di archiviazione, l’allora Pm Nino Di Matteo, qualche dubbio pare averlo manifestato. Nel capitolo relativo a Di Matteo, sentito in procura, è egli stesso a spiegare che nel 2008 si era occupato, per conto della Procura di Palermo, della collaborazione di Spatuzza. Nello specifico ha riferito che, pur avendolo ritenuto attendibile per quella parte di dichiarazioni che interessavano la Procura di Palermo, si era posto un problema di rilevanza di quelle dichiarazioni in quanto riguardanti episodi omicidiari che coinvolgevano soggetti – tra cui lo stesso Spatuzza – già giudicati con sentenze definitive. A pagina 83 della richiesta di archiviazione si aggiunge una nota. Si tratta della dichiarazione di Spatuzza dove riferisce di aver percepito un atteggiamento cauto da parte dei magistrati della procura di Palermo nei suoi confronti, anche in ragione del fatto che costoro, a suo dire, non adottavano alcun provvedimento di protezione a suo favore. Ovviamente si tratta di una sua personale percezione e quindi non oggettiva. Nella medesime nota si legge che era stata la Procura di Firenze a chiedere il programma di protezione nei suoi confronti; a quell’iniziativa si era accodata la Procura di Caltanissetta e, infine, quella di Palermo. «Infine – si legge sempre nella nota – lo Spatuzza ha escluso di aver mai ricevuto domande, anche in modo informale, dal dottor Di Matteo sulla strage di Via D’Amelio». Secondo la procura di Messina, come si legge nella nota a pagina 84 della richiesta di archiviazione, la circostanza che la Procura di Palermo avesse inizialmente assunto «un atteggiamento cauto circa la rilevanza e l’attendibilità del contributo dichiarativo di Spatuzza» ha trovato conferma nel contenuto di un verbale di riunione di coordinamento “delle indagini sulle stragi siciliane del 1992 e del continente degli anni 1993 – 1994”, svoltasi presso la Dna il 22 Aprile del 2009. In quel verbale, tramesso a Messina il 25 marzo del 2019 a seguito di specifica richiesta della procura, sono riportati due interventi di Nino Di Matteo. Sul primo intervento, i magistrati di Messina, riferiscono: «Il dottor Di Matteo ha pure rilevato che non sempre Spatuzza, a suo giudizio, ha affermato il vero; ha aggiunto che, a suo parere, la collaborazione di Spatuzza non è di particolare rilevanza atteso che essa non consente di arrestare nessuno, né di sequestrare alcun bene, né di processare qualcuno. Ha affermato che, secondo lui, non sono particolarmente rilevanti neppure le dichiarazioni rese in ordine agli omicidi di padre Puglisi e del giovane Diego Alaimo». Il secondo intervento del Pm, sempre riferito alla medesima riunione, è così descritto: «Il dottor Di Matteo ha manifestato la sua contrarietà alla richiesta di piano provvisorio di protezione sia perché essa attribuirebbe alla dichiarazione di Spatuzza una connotazione di attendibilità che ancora non hanno, sia perché le dichiarazioni di Spatuzza, sebbene non ancora completamente riscontrate, potrebbero rimettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi, oramai consacrate in sentenze irrevocabili, sia perché l’attribuzione, allo stato di una connotazione di attendibilità alle dichiarazioni di Spatuzza potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con sentenze irrevocabili, siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti protetti dallo Stato, e potrebbe, per tale ultima ragione, gettare discredito sulle Istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori di giustizia».

Falso pentito Scarantino, i Pm e le fantasie su chi metteva in dubbio la sua attendibilità. Tiziana Maiolo il 28 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il falso testimone di giustizia Vincenzo Scarantino. Non lo sapevamo, ma dopo l’uccisione di Paolo Borsellino e dopo l’arresto di Enzo Scarantino, il falso pentito esibito come trofeo aureo e portatore dell’unica verità sulla strage, era stata costituita una “sovrastruttura”, composta di politici e giornalisti incaricati direttamente da Cosa Nostra di depistare le indagini. Insieme a me, c’erano Vittorio Sgarbi e i giornalisti Lino Jannuzzi e Paolo Liguori, oltre a pochi altri. Era prezioso per i Pubblici ministeri di Caltanissetta in quei giorni Enzo Scarantino, tanto che arrivarono a mettere sotto controllo parlamentari e giornalisti. Tanto che misero nero su bianco l’ipotesi dell’esistenza di questa “sovrastruttura”, voluta da Cosa Nostra, volta a depistare i magistrati, spingendo il piccolo delinquente del quartiere della Guadagna di Palermo a ritrattare le sue accuse. La notizia è emersa in questi giorni da vecchi fascicoli giudiziari contro ignoti che in queste settimane vengono spulciati dai magistrati di Caltanissetta, e rilanciata da “LiveSicilia”. In particolare questo organismo di “fiancheggiatori” avrebbe avuto il compito di demolire la testimonianza del collaboratore di giustizia attraverso «pressioni poste in essere da Cosa Nostra, direttamente o per il tramite di ambienti ad essa vicini, al fine di indurre Scarantino a ritrattare e di agevolare le persone da lui accusate». Si sospettava che ogni fuga di notizie, ogni informazione sulle dichiarazioni del pentito, facessero parte di un programma finalizzato a depistare e denigrare, attraverso la falsificazione delle sue parole, gli stessi organi inquirenti. Per questo motivo si tenevano d’occhio alcuni giornalisti e si indagò anche per «rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio». Il fascicolo «contro ignoti», ma contenente una serie di nominativi tutt’altro che ignoti e “attenzionati” dagli inquirenti, venne in seguito archiviato. In calce alla richiesta, poi accolta dal giudice, le firme dei pubblici ministeri Carmelo Petralia e Annamaria Palma, i due magistrati indagati oggi a Messina per calunnia. Proprio loro, che oggi sono sospettati di aver contribuito a mettere in campo il più colossale depistaggio della storia giudiziaria del nostro Paese, In quegli anni sorvegliavano e indagavano chiunque sul piano politico o giornalistico si fosse occupato di Vincenzo Scarantino, chiunque non avesse sposato una tesi accusatoria che traballava fin dall’inizio. C’era la lettera della moglie del falso pentito che aveva raccontato delle torture cui erano sottoposti i detenuti nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Quelle torture che crearono il pentitificio. E ci sono oggi quelle 19 bobine dei confronti tra Scarantino e altri pentiti, di cui si ha notizia solo ora, da cui emergeva da subito che il falso testimone di giustizia era stato già smascherato dai primi giorni, considerato inattendibile proprio dai suoi stessi “colleghi”.  Ma la lettera del procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano al collega di Palermo, Guido Lo Forte, che riferiva dei confronti tra Scarantino e i pentiti doc Cancemi, Di Matteo e La Barbera è saltata fuori solo nelle settimane scorse, consegnata dall’avvocato Rosalba Di Gregorio alla Commissione antimafia siciliana. Si sono persi vent’anni perché qualcuno ha voluto perderli. E non si può dimenticare che la pm Ilda Boccassini, che si era fatta trasferire alla procura di Caltanissetta dopo la morte di Giovanni Falcone e che aveva inutilmente espresso i suoi dubbi al procuratore capo Tinebra sull’attendibilità di Scarantino, non era stata creduta ed era poi tornata a Milano. Anche su di lei, sui suoi dubbi che il procuratore capo aveva ritenuto ininteressanti, si è chiuso un silenzio che dura da due decenni. E si dovrà arrivare fino al processo “Borsellino quater” perché un altro pentito doc, Gaspare Spatuzza, dirà semplicemente quel che qualcuno aveva capito e detto, inascoltato, vent’anni prima. Vent’ anni in cui diverse persone innocenti erano rimaste in galera. Perché gli innocenti ci vanno eccome, in carcere. Anche nei processi di mafia.

Scarantino: ecco la vera trattativa Stato-Mafia. Piero Sansonetti il 31 Ottobre 2019 su Il Riformista. Sapete chi è il pentito Vincenzo Scarantino? Dopo Buscetta è uno dei pentiti più famosi d’Italia, quello che denunciò tutti gli autori della strage nella quale fu ucciso Paolo Borsellino e li fece arrestare. E così il caso Borsellino fu chiuso in fretta. Però, mentre Buscetta disse ai magistrati molte cose vere, Scarantino non fece la stessa cosa: parecchi anni dopo la chiusura dei processi si scoprì che le sue dichiarazioni erano false, che lui non era neanche un mafioso, che non sapeva niente della strage e che con quelle clamorose dichiarazioni, alle quali i magistrati credettero, aveva fatto condannare delle persone non colpevoli e aveva permesso ai colpevoli di farla franca. Nel frattempo erano passati tanti di quegli anni che ogni indagine ormai era diventata impossibile. E quindi non sapremo mai perché fu ucciso Borsellino. E invece dietro l’uccisione di Borsellino c’è un mondo di misteri e di grandi interessi economici minacciati, e di depistaggi e di collusioni tra Stato e mafia. Avete presente quella che viene definita la trattativa Stato-Mafia e che ha dato il via a molti processi, uno ancora in corso, in fase di appello? Beh, molto probabilmente quella trattativa non ci fu mai e anche la tesi della trattativa Stato mafia, alla fine, ha avuto la funzione di deviare l’attenzione della pubblica opinione e di nascondere le questioni vere: perché fu ucciso Borsellino? Da chi? A quale scopo? Cerchiamo di capire qualcosa. La novità è che ora si scopre che Scarantino alla vigilia della sua deposizione falsa aveva deciso di tirarsi fuori dalla manovra e di ammettere che non sapeva niente. Come lo si scopre? Parlano le intercettazioni che stanno venendo fuori al processo contro tre funzionari di polizia in corso a Palermo (mentre a Caltanissetta si svolge una indagine parallela nella quale sono indagati due magistrati). Scarantino telefonò spesso a diversi poliziotti e magistrati, in quei giorni. Si tratta di capire quali di questi funzionari dello stato si limitarono a dar credito senza riscontri a un pentito veramente improbabile (e quindi difettarono solo in capacità professionali) e quanti invece, e quali, parteciparono al depistaggio, o addirittura – come è probabile – lo organizzarono e guidarono. Il depistaggio a cosa serviva? Al depistaggio era interessata la mafia? Ci fu un accordo tra mafia e alcuni poliziotti e/o magistrati? Diciamo che alla seconda di queste domande (al depistaggio era interessata la mafia?) non si può che rispondere affermativamente. E questo rende molto inquietanti la prima e la terza domanda. L’intercettazione che rivela che Scarantino a un certo punto voleva chiamarsi fuori è del 22 maggio del 1995, vigilia del suo interrogatorio, e riguarda una telefonata con la moglie: «Prepara la valigia, ho deciso di tornare in galera», disse. Scarantino era fuori dal carcere – dove era finito per vai delitti minori in cambio della sua collaborazione. Poi però Scarantino ci ripensa di nuovo e depone. E conferma la versione fantasiosa sulla strage. Cosa lo convince a tornare falso pentito? E chi lo convince? Gli inquirenti? E perché lo fanno? E con quali minacce? L’ipotesi che ora viene avanti è la seguente (ed è del tutto alternativa alle tesi del processo Stato-Mafia). Borsellino, quando fu ucciso, stava per prendere in mano il dossier mafia-appalti, preparato dal colonnello Mario Mori sotto la guida di Giovanni Falcone. Falcone, quando lasciò Palermo, pregò Borsellino di seguire lui quel dossier, ma Borsellino per due anni non riuscì a farselo assegnare. Poi, dopo la morte di Falcone, tornò all’attacco e la mattina del 19 luglio 1992 il procuratore Giammanco gli telefonò per dirgli che il dossier era suo. Quattro ore dopo però Borsellino era morto. Giammanco forse non sapeva che i Pm che stavano nel frattempo lavorando sul dossier di Mori avevano pochissimi giorni prima della strage firmato la richiesta di archiviazione. Lo stesso Giammanco firmò la richiesta di archiviazione pochi giorni dopo la morte di Borsellino e l’archiviazione fu concessa in fretta e furia, meno di un mese dopo, il 14 agosto, giorno nel quale – fino al 1992 – nessuno mai aveva lavorato nella procura di Palermo. Quel dossier era una bomba. Indicava i rapporti tra mafia e moltissime imprese dell’Italia continentale. Anche grandi imprese. Con la morte di Falcone e di Borsellino sparì. Mori continuò a lavorare contro la mafia, catturò Riina, ma cadde in disgrazia e ora è imputato nel processo Stato-Mafia addirittura di associazione esterna in associazione mafiosa, dopo essere stato assolto da tre tribunali per le stesse accuse. Ci fu una trattativa tra mafia e una parte dello Stato, e della magistratura, alla base del depistaggio Scarantino? È una domanda fondamentale, perché quel depistaggio – che è stato recentemente definito da alcuni magistrati come il più grande depistaggio della storia della Repubblica – fu quello che impedì di scoprire la verità sulla mafia stragista. Ormai quella verità è sepolta. Alcuni magistrati che caddero nella trappola Scarantino sono gli stessi che poi allestirono il processo Stato-mafia.

Omicidio Borsellino: i pm dietro al depistaggio. Piero Sansonetti il 6 Dicembre 2019 su Il Riformista. Il falso pentimento di Vincenzo Scarantino – che permise il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio nella quale fu ucciso Borsellino, e seppellì definitivamente la verità su quell’azione clamorosa della mafia – fu guidato probabilmente, passo passo, non dalla mafia ma da alcuni magistrati. Questi magistrati – la cui colpevolezza naturalmente è tutta da provare – sono ancora in carica, con funzioni dirigenti importanti. Indagano, giudicano, esercitano il loro potere. Fino ad oggi questi magistrati avevano giurato sempre sulla propria buona fede. Dicevano: “Abbiamo creduto alle false ricostruzioni del giovane Scarantino perché ci sembrava attendibile”. Ora, al processo Borsellino quater che si svolge a Caltanissetta contro alcuni poliziotti imputati per il depistaggio, sono state depositati i nastri di alcune intercettazioni che erano rimasti sepolti per 25 anni. Venticinque anni? Per venticinque anni la magistratura non sapeva di avere le intercettazioni di Scarantino? Già. Erano in un armadio… È una novità sconvolgente che getta un’ombra, non dico sull’onestà ma sicuramente sull’attendibilità di gran parte della magistratura palermitana di quegli anni. Ma getta un’ombra lunga lunga anche su altre due cose: la prima è l’attendibilità, in genere, dei pentiti di mafia (sui quali si basano decine di processi); la seconda è l’impianto del processo famoso sulla presunta trattativa stato-mafia. Questo impianto non solo traballa: crolla. Tra qualche riga proviamo a spiegare perché. Prima occupiamoci di queste intercettazioni. Sono telefonate tra Vincenzo Scarantino e alcuni magistrati. Che Scarantino telefonasse ai magistrati già si sapeva, sul suo taccuino c’erano i numeri telefonici di diversi Pm, tra i quali persino l’allora giovane Nino Di Matteo. Che è uno dei magistrati che lo interrogò e gli credette. In uno dei nastri depositati a Caltanissetta si sentono queste parole del sostituto procuratore Carmelo Petralia: “Scarantino, ci dobbiamo tenere molto forti perché siamo alla vigilia della deposizione”. In questa stessa telefonata Petralia annuncia a Scarantino una visita insieme al procuratore Giovanni Tinebra e al capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera (oggi, entrambi deceduti). “Ci sarà tutto quanto lo staff delle persone che lei conosce, potrà parlare di tutti i suoi problemi così li affrontiamo in modo completo e vediamo di trovare una soluzione. Contemporaneamente iniziamo un lavoro importantissimo che è quello della sua preparazione alla deposizione al dibattimento”. Proprio così: “iniziamo la preparazione alla deposizione”. Queste telefonate sono dell’8 maggio del 1995. Dalle parole pronunciate da Petralia risulta chiarissimo che la testimonianza falsa di Scarantino, all’origine del depistaggio, non fu affatto spontanea ma fu preparata da magistrati e forze di polizia. Il falso pentito ricevette la visita degli investigatori l’11 maggio e il 25 maggio andò in aula e dette inizio all’operazione. Cosa comportò quell’operazione? Impedì che si indagasse davvero sulla strage. E che ci si avvicinasse alla verità. Ormai si può solo stabilire chi e perché depistò, ma è chiaro che la verità sui veri esecutori e mandanti è stata seppellita dal tempo. Diciamo pure che l’operazione depistaggio è perfettamente riuscita. Oggi Carmelo Petralia, autore di quella telefonata, è Procuratore aggiunto a Catania. Cioè è il numero due della magistratura catanese. Recentemente è stato indagato dalla procura di Messina, ma al momento resta in carica. Anche perché l’etica pubblica – quella costruita in questi anni da magistrati e giornali – stabilisce che se un assessore viene sospettato di traffico di influenze deve dimettersi immediatamente per evitare un conflitto tra il suo potere e le indagini; ma se un magistrato viene sospettato di calunnia (è questa l’ipotesi di reato) e del più clamoroso depistaggio della storia della Repubblica (così è stato definito da un Pm) può tranquillamente continuare a esercitare il suo potere e a indagare e a giudicare i cittadini. Cosa volete che vi dica: le caste – le vere caste – sono una cosa seria, mica un giochetto per deputati…Insieme a Petralia la procura di Messina ha indagato anche Anna Maria Palma, che oggi fa l’avvocato generale a Palermo. Anche lei indagata per l’ipotesi di reato di calunnia, e anche lei, a quanto si sa, resta in carica. Dicevamo che queste novità sono un colpo mortale al teorema della trattativa Stato-mafia e dunque al famoso processo di Palermo, del quale è in corso l’appello. Perché? Perché il depistaggio è servito a impedire che si indagasse davvero sulle cause dell’attentato a Borsellino. E oggi risulta abbastanza chiaro che Borsellino fu ucciso perché aveva deciso di lavorare sul dossier Mafia-Appalti preparato dal colonnello Mori e dai suoi uomini su incarico di Giovanni Falcone (quando era ancora magistrato a Palermo).

Il depistaggio servì proprio a seppellire quel dossier, e poi venne fuori la tesi balorda della trattativa Stato-mafia, e lo stesso Mori (l’uomo che ha catturato Riina e che ha inferto colpi mortali a Cosa Nostra) è finito imputato, maciullato della macchina della malagiustizia.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Mafia-Appalti.

“MAFIA-APPALTI-POTERI OCCULTI: FALCONE E BORSELLINO UCCISI PER L’INFORMATIVA CARONTE”. Fabio Giuseppe Carlo Carisio il 21 Luglio 2019 su Gospanews.net.  «Se dobbiamo parlare di aspetti inquietanti, ce ne sono diversi, certamente per la strage di Borsellino. Il mio ufficio, come Procura nazionale, nei limiti dei suoi compiti istituzionali, non si è fermato nel cercare di rivedere il più possibile tutte le acquisizioni, le carte e gli accertamenti fatti non solo per la strage di via D’Amelio, ma anche per tutte le altre, partendo dall’attentato all’Addaura, per proseguire poi con le varie fasi dell’omicidio Lima, della strage di Capaci e di quella di via D’Amelio, per arrivare a Firenze, Roma, Milano e quella – fallita – all’Olimpico». Queste parole virgolettate sono state pronunciate dall’ex Procuratore Nazionale Antimafia, Pietro Grasso, davanti alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla Mafia in merito ai Grandi Delitti e sulle Stragi di Mafia 1992-1993. Le frasi dirompenti ed i quesiti inquietanti emersi dalla sua audizione del 22 ottobre 2012 nella 115° seduta dell’organismo bicamerale presieduto da Giuseppe Pisanu, contenuti in un atto già pubblico dell’Archivio del Parlamento della Repubblica Italiana, sono di sconcertante attualità alla luce delle inchieste e dei processi ancora in corso. Grasso, divenuto Presidente del Senato con il Partito Democratico nella precedente legislatura ed ora senatore eletto nelle file Leu, nel suo lungo colloquio coi parlamentari evidenziò da un parte i limitati poteri della Procura Nazionale Antimafia dall’altra la sua visione “politica” sugli attentati compiuti da Cosa Nostra quale «agenzia di servizi criminali» per conto di «centri occulti di potere». Si tratta di 42 pagine fitte di riferimenti, a volte anche assai circostanziati, a terroristi estremisti esperti di esplosivi piuttosto che alla massoneria fino alla citazione dei rapporti scottanti della Dia e degli Sco che con «la palla di cristallo» previdero «azioni criminali devastanti» indicando però altre piste investigative che rimasero binari morti…Infine c’è il movente degli interessi convergenti sulla «economia criminale»: un allarme lanciato 7 anni orsono divenuto certezza nell’ultimo rapporto semestrale 2018 della DIA (Direzione Investigativa Antimafia) in cui si evidenzia l’ormai acclarata infiltrazione mafiosa nell’alta finanza ed il riciclaggio di denaro provento di illeciti all’interno di attività pulite nell’ambito turistico di alberghi e ristoranti. Solo alcune parti, poco più di un’ora su 5 di audizione, furono secretate perché ritenute dallo stesso magistrato Grasso inerenti questioni allora oggetto di indagini. L’importanza cruciale di quel resoconto dell’allora Procuratore Nazionale deriva soprattutto dalla circostanza che è una delle rarissime occasioni in cui la cosiddetta Trattativa Stato-Mafia è stata approfondita parallelamente alle inchieste sulla strage di Via Capaci, in cui morirono i magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, sua moglie, insieme agli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, e sull’eccidio di Via d’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino con gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Ma soprattutto è stato uno dei pochi momenti di analisi del contesto giudiziario siciliano in cui si sviluppò la cosiddetta Informativa Caronte, l’indagine sugli intrecci mafia-appalti avviata dai Carabinieri del Ros (Raggruppamento Operativo Speciale) sotto il coordinamento di Falcone, ripresa da Borsellino per fare luce sull’attentato mortale dell’amico collega, e rapidamente archiviata dalla Procura di Palermo, a due giorni dall’uccisione dello stesso Borsellino, tanto da essere stata ancora di recente oggetto delle recriminazioni della figlia Fiammetta in un’intervista su RAI 1. Nella relazione di Grasso il cerchio tra mafia, imprenditoria, politica, massoneria, deep-state, servizi segreti, si chiude come un anello prodigioso destinato prima o poi a donarci il miracolo della tanto sospirata verità. Successivamente a quell’inchiesta mafia-appalti, il Palazzo dei Veleni si trasformò in un urna di misteri che a distanza di 27 anni rimbalzano da un processo all’altro. C’è stato quello davanti alla Corte d’Appello di Palermo (che approderà in Cassazione) per cui sono stati condannati nell’aprile 2018 proprio gli autori di quel dossier, l’allora generale dei Ros Antonio Subranni, il colonnello Mario Mori (poi generale di brigata e direttore del Sisde), ed il capitano Giuseppe De Donno per la presunta trattativa Stato-Mafia, da cui però era stato assolto, nel 2015 e ancora l’altro giorno, in un procedimento stralciato, sia il loro presunto “mandante”, l’ex ministro Calogero Mannino, che l’ex Ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza ed al centro della polemica sulla cancellazione delle sue intercettazioni telefoniche con l’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano, divenuto presidente della Repubblica e poi emerito nelle fasi processuali. C’è il dibattimento davanti al Tribunale di Caltanisetta sul depistaggio nelle indagini sulla strage di via D’Amelio con tre poliziotti indagati per calunnia aggravata. Ma c’è pure l’eco dell’inchiesta penale del Tribunale di Caltanisetta che nel 1999 si concluse con il proscioglimento di alcuni magistrati per corruzione per atti contrari all’ufficio e quella attualissima della Procura di Messina che, invece, nel mese scorso ha indagato due ex magistrati del Pool Antimafia proprio per i depistaggi nelle indagini sulla morte di Borsellino. E’ impossibile ricostruire in un solo articolo 27 anni di investigazioni, depistaggi, sparizioni di documenti (come la famosa agenda rossa di Borsellino), manipolazioni di pentiti e processi in parte ancora in essere. Ma è anche assai pericoloso perché il quotidiano online Il Dubbio che dedicò una ricostruzione a puntate all’Informativa Caronte sugli appalti gestiti dal cosiddetto ministro dei Lavoro Pubblici di Cosa Nostra, l’arrestato Angelo Sinio, divenuto poi collaboratore di giustizia, è stato puntualmente querelato…In attesa di raccogliere informazioni più dettagliate (auspicando di ricevere anche contributi da fonti ufficiali o anonime), in questo primo reportage ci atteniamo pertanto scupolosamente alle parole dell’ex Procuratore Nazionale Antimafia ed a quelle della figlia del giudice ucciso, parte civile nel processo nisseno sul depistaggio. Le ultime dichiarazioni di Fiammetta Borsellino piovono come grandine a ciel sereno contro l’iniziativa politica targata Movimento 5 Stelle di desecretazione degli atti delle Commissioni parlamentari antimafia dal 1962 al 2001: una strategia di trasparenza su documenti assai datati che saranno peraltro viavia oggetto di selezione prima della pubblicazione ragionata in un sito ad hoc del Parlamento. «Oggi, anzi ieri – dice la figlia del magistrato – molti si pavoneggiano di avere desecretato quegli atti. Loro, (Commissione antimafia e Parlamento ndr) puntano agli anniversari per fare vedere che lavorano. Loro, il Csm e la Commissione antimafia, lo fanno il 19 luglio nell’anniversario della morte di mio padre e degli uomini della sua scorta e hanno il sapore della strumentalizzazione mediatica». Parole ben comprensibili visto che le sue precedenti accuse al Csm per l’intenzione di archiviare i procedimenti disciplinari contro i magistrati coinvolti nei depistaggi sulle indagini sulla strage e le sue perplessità sull’archiviazione dell’inchiesta mafia – appalti avevano trovato eco sui media ma nessuna sponda in iniziative politiche o parlamentari volte a fare chiarezza sull’operato delle toghe. Il quotidiano Il Dubbio ha ripreso le parti salienti dell’intervento di Fiammetta Borsellino su Rai 1, ospite nel febbraio scorso di Fabio Fazio a Che Tempo che Fa. Il conduttore le chiese su che cosa stesse lavorando suo padre, cosa c’era di così di occulto tanto da ammazzarlo e attuare un depistaggio. «A mio padre – risponde Fiammetta- sicuramente stavano a cuore i temi degli appalti, dei potentati economici: eppure il dossier su mafia e appalti fu archiviato il 20 luglio, a un giorno dalla strage. Ci saranno sicuramente state delle ragioni, ma io non le ho mai sapute». Per precisione, il quotidiano Il Dubbio, segnala che l’inchiesta sviluppata a partire dalla nota informativa “Caronte” dei Carabinieri del Ros fu oggetto di una richiesta di archiviazione il 13 luglio, vistata dal procuratore capo di Palermo ed inviata al Gip del Tribunale il 22, ed archiviata da quest’ultimo solo il 14 agosto. Nella stessa trasmissione la figlia del giudice assassinato rievoca i punti dolenti del depistaggio: «C’è stata una grande mole di anomalie e omissioni che hanno caratterizzato indagini e processi. Le indagini furono affidate a Tinebra, appartenente alla massoneria. E poi i magistrati alle prime armi che si ritrovarono a gestire indagini complicatissime tanto che dichiararono di non avere competenze in tema di criminalità organizzata palermitana. La Procura di Caltanissetta – ha aggiunto Fiammetta – non ha mai ascoltato un testimone fondamentale dopo la morte di mio padre: il procuratore Giammanco. Colui il quale conservava nel cassetto le informative dei Ros che annunciavano l’arrivo del tritolo. Fino a quando Giammanco, poco tempo fa, è morto». La figlia di Borsellino si riferisce a Pietro Giammanco, scomparso nel dicembre 2018, ex capo della Procura di Palermo dal 1990 al 1992, poi dimessosi e trasferitosi in Corte di Cassazione qualche mese dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, quando otto sostituti procuratori avevano lanciato un appello minacciando le dimissioni dalla Procura se lui non se ne fosse andato. Al suo posto, il 15 gennaio del 1993, arrivò Giancarlo Caselli, che si insediò proprio nel giorno in cui venne catturato Riina grazie ai Ros guidati dal generale Mario Mori ed alla sezione Crimor del famoso Capitano Ultimo, ovvero l’attuale tenente colonnello dell’Arma Sergio De Caprio. Il procuratore nazionale antimafia fu invece invitato già nel 2012 dal presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi 1992-1993 a rispondere a precise domande sulle relazioni Stato-Mafia: ci fu la trattativa? In che cosa consistette? Quando iniziò? Chi vi prese parte? Come si sviluppò? Come e perché si concluse? Dopo aver evidenziato i limitati poteri di indagini della Procura Antimafia che può coordinare ma non investigare, se non in caso estremo di avocazione dell’inchiesta per “perdurante e ingiustificata inerzia dell’attività d’indagine”, l’allora magistrato Grasso traccia un quadro generale sulle investigazioni. «Coordinare le DDA di Firenze, Palermo e Caltanissetta comporta avere un quadro globale di quelli che sono, appunto, i filoni investigativi: certamente quelli di Caltanissetta sono rivolti ad individuare i responsabili delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio del 1992; quelli di Firenze i responsabili delle stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993; infine, i filoni investigativi della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo sono tendenti ad approfondire i contatti e le relazioni tra esponenti di Cosa nostra e rappresentanti delle istituzioni, rientranti in quella che ormai viene comunemente definita trattativa». Tralasciando per esigenze di sintesi la terribile strage di via di Georgofili del 27 maggio 1993 in cui morirono cinque civili tra cui due bambine, ci soffermiamo sull’analisi dei differenti esiti delle inchieste siciliane tracciati dall’allora PN. «La posizione di Caltanissetta sostiene che la trattativa abbia avuto un effetto acceleratore sulla strage di via D’Amelio e ne colloca l’inizio nel momento del primo contatto tra l’allora capitano De Donno e Massimo Ciancimino. Questo è quindi l’inizio della cosiddetta trattativa: secondo le valutazioni della Direzione Distrettuale antimafia nissena, ha inizio nei primi del giugno del 1992 ed è poi proseguita con i vari incontri tra il capitano De Donno e l’allora colonnello Mori con Vito Ciancimino. Nell’ambito delle attività investigative, si e` ritenuto da parte di Caltanissetta d’indagare anche Matteo Messina Denaro (latitante – ndr) per il coinvolgimento nella strage di Capaci tenuto conto della partecipazione alla fase ad essa antecedente, che è la presenza del commando su Roma nel febbraio 1992». «Per quanto riguarda la posizione della direzione distrettuale antimafia di Palermo, ci sono invece delle piccole differenze, che non contrastano con le valutazioni della DDA di Caltanissetta, ma in un certo senso si integrano. Una prima fase della trattativa viene anticipata al momento successivo all’omicidio dell’europarlamentare Lima. Sotto questo profilo, sarebbe quindi stata anticipata l’ideazione della trattativa, che sarebbe stata elaborata da soggetti che … Forse e` meglio segretare questa parte» prosegue la relazione di Grasso che si addentra ad analizzare gli attentati ai magistrati palermitani che cominciano con quello dell’Addaura, nella villa sul mare dove il giudice Giovanni Falcone incontrò i colleghi svizzeri per alcune connessioni nelle rispettive inchieste su riciclaggio e narcotraffico, in quella strategia del giudice palermitano di seguire il denaro degli illeciti…«E` lì che inizia un discorso diverso, che parte sempre dall’intuizione di Falcone sulle menti raffinatissime. Il punto non sono tanto le menti raffinatissime; Falcone completa la frase parlando di centri di potere occulto che ormai sono collegati con la mafia, che è qualcosa di diverso – rivela Grasso alla Commissione – Non si tratta solo di menti particolari; parlare di centri di potere occulto collegati con la mafia vuol dire che ci sono interessi convergenti, già dall’attentato all’Addaura, sull’eliminazione di Falcone e di quello che Falcone rappresenta. Falcone non è solo il nemico numero uno di cosa nostra, non è solo quello che è riuscito a capirne i segreti e la struttura, che è riuscito a far collaborare Buscetta e quindi a fare il maxiprocesso. Non è solo quello. Quella certamente è una fase importante; pero` c’è anche un mondo che gira intorno all’economia criminale, di cui Cosa Nostra è parte integrante, ma che non è composto solo da Cosa nostra. Quindi, il fatto che abbia potuto colpire, magari senza saperlo, o toccare dei nervi scoperti o degli interessi ancora da scoprire (cui si era avvicinato) certamente può rappresentare un’ipotesi da continuare a valutare come un filo rosso che parte dall’Addaura e prosegue successivamente». Fu il giudice istruttore Rocco Chinnici, prima vittima di un attentato esplosivo a Palermo il 29 luglio 1983, a parlare del filo rosso che lega grandi delitti e stragi della storia come della nascita della Mafia contestualmente ai moti politici garibaldini-mazziniani-massonici per l’Unità d’Italia. E’ invece Grasso a riferire ai commissari parlamentari di «una concomitanza di causali» sollecitato dal presidente Pisanu: «La domanda si riferisce al valore che lei assegna, nel contesto generale, al famoso rapporto dei Carabinieri su mafia e appalti». Ovvero l’informativa Caronte. «Proprio questo sistema criminale, fatto non soltanto dal criminale tagliagole o dalla mafia militare, che più volte è emerso dalle indagini, certamente è portatore di interessi notevoli. Non penso che nei fatti di mafia ci sia o si possa individuare un movente o una causale unica e specifica. Spesso cosa nostra è stata usata come braccio armato per difendere questi interessi» risponde il procuratore nazionale. L’allora colonnello Mario Mori )in divisa) con il capitano Giuseppe De Donno, autori del dossier Informativa Caronte su Mafia-Appalti in Sicilia Angelo Siino, considerato il ministro dei Lavori Pubblici di Cosa Nostra, arrestato e divenuto collaboratore di giustizia. «Quello che si può intuire è che certamente interessi economico-imprenditoriali, soprattutto dell’alta imprenditoria, risultavano minacciati da un’indagine che proprio Falcone aveva avviato insieme al ROS. Tale indagine in una prima fase si era conclusa in maniera non visibile. Avrete sicuramente acquisito gli atti. Ho visto una relazione molto articolata della Procura di Palermo sulle successioni di questo rapporto mafia-appalti – rimarcava Grasso – C’è stato un primo rapporto molto minimalista, in cui si rappresentava il fenomeno quasi come se si volesse vedere come si atteggiava la procura e che voglia aveva di approfondire e di andare avanti. C’è stato poi un secondo rapporto, che interviene in un secondo momento, che porterà alla cattura di Angelo Siino, il cosiddetto ministro dei lavori pubblici, che però è una sorta di scudo rispetto a cose molto più interessanti che si sarebbero potute scoprire. Quando viene indicato, in un’intercettazione, «quello con la S», si crede di identificare Siino, mentre poi si scoprirà che era l’imprenditore Salamone, che era il centro di tutto un tavolino di appalti con cui si dividevano i grossi appalti siciliani tra le grosse imprese e la mafia, con uno 0,8 per cento per la cassa di cosa nostra tenuta da Riina». «Questo certamente lascia intravedere dei grossi interessi, così come gli interessi che venivano gestiti da Lima (Salvatore, parlamentare siciliano Dc – ndr) e da Ciancimino (Vito, imprenditore e poi sindaco palermitano – ndr) nell’ambito della spartizione dei più grossi appalti a Palermo e in Sicilia; l’uccisione di Lima significa anche un modo di cambiare completamente tutto – relazionò il magistrato alla Commissione – Lima doveva essere ucciso perchè era un uomo della fazione perdente dei Bontade-Inzerillo, non viene ucciso perché è una gallina dalle uova d’oro che riesce a mettere tutti d’accordo e a gestire questo settore dei pubblici appalti. Finché è utile, viene tenuto; quando non è più utile e il referente politico di Cosa Nostra non produce più nulla, si cambia. Quindi l’omicidio Lima, secondo quello che diceva lo stesso Giovanni Falcone, è uno spartiacque. Falcone disse “adesso può succedere di tutto” perché crollava tutto un mondo».

IL DOPPIO DOSSIER PER LE DIFFERENTI PROCURE. Il senatore Luigi Li Gotti, membro della Commissione, introduce quindi la questione del rapporto dei Carabinieri Ros denominato Informativa Caronte «mandato in versione ridotta alla procura di Palermo e in versione integrale a quella di Catania», e del colloquio avuto tra il colonnello Mori e il giudice Borsellino il 25 giugno 1992. «Mori ha riferito che l’oggetto di quell’incontro riservato, per non farsi vedere in procura, era proprio l’impulso d’indagine sul rapporto mafia appalti. Ma il rapporto mafia appalti che conosceva Borsellino era quello incompleto, ove erano omissati i nomi dei politici nazionali, le intercettazioni De Michelis, eccetera». Lo stesso Li Gotti menziona poi un atto assai importante al riguardo: «Subranni (comandante Carabinieri dei Ros – ndr) dice di non averne mai avuto conoscenza, ma la procura di Palermo, quando fa le inchieste sul rapporto mafia appalti che manda al CSM, a pagina 41, afferma: “Chi poteva avere insieme la possibilità e l’autorità di epurare le informative, espungendo le fonti di prova riguardanti i politici De Michelis, Lima, Nicolosi, Mannino e Lombardo, prima che venisse consegnata, così epurata, alla procura di Palermo? Perché qualcuno ha deciso di operare queste omissioni? E, più in particolare, le omissioni effettuate nell’interesse di Mannino e Nicolosi sono state allora frutto di preliminari intese con gli stessi Nicolosi e Mannino che avevano contattato i Carabinieri, dicendo di puntare su Siino?». I riferimenti oltrechè al già citato onorevole Dc Lima e all’ex ministro socialista Gianni De Michelis, sono all’ex presidente della Regione Sicilia, Rino Nicolosi, e all’ex ministro Calogero Mannino, assolto nel 2015 nel processo stralcio con rito abbreviato dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato in quanto presunto regista della trattativa suggerita agli ufficiali dell’Arma (Subranni, Mori e De Donno). «Non è che viene fatto il rapporto e poi viene epurato. Siccome era un’indagine tutta fondata su intercettazioni, venivano utilizzate per il rapporto soltanto quelle intercettazioni in cui non erano coinvolti, appunto, personaggi politici. Quindi la scrematura avviene nella fase in cui la Polizia giudiziaria deve preparare l’informativa mettendo insieme le intercettazioni – spiega l’ex PN Grasso con una sua ricostruzione personale – Era anche nota la non particolare predisposizione della Procura di Palermo dell’epoca, visto il suo vertice, ad affrontare questo rapporto tra mafia, imprenditoria e politica in maniera assolutamente distaccata ed aggressiva. Ho ritenuto sempre che il primo rapporto, fatto in quel modo, cioè evitando artatamente di inserirvi alcune intercettazioni, soprattutto quelle in cui venivano fuori i rapporti con la politica, sia stato una sorta – per usare un termine francese – di ballon d’essai: vi mando questo rapporto per vedere che cosa ne fate, come lo trattate e se c’è la voglia di andare a fondo e continuare».

IL RAPPORTO MAFIA-APPALTI DEL ROS SMEMBRATO. Ma l’ex procuratore antimafia evidenzia una grave lacuna: «Da quelle che sono le mie notizie, perchè non c’ero allora alla Procura di Palermo, il rapporto è stato parcellizzato, suddiviso e affidato per pezzi ad una decina di sostituti. Insomma è stato smembrato completamente, il che significava, anche agli occhi di un inesperto, un modo per non riuscire a vedere l’insieme: se il rapporto viene parcellizzato, non so secondo quale criterio, se territoriale o altro, e viene affidato a tanti singoli sostituti, l’organo inquirente capisce che non c’è tanta voglia di andare avanti e indagare, lancia in resta, su questo aspetto dei rapporti tra mafia, imprenditoria e politica. Questo è il tema. Tra l’altro, l’indagine andava avanti da anni ed era stata propiziata ed ispirata da Giovanni Falcone. Lui pensava di trovarla già pronta quando sarebbe stato procuratore aggiunto a Palermo, ma i tempi non coincidono, per cui lui va a Roma con Martelli e il rapporto gli perviene più tardi». «Il primo rapporto è del maggio del 1991 e credo che abbia influito il fatto di cercare una sponda di magistrati che potessero coltivare quelle cose, tra cui il sostituto procuratore Lima (Felice, procura di Catania – ndr). Il rapporto viene portato – scegliendolo – al sostituto che garantiva di poter gestire quella cosa. L’operazione poi non riesce e il sostituto Lima è costretto a spedirlo a chi è competente, perché i suoi superiori o il suo ambiente non gli hanno consentito di fare quello che i Carabinieri volevano fargli fare. Quando il rapporto arriva alla procura di Palermo, si tenga presente il fatto che era stato mandato al Ministro della giustizia, perché non è che fosse arrivato a Falcone: era diretto al Ministero, quindi al Ministro della Giustizia, solo che arrivava tramite gli Affari Penali». Secondo l’ex senatore Li Gotti fu Falcone stesso a rispedirlo a Palermo con una lettera accompagnatoria che la Commissione non è più riuscita a trovare…

IL MINISTERO ALLERTATO SULLA TANGENTOPOLI SICILIANA. «Io penso che se un magistrato manda un rapporto ad un Ministero, vuol dire che vuole farlo conoscere e mettere sull’avviso il Ministero stesso. Se la notizia esce, non si sa bene chi l’ha fatta uscire; le motivazioni possono essere tante, ma certamente non rientrano tra quelle che cercano di tesaurizzare quel lavoro per poterlo valorizzare al massimo. Un rapporto del genere io lo terrei stretto come fosse un tesoro, anzi, i magistrati, quando sono in possesso di qualcosa del genere, non vogliono nemmeno farlo vedere a quello della porta accanto» stigmatizza Grasso. «Frattanto le cose maturano e viene fuori la consapevolezza di questo tentativo d’insabbiamento; non dimentichiamo poi tutti i veleni palermitani, perché quel rapporto forse non era conosciuto bene nella sua interezza da qualche sostituto, ma certamente lo era da Siino, che poi sarebbe stato incriminato (anche perché egli stesso ha dichiarato che gli portarono il rapporto), così come alcuni Carabinieri. Dietro quel rapporto vi sono delle storie. Anche due magistrati a Caltanissetta si sono dovuti difendere proprio per le fughe di notizie concernenti quel rapporto – aggiunge l’allora procuratore nazionale – Alla fine, quando si scoprì cosa si voleva coprire, emerse sostanzialmente quella Tangentopoli siciliana che, se collegata a quella milanese, avrebbe veramente sconquassato tante imprenditorie che erano un fiore all’occhiello della Nazione. Quindi, gli interessi erano notevoli. La triade mafia-politica-imprenditoria va avanti da sempre e finché non si romperà in maniera decisa, sarà difficile poter tirare fuori qualcosa di utile».

L’ULTIMO INCONTRO TRA BORSELLINO E MORI. Il procuratore nazionale indugia poi sull’incontro tra Mori e Borsellino in merito all’inchiesta mafia-appalti, ma ancor più sul clima rovente palermitano. «Il problema per i Carabinieri era l’inaffidabilià dell’ufficio che doveva gestire, dirigere le indagini e gli approfondimenti. Di fatto doveva avvenire in una maniera assolutamente segreta e comunque non dimentichiamo le difficoltà incontrate da Borsellino pure nell’interrogare Mutolo (pentito di mafia – ndr): sappiamo quanto c’è voluto, dato che prima per poterlo interrogare ci è dovuto andare con un altro magistrato, perché il procuratore Giammanco gli aveva affidato la zona di Agrigento e Trapani, ma non quella di Palermo». «A Mutolo, che aveva incominciato a manifestare la sua ansia di collaborazione già da tempo, Falcone aveva detto che doveva parlare solo con Borsellino, proprio perché doveva parlare di cose delicate e si fidavano. In un primo momento, infatti, ci va addirittura il procuratore Vigna da Firenze che però, quando comprende che non é materia che può approfondire, decide di lasciarla alla procura di Palermo – ricorda Grasso in audizione – Telefona infatti a Giammanco dicendogli che Mutolo vuole parlare con Borsellino ma che, nonostante questo, Borsellino non può incominciare a raccogliere tranquillamente da solo le dichiarazioni di Mutolo. E` un dato di fatto. Quindi c’era questa situazione in cui si doveva muovere con una certa riservatezza, viste anche tutte le cose che stavano venendo fuori. Era un momento patologico di tutta la situazione».

IL TRITOLO A PALERMO PER IL GIUDICE DA UCCIDERE. «Per quanto riguarda lo stato d’animo di Borsellino, posso avere testimonianze dirette, nel senso che anch’io l’ho incontrato a Roma intorno a quei giorni, il 10 o l’11 luglio. A me apparve veramente colpito, nel senso che mi diceva: “Che te ne pare, è arrivato l’esplosivo anche per me? Gli amici, quelli che si considerano tali, ma tali non sono, mi suggeriscono di lasciare Palermo e di abbandonare tutto. Ma come posso abbandonare tutte queste cose?” C’era un velo di tristezza notevole; quindi non posso che concordare sul fatto che quello fosse lo stato d’animo di Borsellino che conoscevo anch’io». Il procuratore nazionale si sofferma sulla condizione psicologica del magistrato pochi giorni prima dell’attentato: quando aveva saputo per caso del tritolo arrivato nell’isola, come confermato da un rapporto degli investigatori alla Procura di cui fu tenuto all’oscuro. «Finché non ci saranno i pentiti dei palazzi, non potremo mai avere la verità completa. Noi abbiamo dei collaboratori soltanto da una parte, la parte criminale; ma non è che tutto sia conosciuto. Ci sono delle parti che sono riservate all’interno delle organizzazioni segrete, c’è una compartimentazione, non tutti sanno tutto» aggiunge l’ex procuratore rispondendo alle domande di vari parlamentari e poi concentrandosi su quelle del democratico Walter Veltroni su centri occulti di potere e attentati esplosivi.

LA MAFIA BRACCIO ARMATO DEI POTERI OCCULTI. «Ho detto che più volte la mafia ha agito come braccio armato o agenzia, che dir si voglia. Addirittura, ricordo che Pippo Calò a Roma era talmente collegato con la banda della Magliana da essere una agenzia di servizi criminali. E – ripeto – era a Roma. Quindi, il discorso del braccio armato e dell’agenzia, l’ho avuto sempre presente. Questo dà la spiegazione su altre causali. A volte le causali sono convergenti. Altre volte, invece, non vi sono proprio le causali di Cosa nostra e questa è la caratteristica ulteriore, proprio nei casi da lei citati, onorevole Veltroni, degli omicidi del giornalista Pecorelli e del generale Dalla Chiesa. Mi pare che ormai tutto ciò si possa dare per scontato». L’ex procuratore analizza quindi la “svolta politica mancata” del dopo Tangentopoli con il Governo tecnico (Giuliano Amato premier). «Un depistaggio si costruisce perchè si deve coprire qualcos’altro: è questa l’ipotesi principe. Non solo, ma quando verifichi che le cose che dovevi trovare al loro posto non le trovi al loro posto e che certi filoni di indagine non sono stati completamente percorsi e approfonditi, viene qualche sospetto che vi siano una regia e una strategia che qualcuno mette in atto. Nel nostro Paese, nella nostra storia, sono tanti i fatti, gli eventi che si sono creati, in cui si può certamente desumere che ci sia qualcosa di non trasparente, che non è assolutamente visibile e che opera di nascosto. La definizione “centri occulti di potere” sarà generica, ma dà l’idea di qualcosa che opera in parallelo rispetto a Cosa nostra». La descrizione ben si attaglia con quel concetto di Deep State che travalica le istituzioni ed è capace di mettere in correlazioni differenti ambiti criminali per i propri scopi. Ecco quindi sfumare l’ipotesi che le stragi di Capaci e via d’Amelio, e i depistaggi nelle indagini su quest’ultima, siano avvenuti solo per vendette mafiose sul maxiprocesso o per ottenere una revisione del carcere duro del 41 Bis: si tratta di mere concause secondo il PN. Un nodo centrale in molte delle 42 pagine di audizione è rimasto infatti focalizzato proprio sulla cosiddetta Informativa Caronte, depositata il 1° ottobre 1991 dopo il primo rapporto di maggio da quegli stessi Carabinieri del Ros poi finiti sotto inchiesta per la Trattativa Stato Mafia nell’acme di diffidenza e scontro di poteri tra magistratura e forze dell’ordine.

LA TRATTATIVA CHE NON EVITO’ ALTRE STRAGI. Grasso è drastico sull’argomento: « Il fatto accertato qual è? Che questa attività c’è stata. La finalità dichiarata era: far finire le stragi. Purtroppo però le stragi sono finite in Sicilia, ma sono continuate poi nel continente. Per quanto riguarda il ruolo del generale Mori, continuo ad insistere su un fatto. Il generale Mori può essere anche condannato. Se è condannato per un fatto accertato o per una serie di indizi, avete la possibilità di avere un’autonoma valutazione. Tuttavia, che porti o meno alla responsabilità sul fatto, io dico che la valutazione, da un punto di vista politico, può essere diversa. Quindi continuo ad insistere sul fatto che non ci si può attaccare o aggregare alle valutazioni di altri, della magistratura in particolare». Grasso rammentò inoltre che l’attentato del 1993 a Firenze in via dei Gerogofili si trasformò in un eccidio solo per un cambiamento del luogo dell’autobomba causato dai controlli nel posto prescelto vicino agli Uffizi, simbolico come quello delle bombe presso la chiesa di San Giorgio del Velabro a Roma, ma anche la difficoltà di quello di Capaci. «Il meccanismo di azionamento del telecomando che doveva far attivare la carica esplosiva, in tempismo con le macchine che vanno a 120 o 140 chilometri all’ora, non era assolutamente semplice».

DAI TERRORISTI ESPERTI DI ESPLOSIVI ALLA MASSONERIA. Tra i condannati c’era qualcuno con esperienze di artificiere? Chiese Veltroni ottenendo la puntuale risposta dell’ex procuratore nazionale: «Uno che doveva avere queste esperienze e che viene catturato, secondo le dichiarazioni di Brusca, è un certo Rampulla di Mistretta, che però il giorno della strage non c’è. Loro ti diranno che si doveva soltanto pigiare il tasto di un telecomando e che non c’era l’esperto mafioso. Dico mafioso, ma Rampulla era di Ordine nuovo, lì aveva fatto la sua militanza e – non per voler criminalizzare nessuno – la sua esperienza esplosivistica veniva da quella frequentazione. Nelle stragi viene coinvolto un certo Santo Mazzei di Catania, che è quello che va a mettere il proiettile nei giardini di Boboli a Firenze, e deve fare la prima rivendicazione per il carcere di Pianosa per cominciare a far venire fuori il problema carcerario. Anche lui ha delle precise connotazioni di precedenti politici, che naturalmente lo fanno inserire in un certo entourage. I catanesi non lo volevano in cosa nostra; è Bagarella che riesce a farlo entrare e lo mette sotto la sua protezione: questo ci dicono. C’è quasi un’infiltrazione e una costruzione che poi diventa operativa». Ma oltre alle correlazioni con gli ambiti terroristici spuntano ovviamente i soliti ingredienti di una spy-story all’italiana: «Massoneria, servizi deviati e grande imprenditoria: queste sono le categorie, ormai tradizionali, ma da questo poi passare a dire altro… Se avessimo degli elementi nei confronti di un esponente di qualcuna di queste categorie, il nostro giudizio potrebbe già essere più mirato» commenta Grasso subito interrotto dall’assist del presidente Pisanu: «C’è qualche loggia ogni tanto, ad esempio quelle del trapanese». «Esatto. C’è la loggia Scontrino e ci sono le logge del trapanese; ma quelle sono una realtà» replica immediato l’allora procuratore antimafia. Il secondo livello di coperture è quello riguardante gli ambiti della polizia e dei servizi segreti emersi in tutta la loro gravità nel «più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana» come i giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta del processo Borsellino quater definirono l’inchiesta su via D’Amelio.

I RAPPORTI CHIAROVEGGENTI E LE PISTE SCOMPARSE. «Ci sono stati poi due Rapporti, uno della DIA (del settembre 1993) e l’altro dello SCO (l’unità anticrimine della Polizia), che hanno fatto dei riferimenti precisi alla trattativa e al collegamento tra l’omicidio Lima, la strage di Capaci e tutte le varie situazioni – aggiungeva il procuratore nazionale – Ogni tanto me li rileggo e mi chiedo se avevano la palla di cristallo. Si prevedono azioni criminali di devastante portata che poi avverranno successivamente. Anche il Rapporto dello SCO parla di una strategia delle bombe avviata nel maggio del 1992. Come facevano? Chi ha redatto quel rapporto? Come faceva ad avere queste informazioni? Certamente sono informazioni di natura confidenziale, che servono in via preventiva, per poter riuscire a capire, quantomeno, le cose che succedono ed evitare che se ne verifichino altre più gravi. Poi, però, le piste emerse da questi due Rapporti sono scomparse ed è rimasta solo Cosa nostra. E` questa la particolarità: queste piste sono state prospettate ma, con la stessa rapidità, non si sono più trovate in altre indagini su questi settori». «Comunque, mi sembra che sul rapporto mafia-appalti abbiamo fatto emergere che una delle concause potrebbe essere sicuramente l’aver toccato interessi così importanti e così grossi. L’economia criminale è diventata una parte che si nasconde nell’economia legale inquinandola, per cui adesso è difficile riuscire a distinguere le due cose. Pertanto, questo può effettivamente essere uno dei fattori scatenanti» è l’amara conclusione del magistrato antimafia che combacia perfettamente con le analisi della Relazione della Dia al Parlamento sul II semestre 2018. La sintesi è davvero apocalittica: due giudici onesti sono stati ammazzati con attentanti esplosivi, i Carabinieri del rapporto Mafia-Appalti sotto inchiesta per una trattativa con Ciancimino che gli ufficiali dell’Arma hanno sempre sostenuto rientrare in una normale attività di investigazione e gestione di un collaboratore-informatore per individuare gli altri latitanti di Cosa Nostra. Quella scottante informativa sulle connessioni tra mafiosi ed imprenditori fu archiviata. Ed i magistrati che indagarono allora e gli altri che depistarono poi hanno fatto carriera fino alla pensione e successiva morte per anzianità. A questa torta nauseante di scontri ed intrecci di poterei occulti, che ricorda la recente inchiesta sugli appalti miliardari Consip del Ministero del Tesoro e gli intrighi per le nomine nel Csm, manca solo una ciliegina appassita che giunge dalla storia. Il documento della prima Commissione parlamentare antimafia che svela il nome del politico che accreditò l’imprenditore Vito Ciancimino facendogli far carriera negli appalti ferroviari e spianandogli la futura carriera politica come Sindaco di Palermo. Non è un atto appena desecretato: è un carteggio pubblico dal 1970 che però crea imbarazzo nel leggerlo e ancor più nel citarlo o scriverlo. Perché evoca il nome dell’ex sottosegretario democristiano Bernardo Mattarella, padre dell’attuale presidente della Repubblica, come narrato da Gospa News nella storia sugli Intoccabili Siciliani… Fabio Giuseppe Carlo Carisio

La verità sulla strage di Capaci, la pista russa dietro la morte di Giovanni Falcone. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Maggio 2020. Delitto Falcone, due premesse, un racconto, poche osservazioni sui fatti che conosco, fra cui l’assenza totale di attenzione da parte degli inquirenti. Premesse. Prima: Cosa Nostra o anche qualsiasi organizzazione imprenditoriale criminale mafiosa non uccide mai per dare un Oscar alla carriera. Mai. Non è mai accaduto e non avrebbe senso. Quando arrivai a Palermo dopo la strage di Capaci fui impressionato da una constatazione: nessuno parlava o inquisiva sul movente. Perché era stato ucciso Giovanni Falcone? Al contrario, era fortemente raccomandato dire: è ovvio perché è stato ucciso: è stato ammazzato soltanto perché era il più grande eroe della guerra alla mafia e così oggi la mafia l’ha ucciso. Da un punto di vista investigativo e anche giornalistico, questo delitto non ha alcun senso. Eppure, allora come oggi nessuno cercava il movente. È un atto di fede: Giovanni Falcone non può che essere stato ucciso per la sua storica attività antimafia, specialmente come autore del maxiprocesso. Questo non è contro i fatti, la storia e la logica, perché Cosa Nostra usa l’omicidio, specialmente se “eccellente” se e soltanto se deve evitare un pericolo gravissimo immediato. Un omicidio per la mafia è sempre un grave danno e rischio perché comporta il blocco delle attività, arresti, inchieste e distruzione del business. Ma nessuno sembrava andare alla ricerca di un movente proporzionato al delitto. Secondo. Quando fu assassinato Giovanni Falcone non era più un magistrato attivo ma un dirigente della pubblica amministrazione: non aveva più i poteri di un procuratore da quando il Pci l’aveva segato dalla direzione dell’antimafia e Claudio Martelli, ministro della Giustizia, l’aveva portato al ministero di via Arenula dove andava a piedi o in motorino, talvolta anche in tram. Per ucciderlo sarebbe stato bastato un killer in motorino. Soltanto quando tornava a Palermo, aveva a disposizione una super scorta d’onore. Dunque, nessuno finora ha cercato di spiegare per quale immediato motivo la mafia dovesse uccidere Falcone e perché, abbia fatto ricorso a un attentato di tipo militare mai usato da Cosa Nostra, del tutto estraneo alla tradizione, che ha i suoi significati: quando la mafia uccideva e metteva i genitali in bocca, significava corna. Un pesce fra i denti del morto voleva dire che puzza come una spia. L’uccisione di Falcone – che sarebbe potuta avvenire a Roma senza azioni da commando – doveva non solo rispondere ad una necessità urgentissima ma anche costituire un messaggio. Per chi? Un’avvertenza: tutto ciò che scrivo in questo articolo è già noto, ma curiosamente oscurato. I protagonisti della storia che sto per riassumere erano quattro. Di questi, due – Cossiga e Andreotti – sono morti ma nessuno li ha interrogati. Gli altri due sono vivi e russi. Uno è l’ex ambasciatore dell’Unione Sovietica e poi della Federazione Russa in Italia e che ha oggi 85 anni, Your Adamishin e l’altro è Valentin Stepankov che quando fu ucciso Falcone era il Procuratore generale russo e guidava un’inchiesta sulla sparizione del tesoro sovietico spedito all’estero per essere riciclato.  Valentin Stepankov, non appena ebbe la notizia dell’uccisione di Falcone, disse che voleva cambiare mestiere e si dimise. Ha pubblicato in Italia un libro da Mondadori con il giornalista Francesco Bigazzi “Il viaggio di Falcone a Mosca”. Che ci faceva a Mosca Giovanni Falcone? Il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga durante un caffè nel suo studio mi disse quel che segue e che scrisse in versione succinta nelle sue memorie. Mi disse Cossiga: “L’ambasciatore sovietico e poi russo Adamishin un giorno venne da me e mi fece una scenata. Disse che noi italiani, stavamo compiendo un delitto alle spalle del popolo russo perché non facevamo nulla per impedire che il tesoro dell’Unione Sovietica fosse spedito in Italia per essere riciclato, pagando una gigantesca tangente, affinché tornasse poi in Russia nelle mani di bande di predoni e oligarchi”. Cossiga disse ad Adamishin di non saperne nulla ma che se ne sarebbe occupato. Chiamò infatti Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio, il quale gli disse: “Io non posso promuovere un’inchiesta che irriterebbe i comunisti ma ho un’idea migliore: perché non chiamiamo Giovanni Falcone che se ne sta tristissimo a via Arenula e non gli proponi un incarico diplomatico come figura di altissimo profilo che aiuti i magistrati russi nella loro inchiesta? Così, Cossiga chiamò Falcone che accettò letteralmente pazzo di gioia, diceva Cossiga: “Giovanni non aveva bisogno dei poteri di un procuratore perché c’era Paolo Borsellino, suo amico fraterno, che avrebbe compiuto le operazioni giudiziarie che Falcone avrebbe suggerito. Fu così che Andreotti chiese alla Farnesina una serie di autorizzazioni che avrebbero abilitato Falcone a muoversi, andare a Mosca o in qualsiasi altro posto e ricevere con discrezione i magistrati russi, sapendo di poter contare per gli aspetti giudiziari su Paolo Borsellino. L’indagine di Falcone con i russi andò avanti alacremente: si trattava di rimettere insieme i flussi di denaro che provenivano dalla Russia, si fermavano in una banca italiana e di lì ripartivano per andare a finire in Sicilia in una serie di scatole o matrioske, dallle quali spillava – pagate le transazioni miliardarie – denaro pulito che tornava in Russia. La quantità di denaro è ignota. Cossiga mi disse di aver convocato un alto dirigente comunista cui chiese se avesse saputo di questa storia e che il dirigente – sempre nelle parole di Cossiga – rispose: “L’hanno offerto anche a me, ma ho rifiutato. Ma se ti dicessi chi dell’alto mondo della finanza non si è rifiutato, cadresti dalla sedia”. Cossiga non mi disse quel nome e l’alto dirigente da lui citato, negò dopo la sua morte che ci fosse alcunché di vero su un tale colloquio. Come sappiamo, a Capaci non seguì solo via D’Amelio con mostruosa eliminazione di Paolo Borsellino, ma erano poi avvenuti fatti mai accaduti nella storia della mafia siciliana: le bombe in giro per l’Italia, da via dei Georgofili al teatro di Maurizio Costanzo, botti, alcuni morti non previsti. La mafia non ha mai cercato di dare spettacolo, e poi per far che? Per mettere in scena una guerra allo Stato, attaccando opere d’arte e altri bersagli incomprensibili. Eppure, se è stato fatto, ci deve essere una ragione. Si è detto con gli omicidi Falcone e Borsellino, la mafia aveva dichiarato guerra allo Stato. E adesso, si dev’essere detto qualcuno, questa guerra bisogna farla. Il resto dell’indecifrabile spettacolo è nota. Una manovalanza di piccoli personaggi è stata coinvolta in questa messinscena che aveva -ed ha – come unica prova, se stessa. Un ulteriore elemento curioso: c’è mai stata una procura che abbia aperto l’inchiesta sul movente della strage di Capaci ponendola in relazione con l’inchiesta russa cui Falcone partecipava su mandato personale e copertura diplomatica del presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio dei ministri che mi hanno entrambi confermato i fatti, ma che sono morti (peccato qualcuno poteva anche sentirli)? Dulcis in fundo: il giornalista ed ex parlamentare Giancarlo Lehner integra i fatti: avendo una moglie e una parte della sua vita vissuta in Russia, ebbe l’idea di scrivere un libro sulle vere cause della morte di Falcone. Anche l’amico Lehner è vivo e vegeto e potrà confermare. Lehner dette una intervista ad “Oggi” in cui annunciava l’intenzione scrivere questo libro, e Andreotti allora lo invitò nel suo studio in piazza in Lucina dove gli disse: “Sono stato io a far preparare i documenti che servivano a Falcone per la sua inchiesta. Io potrei chiederne copia alla Farnesina (il ministro degli Esteri) per contribuire alla sua ricostruzione. Lehner ringraziò ma fu richiamato qualche giorno dopo: “Senta Lehner, disse Andreotti, lasci perdere. Vede: alla Farnesina non si perde neanche una cartolina illustrata e quando ho chiesto il dossier su Falcone, mi hanno risposto che l’hanno perso. Poiché questo è impossibile, disse ancora Andreotti, questo è un messaggio: c’è qualcuno che non vuole questa sua inchiesta e per la mia esperienza con gente di questo calibro è meglio lasciar perdere”. La circostanza mi fu confermata da Andreotti che però è morto, ma sono vive un sacco di altre persone e forse -in questa fase di celebrazioni che tutti vedono piene di buchi, di trappole, di totali illogicità – potrebbero dire qualcosa d’interessante. Ultima annotazione, quando Falcone morì, tutti i giornali russi ne dettero la notizia con titoli clamorosi perché a Mosca la questione del Tesoro trafugato era di enorme impatto. Un giornale fece un titolo più malizioso: “Chi ha ucciso il povero Ivàn”, orecchiando una canzoncina simile alla nostra “Maramao perché sei morto” e che voleva ovviamente dire: sappiamo perfettamente chi ha ucciso il povero Ivan e purtroppo da adesso tutti copriranno quel che è stato fatto a noi, a Falcone, a Borsellino, all’Italia, alla verità e – aggiungo io – anche al giornalismo.

Dossier mafia-appalti di Mori e Falcone, perché fu archiviato? Piero Sansonetti de Il Riformista l'11 Febbraio 2020. Il dottor Guido Lo Forte, che per molti anni ha lavorato in Sicilia come Pm e si è occupato di mafia negli anni roventi della lotta a Cosa Nostra, ha scritto a quattro mani con Gian Carlo Caselli un libro, del quale l’altro giorno Il Fatto ha pubblicato un breve estratto, nel quale spiega come in realtà le trattative tra Stato e mafia furono due. La prima, nel ‘92-’93, fu condotta dal generale Mori (carabinieri) con l’ex sindaco Ciancimino e col medico Cinà; la seconda invece fu condotta da Marcello Dell’Utri con il boss Bagarella (cognato di Riina). Lo Forte fa riferimento a vari passi della sentenza del processo Stato-mafia. Però Lo Forte sa bene che ci sono stati anche altri vari processi (nei quali, tra l’altro, il generale Mori fu sempre assolto) che accertarono verità (processuali) diverse. Ora però io ho una domanda da porre al dott. Lo Forte (gliel’ho già posta altre volte, forse in modo un po’ brusco, e forse proprio per questo lui mi ha querelato: stavolta cercherò di non essere brusco, e anzi confermo la mia stima per molto del lavoro che Lo Forte ha svolto nella sua lunga carriera. Molto: non tutto). La domanda è questa: perché nell’estate del ‘92 fu archiviato il dossier mafia-appalti sul quale Mori aveva lavorato alcuni anni, insieme a Giovanni Falcone, e che, secondo molte testimonianze (compresa quella del dottor Di Pietro) stava portando a clamorose scoperte sui rapporti tra la mafia e le imprese del Nord Italia? A quel dossier, da quel che mi risulta, si interessò anche Paolo Borsellino, che chiese notizie alla Procura di Palermo appena cinque giorni prima di morire. Pare che fosse convinto che quel dossier aprisse una pista decisiva. Perché allora il 13 luglio del 1992 (sei giorni prima dell’uccisione di Borsellino) il dott. Lo Forte e il dottor Scarpinato chiesero l’archiviazione di quel dossier? Ci sono due ipotesi. La prima è che commisero un errore (anche i magistrati, secondo me, talvolta commettono degli errori). La seconda è che non si fidassero di Mori. Ma allora perché non lo dissero subito? La mia domanda non è impertinente. Perché se – come credo – la risposta fosse la prima, ne deriverebbe, come conseguenza, che Borsellino non fu ucciso per la trattativa, e che il generale Mori non è uno che ha aiutato la mafia ma uno che stava per sgominarla. E allora, forse, andrebbe assolto con parecchie scuse. E forse anche Dell’Utri è innocente. Per questo – solo per questo – insisto con la mia domanda.

I messaggi del boss Graviano sulle stragi di mafia dopo 26 anni. Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Arrestato nel 1994, incrina il muro di silenzio e risponde ai magistrati. Le accuse: «Imprenditori di Milano volevano le bombe». Improvvisamente il boss delle stragi decide di parlare e lancia messaggi. Dopo 26 anni di «carcere duro» Giuseppe Graviano — l’uomo che custodisce i segreti dei rapporti tra mafia e politica mentre Cosa nostra disseminava l’Italia di bombe, tra il 1993 e il ‘94 — incrina il muro di silenzio: per la prima volta accetta di rispondere all’interrogatorio del pubblico ministero e dei giudici, pronunciando frasi che sanno di avvertimento. «Se volete scoprire i veri mandanti delle stragi indagate sul mio arresto», dice al pubblico ministero Giuseppe Lombardo nel processo in cui è imputato, insieme al capo ‘ndrangheta Rocco Filippone, dell’omicidio dei due carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo, uccisi a Reggio Calabria il 18 gennaio 1994, e il ferimento di altri quattro militari dell’Arma, in quello stesso periodo; delitti collegati agli attentati del ’93 di Firenze, Roma e Milano per costringere — secondo l’accusa — lo Stato e il partito nascente Forza Italia a scendere a patti con la mafia. Graviano fu arrestato a Milano il 27 gennaio 1994, dieci giorni dopo il duplice omicidio in Calabria, in compagnia del fratello Filippo (anche lui ergastolano) e del palermitano Giuseppe D’Agostino, padre dell’ex calciatore Gaetano che ha giocato in serie A con la Roma, la Fiorentina e altre squadre, che era andato a trovarlo. «D’Agostino è stato coinvolto a sua insaputa — dice oggi Graviano —, era la prima volta che veniva a Milano, l’hanno avvicinato con la storia che doveva far fare al figlio un provino con il Milan… Se indagate su questo arriverete ai mandanti delle stragi». È noto, perché è emerso nei processi a suo carico, che a segnalare al Milan l’allora calciatore-bambino fu Marcello Dell’Utri, il quale ha appena finito di scontare sette anni di pena per associazione mafiosa; dunque è inevitabile collegare al suo nome l’accenno chirurgico del boss. Così come è difficile non pensare a Silvio Berlusconi quando Graviano aggiunge: «Durante la detenzione mi è stato riferito che c’erano degli imprenditori di Milano a cui interessava che le stragi non si fermassero, e che bisognava eliminare un ministro dell’Interno affinché non intervenisse per bloccare questa situazione...». Il capomafia non dice chi gliel’ha raccontato («io rispetto chi mi fa le confidenze, era un detenuto napoletano»), ma sa benissimo che tutti pensano al fondatore di Forza Italia perché quel nome l’ha ripetuto lui stesso, più volte, nei colloqui in carcere con il compagno di detenzione Umberto Adinolfi (campano, guarda caso) intercettati nel 2016. Sono le registrazioni in cui Graviano parlava della «cortesia chiesa da Berlusca» che poi «fece il traditore», e che hanno determinato la riapertura delle indagini per strage sull’ex presidente del Consiglio e su Dell’Utri. Il boss non smentisce quelle intercettazioni, anzi sostiene che sono l’unico elemento di verità riportato nelle carte che l’accusano degli omicidi e dei ferimenti dei carabinieri in Calabria. Il resto, i racconti dei pentiti, lui assicura che sono tutte bugie. A cominciare dalle deposizioni di Gaspare Spatuzza, l’ex mafioso che ha riscritto la storia della strage di via D’Amelio in cui morì Paolo Borsellino e che ha rivelato ciò che gli disse Graviano al bar Doney di via Veneto a Roma, nell’ottobre del ’93: «Ci siamo messi il Paese nelle mani grazie all’accordo con Berlusconi, quello di Canale 5, e con il nostro paesano Dell’Utri. Ma bisogna fare ancora un po’ di morti, e in Calabria hanno già cominciato». Un riferimento, per l’accusa, agli spari di Reggio contro i carabinieri. Oggi il boss dice che lui non è mai stato in via Veneto con Spatuzza, un bugiardo che dichiara il falso come tanti altri collaboratori di giustizia, pur giudicati attendibili. Graviano sa che le dichiarazioni di un capomafia non pentito valgono quello che valgono, ma ha ugualmente deciso di parlare, in video-conferenza dalla prigione in cui è rinchiuso, seduto a un tavolo traboccante di verbali e sentenze da consultare. Per poterle interpretare e spiegare, in cella sta ascoltando le intercettazioni del 2016, ma non ha ancora finito. Per questo l’interrogatorio di Graviano proseguirà il 7 febbraio, quando sarà chiamato a rispondere (o a lanciare altri messaggi) delle parole da lui stesso pronunciate su Berlusconi e i presunti tradimenti.

“Il dispositivo anti-bomba c’era ma a Falcone e Borsellino fu negato”. Giorgio Mannino su Il Riformista il 31 Gennaio 2020. «Dopo quello che era successo, appena 56 giorni prima, sull’asfalto dell’autostrada all’altezza di Capaci, la strage di via D’Amelio doveva essere evitata». Tradotto: lo Stato avrebbe dovuto assumere misure di protezione all’avanguardia per salvare la vita del giudice Paolo Borsellino e degli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il giudice Alfonso Sabella, ex sostituto procuratore a Palermo nel 1993, specializzato nella cattura dei latitanti – insieme alle forze dell’ordine ha acchiappato Leoluca Bagarella, Giovanni ed Enzo Brusca, Pietro Aglieri, Nino Mangano, Vito Vitale, Mico Farinella, Cosimo Lo Nigro, Carlo Greco e decine di altri fra capimandamento, killer stragisti e potenti uomini d’onore – è stato tra i primi magistrati in Italia a utilizzare dispositivi in grado d’inibire le radiofrequenze specialmente per i telefoni cellulari. «Ma che stranamente – aggiunge – pur esistendo da tempo, non furono installati nell’auto di Paolo Borsellino». Nei giorni scorsi Il Riformista ha intervistato l’esperto elettrotecnico Francesco Macrì, il quale ricordando un suo vecchio incontro con l’allora sostituto procuratore Alfonso Sabella, ha rivelato che «le stragi di Capaci e via D’Amelio potevano essere evitate, ma le istituzioni hanno fatto finta di niente». Una tesi supportata da precisi elementi tecnici, frutto di anni di studio, e messa nero su bianco nel libro edito da Alpes Quando il boss non telefona più, scritto dalla giornalista Valentina Roselli.

Dottore Sabella, lei ricorda quell’incontro?

«Ricordo grossomodo l’incontro che dovrebbe essere avvenuto nel 1997. In quel periodo avevo contatti con esperti per trovare e testare soluzioni, in campo tecnologico, utili a contrastare Cosa Nostra. Ad esempio, proprio in quegli anni, ero a stretto contatto con l’esercito perché eravamo riusciti a sapere che Cosa Nostra aveva a disposizione dei missili. Ma non eravamo riusciti a rintracciarli, a capire quale tipo di missili potesse avere. Infatti gli elicotteri, per precauzione, facevano spostamenti laterali. Quindi dovevamo trovare soluzioni tecnologiche sofisticate. Questo per dirle che erano anni in cui mi occupavo di queste cose e incontravo tanti esperti».

Tra queste soluzioni sofisticate, ad esempio, c’era il Jammer. Un dispositivo che inibisce le radiofrequenze dei cellulari e delle bombe.

«Esattamente. Questo tipo di strumentazione esisteva già da tempo».

E come mai non venne usata per evitare le stragi del ‘92?

«Dato che fui tra i primi a sfruttarla, ricordo che rimasi sorpreso del fatto che sull’auto di Paolo Borsellino i dispositivi non fossero stati montati. Lo stesso si potrebbe dire per la strage di Capaci, ma a maggior ragione, dopo la bomba che ha fatto saltare in aria Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, per Borsellino e i suoi agenti doveva andare diversamente».

Cioè?

«Anche se questa strumentazione era in fase sperimentale, si sarebbero dovute impiegare questa misure di protezione al tempo all’avanguardia».

Telefoni e 41 bis. Lei fu tra i primi magistrati ad occuparsene. La procura generale di Palermo sta indagando, già da tempo, sulla presunta disponibilità da parte di Totò Riina di un telefono cellulare nel 1993, quando il boss era detenuto a Rebibbia. Che ne pensa?

«Non me ne stupirei. Io testai gli inibitori di frequenza al dipartimento amministrazione penitenziaria nel 1999 per far smettere di funzionare i cellulari in regime di 41 bis. Al carcere di Ragusa, ad esempio, avevo sequestrato nel 1998 un cellulare in mano al boss catanese Santo Mazzei che ordinava omicidi con delle semplici chiamate. Il problema è ancora molto attuale, i cellulari entrano nelle carceri”».

Come si risolve il problema?

«È chiaro che non possono essere nascosti nelle scarpe, quindi arrivano al detenuto in 41-bis con la complicità di qualcuno all’interno del carcere. Certo, questi inibitori sarebbero importanti ma non possono essere utilizzati ad ampio spettro perché poi interferirebbero con gli altri strumenti di sicurezza del carcere. Vanno utilizzati con parsimonia. Anche se oggi la tecnologia fa passi da gigante e ci permetterà di avere dispositivi migliori».

Falcone poteva essere salvato, strage Capaci fu azione militare. Giorgio Mannino il 25 Gennaio 2020 su Il Riformista. Le stragi di Capaci e via D’Amelio potevano essere evitate? La risposta è secca: «Sì. Lo Stato ha abbandonato i due giudici e gli uomini che li proteggevano». Stavolta, però, non si tratta del solito ritornello consumato nelle troppo spesso retoriche celebrazioni dei due magistrati che col maxi-processo a Cosa Nostra distrussero il mito dell’impunibilità della mafia. Ma di uno studio meticoloso dietro gli attentati che nel 1992 cambiarono la storia italiana. Lo spoletino Francesco Macrì – da oltre vent’anni impegnato nel settore Sicurezza & Intelligence con un nulla osta di segretezza rilasciato dalla presidenza del Consiglio dei Ministri – grazie alla penna della giornalista Valentina Roselli, ha raccontato nel libro Quando il boss non telefona più, edito da Alpes, come un dispositivo tecnologico, il Jammer – oggi presente sulle macchine blindate di alcuni magistrati minacciati dalle organizzazioni criminali – sarebbe potuto essere utilizzato già trent’anni fa per evitare molte delle stragi che hanno insanguinato l’Italia. «Ma le istituzioni – dice Macrì – hanno fatto finta di niente».

Innanzitutto cos’è il Jammer?

«Parliamo di un dispositivo in grado di bloccare la telefonia mobile e le radio frequenze delle bombe. Dunque un elemento tecnologico molto importante per la sicurezza che gli israeliani conoscono alla perfezione da tantissimi anni. Sono loro, infatti, i migliori a utilizzare questi dispositivi».

Lei come ne viene a conoscenza?

«Avevo l’appalto, in qualità di tecnico elettronico, per le manutenzioni elettriche del supercarcere di Spoleto. Alcune aziende, proprio per evitare la diffusione, già allora vasta, dei cellulari nelle celle, avevano proposto di utilizzare dispositivi Jammer. Ma fecero un test che non funzionò. Da lì nasce la mia storia. Colsi al volo questa possibilità commerciale e mi misi a cercare un’azienda internazionale per capirne di più. Mi resi conto, dopo diversi studi, dell’importanza del dispositivo e del suo funzionamento. Così nel 1997 mandai un fax alla procura di Palermo, al tempo retta da Gian Carlo Caselli e dal sostituto Alfonso Sabella».

E che cosa successe?

«A distanza di poche ore fui convocato in procura. Spiegai il funzionamento del Jammer e i due giudici rimasero sconvolti. Sabella mi chiese se questi dispositivi, usati in una certa maniera, avrebbero potuto sventare i due grandi attentati del 1992. Risposi di sì. Sabella chiamò l’allora questore Antonio Manganelli che conosceva il dispositivo tanto da farne una piccola cronistoria. Manganelli raccontò l’arresto di un latitante a Palermo, rivelando che il Jammer sarebbe stato utile nell’occasione, perché avrebbe evitato ai suoi agenti di andare sulla collina e scollegare l’interruttore del ponte Telecom per isolare le sentinelle di guardia al ricercato. Un gesto che gli venne rimproverato dall’allora amministratore delegato della Telecom Vito Gamberale che, in quell’occasione, chiuse un occhio».

Nonostante tutto, però, il Jammer, in quegli anni, continuò a non essere utilizzato: come mai?

«Superficialità, ignoranza, colpevole noncuranza? Non saprei. Ho dedicato parte della mia vita per capire come Falcone e Borsellino siano morti proprio in quelle circostanze. E le domande, a distanza di ventotto anni, aumentano”».

Perché?

«Dopo il fallito attentato all’Addaura, avvenuto il 21 giugno 1989, Falcone concesse un’intervista. Bisogna tenere presente che già il giudice chiese al ministero degli Interni la fornitura di un Jammer perché l’Fbi americano lo aveva informato dell’esistenza di questi dispositivi. Qualcuno, però, negò l’autorizzazione, dicendo che l’apparecchiatura avrebbe nuociuto alla salute. Nell’intervista Falcone parlò della saldatura tra la criminalità organizzata e parti dello Stato. E sapeva che quelle parti dello Stato si dovevano occupare della sua sicurezza. Ho studiato accuratamente la dinamica della strage di Capaci. È stata una vera e propria azione militare che non poteva assolutamente essere stata pensata dalla mafia, specialmente nella confezione e nella movimentazione dell’esplosivo».

Cosa l’ha spinta a raccontare in un libro questa storia?

«Con Valentina Roselli abbiamo lanciato solo un sassolino in uno stagno. Già qualche anno fa ne parlai con Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo, che ne rimase sconvolto. Lui ne fece un grande evento mediatico, sollecitando l’allora ministro degli Interni, Angelino Alfano, affinché s’impegnasse per equipaggiare del dispositivo l’auto dove viaggiava il giudice Nino Di Matteo. E, dopo tanta fatica, ce l’ha fatta. Resta il rammarico, grande, che anche altri uomini minacciati dalle organizzazioni criminali si sarebbero potuti salvare. Questa storia dev’essere raccontata».

QUANDO IL BOSS NON TELEFONA PIÙ. Di Valentina Roselli su alpesitalia.it. Questa è la storia di Francesco Macrì e del suo grande impegno perché il “Jammer” fosse adottato dalle nostre istituzioni. “Jammer” curiosa parola straniera che fa pensare ad uno sport per giovani e che invece connota un dispositivo che disturba le frequenze GSM, radio e GPS. Il jammer può impedire l’esplosione di un ordigno e le comunicazioni telefoniche di una specifica area. Wikipedia ci avvisa che non vi sono in merito fonti esaustive e neutrali sull’argomento.  Questo libro vuole essere invece la prima fonte portavoce di alcune certezze. 

La prima nota a tutti: come ogni oggetto anche questo non è buono, né cattivo, dipende da chi lo adopera e come. 

La seconda: la vita di Giovani Falcone e Paolo Borsellino e dei loro agenti si sarebbero potute salvare. 

La terza: i boss, una volta detenuti non chiamerebbero più per impartire ordini dalla cella. Toto Riina non avrebbe potuto programmare le stragi a Roma e Milano dalla sua cella, come accadde nel 1993. La prigione non sarebbe più la succursale degli affari della criminalità organizzata. Il carcere potrebbe debellare quel cancro incurabile che è diventata la criminalità organizzata nel mondo. 

Queste tre convinzioni sono alla base del racconto di questa vicenda con la speranza che i morti del passato salvino gli eroi del presente e che la parte nera e sporca di ogni società abbia vita dura.

INCONTRO CON FRANCESCO MACRI', PROTAGONISTA DEL LIBRO DI VALENTINA ROSELLI -QUANDO IL BOSS NON TELEFONA PIU'. Valentina Roselli 22 Gennaio 2020 su cavalierenews.it. Dobbiamo dire che l'incontro ci ha confermato pienamente il grande interesse suscitato nello scrivere il precedente articolo, ma soprattutto questo alone di mistero che circonda la figura di F.M. quando, ci siamo resi conto di essere di fronte ad un esperto di criminalità organizzata con importanti competenze di natura tecnico/militare per come ci ha illustrato la dinamica degli attentati a Borsellino e soprattutto a Falcone: dettagli precisi, circostanze, e soprattutto conoscenza tecnica, riguardo ai due attentati dove difficilmente abbiamo mai riscontrato in qualsiasi organo di stampa in tutti questi anni informazioni così precise e dettagliate. Senza sottovalutare poi, anzi SOPRATUTTO, la disastrosa situazione carceraria italiana, nella quale ( abbiamo poi fatto riscontro su internet) continua a dilagare la drammatica problematica di cui poco si parla ma riteniamo allarmante, in cui malavitosi soprattutto mafiosi continuano tramite telefoni cellulari a trasmettere ordini all'esterno degli Istituti.

Valentina Roselli, laureata in Scienze Politiche, giornalista, ha iniziato come cronista per importanti testate nazionali e locali, ha collaborato con alcuni periodici di attualità occupandosi di politica ed è stata direttore editoriale del quotidiano online "Notizie Nazionali". Negli ultimi anni ha lavorato come ghostwriter e ha collaborato a inchieste giornalistiche su temi di attualità per radio e tv online. Nella prefazione del libro scrive: «Come giornalista non ho mai saputo cogliere la notizia più succulenta, capace di attirare l’attenzione del pubblico. Quando l’ho fatto ho agito controvoglia perché ho sempre prediletto le notizie che piacevano a me. Non ho mai voluto seguire lo schema classico e la scrittura del giornalista di razza, che per altro stimo molto. Le strade già tracciate su binari già decisi da altri per arrivare dritti alla meta non mi sono mai piaciute e ho sempre preferito le fantasiose mulattiere. Una domanda mi ha sempre accompagnato nel corso del mio lavoro: “Sono le persone che vogliono leggere certe notizie o siamo noi giornalisti in base a certe percezioni a dirigere l’interesse della massa?” Questo quesito lo si più assimilare alla storica questione: “È nato prima l’uovo o la gallina?” e non si ha risposta. Così quando Francesco Macrì mi ha chiesto se volevo scrivere un articolo sulla sua notizia, ho preferito scriverci un libro in tutta libertà, perché non sapevo se il caporedattore di turno di un quotidiano nazionale, avrebbe confermato gli elementi perché questa storia diventasse un articolo. Molto probabilmente sarei stata liquidata con un: “Già sentito” oppure “Mah non abbiamo abbastanza riferimenti”, o ancora “Questo Macrì non mi convince” in base a quali criteri non l’ho mai assimilato fino in fondo. A me invece Francesco Macrì convinceva per tanti motivi, per la storia che proponeva, per riscontri e verifiche fatte, per la sicurezza con la quale esponeva il suo vissuto. Non ho dovuto chiedere conferme a nessuno ed ero più che convinta che il suo racconto fosse una storia da far conoscere, così è nato questo libro. Sinceramente non so se questa storia vi interesserà o se per voi era importante che la scrivessi, se ho messo a fuoco una notizia che susciterà una vasta eco, davvero non lo so. So con sicurezza che era importante per me far sapere che in Italia ci poteva e ci potrebbe essere un’arma utile nella lotta alla criminalità. Un deterrente contro le esplosioni e le comunicazioni di questa gente pericolosa e tanto basta. Spero che basti anche a voi per giudicare Quando il boss non telefona più degno di interesse». 

Ci rivolgiamo ,quindi, direttamente al Sig.re Francesco chiedendogli:

«Quale è questa arma che ,secondo lei, avrebbe potuto salvare le vite di Falcone e Borsellino?

L’arma, come lei mi chiede non è affatto il termine esatto, bensì si chiama semplicemente dispositivo (device) jammer.

Nel libro, si parla del dispositivo “Jammer” che se fosse stato adottato dal ministero dell’interno e fosse stato utilizzato dalle scorte dei due magistrati, le stragi di Capaci e Via D ‘Amelio sarebbero state evitate: potrebbe essere più specifico?

«Esattamente, ribadisco e confermo che se all’interno delle autovetture blindate dei due magistrati fossero stati installati i dispositivi, escludo, dopo aver condotto uno studio molto accurato e professionale sulla dinamica e sui sistemi esplosivi usati nei due attentati, che appunto i “dispositivi” avrebbero svolto il proprio dovere, ossia che interrompendo le comunicazioni sia radio che della telefonia mobile gli ordigni non sarebbero esplosi; o meglio non sarebbero esplosi sicurissimamente ad una distanza cosi ravvicinata per uccidere i due magistrati e gli uomini della scorta..»

Il “Jammer”, secondo lei e come le hanno risposto ufficialmente, è dannoso per la salute umana?

«Ma guardi, la ringrazio per questa domanda perchè è proprio da qui che nasce questa incredibile storia, e nasce appunto la mia volontà e forse bisogno.. di raccontare alla “coraggiosa” e professionale giornalista Valentina Roselli questa triste vicenda che da molti e troppi anni mi trascino sulle spalle. rispondo alla sua domanda: intanto sul libro troverete tutti i dettagli tecnici ingegneristici riguardo ai possibili danni che “potrebbero” causare le onde elettromagnetiche emesse dai sistemi jammer; e di conseguenza senza rientrare troppo nella parte “tecnologica” del libro “ quando il boss non telefona più”, mi limito ad esprimere una semplice considerazione: a cavallo degli anni 60-70, Scotland Yard a protezione della regina, già usava sistemi jammer, e questo è il primo esempio; se vogliamo tornare addirittura più’ indietro, le dico che durante lo sbarco in Normandia, le navi americane sparavano sulle prime linee tedesche tramite potentissimi trasmettitori jammer, onde elettromagnetiche al fine che gli avamposti non potessero comunicare e trasmettere alle retrovie naziste che lo sbarco era iniziato! aggiungo e termino, tanto per rendere appunto un idea, che furono proprio gli israeliani ( con cui ho avuto ottimi rapporti) che mi informarono e addirittura mi domandarono il perchè in Italia si continuava a morire di esplosivi comandati a distanza ( “ied” termine inglese) escludendo del tutto i dispositivi jammer di cui loro ne facevano “necessariamente” uso da molti anni!»

Perché, secondo lei, il ministero della difesa ha adottato per le forze armate il “Jammer”, mentre il ministero dell’interno non ha ancora preso una decisione al riguardo?

«Francamente la scelta delle forze armate impegnate nei teatri di guerra riguardo questi equipaggiamenti è stata più che obbligata; sia per il rischio costante di imbattersi con questi ordigni improvvisati ( che ci sono costate molte vittime) sia perchè ci siamo resi conto sul campo, che gli eserciti di altre nazioni ne facevano già un uso storico. riguardo alla decisione da parte del ministero degli interni ( e non solo) di non adottare simile tecnologia sarà il caso di chiederlo direttamente a loro, anche se il libro illustra una diciamo attendibile opinione...»

Nel Libro si parla dell’uso dei cellulari in carcere da parte dei Boss(Totò Riina) della Mafia sottoposti al regime del 41 bis: come è possibile, secondo lei, tutto ciò? Ce ne vuole parlare?

«Ripeto, il libro sarà sufficientemente utile a percepire da parte dell’ opinione pubblica se in tutto questo ci sono state delle responsabilità intenzionali o semplicemente di scarsa cultura in materia, cose che dal mio punto di vista non sono entrambi tollerabili, soprattutto se,   queste scelte determinano poi la vita o la morte delle persone. Certamente è a dir poco scandaloso che sistematicamente si continuano a ritrovare all’interno dei ns istituti penitenziari telefonini cellulari in mano alla criminalità organizzata. e anche su questo il libro testimonierà il mio “calvario” per non essere riuscito a risolvere questo triste problema...»

In conclusione ci parli un po’ di lei e ci racconti come è nata l’idea di collaborare, se così possiamo dire, con la giornalista Roselli per la nascita di questo libro?

«Potrei e dovrei rispondere (professionalmente parlando) con un semplice e decoroso “no comment”; lascio alla fantasia dei lettori dare una connotazione alla mia figura, anche per il semplice motivo che parlare del mio storico sarebbe davvero un impresa non facile, soprattutto per una questione di “spazi” concessi in un articolo di stampa; la decisione di collaborare con la giornalista Valentina Roselli infine, è maturata come ho già citato, per il semplice motivo di aver colto in lei due semplici elementi per me fondamentali: coraggio e onestà! Grazie».

Borsellino e Di Pietro erano nel mirino dei boss. Damiano Aliprandi il 24 gennaio 2020 su Il Dubbio. Gaetano Fidanzati, uomo di Riina arrivò in Italia per preparare gli attentati ai due magistrari. «In data 15 luglio 1992, il sottufficiale dell’Arma riferiva di aver appreso da fonte confidenziale notizie attinenti alla presunta programmazione – ad opera di note “famiglie” della criminalità organizzata siciliana – di attentati all’incolumità personale dei giudici Antonio Di Pietro e Paolo Borsellino», così si legge nell’informativa redatta dai Ros di Milano datata il 16 luglio del ‘ 92 e trasmessa alla procura di Milano e a quella di Palermo. Il destino vuole che tale informativa – inviata per posta ordinaria – è però giunta a Palermo il 23 luglio, quando ormai Borsellino è stato quattro giorni prima ucciso dal tritolo a via D’Amelio. Questo particolare era stato trattato anche durante il processo di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia. Ma oggi, dopo la deposizione di Di Pietro durante il processo di secondo grado presso la Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta dal giudice Angelo Pellino, e dopo l’intervista che l’ex pm di Mani pulite ha rilasciato all’Espresso, tale informativa ha un sapore diverso e che potrebbe essere collegata proprio alla questione degli appalti. Di Pietro, riferendosi alla vicenda tangentopoli, ha spiegato che si è trattata solamente di un appendice visto che voleva giungere alla questione di mafia-appalti, aperta già dagli ex Ros sotto la spinta di Giovanni Falcone. Un indizio, in realtà, proviene proprio dall’informativa stessa. In particolare, la fonte che ha – è il caso di dire – “predetto” l’imminente strage ben 4 giorni prima, riferisce che “l’arrivo del boss mafioso Gaetano Fidanzati in Italia ( proveniente dal luogo di detenzione nel Sudamerica) sarebbe legato proprio alla necessità di decidere l’attuazione degli attentati contro Borsellino e Di Pietro”. D’altronde non è un caso che il suo nome emerge anche nelle intercettazioni ambientali fatte nei confronti di Totò Riina quando era recluso al 41 bis. Lo stesso ex “capo dei capi” stesso, riferendosi a Gaetano Fidanzati, disse: «Era uno che collaborava… certe volte… non si ci metteva ma era sempre a disposizione! Un bravo ragazzo Gaetano!», e poi ancora: «Mi faceva l’autista». Quindi emerge chiaramente che Gaetano Fidanzati ( morto nel 2013) era una persona molto presa inconsiderazione da Riina e sempre a sua disposizione. Ma quali sono i fattori scatenanti che hanno messo a rischio anche Antonio Di Pietro? Perché era nel mirino della mafia come Borsellino? L’ex pm di Mani pulite è stato chiaro quando è stato ascoltato come teste in tribunale. «Eravamo agli inizi di Mani pulite – ha spiegato Di Pietro -, Falcone fu il mio maestro nel campo delle rogatorie e mi disse di controllare gli appalti in Sicilia. Cioè l’indicazione era capire se imprese del Nord si fossero costituite in associazioni temporanee di imprese con imprenditori siciliani per l’aggiudicazione di lavori nell’isola». Poi ha aggiunto: «Di appalti e della necessità di discutere insieme dell’argomento parlai anche con Borsellino. Decidemmo di fare il punto insieme, ma non ci fu il tempo di farlo». Sembrerebbe che un riscontro ci sia. E proviene proprio da quell’informativa dei Ros di Milano dove si preannunciava l’imminente attentato. Si legge che la partecipazione attiva da parte di Fidanzati nel progettare l’attentato, sarebbe giustificata dal fatto che si sarebbe assicurato «molteplici appalti dell’hinterland milanese e quindi il lavoro del dottor Di Pietro sarebbe d’ostacolo nei loro affari». Dopo l’attentato di via D’Amelio, l’ex giudice Di Pietro preferii andarsene per un mese con sua moglie fuori dall’Italia, in Costa Rica, per proteggersi. In quel frangente le autorità di polizia gli fornirono i documenti di copertura per proteggerlo meglio. Tutto fa ricondurre alla questione mafia- appalti. Se è vero, come ha testimoniato Di Pietro, che Borsellino gli disse che avrebbero dovuto fare presto e in qualche modo unire le due inchieste, ciò sta a significare che i soggetti mafiosi avevano un preciso interesse a neutralizzare le indagini eliminando fisicamente i magistrati. In realtà Antonio Di Pietro non ha mai detto nulla di nuovo. Nel verbale del 6.11.2001, già sentito in dibattimento a suo tempo, ha affermato: «Nella primavera 1992, in coincidenza con l’apertura delle indagini c. d. “Mani pulite” a livello non più solo regionale ma nazionale – all’epoca non conoscevo come funzionasse il sistema delle tangenti in Sicilia io incontrai più volte Paolo Borsellino il quale mi disse che dovevamo assolutamente incontrarci, anche in occasione del funerale di Giovanni Falcone. Era convinto che vi fosse un sistema unitario, a livello nazionale, di spartizione degli appalti e che questo fosse la chiave interpretativa del sistema delle tangenti» . Ma ritorniamo di nuovo a Gaetano Fidanzati. Il suo nome compare anche per quanto riguarda la questione del fallito attentato all’Addaura nei confronti di Giovanni Falcone, avvenuto il 20 giugno del 1989. Nella sentenza d’appello relativo al fallito attentato emerge che il pentito Vito Lo Forte aveva appreso proprio dalla famiglia Fidanzati che l’obiettivo era volto a colpire i magistrati svizzeri che erano venuti in Sicilia per indagare sul riciclaggio. Sì, perché, ricordiamo, che quel giorno Falcone era assieme alla giudice svizzera Carla Del Ponte. Ora viene da chiedersi se questo sistema unitario degli appalti fosse in rapporto con il sistema del riciclaggio che Falcone aveva intravisto e che voleva approfondire. Si tratta di una tematica mai affrontata in nessuna inchiesta giudiziaria e che forse meriterebbe di essere sviluppata, partendo appunto dall’ipotesi che i conti svizzeri fossero i terminali tanto delle operazioni di costituzione di fondi neri da parte delle imprese per destinarle a tangenti ai politici, quanto di operazioni di riciclaggio della criminalità organizzata, e che Falcone avesse iniziato a interessarsi di tutto ciò. La mafia, come ha detto più volte Falcone, è territoriale. Non esiste un terzo livello, ovvero un potere che la eterodirige, ma è lei stessa che si insedia anche nei gangli dell’amministrazione politica ed enti pubblici. Gli appalti erano il meccanismo principale tramite il quale, nella fase di modernizzazione della mafia, essa riaffermava il suo potere di gestione del proletariato locale ai fini di una stabilità politico- elettorale sempre più necessaria alla classe di governo di quel periodo. Contemporaneamente, con gli appalti la mafia annoda legami stabili con la classe politica. Quindi gli appalti servivano non solo per quel che rendono dal punto di vista del guadagno, ma soprattutto per non perdere il controllo del territorio e per tenere in osservazione la classe politica. La questione diventa più complessa e inquietante se le imprese da loro manovrate erano negli anni 80 e 90 addirittura quotate in borsa e quindi di ambito nazionale. Significative al riguardo le indicazioni del pentito Angelo Siino che aveva dichiarato in tribunale: «Debbo dire che una volta Falcone fece un preciso riferimento a livello di giornale quando la Ferruzzi fu quotata in borsa, disse che… l’indomani usci un articolo sul Giornale di Sicilia che aveva ragionevoli motivi da pensare che da un certo momento la mafia era stata quotata in borsa. Lui ben sapeva, secondo me, che questo gruppo appoggiava Gardini». Il gruppo Ferruzzi era potente, tanto che lo citò anche Craxi in tribunale. L’ex statista dopo aver spiegato che la politica non contava nulla e per sopravvivere prendeva i finanziamenti dalle imprese le quali dettavano l’agenda, aggiunse che il gruppo Ferruzzi finanziava diversi partiti. Il gruppo imprenditoriale era comparso anche nel dossier mafia appalti redatto dagli ex ros dove secondo la ricostruzione investigativa- si scrive nero su bianco che è stato attratto nell’alveo delle relazioni con “cosa nostra”. Forse la storia delle stragi mafiose è da riscrivere e tutto era volto a fermare le indagini sul monopolio mafioso degli appalti. «Esiste una centrale unica degli appalti», disse Falcone in un importante convegno. «E tutto questo verrà fuori», aggiunse.

Mafia-appalti, Totò Riina voleva far uccidere Borsellino, prima ancora di Falcone. Damiano Aliprandi il 28 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Paolo Borsellino, quando era alla Procura di Marsala, chiese copia del dossier dei Ros che era stato appena depositato a Palermo su richiesta di Falcone. La prima parola chiave nelle cinquemila pagine di motivazioni della sentenza di primo grado sul processo trattativa Stato- mafia è “accelerazione”. Il concetto che la sentenza intende esprimere è che il contatto avuto dagli ufficiali ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino, avrebbe accelerato la strage di via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Non ci sono prove oggettive, ma solo deduzioni logico fattuali. Nelle motivazioni della sentenza, in linea con la tesi della procura, si fa cenno a un passaggio di ciò che ha detto Totò Riina, intercettato nel 2013, al suo compagno durante l’ora d’aria nel carcere milanese di Opera. «Non era studiato da mesi, ma studiato alla giornata!», ha detto Riina al detenuto Alberto Lorusso riferendosi all’attentato. Elemento che rafforzerebbe, appunto, la tesi sull’accelerazione. Ma in realtà il motivo lo ha spiegato sempre Riina. Cosa nostra conosceva gli spostamenti di Paolo Borsellino perché aveva messo sotto controllo il telefono del giudice e della madre. Per questo il 19 luglio 1992 fu facile per boss e picciotti pianificare e mettere in atto la mattanza di via D’Amelio, sotto la casa della madre di Borsellino. «Sapevamo che doveva andare là perché lui gli ha detto: “domani mamma vengo”», ha raccontato sempre l’ex capo dei capi. Ma perché quell’attentato si è dovuto fare in giornata? Totò Riina ha spiegato che la sorella di Borsellino si accorse di qualcuno che stava mettendo mano alla centralina telefonica del palazzo della madre. Quindi ecco spiegato il motivo: per paura che la sorella si insospettisse e quindi potesse far fallire l’attentato, Riina dette l’ordine di attuarlo nell’immediato, quindi in giornata. Ma la tesi dell’accelerazione dell’attentato di via D’Amelio a causa della presunta trattativa Stato- mafia dovrebbe crollare definitivamente dal momentoche si era da tempo venuti a conoscenza di un fatto, per nulla riportato in maniera adeguata all’opinione pubblica. Prima ancora di uccidere Giovanni Falcone ( quindi molto prima che si avviasse la presunta trattativa), Cosa nostra aveva progettato l’eliminazione eclatante di Paolo Borsellino. Un progetto fallito per il rifiuto di alcuni componenti del clan marsalese. Sì, perché, per ordine di Riina, Borsellino doveva essere ucciso con un’autobomba a Marsala tra il ‘ 91 e i primi del ‘ 92. Lo stesso Riina, come si evince dalle trascrizioni delle conversazioni intercettate quando era al 41 bis, ha detto riferendosi a Borsellino: «Eh … sì, sì. Minchia. Ma poi era il numero, non so il numero due. secondo… di Magistrato era un potentoso Magistrato … come Falcone, perché erano amici insieme… e dovevano… avevano fatto carriera insieme, hanno fatto tutto insieme. Che era Procuratore… a… a … là a Trapani, a Marsala era Procuratore di Marsala… lui. Ha fatto diversi anni là a Marsala. Minchia, l’ho cercato ( in gergo mafioso “cercare” vuol dire uccidere, ndr) una vita a Marsala… mai agganciato. Mai. Mai. Minchia! L’ho cercato, lo cercavo… Ma picciotti sbrigatevi, vedete…». Ciò che ha detto Riina confermano le rivelazioni dei pentiti Antonino Patti e Carlo Zichittella fatte nel 1996 che hanno consentito all’allora procura distrettuale di Palermo di emettere ottanta ordini di custodia cautelare. Antonino Patti, all’epoca 37enne, che si è autoaccusato di quaranta omicidi, ha raccontato che «a D’ Amico e Craparotta era stato chiesto se volessero cooperare all’omicidio di Borsellino, con modalità eclatanti, in particolare con un’autobomba. Craparotta e D’ Amico fecero sapere che non volevano organizzare un attentato “di tale gravità” a Marsala. Da quel giorno furono protetti da due guardiaspalle, ma furono fatti ugualmente sparire». Versione confermata anche dal pentito Carlo Zichitella. Quest’ultimo, a distanza di decenni, non ha cambiato versione. A dicembre nel 2018 è stato sentito nel processo in corso davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta contro il super latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere stato tra i mandanti delle stragi di Capaci e di via d’Amelio. Alle domande poste dal procuratore nisseno Gabriele Paci, il pentito ha ribadito che Borsellino doveva essere ucciso “con modalità eclatanti” ma i capi Francesco D’Amico e Francesco Craparotta, interpellati dalla famiglia di Mazara del Vallo, si rifiutarono e per questo furono uccisi. Il motivo del rifiuto a Totò Riina venne giustificato dal clamore che avrebbe generato a Marsala un omicidio così eclatante, tanto da provocare la presenza massiccia di forze di polizia sul territorio.

Rispondendo sempre alla domanda del procuratore Paci su cosa intendesse per "modalità eclatanti", il pentito Zichitella ha aggiunto: «Non c’era un posto giusto dove si poteva fare. Nel tragitto che Borsellino faceva ogni giorno sarebbero morte anche altre decine e decine di persone e allora i marsalesi non ci stavano a questa storia qua e non hanno accettato. Loro dicevano che erano tranquilli lì a Marsala e chiesero di trovare un altro posto con meno clamore. Non ricordo se Borsellino all’epoca dormiva in caserma. Nel tragitto che faceva ogni giorno comunque era impossibile mettere una bomba». Quindi, secondo i piani, Borsellino sarebbe dovuto morire già quando era a Marsala e quindi prima di Falcone. Perché? Se da una parte c’è la tesi della presunta trattativa ( ma che sarebbe avvenuta dopo la morte di Falcone) come movente della strage, dall’altra c’è una sentenza definitiva dove i giudici hanno scritto nero su bianco che la concausa è da ritrovarsi nel filone mafia appalti. In esclusiva Il Dubbio può rivelare che Paolo Borsellino, quando era ancora alla procura di Marsala, già chiese copia del dossier mafia- appalti che era appena stato depositato ( il 20 febbraio 1991 su spinta di Falcone) nella cassaforte della procura di Palermo. In un verbale di assunzione di informazione, si evince che nel 1998, innanzi all’allora sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, Biagio Insacco, il capitano Raffaele Del Sole ha spiegato che dal 1987 al 1992 ha guidato la compagnia di Marzara del Vallo. Ha raccontato che su richiesta di Borsellino, ha accompagnato presso la procura di Marsala l’allora collega Giuseppe De Donno in un periodo poco successivo al deposito del dossier mafia- appalti alla procura di Palermo. «Ricordo che nel corso dell’incontro – ha spiegato Del Sole – il procuratore Borsellino chiarì al De Donno i motivi per cui chiedeva copia del rapporto riconducendoli sostanzialmente alla pendenza di indagini che la procura di Marsala stava effettuando su alcuni appalti in Pantelleria. Fatti che erano stati ritenuti connessi alle indagini espletate dai Ros». Sempre il capitano Del Sole ha aggiunto che nel corso di tale incontro c’era anche il maresciallo Carmelo Canale, il quale avvalorò quanto riferito da Borsellino definendo con espressione metaforica il dossier mafia- appalti come il “cacio sui maccheroni”. È probabile che il primo tentativo di attentato eclatante, poi fallito per via di una diserzione, sia da collegarsi proprio all’evidente interessamento di mafia- appalti? Di certo si tratta di un ulteriore tassello che smentisce categoricamente il passaggio delle motivazioni della sentenza di primo grado sulla trattativa, dove si scarta l’ipotesi mafia- appalti come movente, quando si scrive che Borsellino non avrebbe avuto nemmeno il tempo di leggere il dossier.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il grande mistero del covo.

Il grande mistero del covo. Attilio Bolzoni, Silvia Bortoletto e Francesco Trotta su La Repubblica il 6 agosto 2020. E' il grande mistero che segue alle stragi del 1992: la cattura "telecomandata” di Totò Riina. E' la storia del suo covo abbandonato dai carabinieri e ripulito dai mafiosi. E' il segreto sulla scomparsa del suo tesoro, un archivio zeppo di nomi finito in chissà quali mani. Carte che sono ancora oggi una formidabile arma di ricatto. La mattina del 15 gennaio 1993 il capitano “Ultimo” con la sua squadra arresta il latitante più ricercato d’Italia, il Capo dei Capi, sparito nel nulla da 24 anni e sette mesi. L'Italia è con il fiato sospeso, qualcuno azzarda che sia la fine di Cosa Nostra, in realtà qualcun altro ha messo nel sacco Totò Riina dopo avere usato il suo delirio di onnipotenza per l'attacco allo Stato. Ma come sono arrivati a lui i carabinieri del Ros (Reparto Operativo Speciale) del colonnello Mario Mori? Quali tracce hanno seguito? Chi li ha portati a stringere il cerchio su quello che era considerato il più sanguinario e potente capomafia di tutti i tempi? Chi ha venduto al Ros il Capo dei Capi? E perchè? Totò Riina viene preso intorno alle 8 del mattino alla rotonda di viale Lazio dopo che aveva lasciato la sua ultima dimora in via Bernini, zona occidentale di Palermo, un gruppo di villette di proprietà dei costruttori mafiosi Sansone. La versione ufficiale del Ros dei carabineri sulla cattura presenta subito alcuni "buchi neri” ma il caso esplode quando si scopre che Ultimo e i suoi uomini abbandonano il controllo della villa di via Bernini - nonostante assicurazioni sulla sorveglianza - poche ore dopo la cattura di Totò Riina. Nessuno la perquisisce per diciannove giorni. Quando il procuratore capo della repubblica Gian Carlo Caselli entra lì dentro il 2 febbraio è vuota, con i sanitari dei bagni divelti, tutti i mobili accatastati in una stanza. I pentiti di Cosa Nostra racconteranno della "pulizia” del covo eseguito dai picciotti grazie al "disguido” dei carabinieri, l'abbandono improvviso del covo senza avvisare i procuratori. La magistratura palermitana - con enorme ritardo - aprirà quattro anni dopo un'inchiesta sul covo svuotato e sugli ordini impartiti quel giorno dal vicecomandante del Ros Mario Mori e dal capitano della prima sezione del Ros Sergio De Caprio, conosciuto col soprannome di capitano “Ultimo”. Vengono entrambi accusati del reato di favoreggiamento aggravato dalla finalità di agevolare l’associazione mafiosa nota come Cosa Nostra. Tutti e due verranno assolti «perché il fatto non costituisce reato». Ma il mistero del covo resta ed è entrato anche nel processo (come la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso e la mancata cattura di Benedetto Santapaola a Barcellona Pozzo di Gozzo) sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Per i prossimi trenta giorni pubblicheremo sul nostro Blog stralci della sentenza 514/06 dei giudici della terza sezione penale del Tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini. Una verità giudiziaria che però ha fatto emergere tante ombre nonostante le assoluzioni. Ombre che si allungano fino ad oggi nonostante le fiction televisive dedicate alla cattura di Totò Riina e certe pubblicazioni che sembrano favolette per bambini.

Gli articoli li trovate anche sulla pagina Instagram dell’Associazione Cosa Vostra. Hanno collaborato: Elisa Boni, Francesca Carbotti, Sara Cela, Rosa Cinelli, Ludovica Marcelli, Marta Miotto, Enza Marrazzo, Sofia Matera, Asia Rubbo.

La ribellione di Balduccio. La Repubblica il 7 agosto 2020. Nello stesso periodo di tempo, il gruppo 2 del Nucleo Operativo aveva avviato, su segnalazione proveniente dalle stazioni CC di Monreale e di S. Giuseppe Iato, un proprio filone investigativo con lo scopo di ricercare sul territorio nazionale Baldassare Di Maggio. Costui era un soggetto all’epoca incensurato e, sostanzialmente, sconosciuto alle forze dell’ordine, ma veniva indicato da una fonte confidenziale come persona di un certo rilievo per l’organizzazione criminale nel mandamento di S. Giuseppe Iato, che aveva svolto le funzioni di autista per Salvatore Riina e che si era dovuto allontanare dal territorio siciliano, andando a riparare nel nord Italia, a causa di un forte contrasto maturato all’interno del sodalizio criminale con Giovanni Brusca, tale da avergli fatto temere per la sua stessa incolumità. Si veniva, pertanto, a profilare la potenziale importanza di questo personaggio, che in quanto al centro di un feroce dissidio interno alla compagine mafiosa, tale da costringerlo ad una precipitosa fuga in un territorio a sé totalmente estraneo, avrebbe potuto rappresentare una preziosa occasione per futuri spunti investigativi, anche e soprattutto nella direzione della cattura dello stesso Brusca. In effetti, il Di Maggio - come ha dichiarato in dibattimento, concordemente agli altri collaboratori di giustizia, tra i quali La Rosa Giuseppe, Brusca Giovanni, Di Matteo Mario Santo, Camarda Michelangelo, Giuffré Antonino, tutti escussi nel presente procedimento - aveva ricoperto negli anni 1985-1989, proprio su investitura del Riina, il ruolo di capo mandamento reggente di S. Giuseppe Iato al posto di Bernardo Brusca, che era stato raggiunto da provvedimenti giudiziari restrittivi della libertà personale. Negli ultimi anni ’80, tuttavia, non godeva più della completa fiducia di Salvatore Riina e del noto latitante Bernardo Provenzano, a causa di contrasti legati alla gestione degli appalti in Sicilia che allora era affidata ad Angelo Siino, uomo assai vicino allo stesso Di Maggio, il cui ruolo cominciava però a divenire inviso ai due capomafia, che ne volevano ridimensionare il potere e l’ambito decisionale. Giovanni Brusca, d’altra parte, ormai tornato dal confino cui era stato costretto per vicende giudiziarie, aspirava, in quanto figlio di Bernardo, ad assumere il comando del mandamento, ragione per cui intraprese con il Di Maggio, sin dal 1990, una feroce lotta per la conquista del potere. Questi fattori determinarono (cfr. deposizioni rese dai collaboratori di giustizia già citati) un progressivo ed irreversibile deterioramento dei rapporti tra l’organizzazione criminale ed il Di Maggio, tanto che quest’ultimo nel 1990/1991 decise di allontanarsi dalla Sicilia ed intraprese una serie di viaggi all’estero, continuando a mantenere, tuttavia, i contatti con il territorio, soprattutto a mezzo dell’amico Giuseppe La Rosa, che spesso incontrava in Toscana, presso dei propri parenti che ivi risiedevano. A marzo dell’anno 1992 fu mandato a chiamare dal Riina e partecipò ad una riunione con Raffaele Ganci e Giovanni Brusca, che si svolse vicino la clinica Villa Serena a Palermo, avente ad oggetto la risoluzione della questione relativa ai contrasti sorti tra i due esponenti mafiosi; in tale occasione, il Riina decise che il mandamento fosse governato dal Brusca, rispetto al quale il Di Maggio sarebbe dovuto restare in posizione subordinata. Quest’ultimo realizzò di non avere più spazi e, dopo un tentativo di ottenere il permesso di soggiorno in Canada, decise di trasferirsi nel nord Italia, a Borgomanero, dove già risiedeva un suo vecchio conoscente di nome Salvatore Mangano. A fine agosto 1992 Giuseppe La Rosa, nel corso di uno dei loro incontri in Toscana, gli confermò quanto già aveva intuito nella riunione di Palermo, ovvero che l’associazione aveva deciso di sopprimerlo, prendendo a pretesto la circostanza che avesse intrapreso una relazione sentimentale non consentita, in violazione dei suoi obblighi di “uomo d’onore”. Tuttavia “Balduccio”, come veniva soprannominato dai suoi sodali, non si diede per vinto ed anzi, ha riferito il La Rosa, proprio perché ormai non vedeva altra via d’uscita maturò l’intenzione di eliminare Giovanni Brusca, proponendosi, a tal fine, di ottenere l’autorizzazione del Riina, ovvero, in caso contrario, di sbarazzarsi anche del boss corleonese, sfruttando i dissapori che nel frattempo erano sorti tra quest’ultimo e parte dell’organizzazione, che si riconosceva nel Provenzano, la quale aveva mal tollerato la strategia dell’attacco frontale allo Stato che il Riina aveva deciso di intraprendere, da molti ritenuta la causa dell’inasprimento del trattamento carcerario per gli affiliati ed un fattore di rischio per la continuità e la produttività degli affari del sodalizio.

Nel frattempo, il fronte delle iniziative portate avanti dall’Arma contro “cosa nostra” registrava, nel medesimo arco temporale, anche un altro intervento.

Gli incontri con don Vito. La Repubblica l'8 agosto 2020. A Roma, all’indomani della strage di Capaci, il cap. Giuseppe De Donno aveva, difatti, chiesto a Massimo Ciancimino, che aveva conosciuto in occasione delle inchieste da lui stesso avviate sul padre Vito Calogero Ciancimino, di procurargli un incontro con quest’ultimo, al fine di avviare un colloquio che potesse fornire utili informazioni per le indagini in corso, nonché per la cattura dei latitanti Riina e Provenzano, e che potesse anche offrire una qualificata “chiave di lettura” sulle dinamiche interne a “cosa nostra” e sugli obiettivi che l’organizzazione intendeva perseguire con l’attacco allo Stato. Questi tentativi di approccio furono in un primo tempo respinti dal Ciancimino, che poi invece, a fine luglio, dopo la strage di via D’Amelio, mutò opinione, acconsentendo ad incontrare il cap. De Donno. Per ricostruire questa complessa e per molti versi, “prima facie”, anomala vicenda è necessario richiamare il contesto nell’ambito del quale essa maturò: è evidente che gli assassinii di Salvo Lima (il 12 marzo), dei giudici Falcone (il 23 maggio) e Borsellino (il 19 luglio) ponevano lo Stato italiano, nelle persone dei rappresentanti delle sue istituzioni e dei responsabili del mantenimento della sicurezza e dell’ordine pubblico, di fronte alla gravissima emergenza costituita dalla volontà stragista inequivocabilmente manifestata da “cosa nostra”, e dunque di fronte alla necessità di reperire, con ogni iniziativa utile, informazioni od elementi capaci di decifrare ed auspicabilmente neutralizzare la strategia dell’organizzazione. Vito Ciancimino, per il ruolo di “dominus” degli appalti che aveva rivestito ed all’epoca ancora in parte rivestiva, come accertato dallo stesso cap. De Donno titolare delle investigazioni sfociate nel cd. rapporto “mafia-appalti”, costituiva senz’altro una cerniera con l’organizzazione e poteva fungere da canale privilegiato di collegamento con il gotha mafioso, sia per i sicuri contatti in suo possesso, che lo collocavano vicino al clan corleonese ma anche al Provenzano, sia perché, in attesa degli esiti definitivi di un procedimento a suo carico, versava in condizioni di particolare “fragilità psicologica” che potevano indurlo a rendersi disponibile ad una collaborazione, al fine di evitare il rischio di una  nuova carcerazione (che invece di lì a pochissimo, in piena “trattativa”, sarebbe giunta) che, dal punto di vista umano e per le sue condizioni di salute, non si sentiva più in grado di sopportare, essendo già stato duramente provato  dall’esperienza del carcere subita con il primo arresto del 3 novembre 1984. Il predetto De Donno ed il col. Mori erano ben consapevoli di questa superiorità psicologica ed agirono decisi a sfruttarla (v. dichiarazioni rese dallo stesso Mori nel verbale di ud. del 16.1.03 innanzi al tribunale di Milano, acquisite al giudizio il 9.5.05 e deposizione resa all’ud. del 11.7.05 dal cap. De Donno). I contatti - per come riferito in termini assolutamente coincidenti dal Ciancimino nel suo manoscritto “I carabinieri”, sequestrato il 17 febbraio 2005 nell’ambito di un procedimento avviato nei confronti del figlio Massimo ed acquisito in copia all’ud. del 9.5.05, e dai due ufficiali coinvolti - si articolarono nei seguenti punti: al primo incontro con il cap. De Donno, Vito Ciancimino si dichiarò disponibile a collaborare ma richiese di parlare ad un “livello superiore”; il cap. De Donno fece il nome del col. Mori e tutti e tre si incontrarono a Roma, in agosto 1992, nella casa del Ciancimino, il quale si disse pronto a cercare un contatto con l’associazione mafiosa per avviare un dialogo, chiedendo l’autorizzazione a spendere i loro nomi; una volta trovato questo interlocutore, che viene definito nel manoscritto “l’ambasciatore” (e che solo successivamente identificherà in Antonino Cinà, medico della famiglia Riina, legato anche al Provenzano), il Ciancimino gli rivelò i nomi dei due esponenti dell’Arma con cui era in contatto, ma avrebbe ottenuto una reazione di iniziale diffidenza, in quanto l’intermediario gli avrebbe risposto che i due ufficiali avrebbero dovuto prima pensare a risolvere le sue vicende giudiziarie; in un secondo momento, “l’ambasciatore” avrebbe invece superato tale diffidenza, decidendosi a ricontattarlo per rilasciargli una sorta di “delega” a trattare; il Ciancimino convocò allora il col. Mario Mori ed il cap. De Donno per un altro incontro nella sua casa di Roma a fine settembre 1992, nel quale finalmente precisare i termini di quell’inconsueto “negoziato”, termini che tuttavia gli si rivelarono deludenti e tali da non consentire margini di trattativa. Difatti, come testualmente annotato dal Ciancimino e confermato dai protagonisti in dibattimento, “i Carabinieri mi dissero di formulare questa proposta: consegnino alla giustizia alcuni latitanti grossi e noi garantiamo un buon trattamento alle famiglie”, proposta che venne ritenuta totalmente inadeguata dal Ciancimino stesso e come tale neppure comunicata all’ “ambasciatore”, con il quale si voleva mantenere comunque aperto un canale di dialogo. Per questo motivo, scriveva il Ciancimino nel proprio manoscritto, egli avrebbe riferito una proposta “bluff”, secondo cui un noto esponente politico si sarebbe prestato a garantire la salvezza del circuito imprenditoriale di interesse dell’organizzazione, minacciato da “tangentopoli”, che però non avrebbe avuto alcun seguito. A questo punto il Ciancimino – si legge negli appunti – avrebbe realizzato che non c’erano margini per alcuna trattativa, alla quale, tra l’altro, neppure “l’ambasciatore” aveva dimostrato vero interesse, per cui decise – come da sua annotazione testuale - di “passare il Rubicone”, ovvero intraprendere una reale collaborazione con i carabinieri, proponendo di infiltrarsi nell’organizzazione per conto dello Stato, intenzione che esplicitò ai nominati Mori e De Donno nel corso di un successivo incontro avvenuto a dicembre 1992, chiedendo in cambio che i suoi processi “tutti inventati” si concludessero con esito a lui favorevole ed il rilascio del passaporto.

Nella medesima occasione, domandò – come si legge nel manoscritto e confermato dagli ufficiali - che gli fossero esibite le mappe di alcune zone della città di Palermo ed atti relativi ad utenze Amap, in quanto, essendo a suo dire a conoscenza di alcuni lavori che erano stati eseguiti anni addietro da persone vicine al Riina, avrebbe potuto fornire qualche elemento utile alla sua localizzazione. Immediatamente dopo, il 19.12.92, il Ciancimino venne nuovamente tratto in arresto.

La “cantata” di Di Maggio con il generale. La Repubblica il 9 agosto 2020. Parallelamente, tornando ad osservare quanto stava accadendo a Palermo nello stesso lasso temporale, il ROS, nella persona dell’imputato De Caprio e dei suoi uomini, dopo le riunioni di luglio e settembre 1992 a Terrasini, si trovava impegnato nelle attività di osservazione, controllo e pedinamento della famiglia Ganci. Il Nucleo Operativo, invece, aveva avviato le indagini dirette a localizzare, grazie alle notizie fornite da fonti confidenziali, il Di Maggio che, come detto, si era rifugiato in Piemonte. Quest’ultimo, come già accennato, era intento ad orchestrare un suo piano di azione per la ripresa del potere in quello che considerava ancora il suo mandamento (il territorio di S. Giuseppe Iato) e nel perseguimento di questo obiettivo aveva deciso di uccidere Giovanni Brusca, come dichiarato – e poi negato nel corso della sua deposizione nel presente dibattimento – in data 9.1.93 ai carabinieri che lo trarranno in arresto. Una volta eliminato il rivale, e se del caso anche lo stesso Riina, contava infatti di tornare ad essere l’unico possibile punto di riferimento in quel territorio, nel quale non aveva mai interrotto i rapporti e dove conservava stabili posizioni di potere. In proposito, Giuseppe La Rosa ha riferito che ai primi di dicembre 1992 il Di Maggio lo incaricò di scoprire dove potesse trascorrere la latitanza il Riina ed a tal fine gli suggerì di osservare gli spostamenti di Vincenzo Di Marco, che ne accompagnava i figli a scuola, di “Faluzzo” Ganci che aveva delle macellerie nel quartiere “Noce” di Palermo e di Salvatore Biondolillo, che provvedevano ai suoi spostamenti ed alle sue necessità. In una occasione vide Franco Spina, che già conosceva anche come il titolare del negozio “Amici in tavola” assieme a Stefano Ganci (figlio del “Faluzzo”), incontrarsi proprio con il Biondolillo di fronte al motel Agip, su vle Regione Siciliana; il Biondolillo sparì per circa due ore con un carico di buste per la spesa, cosa che lo fece sospettare sul fatto che quella spesa fosse destinata proprio al Riina ed a questi fosse stata consegnata nella zona. Il La Rosa riferì l’episodio al Di Maggio durante un incontro in Toscana, avvenuto prima del Natale 1992, il quale gli disse che di lì a poco sarebbe sceso in Sicilia ed “avrebbe fatto ciò che doveva”. I carabinieri di Monreale, appartenenti al gruppo 2 del Nucleo Operativo, erano frattanto riusciti ad individuare il Di Maggio in Borgomanero, provincia di Novara, ove intratteneva contatti con un proprio compaesano che vi si era trasferito da diversi anni, Natale Mangano, titolare di un’officina meccanica, le cui utenze telefoniche vennero immediatamente sottoposte ad intercettazione (v. deposizione resa dal ten. col. Domenico Balsamo all’ud. del 16.5.05). L’8.1.1993 i militari captarono una conversazione che li indusse a sospettare fosse in atto un traffico di stupefacenti, per cui richiesero ai colleghi di Novara di intervenire con una perquisizione di loro iniziativa nei locali. A seguito di tale perquisizione venne rinvenuto e tratto in arresto, perché colto in possesso di un giubbotto antiproiettile e di armi, il Di Maggio che, come riferito dal teste col. Balsamo, nonostante il suo stato di incensuratezza e l’accusa non particolarmente grave elevata a suo carico, limitata alla detenzione di armi, cominciò subito a comportarsi in modo anomalo, manifestando grande agitazione e forte paura. Portato in caserma, cominciò a riferire agli operanti che temeva per la sua vita e che avrebbe potuto fornire informazioni preziose per le investigazioni in Sicilia, soprattutto in merito a Salvatore Riina. Queste circostanze, subito comunicate dal personale locale ai colleghi del Nucleo Operativo di Palermo, confermarono a questi ultimi la veridicità delle notizie apprese in via confidenziale circa l’effettiva esistenza di una grave frattura consumatasi all’interno di “cosa nostra”, che aveva indotto il Di Maggio a lasciare il territorio isolano, ed indussero l’autorità giudiziaria ad inviare subito a Novara personale dell’Arma per sentire cosa avesse da riferire il prevenuto. La sera stessa di quell’8.1.93 (alle ore 24 circa), l’allora magg. Domenico Balsamo, comandante del gruppo 2 del Nucleo Operativo, ed il proprio collaboratore mar.llo Rosario Merenda giunsero nella caserma ove era trattenuto il Di Maggio, il quale, come appresero dai colleghi della stazione, aveva già iniziato a dialogare con il comandante CC della Regione Piemonte, gen. Francesco Delfino. L’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare, tramite la deposizione dello stesso Di Maggio resa all’udienza del 21.10.05 e l’acquisizione ( ud. 9.5.05) del verbale delle dichiarazioni rilasciate da Francesco Delfino in data 21.2.97 innanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta, i motivi per i quali avvenne questo colloquio, apparentemente anomalo perché riguardante un soggetto all’epoca sconosciuto alle autorità investigative ed il generale che comandava l’Arma territoriale a livello locale. Al riguardo è emerso che:

fu il Di Maggio a chiedere, appena giunto in caserma a Novara, di poter parlare con la persona più alta in grado, aggiungendo che aveva informazioni da riferire su latitanti di mafia ed in particolare su Salvatore Riina;

il Di Maggio non conosceva il gen. Francesco Delfino e viceversa;

il gen. Delfino assunse il comando delle Regioni Piemonte e Valle D’Aosta il 6.9.1992;

precedentemente egli aveva prestato servizio proprio in Sicilia, ove, in data 28 o 29 giugno 1989, quale vice comandante della regione Palermo, aveva diretto un’operazione nel territorio di San Giuseppe Iato, contrada Ginostra.

Tale ultima attività aveva avuto lo scopo di localizzare e perquisire una grande e lussuosa villa in costruzione, che fonte confidenziale aveva indicato come di titolarità proprio di tale Baldassare Di Maggio, il quale svolgeva mansioni di autista per il Riina e che proprio in quella villa poteva dare ospitalità al latitante. La perquisizione aveva dato esito negativo, in quanto non vi era stato rinvenuto nessuno dei sopra nominati soggetti né alcun elemento di riscontro alle  informazioni ricevute dal confidente, tanto che al Di Maggio furono in seguito notificati solo verbali di accertamento di violazioni di tipo edilizio. Il gen. Delfino (cfr. verbale del 21.2.97), all’atto del suo insediamento al comando della Regione Piemonte, era stato informato dal comandante provinciale di Novara che già dal mese di giugno 1992 erano in corso delle indagini, sollecitate dalla stazione di Monreale, per ricercare in Piemonte tale Di Maggio, indicato da fonte confidenziale come soggetto capace di fornire notizie utili su Giovanni Brusca, che ne aveva ordinato, con tutta probabilità, l’eliminazione. Egli, grazie a quell’operazione condotta in contrada Ginostra, fu, pertanto, in grado di cogliere subito la rilevanza investigativa del nominativo che gli veniva fatto e, collegandolo alla possibile presenza in Piemonte anche del Riina, forse malato, decise, senza riferire a nessuno l’episodio del 1989, di attivare, in segretezza, un gruppo di investigatori con il compito di ricercare eventuali tracce sul territorio della presenza del boss corleonese. Il personale di Novara, intanto, aveva proseguito gli accertamenti e le ricerche sul Di Maggio ed a dicembre il comandante provinciale gli aveva comunicato che erano riusciti infine a localizzarlo a Borgomanero.

Il capo dei capi scivola nella rete. La Repubblica il 10 agosto 2020. Per tali ragioni, quell’8.1.93, quando il medesimo comandante lo chiamò comunicandogli che avevano arrestato il Di Maggio e che questi aveva dichiarato di avere informazioni da riferire su Salvatore Riina ed aveva altresì richiesto la presenza dell’ufficiale più alto in grado, il gen. Delfino si precipitò negli uffici del Nucleo Operativo del Comando Provinciale di Novara, ove iniziò a raccogliere le spontanee dichiarazioni del Di Maggio. Oltre la mezzanotte arrivò anche l’allora magg. Balsamo, insieme al mar.llo Merenda, che, dopo poco tempo, una volta puntualizzate con i colleghi le competenze in ordine alle indagini che erano state avviate ed all’arresto che ne era conseguito e superato il problema della riluttanza manifestata dal Di Maggio a parlare con ufficiali del capoluogo siciliano, venne introdotto alla presenza dell’arrestato e partecipò alla verbalizzazione delle sue dichiarazioni. Si legge nel verbale del 9.1.93, redatto alle ore 2.00 (all. n. 14 della produzione documentale della difesa De Caprio, acquisita all’ud. del 9.5.05), che il Di Maggio, dopo avere parlato di diversi episodi omicidiari e di varie vicende relative ai boss Riina e Provenzano ed al medico del Riina dott. Cinà, indicò due luoghi nei quali aveva incontrato il Riina, specificando però di non essere in grado di fornirne il nome della via né il numero civico, nonché le persone incaricate di accompagnare il boss nei suoi spostamenti a Palermo, Raffaele Ganci e Giuseppe, detto Pino, Sansone. Quanto al primo luogo, fece un disegno della zona e lo descrisse come una villetta, ubicata nel quadrivio tra via Regione Siciliana, via Leonardo Da Vinci e via Notarbartolo, nella quale aveva visto circa cinque anni prima entrare il Riina accompagnato da Raffaele Ganci. Aggiunse che accedendo da via Leonardo Da Vinci, sulla destra, in una via di cui non conosceva il nome, ci si immetteva in un fondo ove era ubicata questa villa, tutto delimitato da un muro di cinta e, tramite un cancelletto in ferro di grandezza appena sufficiente a far passare una piccola auto, si accedeva ad un giardino al centro del quale vi era una vecchia casa, probabilmente di proprietà di Sansone Tanino, che provvedeva agli spostamenti del Riina. Sempre nello stesso quartiere, circa 300 metri prima della villetta di cui sopra, sul lato sinistro di viale Regione Siciliana, in direzione aeroporto, sulla sinistra di via Leonardo Da Vinci, ubicò la seconda casa doveva aveva incontrato il Riina, al primo piano di una abitazione cui si accedeva tramite un cancello automatico che gli era stato aperto da un uomo che abitava al piano terra. Inoltre, il Di Maggio dichiarò di ricordare, visivamente, anche altri luoghi e di poterli individuare una volta presente fisicamente a Palermo, ed indicò in Vincenzo De Marco, abitante a S. Giuseppe Jato, colui che tutte le mattine si recava a Palermo con la sua autovettura tipo Golf a prendere i figli del Riina per accompagnarli a scuola ed andarli a riprendere, mentre in un certo Salvatore di Palermo, cugino di Salvatore Biondolillo, un soggetto che aveva il compito di precedere con la sua auto quella del Riina, in ogni suo spostamento, per controllare la sicurezza del percorso e dare il via libera. Subito dopo questi colloqui, secondo quanto dichiarato dal gen. Delfino in data 21.2.97 alla Corte d’Assise di Caltanissetta e dal dott. Caselli a dibattimento (ud. 7.11.05), il primo comunicò telefonicamente al secondo, il quale si sarebbe dovuto insediare il 15.1.93 come nuovo Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, che era stato catturato un soggetto il quale poteva rivelare notizie utili all’individuazione di Salvatore Riina ed il dott. Caselli gli chiese subito di convocare presso il suo ufficio anche l’allora col. Mori, presente a Torino quel giorno, come sapeva per il fatto che avevano convenuto un appuntamento per il pranzo assieme al col. Sechi. Come seconda cosa il dott. Caselli informò telefonicamente il Procuratore Aggiunto di Palermo dott. Vittorio Aliquò, al quale spettava sino al suo insediamento la responsabilità nella direzione e nel coordinamento delle indagini antimafia, in modo che fossero avviate tutte le attività necessarie e si cominciasse a predisporre il futuro trasferimento del collaborante a Palermo.

Il gen. Delfino, all’appuntamento presso il suo ufficio con il dott. Caselli ed il col. Mori, illustrò la nuova emergenza investigativa, riferendo anche tutti i particolari della vicenda. La scelta di coinvolgere il ROS, che il dott. Caselli ha rivendicato come propria ed esclusiva, fu dovuta sia, e soprattutto, alla considerazione che nutriva per la persona di Mario Mori, con il quale aveva instaurato negli anni un rapporto fiduciario di intensa e proficua collaborazione in occasione delle inchieste portate avanti contro il terrorismo, sia al fatto che il ROS era in quel momento impegnato in azioni antimafia con proiezioni sul territorio siciliano. A quella data il dott. Caselli ignorava i contatti che Mario Mori aveva intrapreso ormai da diversi mesi con Vito Ciancimino, così come solo successivamente venne a conoscenza del fatto che i rapporti tra il Mori e l’allora comandante della Regione Piemonte Delfino si erano da tempo irrigiditi. I verbali contenenti le dichiarazioni del Di Maggio furono spedite in plico chiuso a Palermo e recapitati da Giorgio Cancellieri (v. deposizione del medesimo all’ud. 6.6.05), all’epoca comandante della Regione Sicilia, al dott. Aliquò, che immediatamente dispose l’invio di alcuni magistrati a Novara per prendere contatto con il collaboratore e riportarlo a Palermo. Il giorno 11.1.93 Baldassare Di Maggio fece rientro a Palermo, ove fu affidato in custodia al gruppo 2 del Nucleo Operativo, il quale dapprima lo sistemò nei propri locali sotterranei della stazione di Monreale per poi trasferirlo, per motivi di sicurezza, presso il Comando della Regione Sicilia. Il vicecomandante operativo della Regione, col. Sergio Cagnazzo, convocò una riunione con i comandanti del Nucleo Operativo, magg. Balsamo e cap. Minicucci, la sezione distaccata del ROS, che stava già lavorando sulla famiglia Ganci, e la sezione anticrimine per coordinare le attività investigative che andavano condotte a riscontro ed in conseguenza delle nuove informazioni fornite dal collaboratore. Il medesimo Cagnazzo, si legge nella direttiva del 12.1.93 (all. n. 15, doc. difesa De Caprio), affidò, per competenza territoriale, al gruppo 1 le indagini su Salvatore Biondolillo ed Angelo La Barbera, da svolgere unitamente al ROS, al gruppo 2 quelle su Vincenzo De Marco, Anselmo Francesco Paolo ed altri; gli accertamenti sulle abitazioni di via Uditore, nonché su quelle site dietro la clinica “Casa del Sole”, altro luogo di cui aveva parlato nel frattempo il collaboratore, e sui Sansone furono affidati anch’essi al gruppo 1 ed al ROS, al quale spettava altresì continuare i servizi in corso sui Ganci.

Totò Riina e le ultime ore di libertà. La Repubblica.it l'11 agosto 2020. Pertanto, la sezione comandata dal cap. De Caprio avrebbe dovuto collaborare e coordinarsi con il gruppo 1 del Nucleo Operativo, per le investigazioni da condurre sia in ordine ai luoghi indicati dal Di Maggio nella zona Uditore che in relazione ai Sansone. Osserviamo come si svilupparono in concreto ciascuno di questi filoni investigativi. Su Vincenzo Di Marco (che sarà arrestato solo in data 6.2.93) venne predisposto il 14.1.93, a cura del gruppo operativo dei CC di Monreale e di S. Giuseppe Jato, un servizio di osservazione presso la sua abitazione, con esito negativo. In merito al Biondolillo, l’indicazione di tale cognome si rivelò in un primo momento erronea in quanto non corrispondeva a nessun soggetto di possibile rilevanza ai fini delle indagini. Tuttavia, in data 12.1.93, il Di Maggio, nel corso di uno dei sopralluoghi effettuati con il mar.llo Rosario Merenda del gruppo 2 del Nucleo Operativo, ne indicò l’abitazione in via San Lorenzo, sicché si pensò di mostrargli la fotografia di un certo Salvatore Biondino, residente in quella stessa zona e già all’attenzione delle forze dell’ordine: questa intuizione investigativa consentì l’identificazione del Biondolillo proprio nel suddetto Biondino (v. deposizione di Marco Minicucci all’ud. del 25.5.05). Quanto a Giuseppe, detto Pino, Sansone, si accertò inizialmente l’esistenza, tramite accertamenti anagrafici, di circa sedici individui che avevano quelle stesse generalità. Il mar.llo Merenda, come attestato nelle relazioni di servizio a sua firma del 12 e 13.1.93 (riferite alle attività svolte nella notte del giorno precedente, all. n. 2 doc. difesa Mori), fu incaricato di eseguire, personalmente, i sopralluoghi con il collaboratore Di Maggio sulle località che quest’ultimo aveva indicato. A tal fine effettuò le seguenti individuazioni:

1. cancelletto alla via Uditore n. 13/a (cd. Fondo Gelsomino), che veniva riconosciuto come quello di pertinenza della vecchia casa ove il Di Maggio aveva dichiarato di aver visto entrare il Riina circa cinque anni addietro in compagnia di Raffaele Ganci;

2. villino La Barbera in via Castellana;

3. casa “Pauluzzu” in via Mammana;

4. via Casa Del Sole dove il Di Maggio riconosceva esservi l’impresa di calcestruzzi Buscemi;

5. Casa Del Sole, via Villaba, dove ubicava il pollaio usato dal Riina per i suoi incontri;

6. l’abitazione di Salvatore Biondolillo e cugino in zona S. Lorenzo; 7. uffici del Sansone ubicati nel condominio di via Cimabue n. 41 (individuati solo alle ore 23 del 12.1.93); 8. casa in via Asmara; 9. villino a 300 metri dalla chiesa ed abitazione in località Aquino che non era possibile individuare.

Per come ha riferito il teste Merenda (ud. 16.5.05), il Di Maggio aveva anche individuato un altro luogo di pertinenza di Giuseppe detto Pino Sansone: lo stabile sito in via Bernini dove risiedevano gli uffici di alcune sue società, che era situato a circa 200/300/400 metri più avanti, sulla sinistra, rispetto al complesso che solo in seguito verrà localizzato ai nn. 52/54 di via Bernini. A quel punto l’individuazione di Giuseppe (Pino) Sansone era completata e consentiva di identificarlo in uno dei fratelli Sansone, imprenditori edili e titolari di diversi organismi societari, tra i quali la SICOR, l’AGRISAN, la ICOM, l’Edilizia Sansone tutti aventi sede in via Cimabue n. 41, e la SICOS con sede a via Bernini n. 129 (cfr. decreti di perquisizione e verbali di sequestro del 2 e 3 febbraio 1993, all. n. 29 doc. difesa De Caprio). Il cap. Sergio De Caprio decise di concentrare l’attenzione investigativa proprio su questi individui, e ciò per tre ordini di ragioni. La prima, in quanto quel “Pino” era stato indicato dal Di Maggio come la persona che accompagnava il Riina nei suoi spostamenti, assieme a Raffaele Ganci il quale, tuttavia, già sotto osservazione del ROS da ottobre 1992 (ed il servizio sarebbe continuato sino alla data del suo arresto nel giugno 1993) non era mai stato visto in compagnia del Riina, né aveva fornito elementi utili per la sua individuazione; la seconda, perché il nominativo Sansone era già emerso, come riferito dall’imputato e confermato anche dalla dott.ssa Ilda Boccassini (sentita all’ud. del 21.11.05), nel corso del processo Spatola Rosario + 74 (sentenza n. 1395 del 6.6.1983), per cui si trattava di soggetti che già da tempo intrattenevano contatti con l’organizzazione criminale; la terza, in quanto Domenico Ganci, nel corso di quel pedinamento eseguito dalla sua sezione il 7.10.92, aveva fatto perdere le sue tracce proprio in via Giorgione, ovvero in una via limitrofa a quelle ove – si era scoperto - erano ubicati i loro uffici. Conseguentemente, dal 13.1.93 furono sottoposte ad intercettazione telefonica (cfr. verbale relativo alle operazioni di ascolto, all. n. 27 doc. difesa De Caprio) le utenze intestate a Sansone Gaetano, alla moglie Matano Concetta, alla sua ditta individuale ed alle società a r.l. SICOS, SICOR, SOREN, nonché quella intestata alla ditta individuale Sansone Giuseppe. Nella stessa giornata (13 gennaio), il mar.llo Santo Caldareri, in servizio alla prima sezione del ROS, eseguì (come riferito all’udienza del 29.6.05), su ordine del suo comandante De Caprio, approfonditi accertamenti anagrafici e documentali sui fratelli Sansone, dai quali emerse che Giuseppe, pur risiedendo come gli altri in via Beato Angelico n.51, era titolare di un’utenza telefonica fissa numero 0916761989 sita in via Bernini nn. 52/54. Questo dato risultò importantissimo per l’imputato De Caprio, in quanto il prolungamento di quella via Giorgione, dove ad ottobre si era dileguato il Ganci, andava a terminare proprio su via Bernini, in prossimità del numero civico 52/54: ne risultava, anche per questa via, confermato il sospetto circa l’importanza che i Sansone avrebbero potuto avere per le attività investigative che il ROS aveva in corso, prima fra tutte quella diretta alla ricerca del Riina. L’imputato inviò, nel pomeriggio di quello stesso 13 gennaio 1993, due componenti del suo gruppo, i mar.lli Riccardo Ravera e Pinuccio Calvi (coma da loro deposto all’udienza del 15.6.05), ad effettuare un sopralluogo presso quel numero civico di via Bernini, ove i due operanti accertarono l’esistenza di un complesso di villette, cui si accedeva tramite un cancello automatico che consentiva il passaggio delle auto, nonché, sul citofono, il nominativo dei Sansone e delle rispettive mogli. Pertanto, risultava accertato che i Sansone, pur risiedendo formalmente altrove, abitavano in quel complesso residenziale.

Preso dopo 25 anni di latitanza. La Repubblica il 12 agosto 2020. Baldassare Di Maggio riconobbe, nelle immagini che stava visionando, uno dei figli di Salvatore Riina, la moglie “Ninetta” Bagarella e l’autista Vincenzo De Marco, che lo stesso magg. Balsamo, in quanto comandante del gruppo 2 del Nucleo Operativo, aveva inutilmente ricercato a S. Giuseppe Iato, mediante servizio svolto dal personale locale, quella stessa mattina del 14 gennaio. La scoperta dei familiari del latitante e di colui che era incaricato di portarne i figli a scuola in quel complesso di via Bernini, che era stato posto sotto osservazione in quanto luogo di pertinenza di Giuseppe Sansone, costituì per tutti una enorme quanto insperata sorpresa, che poteva consentire, finalmente, di stringere il cerchio attorno al noto boss. All’alba del 15.1.93, quando ebbero finito dopo diverse ore di vedere tutti i filmati, il magg. Balsamo ed il cap. De Caprio decisero che il nuovo servizio si sarebbe dovuto svolgere con la presenza fisica del Di Maggio sul furgone, assieme all’appuntato Coldesina (cui furono mostrati i fotogrammi relativi alla Bagarella ed a Di Marco), in modo da assicurare anche un’osservazione diretta ed immediata delle persone che potevano accedere al complesso o che ne sarebbero fuoriuscite. Furono, quindi, impartite le successive disposizioni. Tutti gli uomini della sezione – che furono per l’effetto messi a conoscenza, nelle prime ore della mattinata, dal De Caprio di quanto era emerso – si sarebbero posizionati nella zona - cosa che, contrariamente a quanto era avvenuto il giorno prima, avrebbe fatto anche l’imputato - pronti ad eseguire tutti gli eventuali pedinamenti e le attività che si fossero rese necessarie. Il servizio, difatti, si prestava a diversi esiti, in quanto la presenza della Bagarella, dei figli e del De Marco non significava necessariamente che nel complesso di via Bernini vi abitasse anche lo stesso Riina, ben potendo la donna recarsi ad incontrare il marito all’esterno del residence, dove invece il boss poteva aver scelto di fare alloggiare la famiglia per ragioni di sicurezza. L’obiettivo immediato e certo era dunque pedinare la moglie e l’autista del Riina, mentre ogni altra eventualità rappresentava in quel momento solo un’ipotesi e come tale fu presa in considerazione. Vista l’ora tarda, i due comandanti convennero di non relazionare immediatamente i propri superiori circa gli esiti emersi dalle riprese filmate ma di provvedervi più tardi nel corso della mattinata, come il cap. Sergio De Caprio poi in effetti fece, comunicando le novità al col. Mario Mori il quale, a sua volta, prima dell’arresto del Riina, ne rese edotto il magg. Mauro Obinu, come da questi riferito in dibattimento. Il magg. Domenico Balsamo, invece, quando incontrò i propri superiori all’arrivo in ufficio, verso le 7.30, preferì – come dallo stesso dichiarato in aula – rinviare ad un momento più opportuno la dovuta comunicazione circa gli sviluppi delle indagini, sia perché troppe persone erano presenti sia perché non v’era alcuna certezza, bensì solo la speranza, che si potesse arrivare alla localizzazione di Salvatore Riina, il quale, invece, inopinatamente, sarebbe stato arrestato dopo neppure un paio d’ore.

Il verbale redatto e sottoscritto dall’app.to Giuseppe Coldesina (cfr. all. n. 23 doc. difesa De Caprio) fotografa esattamente quali attività di osservazione furono compiute il 15.1.1993:

alle ore 8.52 Salvatore Biondino, che ancora non era stato individuato, entrò nel complesso e ne uscì alle ore 8.55 in compagnia del Riina, seduto sul lato passeggero;

Baldassare Di Maggio li riconobbe ed il Coldesina informò immediatamente via radio il comandante De Caprio che con i suoi uomini procedette all’arresto alle ore 9.00 su v.le Regione Siciliana, altezza P.le Kennedy, a circa 800 metri di distanza dal complesso di via Bernini.

In ordine al motivo per il quale l’arresto non venne eseguito immediatamente ma si aspettò qualche minuto, quando ormai l’auto si era allontanata approssimandosi alla rotonda del Motel Agip, il teste mar.llo Calvi, che si trovava sulla stessa auto con il cap. Sergio De Caprio, ha riferito che ciò avvenne in quanto solo in quel momento maturarono le condizioni di sicurezza per potere intervenire, essendosi venuta a trovare l’auto sulla quale viaggiava il Riina ferma dietro ad altre autovetture. Il Coldesina, cui nel frattempo era stata data la notizia dell’arresto, ricevette l’ordine di continuare il servizio, che difatti proseguì con le stesse modalità e dunque con la presenza del Di Maggio sino alle ore 16.00, quando gli venne comunicato che un collega sarebbe giunto a prelevare il furgone e li avrebbe riportati in caserma. I testimoni mar.lli Santo Caldareri e Pinuccio Calvi hanno riferito che quella sera stessa commentarono con il De Caprio quanto era successo ed il capitano espresse l’intenzione di non proseguire il servizio l’indomani, per ragioni di sicurezza per il personale, ed anche – ha riferito il Caldareri – in considerazione del comportamento che aveva tenuto Giuseppe Sansone il giorno prima e delle investigazioni che dovevano essere proseguite nei suoi confronti. In altre parole c’era l’elevata probabilità che il Sansone scoprisse il dispositivo di osservazione, se fosse stato immediatamente ripristinato il giorno seguente. Come testimoniato da coloro che erano presenti (più avanti citati), quella mattina, nella caserma Buonsignore, la notizia dell’arresto di Salvatore Riina provocò un clima di grande agitazione e fermento che si diffuse rapidamente tra tutti, assieme al comprensibile entusiasmo con cui fu accolta sia da parte dell’Autorità Giudiziaria che delle varie articolazioni dell’Arma, e ad un altrettanto comprensibile stupore per la velocità con cui si era giunti a quel risultato straordinario ed al contempo insperato in così breve tempo. Anche le modalità che l’avevano reso possibile erano straordinarie, sia perché il Riina non aveva opposto resistenza, sia perché la collaborazione del Di Maggio era iniziata appena sei giorni prima.

L'appostamento in via Bernini. La Repubblica il 13 agosto 2020. Venne allora inoltrata alla Procura della Repubblica una richiesta urgente di autorizzazione all’intercettazione telefonica dell’utenza fissa di titolarità del Sansone, localizzata all’interno del complesso, in merito alla quale le operazioni di ascolto iniziarono il giorno seguente, 14.1.93, alle ore 16.50 (cfr. verbale relativo alle operazioni di ascolto, all. n. 27 difesa De Caprio), protraendosi sino al 20.1.93, data in cui verrà emesso dalla Procura della Repubblica un decreto di revoca. In quei giorni, sino alla data dell’arresto di Salvatore Riina, si svolgevano con cadenza quotidiana riunioni operative tra i due gruppi della territoriale ed il ROS, alla presenza dell’Autorità Giudiziaria, al fine, fondamentale per il buon esito delle iniziative intraprese, dello scambio di informazioni e del raccordo dell’attività svolta. Una di queste ebbe luogo proprio quello stesso 13.1.93, con il proposito specifico di fare il punto sulle indagini relative ai luoghi che il Di Maggio aveva riconosciuto e di decidere gli sviluppi investigativi che andavano intrapresi. Tra questi luoghi, l’attenzione era senz’altro focalizzata sul cd. “fondo Gelsomino”, che il Di Maggio aveva prima indicato come area nella quale si trovava la vecchia casa dove aveva visto entrare il Riina in compagnia di Raffaele Ganci, anni addietro, e poi aveva esattamente individuato in sede di sopralluogo nella via Uditore n. 13/a. Nel corso della suddetta riunione, il vicecomandante col. Cagnazzo ed il procuratore aggiunto dott. Vittorio Aliquò proposero, di comune accordo, di eseguire una perquisizione del manufatto che si trovava all’interno del fondo, il quale, nel frattempo, era già stato oggetto di riprese fotografiche effettuate per via aerea. In quest’occasione emersero per la prima volta due diversi orientamenti investigativi, tra loro contrapposti: l’uno, portato avanti dai superiori gerarchici della territoriale e dalla procura, favorevole ad un’azione immediata sul territorio; l’altro, sostenuto dal magg. Domenico Balsamo e dal cap. Sergio De Caprio che, invece, riteneva, avendo cognizione diretta dal punto di vista operativo delle indagini, fosse più utile e proficuo, in vista di futuri risultati, evitare iniziative dirette sul campo che avrebbero potuto mettere in allarme l’organizzazione mafiosa e vanificare le attività in corso. Anche perché le vedute aeree del sito non avevano evidenziato movimenti di una qualche utilità investigativa e dunque non poteva esservi alcuna certezza sulla presenza in loco del latitante Riina, che il Di Maggio vi aveva visto ben cinque anni addietro. Il De Caprio, come riferito in sede di esame, propose di non procedere con la perquisizione ed invece concentrare le investigazioni sui Sansone, da lui ritenuti, per i motivi già innanzi esposti, soggetti di particolare rilevanza nell’ambito delle indagini che stavano conducendo, riuscendo ad ottenere, all’esito della discussione, l’autorizzazione a mettere sotto osservazione il complesso di via Bernini, purché assicurasse analogo servizio anche sul “fondo Gelsomino” che rimaneva, per l’Autorità Giudiziaria, il principale obiettivo. In proposito, il dott. Aliquò (sentito all’ud. del 3.10.05) ha dichiarato di non ricordare che nel corso della riunione venne menzionata via Bernini, ma poiché ha anche riferito di una discussione avuta con il ROS circa le modalità del servizio di osservazione che ivi andava eseguito nei giorni seguenti (v. al prossimo par.), appare certo che il sito, che era stato appena individuato, fu effettivamente uno degli argomenti trattati nel corso della riunione suddetta. Come convenuto, il 14.1.93 il mar.llo Orazio Passante (v. dichiarazioni rese all’ud. del 15.6.05), in servizio alla prima sezione del ROS, iniziò alle ore 6.00 un servizio di osservazione sul fondo di via Uditore, a bordo di un furgone attrezzato con telecamera, video riprendendo movimenti di contadini che trasportavano frutta. Al calar del buio, non permanendo più le condizioni di visibilità, chiese ed ottenne di rientrare in caserma; il giorno seguente fu dispensato dal servizio per motivi di salute. Quello stesso 14 gennaio, alle ore 6.53, un altro appuntato della sezione, Giuseppe Coldesina, si era appostato, su ordine di Sergio De Caprio, all’interno di un furgone dotato di telecamera di fronte al cancello di ingresso al complesso immobiliare di via Bernini. L’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare le modalità di espletamento del servizio di osservazione: un furgone, dotato di telecamera interna, venne posizionato a circa una decina di metri dal cancello, di tipo automatico, che consentiva sia l’ingresso che l’uscita delle autovetture dalla via principale al viale interno del residence, conducente alle varie villette da cui era costituito. La telecamera, però, era in grado di riprendere solo per pochi metri il viale interno e dunque non era possibile “seguire” le auto che vi transitavano sino alle singole unità immobiliari, alle quali erano dirette o dalle quali uscivano; pertanto, non era neppure possibile stabilire quante fossero le villette esistenti nel residence (v. dichiarazioni rese dal Coldesina all’ud. del 25.5.05, nonché le deposizioni dei magg. Balsamo e mar.llo Merenda che visionarono le immagini filmate e dei dott.ri Aliquò e Caselli ). La scelta della tecnologia da impiegare per l’effettuazione delle video riprese era di pertinenza esclusiva del ROS, il quale ritenne che il mezzo più appropriato in considerazione dello stato dei luoghi non fosse una telecamera fissa, che avrebbe avuto bisogno di un adeguato supporto logistico, quale un palo della luce o altro, e di idonea copertura per rendersi invisibile, bensì una mobile, che poteva essere facilmente occultata all’interno di un automezzo; così come era stato fatto anche nell’indagine sui Ganci. È stato chiarito dal magg. Balsamo, dal cap. Minicucci (sentito all’ud. del 25.5.05) e dai dott.ti Aliquò e Caselli, che i dettagli tecnici relativi a come dovesse essere eseguita l’osservazione non erano noti né alla territoriale né alla Procura, proprio perché rimessi alla valutazione discrezionale della sezione che doveva porre in essere l’attività (v. prossimo par.). Quel 14.1.93, tutto era stato predisposto per assicurare il controllo ed il pedinamento di Giuseppe Sansone, che era stato individuato all’interno del residence e che il Di Maggio aveva indicato come fiancheggiatore del Riina, nonché l’osservazione di tutti coloro che fossero pervenuti o fuoriusciti dal complesso di via Bernini. Uno degli uomini della squadra di “appoggio” provvide a parcheggiare il furgone, con all’interno l’app.to Coldesina, nel luogo prestabilito, di fronte al cancello di ingresso, dal quale si allontanò a piedi per essere recuperato da altra autovettura; i mar.lli Pinuccio Calvi e Riccardo Ravera (cfr. deposizione resa all’udienza del 15.6.05), assieme ad altri colleghi della sezione, si occuparono personalmente del pedinamento del Sansone, che fu visto uscire a bordo di una Fiat Tipo. Presto i predetti si resero conto che sarebbe stato impossibile proseguire il servizio senza essere notati, a causa del comportamento particolarmente guardingo ed accorto del sopra nominato individuo, che procedeva a bassissima velocità e addirittura si fermava per guardare chi vi fosse all’interno delle auto che lo sorpassavano. Pertanto, nel pomeriggio, comunicarono al cap. De Caprio la necessità di sospendere le attività di pedinamento per evitare di essere scoperti e fecero rientro in caserma. Il servizio di video sorveglianza, invece, continuò sino alle ore 16.58, quando un altro componente della sezione andò a prelevare il furgone, al cui interno era celato il Coldesina, per ricondurlo in caserma, ove l’appuntato relazionò il comandante sul servizio svolto, consegnandogli le videocassette delle registrazioni effettuate senza segnalargli nulla di particolare (non conosceva le sembianze fisiche della Bagarella, moglie del Riina, e del Di Marco, che sarebbero stati individuati, poche ore dopo, dal Di Maggio); il cap. De Caprio prese in consegna le cassette e gli ordinò di riprendere il servizio la mattina seguente.

Quella sera stessa, in caserma, (come riferito dai protagonisti) il magg. Domenico Balsamo, su ordine dell’allora vice comandante col. Cagnazzo che gli aveva chiesto di verificare se dal servizio di osservazione fosse emerso qualche elemento utile, il suo collaboratore mar.llo Rosario Merenda, il cap. De Caprio e Baldassare Di Maggio, appositamente convocato per riconoscere nelle persone video riprese eventuali personaggi di interesse investigativo, procedettero alla visione dei filmati. Non vi partecipò, invece, il comandante del gruppo 1 del Nucleo Operativo cap. Marco Minicucci, che andò via prima che avesse inizio l’attività a causa – come ha riferito in dibattimento – di non meglio precisate “incomprensioni” maturate con i colleghi sulla gestione del collaboratore, affidata alla sua responsabilità. In quegli stessi locali dove si trovavano riuniti si affacciò anche il capitano De Donno, allora comandante della II sezione del ROS, che si limitò a salutare i colleghi, senza prendere alcuna parte a quanto vi si stava svolgendo. Giuseppe De Donno era infatti arrivato a Palermo nella stessa giornata, dovendo, la mattina successiva (15.1.93), rendere testimonianza nel cd. processo “mafia appalti”, in corso contro Angelo Siino ed altri.

La perquisizione (incredibilmente) rinviata. La Repubblica il 14 agosto 2020. In caserma, quando la notizia iniziò a circolare, accorsero, numerosissimi, magistrati ed ufficiali dei CC; tra gli uni, il nuovo Procuratore della Repubblica dott. Giancarlo Caselli, che si insediava proprio quel giorno, il procuratore aggiunto dott. Aliquò, i dott.ri Lo Voi, Spallitta, il sostituto procuratore di turno dott. Luigi Patronaggio, tra gli altri, il col. Sergio Cagnazzo ed il comandante della Regione Sicilia gen. Cancellieri, il magg. Mauro Obinu, il comandante del ROS gen. Antonio Subranni, il vice comandante operativo col. Mori, dal quale tutti avevano ricevuto la notizia, e poi i comandanti dei gruppi 1 e 2 del Nucleo Operativo ed, ancora, il cap. Giuseppe De Donno ed il mar.llo Rosario Merenda. La concitazione di quei momenti, il gran numero di individui che affollava il cortile dove tutti si erano informalmente riuniti e ritrovati, spiega – come riferito da tutti i testimoni che vi presero parte – il perché non si svolse alcuna riunione di carattere formale, sostituita, di fatto, da discussioni, che ormai evidentemente si concentravano “sul che fare ora” e come proseguire l’azione di contrasto a “cosa nostra”, e che avvenivano proprio in quel medesimo contesto di luogo, di tempo e di persone. Fu in quel contesto, dunque, che iniziarono ad emergere e profilarsi, come riferito dalle testimonianze acquisite e come si legge nella nota successivamente scritta dal dott. Caselli in data 12.2.93 (all. f produzione documentale P.M., acquisita all’ud. del 9.5.05), due diverse linee d’azione: quella che sosteneva la necessità di irrompere immediatamente nel complesso di via Bernini, individuare la villa da cui era uscito il latitante e procedere alla sua perquisizione, l’altra, sostenuta dal ROS e dal De Caprio in particolare, che invece riteneva si aprisse la possibilità di svolgere ulteriori indagini, sfruttando l’effetto sorpresa, costituito dal fatto che, essendo stato catturato il boss alla rotonda del motel Agip invece che all’uscita dal complesso di via Bernini, gli altri affiliati a “cosa nostra” non avrebbero potuto mettere in collegamento l’arresto con quel sito e dunque non sarebbero stati in grado di risalire a come i carabinieri erano riusciti a localizzare Salvatore Riina. Questa seconda linea fu quella adottata in sede di conferenza stampa, nel corso della quale il generale Cancellieri riferì la versione concordata, secondo cui il Riina era stato intercettato, casualmente, a bordo della sua auto guidata da Salvatore Biondino mentre transitava sul piazzale antistante il Motel Agip. Nessun riferimento venne fatto a via Bernini ed a tutta l’attività che ivi era stata espletata. Tuttavia – come emerge dalle deposizioni rese, che pure non hanno potuto scandire con chiarezza come si succedettero le varie determinazioni – l’idea di procedere alla perquisizione era tuttora “in piedi” al momento della conferenza stampa, ed anzi il dott. Luigi Patronaggio, in quanto pubblico ministero di turno, già nella mattinata aveva, d’accordo con il dott. Giancarlo Caselli, predisposto i relativi e necessari provvedimenti, così come già era stata disposta la costituzione di due squadre, con gli uomini dei gruppi 1 e 2 del Nucleo Operativo guidati dal magg. Balsamo e dal cap. Minicucci, che avrebbero dovuto procedere dapprima agli accertamenti sui luoghi ed in seconda battuta, una volta individuata la villa, alla perquisizione. Le squadre, che ormai in tarda mattinata erano pronte, rimasero in attesa, nel cortile della caserma, dell’ordine di partire che tuttavia non arrivava. A quel punto si era fatta ora di pranzo, per cui i magistrati e gli ufficiali dell’Arma, ad eccezione del col. Cagnazzo, che si era allontanato per occuparsi del trasferimento del Riina in un luogo di sicurezza, e del gen. Subranni, cui spettava la redazione delle comunicazioni da inviare agli organi istituzionali, decisero di fermarsi al circolo ufficiali. Nel frattempo, subito dopo la conferenza stampa – come dichiarato dal cap. De Donno, da Attilio Bolzoni (ud. 11.7.05) e da Saverio Lodato (ud. 26.9.05) – Giuseppe De Donno, che quella mattina era stato a testimoniare nel processo cd. “mafia-appalti”, era intento a conversare con alcuni giornalisti (Felice Cavallaro del Corriere della Sera, il Bolzoni ed il Lodato). In questo contesto, ebbe a profferire la frase - poi pubblicata sul Corriere della Sera e da lì ripresa su altre testate - secondo cui “qualcuno per la vergogna sarebbe dovuto andare via da Palermo”, frase che gli esponenti della stampa misero all’epoca in diretto collegamento con l’arresto di Riina e che successivamente - quando ormai sarebbe stato noto che il cd. “covo”, invece di essere perquisito dalle forze dell’ordine, era stato svuotato da ogni cosa ad opera di terzi di fatto lasciati liberi di agire indisturbati – sarebbe stata riletta proprio in correlazione con la vicenda della mancata perquisizione. In dibattimento, il teste De Donno ha chiarito che in realtà quella frase non aveva alcuna attinenza con l’arresto di Salvatore Riina, vicenda alla quale era rimasto completamente estraneo, ma si riferiva alle indagini condotte dalla sua sezione, che erano sfociate nel rapporto cd. “mafia-appalti”. I giornalisti ignoravano, invece, che egli non avesse preso parte alle indagini relative alla cattura del Riina e, visto il contesto nel quale il capitano aveva rilasciato quella esternazione, la misero in diretta correlazione con la “notizia del giorno” e, successivamente, con le anomalie che la contraddistingueranno. Invero, considerato il momento temporale nel quale avvenne questo colloquio (tarda mattinata, dopo la conferenza stampa come hanno riferito concordemente i citati testi), appare evidente che il cap. De Donno non potesse certo alludere a circostanze connesse alla mancata perquisizione del cd. “covo”, che ancora non era stata decisa. Difatti, nello stesso frangente temporale, il cap. Minicucci si trovava nel cortile della caserma, pronto a partire per via Bernini, quando incontrò l’imputato De Caprio, che gli domandò cosa stesse succedendo; gli rispose che aveva ricevuto l’incarico di procedere agli accertamenti sul complesso immobiliare ed alla perquisizione della villa abitata dal Riina, una volta che fosse stata individuata. L’imputato, che dal punto di vista gerarchico era suo superiore, gli disse di aspettare perché si doveva valutare l’opportunità di procedere all’operazione (cfr. deposizione resa dal Minicucci); quindi si recò al circolo ufficiali, dove si erano riuniti per pranzare sia i magistrati della Procura che gli ufficiali della territoriale e del ROS, e lì ribadì quella che era la linea d’azione che secondo lui andava seguita, già espressa nella mattinata prima della conferenza stampa, ovvero non dare luogo alla perquisizione e sfruttare il fatto che l’arresto del Riina fosse stato fatto apparire come casuale. La contrapposizione tra i due orientamenti investigativi sopra delineati avvenne, dunque, in due momenti temporali distinti, e cioè sia prima che dopo la conferenza stampa, come si evince chiaramente dalla nota del 12.2.93, inviata dal dott. Caselli sia al ROS che alla territoriale, per richiedere chiarimenti sulla vicenda. Nella nota, il Procuratore distingue due momenti diversi, riferendo che “nelle ore successive all’arresto del Riina, vari ufficiali dell’Arma, in particolare del ROS, ebbero a manifestare che i vari luoghi di interesse per le indagini, in particolare il complesso immobiliare (di via Bernini), erano sotto costante ed attento controllo e che era assolutamente indispensabile, per non pregiudicare ulteriori importanti acquisizioni, che dovevano consentire di disarticolare la struttura economica e quella operativa facente capo al Riina, evitare ogni intervento immediato, o comunque affrettato”; nel pomeriggio, poi, il De Caprio “addusse le medesime ragioni per richiedere espressamente che non venisse eseguita la perquisizione”, e la richiesta fu accolta. L’episodio del pranzo, con le frasi che ivi il col. Mori ed il cap. De Caprio ebbero a pronunziare, costituisce evidentemente un punto cruciale per l’esatta ricostruzione dell’intera vicenda, essendo il momento in cui, nella prospettiva accusatoria, si sarebbe manifestato l’inganno da parte degli imputati ovvero, secondo quella difensiva, si sarebbe ingenerato l’equivoco tra, da una parte, l’Autorità Giudiziaria e la territoriale, e, dall’altra, gli imputati. Pertanto si rende necessario, ai fini di una maggiore intellegibilità della vicenda – sulla quale in questa sede si omette ogni valutazione che sarà esaminata nella parte conclusiva di questa sentenza – riportare esattamente le diverse versioni, per come riferite da ciascun protagonista, in merito ai termini con i quali avvenne questo scambio di opinioni ed a come si pervenne alla decisione finale di non dare più seguito alla perquisizione già predisposta. Il dott. Vittorio Aliquò ha dichiarato che ad un certo punto – durante il pranzo cui stavano partecipando numerosi magistrati ed ufficiali dell’Arma in un clima di confusione e di concitazione generale - sopraggiunse Sergio De Caprio il quale manifestò vivo “disappunto” per la decisione che era stata presa di procedere alla perquisizione, aggiungendo che così si rischiava di far fallire tutta l’operazione. Disse, infatti, che, come avevano fatto in precedenti esperienze, mantenere l’osservazione, senza alcun intervento operativo immediato, avrebbe potuto portare risultati investigativi di gran lunga maggiori, consentendo di scoprire dove il gruppo corleonese avesse i propri interessi economici ed associativi, od individuare eventuali altre persone, anche insospettabili, che si fossero “allertate”, recandosi al complesso, per verificare come le forze dell’ordine erano pervenute all’individuazione del Riina e pianificare eventuali ulteriori azioni criminose da intraprendere. Tale proposta fu condivisa anche dal col. Mori che godeva, come il capitano d’altronde, della massima stima e fiducia degli inquirenti. Sentimenti che si erano altresì fortificati ed incrementati con l’eccezionale risultato dell’arresto del Riina, evento tanto più eccezionale se parametrato non solo alla “caratura” del personaggio catturato, ma al momento storico in cui era avvenuto, particolarmente critico per le istituzioni umiliate dalle stragi dell’estate precedente, ed alle modalità di luogo e di tempo del tutto particolari con le quali si era realizzato, nella città di Palermo, senza neppure la necessità di intraprendere un conflitto armato, appena sei giorni dopo il concreto avvio delle indagini costituito dalle rivelazioni del Di Maggio. Si poneva, dunque, una delicata scelta di politica investigativa, tra l’agire subito ovvero ritardare ogni iniziativa diretta sul sito, per mantenerlo sotto osservazione in attesa di auspicabili sviluppi ancora più soddisfacenti. La Procura scelse di aderire alle richieste avanzate dal ROS e di assumere il rischio di ritardare la perquisizione, convenendo – ha precisato il dott. Aliquò - di aspettare non oltre le 48 ore. Sul punto, il dott. Caselli ha dichiarato in dibattimento che il perimetro dei suoi ricordi è solo quello cristallizzato nella nota redatta il 12.2.93, ove fece riferimento all’assicurazione, fornita da ufficiali del ROS il mattino e ribadita specificatamente dal De Caprio nel corso del pranzo, di un “costante ed attento controllo” su tutti i luoghi d’indagine e sul complesso di via Bernini in merito ai quali, nella prospettazione del ROS, “era assolutamente indispensabile, per non pregiudicare ulteriori importanti acquisizioni, che dovevano consentire di disarticolare la struttura economica e quella operativa facente capo al Riina, evitare ogni intervento immediato, o comunque affrettato”. Conseguentemente assunse la decisione, concordandola con tutti gli altri colleghi, di rinviare la perquisizione.

Il covo improvvisamente abbandonato. La Repubblica il 15 agosto 2020. Il medesimo dott. Caselli, tuttavia, non ha saputo precisare i termini di tale rinvio e, difatti, non venne concordato un preciso momento finale, trascorso il quale, in difetto di nuove acquisizioni investigative provenienti dall’osservazione del complesso, si sarebbe dovuto procedere alla perquisizione, ma tale valutazione fu rimessa all’esito degli sviluppi dell’operazione che - si credeva - il ROS avrebbe portato avanti. Operazione complessa, “che voleva i suoi tempi” – ha dichiarato il dott. Caselli – atteso lo stato dei luoghi (non era noto da quale villetta, delle numerose ivi esistenti, fosse uscito il Riina) e la “ben ipotizzabile presenza di pezzi dell’organizzazione nei pressi e nei dintorni”. Che la rivalutazione della decisione di soprassedere all’immediata perquisizione fosse affidata a quelle che sarebbero state le risultanze dell’operazione condotta dal ROS è stato confermato anche dal magg. Domenico Balsamo, il quale ha riferito che, quando ormai erano state approntate le squadre che avrebbero dovuto procedere alla perquisizione, sopraggiunse il De Caprio, dicendo che sarebbe stato più utile sfruttare il vantaggio costituito dal fatto che il collegamento tra il Riina e via Bernini non era stato reso noto e, quindi, proseguire l’osservazione ed il controllo sul complesso. A suo dire, in questo modo, sarebbe stato possibile anche arrivare al cuore degli interessi economici di “cosa nostra” e disarticolare la struttura imprenditoriale facente capo ai Sansone che di quella costituiva proiezione diretta nel circuito affaristico. Il magg. Mauro Obinu, all’epoca dei fatti comandante del reparto criminalità organizzata del ROS, ha riferito che nell’occasione del pranzo si profilarono due prospettive di lavoro, quella “a caldo”, sostenuta da qualche magistrato e dai suoi colleghi della territoriale, che voleva entrare subito nel comprensorio di via Bernini e vedere cosa si sarebbe trovato, l’altra, da lui stesso sostenuta assieme al De Caprio, che propugnava, in modo peraltro fedele allo spirito iniziale delle attività investigative, di astenersi da alcun movimento sul territorio, al fine di sviluppare un’attività d’indagine di medio-lungo periodo sull’obiettivo Sansone, che sin dall’inizio era stato l’oggetto del servizio di osservazione svolto in via Bernini. Ciò nell’intento di giungere alla destrutturazione della leadership corleonese, attraverso l’intelligente sfruttamento di quel dato – via Bernini in correlazione con gli imprenditori Sansone – che “cosa nostra” ignorava fosse stato acquisito al loro patrimonio informativo. Nei giorni seguenti, ha aggiunto il teste, la scelta del ROS fu quella di “far raffreddare i luoghi”, in attesa di una ripresa delle attività investigative quando le condizioni di recuperata “tranquillità” dell’area lo avessero consentito, e, cioè, quando i Sansone avessero ripreso i loro normali contatti, cosa che però non avvenne mai perché le perquisizioni al cd. “fondo Gelsomino” del 21.1.93 ed a “Casa del Sole” vanificarono, a suo dire, questi intenti, così come le iniziative giudiziarie che condurranno ai primi di febbraio all’arresto dei Sansone. In quest’ottica – ha precisato il teste – appariva scontato, e come tale non fu oggetto di alcuna specifica discussione né con il De Caprio né con altri, che non sarebbe stato possibile proseguire il servizio di osservazione con quelle modalità con le quali si stava ancora svolgendo quello stesso 15.1.93. Difatti, la conformazione dei luoghi (via Bernini presentava un andamento lineare in quel tratto, con auto parcheggiate su entrambi i lati), le caratteristiche del comprensorio (era visibile solo la cancellata di ingresso per le auto e non le singole unità immobiliari), la sua ubicazione nella zona Uditore della città, sottoposta al controllo sistematico del territorio da parte della famiglia mafiosa di appartenenza, rendeva evidente l’impossibilità di replicare, il giorno dopo l’eclatante cattura del boss corleonese, il servizio riposizionando il furgone di fronte all’ingresso del complesso. La presenza di tale mezzo, estraneo a quelli solitamente presenti sulla via, sarebbe stata senz’altro notata – ha concluso il teste – vanificando ogni futura proiezione investigativa. Date queste premesse, il magg. Obinu ha anche negato che il De Caprio avesse motivato la proposta di non procedere alla perquisizione con il fatto che contava di vedere chi sarebbe venuto a prelevare i familiari del Riina; quanto al fatto relativo alla dismissione del servizio, ha aggiunto che ne venne a conoscenza nella serata dello stesso 15 gennaio od il giorno seguente, senza essere in grado di specificare altro. Alla domanda se l’Autorità Giudiziaria avesse condiviso questo piano operativo di indagine strutturato sul lungo periodo, richiedendo però nel contempo al ROS anche l’espletamento di un’attività di osservazione su via Bernini e se il raggruppamento avesse assicurato che avrebbe svolto tale servizio, il teste ha risposto che la linea operativa fu autorizzata dalla  magistratura con “l’ovvia necessità di mantenere un velo di contatto” con l’area di via Bernini, contatto inteso come mantenimento della presenza del furgone sul posto sino a quando fosse stato ritenuto possibile. Il gen. Giorgio Cancellieri, comandante della Regione carabinieri Sicilia all’epoca dei fatti, ha riferito che, nelle prime ore del pomeriggio del 15 gennaio 1993, il cap. De Caprio richiese di non andare a modificare la linea che era stata seguita nella conferenza stampa, ovvero di procastinare la perquisizione per non danneggiare le indagini che il ROS stava svolgendo; si parlò, in quell’occasione, di accertamenti che andavano condotti sul patrimonio e su una serie di società aventi sede nel complesso residenziale di via Bernini. Il cap. Marco Minicucci ha dichiarato che l’imputato De Caprio, dopo averlo bloccato nel cortile della caserma dove si trovava già pronto a partire per l’irruzione al complesso, tornò dicendogli che era stata presa la decisione di rinviare la perquisizione, per non pregiudicare le attività di osservazione in corso e le investigazioni sui Sansone che erano ancora aperte. Il col. Sergio Cagnazzo, che non era presente al pranzo in quanto stava predisponendo il trasferimento del Riina in un carcere di sicurezza, ha riferito di aver saputo dal magg. Balsamo e dal cap. Minicucci che era stata presa la decisione di rinviare la perquisizione per sfruttare il successo che si era ottenuto con l’arresto e continuare l’attività investigativa, vedendo chi si sarebbe recato al complesso. L’imputato De Caprio ha riferito, in proposito, che chiese, già nella mattina e poi di nuovo al pranzo, dopo avere incontrato il cap. Minicucci, di non procedere alla perquisizione perché avrebbe “bruciato” l’indagine sui Sansone, la cui utenza in via Bernini continuava ad essere intercettata, rendendo noto a “cosa nostra” l’esistenza di un collaboratore, che doveva aver fornito il nominativo degli imprenditori, altrimenti sconosciuti alle forze dell’ordine, attraverso cui si era arrivati al complesso immobiliare ed alla cattura del Riina. L’esigenza primaria – a suo avviso – era garantire la segretezza della collaborazione del Di Maggio ed avviare anche sui Sansone un’indagine a medio- lungo termine, analoga a quella già in corso sui Ganci, in modo da arrivare, tramite i primi, a disarticolare l’intera struttura che faceva capo al Riina e così colpire gli interessi economici del gruppo criminale. Nessuno gli rappresentò una volontà diversa, ed anzi sia i magistrati che gli ufficiali dell’Arma presenti concordarono con lui sulla necessità di proseguire l’indagine, per cui la decisione di effettuare la perquisizione fu annullata. In aderenza al suo progetto investigativo, che riteneva evidente a tutti in quanto era nota a tutti l’importanza per le indagini degli imprenditori, assicurò di proseguire l’attività di osservazione e controllo sui Sansone, cosa ben diversa e più ampia del servizio di osservazione visiva sul complesso di via Bernini. Tra l’altro, erano note le caratteristiche morfologiche della strada, che già aveva impedito di collocare telecamere fisse – in quanto era priva di supporti adeguati ad ospitare ed occultare efficacemente mezzi di video ripresa – e che non consentivano – per la limitata ampiezza della carreggiata nonché l’ampia visibilità delle auto che si fossero parcheggiate in prossimità del civico nn. 52/54 – di farvi rimanere posizionato il furgone per un tempo prolungato e continuato, la cui presenza sarebbe stata senz’altro notata da esponenti dell’organizzazione, resi vieppiù attenti ed accorti dalla cattura del Riina. L’imputato non ha escluso che, nella concitazione di quei momenti e nella foga di quelle discussioni, si sia parlato anche, in modo generico, di vedere dove sarebbero andati non tanto la moglie del boss, che non aveva uno specifico rilievo per le investigazioni, quanto l’autista Vincenzo De Marco, ma poi, nel pomeriggio, realizzò che per quel giorno non si poteva fare di più e che, dopo la diffusione da parte dei mezzi di informazione della notizia sull’arresto, era fortissimo il rischio che il furgone, a bordo del quale c’era pure il collaboratore, venisse notato. Le condizioni di sicurezza erano a suo avviso compromesse, per cui decise di fare rientrare il mezzo e di sospendere, per il giorno seguente, l’attività. Il 16 gennaio accadde un fatto nuovo, e difatti il predetto De Caprio vide in televisione diverse troupes di giornalisti che passavano davanti al cancello del complesso di via Bernini alla ricerca del cd. “covo”. Ne rimase sconcertato, ma ciò valse, da una parte, a confermargli l’esattezza della decisione che aveva preso nel pomeriggio precedente di non riattivare il servizio con il furgone l’indomani, che altrimenti sarebbe stato certamente scoperto, dall’altra, a consolidare questa sua decisione, determinandolo a non ripristinarlo neppure i giorni successivi, in attesa che “si calmassero le acque” per poi avviare l’attività di indagine dinamica, mediante pedinamenti ed osservazione con mezzi di video ripresa, mirata sui Sansone. Al riguardo l’imputato ha dichiarato che non comunicò ad alcuno la sua decisione, che riteneva fisiologica alla scelta investigativa già fatta il giorno dell’arresto del Riina, neppure al proprio superiore Mario Mori con il quale ne parlò solo a fine gennaio. Nel frattempo, il suo gruppo completò gli accertamenti patrimoniali e societari già iniziati prima dell’arresto, i cui esiti furono relazionati alla Procura della Repubblica con nota del 26.1.93; fu impegnato nella redazione delle relazioni di servizio in merito alle videoriprese effettuate il 14 ed il 15 gennaio; si occupò della individuazione dei soggetti sconosciuti che erano stati visti accedere al complesso di via Bernini, nonché degli accertamenti relativi alla localizzazione dell’altra villa di cui aveva parlato il Di Maggio, situata in via Leonardo Da Vinci, che però non fu possibile individuare.

L’attività dinamica sui Sansone, tuttavia, non venne mai intrapresa, a causa – ha dichiarato l’imputato – del precipitare degli eventi e, cioè, dell’ulteriore fattore di disturbo costituito dalla perquisizione del cd. “fondo Gelsomino”, avvenuta in data 21.1.93. L’imputato Mori, in sede dichiarazioni spontanee, ha ribadito le stesse argomentazioni: una volta catturato Salvatore Riina, l’attenzione investigativa del ROS si concentrò sui Sansone, attraverso i quali si confidava di poter arrivare a destrutturare tutto il gruppo corleonese; la perquisizione al complesso di via Bernini avrebbe svelato agli uomini di “cosa nostra” il fatto che gli imprenditori erano stati individuati; era noto sia all’Autorità Giudiziaria che ai reparti territoriali che dal punto di osservazione in cui era stato possibile collocare il furgone si era in grado di vedere solo il cancello del complesso e non all’interno; dunque, in ogni caso, non sarebbe stato possibile osservare chi si fosse recato alla villa del Riina né quali attività vi avesse svolto; era altresì noto che lo stato dei luoghi non consentiva di lasciare a lungo posizionato sulla via un mezzo estraneo, quale il furgone, perché sarebbe stato notato. Quanto alle indagini sui Sansone, ordinò la costituzione di un gruppo “ad hoc” che avrebbe dovuto essere diretto dal cap. De Donno, il quale, come confermato da quest’ultimo in dibattimento, non ebbe mai il tempo di entrare in attività, a causa delle iniziative intraprese dall’Autorità Giudiziaria sull’obiettivo, che vanificarono quello che doveva essere il loro metodo di indagine, basato sull’osservazione a lungo termine. Tale prospettazione si ritrova esplicitata anche nella nota del 18.2.93 (all. h doc. P.M.), inviata da col. Mario Mori al Procuratore dott. Caselli, in risposta alla richiesta di chiarimenti che gli era stata avanzata da quest’ultimo, ove si legge che “nelle ore successive all’arresto in effetti tutti gli ufficiali dipendenti da questo Ros presenti in Palermo, lo scrivente, Magg. Mauro Obinu, Cap. Giovanni Adinolfi, Cap. Sergio De Caprio, suggerivano la necessità, dettata da una logica investigativa di agevole comprensione, di far apparire l’arresto come un’azione episodica in modo da consentire la successiva osservazione ed analisi della struttura associativa esistente intorno ai fratelli Sansone”, per cui “veniva ritenuto contrario allo scopo qualunque intervento sull’obiettivo localizzato nel civico n. 54 di via Bernini. Tale attività, per motivi di opportunità operativa ed anche di sicurezza, veniva sospesa in attesa di una successiva riattivazione, allorché, le condizioni ambientali lo avessero consentito in termini di mimetismo. Quando cioè, dopo alcuni giorni, vi fosse stata la ragionevole certezza che il dispiegamento sul territorio di un pertinente dispositivo di osservazione e pedinamento non avrebbe allarmato eventuali “osservatori” di Cosa Nostra, certamente attivati dopo la cattura di Riina. Atteso, peraltro, che l’utenza del Sansone continuava, con altre, ad essere tenuta sotto controllo. Appariva scontato, per un sempre più incisivo prosieguo dell’azione di contrasto al gruppo corleonese, come l’interesse superiore fosse quello di lasciare “muovere” per un periodo di media durata i fratelli Sansone, al fine di potere successivamente verificare sotto l’aspetto dinamico i loro contatti e lo svolgersi delle (loro) attività nell’intento di acquisire ulteriori ed originali elementi di investigazione per smantellare l’intera struttura”. Sui motivi per cui tale indagine, di tipo dinamico, non fu poi in effetti avviata, si legge che “una inopinata fuga di notizie sui luoghi e sui personaggi imponeva una accelerazione dei tempi di intervento sui Sansone che ha nociuto all’iniziale piano di contrasto, in quanto le investigazioni avrebbero dovuto essere improntate sulla distanza”, concludendo che si era trattato di un equivoco, causato dalle “successive necessarie varianti sui tempi di realizzazione e sulle modalità pratiche di sviluppo, sulla cui professionalità d’attuazione garantisco di persona”. Circa il servizio di osservazione su via Bernini, nella medesima nota si dà atto che in effetti vi fu la “mancata, esplicita comunicazione all’A.G. competente della sospensione dei servizi di sorveglianza su via Bernini”, aggiungendo che anche questa circostanza “va inserita in tale quadro, poiché chi ha operato ha sicuramente inteso di potersi muovere in uno spazio di autonomia decisionale consentito”. In definitiva, la decisione, da tutti condivisa, di non effettuare la perquisizione fu assunta, nella ricostruzione che ne danno i diretti protagonisti, sulla base di presupposti tra loro antitetici: quello della continuazione del servizio di osservazione sul complesso di via Bernini, nelle valutazioni della Procura della Repubblica e dell’Arma territoriale; quello della pianificazione di un’attività di indagine a medio-lungo termine da intraprendere una volta “raffreddato” il luogo, nelle argomentazioni del ROS. Il primo, supportato dalla considerazione di carattere logico, poi confermata dai fatti di successiva realizzazione, che avesse senso omettere la perquisizione se ed in quanto si continuasse a video riprendere il residence; il secondo motivato, invece, dalle considerazioni legate alle modalità tecniche di esecuzione del servizio ed allo stato dei luoghi, che ne avrebbero reso impossibile la reiterazione nei giorni seguenti in condizioni di sicurezza, nonché dalla finalità, asseritamente perseguita, di voler sviluppare indagini nel lungo periodo sul circuito associativo dei Sansone. Per gli uni, l’attività di osservazione non poteva che consistere nella prosecuzione di quella già in atto, ovvero del contatto visivo con l’area di interesse; per gli altri, secondo le riferite argomentazioni difensive, l’osservazione andava, invece, intesa in senso lato e più ampio, come controllo e sorveglianza dell’obiettivo investigativo in un ambito temporale prolungato, nel quale il contatto visivo con il sito era un elemento certamente essenziale ma che poteva essere rinviato a quando le condizioni ambientali fossero divenute favorevoli, consentendone l’utile e sicura ripresa. Appare decisivo, al riguardo, accertare anche se fu spiegato all’Autorità Giudiziaria quale tipo di importanti acquisizioni si sarebbero potute ottenere con l’attività che il ROS si riprometteva di intraprendere. In proposito, i vari soggetti direttamente coinvolti hanno dichiarato che valutarono la possibilità che qualcuno si recasse al complesso di via Bernini a prelevare i familiari del Riina, ad esempio lo stesso Leoluca Bagarella in quanto fratello di “Ninetta”, o che, comunque, vi si recassero altri affiliati per riunirsi e decidere che fare dopo la cattura del boss, ma nessuno ha saputo riferire, con certezza, se anche gli imputati espressero tali considerazioni. Ed anzi, in merito al tipo di esiti che si contava di acquisire e, dunque, specularmente, al tipo di servizio tecnico che il ROS avrebbe dovuto svolgere, il dott. Caselli ha risposto chiarendo che non se ne parlò affatto, nello specifico. Questo in quanto - ha aggiunto - lo spazio di autonomia decisionale ed operativa lasciato ai membri del raggruppamento era amplissimo, sia perché il profilo tecnico di esecuzione delle attività di investigazione era rimesso alla loro precipua competenza quali organi di polizia giudiziaria, sia per ragioni di sicurezza legate all’eventualità di trovarsi coartato, in eventuali frangenti di privazione della libertà personale, a rivelare notizie sulle operazioni in corso. Il dott. Aliquò ha dichiarato di conoscere che, a seguito delle dichiarazioni del Di Maggio, il ROS aveva avviato accertamenti sui Sansone, nell’ambito delle attività mirate alla ricerca dei grandi latitanti, poi individuandoli in via Bernini, ma questa indagine era autonoma – nella sua valutazione – rispetto a quella sul Riina, per cui, quando la Procura, nella mattinata del giorno dell’arresto, diede le iniziali disposizioni per procedere alla perquisizione aveva “accantonato l’idea che potessero influirsi reciprocamente”, anche perché, nonostante l’ubicazione nello stesso complesso, non si sapeva quale fosse la distanza tra la villa abitata dai Sansone e quella del Riina. In definitiva, l’Autorità Giudiziaria non considerò affatto che la perquisizione avrebbe inciso negativamente sull’indagine in merito ai Sansone, la cui utenza telefonica era peraltro sottoposta ad intercettazione. Sulle modalità dell’osservazione, il teste ha riferito che: nei giorni precedenti la cattura del boss, doveva essere il 13 gennaio, parlò con la prima sezione di come dovesse svolgersi il servizio di osservazione su via Bernini, suggerendo di mettere una o più telecamere fisse sui pali dell’elettricità o da qualche altra parte, ma gli fu risposto che era impossibile perché sarebbero state scoperte; per tale ragione bisognava dunque utilizzare il furgone, ma anche questo – gli fu detto dal ROS - era molto rischioso. D’altronde, sin dall’avvio dell’indagine mirata alla ricerca del latitante in seguito alle dichiarazioni del Di Maggio, aveva sempre raccomandato che tutte le operazioni si svolgessero con la massima attenzione per l’incolumità del personale, considerato che il Riina non era un personaggio qualunque per cui i rischi erano enormemente superiori rispetto ad altre indagini. Tuttavia, da quel giorno, non furono più affrontati né l’argomento relativo al servizio di osservazione né il problema della sicurezza del personale e, difatti, ha dichiarato il dott. Aliquò, da quel 13 gennaio non ebbe mai più occasione di riparlarne. Sia il dott. Aliquò che il dott. Caselli hanno, inoltre, riferito che, per quanto a loro conoscenza, questi servizi riguardavano diversi siti e non solo via Bernini. Il primo ha precisato che tutti i luoghi di cui il Di Maggio aveva parlato, risultati ancora “attivi” cioè abitati (perché molti in realtà risultarono essere ormai ruderi abbandonanti), erano sottoposti ad osservazione, fosse essa diretta oppure a mezzo di apparecchiature di video ripresa, nei giorni precedenti alla cattura di Riina. Ma anche dopo l’evento si riteneva che fossero sotto sorveglianza, come esplicitato nella nota del dott. Caselli portante la data del 12.2.93, ove si legge che il ROS ebbe a manifestare quel 15.1.93 che “i vari luoghi di interesse per l’indagine” erano “sotto costante e attento controllo”. In realtà – per quanto risulta dalle acquisizioni processuali - l’area di via Bernini fu l’unica ad essere oggetto dell’osservazione del ROS, eccettuato il servizio del 14 gennaio 1993 sul cd. “fondo Gelsomino”, mentre sugli altri siti furono condotte solo attività di sopralluogo. D’altronde, le modalità con le quali il raggruppamento effettuava i servizi di propria pertinenza erano sconosciute pure agli altri organi investigativi chiamati ad operare direttamente sul campo, quale il Nucleo Operativo nelle persone del magg. Balsamo, che pure aveva visto i filmati relativi alle video riprese di via Bernini, ma che solo successivamente apprese che non era stata utilizzata una telecamera fissa esterna, bensì un furgone attrezzato con telecamera, e del cap. Minicucci, che, addirittura, ignorava fosse stata utilizzata una telecamera e riteneva che l’osservazione fosse stata di tipo diretto. In definitiva, sia la territoriale che la Procura rimasero convinte che il ROS proseguisse quella “osservazione”, sia pure non esattamente conosciuta nelle sue modalità tecniche, che aveva iniziato il 14 gennaio 1993 e che il 15 aveva portato all’arresto del Riina. Invece, come detto, nel pomeriggio di quella stessa giornata, alle ore 16.00, il furgone con a bordo l’app.to Coldesina e Baldassare Di Maggio faceva rientro in caserma su ordine dell’imputato De Caprio, ed il servizio non venne più riattivato. Nei giorni immediatamente successivi, i militari Coldesina, Riccardo Ravera, Pinuccio Calvi ed Orazio Passante rientrarono in sede a Milano. I magistrati, invece, che erano rimasti in attesa degli sviluppi dell’operazione, non ricevettero più alcuna notizia ed anzi cominciarono a circolare in Procura dubbi e perplessità sull’operato del ROS, in conseguenza del rientro della Bagarella a Corleone e del prolungato silenzio sugli esiti del servizio di osservazione.

Il ritorno di Ninetta a Corleone. La Repubblica il 16 agosto 2020. Il giorno 16 gennaio 1993 accaddero altri due fatti che avrebbero condizionato il successivo decorso degli eventi. Salvatore Certa, all’epoca dirigente del commissariato P.S. di Corleone, ha riferito in dibattimento di aver appreso quel giorno, dal tenore delle conversazioni telefoniche intercettate sulle utenze della casa abitata dai familiari del Riina, che la Bagarella con i figli aveva fatto ritorno in paese, come in effetti verificò procedendo alla loro identificazione presso gli uffici del commissariato. La notizia fu immediatamente comunicata per via telefonica al dott. Aliquò (v. sua deposizione), che richiese oralmente al col. Curatoli di avviare degli accertamenti in merito, rimasti senza esito. L’indomani il procuratore aggiunto prese parte, con il dott. Caselli e diversi ufficiali dell’arma territoriale, ad una riunione nel corso della quale questi ultimi manifestarono alcune perplessità, in considerazione del fatto che il ROS non aveva comunicato l’allontanamento della Bagarella dal sito di via Bernini. Le medesime perplessità cominciarono a circolare anche tra alcuni sostituti procuratori, come testimoniato dal dott. Luigi Patronaggio (ud. 26.9.05), secondo il quale quell’episodio suonò come un primo “campanello d’allarme”. Tuttavia, la fiducia nel ROS e nella persona di Mario Mori era assoluta, così come la convinzione che il complesso fosse sotto controllo, tanto che il dott. Caselli concluse quella riunione dicendo che bisognava lasciare altro spazio agli investigatori che stavano lavorando, e vedere cosa succedeva. Sempre quel 16.1.93 diversi giornalisti, tra cui Alessandra Ziniti ed Attilio Bolzoni – come da loro deposto in dibattimento all’udienza dell’11.7.05 - ricevettero da parte dell’allora magg. Roberto Ripollino una telefonata con la quale quest’ultimo gli rivelò che il luogo in cui Salvatore Riina aveva trascorso la sua latitanza era situato in Via Bernini, senza però specificarne il numero civico. Si recarono, quindi, immediatamente sul posto, ove furono raggiunti anche da altri giornalisti e troupes televisive, tutti alla ricerca del cd. “covo”. Quella sera stessa la Ziniti mandò in onda, sulla televisione locale per la quale lavorava, un servizio nel quale mostrava le riprese di via Bernini e tra queste anche quella relativa al complesso situato ai nn. 52/54, aggiungendo che in base ad “indiscrezioni” che le erano pervenute quella era la zona ove il Riina aveva abitato. Lo stesso 16.1.93 apparve sulla stampa la notizia che “un siciliano di nome Baldassarre” stava collaborando con i carabinieri ed aveva dato dal Piemonte, ove si era trasferito, un input fondamentale alla individuazione del Riina (cfr. lancio Ansa acquisito all’udienza del 9.1.06). Posto dinnanzi a queste risultanze di fatto, il magg. Roberto Ripollino – escusso all’udienza del 21 novembre 2005 – ha dichiarato che all’epoca dei fatti era addetto all’ufficio Operazioni Addestramento Informazioni e Ordinamento (OAIO) del comando Regione Carabinieri Sicilia, il quale aveva competenze meramente gestionali, a livello regionale, in merito ai fenomeni criminali ed alle operazioni condotte sul territorio, con compiti informativi all’interno del comando. A seguito dell’arresto del Riina, ricevette dal comando l’incarico di gestire i rapporti con i giornalisti accreditati (diverse decine) che contattò telefonicamente in occasione della prima conferenza stampa e di tutte quelle che ne seguirono. Interrogato specificatamente in merito alle telefonate effettuate il 16 gennaio, il teste ha precisato di avere solo un ricordo generale di continui contatti con i giornalisti, ma di non ricordare la circostanza contestata né di aver fornito l’indicazione su via Bernini come possibile sito di localizzazione del “covo” del Riina, e difatti non conosceva tale via, in quanto gli era stato detto solo che il Riina era stato catturato in prossimità del motel Agip. Se pure avesse dato tale indicazione – ha dichiarato in sede di indagini preliminari e confermato in dibattimento – non potrebbe che averlo fatto in esecuzione di specifiche disposizioni impartitegli dal suo superiore col. Sergio Cagnazzo il quale, tuttavia, ha negato, in dibattimento, di avergli mai dato ordine in tal senso, aggiungendo che non era certamente interesse di nessuno “bruciare” il sito di via Bernini. Il gen. Cancellieri ha, sul punto, dichiarato di non essere mai stato a conoscenza di tale fuga di notizie, che avrebbe appreso solo nel corso della sua deposizione nel presente dibattimento. L’imputato De Caprio ha, invece, dichiarato di avere visto in televisione, quello stesso 16.1.93, un servizio che mostrava il cancello del complesso di via Bernini, apprendendo così che la notizia era in qualche modo filtrata, e di avere commentato la cosa con il proprio collaboratore mar.llo Santo Caldareri, dicendogli che il sito era stato “bruciato”; circostanza che ha trovato conferma nella deposizione resa dallo stesso Caldareri. Altro elemento di fatto che l’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare è che Sergio De Caprio, dal giorno dell’arresto di Riina, non partecipò più ad alcuna riunione né con l’Autorità Giudiziaria in Procura né con l’Arma territoriale. Difatti, mentre sino a quel momento il ROS ed il Nucleo Operativo, per esigenze di coordinamento delle indagini e di scambio di informazioni, avevano avuto contatti continui ed erano stati coinvolti, con cadenza quotidiana, in riunioni operative, dopo la cattura ciascuno si concentrò sulle attività di propria competenza e tra i due organismi il flusso di notizie e comunicazioni si interruppe. Così come, parimenti, cessò ogni contatto anche tra i magistrati e l’imputato. Va qui precisato che l’annotazione in senso contrario riportata nella comunicazione del 12.2.93 a firma del dott. Caselli, laddove menziona una riunione del 20.1.93 nel corso della quale il cap. De Caprio avrebbe suggerito, unitamente ad altri colleghi della territoriale, di effettuare al più presto la perquisizione al cd. “fondo Gelsomino” “al fine di deviare l’attenzione dall’obiettivo reale delle indagini al quale – fu detto – alcuni giornalisti erano ormai arrivati assai vicini e che invece conveniva tenere ancora sotto controllo”, si è rivelata erronea. In proposito, deve rilevarsi che per la redazione di quella nota il dott. Caselli si basò su un appunto manoscritto redatto dal dott. Aliquò - che ne ha riconosciuto la paternità in dibattimento - il 7 o l’8 febbraio 1993, quando, eseguita la perquisizione ed appurato che il cd. “covo” di Riina era stato svuotato da ignoti, si pose il problema di chiedere all’Arma ed al ROS chiarimenti su quanto era accaduto. Fu allora che il procuratore aggiunto, che aveva partecipato a tutte le riunioni operative, redasse, a mano, un diario degli avvenimenti nonché la bozza della lettera per il dott. Caselli, utilizzando quelli che erano i suoi ricordi ed i dati contenuti in una nota dattiloscritta elaborata, sempre successivamente agli eventi, dai colleghi sostituti procuratori.

Documenti a loro volta contenenti alcuni dati erronei, come l’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare. In merito alla riunione in oggetto, è stato provato – sulla base di quanto riferito concordemente da tutti testi di seguito nominati - che non vi partecipò personalmente il dott. Caselli ma il dott. Aliquò, e che vi prese parte solo l’Arma territoriale nelle persone del gen. Cancellieri, del col. Cagnazzo e del cap. Minicucci. Fu proprio il col. Cagnazzo a suggerire - avendo appreso da notizie di stampa che i giornalisti stavano battendo la zona di via Bernini alla ricerca del cd. “covo” - di effettuare quella perquisizione a scopo diversivo. Valutazione che venne accolta e condivisa dall’Autorità Giudiziaria e che portò, il giorno seguente (21.1.93), all’esecuzione ex art. 41 TULPS dell’operazione, con grande clamore e dispiegamento di mezzi per garantirne la più ampia pubblicità. Anche l’annotazione manoscritta del dott. Aliquò non menziona, tra i partecipanti, gli imputati; in proposito però l’allora procuratore aggiunto ha dichiarato, in dibattimento, che qualcuno del raggruppamento doveva essere presente e ciò non per un suo preciso ricordo – inesistente sul punto – ma perché, comunque, il raggruppamento non poteva non esserne informato. Deduzione di carattere logico che è stata espressa anche dal gen. Cancellieri, secondo cui la territoriale era “servente” rispetto al ROS in quell’operazione e che vale a spiegare come mai il cap. De Caprio fu indicato come presente nella lettera del 12.2.93, quando invece non lo era. Neppure vi partecipò il col. Mori che quel giorno alle ore 13.00 fece rientro da Palermo a Roma (cfr. consuntivo dei servizi fuori sede depositato dalla difesa), della cui presenza, difatti, non ha riferito alcuno. Il ROS, nella persona del magg. Mauro Obinu – come ha riferito in dibattimento - era a conoscenza dei preparativi della perquisizione, ma non partecipò alla riunione che la deliberò, non condivise la decisione che ne scaturì e non prese parte all’operazione, che fu eseguita solo dalla territoriale. La finalità dell’iniziativa – ha riferito il gen. Cancellieri – era duplice, ovvero investigativa, tenuto conto che il fondo “Gelsomino” era stato sempre considerato uno degli obiettivi dell’indagine, avendone parlato il Di Maggio come uno dei luoghi che il Riina aveva frequentato, e di depistaggio della stampa, che proprio per questo fu preavvertita della perquisizione dal magg. Ripollino.

Il Ros di Mori, un reparto troppo speciale. La Repubblica il 17 agosto 2020. Sempre il gen. Cancellieri ha aggiunto che in considerazione di quella finalità investigativa, quando si scoprirà che non vi era alcun servizio di osservazione in atto su via Bernini, non avvertì la necessità di riparlare della perquisizione eseguita il 21 gennaio, sulla base di un presupposto inesistente, in quanto quell’operazione “andava comunque fatta”. Le superiori emergenze, quindi, portano a ritenere che l’Arma territoriale agì in quell’occasione in piena autonomia, nell’intento di rendere un servizio al ROS ma senza interloquire ed interagire con il medesimo. In proposito, il Collegio osserva che la mancanza di raccordo tra i due organismi debba essere valutata tenendo conto del fatto che ciascuno, all’epoca in oggetto, conservava e proteggeva gelosamente le proprie prerogative ed era impegnato a portare avanti il proprio filone di indagini. La prima sezione del raggruppamento, sin dal giorno dell’arresto di Riina, si occupò di eseguire gli accertamenti e le analisi di riscontro sul materiale sequestrato, al momento della cattura, al boss corleonese ed al Biondino, consistente in decine di fogli manoscritti, i cd. “pizzini”, ed altra documentazione, i cui risultati furono relazionati all’a.g. con note del 22 e 26.1.93; avanzò richieste di intercettazione telefonica in relazione a decine di utenze riconducibili a società o a persone fisiche menzionati, direttamente od indirettamente, nei sopradetti “pizzini”; collaborò ad accertamenti di carattere societario e patrimoniale sui fratelli Sansone (cfr. nota 26.1.93 all. n. 28 doc. difesa De Caprio; deposizioni dei testi Obinu e Caldareri). In merito a questi ultimi, nei giorni successivi all’arresto, il cap. De Donno ricevette l’incarico da parte del vicecomandante operativo Mori di costituire un gruppo, con componenti sia del ROS che della territoriale, che avrebbe dovuto occuparsi di indagare in via esclusiva sulla struttura economico- imprenditoriale dei Sansone e sugli interessi riconducibili a “cosa nostra”, ma non ebbe il tempo di avviare, dal punto di vista operativo, le attività in quanto, come detto, ai primi di febbraio i Sansone furono arrestati. Il Nucleo Operativo proseguiva, invece, l’attività di riscontro sulle ulteriori propalazioni del Di Maggio ed era impegnato, specificatamente il gruppo 2, nelle operazioni di ascolto delle utenze intestate ai Sansone, tra cui quella di via Bernini, operazioni che cessarono il 20.1.93 – lo stesso giorno in cui venne deliberata la perquisizione al “fondo Gelsomino” - giusta decreto di revoca dell’Autorità Giudiziaria (cfr. all. n. 27 doc. difesa De Caprio). Inoltre, doveva essere localizzata, all’interno del complesso, la villa dalla quale Salvatore Riina era uscito e dovevano svolgersi i necessari accertamenti in merito allo stato dei luoghi nonché alla proprietà del residence e delle varie unità immobiliari che lo componevano. Con nota del 26.1.93, pervenuta in Procura il giorno seguente, il ROS inviò le riprese filmate, con allegate relazioni illustrative, relative ai giorni 14 e 15 gennaio 1993, che furono visionate – ha riferito il dott. Patronaggio – dal sostituto procuratore dott. Vittorio Teresi, il quale, constatante l’interruzione lo stesso giorno dell’arresto di Riina, espresse ai colleghi, in diverse riunioni ed alla presenza dello stesso teste, le sue perplessità in merito. Bisognava capire – ha riferito il teste - cosa era successo, ma nessuno lo chiese al ROS. Anche alla riunione del 26 gennaio in procura non presero parte gli imputati e difatti, come si legge nella nota del 12.2.93 del dott. Caselli, alcuni ufficiali dell’arma, alla presenza del dott. Aliquò e di altri magistrati nonché della sezione anticrimine, “affermarono, sia pure non in termini di certezza, dato che essi non seguivano direttamente questo aspetto delle indagini, che ogni attività di controllo era forse cessata da tempo”. L’istruzione condotta ha consentito di accertare che gli ufficiali presenti furono il gen. Cancellieri, il col. Sergio Cagnazzo, nonché il magg. Balsamo ed il cap. Minicucci, e che fu proprio il col. Cagnazzo a prospettare che, probabilmente, c’erano stati dei problemi circa l’osservazione e che, forse, la stessa non era più in corso già da diversi giorni. Sul punto il teste Cagnazzo ha affermato di non avere il ricordo di quella riunione ed ha negato di avere espresso dubbi in ordine alla sussistenza del servizio di osservazione in quanto era certo, sino al 30 gennaio, quando il cap. Minicucci gli riferì che il servizio era stato abbandonato da tempo, che l’attività continuasse, ma è stato contraddetto dalle concordi risultanze testimoniali rese da coloro, sopra già citati, che vi parteciparono.

Il covo svuotato. La Repubblica il 18 agosto 2020. Alla data del 27.1.93 si legge, nel memoriale manoscritto del dott. Aliquò, l’annotazione relativa ad una riunione nella quale, alla presenza dello stesso procuratore aggiunto e del dott. Caselli, l’imputato Mori avrebbe sollecitato indagini patrimoniali e bancarie sui Sansone, aggiungendo di non avere urgenza in merito alla perquisizione e che l’osservazione su via Bernini stava creando “tensione e stress al personale operante, accennando alla  sua sospensione”. In realtà, il dott. Aliquò ha chiarito che non si parlò di un problema di affaticamento per gli uomini bensì di rischio per la loro sicurezza e, quanto al significato di questo “accenno” alla sospensione, che il col. Mori né disse esplicitamente che l’osservazione era in corso, né che era stata dismessa da tempo; in sostanza, egli “lasciò la cosa un po’ in aria, lasciando capire che poteva essere stata effettivamente tolta” . Si ebbe dunque, in quel momento, la “quasi certezza” – ha riferito il dott. Aliquò - che l’osservazione non fosse attiva, ma nessuna richiesta di chiarimento venne avanzata al col. Mori, il quale – nel ricordo del teste – “glissava” sull’argomento, nel senso che cominciò a parlare di altre cose, sollecitando gli accertamenti in merito ai Sansone. In ogni caso, quella fu l’unica occasione in cui si parlò del servizio di osservazione dal giorno della cattura di Salvatore Riina. Anche il magg. Domenico Balsamo ha riferito di aver partecipato ad una riunione che si svolse in procura, di cui non ricorda la data, alla presenza del dott. Aliquò, del gen. Cancellieri e del col. Mori, nel corso della quale si parlò di come stava andando l’attività di pertinenza del ROS, che si credeva evidentemente in atto, ottenendo dall’imputato una risposta di tipo “interlocutorio”, nel senso che “si stava valutando la situazione”, cui non diede attenzione dal momento che le attività su via Bernini erano estranee a quelle rimesse alla propria competenza. Il gen. Cancellieri ha escluso di avere mai partecipato ad una riunione nella quale fossero presenti solo i vertici del ROS, in quanto neppure ne avrebbe avuto titolo, ma ha dichiarato di avere preso parte ad una riunione con i vertici della territoriale, nella quale c’era anche l’imputato, aggiungendo di non ricordare né la data né la frase attribuita al Mori dal dott. Aliquò nel suo manoscritto. Le concordi dichiarazioni del dott. Aliquò e dell’allora magg. Balsamo, nonché del gen. Cancellieri laddove ricorda una riunione cui prese parte l’imputato, consentono di ritenere provata, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la partecipazione dell’imputato Mori ad un incontro in procura nel corso del quale si parlò dell’attività in corso, ma esso non dovette avere luogo il 27 gennaio, data nella quale è stata provata documentalmente dall’imputato la sua presenza a Roma all’interrogatorio di Vito Ciancimino e ad un appuntamento con il giornalista Giancarlo Zizola, bensì successivamente oppure nei giorni precedenti. Dal consuntivo dei servizi fuori sede effettuati dall’imputato ed acquisito al giudizio, risulta che il Mori si recò a Palermo nel pomeriggio del 22 gennaio, facendo ritorno a Roma il giorno seguente, e che partì nuovamente da Roma il 28 gennaio per Catania e Palermo, dove il 29, come da annotazione contenuta nella sua agenda personale depositata in atti, doveva contattare il gen. Cancellieri ed il col. Cagnazzo e, nel tardo pomeriggio, incontrare il cap. De Caprio, il cap. Adinolfi, il cap. Baudo ed il mar.llo Lombardo. In assenza di ogni altro elemento significativo, non è stato possibile accertare se tali riunioni (di cui è cenno nell’agenda dell’imputato) abbiano avuto effettivamente luogo e quale ne sia stato l’oggetto. Il giorno seguente, 30 gennaio 1993, ebbe luogo in procura un’altra riunione, alla presenza del dott. Caselli, del dott. Aliquò, della territoriale nelle persone del gen. Cancellieri, del col. Cagnazzo, del comandante della sezione anticrimine cap. Adinolfi, del cap. Minicucci, degli imputati, nel corso della quale questi ultimi esplicitarono ciò che, in verità, era ormai noto, e cioè: che il servizio di osservazione e controllo non esisteva; che era cessato nello stesso pomeriggio del 15 gennaio; che aveva riguardato solo il cancello esterno dell’intero complesso; che era stato sospeso perché la permanenza di personale adeguatamente attrezzato sarebbe stata notata con grave rischio per gli operanti. La Procura della Repubblica decise, allora, d’accordo con la territoriale, di disporre le perquisizioni domiciliari in tutte le ville di via Bernini, che vennero eseguite il giorno 2.2.93, a seguito dell’accelerazione dei tempi dei provvedimenti imposta da un lancio di agenzia Ansa di Palermo dell’1.2.93, secondo il quale le forze dell’ordine avevano finalmente individuato il covo del Riina nel complesso di via Bernini. Nel frattempo, però, l’abitazione dove il Riina aveva alloggiato con la famiglia era stata svuotata di ogni cosa; erano state ritinteggiate le pareti, ristrutturati i bagni, smontati e ripristinati gli impianti, accatastati i mobili in ciascuna stanza, tutto allo scopo evidente di ripulirla da qualsiasi traccia che potesse consentire di risalire a chi vi aveva abitato. Ma una traccia comunque rimase: un lembo di foglio di un quaderno di scuola, con la scritta a mano “numero di telefono delle mie amiche Rita Biondino – Rosi Gambino – Gianni Sansone – questi sono tutti i numeri delle mie amiche e dei miei amici” siglato “LB”, che ne avrebbe consentito l’attribuzione alla figlia di Salvatore Riina. L’irruzione nel complesso di via Bernini fu eseguita dall’Arma territoriale, senza la partecipazione del ROS. L’individuazione dell’unità dove aveva abitato Salvatore Riina si rivelò piuttosto agevole, dal momento che il complesso si componeva di 14 villette, di cui la metà erano ancora in corso di costruzione, mentre delle rimanenti, sei erano di fatto abitate per cui furono perquisite ed identificati i proprietari, tra i quali i fratelli Sansone Giuseppe, Gaetano ed Agostino; successivamente si scoprirà che le ville erano di proprietà della Sama Costruzioni s.r.l. di Sansone Gaetano e della moglie Matano Concetta e che quella abitata dal Riina era stata alienata alla società Villa Antica di Montalbano Giuseppe, che sarà sottoposto ad autonomo procedimento penale. Si accertò che la villa del Riina era ubicata nella parte sinistra del complesso, completamente immersa nella vegetazione e non visibile dall’ingresso al residence; inoltre si scoprì l’esistenza di un secondo accesso al complesso, un’uscita da cantiere situata sul retro che fu utilizzata per consentire il passaggio, in condizioni di sicurezza, del dott. Caselli. Come analiticamente descritto nel verbale di sopralluogo del 2.2.93 di cui al fascicolo dei rilievi tecnici in atti, il Nucleo Operativo che procedette alla perquisizione constatò, limitandoci a quanto nella presente sede di interesse, l’esistenza di: un guardaroba blindato all’interno della camera da letto matrimoniale; all’altezza del pianerottolo, una intercapedine in cemento armato di forma rettangolare di mt. 3x4 di larghezza e 75 cm di altezza, chiusa da un pannello di legno con chiusura a scatto e chiavistello; nel sottoscala, a livello del pavimento, una botola lunga circa mt 2 chiusa da uno sportello in metallo con serratura esterna; nel vano adibito a studio, una cassaforte a parete chiusa che, aperta dall’adiacente vano bagno, risultò vuota. Lo stesso giorno, l’Autorità Giudiziaria dispose la perquisizione negli uffici e nelle società di Giuseppe e Gaetano Sansone (tra le altre, SICOS, SOREN, SICOR, AGRISAN, ICOM, SAMA e diverse ditte individuali) che furono eseguite il giorno successivo (cfr. all. n. 29 doc. difesa De Caprio). Il 4.2.93 i fratelli Sansone furono raggiunti da ordinanza di custodia cautelare, così come, due giorni dopo, Vincenzo De Marco (cfr. sentenza GUP presso il Tribunale di Palermo n. 418/94, irrevocabile il 29.1.96, acquisita all’ud. del 11.1.06). Il 26 marzo 1993, come da richiesta avanzata il precedente 20 marzo, tutti beni di Giuseppe Sansone furono sottoposti a sequestro giudiziario (cfr. all. n. 36 doc. difesa De Caprio).

Così è sparito l'archivio di Totò Riina. La Repubblica il 19 agosto 2020. La deposizioni rese dai collaboratori di giustizia (udienze 21 e 22 ottobre 2005; 18 e 19 novembre 2005; 10 dicembre 2005) hanno consentito di accertare come avvenne lo svuotamento e la ristrutturazione della casa del Riina. Giovanni Brusca ha riferito che il 15 gennaio 1993 il boss corleonese era atteso ad una riunione che vedeva coinvolti tutti i maggiori esponenti dell’organizzazione mafiosa, ad eccezione di Bernardo Provenzano; arrivò invece, portata da Salvatore Biondo, la notizia che “Totò” era stato arrestato, assieme al Biondino. A quel punto si recò, assieme a Leoluca Bagarella, nell’officina di Michele Traina, per avere la conferma della notizia dai mezzi di informazione ed i particolari di come era avvenuta la cattura; c’era inoltre la preoccupazione di capire cosa fosse successo alla famiglia. Non conosceva il luogo preciso in cui dimorasse Salvatore Riina, ma sapeva che si trovava nella zona Uditore, che vi si recava Vincenzo De Marco e che lo accompagnava nei suoi spostamenti Pino Sansone. Visto che sulla stampa non usciva alcuna ulteriore notizia, diede incarico al Traina di recarsi a casa di Biondino Salvatore per verificare se fosse in atto la perquisizione dell’abitazione, ove quegli in effetti constatò la presenza di forze dell’ordine. A quel punto mandò a chiamare Giovanni Sansone, genero di Salvatore Cancemi e cugino di quei fratelli Sansone che avevano curato sino ad allora la latitanza del Riina, per incaricarlo di mettere al riparo la Bagarella con i figli e far sparire tutte le tracce riconducibili al boss; a tal fine lo incontrò nei pressi del carcere “Pagliarelli” di Palermo e gli ordinò di tenere i contatti, da quel momento in avanti, con Antonino Gioè, il quale a sua volta avrebbe contattato Gioacchino La Barbera, che era allora incensurato e dunque si poteva muovere per la città senza eccessivi rischi. Il Brusca ha spiegato che l’incarico fu dato al Sansone perché era l’unica persona che potesse recarsi, senza destare sospetto nelle forze dell’ordine, al complesso di via Bernini, in quanto vi abitavano quei suoi familiari, per cui, anche se fosse stato fermato, avrebbe senz’altro potuto giustificare la sua presenza sui luoghi. Fu dunque uno dei Sansone (Giuseppe), che risiedeva nel complesso di via Bernini, ad accompagnare la Bagarella ed i figli nei pressi del motel Agip, dove  furono prelevati da La Barbera e Gioè e condotti alla stazione ferroviaria, ove presero un taxi per rientrare a Corleone. E fu sempre il Sansone ad occuparsi di ripulire la casa da ogni traccia, affidando anche ad una ditta di operai edili i lavori di ristrutturazione della villa; operazioni in merito alle quali relazionava, giorno per giorno, Gioacchino La Barbera che a sua volta riferiva le notizie a Leoluca Bagarella ed al Brusca. La preoccupazione iniziale, dovuta al timore che da un momento all’altro gli organi investigativi facessero irruzione nel comprensorio, cedette il posto, con il passare dei giorni, alla soddisfazione di constatare che tutto stava procedendo per il meglio, tanto che, addirittura, c’era stato il tempo di modificare radicalmente lo stato dei luoghi (cfr. deposizione del La Barbera e del Brusca). In definitiva – disse il Sansone a Gioacchino La Barbera che lo ha riferito in dibattimento - “abbiamo salvato il salvabile” . Per quanto il La Barbera riferì al Brusca, gli oggetti che potevano essere ricomprati, quali la biancheria ed articoli di vestiario, furono bruciati; mentre i gioielli, l’argenteria, i quadri, i servizi di porcellana, e cioè tutti gli oggetti di valore furono invece dati in affidamento a terzi, prima a Giuseppe Gelardi e poi nel 1994 a Giusto Di Natale che, come deposto in dibattimento, li conservò nella propria villa a Palermo sino al 1996, quando venne arrestato. Quest’ultimo ha riferito che, colloquiando in carcere con Giovanni Riina, apprese che qualcuno era andato successivamente a prelevarli. Quando “uscirono” le notizie di stampa sulla collaborazione del Di Maggio, il Brusca commentò con il Bagarella ed altri esponenti mafiosi il ruolo che costui doveva aver avuto nella cattura del Riina, ma successivamente seppe, dalla famiglia dei Vitale di Partinico, che Salvatore Bugnano, uomo vicino alle famiglie mafiose operanti in quel territorio ed in particolare ai Coppola ed a Lo Iacono Francesco, era un confidente del comandante della stazione dei carabinieri di Terrasini, il mar.llo Lombardo, per cui si cominciò a sospettare che l’attività di quest’ultimo avesse avuto un ruolo preponderante nell’arresto del Riina e che la vicenda Di Maggio potesse essere solo una copertura a quest’indagine portata avanti dai carabinieri; sospetti che il suicidio del mar.llo Lombardo, avvenuto a marzo 1995, non fece che avvalorare. Il Lo Iacono, difatti, conosceva Raffaele Ganci ed il figlio Domenico, detto Mimmo, che godeva della completa fiducia del Riina e ne conosceva l’abitazione, e, dunque, tramite questo canale, la notizia sarebbe potuta arrivare al Brugnano; inoltre, sia i Coppola che il Lo Iacono erano uomini di Bernardo Provenzano, il quale, nonostante continuasse ad essere completamente sottoposto al Riina, aveva maturato nei confronti del boss corleonese una “spaccatura” in ordine alla gestione degli affari e delle linee “programmatiche” dell’organizzazione. In ordine all’esistenza di documenti, Giovanni Brusca ha dichiarato che il Riina aveva sempre tenuto appunti e conteggi delle sue attività criminose, in quanto aveva l’abitudine di scrivere tutto su un block notes che considerava il suo “ufficio volante”, dove teneva pure la contabilità dei profitti provenienti dagli appalti, dal traffico di stupefacenti, dalle estorsioni; tutta documentazione che il Riina conservava in casseforti od in bombole del gas, trasferendola con sé ad ogni trasloco. Anche Antonino Giuffré ha dichiarato che Salvatore Riina scriveva sempre appunti in relazione alle riunioni dell’organizzazione, agli appuntamenti, alla contabilità degli affari illeciti, e che, inoltre, intratteneva una fitta corrispondenza (i cd. “pizzini”) con Bernardo Provenzano ed altri uomini di “cosa nostra” o fiancheggiatori per la gestione degli appalti. Il Giuffré ha, infine, aggiunto che il nominato Riina utilizzava come porta documenti una borsa in pelle con blocco di chiusura in posizione centrale. Nessuno dei collaboratori di giustizia ha, però, dichiarato di aver mai visto questi documenti, dopo l’arresto del Riina e negli anni a seguire, o di avere appreso quale sorte abbiano avuto. Si può solo ritenere, allo stato degli atti, che, se effettivamente esistenti nella villa di via Bernini, essi furono trafugati e consegnati a terze persone rimaste, ancora oggi, ignote, ovvero furono distrutti. In proposito, Giovanni Brusca ha detto di ritenere che furono bruciati dalla Bagarella, perché, se c’era qualcosa di importante, la moglie sapeva che andava eliminata, come imponevano le regole dell’organizzazione. Antonino Giuffré, interrogato sulla sorte di questi eventuali documenti, ha riferito che quando ne parlò con Benedetto Spera, poco dopo l’avvenuta perquisizione a via Bernini, e, successivamente, con il Provenzano, entrambi gli dissero che “per fortuna non era stato trovato nulla” nella casa del Riina, con ciò intendendo proprio riferirsi al fatto che non era stato ritrovata alcuna documentazione. E il Provenzano aggiunse anche di temere che potessero essere finiti nelle mani di Matteo Messina Denaro. Michelangelo Camarda ha dichiarato che nel 1995 si ritrovò a commentare la vicenda dello svuotamento della casa del Riina con il La Rosa ed il Di Maggio, che nel frattempo, pur collaborando con le forze dell’ordine, aveva costituito un proprio gruppo criminale con il proposito di eliminare i rivali e riconquistare il potere (rendendosi responsabile di diversi omicidi per i quali sarà in seguito processato). In quell’occasione il La Barbera gli rivelò di avere portato via i familiari lo stesso giorno dell’arresto o quello successivo e che a “ripulire” la casa ci avevano pensato i Sansone che abitavano nello stesso residence, i quali gli avevano raccontato che erano riusciti a portare via tutto, a ristrutturare i locali della villa, e che avevano avuto persino il tempo di estrarre dal muro una cassaforte e murare il vano in cui era posizionata. Accennò anche alla possibilità che vi fossero dei documenti importanti, manifestando perplessità per il fatto che gli era stato consentito di agire così indisturbati. La mancata perquisizione di via Bernini – per come hanno riferito i collaboratori escussi - aveva suscitato dubbi, interrogativi, stupore, anche all’interno di “cosa nostra”, che determinarono una ridda di commenti e di strumentalizzazioni della vicenda. In proposito, Mario Santo Di Matteo dichiarava (a verbale del 17.11.97) di aver saputo dal Di Maggio che erano stati i Carabinieri ad entrare nel cd. “covo” per portare via documenti importanti. Tale stupefacente dichiarazione è stata smentita nel presente dibattimento ed è stata smentita anche dal Di Maggio, il quale, a sua volta, ha negato tutta una serie di circostanze riferite dagli altri collaboratori escussi (i suoi propositi omicidiari verso Giovanni Brusca; le confidenze fatte sul gen. Delfino, che riteneva responsabile, a causa del fratello giornalista, di aver fatto trapelare sulla stampa la notizia della sua collaborazione; l’avere commentato in diverse occasioni la vicenda della mancata perquisizione; l’avere riferito dell’esistenza di documenti importanti in via Bernini). Anche Giusy Vitale ha, infine, dichiarato di avere sentito il fratello Vito parlare con il Brusca di documenti di grande valore in possesso del Riina, tanto che – le disse una volta, commentando un servizio televisivo sulla vicenda – se la perquisizione fosse stata eseguita sarebbe accaduto un “finimondo”.

Chi si è “venduto” il capo dei capi? La Repubblica il 20 agosto 2020. Le numerose, gravi, contraddizioni in cui sono incorsi il Di Matteo ed il Di Maggio impongono la trasmissione dei verbali delle dichiarazioni dalle stessi rese al p.m. per l’eventuale esercizio dell’azione penale, essendo evidente che i medesimi hanno dichiarato il falso, o nelle precedenti occasioni in cui furono escussi oppure al presente dibattimento. In merito, invece, a come i carabinieri riuscirono a localizzare Salvatore Riina, il Di Maggio ha confermato di non aver mai saputo dove esattamente abitasse il boss, ma di aver indicato alle forze dell’ordine solo la zona ed il nominativo di coloro che ne curavano la latitanza (il Sansone ed il De Marco). Tale circostanza è stata confermata dagli altri collaboratori escussi (nello specifico La Rosa e Di Matteo), i quali, riferendo il contenuto di conversazioni avvenute negli anni successivi con il Di Maggio circa il suo ruolo nella vicenda, hanno precisato che quest’ultimo dichiarò sempre di non sapere come gli investigatori fossero pervenuti all’individuazione del complesso di via Bernini. Antonino Giuffré ha dichiarato, inoltre, che, nel corso degli anni, si erano formati in seno a “cosa nostra” due schieramenti contrapposti facenti capo al Riina (che poteva contare su Bagarella, Brusca, Messina Denaro, i fratelli Graviano) ed al Provenzano (cui si erano legati lo stesso Giuffré, Carlo Greco, Pietro Aglieri), tra i quali si era determinato “un solco”, via via aggravatosi nel tempo, sin dal 1987, e che, con l’arresto del boss corleonese, esplose tra i due la rivalità su chi dovesse prendere “le redini” dell’organizzazione a livello provinciale e regionale. Subito dopo l’arresto - ha aggiunto il collaboratore - si diffuse in “cosa nostra” la convinzione che il Riina fosse stato consegnato ai carabinieri. D’altronde, sospetti di tal genere circolavano in modo incontrollato e potevano riguardare chiunque, tanto che – ha riferito il Giuffré – anche sullo stesso Provenzano circolavano dal 1990 voci insistenti, provenienti dall’ambiente mafioso catanese ed in particolare dalla famiglia Mazzei e da Eugenio Galea (vicinissimo al boss Santapaola), che lo accusavano di passare informazioni ai carabinieri, come commentò in più occasioni con altri appartenenti all’organizzazione mafiosa (Giovanni Marcianò, i Ganci) e con lo stesso Provenzano che diverse volte gli chiese se credesse a queste illazioni. Anche su Vito Ciancimino, che era persona particolarmente vicina al Provenzano, si diffusero delle “voci” in ordine a presunti contatti che aveva avuto con esponenti delle forze dell’ordine, e serpeggiava il timore che il medesimo potesse iniziare un percorso di collaborazione. In proposito, quando uscì dal carcere a gennaio 1993, prima che Salvatore Riina fosse catturato, Antonino Giuffré chiese al Provenzano come fosse “combinato” Vito Ciancimino, ottenendo la risposta che era “andato in missione” per cercare di sistemare le cose all’interno dell’organizzazione, che stava vivendo un periodo storico particolare. Null’altro è stato riferito sul punto, né dal Giuffré né dagli altri collaboratori, mentre Giovanni Brusca ha saputo (o voluto) soltanto riferire che spesso il Riina gli esprimeva delle imprecisate “rimostranze” nei confronti di Vito Ciancimino. Salvatore Cancemi ha riferito che Salvatore Biondo il 15 gennaio 1993, mentre si trovava, assieme a Raffaele Ganci e ad altri, in una villetta nei pressi di San Lorenzo dove avrebbe dovuto svolgersi una riunione della commissione convocata dallo stesso Riina, portò la notizia che il boss era stato arrestato su viale Lazio. Successivamente, apprese dai giornali che il Riina aveva trascorso la latitanza in via Bernini, vicino a dove abitava anche sua figlia. Quando a luglio 1993 decise di costituirsi, presentandosi ai carabinieri di Piazza Verde a Palermo, raccontò che il Provenzano, in una riunione svoltasi a maggio 1993 con la sua partecipazione, quella del Ganci e di La Barbera Michelangelo, aveva dichiarato che “c’era la possibilità di prendere vivo il capitano Ultimo” (nome in codice dell’imputato De Caprio) o, in alternativa, di ucciderlo, senza però specificare i motivi per i quali intendeva prenderlo vivo. Anche Giuseppe Guglielmini ha riferito che, nel corso di una riunione, Giovanni Brusca ed in seguito anche Giovannello Greco gli dissero che si stava cercando questo “capitano Ultimo”, che rappresentava un “chiodo fisso” per Provenzano, al quale si sarebbe potuti arrivare tramite una persona che conosceva un amico del capitano, con il quale costui giocava a tennis, e che avrebbe potuto fare sapere dove i due si sarebbero recati a pranzare. Infine, Raffaele Ganci, figlio di quel Raffaele Ganci a capo della famiglia mafiosa del quartiere della “Noce” a Palermo, ha dichiarato di aver saputo dal padre che, nel corso di una riunione con il Provenzano successiva all’arresto del Riina, si era convenuto di sequestrare il “capitano Ultimo”, ma che poi non se ne fece più nulla.

Perché i carabinieri fermarono l'indagine? La Repubblica il 21 agosto 2020. Ciò premesso, secondo l’impostazione accusatoria gli imputati avrebbero posto in essere una condotta agevolatrice dell’attività dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra” attraverso quattro condotte, consistite:

1. nell’avere dato il 15.1.93 false assicurazioni ai magistrati della Procura di Palermo che la casa di Salvatore Riina sarebbe rimasta sotto stretta osservazione, così ottenendo la dilazione della perquisizione che stava per essere effettuata lo stesso giorno;

2. nell’aver disposto, invece, la cessazione del servizio di osservazione sul complesso immobiliare di via Bernini n. 54 a far data da quello stesso pomeriggio;

3. nell’averne omessa la comunicazione all’autorità giudiziaria;

4. nell’aver, quindi, posto in essere un comportamento reiterato volto a rafforzare la convinzione che il servizio fosse ancora in corso, così inducendo intenzionalmente in errore i predetti magistrati ed i colleghi dei reparti territoriali dell’Arma dei carabinieri e, pertanto, agevolando gli uomini di “cosa nostra”, che svuotarono il covo di ogni cosa di eventuale interesse investigativo, il tutto al fine specifico di agevolare proprio l’organizzazione criminale.

La pluralità di condotte contestate ha un unico reato presupposto, l’associazione per delinquere di tipo mafioso, e si rivolge nei confronti di uno stesso soggetto beneficiato, “cosa nostra”, onde non vale ad integrare una molteplicità di reati di favoreggiamento aggravato, ma un’unica fattispecie delittuosa a carattere permanente perfezionatasi il giorno della cattura del Riina e consumatasi il giorno della scoperta della inesistenza del servizio di osservazione su via Bernini, ovvero il 30.1.93 quando il col. Mario Mori, nel corso di una riunione, comunicò questa situazione di fatto ai magistrati della Procura di Palermo ed agli ufficiali dell’Arma. Non v’è dubbio, infatti, come già precisato in punto di diritto, che l’eventuale reiterazione dello stesso comportamento criminoso integrante sia sotto il profilo oggettivo che con riguardo a quello soggettivo il delitto di favoreggiamento personale, in presenza dello stesso reato presupposto e del medesimo soggetto aiutato, non vale ad integrare una molteplicità di reati riconducibili ad un unico disegno criminoso, come contestato nella fattispecie, bensì un solo delitto, con le caratteristiche del reato permanente (Cass. Martinelli, cit.).

La peculiarità della fattispecie si coglie già al livello dogmatico di inquadramento nella previsione di cui alla norma incriminatrice, difatti, da un lato, solo quel segmento della complessiva condotta che ha avuto luogo il 15.1.93 consiste in un comportamento commissivo, mentre per i restanti quattordici giorni il reato si sarebbe realizzato mediante un atteggiamento puramente omissivo degli imputati, consistito nel non avere riattivato il giorno 16 gennaio, e per tutti i giorni a seguire, il servizio in atto il giorno dell’arresto del Riina e nel non avere comunicato tale decisione all’Autorità Giudiziaria; dall’altro, nel fatto che il soggetto beneficiato sia venuto ad essere non una persona fisica ma la stessa “mafia”, nella sua dimensione collettiva e strutturale, venendo così a coincidere con quello oggetto dell’ulteriore finalismo previsto dall’aggravante a dolo specifico ex art. 7 L. n. 203/91. Tralasciando quest’ultimo profilo, che verrà ripreso in punto di esame del dolo degli imputati, deve preliminarmente rilevarsi che, come anticipato nelle precedenti argomentazioni svolte in punto di diritto, la natura omissiva della condotta contestata non osta alla configurabilità del favoreggiamento, sia perché l’ampia locuzione di “aiuto” di cui all’art. 378 C.P. è idonea a ricomprendere qualsivoglia comportamento positivo o negativo, sia perché è rinvenibile, nella fattispecie, un preciso obbligo di garanzia in capo agli imputati, quali organi di polizia giudiziaria, di impedire l’evento pericoloso ex art. 40 cpv. C.P.. Quanto alle caratteristiche dell’elemento oggettivo del reato, la norma – come già detto - richiede solo il pericolo di lesione del bene protetto, e cioè prescinde dalla verificazione di un effettivo sviamento od intralcio alle indagini, occorrendo solo che la condotta, sulla base di una valutazione ex ante da condursi tenendo conto di tutti gli elementi che erano a conoscenza del soggetto agente, o comunque conoscibili secondo criteri di ordinaria diligenza, si presentasse idonea a produrre un tale risultato. Anche da questo punto di vista, la vicenda in oggetto presenta indubbie particolarità, in quanto il potenziale vantaggio procurato al sodalizio mafioso dall’abbandono del sito di via Bernini può ipotizzarsi sotto diverse forme. Come dispersione di prezioso materiale investigativo, può avere impedito l’individuazione di altre persone, intranee o fiancheggiatrici dell’organizzazione, che ivi erano citate o alle quali sarebbe stato possibile risalire; può avere consentito all’associazione la regolare prosecuzione dei suoi affari illeciti, estorsioni, appalti, traffico di stupefacenti, che invece avrebbero potuto essere individuati e colpiti dalle forze dell’ordine; può avere impedito l’acquisizione di informazioni rilevanti ai fini delle indagini in corso, quali quelle sulle stragi di via Capaci e di via D’Amelio commesse nell’estate precedente. Come omessa osservazione visiva del cd. “covo”, infine, potrebbe avere direttamente agevolato qualche latitante che vi si fosse recato indisturbato, come ad esempio Leoluca Bagarella nell’intento di prelevare la sorella, moglie del Riina. Il rilievo che l’istruzione dibattimentale non abbia consentito di provare l’esistenza di documenti in casa del Riina, od abbia addirittura escluso che si sia recato in via Bernini il suddetto Bagarella, non vale per negare che gli esiti sopra prospettati fossero pienamente possibili, secondo massime di esperienza, e perfettamente prevedibili dagli imputati. La posizione apicale del Riina, ai vertici dell’organizzazione criminale, ben poteva far ritenere che lo stesso conservasse nella propria abitazione un archivio rilevante per successive indagini su “cosa nostra” e, tenuto conto che la di lui famiglia era rimasta in via Bernini, poteva di certo ipotizzarsi che altri sodali, aventi l’interesse a mettersi in contatto con la stessa, vi si recassero. Al di là di queste argomentazioni di carattere logico, il fatto che il Riina fosse stato trovato, al momento del suo arresto, in possesso di diversi “pizzini”, ovvero di biglietti cartacei contenenti informazioni sugli affari portati avanti dall’organizzazione, con riferimento ad appalti, alle imprese ed alle persone coinvolte, costituisce un ulteriore preciso elemento, in questo caso di fatto, che vale a rendere la condotta contestata agli imputati oggettivamente idonea ad integrare il reato.

Ci fu un patto con Cosa Nostra? La Repubblica il 22 agosto 2020. Le argomentazioni difensive riferite sul punto, secondo le quali si riteneva che il latitante non conservasse cose di rilievo nella propria abitazione, perché “il mafioso” non terrebbe mai cose che possono mettere in pericolo la famiglia, appaiono fondate su una massima di esperienza elaborata dagli stessi imputati ma non verificata empiricamente ed anzi contraddetta dalla risultanza offerta proprio dal materiale rinvenuto indosso al boss. Pertanto, già il 15.1.93, sussisteva la concreta e rilevante probabilità che esistesse altra documentazione in via Bernini; probabilità che è stata confermata in dibattimento dal Brusca e dal Giuffré, secondo cui Salvatore Riina era solito prendere appunti, teneva una contabilità dei proventi criminali, annotava le riunioni e teneva una fitta corrispondenza sia con il Provenzano che con altri esponenti mafiosi, per la “messa a posto” delle imprese e la gestione degli affari. Accertare se tali documenti effettivamente esistessero, se fossero custoditi all’interno della villa e quale sorte abbiano avuto, non può avere alcuna refluenza – ad avviso del Collegio – sulla sussistenza del reato contestato, atteso che il dato certo del ritrovamento indosso al Riina di materiale cartaceo, unito ad indizi di carattere logico, pienamente confermati dalle deposizioni testimoniali acquisite, già di per sé consente di ritenere che l’omessa perquisizione della casa e l’abbandono del sito sino ad allora sorvegliato abbiano comportato il rischio di devianza delle indagini che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato, stando alle manifestazioni di sollievo e di gioia manifestate da Bernardo Provenzano e da Benedetto Spera al Giuffré (i quali ebbero a dichiarare che per fortuna le forze dell’ordine non avevano potuto trovare “nulla” con ciò intendendo riferirsi proprio a documenti) ed, ancora, alla soddisfazione espressa, durante le fasi dello svuotamento della casa, da parte del Sansone, e condivise dal La Barbera, dal Gioè, dal Brusca, dal Bagarella per il fatto che stava procedendo tutto “liscio” (cfr. in particolare le dichiarazioni di Gioacchino La Barbera). D’altronde, appare evidente che l’ambito di un’indagine per il delitto di cui all’art. 416 bis C.P. si presenta particolarmente ampio, potendo ricomprendere una molteplicità di condotte e dispiegare i suoi effetti in relazione ad una pletora di personaggi, quali altri correi indagati in diversi filoni di inchiesta, per cui l’omessa perquisizione e la disattivazione del dispositivo di controllo di un luogo di pertinenza di un affiliato, e qui si trattava del capo di “cosa nostra”, appare condotta astrattamente idonea ad integrare non solo il favoreggiamento aggravato, ma lo stesso concorso nel reato associativo, ove si dimostri la sussistenza degli altri presupposti in punto di dolo e di efficienza causale del contributo di cui agli artt. 110 e 416 bis C.P.. Ne deriva che – ad avviso del Collegio - il punto nodale per la ricostruzione della vicenda in esame non può essere ricercato – contrariamente a quanto prospettato dalle difese – sul piano oggettivo, occorrendo invece indagare anche il “perché” siano accaduti gli avvenimenti che ci occupano. Richiamata la narrazione degli accadimenti fattuali già esposta nella prima parte di questa sentenza, si osserva, sinteticamente, che la prospettiva accusatoria rimane ancorata ai seguenti elementi indiziari:

il giorno dell’arresto del Riina Sergio De Caprio chiese insistentemente, con l’appoggio di Mario Mori, che la perquisizione già predisposta sul complesso di via Bernini, non venisse eseguita, garantendo l’osservazione sul sito;

il pomeriggio alle ore 16.00 il furgone, con a bordo l’app.to Coldesina ed il Di Maggio, fu fatto rientrare ed il servizio non venne più predisposto;

tale decisione non fu oggetto di alcuna comunicazione;

il ROS non svolse più alcuna attività di indagine;

il 20.1.93 il De Caprio chiese che si effettuasse una perquisizione al cd. “fondo Gelsomino” come attività diversiva di depistaggio, nel presupposto che via Bernini fosse sotto osservazione;

in una riunione in data 27.1.93 Mario Mori accennò al fatto che il servizio era stato sospeso da tempo, decidendosi a rivelarlo solo il 30.1.93;

già a dicembre 1992 Mario Mori, con la consapevolezza del Di Caprio, aveva intavolato una trattativa segreta con “cosa nostra” tramite Vito Calogero Ciancimino, per ottenere una resa dei latitanti;

il ROS non poteva conoscere il sito di via Bernini, in quanto non era tra quelli indicati dal Di Maggio, dunque il Riina fu “consegnato” dalla stessa associazione criminale, ed in particolare da Bernardo Provenzano, in ossequio ad un patto di “non belligeranza” stipulato con il Mori.

Una perquisizione fermata da tutti. La Repubblica il 23 agosto 2020. Tornando ad analizzare quanto accadde il 15 gennaio 1993, in quelle ore, descritte come concitate e frenetiche, che seguirono alla cattura del Riina, doveva decidersi come proseguire ed in quale direzione indirizzare le successive attività di indagine. Sino ad allora il potere di direzione e coordinamento delle attività di polizia giudiziaria era stato espletato dal dott. Aliquò, in attesa dell’insediamento del dott. Caselli che sarebbe avvenuto proprio quel giorno. La discussione nacque spontanea tra tutti i presenti, ufficiali dell’Arma e magistrati, nel cortile della caserma Buonsignore, in modo informale, portando all’emersione di due orientamenti, uno maggioritario, condiviso dall’Autorità Giudiziaria e dai reparti territoriali, che intendeva procedere subito alla perquisizione del complesso di via Bernini, al fine di individuare da quale unità abitativa fosse uscito il Riina e perquisirla, l’altro portato avanti dal ROS, ed in modo particolare da Sergio De Caprio, che riteneva dannosa quest’iniziativa per lo sviluppo delle indagini, proponendo di sfruttare il vantaggio costituito dall’avere catturato il boss a distanza rispetto al residence. I due orientamenti si contrapposero e si alternarono, in una dialettica fluida e continuativa, che portò prima alla predisposizione delle due squadre che avrebbero dovuto procedere alla perquisizione, poi alla conferenza stampa nella quale si fece apparire l’arresto come casuale, evitando ogni riferimento a via Bernini, quindi a rinviare il momento della partenza sino a dopo il pranzo al circolo ufficiali. Sia nella mattinata, che al momento del pranzo, dove il De Caprio sopraggiunse “indispettito” – secondo quanto riferito dal dott. Aliquò - per il fatto che, come gli aveva detto il cap. Minicucci incontrato in cortile, stava per essere eseguita la perquisizione, l’imputato chiese insistentemente di evitare ogni intervento, perché avrebbe pregiudicato ulteriori acquisizioni che avrebbero consentito di disarticolare il gruppo corleonese. L’intento, concordemente riferito da tutti i partecipanti a quelle discussioni, in aderenza con quanto altresì cristallizzato nelle note scritte del dott. Caselli e dell’imputato Mori, era quello di avviare un’indagine a lungo termine sui Sansone, che consentisse di risalire ad altri personaggi del sodalizio e colpire gli interessi affaristici del gruppo. L’importanza dei Sansone, ha riferito il De Caprio, era evidente a tutti ma, in verità, proprio su questo punto le valutazioni dell’Autorità Giudiziaria e del ROS appaiono essere state radicalmente diverse. Nelle argomentazioni difensive queste investigazioni assumono un’importanza centrale, addirittura assorbente rispetto alla individuazione della villa da cui era uscito il Riina, e proprio per consentire che venissero sviluppate il De Caprio chiese ed ottenne che la perquisizione fosse annullata. I Sansone erano già emersi nel corso del cd. processo Spatola degli anni ‘80; per loro tramite, grazie all’indicazione del Di Maggio, era stato possibile individuare il complesso di via Bernini, dove abitavano, e catturare Salvatore Riina; Domenico Ganci, quando fu pedinato ad ottobre del 1992 (cfr. relazione di servizio in atti), fece perdere le sue tracce in prossimità dello sbocco di via Giorgione su via Bernini, per cui poteva ragionevolmente ipotizzarsi l’esistenza di collegamenti tra i Sansone e gli stessi Ganci, sui quali l’indagine del ROS era ancora in corso; i Sansone, in quanto titolari di diverse ditte e società, erano portatori degli interessi economici del gruppo corleonese; la perquisizione del complesso avrebbe reso noto all’associazione mafiosa la conoscenza da parte delle forze dell’ordine del luogo ove aveva alloggiato Salvatore Riina e dunque del ruolo dei Sansone nella cattura del boss, svelando così anche la collaborazione del Di Maggio. Sulla base di tutti questi elementi, avviare un’indagine sistematica su questi soggetti, in parallelo a quella già in corso sui Ganci, avrebbe potuto portare – nella prospettazione difensiva - ad acquisizioni investigative di grande rilevanza, se non addirittura decisive per la sopravvivenza del gruppo che faceva capo al Riina, il quale appunto, proprio sui Sansone e sui Ganci, aveva potuto contare durante la latitanza, per i suoi spostamenti nella città e per il soddisfacimento delle proprie esigenze di vita quotidiana. Questa opzione investigativa comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di polizia giudiziaria, direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti, logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella, che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere od occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che in ipotesi avrebbero potuto fare anche nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo - od anche a terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L’osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al solo cancello di ingresso dell’intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l’allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata, e le frequentazioni del sito. Questa accettazione del rischio fu condivisa da tutti coloro che presero parte ai colloqui del 15.1.93, Autorità Giudiziaria e reparti territoriali, dal momento che era più che probabile che il Riina, trovato con indosso i cd. “pizzini”, detenesse nell’abitazione appunti, corrispondenza, riepiloghi informativi, conteggi, comunque rilevanti per l’associazione mafiosa, e non potendo tutti coloro che la condivisero non essersi rappresentati che con il rinvio della perquisizione non si sarebbe potuto impedirne la distruzione o comunque la dispersione ad opera di terzi. Inoltre, come ha riferito il dott. Caselli, i tempi del servizio di osservazione che il De Caprio avrebbe assicurato di continuare “in loco” non si annunciavano brevi, in quanto l’operazione da sviluppare si presentava molto complessa, considerato lo stato dei luoghi (bisognava individuare da quale unità il Riina fosse uscito) e la probabile presenza in loco di “pezzi” dell’organizzazione allertati dalla cattura del latitante, per cui dall’iniziale proposito di aspettare e vedere cosa sarebbe successo nelle prossime 48 ore si giunse ad aspettare ben 15 giorni. Un lasso di tempo che sarebbe stato ampiamente sufficiente a terzi – che pure fossero stati video ripresi dal ROS entrare ed uscire dal complesso – per asportare o distruggere ogni cosa pertinente al Riina.

La sorveglianza fatta saltare. La Repubblica il 24 agosto 2020. Il profilo dell’adesione al rischio connaturato alla proposta ed alla decisione di rinviare la perquisizione appare, dunque, di per sé non rilevante ai fini di determinare l’elemento psicologico degli imputati, dovendo piuttosto verificarsi se i successivi comportamenti, cioè l’omessa riattivazione del servizio di osservazione e l’omessa comunicazione di tale decisione, siano valsi ad integrare la volontà di aiuto all’organizzazione denominata “cosa nostra”.L’Autorità Giudiziaria, nell’eccezionalità dell’evento che vedeva in stato di arresto il capo della struttura mafiosa e che poteva costituire un’occasione unica ed irripetibile di assestare un colpo forse decisivo all’ente criminale, operò una scelta anch’essa di eccezione, rispetto alla alternativa che avrebbe imposto di procedere alla perquisizione del luogo di pertinenza del soggetto fermato, e ciò fece nell’ambito della propria insindacabile discrezionalità nella individuazione della tipologia degli atti di indagine utilizzabili per pervenire all’accertamento dei fatti. Tale scelta, però, fu adottata certamente sul presupposto indefettibile che fosse proseguito il servizio di video sorveglianza sul complesso di via Bernini. Che questa fosse la condizione posta al rinvio della perquisizione, è un dato certo ed acclarato non solo dalle deposizioni dei magistrati e degli ufficiali dell’Arma territoriale che presero parte a quei colloqui, durante i quali comunque si considerò la possibilità di vedere chi sarebbe venuto al complesso, eventualmente anche a prelevare i familiari, ma anche dalla stessa nota del col. Mori del 18.2.93 ove si dice, con riferimento all’attività di “osservazione ed analisi” della struttura associativa esistente intorno ai fratelli Sansone, suggerita il 15 gennaio, che tale attività veniva in effetti sospesa, per motivi di opportunità operativa e di sicurezza, in attesa di una sua successiva riattivazione, esplicitando, poi, nell’ultimo periodo, che si verificò una “mancata, esplicita comunicazione all’A.G. della sospensione dei servizi di sorveglianza su via Bernini”. Al di là delle, in più punti, confuse (v. dichiarazioni sulla asserita non importanza dell’abitazione ove il latitante convive con la famiglia, perché non vi terrebbe mai cose che possano compromettere i familiari) argomentazioni addotte dagli imputati, che sono sembrate dettate dalla logica difensiva di giustificare sotto ogni profilo il loro operato, deve valutarsi se quei comportamenti omissivi valgano ad integrare un coefficiente di volontà diretta ad agevolare “cosa nostra”.

La “soffiata” ai giornalisti. La Repubblica il 25 agosto 2020. Sulla base degli elementi fattuali più innanzi richiamati, appare certo che l’attenzione investigativa del ROS, per come riferito anche dal comandante del reparto magg. Mauro Obinu, avesse ad oggetto, effettivamente, i fratelli Sansone e che in considerazione di tale indagine, la cui importanza fu esplicitata alla procura della Repubblica e da questa condivisa, si decise di nascondere il dato di conoscenza costituito da via Bernini. Tuttavia, l’Autorità Giudiziaria non vi diede lo stesso peso attribuito dal ROS. Le indagini sui Sansone e sul cd. “covo” di Riina, costituivano, ad avviso della Procura, due filoni autonomi di investigazione, che dovevano procedere su binari paralleli, e difatti, quando, nella mattinata, si decise di procedere a perquisizione, non ne fu valutata l’interferenza sull’indagine in corso sui Sansone, che pure abitavano nello stesso complesso ed i cui telefoni erano sotto intercettazione, anzi, ha precisato il dott. Aliquò, fu addirittura accantonata l’idea di una refluenza dell’una sull’altra, anche perché non si sapeva quanto distassero le rispettive ville. Così però non era, e non poteva essere, nelle valutazioni del De Caprio, per il quale assumeva un’importanza decisiva assicurare la “tranquillità” ai Sansone, in modo che riprendessero i loro contatti e si potesse avviare un sistematico servizio di osservazione, analogo a quello in atto sui Ganci, senza pericolo di essere scoperti. Che ci fosse il pericolo, gravissimo, di essere notati e così svelare le acquisizioni investigative possedute è indubitabile, in considerazione del fatto che il territorio (zona Uditore), ove aveva trascorso la latitanza il Riina, era sotto il sistematico controllo mafioso della “famiglia” del quartiere e la cattura del boss costituiva senz’altro un evento idoneo ad allertare gli “osservatori” dell’organizzazione criminale. Se questa considerazione di carattere logico vale a spiegare la decisione assunta dal cap. De Caprio il pomeriggio del 15 gennaio di non ripetere il servizio il giorno seguente, per il timore appunto che il dispositivo venisse scoperto, anche considerato il comportamento particolarmente accorto tenuto da “Pino” Sansone il giorno precedente (v. servizio di pedinamento del 14.1.93, di cui al secondo par.), il carattere permanente del comportamento contestato agli imputati impone di verificare la condotta in relazione a tutti i giorni che seguirono. Come già evidenziato, è stato accertato che il 16 gennaio 1993 il De Caprio vide in televisione dei servizi giornalistici che mostravano il civico n. 52/54 di via Bernini, dove diverse troupes si erano recate a seguito di una “soffiata” da parte dell’Arma territoriale circa la via nella quale insisteva il “covo” di Riina. In proposito, vanno richiamate le dichiarazioni dei testi Bolzoni e Ziniti, i quali hanno riferito con assoluta certezza che fu il magg. Ripollino, addetto all’OAIO (cfr. rif. al quarto par.) e responsabile dei rapporti con la stampa, a dare loro l’indicazione della via, senza precisarne il numero civico, ove aveva abitato il latitante. Il maggiore ha, però, dichiarato di non ricordare la circostanza, aggiungendo che neppure conosceva la via Bernini e che, in ogni caso, se invece fornì quella notizia lo fece obbedendo ad una disposizione dei suoi superiori. L’allora col. Sergio Cagnazzo ha negato, dal canto suo, di avere mai dato un ordine in tal senso, precisando che era nell’interesse comune tenere segreta l’ubicazione del “covo”, mentre il gen. Cancellieri ha addirittura riferito di avere appreso solo al dibattimento questa circostanza. Come si vede, tali risultanze non consentono di ricostruire la dinamica dell’episodio con la dovuta precisione, tuttavia, appare certo, alla luce delle specifiche, concordi e genuine deposizioni testimoniali dei giornalisti di cui sopra, che la notizia di via Bernini gli venne in effetti data e venne loro fornita proprio dal magg. Ripollino. Per quale motivo, con quali finalità e su ordine di chi, non è stato possibile accertarlo in base ai pochi elementi acquisiti al giudizio ma deve, verosimilmente, ipotizzarsi che nell’ambito della territoriale qualcuno avesse l’interesse a “bruciare” il sito, forse per questioni di rivalità o per contrasti sorti con il ROS.

Il 16 gennaio, i carabinieri della stazione di Corleone comunicarono il rientro della Bagarella in paese, notizia che fu oggetto il giorno seguente di una specifica riunione tra la Procura e l’Arma territoriale, che manifestò dei dubbi sul servizio di osservazione del ROS, il quale nulla aveva comunicato in merito. A conclusione della discussione, si decise di concedere altro tempo al reparto, che – si credeva – stesse lavorando.

È stato accertato che tutte le riunioni che si susseguirono, da quel 16 gennaio sino a fine mese, avvennero sempre e solo tra l’Autorità Giudiziaria e la territoriale.

Finte perquisizioni e silenzi. La Repubblica il 26 agosto 2020. Dopo l’arresto del Riina, ogni reparto si occupò del filone di indagine rimesso alla propria competenza e cessarono quelle riunioni di coordinamento e di scambio di informazioni che avevano avuto luogo, sino al giorno della cattura, tra il nucleo operativo e la sezione comandata dal cap. De Caprio. D’altronde, c’era la convinzione che il ROS si stesse occupando di via Bernini, mentre invece era impegnato negli accertamenti di carattere documentale sui cd. “pizzini” trovati indosso al Riina ed al Biondino ed in quelli di carattere patrimoniale e societario sui Sansone, oggetto di una specifica relazione del 26.1.93. Neppure alla riunione del 20 gennaio, nella quale si deliberò a scopo di “depistaggio” dei giornalisti la perquisizione al cd. “fondo Gelsomino”, il ROS era presente, e l’iniziativa fu assunta dalla territoriale concordemente con l’Autorità Giudiziaria. Come già accennato, il presupposto in base al quale fu ritenuta necessaria questa operazione era costituito dal fatto che numerosi giornalisti, sin dal 16 gennaio come innanzi detto, stavano perlustrando la zona alla ricerca del “covo”; la notizia era pertanto pervenuta alla stampa così come quella relativa alla collaborazione dal Piemonte di tale “Baldassarre” (cfr. lancio Ansa del 16.1.93). Non v’è dubbio, sul piano logico, che tali elementi avrebbero dovuto indurre gli organi investigativi e gli inquirenti a ritenere il sito ormai “bruciato”, essendo gli uomini di “cosa nostra” già in possesso di tutte le informazioni per stabilire il collegamento via Bernini-DiMaggio-Sansone, ed avrebbero dovuto imporre di procedere subito alla sua perquisizione ma così non fu ed, al contrario, si ritenne cogente l’interesse a sviare l’attenzione dei mass media dal vero obiettivo. Anche nella valutazione del cap. De Caprio – il quale ha altresì negato di avere mai appreso del lancio Ansa sopra citato che aveva fatto il nome del collaboratore - il sito non era ancora definitivamente “bruciato”, ma la presenza della stampa in zona ne aveva solo reso impossibile l’immediato sfruttamento a fini investigativi, per cui si rese necessario far “raffreddare” il luogo e rinviarne il controllo sino a data utile, la quale, tuttavia, a seguito della perquisizione al “fondo Gelsomino” e del lancio Ansa su via Bernini del 1.2.93 (cfr. al quarto par.), non arrivò mai. Il ROS, come testimoniato dal magg. Obinu, venne comunque a conoscenza dei preparativi dell’operazione e della sua esecuzione ma non la condivise, ritenendola un ulteriore fattore di disturbo per l’investigazione sui Sansone, in quanto consistente in un’operazione in grande stile su un obiettivo molto vicino a via Bernini, che faceva scemare l’effetto sorpresa che il reparto si era prefisso di sfruttare nei confronti dei Sansone, ed aveva altresì l’effetto di metterli in ulteriore allarme, impedendo la “normalizzazione” dei loro rapporti e la ripresa dei loro contatti con altri associati mafiosi. Anche questo evento, nella prospettazione difensiva, comportò l’esigenza di procrastinare ulteriormente l’avvio delle attività di indagine di tipo dinamico sui Sansone e quindi la messa in opera del servizio di osservazione su via Bernini, il che postula, necessariamente, che gli imputati non dovessero avere conoscenza della finalità diversiva posta alla base della decisione di perquisire il fondo perché, altrimenti, avrebbero dovuto manifestare l’inutilità della perquisizione e comunicare che il servizio, invece, non c’era. In proposito, nessuna risultanza dell’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare che gli imputati sapessero qual era lo scopo dell’operazione. Il cd. “fondo Gelsomino”, con relativo manufatto, era stato indicato dal Di Maggio quale luogo in cui aveva visto il Riina anni prima e come tale era stato oggetto della particolare attenzione investigativa dell’Autorità Giudiziaria e dell’arma territoriale, che già il 13 gennaio 1993 avevano deciso di farvi irruzione, decisione poi mutata dietro l’insistenza del cap. De Caprio, che lo considerava ormai un luogo inattivo, arrivando alla soluzione di compromesso di metterlo sotto osservazione il giorno seguente assieme a via Bernini (v. sopra, primo par.). Sulla scorta di questo dato di fatto, non può escludersi che il ROS abbia ritenuto quella operazione rispondente ad un interesse investigativo che era sempre stato presente e vivo nella territoriale e nell’Autorità Giudiziaria, ignorandone lo scopo di depistaggio che l’animava, rispetto ad un servizio di osservazione invece inesistente. Lo stesso magg. Obinu, che ha dichiarato di avere saputo dei preparativi in merito alla perquisizione al fondo il giorno 20 gennaio, quando già sapeva che il servizio era stato dimesso (cfr. sua deposizione già richiamata al terzo e quarto par.), non mise in relazione quell’evento con la necessità che l’osservazione fosse in atto, cosa che altrimenti gli avrebbe imposto una doverosa comunicazione all’Autorità Giudiziaria ed ai vertici dell’Arma. Così come il gen. Cancellieri, dopo la scoperta dell’abbandono del sito, non sentì l’esigenza di riparlare dell’azione che era stata condotta sulla base di un presupposto inesistente, in quanto – ha detto - “andava comunque fatta”. Ulteriore dato di difficile decifrazione, alla luce delle acquisizioni dibattimentali, è costituito dal fatto che un provvedimento di revoca delle intercettazioni telefoniche sulle utenze dei Sansone, tra le quali quella di via Bernini, risulta essere stato adottato quello stesso 20 gennaio 1993 (cfr. decreto in atti, già citato al quarto par.). In difetto di ogni altra risultanza, non è stato possibile accertare le motivazioni che indussero a ritenere non più utile l’ascolto delle conversazioni telefoniche dei sopra nominati soggetti. La mancanza di comunicazione e l’assenza di un flusso informativo tra l’autorità giudiziaria, la territoriale ed il ROS, davvero eclatante e paradossale nel caso dell’operazione “fondo Gelsomino”, appare comunque aver contraddistinto, sotto diversi profili, tutte le fasi della vicenda in esame.

La procura non chiede e il Ros tace. La Repubblica il 27 agosto 2020. Le stesse modalità tecniche con cui era stato eseguito ed avrebbe dovuto proseguire il servizio di osservazione erano sconosciute ai reparti territoriali, tanto che lo stesso magg. Balsamo, che pure vide i filmati la sera del 14 gennaio 1993, rimase convinto che fosse stata utilizzata una telecamera fissa esterna, posizionata su un qualche supporto di fronte al cancello di ingresso al residence di via Bernini, mentre la Procura rimase estranea ai dettagli di carattere tecnico dell’operazione, tra i quali quelli relativi alla conformazione della strada ed alle ragioni che avevano escluso la possibilità di installare mezzi di ripresa, imponendo l’uso del furgone (cfr. deposizione dei dott.ri Aliquò e Caselli e del magg. Balsamo). Nell’unica occasione, il 13 gennaio 1993, in cui il dott. Aliquò interloquì con il ROS in merito a come pensava di eseguire l’osservazione, gli fu riferito che la presenza di videocamere, posizionate sulla via alla distanza ed al punto di osservazione idonei a filmare il cancello di ingresso, sarebbe stata con tutta probabilità scoperta e che era necessario utilizzare il furgone, con notevoli problemi di sicurezza per il personale. Proprio in quell’occasione, come già aveva fatto anche in precedenza, il dott. Aliquò raccomandò che tutte le attività, in quanto dirette alla cattura di Riina, si svolgessero sempre con la massima attenzione per la sicurezza degli operanti. Neppure si aveva l’esatta percezione di quali e quanti luoghi fossero sotto osservazione, ed in cosa quest’ultima consistesse, come precisato dal dott. Aliquò, secondo il quale, prima della cattura del Riina, tutti i luoghi di cui aveva parlato il Di Maggio, risultati ancora “attivi”, erano, genericamente, “osservati”, e come esplicitato nella nota a firma del dott. Caselli del 12.2.93, ove si afferma che il ROS il giorno della cattura assicurò che “i vari luoghi di interesse per l’indagine” erano “sotto costante e attento controllo”. In realtà, non è emerso che si parlò di altri luoghi ad eccezione di via Bernini. Ed ancora, come riferito dal dott. Aliquò, il rientro della Bagarella a Corleone, che pure fu oggetto di indagine per verificare come si era allontanata dal complesso ed eventualmente con quali appoggi, non fece avanzare al ROS alcuna richiesta di chiarimenti od informazioni, e ciò sebbene fosse stato oggetto di commenti in Procura (cfr. deposizione del dott. Patronaggio circa il primo “campanello d’allarme”, quarto par.). Anche a seguito della riunione del 26 gennaio, durante la quale alcuni ufficiali dell’arma prospettarono che il servizio era forse cessato da tempo, non vi fu alcuna interlocuzione con il ROS. Parimenti, il 27 gennaio 1993, quando alcuni magistrati della Procura visionarono le riprese filmate dei giorni 14 e 15 gennaio 1993, inoltrate con relazioni illustrative il giorno precedente, constatandone l’interruzione il giorno stesso dell’arresto del Riina, non fu avanzata al ROS alcuna richiesta di spiegazioni. Infine, nella riunione – di cui non è stato possibile accertare la data - durante la quale l’imputato Mori avrebbe “accennato” alla sospensione del servizio, sollecitando indagini patrimoniali e bancarie sui Sansone, non venne chiesto il senso di quanto veniva riferito, e, pur nella ormai consapevolezza che il servizio non fosse più in corso (cfr. la “quasi certezza” riferita dal dott. Aliquò, già al quarto par.), si aspettò, per averne definitiva contezza, la riunione del 30.1.93.

Un'omissione dopo l'altra per coprire cosa? La Repubblica il 28 agosto 2020. L’omissione della comunicazione all’Autorità Giudiziaria della decisione, adottata dal cap. De Caprio nel tardo pomeriggio del 15 gennaio stesso, di non riattivare il servizio il giorno seguente, e poi tutti i giorni che seguirono, è stata spiegata dal col. Mario Mori, nella nota del 18.2.93, con lo “spazio di autonomia decisionale consentito” nell’ambito del quale il De Caprio credeva di potersi muovere, a fronte delle successive “varianti sui tempi di realizzazione e sulle modalità pratiche di sviluppo” delle investigazioni che si intendeva avviare in merito ai Sansone, una volta che i luoghi si fossero “raffreddati”. Ciò però non era e non poteva essere, alla luce della disciplina ex art. 55 e 348 c.p.p. delle attività di polizia giudiziaria. Ed infatti, fino a quando il Pubblico Ministero non abbia assunto la direzione delle indagini, la polizia giudiziaria può compiere, in piena discrezionalità, tutte le attività investigative ritenute necessarie che non siano precluse dalla legge ai suoi poteri; dopo essa ha il dovere di compiere gli atti specificatamente designati e tutte le attività che, anche nell’ambito delle direttive impartite, sono necessarie per accertare i reati ovvero sono richieste dagli elementi successivamente emersi. L’art. 348 co. 3 c.p.p., per costante giurisprudenza (Cass. 7.12.98 n. 6712; Cass. 4.5.94 n. 6252; Cass. 21.12.92 n. 4603), pone, una volta intervenuta l’Autorità Giudiziaria, un unico limite alle scelte discrezionali della polizia giudiziaria, quello della impossibilità di compiere atti in contrasto con le direttive emesse. Nella fattispecie appare indubitabile che la decisione assunta dal cap. De Caprio era incompatibile con la direttiva di proseguire il controllo - prescindendo se fosse da intendersi come video sorveglianza o come osservazione diretta od anche come semplice pattugliamento a mezzo di auto civetta della zona - impartita dall’Autorità Giudiziaria e, seppure motivata con gli elementi successivamente emersi, relativi alla presenza in loco di operatori della stampa, alla fuga di notizie che aveva avuto ad oggetto via Bernini e dunque agli aggravati problemi di sicurezza della zona, andava immediatamente comunicata. Con riferimento a tale aspetto della vicenda, certamente riconducibile al cap. De Caprio, va aggiunto che le acquisizioni processuali non consentono di individuare con esattezza il momento in cui il col. Mori fu messo a conoscenza delle iniziative assunte dal predetto capitano. In proposito, le argomentazioni del De Caprio secondo il quale ebbe ad informare il proprio superiore verso la fine di gennaio appaiono inverosimili, atteso che il col. Mori, quale responsabile del ROS, era stato voluto dal dott. Caselli per dirigere le indagini che sarebbero scaturite dalle dichiarazioni del Di Maggio. Ed è quindi rispondente a criteri di comune logica ritenere che ogni decisione del cap. De Caprio dovesse essergli comunicata preventivamente o immediatamente dopo la sua assunzione. Il sito, come già detto, fu abbandonato e nessuna comunicazione ne venne data agli inquirenti. Questo elemento, tuttavia, se certamente idoneo all’insorgere di una responsabilità disciplinare, perché riferibile ad una erronea valutazione dei propri spazi di intervento, appare equivoco ai fini dell’affermazione di una penale responsabilità degli imputati per il reato contestato. Il servizio di osservazione, come già innanzi precisato, non poteva avere una valenza sostitutiva rispetto alla mancata perquisizione del complesso e del cd. “covo”, in quanto non poteva impedire la distruzione od il trafugamento di materiale cartaceo, rilevante per la prosecuzione delle indagini, a mano della stessa Bagarella o dei Sansone che vi abitavano o anche di terzi che vi avessero acceduto, prestandosi solo ad individuare chi si sarebbe recato al residence e dunque i contatti che la famiglia e i Sansone avrebbero avuto, tanto più considerando che, anche nelle valutazioni dell’Autorità Giudiziaria, si trattava di un’attività di durata nel tempo. Il ROS, sulla scorta di questa considerazione, diede importanza precipua all’indagine sui Sansone, in seno alla quale il servizio di osservazione, a suo avviso, aveva senso se ed in quanto fosse stato possibile, in termini di sicurezza, ed utile in termini di risultati, per avere i Sansone ripreso, con la recuperata “tranquillità” dell’area, i loro contatti illeciti. Contatti che in realtà, al contrario, erano attivissimi, nel senso di consentire lo svuotamento completo del “covo”. L’omessa comunicazione della cessazione del servizio si innestò, quindi, in una serie concatenata di omissioni, già enucleate, anch’esse significative della eccezionalità del contesto nel quale maturarono quegli accadimenti, quali: il giorno dell’arresto, la omessa specificazione, neppure sollecitata dalla Procura, di quali attività avrebbero dovuto essere condotte e con quali modalità; la omissione, da quel giorno in poi, di ogni flusso comunicativo ed informativo tra la Procura della Repubblica ed i reparti territoriali con il ROS; la omissione di riunioni che vedessero la partecipazione di tutti e tre gli organismi; l’omesso coinvolgimento del ROS nella perquisizione al fondo Gelsomino; la omissione di qualsiasi richiesta di informazioni e di chiarimenti al ROS, sin dal 17 gennaio, quando fu comunicata la notizia del rientro della Bagarella a Corleone, e per tutti i giorni a seguire, anche dopo la manifestazione di perplessità, da parte degli ufficiali della territoriale e di alcuni magistrati che avevano visionato i filmati su via Bernini, sulla sussistenza in atto dell’osservazione, ed anche dopo la frase accennata dal col. Mori sulla sospensione del servizio. Tutto ciò nonostante fosse stato arrestato non un criminale qualsiasi ma proprio uno dei latitanti più pericolosi e più ricercati, coinvolto nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio e già condannato all’ergastolo per gravissimi delitti.

Quali fini aveva il colonnello Mori? La Repubblica il 29 agosto 2020. Ma quel che più rileva – ad avviso del Collegio – è che non è stato possibile accertare la causale delle condotte degli imputati. In un processo indiziario, l’accertamento della causale è tanto più necessario quanto meno è grave, preciso e concordante il quadro degli elementi che sorreggono l’ipotesi accusatoria, potendo, se convergente per la sua specificità ed esclusività in una direzione univoca, fungere da dato catalizzatore e rafforzativo della valenza probatoria degli stessi in merito al riconoscimento della responsabilità e così consentire di inferire logicamente, sulla base di regole di esperienza consolidate ed affidabili, il fatto incerto. E’ stato accertato che il cap. De Donno a cavallo delle stragi di Capaci e di via D’Amelio prese contatti con Vito Ciancimino, tramite il figlio Massimo che conosceva, per avviare un dialogo e che, insieme all’imputato Mori, si recò ad incontrarlo nella sua casa romana in circa tre o quattro occasioni, in agosto, a fine settembre e nel dicembre 1992, appena prima che venisse tratto in arresto. Il Ciancimino, inizialmente restio, si decise dopo le stragi a fungere da intermediario per un dialogo con “cosa nostra”, allo scopo di accreditarsi agli occhi dei due ufficiali per poterne trarre vantaggi con riferimento alle sue vicende giudiziarie, che lo vedevano in attesa di una sentenza di condanna definitiva e dunque della prospettiva del carcere. Trovò un interlocutore con il gotha mafioso nel medico, di cui solo successivamente farà il nome, Antonino Cinà che inizialmente reagì con grande scetticismo ed arroganza all’iniziativa assunta dai carabinieri ma poi, stando a quanto riferito dal Ciancimino nel suo manoscritto “I carabinieri” acquisito al giudizio, gli conferì delega a trattare. Al nuovo incontro che ebbe luogo a casa sua a fine settembre, arrivato ormai il momento di svelare i termini della proposta, gli ufficiali chiesero la resa dei grandi latitanti Riina e Provenzano limitandosi ad offrire, in cambio, un trattamento di favore per le famiglie. Fu chiaro, allora, al Ciancimino che in realtà non c’erano i margini per addivenire a nessun accordo e che anche la sua posizione, che giocava sull’ambiguità del suo ruolo di interfaccia tra i carabinieri e la mafia, era ormai irrimediabilmente compromessa, cosa che lo indusse a continuare per suo conto la “trattativa”, prospettando falsamente ai capi mafiosi, da una parte, una soluzione politica per le imprese colpite dal fenomeno “tangentopoli”, ai carabinieri, dall’altra, la sua volontà di inserirsi nell’organizzazione per conto dello Stato, decidendo di collaborare efficacemente con la giustizia. A tal fine, con il pretesto di averne bisogno per questa sua attività, chiese ai due ufficiali, nell’ultimo incontro nei giorni immediatamente precedenti la sua nuova incarcerazione del 19.12.92, che gli fosse rilasciato il passaporto che gli era stato ritirato, evidentemente al reale scopo di sottrarsi all’esecuzione dei provvedimenti giudiziari che, proprio in quel medesimo frangente temporale, stavano per essere adottati nei suoi confronti, andando a riparare all’estero. Chiese, pure, che gli fossero esibite le mappe relative ad alcune zone della città di Palermo ed atti relativi ad utenze Amap, in quanto a conoscenza di elementi utili alla ricerca del Riina. È di fondamentale rilievo, nel presente giudizio, accertare quali furono le finalità concrete che mossero il nominato col. Mori a ricercare questi contatti con il Ciancimino. Al riguardo, le ipotesi astrattamente prospettabili sono due, e cioè che il Mori volesse intavolare un vero e proprio negoziato con l’organizzazione criminale, oppure che, tramite l’allettante (per la mafia) pretesto di voler aprire per conto dello Stato un canale di comunicazione con l’associazione, così da addivenire ad una sorta di “tregua” con importanti concessioni, intendesse solo carpire informazioni utili alle indagini ed alla individuazione del Riina. Nella prima prospettiva, escluso ogni interesse personale dell’imputato che neppure a livello di sospetto è stato mai avanzato, può ipotizzarsi che la “trattativa” avesse un reale contenuto negoziale, i cui termini fossero, dalla parte mafiosa, la cessazione della linea d’azione delle stragi, dalla parte istituzionale, la garanzia della prosecuzione degli affari criminali dell’ente ovvero la salvaguardia della latitanza di alcuni suoi esponenti, oppositori del Riina (così Bernardo Provenzano), tramite l’assicurazione che la documentazione in possesso del boss corleonese, sempre che, in via ipotetica, contenesse informazioni sugli uni e sugli altri, non sarebbe stata reperita dalle forze dell’ordine. Già, difatti, è stato osservato che, se pure non è stato possibile accertare l’effettiva esistenza ed il contenuto di questi documenti, gli stessi, verosimilmente, erano presenti nella casa e potevano contenere dati rilevanti sulle attività dell’associazione e su altri affiliati o fiancheggiatori della medesima. Non può quindi escludersi, sul piano delle deduzioni in astratto, che tali documenti contenessero notizie potenzialmente “ricattatorie” per alcuni soggetti, anche appartenenti alle istituzioni e contigui a “cosa nostra” e che vi fosse tutto l’interesse di esponenti dell’organizzazione criminale ad assicurarsene il possesso, anche per garantirsi un’impunità che, quanto al Provenzano ed al Matteo Messina Denaro (indicato dal Provenzano al Giuffré come possibile consegnatario dei predetti documenti) era all’epoca in atto da lungo tempo. In quest’ottica la consegna del Riina, fautore delle stragi, potrebbe essere stata il prezzo da pagare volentieri per coloro che, nella mafia, intendessero sbarazzarsi del boss per assumere il comando dell’organizzazione, ed al tempo stesso privilegiassero un’opposizione di basso profilo, più produttiva dal punto di vista della salvaguardia degli interessi economici del sodalizio e della sua stabilità.

I Sansone, la pista seguita da Ultimo. La Repubblica il 30 agosto 2020. Passando dal piano delle mere congetture a quello delle risultanze probatorie, la consegna del boss corleonese, nella quale avrebbe dovuto consistere la prestazione della mafia, è circostanza rimasta smentita dagli elementi fattuali acquisiti al presente giudizio. L’istruzione dibattimentale ha, al contrario, consentito di accertare che il latitante non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base ad una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all’intuito investigativo del cap. De Caprio. Ed invero, il Di Maggio rivelò che tale “Pino” Sansone, assieme a Raffaele Ganci, provvedeva ad accompagnare il Riina nei suoi spostamenti in città ed a curarne la latitanza; indicò vari luoghi, nella zona Uditore, dove aveva visto il boss ed il 12 gennaio 1993, nel corso di uno dei vari sopralluoghi cui prese parte, condusse i carabinieri in via Cimabue e poi in via Bernini (ma più avanti di qualche centinaio di metri rispetto al residence, cfr. deposizione del mar.llo Merenda, primo par.), luoghi ove indicò gli stabili dove avevano sede gli uffici del Sansone, che ne consentì l’individuazione in Giuseppe, uno dei fratelli Sansone, imprenditori edili e titolari di numerose società. Tale nominativo era già emerso nel corso del processo cd. Spatola Rosario + 74 , dunque il cap. De Caprio, che nel corso del servizio contestualmente in atto sui Ganci non aveva riscontrato alcun contatto con il Riina, decise di concentrare l’attenzione investigativa del ROS proprio su questi individui e, per tale ragione, dal 13.1.93 furono sottoposte ad intercettazione telefonica le utenze intestate a Sansone Gaetano, alla moglie Matano Concetta, alla sua ditta individuale ed alle società a r.l. SICOS, SOREN, SICOR, nonché quella intestata alla ditta individuale Sansone Giuseppe. Su ordine del cap. De Caprio, il mar.llo Santo Caldareri eseguì approfonditi accertamenti anagrafici e documentali che portarono alla individuazione della loro residenza anagrafica in via Beato Angelico n.51 ed alla scoperta di un’utenza telefonica, intestata a Giuseppe, sita in via Bernini nn. 52/54. Il 7 ottobre 1992, Domenico Ganci era stato pedinato sino a via Giorgione, il cui prolungamento andava a terminare proprio su via Bernini, all’altezza del numero civico 52/54. Nel pomeriggio del 13 gennaio 1993, i mar.lli Riccardo Ravera e Pinuccio Calvi si recarono, su ordine del De Caprio, in via Bernini a verificare i luoghi ed accertarono sul citofono del complesso di villette il nominativo dei Sansone, con le rispettive mogli, che dunque domiciliavano di fatto proprio in quel residence, invece che nel luogo di residenza. Fu subito inoltrata la richiesta di autorizzazione all’intercettazione telefonica dell’utenza fissa localizzata all’interno del complesso, le cui operazioni di ascolto iniziarono nel pomeriggio del 14.1.93. E va qui ripetuto che fu sempre il cap. De Caprio, il 13 gennaio 1993, a proporre nel corso di una riunione con la territoriale e con il procuratore aggiunto dott. Vittorio Aliquò, che suggerivano di eseguire una perquisizione nel “fondo Gelsomino”, un altro dei luoghi indicati dal Di Maggio, di non procedere con detta perquisizione, dal momento che riteneva dannosa ogni iniziativa diretta, ed invece concentrare le investigazioni sui Sansone, ottenendo l’autorizzazione a mettere sotto osservazione il complesso di via Bernini purché svolgesse analogo servizio sul predetto fondo. L’osservazione del 14 gennaio, quindi, aveva ad oggetto il Sansone, che fu anche pedinato nel corso di quello stesso pomeriggio dagli uomini delle auto civetta in servizio, ed invece consentì di video filmare “Ninetta” Bagarella e Vincenzo De Marco, indicato dal Di Maggio come l’autista dei figli, mentre uscivano dal complesso, i quali furono riconosciuti dal Di Maggio nella notte, quando ancora il cap. De Caprio, assieme al magg. Balsamo, al mar.llo Merenda ed al collaboratore, procedettero a visionare le riprese effettuate dall’appuntato Coldesina. La reiterazione del servizio il giorno seguente, con la presenza del collaboratore sul furgone, consentì l’immediata osservazione del Riina, in auto con Biondino Salvatore, mentre usciva dal complesso. La presenza del Riina all’interno del residence ove abitava la famiglia non era affatto scontata e difatti il servizio si svolse con le stesse modalità di quello effettuato il giorno precedente, tranne che per la presenza del collaboratore e dello stesso De Caprio, con l’obiettivo certo di pedinare la Bagarella e il De Marco per arrivare al latitante. Il Di Maggio non sapeva dove abitasse Salvatore Riina, come sempre affermato e riferito, negli anni 1995/1996, ai collaboratori escussi nel presente giudizio La Rosa e Di Matteo, in occasione dei commenti che gli stessi si scambiarono sulla vicenda dell’arresto del boss. Neppure Giovanni Brusca, d’altra parte, ne era a conoscenza, in quanto sapeva solo la zona ove alloggiava e che ci andavano il De Marco e Pino Sansone; così pure ha riferito Antonino Giuffré. Inoltre i collaboratori Brusca e La Barbera hanno riferito come avvenne lo svuotamento e la ristrutturazione della casa, fornendo elementi che logicamente escludono ogni ipotetica connivenza da parte degli imputati.

Nessun favoreggiamento, tutti assolti. La Repubblica il 31 Agosto 2020. Inizialmente essi si posero il problema che l’abitazione fosse sorvegliata dalle forze dell’ordine e proprio per questo motivo l’incarico di procedere alla eliminazione di ogni traccia relativa al Riina ed alla famiglia venne affidato, tramite il cugino, ai Sansone, che potevano andare e venire dal residence senza problemi in quanto vi abitavano. La scelta di questi soggetti comprova che la mafia ignorava del tutto che invece proprio loro fossero stati individuati e grazie a questo si fosse pervenuti ad osservare via Bernini ed all’arresto del Riina. Pertanto, l’intuizione del ROS di non svelare il dato di conoscenza relativo alla via ed agli imprenditori, che fu alla base della scelta di rinviare la perquisizione, fu esatta se riferita alle future proiezioni investigative, ma del tutto errata nel presente di quella decisione, in quanto, proprio perché li credeva sconosciuti alle forze dell’ordine, l’organizzazione mafiosa se ne servì nell’immediato per ripulire l’abitazione. L’associazione criminale, inoltre, si affrettò ad agire, subito dopo la cattura del Riina, nel presupposto che il complesso fosse osservato, mentre come si è visto così non era, per cui i Sansone, anche se fermati dai carabinieri, avrebbero avuto comunque, in quanto residenti, la giustificazione ad entrarvi. Solo con il passare dei giorni, hanno riferito il La Barbera ed il Brusca, l’iniziale preoccupazione e timore di essere sorpresi lasciò il posto alla soddisfazione ed alla sorpresa di constatare che non c’erano problemi e tutto stava procedendo al meglio. Anche le frasi, attribuite dal Giuffré a Bernardo Provenzano ed a Benedetto Spera, i quali commentando l’accaduto avrebbero detto che “per fortuna” in sede di perquisizione del 2.2.93 i carabinieri non avevano trovato nulla, confermano che lo stesso Provenzano non si aspettava un simile esito e dunque non aveva preso parte alla “trattativa”, consegnando il Riina in cambio dell’abbandono del “covo” nelle mani del sodalizio criminale. La ricostruzione, coerente e supportata da dati di fatto provati, degli accadimenti relativi allo svuotamento della casa ha consentito di accertare, da una parte, che il complesso di via Bernini fu individuato soltanto grazie alle attività investigative del ROS, dall’altra, che la mafia agì sul “covo” ignorando l’inesistenza del servizio di osservazione ed anzi supponendo che fosse in corso. Questi elementi consentono, pertanto, di escludere che il latitante venne catturato grazie ad una “soffiata” dei suoi sodali sul luogo ove dimorava, non essendo emerso a sostegno di quest’ipotesi alternativa alcun elemento, neppure di natura indiziaria, se non la stessa supposizione, elaborata a posteriori, sui motivi per i quali furono omessi la perquisizione, prima, ed il servizio di osservazione, poi, sul complesso. Appare altresì coerente con queste conclusioni la circostanza che neppure si verificò la fine della stagione stragista messa in atto dalla mafia, la quale, anzi, com’è notorio, nel maggio 1993 attentò alla vita del giornalista Maurizio Costanzo e fece esplodere un ordigno a via dei Georgofili a Firenze, nel mese di luglio compì altri attentati in via Pilastro a Milano, a San Giovanni in Laterano ed a San Giorgio al Velabro a Roma, mentre a novembre pose in essere il fallito attentato allo stadio olimpico di Roma. Se la cattura del Riina fosse stata il frutto dell’accordo con lo Stato, tramite il quale era stata siglata una sorta di “pax” capace di garantire alle istituzioni il ripristino della vita democratica, sconquassata dagli attentati, ed a “cosa nostra” la prosecuzione, in tutta tranquillità dei propri affari, sotto una nuova gestione “lato sensu” moderata, non si comprenderebbe perché l’associazione criminale abbia invece voluto proseguire con tali eclatanti azioni delittuose, colpendo i simboli storico-artistici, culturali e sociali dello Stato, al di fuori del territorio siciliano, in aperta e sfrontata violazione di quel patto appena stipulato. Anche i progetti elaborati dal Provenzano di sequestrare od uccidere il cap. De Caprio, di cui hanno riferito in dibattimento, in termini coincidenti, i collaboratori Guglielmini, Cancemi e Ganci, appaiono in aperta contraddizione con la tesi della consegna del Riina al ROS. Se così fosse avvenuto, il boss non avrebbe avuto alcun interesse alla ricerca del capitano “Ultimo”, mentre, da quanto sopra, è stato accertato che effettivamente si cercò di individuarlo, tramite un amico del compagno di gioco al tennis. Se gli elementi di carattere logico e fattuale di cui sopra sono idonei a smentire l’ipotesi della “trattativa” mafia-Stato avente ad oggetto la consegna del Riina, deve concludersi che più verosimilmente l’iniziativa del gen. Mori fu finalizzata solo a far apparire l’esistenza di un negoziato, al fine di carpire informazioni utili sulle dinamiche interne a “cosa nostra” e sull’individuazione dei latitanti. Sembra confermare una tale interpretazione anche il rilievo che il comportamento assunto dal cap. De Donno e dall’imputato apparirebbe viziato – ponendosi nell’ottica di una trattativa vera invece che simulata - da un’evidente ed illogica contraddizione, solo se si consideri che gli stessi si recarono dal Ciancimino a “trattare” chiedendo il massimo, la resa dei capi, senza avere nulla da offrire. Forse, proprio sulla scorta di una tale considerazione, gli uomini di “cosa nostra” credettero che in effetti i due ufficiali fossero disponibili, per conto dello Stato, a sostanziali concessioni nei confronti dell’organizzazione pur di mettere fine alle stragi, rimanendo persuasi della “bontà” della linea d’azione elaborata dal Riina che, difatti, verrà portata avanti anche successivamente all’arresto del boss, sperando, verosimilmente, che si potesse giungere, anche con il “capo” in carcere, ad un “ammorbidimento” della lotta alla mafia portata avanti dalle istituzioni. Non può non rilevarsi che nella prospettiva accolta da questo decidente l’imputato Mori pose in essere un’iniziativa spregiudicata che, nell’intento di scompaginare le fila di “cosa nostra” ed acquisire utili informazioni, sortì invece due effetti diversi ed opposti: da una parte, la collaborazione del Ciancimino che chiese di poter visionare le mappe della zona Uditore ove si sarebbe trovato il Riina, verosimilmente nell’intento di prendere tempo e fornire qualche indicazione in cambio di un alleggerimento della propria posizione giudiziaria; dall’altra, la “devastante” consapevolezza, in capo all’associazione criminale, che le stragi effettivamente “pagassero” e lo Stato fosse ormai in ginocchio, pronto ad addivenire a patti. Il Collegio ritiene, infine, di non poter condividere la prospettazione della pubblica accusa che, sulla base di imprecisate “ragioni di Stato”, ha chiesto di affermare la penale responsabilità degli imputati per il reato di favoreggiamento non aggravato, da dichiararsi ormai prescritto.

Tali “ragioni di Stato” non potrebbero che consistere nella “trattativa” di cui sopra intrapresa dal Mori, con la consapevolezza, acquisita successivamente, del De Caprio e, dunque, lungi dall’escludere il dolo della circostanza aggravante varrebbero proprio ad integrarlo, significando che gli imputati avrebbero agito volendo precisamente agevolare “cosa nostra”, in ottemperanza al patto stipulato e cioè in esecuzione della controprestazione promessa per la consegna del Riina. La “ragione di Stato” verrebbe dunque a costituire il movente dell’azione, come tale irrilevante nella fattispecie ex art. 378 C.P., capace non di escludere il dolo specifico ex art. 7 L. n. 203/91, bensì di svelarlo e renderlo riconoscibile, potendo al più rilevare solo come attenuante ove se ne ammettesse la riconducibilità alle ipotesi di cui all’art. 62 C.P., comunque escluse dal giudizio di comparazione. La mancanza di prova sull’esistenza di questi “motivi di Stato” che avrebbero spinto gli imputati ad agire, ed anzi la dimostrazione in punto di fatto della loro inesistenza ed incongruenza sul piano logico, per le considerazioni già esposte – considerato, altresì, che la controprestazione promessa avrebbe vanificato tutti gli sforzi investigativi compiuti sino ad allora dagli stessi imputati, anche a rischio della propria incolumità personale, e lo straordinario risultato appena raggiunto - non consente di ritenere integrato il dolo della fattispecie incriminatrice in nessuna sua forma. È palese, infatti, che se vi fu “ragione di Stato” si intese “pagare il prezzo” dell’agevolazione, per il futuro, delle attività mafiose, pur di “incassare” l’arresto del Riina, con la piena configurabilità del favoreggiamento aggravato, ma se non vi fu, gli imputati devono andare esenti da responsabilità penale. Appare, difatti, logicamente incongruo, già su un piano di formulazione di ipotesi in funzione della verifica della prospettazione accusatoria in ordine alla sussistenza del reato base di favoreggiamento con dolo generico, individuare in soggetti diversi dall’organizzazione criminale nel suo complesso coloro che gli imputati avrebbero inteso agevolare tramite la mancata osservazione del residence di via Bernini, così volendo aiutare individui determinati invece che l’associazione nella sua globalità. L’impossibilità, già da un punto di vista oggettivo, di discernere i soggetti favoriti (la Bagarella neppure era indagata) dall’associazione mafiosa si ripercuote sul versante soggettivo, apparendo inverosimile che gli ausiliatori abbiano agito non al fine di consentire alla mafia la prosecuzione dei suoi affari, in ossequio al “patto scellerato”, ma volendo solo aiutare, nel momento stesso in cui procedevano all’arresto del capo dell’organizzazione, e senza alcuna apparente ragione, determinati affiliati ad eludere le investigazioni o le ricerche. Ne deriva che, non essendo stata provata la causale del delitto, né come “ragione di Stato” né come volontà di agevolare specifici soggetti, diversi dall’organizzazione criminale nella sua globalità, l’ipotesi accusatoria è rimasta indimostrata, arrestandosi al livello di mera possibilità logica non verificata. La mancanza di una prova positiva sul dolo di favoreggiamento non può essere supplita dall’argomentazione per la quale gli imputati, particolarmente qualificati per esperienza ed abilità investigative, non potevano non rappresentarsi che l’abbandono del sito avrebbe lasciato gli uomini di “cosa nostra” liberi di penetrare nel cd. covo ed asportare qualsiasi cosa di interesse investigativo e dunque l’hanno voluto nella consapevolezza di agevolare “cosa nostra”. Sul versante del momento volitivo del dolo, una simile opzione rischierebbe di configurare un “dolus in re ipsa”, ricavato dal solo momento rappresentativo e dalla stessa personalità degli imputati, dotati di particolare perizia e sapienza nella conduzione delle investigazioni. Ma, quanto al momento rappresentativo, già è stato precisato che il servizio di osservazione non sarebbe valso ad impedire l’asportazione di eventuale materiale di interesse investigativo, che poteva essere evitata solo con l’immediata perquisizione, quanto alle abilità soggettive degli imputati, esse non possono valere a ritenere provata una volontà rispetto all’evento significativo del reato che è invece rimasta invalidata dall’esame delle possibili spiegazioni alternative. Ne deriva che il quadro indiziario, composto da elementi già di per sé non univoci e discordanti, è rimasto nella valutazione complessiva di tutte le risultanze acquisite al dibattimento e tenuto conto anche della impossibilità di accertare la causale della descritta condotta, incoerente e non raccordabile con la narrazione storica della vicenda come ipotizzata dall’accusa e per quanto è stato possibile ricostruire in dibattimento. In conclusione, gli elementi che sono stati acquisiti non consentono ed anzi escludono ogni logica possibilità di collegare quei contatti intrapresi dal col. Mori con l’arresto del Riina ovvero di affermare che la condotta tenuta dagli imputati nel periodo successivo all’arresto sia stata determinata dalla precisa volontà di creare le condizioni di fatto affinché fosse eliminata ogni prova potenzialmente dannosa per l’associazione mafiosa. Per le pregresse considerazioni, entrambi gli imputati devono essere mandati assolti per difetto dell’elemento psicologico.

Ultimo e le assurde giustificazioni sulla non perquisizione del covo di Riina. Pubblicato: 15 Giugno 2019 antimafiaduemila.com da Aaron Pettinari. Ieri il colonnello dei Carabinieri ospite a "Otto e mezzo": "Volevamo seguire Sansone". Ma le sentenze raccontano l'illogicità del fatto. Ieri a "Otto e mezzo", il programma condotto da Lilli Gruber su La7, è stato presentato il libro "Fermate il capitano Ultimo", scritto da Pino Corrias. Ospiti in studio l'autore e il giornalista de Il Corriere della Sera, Giovanni Bianconi mentre in collegamento è intervenuto lo stesso Sergio De Caprio (alias capitano Ultimo). Questi ha espresso le proprie opinioni su diverse questioni, comprese alcune vicende che lo hanno visto coinvolto in prima persona come l'arresto di Totò Riina. Dopo un intervento di Bianconi, che ricordava le "curve" che ci sono state lungo il percorso del militare e le domande inevase su un episodio chiave come la mancata perquisizione del covo del boss corleonese, lo stesso Ultimo ha offerto ancora una volta la propria spiegazione dei fatti: "Il covo di Totò Riina non fu perquisito perché io proposi, e la procura inizialmente acconsentì, di seguire i fratelli Sansone, due imprenditori molto importanti di Cosa Nostra ma fino ad allora sconosciuti. E ritenevo che seguendoli si sarebbe potuto disarticolare completamente e in breve tempo l'intera organizzazione criminale anche con le connessioni verso il potere politico e nel mondo della gestione degli appalti. Li ritenevo come un'occasione pubblica e irripetibile". "Purtroppo - ha proseguito - dopo 20 giorni, invece, la procura ci ha ripensato. Ed è venuto fuori il discorso del covo. Ma nessuno ha mai parlato in quei giorni che all'interno c'erano documenti da sequestrare. Nessuno ha dato disposizioni affinché le persone che uscivano da questa casa poi sarebbero dovuti essere perquisiti. Perché se l'interesse era prendere i documenti c'era l'accordo di farli uscire questi documenti. Non da parte mia ma di tutti gli altri. E fatalità del destino mi trovo ad avere ragione su quella scelta strategica, sempre con umiltà dico questo, perché nel 2013 a seguito di un'altra attività a Roma, da un’intercettazione apprendo che il figlio di Sansone si era fidanzato con la nipote di Messina Denaro". E' vero che il capitano Ultimo, assieme al generale Mori sono stati assolti dall'accusa di favoreggiamento aggravato dall'aver agevolato Cosa nostra perché "il fatto non costituisce reato". Tuttavia tra le pieghe della sentenza del 20 febbraio 2006, come ha ricordato anche Bianconi, sono indicate le evidenti pecche operative dei due ufficiali, compiute nella scelta di non perquisire immediatamente il covo di via Bernini.

Repetita Iuvant, la sentenza sulla mancata perquisizione. In quel processo Ultimo e Mori giustificarono la scelta di non perquisire il covo di Riina subito dopo il suo arresto con la volontà di non “bruciare” il covo e la neo-collaborazione del pentito Baldassarre Di Maggio. Quest'ultimo, infatti, fu il pentito che, per primo, mise in relazione Riina con i fratelli Sansone, che abitavano in Via Bernini, e che permise quindi, secondo Mori e De Caprio, l'individuazione del covo. Bruciare covo e pentito avrebbe reso dunque inutile continuare le investigazioni sui Sansone, che avevano, secondo Ultimo, un alto interesse investigativo, al contrario del “covo”, dentro il quale – disse – non si sarebbe trovato comunque nulla di importante. Eppure, in merito all'argomento "salvaguardia del covo e del pentito", i giudici che lo assolsero fecero notare alcuni particolari: “Sempre quel 16.1.93 diversi giornalisti tra cui Alessandra Ziniti ed Attilio Bolzoni - come da loro deposto in dibattimento all'udienza dell'11.7.05 - ricevettero da parte dell'allora magg. Roberto Ripollino una telefonata con la quale quest'ultimo gli rivelò che il luogo in cui Salvatore Riina aveva trascorso la sua latitanza era situato in Via Bernini, senza però specificarne il numero civico. Si recarono, quindi, immediatamente sui posto, ove furono raggiunti anche da altri giornalisti e troupes televisive, tutti alla ricerca del c.d. 'covo'". Quella sera stessa la Ziniti mandò in onda, sulla televisione locale per la quale lavorava, un servizio nel quale mostrava le riprese di via Bernini e tra queste anche quella relativa al complesso situato ai nn. 52/54, aggiungendo che in base ad "indiscrezioni" che le erano pervenute quella era la zona ove il Riina aveva abitato. Lo stesso 16.1.93 apparve sulla stampa la notizia che "un siciliano di nome Baldassarre" stava collaborando con i carabinieri ed aveva dato dal Piemonte, ove si era trasferito, un input fondamentale alla individuazione del Riina (cfr. lancio Ansa [del 16.1.93, nda] acquisito all'udienza del 9.1.06). [Sentenza di assoluzione del 20 febbraio 2006, n. 514/06 del procedimento a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio] Due giorni dopo l'arresto di Riina, sul quotidiano La Stampa, uscì anche un articolo di Francesco La Licata in cui si faceva riferimento al collaboratore Di Maggio ed anche al covo. I giudici quindi osservo nella sentenza che “non v'è dubbio, sul piano logico, che tali elementi avrebbero dovuto indurre gli organi investigativi e gli inquirenti a ritenere il sito ornai 'bruciato', essendo gli uomini di "cosa nostra" già in possesso di tutte le informazioni per stabilire il collegamento via Bernini-Di Maggio-Sansone, ed avrebbero dovuto imporre di procedere subito alla sua perquisizione, ma così non fu ed, al contrario, si ritenne cogente l'interesse a sviare l'attenzione dei mass media dal vero obiettivo.”

Un altro punto che viene confutato nella sentenza è la motivazione, data al tempo da Ultimo, sullo scarso interesse investigativo del covo ritenendo che all'interno non vi fossero documenti importanti. Anche in questo caso la sentenza scrive chiaramente: "La posizione apicale del Riina, ai vertici dell'organizzazione criminale, ben poteva far ritenere che lo stesso conservasse nella propria abitazione un archivio rilevante per successive indagini su 'Cosa nostra' e, tenuto conto che la di lui famiglia era rimasta in via Bernini, poteva di certo ipotizzarsi che altri sodali, aventi l'interesse a mettersi in contatto con la stessa, vi si recassero. Al di là di queste argomentazioni di carattere logico, il fatto che il Riina fosse stato trovato, al momento del suo arresto, in possesso di diversi “pizzini”, ovvero di biglietti cartacei contenenti informazioni sugli affari portati avanti dall'organizzazione, con riferimento ad appalti, alle imprese ed alle persone coinvolte, costituisce un ulteriore preciso elemento, in questo caso di fatto, che vale a rendere la condotta contestata agli imputati oggettivamente idonea ad integrare il reato". E poi ancora: "Le argomentazioni difensive riferite sul punto, secondo le quali si riteneva che il latitante non conservasse cose di rilievo nella propria abitazione, perché 'il mafioso' non terrebbe mai cose che possono mettere in pericolo la famiglia, appaiono fondate su una massima di esperienza elaborata dagli stessi imputati ma non verificata empiricamente ed anzi contraddetta dalla risultanza offerta proprio dal materiale rinvenuto indosso al boss. Pertanto, già il 15.1.93, sussisteva la concreta e rilevante probabilità che esistesse altra documentazione in via Bernini; probabilità che è stata confermata in dibattimento dal Brusca e dal Giuffrè, secondo cui Salvatore Riina era solito prendere appunti, teneva una contabilità dei proventi criminali, annotava le riunioni e teneva una fitta corrispondenza sia con il Provenzano che con altri esponenti mafiosi, per la "messa a posto" delle imprese e la gestione degli affari”.

Come già ricordato i giudici della 3°sezione del Tribunale di Palermo, pur mettendo in luce le diverse pecche operative, assolsero i due ufficiali Mori e De Caprio con queste conclusioni: "Al di là delle, in più punti, confuse (v. dichiarazioni sulla asserita non importanza dell'abitazione ove il latitante convive con la famiglia, perché non vi terrebbe mai cose che possano compromettere i familiari) argomentazioni addotte dagli imputati, che sono sembrate dettate dalla logica difensiva di giustificare sotto ogni profilo il loro operato, deve valutarsi se quei comportamenti omissivi valgano ad integrare un coefficiente di volontà diretta ad agevolare 'Cosa nostra' (…) L'omissione della comunicazione all'Autorità Giudiziaria della decisione, adottata dal cap. De Caprio nel tardo pomeriggio del 15 gennaio stesso, di non riattivare il servizio il giorno seguente, e poi tutti i giorni che seguirono, è stata spiegata dal col. Mario Mori, nella nota del 18.2.93, con lo “spazio di autonomia decisionale consentito” nell'ambito del quale il De Caprio credeva di potersi muovere, a fronte delle successive “varianti sui tempi di realizzazione e sulle modalità pratiche di sviluppo” delle investigazioni che si intendeva avviare in merito ai Sansone, una volta che i luoghi si fossero “raffreddati”. Ciò però non era e non poteva essere, alla luce della disciplina ex art. 55 e 348 c.p.p. delle attività di polizia giudiziaria. Ed infatti, fino a quando il Pubblico Ministero non abbia assunto la direzione delle indagini, la polizia giudiziaria può compiere, in piena discrezionalità, tutte le attività investigative ritenute necessarie che non siano precluse dalla legge ai suoi poteri; dopo essa ha il dovere di compiere gli atti specificatamente designati e tutte le attività che, anche nell'ambito delle direttive impartite, sono necessarie per accertare i reati ovvero sono richieste dagli elementi successivamente emersi. L'art. 348 co. 3 c.p.p., per costante giurisprudenza (Cass. 7.12.98 n. 6712; Cass. 4.5.94 n. 6252; Cass. 21.12.92 n. 4603), pone, una volta intervenuta l'Autorità Giudiziaria, un unico limite alle scelte discrezionali della polizia giudiziaria, quello della impossibilità di compiere atti in contrasto con le direttive emesse. (…) Questo elemento, tuttavia, se certamente idoneo all'insorgere di una responsabilità disciplinare, perché riferibile ad una erronea valutazione dei propri spazi di intervento, appare equivoco ai fini dell'affermazione di una penale responsabilità degli imputati per il reato contestato”. Questo significa che non si ritenne che le azioni poste in essere dai due militari avessero l'obiettivo consapevole di favorire la mafia. Infatti, scrivono ancora i giudici “non essendo stata provata la causale del delitto, né come “ragione di Stato” né come volontà di agevolare specifici soggetti, diversi dall’organizzazione criminale nella sua globalità, l’ipotesi accusatoria è rimasta indimostrata, arrestandosi al livello di mera possibilità logica non verificata”.

Le altre sentenze che si sono occupate del caso. Anni dopo quel processo anche la sentenza Mori-Obinu e quella sulla Trattativa Stato-mafia hanno valutato quell'operato inserendoli in discorsi più ampi. Il collegio presieduto da Salvatore Di Vitale aveva scritto che "la scelta di privilegiare qualsiasi altra esigenza investigativa rispetto al pericolo che il covo fosse ripulito appare davvero non adeguata per volere usare un eufemismo”. Inoltre si aggiungeva che "la scelta condivisa di non perquisire immediatamente il covo blindandolo con un servizio di osservazione esterno all'ingresso del complesso edilizio appare davvero singolare ove si consideri che il detto servizio anche ove fosse stato mantenuto per qualche giorno ancora non avrebbe evitato che qualcuno dall'interno provvedesse a 'ripulire' la villetta, cosa che, con tutto il comodo possibile, fu effettivamente fatta”. Nelle motivazioni della sentenza del 20 aprile 2018 anche il collegio presieduto da Alfredo Montalto, giudice a latere Stefania Brambille, aveva evidenziato come la mancata perquisizione del covo sia stato "l'unico caso nella storia della cattura di latitanti appartenenti ad una associazione mafiosa (ma anche di latitanti responsabili di altri gravi reati) in cui non si sia proceduto all'immediata perquisizione del luogo in cui i latitanti medesimi vivevano al fine di reperire e sequestrare eventuali documenti utili per lo sviluppo di ulteriori indagini quanto meno finalizzate alla individuazione di favoreggiatori". Un'anomalia che "appare ancor più grave" se si considera che Riina, in quel momento "era indiscutibilmente il ricercato numero uno al mondo per essere a capo dell'organizzazione criminale allora più potente e pericolosa e responsabile di delitti tra i più efferati mai commessi (da ultimo le stragi di Capaci e via d'Amelio)". Ulteriormente si legge che "quali che fossero le ragioni addotte a sostegno di tale decisione (ad esempio, anche quelle della sicurezza del personale appostato all'interno della c.d. “balena” ovvero quelle connesse alla visibilità limitata al solo cancello di ingresso al complesso riprese dal difensore dell'imputato De Donno - e già del Cap. De Caprio - in sede di discussione all'udienza del 5 aprile 2018), a questa avrebbe dovuto, comunque, conseguire l'immediata perquisizione dell'abitazione di Riina (che non era certo difficile individuare all'interno del complesso di via Bernini a costo di perquisire tutte le certo non molte ville, appena nove, site al suo interno)". Al di là di ogni giustificazione possibile, dunque, la realtà dei fatti è ben diversa. Il covo non fu sorvegliato e quando il 2 febbraio venne fatta la perquisizione gli inquirenti trovarono il rifugio del boss completamente ripulito, con mobili ammassati in una stanza, la cassaforte smurata, le pareti imbiancate e perfino le tappezzerie ed i rivestimenti staccati, per eliminare eventuali tracce di Dna. 

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il Concorso Esterno. Reato fantastico.

Il giudice si deve trasferire, raffica di udienze senza approfondimenti per sentenza sui Cesaro. Giovanni Altoprati il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. «Questo processo è la Waterloo dei diritti degli imputati»», afferma senza peli sulla lingua l’avvocato Vincenzo Maiello, difensore dei fratelli Raffaele e Aniello Cesaro, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa con il clan Polverino. Secondo la Dda di Napoli, i Cesaro, fratelli del senatore di Forza Italia Luigi e titolari di un’azienda di costruzioni, si sarebbero aggiudicati illecitamente il bando per la realizzazione di un’area industriale nel comune di Marano (NA). Ad accusarli alcuni collaboratori di giustizia. I due fratelli, dopo aver trascorso circa due anni di custodia cautelare in carcere, dal marzo del 2019 si trovano agli arresti domiciliari fuori dalla Regione Campania. «Il Tribunale di Napoli Nord ha deciso che questo dibattimento deve concludersi entro tre mesi. Il motivo? Il presidente del collegio, il giudice Francesco Chiaromonte (colui che da gip nel 2008 decise l’arresto di Sandra Lonardo, moglie dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, poi assolta da tutte le accuse nel 2017, ndr) dal prossimo mese di marzo andrà al Tribunale di sorveglianza dove ha chiesto di essere trasferito», prosegue l’avvocato Maiello. Pur essendo i reati contestati caratterizzati dall’aggravante mafiosa, per la quale si applica l’art. 190bis che non prevede la ripetizione delle udienze in caso di cambio del collegio, il Tribunale vuole procedere a tappe forzate: tre udienze a settimana e i testimoni citati direttamente dai carabinieri. Come è successo l’altro giorno a un teste della difesa che è stato chiamato a casa alle dieci di sera con l’avvertimento di presentarsi l’indomani mattina in Tribunale. Il perché di questa frenesia lo spiega sempre l’avvocato Maiello: «Il presidente dell’iniziale collegio, Giuseppe Cioffi, dopo una campagna stampa di Repubblica, ha deciso di astenersi, sostituito quindi da Chiaromonte». «Repubblica – prosegue Maiello – aveva per giorni scritto di alcune relazioni tra il gruppo dirigente di Forza Italia in Campania e Cioffi. Il magistrato, secondo le testimonianze del giornale, aveva partecipato anche a una convention di FI ad Ischia dove era stata ipotizzata una sua candidatura». Sulla vicenda era intervenuto l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, avviando accertamenti, e anche il Csm, con l’apertura di una pratica. «Il sospetto è che il Tribunale abbia voluto lavare quest’onta di essere colluso con il centro destra», prosegue Maiello. Per far concludere il dibattimento, in corso da due anni, in novanta giorni è stato quindi stravolto l’interno calendario delle udienze. I giudici del collegio che deve giudicare i Cesaro sono stati esonerati da tutti gli altri processi che stavano seguendo. In questo lasso di tempo – ed è qui il punto più delicato della questione, quello che ha spinto i legali degli imputati ad abbandonare (non rinunciare) le difese – dovranno essere ascoltati oltre 130 testimoni. «Si, ieri ho abbandonato la difesa dei Cesaro», puntualizza l’avvocato Maiello, secondo cui «il contesto ambientale non agevola alla percezione di un giudice imparziale». «Non ci sono problemi sul fronte della prescrizione. Questa compressione delle udienze è una chiara limitazione dei diritti degli imputati ed è il segno che si vuole chiudere in fretta un processo senza i dovuti approfondimenti», precisa ancora Maiello. L’indagine, eseguita dai Ros dei carabinieri, è stata condotta dai pm Maria Di Mauro e Giuseppe Visone, con il coordinamento dell’allora aggiunto Giuseppe Borrelli, ora procuratore di Salerno. Il fascicolo si basa essenzialmente sulle dichiarazioni di alcuni pentiti. I Cesaro hanno sempre respinto le accuse, dichiarandosi vittima di estorsione da parte di esponenti del clan Polverino.

Il caso Dell’Utri e il delitto fantastico di “concorso esterno”. Paolo Guzzanti il 4 Dicembre 2019 su Il Riformista. Torna libero, per modo di dire perché ancora lo attendono malincontri di giustizia, ma già il fatto che Marcello Dell’Utri, scontata la pena, malato e invecchiato, sia autorizzato ad uscire dalla casa dove scontava i domiciliari, ci riempie il cuore di triste gioia. Primo, perché la cosa farà rabbia con schiuma verde a tutti i manettari produttori e consumatori del teorema della mafiosità ambientale respirabile anche in comode confezione spray; secondo perché ormai posso perdonargli di aver intossicato la mia ex moglie incinta al nono mese col suo sigaro fetente l’unica volta che cenammo insieme. Marcello Dell’Utri è stato dentro per “concorso esterno”. Significa che tu non hai commesso dei reati, neanche che sei un mafioso, ma che dalla strada fischiettavi con coppola storta, senza curarti che la lupara ti spuntasse sotto la giacca. Unica cosa che non mi esalta di Marcello Dell’Utri è questa mania della bibliofilia di volumi da “Nome della Rosa”, incunaboli polverosi, con tutte quelle figurine e capilettera ricamati a mano con stampe dell’epoca del torchio e del torcolo che puzzano di muffa. A parte questo, io non so – tutti dovremmo non sapere – come considerare e immaginare noi stessi perseguiti e perseguitati per il delitto di associazione mafiosa sì, ma esterna. È un delitto fantastico, che soltanto il genio italiano poteva concepire nella patria in cui il Diritto è nato, per restare poi in culla. Ne ho scritto e letto per anni di tutta la storia della squadra di calcio (mi pare si chiamasse) Bacigalupo a Palermo dove Dell’Utri conobbe, ma che dico, prese più volte il caffè esterno – con il mafioso Mangano che poi fu assunto da Berlusconi nella sua tenuta di Arcore con la storia del cavalli che secondo i teoremisti non erano cavalli ma messaggi in codice, ma sembra invece proprio che si trattasse di cavalli perché l’associato esterno Dell’Utri Marcello aveva anche il vizio di puntare sui cavalli e pare telefonasse agli amici per chiedere a quanto la dài a Cherie, piazzata o vincente? Era la stagione, la ricorderete della caccia al Berluscone intesa come preda furastica e ambitissima, parente del Cinghialone Craxi, di cui si commemora ora il ventennale della morte con Milano che si chiede perché ha una via Stalingrado, una Palmiro Togliatti, ma via Bettino no, quando era così semplice capirlo, il perché, visto che Bettino era il dante causa di Silvio, che era amico di Marcello che aveva il figlio che giocava nella squadra di calcio Bacigalupo dove al caffè incontrava Mangano che era un mafioso al quale in carcere gli andavano a chiedere se volesse essere messo in una clinica a scontare il suo cancro, casomai avesse voluto dichiarare che anche il cinghialone Berluscone era pure lui mafioso o almeno concorrente esterno a meno di dodici metri e quello diceva no, grazie e marcì in galera crepando del suo cancro. Per dire. Erano storie molto italiane in cui se ti permetti di dissentire, dubitare, ridicolizzare, sospettare, non credere, sei per prima cosa un lurido mascalzone, di chi fai il gioco, un giorno metteremo in galera anche a te, verrà il tuo momento. È stata una stagione così, quella che ha visto l’arresto di Marcello Dell’Utri dopo tutti i gradi di giudizio, la fuga in Libano per legittimo orrore della detenzione, con cattura, reti, cani cacciatori da quadro di Bruegel, grida di dolore, cellulare (automezzo, non telefono) e corsa in galera, stavolta la sconterai e imparerai a fare amicizie sbagliate. Non ci riferiamo a Mangano ma a quell’altro, l’amico tuo, intanto mettiamo in galera te, erano tempi fatti così – quelli dell’associazione esterna e anche coniugata interna o adiacente al terriccio mafioso, che non si nega a nessuno come per esempio alla malavita romana dove se ti muovi facendo la faccia da cosca, ti becchi l’aggravante mafiosa e se ammazzi col fico d’india in bocca prendi più anni che con il pallettone. La coreografia vuole i suoi sacrifici umani e Dell’Utri è stato un sacrificio e oggi umanamente è stato non riabilitato, ma soltanto riconosciuto degno di affacciarsi sulla porta dell’ascensore, accendere il televisore, andare su Internet e telefonare a qualcuno. Essere un concorrente esterno l’aveva portato a una condanna di sette anni che sono, a occhio e croce, più di settemila giorni e settemila notti, a san Vitùr a ciapà i bott’, anche se non era il San Vitùr dei tempi andati, ma anche Ucciardone, Regina Coeli o quel che capita. Era, è stato, un senatore della Repubblica. Un senatore di Forza Italia (e di Publitalia prima) in galera, dopo la testa di cervo e il luccio imbalsamato, sempre un bel trofeo. Quanti ne ha uccisi? Nessuno. Quanti ne ha rapiti? Nessuno. Si può andare avanti e la risposta resta nessuno, purché s’intenda in posizione mezza fuori e mezza dentro di associazione esterna con un piede sul gradino. Dell’Utri è invecchiato, è smagrito, è malato, è stato per anni dimenticato e abbandonato, lasciato nel suo appartamento della detenzione domiciliare a perdere il gusto per la vita e anche per i suoi dannati libri polverosi, con l’accusa peraltro per cui deve ancora essere processato di averne rubati alcuni. Dimenticavamo – quasi – l’accusa della trattativa Stato Mafia (ente pubblico, dunque maiuscolo) che si sarebbe conclusa con l’inverecondo risultato della fine dei fatti di sangue e stragi in cambio non si è capito ancora di che cosa, visto che tutti i mafiosi sono schiattati in galera, dietro le sbarre, umiliati e sconfitti. E poi l’accusa fantasy di stragismo sempre in combutta col cinghialone Berluscone che con lui avrebbe dato fuoco alle polveri come nella congiura delle polveri in Inghilterra, ma il film non è stato ancora messo in circolazione, sembra che la Disney sia interessata. Fantastoria? Altroché. Chiedetelo a lui, il connivente esterno, l’adiacente mafioso, il limitrofo che è una variazione notturna del licantropo canguro. Dell’Utri indossava sempre cravatte di gusto e aveva quell’espressione da uno che ancora non aveva capito bene che cosa stesse per capitargli. Speriamo che riprenda le vecchie abitudini e stia attento a dove mette i piedi quando calpesta una merda e a non passare la linea dell’esterno-interno, altrimenti, zàc, si trova che non è dentro né fuori, ma torna al quadretto numero uno del gioco della galera e si ricomincia tutto da capo, col filo e con l’ago, Good morning, Italy.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Le Stragi del '93.

Quattro donne coinvolte nelle stragi del '93: ecco i loro identikit. Lirio Abbate su L'Espresso il 13 novembre 2020. Testimonianze sino a oggi trascurate svelano un loro ruolo sui luoghi degli attentati di Milano e Firenze. Presenze femminili in azioni cruciali sono del tutto inusuali per le abitudini mafiose. E questo sarebbe un’ulteriore prova del coinvolgimento di entità esterne a Cosa nostra nella strategia eversiva di destabilizzazione. Sono quattro le donne che nell’estate del terrore del 1993 parteciparono, ognuna con un ruolo diverso, a piazzare le bombe a Firenze e a Milano. I loro identikit, realizzati subito dopo le esplosioni di via dei Georgofili, nei pressi della Galleria degli Uffizi, e in via Palestro, poco distante dalla sede del Pac (Padiglione d’arte contemporanea), è stato possibile ricostruirli grazie a testimonianze oculari. Quattro persone hanno visto in faccia queste ragazze che si muovevano attorno alle autobombe delle stragi poco prima che venissero fatte esplodere. Il volto disegnato di tutte e quattro non è stato mai pubblicato, si è parlato al massimo della presenza di una sola ragazza bionda.

Il mistero mai risolto della Falange Armata dietro le bombe del '93. Federico Marconi su L'Espresso il 25 maggio 2018. 25 anni fa, con la strage di via dei Georgofili, e gli attentati a Roma e Milano, iniziava la seconda fase terroristica di Cosa Nostra. La storia mai chiarita della sigla oscura che la rivendicava. Sono passati 25 anni da quando duecento chili di esplosivo devastarono il centro di Firenze. Era da poco passata l’una di notte del 27 maggio 1993 quando esplose la bomba posizionata all’interno di un Fiorino bianco parcheggiato in una piccola e stretta stradina chiusa al traffico, via dei Georgofili. L’esplosione costò la vita a cinque persone, 48 rimasero ferite. Crollò la Torre dei Pulci, la Galleria degli Uffizi e il Corridoio Vasariano furono gravemente danneggiati insieme a decine di opere d’arte. Nei concitati minuti successivi all’esplosione, mentre i soccorritori cercavano di salvare le persone residenti nella via, si pensò che la tragedia fosse dovuta ad una fuga di gas. Ma bastò poco per capire che si trattava di un attentato, simile a quello di due settimane prima nel centro di Roma, a via Fauro, dove un’autobomba era scoppiata al passaggio della macchina di Maurizio Costanzo. «Qui a Firenze vedo gli stessi segni. La deformazione delle lamiere, le condizioni delle pareti, tutto uguale» affermava ai cronisti presenti il direttore della Protezione Civile Elveno Pastorelli. «È terrorismo indiscriminato» tuonavano i procuratori fiorentini Pier Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Poco dopo mezzogiorno la prima rivendicazione con una telefonata alle redazioni Ansa di Firenze e Cagliari: «Qui Falange Armata. Gravissimo errore continuare a negare, confondere e mistificare da parte degli organi investigativi e inquirenti le nostre potenzialità politiche e militari. Eccovene un’altra testimonianza». Oggi sappiamo chi sono i responsabili delle bombe sul continente. Da Totò Riina in poi, tutta la cupola mafiosa è stata condannata come responsabile di quella strategia della tensione che sconvolse l’Italia all’inizio degli anni ’90. Stava finendo un’epoca, il potere di Cosa Nostra era fiaccato non solo dalle inchieste giudiziarie della procura di Palermo, ma anche dalla fine del mondo della Guerra Fredda e dalla scomparsa dei referenti politici che avevano permesso e protetto l’ascesa criminale della mafia siciliana. E mentre i boss trattavano con pezzi dello Stato, com’è stato appurato dalla sentenza del tribunale di Palermo del 20 aprile, seminavano sangue, paura, terrore, per alzare la posta in gioco. Sono ancora molti i misteri che avvolgono quella drammatica stagione della storia del nostro Paese. E uno di questi riguarda la Falange Armata: una sigla terroristica che ha rivendicato tutte le bombe mafiose del ’92-’93, ma anche omicidi, rapine, attentati in tutto il Paese. Di tutto e di più. Tanto che, contando le sole rivendicazioni, avremmo di fronte una tra le più temibili organizzazioni terroristiche della storia italiana.

25 ANNI DI RIVENDICAZIONI. La prima rivendicazione della Falange Armata è datata 27 ottobre 1990. Alle 12.20 la redazione bolognese dell’Ansa riceve la telefonata di un uomo con un forte accento straniero: intesta alla “Falange Armata Carceraria” la responsabilità dell’omicidio di Umberto Mormile. L’educatore carcerario del carcere di Opera era stato ucciso l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, freddato da sei colpi di pistola sparati da due sicari della ndrangheta. La sua condanna a morte era stata firmata dai boss della potente cosca calabro-lombarda Domenico e Rocco Papalia. Mormile fu ucciso per aver negato un permesso al boss, che all’epoca era solito tenere colloqui con uomini dei servizi segreti. E furono proprio questi a indicare a Papalia la sigla con cui rivendicare l’attentato: «Antonio Papalia, parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione “Falange Armata” dell’omicidio Mormile» ha dichiarato il collaboratore di giustizia Vittorio Foschini il 26 aprile 2015. Dopo la prima telefonata ne seguirono decine e decine. Il 5 novembre 1990, la Falange rivendica l’omicidio a Catania degli industriali Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta. Nel corso della chiamata all’Ansa di Torino, il telefonista anonimo fa riferimento anche all’operazione del 10 ottobre a via Monte Nevoso a Milano, in cui furono ritrovate – 11 anni dopo la prima perquisizione – nuove pagine del memoriale e delle lettere di Aldo Moro: «Moretti e Gallinari sanno molto di più e così pure i servizi segreti». All’inizio del 1991 viene rivendicata la strage del Pilastro, a Bologna, in cui persero la vita tre carabinieri. L’attentato fu uno dei tanti per cui furono condannati i membri della banda della Uno bianca e che insanguinarono l’Emilia a cavallo tra anni ’80 e ’90. Vengono minacciati poi nuovi attentati al presidente della Repubblica Francesco Cossiga, al direttore generale degli Istituti di pena Nicolò Amato, al giornalista Giuseppe D’Avanzo, alle redazioni de la Repubblica e l’Espresso. Sono annunciate nuove scottanti rivelazioni sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980: ma non verranno mai diffuse. Il 14 agosto viene rivendicato l’omicidio del giudice Scopelliti, il 6 ottobre quello dell’avvocato Fabrizio Fabrizi a Pescara, il 22 l’uccisione del maresciallo dei vigili urbani di Nuoro Francesco Garau. Il 3 novembre Falange Armata si intesta anche la responsabilità dell’attentato alla villa di Pippo Baudo: ««Il significato politico che abbiamo inteso conferire all’azione condotta ai danni della villa del signor Baudo a Santa Tecla, ritenevamo che almeno lui, uomo di spettacolo, ma anche di politica, non sarebbe dovuto risultare del tutto incomprensibile, così com’è apparso» afferma all’Ansa il solito telefonista anonimo. Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 Falange Armata fa propri gli attentati dinamitardi presso il commissario di Polizia di Bitonto, in Puglia, presso la sede del Comune di Taranto e una bomba sulle ferrovie salentine. La sigla rivendica poi tutti gli attentati eccellenti del ’92 - l’omicidio di Salvo Lima e del maresciallo Giuliano Guazzelli, le bombe di Capaci e via D’Amelio - e le stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993. Tra gennaio e dicembre del 1994 viene rivendicato il duplice omicidio vicino Reggio Calabria degli appuntati dei carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo, e altri due attentati a pattuglie di militari che riescono fortunatamente a salvarsi. Aumentano nel tempo le minacce: al neo presidente della Repubblica Scalfaro a quello del Senato Spadolini, al capo della Polizia Parisi e ai giudici Di Pietro e Casson. E poi tanti politici: Mario Segni, Claudio Martelli, Achille Occhetto e Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi, Alessandra Mussolini e Umberto Bossi, definito nelle telefonate «utilissimo buffone [...] pagliaccio finto, ma provvidenziale». Il 20 dicembre del 1994 il segretario del Carroccio riceve anche una lettera minatoria: «Se il governo che tutti noi – tu compreso – abbiamo voluto salterà, la nostra rappresaglia non avrà limiti». Il governo è quello eletto in primavera, con premier Silvio Berlusconi. Le telefonate continuano anche nella seconda metà degli anni ’90, dopo la fine della strategia stragista di Cosa Nostra. Sempre minacce e rivendicazioni: come il furto di due Van Gogh e un Cezanne dalla Galleria di Arte Moderna di Roma o il ritrovamento di un’autobomba davanti al Palazzo di Giustizia di Milano nel 1998. O ancora l’omicidio di Massimo D’Antona nel 1999. Con il nuovo millennio le chiamate si diradano fino a terminare: nemmeno una tra il 2003 e il 2014. L’ultima minaccia è del 24 febbraio di quell’anno in una lettera arrivata al carcere milanese di Opera e indirizzata al capo dei capi, Totò Riina: «Chiudi quella maledetta bocca. Ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto stai tranquillo, ci pensiamo noi».

LE DUE MAPPE CHE COINCIDONO. Ma chi erano i falangisti? Il fascicolo aperto dalla Procura di Roma dopo le prime telefonate, seguito dal pm Pietro Saviotti, è stato archiviato, mentre l’unica persona accusata di essere uno dei telefonisti anonimi, l’operatore carcerario Carmelo Scalone, è stato protagonista di una controversa vicenda giudiziaria. Dopo l’arresto del 1993, Scalone fu condannato nel 1999 in primo grado a tre anni di reclusione, prima di essere scagionato da tutte le accuse in Appello e Cassazione: ricevette anche un indennizzo di 35 mila euro dallo Stato per ingiusta detenzione. Calò poi il silenzio sulla Falange Armata. Fino al 2015, quando è stato chiamato a testimoniare al processo sulla trattativa Stato-Mafia Francesco Paolo Fulci. Diplomatico di lunga data, Fulci è stato il capo del Cesis, l’organismo di coordinamento tra il servizio segreto civile e militare, dal maggio 1991 all’aprile 1993. L’ambasciatore era stato fortemente voluto dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti per gestire una fase delicata della vita dei Servizi, travolti dagli scandali dei fondi neri del Sisde e dalla comunicazione dell’esistenza di Gladio. Fulci stesso finì nel mirino della Falange Armata, da cui fu ripetutamente minacciato. Per questo fece condurre alcuni accertamenti: «Chiesi a Davide De Luca (analista del Cesis, ndr) di verificare da dove partivano questi messaggi della Falange Armata» ha dichiarato Fulci di fronte ai giudici di Palermo, «lui venne da me con l’aria preoccupata portando due mappe: da dove partivano le telefonate e dove erano le sedi periferiche del Sismi. Le due mappe erano sovrapponibili». Subito dopo la strage di via Palestro del 27 luglio 1993, Fulci consegnò al comandante generale dei Carabinieri Federici, una lista di quindici ufficiali e sottoufficiali del servizio segreto militare, «per scagionare i servizi da ogni accusa». I quindici nomi erano di alcuni appartenenti alla VII divisione del Sismi, quella incaricata di gestire i rapporti con quella Gladio di cui a inizio degli anni ’90 era stata svelata l’esistenza. La VII divisione era composta da un gruppo di super agenti, gli Ossi (Operatori Speciali Servizio Italiano), addestrati ad operazioni di guerra non ortodossa e all’uso di esplosivi. Per questo, sempre ai giudici di Palermo, Fulci dirà: «Mi sono convinto che tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di “Stay Behind” (nome di Gladio, ndr)» Gladio però era stata smantellata nel 1990, come è possibile che fosse dietro la Falange Armata? «Sarà stato qualche nostalgico», l’opinione dell’ex ambasciatore.

COSA NOSTRA, NDRANGHETA E SERVIZI SEGRETI. La scorsa estate si sono di nuovo accesi i riflettori su questa organizzazione misteriosa grazie alla Procura di Reggio Calabria e all’inchiesta “Ndrangheta stragista”, con la quale sono stati individuati come mandanti degli attentati contro i carabinieri del 1994 i boss calabresi Antonio e Rocco Santo Filippone e il siciliano Giuseppe Graviano. La vicenda era stata riportata al centro delle investigazioni da un atto di impulso della procura nazionale antimafia firmato dal magistrato Gianfranco Donadio. Sono proprio i Graviano, legati alle ndrine tirreniche, a chiedere ai Filippone di partecipare alla strategia stragista voluta da Totò Riina per garantire gli interessi mafiosi in quel periodo di passaggio della vita politica italiana che si sarebbe concluso con le elezioni del 28 marzo 1994. I tre attentati, che costeranno la vita a due carabinieri, furono rivendicati dalla Falange Armata. E nelle pagine dell’ordinanza di custodia, firmata dai procuratori Federico Cafiero De Raho e Roberto Lombardo, è scritto che dietro alla sigla si celava «un gruppo – o forse più di un gruppo – di soggetti che aveva pianificato, fin dagli albori, in modo attento e meticoloso, una utilizzazione strumentale ai propri fini della sigla terroristica in esame che aveva inventato e dato (anche, ma per nulla esclusivamente) in “sub-appalto” ad entità criminali e mafiose»: «La Falange Armata utilizzava le stragi e i gravissimi delitti commessi da altri per rivendicarli (o farli rivendicare con tale sigla), per circonfondersi di un alone di misterioso terrorismo, in grado di atterrire, intimidire, condizionare e perseguire, per questa via, proprie finalità». Finalità che non erano né economiche, né ideologiche, ma politiche, «espressione di una sordida lotta per il potere». E i soggetti che stavano dietro Falange Armata erano «inseriti in delicati apparati dei gangli statali». Cosa Nostra decise di utilizzare la sigla Falange Armata nell’estate del 1991, durante le riunioni di Enna, in cui si pianificò la strategia del terrore per dare uno scossone allo Stato. Uno dei testimoni, Filippo Malvagna, ricorda: «Furono i corleonesi – ed in particolare Totò Riina – a dire, ad Enna, che tutti gli attacchi allo Stato dovessero essere rivendicati “Falange Armata”». Ma come nel caso dell’omicidio Mormile, anche in questo caso fu un entità esterna a suggerire a Cosa Nostra di utilizzare la Falange Armata per rivendicare le stragi. «L’idea di rivendicare minacce, attentati, delitti contro figure istituzionali con la sigla Falange Armata» scrivono i magistrati reggini «è stata il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dello Stato». Le stesse strutture già citate dall’ambasciatore Fulci: «Il loro nucleo era costituito da una frangia del Sismi e segnatamente, da alcuni esponenti del VII reparto [...] che avevano operato per anni agli ordini di Licio Gelli». Lo stesso Gelli che in quegli anni tramava con mafiosi ed estremisti di destra al progetto delle leghe meridionali, sul modello del Carroccio padano, per chiedere l’indipendenza del Sud dal resto del Paese. Mafiosi, ndranghetisti, agenti speciali dei servizi segreti: il mistero ancora avvolge la Falange Armata, l’organizzazione senza appartenenti che rivendicava gli attentati di tutti.

27 luglio 1993: tre bombe, dieci morti e il dubbio che non sia stata solo mafia. Lirio Abbate su L'Espresso il 18 luglio 2018. Un anno dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino e due mesi dopo la strage di via dei Georgofili, quello del 27 luglio è il momento più buio della Repubblica. E dalle nuove carte emergono molti nuovi dettagli. Una ragazza bionda e un uomo scendono da una Fiat Uno parcheggiata vicino al Padiglione d’arte contemporanea a Milano. È il 27 luglio del 1993. Manca meno di un’ora a mezzanotte. Dall’automobile da cui si stanno allontanando a piedi esce del fumo. I due non hanno paura per quello che si lasciano alle spalle, ma di una pattuglia di vigili urbani che va loro incontro in via Palestro. Temono di essere scoperti. E così giocano d’anticipo: richiamano l’attenzione di uno dei due vigili, Alessandro Ferrari, a cui danno l’allarme per il pennacchio di fumo. Poi la bionda e il suo compagno si allontanano in fretta, facendo cadere in trappola l’agente della polizia municipale e mandandolo così a morire. Il fumo arriva infatti da una miccia accesa che innesca quasi cento chili di tritolo sistemati sul sedile posteriore della Uno. Che esplode, provocando una strage. Sono cinque i morti. È il primo botto della serata. Sì, perché in quella sera di venticinque anni fa, pochi minuti dopo una notte in cui esplodono altre due bombe, quasi in contemporanea, non solo a Milano ma anche a Roma, in punti diversi: a piazza San Giovanni in Laterano (danneggiando la Basilica e il Palazzo Lateranense) e pochi minuti dopo all’esterno della chiesa di San Giorgio al Velabro. Un anno dopo le stragi in cui sono stati uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e due mesi dopo la bomba in via dei Georgofili a Firenze (cinque morti, tra cui due bambine), quello del 27 luglio 1993 è il momento più buio della Repubblica. Si pensò anche a un tentativo di golpe. Fu questa almeno la sensazione dell’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi, a capo di un governo tecnico di transizione. Ciampi temeva che stesse per accadere qualcosa di oscuro per la tenuta democratica del Paese. Per Ciampi si poteva concretizzare il pericolo di un colpo di Stato che nasceva dall’eccezionalità di quegli avvenimenti, compresa l’interruzione delle linee telefoniche di Palazzo Chigi nella notte tra il 27 ed il 28 luglio 1993: un evento che mai prima di allora si era verificato, tanto che l’allora presidente del Consiglio non riuscì a comunicare con i suoi collaboratori o con gli apparati di sicurezza. Un black-out che ancora oggi nessuno ha spiegato. Fu una notte convulsa. Ciampi, parlando poi con i magistrati che hanno indagato sulle stragi, spiegò di «ricordare perfettamente che convocai, in via straordinaria, il Consiglio Supremo di Difesa. Di questa convocazione venne informato anche il Presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro, ndr). Ricordo che, in un clima di smarrimento generale, nel corso di quella riunione qualcuno avanzò l’ipotesi dell’attentato terroristico di origine islamica. Altri, tra cui certamente il Capo della Polizia Vincenzo Parisi, escludevano la fondatezza di quella pista avanzando l’ipotesi della matrice mafiosa». Sì, era stata la mafia. I boss di Cosa nostra dell’area corleonese continuavano ad alzare il tiro contro lo Stato, piazzando bombe davanti ai simboli dell’arte, del patrimonio culturale e della Chiesa, nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale del Paese. E uccidendo chi si trovava nei paraggi. Le testimonianze raccolte all’epoca dagli investigatori e le indagini avviate anche con il contributo di collaboratori di giustizia, alcuni dei quali si sono autoaccusati di quelle stragi, portano però a considerare l’ipotesi che non sia stata solo la mafia.

Che in quegli attacchi di Cosa nostra vi fossero anche elementi esterni all’organizzazione. Uno dei misteri riguarda proprio la donna bionda uscita dall’auto piena di esplosivo in via Palestro, il 27 luglio. Anche i testimoni di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio dello stesso anno) parlano della presenza di una donna bionda; e lo stesso è riferito dai testimoni dell’attentato di via Fauro a Roma, quello contro Maurizio Costanzo (14 maggio). Questa signora bionda all’epoca ha meno di trent’anni e di lei esiste un identikit. Tra i numerosi testimoni di via Palestro ce n’è uno che ricorda molto bene la donna, vestita di scuro, accanto alla pattuglia di vigili. L’ha vista parlare con loro. I collaboratori di giustizia invece non hanno mai confermato il coinvolgimento di donne in queste stragi.

«Questo è solo l’inizio». L’attacco allo Stato aveva una doppia finalità. La prima era orientare la politica in Sicilia verso una prospettiva indipendentista, coltivata come una forma di ricatto nei confronti dei partiti a Roma, che avevano tradito le aspettative della Cupola, prima la Dc e poi il Psi. Il quasi analfabeta Leoluca Bagarella si era dato da fare per formare un nuovo partito politico, “Sicilia Libera”, che avrebbe dovuto far eleggere candidati appartenenti a Cosa nostra. Il secondo obiettivo era una dimostrazione di forza attraverso azioni eclatanti che avrebbero avuto risalto internazionale. In un Paese già scosso, sul piano politico e istituzionale, dalle indagini su Tangentopoli, quelle bombe erano un tentativo di destabilizzare ulteriormente le strutture democratiche. Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, a conferma del messaggio terroristico che si doveva diffondere con le bombe, ha detto ai pm di essere stato incaricato di imbucare a Roma, subito prima degli attentati del 27 luglio, alcune buste indirizzate al Corriere della Sera e al Messaggero contenenti una lettera anonima, in cui era scritto: «Tutto quello che è accaduto è soltanto il prologo, dopo queste ultime bombe, informiamo la Nazione che le prossime a venire verranno collocate soltanto di giorno ed in luoghi pubblici, poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite umane. P.S. Garantiamo che saranno a centinaia». Restano quindi, anche 25 anni dopo, molte domande. Ci fu un contributo di soggetti esterni a Cosa nostra, ci furono mandanti esterni alla mafia? I clan, attraverso quel programma di azioni criminali dirette a sconvolgere dalle fondamenta l’ordine pubblico, hanno voluto in qualche modo intervenire in un vuoto della politica nazionale per agevolare l’ascesa o la permanenza al potere di soggetti con cui poter interagire in modo proficuo, ristabilendo un rapporto a difesa e protezione degli interessi mafiosi? E quel rapporto era riconducibile a uno scambio che avrebbe dovuto prevedere da una parte un appoggio elettorale e dall’altra qualche intervento abrogativo delle norme contro la criminalità organizzata, come il 41bis per i boss in carcere?

Terrore all’Olimpico. Sì, guardando a venticinque anni fa restano ancora tanti gli interrogativi. E tra questi c’è il mistero della mancata strage dello stadio Olimpico a Roma nel gennaio 1994, quando i fratelli Graviano volevano massacrare centinaia di carabinieri impegnati nel servizio d’ordine di una partita di calcio. Il telecomando non funzionò e l’attentato per fortuna fallì. L’episodio può essere letto come l’atto conclusivo di una campagna stragista, che, per le modalità e gli obiettivi avrebbe raggiunto un effetto terroristico-eversivo eccezionale. La decisione di non mettere più bombe dopo quel fallimento era forse una conseguenza dell’evoluzione della politica nazionale? Oppure è legato all’arresto dei fratelli Graviano avvenuto a Milano poche settimane dopo il fallito attentato? Che rapporto c’era tra l’originaria pianificazione di questa strage e il progetto politico, in qualche modo concretamente attuato alla fine del 1993, di dar vita al partito di Cosa nostra, “Sicilia Libera”, con caratteristiche autonomiste e indipendentiste? E perché poi si abbandonò questo progetto per concentrare i voti su vecchie conoscenze, magari transitate verso nuove formazioni politiche come Forza Italia?

Oltre il sottoscala. Il giudice per le indagini preliminari di Firenze che aveva archiviato l’indagine sui mandanti esterni alle stragi in cui erano indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (riaperta nei mesi scorsi dalla procura) ha scritto: «Le indagini svolte hanno consentito l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere Cosa nostra agito a seguito di input esterni». Chi diede questi input? E perché? Le sentenze, fondate sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, hanno suggerito una parola chiave: “trattativa”. Questa “trattativa” emerge per la prima volta in una sentenza della corte d’assise di Firenze che ha condannato nel giugno del 1998 i boss, mettendo un punto fermo sull’interpretazione da dare a quella tragica stagione di bombe. I 10 morti e 95 feriti complessivi (e i danni al patrimonio artistico) costituiscono l’altissimo prezzo che il Paese ha dovuto pagare ad una strategia messa in atto dagli “specialisti” di Cosa nostra, ma forse pianificata in ambienti collocati al di sopra del sottoscala dove si riuniva la “cupola” composta da Provenzano, Riina, Bagarella e soci. Certo è che dopo il 1994 la campagna terrorista di Cosa nostra finisce. Una campagna che la mafia aveva portato avanti nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale del Paese, come ha detto il pubblico ministero Gabriele Chelazzi nel processo ai responsabili di quegli attentati del ’93. Resta ancora il dubbio sui veri fini delle azioni, sui veri mandanti. Purtroppo, in molti casi le rivelazioni dei collaboratori di giustizia, le inchieste e i processi hanno chiarito solo in parte i fatti. Un quarto di secolo non è ancora bastato per riempire le caselle ancora vuote e ricostruire la verità che non può essere solo giudiziaria ma anche politica.

Silvio Berlusconi e la mafia: vent'anni di soldi in nero (ma nessuno ne parla). Le verità scomode sul leader di Forza Italia: dal patto con i boss per assumere ad Arcore il mafioso Vittorio Mangano, al lavoro sporco di Marcello Dell’Utri, condannato perché portava a Cosa Nostra le buste di denaro di Silvio, ogni sei mesi, dal 1974 al 1992. Fatti comprovati e accertati in tutti i gradi di giudizio, ma ignorati nella  campagna elettorale. Paolo Biondani su L'Espresso il 23 febbraio 2018. C’è una storia di mafia e potere di cui in questa campagna elettorale si parla pochissimo, anche se riguarda il leader politico indicato dai sondaggi come il più probabile vincitore del voto di domenica 4 marzo. E' la storia di mafia, soldi in nero, ricatti, bombe e bugie raccontata nel processo che è costato una condanna definitiva a Marcello Dell’Utri. Dichiarato colpevole di aver fatto da mediatore, tesoriere e garante di un patto inconfessabile tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra. Un patto con la mafia durato quasi vent’anni. Il caso Dell'Utri è una vicenda cruciale nella biografia del miliardario imprenditore milanese. Dell’Utri è amico da una vita di Berlusconi ed è stato il suo braccio destro negli affari fin dagli anni Settanta, prima nell’edilizia, poi nella pubblicità televisiva. Tra il 1993 e il 1994 è lui che ha creato e organizzato in pochi mesi Forza Italia, il partito-azienda con cui Berlusconi ha conquistato anche il potere politico. Qui pubblichiamo un'ampia sintesi del caso Dell'Utri, estratta dalla nuova edizione del libro “Il Cavaliere Nero, la  vera storia di Silvio Berlusconi”, scritto da un giornalista de L'Espresso, Paolo Biondani, con il collega Carlo Porcedda, per l'editore Chiarelettere. Un libro che si caratterizza, tra i tanti saggi sul leader di Forza Italia, perché racconta solo i fatti che risultano verificati, comprovati e accertati in tutti i gradi di giudizio, nei processi che hanno portato alle condanne definitive di Dell'Utri per mafia, a Palermo, e di Berlusconi per frode fiscale, a Milano, con la sentenza del primo agosto 2013 che lo ha reso incandidabile.

IL PROCESSO E LA CONDANNA DEFINITIVA DI DELL'UTRI. Marcello Dell’Utri è stato condannato per «concorso esterno» in associazione mafiosa. Non gli si imputa di essere entrato in Cosa nostra con il rituale giuramento di affiliazione, né di essere diventato un «uomo d’onore» di una specifica «famiglia» mafiosa. L’accusa è di aver fornito dall’esterno un sostegno consapevole, determinato, stabile, rilevante, ma nel suo caso strettamente economico, in grado di favorire quell’organizzazione criminale che per decenni ha dominato con il sangue la Sicilia e condizionato l’Italia. È una forma di complicità indiretta, teorizzata per la prima volta dai giudici dello storico pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (…). Dell’Utri viene rinviato a giudizio a Palermo il 19 maggio 1997, quando è parlamentare di Forza Italia già da tre anni. Con lui finisce a processo un presunto complice, Gaetano Cinà, morto prima del verdetto definitivo della Cassazione. Il processo, lentissimo, è segnato da udienze rinviate per scioperi degli avvocati, assenze o malattie di testimoni o per non interferire con gli impegni politici di Dell’Utri. La sentenza di primo grado viene emessa l’11 dicembre 2004, dopo circa 300 udienze: il Tribunale di Palermo condanna Dell’Utri a nove anni di reclusione, giudicandolo complice esterno di Cosa nostra «da epoca imprecisata, e sicuramente dai primi anni Settanta, fino al 1998». Nel primo processo d’appello la condanna per mafia viene confermata, ma solo per il periodo 1974-1992. Per gli anni successivi i giudici di secondo grado decretano un’assoluzione per insufficienza di prove: i rapporti tra Dell’Utri, Berlusconi e Cosa nostra si possono considerare certi, «al di là di ogni ragionevole dubbio», solo fino all’anno delle stragi di Capaci e via d’Amelio. La pena è ridotta a sette anni di reclusione. La successiva Cassazione riconferma la piena colpevolezza di Dell’Utri per il periodo 1974-1978, considera provati i suoi rapporti con gli esattori della mafia anche nel successivo decennio 1982-1992, ma impone di riesaminare e approfondire, in un nuovo giudizio d’appello, cosa era successo tra il 1978 e il 1982, quando il manager aveva lasciato le aziende di Berlusconi per andare a lavorare con l’immobiliarista siciliano Filippo Alberto Rapisarda. Nell’appello-bis la nuova corte riapre la questione Rapisarda e rivaluta tutti gli altri dubbi sollevati dalla difesa. Anche questo terzo verdetto di merito ribadisce la colpevolezza di Dell’Utri, che risulta pienamente provata per l’intero periodo 1974-1992, e lo ricondanna a sette anni di reclusione. La Cassazione approva e rende definitiva la condanna il 9 maggio 2014, ma intanto Dell’Utri è scappato all’estero. La Procura di Palermo accerta che nel frattempo ha venduto una villa a Berlusconi incassando 21 milioni di euro, per metà trasferiti a Santo Domingo. Dell’Utri, dopo una breve latitanza, viene arrestato in Libano ed estradato in Italia, dove il 13 giugno 2014 entra in carcere per scontare la sua seconda condanna definitiva. La prima gli era stata inflitta negli anni di Tangentopoli come tesoriere dei fondi neri di Publitalia, la cassaforte pubblicitaria dell’impero Fininvest, da lui utilizzati anche per pagare consulenti politici (nome in codice: «operazione Botticelli») e fondare Forza Italia.

VITTORIO MANGANO, UN MAFIOSO AD ARCORE. Il primo pilastro della condanna di Dell’Utri è l’assunzione ad Arcore di Vittorio Mangano: un mafioso di Palermo che nel 1974 va a vivere a casa di Berlusconi. Il suo vero ruolo nella villa di Arcore viene svelato proprio da questo processo. Vittorio Mangano al processo AndreottiMangano è legato a Cosa nostra già dall’inizio degli anni Settanta. (…) Arrestato per la prima volta a Milano il 15 febbraio 1972, per una serie continuata di tentate estorsioni, il 27 dicembre 1974 Mangano torna in carcere per scontare una precedente condanna per truffa, e questa volta viene riammanettato proprio ad Arcore. Il 22 gennaio 1975 viene scarcerato per un cavillo legale e torna a vivere nella villa di Berlusconi, ma non è chiaro per quanto tempo. Di certo il primo dicembre 1975 viene riarrestato nelle strade dello stesso comune brianzolo per possesso di un coltello di genere proibito. Tornato in libertà il 6 dicembre 1975, sceglie ancora una volta la villa di Berlusconi come domicilio legale: è qui che le forze di polizia lo vanno a cercare per le notifiche, almeno fino all’autunno 1976. Nella seconda metà degli anni Settanta Mangano viene bersagliato da numerosi altri provvedimenti giudiziari. Il più grave è l’arresto, eseguito sempre nel territorio di Arcore, nel maggio 1980: Vittorio Mangano viene incriminato nella prima maxi-inchiesta del giudice Giovanni Falcone contro il clan Spatola-Inzerillo. Un’istruttoria fondamentale che, come evidenziano i giudici del caso Dell’Utri, per la prima volta ha svelato «un vastissimo traffico internazionale di eroina e morfina base, trasformata nei laboratori clandestini che il gruppo mafioso capeggiato da Salvatore Inzerillo controllava nel Palermitano. Droga che veniva poi smerciata grazie a una fitta rete di trafficanti anche all’estero», in particolare dal clan Gambino negli Stati Uniti. Le sentenze definitive di quel processo, acquisite nel giudizio contro Dell’Utri, documentano «il ruolo di primo piano rivestito da Mangano quale insostituibile tramite di collegamento nel traffico di partite di droga tra Palermo e Milano». (…) In questo inquietante spaccato di vita criminale, per i giudici di Palermo «costituisce un dato di fatto inconfutabile» che proprio a metà degli anni Settanta, cioè nel periodo in cui si rafforza il suo legame con Cosa nostra, «Vittorio Mangano è stato assunto da Silvio Berlusconi e si è insediato nella villa di Arcore con tutta la sua famiglia anagrafica» – la moglie, la suocera e le tre figlie – e che questo è successo «poco dopo l’arrivo di Dell’Utri a Milano e per effetto della sua mediazione».

IL PATTO SEGRETO TRA BERLUSCONI E COSA NOSTRA. Nel 1974, quando sposta ufficialmente il proprio domicilio ad Arcore, Mangano è già schedato dalle forze di polizia come un criminale legato alla mafia. Perché affidare proprio a lui, senza nemmeno informarsi sui precedenti penali, il ruolo di garante della sicurezza e gestore della proprietà di Berlusconi? La domanda resta senza risposte credibili fino al giugno 1996, quando viene estradato in Italia e inizia a collaborare con la giustizia un boss mafioso di altissimo livello, Francesco Di Carlo. (…) Di Carlo occupa una posizione unica all’interno di Cosa nostra, negli anni che vedono l’organizzazione criminale accumulare fortune immense con il traffico di eroina, gli stessi in cui inizia a essere attraversata da divisioni destinate a esplodere nella guerra di mafia che, tra il 1979 e il 1982, decreterà il trionfo dei corleonesi con lo sterminio dei vecchi padrini palermitani. Di Carlo infatti è tra i pochissimi a godere della fiducia, e a conoscere i segreti, di entrambi gli schieramenti mafiosi. Amico fin dall’infanzia di Stefano Bontate (chiamato talvolta, per errore, Bontade), per anni il boss più ricco e potente di Palermo, ha anche un fortissimo legame con i corleonesi, alleati del suo capomandamento Bernardo Brusca. Tanto che nel 1976 viene promosso al rango di capofamiglia per diretta volontà di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Intelligente, accattivante, rispettato da tutti, Di Carlo è in grande confidenza con Bontate, che lo chiama «il barone» per la sua eleganza e lo porta spesso con sé agli incontri eccellenti. Ma è anche nel cuore di Riina, che si fa accompagnare da lui in varie trasferte di mafia. (…). Per la sua posizione unica, Di Carlo ha potuto fornire rivelazioni decisive su molti delitti eccellenti, come gli omicidi dei carabinieri Emanuele Basile e Giuseppe Russo, dei giudici Cesare Terranova, Gaetano Costa e Pietro Scaglione, dei giornalisti Mario Francese e Peppino Impastato, nonché del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale presidente della Repubblica. Di Carlo parla di Dell’Utri fin dal suo primo interrogatorio come collaboratore di giustizia (…): «Ero a Milano con Bontate, Teresi e Cinà. Siamo andati nell’ufficio di Martello in via Larga, vicino al Duomo, che era una specie di ufficio di Cosa nostra. Guidava Nino Grado perché conosceva Milano bene. Dopo la riunione con Martello, Stefano Bontate mi disse che dovevano incontrare un industriale, un certo Berlusconi: a quel tempo il nome non mi diceva niente…» E qui precisa: «Bontate ha sempre trattato con politici, Teresi era un grosso costruttore, per cui non mi impressionavo che andassero a trattare con vari industriali. (…) A quei tempi era una cosa normale: ognuno, industriale o qualcuno, si rivolgeva a Cosa nostra o per mettere a posto un’azienda o per garantirsi». Prosegue Di Carlo: «Era il 1974, poteva essere primavera o autunno, ricordo che non avevamo cappotti: io avevo giacca e cravatta... Siamo andati in un palazzo di inizio Novecento, non una villa. (…) Qui ci viene incontro Dell’Utri, che io avevo già visto con Tanino Cinà. Con gli altri, compreso Bontate, Dell’Utri si è salutato con il bacio, a me con una stretta di mano. Con Grado già si conoscevano, perché avevano battute di scherzo e si davano del tu. Quindi siamo entrati in una grande stanza, con scrivania, sedie e mi sembra qualche divano, e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui trenta e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi. (…) Dell’Utri era in giacca e cravatta, Berlusconi con un maglioncino a girocollo e la camicia sotto. Dopo il caffè cominciarono i discorsi seri». «Teresi disse che stava facendo due palazzi a Palermo, Berlusconi rispose che lui stava costruendo una città intera e che amministrativamente non c’è molta differenza: ci ha fatto una specie di lezione economica. Poi sono andati nel discorso di garanzia, che “Milano oggi è preoccupante perché succedono un sacco di rapimenti”... Io sapevo che Luciano Leggio, quando era ancora libero, diceva che voleva portarsi tutti i soldi del Nord a Corleone... Stefano Bontate aveva la parola, perché era il capomandamento, io c’ero solo per l’intimità con lui. Berlusconi ha spiegato che aveva dei bambini e non stava tranquillo, per cui avrebbe voluto una garanzia, e qua gli dice: “Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo e altro”. Allora Stefano Bontate fa il modesto, ma poi lo rassicura: “Può stare tranquillo, deve dormire tranquillo, perché lei avrà vicino delle persone che qualsiasi cosa chiede avrà fatto. Poi lei ha Marcello qua vicino, per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello...”. E poi aggiunge: “Le mando qualcuno”.» Di Carlo chiarisce la frase del boss spiegando che per garantire una piena protezione mafiosa a Berlusconi «ci voleva qualcuno di Cosa nostra», perché Dell’Utri non era affiliato come uomo d’onore. E aggiunge che, appena Bontate ha pronunciato quelle parole, «Cinà e Dell’Utri si sono guardati». Una volta usciti dagli uffici di Berlusconi, prosegue il pentito, «Cinà ha detto a Bontate e Teresi: “Ma qui c’è già Vittorio Mangano, che è amico anche di Dell’Utri”». Di Carlo ricorda che «Stefano non ci teneva particolarmente, però Mangano era della famiglia di Porta nuova con a capo Pippo Calò, quindi era nel mandamento di Bontate. Per cui Bontate ha detto: “Ah, lasciateci Vittorio”». Di Carlo è un testimone oculare di quell’incontro ed è l’unico sopravvissuto tra i boss che nel 1974 siglarono quel patto tra Berlusconi e il vertice mafioso dell’epoca: Cosa nostra proteggerà l’imprenditore milanese, come previsto, affiancandogli l’uomo d’onore indicato da Cinà, d’accordo con Dell’Utri. «Ci hanno messo vicino Vittorio Mangano certamente non come stalliere, perché, non offendiamo il signor Mangano, Cosa nostra non pulisce stalle a nessuno» rimarca Di Carlo, sottolineando l’utilità della protezione mafiosa: «Ci hanno messo uno ad abitare là, a Milano: Mangano trafficava e nello stesso tempo Berlusconi faceva la figura che aveva vicino qualcuno di Cosa nostra... Basta questo in Cosa nostra, perché qualunque delinquente voglia fare qualche azione, si prendono subito provvedimenti». Cosa nostra non è un ente di assistenza. La sua protezione si paga. E il ricatto comincia subito, tanto da imbarazzare lo stesso incaricato della prima estorsione mafiosa. È sempre Di Carlo a descrivere questo passaggio, di poco successivo all’incontro con Berlusconi: «Tanino Cinà mi dice: “Sono imbarazzato, perché subito mi hanno detto di chiedergli 100 milioni di lire... Mi pare malo”. (…) E io gli dissi: “Ma tu chi ti ’na fari? Tanto sono ricchi... E poi ci hanno voluto”». L’incontro del 1974 tra l’allora trentottenne Silvio Berlusconi e il superboss Stefano Bontate, così come il contenuto del contratto mafioso mediato da Dell’Utri, è considerato una certezza da tutti i giudici che si sono occupati di questo caso, in tutti i gradi di giudizio. Le sentenze di merito elencano migliaia di pagine di riscontri oggettivi e testimoniali (…).

SOLDI IN NERO DA MILANO A PALERMO. Da allora, dal 1974, Berlusconi comincia a pagare Cosa nostra. Le banconote passano dalle mani di Dell’Utri e Cinà, nella più assoluta segretezza, e arrivano a Palermo per quasi vent’anni, almeno fino al 1992, spiegano le sentenze definitive. Con le guerre e gli omicidi di mafia cambiano i capi delle famiglie criminali che si dividono il tesoretto di Arcore. Ma gli effetti del patto restano quelli consacrati nel 1974: soldi in nero in cambio di protezione mafiosa per i famigliari e per le attività economiche di Berlusconi. Sono versamenti periodici, sempre in contanti, che vanno tenuti nascosti. A Milano l’unico depositario del segreto è Dell’Utri, che gestisce un apposito tesoretto: impacchetta le banconote e le consegna nel proprio ufficio al tesoriere mafioso che viene a ritirarle, in genere ogni sei mesi, per portarle a Palermo. Qui i soldi di Berlusconi vengono spartiti tra i clan secondo rigide logiche mafiose. Il primo a riceverli, in ordine di tempo, è ovviamente Vittorio Mangano, uomo d’onore della famiglia di Porta nuova, che negli anni Settanta rientrava nel mandamento di Santa Maria di Gesù comandato da Bontate. Mangano può incassare i soldi di Berlusconi proprio perché è un mafioso del clan di Bontate, l’artefice del patto. Ma deve darne una parte al padrino a cui deve rispondere al Nord: Nicola Milano, che è affiliato alla famiglia di Porta Nuova. Tra il 1979 e il 1980 i corleonesi fanno esplodere la seconda guerra di mafia. Stefano Bontate viene assassinato il 23 aprile 1981. Negli stessi mesi i killer corleonesi uccidono il suo vice, Mimmo Teresi, fatto sparire con il metodo della «lupara bianca». Terminata la «mattanza», il mandamento di Bontate viene smembrato. E la famiglia di Porta nuova guidata da Pippo Calò, che ha tradito i boss «perdenti» passando con i corleonesi, viene elevata a mandamento. Negli anni successivi i soldi versati da Berlusconi attraverso Dell’Utri passano da diverse mani mafiose, ma seguono sempre il tracciato originario: finiscono ancora agli stessi clan, anche se, dopo la guerra corleonese, hanno cambiato capi. Antonino Galliano, affiliato alla Noce dal 1986, è nipote del capomandamento Raffaele Ganci e amico fidato di suo figlio Domenico detto Mimmo. È sicuramente in ottimi rapporti con Cinà, con cui è stato intercettato. Quando decide di collaborare con la giustizia, Galliano rivela che lo stesso Cinà gli ha descritto l’incontro tra Bontate e Berlusconi, dopo il quale il boss «ci manda Mangano» come «garanzia contro i sequestri». «Cinà mi disse che Berlusconi rimase affascinato dalla figura di Bontate: non immaginava di avere a che fare con una persona così intelligente» ricorda Galliano, che grazie alle confidenze di Cinà può rivelare anche come è stato spartito il denaro di Berlusconi prima e dopo la morte di Bontate. «Cinà si recava due volte all’anno per ritirare i soldi nello studio di Dell’Utri... Questi soldi, Cinà li consegnava prima a Bontate e poi, dopo la guerra di mafia, a Pippo Di Napoli, che a sua volta li faceva avere a Pippo Contorno, uomo d’onore di Santa Maria di Gesù, il quale li portava al suo capofamiglia Pullarà» Pullarà è un altro boss palermitano passato con i corleonesi e per questo premiato con la promozione a capofamiglia. Così, con il trono di Bontate, Pullarà eredita anche i soldi di Berlusconi.

IL TESORO DI SILVIO FINISCE A RIINA. Conclusa la guerra di mafia, dal 1983 la cosiddetta «dittatura» dei corleonesi, come spiegano i giudici, «ha avuto effetti rilevanti anche nei rapporti con soggetti esterni a Cosa nostra», ben visibili anche nel processo a Dell’Utri. Numerosi pentiti parlano del «pizzo sulle antenne televisive» imposto alle emittenti siciliane del circuito Fininvest negli anni Ottanta. Ma dopo una lunga istruttoria, i giudici si convincono che si tratta di livelli diversi. Il pizzo sui ripetitori viene effettivamente pagato alla singola famiglia mafiosa che controlla il loro territorio da alcuni proprietari delle tv locali consorziate e spesso riacquistate dalla Fininvest. Mentre i soldi di Berlusconi, quelli che continuano a passare attraverso Dell’Utri e Cinà, viaggiano su un piano più alto, quello dei boss, e servono ancora allo scopo originario: garantire una protezione generale a Berlusconi e alle sue aziende. A rivelare come vengano spartiti i soldi di Arcore nell’era dei corleonesi sono soprattutto tre pentiti, molto attendibili, della famiglia mafiosa della Noce, che è «nel cuore» di Riina e dal 1983 viene promossa a mandamento. (…) In quel periodo Dell’Utri si lamenta di essere «tartassato dai fratelli Pullarà»: Ignazio, arrestato il 2 ottobre 1984, e Giovanbattista, latitante e «reggente». Il problema è semplice: gli eredi di Bontate chiedono troppi soldi a Berlusconi. All’epoca, probabilmente, la tariffa è già raddoppiata: da 25 a 50 milioni di lire ogni sei mesi. Cinà, rispettando le gerarchie mafiose, informa il proprio capofamiglia, Pippo Di Napoli, che avvisa il suo capomandamento, Raffaele Ganci, che a quel punto riferisce a Riina. Il capo dei capi scopre solo allora che i Pullarà avevano tenuto «riservato» il loro rapporto con i signori della Fininvest, senza dirlo né a lui, né al loro capomandamento Bernardo Brusca. Riina si infuria. E decide di impadronirsi di quel rapporto economico, ma con un movente politico: progetta di «avvicinare Bettino Craxi attraverso Dell’Utri e Berlusconi» (…). Quanto ai soldi del Cavaliere, «Riina ordina che il rapporto deve continuare a gestirlo Cinà, ma nessuno deve intromettersi». E così «da quel momento Cinà va a Milano un paio di volte all’anno a ritirare il denaro da Dell’Utri, lo consegna al suo capofamiglia Di Napoli, che lo gira al boss Ganci, che lo porta a Riina». Sempre seguendo la rigida gerarchia mafiosa. (…) Un’ulteriore conferma che Riina, nell’impadronirsi del rapporto con Dell’Utri e Berlusconi, non persegue solo interessi economici è il suo diktat sulla spartizione finale del denaro in Sicilia. Riina tiene per sé pochi milioni di lire, probabilmente solo cinque. Il resto viene redistribuito dal boss della Noce, Raffaele Ganci (scarcerato nel 1988), secondo la volontà di Riina, che premia ancora una volta i nuovi capi delle famiglie mafiose di sempre: metà spetta a Santa Maria di Gesù (quindi prima ai Pullarà e poi a Pietro Aglieri), un quarto a San Lorenzo (cioè a Salvatore Biondino, l’autista di Riina) e l’ultima parte alla Noce, ossia a Ganci. I pentiti precisano che Riina ordina di lasciare la loro quota ai Pullarà, dopo averli estromessi dal rapporto con Dell’Utri, per far capire che «non è una questione di soldi». (…) Tra i riscontri oggettivi c'è anche un documento: in un libro mastro della cosca, che è alla base di una raffica di condanne per estorsioni mafiose, sono annotati – in due rubriche distinte, ma collegate con numeri in codice – la sigla dell’azienda, la cifra pagata e l’anno del versamento. Alla sigla «Can 5» corrisponde questa scritta: «regalo 990, 5000». I pentiti di quella specifica famiglia mafiosa spiegano che si tratta di «cinque milioni versati da Canale 5 nel 1990 a titolo di regalo, cioè senza estorsione». (…) La conclusione dei giudici è lapidaria: «Deve ritenersi raggiunta la prova che, anche successivamente alla morte di Stefano Bontate, durante l’egemonia totalitaria di Salvatore Riina, sia Marcello Dell’Utri che Gaetano Cinà hanno continuato ad avere rapporti con Cosa nostra, almeno fino agli inizi degli anni Novanta, rapporti strutturati in maniera molto schematica: entrambi gli imputati, consapevolmente, hanno fatto sì che il gruppo imprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di denaro alla mafia». Di fronte a queste deposizioni, rafforzate da molti altri riscontri e testimonianze, Dell’Utri decide di attaccare in blocco i pentiti, ipotizzando un complotto: tutti i collaboratori di giustizia, forse manovrati da qualcuno, si sarebbero messi d’accordo per calunniarlo e colpire politicamente Berlusconi. I giudici però ribattono che nessun pentito, quando ha cominciato a parlare, conosceva le versioni degli altri. E soprattutto che ogni collaboratore di giustizia sa e racconta solo un piccolo pezzo di verità, quello custodito dalla propria famiglia mafiosa. Ogni pentito parla di anni specifici, mentre ignora cosa succede prima o dopo, e quantifica solo la cifra incassata dal proprio clan, che varia nel corso del tempo. In particolare, Di Carlo rivela l’accordo del 1974 e il ruolo di Mangano; gli altri pentiti legati a Bontate confermano i pagamenti fino alla sua morte, nel 1981; Ganci, Anzelmo e Galliano descrivono i pagamenti degli anni Ottanta, nell’era dei corleonesi; Ferrante parla di un periodo ancora successivo, dal 1988 al 1992. Soltanto i giudici possono unire i singoli tasselli di verità e ricostruire un quadro d’insieme, che si rivela rigorosamente in linea con le regole e le logiche di Cosa nostra. Un mosaico completato da riscontri oggettivi, in alcuni casi letteralmente esplosivi. Come gli attentati mai denunciati da Berlusconi.

LE ULTIME PAROLE DI BORSELLINO. Vittorio Mangano viene riarrestato nell’aprile 1995. La Procura di Palermo ha infatti scoperto il suo ruolo di «co-reggente» del mandamento di Porta Nuova e lo accusa tra l’altro di essere il mandante di due omicidi. Durante la sua detenzione, Dell’Utri e altri parlamentari di Forza Italia si mobilitano chiedendo più volte che venga scarcerato per motivi di salute. Il 23 aprile 2000 la corte d’assise di Palermo chiude il primo grado di giudizio condannando Mangano all’ergastolo come boss di Porta Nuova e come mandante e organizzatore di un omicidio di mafia, commesso a Palermo il 25 ottobre 1994. Il boss muore nel luglio 2000, a casa sua, dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari per malattia. Dell’Utri, nei vari gradi del suo processo, non ha mai attaccato Mangano, anzi è arrivato a definirlo «un eroe», perché «è stato messo in galera e continuamente sollecitato a fare dichiarazioni contro me e Berlusconi. Se lo avesse fatto, lo avrebbero scarcerato con lauti premi. Ma lui ha sempre risposto che non aveva nulla da dire». Dell’Utri ripete più volte queste parole, che destano scandalo anche nel centrodestra. Nel novembre 2013, però, è Berlusconi in persona a dargli ragione: «Credo che Marcello abbia detto bene quando ha definito Mangano un eroe», perché «quando fu arrestato si rifiutò di testimoniare il falso sui rapporti tra Dell’Utri e la mafia, tra Berlusconi e la mafia». Nella polemica che ne segue, sono in molti a obiettare che per gli italiani onesti gli eroi non sono i mafiosi, ma le persone che hanno combattuto la mafia sacrificando la vita. E a ricordare il duro giudizio su Mangano espresso da Paolo Borsellino poco prima di morire. Intervistato da due giornalisti francesi nel 1992, pochi giorni prima di essere ucciso con tutta la sua scorta da un’autobomba di Cosa nostra, Borsellino spiega che Mangano, quando fu assunto ad Arcore, era già «una delle teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia». I giudici del processo Dell’Utri acquisiscono la videoregistrazione integrale dell’intervista, in cui il magistrato rivela di essere stato tra i primi a scoprire il ruolo di Mangano in Cosa nostra. «L’ho conosciuto in epoca addirittura antecedente al maxiprocesso – dichiara testualmente Paolo Borsellino – perché tra il 1974 e il 1975 restò coinvolto in un’altra indagine, che riguardava talune estorsioni fatte in danno di cliniche private palermitane, che presentavano una caratteristica particolare: ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con all’interno una testa di cane mozzata... Mangano restò coinvolto perché si accertò la sua presenza nella salumeria nel cui giardino erano sepolti i cani con la testa mozzata... Poi ho ritrovato Mangano al maxiprocesso, perché fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d’onore appartenente alla famiglia di Porta nuova capeggiata da Pippo Calò, la stessa di Buscetta. E già dal precedente processo Spatola, istruito da Falcone, risultava che Mangano risiedeva abitualmente a Milano, città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga delle famiglie palermitane. Arrestato nel 1980, fu condannato per questo traffico di droga a tredici anni e quattro mesi, pena poi ridotta in Appello.»

L’intervista, che i due giornalisti riescono a pubblicare solo alla vigilia delle elezioni del 1994, crea un putiferio soprattutto per una frase, che il magistrato lascia volutamente incompleta: Borsellino accenna a una nuova indagine sui rapporti tra Cosa nostra e le grandi imprese del Nord, citando espressamente Berlusconi. Il magistrato però precisa che non è lui a indagare e rifiuta di fornire particolari, spiegando che se ne potrà parlare solo quando l’inchiesta verrà chiusa, non prima dell’autunno 1992. La morte di Borsellino, con tutti i suoi misteri ancora irrisolti, a cominciare dal vergognoso depistaggio, con un falso pentito, dei primi tre processi sulla strage di via D’Amelio, ha impedito di chiarire, tra l’altro, anche a quale inchiesta si riferisse nella sua ultima intervista.

Berlusconi e le bombe "affettuose" della mafia. Ecco la ricostruzione degli attentati di Cosa Nostra, tenuti segreti, di cui parla lo stesso Berlusconi in una telefonata intercettata dai magistrati che indagano su Dell'Utri. Paolo Biondani su L'Espresso il 23 febbraio 2018. Marcello Dell’Utri, nel 1986, è sotto intercettazione a Milano per i suoi rapporti con il boss mafioso Vittorio Mangano, ormai condannato al maxi-processo come trafficante di eroina tra Italia e Stati Uniti. Dodici minuti dopo la mezzanotte del 29 novembre 1986, il manager di Publitalia riceve una telefonata da Berlusconi, che lo informa di aver subito un attentato. L’esordio è fulminante.

Berlusconi: «Allora è Vittorio Mangano che ha messo la bomba».

Dell’Utri: «Non mi dire, e come si sa?».

Berlusconi: «Da una serie di deduzioni, per il rispetto che si deve all’intelligenza... È fuori».

Dell’Utri: «Ah, non lo sapevo neanche».

Berlusconi: «E questa cosa qui, da come l’hanno fatta, con un chilo di polvere nera, fatta con molto rispetto, quasi con affetto. Ecco: un altro manderebbe una lettera o farebbe una telefonata: lui ha messo una bomba».

Dell’Utri: «Ah... perché, cioè non si spiega proprio».

Nella stessa telefonata l’imprenditore allude a un altro attentato, da lui subito nel 1975.

Berlusconi: «Poi, la bomba, fatta proprio rudimentale... con molto rispetto... perché mi ha incrinato soltanto la parte inferiore della cancellata, un danno da duecentomila lire... quindi una cosa rispettosa e affettuosa».

Dell’Utri (ride): «Sì, sì, pazzesco... Comunque sentiamo, sì».

Berlusconi: «Non c’è altra spiegazione... è la stessa via Rovani come allora».

Dell’Utri: «Sì, sì... Adesso vediamo... Comunque credo anch’io che non ci sono altre richieste. Anche perché non ci sono, voglio dire. Si sarebbero fatti sentire, insomma, no?».

Berlusconi: «Va be’, niente, stiamo a vedere...».

A questo punto cambiano argomento, ma poi tornano sul discorso della bomba.

Berlusconi: «Mi hanno aperto un po’ gli occhi i carabinieri, un chiaro segnale estorsivo, e quindi ripensi che a undici anni fa...».

Dell’Utri: «Sì, ma non vedo altro neanch’io, pensandoci bene hai ragione, da dove può arrivare insomma?... In effetti, se è fuori, non avrei dei dubbi netti. Va be’, tu sei sicuro che è fuori?».

Berlusconi: «Me l’hanno detto loro (i carabinieri)... Ti passo Fedele».

Confalonieri: «Marcello, allora, sei d’accordo anche tu, no?».

Dell’Utri: «Sì, guarda, non sapevo che è fuori, ma se è fuori non ci sono dubbi, direi».

Confalonieri: «Non è un uomo di fantasia... Si ripete. Ha cominciato a dieci anni a fare così, ha quarantun anni adesso...».

Dell’Utri: «E poi anche con un attentato timido, solo per dire: sono qui...» (ride).

Confalonieri: «Come la terra con la croce nera, come l’altra volta, ti ricordi?».

I giudici osservano che in questa telefonata Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri parlano di due diversi attentati, commessi a undici anni di distanza. Il più grave è il primo: il 26 maggio 1975 esplode una bomba nella villa di Berlusconi in via Rovani a Milano. La casa è in restauro, l’ordigno sfonda i muri perimetrali e fa crollare il pianerottolo del primo piano, provocando danni ingenti. L’attentato viene però denunciato solo dall’intestatario formale della villa, Walter Donati, per cui viene collegato a Berlusconi solo in seguito. A quel punto le indagini raccolgono indizi su un paventato progetto di sequestro del figlio di Berlusconi, ma l’autore dell’attentato resta misterioso. Nella telefonata intercettata, Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri paragonano quella bomba del 1975 a un nuovo ordigno, meno potente, esploso poche ore prima, il 28 novembre 1986. Come evidenziano i giudici, «questa telefonata dimostra che Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri non avevano alcun dubbio sulla riconducibilità a Mangano dell’attentato di undici anni prima». (…) Ma anche se «nessuno dei tre nutriva alcun dubbio nel ricondurre la bomba del 1975 a Mangano – sottolineano i giudici – nessuna indicazione fu offerta agli investigatori, anzi si decise di non denunciare direttamente quell’attentato». Poche ore dopo, nel pomeriggio del 29 novembre 1986, Dell’Utri telefona a Berlusconi per riferirgli cosa ha scoperto sull’attentato del giorno prima. Gli dice testualmente: «Ho visto Tanino, che è qui a Milano». Il Tanino in questione è sicuramente Cinà: non lo negano né lui né Dell’Utri. Già questo è un riscontro: Cinà vedeva davvero Dell’Utri a Milano proprio nel periodo delle riscossioni mafiose rivelate dai pentiti, come confermano anche altre intercettazioni del 1987. Dopo aver fatto il nome di «Tanino», Dell’Utri racconta quali notizie ha raccolto tramite quell’amico palermitano: assicura a Berlusconi non solo che Mangano è ancora detenuto, ma anche che può stare «tranquillissimo», nonostante l’attentato. E precisa di essere certo dell’estraneità di Mangano («è proprio da escludere categoricamente») anche se i carabinieri sospettavano il contrario. Analizzando la telefonata, i magistrati osservano che, per identificare l’autore di un attentato di matrice mafiosa, «Dell’Utri si rivolge a Cinà proprio perché gli è nota la sua mafiosità». E appunto perché ha raccolto informazioni dall’interno di Cosa nostra «può escludere con certezza la matrice di Mangano, anche se è notorio che i mafiosi, quando vogliono, riescono a delinquere anche in carcere». I giudici trascrivono anche una battuta che Berlusconi, al telefono con Dell’Utri, dice di aver fatto ai carabinieri, lasciandoli sbalorditi, e cioè: «Trenta milioni li avrei anche pagati». Un passaggio giudicato «sintomatico dell’atteggiamento mentale dell’imprenditore disponibile a pagare, ma non a denunciare le richieste estorsive». Una posizione confermata anche da un’intercettazione del 17 febbraio 1988. Berlusconi parla con un amico immobiliarista, Renato Della Valle, di altre minacce criminali che non ha mai denunciato né chiarito. Questa volta il Cavaliere è preoccupatissimo. E confida all’amico: «Se fossi sicuro di togliermi questa roba dalle palle, pagherei tranquillo». Le rivelazioni dei pentiti riconfermano questo quadro e aggiungono i pezzi mancanti. L’attentato del 1975 l’ha fatto Mangano, probabilmente per rientrare nel giro dei soldi di Arcore. L’ordigno del 1986 invece l’hanno collocato i catanesi. Per cui, come Dell’Utri riesce a sapere in tempo reale, i mafiosi palermitani e corleonesi non c’entrano. Riina però sa chi è stato. E ne approfitta per usare proprio Catania come base per le nuove intimidazioni, quelle che gli permettono di ricementare il rapporto Cinà-Dell’Utri e raddoppiare la posta. Ricostruendo la storia di queste «affettuose» bombe mafiose, i giudici sottolineano tra l’altro che anche l’attentato del 1986 era rimasto «del tutto assente da ogni cronaca giornalistica». Eppure i boss di Cosa nostra sapevano tutto. E i pentiti hanno potuto raccontarlo. Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.

Berlusconi e la mafia: la vera storia della villa in Sardegna. Nel processo che si è chiuso con la condanna definitiva di Marcello Dell’Utri viene ricostruita anche la storia di un maxi-investimento mafioso in Sardegna, che nasconde un impressionante incrocio di storie criminali. Ne parlano decine di pentiti di comprovata attendibilità, a cominciare da Tommaso Buscetta. Paolo Biondani su L'Espresso il 23 febbraio 2018. Il boss Pippo Calò, che tra gli anni Settanta e Ottanta vive a Roma sotto falso nome, investe somme enormi in speculazioni edilizie in Sardegna, realizzate attraverso costruttori-prestanome, riciclando così anche i riscatti dei sequestri. All’affare partecipano altri boss di Cosa nostra, che ripuliscono i profitti del narcotraffico, e due tesorieri-usurai della Banda della Magliana, Ernesto Diotallevi e Domenico Balducci. A gestire l’investimento in Sardegna, con il compito di comprare terreni vista mare e renderli edificabili con l’aiuto di politici e massoni, è Flavio Carboni, il faccendiere poi condannato come complice della colossale bancarotta del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Dello stesso investimento parlano anche i collaboratori di giustizia della Banda della Magliana. Questo permette agli inquirenti di trovare riscontri sia dal versante di Cosa nostra, sia dal lato della criminalità romana: capitali, società, prestanome. (…) Nel giugno 1993 Carboni crolla e ammette che, almeno per un gruppo di società, «i finanziamenti li ha procurati Balducci ottenendo un prestito da Calò». Mentre la sua storica segretaria testimonia che «il signor Mario», cioè Pippo Calò, «era solito frequentare il nostro ufficio per consegnare grosse somme di denaro a Carboni». Le indagini accertano che le prime ville costruite in Sardegna funzionano anche come covi. Una si trova a Punta Lada, a Porto Rotondo, e diventa il rifugio di Danilo Abbruciati: un killer della banda della Magliana, morto a Milano in un conflitto a fuoco nel 1982, mentre tenta di assassinare il vicepresidente dell’Ambrosiano e braccio destro di Calvi, Roberto Rosone. Gli atti di compravendita di quella casa-covo rappresentano un «formidabile riscontro» alle rivelazioni dei pentiti: uno dei tre proprietari della villa trifamiliare è Domenico Balducci in persona, il tesoriere-usuraio della Magliana, che prima di essere ucciso il 16 ottobre 1981 in un agguato cede la sua quota al braccio destro di Calò a Roma, Guido Cercola. Calò e Cercola sono stati poi condannati all’ergastolo, con sentenza definitiva, come organizzatori della strage del rapido 904, il «treno di Natale» fatto esplodere in una galleria il 23 dicembre 1984: il primo atto di «terrorismo mafioso», con 17 morti e 267 feriti. In questo quadro si inserisce anche Berlusconi. Nello stesso punto della costa sarda, Carboni possiede una villa meravigliosa, la stessa dove ha ospitato, oltre ai boss della Magliana, anche Roberto Calvi, prima di accompagnarlo a Londra, la città dove il banchiere, nel 1982, viene ucciso da ignoti killer che inscenano un finto suicidio. (…) Pressato dai suoi finanziatori e incalzato dai debiti, Carboni deve vendere la sua villa di Punta Lada. E trova subito due compratori: un certo Lo Prete e il signor Attilio Capra De Carrè, che è già finito agli atti del processo, perché era uno degli ospiti della cena di Arcore nella notte del sequestro D’Angerio. Ma si tratta solo di un brevissimo passaggio intermedio. Perché i due compratori non tengono la proprietà: la rivendono a Silvio Berlusconi, che la ribattezza Villa Certosa. Nella pericolosa partita con il faccendiere Carboni entra anche un altro affare, molto più ambizioso: il maxiprogetto «Olbia 2». Nel 1980 è proprio Carboni a contattare un grande amico sardo del Cavaliere, Romano Comincioli, per vendere ben mille ettari di terreni non ancora edificabili. Berlusconi partecipa all’affare sborsando 21 miliardi di lire. Sentito come testimone dopo il fallimento del Banco Ambrosiano, Berlusconi conferma di «aver acquistato tramite Carboni i terreni» per «il progetto di creare una città satellite a Olbia». Il Cavaliere riconosce anche di aver utilizzato come schermo l’amico Comincioli, «che ha ricevuto da noi mano a mano i finanziamenti necessari per l’acquisto dei terreni, intestati a due società fiduciarie acquistate dal gruppo Fininvest». I giudici concludono che «dunque, dalla viva voce di Berlusconi si è avuta la conferma dei suoi rapporti con Flavio Carboni e del ruolo di prestanome di Comincioli». Ma il Cavaliere non ha commesso reati: non c’è nessuna prova, riconoscono i giudici, che Berlusconi sapesse che dietro Carboni c’erano i capitali sporchi della mafia siciliana e della criminalità romana. Mentre Comincioli ammette di aver comprato i terreni «nell’interesse di Berlusconi» e conferma di aver «conosciuto Balducci, ma non Diotallevi e Abbruciati». E giura di «ignorare che Carboni fosse in mano a quegli usurai romani». Comunque, questa volta, Dell’Utri non c’entra: dal 1979 si è dimesso dal gruppo Berlusconi per diventare manager, con il fratello gemello Alberto, di un chiacchieratissimo immobiliarista siciliano, Filippo Alberto Rapisarda. Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.

Soldi che cadono dal cielo: come è nata la Fininvest. Neppure il processo a Dell’Utri ha chiarito i dubbi sull’origine delle fortune di Berlusconi. Paolo Biondani su L'Espresso il 23 febbraio 2018. Silvio Berlusconi, nel processo di Palermo a carico di Marcello Dell’Utri, non è mai stato accusato di nulla. Subire estorsioni e non denunciarle non è reato. La vittima del racket rischia di finire sotto accusa solo se commette falsa testimonianza in tribunale, negando di aver subito estorsioni che risultino provate comunque. C’è però un delicatissimo capitolo del processo che lo riguarda personalmente: per molte udienze i giudici cercano di risolvere il mistero delle origini delle fortune di Berlusconi. Il problema, dibattuto da decenni, è che le aziende del Cavaliere, tra gli anni Settanta e Ottanta, sono state finanziate con capitali provenienti da anonime società estere, di cui tuttora non si conoscono gli effettivi titolari. È la questione illustrata dal regista Nanni Moretti, nel film Il Caimano, con la scena dei «soldi che cadono dal cielo» sulla scrivania di Berlusconi. Durante il lungo processo a Dell’Utri, il tema diventa incandescente, perché diversi pentiti di mafia parlano di presunti investimenti milionari effettuati da boss come Bontate e Teresi proprio tramite Dell’Utri: soldi che, dopo la morte di quei capi-mafia, uccisi dai corleonesi, nessuno avrebbe più potuto rivendicare. La Procura di Palermo apre addirittura un’inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri con un’ipotesi di riciclaggio, che alla fine però gli stessi pm devono archiviare: i pentiti possono citare solo presunte confidenze indirette dei boss che sono morti o non parlano, ma non sono in grado di fornire riscontri concreti. La questione viene ovviamente approfondita anche nel processo a Dell’Utri, che di Berlusconi è stato il braccio destro fin da quei fatidici anni Settanta. Vengono così interrogati i consulenti tecnici dell’accusa e della difesa, incaricati di ricostruire con certezza i flussi dei capitali finiti nelle aziende edilizie e televisive di Berlusconi. Per la Procura, depone un ispettore della Banca d’Italia, Francesco Giuffrida; per la difesa, un professore universitario, Paolo Iovenitti. Lo scontro in aula è durissimo. Esaminati tutti gli atti, già il tribunale conclude che le accuse di riciclaggio non sono provate, per cui nei successivi gradi di giudizio la questione cade. Ma gli stessi giudici avvertono che neppure il processo a Dell’Utri ha chiarito i dubbi sull’origine delle fortune di Berlusconi. Il collegio presieduto dal giudice Leonardo Guarnotta, l’unico a entrare nel merito dei fatti, riassume così il risultato del processo: «Da parte di entrambi i consulenti tecnici, non è stato possibile risalire, in termini di assoluta certezza e chiarezza, all’origine, qualunque essa fosse, lecita o illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding del gruppo Fininvest». In altre parole, se è vero che non ci sono «prove positive» di investimenti collegabili alla mafia, per cui «le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non si possono ritenere riscontrate», è anche vero, scrivono i giudici, che «la scarsa trasparenza o l’anomalia di molte delle operazioni finanziarie effettuate dalla Fininvest negli anni 1975-84 non hanno trovato smentite nelle conclusioni del consulente della difesa», visto che «nemmeno il professor Iovenitti è riuscito a fare chiarezza, pur avendo la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest». Nel tentativo di fugare dubbi così gravi, i giudici di Palermo hanno invitato più volte lo stesso Berlusconi a testimoniare. La prima deposizione viene fissata per l’11 luglio 2001. Berlusconi è presidente del Consiglio, per cui decide di avvalersi della prerogativa legale di essere sentito a Palazzo Chigi. Quindi tutto il tribunale, con avvocati e cancellieri, deve trasferirsi a Roma. La testimonianza però salta all’improvviso, perché Berlusconi oppone «indifferibili impegni di governo». L’intero tribunale torna a trasferirsi a Palazzo Chigi il 26 novembre 2002, ma anche questa deposizione va a vuoto: Berlusconi, in quel momento indagato nell’inchiesta per riciclaggio poi archiviata, preferisce avvalersi della facoltà di non rispondere. Nella sentenza, che ricostruisce la mancata testimonianza del leader di Forza Italia nel processo a Dell’Utri, in particolare sul tema dell’origine dei capitali delle proprie società, i giudici chiudono il caso con queste parole: «Berlusconi ha esercitato legittimamente un diritto riconosciuto dal codice, ma, ad avviso del tribunale, si è lasciato sfuggire l’imperdibile occasione di fare personalmente, pubblicamente e definitivamente chiarezza sulla delicata tematica in esame, che incide sulla correttezza e trasparenza del suo operato di imprenditore, che solo lui, meglio di qualunque consulente o testimone e con ben altra autorevolezza e capacità di convincimento, avrebbe potuto illustrare. Invece, ha scelto il silenzio». Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.

Il dietrofront dei manettari. Travaglio cambia idea su Berlusconi: “Non è un mafioso, è un padre della Patria”. Frank Cimini su Il Riformista il 13 Novembre 2020. Marco Travaglio e il Manette Daily non si indignano più per leggi ad personam, ad aziendam, “ad bananam”, conflitti di interessi e simili. È roba dal passato pare di capire a leggere le cronache anglosassoni con cui il Fatto Quotidiano sta seguendo l’iter dell’emendamento presentato dal governo giallo-rosso a tutela di Mediaset impegnata nello scontro con i francesi di Vivendi. Il giornale di Travaglio si limita a scrivere che la norma con una formula un po’ vaga permetterebbe all’Agcom di bloccare la vicenda per sei mesi rinviando tutto a giugno e dando una boccata di ossigeno al Biscione. Insomma potrebbero tornare utili i voti di Forza Italia al Senato per sostenere il governo e allora c’è un bel “contrordine compagni” e al massimo si scrive del caso per raccontare dei dissidi provocati dentro il centro destra tra il partito di Berlusconi e la Lega. La sopravvivenza di questo governo è troppo importante per cui si depongono le armi utilizzate per tanti anni contro il nemico storico. Non si può neanche immaginare che cosa avrebbe scritto il Manette Daily nel caso l’emendamento “salva Mediaset”, assolutamente non scandaloso perché ogni governo tende a tutelare le sue aziende, fosse stato proposto da un esecutivo di centro-destra. Travaglio ha costruito la sua carriera di giornalista e polemista incentrata quasi esclusivamente sulle attività politiche e imprenditoriali di Silvio Berlusconi. Perché il fondatore di Fininvest ha fatto la fortuna anche di molti suoi nemici oltre che degli amici. Per un tempo lunghissimo e fino a due giorni fa Travaglio ha dato credito a qualsiasi sospiro uscisse da qualsiasi procura purché fosse possibile chiamare in causa Berlusconi. Il Cavaliere è stato ritenuto dal Manette Daily responsabile di stragi di mafia nonostante fioccassero le archiviazioni arrivate dopo anni di indagini avviate iscrivendolo tra gli indagati con una sigla. È stato in pratica condannato mediaticamente, e per la verità non solo dal Fatto che era la punta dell’iceberg, in relazione alla morte di Imane Fadil presentata come supertestimone del caso Ruby, quando non lo era affatto. La virata è davvero impressionante. La ragione di vita di Travaglio e del suo giornale evidentemente è la sopravvivenza di questo governo costi quel che costi. Adesso i nemici storici del Cavaliere sono disposti anche a considerarlo uno statista, una sorta di padre della patria. Quello che è stato è stato. Adesso siamo in una fase nuova. Berlusconi non è più “mafioso”, non ha più conflitti di interessi. E bisogna dire che il tema del conflitto di interessi è sparito dalle pagine dei giornali, non solo dalle prime e dal dibattito politico, da quando il 27 novembre del 2011 il Cavaliere lasciò palazzo Chigi. Da allora si sono succeduti governi diversi senza che nessuno rimettesse mano a quella materia. A conferma che l’attenzione spasmodica del passato era esclusivamente strumentale, cioè utile a tenere sotto scacco un avversario politico. Ma senza arrivare a sfornare una legge giusta ed equilibrata per risolvere un problema che in realtà esiste ma sul quale ora a fare finta di niente sono soprattutto gli avversari e non solo Travaglio.

‘Ndrangheta stragista, la requisitoria del pm: “Tra il 1993 e il 1994 la storia d’Italia politica si incrocia con le esigenze dell’alta mafia”. Lucio Musolino su Il Fatto Quotidiano il 7 luglio 2020. “Tra il novembre 1993 e il gennaio 1994 la storia d’Italia politica, ma anche partitica, si incrocia con le esigenze dell’alta mafia”. Lo ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo durante la requisitoria del processo “‘Ndrangheta stragista” che vede alla sbarra, davanti alla Corte d’Assise, il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il referente della cosca Piromalli, Rocco Santo Filippone, accusati dell’omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo uccisi il 18 gennaio 1994 sull’autostrada. È agli sgoccioli il processo in cui l’accusa punta a dimostrare come la ’ndrangheta abbia partecipato a pieno titolo alla strategia stragista dei primi anni novanta. Ieri, nel corso del suo intervento, il procuratore Lombardo ha ricostruito le strategie politiche di Cosa nostra e ‘Ndrangheta all’indomani della vittoria del Pds alle amministrative dell’autunno 1993: “Achille Occhetto si sentiva già presidente del Consiglio. – ricorda il pm – Il rischio comunista non era finito. Quando il sistema di cui stiamo parlando ha capito che il rischio era alto, bisognava trovare delle alternative molto più solide”.Erano gli anni in cui le mafie avevano abbandonato la Democrazia cristiana e puntavano sui movimenti separatisti. La vittoria del Pds cambio le carte in tavola. “È quella – sottolinea il procuratore aggiunto – la fase in cui si abbandona il progetto portato avanti fino a quel momento per virare, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano deponendo in quest’aula, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi. Vi è un imbarazzante coincidenza organizzativa tra le sedi di Sicilia Libera e quelle di Forza Italia. Si vira pesantemente su quella che sarà Forza Italia. Ecco perché vi è piena coerenza tra la strategia stragista e la strategia politica di chi le stragi aveva organizzato: Cosa nostra, ‘Ndrangheta e altre componenti dello stesso sistema”. “La strategia stragista – conclude il magistrato – che doveva aprire varchi sempre più ampi ai nuovi soggetti che erano stati identificati. Ecco quello che dice Giuseppe Graviano in relazione alla richiesta chiara che le stragi non si dovevano fermare. Cosa nostra e ’Ndrangheta, in quel momento storico, contemporaneamente e all’unisono, compiono non solo la scelta di abbandonare i vecchi referenti politici, ma anche la scelta di dare sostegno ai medesimi nuovi soggetti”.

Graviano, la requisitoria: “Così Cosa nostra e ‘ndrangheta virarono su Forza Italia nel ’94”. Nella sua requisitoria al processo 'Ndrangheta stragista il pm Lombardo ha ricostruito il panorama politico tra il 1992 e i 1994, mentre Cosa nostra varava la strategia di attacco allo Stato a suon di bombe: "Si virò, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche deponendo in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi". E cita il proclama in aula di Piromalli nel '94 ("Voteremo Forza Italia") e le intercettazioni dell'ex deputato azzurro Pittelli dopo aver letto il fattoquotidiano.it: "Berlusconi è fottuto". Lucio Musolino e Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 6 luglio 2020. C’era “piena coerenza tra la strategia stragista e la strategia politica di chi aveva organizzato le stragi: Cosa nostra, la ‘Ndrangheta ed altre componenti dello stesso sistema”. Una strategia politica che prima punta sull’autonomismo, sulle Leghe meridionali. Poi vira e punta tutto su un partito nuovo: Forza Italia. È in questo modo che procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, ha ricostruito la “strategia politica” delle mafie tra il 1992 e il 1994, durante la sua requisitoria al processo ‘Ndrangheta stragista. Il processo di Reggio Calabria – Un periodo che è già stato al centro del processo celebrato a Palermo sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra: si è concluso nell’aprile del 2018 con pesanti condanne per boss, ufficiali dei carabinieri ed ex politici come Marcello Dell’Utri, che proprio di Forza Italia fu il fondatore. Adesso a Reggio Calabria, il pm Lombardo sta ricostruendo le responsabilità dei clan di ‘ndrangheta nell’attacco allo Stato a suon di bombe organizzato da Cosa nostra tra il 1992 e il 1994. E infatti imputati davanti alla corte d’Assise di Reggio Calabria ci sono due alti “esponenti” della due mafie: da un lato Giuseppe Graviano, il boss siciliano che custodisce il segreto delle stragi; dall’altra Rocco Santo Filippone, uomo della cosca Piromalli. I due sono accusati dell’omicidio dei due carabinieri, Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, assasinati il 18 gennaio 1994 nei pressi dello svincolo di Scilla. Il processo di Reggio Calabria ha guadagnato notorietà nei mesi scorsi perché è il procedimento in cui l’imputato Graviano ha deciso per la prima volta di aprire bocca per mandare una serie di messaggi trasversali. Durante una serie di udienze il boss di Brancaccio ha sostenuto di essere stato in affari con Silvio Berlusconi, grazie agli investimenti compiuti dal nonno a Milano negli anni ’70. Ha parlato di “imprenditori di Milano” che non volevano fermare le stragi. Ha invitato a indagare sul suo arresto, avvenuto al ristorante Gigi il cacciatore il 27 gennaio del 1994, per scoprire i veri mandanti delle stesse stragi. “C’era il rischio dei comunisti”- Le dichiarazioni in libertà del boss di Brancaccio, unite alle intercettazioni in carcere del 2016 e 2017, sono state citate più volte dal pm Lombardo nella sua requisitoria. Per la pubblica accusa, infatti, il duplice omicidio dei carabinieri prova come ci fosse una responsabilità della ‘ndrangheta nella strategia stragista del 92/94. Lombardo, nella sua ricostruzione che somma gli atti del processo Trattativa e dell’inchiesta di Roberto Scarpinato sui Sistemi criminali, è tornato indietro nel tempo fino all’autunno del 1993, quando alle amministrative si imposero i candidati sostenuti dal Pds di Achille Occhetto. “C’era il rischio comunista e quando il sistema, di cui ci stiamo occupando in questo processo – ha detto il Pm – l’ha capito, la storia politica si è incrociata con le esigenze dell’alta mafia. Fino ad allora si credeva che i movimenti separatisti potessero avere senso, ma bisognava trovare delle alternative molto più solide e si virò, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche deponendo in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi“.

La mafia autonomista – Il rappresentante della pubblica accusa ha ripercorso le strategie politiche seguite nelle mafie già nei primi anni ’90, quando dalla Sicilia al Centro Italia cominciano a nascere una serie di movimenti separatisti, le cosiddette Leghe meridionali: vengono tutte create su input di esponenti di Cosa nostra, della ‘ndrangheta, della Camorra. Ma anche della massoneria e dell’estremismo nero. “Abbiamo sentito parlare di più di Sicilia Libera che dei movimenti nati nelle altre regioni. La prima componente è Calabria Libera che viene fondata a Reggio Calabria circa un anno prima rispetto a Sicilia Libera”, fa notare il magistrato, che insiste spesso su questo punto. “La ‘ndrangheta e Cosa nostra sono un’unica entità criminale. Noi abbiamo la prova che i rapporti tra la componente siciliana e quella calabrese sono stati rapporti intensi. Un sistema che si autoalimenta e che gestisce capitali di grande rilievo. È noto che il peso economico diventa peso politico”.

Da Gelli a Miglio a B. – Quello del procuratore aggiunto è un racconto che incrocia figure note nei misteri del paese: come il maestro venerabile della P2, Licio Gelli. “Abbiamo la certezza che le componenti mafiose hanno aderito al progetto di Gelli. I reali ispiratori dei movimenti separatisti vanno oltre la figura di Gelli”. E ancora l’ideologo della Lega Nord, Gianfranco Miglio: “Disse di essere per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Ritengo che Miglio non ha utilizzato a caso il riferimento di mafia e ‘ndrangheta“. Insomma, mentre saltano in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, mentre vengono ordinate le stragi di Firenze, Roma e Milano, i clan pensano di staccare il Sud dal resto d’Italia puntando sulle Leghe. Solo che a un certo punto il progetto separatista viene abbandonato e le mafie convogliano il loro supporto su Forza Italia, parallelamente alla strategia di attacco allo Stato: “La strategia stragista – ha detto Lombardo – doveva mettere la vecchia classe politica con le spalle al muro per aprire varchi alla nuova classe politica. Questo ce lo conferma Graviano. Cosa nostra e ‘ndrangheta in quel momento storico, contemporaneamente e all’unisono, non solo abbandonano i vecchi referenti politici ma decidono di dare sostegno a questi nuovi soggetti”. Chi sono questi nuovi soggetti? Forza Italia. “Quella – ha continuato il pm – è la fase in cui bisognava trovare delle alternative molto più solide e si vira, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche deponendo in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi. È questo il momento in cui si vira in quella che sarà Forza Italia. Vi è un imbarazzante, per la storia, coincidenza tra le sedi di Sicilia Libera e le prime sedi di Forza Italia”.

Il boss di ‘ndrangheta: “Voteremo Berlusconi” – Il magistrato, a sostegno dei fatti ripercorsi durante la sua requisitoria, ha citato decine e decine di collaboratori di giustizia. Ma anche tre episodi che niente hanno a che vedere con i pentiti. Il 24 febbraio del 1994 l’Italia è in piena campagna elettorale: la prima Repubblica è crollata sotto i colpi di Tangentopoli e dopo un mese il Paese sarebbe tornato a votare. Al tribunale di Palmi era in corso il processo a Giuseppe Piromalli, capostipite della cosca di Gioia Tauro, padre dell’omonimo boss (soprannominato “Facciazza“) che verrà arrestato anni dopo accusato anche di estorsione ai danni dei gestori dei ripetitori Fininvest. L’anziano padrino decise quel giorno di prendere la parola. E dalla sua cella gridò: “Voteremo Berlusconi, voteremo Berlusconi“. “Non è stata presa una posizione chiara e precisa dicendo che quei voti non li si voleva”, contesterà Achille Occhetto al leader di Forza Italia durante un confronto radiofonico pochi giorni dopo. La replica del futuro premier è surreale: “‘Non credo che nessuno possa sapere con certezza per chi voterà la mafia, non so nemmeno se sia ipotizzabile un voto compatto della mafia. È un fenomeno che confesso di non conoscere in modo approfondito.

L’intercettazioni di Pittelli: “Berlusconi è fottuto” – “Noi abbiamo elementi di valutazione che vanno oltre l’accidentale e che ruota intorno alla chiave di lettura che ci fornisce un parlamentare di Forza Italia”, ha poi commentato il procuratore aggiunto Lombardo. Riportando un secondo elemento di riscontro alla sua ipotesi accusatoria: un’intercettazione dell’avvocato Giancarlo Pittelli, ex parlamentare calabrese di Forza Italia, considerato il trait d’union tra massoneria e clan. È il 20 luglio 2018 e Pittelli dice: “La prima persona che dell’Utri contattò per la formazione di Forza Italia fu Piromalli di Gioia Tauro”. “Per fortuna – ha commentato il pm – Pittelli non è un passante, ma è stato per 13 anni parlamentare di Forza Italia. Questa è la fonte qualificata che ci insegnavano come va valutato il peso probatorio di un elemento”. E se non bastasse Lombardo ha ricordato anche l’inizio di quella conversazione di Pittelli, che al telefono dice a un suo interlocutore: “Senti, sto leggendo questa storia che hanno riportato sul Fatto Quotidiano della trattativa stato Mafia”, dice l’ex parlamentare il 20 luglio del 2018. Il riferimento a un articolo che riportava le motivazioni del processo sul Patto tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. Quel procedimento individua il primo governo Berlusconi come parte lesa del ricatto allo Stato. Il commento di Pittelli, però, è di tenore diverso: “Berlusconi è fottuto…Berlusconi è fottuto”.

Dalla Calabria allo stadio Olimpico: carabinieri nel mirino – Insomma, secondo il pm Lombardo, in pratica, l’omicidio dei due militari Fava e Garofalo è la prova che la ‘ndrangheta condivise in pieno la strategia di attacco allo Stato varata da Cosa nostra e dai Graviano. D’altra parte sono proprio i carabinieri l’obiettivo dichiarato da Graviano. Il 23 gennaio del 1994 – cinque giorni dopo il duplice omicidio calabrese – Gaspare Spatuzza avrebbe dovuto fare esplodere una Lancia Thema imbottita di tritolo e tondini di ferro nei pressi di un autobus che trasportava decine di carabinieri del servizio d’ordine dello stadio Olimpico durante Roma-Udinese. Quell’attentato, però, fallì per un difetto al telecomando. “Se, invece, fosse riuscito ed avesse, quindi, determinato la morte di un così rilevante numero di carabinieri, avrebbe con ogni probabilità veramente messo in ginocchio lo Stato pressoché definitivamente dopo la sequenza delle gravissime stragi che si erano già susseguite dal 1992, ciò tanto più che l’ulteriore strage (la più grave per numero di vittime) sarebbe intervenuta in un momento di estrema debolezza delle Istituzioni”, hanno scritto i giudici della corte d’Assise di Palermo che hanno celebrato il processo sulla Trattativa.

Un gennaio frenetico – Due giorni dopo il fallito attentato all’Olimpico, Berlusconi ufficializza la sua discesa in campo, il 27 gennaio – 24 ore dopo il famoso discorso sull’Italia “è il Paese che amo” – Graviano viene arrestato. “Non è che la fretta di Graviano per portare a termine il fallito attentato all’Olimpico era legata al fatto che la settimana dopo sarebbe stata annunciata la discesa in campo di Berlusconi?“, si è chiesto il pm Lombardo durante l’ultima udienza. È un fatto che il bar Doney di Roma, il posto dove il 21 gennaio Graviano incontra Spatuzza per dargli l’ordine di dare un altro “colpetto“, dista solo poche centinaia di metri dall’hotel Majestic dove in quei giorni Dell’Utri era impegnato in una serie d’incontri preparatori alla discesa in campo. Uno dei dipendenti dell’albergo, interrogato dalla Dia di Reggio Calabria, oggi ricorda che Dell’Utri incontrava alcuni soggetti di “chiara provenienza calabrese e siciliana, dal momento che parlavano con marcato accento dialettale da me conosciuto per le mie origini calabresi”. Chi erano quei siciliani e quei calabresi incontrati da Dell’Utri proprio nei giorni in cui veniva lanciato il partito azienda di Berlusconi? Hanno niente a che vedere con gli incontri del siciliano Graviano nel vicinissimo bar di via Veneto?

Silvio Berlusconi, fango contro il leader FI: "Aiutato dalla 'ndrangheta", così il procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Libero Quotidiano l'8 luglio 2020. Non bastassero le nuove rivelazioni sul «plotone di esecuzione» organizzato per fare fuori il Cav per via giudiziaria all'epoca del processo Mediaset, ora spunta la pista 'ndranghetista per gettare altro fango sul leader di Forza Italia. Curioso che risbuchi fuori ora che Silvio Berlusconi è tornato così attivo sullo scacchiere politico e ventila nuovi scenari affinché il Paese esca dallo stallo, ma tant' è. La faccenda, su cui andrà a nozze il Fatto quotidiano, riguarda stavolta la requisitoria del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, nel corso del processo "Ndrangheta stragista" che vede imputati davanti alla Corte d'Assise Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio, e Rocco Santo Filippone, esponente della cosca Piromalli, accusati dell'omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo, consumato il 18 gennaio 1994 a Scilla. Nel corso del suo intervento il pm ha analizzato il panorama politico tra l'autunno del 1993, quando il Pds di Achille Occhetto stravinse le amministrative, e il 1994. «C'era il rischio comunista e quando il sistema l'ha capito», ha detto il pm, «la storia politica si è incrociata con le esigenze dell'altra mafia. Fino ad allora si credeva che i movimenti separatisti potessero avere senso, ma bisognava trovare delle alternative più solide e si virò, come ci ha raccontato Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Berlusconi». lo dice graviano In sintesi, prendendo per buone le deposizioni di Graviano, Cosa nostra e 'ndrangheta, in quel momento storico, «non solo abbandonano i vecchi referenti politici ma decidono di dare sostegno a questi nuovi soggetti». Ma non è tutto. Nella stessa requisitoria viene riesumato un processo celebrato a Palmi nel febbraio del '94. In quell'occasione il boss Pino Piromalli avrebbe detto: «Voteremo Berlusconi», quindi apriti cielo. L'episodio 24 anni dopo si incrocia con un'intercettazione registrata nell'ambito dell'inchiesta "Rinascita-Scott" della Dda di Catanzaro. 

Graviano, Spatuzza, gli incontri al bar Doney di via Veneto: non è la prima volta che il boss soprannominato "Madre natura" tira in ballo Berlusconi, il quale ha sempre smentito: «Le parole di Graviano sono infondate». Ma chissà come mai certe ricostruzioni hanno sempre avuto vasta eco su alcuni giornali, che hanno riempito pagine di intercettazioni contro Berlusconi, invece oggi di fronte a una registrazione audio in cui un giudice, Amedeo Franco, membro della sezione feriale che nell'agosto del 2013 condannò l'ex premier per il processo Mediaset, ammise che fu una sentenza pilotata, c'è il silenzio. Manettari zitti pure sul verdetto del tribunale civile di Milano che ribalta la sentenza penale. Imbarazzi e scarse reazioni, finora, anche al nuovo scoop di Quarta Repubblica di Porro in cui tre persone sono sicure di avere sentito Antonio Esposito, il presidente di quello stesso collegio di Cassazione che inflisse la condanna definitiva al leader azzurro, definire Berlusconi «una chiavica», cioè «fogna» con l'aggiunta di una profezia che poi si confermerà tale: «Se mi capita gli devo fare un mazzo così a Berlusconi». In pratica, l'opposto di quando si dice che la legge è uguale per tutti e un giudice deve essere imparziale. L'ex presidente del Consiglio si è sfogato con i suoi: «Sono ormai chiare a tutti le ragioni di questi 26 anni di persecuzione giudiziaria. Chiediamo una commissione parlamentare perché vogliamo sia fatta chiarezza. Non è un dovere nei miei confronti, ma nei confronti degli elettori, anche quelli che non votano Fi». Quindi, ieri, il Cav tecnologico ha tenuto via Zoom una riunione con il coordinamento del partito. Si è parlato degli aiuti per fronteggiare l'emergenza Covid (i pacchi alimentari a Verbania), ma anche di legge elettorale (maggioritario) e scenari futuri. Silvio ha confermato la linea del «mai accordi con la sinistra». Il vicepresidente Tajani è convinto che il M5S si spaccherà e se cadrà questo governo e non saranno sciolte le Camere, una parte dei grillini confluirà nel centrodestra. Gli alleati di Lega e Fdi, però, non ne vogliono sapere: «Ok Silvio senatore a vita, ma niente governo di unità nazionale», ha ribadito Giorgia Meloni».

Mafia e B., per giornali e tv il boss Graviano è un mezzo bidone. E Travaglio diventa una furia. Marzio Dalla Casta domenica 9 febbraio 2020 su Il Secolo D'Italia.  Ossessionato da B. Come prima, più di prima. Marco Travaglio non si smentisce e piuttosto che fare le pulci al boss Giuseppe Graviano, che accusa il Cavaliere facendo parlare i morti, le fa a giornali e tv troppo reticenti – a suo dire – nel darne notizia. Ci risiamo. La mafia, B. e l’accusatore di turno, versione sicula dell’Isso, essa e ‘o Malamente che furoreggiava sotto il Vesuvio. Vecchia storia, solito schema. Questo: nessuno, oltre al Fatto Quotidiano, fa davvero la guerra a B. Che poi è tutta una questione di concorrenza, cioè di copie e quindi di soldi, con Repubblica. Proprio come tra Pd e M5S è solo questione di voti. Competition is competition: là nelle edicole, qua nelle urne. A contendersi i manettari, lettori ed elettori. Senza stare troppo lì a spaccare il capello in quattro.

Travaglio dedica due pagine al padrino di Brancaccio. Già, a Travaglio poco importa se la sua “bomba” spesso è solo un tricchetracche e, quanto a rumore, peggio di una fetecchia. Fedele alla consegna per cui «non è importante quel trovi alla fine della corsa, ma quel che provi mentre corri», che entusiasma tutti tranne chi soffre di diarrea, il Direttore sa che il bello è soprattutto nell’attesa. Lo ha scoperto maneggiando il Ciancimino Jr. Chissà quanti e quali fremiti d’emozione avrà provato portandolo in processione come una reliquia o nei tanti incontri in tv, ospitante Michele Santoro e officiante  Antonio Ingroia. Un “ dai e dai” senza requie. Purtroppo per loro, invece di vedere B. in galera, si sono ritrovati con il giovane Ciancimino condannato per calunnia, riciclaggio di denaro e detenzione di esplosivi.

Il precedente di Ciancimino Jr. Una vera mammoletta, sincera soprattutto. Ma la premiata compagnia di giro unita dal grido “la mafia non deve morire perché noi dobbiamo campare” lo aveva arruolato comunque. Giusto per assaporare il gusto dell’attesa. Quella di trovare conferma ai propri deliri. Ora è il turno del padrino di Brancaccio. «Graviano chi?», ha polemicamente urlato il Fatto in prima pagina per sottolineare la tiepida accoglienza riservata dai media alle sue accuse. Di nuovo fremiti e brividi percorrono la schiena di Travaglio. La corsa a consacrare la mafiosità di B. è ripartita. Come prima, più di prima. E poco importa se sarà ancora una volta il beffardo «ritenta, sarai più fortunato» tutto quel che troverà al posto del traguardo.

Alessandro Sallusti difende Silvio Berlusconi: "Le accuse di Graviano? I mafiosi sono uomini di merda". Libero Quotidiano l'8 Febbraio 2020. Alessandro Sallusti dalla parte di Silvio Berlusconi. La difesa del direttore del Giornale arriva più puntuale che mai dopo le  accuse del boss Giuseppe Graviano. "Nel 1993 fu tra i protagonisti delle stragi che volevano mettere in ginocchio lo Stato. Oggi, 27 anni dopo, pensa di ripetersi, ma essendo in carcere non può usare il tritolo. Quindi usa le parole e dice che nel 1993, da latitante e insieme al cugino, incontrò a Milano Silvio Berlusconi per concludere certi affari immobiliari". Poi la stoccata: "Dicono che i mafiosi siano uomini d'onore, ma io non ho mai capito che c'entri la mafia con l'onore. Io penso che i mafiosi siano uomini di merda, perché la mafia è merda. Sono uomini che non possono più sparare proiettili e sparano cazzate". Per Sallusti molte colpe sono da imputare a "una certa magistratura che non vede l'ora di dimostrare che Forza Italia è nata mafiosa", per tre volte hanno infatti provato a incardinare un processo, ma per tre volte hanno dovuto arrendersi ancora prima di iniziare. Eppure non c'è verso di trovare un indizio che Berlusconi sia stato colluso con Cosa nostra, neppure le parole pronunciate dallo stesso Graviano. Se ne facciano una ragione.

Il boss Graviano: «Vidi Berlusconi tre volte a Milano, da latitante» Ghedini: «Falso». Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Carlo Macrì. Il boss di Cosa Nostra al processo «‘Ndrangheta stragista». Il legale di Berlusconi: «Da Graviano astio verso il Cavaliere per le leggi del suo governo contro i mafiosi». «Nel dicembre 1993, mentre ero latitante, incontrai Berlusconi a Milano. Berlusconi sapeva come mi chiamavo. E sapeva che ero latitante da dieci anni. Alla riunione ha partecipato anche mio cugino Salvo e con Berlusconi c’erano persone che non conoscevo. Dovevamo discutere dell’ingresso di alcuni soci nelle società immobiliari di Berlusconi». A rivelarlo, deponendo in videoconferenza al processo sulla `ndrangheta stragista a Reggio Calabria, è il boss mafioso Giuseppe Graviano. «Verso la fine del 1993 - spiega rispondendo alle domande del pm Giuseppe Lombardo - si tenne una riunione a Milano 3, per regolarizzare questa situazione. Siccome Berlusconi aveva detto di sì mio cugino ha detto di andare a incontrarlo. `Vediamo che intenzioni ha´, disse, ed così è stato fissato l’appuntamento a Milano 3. Fino a quel momento questi soggetti che dovevano entrare in affari con Berlusconi non apparivano». «In quell’occasione fu programmato un nuovo incontro, per febbraio, ma io il 27 gennaio 1994 venni arrestato a Milano. un arresto anomalo...», dice ancora Graviano. «Da latitante ho incontrato Berlusconi almeno per tre volte», ha detto, proseguendola sua deposizione Graviano. Che racconta: «Fu mio nonno ad avere i contatti con gli imprenditori milanesi. Poi, quando è morto mio padre, mi prese in disparte e mi disse “Io sono vecchio e ora te ne devi occupare tu”. Poco dopo mio nonno, che aveva più di 80 anni, morì». «Io ho condotto la mia latitanza nel milanese tra shopping in via Montenapoleone e teatri, insomma facevo la bella vita», dice il boss, che è stato latitante dagli anni Ottanta al 27 gennaio 1994. E deponendo in videoconferenza ha confermato alcuni passaggi che il pm Giuseppe Lombardo gli legge delle intercettazioni con il boss Umberto Adinolfi nel carcere di Terni: «Con Berlusconi cenavamo anche insieme. È accaduto a Milano tre, in un appartamento». E ancora: «Tramite mio cugino avevamo un rapporto bellissimo». E fu lo stesso Berlusconi ad annunciare «a mio cugino Salvo» la decisione di entrare in politica. Ma poi «Berlusconi fu traditore - aggiunge Graviano - perché quando si parlò della riforma del Codice penale e si parlava di abolizione dell’ergastolo mi hanno detto che lui chiese di non inserire gli imputati coinvolti nelle stragi mafiose». «Le dichiarazioni rese quest’oggi da Giuseppe Graviano sono totalmente e platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà nonché palesemente diffamatorie». Lo afferma in una nota il legale di Silvio Berlusconi, l’avvocato Niccolò Ghedini. «Si osservi - prosegue - che Graviano nega ogni sua responsabilità pur a fronte di molteplici sentenze passate in giudicato che lo hanno condannato a plurimi ergastoli per gravissimi delitti». «Si comprende, fra l’altro, perfettamente - aggiunge il legale - l’astio profondo nei confronti del presidente Berlusconi per tutte le leggi promulgate dai suoi governi proprio contro la mafia».

Mafia, il boss Graviano: "Mentre ero latitante incontrai Berlusconi a Milano". Lo rivela in videoconferenza a Reggio Calabria. "Io ho condotto la mia latitanza nel milanese tra shopping in via Montenapoleone e teatri, insomma facevo la bella vita". Alessia Candito il 07 febbraio 2020 su La Repubblica. Non solo ha più volte incontrato Silvio Berlusconi, “ma la mia famiglia con lui era in società”. È un fiume in piena il boss Giuseppe Graviano, l’uomo della stagione delle stragi, che per vent’anni si è trincerato dietro il più assoluto silenzio, incassando condanne su condanne. Ascoltato al processo “’Ndrangheta stragista” a Reggio Calabria, “Madre natura” ha aperto la diga e in aula ha parlato in dettaglio dei rapporti che storicamente legano la sua famiglia a Silvio Berlusconi, conosciuto e frequentato dai Graviano ancor prima della sua discesa in campo con Forza Italia. “Mio nonno materno, Quartanaro Filippo, era una persona abbastanza ricca. Era un grande commerciante di ortofrutta. Venne invitato a investire soldi al nord, perché era in contatto con Silvio Berlusconi”. Una valanga di miliardi da investire nell’immobiliare, con quota di partenza di 20 miliardi raccolta fra diverse famiglie. Un affare in cui anche Giuseppe Graviano entra dopo l’omicidio del padre, che all’avventura milanese – a suo dire – era sempre stato contrario. “Mio nonno mi disse che era in società con queste persone, mi propose di partecipare pur specificando che mio padre non voleva. Io e mio cugino Salvo abbiamo chiesto un consiglio a Giuseppe e Michele Greco, che mi dissero che qualcuno doveva portare avanti questa situazione e abbiamo deciso di sì. E siamo partiti per Milano. Siamo andati dal signor Berlusconi, mio nonno era seguito da un avvocato di Palermo che era il signor Canzonieri”. Un affare “ufficiale, era tutto legittimo perché - sostiene Graviano, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo - mio nonno sosteneva che dovessimo essere scritti”. Almeno loro. Perché dietro c’erano altre famiglie palermitane a titolo di finanziatori. “Il primo incontro avvenne nell’hotel Quark, nell’83. C’erano Berlusconi, mio nonno e mio cugino Salvatore. Noi affiancavamo mio nonno perché era anziano e dovevamo essere pronti a prendere il suo posto. Siamo andati con questa situazione, di tanto arrivavano un po’ di soldi e mio cugino non li divideva, ma li reinvestiva”. Qualcuno dei vecchi finanziatori nel tempo si è sfilato, ma l’affare – sostiene Graviano – sarebbe andato avanti spedito fino al ‘93. “A dicembre di quell’anno, c’è una nuova riunione a Milano. Io ero latitante dall’84. Mio cugino mi invita a partecipare. Si era arrivati alla conclusione che si dovesse regolarizzare la situazione e far emergere il nome dei finanziatori. Ci siamo incontrati con Berlusconi, con lui c’erano altre persone che non mi sono state presentate. Berlusconi sapeva che ero latitante”. E Graviano lo era da tempo, quasi dieci anni, sebbene – specifica – quel periodo passato a nascondersi non abbia mai implicato particolari privazioni. “Stavo ad Omegna, ma Milano mi serviva per gli incontri e la frequentavo, senza usare particolari precauzioni. Andavo a fare shopping in via Montenapoleone, andavo al cinema e a teatro”. Ecco perché incontrare Berlusconi – sostiene il boss – non sarebbe stato un problema. “L’idea era di legalizzare la situazione per far emergere i finanziatori nella società immobiliare di Berlusconi in cui c’era mio nonno, che avevano appoggiato mio nonno, perché i loro nomi apparivano solo su una scrittura privata che ha in mano mio cugino”. Del resto, il volume d’affari era ormai imponente. Gli interessi nell’immobiliare riguardavano anche Milano 3, “lì Berlusconi aveva regalato a mio cugino un appartamento, abbiamo fatto anche una cena”. E stando a quanto racconta il boss, è stato proprio durante uno di questi incontri che il padre padrone di Forza Italia avrebbe annunciato ai Graviano la propria intenzione di lanciarsi in politica. “Io sono a Omegna, lui lo dice a mio cugino Salvo, a cui chiede una mano in Sicilia”. Il boss non lo dice, ma Graviano lo fa capire che quell'aiuto c'è stato. Ma non riesce a non perdere la calma quando parla del "tradimento" di Berlusconi. "Berlusconi fu un traditore, perché quando si parlò della riforma del Codice penale e si parlava di abolizione dell'ergastolo mi hanno detto che lui chiese di non inserire gli imputati coinvolti nelle stragi mafiose". Quasi le stesse parole che Graviano si era fatto scappare in carcere, parlando con Adinolfi. "Berlusconi prese le distanze e fece il traditore" aveva detto all'epoca. Ma oggi va oltre ""Un avvocato di Forza Italia mi disse che stavano cambiando il Codice penale - dice ancora Graviano - e che doveva darmi brutte notizie. Perché in Parlamento avevano avuto indicazioni da Berlusconi di non inserire quelli coinvolti nelle stragi. Lì ho avuto la conferma che era finito tutto. Mio io cugino Salvo era morto nel frattempo per un tumore al cervello. E nella riforma del Codice penale non saremmo stati inseriti tra i destinatari dell'abolizione dell'ergastolo". Ecco perchè  "questo mi portò a dire che Berlusconi era un traditore".

Il boss Graviano ci ricasca e tira in ballo Berlusconi: “Ci vedevamo in albergo”. Damiano Aliprandi il 7 febbraio 2020 su Il Dubbio. Nulla di nuovo nella deposizione dell’uomo condannato per le stragi del ’92-’93 che cerca di riscrivere la nascita della seconda Repubblica…Non ha ucciso nessuno, non ha commesso nessuna strage. In compenso elogia Totò Riina dicendo che grazie a lui non ci sono state le stragi islamiche, anzi dice pure che l’ex capo dei capi era stato colui che ha cambiato – in meglio – l’organizzazione mafiosa istituendo la democrazia. Ma non solo. Giuseppe Graviano, deponendo in videoconferenza nel processo “ndrangheta stragista” in corso di svolgimento a Reggio Calabria, aggiunge pure che Silvio Berlusconi incontrò nel 1992 suo cugino Salvo annunciandogli che voleva entrare in politica. Tutto qui? Nemmeno per sogno. Graviano aggiunge un particolare, ovvero che si vedeva spesso con Berlusconi, anche in albergo, e che avevano un rapporto bellissimo. Tira in ballo perfino la recente sentenza della Consulta dicendo che hanno dichiarato incostituzionali alcune leggi. Quali leggi? “Quelle fatte per non farci uscire dal carcere, dopo che ci hanno accusato delle stragi“, risponde.  Forse avrà letto alcuni giornali che in quei giorni hanno raccontato che la sentenza avrebbe fatto uscire tutti i mafiosi stragisti. Notizie fuorvianti che hanno illuso i mafiosi stessi. Se dovessimo credere a tutto ciò che ha raccontato, si dovrebbe buttare a mare tutto ciò che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno combattuto, rimettendoci anche la vita stessa. Riina era un buono, Graviano non ha mai commesso nulla e la mafia era in fondo al servizio stesso di Berlusconi. L’organizzazione mafiosa, quindi, non è altro che un’appendice della politica. Riina un buono che si era fatto guidare da altri. Ma non solo. Da riscrivere anche la storia della politica italiana. Graviano dice che Berlusconi realizzò il partito di Forza Italia nel 1992, quindi un lungimirante: la prima Repubblica era ancora lontana da essere travolta da tangentopoli. Ma Berlusconi a quanto pare già sapeva tutto. Graviano, in fondo, è stato abbastanza coerente con quanto disse nei colloqui, intercettati al 41 bis, con il suo compagno d’ora d’aria Mario Adinolfi. Dalle intercettazioni stesse emerge chiaramente che Graviano sapesse di essere intercettato. La maggior parte del suo tempo era volto a discolparsi di tutto quello per cui è stato condannato. Il 41 bis d’altronde è un inferno, lui è anche in area riservata, un 41 bis ancora più duro. Già lì, in quel colloquio, tirò in ballo Berlusconi.Come sappiamo, Graviano venne arrestato nel 1994. Restavano solo i fratelli Brusca e i loro fedelissimi di S.Giuseppe Jato. Finirono in galera un anno dopo. La paranza stragista, mai riorganizzatasi, era sgominata. Lo stesso Graviano, proprio in quel colloquio intercettato, si lasciò infatti scappare: “Mi arrestarono e finirono tutte cose”. Finì tutto, tranne determinati teoremi che ancora perdurano in alcuni tribunali.

Mafia, il boss Graviano a processo: “Incontrai Berlusconi da latitante tre volte, lui sapeva”. Redazione de Il Riformista il — 7 Febbraio 2020. “Nel dicembre 1993, mentre ero latitante, incontrai Berlusconi a Milano. Berlusconi sapeva come mi chiamavo. E sapeva che ero latitante da dieci anni. Alla riunione ha partecipato anche mio cugino Salvo e con Berlusconi c’erano persone che non conoscevo. Dovevamo discutere dell’ingresso di alcuni soci nelle società immobiliari di Berlusconi”. Lo ha detto il boss di cosa nostra, Giuseppe Graviano, detenuto dal 1994 e condannato all’ergastolo, durante la sua deposizione in videoconferenza nel processo ‘Ndrangheta stragista a Reggio Calabria, in cui è imputato. Graviano, rispondendo alle domande, precisa “da latitante ho incontrato Berlusconi almeno per tre volte. Fu mio nonno ad avere i contatti con gli imprenditori milanesi. Poi, quando è morto mio padre, mi prese in disparte e mi disse ‘Io sono vecchio e ora te ne devi occupare tu’. Poco dopo mio nonno, che aveva più di 80 anni, morì”.

GHEDINI: “FALSO, ASTIO PER LEGGE CONTRO LA MAFIA DI BERLUSCONI” – “Le dichiarazioni rese quest’oggi da Giuseppe Graviano sono totalmente e platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà nonchè palesemente diffamatorie”. Lo afferma Niccolò Ghedini, legale di Silvio Berlusconi, replicando a quanto dichiarato dal boss Graviano, nel corso della sua deposizione in videoconferenza al processo ‘Ndrangheta stragista in corso a Reggio Calabria. “Si osservi – sottolinea Ghedini – che Graviano nega ogni sua responsabilità pur a fronte di molteplici sentenze passate in giudicato che lo hanno condannato a plurimi ergastoli per gravissimi delitti. Dopo 26 anni ininterrotti di carcerazione, improvvisamente il signor Graviano rende dichiarazioni chiaramente finalizzate ad ottenere benefici processuali o carcerari inventando incontri, cifre ed episodi inverosimili ed inveritieri. Si comprende, fra l’altro, perfettamente l’astio profondo nei confronti del Presidente Berlusconi per tutte le leggi promulgate dai suoi governi proprio contro la mafia. Ovviamente saranno esperite tutte le azioni del caso avanti l’autorità giudiziaria”.

LA ‘PERSECUZIONE’ CONTRO BERLUSCONI SULLA MAFIA – L’ex presidente del Consiglio ha alle spalle moltiplici accuse sui presunti legami con la mafia. Nel 1996 venne indagato indagato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, così come negli anni successivi a Firenze e a Caltanissetta in merito alle stragi mafiose del periodo 1992-1994. Tutte le inchieste contro l’ex premier sono state archiviate. Nel 2009 invece Berlusconi venne accusato da un ex collaboratore dei Graviano, Gaspare Spatuzza, di essere stato in contatto con i vertici di Cosa Nostra nei primi anni ’90, ma anche in questo caso le accuse non portarono a nulla.

Il boss Graviano: “Da latitante cenavo con Berlusconi”. Ma i testimoni sono tutti morti. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Febbraio 2020. Giuseppe Graviano sostiene di avere incontrato tre volte Silvio Berlusconi tra gli anni ottanta e novanta. Graviano era considerato uno dei boss importanti della mafia, in quel periodo, ed è accusato di avere partecipato all’uccisione di Falcone e di Borsellino. Il primo incontro con Berlusconi sarebbe avvenuto nel 1983, a Milano, allora Graviano era molto giovane, 30 anni, ma nella mafia le carriere erano veloci. Silvio Berlusconi, attraverso Niccolò Ghedini, ha fatto sapere che la deposizione di Graviano è falsa. Totalmente falsa. Non lo hai mai conosciuto, non lo ha mai incontrato. All’epoca dei presunti incontri Berlusconi era seguito giorno e notte da una scorta della polizia. Graviano non cita un solo testimone vivente di quegli incontri. I testimoni di Graviano o sono morti o sono persone che lui non conosceva e che non può indicare. Fuffa, pura fuffa, dice Ghedini. La deposizione di Graviano è avvenuta durante un processo a Reggio Calabria che si celebra per accertare chi siano i killer di due carabinieri uccisi nel gennaio del ‘94 in un agguato sull’autostrada. Il Pm Lombardo ha interrogato Graviano, che attualmente sconta due o tre ergastoli al 41 bis, e che qualche anno fa era stato intercettato – forse a sua insaputa, forse no – mentre parlava proprio dei suoi rapporti con Berlusconi. La deposizione di Graviano – che in questo processo è accusato di omicidio – ha riguardato poco l’uccisione dei due carabinieri, avvenuta una settimana prima del suo arresto. La cosa forse è stata giudicata meno interessante (ai fini processuali?) del racconto sui suoi rapporti con Berlusconi. Non sono sicuro che avvenga molto spesso che in un processo per omicidio ci si occupi di altre faccende, che non riguardano per niente quel processo e che peraltro, a occhio, non hanno rilevanza penale. Vediamo prima chi è Giuseppe Graviano e poi in cosa è consistita la sua deposizione e quali possono esserne le conseguenze. Graviano è figlio di Michele Graviano, che era considerato il capo della cosca di Brancaccio. Michele venne ucciso il 7 gennaio del 1982 nel corso della famosa seconda e sanguinosissima guerra di mafia, quella scatenata da Totò Riina, capo dei Corleonesi, contro il gruppo dei palermitani, guidato da Gaetano Badalamenti e da Tommaso Buscetta. I corleonesi sterminarono i palermitani, nel 1981; i palermitani reagirono l’anno successivo e la prima vittima riinista sarebbe stato proprio il papà di Giuseppe Graviano. Salto di dieci anni e arriviamo all’anno chiave dell’offensiva della mafia corleonese contro lo Stato. 1992. Nei processi, Giuseppe Graviano è stato condannato per aver partecipato un po’ a tutti gli attentati stragisti di quell’anno e dell’anno seguente. Secondo i tifosi della tesi della trattativa stato-mafia, Graviano sarebbe stato un uomo chiave di questa trattativa, in collegamento con Dell’Utri. In realtà la tesi della trattativa è un po’ confusa, perché ipotizza che sia avvenuta, questa trattativa, con il governo Berlusconi, e cioè nel 1994, quando le stragi erano finite da un pezzo. E di essersi fondata sulla richiesta di abolizione del 41 bis, che invece fu rafforzato. Ora, in questa deposizione, Graviano torna a parlare di Berlusconi. Non parla per la verità di Dell’Utri ma direttamente di Berlusconi, e non parla di trattativa ma di questioni economiche e di investimenti finanziari. Cosa racconta? Un fatto grave e altri fatti innocui. Dice di avere incontrato Berlusconi nel 1993, poco prima di essere arrestato, e mentre era latitante. Berlusconi, durante quell’incontro – gli è stato chiesto dal Pm, che a quel punto aveva dimenticato lo scopo del processo – era consapevole che lui era latitante? Graviano ha risposto di non saperlo, ma di pensare che lo sapesse perché conosceva il suo nome. Quale era lo scopo degli incontri tra Berlusconi e i Graviano (lui e suo cugino Salvo, che ha partecipato a tutti gli incontri con Berlusconi e che era, secondo Giuseppe, il vero tramite tra la famiglia e il cavaliere)? Discutere su come regolarizzare la partecipazione dei Graviano ad alcuni fondi di investimento  intestati a Berlusconi. Pare che fosse soprattutto il cugino Salvo quello interessato a questa faccenda. Il problema era di ufficializzare un investimento realizzato una decina di anni prima dal nonno materno di Graviano, un certo Filippo Quartararo. Che evidentemente era il nonno di Giuseppe, ma non di suo cugino Salvo Graviano e perciò non si capisce bene perché fosse Salvo a occuparsi della questione. Questa operazione era un delitto? No, pare che fosse perfettamente lecita. Anche se Berlusconi nega che sia mai avvenuta e nega di avere mai sentito parlare di questo nonno di Graviano né di questi 20 miliardi. Ma allora, se in tutto questo non c’è ombra di reati (l’unico potrebbe essere la mancata denuncia da parte di Berlusconi della latitanza di Graviano, ma è discutibile che sia un reato e poi sicuramente dopo 30 anni è prescritto) per quale ragione in un processo per duplice omicidio, il presunto killer o mandante viene interrogato su tutt’altro? Sicuramente il racconto di Graviano non ha interesse penale, indubbiamente ha un grosso valore giornalistico. Diciamo che più che di un processo dobbiamo parlare di una conferenza stampa, o di un talk show senza telecamere. Questo forse è il punto.La deposizione di Graviano non avrà conseguenze giudiziarie ma conquisterà i giornali. E permetterà di tornare alla vecchia idea che in fondo Berlusconi c’entra con la mafia. Anche se tra i grandi imprenditori italiani è quello che meno di tutti ha avuto a che fare con la Sicilia. Anche se è l’unico che è stato passato al setaccio per anni e anni, senza risultati, dai migliori magistrati italiani. Anche se è stato intercettato, pedinato e se – comunque – è sotto scorta da quarant’anni, e dunque tutti i suoi movimenti sono monitorati. Infine una piccola testimonianza personale. Mi si dice – la notizia l’ha pubblicata un piccolo giornale siciliano – che nell’intercettazione in carcere, Graviano sostenne che stava per scrivere, con me, un libro di memorie. Non era vero. Nessuno me lo aveva mai chiesto. Un anno dopo – circa – e un po’ più di un anno fa, vennero a trovarmi al giornale dove lavoravo (Il Dubbio) due persone mandate da Graviano, due avvocati credo, che mi proposero effettivamente di scrivere un libro. Dissi di no, spiegai il perché, e la cosa finì lì. Immagino però che effettivamente queste dichiarazioni di Graviano non siano nate all’improvviso. Immagino che da tempo pensa a questa uscita. Non ne immagino invece i motivi.

Attilio Bolzoni per “la Repubblica”l'8 febbraio 2020. I boss lo sapevano che "Iddu pensa solo a Iddu", che lui pensava solo a se stesso. Ma ora il mafioso che - dopo la morte di Totò Riina - custodisce i segreti più segreti di Cosa Nostra - glielo sta rinfacciando a modo suo, come è lui: spietato. Ora, dopo tanti anni di tira e molla, di cose dette e non dette, di messaggi storti, Giuseppe Graviano apparentemente fa saltare il banco e chiede il conto a Silvio Berlusconi su quelli che sono stati i veri o presunti rapporti che l' ex Cavaliere di Arcore ha avuto con la mafia siciliana. Apparentemente. Perché quello che i suoi venerano come una divinità e chiamano "Madre Natura" è un maestro del doppio e anche del triplo gioco. Dice Berlusconi ma può aver mandato messaggi a qualcun altro, in chiaro parla di soldi e di investimenti ma forse in codice parla di stragi. "Madre Natura" interpreta sempre se stesso e forse sta mischiando le carte un' altra volta. Perché lo fa adesso, e in maniera così spudorata e rumorosa, non lo sappiamo. Cosa si aspetti di ottenere, al momento è ancora un mistero. Si sta comunque scoprendo troppo e non è mai stato nel suo stile. Una ragione importante (per lui) sicuramente ci sarà. Anche perché se avesse vuotato il sacco su Berlusconi quando lo arrestarono, le sue dichiarazioni avrebbero fatto esplodere l'Italia. Le parole pronunciate ieri, seppur devastanti, passeranno nel migliore dei casi alla storia probabilmente come una "crisi individuale" del più astuto fra i Graviano. È in ritardo di ventisei anni e un mese "Madre Natura", fermato a Milano nel gennaio del 1994 dopo una soffiata - raccontano i bene informati - di un senatore della Repubblica molto amico di Berlusconi. L' effetto delle sue rivelazioni ci sarà comunque, ma il tempo - si sa - scolorisce tutto. Avremo solo un po' di informazioni in più sui patti fra l' associazione denominata Cosa Nostra e un' imprenditoria rapace, su come è stato costruito un impero economico, sulle trattative indicibili fra "classi pericolose" e poteri in un paese dove si stava fondando la seconda Repubblica. Ma è questo che ci ha voluto comunicare "Madre Natura", è davvero questo? "Iddu pensa solo a Iddu" era la voce che avevano fatto circolare sin da subito in carcere e che poi era stata trasportata fuori, di bocca in bocca, prima sussurrata e poi gridata in quell' inizio degli anni '90. Quando Iddu, Silvio Berlusconi, era diventato per la prima volta Presidente del Consiglio. Iddu capo del governo e loro sepolti come morti vivi al 41 bis, Iddu potente e intoccabile e loro braccati come animali, Iddu sorridente fra i potenti della terra e fra quelle simpatiche signorine un po' scollacciate e loro con tutti i beni sequestrati e gli ergastoli sul groppone. Poi erano arrivati i Graviano, a provare a rimettere ordine. I due fratelli, Filippo e quell'altro, Giuseppe. E, proprio in quel momento, tutti noi abbiamo cominciato a vedere i riflessi lontani di una storia che c'era e non c'era, un gioco degli specchi, un fratello che ammetteva e l'altro che smentiva, il secondo che ricordava e il primo che dimenticava, una volta parlavano di mafia e un' altra di Borsa, in un' udienza si dibatteva sulle stragi e nel processo dopo di «un famoso imprenditore del Nord». Tutto vischioso, indistinto, quasi vero. Quasi. Chiacchiere ricattatorie di gente accusata di avere organizzato stragi e che tentava di coinvolgere il nuovo padrone d' Italia negli affari più loschi, lui e anche l' amico - Marcello Dell' Utri - che lo aveva trascinato nell' arena politica fondando Forza Italia. Ma un "Madre Natura" inedito e fragoroso ha scelto di fare il nome e il cognome di "Iddu" inserendolo nel peggiore dei contesti possibili, quantifica l' investimento di famiglia (quella di Brancaccio) - venti miliardi di vecchie lire con l' interesse del venti per cento - per accreditare la sua versione non esita a chiamare in causa il nonno Filippo e il cugino Salvatore, confessa candidamente di avere incontrato "Iddu" almeno tre volte quando era latitante e già pienamente immerso nelle investigazioni sulle uccisioni dei giudici Falcone e Borsellino. Parole che oltrepassano il già visto e il già sentito. Ma eccessivamente. Una sregolatezza un po' sospetta. Queste parole nel ' 94 avrebbero fatto esplodere l' Italia. Oggi avremo solo un po' di informazioni sui patti tra Cosa Nostra e un' imprenditoria rapace.

Francesco La Licata per “la Stampa” l'8 febbraio 2020. Alla fine il timer sembra essersi fermato e la bomba deflagra. Giuseppe Graviano, mafioso di primo livello tanto da essere soprannominato «madre natura», rompe i freni inibitori che dovrebbero caratterizzare il suo essere «uomo d'onore che non parla mai» e, invece, parla a ruota libera in pieno processo. Tutti eravamo al corrente che i fratelli Graviano (è toccata a Giuseppe la responsabilità di una decisione non facile) costituissero una specie di bomba ad orologeria, pronta ad esplodere quando lo avessero scelto i detentori dell'esplosivo. L'incognita era rappresentata - e continua ad esserlo anche adesso, visto l'andamento e la «sapienza» delle «rivelazioni» - dal quando e perché avrebbero deciso di togliere la sicura all'ordigno. Certo, ce n'è voluto di tempo, visto che era rimasto inerte per più di un quarto di secolo, cioè da quando i fratelli palermitani furono arrestati (1994) a Milano in circostanze davvero strane, come oggi afferma lo stesso Graviano quando invita i magistrati a indagare sulle modalità di quella cattura. Ma ora che l'orologio è saltato non vuol dire che tutto sarà più semplice e decifrabile. Anzi, forse proprio adesso viene il difficile, almeno sino a quando non si troveranno pezze d'appoggio alle parole di Graviano che, senza riscontri, resteranno messaggi cifrati ad uso e consumo di «trattative private» fra il boss e i suoi interlocutori interni ed esterni alla mafia. L'impressione, infatti, è che per un quarto di secolo i capi di Cosa nostra se ne stiano stati buoni e fermi in attesa del miracolo che, purtroppo per loro, non è arrivato, seppellendoli al 41 bis per un tempo che forse è divenuto non più sopportabile. Ma proprio per questo non potranno bastare le semplici affermazioni di «madre natura» che, durante il dibattimento, gli avvocati potrebbero relegare nell'ambito dell'indimostrato, per di più motivato dal rancore verso chi avrebbe dovuto aiutarli e non lo ha fatto. In questo senso potrebbe prendere forma concreta la suggestione che descrive i Graviano molto «destabilizzati» dal recente «evento» che sembra aver rotto il sodalizio fra Berlusconi e Dell'Utri, quest'ultimo amareggiato e deluso dal rifiuto opposto dal cavaliere alla richiesta di testimonianza (leggi aiuto) inviata a Berlusconi. Anche a bomba esplosa, dunque, la presa di posizione del boss di Brancaccio resta un enigma. Forse bisognerà attendere ancora un po' per capire perché Graviano parla e, soprattutto, a chi sta parlando. Non sfugge il sapiente tentativo, utopistico, del boss di tirarsi fuori dal terreno giudiziario rigettando qualunque accusa di stragismo: «Noi non c'entriamo». Ma nello stesso tempo rivolge il dito accusatorio verso indefiniti «industriali di Milano» che non volevano le stragi si fermassero. E a proposito di fermare le stragi, con la consueta malizia di boss navigato invita i giudici a «indagare sul mio arresto». Giuseppe e Filippo Graviano furono catturati nel 1994, all' indomani del fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma (che avrebbe dovuto chiudere il cerchio del «ricatto stragista» di Cosa nostra allo Stato) e alla vigilia delle elezioni politiche che per la prima volta vedevano la partecipazione di Forza Italia. Ciò che non nega, Graviano, riguarda il legame della sua famiglia con Silvio Berlusconi che fa risalire alla fine degli Anni Settanta, quando suo nonno, Filippo Quartararo, «ricco commerciante di ortofrutta venne invitato a investire al Nord perché era in contatto con Silvio Berlusconi». Affari «legittimi» («il legame non era criminale ma economico») che, però, era necessario ufficializzare con carte scritte. Per questo i Graviano si incontrarono con Berlusconi. «Ci siamo incontrati almeno tre volte, anche mentre ero latitante», aggiunge senza rinunciare alla collaudata malizia. E offre particolari: l'Hotel Quark indicato come sede di uno degli appuntamenti e il cugino Salvo testimone, che, come nelle migliori tradizioni dei processi di mafia, è morto e non potrà essere interrogato. Insomma, rimane il dubbio iniziale. Perché Graviano ha tolto la sicura alla bomba ad orologeria? La risposta più immediata è che si è stancato di stare in carcere ad aspettare qualche beneficio che continua a non arrivare, seppure in qualche modo promesso. Le leggi rigide hanno impedito (e non solo per lui ma per tutti i boss di Cosa nostra) qualsiasi attenuazione della pena, qualsiasi deroga all'isolamento (per avere un figlio ha dovuto fare ricorso a un vero e proprio gioco di prestigio che gli ha permesso di ingravidare la moglie dalle sbarre della cella). Ma adesso, con la recente sentenza della Corte europea sull'ergastolo ostativo, si potrebbero aprire spiragli. Un atteggiamento collaborativo del detenuto, anche se non di vera e propria collaborazione, potrebbe favorire provvedimenti premiali anche per i mafiosi. Sarà per questo che Graviano assicura di voler rispondere anche a domande dei magistrati sui suoi famosi colloqui col compagno di cella Adinolfi, «ma solo dopo aver avuto la possibilità di ascoltare le registrazioni». Cosa possibile soltanto se disponesse di un computer, ma chi sta al carcere duro non può avere un pc. Se glielo dessero sarebbe una prima, piccola deroga alle limitazione al regime del 41 bis. Forse, però, potrebbe ascoltare le sue registrazioni sotto il rigido controllo di un pubblico ministero, ma finora questa idea non è venuta a nessuno.

"L'obiettivo di Graviano non è Berlusconi". Intervista a Claudio Fava. II presidente della Commissione Antimafia dell'Ars: "Non mi fido delle sue presunte verità centellinate. Dica perché parla adesso. Si rivolge ai suoi compari in carcere, allo Stato, a pezzi deviati delle Istituzioni?" Federica Olivo il 07/02/2020 su huffingtonpost.it. Perché parla adesso Giuseppe Graviano? E, soprattutto, a chi si sta rivolgendo, a chi sta lanciando il suo messaggio? Per Claudio Fava sono queste le domande a cui bisogna rispondere, o meglio, a cui il boss delle stragi deve dare una risposta. Solo dopo, le dichiarazioni come quella fatta oggi sui presunti incontri - tre, sostiene - avuti con Silvio Berlusconi ormai tanti decenni fa potranno essere prese in considerazione. “Graviano dice che non si fida dei magistrati. Io non mi fido di Graviano”, sostiene il presidente della Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana parlando con HuffPost. “La giustizia non è un mercato. La verità è tale o non è”, tuona Fava, che si chiede chi sia il vero obiettivo delle parole del boss. “Non credo proprio sia Berlusconi”, aggiunge.

Graviano ha dichiarato di aver visto per tre volte, quando era latitante, Silvio Berlusconi, allora imprenditore. Cosa ci dicono le sue parole?

«Premetto una cosa: lui dice che non si fida dei giudici. Io invece non mi fido di Graviano. Non mi fido di verità centellinate, raccontate con tempi, forme e modi discutibili, come se il suo fosse un capriccio, e le sue dichiarazioni rispondessero solo ed esclusivamente ai suoi interessi. Stiamo parlando di verità presunte, tirate fuori a tempo scaduto. Graviano spieghi perché non ha parlato prima. Poi possiamo ragionare».

Perché parla di “verità tirate fuori a tempo scaduto”?

«Perché siamo di fronte a sentenze sulle stragi passate in giudicato, a un depistaggio smascherato. Le sue mi sembrano verità ad orologeria. È come dire “io non c’entro nulla con le stragi. Incontravo Berlusconi per fare affari”».

Il boss davanti al pm ha affermato che potrebbe dire ancora altre cose. A chi si sta rivolgendo?

«Non so a chi stia parlando. Se a un magistrato, se ai suoi compari. Ecco, prima spieghi perché parla proprio adesso. La giustizia non è un mercato, né una soap opera a puntate. La verità è o non è. E, finora, quella di Graviano non è mai stata una verità». 

E allora queste parole cosa significano?

«Secondo me sono messaggi in codice. Lanciati non sappiamo a chi. Graviano sta giocando la sua partita, in modo subdolo e opaco. Poi, chiaramente, può darsi che le cose che sta dicendo siano vere. Ma le forme e i tempi con cui vengono raccontate, per step, mi fanno dire: ‘io non ho alcuna fiducia nel fatto che questo signore abbia buone intenzioni, o buona fede’. Penso, però, che il messaggio che sta lanciando con le sue dichiarazioni non sia rivolto a Berlusconi. I destinatari di queste affermazioni sono altri. Il suo è comunque un linguaggio sgradevole, per le forme in cui arriva. Per le allusioni cui si aggrappa». 

Se non è un messaggio a Berlusconi, a chi parla Graviano?

«Il tema principale di questa vicenda è: qual è l’obiettivo del boss? Io non credo sia Berlusconi.  Penso si stia rivolgendo a gente che è in carcere, o a gente che è fuori. A pezzi delle istituzioni, forse a pezzi deviati delle istituzioni che attorno alle stragi si sono mosse, hanno manipolato, depistato. Graviano ha molte colpe sulla coscienza, ma anche molti segreti indicibili. E fino a quando non dice perché sta parlando proprio ora, io continuerò a non fidarmi di quello che afferma».

Dagospia il 9 febbraio 2020. Estratto del libro “Lo stato illegale” di Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte pubblicato da “il Fatto quotidiano”. La Procura di Palermo del dopo stragi ha vissuto un periodo di grande speranza, man mano che si avvertiva con sempre maggiore chiarezza come importanti strutture di Cosa Nostra stessero cedendo. () La strada si è fatta via via più in salita. E chissà quante opportunità () sono sfuggite. Sullo sfondo un' ipotesi inquietante: che ad aggravare il cambiamento di quadro, già di per sè cupo, abbia potuto contribuire la "trattativa" fra Stato e mafia. () Innanzitutto va chiarito che - secondo la Corte di assise di Palermo - le trattative sono state due. La prima, che si svolge nel biennio 1992-93, vede come protagonisti: dalla parte dello Stato, gli ufficiali del Ros dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno; dalla parte di Cosa nostra, Vito Ciancimino e il medico-mafioso Antonino Cinà, con Salvatore Riina come massimo referente. Destinatari della minaccia sono i governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. () La seconda trattativa, che si svolge fra il 1993 e il 1994 vede come attori principali Marcello Dell'Utri e Leoluca Bagarella, e come destinatario della minaccia il primo governo della Seconda Repubblica, quello di Silvio Berlusconi. Secondo la ricostruzione dei giudici, Dell'Utri si propone e si attiva come interlocutore dei capi di Cosa nostra per una serie di benefici a favore dell'organizzazione mafiosa. E agevola lo sviluppo della trattativa, rafforzando il proposito mafioso di rinnovare la minaccia delle stragi e favorendo la ricezione di tali minacce da parte del governo presieduto da Berlusconi. A sua volta Bagarella, utilizzando come tramiti Vittorio Mangano (lo "stalliere di Arcore") e Dell' Utri, avrebbe inoltrato a Berlusconi una serie di richieste finalizzate a ottenere alcuni benefici riguardanti la legislazione antimafia e l' attenuazione del carcere duro per i mafiosi reclusi. () I giudici confermano così il ruolo di "cinghia di trasmissione" di Dell' Utri fra Cosa Nostra e l' ex premier. E anche se "non v'è e non può esservi prova diretta sull'inoltro della minaccia da Dell' Utri a Berlusconi (perché ovviamente soltanto l' uno o l' altro possono conoscere il contenuto dei loro colloqui)", ci sono tuttavia "ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell'Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l'associazione mafiosa Cosa Nostra mediati da Vittorio Mangano". La prima di queste ragioni logico-fattuali è costituita - secondo la Corte - dall' esborso, da parte delle società di Berlusconi, "di ingenti somme di denaro poi effettivamente versate a Cosa nostra. Dell' Utri, infatti, senza l' avallo e l' autorizzazione di Berlusconi, non avrebbe potuto, ovviamente, disporre di così ingenti somme da recapitare ai mafiosi". Ma fino a quando Berlusconi avrebbe pagato esponenti della mafia? Nel precedente processo a carico di Dell' Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, il fatto che Berlusconi pagasse Cosa nostra era considerato dimostrato solo fino al 1992, prima dell' inizio delle stragi e del successivo impegno politico dell' imprenditore. Invece - stando alla valutazione della Corte di assise della trattativa - tali pagamenti proseguono "almeno fino al dicembre 1994". () Un' altra ragione logico-fattuale che i messaggi di Cosa Nostra fossero pervenuti al governo sta nel fatto che - secondo la Corte - in almeno una occasione il primo esecutivo guidato da Forza Italia avrebbe portato avanti iniziative legislative favorevoli a Cosa Nostra. E Cosa Nostra venne informata prima ancora degli stessi ministri del governo Berlusconi.

Giovanni Falcone: «La Gladio e la P2 estranee ai delitti eccellenti». Damiano Aliprandi il 7 febbraio su Il Dubbio. Dalle indagini condotte da Giovanni Falcone emerge che per l’esecuzione degli omicidi Cosa nostra non prese ordini da nessuno. In questi settimane alcuni giornali hanno dato notizia del rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di custodia cautelare per i boss Nino Madonia e Gaetano Scotto. Si tratta della richiesta fatta dalla procura generale di Palermo per l’omicidio dell’agente Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio. Parliamo di una brutta storia dove giustamente i familiari ancora gridano giustizia. Antonino Agostino, detto Nino, era noto come “il cacciatore di latitanti”. Agente della questura di Palermo, stava indagando sul fallito attentato al giudice Giovanni Falcone sulla spiaggia dell’Addaura, dove era stato abbandonato un borsone contenente tritolo. Ma in questa occasione, ancora una volta, parlando dei “delitti eccellenti” si ripescano interrogatori di Giovanni Falcone a un estremista di destra palermitano, Alberto Volo, definito un mitomane in più di una sentenza. Volo parla di Gladio, dice addirittura di far parte della “Universal legion”, una struttura legata ai servizi segreti che assomigliava molto a Gladio e arriva a mettere in relazione i delitti di Palermo con l’omicidio Moro, i servizi segreti e la massoneria. In un giornale, riesumando questa vicenda, scrive nero su bianco che quegli interrogatori dicono molto della grande attenzione di Falcone per le parole di Volo. Ma non è così. O meglio, l’attenzione l’ha data, perché il giudice antimafia per eccellenza aveva il difetto di vagliare attentamente le dichiarazioni dei pentiti o testimoni. Sapeva essere razionale, saper separare i deliri dalle dichiarazioni verosimili. Legittimo che un giornalista o magistrato inquirente ritenga che i racconti di Volo siano degni di nota, non corretto però far credere che Falcone prendesse in considerazione i suoi racconti. Cosa pensava di lui? Basta leggere gli atti e la sua relazione in merito al delitto di Piersanti Mattarella. «La palma del “migliore” se così si può dire – scrive Falcone -, spetta certamente ad Alberto Volo. Nei suoi racconti egli è capace di accomunare idee politiche e tarocchi, contatti con servizi segreti e vicende amorose. La vicenda nella quale è implicato esalta la sua mania di protagonismo. Vale la pena di rilevare immediatamente come il comportamento del Volo in questo processo risponda a quel ruolo fantastico e delirante del quale l’imputato ha deciso di connotare ogni momento della sua esistenza». Poi Falcone prosegue con un esempio: «Basta al riguardo aver riferimento alle notazioni contenute nella sentenza 24.5.1977 della Corte d’Appello di Palermo (con la quale il Volo fu condannato per una rapina di assegni bancari che l’imputato “pretendeva” poi di rivendere); ovvero alla lettera anonima da luì spedita alla Questura dì Palermo e nella quale si autoaccusava di far parte di organizzazioni eversive: lettera il cui intento era quello di sollecitare gli inquirenti a “non trascurarlo” nell’ambito della indagine sulla strage di Bologna». Ma quindi Falcone ha preso in considerazione Alberto Volo su quale aspetto? Presto detto. «Deve essere chiaro – spiega sempre Falcone-, peraltro, che dietro alle “mitomanie” ed al “protagonismo” del Volo(e che lo inducono alle più distorte e talvolta fantasiose ricostruzioni dei fatti ) sta comunque il suo inserimento, quantomeno a livello conoscitivo, nella realtà umana della destra eversiva. La frequentazione del Mangiameli lo ha portato a sapere molto dei fatti legati al terrorismo ed anche dei progetti in atto». In sostanza Falcone è riuscito a separare la mitomania da alcuni fatti che lo stesso Volo poteva conoscere avendo appunto frequentato la destra eversiva. Cosa sta a significare? Può essere utile una citazione messa a epigrafe del libro “Complotto!” scritto a quattro mani da Massimo Bordin e Massimo Teodori. Si tratta quella di Mordecai Richler: «Il mio problema con i teorici della cospirazione è che, se gli dai un dito di porcherie accertate, loro si prendono tutto un braccio di fantasie. O peggio». Tutto qui. La differenza con chi è affetto della patologia dei complottisti, è che Falcone sapeva distinguere i fatti concreti dai racconti fantasiosi. Sul delitto Mattarella è stato chiarissimo. Lui parla di delitto “politico mafioso” e gli esecutori materiali, che secondo lui erano i nar (ma dove, a quanto pare, non era fermamente convinto ascoltando non solo la testimonianza di Valerio Fioravanti, ma anche quello di Pietro Grasso), avrebbero fatto semplicemente da manovalanza e non ha nulla a che fare con Gladio o P2. Lo mette nero su bianco prendendo spunto proprio dalle dichiarazioni di Volo, il quale disse che «l ‘omicidio era stato deciso a casa di Licio Gelli e provocato dalle aperture al Pci che in quel periodo stavano maturando in Sicilia e di cui il Mattarella era il principale sostenitore. Per compiere l’omicidio, Gelli si avvalse di sua “manovalanza” e cioè di giovani come Fioravanti e Cavallini, quest’ultimo in particolare, legato ai servizi segreti». Falcone ha vagliato quindi anche questa ipotesi e l’ha scartata in pieno. Si convince che la «la valutazione negativa di Fioravanti come killer della P2 nasce nell’ambiente di Terza Posizione, soprattutto dopo l’omicidio di Mangiameli» e che «i rapporti presunti tra Fioravanti e Gelli non costituiscono oggetto di cognizione diretta, ma vengono dedotti dai rapporti tra Valerio e Signorelli, ritenuto in contatto con Gelli per tramite di Aldo Semerari». Falcone scarta questa ipotesi e ciò per «l’irriducibile vocazione di Cosa Nostra a salvaguardare la propria segretezza e la propria assoluta indipendenza da ogni altro centro di potere esterno». Questo è ciò che pensava Falcone e la casuale dell’omicidio di Mattarella la ritrovava nelle sue scelte politiche ben precise, soprattutto sulla questione dell’aggiudicazione degli appalti che avrebbero messo in difficoltà il potere mafioso legato soprattutto a una determinata corrente politica della ex Dc. Ma Falcone ha vagliato anche il discorso Gladio. Dopo la pubblicazione da parte dell’ex presidente del consiglio Giulio Andreotti della sua esistenza e dopo le notizie stampa che parlarono di attività deviate della stessa, il giudice Falcone ha esteso le indagini anche al Sisde e non ha trovato nulla che portasse alla pista Gladio, tranne che rinvenire un appunto dei servizi concernente uno dei presunti killers di Mattarella, ma palesemente estraneo ai fatti. Però ha potuto appurare che l’estremista Alberto Volo non ha mai avuto contatti con Gladio e servizi, nonostante le sue dichiarazioni, anche televisive. E quindi si ritorna alla questione principale. Che senso ha, ancora oggi, scrivere che Giovanni Falcone aveva grande interesse per le vicende raccontate da un mitomane che invece aveva prontamente smascherato?

L’assoluzione di Mannino ha cancellato il vecchio teorema Mafia-Dc. Giuseppe Gargani il 7 febbraio 2020 su Il Dubbio. La sentenza della Corte di Appello di Palermo del 20 gennaio 2020 ha prosciolto l’ex ministro democristiano perché “il fatto non sussiste”. La sentenza della Corte di Appello di Palermo del 20 gennaio 2020 ha dichiarato la assoluzione dell’ex ministro Mannino perché “il fatto non sussiste ”, formula che di per sé indica la pretestuosità del processo il quale non doveva essere celebrato in mancanza appunto del “fatto”. La straordinaria notizia è stata pubblicata e commentata da pochissimi organi di stampa, ignorata dai grandi giornali, ma non può essere dimenticata perché con le sue ineccepibili motivazioni la sentenza ha cancellato trent’anni di teoremi arbitrari e inconsistenti che accreditavano la contiguità di un partito con la delinquenza organizzata. Negli ultimi mesi, con sempre più insistenza si discute di un ruolo politico anomalo che la magistratura ha assunto, non in linea con la Costituzione per cui ci troveremmo in presenza di una Repubblica giudiziaria. Alcuni di noi hanno evidenziato questa anomalia dagli anni 80 e hanno, inoltre, espresso critiche anche forti per la delega che il legislatore ha concesso al potere giudiziario il quale si è assunto l’onere! di adottare, con le sentenze, decisioni che spettano al potere legislativo. Così è avvenuto dagli anni 90 per Tangentopoli e così è avvenuto per “mafiopoli“. Oggi a distanza di tanti anni possiamo dire che le indagini di Tangentopoli hanno avuto conferma nelle sentenze dei giudici soltanto per il 30 / 31% non costituendo prove per una possibile condanna; e che le indagini per “mafiopoli”, soprattutto con la sentenza dell’onorevole Mannino, sono state considerate fasulle, con una sconfitta dei pubblici ministeri che si sono succeduti nel tempo e con una condanna del loro comportamento. Per queste ragioni la sentenza non può essere dimenticata perché non riguarda solo la persona di Mannino, che forse dopo trent’anni può ritrovare un po’ di serenità! nel suo animo lacerato, ma riguarda il partito della DC in primo luogo e larga parte della classe dirigente che insieme a Mannino in questi lunghi anni hanno combattuto in tutti modi la delinquenza organizzata. Dobbiamo prendere atto, dunque, sia pure nell’anomalia prima denunziata, che i giudici hanno fatto giustizia della magistratura inquirente e hanno interpretato gli avvenimenti con il dovuto rigore logico. È doveroso dare atto al collegio della Corte d’Appello del difficilissimo lavoro svolto e della grande intelligenza nell’aver interpretato i fatti reali districandosi in una selva di supposizioni, di illazioni e di false testimonianze alimentate per trent’anni da teoremi bislacchi che sono serviti soltanto ad inquinare il clima sociale. L’onorevole Mannino dunque non è innocente, è estraneo, è “vittima della mafia”; ha rappresentato il partito nella sua costante battaglia in Sicilia e in Italia, e ha allontanato dal partito le posizioni compromesse o contigue con la mafia. A questo punto la domanda è: come è potuto avvenire tutto ciò, come è stata possibile una deviazione delle indagini così smaccata da rendere martiri alcuni servitori dello Stato e da distorcere il significato degli avvenimenti in maniera così “illogica”! Per rispondere a questa domanda, prima di fare alcuni commenti doverosi sulle motivazioni della sentenza, è necessario dare alcune spiegazioni su un piano più generale. Bisogna rendersi conto di quello che è avvenuto sin dagli anni 70/ 80 nel rapporto tra politica e giustizia per capire come sia stato possibile negli anni 90 una resa del potere politico e addirittura una sorta di sua rinunzia ad esercitare una funzione di indirizzo, di mediazione e di riferimento per le aspettative dei cittadini che hanno alimentato l’antipolitica e hanno avvilito le istituzioni Le indagini dei pubblici ministeri hanno consentito una utilizzazione politica dell’operato della magistratura e le questioni giudiziarie hanno alimentato lo scontro politico. La distinzione tra giustizia e politica è una conquista della civiltà del diritto, che ha consentito l’evoluzione dello Stato democratico e il rapporto tra giustizia e libertà, tra giustizia e diritto, ed è coretto se fa riferimento alla cultura della divisione dei poteri. Nella cultura italiana bisogna riconoscerlo e in maniera più marcata anche oggi, esiste una tendenza ad allontanarsi dalla civiltà liberale, il che si riflette nelle istituzioni e nella giustizia. Sin dagli anni ‘ 80, dunque, vi è stata una crisi del rapporto tra potere politico e potere giudiziario perché il rapporto tra i due poteri andava perdendo sempre più le caratteristiche istituzionali e accentuava gli aspetti politici e partitici. Alcuni di noi, pochi in verità, hanno fatto battaglie per scongiurare un grave pericolo, quello di un’intesa tra limitati settori della magistratura politicizzati e i partiti della sinistra, del PCI in particolare, che, inseguendo una strategia giudiziaria per la conquista del potere hanno influenzato l’azione dei giudici, immaginando di sconfiggere i partiti della maggioranza – non essendo riusciti a sconfiggerli con il confronto elettorale. La conclusione è appunto che quella che viene definita come “rivoluzione giudiziaria” altro non è stata che una banale e incerta volontà di conquista del potere da parte di una sinistra che, rinunziando a fare una profonda revisione culturale e politica della propria storia, ha rinnegato genericamente il marxismo ma ha enfatizzato e utilizzato il giustizialismo per cavalcare la “questione morale”, immaginando di consolidare la sua posizione come partito del popolo. Insomma, dopo le sconfitte degli ultimi cinquant’anni la sinistra italiana ha ritenuto di legittimare la sua presenza su una presunta diversità morale riconosciuta da minoranze giudiziarie molto attive e dalla stampa delle grandi famiglie faziosamente schierate per garantire una loro impunità. Troppo poco per chi pretendeva di governare stabilmente un paese industrializzato come l’Italia! e infatti il tentativo è fallito. È dunque questa la premessa culturale che ha consentito una funzione della magistratura fuori dalle regole istituzionali, ideologizzando il suo ruolo come un ruolo politico non al di sopra delle parti...La classe dirigente politica ha assistito in maniera passiva e remissiva o compiaciuta, aggravando ancora di più la situazione e allontanando ancora di più i cittadini dalle istituzioni. Il magistrato Falcone è stato l’unico che ha denunziato ad alta voce questo metodo, e per questo è stato osteggiato: egli aveva con lucidità il quadro della situazione e ha manifestato tante sue considerazioni che io ho riportato nel 1998 in un libro intitolato “In nome dei pubblici ministeri” ispirato anche da quello che lui mi diceva. È estremamente istruttivo riportare alcuni passi di quel libro che avrebbero dovuto ispirare le indagini giudiziarie e che oggi appaiono rivelatrici della lungimiranza di Falcone. Il quale esprimeva giudizi durissimi sui reati associativi, perché credeva nelle indagini che producono prove, e cercava riscontri materiali delle dichiarazioni verbali. Falcone immaginava il concorso esterno all’organizzazione mafiosa, come presupposto per un processo nel quale bisognava contestare reati concreti di attività mafiose. Nel suo intervento contro la zona grigia contigua alla mafia, ha evitato sempre eccessi inquisitori rivelando, che il “partito istituzionale dei pm” venerano il famoso e idolatrato art. 416 bis come fosse l’unico presidio nella lotta alla mafia”. “Non si potrà ancora a lungo”, diceva più avanti, "continuare a punire il vecchio delitto di associazione in quanto tale, ma bisognerà orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici.” Per essere ancora più chiaro, Falcone aggiungeva una smentita categorica del cosiddetto “terzo livello” perché “non esiste ombra di prova o di indizio che suffraghi l’ipotesi di un vertice segreto che si serve della mafia, trasformata in un semplice braccio armato di trame politiche”; aggiungeva ancora che: “le indagini ostinate sul “terzo livello” rallentano quelle nei confronti della mafia vera e propria”. Quanto descritto, quasi con rabbia, da Giovanni Falcone è esattamente quello che è successo a Calogero Mannino il quale non avrebbe mai potuto immaginare che Mannino sarebbe stato accusato di concorso con la mafia. L’on. Mannino ha subito vari processi per concorso con la mafia che la Cassazione già nel 2005 ha cancellato con motivazioni limpide, accogliendo la richiesta del Procuratore Generale che dichiarò che nella sentenza della Corte d’Appello di Palermo “non c’è nulla” e “la sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli editori giudiziari!” Ma i pubblici ministeri sconfitti nel 2010 hanno continuato le loro iniziative coinvolgendo Mannino della trattativa tra lo Stato e la mafia di cui abbiamo parlato all’inizio e le motivazioni della sentenza del gennaio scorso sono esemplari e indicative. La sentenza stabilisce che Mannino non è finito nel mirino della mafia a causa di sue presunte e indimostrate promesse non mantenute ( addirittura, quella del buon esito del primo maxi processo! ) ma, al contrario, è stato vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a “cosa nostra” quale esponente del governo nel 1991." "Scrivono i giudici che è “indimostrato il dato fattuale, la tesi della procura con riguardo alla posizione del Mannino ( in ordine all’input della trattativa ed allo specifico segmento della veicolazione da parte sua della minaccia allo Stato) si appalesa non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti, con la quale non combacia da qualunque punto di vista la si voglia guardare". Quindi per la Corte d’Appello di Palermo è stata acclarata l’assoluta estraneità di Mannino da tutte le condotte materiali contestategli a prescindere da una valutazione più complessiva – sia dal punto di vista della ricostruzione storica, sia di quella giuridica che della cosiddetta trattativa Stato – mafia". Se i pubblici ministeri avessero ascoltato la lezione di Falcone e avessero valutato attentamente le varie deposizione nei processi tra le quali quelle mie personali, di una persona cioè che ha seguito con attenzione e rispetto tutta l’attività politica di Mannino, avrebbero capito che in Parlamento e al Governo egli era il regista delle iniziative legislative e delle misure governative contro la mafia organizzata e i processi non andavano celebrati perché i “fatti” non esistevano. La sentenza va approfondita, e commentata perché contribuisce a scrivere la storia giudiziaria e dunque la storia politica del nostro paese. La Fondazione giuridica che ho l’onore di presiedere organizzerà un seminario per spiegare la vera storia politica e i comportamenti dei partiti, rifiutando una condanna generica e ingiusta della classe dirigente dell’epoca.

La difesa di Mori: “Acquisire l’intervista in cui Di Pietro svela i retroscena di via d’Amelio”. Il Dubbio il 10 febbraio 2020. L’ex pm di Mani pulite aveva spiegato che il movente dell’omicidio Borsellino sarebbe da ricondurre al suo interessamento al dossier mafia e appalti redatto dagli ex-Ros. La difesa degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno ha richiesto alla corte d’appello di Palermo, dove si sta celebrando il processo sulla presunta trattativa Stato Mafia, l’acquisizione di alcuni documenti. Il primo riguarda la sentenza d’assoluzione di Calogero Mannino dove i giudici hanno demolito il teorema della trattativa. Mannino non solo non ha commesso il fatto, ma è il fatto stesso a non esserci stato. Altra acquisizione richiesta è l’intervista che l’ex giudice di Mani Pulite Antonio Di Pietro ha rilasciato recentemente all’Espresso. Un’intervista che integra la deposizione già resa dal medesimo davanti alla corte. Di Pietro, nell’intervista, ha parlato della nascita della sua inchiesta, che si interromperebbe quando arriva alla connessione mafia – appalti; e racconta delle carte e di documenti di cui è in possesso, e che vorrebbe divulgare: “Sembra di vedere la storia del mondo capovolto, ma ci sarà un momento per rivalutare questa storia. Ci sarà. Mani pulite non l’ho scoperta io: nasce dall’esito dell’inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il gruppo Ferruzzi e la mafia. E Falcone dà l’incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui viene trasferito”. Un dossier al quale si sarebbe interessato Palo Borsellino. Secondo Di Pietro, quest’ultimo fu ucciso proprio per questo: “Non per il maxiprocesso insieme a Falcone, ma perché insieme a Falcone doveva far nascere Mafia pulita”. Secondo Di Pietro “Mani pulite” fu la conseguenza di “Mafia pulita”. Di Pietro ha anche ribadito nell’intervista che “sarebbe potuto finire in manette, proprio mentre stava per arrivare alla cupola mafiosa, “grazie alle dichiarazioni che mi aveva fatto il pentito Li Pera su un certo Filippo Salamone, imprenditore agrigentino intermediario tra il sistema mafioso e il sistema imprese-appalti, il nord che veniva gestito soprattutto da Gardini e dalla Calcestruzzi spa di Panzavolta”. Oltre a questo l’avvocato Basilio Milio, che rappresenta la difesa di Mori, ha chiesto l’acquisizione anche di una sit del magistrato Davigo riguardante una sua dichiarazione su Francesco Di Maggio, l’allora vice capo del Dap e che secondo la tesi sulla trattativa lui sarebbe stato il braccio operativo dei ros per ammorbidire il 41 bis. Tesi, ricordiamo, decostruita da diverse sentenze, non ultima quella di Mannino. Il procuratore generale si è opposto all’acquisizione dei documenti, mentre il giudice Angelo Pellino deciderà alla prossima udienza che si terrà il 2 Marzo. Nel frattempo, invece, la difesa di Massimo Ciancimino ha chiesto la prescrizione subentrata “già prima della sentenza di primo grado”. Gli avvocati esplicitato la loro richiesta al giudice sottolineando che la prescrizione sarebbe già subentrata “prima della sentenza di primo grado”. Sì, perché secondo i legali, i giudici del primo processo avrebbero utilizzato impropriamente i giorni di astensione per lo sciopero degli avvocati. “Non avremmo mai immaginato di dover computare nei termini di sospensione della prescrizione anche tutte le astensioni proclamate dalle Camere Penali a prescindere dalle nostre dichiarazioni di astensione, visto che l’udienza in cui avremmo dovuto manifestare la nostra volontà di aderire o meno, non veniva proprio calendarizzata né tantomeno celebrata”, denuncia l’avvocata Claudia La Barbera.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La Strage di Alcamo Marina.

Strage di Alcamo, parla Natoli il giudice che assolse Gulotta: “Capii subito che era innocente”. Giorgio Mannino de Il Riformista il 18 febbraio 2020. «Vi erano già fortissimi dubbi, durante il processo di primo grado, sulla presunta colpevolezza dei giovani accusati di essere gli esecutori della strage di Alcamo Marina». Riavvolge il nastro della memoria Gioacchino Natoli, all’epoca giudice a latere della corte d’Assise di Trapani, presieduta dal presidente Giuseppe De Maria. Che condannò Giovanni Mandalà e assolse per insufficienza di prove Giuseppe Gulotta, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli. Quest’ultimi furono poi condannati in appello e in Cassazione. Un eccidio, quello della casermetta di Alcamo Marina in cui il 27 gennaio 1976 vennero uccisi i due carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, rimasto senza colpevoli perché, molti anni dopo, nuovi processi – grazie alle dichiarazioni del carabiniere testimone Renato Olino – revocarono le condanne. Le prove furono viziate da abusi di ogni genere e confessioni estorte con la tortura. Una frode processuale che a seguito di un depistaggio ha allontanato la verità e consumato le vite di giovani innocenti. Mandalà, dopo anni di carcere, morì di morte naturale, Santangelo e Ferrantelli si rifugiarono in Brasile. Gulotta non fuggì e scontò ingiustamente 22 anni di carcere. Martedì scorso è stato audito in Commissione Antimafia. Dottore Natoli, per la prima volta il caso della strage di Alcamo Marina approda in Commissione Antimafia. Tutto quello che si può fare per risalire alla scoperta della causale di questo gravissimo fatto di sangue è utile. Anche se a distanza di oltre quarant’anni non credo sia facilissimo scoprire quello che non si è riusciti a scoprire fino a ora. Sarebbe utile che si riprendessero le indagini, ammesso che siano mai state interrotte, in ambito investigativo giudiziario.

Le piste battute sono state tante: da Cosa Nostra a Gladio fino ad arrivare ai gruppi eversivi neofascisti. Lei che idea si è fatto?

«La strage di Alcamo Marina, insieme ai mandanti degli omicidi politici Reina, Mattarella e La Torre e ad altri importanti fatti di sangue, sono buchi neri su cui nessuno ha saputo fare luce. Neanche i collaboratori di giustizia che la procura di Palermo ha messo insieme nel corso degli anni, hanno saputo dire nulla di utile, ad esempio, proprio sulla strage della casermetta. Questo porta a pensare che Cosa Nostra non abbia avuto nulla a che vedere con quell’eccidio. Sugli altri motivi non avanzo ipotesi, mi limito a registrare i fatti tragicamente oggettivi».

Quali?

«Le originarie confessioni vennero estorte con torture. Noi avevamo avuto forti dubbi sulla bontà di quelle dichiarazioni, tanto che i tre giovani vennero assolti. Ricordo che dopo la confessione resa davanti ai carabinieri, in assenza di un difensore, appena ebbero contatto con l’autorità giudiziaria cominciarono a protestare la loro innocenza. Inoltre rilevammo durante un’ispezione della casermetta di Sirignano, luogo delle torture, che nei locali, qualche settimana dopo i fatti, vennero eseguiti lavori di ristrutturazione totali che cambiarono perfino l’ubicazione delle stanze. Questo venne ritenuto importante perché uno dei tre giovani, pur incappucciato, ricordava esattamente la disposizione dei vani. Ci venne detto che si trattava di una normale opera di ammodernamento dei locali. Questi elementi hanno indotto la Corte d’Assise a ritenere che vi fossero forti dubbi sulla colpevolezza di Gulotta, Santangelo e Ferrantelli. La condanna di Mandalà, invece, derivava dal fatto che su una sua giacca vennero rinvenute tracce di sangue provenienti dal corpo di Carmine Apuzzo e oggetti che provenivano dalla casermetta».

Però la magistratura ha consegnato alla storia colpevoli che trent’anni dopo si sarebbero rivelati innocenti: cosa pensò dopo la sentenza del processo d’appello?

«Ho preso atto della diversa opinione dei colleghi che hanno giudicato secondo prove a quel tempo ritenute fondamentali. Poi a distanza di trent’anni ho registrato che la decisione che avevamo assunto in primo grado era quella più corretta. Ma non possiamo giudicare con i “se” o con i “ma”. Bisognerebbe sapere, invece, per quale motivo Renato Olino abbia atteso tanto tempo per presentarsi ai magistrati e fare la propria ammissione. Mi sembra che sia stato un atto di resipiscenza tardiva, avvenuto quando gran parte del danno era già fatto, quando la vita di Gulotta era già stata rovinata».

Avremo mai, secondo lei, una verità completa sulla strage?

«Me lo auguro. L’Italia è contrassegnata da una serie di stragi che devono ancora essere approfondite. Con la speranza che, come nel caso Olino, qualcuno che è a conoscenza dei fatti, si decida di dire la verità».

Facebook il 28 dicembre 2019. Ore 18.00. Stefano Santoro‎ a GIUSTIZIA PER APUZZO E FALCETTA. È vergognoso, scandaloso che debba essere io a cercare la verità e fare indagini. Vi faccio leggere la email che ho inviato a Renato Curcio, e che a distanza di alcune settimane, ovviamente non ha ricevuto risposta. Io non mi fermo con la mia inchiesta, e vado avanti. ...L'Italia è marcia e ancora peggio è la sua l'assuefazione....

Gentile professore Curcio, sono Stefano Santoro e le scrivo da New York. Sono un operatore video freelance . Da circa quattro anni, mi sto occupando di una vicenda del 27 gennaio 1976, quando ad Alcamo Marina in provincia di Trapani, furono uccisi due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. La vicenda è tornata di attualità , dopo che un ex carabiniere, facente parte dell'anti terrorismo di Napoli, agli ordini del capitano Pignero, ha rivelato che tal Giuseppe Vesco, fu torturato dai carabinieri, durante il suo interrogatorio. Provato ciò, tutti gli accusati nel 2012 sono stati assolti e risarciti. Mi sono occupato di questa vicenda, perchè ho scritto un film, con la storia romanzata. Ho prestato parecchia attenzione a tal Giuseppe Vesco, che un mese dopo la strage fu trovato in possesso di due pistole, una era l'arma che aveva ucciso i due suddetti carabinieri. Lo stesso Vesco fu poi trovato impiccato nel 77 al carcere di Trapani. Dopo la strage erano arrivate delle rivendicazioni da parte di fantomatiche Br, che poi per tre volte sono state smentite da altrettanti comunicati da parte delle BR. Di recente ho letto una deposizione dell'avvocato del Vesco, al processo di revisione dei ragazzi, del 2012, e l'avvocato smarcandosi dalle domande del presidente della corte, disse che Vesco (nel testo erroneamente è scritto Vescovo) aveva una corrispondenza con lei , ovvero uno scambio di lettere. Si disse nel 76 che Vesco, fece questa incursione nella casermetta dei carabinieri, perchè mirava a creare un gruppo Br in Sicilia. Le cronache riportano che lei fu arrestato il 18 Gennaio del 1976. Non so se lei ricorda questo ragazzo, o se corrisponde a verità che Vesco avesse rapporti con lei. Ho chiamato alla cooperativa sensibili alle foglie e mi hanno detto che lei non ama troppo parlare al telefono e mi hanno consigliato di mandarle una email. La vicenda è molto lunga. La ringrazio per la cortese attenzione e spero che lei possa contribuire a fare chiarezza su questo episodio. Le allego stralcio della dichiarazione dell'avvocato Lauria. Stefano Santoro

FU UN ASSASSINIO SU COMMISSIONE? Forse una svolta nel barbaro eccidio di Alcamo. Da indiscrezioni confermata questa ipotesi -1 due CC sarebbero stati uccisi per caso dai malviventi che preparavano un sequestro. Sembra che il personaggio preso di mira fosse l’on. Sinesio, grosso esponente DC - Lo strano comportamento di «Dino u pazzu». Vincenzo Vasile martedì 17 febbraio 1976, pag. 5, L’Unità. C’è una svolta nelle indagini sul barbaro eccidio dell'appuntato Salvatore Falcetta e dell'allievo Carmine Apuzzo, trucidati a pistolettate la notte del 27 gennaio dentro la casermetta di Alcamo Marina: così sembra, stando alle indiscrezioni che circolano alla vigilia della presentazione al magistrato del rapporto elaborato sulla vicenda dal nucleo investigativo dei carabinieri, prevista per domani. Naturalmente, visti i precedenti. bisogna prendere tutto co' beneficio dell'inventario. Però — a quanto sembra — sarebbe innanzitutto ormai i accertato che non era semplicemente «dimostrativo» lo scopo prefissato dal commando composto da Giuseppe Vesco, Giuseppe Ferratelli, Gaetano Sant' Angelo, Giovanni Gulotta e Giovanni Mandala, con l'uccisione dei due militari e l'irruzione. quella tragica notte, nel posto fisso della frazione balneare semideserta di Alcamo. Circola voce. anzi, che il massacro dei due carabinieri sarebbe avvenuto praticamente «per caso» e che cioè uccidere i due militari sarebbe divenuto necessario, una volta che uno dei due carabinieri, svegliatosi di soprassalto, aveva riconosciuto alcuni degli intrusi. La banda — si dice — nella stazione di Alcamo Marina, in realtà, cercava armi, bandoliere, divise e pilette rifrangenti. Quanto occorreva ad un regista accurato — con tutta probabilità esterno al gruppo di « mezze figure » che «sinora sono state individuate — per predisporre un tranello, un sequestro. Dal formicaio di voci che sembra essersi scoperchiato, è uscito anche un nome, quello di un esponente democristiano, il sottosegretario ai trasporti, Giuseppe Sinesio, che sarebbe il « grosso personaggio » da rapire, di cui si è insistentemente parlato in queste ore. In serata, comunque, questa circostanza è stata « fermamente smentita » dagli investigatori. Nel rapporto che sarà consegnato domani all'autorità giudiziaria, figurerebbero. comunque, oltre ai nomi dei cinque, anche altre due o tre persone sulla cui identità, per non intralciare l'inchiesta, vice il riserbo. Ed il fatto è che. indiscutibilmente, delle svariate versioni interpretative che sono circolate in questi giorni sul massacro di Alcamo, nessuna ancora soddisfa e convince pienamente. C'è financo chi ha parlato, a proposito dell'eccidio, di un «delitto gratuito ». Ma come pensare che un «raptus» » inconsulto abbia condotto questi quattro ragazzi e questo botta-sofìsticatore di vini dentro la casermetta di Alcamo Manna ad uccidere, con tecnica da professionisti i due carabinieri? Le «arance meccaniche » non crescono facilmente in una zona di solidi equilibri mafiosi come questa. «La Mafia non c’entra» ha sostenuto qualcuno degli inquirenti all'indomani dell’eccdio. con una fretta ed una sicumera che appare eccessiva, pensando solo a questo scenario che è, come testimonia anche l'inconfondibile « identikit » del p:ù anziano dei banditi, il 34enne sofisticatore di v.ni di Partinico. Giovanni Mandalà, lo scenario ben noto di una zona dove arricchimenti rapidi, violenza criminale, equilibri politici, fortune elettorali recano spesso un'unica matrice mafiosa. I dubbi non sono affatto dissipati: tre delie quattro confessioni, come si ricorderà sono state ritrattate. I giovani arrestati hanno addirittura lanciato accuse contro i carabinieri. Hanno detto di essere stati picchiati, costretti a firmare. Al verbale che è all'esame del magistrato, è stata aggiunta questa dichiarazione di Vincenzo Ferrandoli: « E" tutto falso: mi hanno messo in testa un cappuccio. m'hanno condotto fuori della caserma e hanno detto: ora ti fuciliamo ». I carabinieri hanno replicato sostenendo che gli interrogatori si sarebbero svolti alla presenza dei difensori d'ufficio. Ma rimane ancora da spiegare come e perché, se il fermo di Vesco — quello che ha confessato per primo — e avvenuto mercoledì, la procura e stata lasciata all'oscuro di tutto sino al giorno dopo. « C'è una banda — commenta stupito un investigatore — che si macchia d'un delitto casì infame correndo rischi terribili. E poi. tutto all’improvviso, uno di loro, il Vesco, si fa trovare praticamente con le mani nel sacco; indica i nomi dei complici, infine conduce gli inquirenti quasi per mano nel luogo dove essi troveranno tutti i riscontri obiettivi, tutte le prove; un garage di Partinico, dove c'è mezzo milione in contanti, la refurtiva, rimasto pressoché intatto, e poi le bandoliere e le divise». Un particolare singolare che fa pensare ad un cervello esterno alia banda Vesco Mandalà: Dino u pazzu, custode del garage deposito di Partinico, aveva utilizzato una piccolissima parte del bottino (tremila lire in tutto) per le piccole spese ed aveva annotato il fatto in una specie di «libro mastro». come se, all'occorrenza. esso avesse dovuto essere esibito ad un regista dietro le quinte. Di simili mister è stato contrassegnato anche tutto il complicato e contraddittorio svolgersi delle indagini. Cosi e nata l'inquietante ridda di notizie contraddittorie; di nervose e polemiche smentite e controsmentite a distanza, che le vane polizie che si occupano di questo tragico caso sono andate diramando in questi giorni, malgrado le violente e pubbliche reprimende ad uso interno che sono state fatte dal comandante generale dell'Arma, e dal questore di Trapani, a proposito di presunte, e a tuttora imprecisate « piste terroristiche. Vincenzo Vasile

È doveroso puntualizzare , che le persone, i cui nomi sono citati nell’articolo, che furono accusate all'epoca, sono state tutte assolte.

Apuzzo e Falcetta. Strage Alcamo Marina: non fu Gladio (e nemmeno Gulotta).  Francesca Scoleri su themisemetis.com il 12 Luglio 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Era la notte del 27 gennaio del 1976 , quando un commando fece irruzione nella casermetta di Alcamo Marina, in provincia di Trapani e uccise i carabinieri Apuzzo e Falcetta. Le indagini furono condotte dal Colonnello Russo, ucciso un anno dopo a Ficuzza da un commando agli ordini di Totò Riina. Dopo circa quindici giorni dal duplice omicidio, una volante dei carabinieri, fermò un giovane di Alcamo, tal Giuseppe Vesco, monco di una mano, alla guida di una Fiat 127. Era in possesso dell’arma che aveva ucciso i due carabinieri e di una pistola di ordinanza, di uno dei due carabinieri uccisi nell’agguato. Vesco fu interrogato e confessò. Indicò agli inquirenti il covo dove era nascosta la refurtiva, e accusò i suoi complici, tre giovanissimi ragazzi, suoi amici di Alcamo e un suo conoscente di Partinico. Tutti condannati nei processi che seguirono nei successivi anni. Vesco però non arrivò mai al processo, perché un anno dopo, fu trovato impiccato nel bagno dell’infermeria del carcere San Giuliano di Trapani. Nel 2008 il colpo di scena. Un ex carabiniere Renato Olino, che aveva partecipato alle indagini, raccontò che Vesco confessò tutto sotto tortura. Gli avvocati di Giuseppe Gulotta, uno dei quattro condannati, chiedono e ottengono il processo di revisione e alla fine, vengono assolti tutti, inclusi Ferrantelli e Santangelo che, dopo la sentenza in cassazione, erano scappati in Brasile con l’aiuto di Padre Mattarella, cappellano del carcere di Trapani, che a suo dire, illuminato dal Signore, era certo della loro innocenza. Tutto da rifare dunque per gli inquirenti, anche se sono passati 36 anni. Nel frattempo si susseguono le piste sui possibili moventi e mandanti. Un ex poliziotto di Alcamo, Federico Antonio, racconta al sostituto procuratore di Trapani, che nel 1992, un suo confidente, gli raccontò che Apuzzo e Falcetta furono uccisi il pomeriggio del 26 Gennaio, esattamente alle 15.30 perché fermarono un furgone carico di armi, condotto da appartenenti alla Gladio. Dopo un breve controllo, i due carabinieri, invitarono i passeggeri del furgone all’interno della casermetta, e li furono uccisi. Il movente Gladio è stato ripreso da più organi di stampa, inclusa la trasmissione Blu Notte di Lucarelli, ma nessuno ha mai fatto i dovuti riscontri. Stefano Santoro operatore video free lance residente a New York, ha prodotto un lungo video dossier sulla vicenda e ha dimostrato che in realtà, l’ipotesi tanto declamata dagli organi di stampa, dell’omicidio alle 15.30 è irreale. La sorella di Carmine Apuzzo ricorda la telefonata del fratello alle 18.30 , mentre i familiari di Falcetta hanno ricostruito le ultime ore dell’appuntato che nel pomeriggio, dopo aver trascorso alcune ore con i familiari, si recò al comando provinciale di Trapani, poiché doveva ultimare il suo imminente trasferimento a Buseto, per essere più vicino alla madre sofferente. Altro tassello che esclude il posto di blocco all’equipaggio Gladio, con l’immediato duplice omicidio, è la testimonianza a poche ore dalla strage, di due persone che raccontarono agli inquirenti di essere stati insieme ai due militari all’interno della casermetta di Alcamo Marina fino a mezzanotte circa, per giocare a carte. Inoltre i due carabinieri furono trovati in pigiama, Apuzzo ancora a letto sotto le coperte, mentre Falcetta, dopo un tentativo di reazione, rimase incastrato tra il letto e il muro, con le gambe attorcigliate alle lenzuola. Una scena raccapricciante che non lascia spazio a ricostruzioni false e artificiose, di riproduzioni della scena del delitto. Nonostante  ciò nessuno ha mai smentito questo inconcepibile teorema, accostato suggestivamente più volte anche al ritrovamento, nel 1992,  di un deposito di armi,  custodito da due carabinieri . Il professore Romano Davare, noto scrittore, regista teatrale e all’epoca dei fatti corrispondente del Secolo D’Italia, racconta  che la sera precedente alla strage, si trovava  nei pressi di Trapani, per un convegno del Msi, con ospite il segretario Giorgio Almirante. Il professore Davare scrisse della strage, ma il direttore del Secolo D’Italia gli proibì di parlare del possibile movente, da lui ipotizzato alla luce dei fatti. Sul gruppo Facebook Giustizia per Apuzzo e Falcetta, Stefano Santoro ha approfondito questa ipotesi e scrive “L’assalto alla casermetta a quattro ore dal passaggio di Almirante, in un arco di 365 giorni, e sotto una pioggia torrenziale, fu solo una casualità ? No a mio parere. Gli ingredienti per un sequestro ci sono tutti. Covo pronto a Partinico, divise, (non quelle in grande uniforme lasciate invece a terra nella casermetta) armi, cibo, (preso dalla casermetta) indumenti intimi, soldi, passamontagna, materasso, lenzuola, guanciale, soldi di altri sequestri, stralci di giornali relativi ai sequestri Corleo e Campisi e ancora, cavi di telefono  e ruote tagliate dell’auto di Falcetta, per isolarli e  avere un vantaggio di tempo, al loro risveglio prima che potessero avvisare i colleghi (Vesco scrisse nelle lettere che non era prevista la loro esecuzione,  evidentemente perché dovevano essere sedati), e ancora, la scorta di Almirante non comunicò al segretario del Msi della tragedia, ed infine, la parola fine ai sequestri, in provincia di Trapani ,dopo l’episodio di Alcamo Marina, come se qualcosa si ruppe. Insomma, cosa altro serve, per dimostrare che ci fu un tentativo di sequestro di Almirante.

La domanda è: chi fu il mandante e a quale scopo?” Il professore  Davare, sostiene nell’intervista che il direttore del Secolo D’Italia declinò il tentativo di scrivere sul possibile sequestro di Almirante, per evitare uno scontro sociale. Dopo 43 anni è difficile smascherare la verità, ma intanto alla vicenda si è aggiunto un altro enigma. La sorella di Giuseppe Vesco, il giovane trovato impiccato all’interno del carcere, sostiene di avere visto suo fratello nel corso principale di Alcamo, ma aggiunge altri particolari. Racconta, in esclusiva ai microfoni di Stefano Santoro, che al momento del riconoscimento del cadavere,  suo fratello non aveva segni di impiccagione al collo , che il corpo del fratello giaceva su una normale barella, che non fu permesso ai familiari di avvicinarsi per un ultimo abbraccio e che, al  padre e allo zio del giovane, non gli fu autorizzato di assistere alla saldatura della bara. La sorella ha presentato regolare denuncia al commissariato di Alcamo, ha fatto richiesta per l’apertura della bara, ha appeso per le vie di Alcamo, la foto di suo fratello, per denunciarne l’esistenza in vita, ma non ha ancora ricevuto nessuna risposta. Una persona in cerca di verità e giustizia.

La strage di Alcamo Marina.

Premessa. Vi sto raccontando in queste pagine le storie che hanno riempito di mistero la nostra storia recente. Alcune di queste sono conosciutissime, come quella relativa ad Ilaria Alpi, allo scandalo Lockheed, l’incendio della Moby Prince e così via. Altre invece sono poco conosciute, spesso del tutto sconosciute al grande pubblico, perfino a quello nella cui zona le vicende si sono verificate. Un esempio è l’abbattimento dell’elicottero della Guardia di Finanza Volpe 132 e un altro esempio è il fatto di cui vi voglio parlare adesso. É conosciuto come la strage di Alcamo Marina. Ci sono stati due morti, due carabinieri, ma il caso è estremamente intricato e quindi vi consiglio di seguire tutta la puntata con attenzione. In ogni caso potrete riascoltarla con calma visitando il mio sito noncicredo.org, dove trovate tutte le puntate trasmesse negli ultimi anni da questa emittente. E adesso possiamo cominciare. Alcamo è un paese a metà strada tra Trapani e Palermo. Si affaccia sul mar Tirreno. Oggi parleremo di un fatto avvenuto il 27 gennaio 1976 nella frazione Alcamo Marina, località balneare grazie ad una bella spiaggia sabbiosa sul golfo di Castellamare, quella in provincia di Trapani. Nella caserma dell’arma, la Alkamar, quella notte stanno dormendo due militari, l’appuntato Salvatore Falcetta di Castelvetrano (TP) e un ragazzo di 19 anni, il carabiniere Carmine Apuzzo, di Castellamare di Stabia (NA). É una notte di temporale con tuoni e molta pioggia. Del resto siamo in pieno inverno e la località balneare è praticamente deserta di turisti. Verso le 7 della mattina del 27 gennaio, la scorta di Giorgio Almirante, che passava di là, si accorge che qualcosa non va nella caserma. Il portoncino è stato scassinato, usando la fiamma ossidrica. Fanno intervenire i carabinieri di Alcamo, i quali, entrando, si trovano di fronte ad una scena raccapricciante. Carmine è steso nella sua branda crivellato di colpi: non si è neppure accorto di quello che stava accadendo. Salvatore invece i rumori li sente, cerca di prendere la sua pistola, ma non fa in tempo: viene assassinato come il suo collega. Dalla caserma sono sparite pistole, divise e altri oggetti. Perché dedicare un articolo ad un fatto che con ogni probabilità nessuno ricorda, forse nemmeno conosce se non chi è rimasto coinvolto direttamente: i familiari delle vittime, quelle uccise e quelle ritenute colpevoli? In fondo – si potrà dire - si tratta di due morti che non hanno nomi importanti e quindi passano inosservati nell’insieme delle storie che vi sto raccontando. Ma questa vicenda è allucinante per le conseguenze che ha avuto e per il fatto che, ancora oggi a così tanti anni di distanza nessuno sa chi sia stato né il motivo di questo eccidio. Certo, si sono fatte ipotesi e qualche racconto è emerso ed è proprio di questo che voglio parlare questa sera, perché qualche colpevole è stato riconosciuti e sbattuto in galera con sentenze durissime. Peccato che quelle persone fossero innocenti.

I fatti. Cominciamo con il racconto formale dei fatti, quello che scrive Wikipedia, una fonte semplice, ma che può essere controllata dai diretti interessati. Poi entreremo nelle pieghe della storia e cercheremo di capire meglio. Prima di cominciare è bene ricordare in che clima vive il paese in quel periodo a metà anni ’70. Sono anni difficili, anche e soprattutto in Sicilia: il pericolo terrorismo, le brigate rosse, la mafia, i servizi segreti “deviati” presenti in provincia. E poi d’inverno non c’è nessuno su quelle spiagge del Golfo di Castellammare proprio dove si trova la casermetta di Alkamar: un luogo ideale per interi sbarchi di sigarette di contrabbando, di droga e forse anche di armi. Il primo sospetto cade sulle Brigate Rosse, anche se, a dire il vero, c’è una rivendicazione di un gruppo mai sentito prima. Poche ore dopo l’eccidio, infatti, il Nucleo Sicilia Armata, diffonde questo messaggio telefonico con una voce priva di inflessioni al centralinista de La Sicilia. “La giustizia della classe lavoratrice ha fatto sentire la sua presenza con la condanna eseguita alle 1.55 ad Alcamo Marina. Il popolo e i lavoratori faranno ancora giustizia di tutti servi, carabinieri in testa, che difendono lo stato borghese. Il bottone perso da uno dei componenti del nostro commando armato che ha operato ad Alcamo Marina è una traccia inutile perché l’abbiamo preso da una giacca tempo addietro a Orbetello. Carabinieri e polizia fanno meglio a difendersi e a dedicare le loro energie ad altro.  Fanno meglio a difendersi assieme ai loro padroni fascisti e americani. Sentirete ancora molto presto parlare di noi. Possiamo agire ad Alcamo, a Roma, ovunque”. Di questo fantomatico gruppo, di evidente matrice rossa, nessuno sentirà mai più parlare, segno che il messaggio aveva una funzione di depistaggio. Ma è altrettanto certo agli inquirenti che chi telefonava era stato sulla scena del crimine o, quanto meno, ne era molto ben informato. Del resto in quegli anni ad Alcamo erano stati ammazzati due altri personaggi pubblici: l’assessore ai lavori pubblici di Alcamo Francesco Paolo Guarrasi (ex sindaco DC) viene ucciso nel maggio del 1975 con 4 colpi di pistola, mentre scende dalla sua auto proprio sotto casa. La pistola che lo uccide è la stessa calibro 38 che soltanto un mese prima aveva ucciso ad Alcamo il consigliere comunale Antonio Piscitello. E poi di spari contro i carabinieri in piena notte ce n’erano già stati, ma senza provocare feriti. Anche in quell’occasione il responsabile non era stato trovato. Passano solo tre giorni quando, il 30 gennaio, le Brigate Rosse emettono un comunicato, negando con fermezza di aver partecipato ai due assassinii. Nonostante questo la pista che viene seguita è sempre quella del terrorismo rosso. Le indagini sono guidate da Giuseppe Russo, allora capitano del nucleo operativo di Palermo, braccio destro del generale Dalla Chiesa. Mentre si cerca tra i vari gruppi e gruppuscoli dell’estremismo di sinistra, ecco il colpo di scena.

Il colpevole? Qualche settimana più tardi, è il 13 febbraio, ad un posto di blocco viene fermato Giuseppe Vesco, di Alcamo su una fiat 127 verde. É un tipo stravagante, tanto che in paese lo chiamano “Giuseppe il pazzo”. La targa della sua automobile è falsa. Gli manca la mano sinistra, amputata dopo che, un paio di anni prima, aveva fatto brillare un ordigno esplosivo forse trovato in un prato. Lo perquisiscono: ha addosso una pistola calibro 7,65, dello stesso tipo di quella usata per l’eccidio dei due carabinieri. Poi, salta fuori un’altra pistola: una Beretta in dotazione ai carabinieri. La conclusione è quasi immediata: è una delle armi rubate dalla casermetta: Il colpevole è stato trovato. Giuseppe, o Pino, come molti lo chiamano, si chiude in un silenzio ostinato, rotto solo da frasi del tipo: “Mi considero un prigioniero di guerra”, giocando il ruolo del terrorista come quelli veri delle Brigate Rosse. Si dichiara colpevole, ma al processo ritratta. I giornali dell’epoca non danno risalto a questo cambiamento di strategia. Cosa è accaduto tra l’arresto e il processo? Abbiamo la possibilità di usare due fonti. La prima è l’insieme di lettere che Pino scrive dal carcere, anche se a volte non si conosce l’identità dei destinatari. la seconda è la deposizione di un ex carabiniere, che aveva partecipato all’interrogatorio dopo il quale Vesco aveva confessato tutto. Cominceremo ad esaminare la prima fonte. Trovare quelle lettere non è facile. Un paio di esse vengono pubblicate nel 1978 dalle riviste “Controinformazione” e “Anarchismo” e vengono poi raccolte da un’associazione, alla quale si rivolge Roberto Scurto, giornalista che tiene un blog chiamato “Liberi di informare”. Ho già detto all’inizio che seguiamo la vicenda con le informazioni che sono state pubblicate. In ogni caso si tratta di una storia scottante, a volte cruda e pesante, in cui intervengono sevizie e torture e altre questioni poco chiare. Il racconto del carabiniere, avvenuto nel 2007, a 32 anni dai fatti, coincida in larga misura con il contenuto delle lettere non fa che confermarne la veridicità.

Dunque cominciamo. Nella prima lettera Pino assume l’atteggiamento di un guerrigliero che fa della lotta di classe a difesa del proletariato la sua bandiera. Inneggia alla lotta armata ed è chiaro che l’eccidio di Alcamo in questa lotta armata ci starebbe benissimo. Dunque è giustificato che gli inquirenti seguano la pista del terrorismo rosso. Ma il ragazzo ha anche a preoccupazione che vogliano farlo passare per pazzo e rinchiudere in un manicomio, per poi eliminarlo fisicamente. Quello dell’eliminazione è un chiodo fisso come vedremo tra poco. La parte più dura degli scritti di Giuseppe è quella in cui descrive la tortura subita perché si decida a far sapere dove si trova il materiale rubato nella casermetta e a dire i nomi dei suoi complici. La descrizione è di una lucidità estrema, descrivendo non solo il male subito, ma anche gli stati d’animo che mano a mano egli ha attraversato. Immobilizzato su due casse gli viene versato con un imbuto in gola un liquido che lui, perito chimico, stabilisce essere acqua con molto sale, olio di ricino e terra. L’effetto è quello del soffocamento. Resiste un po’ ma poi deve cedere. Tra l’altro non è uno con un fisico bestiale e non ci vuole molto perché quella tortura produca i suoi effetti. Così i carabinieri riescono a trovare quello che cercano: pistole, divise e quant’altro. Poi ritornano e adesso vogliono i nomi dei complici. La tortura riprende e Pino a quel punto fa dei nomi a caso, coinvolgendo quattro amici con i quali è solito passare parte del suo tempo libero. Dalle lettere non si capisce bene se Giuseppe sia coinvolto o meno negli omicidi. Da un lato c’è tuttavia il ritrovamento della refurtiva, dall’altro il fatto che lui continui a dichiarare di non aver avuto niente a che fare con quel fattaccio. Già al processo Giuseppe Vesco dichiarerà che tutte le confessioni gli sono state estorte con la tortura, il che, per la legge, rende inutile qualsiasi deposizione. I nomi coinvolti da Pino sono: Giovanni Mandalà, fabbricante di fuochi di artificio: Vincenzo Ferrantelli, Getano Santangelo, Giuseppe Gullotta. Quattro amici, un paio ancora minorenni che di politica e di lotta armata non sanno proprio nulla. Eppure anche loro confessano. Poi al processo diranno che le loro deposizioni sano il risultato di torture pesanti subite durante gli interrogatori. Si va verso il processo, ma Pino Vesco non fa in tempo a raccontare la sua storia. Lo trovano impiccato nella sua cella. “Suicidio” sentenziano gli inquirenti, ma come abbia fatto a fare il nodo scorsoio con una sola mano resta davvero un grande mistero. Proprio di questo scriveva alla madre: il timore di essere suicidato. La prima sentenza è di assoluzione. Nell’attesa dell’appello, i due minorenni, Ferrantelli e Santangelo fuggono in Brasile, chiedono e ottengono asilo politico. L’appello darà sentenze durissime: ergastolo per i due rimasti in Italia, 20 anni per gli altri. Nel 1995 Santangelo tornerà in patria a disposizione della magistratura, mentre l’altro rimarrà latitante. Mandalà muore in carcere nel 1998 di malattia, mentre Gullotta sconta l’ergastolo, finché …

Io c'ero...Prima di continuare con la storia, passiamo alla seconda fonte, l’ex brigadiere Giuseppe Olindo, che nel 2008 si presenta ai magistrati per fare le dichiarazioni che tra poco ascolteremo. Quelle che ascolteremo di seguito sono le voci tratte da un documento filmato che è facilmente reperibile in rete. Si tratta, tra l’altro anche di alcune deposizioni durante il processo per la revisione della posizione dei condannati, oltre che di interviste e filmati su altri temi che toccheremo. Derivano anche da trasmissioni radiofoniche e televisive, come ad esempio Blu Notte e La storia siamo noi. Ringrazio gli autori di questi documenti che sono fondamentali se non altro per dubitare di quello che viene passato per verità e ci induce ad indagare ancora per cercare di capire, anche se spesso purtroppo non ne siamo oggettivamente capaci. Dunque nel 2008 l’ex brigadiere dei Carabinieri Giuseppe Olindo si presenta alla magistratura e racconta quanto segue.

Insomma in quella caserma vengono inflitte tremende torture e vengono condannati all’ergastolo degli innocenti; la vita di quattro ragazzi, privati della libertà e condannati ad atroci sofferenze, è rovinata per sempre. Perché i carabinieri usano tanta violenza e tanta ingiustizia? Da chi hanno l’ordine di procedere in quel modo? Perché la squadra antiterrorismo ha così fretta di chiudere il caso?

Lo stesso Olino riferisce che quando arrivano ad Alcamo, non hanno alcuna idea di come muoversi, non hanno una pista da seguire. Ma ad essi viene imposto di indagare nei gruppi dell’estrema sinistra e solo in quelli. Lo stesso Peppino Impastato si interessa della vicenda e raccoglie documentazioni importanti, ma di questo parleremo tra poco. Adesso ascoltiamo di nuovo Olindo.

Peppino Impastato. In effetti Peppino Impastato si occupava in quel periodo delle molte illegalità che avvenivano in Sicilia e quell’omicidio non era certo cosa da poco. Fa uscire un volantino molto duro nel quale sostiene che i carabinieri stavano cercando di depistare l’azione investigativa e che a lui sembrava strano questo accanirsi contro le organizzazioni di sinistra, non prendendo neppure lontanamente in considerazione un’origine mafiosa della strage.

Che i depistaggi di cui Peppino parla ci siano stati è abbastanza evidente. I carabinieri che conducono le indagini vengono dal nucleo anti-crimine di Napoli. Li comanda il capitano Gustavo Pignero, che diventerà generale e dirigerà una sezione dei Servizi segreti militari (il SISMI). Quando il caso viene riaperto, i carabinieri che avevano partecipato alle torture e che facevano capo al colonnello Giuseppe Russo, finiti tutti sotto inchiesta, sono ormai ottantenni e si avvalgono della facoltà di non rispondere. Resta in piedi la domanda senza risposta: chi ha guidato i depistaggi e per quale motivo? Cosa è successo realmente quella notte di gennaio ad Alcamo?

I dubbi e le nuove inchieste. Le ipotesi sono diverse, alcune coinvolgono direttamente lo stato, altre la mafia, altre ancora dei contrabbandieri di armi o di altra merce. Ma quello che emerge è che in tutta la storia ci sono tante, troppe cose che non tornano o che sono, quanto meno, molto, ma davvero molto strane. In effetti c’è il suicidio di Pino Vesco che suona di falso lontano un miglio. C’è il ritrovamento dei corpi che fa storcere in naso. Come è possibile che le guardie del corpo di Almirante passino per caso la mattina seguente l’eccidio e si fermino in una stradina di nessun conto, vedano il portoncino divelto e scoprano i cadaveri? Come mai il tribunale condanna senza mezzi termini quattro balordi che non hanno precedenti di un delitto così atroce e, a ben vedere, effettuato con estrema efferatezza e, passatemi l’espressione, mestiere. Eh già, Gullotta, dopo aver passato 21 anni in carcere, viene riconosciuto innocente, viene liberato e il fatto di aver passato gran parte della vita dietro le sbarre viene compensato con 6 milioni e mezzo di euro. Credo non sia difficile immaginare quanto poco quel denaro abbia alleviato le sofferenze di un uomo che non aveva fatto niente e si è trovato privato del bene più prezioso che abbiamo, la propria libertà. E questa assoluzione si porta dietro altre conseguenze importanti. Prima di entrare nel merito mi sento di fare una considerazione. É curioso che serva un riesame di questa portata per capire che le conclusioni su molti delitti, dei quali la storia del nostro paese è piena, sono state falsate. La gente lo sa, ma servono sempre prove e documentazioni per poter procedere e soprattutto ci volgliono decenni per venirne a capo, le rare volte in cui questo succede. Ecco dunque che la sentenza Gullotta spinge il sostituto procuratore Antonino Ingroia, che lavora nella procura di Trapani, a riaprire due inchieste: quella sulla strage di Alcamo Marina e quella su Peppino Impastato, ucciso il 9 maggio 1978. E, di conseguenza, salta fuori anche una terza inchiesta, quella sul suicidio di Pino Vesco. Secondo la procura tutto quello che è avvenuto è stato fatto con il preciso scopo di evitare che le indagini arrivassero a svelare l’esistenza e soprattutto le opere (certo non benemerite) di un esercito segreto, la struttura segreta Gladio. Certo, Peppino è stato ucciso dalla mafia, dal clan Badalamenti. Per questo il processo ha condannato Tano Badalamenti all’ergastolo e il suo vice, Vito Palazzolo, a 30 anni. É il 2002 e Tano muore due anni più tardi. Il corpo di Peppino viene ritrovato lo stesso giorno in cui le BR (o chi per loro) riconsegnano quello di Aldo Moro. La sentenza è immediata. Per i carabinieri si tratta di suicidio o quanto meno di un incidente mentre il giovane sta mettendo dell’esplosivo sui binari. Un’ipotesi assurda per chiunque conosca Peppino. Lui è un militante di Democrazia Proletaria e soprattutto è responsabile di una radio di denuncia contro la mafia, la radio Aut. Quello che qui interessa è che, in quell’occasione, viene eseguita una nuova perquisizione nella casa di Impastato. Si trova un dossier, con scritto sulla copertina “Giuseppe Vesco”. Questa notizia è certa, perché il ritrovamento dell’incartamento compare nel rapporto redatto dai carabinieri. Ma del dossier o di notizie sul suo contenuto non c’è alcuna traccia, da nessuna parte. Il materiale è semplicemente sparito. E torniamo ancora e sempre alle stesse domande su chi è stato e perché. Sappiamo che sono domande che restano senza risposta. Nel caso appena esaminato è anche evidente come la mafia abbia partecipato direttamente alla strategia. Carabinieri, Servizi segreti, mafia, probabilmente Gladio … ecco la strada indicata da Peppino. I due carabinieri, secondo la sua ipotesi, avevano fermato quella sera un carico di armi che la mafia doveva consegnare a Gladio o viceversa. Per questo vengono fatti fuori e poi viene inscenata tutta la faccenda della casermetta ad Alcamo Marina. E c’è anche la scorta di Almirante che, per caso, passa per una stradina di nessun conto, sperduta nel nulla e scopre il portoncino divelto e tutto il resto … ma dai!

Gladio ... che roba è? Ho accennato a Gladio. Di cosa si tratta? Quando è nato? Come è organizzato e, soprattutto, a cosa serve? Di questo parleremo dopo una breve pausa. A partire dall’esplosione di una bomba nella banca dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano nel 1969 si susseguono una serie di attentati che spesso non hanno alcuna ragione, come quello in Belgio dove un commando perfettamente addestrato fa una strage di clienti sparando senza alcuna remora anche sui bambini. Non esiste ancora una matrice di terrorismo pseudo-religioso come ai giorni nostri e non si era mai visto prima un bandito uccidere senza pensarci su dei bambini. Gli occhi degli inquirenti, di quelli che riescono a capirci qualcosa, puntano su un’organizzazione militare segreta, che ha sedi in tutta Europa e negli Stati Uniti e ci chiama “Stay behind”, che significa sostanzialmente di rimanere dietro, ma dietro a che cosa? Dopo la seconda guerra mondiale il mondo si spacca in due: da una parte l’Occidente, guidato (il verbo è un eufemismo) dagli Stati Uniti e dall’altro il blocco orientale socialista guidato (anche questo è un eufemismo) dall’Unione Sovietica. Le due superpotenze si fronteggiano in ogni settore della vita pubblica e si armano come se stesse per cominciare una nuova guerra, la terza guerra mondiale, di cui in quel periodo si parla continuamente con grande terrore. Noi italiani viviamo nel blocco occidentale e, anzi, siamo un paese di confine e per questo da tutelare in modo particolare contro il pericolo più grande: l’invasione delle truppe comuniste che arriveranno per mangiare i nostri bambini e fare delle nostre chiese stalle per i cavalli dei cosacchi. Detta così è certamente sarcastica, ma il fatto è che l’esercito sovietico è probabilmente il più potente in quel momento e quindi arrestarne una eventuale avanzata sarà impossibile. Ecco allora l’idea. Creare dei gruppi di specialisti che operino dietro le linee nemiche (di qui il nome Stay behind = stare dietro) e servano da appoggio per azioni da parte delle forze alleate inglesi o americane che arriveranno a salvarci come nei film americani sui cowboy. L'organizzazione di questo esercito è della NATO, l’alleanza atlantica. Ci sono mezzi enormi messi adisposizione sia come addestramento (che avviene a Sud di Londra) che come mezzi in ogni senso: trasporto, armi, e qualsiasi altra cosa. Le formazioni assumono nomi diversi a seconda della nazione. In Italia Stay Behind si chiama Gladio. É chiaro che qualcuno degli ascoltatori a questo punto si chiederà cosa diavolo c’entri Gladio con Alcamo Marina, gli eserciti segreti con i due carabinieri ammazzati nella casermetta siciliana. Arriveremo a rispondere anche a questa domanda: ci vuole solo un po’ di pazienza. Ci sono sicuramente indizi che lasciano pensare che non sia poi così assurdo pensare ad un coinvolgimento di Gladio. I depistaggi e le modalità con cui i carabinieri eseguono le indagini non sono quelle solite dell’arma. E poi, negli anni ’90, viene scoperto ad Alcamo un nascondiglio di armi dentro un seminterrato di una villa. Lo custodiscono due carabinieri. Siano in Sicilia, si può pensare ad un covo della mafia, ma il deposito è davvero molto particolare. La quantità di armi presenti è impressionante e anche la loro tipologia lascia perplessi gli inquirenti. Non solo: c’è anche il materiale e gli strumenti per fabbricare proiettili di vario genere. La procura si affida ad un consulente esterno, il quale certifica che la possibilità della costruzione di munizioni da guerra è la stessa che potrebbe rifornire la polizia di un intero piccolo stato. I due guardiani, Vincenzo La Colla e Fabio Bertotto, si giustificano con la loro passione per le armi e per esercitarsi al tiro, giustificazione del tutto improbabile visto il tipo di arsenale. Tra l’altro il Bertotto faceva parte (anche mentre si occupava dell’arsenale) dei Servizi segreti, come responsabile della sicurezza delle ambasciate estere. Le armi sequestrate sono 422, tra cui un centinaio di armi da guerra, mitra statunitensi, armi degli eserciti dell’Est europeo, duecento pezzi da assemblare, perfino una munizione per contraerea. É piuttosto ingenuo pensare a semplici collezionisti. L’indagine deve adesso scoprire a quale rete tutto questo fa riferimento. In quel periodo è procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Anche lui indaga su questi fatti ed esclude categoricamente che quell’arsenale sia in qualche modo legato alla mafia. Quelli della mafia – dice Ingroia – non solo sono molto diversi come tipologia di armi, ma vengono protetti da profili completamente diversi di guardiani. Insomma c’è dell’altro, ci sono organizzazioni nascoste, come si evidenzierà con l’omicidio Rostagno, di cui parleremo tra poco. Che poi ci siano interazioni tra queste organizzazioni e la mafia è molto probabile ma che sia la mafia ad agire ad Alcamo è, per Ingroia, del tutto fuori discussione.

Mauro Rostagno, Li Causi, la Somalia, le armi e ancora Gladio. E adesso entra in scena un nuovo personaggio, morto ammazzato nel 1993 in Somalia in un agguato per motivi mai accertati. Si chiama Vincenzo Li Causi, trapanese di nascita, militare di carriera e appartenente ai servizi segreti militari. É un nome importante: partecipa alla liberazione del generale Dozier, sequestrato dalla BR a Padova; viene inviato in molte missioni che richiedono abilità e competenza. Insomma è uno che conta. Dal 1987 al 1990 è a capo del Centro Scorpione, una sezione di Gladio a Trapani. Dal 1991 viene mandato più volte in Somalia. In una di queste missioni viene ammazzato nel novembre 1993. La cosa più strana è che il giorno dopo è atteso a Roma per testimoniare su Gladio e sui traffici di armi e rifiuti tossici e radioattivi provenienti da mezzo mondo e di cui abbiamo parlato a lungo nelle puntate di Noncicredo. Tutto questo pochi mesi dopo la scoperta dell’arsenale vicino ad Alcamo. Il nome di Li Causi emerge un anno più tardi quando si indaga sull’uccisione di Ilaria Alpi, di cui egli sarebbe stato un informatore che ben conosceva i traffici sui quali la giornalista romana stava conducendo da anni la sua inchiesta. Un ex appartenente a Gladio, protetto dall’anonimato ci dice quanto segue. La sua voce è contraffatta. I compiti di Gladio in Sicilia non sono tuttora molto chiari. Probabilmente fungeva da collegamento con la Gladio all’estero, che operava nei Balcani, nel Nord Africa e nel Corno d’Africa. C’è anche la questione del traffico di armi che avviene nell’aeroporto militare di Chinisia, località a Sud di Trapani. Qui si trova il giornalista torinese Mauro Rostagno, uno dei fondatori di Lotta Continua, che in Sicilia vive e lotta contro la mafia nell’ultima parte della sua breve vita. Trasmette servizi importanti contro il potere di Cosa Nostra dall’emittente Radio Tele Cine. Uno di questi lo realizza proprio a Chinisia, quando atterra un aereo militare che viene subito circondato da camion militari e molti uomini in mimetica. Torna rapidamente in studio per montare il servizio che quella sera dovrà fare un botto. In effetti quell’aereo trasportava armi da consegnare evidentemente non tanto alla mafia quanto ad una organizzazione militare. Quelle immagini spariranno la sera del 26 settembre 1988, giorno in cui Mauro Rostagno viene ammazzato nella sua auto. Chi è stato? La pista seguita è quella della mafia. Ma i dubbi sono enormi, soprattutto a causa dei modi di procedere con le indagini e degli evidenti depistaggi che avvengono. Questa è un’altra storia che si intreccia con quelle fin qui raccontate. Molte indagini sono state fatte e molte ipotesi sono state avanzate sulla morte di Mauro: la mafia, Gladio, i servizi, la massoneria deviata. Restiamo semplicemente agli atti più recenti, che dicono che, nel maggio 2014, la Corte d'Assise di Trapani condanna in primo grado all'ergastolo i boss trapanesi Vincenzo Virga e Vito Mazzara. I legami tra mafia e Gladio vengono rivelati in diverse indagini, di recente è saltato fuori che l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, avrebbe potuto far parte della struttura segreta. Lo ha detto il figlio Massimo durante le rivelazioni sulla trattativa tra Mafia e Stato. Giovanni Falcone, mentre sta seguendo piste in merito all’uccisione di Pio La Torre da parte della mafia nel 1982, crede che sia importante confrontarsi con i colleghi romani, che stanno indagando su Gladio, ma si trova davanti un muro posto dal Procuratore Capo. Non si può e non si sa perché.

I pentiti di mafia. Sull’eccidio della casermetta nel tempo ci sono altre voci che intervengono. Quella, ad esempio, di Giuseppe Ferro, un pentito della famiglia di Alcamo, che conferma che la strage non fu certo eseguita dai ragazzotti accusati e incarcerati. Nella sua testimonianza si legge: “Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati. Erano solamente delle vittime, pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto.” C’è poi Vincenzo Calcara, altro pentito di mafia di Castelvetrano, il quale racconta di essere stato compagno di cella di Pino Vesco. Quando arriva l’ordine da parte di Antonio Messina, boss di Campobello di Mazara del Vallo, di lasciare da solo il ragazzo senza una mano. “Fu ucciso da un mafioso con la complicità di due guardie carcerarie” dichiara il pentito. É lo stesso Messina a spiegare la situazione a Calcara. Vesco deve morire perché è stato uno strumento e deve sparire. I due carabinieri sono stati ammazzati perché hanno visto cose che non dovevano vedere e è stato impedito loro di fare cose che potevano danneggiare non personaggi di cosa nostra ma anche collegati ad essa. É dunque questa la pista: una connivenza tra mafia e Gladio (o comunque organizzazioni segrete all’interno dello stato) che nel trapanese si sono sempre incrociate e frequentate in un anomalo scambio di favori. Ma l’invasione sovietica, come ben sappiamo, non c’è mai stata e quindi negli anni l’organizzazione Gladio viene utilizzata per scopi diversi. Tra questi un piano elaborato dalla CIA, l’intelligence statunitense, chiamato Demagnetize (Smagnetizzare). Il suo scopo è quello di togliere ossigeno e depotenziare il Partito Comunista Italiano, che negli anni ’70 comincia ad assumere l’importanza di un partito di governo. Questo coinvolge diversi movimenti di estrema destra, che diventano attivi nella strategia della tensione con numerosi attentati in tutta Italia. Abbiamo ricordato quello di Gorizia, per fare un esempio. Ci sono stati anche tentativi di golpe, a dire il vero piuttosto velleitari, in uno dei quali interviene anche una delle famiglie mafiose di Alcamo, la famiglia Rimi. É il 1970 e il fallito attentato alle istituzioni italiane è quello di Junio Valerio Borghese, ex fascista, ex presidente del Movimento Sociale, frequentatore di Pinochet e del suo capo della polizia segreta … insomma un personaggino tutto pepe. Dopo la guerra viene condannato a due ergastoli, ma l’intervento dei servizi segreti americani fa sì che quella condanna si riduca a 12 anni, di cui nove condonati. Sfruttando l’amnistia voluta da Palmiro Togliatti viene rilasciato immediatamente. Muore nel 1974 in circostanze abbastanza strane in Spagna, dove si è rifugiato. Nella provincia di Trapani le organizzazioni segrete sono ben radicate in quel periodo. In un ambiente in cui conta molto più la mafia dello stato, le attività sommerse sono all’ordine del giorno e può quindi accadere che due carabinieri in servizio si imbattano in un trasporto strano, in qualcosa di più grande di loro. La presenza di Gladio nel trapanese viene certificata ufficialmente solo nel 1990, ma i vertici dell’organizzazione continueranno a ribadire la propria estraneità ai fatti di Alcamo Marina, e a tutte le nefandezze che la popolazione ha dovuto subire in quegli anni. Di questo parla Paolo Inzerilli, responsabile di Gladio dal 1974 al 1986. Un altro personaggio, al quale ha accennato il giudice Casson nel suo primo intervento ha avuto una storia notevole. Si tratta di Vincenzo Vinciguerra, condannato all’ergastolo per la strage di Peteano, quella in cui sono rimasti uccisi tre carabinieri e feriti altri due. Vinciguerra non si è mai tirato indietro, considerandosi un “soldato politico”, facendo rivelazioni e non chiedendo mai uno sconto di pena, anzi volendo rimanere in carcere per tutta la sua durata, ritenendolo un mezzo di protesta. Durante il processo, che vedeva come giudica Felice Casson, lo scontro è durissimo. Il giudice cerca in ogni modo di dimostrare che l’esplosivo usato nell’attentato proviene da un deposito di armi di Gladio, trovato vicino a Verona. Si tratta di C-4, il più potente esplosivo disponibile all’epoca, in dotazione alla NATO. Nel 1984, a domanda dei giudici sulla strage alla stazione di Bologna, Vinciguerra dice: « Con la strage di Peteano, e con tutte quelle che sono seguite, la conoscenza dei fatti potrebbe far risultare chiaro che esisteva una reale viva struttura, segreta, con le capacità di dare una direzione agli scandali... menzogne dentro gli stessi stati... esisteva in Italia una struttura parallela alle forze armate, composta da civili e militari, con una funzione anti-comunista che era organizzare una resistenza sul suolo italiano contro l'esercito russo ... una organizzazione segreta, una sovra-organizzazione con una rete di comunicazioni, armi ed esplosivi, ed uomini addestrati all'utilizzo delle stesse ... una sovra-organizzazione, la quale mancando una invasione militare sovietica, assunse il compito, per conto della NATO, di prevenire una deriva a sinistra della nazione. Questo hanno fatto, con l'assistenza di ufficiali dei servizi segreti e di forze politiche e militari.» Una posizione personale, ma molto chiara, come quella che esprime a parole. Ma Gladio è stato davvero il demonio responsabile di ogni nefandezza che nel paese si veniva compiendo? Adesso ascoltiamo due testimonianza. La prima, brevissima, è di Francesco Gironda, capo della rete Gladio di Milano, mentre la seconda è ancora di Felice Casson, magistrato chioggiotto e più tardi politico dell’Ulivo e poi del Partito Democratico. Ascoltiamoli, poi chiuderemo il nostro racconto.

Conclusioni. Siamo partiti da un fatto particolare, quello dell’uccisione di due carabinieri nella casermetta di Alcamo Marina e siamo finiti a parlare di strategia della tensione, di attentati come quello di Bologna che apparentemente non hanno nulla a che fare con l’inizio della nostra storia. Questo dimostra quello che in questi mesi ho sempre cercato di sottolineare e cioè che le storie sono tutte legate tra loro, perché è periodo in cui esiste una strategia ben precisa che coinvolge lo stato e le sue istituzioni, per mantenere il potere e fare profitti. Oggi Gullotta è un uomo libero e ricco, libero perché non ha commesso quel reato infamante, così come i suoi amici, quelli sopravvissuti per lo meno. Ma non è libero dagli incubi che nessuno di noi credo possa neppure immaginare di aver passato un terzo della sua vita rinchiuso in un carcere dove non doveva stare. Rinchiuso mentre altre persone e non una sola sapevano perfettamente che era innocente. Prima di chiudere un’ultima osservazione su Gladio. Nell’estate del 2014 viene proposta una legge intitolata: “Riconoscimento del servizio volontario civile prestato nell’organizzazione nordatlantica Stay Behind”. La firma Luca Squeri di Forza Italia. In essa si sostiene che i volontari che hanno prestato servizio all’interno di Gladio devono essere trattati come i partigiani e quindi meritano una legittimazione per aver difeso la patria dal nemico. Nessun riconoscimento in denaro, si intende, un riconoscimento sotto il profilo politico e anche militare. Quindi nessun legame con le trame nere, con brandelli impazziti dell’eversione di stato. Sotto sotto la proposta porterebbe dritto al finanziamento pubblico dell’associazione. Il fatto che, una volta capito che il patto di Varsavia non aveva intenzioni di invadere l’Occidente, questa organizzazione si sia mossa in segreto, sfruttando le risorse dei servizi segreti semplicemente per impedire l’accesso al governo del Partito Comunista Italiano è un fatto riconosciuto anche da due dei politici più dentro le questioni delle segrete stanze, come Andreotti e Cossiga.  Del resto quella di Squeri non è la prima volta di una simile richiesta strampalata. La prima in assoluto è del 2004 e porta la firma, guarda caso, di Cossiga. Iniziativa seguita, pochi mesi dopo alla Camera, da un testo identico presentato dal forzista Paolo Ricciotti. Ma Cossiga torna alla carica ancora altre volte: nel 2006, nel 2007, nel 2008 e nel 2009. Sempre nel 2009 un testo identico viene presentato a Montecitorio da Renato Farina, quello famoso per aver partecipato coi servizi segreti alla diffusione di notizie false contro Romano Prodi. Condannato per vari reati e radiato dall’ordine dei giornalisti, oggi collabora con Il Giornale e sarebbe difficile pensare il contrario. Insomma per la destra istituzionale (Forza Italia, PDL e tutte le altre sigle berlusconiane) Gladio è una organizzazione di eroi positivi, che hanno cercato di fare il bene del nostro paese. Non mi sembra il caso di aggiungere alcun commento. Termino qui. É stato un articolo forse più faticoso del solito, che ha cercato di raccontare una storia poco conosciuta in cui, ancora una volta, si mescolano affari loschi, mafia e reparti deviati della repubblica, ma, in questo caso, ben conosciuti e sostenuti dallo stato. Alcamo Marina in fondo non è stata nulla come tributo di sangue rispetto a molte altre tragedie di cui vi ho raccontato: penso alle bombe della strategia della tensione: piazza Fontana, Brescia, l’Italicus, Bologna o alle tragedie di cui sappiamo poco o nulla perché occorre che non si sappia chi andava coperto, come nel caso dell’elicottero Volpe 132, della Moby Prince, di Ustica. Purtroppo si potrebbe continuare l’elenco. Purtroppo ...

Il segreto sulle stragi mafiose, lo strano ruolo del presunto pentito Calcara e il calvario dell’ex sindaco di Castelvetrano. Damiano Aliprandi Il Dubbio il 6 magio 2020. Il colonnello Zappalà lavorava per conto della Procura di Caltanissetta per indagare via d’Amelio e Capaci dove, tra gli altri, è sotto accusa il superlatitante Matteo Messina Denaro. Tra le varie deleghe , una era proprio quella di rapportarsi con Vaccarino, fonte considerata credibile. Il suo nome compare nel famoso rapporto di Amnesty International del 1993 dove vengono denunciate le torture che avvenivano nel supercarcere di Pianosa riaperto dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Torture pesanti, dai pestaggi all’illuminazione delle celle 24 ore su 24, raccolte anche dai magistrati di sorveglianza. Parliamo di un uomo che finì recluso per associazione mafiosa grazie alle parole di un pentito – tale Vincenzo Calcara – che in seguito sarà dichiarato inattendibile da diversi tribunali. Un uomo che verrà assolto per l’accusa di 416 bis, ma più volte viene tirato in ballo dalla procura di Palermo fino ai nostri giorni. Si tratta di Antonio Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano ed ex appartenente alla corrente manniniana della Democrazia Cristiana. È anziano oramai, ed è l’unico che tuttora si trova in carcerazione preventiva a causa dell’ennesima operazione giudiziaria del 16 aprile del 2019. L’accusa è di favoreggiamento aggravato alla mafia, per un’indagine che ha visto coinvolti anche un colonnello della Dia che lavorava per la Procura di Caltanissetta il colonnello Marco Zappalà) e un appuntato in servizio a Castelvetrano (Giuseppe Barcellona), in merito a informazioni su indagini che riguardavano il boss latitante Matteo Messina Denaro. Tutti e tre sono stati accusati a vario titolo dalla Dda di Palermo di “accesso abusivo a un sistema informatico” e “rivelazione di segreti d’ufficio” e inoltre all’ex sindaco Vaccarino viene contestata l’aggravante di aver favorito Cosa nostra e la latitanza di Matteo Messina Denaro. Il Tribunale del Riesame di Palermo, al quale si era rivolto Vaccarino, aveva annullato il provvedimento di custodia cautelare, non rilevando la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. Anzi per il Tribunale del Riesame, lo scopo di Antonio Vaccarino era quello di ingraziarsi il titolare di un’agenzia funebre in passato condannato per mafia, tale Vincenzo Sant’Angelo, per ottenere da lui informazioni sul contesto mafioso di Castelvetrano, da girare al colonnello della Dia Zappalà. Dopo qualche tempo, però, arriva il dietro front. La procura di Palermo è ricorsa in Cassazione che ha accolto il ricorso, annullando il provvedimento e inviandolo nuovamente al Tribunale del Riesame. Questa volta il provvedimento viene ribaltato e a gennaio Vaccarino viene rimandato in carcere. Cosa sappiamo finora? Il colonnello Marco Zappalà lavorava per conto della Procura di Caltanissetta, non per la cattura di Matteo Messina Denaro che, per competenza, spetta alla Procura di Palermo, ma per indagare sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Tra le varie deleghe, una era proprio quella di rapportarsi con Antonio Vaccarino. Perché? A spiegarlo è il procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci, sentito come testimone nel processo in corso a Marsala dove è appunto imputato Vaccarino. Ricordiamo che Paci ha svolto importanti processi, tra i quali quelli che hanno portato a smascherare il più “grande depistaggio della storia” in merito alle indagini sulla strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Alla domanda posta dall’avvocato Baldassarre Lauria (che assieme all’avvocata Giovanna Angelo difende Vaccarino), il procuratore Paci ha spiegato che la delega data a Zappalà non era per catturare Matteo Messina Denaro, ma per andare a Castelvetrano a rapportarsi con Vaccarino, fonte di utili informazioni. Le indagini, quindi, erano tutte volte alla vicenda stragista del ’92. «Vaccarino – ha spiegato Paci – lo conosco dalle carte, dai tempi in cui lavoravo alla Procura di Trapani e poi alla Dda di Palermo e poi l’ho conosciuto personalmente perché in alcune occasioni l’ho escusso a sommarie informazioni». Sempre Paci ha aggiunto nella sua deposizione: «Vaccarino è stato, da parte della Procura di Caltanissetta, diciamo un portatore di informazioni, nel senso che il Vaccarino, a seguito di note vicissitudini insomma, alcune convinzioni, una rilettura critica delle vicende processuali che l’hanno riguardato e che secondo lui riguarderebbero anche le vicende stragiste del novantadue. E sotto questo profilo insomma era interesse dell’ufficio sentirlo». Per questo motivo la procura di Caltanissetta ha delegato Zappalà ad avere contatti con l’ex sindaco di Castelvetrano. «Vaccarino – ha spiegato sempre Paci – è stato escusso a sommarie informazioni dal maggiore colonnello Zappalà, e credo che questo – su mia delega – avvenga intorno al 2016».Per comprendere meglio, sempre il procuratore Paci approfondisce l’argomento. Spiega innanzitutto che tali indagini sono servite anche per il processo in corso contro Matteo Messina Denaro, accusato di essere stato uno dei mandanti della strage di Capaci e Via D’Amelio. Quindi se è vero che le indagini non c’entrano nulla con la cattura di Messina Denaro, c’entrano però con la sua persona. Si parla di stragi e anche di una revisione critica dove possono emergere altri elementi di non poco conto. «Noi rivisitiamo tutto il passato», ha sottolineato infatti procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci. E dal passato emerge anche il ruolo del presunto pentito Vincenzo Calcara che fece arrestare ingiustamente anche Antonio Vaccarino a maggio del ’92 durante “l’operazione Palma». Il procuratore Paci durante la sua deposizione come testimone sintetizza la vicenda. «Tra le tante questioni che nacquero – racconta Paci -, c’era proprio quella della infondatezza delle dichiarazioni di Calcara, sulla base di un presupposto più ampio: cioè che Calcara non fosse un pentito autogestito, ma che potesse essere stato eterodiretto, e che poi avevano portato anche all’arresto di Vaccarino. Così come per esempio l’assoluta totale assenza delle dichiarazioni di Calcara, che oggi rivendica il diritto di andare a processo per testimoniare contro Matteo Messina Denaro, che lui non toccò mai con le sue dichiarazioni del passato». Emerge, quindi, qualcosa che ricorda di molto il depistaggio che si fondava sulle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Secondo l’ipotesi formulata da Paci, il presunto pentito Vincenzo Calcara sarebbe stato eterodiretto. Se quest’ultimo dovesse ammettere di aver dichiarato il falso, si sarebbe reso responsabile, consapevolmente o meno, di un depistaggio antecedente alle stragi, quello che favorì Matteo Messina Denaro nel compimento delle stesse. Emerge anche che le deleghe date a Zappalà erano rivolte a ricercare il movente delle stragi, nella quali il mandante è anche Matteo Messina Denaro. Il dato certo è che, essendo stato intercettato il colonnello Zappalà per tutto quel periodo, le sue indagini per conto della procura di Caltanissetta rischiano di non essere più riservate. Ma ritorniamo ad Antonio Vaccarino. Per l’ennesima volta si ritrova in carcere per via preventiva e in un periodo dove l’emergenza Covid 19 mette in difficoltà la gestione penitenziaria. Di nuovo nell’occhio del ciclone nel momento in cui collabora con le autorità volte a far chiarezza sulle stragi. In realtà, a causa di una fuga di notizie, grazie proprio alla sua passata collaborazione con le autorità, era stato esposto tanto da ricevere una minaccia direttamente dal superlatitante Matteo Messina Denaro. Ma questo lo racconteremo prossimamente sulle pagine de Il Dubbio.

Le lettere dell’ex pentito Calcara contro il procuratore di Caltanissetta. Il legale della famiglia Borsellino: «Abbiamo piena fiducia nel lavoro del dottor Paci». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 17 settembre 2020. Al processo a Matteo Messina Denaro per le stragi di Capaci e via D’Amelio. «Esprimo totale fiducia nel lavoro di questa Procura ( Caltanissetta, ndr) che dal 2008 sta faticosamente cercando di mettere insieme i pezzi di una verità che è stata fondamentalmente allontanata dall’operato dell’altra procura». A dirlo è l’avvocato Fabio Trizzino, parte civile dei figli di Borsellino, intervenuto durante l’udienza di mercoledì scorso a Caltanissetta. Parliamo del processo che vede come imputato il latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. L’avvocato Trizzino è intervento in difesa del procuratore Gabriele Paci a causa delle missive contro di lui, indirizzate anche alla Corte stessa, a firma dell’ex pentito Vincenzo Calcara. A comunicare l’arrivo di tali documentazioni è stata la presidente della Corte Roberta Serio in apertura dell’udienza. «Lo scritto contiene dichiarazioni di Calcara – ha detto -, ma che la Corte non può assumere visto che non sono contenute negli atti processuali e per questo si è astenuta nel leggerlo nella sua completezza». Per questo ha chiesto alle parti di argomentare se le ritengano rilevanti o meno. Il procuratore Paci, rilevando che Calcara ha gettato ombra sulla sua persona ha spiegato: «Non è mia abitudine che si allunghino ombre sul mio operato. Questo esposto viene inviato alla Corte, quindi non avendo nessun problema e nessuna ragione di tenere nulla sul mio operato, chiedo di trasmettere gli atti alla procura competente di Catania dove ravviserà se ci siano elementi o meno contro la mia persona». Sia la difesa che le parti civili ne hanno sottolineato l’irrilevanza. «Diffidiamo il signor Calcara – ha detto l’avvocato Trizzino – dall’utilizzare strumentalmente qualunque riferimento alla vedova e ai figli del giudice Borsellino a sostegno di qualunque sua iniziativa e ribadiamo – la totale fiducia nei confronti della Procura di Caltanissetta e in particolare del dottor Gabriele Paci, il quale lavora con il codice in mano e non facendo sociologia o storia». Le missive di Calcara sono scaturite dopo che Paci, sentito come teste nel processo contro l’ex sindaco di Castelvetrano Vaccarino, lo ha definito “pentito eterodiretto”. Non solo. Durante la sua requisitoria al processo contro il super latitante, ha definito Calcara uno di quelli che inquinavano i pozzi» e che «non fa mai il nome di Matteo Messina Denaro al tempo in cui uccideva e poi faceva le stragi». Ha aggiunto: «sarebbe stato molto utile se ne avesse parlato nel ’92 anziché dire che il capo di “Cosa nostra” era, neanche il padre Francesco, ma Agate Mariano».

L’avvocato dei Borsellino contro la Procura di Palermo: ha allontanato la verità. Redazione su Il Riformista il 20 Settembre 2020. Paolo Emanuele Borsellino (Palermo, 19 gennaio 1940 Palermo, 19 luglio 1992) è stato un magistrato italiano. Assassinato da cosa nostra assieme a cinque agenti della sua scorta nella strage di via d’Amelio, è considerato uno dei personaggi più importanti e prestigiosi nella lotta contro la mafia in Italia, insieme al collega ed amico Giovanni Falcone. Nei giorni scorsi un ex pentito ha gettato fango sul Pm di Caltanissetta Gabriele Paci. La cosa ha avuto una ricaduta sul processo contro Messina Denaro in corso proprio a Caltanissetta, e che si occupa delle stragi del ‘92. In aula ha preso la parola l’avvocato Trizzino, che è l’avvocato dei figli di Borsellino, e ha rilasciato una dichiarazione molto significativa. Ha detto: «Esprimo totale fiducia nel lavoro di questa Procura. Ripeto: di questa Procura, di questa Procura (e ha calcato la voce tra volte sulla parola “questa”, ndr), che dal 2008 sta faticosamente cercando di mettere insieme i pezzi di una verità che è stata fondamentalmente allontanata dall’operato dell’altra Procura». Poi ha aggiunto: «In particolare esprimiamo fiducia nei confronti del dottor Gabriele Paci, il quale lavora col codice in mano non facendo sociologia o storia». Non è difficilissimo interpretare queste frasi. Trizzino non ha fatto nomi ma chi conosce la storia capisce. L’altra Procura a cui si riferisce l’avvocato dei Borsellino, e cioè la Procura che ha allontanato la verità, a occhio e croce è la Procura di Palermo. E anche il riferimento alla differenza tra il dottor Paci che usa i codici diversamente da altri magistrati che fanno invece «sociologia o storia», è in modo assai evidente molto polemico. Quali sono i nomi degli altri magistrati ai quali si riferisce Trizzino? Provate a indovinare. Trizzino ha pronunciato queste frasi alzando la voce e mostrando anche una certa emozione e una certa rabbia. Ha fatto anche riferimento esplicito al depistaggio operato attraverso il falso pentito Scarantino che per anni ha seppellito la verità sull’omicidio Borsellino. Naturalmente la dichiarazione dell’avvocato dei figli di Paolo Borsellino ha valore, tecnicamente, solo all’interno del processo di Caltanissetta. Però le parole che ha usato erano molto chiare e molto pesanti. E dimostrano una sfiducia evidente verso la Procura di Palermo e – sempre a occhio e croce – verso il processo Stato-Mafia tutto costruito non certo sui codici ma su ipotesi di tipo sociologico o storico. Precisazione dell’avvocato Trizzino – Con riferimento all’articolo del Riformista qui riportato, mi tocca precisare che l’altra Procura cui intendevo riferirmi, era quella diretta da Tinebra. Il richiamo, inoltre, all’osservanza del codice e al processo come luogo dove si accertano fatti attraverso le prove, rimanda ad una circostanza che molti purtroppo dimenticano o non conoscono. Invero, del capitolo della c.d. Trattativa Stato Mafia si è occupata in principio l’attuale Procura di Caltanissetta, proprio per l”attitudine a intravedere, in astratto, nella condotta dei protagonisti ipotesi delittuose configurabili come concorso in strage. L’applicazione rigorosa delle norme del codice di rito nella ricerca dei riscontri, ha condotto La attuale procura di Caltanissetta a concludere per l’irrilevanza penale delle condotte analizzate. Giudizio che, dopo un’ analisi attentissima delle carte, noi condividiamo. Ci tenevo a precisare, giacché il Riformista – quotidiano che apprezzo moltissimo- propone un’ interpretazione del mio pensiero che incolpevolmente sconta la possibilità di un fraintendimento della mia dichiarazione in aula al processo Messina Denaro, accompagnata forse da una foga eccessiva, la quale giammai giova alla linearità dell’esposizione.

Trapani, il colonnello Zappalà condannato a 4 anni. "Passò informazioni riservate sulle indagini". Pubblicato giovedì, 02 luglio 2020 da La Repubblica.it. Lui ha sempre sostenuto di essere stato un fedele rappresentante delle istituzioni impegnato nelle indagini per tentare di arrivare al superlatitante Matteo Messina Denaro, ma il giudice Annalisa Tesoriere non gli ha creduto: il tenente colonnello dei carabinieri Marco Alfio Zappalà, all’epoca dei fatti in servizio alla Dia di Caltanissetta, è stato condannato a 4 anni di carcere al termine del rito abbreviato. L’appuntato Giuseppe Barcellona, in servizio alla Compagnia di Castelvetrano, ha invece patteggiato una condanna a un 1 anno. L’operazione del Ros, coordinata dal procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido, era scattata il 16 aprile 2019, aveva coinvolto anche Antonino Vaccarino, che sarà giudicato oggi pomeriggio dal tribunale di Marsala: l’ex sindaco di Castelvetrano, già confidente dei servizi segreti, ha sempre sostenuto di aver lavorato per conto delle istituzioni, per catturare il superlatitante, ma è una tesi che non convince la direzione distrettuale antimafia. I  tre sono accusati di aver veicolato delle informazioni riservate tra loro, che poi Vaccarino avrebbe passato a Vincenzo Santangelo, già condannato per mafia. Barcellona ha ammesso di aver inviato a Zappalà la fotografia contenente un’intercettazione ambientale. Zappalà, invece, ha continuato a negare di aver ricevuto e passato informazioni riservate. E' accusato di accesso abusivo a sistema informatico e rivelazione di segreto d’ufficio: per lui, i pubblici ministeri Pierangelo Padova, Francesca Dessì e Gianluca De Leo avevano chiesto 5 anni.

Strage alla caserma “Alkamar”, ecco come venne riaperto il caso. Il racconto del cronista trapanese Maurizio Macaluso, la sua inchiesta portò alla revisione del processo. Michele Caltagirone su Blasting News Italia il 27 gennaio 2016. Il giornalista Maurizio Macaluso lavorava nella redazione del settimanale “Il Quarto Potere”, diretto da Vito Manca. Nel 2007, in una rubrica da lui curata su fatti di cronaca ancora avvolti nel mistero, iniziò ad occuparsi della strage alla caserma “Alkamar” del 27 gennaio 1976, sollevando dubbi sulla reale colpevolezza di Giuseppe Gulotta, Vincenzo Ferrantelli, Gaetano Santangelo e Giovanni Mandalà, i quattro giovani condannati per il duplice omicidio dei carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. “Mi recai anche ad Alcamo – ricorda Macaluso, contattato dalla redazione di Blasting News Italia – ad intervistare Marta Ferrantelli, sorella di uno dei presunti colpevoli. Tra i miei obiettivi c’era ovviamente quello di contattare direttamente Vincenzo Ferrantelli, tanto lui quanto Gaetano Santangelo all’epoca si trovavano in Brasile. Entrambi, a qualche settimana di distanza, fecero pervenire una e-mail in redazione raccontando la loro versione dei fattiche venne pubblicata sul nostro settimanale. In risposta ricevetti anche un’altra e-mail con parole di fuoco da parte dei familiari di Salvatore Falcetta che contestarono il contenuto dell’articolo. Per quasi un anno non ci furono altre novità sul caso”.

Contattato dall’ex brigadiere Olino. “A quasi un anno di distanza – prosegue Maurizio Macaluso – ricevetti una mail anonima. Qualcuno sosteneva di essere a conoscenza della verità, affermando che erano stati condannati quattro innocenti. Si faceva riferimento anche alla mail dei familiari di Falcetta, ‘chissà cosa direbbero se sapessero la verità’, tra le parole che mi vennero scritte. Il misterioso mittente rivelò successivamente la sua identità, si trattava dell’ex brigadiere Renato Olino che aveva assistito agli interrogatori dei giovani arrestati nel 1976. Ci incontrammo successivamente a Trapani, venne in redazione e mi espose ifatti ai quali aveva assistito. Si trattò di confessioni forzate; ad esempio, nel caso di Giuseppe Vesco, le confessioni gli vennero estorte nel corso dell’interrogatorio con latorture. Da quel momento la stragedi Alcamo Marina divenne un tormentone del nostro giornale, mi sforzavo settimana dopo settimana per mettere insieme nuovi elementi. La Procura, che conservava anche le copie dei miei articoli, raccolse poi elementi a sufficienza per riaprire il caso”.

C'è un altro segreto. Maurizio Macaluso Linea Rossa 12 anno 3 - numero 45. Un giovane alcamese, Giuseppe Tarantola, fu ucciso nel 1976 nel corso di un conflitto a fuoco con i Carabinieri. Si disse che era in possesso di una pistola ma un ex brigadiere rivela che non era armato. Un altro morto che attende giustizia. Un'altra storia scomoda che riemerge dal passato. Si chiamava Giuseppe Tarantola. Aveva venticinque anni ed era di Alcamo. Morì trentuno anni fa durante una sparatoria con i carabinieri. Si disse che era armato, che voleva uccidere i militari, che era pronto a compiere una strage. Un testimone rivela però ora che in realtà Giuseppe Tarantola non era armato. Che la pistola sequestrata sarebbe stata apposta dai carabinieri per coprire le responsabilità di colui che aveva sparato. A rivelare il nuovo sconvolgete episodio è un ex brigadiere, lo stesso che, due mesi fa, ha parlato dell'uccisione dell'appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo. Lo stesso che ha sostenuto che Giuseppe Vesco e gli altri giovani coinvolti nelle indagini sull'uccisione dei due carabinieri furono picchiati e seviziati e costretti a confessare. Giuseppe Tarantola fu ucciso nel corso della notte tra il 10 e l’11 febbraio del 1976 alla periferia di Alcamo nel corso di un conflitto a fuoco con i carabinieri. Erano trascorse due settimane dall'uccisione di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. L'assassino dei due carabinieri aveva destato grande scalpore. La vicenda era arrivata anche in Parlamento. Qualche giorno prima, nel corso di una seduta parlamentare, l'onorevole Giomo aveva presentato un'interrogazione ai ministri dell'interno e della difesa. "Chiedo di conoscere - aveva detto il parlamentare - se ritengano rendere edotta l'opinione pubblica ed il Parlamento sull'offensiva che si sta attuando da parte di forze extraparlamentari contro i carabinieri, offensiva culminata nel selvaggio agguato contro la caserma di Alcamo Marina dove hanno perso la vita due giovani militari. È ormai noto a chi segue la cronaca quotidiana che nei soli mesi di dicembre e gennaio nelle città di Milano, Roma e Genova sono state attaccate più volte caserme di carabinieri con bombe a mano, bottiglie incendiarie e raffiche di mitra, che hanno portato alla distruzione di automezzi militari e danneggiamento di edifici pubblici. Si è passati ora in questa escalation di guerriglia contro l'Arma, che ha il difficile compito della tutela dell'ordine pubblico, all'assassinio. L'interrogante chiede se di fronte alla brutale e violenta campagna istigatrice di odio contro i carabinieri organizzata dalla stampa extraparlamentare con le conseguenti offensive di guerra che in questi ultimi mesi sono state scatenate, il governo intenda intervenire con tutti i mezzi a sua disposizione rendendo note all'opinione pubblica tutte le informazioni in suo possesso sull'attività dei mandanti e degli esecutori di questi gruppi sovversivi paramilitari che operano nel paese". L'uccisione di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo aveva generato preoccupazione nella popolazione di Alcamo. La gente era allarmata. Temeva che la morte dei due carabinieri potesse essere soltanto l'inizio di una lunga serie di omicidi. Gli investigatori erano intenzionati a chiarire al più presto il contesto in cui era maturato il delitto. Bisognava fare presto e restituire serenità ai cittadini. Interrogatori e perquisizioni si susseguivano giorno e notte. Tutte le persone sospette venivano fermate. La notte tra il 10 e l'11 febbraio una pattuglia dei carabinieri intercettò un'auto sulla quale viaggiavano quattro giovani. Alla vista dei militari il conducente proseguì la corsa senza fermarsi. Dopo un lungo inseguimento per le vie della città, l'auto sbandò finendo contro un edificio. I quattro giovani, inseguiti dai carabinieri, scesero dalla vettura e tentarono di fuggire a piedi. Scoppiò un conflitto a fuoco. Giuseppe Tarantola fu colpito da una raffica di mitraglia. Il giovane, gravemente ferito alla gola ed al petto, morì mentre veniva trasportato in ospedale. Gli investigatori sostennero che, dopo essere stato bloccato, Giuseppe Tarantola era sceso dall'auto e si era lanciato contro i carabinieri con una pistola in pugno pronto a far fuoco. L'arma, una pistola calibro trentotto, era stata rinvenuta dopo la sparatoria sull'asfalto. L'auto sulla quale viaggiavano i quattro giovani era rubata. Due dei tre sopravvissuti, interrogati dagli investigatori, confessarono di avere rubato, qualche giorno prima, anche un'altra vettura. Le auto erano destinate ad un meccanico di Alcamo che avrebbe dovuto smontarle e rivendere i pezzi. I tre giovani furono arrestati. La morte di Giuseppe Tarantola destò grande scalpore ad Alcamo. Ventiquattro ore dopo però i carabinieri arrestarono Giuseppe Vesco. Nella città si diffuse immediatamente la notizia che il giovane aveva confessato. Che aveva ammesso di avere ucciso i due carabinieri. Che aveva indicato i nomi dei complici. La gente si precipitò dinanzi la caserma. La morte di Giuseppe Tarantola fu presto dimenticata. Trentuno anni dopo, però, c'è però chi sostiene che c'è un'altra verità. Che Giuseppe Tarantola non era armato. Che non voleva compiere alcuna strage. Che la sua morte va inserita nel clima di tensione che in quei giorni si respirava ad Alcamo. "Non si fermò all'alt", racconta l'ex brigadiere, che in quei giorni si trovava ad Alcamo per partecipare alle indagini sull'uccisione di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. "Dopo un breve inseguimento finì contro un muro. Scese dall'auto e tentò di fuggire. Un brigadiere esplose alcuni colpi di mitra uccidendolo. Dopo la sparatoria fu rinvenuta sotto l'auto una pistola a tamburo. La magistratura archiviò il caso ritenendo che il brigadiere avesse operato legittimamente. Ma in realtà quel giovane non era armato. Fui io a collocare la pistola su ordine di un ufficiale prima dell'arrivo del magistrato". La clamorosa rivelazione getta nuove ombre sull'operato dei carabinieri. L'episodio è stato riferito dall'ex brigadiere nel corso dell'intervista rilasciata al nostro giornale due mesi fa. Avevamo deciso di non pubblicarla in attesa di effettuare le necessarie verifiche. La ricerca si è rivelata più lunga del previsto. Ad Alcamo nessuno ricorda più questa storia. Tutte le persone interpellate non hanno saputo fornirci alcuna informazione in merito alla vicenda. La tragica morte di Giuseppe Tarantola è stata rimossa dalla memoria collettiva. Abbiamo quindi effettuato una ricerca negli archivi della biblioteca di Paceco ed abbiamo accertato che l'episodio riferito dall'ex brigadiere è realmente avvenuto. Il 12 febbraio del 1976 il Giornale di Sicilia pubblicò un articolo in prima pagina nel quale era riportata la cronaca degli avvenimenti che avevano condotto all'uccisione di Giuseppe Tarantola. "Alcamo - Tragica fine di un giovane ladro. Scappa all'alt. Ucciso dal mitra di un carabiniere - Arrestati i tre ragazzi che erano con lui in auto". Nell'articolo si riferiva che Giuseppe Tarantola non si era fermato all'alt dei carabinieri e che dopo essere stato bloccato era sceso dalla vettura con una pistola in pugno pronto a far fuoco contro i militari. Una raffica di mitra lo aveva fermato uccidendolo. La rivelazione dell'ex brigadiere potrebbe ora riaprire il caso. Intanto le dichiarazioni dell'ex sottufficiale sui presunti pestaggi subiti da Giuseppe Vesco e dagli altri giovani alcamesi coinvolti nelle indagini sull'uccisione dell'appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo hanno aperto un ampio dibattito. Numerosi alcamesi si sono ricordati della tragica fine dei due militari. Tanti sono tornati ad interrogarsi. Anche numerosi giovani stanno seguendo con grande attenzione gli sviluppi della vicenda. Roberto Scurto ha ventuno anni. "Sono passati tantissimi anni, è ora che finalmente si faccia giustizia", scrive in un articolo pubblicato sul portale Alcamo.it. "Chi sa qualcosa parli! È incredibile come questa storia possa ancora dare fastidio a qualcuno dopo tutto questo tempo. E se qualcuno pensasse che non interessa a nessuno si sbaglia". Il suo appello è stato accolto da tanti concittadini che sono intervenuti nel blog. C'è chi pone domande, chi avanza dubbi. C'è chi, come Anna, chiede di sapere perché l'ex brigadiere si è deciso soltanto ora a parlare. Perché per trentuno anni è rimasto zitto. L'ex sottufficiale ha voluto chiarire, intervenendo personalmente sul blog, la sua pozione. "Per motivi di opportunità al momento molte domande restano senza risposta. Grazie al giornalista Maurizio Macaluso oggi, dopo trentuno anni, qualcuno mostra finalmente interesse su questa brutta storia. Quando venni a conoscenza che Giuseppe Vesco si era impiccato portando con sé tutti i segreti di questa tragedia, rimasi profondamente ferito e ritenni di non essere più degno di portare la divisa. Lasciai l'Arma dei Carabinieri senza alcuna spiegazione. Ho sempre pensato che la tortura non porta alla vera verità. Mi rivolgo a tutti quei colleghi che quella notte erano presenti a sostenere la mia testimonianza. Voglio ricordare che il giuramento di fedeltà alla Repubblica, alle Leggi di questo Stato, alla Costituzione vennero quella notte calpestate da chi era posto dalle stesse alla difesa ed al rispetto. Gli stessi militari che quella notte, ritenendo di fare Giustizia usarono metodi cileni, sono gli stessi che nel corso dei successivi trent'anni hanno dato la vita per combattere la mafia. Questo mio appello, questa mia decisione di contribuire alla ricerca della verità può solo dare dignità all'Arma dei Carabinieri ed a coloro che hanno pagato con la vita il loro impegno per il rispetto della legalità". Tra coloro che scrivono c'è però anche chi va controcorrente. Chi non si scandalizza, chi invita a riflettere, a considerare il contesto in cui maturò la vicenda. "Non mi scandalizzerei più di tanto.... anche perchè chi uccide, chi ruba chi estorce non si fa di certo scrupoli", scrive un ex carabiniere. "Con questo non voglio dire che voglio difendere l'operato delle forze dell'ordine, però vorrei evidenziare come ogni qual volta succede qualcosa di negativo operato dalle forze dell'ordine si strumentalizzi.... Io penso che bisogna considerare i contesti storici, politici del momento che spingono a certi comportamenti. Sicuramente nella strage citata, ci sono molti risvolti oscuri, ma non credo che si sia volutamente operato per non far emergere la verità.... Ps. Sono un ex carabiniere e sono orgoglioso di esserlo stato". "Questa equazione mi sconcerta", risponde Zagor. "Se i delinquenti non si fanno scrupoli... neanche le forze dell'ordine se ne debbono fare!!! Sicuramente non gli sarà mai capitato di essere dall'altra parte della scrivania, quando con metodi da boia - questa è la giusta definizione - si estorcono le verità che perseguono gli inquirenti, non certamente la verità assoluta. Potrebbe essere vero che non si voleva occultare la verità in quel caso, questo però non esclude che si volessero trovare velocemente dei colpevoli a caso e non i reali colpevoli!". "Poveri ragazzi, loro hanno perso la vita, hanno sacrificato l'unica vita che avevano per garantire lo Stato e proteggere noi cittadini, e noi anziché pensare a loro parliamo dei metodi poco ortodossi che usano a volte le forze dell'ordine nei riguardi dei delinquenti", scrive Caterina, invitando tutti a non dimenticare il sacrificio dell'appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo, vittime di questa tragedia. "Non dico che si dovrebbe fare dente per dente, ma certo non riesco a provare tutto questo falso buonismo su chi non rispetta le leggi. A mio avviso noi stiamo confondendo il perdono dalla giustizia, perdonare non significa che non venga fatta giustizia, e chi sbaglia paga o in questa o nell'altra vita". C'è anche chi scrive alla nostra redazione. Chi pone altre domande, chi avanza altri sospetti. "Come mai ancora oggi si sentono casi di barbare torture per estorcere confessioni, come in certi paesi incivili?", chiede Lydia Adamo "Come mai uno Stefano Santoro s'indigna per le foto da lei pubblicate e non batte ciglio per "lo stupro della legalità" commesso dai carabinieri? La tortura è illegale in Italia, giusto? Ultimo ma non meno importante, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo sono morti si, ma siamo certi che fossero davvero innocenti? O forse erano incappati in qualcosa più grande di loro e andavano eliminati? Poi, come la storia ci ha dimostrato, tutto viene messo a tacere torturando quattro sventurati.... ". Un altro dubbio, un altro inquietante sospetto di questa torbida storia. Maurizio Macaluso

Alcamo e la strage della casermetta. Rino Giacalone il 14 luglio 2008 su liberainformazione.org. Si negano continuamente, e invece ecco che spuntano sempre i misteri e le deviazioni, mischiati alla storia di una Sicilia che non è possibile leggere in modo chiaro, per questi gialli irrisolti, per delle pagine se scritte sono state fatte sparire, o inghiottite negli archivi del «segreto di Stato», come è accaduto per la storia del bandito Giuliano (forse primo vero esempio di accordo tra mafia e settori dello Stato). Ci sono le commistioni che accompagnano la Sicilia da sempre, da quando Garibaldi sbarcò a Marsala e cercò subito i «picciotti» per sbarazzarsi dei Borboni, e la stessa cosa fecero gli americani che per occuparci fecero accordi con i «mammasantissima» di Cosa Nostra degli States e poi fecero ancora più potenti i mafiosi consegnando loro le città, continuando un rapporto fino ai giorni nostri se è vero come è vero che il super latitante Matteo Messina Denaro cercò sino agli anni ’90 aiuto negli Usa, attraverso i «re» del narcotraffico, come Rosario Naimo,  per far diventare la Sicilia stato americano. In mezzo ci sono anche le storie dei tentativi di golpe, dei mafiosi che dovevano essere alleati della destra eversiva, di principi e generali, ma non se  ne fece nulla perchè qualcuno a Roma dei capi del golpe chiese i nomi di chi avrebbe fatto parte dell’esercito dei mafiosi che avrebbero partecipato al colpo di stato del principe Borghese. In questa «pentola» ogni tanto ci sono episodi che emergono, che chiedono di essere riletti. Uno di questi è quello della strage della casermetta dei Carabinieri di Alcamo Marina. Era la notte del 26 gennaio 1976, la mattina successiva due agenti dell’allora «squadra politica» della questura di Palermo di scorta al segretario Msi Giorgio Almirante passando da Alcamo Marina videro il cancello aperto e la porta della stazione sfondata, diedero l’allarme dentro furono trovati i corpi di Carmine Apuzzo, carabiniere semplice, e Salvatore Falcetta, appuntato, crivellati a colpi di pistola. Al delitto di mafia pensò subito la Polizia, i Carabinieri con le loro indagini presero altre direzioni, inquadrarono il movente nella vendetta di una sorta di anarchico, Giuseppe Vesco, lo arrestarono, lui accusò altre 4 persone, poi ritrattò e disse che altri erano stati i suoi complici, prima di uccidersi in carcere. Vesco aveva fatto i nomi di Giovanni Mandalà, Giuseppe Gulotta e due minorenni, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo. Secondo il racconto di Vesco Mandalà avrebbe forzato la porta della caserma con la fiamma ossidrica, a sparare sarebbero stati Giuseppe Gulotta e Gaetano Santangelo, Ferrantelli avrebbe solo messo a soqquadro le stanze. I 4 arrestati confessarono dopo estenuanti interrogatori successivi al loro arresto avvenuto il 13 febbraio successivo all’eccidio dei carabinieri della «casermetta», ma davanti al procuratore ritrattarono, raccontarono delle torture subite e delle confessioni estorte. Vesco nel frattempo cambiava versione e assumeva ogni colpa su di se rilevando che «altri soggetti erano stati suoi correi». Fu trovato morto, suicida, in carcere. Erano trascorsi pochi mesi dalla strage e dall’arresto. Privo di una mano Vesco riuscì ad impiccarsi con una corda sistemata in una finestra della cella a due metri da terra. Erano dei balordi, questa la conclusione di un tormentato iter giudiziario, concluso da condanne, scaturite da una serie di atti contenuti in faldoni dove oggi le indagini riaperte non hanno tardato a riconoscere che ci sono elementi più per assolvere che per condannare. Giovanni Mandalà di Partinico, è uscito da questa storia perchè deceduto,Vesco come si diceva si è suicidato prima ancora di presenziare al processo di primo grado (che si era concluso con le assoluzioni per tutti tranne che per Mandalà), Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo sono fuggiti via dall’Italia e sono in Brasile al sicuro dall’estradizione (condanne definitive rispettivamente a 14 e 22 anni anche per la loro minore età all’epoca del duplice delitto), unico a finire a scontare la pena, l’ergastolo, Giuseppe Gulotta: lui ha presentato istanza di revisione del processo (con l’avvocato Pardo Cellini), indicando la persona che lo (li) scagiona, un ex brigadiere dei carabinieri che ha svelato che in quei giorni a tavolino fu deciso di incolpare quei ragazzi della morte dei due carabinieri, torturati e minacciati, costretti a confessare. È stato il quotidiano «La Stampa» e il giornalista Francesco La Licata a raccogliere il suo racconto dopo che una puntata della serie «Blu Notte» di Carlo Lucarelli, ha rilanciato i misteri di quella strage «Nel 1976 – raccontò l’ex brigadiere a La Licata – facevo parte del Nucleo Anticrimine di Napoli e fui mandato ad Alcamo per indagare sull’uccisione dei due militari. Mi porto dentro un peso che non sopporto più. E’ vero che i giovani fermati furono torturati. Io stavo lì e ho visto. A Vesco, che poi accusò gli altri, gli fecero bere acqua e sale e lo seviziarono. Fece ritrovare anche alcuni oggetti e due pistole. Ma non bastò, volevano i nomi dei complici. Anche le confessioni di questi furono ottenute in quel modo». «Ci sarebbe – svela La Licata in un suo articolo riprendendo ancora la confessione dell’ex brigadiere dell’Arma – anche una registrazione audio dove è impressa la voce dell’ufficiale che quella notte dirigeva le operazioni». Giuseppe Gulotta da tempo ormai vive in Toscana, con moglie e un figlio, ha trascorso 17 anni in carcere, da poco ha ottenuto il regime di semi libertà. la sua storia e complessivamente quella della strage è stata anche ripresa e ricostruita da una settimanale locale a Trapani, «QP» e dal giornalista Maurizio Macaluso. Gulotta pochi giorni addietro hanno riferito i quotidiani «La Stampa» e «La Sicilia» è stato sentito in procura a Trapani: ha detto ai magistrati che hanno riaperto le indagini sulla strage di non avere mai ucciso nessuno. «Mi sono commosso – ha raccontato Gulotta a La Licata per “La Stampa” – quando ho riproposto il film del mio arresto. Io che non capivo perchè mi mettevano le manette, io che venivo picchiato per confessare quello che non avevo fatto. Mi sono commosso quando ho ricordato la sentenza definitiva, coi carabinieri di Certaldo che mi sono venuti a prendere a casa. Piangevano pure loro, perchè mi conoscevano e sapevano che non avrei mai potuto commettere quei crimini. Piangevano, quando hanno dovuto strapparmi dal collo il mio bambino, che allora aveva un anno e mezzo». È partita una sorta di caccia – investigativa – su chi può avere ucciso i due carabinieri. Sui depistaggi e le torture, svelati dall’ex carabiniere, niente si può più fare, reati prescritti, ma su chi ha sparato, ancora è possibile indagare. Si stanno rileggendo vecchi atti giudiziari, ma anche verbali non proprio antichi, ce ne sono anche risalenti al 1999. Pentiti che parlando di quegli anni ’70 hanno confermato l’esistenza di piani di attacco allo Stato concordati tra mafia, eversione di destra, settori deviati dello Stato. Circostanze che non sono nuove raccontando di quell’Italia del 1976, travolta dalla cosiddetta «strategia della tensione», anni dopo si scoprirà che c’erano «poteri forti» come la massoneria, servizi segreti che servivano infedelmente lo Stato, a disposizione di politici rimasti nell’ombra, avevano stretto «patti» con uomini del terrorismo, della mafia, delle organizzazioni criminali. Uno «scambio di favori» per il quale tantissima gente è finita vittima innocente di bombe e attentati. La mafia fece parte di quel piano, dove comparve pure la figura di un principe «nero», Junio Valerio Borghese che chiamò i mafiosi per un golpe rimasto tentato. Ciò che avvenne in quei giorni di gennaio ad Alcamo sembra proprio frutto di una strategia. Vennero dapprima uccisi un sindacalista socialista, Antonio Piscitello e poi il democristiano Francesco Guarrasi; la notte dell’omicidio Piscitello, in una strada di Alcamo furono trovati anche 14 candelotti di dinamite che non esplosero per caso. Nella notte del 26 gennaio vennero trucidati i due carabinieri. Per gli omicidi Piscitello e Guarrasi nel 1977 la polizia avrebbe arrestato tre personaggi che diventeranno famosi anche per altro, Armando Bonanno, Giacomo Gambino e Giovanni Leone che nel giro di qualche anno si sarebbe scoperto essere uomini d’onore, legati a quelle cosche invischiate in delitti ancora più gravi. Leone si trovò coinvolto nel sequestro dell’esattore Luigi Corleo, imparentato con i Salvo di Salemi, i potenti esattori, rapito e mai restituito alla sua famiglia. La banda Vannutelli si scoprì essere bene in contatto con ambienti della destra eversiva. Un quadro esatto di quello che accadeva in quegli anni in provincia di Trapani lo scrisse in un rapporto, del 2 dicembre 1976, il capo della squadra Mobile Giuseppe Peri: mafia ed eversione di destra alleate, colpevoli dei crimini del tempo, forse anche dell’incidente aereo del Dc9 caduto a Montagna Longa. Nella vicenda della strage della casermetta  spunta anche il nome di Peppino Impastato, il giornalista ucciso nel 1978 dalla mafia a Cinisi. I carabinieri andarono anche nella sua abitazione a fare perquisizioni cercando prove di un coinvolgimento della sinistra extraparlamentare in quella strage e da Impastato fu trovato un volantino sulla strage della casermetta e che raccontava altro, denunciava che le indagini erano apposta pilotate verso ambienti politici della sinistra, un volantino scomparso, nei faldoni del processo per la uccisione dei carabinieri Falcetta e Apuzzo non se ne trova traccia, c’è il verbale di perquisizione in casa Impastato, ma quel volantino non c’è. In fin dei conti in questa vicenda questo sembra essere il passaggio più marginale. Ce ne sono di altre cose strane, anomale, alle quali la procura di Trapani oggi sta provando a fare chiarezza. Muovendosi doppiamente in maniera cauta, per il riserbo investigativo ma anche perchè i protagonisti di questa storia sono ancora «operativi». Ci sono indagini che in questi anni hanno riproposto scenari aggiornati rispetto a quelle commistioni del 1976, il «sistema» è rimasto in piedi, magari ha cambiato funzionamento e addentellati, si può anche essere chiamato «Gladio» o qualcos’altro, può avere avuto trovato utili riferimenti nelle logge massoniche di Palermo e Trapani o anche di Mazara del Vallo, dove c’erano comunque dei «punciuti» o per i riti esoterici o per quelli mafiosi, o per tutte e due le cose. Mentre Giuseppe Gulotta è tornato in Toscana alla sua semilibertà, e Ferrantelli e Santangelo stanno in Brasile. L’ultima volta furono rintracciati dai carabinieri, alcuni anni addietro: i militari partiti apposta da Trapani pedinando un sacerdote che faceva il fattorino per conto delle loro famiglie avevano, annunciato  il loro arresto poi però negato, niente estradizione. Anche allora Ferrantelli e Santangelo dissero che loro non hanno mai ucciso nessuno.

Le memorie dal carcere di Giuseppe Gulotta, "mostro" d'innocenza. Accusato ingiustamente dell'omicidio di due carabinieri, ha passato vent'anni in galera. E ora li racconta in un libro. Matteo Sacchi, Venerdì 03/05/2013, su Il Giornale. È una storia da brividi. Uno strano incrocio tra gli eventi narrati ne La colonna infame di Manzoni e il caso Dreyfus. Eppure non è accaduto nel Secolo di Ferro o nella Francia dell'Ottocento. È accaduta in Italia, in Sicilia, in pieno regime di democrazia. Ed è costata più di un ventennio di galera a un innocente, come ha stabilito una sentenza della Corte d'Appello di Reggio Calabria il 13 febbraio 2012. Ora Giuseppe Gulotta che a lungo ha dovuto convivere con l'infamia di essere considerato il mostro di Alcamo, ha deciso di raccontare (con Nicola Biondo) la propria storia in un libro prossimo all'uscita: Alkamar. La mia vita in carcere da innocente (Chiarelettere). Ecco i fatti. Il 27 gennaio 1976 ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani, la stazione dei Carabinieri viene attaccata. Agli inquirenti la scena si presenta così: la porta della casermetta è stata abbattuta usando una fiamma ossidrica. Nelle loro brande giacciono, freddati, due giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e l'appuntato Salvatore Falcetta. Sembra siano stati colti nel sonno, soltanto uno ha avuto un accenno di reazione. Da subito le indagini si rivelano complesse. L'attacco sembra un lavoro da professionisti, il fatto che i carabinieri siano colti nel sonno è poco spiegabile. Per non parlare del movente. Due le piste battute: quella mafiosa (l'anno prima erano stati uccisi l'assessore ai lavori pubblici di Alcamo, Francesco Paolo Guarrasi, e il consigliere comunale Antonio Piscitello) e quella dell'attacco terroristico (arrivò un comunicato di rivendicazione, subito dopo smentito dalle stesse Br). Viene spedita sul posto in maniera piuttosto informale una squadra investigativa dei carabinieri comandata da Giuseppe Russo (colonnello dei carabinieri poi ucciso dalla mafia il 28 agosto 1977 e insignito della medaglia d'oro al valor civile). Poi finisce nelle mani degli inquirenti un certo Giuseppe Vesco. È un carrozziere della zona, monco di una mano, viene trovato in possesso di armi e oggetti che sembrerebbero provenire dalla Stazione di Alcamo. La pista sembra buona e gli uomini di Russo si fanno prendere la mano. Come rivelerà, troppi anni dopo, uno di loro, Renato Olino, usano le maniere forti, molto forti. Vesco per sfuggire al dolore fa i nomi di una serie di ragazzi di Alcamo tra cui Giuseppe Gulotta. Olino non è convinto, vorrebbe attendere i riscontri della scientifica, gli altri vogliono giustizia subito, portano in caserma quelli nominati da Vesco. Secondo Gulotta, all'epoca manovale diciottenne che aveva appena fatto il concorso per entrare in Finanza, anche a loro tocca la linea dura. Ecco che cosa racconta nel libro: «Schiaffi, tre, quattro, a mano aperta... Mani coperte di guanti neri continuano a colpirmi... Il ferro freddo mi scortica la parte sinistra della faccia: è una pistola. Il clic del cane che si alza e si abbatte a vuoto». L'interrogatorio per cui non è stato fatto nessun verbale e a cui non presenzia l'avvocato dura diverse ore. Alla fine Gulotta cede: «Vi dico tutto quello che volete, basta che la smettete». Nella testa di questo ragazzino terrorizzato ciò che conta è farli smettere. Non capisce che firmare una confessione può distruggergli la vita. Quando arriva al carcere di Trapani e finalmente incontra i magistrati prova a dire la sua verità: «Lei conferma quello che ha detto a verbale?. Se ho fatto quelle dichiarazioni è perché sono stato picchiato tutta la notte». Secondo Gulotta gli rispondono: «È impossibile che per le botte si confessi un omicidio». Gli fanno una visita medica, risultano delle contusioni, ma secondo i Carabinieri purtroppo è caduto...E da questo punto in poi la storia giudiziaria di Gulotta oscilla fra la sua testimonianza iniziale, le prove labili, e la modalità in cui si sono svolti gli interrogatori. Anche perché Vesco, il testimone chiave che ha coinvolto gli altri, in carcere si suicida. Pur essendo monco riesce a impiccarsi a una grata altissima e, per non disturbare, si posiziona anche un fazzoletto in bocca. La prima sentenza della corte di Assise di Trapani assolve Gulotta per insufficienza di prove. Però è vaga sulle violenze. Per ciò che è avvenuto nella caserma di Alcamo si limita a un «critico giudizio» e parla di «maltrattamenti e irregolarità». Nel 1982 si passa alla Corte d'Appello di Palermo che ribalta la sentenza: Gulotta è condannato all'ergastolo. Si accumuleranno i processi, sino a che il 19 settembre 1990 la sentenza diventa esecutiva. Gulotta deve entrare in prigione, per lo Stato è un assassino. Per un attimo ha la tentazione di fuggire, poi rinuncia. Entra in carcere, affronta il calvario cercando di essere un detenuto modello, per uscire il prima possibile. Nel 2010 arriva la libertà vigilata. Intanto qualcuno ha dei terribili rimorsi di coscienza. È l'ex brigadiere Renato Olino. Aveva già provato a raccontare di quegli interrogatori, soprattutto di quello di Vesco. Non trovò sponda istituzionale e nemmeno in certi giornalisti, che non vollero saperne delle sue verità. Poi però sul caso torna la televisione con la trasmissione Rai Blu notte - Misteri italiani, ricostruisce la storia anche se con alcune inesattezze e Olino via web si fa avanti per raccontare. Così la magistratura di Trapani apre un'inchiesta e arriva anche il processo di revisione: il 26 gennaio 2012 il procuratore generale della Corte d'Appello di Reggio Calabria ha chiesto il proscioglimento di Giuseppe Gulotta da ogni accusa; proscioglimento raggiunto in via definitiva il 13 febbraio 2012. Sulle cause di un'indagine condotta così male si indaga ancora. Giuseppe Gulotta, che ha chiesto allo Stato un risarcimento di 69 milioni di euro, racconta di essere tornato sul luogo dove c'era la stazione dei carabinieri di Alcamo Mare. Ora li c'è un cippo per i due carabinieri morti. A loro nessuno ha ancora dato giustizia, a lui l'hanno data con 36 anni di ritardo. Anni che non torneranno più.

Stefano Santoro pagina Facebook 15 novembre 2019 alle ore 22:20 ha condiviso un link. Vesco in contatto con Curcio .Fogli con stemma delle Br trovati nelle perquisizioni ad Alcamo nel 76., lo stato maggiore delle Br a Catania un mese prima della strage di Alcamo Marina, ovvero gli uomini del sequestro Moro. Una autovettura intercettata a Cefalù con dei brigatisti. Un tentativo di attentato con uomini vestiti da carabinieri, nei pressi di Messina, dopo la strage. Puzza di Br a Cinisi. Vesco disse nelle sue lettere, che chi fece quella incursione, non aveva esperienza di guerriglia.....Fossero stati estremisti di destra ,oggi ne parlerebbero tutti i giornali e si aprirebbero fascicoli contro ignoti. Viva la democrazia sinistriota!

MISTERI CATANESI. Aureliano Buendìa Sud Press 9 Luglio 2013. Lentamente, le timide scoperte delle indagini della Magistratura da una parte e il contributo di vari autori storici dall’altra, viene emergendo il ruolo strategico della città di Catania in alcuni Misteri italiani. Una città affidabile la nostra, che tiene per decenni i segreti nel suo ventre molle, un po’ come la lava che sembra inghiottire tutto ma che talvolta invece conserva in una sorta di bolla senza distruggere. Allo stesso modo alcuni ambienti hanno saputo nascondere, coprire e ricattare grazie a verità insopportabili. D’altra parte, Catania è periferia, persino rispetto a Palermo, e qui l’afa soffoca tutto, qui lo Stato, salvo qualche episodico errore, manda funzionari levantini, annoiati, preoccupati di passare indenni sotto l’Etna per poi incassare il premio alla loro omertà.

Quali sono questi ambienti e cosa nascondono e cosa hanno avuto in cambio? Si tratta di fatti delicatissimi, per alcuni dei quali non sarebbe ancora intervenuta alcuna prescrizione, ma noi del resto ce ne occupiamo per quel piacere della verità che coltiviamo non come esteti ma come cittadini che non dimenticano, come debito che manteniamo nei confronti di quanti hanno pagato con la vita. In questo pezzo ci occuperemo del delitto Moro e prima ancora dei contatti delle Brigate Rosse a Catania. Pochissimi sanno che il 12 dicembre del 1975 presso il centrale Hotel Costa – in via Etnea – alloggiavano Giovanna Currò con il suo compagno. In verità si trattava di Mario Moretti, capo storico delle BR, e della sua compagna Barbara Balzerani.

Cosa facevano i due brigatisti a Catania? Sono oramai centinaia i documenti che attestano come gli esponenti delle BR abbiano in diverse occasioni “preso un caffè” con i rappresentanti di Cosa Nostra e Catania aveva la sua influente Famiglia, della quale non a caso si ricorderà il Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa riprendendo la sua attività svolta come Generale e come responsabile delle carceri italiane. Sempre Moretti tornerà a Catania, nelle settimane successive, questa volta alloggiando all’Hotel Jolly di Catania, e cioè a 200 metri dal Palazzo di Giustizia e dal Comando provinciale dei Carabinieri. A Catania operava già un Nucleo di Lotta Continua, che era stato organizzato fino al 1976 da Franca Fossati, appositamente trasferitasi nella nostra città appunto per organizzare il gruppo etneo ed è noto che alcuni militanti di Lotta Continua passeranno alle Brigate Rosse proprio in quegli anni. Allo stesso modo sono più o meno noti gli spostamenti che la Faranda, storica carceriera brigatista, poi dissociatasi e che pare si sia opposta alla sentenza di morte nei confronti di Aldo Moro, effettuava da e verso Catania, godendo di una certa libertà. Nei 55 giorni del rapimento di Aldo Moro a Catania succedeva qualcosa di particolarmente grave, su cui non si è mai fatta piena luce, e cioè, mentre gli uomini di Dalla Chiesa si occupavano di prendere contatto nelle carceri con quei detenuti, anche appartenenti a Cosa Nostra, che potessero collaborare con lo Stato per dare informazioni utili alla liberazione dello statista e la Mafia da parte sua non vedeva l’ora di rendersi utile, agli uni (chi trattava) e agli altri (che volevano morto l’On. Moro), il 3 aprile – 16 giorni dopo la strage di via Fani ed in pieno rapimento – ignoti gambizzavano il Comandante delle guardie carcerarie di piazza Lanza. Qualcuno, ed anche chi scrive, ricorda nitidamente l’arrivo dei Carabinieri in assetto antisommossa entrare in forze dentro la Casa circondariale mentre altri uomini cinturavano letteralmente piazza Lanza e le vie limitrofe.

Cosa era accaduto? Cosa si cercava? Chi era detenuto a Catania in quel momento? Qualcuno voleva interrompere quel tentativo trattativista? Non risulta, di contro, che mai collaboratore di giustizia abbia chiarito la circostanza, probabilmente trattandosi di questione troppo alta e delicata per essere trattata da pentiti comunque di piccolo cabotaggio ed in ogni caso terrorizzati per le conseguenze. A Catania, si vivevano gli anni dello splendore dei Cavalieri mentre la Democrazia Cristiana – sul libro paga dei primi – era targata Andreotti, con il suo luogotenente l’on. Nino Drago, ed era fermamente contraria alla trattativa. Erano gli anni in cui un capomafia in piazza Università, alla fine di un comizio si era permesso, e si poteva permettere, di schiaffeggiare ostentatamente il rappresentante andreottiano e ciò accadeva senza che alcuno tra le forze dell’ordine osasse intervenire. Santapaola completava la sua scalata, eliminando di lì a poco proprio quel capomafia schiaffeggiatore. Pippo Fava osservava e scriveva, e sarebbe interessante indagare anche in questa direzione, su cosa cioè il coraggioso giornalista avesse scoperto della complicità tra mafiosi e settori dello Stato, in quella che sarebbe stata la madre di tutte le trattative ed anche di quella più scellerata che si sarebbe consumata 15 anni dopo. L’omicidio di Fava fu un fatto eclatante che non portò bene ai mafiosi e quindi non si può escludere che in quel 5 di gennaio del 1984 – siamo a meno di 6 anni dall’omicidio Moro, in piena celebrazione di uno dei tanti processi su quel mistero della Repubblica (il processo era cominciato il 14 aprile 1982), ad appena due anni dalla eliminazione “mafiosa” (la pista catanese?) del Prefetto Dalla Chiesa – qualcuno abbia fatto un favore a qualcun altro, secondo la teoria dei cosiddetti cerchi concentrici. I Siciliani di Fava, di Orioles e degli altri "ragazzi", scrivevano di Ciancimino, degli esattori di Salemi, dei rapporti con i Cavalieri del Lavoro; Calogero Mannino diventava segretario regionale della DC, Rocco Chinnici insisteva sul terzo livello. Il cav. Costanzo e Mario Ciancio Sanfilippo nel 1981 acquistavano il 16% del Giornale di Sicilia. Incredibile, quanti uomini della trattativa si incontrino già in quegli anni. Tornando all’anno del sequestro Moro – il 1978 – dobbiamo registrare un altro episodio inquietante, che assume i contorni di un messaggio probabilmente indirizzato alle alte sfere della Politica nazionale: il 14 di settembre di quell’annus orribilis diversi colpi di pistola attingono il segretario della federazione socialista di Catania. I socialisti di Craxi erano stati favorevoli alla trattativa per liberare l’on. Aldo Moro e Craxi aveva ricevuto dal Gen. Dalla Chiesa informazioni riservatissime sul rapporto delle BR a Catania con ambienti malavitosi organizzati e con i potentati cittadini che si apprestavano a conquistare l’Italia. Qualche mese dopo Salvo Andò veniva eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati, rompendo il predominio democristiano che in Sicilia aveva visto fino ad allora i socialisti di Capria subalterni agli andreottiani. Interessante, sulle relazioni pericolose mafia-terrorismo, saranno anche le rivelazioni di un funzionario di polizia come Giovanni Palagonia, mentre più di tutti al cerchio magico catanese si avvicinerà, dopo Chinnici, Falcone e Borsellino, il PM Carlo Palermo, scampato all’attentato in cui persero la vita una mamma con i suoi due bambini trovatisi nel momento sbagliato nel luogo sbagliato. Catania, quindi, in quei giorni del rapimento Moro aveva il suo ruolo e le inconfessabili trame di quei giorni testimoniano il livello dei contatti catanesi, la commistione tra apparati dello Stato e crimine organizzato, il ruolo di alcuni imprenditori che avevano mostrato appoggi ed ambizioni smisurate, osservatori che avevano forse intuito tutto e che sarebbero caduti negli anni successivi sotto i colpi di quell’Anti Stato mentre altri avrebbero fatto e, pensiamo, alcuni continuano a fare carriera nelle Istituzioni. D’altra parte sono passati appena 35 anni, un tempo breve per i nostri longevi politici. Certi segreti, fino a tanto che rimangono tali, pesano sulla coscienza di una città e sul suo futuro come macigni, ciclopi di lava che tutto coprono ma non distruggono, perché i segreti come la lava si ingrottano. E tutto scorre. Le Brigate Rosse a Catania, i contatti con la Mafia, i Cavalieri e Dalla Chiesa…Autore Aureliano Buendìa

Stefano Santoro pagina Facebook 14 novembre 2019 alle ore 19:20 ha condiviso un post. Fabio Lombardo è il figlio del maresciallo Lombardo trovato morto nella sua auto, all'interno del cortile, del comando regionale dei carabinieri a Palermo. Alcuni giorni prima era stato attaccato dal sindaco Leo Luca Orlando, nello stesso modo, come era stato fatto con Falcone. Nell'auto del sottufficiale non c'era traccia di polvere da sparo. Si parlò di suicidio.

Fabio Lombardo pagina facebook 14 novembre 2019 alle ore 15:15. Negli ultimi 24 anni ho incontrato tanti giornalisti, la stragrande maggioranza dei lecchini e vigliacchi. Tra questi, 3 palermitani sono stati codardi: Salvo Palazzolo (La Repubblica ), una volta ha scritto un pezzo sulla borsa di mio padre scomparsa dall'auto. Ricordo di averlo incontrato dopo qualche mese e gli dissi: Salvo, perché non hai più scritto? Perché non ti sei fatto più sentire? Risposta: "Da quando ho scritto quell'articolo, i giudici non mi fanno più entrare negli uffici....quindi DEVO LAVORARE. Ah bene!

Salvo Sottile, dopo il 4 marzo 95 chiamava decine di volte al giorno perché voleva notizie, dicendo che era un amico e che il caso lo aveva toccato tanto....Infatti! Qualche anno fa ha inviato un suo giornalista per fare un servizio sulle irregolarità del caso Lombardo. La puntata non andò mai in onda. Perché? Un mistero.

Infine la nostra iena palermitana Ismaele La Vardera, direi più un gattino che gioca a fare il giornalista. Quest'estate mi contatta dicendo che vuole realizzare un servizio sul caso Lombardo, come quello Cucchi o Rossi. Intanto quando parlavo con lui mi sembrava di avere di fronte un bambino, perché, vista l'età, non conosceva i personaggi e diceva sempre: ma vero? Stai scherzando? Io penso che la redazione delle Iene non sapeva nulla su questa sua iniziativa. Chiedeva documenti particolari, nomi particolari...per fare cosa? Mi viene da ridere quando mi trovo giornalisti come questi. Un altro giornalista palermitano mi ha intervistato ma, prima di iniziare la conversazione gli chiesi se potevo parlare di Orlando. Risposta: No perché a Palermo ci devo lavorare....e Minchia! I giornalisti che hanno seriamente affrontato questa storia hanno dovuto pagare con la giustizia italiana... E ci tengo a ricordare Daniela Pellicanò, Giammarco Chiocci e Roberta Ruscica.

Stefano Santoro 13 novembre 2019 alle ore 06:10 pagina Facebook ha condiviso un link. Ecco chi è NICOLA BIONDO, colui il quale chiama bestie in divisa i carabinieri di Alcamo , ecco a chi ha affidato Giuseppe Gulotta, la stesura del suo libro. Leggete l'articolo. Mitrokhin, “palestra” per manipolatori occulti Il caso Nicola Biondo di Gabriele Paradisi – Gian Paolo Pelizzaro – Sextus Empiricus il 24 ottobre 2011. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin ha fatto da palestra ad alcuni manipolatori più o meno occulti. Come abbiamo più volte scritto, il caso più eclatante di manipolazioni multiple riguarda il “Documento conclusivo” di minoranza, presentato il 23 marzo 2006 dai commissari di centrosinistra. A quella relazione lavorò un agguerrito pool di consulenti, composto da magistrati, storici, ricercatori, giornalisti e aspiranti tali, fra cui tale Nicola Biondo. Durante i lavori della Commissione, Biondo ha vissuto in una sorta di totale anonimato. Raramente è uscito allo scoperto, mai è stato delegato a svolgere attività istruttorie come ricerche d’archivio, in Italia o all’estero, rare le sue comparsate durante le audizioni, sporadiche le sue presenze a Palazzo San Macuto per lo svolgimento di quelle attività di studio e lettura degli atti. Questa sorta di apatia, però, ha subito uno scossone nel luglio del 2005 quando Gian Paolo Pelizzaro, dopo 25 anni di totale segreto, ha trovato negli atti della Questura di Bologna il nome di Thomas Kram, ossia del terrorista tedesco presente in città il giorno della strage. Da quel momento, Biondo ha ritrovato il fuoco sacro del lavoro di ricercatore, vestendo immediatamente i panni di un inflessibile e zelante investigatore. Ha iniziato ad estrarre copia degli atti depositati in Commissione, ha fatto le ore piccole a leggere, studiare e congetturare. Si è documentato, a modo suo, facendo una sorta di corso accelerato sulla storia del superterrorista Carlos e della sua organizzazione “Separat”, scaricando da internet intere rassegne stampa e quant’altro. Da un giorno all’altro, si è trasformato in un “grande esperto” di terrorismo internazionale e in particolare di quello di matrice arabo-palestinese (per il quale ha tradito una “passione” molto speciale), capace di dispensare – a destra e a manca – patenti e certificati di attendibilità di questo o quel documento, su questa o quella ricostruzione dei fatti. Il personaggio, dall’alto della sua profonda conoscenza e suprema competenza, ha iniziato ad esprimere giudizi e a sparare sentenze su questo o quell’argomento: l’importante è che si parlasse di Carlos e del suo ipotetico ruolo (come capo di “Separat”) nell’organizzazione della strage alla stazione di Bologna. Obiettivo: demolire, anche con informazioni e notizie fasulle, ogni ipotesi di collegamento tra il gruppo del terrorista venezuelano, il terrorismo di matrice arabo-palestinese e l’attentato del 2 agosto 1980. Lentamente, ma inesorabilmente Biondo, da anonimo e svogliato collaboratore della Mitrokhin, si è tramutato in un infaticabile censore e castigatore. Uno dei più severi e spietati. Meglio tardi che mai, si potrebbe obiettare. Il suo nome è venuto fuori prepotentemente un anno dopo la scoperta del nome e del ruolo di Kram a Bologna e quattro mesi dopo la formale chiusura dei lavori della Commissione Mitrokhin, in due articoli-fotocopia pubblicati il 28 luglio del 2006 dai quotidiani di sinistra Liberazione e l’Unità, basati su un medesimo elaborato, proprio a firma Biondo. Gli articoli erano titolati “2 agosto strage di Bologna: smentita la pista araba” (Saverio Ferrari, Liberazione”) e “Quanti depistaggi per coprire la strage fascista” (Vincenzo Vasile, l’Unità) e cercavano, partendo proprio dalle avventurose “ricostruzioni” di Biondo, di dimostrare l’esistenza di un fantomatico piano da parte di alcuni esponenti di An per depistare (non si sa cosa, visto che su Bologna dal 1995 c’è il giudicato della Cassazione), dalla matrice fascista della strage. In uno degli articoli si leggevano frasi di questo tenore: «Smascherato l’ultimo depistaggio di Alleanza nazionale costruito con documenti mai esistiti». Non solo temerari, ma pericolosamente superficiali. Ebbene, grazie a Biondo e alle sue teorie, i direttori responsabili dei due quotidiani, così come gli estensori degli articoli, sono stati tutti querelati e rinviati a giudizio per diffamazione aggravata dal mezzo stampa. C’è un processo in corso davanti al Tribunale Penale di Roma e la prossima udienza dibattimentale è fissata al 7 novembre 2011 (per un approfondimento sulla vicenda, si veda anche l’articolo “Un omicidio senza colpevoli”, LiberoReporter, febbraio 2011). Anche con un certo coraggio (vista la palese violazione delle norme e delle regole sulla tenuta del segreto e sulla riservatezza alle quali si devono attenere coloro che hanno fatto parte delle commissioni d’inchiesta), Biondo è citato come teste da parte degli imputati. Vedremo cosa dirà, sotto giuramento, il nostro castigatore. Intanto, abbiamo scoperto un altro prezioso riscontro al metodo scientifico impiegato da Biondo per svolgere il suo lavoro di ricercatore attento e scrupoloso. Abbiamo così preso in esame l’edizione italiana del libro di Emmanuel Amara, “Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra” (Cooper, febbraio 2008, pp. 205), con introduzione di Giovanni Pellegrino, traduzione di Alice Volpi e curato proprio da Nicola Biondo. Per apprezzare la qualità e la raffinatezza dei suoi interventi, è però necessario procurarsi l’edizione originale francese del libro di Amara, “Nous avons tué Aldo Moro” (Patrick Robin Éditions, novembre 2006, pp. 175). Mettendo a confronto i due testi si rileva una serie impressionante di modifiche che spesso cambiano il senso del discorso. Interventi, questi, che non possono certo essere imputati alla traduzione. Volendo farne una dettagliata classificazione, possiamo riconoscere:

1. L’aggiunta di 46 note a pie’ di pagina, intervento in apparenza migliorativo, ma non segnalato come tale (nel testo originale francese non vi è infatti alcuna nota).

2. L’eliminazione di brani (significativa ci sembra la soppressione delle cinque pagine di testo con le dichiarazioni di Giulio Andreotti sul caso Gladio dell’ottobre 1990).

3. Traduzioni modificate mediante aggiunte o sottrazioni di parole o manipolazioni di testo.

4. Trasformazioni di parti di testo virgolettate (ossia citazioni degli intervistati) in brani apparentemente attribuiti all’autore (ossia Amara).

Va dato atto che Biondo, a pagina 14, ha avuto l’accortezza di preavvisare i lettori con una dichiarazione pedagogico-programmatica: «La versione originale di questo volume ha subito alcune modifiche nell’edizione italiana. Ciò è dipeso dalla necessità di rendere il testo quanto più comprensibile a coloro che non hanno vissuto direttamente quella storia e a chi l’ha dimenticata. Altre modifiche si sono rese necessarie a causa dell’emergere di documenti e testimonianze successive alla pubblicazione dell’opera in Francia». Il lettore dell’edizione italiana non è tuttavia in grado di identificare nessuna delle modifiche apportate dal curatore. Volendo anche seguire il ragionamento di Biondo (excusatio non petita?), non si capisce nemmeno quali siano i nuovi documenti emersi tra la pubblicazione in Francia del lavoro di Amara (novembre 2006) e la pubblicazione in Italia dell’edizione curata da Biondo (febbraio 2008). Ad ogni modo, veniamo al dunque per fare apprezzare alcuni eclatanti e macroscopici esempi di “chirurgia giornalistica”, veri e propri “trapianti multipli” eseguiti da quel ligio e solerte “gendarme della memoria” di Nicola Biondo. Cerchiamo ad esempio di verificare cosa c’era nel testo originale francese di così poco fruibile per il pubblico italiano. Presto detto: c’erano alcuni “organi” decisamente corrotti e impresentabili che andavano assolutamente e tempestivamente rimossi e sostituiti con organi “sani”. Qui di seguito alcuni esempi.

Testo originale edizione francese

Testo manipolato edizione italiana

[p. 15] “L’OLP de Yasser Arafat fournit des armes de tous calibres aux Brigades rouges et le magistrat [Ferdinando Imposimato] y voit également une connexion entre le KGB et les brigadistes.”

[traduzione] “L’OLP di Yasser Arafat fornisce armi di tutti i calibri alle Brigate rosse e il magistrato [Ferdinando Imposimato] vede anche una connessione tra il KGB e i brigatisti.”

[p. 31] “Una fazione dell’Olp di Yasser Arafat riforniva le Brigate rosse di armi di ogni calibro e il magistrato [Ferdinando Imposimato] si chiede se attraverso questi rapporti accertati le Br siano entrate in contatto con i servizi segreti di altri Paesi.”

Subdolo intervento di sublime maestria. L’Olp di Yasser Arafat, icona della sinistra fin dagli anni Sessanta, non poteva certo essere citata e messa sul banco degli imputati come responsabile dei traffici di armi con le Brigate rosse. Quindi era meglio coinvolgere qualche imprecisata fazione palestinese, magari eretica ma pur sempre in termini generici, senza calcare la mano su Arafat. Poi, la certezza di un magistrato [“che vede connessioni”] si trasforma in una semplice domanda [“si chiede se esistano connessioni”]. Ma il finale indubbiamente ha qualcosa di straordinario, di funambolico. Il famigerato Kgb, che però dobbiamo ricordare è stato pur sempre il potente servizio segreto della Grande Madre Sovietica “sol dell’avvenire”, è eliminato dal testo e soppiantato da più rassicuranti e imprecisati “servizi di altri Paesi” (quali poi? non è dato saperlo), con la speranza che nella testa di un lettore qualsiasi possa spuntare anche l’idea della Cia, perché no. Ora viene da domandarsi se l’autore del libro, Amara, sia stato consultato e se abbia concordato con Biondo queste manipolazioni che, da un punto di vista tecnico, alterano in profondità il significato originale. Biondo nello stesso libro si è adoperato anche in difesa di un’altra “sacra icona” della sinistra, ovvero il mitico Sessantotto. In questo caso il trapianto ha comportato anche un leggero spostamento temporale.

Testo originale edizione francese

Testo manipolato edizione italiana

[p. 29] “Depuis la fin des années 60, L’Italie est plongée dans le chaos”.

[traduzione] “Sin dalla fine degli anni Sessanta, l’Italia è immersa nel caos”.

[p. 50] “Dalla metà degli anni Settanta l’Italia è piombata nel caos”. Tutto questo non può essere derubricato come un banale caso di (scorretta o errata) esegesi. È qualcos’altro. Nasconde dell’altro. Ha altre e più inquietanti implicazioni. Il mettere mano ai testi, ai documenti, manipolare il contenuto, alterare il loro significato è un’attività non casuale, non banale, non innocente. È un’attività che ha delle finalità. Tutto questo nasconde una volontà e un movente. Tutto questo deve avere un perché. Ciò che stupisce e inquieta è l’assoluta mancanza di rispetto del dato reale. In Italia, c’è un piccolo esercito di “gendarmi della memoria” che lavora per imbrogliare, occultare e manipolare i fatti. C’è ancora chi, a distanza di 22 anni dalla caduta del Muro di Berlino e dal crollo dei regimi dell’Est, teme la verità come fosse un morbo mortale per la coscienza collettiva. Per questi signori, cresciuti nelle menzogne della propaganda ideologica, la verità deve essere funzionale al dato politico. Altrimenti va estirpata come una pianta malata.

Pillole di saggezza «La cultura, la lingua, la forma mentis del falsario finiscono sempre per fare capolino, anche nelle più sagaci fabbricazioni». (Luciano Canfora, “Il viaggio di Artemidoro”, Rizzoli, Milano 2010, pp. 313). (Dal nostro portale tematico segretidistato.it)

Stefano Santoro pagina facebook 27 ottobre 2019 alle ore 15:09. Il movente, solo il movente resta il mistero sulla morte di Salvatore e Carmine. Di recente ho appreso ,da fonte autorevole, che in Calabria la stessa notte, in una casermetta di campagna , un plotone di carabinieri era pronto ad affrontare una incursione di alcuni terroristi. Non accadde nulla, o meglio, una strage avvenne ad Alcamo Marina, e quei carabinieri si spostarono ad Alcamo per i rastrellamenti. Rimane il mistero sulla figura di Giuseppe Vesco, i suoi rapporti con i Nap, le sue lettere inviate al più grande anarchico italiano, Alfredo Maria Bonanno, che non solo pubblicò le lettere sulla rivista Anarchismo, ma commentò il "fatto" . Perché Bonanno le pubblica , e ne trae spunto per esprimere le sue idee , e perché Vesco fa riferimento a Sansone ,ex brigatista e ai compagni ? Chi conosceva Vesco, nell'ambiente anarchico? Siamo certi che non aveva una preparazione letteraria, anarchica ideologica, tale , da non poter scrivere quelle lettere ? Perché Giuseppe Vesco , tentò di arruolare ad Alcamo, suoi coetanei , proponendo una lotta di classe (vedi intervista nel dossier Ammazzaru du sbirri) . È chiaro che i carabinieri non approfondirono all'epoca, la figura di Vesco . Quali soggetti , quali mandanti, o quali complici Vesco coprì durante le sue rivelazioni ? Perché i carabinieri si spinsero fino a Cinisi, a casa di Peppino Impastato , dopo aver perquisito attivisti di sinistra e di destra , nel territorio tra Alcamo e Castellammare ? Chi aveva l'interesse di "suicidarlo" ? Esiste ancora oggi qualcuno, che potrebbe dare risposte a queste domande ? Voi che leggete come al solito rimarrete muti , si dice in gergo alcamese..."mi fazzu lu me filaru". Siamo un popolo a cui hanno imposto una cultura del mutismo, dinanzi a certe situazioni. La libertà di ogni uomo, è anche partecipazione, senza la paura di dover esprimere la propria opinione. Questa società d'altronde, ci ha lasciato solo la libertà di opinioni, e poco, pochissimo potere decisionale sulla vita pubblica. Grazie per la lettura.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Mafia-Finanziamenti.

Messina, le mani dei clan sui fondi europei. Finanziamenti milionari per terreni “fantasma”: 94 arresti. Blitz di Gdf e Ros. Coinvolti boss e insospettabili, anche un notaio: riuscivano a ottenere soldi per appezzamenti mai avuti. Salvo Palazzolo il 15 gennaio 2020 su La Repubblica. Per anni, l’Unione europea ha pagato ai boss siciliani milioni di euro di contributi per lo sviluppo dell’agricoltura su terreni fantasma. E’ una truffa colossale quella scoperta dal Gico della Guardia di finanza e dal Ros dei Carabinieri nell’ambito di un’indagine della direzione distrettuale antimafia di Messina coordinata dal procuratore Maurizio de Lucia. Sono 94 le misure cautelari scattate all’alba: fra i 48 finiti in carcere, lo stato maggiore di due storiche cosche della mafia di Tortorici, il cuore del Parco dei Nebrodi, i “Bontempo Scavo” e i “Batanesi”; fra i 46 ai domiciliari, ci sono anche un insospettabile notaio e una decina di dipendenti dei Centri di assistenza agricola. Erano i complici a mettere a posto ogni pratica che arrivava all’Unione europea. Le aziende legate ai padrini richiedevano i contributi Agea (l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura) dichiarando di avere in affitto particelle di terreni di cui in realtà non disponevano: è bastato scorrere la lista per trovare terreni che appartengono alla Regione, al Demanio, ai Comuni, uno è addirittura all’interno dell’aeroporto palermitano di Boccadifalco, altri sono sparsi per l’Italia. Una truffa clamorosa, sarebbe bastata una semplice verifica per bloccarla, e invece nessuno ha controllato, anzi chi doveva controllare era complice. Così, fra il 2010 e il 2017, l’Unione Europea ha versato 5 milioni di euro a 151 aziende agricole della provincia di Messina in mano ai boss di Tortorici. E alcuni di quei soldi sono finiti anche su conti esteri, segno di una grande capacità organizzativa dei boss. I fondi razziati sono quelli messi a disposizione dal “Feaga”, il Fondo europeo agricolo di garanzia, e il “Feasr”, il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale, misure che avrebbero dovuto dare slancio al parco dei Nebrodi, invece si sono trasformate in una grande occasione mancata. Protagonisti di questa storia sono due clan che hanno subito condanne pesanti negli ultimi vent'anni: di recente, alcuni degli esponenti più in vista delle famiglie di Tortorici sono però tornati in libertà, e hanno riorganizzato relazioni e affari. I boss dei Nebrodi hanno da sempre contatti con i mafiosi di Palermo e di Catania. Le indagini hanno documentato nuovi incontri, la mafia più antica della Sicilia si riorganizza. Nel segno della modernità. Grazie a una rete di insospettabili complici. E' ormai la mafia dei pascoli virtuali.

Mafia dei Nebrodi: maxi-blitz per la truffa dei fondi europei. Le Iene News il 15 gennaio 2020. Dda di Messina, Ros e Guardia di Finanza hanno arrestato 94 persone con l’accusa di avere intascato 5,5 milioni di euro di contributi europei all’agricoltura. Una truffa diffusissima tra le famiglie mafiose siciliane, di cui ci ha parlato anche Gaetano Pecoraro. Scattano le manette per 94 persone, accusate di aver intascato illecitamente oltre 5,5 milioni di euro di contributi europei all’agricoltura. L’indagine, portata avanti da Ros e Guardia di Finanza, ha indagato quasi 200 persone, produttori agricoli della zona dei Nebrodi, in Sicilia: è il più grande blitz messo a segno contro i clan di quel territorio. Un territorio e una truffa di cui ci ha parlato anche Gaetano Pecoraro, nel servizio che potete rivedere qui sopra. Le manette sono scattate per alcuni esponenti delle famiglie mafiose dei Batanesi e dei Bontempo Scavo, accusati di intestazione fittizia di beni, estorsione, truffa aggravata, associazione mafiosa e traffico di droga. Semplice il meccanismo della truffa: si individuavano terreni liberi, sui quali cioè non erano stati richiesti i finanziamenti europei, grazie alla complicità di dipendenti delle camere di commercio che avevano accesso ai dati. In un secondo momento i proprietari di quei terreni venivano convinti, con le buone o con le cattive, a sottoscrivere contratti di affitto a prestanomi della mafia. Mafia che alla fine, ovviamente, intascava i ricchi fondi europei. Gaetano Pecoraro aveva raccontato questo fenomeno, sempre più in crescita, intervistando Giuseppe Antoci, presidente del Parco dei Nebrodi. “Abbiamo scoperto che i terreni degli enti pubblici sono stati per anni fonte di finanziamento per alcune associazioni mafiose. La torta era divisa in mano a pochi e quei pochi erano le associazioni mafiose. Con 1.000 ettari di terreno si paga un affitto di 52mila euro l’anno, ma si arriva a ottenere anche 550mila euro l’anno di finanziamenti comunitari. Un sistema che consentiva di ottenere dall’Europa milioni e milioni di euro in maniera assolutamente legalizzata e senza rischio”. Gaetano Pecoraro era poi andato dalla famiglia mafiosa dei Pruiti, che per anni avrebbe gestito il bosco di Troina, in provincia di Enna. “Ma quale mafia, ma dov’è la mafia qui?”, aveva detto uno dei Pruiti, che viene ritenuto il reggente della famiglia mafiosa in assenza del fratello, ora ergastolano. “La mafia qui non esiste, noi in queste cose non c’entriamo niente. È tutta una questione politica”.

Da mafia dei pascoli alle maxi truffe alla Ue. I boss intercettati: «Non vi mettete  di traverso o vi uccidiamo tutti». Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi e Alessio Ribaudo. L’inchiesta e gli arresti sulla vecchia «mafia dei pascoli» a Messina. Svelato l’intreccio tra malavita e professionisti. Per tanti anni è stata considerata la provincia «babba» ovvero scema. Un epiteto che indicava come nel Messinese la mafia non esistesse o, comunque, fosse una via di mezzo fra «semplice» delinquenza e quella storica dei pascoli. Negli anni Novanta, però, gli inquirenti scoprono che le famiglie di Tortorici - centro agricolo di 6 mila anime sui Nebrodi - hanno allungato i loro tentacoli dalle campagne ai comuni turistici della costa tirrenica come Capo d’Orlando. Hanno costruito solidi rapporti con Cosa nostra catanese visto che l’immenso territorio comunale confina con grossi centri della provincia etnea come Bronte e Randazzo. Gestiscono il traffico di droga, compiono estorsioni a imprese che si erano aggiudicate appalti pubblici, chiedono il «pizzo» agli esercizi commerciali mantenendo. All’improvviso il paese dei Nebrodi sale agli onori della cronaca per una sanguinosa guerra di mafia che oppone i clan che non vogliono dividersi la «torta» del malaffare. Poi le operazioni delle forze di polizia, la nascita delle prime associazioni antiracket come l’Acio di Capo d’Orlando sembrano sconfiggere questa «terza mafia». Nel maggio del 2016, però, l’attentato a Giuseppe Antoci in una zona teoricamente di loro influenza riaccende i riflettori su queste «famiglie» mafiose. Scattano arresti, sino al grande blitz di oggi che svela come quella mafia si era «solo» inabissata sostituendo le lupare con le richieste di finanziamento pubblico per l’agricoltura a Regione, Agea e Unione Europea. Truffe vere e proprie. Un legame con la terra resta, ma solo virtuale; utile però a «ingurgitare profitti milionari», come scrive il giudice nel provvedimento con cui ha ordinato 94 arresti fra cui il sindaco trentanovenne Emanuele Galati Sardo, 39 anni. Era stato eletto lo scorso aprile lista «Uniti per cambiare Tortorici» e oggi accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo gli investigatori, da responsabile era considerato «a disposizione dell’organizzazione mafiosa per la commissione di una serie di truffe» e «aveva rapporti diretti con il boss Aurelio Faranda». Galati Sardo per i magistrati «inseriva, a favore dei beneficiari stessi, false attestazioni di conduzione dei terreni all’insaputa dei proprietari, procurando agli indagati e alle società loro riferibili illeciti profitti a danno dell’Agea e dell’Unione Europea». Le indagini condotte dalla Procura di Messina, insieme agli investigatori del Gico della Guardia di finanza e del Ros dei carabinieri, hanno scoperto che il sistema di truffe avrebbe fruttato in pochi anni almeno dieci milioni di euro, transitati dagli aiuti stanziati dell’Ue a conti bancari intestati a prestanome in Italia e all’estero, in Lituania o a Cipro. Solo grazie a intestazioni fittizie di terreni o a false destinazioni d’uso certificate con la complicità di decine di «colletti bianco». È qui che è avvenuto il vero salto di qualità di questi clan che grazie ai meccanismi. Il sistema è semplice nel suo funzionamento, seppure complesso nei meccanismi: venivano fatti figurare come terreni agricoli appezzamenti del demanio pubblico incolti o destinati a tutt’altro uso, oppure con proprietari morti e di cui nessuno aveva rivendicato l’eredità, o ancora abbandonati da chi se n’è sempre disinteressato o non sapeva nemmeno di averli. Dopodiché, attraverso false dichiarazioni sul loro utilizzo e proprietà, scattavano le pratiche per i finanziamenti di sostegno europei, che una volta ottenuti venivano dirottati verso i conti dei boss e dei loro prestanome. In questo gioco di prestigio condotto da due famiglie «storiche» oricensi come i Bontempo-Scavo e i Batanesi, sono rientrati anche lotti di proprietà dello Stato e assegnati all’Aeronautica militare, nel comune di Niscemi, che l’Italia ha concesso alla Nato e alla Marina militare statunitense. Sono i terreni su cui gli americani hanno impiantato i radar del sistema di comunicazione satellitare Muos, contro il quale è in corso da tempo la protesta di comitati locali e nazionali. Ma mentre l’attività statunitense continua, gli inquirenti hanno scoperto che su quelle stesse particelle delle carte catastali i clan mafiosi dei Nebrodi avevano fatto stipulare falsi contratti di «comodato di terreni agricoli» sui quali lucravano i fondi europei. «La mafia ha scoperto che soldi pubblici e finanziamenti costituiscono l’odierno tesoro, e come siano diminuiti i rischi, pur se i metodi restano criminali», spiega il giudice per le indagini preliminari che ha firmato le 94 ordinanze di custodia cautelare. Un fiume di soldi che, per i mafiosi, non deve andare perso in rischiose «guerre» come negli anni Novanta e per questo viene firmata una «tregua armata». L’accordo stipulato dimostra «la capacità di operare illecitamente senza calpestarsi i piedi, con sostanziale spartizione del territorio, e nel caso concreto letteralmente di ‘particelle di terreno’, scelta operativa per sottrarsi alle indagini sulle guerre e il rischio di pentiti». Gli inquirenti segnalano raccontano di«un meccanismo che in Sicilia ha inquinato l’intero sistema di assegnazione e compravendita dei terreni», e segnalano «un fenomeno devastante, con un rischio di proiezione ed estensione enorme e da verificare: la mafia pronta a dialogare, con i suoi mezzi illeciti, con l’Europa, e uno Stato che può risultare indietro e in difesa». Le intercettazioni hanno svelato le trame per far figurare attività agricole inesistenti attraverso le parole di un commercialista, il quale spiegava ai complici: «Per farla ci vorrebbero i terreni, le fatture delle mucche, che ce le abbiamo, ma se la devi chiudere… che ti serve farla attiva?... Ma poi scusa, la banca, anche se è inattiva, non è che guardano a queste cose...». In un’altra conversazione registrata dagli investigatori, un indagato illustrava gli scarsi rischi sul piano giudiziario: «E se ci denunciano niente ci fa… con altri 1.500 euro apri la cooperativa… la faccio pure io, voglio credere… più che ti possono dare, truffa? Che cazzo ti interessa…». Quando incontravano qualche resistenza o difficoltà per ottenere i terreni e i finanziamenti, i clan dismetteva la giacca e la cravatta e ritornavano al «metodo mafioso» delle minacce e delle estorsioni, a volte confessate dagli stessi inquisiti. Come dimostrerebbe, secondo il giudice, la frase rivolta da uno degli arrestati, chiamato «il carrettiere», a un funzionario della Regione siciliana: «Gli devi dire: gli deve levare le mani, lui. Gliel’hai detto tu?». Uno dei capiclan, non sapendo di essere ascoltato dalle microspie, spiegava che «noialtri i terreni gli possiamo prendere a questi qua… a tutti i paesani… ai ‘malandrini’… gli possiamo prendere tutte cose… e loro si devono stare muti… perché se appena fanno qualcosa… non vi mettete di traverso perché vi schiuppammu tutti… ed è finita… basta… se ne devono andare a zappare…». Dalle registrazioni è emerso che le false destinazioni dei terreni venivano ottenute e dichiarate con la complicità di impiegati dei Centri di assistenza agricola, i quali secondo l’accusa non collaboravano con i clan «per una qualche corruzione, ma in genere per cointeressenza e partecipazione, sia pure esterna, all’associazione mafiosa». Esattamente come il notaio che curava la parte burocratica delle operazioni, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa perché «metteva a disposizione la propria attività di professionista per consentire il fittizio trasferimento di particelle di terreno e titoli a favore di membri del sodalizio criminale». Secondo quanto scrivono gli inquirenti, non si facevano scrupoli verso chiunque si metteva di traverso ai loro interessi. «Emerge un contesto di significazione probatoria e chiavi di lettura dell’attentato Antoci - hanno scritto i magistrati - che si è posto in contrasto con gli interessi della mafia». Giuseppe Antoci, da presidente del Parco dei Nebrodi aveva creato il cosiddetto «Protocollo Antoci», poi diventata anche legge dello Stato con il quale contrastava gli interessi marosi. Nel maggio del 2016 ha subito un attentato a cui è scampato grazie alla prontezza della sua scorta.

Finanziamenti milionari per terreni “fantasma”: le mani dei clan mafiosi sui fondi europei. Il Corriere del Giorno il 15 Gennaio 2020. Blitz antimafia n Sicilia con oltre mille uomini della Guardia di Finanza e dei Carabinieri, impegnati nell’operazione. Coinvolti boss e insospettabili, anche un notaio: riuscivano a ottenere soldi per appezzamenti mai avuti. Gli indagati dell’inchiesta “Nebrodi” sono in tutto quasi duecento, per l’esattezza 194. 94 gli arresti disposti. L’Unione europea ha versato per anni, milioni di euro di contributi per lo sviluppo dell’agricoltura su terreni fantasma ai “boss” della mafia siciliana . Una vera e propria truffa incredibile quella scoperta dal Gico della Guardia di Finanza con i finanzieri del Comando Provinciale di Messina, con la collaborazione dei loro colleghi di Palermo, Catania, Enna e Caltanissetta e dai Carabinieri del Ros e del Comando Provinciale di Messina e del Nucleo Tutela Agroalimentare di Salerno. Oltre mille uomini tra carabinieri e finanzieri hanno eseguito questa notte una monumentale ordinanza di custodia cautelare siglata dal gip Salvatore Mastroeni, quasi duemila pagine, frutto di una indagine della Distrettuale antimafia di Messina coordinata dal procuratore capo Maurizio De Lucia. Scrive il gip: “Nel territorio di Tortorici c’è un potere della mafia altissimo (…) per l’impossessamento di 15 ettari bastò una semplice telefonata, non furono necessarie minacce. Quando esiste la mafia, basta dire il proprio nome, se del caso accennando al fatto che si è appena usciti dal carcere“. Una truffa clamorosa, per la quale sarebbe bastata una semplice verifica per bloccarla, mentre invece nessuno ha controllato, e chi doveva controllare era “complice”. Truffa che aveva fruttato alle cosche mafiose oltre 5,5 milioni di euro, mettendo a segno centinaia di truffe. L’indagine è stata suddivisa nei mesi scorsi in due tronconi principali dai magistrati della Distrettuale antimafia di Messina, il procuratore aggiunto Vito Di Giorgio e i pm Fabrizio Monaco ed Antonio Carchietti. Quella gestita dai Carabinieri del Ros  ha consentito di ricostruire l’attuale assetto e la gestione del territorio dello storico “clan” dei Batanesi, un gruppo mafioso diretto da Sebastiano Bontempo detto “u uappo”, che ha scontato 23 anni in carcere, per un’accusa di omicidio, il quale negli ultimi anni aveva allargato la sua rete di cointeressenze, anche nel traffico di droga, in larga parte della provincia di Messina, insieme a Sebastiano Conti Mica, e Vincenzo Galati Giordano. “E’ il numero uno”, dicevano di lui nelle intercettazioni mentre attendevano la sua scarcerazione. Venne organizzato al ristorante Rinazzo, in contrada Casitti un grande pranzo in suo onore a cui erano presenti tutti gli esponenti più in vista del clan: ad accogliere gli ospiti, Vincenzo Galati Giordano, detto “Lupin”, e Sebastiano Destro Mignino detto “Ruspa”. “E’ stata una festa grossa, tutti là erano“, commentavano sulla strada del ritorno mentre venivano intercettati. E’ ormai la mafia dei pascoli virtuali, che ha dovuto far fronte alle restrizioni imposte dal protocollo voluto da Giuseppe Antoci. l’ex presidente del Parco,  “Il protocollo ha inciso profondamente contro le mafie dei Nebrodi“, ha commentato il generale Pasquale Angelosanto  comandante del Ros dei Carabinieri. L’altro filone d’indagine che è stato affidato e gestito dal Gico della Guardia di Finanza, si è concentrato invece su una costola del clan tortoriciano dei Bontempo Scavo, al cui vertice c’era  Salvatore Aurelio Faranda, che dopo le sue vicissitudini giudiziarie nel corso del tempo era riuscito ad estendere il centro dei propri interessi fino al Calatino, con al centro la mafia di Caltagirone. Contestati, a vario titolo, come tipologia di reati, l’associazione a delinquere di stampo mafioso, il concorso esterno all’associazione mafiosa, il danneggiamento seguito da incendio, l’uso di sigilli e strumenti contraffatti, la falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico, la falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico, il trasferimento fraudolento di valori, l’estorsione, la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche l’impiego di denaro, beni ed utilità di provenienza illecita. Gli arrestati sono 94, per 48 c’è il carcere e altri 46 sono agli arresti domiciliari, e sono state sequestrate ben 151 imprese agricole, oltre a conti correnti, rapporti finanziari e vari cespiti. Fra il 2010 e il 2017, l’Unione Europea aveva versato 5 milioni di euro a 151 aziende agricole della provincia di Messina in mano ai boss di Tortorici. E alcuni di quei soldi sono finiti anche su conti esteri, circostanza che conferma la grande capacità organizzativa dei boss mafiosi. I fondi europei depredati sono quelli messi a disposizione dal “Feaga”, il Fondo europeo agricolo di garanzia, e il “Feasr”, il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale, misure che avrebbero dovuto dare slancio al parco dei Nebrodi, ed invece si sono trasformate in una grande occasione mancata. All’alba di oggi sono scattate 94 misure cautelari . Decapitato con 48 arresti in carcere, lo “stato maggiore” dei   “Bontempo Scavo” e dei “Batanesi”,  due cosche mafiose “storiche” di Tortorici, il cuore del Parco dei Nebrodi, ; fra i 46 ai domiciliari, arrestati anche Antonino Pecoraro, 73 anni, un insospettabile notaio di Canicattì (Agrigento),  accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, e una decina di dipendenti dei Centri di assistenza agricola, uno dei quali è Emanuele Galati Sardo, 39 anni, sindaco di Tortorici,  anch’egli chiamato in causa per concorso esterno, che erano i “colletti bianchi” complici delle cosche mafiose, delegati a “sistemare” ogni pratica che arrivava all’Unione Europea per i relativi finanziamenti a fondo perduto. Tutte persone in possesso delle competenze necessarie per realizzare l’infiltrazione della criminalità mafiosa nei meccanismi di erogazione di spesa pubblica, e conoscitori dei limiti del sistema dei controlli. Il meccanismo accertato dall’inchiesta si fondava sulla “spartizione virtuale” del territorio, operata dai clan mafiosi, per realizzare centinaia di truffe, con rapporti anche con gruppi mafiosi  delle altre province. Le società controllate dai “padrini” delle cosche richiedevano i contributi Agea (l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura) documentando di avere in affitto particelle di terreni che in realtà non disponevano: agli investigatori è bastato scorrere l’elenco per verificare che si trattava invece di terreni che appartengono alla Regione Sicilia, al Demanio, ai Comuni, ed uno persino si trovava addirittura all’interno dell’Aeroporto palermitano di Boccadifalco, ed altri sono sparsi in giro per l’Italia. Protagonisti di questa storia di truffe all’ Europa sono due “clan” che avevano già subito pesanti condanne negli ultimi vent’anni: alcuni degli esponenti più in vista delle famiglie di Tortorici recentemente  erano però tornati in libertà, ed avevano riorganizzato i propri contatti ed affari illegali . I “boss” della cosca mafiosa  dei Nebrodi da sempre hanno contatti con i mafiosi di Palermo e di Catania. Le indagini hanno documentato nuovi incontri, che confermano la riorganizzazione nel segno della modernità. in corso della mafia più antica della Sicilia.  E tutto grazie a una rete di complici insospettabili. I mafiosi  avevano concordato tutto: a partire dalla predisposizione di falsa documentazione che attestava la titolarità di terreni da inserire nelle domande di contribuzione, anche mediante l’utilizzo di timbri falsi, la cessazione delle ditte già utilizzate mettendole in liquidazione, il trasferimento dei titoli autorizzativi da una società ad altre, lo spostamento delle particelle dei terreni da un’azienda all’altra ma sempre gestita dai mafiosi, la revoca dei mandati riferiti a precedenti centri di assistenza agricola a favore di altri per  rendere più difficile il reperimento della documentazione agli organi di controllo. Una telefonata bastò al boss per impossessarsi di un pascolo del parco dei Nebrodi. “Appena uscito dal carcere – ha raccontato l’unico proprietario che ha trovato la forza di denunciare ai Carabinieri – Gino Bontempo mi chiamò per dirmi che voleva parlarmi“. E siccome il padrino aveva l’obbligo di dimora in paese, in quanto sorvegliato speciale, corse il proprietario a casa sua. Aveva già capito quale sarebbe stata la richiesta. Ma in realtà il contratto serviva solo per mettere le carte a posto. “I 1.500 euro annui pattuiti non sono stati mai pagati dal 2010 al 2016. Anche quando l’affittuario formalmente cambiò, ancora una volta fu Bontempo a chiedermelo, perché la figlia era in gravidanza, così spiegò. E feci il contratto alla società denominata ‘Le Chiuse’. Non dissi nulla, avevo paura di ritorsioni“. Era il novembre tre anni fa. Una storia emblematica. “Ero suggestionato dalla sua figura e dal fatto che fosse appena uscito dal carcere. Non avevo mai avuto a che fare con lui, ma sapevo benissimo chi era”. Bontempo pretendeva un grande appezzamento e chiaramente non ci fu bisogno di molte parole. “Chiedeva in affitto il terreno di contrada Abbadessa, 15 ettari, perché era interessato a prendere i contributi Agea. E siccome lui non poteva intestarsi il contratto, mi chiese di farlo alla figlia”. TUTTI I NOMI DEGLI ARRESTATI

CARCERE: Calogero Barbagiovanni, Carmelo Barbagiovanni, Gino Bontempo, Giuseppe Bontempo, Salvatore Bontempo, Sebastiano Bontempo, Sebastiano Bontempo Scavo, Salvatore Calà Lesina, Gino Calcò Labruzzo, Andrea Caputo, Domenio Coci, Giuseppe Marchetta Condipodero, Samuele Conti Mica, Sebastiano Conti Mica detto “U Bellocciu“, Ivan Conti Taguali, Giuseppe Costanzo Zammataro,, Salvatore Costanzo Zammataro, Santo Destro Mignino, Sebastiano Destro Mignino, Vincenzo Galati Giordano, Vincenzo Galati Giordano detto “Lupin“, Giuseppe Marino Gammazza, Alfred Hila, Antonino Agostino Marino, Rosario Marino, Pasqualino Agostino Ninone,   Francesco Protopapa, Giuseppe Scinardo Tenghi, Mirko Talamo, Giuseppe Valerio Labia, Giuseppe Armeli Moccia, Rita Armeli Moccia, Sebastiano Coci, Katia Crascì, Sebastiano Crascì, Sebastiano Craxì, Aurelio Salvatore Faranda, Davide Faranda, Emanuele Antonino Faranda, Gaetano Faranda, Gianluca Faranda, Massimo Giuseppe Faranda, Rosa Maria Faranda, Giovanni Vecchio.

DOMICILIARI: Alessio Bontempo, Lucrezia Bontempo, Giovanni Bontempo, Giuseppe Bontempo, Sebastiana Calà Campana, Vincenzo Ceraulo, Carolina Coci, Jessica Coci, Rosaria Coci,  Claudia Costanzo Zammataro, Loretta Costanzo Zammataro, Valentina Costanzo Zammataro, Romina Costanzo Zammataro, Daniele Galati Pricchia, Alessandra Sciuto, Giuseppe Armeli, Salvatore Armeli Moccia, Antonio Caputo,  Giusi Conti Pasquarello, Massimo Costantini, Barbara Rosaria Coci, , Lucio Attilio Rosario Crascì, Salvatore Antonino Crascì, Salvatore Dell’Albani, Marinella Di Marco, Antonino Faranda, Giuseppe Ferrera, Innocenzo Floridia, Emanuele Galati Sardo, Giuseppina Gliozzo, Roberta Linares, Giuseppe Natoli, Pietro Lombardo Facciale, Francesca Lupica Pasquale, Rosa Maria Lupica Pasquale, Antonia Strangio, Giorgio Marchese, Antonino Pecoraro, Massimo Pirriatore, Elena Pruiti, Danilo Rizzo Scaccia, Angelica Giusy Spasaro, Giuseppe Natale Spasaro, Salvatore Terranova, Giuseppe Villeggiante, Carmelino Zingales. 

Messina, le mani dei clan sui fondi europei. Finanziamenti milionari per terreni “fantasma”: 94 arresti. Blitz di Gdf e Ros. Coinvolti boss e insospettabili, anche un notaio: riuscivano a ottenere soldi per appezzamenti mai avuti. Ai domiciliari il sindaco di Tortorici, per concorso esterno in associazione mafiosa. 151 aziende sequestrate, i finanziamenti finivano anche su conti esteri, in Bulgaria e Lituania. Solo un proprietario ha trovato il coraggio di denunciare: "I boss si sono impossessati dei miei terreni con una telefonata, avevo paura". Salvo Palazzolo su La Repubblica il 15 gennaio 2020. Per anni, l’Unione europea ha pagato ai boss siciliani milioni di euro di contributi per lo sviluppo dell’agricoltura su terreni fantasma. E’ una truffa colossale quella scoperta dal Gico della Guardia di finanza e dal Ros dei Carabinieri nell’ambito di un’indagine della direzione distrettuale antimafia di Messina coordinata dal procuratore Maurizio de Lucia. Sono 94 le misure cautelari scattate all’alba, 151 le aziende sequestrate, 194 in totale gli indagati: fra i 48 finiti in carcere, lo stato maggiore di due storiche cosche della mafia di Tortorici, il cuore del Parco dei Nebrodi, i “Bontempo Scavo” e i “Batanesi”; fra i 46 ai domiciliari, ci sono anche un insospettabile notaio di Canicattì (Agrigento), Antonino Pecoraro, 73 anni, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, e una decina di dipendenti dei Centri di assistenza agricola: uno è il sindaco di Tortorici, Emanuele Galati Sardo, 39 anni, pure lui chiamato in causa per concorso esterno. Erano i complici a mettere a posto ogni pratica che arrivava all’Unione europea. Gli accertamenti del comando provinciale della Finanza di Messina hanno scoperto che le aziende legate ai padrini richiedevano i contributi Agea (l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura) dichiarando di avere in affitto particelle di terreni di cui in realtà non disponevano: è bastato scorrere la lista per trovare terreni che appartengono alla Regione, al Demanio, ai Comuni, uno è addirittura all’interno dell’aeroporto palermitano di Boccadifalco, altri sono sparsi per l’Italia. Una truffa clamorosa, sarebbe bastata una semplice verifica per bloccarla, e invece nessuno ha controllato, anzi chi doveva controllare era complice.

Conti esteri. Così, fra il 2010 e il 2017, l’Unione Europea ha versato più di 10 milioni di euro a 151 aziende agricole della provincia di Messina in mano ai boss di Tortorici. E alcuni di quei soldi sono finiti anche su conti esteri, in Bulgaria e Lituania, segno di una grande capacità organizzativa dei boss. I fondi razziati sono quelli messi a disposizione dal “Feaga”, il Fondo europeo agricolo di garanzia, e il “Feasr”, il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale, misure che avrebbero dovuto dare slancio al parco dei Nebrodi, invece si sono trasformate in una grande occasione mancata.

I clan. Protagonisti di questa storia sono due clan che hanno subito condanne pesanti negli ultimi vent'anni: di recente, alcuni degli esponenti più in vista delle famiglie di Tortorici sono però tornati in libertà, e hanno riorganizzato relazioni e affari. I boss dei Nebrodi hanno da sempre contatti con i mafiosi di Palermo e di Catania. Le indagini hanno documentato nuovi incontri, la mafia più antica della Sicilia si riorganizza. Nel segno della modernità. Grazie a una rete di insospettabili complici. E' ormai la mafia dei pascoli virtuali, che ha dovuto far fronte alle restrizioni imposte dal protocollo voluto dall'ex presidente del Parco, Giuseppe Antoci. "Il protocollo ha inciso profondamente contro le mafie dei Nebrodi", dice il comandante del Ros, il generale Pasquale Angelosanto. Uno dei personaggi più autorevoli dei clan era tornato in libertà nel 2015: Salvatore Bontempo, detto “Uappo”, ha scontato 23 anni in carcere, per un'accusa di omicidio. "E’ il numero uno", dicevano di lui nelle intercettazioni mentre attendevano la sua scarcerazione. Venne organizzato un grande pranzo in suo onore, al ristorante Rinazzo, in contrada Casitti. C’erano tutti gli esponenti più in vista del clan: ad accogliere gli ospiti, Vincenzo Galati Giordano, detto “Lupin”, e Sebastiano Destro Mignino detto “Ruspa”. "E’ stata una festa grossa, tutti là erano", commentavano sulla strada del ritorno, e venivano intercettati. A un altro mafioso, Giuseppe Costanzo Zammataro, telefonò invece un dipendente della Regione di Enna, per recuperare il gasolio rubato da un mezzo dell'Esa. E il mafioso si mise subito a disposizione.

La denuncia. Una telefonata bastò al boss per impossessarsi di un pascolo del parco dei Nebrodi. "Appena uscito dal carcere – ha raccontato l’unico proprietario che ha trovato la forza di denunciare ai carabinieri – Gino Bontempo mi chiamò per dirmi che voleva parlarmi". E siccome il padrino aveva l’obbligo di dimora in paese, in quanto sorvegliato speciale, corse il proprietario a casa sua. Aveva già capito quale sarebbe stata la richiesta. "Ero suggestionato dalla sua figura e dal fatto che fosse appena uscito dal carcere. Non avevo mai avuto a che fare con lui, ma sapevo benissimo chi era". Bontempo pretendeva un grande appezzamento. Non ci fu bisogno di molte parole. "Chiedeva in affitto il terreno di contrada Abbadessa, 15 ettari, perché era interessato a prendere i contributi Agea. E siccome lui non poteva intestarsi il contratto, mi chiese di farlo alla figlia". Ma il contratto era solo per mettere le carte a posto. "I 1.500 euro annui pattuiti non sono stati mai pagati dal 2010 al 2016. Anche quando l’affittuario formalmente cambiò, ancora una volta fu Bontempo a chiedermelo, perché la figlia era in gravidanza, così spiegò. E feci il contratto alla società denominata 'Le Chiuse'. Non dissi nulla, avevo paura di ritorsioni". Fino a quando il proprietario ha trovato il coraggio di presentarsi in una caserma dei carabinieri. Era il novembre tre anni fa. Una storia emblematica. Scrive il gip: "Nel territorio di Tortorici c’è un potere della mafia altissimo (…) per l’impossessamento di 15 ettari bastò una semplice telefonata, non furono necessarie minacce. Quando esiste la mafia, basta dire il proprio nome, se del caso accennando al fatto che si è appena usciti dal carcere".

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il misterioso “caso Antoci”.  (Segue dal 2019)

Attentato Antoci, D’Agostino: “Ecco l’elenco delle stranezze”. di Redazione nebrodinews.it il 26 luglio 2020. “La verità non è sempre quella più scontata, neppure se viene da sentenze della magistratura. Quelle sono appunto sentenze e vanno rispettate come “verità processuali”. Poi possono essere commentate e anche discusse, perché per fortuna siamo in democrazia. Se così non fosse stato per esempio nel caso di Borsellino, ci saremmo trovati ancora con la verità del falso pentito Scarantino. Avere dubitato ha permesso di far rilevare una serie impressionante di errori giudiziari. Ed è venuta fuori quell’ombra dello Stato che ancora oggi avvolge il mistero”. Lo afferma Nicola D’Agostino, parlamentare regionale di Italia Viva, componente della Commissione regionale Antimafia guidata dal Claudio Fava, facendo un elenco sulle stranezze che lo stesso rileva sull’attentato all’ex presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, dopo la pubblicazione da parte della Commissione della relazione sull’attentato compiuto il 18 maggio 2016.

“Ecco alcune contraddizioni che si riscontrano sulla ricostruzione delle dinamiche dell’attentato ad Antoci.

1. L’auto del peso di una tonnellata non doveva fermarsi davanti ad un ostacolo superabile: lo dice il protocollo oltre che il buon senso. Basta dare un’occhiata ai sassi che erano stati posti sulla strada per capire.

2. L’autista aveva tutto il tempo e lo spazio per fare manovra e tornare indietro, se proprio non voleva andare avanti.

3. La vittima non doveva scendere dall’auto e fare trenta metri allo scoperto per entrare in un’altra auto non blindata: quello era il momento del peggior pericolo.

4. L’attentato avviene nell’unico tratto di bosco (su 27km) che è vicino ad una casermetta con forestali armati: gli attentatori non potevano non sapere.

5. La scelta del luogo è irragionevole soprattutto se fosse di matrice mafiosa.

6. Il commissario Manganaro aveva avuto dubbi già a Cesarò e si intrattiene con il sindaco dopo la partenza dell’auto di Antoci per visionare foto di sospetti. Il sindaco lo rassicura.

7. In ogni caso, avendo perplessità, avrebbe dovuto, per regola, comunicarli alla scorta ed impedire che l’auto continuasse lungo una strada isolata.

8. Invece Manganaro, dieci minuti dopo, parte a sua volta da Cesarò per raggiungere l’auto, rimonta con facilità la strada, non fa una telefonata, e arriva esattamente in coincidenza degli spari, che essendo stati tre, saranno durati un secondo. Coincidenza incredibile.

9. Sempre in quel secondo Manganaro sente e vede (siamo in un bosco in piena notte) gli spari, parlerà di più uomini armati, ma la Scientifica lo smentisce: infatti un’arma soltanto è stata utilizzata.

10. Manganaro comincia a sparare e riferisce di aver riconosciuto figure nel bosco quando la visibilità è praticamente nulla.

11. L’ispettore Granata si avventura in un solitario e pericoloso inseguimento nel bosco, ma non vede nessuno.

12. Due poliziotti vengono abbandonati per oltre venti minuti vicino l’auto blindata: altro comportamento fuori dal protocollo.

13. Non scattano i posti di blocco in tutto il territorio.

14. Dai risultati della scientifica i tre colpi arrivano dall’alto verso il basso, quando dovrebbe essere l’opposto secondo le versioni ufficiali ed il luogo.

15. I tre colpi centrano tutti lo stesso punto, nonostante il tiratore sia uno soltanto ed in condizioni di buio assoluto.

16. Si tratti di un fucile a pallettoni da cacciatore. Non esattamente quello da utilizzare in un attentato del genere ad opera di professionisti mafiosi!

17. Le bottiglie incendiarie dovevano essere usate per fare uscire Antoci dall’auto ed invece sono rimaste inutilizzate.

18. Un commando di professionisti non avrebbe fallito, ma sopratutto avrebbe organizzato un tiro incrociato.

19. Un commando ben organizzato e composto da una decina di attentatori non sarebbe scappato, neppure all’arrivo di Manganaro.

20. Il sindaco di Cesarò ha dichiarato che nulla di strano aveva ravvisato la sera in paese.

21. Il comandante della caserma dei carabinieri di Cesarò afferma che i sospetti di Manganaro erano infondati. Nessuno lo ha mai interrogato (tranne la commissione antimafia).

22. I mafiosi locali, tutti indagati ed intercettati, sono stati ritenuti non coinvolti.

23. L’esistenza di un’altra mafia interessata ad Antoci appare dunque una improbabile ipotesi, comunque non suffragata da alcuna prova.

24. Altri (?) tre colpi (afferma Antoci) di aver sentito più tardi, quando era nel rifugio della forestale.

25. Le indagini, fuori da ogni regola e logica, vengono affidate anche al commissariato di Militello, di cui fanno parte Manganaro e gli uomini della scorta.

26. Nessun confronto viene effettuato con chi dentro la Polizia solleva dubbi e propone versioni diverse, responsabilità questa del Questore che alla domanda non risponde.

27. Dubbi sono stati espressi da organi di stampa di livello nazionale (Report, L’Espresso, Repubblica, La Sicilia), ma i giornalisti non sono mai stati sentiti (seppure dichiarassero di avere avuto fonti autorevoli).

28. La commissione si è avvalsa della collaborazione di un poliziotto ed un magistrato (entrambi in pensione e a titolo gratuito) di altissimo livello per competenza, professionalità e carriera (a proposito delle elucubrazioni…).

Questi sono fatti – continua D’Agostino -. Se mafia è stata, il livello di dilettantismo appare evidente. Le sentenze su Antoci dicono le seguenti cose: fu organizzato ed eseguito un attentato, ma non si sa da chi, per quali motivi e neppure se gli autori erano mafiosi. Ecco perché sorge un democratico dubbio ed una Commissione parlamentare sente l’esigenza di intervenire, senza preconcetti, ponendo domande e cercando risposte. I dubbi sono quelli elencati. Certo, così facendo si turba l’ordine costituito e si scalfisce la conformista retorica antimafiosa che ancora ammorba la Sicilia. Montante evidentemente non ha insegnato nulla! Pur non avendo certezza di cosa sia avvenuto, ci sembra difficile, ed anche arduo, concludere con tanta sicurezza che si tratti di un attentato di mafia. Piuttosto dovrebbe essere più ragionevole l’ipotesi di un atto dimostrativo di chissà chi, oppure di una messa in scena per finalità ignote. Ovviamente le differenze ci sono e con esse le conclusioni sul merito. Queste non sono complicate e contorte elucubrazioni, piuttosto sensate elucubrazioni (dare un’occhiata al dizionario non guasta) che altri hanno pensato bene di non fare. La relazione non si fonda né sulle opinioni di un singolo audito, né sugli esposti anonimi (mai letti), e neppure sulla tragica coincidenza pochi mesi dopo della morte (in 24 ore) di due poliziotti dello stesso commissariato. Ogni cittadino ha però oggi, leggendo la relazione che tiene conto ovviamente anche dei risultati investigativi e delle sentenze, gli elementi sufficienti per farsi la propria idea. Capisco che la cosa dispiaccia a chi vuol fare intendere che esiste una sola verità, ma non essendoci inconfutabili certezze al riguardo le ipotesi potrebbero essere addirittura tre. E quella ufficiale (attentato della Mafia) appare la più debole, appunto la meno plausibile. Le altre due (simulazione e messa in scena), ad oggi, sembrano più logiche”.

Il caso Antoci. Fu davvero mafia? Inchiesta sul misterioso attentato senza esecutori, senza mandanti e senza verità nella Sicilia di Crocetta e Montante. Carlo Bonini e Attilio Bolzoni su L'Espresso il 10 settembre 2020. Vacche e spie pascolano allo stato brado fra i boschi e le cime più alte dei Nebrodi. Sono le montagne della provincia di Messina, pericoloso incrocio dove c'è mafia in bassa quota e c'è mafia in alta quota ma dove soprattutto c'è sempre qualcosa che non si capisce mai. È per questo che proviamo a raccontare la complicata storia di Giuseppe Antoci, l'ex presidente del Parco dei Nebrodi che quattro anni fa è rimasto vittima di un atte...Fu davvero mafia? Inchiesta sul misterioso attentato senza esecutori, senza mandanti e senza verità nella Sicilia di Crocetta e Montante. Vacche e spie pascolano allo stato brado fra i boschi e le cime più alte dei Nebrodi. Sono le montagne della provincia di Messina, pericoloso incrocio dove c’è mafia in bassa quota e c’è mafia in alta quota ma dove soprattutto c’è sempre qualcosa che non si capisce mai. È per questo che proviamo a raccontare la complicata storia di Giuseppe Antoci, l’ex presidente del Parco dei Nebrodi che quattro anni fa è rimasto vittima di un attentato di cui oggi conosciamo quasi tutto e quasi niente. Abbiamo una verità ufficiale che al momento non ci consegna una verità, abbiamo un’inchiesta giudiziaria incompiuta, abbiamo gli allevatori ribaldi della montagna “sicuri colpevoli” ma mai mandati a giudizio. Nessun esecutore e nessun mandante. Siamo ancora al mistero profondo. La narrazione che però ne è stata fatta di questo “caso Antoci”, e sin dall’inizio, è da manuale. La vittima giusta. Il movente giusto. I mancati assassini giusti. Al copione, a un certo punto, è stata aggiunta anche po’ di enfasi per irretire il grande pubblico: “È uno degli attentati più efferati dopo le stragi del 1992″, richiamo alle uccisioni di Falcone e Borsellino, accostamento insolente solo al pensiero delle indagini – proprio quelle sull'”efferato attentato” – affidate ai poliziotti del piccolo commissariato di Sant’Agata di Militello, gli stessi poi che sono stati anche testimoni oculari e parti offese nell’agguato. Un’inchiesta tutta fatta in casa. È l’anteprima inaspettata intorno a un delitto molto imperfetto avvenuto nella notte fra il 17 e il 18 maggio del 2016. La scena del crimine è nel buio dei faggi e delle querce che svettano sopra i mille metri, una tortuosa strada che dal comune di Cesarò precipita nel mar Tirreno. Parco dei Nebrodi, area naturale protetta istituita il 4 agosto 1993, si estende nelle province di Messina, Catania ed Enna.

Una Sicilia inedita e scivolosa. Prima di iniziare questa lunga cronaca che a qualcuno potrebbe sembrare addirittura sgarbata, una piccola avvertenza sulle cose di Sicilia. Quelle che non si possono dire sino in fondo ormai sono veramente poche. E di certo non hanno a che fare con la mafia, almeno quella tradizionalmente intesa, la Cosa Nostra sbaragliata dopo le stragi e ancora alla disperata ricerca di sé stessa. Di quella mafia si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto è carne morta. Piuttosto scivoloso è diventato invece parlare o scrivere di vicende che si perdono malamente nei labirinti giudiziari, che sfiorano impicci di Stato, che nello stesso recipiente frullano convenienze politiche e scorribande sbirresche. L’affaire Antoci affonda in sabbie mobili dove apparenza e realtà si confondono, un gioco degli specchi che riflette una Sicilia deforme che non è più quella che abbiamo descritto nel passato dove i buoni sono tutti da una parte e i cattivi tutti dall’altra. È un inedito impasto. Con morti improvvise e sospette di poliziotti, anonimi calunniosi, leste archiviazioni, con una traballante ricostruzione dell’agguato, controinchieste parlamentari, divisioni istituzionali, sofisticate pratiche di disinformazione, molta omertà. In questo susseguirsi di avvenimenti e innesto di dubbi, crediamo che sia quantomeno opportuno – e oggi ancora più di quattro anni fa – ascoltare più di una versione dei fatti. Il racconto lo possiamo cominciare da lui, da Giuseppe Antoci, che per fortuna è vivo e che per noi resta sempre e comunque la vittima nonostante l’ambiguo contesto nel quale l’hanno trascinato. E possiamo cominciare dalla dinamica dell’attentato, dal movente più scontato, dagli allevatori malacarne dei Nebrodi descritti – ma senza uno straccio di prova – come i membri di una cosca d’ispirazione stragista in stile corleonese pronta a dare un nuovo assalto allo Stato.

Antoci e il suo protocollo. Fino a qualche anno faceva il bancario e non lo conosceva nessuno. Nato a Santo Stefano di Camastra nel gennaio del 1968, sposato, tre figlie, una famiglia come tante. Qualche mese dopo l’attentato, su Wikipedia diventa “un politico italiano”. È nel 2013 che Rosario Crocetta – il governatore della Sicilia invischiato nelle scorrerie del vicepresidente nazionale di Confindustria Antonello Montante – lo nomina ai vertici del Parco dei Nebrodi, un’area protetta di 85 mila ettari di superficie dentro i quali ricadono 24 comuni che si spingono a sud anche verso la provincia di Catania e all’interno verso quella di Enna. Vale la pena di ricordare che Calogero Antonio Montante, detto ‘Antonello’, che per lungo tempo è stato padrone dell’isola, nel 2018 è finito in carcere, condannato a 14 anni di reclusione per associazione a delinquere semplice e intercettazioni illegali insieme a colonnelli dei servizi segreti, poliziotti, imprenditori. Al castello Gallego di Sant’Agata di Militello, il giorno dell’insediamento di Antoci, stendono il tappeto rosso e la banda municipale lo saluta mentre sfila davanti a quaranta sindaci fasciati nel tricolore. È una parata. Al suo fianco c’è Mariella Lo Bello, un’ex sindacalista della Cgil che nel governo Crocetta è stata assessore al Territorio, vicepresidente della Regione e infine assessore alle Attività Produttive. È una di quelle che fa parte della nomenklatura di un regime siciliano che non si vedeva dai tempi di Lima e Ciancimino. Un anno dopo la pomposa cerimonia Giuseppe Antoci introduce un protocollo per l’assegno degli affitti dei terreni che prevede la presentazione del certificato antimafia anche per i bandi inferiori a importi di 150 mila euro, un danno per i truffatori che spremono milioni di euro alla Comunità Europea. Diventa più difficile far lievitare artificiosamente il numero dei tori o delle giumente per incassare contributi, la mafia rurale dei Nebrodi è costretta a ricorrere ai prestanome e ai favori di amministratori complici. Il protocollo Antoci viene esteso in tutta la Sicilia, recepito dal nuovo codice antimafia e applicato in tutta Italia. Giuseppe Antoci comincia a ricevere premi e riconoscimenti. Lo scrittore Andrea Camilleri lo descrive come “un eroe”, il Presidente Sergio Mattarella gli concede l’onorificenza di “Ufficiale al Merito della Repubblica italiana”. Ospite fisso nei talk show del pomeriggio, è la nuova stella mediatica dell’Antimafia dopo la rovinosa caduta della Confindustria rapace che aveva conquistato la Sicilia. Si comincia a parlare di una sua candidatura politica alla Regione, poi a Roma e poi anche alle Europee. Dal 2017 al 2019 Antoci è il responsabile nazionale della Legalità del Pd. Molto taciturno, non dirà mai una sola parola in quei due anni sugli affari scabrosi di Palermo e mai una sola parola sulla “mafia trasparente” di Montante. Il crimine per lui c’è solo sui Nebrodi, i boss sono solo quelli acquartierati fra il bosco della Miraglia e le fiumare. Tutto il resto è noia. Dopo la sua nomina a presidente del Parco e dopo una prima lettera di minacce che gli recapitano (“Ne avete per poco, tu e Crocetta morirete scannati”), c’è l’agguato. Giuseppe Antoci è già sotto scorta, si muove da mesi su un’auto blindata. Per quel che può valere, una testimonianza personale, diciassette giorni prima dell’attentato sui Nebrodi. È il 30 aprile del 2016, sono al teatro Biondo di Palermo nel trentaquattresimo anniversario dell’uccisione di Pio La Torre. Sul palco ci sono la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi, il sindaco Leoluca Orlando, il procuratore Francesco Lo Voi. Esco per fumarmi una sigaretta, nel foyer del Biondo mi ferma il senatore Giuseppe Lumia, il regista politico che ha portato Crocetta presidente alla Regione e Confindustria Sicilia nel governo isolano. Mi dice Lumia: “Sono molto preoccupato per una persona che ti voglio fare incontrare, ho paura che gli possa succedere qualcosa di brutto da un momento all’altro…”. E mi presenta Giuseppe Antoci. Diciassette giorni dopo leggo su Repubblica.it: “Agguato a fucilate al presidente del Parco dei Nebrodi”.

L’agguato nel buio della montagna. È la sera del 17 maggio e Antoci partecipa a una riunione, nel comune di Cesarò, con il sindaco Salvatore Calì e alcuni assessori della sua giunta. Poi insieme vanno in trattoria, dai “Fratelli Mazzurco”. Con Antoci e il sindaco c’è anche Daniele Manganaro, il dirigente del commissariato di Pubblica Sicurezza di Sant’Agata di Militello. Dopo cena tornano tutti negli uffici del comune di Cesarò, passa un’ora e Antoci e i due poliziotti della sua scorta salgono su una Lancia Thesis blindata. Comincia il viaggio di ritorno verso Santo Stefano di Camastra, il paese dove Antoci abita. Il vicequestore Manganaro si ferma ancora per qualche minuto in municipio con il sindaco Calì. È l’1,55, ormai è il 18 maggio. La Lancia Thesis è sulla statale 289, fra Cesarò e San Fratello. All’improvviso, in contrada Volpe, rallenta la marcia e poi si ferma. Sulla strada ci sono alcune pietre. A guidare l’auto è l’assistente capo Sebastiano Proto, il caposcorta è Giuseppe Santostefano. Affidiamo la ricostruzione dell’agguato alle parole del giudice delle indagini preliminari di Messina Eugenio Fiorentino: “… Quasi contestualmente esso (il veicolo ndr) veniva raggiunto – sulla fiancata sinistra, lato posteriore – da diversi colpi di arma da fuoco, sparati da almeno due soggetti travisati (indossavano entrambi una giacca mimetica) che si erano appostati sul lato sinistro della carreggiata…”. Qualche istante dopo in contrada Volpe arriva anche un’altra auto, una Suzuki Vitara, a bordo ci sono il vicequestore Manganaro e il suo autista, l’assistente capo Tiziano Granata, “i quali resisi immediatamente conto di ciò che stava accadendo, rispondevano tempestivamente al fuoco costringendo alla fuga i malviventi senza che alcuno rimanesse ferito”. Di quegli spaventosi istanti c’è anche la testimonianza di Giuseppe Antoci: “Una volta in macchina mi sono appisolato. Ad un certo momento, ho udito le voci dei due poliziotti che dicevano che vi erano delle pietre sulla strada… Immediatamente ho udito dei colpi molto forti alla macchina… Ho sentito l’arrivo di un’altra macchina che ha frenato rumorosamente e ho cominciato a sentire numerosi colpi e ho capito che stavano sparando… Ho sentito distintamente le urla del dottor Manganaro…”. È ancora Antoci che ricorda: “Poco dopo, viene aperto lo sportello posteriore destro e qualcuno, che riconosco subito nel dottor Manganaro, mi tira fuori dall’autovettura, per farmi salire su un’altra vettura per allontanarci a velocità. Ricordo che nel preciso momento in cui si è aperto lo sportello ho detto “No, no” perché pensavo che volessero sequestrarmi, ma il dottor Manganaro si è fatto immediatamente riconoscere. Quindi ci dirigiamo, con l’altra autovettura presso il rifugio del Parco “Casello Muto” che è vigilato da personale del Corpo di Vigilanza del Parco…”.

Quello che resta sul luogo dell’agguato: due bottiglie molotov colme di benzina, alcune cicche di sigarette, “numerosissimi bossoli espulsi dalle armi in dotazione al personale di scorta e polizia”. Il giorno dopo sul portale web di Rai News un investigatore coinvolto nelle indagini – la sua identità non viene rivelata – parla di “un attacco da guerriglia civile”, di scene “di terrorismo mafioso”, di “un agguato che non può che essere deciso ad alti livelli” ma “il commando non ha fatto i conti con la reazione del vicequestore Maganaro e degli altri poliziotti”. L’anonimo investigatore aggiunge che gli attentatori “sarebbero almeno tre” ma “che è difficile dirlo con precisione” perché “i poliziotti hanno visto il lampo procurato da ogni esplosione ma non le persone che hanno sparato”. Due giorni dopo cominciano a circolare le prime voci – anche in ambienti investigativi molto qualificati a Roma, a Palermo, a Messina – su un attentato che sembra una messinscena. Nessuno mette in dubbio la buona fede di Giuseppe Antoci, tutti però manifestano “perplessità” sulla dinamica dell’imboscata. Sono rumors che crescono e che si diffondono settimana dopo settimana e mese dopo mese. Cominciano a circolare anche anonimi. Su Antoci e sui poliziotti che quella notte erano nel bosco. Calunnie? Depistaggi? Mezze verità condite da menzogne? Tre giorni dopo l’agguato il sindaco di Cesarò Salvatore Calì – lo stesso che la sera del 17 maggio aveva cenato con Antoci e il vicequestore Manganaro – dichiara alla stampa che l’attentato “è da attribuire alla delinquenza locale e non certo alla mafia vera e propria”. Passa qualche ora e cambia idea con una dolorosa contorsione mentale e linguistica: “È stato un mero errore il mio, per il forte zelo di difendere tutti i cesaresi laboriosi mi sono scordato il vile gesto che hanno fatto al presidente Antoci e condanno fermamente il gesto allo stato mafioso così come è stato fatto”. Interrogato dai pubblici ministeri sulla clamorosa marcia indietro, il sindaco racconta che dopo quella sua prima dichiarazione era scoppiato un putiferio. L’aveva chiamato Antoci per fargli smentire la prima versione. Poi l’aveva chiamato anche il senatore Giuseppe Lumia, che gli aveva suggerito come rimediare: “L’attentato c’è stato… devi dire che c’è la mafia”.

I protagonisti. Un’indagine fatta in casa. Parte l’inchiesta sull’attentato. Il procuratore capo della repubblica di Messina Guido Lo Forte affida il caso al sostituto Angelo Vittorio Cavallo, lo stesso magistrato che come procuratore capo di Patti quattro anni dopo dirigerà, e fra non poche polemiche sui ritardi e le incertezze sui soccorsi, le investigazioni a Caronia sulle misteriose morti di Viviana Parisi e del piccolo Gioele. La delega d’indagine viene co/assegnata alla squadra mobile messinese e al commissariato di Sant’Agata di Militello (che in realtà sarà il motore delle investigazioni), lo stesso dove sono in servizio anche i poliziotti che si sono ritrovati nell’agguato sulla montagna. C’è il vicequestore Daniele Manganaro, che è il dirigente. Ci sono gli assistenti capo Tiziano Granata, Giuseppe Santostefano e Sebastiano Proto. L’apparato antimafia giudiziario-poliziesco di Messina si ritrova davanti a un “attacco” come quelli dell’estate del 1992 ma per le indagini non viene investito, come da routine, nemmeno lo Sco, il servizio centrale operativo della polizia di Stato specializzato in investigazioni di livello sulla criminalità organizzata. Lo Sco interverrà successivamente e solo per un frammento dell’indagine, l’analisi del traffico telefonico nella zona dell’agguato. Chiedono al questore Giuseppe Cucchiara: “Ma non è inconsueto che a investigare siano state proprio le vittime dell’attentato?”. Risponde: “Sono in difficoltà con questa domanda”. Insistono: “A lei è capitato in altri casi?”. Risponde il questore: “Raramente, forse mai”. L’inchiesta sancisce fin dal principio “come gli attentatori avessero agito non al fine di compiere un semplice atto intimidatorio e/o dimostrativo, ma al deliberato scopo di uccidere”. I massi per far rallentare l’auto blindata, le fucilate alla gomma per bloccarne la corsa, le bottiglie molotov per incendiare l’auto e costringere i poliziotti e Antoci a scendere dalla Lancia Thesis per poi giustiziarli. Un massacro, sventato solo per il provvidenziale arrivo del vicequestore Manganaro e dell’assistente capo Tiziano Granata. Sul movente poliziotti e magistrati hanno una certezza: è stata la “mafia dei pascoli”, quella danneggiata dal protocollo voluto dal nuovo presidente del Parco dei Nebrodi. E’ l’unica pista che seguono. Sotto osservazione finiscono decine di personaggi legati alla mafia di Tortorici, ma anche a quella del versante catanese dei Nebrodi e dei territori che confinano con Enna. Il cerchio si stringe su 14 uomini, cinque di loro erano seduti ai tavoli della trattoria dei “Fratelli Mazzurco” quando Antoci era là a cena con il sindaco e con il vicequestore Manganaro. Sono loro i principali sospettati e tutti rotolano nell’inchiesta. Quando ancora non lo sanno, gli indagati parlano e straparlano sotto intercettazione: “Questi sono convinti che questa cosa era la nostra”, “Ma tu con chi parli parli dice: questo attentato se lo sono fatti loro”, “A noialtri mai potrebbe venire questa idea, mai ci potremmo arrivare… noialtri dobbiamo vendere il porcello”. Poi vengono sottoposti al test del Dna per scoprire se fra di loro, la notte del 17 maggio 2016, c’era uno di quei “fumatori” che aveva lasciato cicche di sigarette – tre Rothmans, una Camel e una B&H – nel bosco. Nessuno. Poi ancora controllano le celle delle loro utenze telefoniche. Nessuno di loro era presente sul luogo dell’attentato. Uno dopo l’altro i 14 escono dall’indagine. L’inchiesta va comunque avanti e sempre nella stessa direzione: la mafia dei pascoli. C’è una vittima vera – Antoci – c’è il movente chiaro – il protocollo di legalità – ma non si trova chi ha sparato e chi ha ordinato di sparare. Passano due anni dall’attentato e nel maggio del 2018 il procuratore Cavallo firma (insieme a Vito Di Giorgio e Fabrizio Monaco e con il visto del nuovo procuratore capo di Messina Maurizio De Lucia), una richiesta di archiviazione. Nel luglio successivo il giudice delle indagini preliminari Eugenio Fiorentino l’accoglie: “L’avvenuta esplorazione di ogni possibile spunto investigativo, non consente di ravvisare ulteriori attività compiutamente idonee all’individuazione di alcuno degli autori dei delitti contestati”. Qualche riga prima lo stesso magistrato scrive pure che “non era possibile far luce sul movente e sui responsabili dell’attentato in oggetto”. Una piccola titubanza finale. Per due anni si è ipotizzato un solo movente, per due anni c’era solo la mafia dei pascoli. Ma ormai il “caso Antoci” è chiuso. Vittorio Cavallo, attualmente capo procuratore di Patti. All’epoca dell’attentato era sostituto del procuratore capo di Messina, Guido lo Forte.

“È una babbarìa, è stata la politica”. Quello che non si sa ancora nel 2016 delle indagini – o meglio, di ciò che accade negli ambienti investigativi messinesi durante le indagini – si scopre dopo. Una vera e propria faida nella polizia di Messina: da una parte il vicequestore Daniele Manganaro del commissariato di Sant’Agata di Militello e dall’altra il vicequestore Mario Ceraolo del commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto, che è la storica capitale criminale del messinese. Mentre Manganaro indaga ufficialmente sull’attentato, nonostante sia parte in causa con la sua partecipazione alla sparatoria, Ceraolo indaga informalmente sull’imboscata – così almeno sostiene lui – dopo averne parlato con il procuratore Lo Forte e con il suo questore Giuseppe Cucchiara. Il commissario Ceraolo attiva le sue fonti. E parte dalla Cosa Nostra di Barcellona, quella che controlla il crimine fra Palermo e Messina. Ceraolo riferisce che le sue fonti non sanno nulla dell’attentato contro Antoci. Il commissario si rivolge ad altre fonti che custodiscono i segreti delle cosche di Tortorici, di San Fratello, di Cesarò. Si tirano fuori, dicono che non è cosa loro. Mentono? Depistano? Il commissario crede alle sue “antenne”. Gli confidano un giorno: “La mafia non c’entra… esattamente mi dicono che è una ‘babbarìà quasi con il sorriso, è una ‘babbarìa’, questa è una cosa della politica, è stata la politica, è una cosa della politica”. Incarico informale, nulla di scritto, nessuna delega. Ceraolo investiga anche al di fuori degli ambienti criminali, raccoglie umori anche “nell’ambiente delle Forze di polizia dove vi erano molte perplessità sull’attentato dal punto di vista proprio logico, di come si era verificato… Anche fuori della Sicilia, nell’ambiente delle Forze di polizia…”. Poi riversa le sue informazioni al procuratore Cavallo e agli altri magistrati (“Tutti mi chiedevano continuamente quale era il mio parere… io ho percepito questo, loro avevano perplessità su diversi fatti….”. Il commissario racconta che questo “scambio di opinioni” era quotidiano a partire dal maggio del 2016. Le affermazioni di Ceraolo vengono smentite dal procuratore Cavallo. Mai avuto colloqui con il commissario sull’inchiesta Antoci, mai chiesto pareri, mai ricevuto rivelazioni da Ceraolo. Due versioni contrastanti. Un altro mistero nel mistero. Ma non l’ultimo. Perché ventidue mesi dopo l’attentato contro Giuseppe Antoci i morti, in questa storia, ci sono davvero.

In 24 ore muoiono due poliziotti. È il primo giorno di marzo del 2018. E l’assistente capo Tiziano Granata, 40 anni, l’autista del commissario Manganaro che si ritrova in mezzo alla sparatoria sulla statale 289, muore per un arresto cardiocircolatorio. Lo stesso giorno viene ricoverato in ospedale per una leucemia fulminante Calogero “Rino” Todaro, 46 anni, sovrintendente, il capo della sezione di polizia giudiziaria del commissariato di Sant’Agata di Militello, uno dei primi ad arrivare sul luogo dell’agguato nel bosco. Morirà il giorno dopo. Todaro, per il suo ruolo di capo della polizia giudiziaria, è il motore delle indagini (insieme ai suoi colleghi della squadra mobile di Messina) sull’attentato. Tutti e due sono collaboratori fidatissimi del vicequestore Manganaro. Se ne sono andati a ventiquattro ore di distanza uno dall’altro per una straordinaria tragica coincidenza? O non sono morti naturali? Sono stati uccisi? E perché? E da chi? In pochi credono alla “tragica coincidenza”. Non ci crede Lorena Ricciardello, la compagna di Tiziano Granata. La donna racconta che “non subito dopo l’attentato, ma qualche tempo dopo, Tiziano ha cominciato ad essere nervoso”. Si muoveva guardandosi sempre intorno, aveva tolto il suo nome dal campanello della casa di Lorena, temeva che potesse accadere qualcosa ai suoi familiari. A un certo punto la donna sospetta che sia stato avvelenato. Il 14 febbraio, due settimane prima di morire, festeggiano insieme il quarantesimo compleanno di Tiziano. E lui già allora sta male, non mangia più, continua ad andare in bagno. Poi Lorena Ricciardello ricorda le ultime ore, quelle del 28 febbraio. Prova a chiamare Tiziano più volte – intorno alla 20.20 – qualcuno risponde ma lei non sente nessuna voce dall’altra parte. Tiziano Granata muore nella notte tra il 28 febbraio e il primo marzo. Al “decesso naturale” di Tiziano non crede nemmeno il vicequestore Manganaro. Sa che il poliziotto suo amico teme qualcosa, dice che il commissario Ceraolo “gli girava intorno”, c’era tensione. Naturalmente Ceraolo smentisce e parla invece di un “imbarazzo” che aveva Granata per quella notte sui Nebrodi. Intanto nel commissariato di Sant’Agata di Militello, durante un’assemblea sindacale – secondo la versione di Manganaro – viene fuori la voce “di un terzo morto entro l’estate”. Dopo Granata e Todaro tocca a un altro poliziotto. Qualcuno dice a Manganaro: “Il terzo morto pensano tutti che sia lei”. Voci che si rincorrono, ormai non si distinguono più i confini delle verità e delle falsità. Il vicequestore Manganaro si mette a rapporto con il suo nuovo questore Mario Finocchiaro e, dopo qualche tempo, viene trasferito al commissariato di Tarquinia. Di questo inferno che è diventato il commissariato di Sant’Agata il questore Finocchiaro non ne ha ricordo: “No, non c’erano ragioni di sicurezza. C’erano ragioni legate al fatto che, insomma, ormai era un bel po’ di tempo che stava a Sant’Agata. Certo, anche questa situazione di continue voci, anonimi… credo che anche lo stesso Manganaro si sia reso conto che forse era il caso di spostarsi e andare via da Sant’Agata. Col Ministero, col Dipartimento c’è stata un’interlocuzione per cui poi hanno concordato in qualche modo questo trasferimento…”. Altre versioni diverse. Ogni capitolo dell’affaire Antoci ha una faccia che non somiglia mai all’altra. Come si sono concluse le inchieste sulle morti di Tiziano Granata e di Rino Todaro? Con altre due archiviazioni. La prima – quella di Todaro – è del giudice di Messina ed è del 26 settembre del 2018. La seconda – quella di Granata – è del giudice di Patti e porta la data del 26 novembre 2018. Ecco uno stralcio dell’archiviazione sulla morte di Granata: “Non si può che concludere ritenendo che la morte di Granata si sia verificata per causa naturale che nulla ha a che dipendere né dalla propria attività professionale né dall’opera di terze persone. Infatti, i dubbi manifestati da Ricciardello Lorena e Manganaro Daniele non trovano riscontro negli accertamenti tecnici che escludevano avvelenamenti o cause esogene né le anomalie sopra indicata dalla prima (il cellulare lontano dal cadavere di Granata, la telefonata muta e l’ordine in casa) sembravano assumere rilievo causale o concausale con l’evento morte. Inoltre, giova precisare che dalla lettura delle relazioni autoptiche dei due agenti, Granata e Todaro, si evince che la contestualità temporale dei due decessi sia stata una mera tragica casualità atteso che le cause riscontrate, sebbene entrambi naturali, non possono dirsi riconducibili ad un’unica fonte. Ciò posto, a fronte del quadro investigativo sopra delineato che ha escluso senza alcun margine di dubbio la presenza di elementi che possano fare pensare all’intervento di terzi nella morte di Granata Tiziano”. Altri due casi chiusi per sempre.

La controinchiesta parlamentare. La Sicilia dopo le stragi è prigioniera di una grande impostura. C’è un’Antimafia rappresentata da Confindustria che è già finita nelle indagini della procura e della squadra mobile di Caltanissetta, c’è un sistema di potere marcio alla Regione, ci sono interessi colossali per lo smaltimento dei rifiuti. Claudio Fava, neo presidente della commissione parlamentare siciliana, giornalista, scrittore, sceneggiatore, figlio di Pippo, il nostro collega ucciso a Catania nel gennaio del 1984, mette in calendario tre inchieste parlamentari che chiuderà in poco meno di due anni. Una è su Antonello Montante e la sua banda alla Regione, un’altra è sugli affari della monnezza e su alcuni comuni sciolti per mafia soltanto perché i sindaci si opponevano alle discariche nei loro territori, la terza inchiesta è sull’agguato ad Antoci. Le tre vicende sono attraversate da un “filo” politico che ha il volto del senatore Giuseppe Lumia. A Montecitorio e a Palazzo Madama ininterrottamente dal 1994 al 2018, ex presidente della commissione parlamentare antimafia, buone conoscenze negli apparati, Lumia è molto vicino al Cavaliere Montante (e anche ad alcuni magistrati che Montante l’hanno vezzeggiato pure quando era sotto indagine per concorso esterno), è legato al re del rifiuti Giuseppe Catanzaro, ha sponsorizzato con il presidente Crocetta la nomina di Antoci al Parco dei Nebrodi. Come consulenti per decifrare il mistero dell’attentato Fava ne sceglie due. Uno è Agatino “Tuccio” Pappalardo, un superpoliziotto che è stato questore di Messina, questore di Palermo e direttore centrale della Dia, la Direzione Investigativa Antimafia. L’altro è l’ex presidente del Tribunale di Catania Bruno Di Marco. Per cinque mesi in commissione ascoltano magistrati, funzionari di polizia, ispettori, giornalisti, amministratori. L’obiettivo è verificare le tre ipotesi sull’agguato emerse dalle audizioni. La prima: “Un attenato mafioso fallito che intendeva eliminare Antoci”. La seconda: “Un atto dimostrativo destinato non ad uccidere ma ad avvertire la vittima o altri ambienti criminali locali sui quali far ricadere la responsabilità del fatto”. La terza: “Nessun attentato ma solo messinscena (che renderebbe Giuseppe Antoci doppiamente vittima, in quanto del tutto inconsapevole di tale simulazione)”. Claudio Fava sa dove sta mettendo i piedi e subito “blinda” Antoci, che considera vittima e poi anche “doppia vittima”. Le conclusioni della commissione sono una bomba: “Alla luce del lavoro svolto corre l’obbligo di evidenziare che, delle tre ipotesi formulate, il fallito attentato mafioso con intenzioni stragiste appare la meno plausibile. L’auspicio è che su questa vicenda si torni ad indagare (con mezzi certamente ben diversi da quelli di cui dispone questa Commissione) per un debito di verità che va onorato. Qualunque sia la verità”. La prima reazione parte da Nicola Morra, il presidente della commissione antimafia di Palazzo San Macuto: “È stato svolto un lavoro attento e certosino… un lavoro non facile ed alla fine votato all’unanimità… i dubbi non sono soltanto miei, ma di tutti coloro che vogliono scoprire i responsabili di quanto successo a Giuseppe Antoci”. La seconda reazione è di Giuseppe Antoci, violentissima: “La relazione dell’attentato contro di me presta il fianco alla delegittimazione e al mascariamento”. Mascariare, sporcare. Antoci è furioso, si scaglia contro la commissione di Fava e contro i “soggetti ascoltati durante le audizioni che non citano mai le loro fonti bensì il sentito dire o esposti anonimi”. Il riferimento è ai giornalisti come Paolo Mondani di Report, Francesco Viviano di Repubblica, Mario Barresi della Sicilia che nelle loro cronache avevano raccolto in ambienti investigativi tutti i dubbi sulla dinamica dell’agguato. La replica di Fava è composta: “Siamo rimasti tutti abbastanza stupiti e un po’ delusi dalla reazione del signor Antoci. Ci saremmo aspettati parole di gratitudine e non una parola come “vergognosa” riferita al lavoro della commissione, la cui relazione contiene anche apprezzamenti nei confronti del suo lavoro”. Ma la parte più hard dell’inchiesta parlamentare è quella “tecnica”, sulla dinamica dell’agguato secondo la versione fornita dagli uomini della scorta di Antoci e dagli altri poliziotti intervenuti durante la sparatoria.

Un’imboscata molto particolare. La controinchiesta – il consulente come abbiamo detto è l’ex direttore nazionale della Dia Tuccio Pappalardo – sostiene che durante quell’agguato, per come è stato ricostruito dai testimoni, sono stati infranti tutti i protocolli di attacco da parte degli attentatori e tutti i protocolli di difesa da parte dei poliziotti. “Non è plausibile che quasi tutte le procedure operative per l’equipaggio di una scorta di terzo livello siano state violate…”. L’auto blindata abbandonata, la personalità scortata esposta al rischio del fuoco nemico, la fuga su un’auto non blindata. “Non è plausibile” che gli attentatori, almeno tre a giudicare dalle tre marche di sigarette riscontrate sui mozziconi, “presumibilmente tutti armati (non v’è traccia nelle cronache di agguati di stampo mafioso a cui partecipino sicari non armati)”, non aprano il fuoco sui due poliziotti sopraggiunti al momento dell’attentato. “Non è plausibile” che sui trentacinque chilometri di statale tra Cesarò e San Fratello, “il presunto commando mafioso scelga di organizzare l’attentato proprio a due chilometri dal rifugio della forestale”, presidiato anche di notte da personale armato. “Non è comprensibile la ragione per cui non sia stato disposto dai questori pro tempore di Messina e dai pm incaricati dell’indagine un confronto tra i due funzionari di polizia, Manganaro e Ceraolo”, che hanno continuato ad offrire ricostruzioni opposte. “È per lo meno inusuale che di fronte ad un attentato ritenuto mafioso, con finalità stragista, la delega per le indagini venga ristretta alla squadra mobile di Messina e al commissariato di provenienza dei quattro poliziotti protagonisti del fatto…”. “Non si comprende la ragione per cui al gabinetto della polizia scientifica di Roma, tra i vari quesiti sottoposti, non sia stato chiesto di valutare se la Thesis blindata di Antoci avrebbe potuto o meno superare il “blocco” delle pietre poste sulla carreggiata…”. “È impensabile che di un attentato di siffatta gravità nulla sapessero (stando ai risultati delle intercettazioni ambientali e al lavoro di intelligence investigativa) la criminalità locale né le famiglie di Cosa Nostra interessate al territorio nebroideo”, cioè quelle di Barcellona Pozzo di Gotto, Tortorici e Catania. “È insolito, infine, che sull’intera ricostruzione dei fatti permangano versioni dei diretti protagonisti divergenti su più punti dirimenti…”. Gli aggressori erano due o più di due? Sono stati visti mentre facevano fuoco o no? Sono fuggiti nel bosco o no? Sono stati esplosi altri colpi dopo che il presidente Antoci è stato messo in salvo? Le “contestazioni” continuano una dopo l’altra: “Difficilmente si sarebbe potuti arrivare ad esiti investigativi diversi dall’archiviazione d’un fatto tuttora attribuito ad ignoti, ma certamente indagini più estese e soprattutto più coinvolgenti rispetto ad altri apparati di forze dell’ordine avrebbero potuto contribuire a fornire alcune risposte che mancano”. Si scopre pure che i poliziotti di scorta ad Antoci quella notte – Proto e Santostefano – saranno ascoltati con comodo, solo un anno dopo l’agguato. La commissione parlamentare smonta pezzo dopo pezzo l’inchiesta del procuratore Angelo Cavallo.

Le domande senza risposta. Lo scontro fra Procura e Antimafia. I magistrati non la prendono bene. E comincia una “guerra” a colpi di dichiarazioni che ha come bersaglio permanente Claudio Fava. C’è anche una virulenza informativa, notizie che portano confusione, cortine fumogene. Per esempio, all’inizio di quest’anno, nel gennaio 2020, la magistratura messinese ordina la cattura di 94 personaggi coinvolti nelle truffe Ue dei terreni. Un altro colpo alla mafia dei pascoli. Nei giorni precedenti al blitz qualcuno fa circolare l’indiscrezione che, fra gli arrestati, ci sono anche i mandanti dell’attentato all’ex presidente del Parco dei Nebrodi. Qualcun altro abbocca. Nell’ordinanza di custodia cautelare del giudice Salvatore Mastroeni – 2 mila pagine – però il nome di Antoci è citato solo 6 volte. Sul collegamento fra l’operazione e l’imboscata del bosco della Miraglia scrive il giudice: “L’indagine trova chiavi di lettura di quell’attentato, pur restando quel fatto esterno e al momento neanche disvelato”. Poi ricorda che Antoci “si è posto in contrasto con interessi milionari della mafia” ma aggiunge subito dopo che “si può rilevare anche come in atti risulti che i mafiosi ridano, in sostanza, del protocollo di legalità, e hanno dimostrato la capacità di aggirarlo con sapienza e raffinatezza”. Fatta la legge, trovato l’inganno.

La Procura della Repubblica di Messina. Il procuratore capo della Repubblica di Messina Maurizio De Lucia subito dopo la maxi retata difende e rilancia l’inchiesta del suo ufficio: “Abbiamo una documentatissima indagine che non ha portato ai responsabili, ma certo non ha mai messo in dubbio che l’attentato vi sia stato…”. Il procuratore generale Vincenzo Barbaro, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, va oltre: “In mancanza di ulteriori, specifici e diversi elementi di prova, la ricostruzione operata in sede giurisdizionale deve ritenersi, al momento, l’unica in grado di assumere la dignità di verità storica, dovendo essere confinate nell’alveo delle mere congetture non meritevoli di apprezzamento contrastanti e alternative ricostruzioni dei fatti”. Una verità, solo una verità senza colpevoli. Ma, da gennaio ad oggi, è accaduto molto altro intorno al caso Antoci.

Il verbale secretato e un’altra archiviazione. È il mese di febbraio 2020, qualche giorno prima del lockdown. E Annamaria Ricciardi, la compagna di Rino Todaro, uno dei due poliziotti del commissariato di Sant’Agata di Militello morti all’improvviso, chiede di parlare con Claudio Fava. Prima lo incontra in privato, poi in aula ripete quasi tutto. Ecco alcuni passaggi della sua audizione. Dice che non è mai stata ascoltata dall’autorità giudiziaria, che il suo compagno temeva di avere microspie piazzate nell’auto, che era terrorizzato che gli potesse accadere qualcosa di brutto da un momento all’altro. Quando lo ricoverano per una leucemia fulminante le dice: “Mi vogliono ammazzare”. E chiede ad Annamaria di portargli in ospedale la pistola d’ordinanza. Secondo alcune indiscrezioni molto attendibili, in quei giorni sarebbe anche scomparso il computer di Todaro. La Ricciardi lo cerca e non lo trova, qualcuno dice che è stato portato via “da personale del commissariato di San’Agata”. Circostanza mai chiarita. Il presidente della commissione Claudio Fava invia le conclusioni dell’inchiesta parlamentare – con il verbale secretato della Ricciardi – alla Procura della Repubblica di Messina. Dopo qualche mese la richiesta di archiviazione del sostituto procuratore Fabrizio Monaco (uno dei magistrati che aveva firmato anche la prima chiusura dell’inchiesta) e poi il decreto del gip Simona Finocchiaro. Sedici pagine di “approfondimento” in tutto fra richiesta e decreto di archiviazione, con la gip che si lascia andare ad apprezzamenti francamente un po’ spinti per un giudice definendo le conclusioni della commissione “pure elucubrazioni mentali non corroborate da alcun dato probatorio”. I magistrati messinesi praticamente non svolgono nuove indagini. Sulle dimensioni dei massi sulla strada, sulle regole d’ingaggio degli uomini della scorta di Antoci, sulle versioni inconciliabili fra il vicequestore Manganaro e il procuratore Cavallo e ancora fra Manganaro e il commissario Ceraolo. Si accontentano di quello che hanno. Di poco.

Claudio Fava e i nomi dei magistrati. Un’ultima scena dello scontro istituzionale in atto sul caso Antoci ha come palcoscenico Palazzo San Macuto: il 21 luglio scorso Claudio Fava viene ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia nazionale. E alcuni suoi colleghi provano a massacrarlo, in particolare quel pittoresco personaggio che è il senatore Mario Giarrusso e il senatore Franco Mirabelli del Pd che l’accusa “di non avere riconosciuto il valore delle sentenze” e “di denigrare la magistratura”. Fava è isolato. Antoci ne chiede subito le dimissioni e minaccia anche querele per i testi ascoltati nella sua commissione. Dopo alcuni giorni dall’audizione a San Macuto il presidente Fava esce però allo scoperto: “Su questa vicenda abbiamo avuto conferma che non si è trattato di un atto di mafia da fonti giudiziarie assolutamente attendibili attraverso conferme dirette o indirette di magistrati… tutti quelli che avrebbero potuto offrire qualche elemento in più sono stati lasciati fuori dall’indagine… sono pronto per essere ascoltato”. Nessuno lo chiamerà mai. Chi sono quei magistrati? Nomi ne circolano. E se alcuni di quei nomi dovessero essere ufficialmente confermati, un pezzo dell’indagine finirebbe probabilmente in un distretto giudiziario diverso da quello di Messina. L’intera faccenda intorno ai misteri dell’attentato a Giuseppe Antoci da qualche settimana sembra comunque in sonno. Solo gli osservatori più maliziosi, in piena estate, rilanciano sulle loro bacheche facebook la notizia di un dibattitto a Gioia del Colle dove si sono ritrovati insieme Giuseppe Antoci, l’inviato delle “Iene” Gaetano Pecoraro (che aveva dedicato una lunga puntata all’agguato nel bosco prendendosi pure una querela “per aggressione” da parte di Fava) e il procuratore capo della Repubblica di Messina Maurizio De Lucia. Fra gli invitati – ma darà forfait all’ultimo momento – anche il giornalista Paolo Borrometi, che dalla commissione di Fava è stato denunciato per un articolo retrodatato sullo spinosissimo tema del racket dei rifiuti. Nel frattempo, per avere evitato la carneficina, il vicequestore Manganaro viene premiato dal ministero dell’Interno – con un incomprensibile ritardo di quattro anni – e trasferito dal commissariato di Tarquinia a quello di Carrara. E nel frattempo un miserabile insulta in pizzeria una delle figlie di Antoci, che ormai non è più il presidente del Parco dei Nebrodi perché il nuovo governatore della Sicilia Nello Musumeci non gli ha confermato l’incarico.

La “centrale” delle intimidazioni. Non sappiamo come andrà a finire tutta questa storia su Antoci e intorno ad Antoci. Ci auguriamo che i magistrati trovino gli autori dell’attentato e magari grazie alla loro ostinazione anche le prove per inchiodare – se davvero sono stati loro – i boss della montagna. Forse uno sguardo investigativo più aperto avrebbe già potuto aiutarli a scoprire chi e perché, in una notte di primavera, voleva fare tanto rumore sulle montagne messinesi. Qualcuno sostiene che l’imboscata possa rientrare in un “piano”, dentro quella strategia della tensione che in un recentissimo passato ha alternato attentati veri e falsi contro personaggi politici che erano alla corte di Crocetta e del senatore Lumia. In particolare nel 2016 – prima e dopo l’agguato contro Antoci – che è stato realmente devastante per lui – molti gli episodi indecifrabili. Con una “centrale” specializzata nel diffondere paura, una sorta di “coda” del sistema Montante, miscuglio di attività segrete illegali e affari sconci. Sarà difficile che la Procura della Repubblica di Messina s’inoltri su questo fronte ma non si sa mai. Intanto, sentito l’odore e acquisita una modesta esperienza nella Sicilia dei “pezzi mancanti” nelle indagini e degli ignoti eccellenti, siamo costretti a chiudere questo articolo come l’avevamo iniziato. Vacche e spie pascolano allo stato brado fra i boschi e le cime più alte dei Nebrodi. Attilio Bolzoni

Antoci: “elucubrazioni” archiviate. Ecco perché non ci sono dubbi sull'attentato mafioso. Le Iene News il 21 luglio 2020. Archiviata l'inchiesta bis dopo che la Commissione antimafia siciliana aveva avanzato dubbi sull'attentato mafioso subito da Giuseppe Antoci nel 2016 e sventato dalla sua scorta: "Sono pure elucubrazioni mentali non corroborate da alcun dato probatorio". Come abbiamo sempre sostenuto con Gaetano Pecoraro, seguendo questo caso fin dall'inizio. “Sono pure elucubrazioni mentali non corroborate da alcun dato probatorio pensare a un coinvolgimento di Antoci o degli agenti della sua scorta”. Fin dall’inizio, pochi mesi dopo, con Gaetano Pecoraro vi abbiamo parlato dell’attentato mafioso, sventato dalla scorta, del 18 maggio 2016 all’ex presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci e vi abbiamo raccontato quest’anno i nostri dubbi su quanto concluso della Commissione antimafia siciliana che con un'inchiesta aveva lasciato aperte tre conclusioni: atto dimostrativo non destinato a uccidere o messinscena a sua insaputa, attentato mafioso (qui potete trovare il servizio successivo). Di queste tre “l’attentato di mafia è la meno plausibile”. Una posizione ribadita dal presidente di quella commissione, Claudio Fava. Qui sopra potete vedere tutto quello che non ci tornava in queste conclusioni. Ora anche il gip del Tribunale di Messina mette la parola fine a queste ipotesi dal punto di vista giudiziario. “Sebbene le indagini non abbiano consentito di risalire agli autori dell’attentato", scrive la giudice per le indagini preliminari Simona Finocchiaro disponendo l’archiviazione dell’inchiesta bis, come riporta il Corriere della Sera, “la conclusione raggiunta dalla Commissione d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia ossia che l’ipotesi del fallito attentato mafioso sia la meno plausibile appare preconcetta e comunque non supportata da alcun dato probatorio". “Più esplicitamente eventuali illazioni sul coinvolgimento di Antoci degli uomini e della sua scorta o ancora di Daniele Manganaro e di Granata (gli agenti che sventarono l’agguato con un conflitto a fuoco, ndr) appaiono pure elucubrazioni mentali non corroborate da alcun dato probatorio, non potendosi ritenere tale la sussistenza di eventuali incongruenze o dubbi nella dinamica dei fatti”. Non ci sono dubbi sulla insomma ricostruzione fatta all’autorità giudiziaria dalle persone presenti durante l’attentato. "Non si ravvisano elementi nemmeno iniziare per sostenere i soggetti coinvolti nella vicenda abbiano reso dichiarazioni false sulla dinamica dei fatti… In definitiva non si ravvisano ulteriori spunti investigativi e quindi deve disporsi l’archiviazione”. Le indagini della procura di Messina erano già arrivate alla stessa conclusione, anche se non è stato possibile identificare appunto gli autori dell’attentato: “Innegabile che tale gravissimo attentato è stato commesso con modalità tipicamente mafiose e al deliberato scopo di uccidere”. Giuseppe Antoci è stato presidente del Parco dei Nebrodi e il suo protocollo di contrasto alla criminalità organizzata ha causato la perdita di un business milionario per la mafia. Per questo Il 18 maggio 2016 in una strada isolata c’è stato un attentato di stampo mafioso ai suoi danni: la macchina blindata e l’intervento tempestivo degli agenti della scorta lo hanno salvato dalle pallottole. Ad anni di distanza, adesso che Antoci non ricopre più alcun incarico pubblico, la sua figura a quanto pare sembra però essere ancora al centro dell’attenzione della malavita e di una possibile operazione di “mascariamento”, di macchina del fango volta a oscura la sua figura e la sua lotta ai clan. Gli agenti della sua scorta sono stati recentemente promossi dal capo della polizia Franco Gabrielli per aver salvato Antoci da un “attentato di stampo mafioso”. “Mi sembra la giusta risposta a chi ha tentato di delegittimare gli uomini che quella notte mi hanno salvato la vita”, ha detto a Iene.it lo stesso Giuseppe Antoci. Dopo che il caso era arrivato fino alla commissione nazionale antimafia, il nostro Gaetano Pecoraro ha detto: “Con la seduta si certificano tre cose. Primo: se la mafia dei Nebrodi in commissione antimafia siciliana veniva inquadrata come una mafia di basso livello (fatta sostanzialmente da quattro pastori), in commissione nazionale viene presentata per quello che è: un centro di interessi molto complesso, che unisce clan di diverse aree geografiche dell’isola. Una delle organizzazioni criminali più pericolose, per la sua capacità accaparrarsi enormi flussi di denaro pubblico (parliamo di miliardi di euro) senza mai dare nell’occhio. Secondo: l’attentato ad Antoci ci fu e questo, anche se ancora non sono stati trovati i colpevoli, è stato provato. Altroché ‘messa in scena’. Terzo. Non esiste alcuno scontro interno all’antimafia. Esiste la procura di Messina che indaga sull’attentato. Ed esiste una commissione regionale che - come detto in Senato - impegna il suo tempo in attività che non le sono consentite dalla legge e dalla costituzione Italiana. Una commissione regionale non può rifare le indagini fatte dai giudici, la legge non le dà gli strumenti per farlo. Le domande che mi faccio sono le stesse contenute nelle inchieste fatte nei mesi scorsi: perché la commissione antimafia Siciliana impiega tempo e risorse (pubbliche, ricordiamocelo) per attività che non le competono? A chi ha giovato sottostimare la mafia dei Nebrodi? A chi ha giovato mettere in dubbio l’attentato ad Antoci? Insomma: cui prodest?”.

Gli agenti della scorta promossi per aver salvato Antoci da un “attentato di stampo mafioso”. Le Iene  News il 20 giugno 2020. La notte tra il 17 e il 18 maggio l’allora presidente del parco di Nebrodi subisce un attentato mafioso: viene salvato dall’azione degli agenti assegnati alla sua scorta. Dopo un’inchiesta della commissione regionale antimafia siciliana che sembra metterne in dubbio la natura dell’attacco e l’operato degli agenti, arriva la promozione per aver sventato un “attentato di stampo mafioso”. Noi de Le Iene abbiamo seguito tutta questa vicenda con i servizi di Gaetano Pecoraro. Gli agenti della scorta di Giuseppe Antoci, l’ex presidente del parco dei Nebrodi vittima di un attentato la notte tra il 17 e il 18 maggio del 2016, sono stati promossi da assistente capo a vicesovrintendente dal capo della polizia Franco Gabrielli per aver salvato Antoci da un “attentato di stampo mafioso”. Un riconoscimento importantissimo, che sottolinea ancora una volta la natura dell’attacco subìto dall’allora presidente del parco dei Nebrodi. “Mi sembra la giusta risposta a chi ha tentato di delegittimare gli uomini che quella notte mi hanno salvato la vita”, ha commentato a Iene.it lo stesso Giuseppe Antoci. Nel documento che attesta la promozione dei quattro agenti, si legge: “Evidenziando eccezionali capacità professionali e straordinario senso del dovere, ingaggiava incurante del pericolo un conflitto a fuoco con alcuni malviventi, salvando la vita al presidente dell’ente ‘Parco di Nebrodi’, fatto oggetto di un attentato di stampo mafioso. Chiaro esempio di abnegazione e coraggio”. Firmato, il capo della polizia Franco Gabrielli. Un importantissimo riconoscimento su quanto accaduto quella notte e sulla correttezza e valore delle azioni degli agenti quella notte. Una notte su cui sono state gettate alcune ombre da vari soggetti, finanche dalla commissione regionale antimafia della regione Sicilia guidata dall’onorevole Claudio Fava. Ma andiamo con ordine: Giuseppe Antoci è stato presidente del parco dei Nebrodi e il suo protocollo di contrasto alla criminalità organizzata ha causato la perdita di un business milionario per la mafia. Per questo in una strada isolata c’è stato un attentato di stampo mafioso ai suoi danni: la macchina blindata e l’intervento tempestivo degli agenti della scorta lo hanno salvato dalle pallottole dei suoi attentatori. L’anno scorso la Commissione antimafia della regione Sicilia ha aperto un’inchiesta sull’attentato ad Antoci “nello sforzo di chiarire una vicenda che tuttora mostra numerose contraddizioni e zone d’ombra”.  “È come la palla di neve”, aveva detto Antoci nel servizio di Gaetano Pecoraro che potete vedere qui sopra. “Quando parte è piccola e comincia a scendere, poi dentro si infila di tutto: la mafia, chi ha un sentimento di antipatia, la politica. Questa palla cresce e rischia di diventare una valanga”. Una valanga che ha travolto lui, la sua scorta, i poliziotti intervenuti quella notte e persino i magistrati che hanno indagato sull’attentato. La commissione antimafia siciliana non arriva a una conclusione, ma a tre possibili scenari e tanti dubbi: l’attentato alla vita di Antoci, un atto dimostrativo non destinato a uccidere o una messinscena a sua insaputa. Di queste tre, secondo la commissione, “l’attentato di mafia è la meno plausibile”. Posizione ribadita dal presidente di quella commissione, Claudio Fava. Le indagini della procura di Messina erano arrivate a un’altra conclusione. Anche se non è stato possibile identificare gli autori dell’attentato, nel decreto di archiviazione si legge: “Innegabile che tale gravissimo attentato è stato commesso con modalità tipicamente mafiose e al deliberato scopo di uccidere”. I punti su cui l’antimafia siciliana sembra sollevare dei dubbi sono questi: l’attentato sarebbe avvenuto su una strada statale, quindi solitamente un tipo di strada molto trafficata; il mancato allertamento delle centrali operative subito dopo l’attacco; il mancato ritrovamento dei bossoli dei colpi esplosi dagli attentatori; l’apparente assenza di una via di fuga sicura degli attentatori, su cui anche la polizia scientifica avrebbe sollevato dubbi; il comportamento degli agenti di scorta, che avrebbero trasferito Antoci su una macchina non blindata subito dopo l’attacco. Pochi giorni fa la commissione antimafia nazionale si è occupata del caso di Antoci, partendo proprio dal nostro servizio. Lì Il procuratore capo di Messina ha detto: l'attentato ad Antoci "non si può dire che non ci sia stato. Nel provvedimento di archiviazione del giudice questo è confermato in pieno”. Poi, in merito all’attività della commissione regionale presieduta da Fava, aggiunge: “Io tengo sempre separati i campi d’azione dell’attività inquirente, che la costituzione all’articolo 112 attribuisce al pubblico ministero, dalle altre attività d’inchiesta che più che legittimamente la politica fa. I fini sono diversi: il nostro fine è quello di accertare i reati e individuarne i colpevoli”. Inoltre ha aggiunto: “I fini delle commissioni d’inchiesta, in particolare di quella regionale, citando una sentenza della Corte costituzionale nel 1993, non sono quelli di andare a rifare il lavoro che ha fatto l’attività giudiziaria ma quelli di individuare quali possono essere i suggerimenti per il potere politico e quindi quello legislativo per adottare - e qui parlo appunto della decisione della Corte costituzionale sulla commissione antimafia regionale siciliana - quei rimedi che possono essere offerti alla legislazione siciliana in materia di infiltrazioni”. E poi continua: “I due piani secondo me sono totalmente separati, anche perché i poteri sono diversi: i poteri inquirenti sono quelli che ha l’attività giudiziaria e i pubblici ministeri e che avete voi (riferito alla commissione nazionale antimafia, ndr) in forza però di una legge dello Stato e che non hanno invece altre istituzioni regionali come la commissione regionale antimafia”.  Noi di Iene.it abbiamo chiesto un commento su questo al presidente della commissione siciliana antimafia, Claudio Fava, che però ha preferito non commentare quanto detto dal procuratore capo di Messina. Su quanto avvenuto nella commissione nazionale, il nostro Gaetano Pecoraro ha detto: “Con la seduta si certificano tre cose. Primo: se la mafia dei Nebrodi in commissione antimafia siciliana veniva inquadrata come una mafia di basso livello (fatta sostanzialmente da quattro pastori), in commissione nazionale viene presentata per quello che è: un centro di interessi molto complesso, che unisce clan di diverse aree geografiche dell’isola. Una delle organizzazioni criminali più pericolose, per la sua capacità accaparrarsi enormi flussi di denaro pubblico (parliamo di miliardi di euro) senza mai dare nell’occhio. Secondo: l’attentato ad Antoci ci fu e questo, anche se ancora non sono stati trovati i colpevoli, è stato provato. Altroché ‘messa in scena’. Terzo. Non esiste alcuno scontro interno all’antimafia. Esiste la procura di Messina che ancora oggi, mentre ne stiamo parlando, indaga sull’attentato. Ed esiste una commissione regionale che - come detto ieri in Senato - impegna il suo tempo in attività che non le sono consentite dalla legge e dalla costituzione Italiana. Una commissione regionale non può rifare le indagini fatte dai giudici, la legge non le dà gli strumenti per farlo. Le domande che mi faccio sono le stesse contenute nelle inchieste fatte nei mesi scorsi: Perché la commissione antimafia Siciliana impiega tempo e risorse (pubbliche, ricordiamocelo) per attività che non le competono? A chi ha giovato sottostimare la mafia dei Nebrodi? A chi ha giovato mettere in dubbio l’attentato ad Antoci? Insomma: cui prodest?”. E adesso, con la promozione dei quattro agenti per aver salvato Antoci da un “attentato di stampo mafioso”, arriva un’ulteriore conferma di quanto avvenuto davvero quella notte. Dice Antoci a Iene.it: “Si chiude una pagina buia di "mascariamenti": speriamo presto vengano assicurati alla giustizia i mafiosi che quella notte volevano ucciderci”.

Attentato ad Antoci: Le Iene rispondono a Repubblica. Le Iene News il 14 marzo 2020. Un articolo de La Repubblica attacca l’inchiesta de Le Iene sull’attentato a Giuseppe Antoci, il presidente del Parco dei Nebrodi. La risposta di Gaetano Pecoraro. Visto che La Repubblica non ci ha concesso lo spazio necessario per rispondere a un articolo che ci ha tirato in ballo, rispondiamo qui. Il 9 marzo sulle sue pagine è apparso questo articolo: “I misteri del caso Antoci. L’Attentato che fa litigare i magistrati e l’Antimafia”. Giuseppe Antoci fino a qualche mese fa era il presidente del Parco dei Nebrodi. Con una legge che porta il suo nome ha fermato il business miliardario delle cosche mafiose legato ai fondi europei destinati all’agricoltura. Dell’attentato da lui subito noi de Le Iene ce ne siamo occupati.

Come vi abbiamo raccontato la macchina blindata di Antoci con due agenti di scorta percorreva una strada isolata sulle montagne dei Nebrodi. A un certo punto sono costretti a fermarsi perché la strada è interrotta da dei massi. Appena ferma dal bosco escono delle persone che iniziano a fare fuoco sull’auto mirando alla carrozzeria e alle ruote. Da dietro l’ultima curva sopraggiunge l’auto del Commissario Manganaro con un collega che vista la scena si catapulta fuori dall’auto. I due rispondono al fuoco nemico mettendo in fuga gli aggressori. E a Le Iene vi abbiamo raccontato come successivamente anche un’altra versione dei fatti abbia preso corpo, che Antoci ha definito "come una palla di neve… Che diventa una valanga”. Una valanga che ha travolto Antoci, la scorta che gli ha salvato la vita e i poliziotti che sono intervenuti quella notte, ma anche i magistrati che hanno seguito le indagini sull’attentato. Perché la conclusione a cui è giunta la Commissione antimafia della regione Sicilia è molto strana. O come ci ha detto Antoci “non c’è stata una conclusione”. Ed è vero perché, per la precisione, di conclusioni ce ne sono state ben tre. La prima parla di "attentato mafioso fallito’", la seconda di "atto dimostrativo destinato ad avvertire", e la terza invece, la più clamorosa, parla di una "MESSINSCENA". E veniamo all’articolo di Repubblica. Il giornalista comincia con questa frase: “Mai si era visto un attentato di mafia senza un solo mafioso caduto nella rete. Mai. E mai indagini così traballanti!”. Davvero non c'è mai stato un attentato di mafia che non ha trovato neanche un mafioso colpevole? Ecco solo alcuni dei casi di mafia ancora oggi irrisolti: Il 5 maggio del 1971 il procuratore capo di Palermo, Pietro Scaglione, viene barbaramente assassinato dalla mafia. Oggi, a 49 anni di distanza, non si sa ancora chi sia stato. Da 49 anni il caso è archiviato. Il 5 agosto del 1989 il poliziotto Nino Agostino e la sua compagna Ida Castelluccio cadono vittime in un attentato mafioso. Per 30 lunghissimi anni i magistrati non sono mai riusciti ad aprire un processo per arrivare ai colpevoli. 30 anni di archiviazioni su archiviazioni. È di poche settimane fa la notizia dell’apertura del processo. 6 gennaio 1980, la mafia uccide il presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella. C’è anche una foto di quei terribili attimi: si vede l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che abbraccia il corpo ormai senza vita, del fratello. Oggi, a  40 anni di distanza, la magistratura non è riuscita ad arrivare a nessuno degli esecutori materiali. Quindi anche questi ultimi non sono stati uccisi per mano della mafia? O anche in questi casi “le indagini sono traballanti”? È una domanda che giriamo a Repubblica. Ma proseguiamo. Nell’articolo si legge che la Commissione antimafia della regione Sicilia guidata da Claudio Fava sarebbe finita “in uno scontro istituzionale senza precedenti con la magistratura messinese perché colpevole di aver smontato pezzo dopo pezzo l’inchiesta giudiziaria, evidenziandone tutte le forzature”. Un’affermazione forte e che apre a piste molto suggestive. Ma di che forzature parla Repubblica? Ne cita una per tutte, che riguarda le indagini svolte subito dopo l’attentato. Secondo il giornalista a farle è stato un “piccolo commissariato di polizia (quello di Sant’agata Militello) nonostante la gravità dell’episodio”. E non solo: la procura di Messina avrebbe affidato le indagini “agli stessi investigatori testimoni dell’agguato, (una follia procedurale), sviluppate nell’immediatezza violando ogni regola”. Scritta così sembra proprio che l’indagine sull’attentato sia stata svolta da un piccolo commissariato di periferia. Peccato che questo sia falso. Come si evince dall’informativa sulla chiusura delle indagini sull’attentato ad Antoci datata 23 aprile 2018, è stata la Squadra mobile di Messina, sezione Criminalità Organizzata, a lavorare sul caso. Del “piccolo commissariato di polizia di Sant’agata di Militello”, nel documento indirizzato alla Direzione distrettuale antimafia di Messina, quindi, non vi è traccia. Ma al di là del falso riportato nell'articolo di Repubblica, come si può anche solo pensare che una Commissione regionale antimafia, che non ha alcun potere di indagine, ma solo di analisi, possa smontare un’inchiesta fatta da Squadra mobile, Sco, Ros, Polizia scientifica di Roma, e magistrati vari? Anche questa è una domanda che giriamo a La Repubblica. Infine arriviamo all’attacco riservato a noi. Secondo il giornalista l’intervista che abbiamo gentilmente richiesto e che altrettanto gentilmente ci è stata concessa dal presidente della Commissione regionale antimafia, Claudio Fava, come si può vedere dal video, è stata una “scorribanda che veramente ha ben poco a che fare con il giornalismo”. Una scorribanda?! Lasciamo a voi ogni valutazione. Ma La Repubblica rincara la dose e parla anche di “un’incursione de Le Iene" subita anche dal "nostro Franco Viviano, che per primo ha raccontato il caso sulle pagine de l’Espresso. Un'altra sceneggiata a favore di un pubblico di bocca buona". Sulle offese al nostro pubblico, cioè voi, non commentiamo, ma mai noi ci saremmo permessi di giudicare i lettori de La Repubblica. Sulla  “sceneggiata” invece, potete guardare coi vostri occhi nel video che abbiamo pubblicato sopra. Dimostrare, con carte alla mano, che un giornalista ha pubblicato intercettazioni che mettono in discussione un intero attentato, ma che tutte le procure siciliane dicono non esistere, vi sembra una sceneggiata? A voi, “pubblico di bocca buona”, ogni giudizio. E da parte di La Repubblica, anziché offese e illazioni, a questo punto ci aspettiamo un aiuto per trovare le risposte alle domande che abbiamo posto sull’attentato ad Antoci su cui, è vero, ancora ci sono molte cose da chiarire:

1. Su quali basi la Commissione regionale antimafia arriva alla conclusione che la pista dell’attentato mafioso ai danni di Antoci sia la “meno plausibile”, visto che i magistrati scrivono nel decreto di archiviazione che è “innegabile che tale attentato è stato commesso con modalità tipicamente mafiose”? 

2. Perché la Commissione mette in bocca parole mai dette da magistrati? Come ha fatto con il dottor Angelo Cavallo, alla guida delle indagini: perché per la commissione avrebbe escluso la pista mafiosa dell’attentato, mentre ai nostri microfoni ha detto esattamente l’opposto?  

3. Perché la Commissione regionale antimafia pone come “circostanza anomala” il fatto che l’attentato sia avvenuto in una strada statale, facendo quindi credere all’opinione pubblica che l’attentato sia avvenuto in un luogo super trafficato e ben illuminato, quando basta andare su Google maps per rendersi conto che si tratta in realtà di una sperduta strada piena di curve in mezzo alle montagne?

4. Perché la commissione dichiara che nessuno ha chiesto soccorso subito dopo l’attentato, se esistono i tabulati che dimostrano il contrario? 

5. Qual è il vero ruolo dell’ex poliziotto Mario Ceraolo, utilizzato dalla Commissione come fonte principale per smontare l’inchiesta dei magistrati sull’attentato? Perché la Commissione lo presenta come persona che ha partecipato alle indagini sull’attentato, anche se i magistrati lo smentiscono categoricamente? 

6. Come mai la Commissione regionale antimafia non dà mai il giusto rilievo al fatto che sia Antoci, sia gli uomini della scorta e i poliziotti che gli hanno salvato la vita sono stati intercettati per 7 mesi dai magistrati, proprio per capire se si trattasse di una messinscena, ma nulla è venuto fuori?

7. Perché il presidente della Commissione Fava prima acquisisce esposti anonimi in cui si parla dell'attentato come di una messinscena, esposti già in precedenza cestinati dalla magistratura perché calunniosi e privi di alcun riscontro, e poi a noi nega di averlo fatto? Perché mente?

8. Com’è possibile che il primo articolo a mettere in dubbio la versione ufficiale dell’attentato scritto da L'Espresso è tutto basato su un’intercettazione che secondo tutte le procure siciliane non esiste? L’Espresso da dove ha preso questa intercettazione che i magistrati non sono mai riusciti a trovare?

La storia di Giuseppe Antoci, dall'attentato mafioso alla macchina del fango. Le Iene News il 21 febbraio 2020. È stato per anni presidente del parco dei Nebrodi, che ha contribuito a liberare dalla mafia rurale con un protocollo che oggi è legge nazionale. Ma c’è chi ne ha infangato la reputazione con la strategia del “mascariamento”. E anche la Commissione antimafia siciliana ha sollevato dubbi sull’attentato che ha subito Antoci. Ecco cosa ha detto il presidente Claudia Fava a Gaetano Pecoraro (accusandoci poi di "aggressione": giudicate voi!). Il 18 maggio 2016 in una strada isolata c’è stato un attentato di stampo mafioso ai danni di Giuseppe Antoci, allora presidente del Parco dei Nebrodi. La macchina blindata e l’intervento tempestivo degli agenti della scorta lo salva dalle pallottole dei suoi attentatori. C’è però chi non è d’accordo sullo stampo mafioso dell’attentato e lavora per screditare Antoci. Il presidente parlando con Gaetano Pecoraro usa l’espressione “mascariamento”, che significa gettare fango su una persona per screditarla agli occhi dell’opinione pubblica. In questo servizio vi raccontiamo proprio come sarebbe avvenuto questo “mascariamento”. Ma facciamo un passo indietro: chi è Giuseppe Antoci? Fino a un anno fa era il presidente del parco di Nebrodi, in Sicilia. Il parco è stato per lungo tempo sotto l’influenza della mafia rurale, che sfruttava l’affitto dei terreni del parco stesso per appropriarsi di quanti più fondi europei all’agricoltura possibili. Tutto nella norma, se non fosse che nessuno s’era accorto che le aziende che affittavano i terreni erano controllate da famiglie mafiose. Giuseppe Antoci quando diventa presidente del parco redige un nuovo protocollo che avrebbe messo in difficoltà quel meccanismo che arricchiva la criminalità organizzata. “Da quel momento tutto deve passare dalla certificazione antimafia della Prefettura”, ci spiega. Il nuovo sistema spezza così il sistema di approvvigionamento della mafia, e il protocollo Antoci diventa una legge dello Stato apprezzata anche in Europa. Antoci entra però nel mirino della mafia: prima con “semplici” minacce, per cui gli viene affidata una scorta. Poi si passa ai fatti, come vi abbiamo raccontato: un attentato alla sua vita che però fallisce. Gaetano Pecoraro era andato a parlare con alcuni presunti esponenti del clan che avrebbe realizzato l’attacco, che oltre a negare la loro supposta affiliazione insinuano un dubbio: “Bisogna vedere se non l’hanno fatto loro stessi l’attentato”. Inizia così il “mascariamento” nei confronti di Antoci, che in poco tempo sembra raggiungere persino le istituzioni. Pochi mesi fa la Commissione antimafia del parlamento siciliano apre un’inchiesta sull’attentato ad Antoci, “nello sforzo di chiarire una vicenda che tuttora mostra numerose contraddizioni e zone d’ombra”. “È come la palla di neve”, commenta Antoci. “Quando parte è piccola e comincia a scendere, poi dentro si infila di tutto: la mafia, chi ha un sentimento di antipatia, la politica. Questa palla cresce e rischia di diventare una valanga”. Una valanga che ha travolto lui, la sua scorta, i poliziotti intervenuti quella notte e persino i magistrati che hanno indagato sull’attentato. La commissione antimafia non arriva a una conclusione, ma a tre possibili scenari: l’attentato alla vita di Antoci, un atto dimostrativo non destinato a uccidere o una messinscena a sua insaputa. Di queste tre, secondo la commissione, “l’attentato di mafia è la meno plausibile”. Posizione ribadita dal presidente di quella commissione, Claudio Fava. Le indagini della procura di Messina erano arrivate a un’altra conclusione. Anche se non è stato possibile identificare gli autori dell’attentato, nel decreto di archiviazione si legge: “Innegabile che tale gravissimo attentato è stato commesso con modalità tipicamente mafiose e al deliberato scopo di uccidere”. Le posizioni della procura e della commissione quindi divergono. Ecco alcuni punti su cui l’antimafia siciliana sembra sollevare dei dubbi: l’attentato sarebbe avvenuto su una strada statale, quindi solitamente un tipo di strada molto trafficata; il mancato allertamento delle centrali operative subito dopo l’attacco; il mancato ritrovamento dei bossoli dei colpi esplosi dagli attentatori; l’apparente assenza di una via di fuga sicura degli attentatori, su cui anche la polizia scientifica avrebbe sollevato dubbi; il comportamento degli agenti di scorta, che avrebbero trasferito Antoci su una macchina non blindata subito dopo l’attacco. Questi dubbi, però, sembrano poter essere facilmente fugati, come potete vedere nel servizio di Gaetano Pecoraro in testa a questo articolo. Forze dell’ordine e magistratura sembrano essere concordi nell’identificare con sicurezza l’attentato come un attacco di stampo mafioso. La commissione, come abbiamo visto, sembra però di parere diverso. Ricapitolando, c’è un signore che ha interrotto un business miliardario di fondi pubblici che arricchiva la mafia rurale. Per questo – con ogni probabilità – è stato vittima di un attentato mafioso da cui è scampato grazie alla pronta azione della sua scorta. Il suo protocollo di contrasto alla criminalità organizzata è adesso legge nazionale. Ma per la commissione antimafia siciliana in quell’attentato ci sarebbe qualcosa che non torna. Così il nostro Gaetano Pecoraro è andato a parlare proprio con Claudio Fava, il presidente di quella commissione. Come vi abbiamo anticipato, Claudio Fava ci ha accusato di “aggressione verbale” per questa intervista e a cui abbiamo già risposto. In questo servizio potete vedere le domande che gli abbiamo fatto e le risposte che ci ha dato. Giudicate voi a chi credere, se alla versione di Giuseppe Antoci o a quella di Claudio Fava. 

L'agguato a Giuseppe Antoci, gli insulti alla figlia e quelle strane intercettazioni. Le Iene News il 26 febbraio 2020. Gaetano Pecoraro, nel nuovo servizio sulla “mafia rurale”, torna a occuparsi dell’attentato di Giuseppe Antoci. Sua figlia intanto è stata appena aggredita e minacciata. Da dove è partita la macchina del fango che vuole travolgere l’ex presidente del Parco dei Nebrodi? “Chi è stato a sparare all’auto di Giuseppe Antoci?”. Anzi, per dirla in dialetto messinese, “Cu Fu?” Se lo era chiesto il giornalista dell’Espresso Francesco Viviano, dopo l’attentato a cui nel maggio 2016 era scampato Giuseppe Antoci, ex Presidente del Parco dei Nebrodi e uomo coraggioso le cui denunce avevano pesantemente minacciato gli affari della cosiddetta “mafia rurale”. Parliamo del business organizzato dalla mafia, che otteneva finanziamenti pubblici dall’Unione europea attraverso richieste inoltrate da imprenditori vicini alle cosche o minacciati. Un sistema che consentiva di ottenere dall’Europa milioni e milioni di euro, che ovviamente finivano dritti nelle tasche dei clan. Dopo l’inchiesta del giornalista Francesco Viviano, che aveva pubblicato stralci di intercettazioni dei boss mafiosi, erano partiti i dubbi sull’attentato. Si era dato il via al cosiddetto  “mascariamento”, ovvero la macchina del fango secondo la quale Antoci si sarebbe inventato di sana pianta quell’agguato. Un’ipotesi fantasiosa, che ha finito per convincere anche la Commissione Antimafia. Il problema in realtà, come Gaetano Pecoraro ci racconta nel nuovo servizio in onda giovedì sera a Le Iene su Italia 1, è che le intercettazioni pubblicate da Francesco Viviano non sono mai esistite. Quando la Iena va dal cronista a chiedere di poterle ascoltare o leggere, come potete vedere nell’anticipazione di qui sopra, questa è la risposta: “Non posso. Certo che le ho lette, ma non ricordo se le ho sentite”. Le Iene tornano a occuparsi dell’attentato mafioso a Giuseppe Antoci, poco dopo l’aggressione e gli insulti alla figlia appena avvenuti in un locale del Messinese. Proviamo a indagare proprio sull’inchiesta del giornalista Francesco Viviano, per capire se anche da lì sia partito in qualche maniera il “mascariamento” ai danni dell’unica vera vittima: Giuseppe Antoci.

Antoci, ecco come è nato il “mascariamento” dopo l'attentato. Le Iene News il 27 febbraio 2020. La figlia di Giuseppe Antoci è stata appena aggredita in una pizzeria: “Non si può vivere in questo modo”, dice l’ex presidente del Parco dei Nebrodi a Gaetano Pecoraro. La Iena ci racconta come e dove è nato il “mascariamento” contro l’uomo che ha combattuto la mafia rurale. Purtroppo è successa una cosa grave: la figlia di Giuseppe Antoci è stata minacciata e insultata in pizzeria. “Mia figlia era andata a prendere un trancio di pizza e una persona l’ha insultata”, racconta lo stesso Antoci a Gaetano Pecoraro. Giuseppe Antoci è stato presidente del Parco dei Nebrodi e il suo protocollo di contrasto alla criminalità organizzata ha causato la perdita di un business milionario per la mafia. Per questo Il 18 maggio 2016 in una strada isolata c’è stato un attentato di stampo mafioso ai suoi danni: la macchina blindata e l’intervento tempestivo degli agenti della scorta lo hanno salvato dalle pallottole dei suoi attentatori. Ad anni di distanza, adesso che Antoci non ricopre più alcun incarico pubblico, la sua figura a quanto pare sembra essere ancora al centro dell’attenzione della malavita. “Mia figlia è molto scossa”, dice Antoci. “Lo siamo tutti, perché non si può vivere in questo modo. Non è giusto che una ragazzina non possa uscire e poi essere insultata e minacciata per le scelte del padre. Sono frastornato e preoccupato, sto perdendo le forze”. Giuseppe Antoci comunque non è uomo che si possa zittire, nemmeno di fronte al “mascariamento”, alla macchina del fango a cui è stato sottoposto e di cui vi abbiamo parlato nel servizio che potete rivedere cliccando qui. Tutto parte dai mafiosi stessi, che mettono in giro questa voce. Una voce che fa eco prima sui media locali, poi su quelli nazionali e infine arriva perfino nelle istituzioni. Tra chi ha lanciato per primi i messaggi volti a insinuare che l’attentato contro Antoci fosse stato una messinscena ci sono anche i fratelli Giuseppe e Sebastiano Foti Belligambi, pregiudicati dei Nebrodi, che in una intercettazione si dicono: “Questo attentato se lo sono fatti loro”. Il pm Cavallo, che ha condotto le indagini a Messina sull’attentato, ci dice che molte volte ascoltando le persone intercettate c’era l’impressione che parlassero immaginando di essere ascoltati. Sapevano quindi di essere intercettati e cercavano di sviare le indagini dicendo di non sapere nulla di quanto accaduto, ma anzi mostrando sorpresa. Non è però finita qui: nelle procure iniziano ad arrivare esposti anonimi in cui si sostiene che l’attentato ad Antoci sarebbe stata tutta una simulazione per ottenere promozioni e distinzioni. I pm hanno indagato, arrivando perfino a intercettare Antoci, ma senza che emergesse nulla per giustificare una presunta messinscena. La procura di Messina lo mette per iscritto: gli esposti anonimi apparivano calunniosi. Poi si spinge oltre, affermando che “i vari esposti riportavano aspetti della vicenda che potevano essere conosciuti solo a soggetti che avevano accesso a informazioni riservate”.  Possibile che ci fosse dietro una persona vicina alle forze dell’ordine? Nessuno è riuscito ancora a stabilire se e chi si celasse in questa storia. Questi esposti sarebbero arrivati nelle mani di un ex poliziotto, Mario Ceraolo. Nuccio Anselmo, giornalista della Gazzetta del sud, sostiene che Ceraolo avrebbe cercato di mettere in dubbio la veridicità dell’attentato ad Antoci, anche attraverso la diffusione di questi esposti. Ma l’ex poliziotto non si sarebbe fermato qui: avrebbe anche svolto delle indagini su quanto avvenuto quella sera. “Con noi ha sempre collaborato, non ha collaborato a questo tipo di indagini”, dice il pm Cavallo. Nelle conclusioni della commissione antimafia, però, Ceraolo è stato indicato come uno che sarebbe stato incaricato personalmente dai pm di Messina per un approfondimento informale sull’attentato per l’esperienza acquisita e la stima riposta nei suoi confronti. Ma per il procuratore Cavallo non è così: “L’ho già smentito in sede di audizione”. A questo punto Gaetano Pecoraro è andato a parlare proprio con Mario Ceraolo. Potete vedere che cosa si sono detti nel servizio qui sopra. Nella vicenda del “mascariamento” contro Giuseppe Antoci, comunque, appare un altro possibile protagonista: è il giornalista Francesco Viviano, che in un articolo pubblicato su L’Espresso sostiene che anche i boss starebbero cercando il responsabile dell’attentato ad Antoci. La fonte sarebbero alcune intercettazioni in cui i mafiosi si chiederebbero “Cu fu”, chi è stato?

Una notizia che se fosse vera sarebbe clamorosa. Il pm Cavallo però, che sta conducendo le indagini, chiede a tutte le procure di cercare queste intercettazioni citate da Viviano. Ma nessuno le trova. A questo punto Pecoraro va a parlare direttamente con il giornalista: potete sentire che cosa si sono detti nel servizio qui sopra. Comunque siano andate le cose, forse qualcuno dovrebbe chiedere scusa a Giuseppe Antoci. “Non a me”, ci dice. “Agli uomini della scorta, alla polizia di stato, ai magistrati e alle mie figlie. Hanno subito insieme a me una aggressione senza precedenti, io non me lo meritavo tutto questo”.

Da ilfattoquotidiano.it il 13 febbraio 2020. Un audio di 84 minuti è stato trasmesso alla procura di Ragusa e alla Direzione distrettuale Antimafia di Catania dalla commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana. Su quel nastro c’è l’intervista integrale concessa dal presidente dell’organo parlamentare, Claudio Fava, a una troupe delle Iene e non ancora andata in onda. L’oggetto del lungo colloquio è il cosiddetto “caso Antoci“, cioè l’ex presidente del Parco dei Nebrodi, che fu vittima di un attentato – i cui mandanti ed esecutori sono rimasti ignoti – divenuto oggetto di lavoro d’indagine della stesso organo guidato da Fava. Lo scorso ottobre la commissione ha depositato la relazione finale di quell’indagine formulando tre ipotesi su quell’agguato all’ex presidente del Parco dei Nebrodi: un attentato mafioso fallito, un atto puramente dimostrativo, una simulazione, con Antoci comunque vittima in ognuno dei tre casi. Il presidente dell’Antimafia siciliana, però, ha spiegato di aver inviato la registrazione di quell’intervista alle procure di Ragusa e Catania perché la considera “una violenta aggressione verbale“, “con tante affermazioni false“. Il file con l’audio, registrato a sua volta con un telefonino mentre era in corso l’intervista all’interno di un hotel a Comiso dove Fava per tre giorni ha tenuto laboratori di scrittura, è stato consegnato dalla commissione anche ai cronisti, che poi hanno ascoltato le parole il presidente dell’Antimafia all’Ars. “Domenica scorsa ero a Comiso, sono stato avvicinato in un albergo da un giornalista delle Iene che mi ha proposto una intervista sul caso Antoci, intervista che ho concesso di buon grado pur non essendo mai stato avvertito della loro visita – racconta Fava – Ma non è stata una intervista ma una aggressione molto violenta nei toni, offensiva nei contenuti e minacciosa nelle forme: senza domande ma con affermazioni false e calunniose e provocazioni“. Secondo il presidente della commissione “è stata una operazione ben organizzata: chi ha mandato questo signore? A che scopo? È una forma di intimidazione? Un avvertimento affinché nessuno continui a occuparsi di questa vicenda? Se l’obiettivo è intimidire, sono caduti male, si sbagliano. È un atto di una gravità istituzionale irreparabile nei confronti di questa commissione Antimafia”. Fava parla di una “imbarazzante quantità di falsità dette dal giornalista in questa finta intervista. Mi è stato detto che “avevamo dato la miccia a tutti i mafiosi dei Nebrodi”, che nella relazione “avevamo riportato solo stronzate”. Non c’era alcuna intenzione giornalistica. Nella forma si è trattato di una calunniosa aggressione che non prevedeva alcuna domanda ma solo provocazioni. Nella sostanza, l’operazione appare come un’autentica intimidazione, un avvertimento a non occuparci più di questa vicenda”. Il parlamentare siciliano spiega di aver trasmesso il file “alla Procura di Ragusa e alla dda di Catania per le loro opportune valutazioni”. A stretto giro arriva la replica del giornalista delle Iene, Gaetano Pecoraro, autore dell’intervista. “Non ho fatto nessuna aggressione all’onorevole Fava ma gli ho gentilmente chiesto un’intervista che lui ha accettato di fare, non ho mai fatto nessuna intimidazione o minaccia né a lui né alla Commissione, non ho alle nostre spalle nessun mandante se non la nostra redazione e l’amore per il lavoro che faccio”, dice l’inviato della trasmissione di Mediaset. “Ci siamo semplicemente permessi di muovere delle critiche sul lavoro svolto dalla Commissione Antimafia riguardo all’attentato ad Antoci e agli uomini della sua scorta – aggiunge Pecoraro – Ad ogni modo, ogni telespettatore, quando l’inchiesta andrà in onda, potrà farsi la propria idea”.

Il misterioso “caso Antoci”. La Repubblica il 7 dicembre 2019 da A. BOLZONI e F.TROTTA. Tutta la storia ha contorni ambigui se non inquietanti, le indagini affondano nel dubbio, la polemica è rovente. E' l'affaire Antoci, l'ex presidente del Parco dei Nebrodi bersaglio di un attentato intorno al quale ci sono tante incertezze che si trascinano pericolosamente da tre anni. Noi abbiamo sempre sostenuto che Giuseppe Antoci, qualunque sia stato il movente di quell'agguato avvenuto sulle montagne messinesi nella notte del 17 maggio 2016, era e rimane sempre una vittima. Ma abbiamo anche sempre pensato - sin dalle ore successive all'attentato - che qualcuno abbia usato in qualche modo la sua azione contro gli interessi criminali della mafia dei Nebrodi per creare una sorta di diversivo, un caso mediatico per concentrare l'attenzione dell'opinione pubblica su di lui (si era battuto per stilare un protocollo per l'assegnazione degli affitti dei terreni demaniali che aveva infastidito non poco le realtà mafiose della zona) e distoglierla da personaggi coinvolti in ben più robuste collusioni con la Regione Siciliana e con apparati dello Stato. Insomma, abbiamo sempre ipotizzato un collegamento fra l'attentato a Giuseppe Antoci e il verminaio Montante. Questa serie del Blog Mafie la dedichiamo alla pubblicazione della relazione della Commissione parlamentare Antimafia siciliana presieduta da Claudio Fava. La Commissione, ascoltati numerosi testimoni ed esaminati gli atti giudiziari, ha concluso la sua inchiesta così: «L'ipotesi sul fallito attentato mafioso con intenzioni stragiste appare la meno plausibile». Niente mafia, probabilmente altro. Qualcosa di più indicibile. Un paio di giorni dopo la divulgazione della relazione, il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Nicola Morra ha parlato di un «lavoro attento e certosino» svolto da Fava augurandosi l'identificazione «dei responsabili» e la scoperta «delle finalità che si erano prefissate». Vittima per Claudio Fava, vittima per Nicola Morra, vittima per tutti coloro che sanno come sono andate le cose in Sicilia negli ultimi anni, eppure Giuseppe Antoci l'ha presa male e si è dichiarato «basito dalle conclusioni dell'Antimafia». Tutto ciò che per mesi e mesi veniva solo sussurrato è diventato pubblico. E' materia molto delicata. La magistratura non ha accertato dopo tre anni di inchieste chi ha materialmente organizzato l'attentato contro l'ex presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci sostiene con un'enfasi davvero sorprendente che l'agguato subito «è tra i meglio studiati tecnicamente» dopo quelli dell'estate del 1992 (le stragi Falcone e Borsellino), il presidente Fava ha manifestato a sua volta la sua delusione per la reazione di Antoci «che dovrebbe esssere grato a questa Commissione che cerca la verità».

Resta l'interrogativo:  chi ha ideato quell'attentato se non è stata la mafia dei Nebrodi? Il “caso”, al di là di quello che sarà ancora accertato dagli inquirenti, al momento si inserisce pienamente nella questione spinosa su cosa oggi è diventata l'Antimafia in Italia. Per alcuni troppo docile e troppo innocua, per altri praticamente intoccabile. Un'ultima annotazione, a margine ma non secondaria. Giuseppe Antoci per due anni ha ricoperto la carica di responsabile nazionale della Legalità del Pd e, in quella veste, non ha mai detto una sola parola sul "sistema Montante”, su quell' Anonima Ricatti che si era imposta in Sicilia e in Italia in nome dell'Antimafia. Mai una parola neanche sugli affari della Regione, sul governo Crocetta che era nelle mani di un ristretto gruppo di potere che rispondeva a Calogero Antonio Montante. Un silenzio inspiegabile (o molto spiegabile, visti i suoi legami con l'ex governatore Crocetta e con l'ex senatore Beppe Lumia) e molto imbarazzante.

Sul Blog pubblicheremo ogni giorno tutte le testimonianze raccolte dalla Commissione Antimafia Siciliana e le conclusioni finali contenute nella relazione. Un'inchiesta monca. La Repubblica il 31 dicembre 2019. Resta un dubbio: perché il questore di Messina non ritiene di approfondire le ragioni di versioni dei fatti così divergenti da parte di due funzionari della sua questura? Perché l’Autorità Giudiziaria non ritiene di mettere a confronti Ceraolo e Manganaro per stabilire una linea di plausibile verità? Ad onor del vero, le risposte ricevute nel corso delle audizioni non sembrano particolarmente convincenti.

CUCCHIARA: Capisce bene che era estremamente difficile trovare un punto di sintesi di queste due posizioni. Quello che è certo che l’ambiente in questura era diventato particolarmente pesante. (…) Mi trovavo a gestire un momento estremamente impegnativo per la questura di Messina e per me personalmente che era l’organizzazione del vertice G7 a Taormina, avevo bisogno di tutti i miei funzionari al massimo delle loro possibilità e in quel momento sono stato costretto a fare a meno di Mario Ceraolo perché non potevo metterlo in servizio insieme a Manganaro.

FAVA, Presidente della Commissione: Perché scelse Manganaro e non Ceraolo?

CUCCHIARA: Mi pare che non scelsi nessuno dei due, adesso non mi ricordo. Perché forse uno era già inserito, l’altro no… Adesso questo è un dettaglio…

FAVA, Presidente della Commissione: Ceraolo non ce l’ha raccontato come un dettaglio, nel senso che dopo aver lavorato per molti mesi…

CUCCHIARA: …all’attività preparatoria…

FAVA, Presidente della Commissione: …scoprì che non era prevista la sua presenza…

CUCCHIARA: Io ho fatto questa scelta per motivi di opportunità.

FAVA, Presidente della Commissione: Il dottor Ceraolo in Commissione ci ha detto a proposito del vostro dialogo e della delusione che lei manifestò “perché Ceraolo aveva reso delle dichiarazioni che non erano in linea con quelle della Polizia di Stato”.

CUCCHIARA: No, il mio disappunto era dovuto al fatto che non mi avesse informato, essendo lui, come posso dire, autore di informazioni che erano di segno completamente diverso… è chiaro che mi metteva in una situazione, non dico di imbarazzo… le sue affermazioni mi confondevano…

FAVA, Presidente della Commissione: Ecco, ma di fronte a questa sua confusione, assolutamente legittima, lei non ebbe un momento di dubbio, un momento di incertezza da dire: “siamo sicuri che sia andata veramente così?”

CUCCHIARA: Ho difficoltà a trovare parole giuste per rispondere alla domanda che lei mi fa, se a me sia mai venuto il dubbio, perché, le dico, ma se anche io avessi avuto qualche dubbio a che sarebbe servito? A chi sarebbe servito? A che cosa sarebbe servito il fatto che io andassi… da chi? in procura? A dire “io ho un dubbio!” “E perché?” (…)

PROCURATORE CAVALLO: I confronti possono avere un’utilità tra persone di bassa preparazione e di basso livello. Fare un confronto tra due soggetti estremamente lucidi, estremamente sagaci, sarebbe stata, mi creda, veramente perdita di tempo. Noi abbiamo preferito prima sentire tutto quello che ci diceva Ceraolo, fra l’altro controllammo anche sui tabulati queste telefonate che effettivamente c’erano state. Dopodiché sentimmo subito quello che per l’ennesima volta ci dicevano Manganaro e Granata… la reazione fu che dopo tre giorni fu depositata una denuncia per calunnia nei confronti del dottore Ceraolo.

FAVA, Presidente della Commissione: Da parte di chi?

PROCURATORE CAVALLO: Da parte di Manganaro e Granata…

FAVA, Presidente della Commissione: Mangaro ci ha escluso di aver presentato denuncia.

PROCURATORE CAVALLO: Allora da parte di Granata.

Infine va riferito quando il dottor Antoci afferma – nella relazione informativa che ha consegnato a questa Commissione – su presunte “motivazioni” del Ceraolo ostili nei confronti del Manganaro:

ANTOCI: Dalle dichiarazioni di tanti poliziotti, Manganaro compreso, lo stesso nutriva grande preoccupazione per una “improbabile” promozione che (Ceraolo ndr) sperava di ottenere e che la richiesta di promozione per merito straordinario, inoltrata dal Questore di Messina per il dott. Manganaro e gli altri uomini di scorta, avrebbe potuto cagionargli (un danno ndr). Difatti, mi risulta, che lo stesso (Ceraolo) qualche giorno dopo l’attentato si recò dal Questore, invece che per chiedere come stavano i suoi colleghi, scampati ad un grave attentato, per esprimere invece preoccupazione per la sua “improbabile” promozione.

Ben diversa, sul punto, l’opinione e la ricostruzione dei fatti del Ceraolo:

AVV. CERAOLO: Il dottore Antoci evidentemente queste cose le apprende da Manganaro… Non c’entra nulla la proposta di promozione che venne effettuata per me dal questore Gugliotta con eventuali promozioni nei confronti del dottor Manganaro…

FAVA, Presidente della Commissione: Ci spieghi questa velata preoccupazione per il fatto che se promuovono un funzionario di quel territorio non ne possono promuovere un altro.

AVV. CERAOLO: Ma non esiste una cosa del genere, non c’entra niente! C’è una norma che prevede determinati requisiti e la commissione può promuovere entrambi, può promuovere anche 10 funzionari!

FAVA, Presidente della Commissione: E questo suo incontro con il questore ci fu?

CARAOLO: Assolutamente no! Mai nelle conversazioni con il questore Cucchiara io ho parlato di me o lui ha parlato della mia promozione in relazione a quella del dottor Manganaro. Mai!

Sulla proposta di promozione nei confronti del Manganaro abbiamo chiesto all’interessato e ai due questori che si sono succeduti alla guida della questura di Messina di aiutarci a comprendere quale sia stato l’iter.

Non sempre in linea tra loro le risposte che abbiamo raccolto.

presente che il questore mi chiamò… io non l’ho mai chiesta la promozione per merito straordinario… mi chiamò il Questore (Cucchiara)… persona molto vicina a tutta questa vicenda… mi disse che c’era in itinere la promozione di Ceraolo e quindi, per garantire la posizione di Ceraolo, la mia l’avrebbe trasmessa dopo, dice “tanto a lei non cambia nulla nel percorso professionale”, ho detto “guardi signore questore, per me la promozione la fate, non la fate, nella vita poco mi cambia”… (…)

CUCCHIARA: Sì, ci fu una proposta di promozione per merito straordinario… Da parte mia… per lui e per i componenti della scorta, perché nell’immediatezza dei fatti, ricordo di aver sentito forse personalmente il Capo della Polizia o il Capo della segreteria del Dipartimento dicendo “guarda… è successo questo episodio, ci sono gli estremi per una proposta di promozione” e mi è stato dato il via libera…

FAVA: Proposta che però non è stata ancora raccolta.

CUCCHIARA: Ne ho perso le tracce, sinceramente, Presidente… (…)

FINOCCHIARO: La proposta di promozione nel periodo che sono stato io questore è rimasta in sospeso, perché si era in attesa della definizione del procedimento (l’indagine sull’attentato, ndr), che poi è stato definito con l’archiviazione. Poi, dal ministero mi chiesero altri documenti, mi chiesero il provvedimento di archiviazione… Poi nel momento in cui sono andato via da Messina la proposta non era stata ancora esitata. Per quanto io sappia non era stata né esitata positivamente né negativamente (…) Siccome nel procedimento sono confluite tutte queste voci, non so se anche la relazione di Ceraolo… probabilmente l’Amministrazione avrà ritenuto di volere attendere.

Insubordinazione o verità? La Repubblica l'1 gennaio 2019. Le testimonianze degli ex questori di Messina auditi dalla Commissione, dottor Giuseppe Cucchiara  (alla guida della questura messinese dal gennaio 2014 al giugno 2017) e dottor Mario Finocchiaro (dal giugno 2017 al marzo 2019), hanno avuto il comune denominatore – come vedremo - di sostenere la loro estraneità, in qualità di questori, ai fatti di polizia giudiziaria e ai rapporti funzionali tra gli ufficiali di p.g. alle loro dipendenze e l’Autorità Giudiziaria, affermando altresì che essi non sono mai entrati nel dettaglio e nei particolari delle indagini sin dal momento in cui sono verificati i fatti (tale aspetto riguarda in particolar modo il dottor Cucchiara):

QUESTORE CUCCHIARA: Quello che investigativamente è accaduto è che non si è trovato un bandolo della matassa dell’attentato. Però, io intendo ripetere e sottolineare: le indagini sono fatte dalla polizia giudiziaria e sono state spese tutte le energie possibili… Il ruolo del questore è quello di fornire strumenti alla sua polizia giudiziaria affinché queste indagini vengano svolte in maniera libera, senza condizionamenti e con i mezzi a disposizione (…) Ci sono delle anomalie? Sì, anomalie ce ne sono, però, ecco…  io continuo ancora adesso a ritenere che sia assolutamente inutile ripeterle o evidenziarle perché non voglio essere sgradevole nei confronti di nessuno. Sul punto io credo di non avere altro da aggiungere. (…)

QUESTORE FINOCCHIARO: Io non sono entrato mai in questi particolari, perché erano indagini che erano partite prima del mio arrivo, erano a buon punto… non mi sono soffermato su questi particolari perché sapevo che c’erano indagini da parte dell’Autorità Giudiziaria.

In altre parole, le incongruenze e le anomalie relative alla modalità dell’attentato e ai comportamenti degli operatori emersi nel corso delle audizioni e puntualmente rappresentate ai questori hanno avuto, per tutta risposta, l’affermazione che essi non sono mai entrati nel dettaglio di tali questioni con il dottor Manganaro né con il dirigente della squadra mobile dottor Anzalone (che aveva curato la prima fase delle indagini), ritenendo che ciò esulasse dai propri doveri e dalle proprie facoltà. È altresì assolutamente anomalo che nessuno dei due questori abbia ritenuto, seppur in fasi diverse, di far chiarezza tra le versioni del tutto contrastanti relative alle dinamiche dell’episodio criminale fornite dai due ufficiali di polizia giudiziaria (e trasfuse in atti indirizzati all’Autorità Giudiziaria) convocando il dottor Manganaro ed il dottor Ceraolo dinanzi a sé per dirimere tali contrasti.

QUESTORE CUCCHIARA:  Ho parlato più volte col dottore Manganaro, ho parlato col dottore Antoci – è noto il nostro rapporto precedente anche all’attentato – ma mi sono state sempre date delle risposte molto convinte, molto convincenti, molto organiche…(…)

QUESTORE FINOCCHIARO: Io ne ero a conoscenza (del contrasto fra Ceraolo e Manganaro, ndr) perché l’ho appreso, come dire… informalmente, dal mio predecessore. (…) Io di questa cosa non ho visto nessuna carta… non ho mai preso cognizione di nessun documento… (…) Col dottore Ceraolo non ne ho mai parlato… in questura si sapeva che Manganaro era abbastanza contrariato da questa relazione di Ceraolo, ma io non ne ho parlato né con l’uno né con l’altro.

Specifiche considerazioni vanno fatte anche in seno all’audizione del dottor Manganaro. A fronte del presunto clima di allarmismo sulle cosiddette “vedette di gruppi mafiosi”, Manganaro, così come abbiamo già avuto modo di riferire in precedenza, non ha ritenuto di avvisare gli uomini della scorta del dottor Antoci per “non suggestionarli” e condizionarne l’operatività, salvo poi farsi scrupolo in un secondo momento (a conclusione della seconda riunione presso il Comune di Cesarò) e darsi all’inseguimento dell’autovettura blindata di Antoci nel timore che qualcosa potesse avvenire (e allertando il proprio autista, l’assistente Granata, solo in quella circostanza). Il dottor Manganaro, poi, contrariamente a quanto affermato dal questore Cucchiara (secondo il quale – come riferito in Commissione - i compiti del questore consisterebbero in tema di attività investigativa esclusivamente nell’assicurare risorse umane e materiali agli operatori della polizia giudiziaria senza ingerirsi nelle loro attività neanche in termini di mera conoscenza) asseriva di avere sempre edotto nei dettagli delle investigazioni che svolgeva il proprio questore in qualità di funzionario dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello:

QUESTORE PAPPALARDO, Consulente Commissione Antimafia: Lei con il dottor Cucchiara, questore pro tempore… lo resocontava dell’evoluzioni investigative?

MANGANARO: Sempre…

QUESTORE PAPPALARDO, Consulente Commissione Antimafia: Di tutte le attività?

MANGANARO: Sì, sì. Come faccio ora e come ho fatto sempre.

QUESTORE PAPPALARDO, Consulente Commissione Antimafia: E se si arrivava all’individuazione, per esempio, di qualche responsabile lei glielo diceva?

MANGANARO: Immediatamente!

QUESTORE PAPPALARDO, Consulente Commissione Antimafia: Prima ancora di informare i magistrati?

MANGANARO: Contestualmente!

Infine, nel corso dell’audizione di Manganaro è emerso che, a seguito della relazione depositata dal dottor Ceraolo (nell’aprile 2017), il questore Cucchiara gli avrebbe annunciato la sua intenzione di intraprendere azioni disciplinari nei confronti del dottor Ceraolo “per insubordinazione”. Di tanto il dottor Cucchiara nel corso della sua audizione non ha fatto cenno, limitandosi a riferire alla Commissione (così come riportato nelle pagine precedenti) che lui aveva “solamente” estromesso il dottor Ceraolo, per incompatibilità, dai servizi di ordine pubblico disposti in occasione del G7.

DOTTOR DI MARCO, Consulente Commissione Antimafia: Ha mai parlato col il questore Cucchiara delle dichiarazioni di Ceraolo rese ai pubblici ministeri?

MANGANARO: Sì, una volta che venni informato e trasmisi la denuncia di Granata, andai dal questore e lo informai.

DOTTOR DI MARCO, Consulente Commissione Antimafia: Cosa le disse il questore?

MANGANARO: Che avrebbe preso provvedimenti…

DOTTOR DI MARCO, Consulente Commissione Antimafia: Nei confronti di chi?

MANGANARO: Di Ceraolo.

FAVA, Presidente della Commissione: Ma le disse anche perché avrebbe dovuto prendere provvedimenti?

MANGANARO: C’è stata insubordinazione… io se vado a scrivere contro un collega ho obbligo di riferire al questore… ha fatto delle affermazioni, come dice Granata in denuncia, calunniose, diffamanti e false nei confronti miei… io ho trasmesso la denuncia all’Autorità Giudiziaria e per conoscenza al mio questore… Il questore mi ha detto “se il Ceralo ha posto in essere insubordinazione non notiziando il questore prenderò provvedimenti”. Dopodiché non ho più saputo nulla né di quello che ha fatto Ceraolo né di quello che è successo.

I testi e la "Scientifica”, agguati diversi. La Repubblica il 2 gennaio 2020. Alla luce di quanto finora rilevato ed esposto, sono necessarie ulteriori considerazioni in ordine ai due provvedimenti adottati dall’Autorità Giudiziaria di Messina: la richiesta di archiviazione presentata dai pubblici ministeri della locale D.D.A ed il relativo decreto di archiviazione emesso dal gip del Tribunale peloritano.

La richiesta di archiviazione per un verso dà conto, correttamente, dell’insufficienza e dell’inadeguatezza degli elementi acquisiti; per altro verso, invece, sembra trascurare e ritenere irrilevanti le contraddizioni, le inesattezze e le diverse versioni emerse nel corso delle indagini (ancorché in sede di assunzione di sommarie informazioni testimoniali queste siano state rilevate e puntualmente contestate dagli stessi inquirenti ad alcune delle persone informate sui fatti). Tali criticità impongono seri interrogativi in ordine alla esatta ricostruzione della dinamica dell’attentato. Interrogativi che, vale la pena precisare, sono rimasti in ombra. Dalle dichiarazioni dei quattro operatori e, in particolare, da quelle dell’assistente capo Tiziano Granata sembrerebbe doversi dedurre che gli sparatori erano due e che questi si trovavano al momento degli spari oltre il ciglio della strada con i piedi sotto il piano stradale, tant’è che il Granata assume di aver visto solo il busto e non le gambe degli aggressori che, a suo dire, avrebbero indossato delle tute mimetiche:

P.M. CAVALLO: Ma com’erano? Vestiti, incappucciati, com’erano vestiti? Cioè, li vedete?

ASS. GRANATA: Io ho avuto l’impressione che avessero una mimetica.

P.M. CAVALLO: Ma in faccia non li ha visti?

ASS. GRANATA: No, era buio, soltanto, ripeto, la parte soffusa delle luci…

P.M. CAVALLO: Ma quindi lei vede soltanto il torso? Le gambe? La figura intera?

ASS. GRANATA: No, io vedo la parte del busto.

P.M. CAVALLO: Il busto.

ASS. GRANATA: Il busto e la mimetica.

P.M. DI GIORGIO: E perché la parte restante non la vede?

ASS. GRANATA: Eh, non lo so. O perché era basso o perché vedo qualcosa di scuro, questo non glielo… Sicuramente perché era basso rispetto… perché lì è una scarpata che scende giù.

Inoltre, ancora, il Granata ha sostenuto di aver visto le sagome, di aver sentito contemporaneamente i colpi ma di non aver visto le vampate, e di aver bloccato la jeep a 20-30 metri dall’autovettura blindata di Antoci (pag. 14 s.i.t. Granata). Ma c’è di più. Nell’annotazione di servizio, redatta nell’immediatezza dell’agguato, riferisce che uno dei due imbracciava un fucile; un anno dopo, in sede di dichiarazioni rese il 3 maggio 2017, afferma che si trattava di una sua deduzione e di non aver potuto vedere la canna del fucile tenuto conto del buio pesto:

P.M. DI GIORGIO: Senta, lei, nella relazione di servizio che abbiamo agli atti, ha scritto, parlando di questi due soggetti che indossavano la giacca mimetica, he uno dei due aveva un fucile in mano, lo conferma questo dato?

ASS. GRANATA: Sì perché la posizione era… erano messi in questa posizione e quindi…

P.M. DI GIORGIO: ma quindi lei ha visto proprio il fucile? Cioè, ha visto il fucile oppure questa è una cosa che ha dedotto dalla posizione delle mani?

ASS. GRANATA: Era buio… quindi il fucile sicuramente non è bianco o fosforescente quindi è, alla fine, si può dire una deduzione mia, perché questa scena…

P.M. MONACO: Non ho capito la sua risposta, scusi.

ASS. GRANATA: Come?

P.M. MONACO: Non ho capito la sua risposta, che significa?

ASS. GRANATA: Nel senso che non ho la certezza nel senso che ho visto in maniera delineata il fucile, perché è stato un flash di un attimo, però dalla posizione dal fatto delle mani e dai colpi che ho sentito mi immagino che quello lì era… che in mano avessero un fucile.

P.M. DI GIORGIO: Quindi è riuscito a vedere la posizione delle mani di questi soggetti? Di uno dei due voglio dire. Quantomeno di uno dei due.

ASS. GRANATA: La posizione, nel senso che per come loro erano posizionati in quel momento con mimetica e altre cosa davano quell’impressione che fossero in posizione di puntamento.

P.M. DI GIORGIO: Cioè utilizzavano tutte e due le mani sostanzialmente.

ASS. GRANATA: Questo non… non ho una visione dei particolari, le due mani… ho questa scena di questa figura in quella posizione e poi, contemporaneamente, ho sentito dei colpi.

P.M. DI GIORGIO: Quindi, allora, insomma, rispetto a quello che ha scritto, diciamo, il fucile in mano è una sua deduzione, cioè, non è che lei ha visto il fucile mi pare di capire.

ASS. GRANATA: Sì, diciamo che è una…

P.M. MONACO: Né ha visto i lampi.

ASS. GRANATA: Eh?

P.M. MONACO: Né ha visto il lampo dell’esplosione dei colpi. Li ha visti, diciamo, i lampi?

ASS. GRANATA: No.

Dello stesso tenore le dichiarazioni del dottor Manganaro rilasciate all’Autorità Giudiziaria in data 11 maggio 2017:

PM: Lei ha visto i lampi del fucile?

MANGANARO: No

PM: No?

MANGANARO: No.

PM: Quindi lei è sicuro di aver visto queste due-tre persone illuminate dai fari della macchina?

MANGANARO: Sì, sì, sì, sì.

PM: Mentre non…

MANGANARO: Gli altri (…) i botti li ho sentiti, dottore, perché sono forti.

PM: …sente i botti… i botti… ma non vede i lampi della…

MANGANARO: no…

Tale ricostruzione non è conforme ai risultati formulati dalla Polizia Scientifica di Roma. Invero, secondo questa ricostruzione (pervenuta a conoscenza dei pubblici ministeri in data 14 febbraio 2018) risulta che:

la traiettoria dei colpi è specificata dall’alto verso il basso e non già dal basso verso l’alto come si dovrebbe arguire dalle dichiarazioni del Granata (di cui sopra);

sempre secondo la relazione della Polizia Scientifica di Roma, lo sparatore doveva trovarsi lungo il ciglio della strada lato Palermo (quindi non sotto il ciglio!) o in una posizione intermedia all’altezza della semicarreggiata (v. fig. 28 della relazione). Ogni altra ipotesi in ordine alla posizione dello sparatore viene esclusa categoricamente;

ancora, nella relazione si ipotizza che lo sparatore fosse soltanto uno, contrariamente alla ricostruzione fornita dal Granata e dal Manganaro.

In quanti spararono? Non si sa nulla. La Repubblica il 3 gennaio 2020. Ma andiamo ad altre considerazioni che forse rappresentano la premessa per capire l’esatta dinamica dei fatti. Lo sbarramento di una strada statale, per quanto di notte, al fine di tendere un agguato all’autovettura blindata sulla quale viaggiava l’Antoci di ritorno da Cesarò, sembrerebbe difficilmente praticabile in quanto avrebbe presupposto che non transitassero su quel tratto di strada altre autovetture, un elemento che lo stesso dottor Manganaro ammette indirettamente in sede di audizione:

DOTTOR DI MARCO, Consulente Commissione Antimafia: Tenuto conto che la strada era ostruita dai massi, lei può escludere, trattandosi di strada statale, che occasionalmente quella stessa strada venisse percorsa da altre autovetture prima di quella blindata?

MANGANARO: io non lo posso escludere…

Senza considerare che, consistendo lo sbarramento nella collocazione di massi lungo tutta la linea orizzontale della carreggiata, doveva essere predisposto con congruo anticipo rispetto al sopraggiungere dell’obiettivo. Il che rendeva ancor più complicato bloccare per un tempo prolungato e indefinito un’arteria stradale.  A meno che non si fosse istituito un posto di blocco in entrambe le direzioni per essere certi che altri veicoli non transitassero nello stesso momento. Ma di tale circostanza vi è la prova contraria tenuto conto che il Manganaro percorrendo la stessa strada raggiunse l’auto blindata senza trovare ostacoli. Non risulta che siano stati misurati – almeno negli atti in possesso di questa Commissione - in volume i massi utilizzati per l’ostruzione in modo da verificare che costituissero effettivamente un ostacolo invalicabile da parte dell’auto blindata. Nel corso delle audizioni, peraltro, così come si è già avuto modo di porre in evidenza, non sono emerse indicazioni univoche sulle effettive dimensioni dei massi: sassi di piccole dimensioni per alcuni; grandi e pesanti per altri. La circostanza inconfutabile del “buio pesto”, come ricostruita dai testimoni dinnanzi alla Procura, rendeva inoltre assai complicato individuare l’autovettura blindata bersaglio degli attentatori: come potevano essere certi che l’auto sopraggiunta fosse proprio quella dell’Antoci? Sempre, in presenza di “buio pesto”, sarebbe stato opportuno spiegare con maggior incisività la circostanza relativa alla direzione dei tre colpi esplosi, in rapida successione, dagli attentatori con estrema precisione in una rosa circoscritta (i tre fori di entrata sono l’uno accanto all’altro). In disparte, la considerazione che nessuna valutazione viene compiuta in ordine al fatto che la Polizia Scientifica non abbia potuto disporre delle armi degli operatori coinvolti nell’agguato e al mancato rinvenimento dei bossoli del fucile:

Di difficile spiegazione è la prima circostanza che avrebbe consentito di verificare con assoluta certezza la compatibilità fra il numero di colpi esplosi e le armi utilizzate. Fortemente sospetta la seconda circostanza (se è verosimile, come ipotizza la Polizia Scientifica, che sia stata utilizzata un’arma semi-automatica) giacché se ne dovrebbe ricavare che è stato lo stesso sparatore a raccogliere i bossoli, circostanza difficilmente compatibile con le condizioni di “buio pesto”, al netto del poco plausibile ricorso ad un raccoglitore artigianale.

Su questo punto, riferiamo l’opinione del dottor Ceraolo:

AVV. CERAOLO: io mi attengo alla Polizia Scientifica che… fa riferimento in subordine ad un raccoglitore di bossoli che si può montare su un fucile, ma non si è verificato nella mia lunga esperienza di un attacco mafioso fatto con un raccoglitore di bossoli, che è una cosa piuttosto voluminosa che poi non gli avrebbe consentito di avere una fuga agevole. (…) Quando opera la mafia non bada alle armi, non ha problemi di garantirsi l’immunità nascondendo le armi, anzi le butta perché sono armi clandestine con la matricola brasa, perché durante la fuga possono avere un controllo, evitano di portarsi dietro l’arma, l’arma viene subito eliminata. Chi ha tolto i bossoli ha interesse se quella è un’arma regolarmente detenuta registrata e quindi non potevano lasciare i bossoli perché come sapete nel fucile il bossolo è l’unico elemento che consente di individuare il fucile. Nella pistola anche il proiettile perché la canna è rigata, ma nel fucile che è a canna liscia e non lascia segni sul proiettile è solo il bossolo che lascia un segno identificativo.

Insomma, entrambe le suddette circostanze avrebbero meritato maggior considerazione. Infine, la polizia scientifica di Roma, quanto alla via di fuga dello sparatore o degli sparatori, ha precisato che “l’attraversamento della boscaglia lato Palermo… contempla uno svolgimento dell’azione di fuga in condizioni di luce molto scarse che non avrebbero reso affatto agevole il percorso senza l’utilizzo di idonei dispositivi di illuminazione”. Veniamo, a questo punto, al decreto di archiviazione. Ferme restando le valutazioni già espresse nei precedenti paragrafi in relazione al “movente” e alla “metodologia dell’agguato” (alle quali si rinvia), è utile qui soffermarsi su taluni aspetti emersi dalla lettura degli atti, dall’esame della documentazione di cui la Commissione ha disposto e dal contributo offerto dai soggetti auditi. Primo quesito di assoluta rilevanza: per quale ragione il gip non ha ritenuto di soffermarsi sulla relazione della Polizia Scientifica di Roma (limitandosi semplicemente a un richiamo generico alle motivazioni della Procura che “appaiono pienamente condivisibili e devono intendersi in questa sede integralmente richiamate”)? Il quesito non può avere risposte in questa sede. Tuttavia, è indubbio che tale scelta dispieghi effetti sull’intera ricostruzione del fatto. Nel decreto di archiviazione infatti si dà atto che l’auto di Antoci: “…viene raggiunta – sulla fiancata sinistra, lato posteriore – da diversi colpi d’arma da fuoco, sparati da almeno due soggetti travisati”.

Dunque, stando alle conclusioni del gip:

il numero degli spari non viene quantificato (“diversi colpi d’arma da fuoco”);

al contrario, vengono quantificati – nonostante la relazione della Polizia Scientifica parli di un solo soggetto sparatore – il numero degli aggressori in “almeno due” (ciò avviene anche nella richiesta di archiviazione);

viene adoperata l’espressione “travisati” ma nessuno dei testimoni ha parlato di volti coperti.

Sempre nel citato provvedimento del gip si aggiunge che: “Si trattava, a ben vedere, di un vero e proprio agguato, meticolosamente pianificato (non certamente casuale si poteva considerare l’orario notturno ed il luogo prescelto, una strada completamente deserta, in una sperduta località di montagna…)”.

A prescindere (per le ragioni finora esposte) da qualsivoglia considerazione sul “meticolosamente pianificato”, sorprende che il gip abbia fatto riferimento ad una “strada completamente deserta in una sperduta località di montagna” atteso che si tratta di strada statale e che il luogo dell’attentato è attiguo dal rifugio Casello Muto, presidiato da vigilanza armata (ove poi Manganaro, Santostefano e Antoci trovarono ricovero successivamente all’agguato). Nessun approfondimento di indagine, inoltre, si è ritenuto opportuno sui tempi necessari per ostruire entrambe le carreggiate, sulle modalità di identificazione dell’autoveicolo di Antoci nonché sulle eventuali precauzioni adottate dagli attentatori al fine di scongiurare – così come effettivamente accaduto – il sopraggiungere di ulteriori autovetture. Infine sorprende e non poco il fatto che il decreto non si occupi assolutamente del contrasto tra le dichiarazioni dell’allora vice questore aggiunto Ceraolo, da una parte, e quelle del dottor Manganaro e dell’assistente capo Granata, dall’altra, dal momento in cui il primo, addirittura, mette in dubbio l’autenticità dell’attentato: contrasto, si noti, che si verifica gravissimamente fra due ufficiali di polizia giudiziaria e non tra persone private informate sui fatti.

La morte dei poliziotti testimoni. La Repubblica il 4 gennaio 2020. La vicenda dell’attentato all’ex presidente del Parco dei Nebrodi è legata, in termini temporali, a quella di due dei più fidati collaboratori del dottor Manganaro: il sovrintendente Calogero Emilio Todaro e l’assistente capo Tiziano Granata. Muoiono a distanza di un giorno l’uno dall’altro. Granata, il 1° marzo 2018 per arresto cardiocircolatorio. Todaro, l’indomani, a seguito di una leucemia fulminante. Entrambi i poliziotti sono stati coinvolti, seppur con ruoli differenti, negli accadimenti del 18 maggio 2016. Granata, è noto, era l’autista di Manganaro la notte dell’agguato ad Antoci. Todaro fu tra i primi ad intervenire sul luogo del crimine, in qualità di responsabile della sezione di polizia giudiziaria del commissariato di Sant’Agata di Militello, circostanza, quest’ultima, che ci è stata riferita da Manganaro, suo diretto superiore, e dal collega del servizio scorte, l’assistente capo Sebastiano Proto, nel corso delle loro audizioni:

FAVA, Presidente della Commissione: La prima telefonata che ha fatto?

MANGANARO: Al commissariato. Poi sicuramente…  il questore, Todaro, Terrana, la volante diverse volte, la pg…

FAVA, Presidente della Commissione: Todaro perché?

MANGANARO: È il responsabile della mia polizia giudiziaria…

FAVA, Presidente della Commissione: Chiama lei Todaro o lo chiama la sala operativa?

MANGANARO: Presidente non mi ricordo, forse l’ho chiamato io, non ci penso. […]

DE LUCA, componente della Commissione: Todaro era di servizio quella notte?

PROTO: No, è arrivato anche allertato dalla sala operativa, dagli altri colleghi, non so personalmente da chi…

Todaro, proprio per il suo ruolo di responsabile della sezione p.g., è anche l’operatore che avrebbe seguito le indagini sull’agguato, in co-delega con la squadra mobile di Messina, per conto del commissariato di Sant’Agata di Militello:

MANGANARO: Avevamo soltanto una remotizzazione congiunta… perché a Messina non capivano il dialetto di Cesarò e San Fratello… da parte della mia squadra di polizia giudiziaria era Todaro che coordinava tutte queste attività interne al mio ufficio…

Todaro, inoltre, sarà impegnato – così come si evince dal fascicolo dei rilievi tecnici del 25 maggio 2016 a firma della polizia scientifica del Commissariato di Sant’Agata di Militello – nell’attività di accertamento riguardante l’autovettura blindata in uso al Presidente Antoci la notte dell’agguato. La stampa è la prima ad avanzare dubbi sulla tragica coincidenza delle due morti, definendole strane e sospette, e ad accostare i loro nomi – non solo per ragioni di mera consecutio temporale – all’azione di contrasto inaugurata dal presidente Antoci e quindi alla vicenda del fallito attentato. Anche il dottor Manganaro e la compagna di Granata, Lorena Ricciardello, nutrono perplessità sul fatto che si tratti di due decessi per cause naturali. La dottoressa Ricciardello ha descritto alla Commissione quale fosse lo stato d’animo del Granata sia nei mesi successivi all’agguato che nei giorni immediatamente precedenti alla sua morte.

RICCIARDELLO: Io ho fatto diverse dichiarazioni, diversi dubbi ho esposto pubblicamente, perché comunque volevo la verità sulla morte di Tiziano. (…) Io so che Tiziano, non subito dopo l’attentato, ma qualche tempo dopo, ha incominciato ad essere nervoso (…) Io, ripeto, io sono la compagna, Tiziano aveva sempre una protezione nei miei confronti, lui diceva sempre che mi doveva tutelare… tanto è vero che lui anche al campanello di casa aveva tolto pure il suo nome. (…) Poi a lui lo turbò molto la questione del fatto che Mario Ceraolo, che si conoscevano da quando Tiziano era piccolo, avesse dato una versione diversa dell’attentato, mi diceva questo: “Mario Ceraolo ha dato una versione diversa dell’attentato” e questa cosa lo ha amareggiato e deluso…

FAVA, Presidente della Commissione: Quando lei dice che pensa che non sia morto per infarto, perché lo dice, da cosa lo desume e che cosa immagina?

RICCIARDELLO: Perché Tiziano era sempre preoccupato e poi comunque durante la sua attività lavorativa, ancora prima dell’attentato, Tiziano… io cioè parlo per quello che lui mi riferisce… lui mi faceva i nomi di alcune persone che ce l’avevano con lui, che gli ostacolavano la carriera, solo perché lui faceva semplicemente il suo dovere, e Tiziano il suo dovere lo faceva. (…)

FAVA, Presidente della Commissione: Tiziano, al di là diciamo di questa preoccupazione nei suoi confronti nell’esporla troppo, ebbe mai occasione di manifestarle qualche preoccupazione per se stesso?

RICCIARDELLO: Sì, lui diceva che comunque bisognava stare attenti e faceva anche attenzione a dove si muoveva, nel senso che si guardava sempre attorno. Già il fatto stesso che lui abbia tolto il nominativo del campanello, poi il fatto stesso che comunque… la preoccupazione maggiore era per me e per i suoi familiari. (...)

FAVA, Presidente della Commissione: Lei ci diceva che non crede che il suo compagno sia morto per infarto. Dal punto di vista diciamo fisico, questo infarto aveva avuto qualche segnale, qualche indizio, affaticamento, stanchezza?

RICCIARDELLO: Per quanto riguarda questo infarto, che non è un infarto… ma un arresto cardiocircolatorio… l’arresto cardiocircolatorio, è vero ti può anche uccidere. Ma c’è un vuoto nella giornata del 28, in cui non si hanno notizie di Tiziano, del suo telefono. Se hai un arresto cardiocircolatorio, non è che rimani 24 ore comatoso nel letto. Ti puoi comunque muovere, riesci a prendere il telefono, fino a quando c’è l’exitus… Io ho sempre pensato, allora lo dissi anche al PM Bonanzinga, che sospettavo anche di un avvelenamento. Perché nel periodo in cui ero scesa in precedenza, quando festeggiamo il suo compleanno che fece quarant’anni, Tiziano senza mangiare così doveva evacuare velocemente, andare in bagno…

FAVA, Presidente della Commissione: Quanto tempo prima questo?

RICCIARDELLO: Lui ha fatto il compleanno il 14 di febbraio. (…) Poi un’altra cosa… l’allarme che c’era qualcosa che non andava l’ho lanciato io da Genova, chiamando suo fratello, perché comunque non sentendoci più all’improvviso, per me c’era qualcosa che non andava. La sera (del decesso ndr) Tiziano mi ha risposto al telefono, per tutta la giornata il suo telefono era chiuso o mi rispondeva la segreteria… quindi non so dire se era chiuso o meno perché comunque sono sempre le linee telefoniche, però la telefonata mi è partita più volte la sera, intorno alle 20.00, 20.28, ed ero io che staccavo la chiamata, perché non sentivo parlare dall’altro lato… Io telefonavo a Tiziano e nel mio telefono risultava che avevano risposto dall’altro lato, i minuti scorrevano e non c’era nessuna voce. Allora io riattaccai e rifeci questa situazione per altre quattro volte, e per quattro volte mi è stato risposto. Non ho sentito niente dall’altro lato… ero io che poi staccavo, cioè io sono stata anche 25, 30 secondi.

FAVA, Presidente della Commissione: Chiedendo, parlando?

RICCIARDELLO: Chiedendo: “Tiziano, pronto, ci sei?”.

FAVA, Presidente della Commissione: E nessuno rispondeva.

RICCIARDELLO: Ecco. E di questo io sono convinta che lui mi abbia risposto, però non risulta in nessun posto che sono state fatte delle indagini per quanto riguarda le celle telefoniche.

FAVA, Presidente della Commissione: Cioè, qualcuno le rispose, o Tiziano o qualcuno le rispose, però, nessuno parlava al telefono.

RICCIARDELLO: Mi hanno risposto dal telefono di Tiziano, io ero convinta che fosse lui perché chiedevo: “Tiziano, Tiziano, ci sei, ci sei?”…

FAVA, Presidente della Commissione: A quando risalirebbe la morte del suo compagno?

RICCIARDELLO: Secondo le analisi, risulterebbe che è morto nella notte tra il 28 febbraio e l’1 marzo, dopo la mezzanotte, presumibilmente…

FAVA, Presidente della Commissione: E le telefonate di cui parla lei sono il 28 febbraio.

RICCIARDELLO: Sono del 28 sera dalle ore 20.00.

Non meno partecipato il ricordo del dottor Manganaro il quale ha chiarito anche la ragione del suo trasferimento, dal commissariato di Sant’Agata di Militello a quello di Tarquinia. Che andrebbe rintracciata – secondo quanto ha riferito in Commissione - proprio nella morte dei suoi due collaboratori:

FAVA, Presidente della Commissione: Il suo trasferimento?

MANGANARO: L’ho chiesto io, presidente, dopo che sono morti i ragazzi … quei due ragazzi sono quelli che hanno un rapporto con me che va ben oltre la colleganza o il rapporto di superiore gerarchico… erano il responsabile e il vice-responsabile della polizia giudiziaria… sono i due colleghi che hanno firmato tutti gli atti…

FAVA, Presidente della Commissione: Lei crede che non siano morti accidentali?

MANGANARO: Presidente, io mi attengo a quelle che sono le evidenze chiamiamole giudiziali, perché sono state fatte delle perizie medico-legali sia dal consulente di parte che del perito nominato dai tribunali, quindi per loro sono delle morti naturali da tutti i punti di vista…

FAVA, Presidente della Commissione: Le chiedo se lei dubita.

MANGANARO: Presidente, mi perdoni ma non sono autorizzato ad esprimermi in questa direzione. (…)

FAVA, Presidente della Commissione: Ma la ragione del trasferimento, ci spieghi il collegamento…

MANGANARO: Sì, perché poi non ero più lucido nella gestione dell’ufficio, quindi sono andato dal questore. Perché poi cosa successe… venne fatta un’assemblea sindacale al mio ufficio, durante l’assemblea sindacale… emerge che c’erano voci in giro che ci poteva essere un terzo morto entro l’estate… e quindi i ragazzi mi chiamano dopo questa riunione sindacale… «Dottore, c’è molta tensione. Il terzo morto pensano tutti che sia lei» … Io faccio una relazione dettagliata al questore. Ho detto: «… se è vero che deve arrivare un terzo morto perché ci sono intercettazioni in corso, fate quello che volete, ma avvisatemi perché un terzo morto non lo reggerei e se sono io non voglio che la mia famiglia perda una persona. Se, invece, è una calunnia siamo sempre al solito gioco. Qui gli atti da parte di organi investigativi escono e vanno alla stampa o vanno nei bar. Io ‘sta cosa non la posso condividere». Al questore ho detto: «veda che io non sono lucido, valuti la mia posizione». Il questore a distanza di 48 ore mi chiama: «ti metto a rapporto a Roma e vediamo dove ti puoi spostare per raggiungere la tua serenità».

Di tale clima di tensione che si respirava all’interno del commissariato di Sant’Agata di Militello nonché delle ragioni di sicurezza che il dottor Manganaro pone a fondamento della propria richiesta di trasferimento non ne conserva però ricordo l’allora questore Finocchiaro:

FINOCCHIARO: No, non c’erano ragioni di sicurezza. C’erano ragioni legate al fatto che, insomma, ormai era un bel po’ di tempo che stava a Sant’Agata. Certo, anche questa situazione di continue voci, anonimi… credo che anche lo stesso Mangano si sia reso conto che forse era il caso di spostarsi e andare via da Sant’Agata. Col Ministero, col Dipartimento c’è stata un’interlocuzione per cui poi hanno concordato in qualche modo questo trasferimento al commissariato di Tarquina.

Anche Tiziano Granata, ci riferisce Manganaro, avrebbe manifestato timori per la propria incolumità. Ecco quanto riportato dinanzi a questa Commissione dall’attuale dirigente del commissariato di Tarquina:

DE LUCA, componente della Commissione: Granata le ha mai confidato paure o timori nei confronti del Ceraolo?

MANGANARO: Sì, lui sosteneva che dopo quella formalizzazione che aveva fatto in distrettuale… il Ceraolo cercava di girargli intorno, girargli sotto casa… però di altro non ricordo.

DE LUCA, componente della Commissione: Che vuol dire gli girava intorno?

MANGANARO: Aveva timore, Tiziano aveva timore di questa persona… Timori di ritorsioni… aveva proprio paura che gli potesse fare qualcosa di fisico…

DE LUCA, componente della Commissione: Questo gliel’ha confidato?

MANGANARO: Sì, me l’ha confidato…

Sul punto, ecco come replica il diretto interessato, l’ex vice questore Ceraolo:

AVV. CERAOLO: Questo lo dice il dottor Manganaro? …Tiziano Granata non avrebbe mai detto una cosa del genere. Primo: non so esattamente dove abita Tiziano Granata, so il quartiere, la zona ma non so neanche la casa… Secondo: gli incontri con Tiziano Granata avvenivano occasionalmente nella frazione Gliaca di Piraino, di dove siamo originari entrambi, nei pressi del bar o nei pressi della chiesa… Questa (di Manganaro) è un’attribuzione anche piuttosto grave… A me invece risulta che Tiziano Granata fosse molto condizionato dalla presenza del dottore Manganaro…

FAVA, Presidente della Commissione: Questa è una sua sensazione.

AVV. CERAOLO: E’ una mia sensazione che nasce da tanti anni di esperienza… capisco quando la persona davanti a me potrebbe dire di più però è nervosa, fuma, butta la sigaretta intera…

FAVA, Presidente della Commissione: Questo solo in occasione del vostro primo incontro o ci sono stati altri incontri in cui avete parlato dell’attentato?

AVV. CERAOLO: In tutti gli incontri… L’ultimo incontro che io ho con Tiziano Granata è quello del 9 aprile 2017, pochi giorni prima che io venissi sentito dalla D.D.A…. quando io andavo in chiesa e lui mi fermò, erano le 18.30… per dirmi che stavano preparando le querele per gli articoli che erano usciti sull’Espresso e Centonove… e lì mi raccontò altre cose…

FAVA, Presidente della Commissione: Altre cose che confermavano la versione ufficiale?

AVV. CERAOLO: Che andavano in direzione opposta alla versione ufficiale…. Ad esempio, mi ricordo un fatto inedito che mi disse, quello del colpo in aria, che mi sembrò strano. Ho detto: “scusa ma gli attentatori che erano lì”, ce n’erano almeno tre, visto che c’erano tre marche di sigarette e cinque cicche… quindi almeno gli attentatori erano tre; il mafioso o qualunque criminale intenda fare un atto così grave non va disarmato, quindi erano tutti e tre armati, poi ha sparato soltanto uno anche questo è un fatto piuttosto strano. Ma tre persone armate, che oltretutto si vedono sparare addosso, come mai non hanno reagito? E anche qui lui disse questa frase: “mi ha detto Daniele che hanno sparato un colpo in aria”, ho detto: “te l’ha detto Daniele? Perché tu non eri là, non l’hai sentito ‘sto colpo in aria?”.

DE LUCA, componente della Commissione: Pensa che (Granata, ndr) avesse motivo di avere paura?

AVV. CERAOLO: No, no, era imbarazzato nei miei confronti perché sapeva qual era la mia carriera, il mio impegno nella lotta alla mafia per tutte le attività e i risultati che avevo ottenuto e aveva imbarazzo a parlare di questa vicenda… Paura no, imbarazzo a parlare di certi argomenti. Io questo ho percepito. (…)

FAVA, Presidente della Commissione: Ma secondo lei, visto che c’era questa contraddittorietà nelle cose che diceva e forse anche il desiderio di dire qualcosa in più, come si giustifica il fatto che proprio un paio di settimane dopo arriva da parte del Granata una querela?

AVV. CERAOLO: La querela io ritengo che l’abbia fatta su input di Manganaro. Allora, io il 22 maggio 2017 sono andato nell’ufficio - forse il dottor Cavallo non ricorderà neppure questo, eventualmente glielo posso ricordare io - …sono andato nell’ufficio del dottor Di Giorgio… subito dopo è arrivato il dottore Cavallo… Lì ho detto: “Voi mi avete sentito il 12 aprile del 2017. Ho saputo che successivamente a me avete sentito Tiziano Granata e che Tiziano Granata ha subito un’aggressione verbale, dopo essere stato sentito da voi… Il dottore Manganaro si è recato a Gliaca di Piraino e lo ha aggredito verbalmente alla presenza di altre persone che ne hanno poi parlato con me, contestandogli che aveva parlato con me… dicendogli tu hai parlato con Ceraolo, hai riferito delle cose che adesso vanno a smentire quello che io ho scritto nella mia annotazione”. Tiziano Granata ha balbettato qualcosa per giustificarsi e Manganaro alla fine di questa conversazione ha detto: “Non ti preoccupare che noi adesso a Ceraolo gliela facciamo pagare in quanto ne parlerò con l’avvocato [omissis]”.

FAVA, Presidente della Commissione: E questo episodio da chi le viene riferito?

AVV. CERAOLO: Mi viene riferito da persone che hanno sentito la conversazione.

FAVA, Presidente della Commissione: I cui nomi e cognomi lei riferisce anche al PM?

AVV. CERAOLO: No, i nomi io non li ho riferiti…

FAVA, Presidente della Commissione: Mi scusi, se oggi i PM dicessero ci faccia conoscere i nomi di queste persone che sono state testimoni, lei sarebbe nelle condizioni di farli?

AVV. CERAOLO: Perché non me li hanno chiesti il 22 maggio del 2017? Se volevano approfondire, come avrebbero dovuto approfondire…

FAVA, Presidente della Commissione: Le chiedo di nuovo, se le venisse chiesto da un pm, si ricorda i nomi delle persone che le riferirono l’episodio?

AVV. CERAOLO: Se è necessario arrivare fino a questo punto, io dirò i nomi. Certo.

Sulle morti di Todaro e di Granata, com’è noto, l’autorità giudiziaria ha già fornito una risposta. A seguito dei due decessi sono state avviate due inchieste: una condotta dalla Procura di Messina, territorialmente competente per il decesso di Todaro; l’altra, sulla morte di Granata, da quella di Patti. L’epilogo è identico per ambedue i procedimenti: archiviazione. Il gip di Messina emetterà il suo provvedimento il 26 settembre 2018. Quattro mesi più tardi, invece, il 26 novembre 2018, si pronuncerà quello di Patti nei termini qui di seguito riportati: “Non si può che concludere ritenendo che la morte di Granata si sia verificata per causa naturale che nulla ha a che dipendere né dalla propria attività professionale né dall’opera di terze persone. Infatti, i dubbi manifestati da Ricciardello Lorena e Manganaro Daniele non trovano riscontro negli accertamenti tecnici che escludevano avvelenamenti o cause esogene né le anomalie sopra indicata dalla prima (il cellulare lontano dal cadavere di Granata, la telefonata muta e l’ordine in casa) sembravano assumere rilievo causale o concausale con l’evento morte.  Inoltre, giova precisare che dalla lettura delle relazioni autoptiche dei due agenti, Granata e Todaro, si evince che la contestualità temporale dei due decessi sia stata una mera tragica casualità atteso che le cause riscontrate, sebbene entrambi naturali, non possono dirsi riconducibili ad un’unica fonte. Ciò posto, a fronte di del quadro investigativo sopra delineato che ha escluso senza alcun margine di dubbio la presenza di elementi che possano fare pensare all’intervento di terzi nella morte di Granata Tiziano.

Dunque vicenda chiusa. O forse non definitivamente, a giudicare dalle parole che il procuratore di Patti ha consegnato a questa Commissione in chiusura della sua audizione:

CAVALLO: Vero è anche che ci troviamo di fronte a delle archiviazioni che sono provvedimenti per loro natura temporanei. Nel momento in cui noi dovessimo avere delle indagini, degli spunti seri, siamo prontissimi a riaprire le indagini non soltanto sulla morte di Granata, ma anche sull’attentato ad Antoci e quant’altro. Questi provvedimenti non sono delle pietre tombali, sono dei provvedimenti che si fanno perché ad un certo punto di dice: «noi le indagini le abbiamo fatte, non abbiamo altri spunti, per ora le chiudiamo». Se un domani si alza un collaboratore che ci viene a dire x o y, sono sicuro che la procura di Messina sarà la prima a riaprire eventuali indagini.

Resta il fatto che ancora oggi, il protagonista di questa vicenda, il dottor Antoci, al netto della fitta coltre di dubbi che avvolge il fatto di cui sarebbe rimasto vittima, continua a trovare – lo scrive nella sua relazione – “per lo meno strana” la macabra coincidenza che ha segnato le morti di Granata e Todaro.

“Poco plausibile l'attentato mafioso”. La Repubblica il 5 gennaio 2020.

Sull’attentato del 18 maggio 2016, il lavoro di questa Commissione, più che esprimere conclusioni certe e definitive, si trova costretto a dar atto delle molte domande rimaste senza risposta, delle contraddizioni emerse e non risolte, delle testimonianze divergenti, delle criticità investigative registrate che qui proviamo sommariamente a riepilogare. Non è plausibile che quasi tutte le procedure operative per l’equipaggio di una scorta di terzo livello, qual era quella di Antoci, siano state violate (l’auto blindata abbandonata, la personalità scortata esposta al rischio del fuoco nemico, la fuga su un’auto non blindata, l’aver lasciato due agenti sul posto esposti ad una reazione degli aggressori…). Non è plausibile che gli attentatori, almeno tre (a giudicare dalle tre marche di sigarette riscontrate sui mozziconi), presumibilmente tutti armati (non v’è traccia nelle cronache di agguati di stampo mafioso a cui partecipino sicari non armati), non aprano il fuoco sui due poliziotti sopraggiunti al momento dell’attentato. Non è plausibile che, sui 35 chilometri di statale a disposizione tra Cesaro e San Fratello, il presunto commando mafioso scelga di organizzare l’attentato proprio a due chilometri dal rifugio della forestale, presidiato anche di notte da personale armato, né è plausibile che gli attentatori non fossero informati su questa circostanza.

Non è comprensibile la ragione per cui il vicequestore aggiunto Manganaro non trasmetta le sue preoccupazioni ai poliziotti di scorta di Antoci (per “non agitarli”, sostiene) salvo poi cercare di raggiungerli temendo che potesse accadere qualcosa senza nemmeno tentare di mettersi in contatto telefonico con loro. Non è comprensibile la ragione per cui non sia stato disposto dai questori p.t. di Messina e dai PM incaricati dell’indagine un confronto tra i due funzionari di polizia, Manganaro e Ceraolo, che su molti punti rilevanti hanno continuato a contraddirsi e ad offrire ricostruzioni opposte. E’ censurabile il fatto che il dottor Manganaro abbia offerto su alcuni punti (la visita al vicequestore aggiunto Ceraolo, la paternita dell’espressione “vedette mafiose”) versioni diverse da quelle che aveva fornito ai PM in sede di sommarie informazioni. E’ per lo meno inusuale che di fronte ad un attentato ritenuto mafioso con finalità stragista la delega per le indagini venga ristretta alla squadra mobile di Messina e al commissariato di provenienza dei quattro poliziotti protagonisti del fatto, fatta eccezione per un contributo meramente tecnico dello SCO e per l’intervento del gabinetto della polizia scientifica di Roma molto tempo dopo. Non si comprende la ragione per cui al gabinetto della polizia scientifica di Roma, tra i vari quesiti sottoposti, non sia stato chiesto di valutare se la Thesis blindata di Antoci avrebbe potuto o meno superare il “blocco” delle pietre poste sulla carreggiata (e soprattutto quanto tempo e quante persone occorressero per posizionare quelle pietre). È impensabile che di un attentato di siffatta gravità nulla sapessero (stando ai risultati delle intercettazioni ambientali e al lavoro di intelligence investigativa) la criminalità locale né le famiglie di Cosa Nostra interessate al territorio nebroideo (Barcellona Pozzo di Gotto, Tortorici, Catania). È insolito infine che sull’intera ricostruzione dei fatti permangano versioni dei diretti protagonisti divergenti su più punti dirimenti: gli aggressori erano due o più di due? Sono stati visti mentre facevano fuoco o no? Sono stati visti fuggire nel bosco o no? Sono stati esplosi altri colpi dopo che il presidente Antoci era stato messo in salvo? Difficilmente si sarebbe potuti arrivare ad esiti investigativi diversi dall’archiviazione d’un fatto tuttora attribuito ad ignoti, ma certamente indagini più estese e soprattutto più coinvolgenti rispetto ad altri apparati di forze dell’ordine avrebbero potuto contribuire a fornire alcune risposte che mancano. Su altri punti, tutti dirimenti, la non plausibilità dei comportamenti resta invece senza spiegazioni. A giudizio di questa Commissione restano attuali le tre ipotesi formulate in premessa: un attentato mafioso fallito, un atto puramente dimostrativo, una simulazione. Ipotesi, tutte, che vedono il dottor Antoci vittima (bersaglio della mafia nelle prime due; strumento inconsapevole di una messa in scena nella terza). Alla luce del lavoro svolto da questa Commissione corre l’obbligo di evidenziare che, delle tre ipotesi formulate, il fallito attentato mafioso con intenzioni stragiste appare la meno plausibile. L’auspicio è che su questa vicenda si torni ad indagare (con mezzi certamente ben diversi da quelli di cui dispone questa Commissione)  per un debito di verità che va onorato. Qualunque sia la verità.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

100 anni dalla nascita del Generale. Perché la Mafia uccise Carlo Alberto Dalla Chiesa, simbolo eroico della presenza dello Stato. Alberto Cisterna su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Sarebbe riduttivo limitarsi ad annotare l’omicidio del generale Dalla Chiesa nel triste e lungo catalogo dei cosiddetti omicidi eccellenti di mafia. Da quella terribile, lunga contabilità, la strage di via Carini si staglia per due tratti distintivi particolarmente evidenti: il prefetto Dalla Chiesa è stato il funzionario dello Stato più alto in grado a soccombere sotto i colpi della mafia e, poi , circostanza da non poco poi, non era siciliano, al contrario della maggior parte delle vittime individuate da Cosa nostra tra le fila dei propri nemici. Messe insieme le due cose ci restituiscono una cornice anomala, quasi asimmetrica rispetto agli eventi futuri e, soprattutto, rispetto agli omicidi di Falcone e Borsellino, quando praticamente tutto ha avuto fine e i corleonesi si sono condannati a una inevitabile e dura sconfitta. Certo le condizioni politiche e sociali del Paese nel 1982 e nel 1992 erano completamente diverse. L’arrivo di Dalla Chiesa in Sicilia era avvenuto in un contesto di assoluto deserto legislativo e organizzativo sia sul versante della polizia giudiziaria che della magistratura, ancora priva delle complesse e geniali intuizioni di Giovanni Falcone. Il 1992 è, invece, l’anno che segue la straordinaria opera della trimurti Cossiga-Martelli-Falcone con la creazione, praticamente dal nulla, dell’intera legislazione antimafia: dai reparti speciali di polizia alle procure antimafia, con in mezzo un oceano di soluzioni, strumenti, idee rivoluzionarie su pentiti, regime carcerario, intercettazioni. Insomma tutto ciò che funziona (e bene) in Italia ha una sua origine precisa in un pugno di mesi del 1991, quando venne vergata la condanna a morte di Giovanni Falcone, neo direttore generale del ministero di grazia e giustizia. Uccidere un prefetto-generale resta una decisione, come dire, diversa. Mentre l’azione di Falcone suonava come corale, era percepita come politicamente robusta, era appoggiata nei piani alti del potere istituzionale del Paese (Quirinale e palazzo Chigi in primo luogo) e all’estero (la storica amicizia dell’Fbi), era sorretta da un sostegno mediatico solo scalfito dai numerosi e infidi nemici interni alla corporazione, la missione di Dalla Chiesa apparve subito solitaria, isolata, priva di un’adeguata preparazione politica e istituzionale. Un “solo contro tutti” che indusse rapidamente Cosa nostra a percepire la necessità di una drastica e risolutiva eliminazione. L’ uomo era stato e in parte si era anche eretto a simbolo eroico della presenza dello Stato in terra di mafia e come un simbolo doveva essere tolto di mezzo il più in fretta possibile, prima che coagulasse forze e risposte che una Sicilia riottosa non voleva ancora approntare. In questo rapido sguardo sinottico sul decennio 1982-1992 non deve sfuggire, però, che la reazione del legislatore all’eccidio di via Carini risulterà – sul lungo periodo – molto più decisiva o meno blanda di quella che si ebbe dopo la mattanza del 1992. L’uccisione di Dalla Chiesa è l’unico delitto di mafia cui ha fatto seguito una risposta a suo modo rivoluzionaria da parte dello Stato con l’ingresso nel codice penale del reato di associazione mafiosa (articolo 416-bis) e con l’aggiunta della confisca nel catalogo delle misure di prevenzione. Uno spartiacque senza eguali nella legislazione del Paese neppure comparabile a quanto avvenuto dieci anni dopo con la strage di Capaci in cui la risposta più importante giunse dallo Stato-apparato e non dallo Stato-legislatore. È vero che nel 1982 si trattava di novità in gestazione al momento dell’assassinio del generale (il progetto di legge Rognoni – La Torre), ma non era stato sufficiente l’agguato mortale a Pio La Torre, il 30 aprile 1982, a spingere le forze politiche ad approvare le nuove misure tanto auspicate per contenere e reprimere lo strapotere militare, economico e politico delle cosche. Furono, invece, sufficienti dieci giorni al Parlamento per concludere l’iter di quel disegno di legge. Il 13 settembre 1982, a dieci giorni dall’assassinio del prefetto, la nuova legge era stata approvata e una nuova stagione aveva inizio, anche grazie all’impegno di una generazione di magistrati e inquirenti che, proprio dalla morte del generale Dalla Chiesa, aveva tratto la definiva convinzione del delirio eversivo che si era impadronito di Cosa nostra siciliana. Un delirio sanguinoso e in principio inarrestabile, fermato solo con la cattura nel 1993 del capo dei capi e la parabola delle successive collaborazioni di giustizia. Da questo punto di vista esiste un “prima” e un “dopo” via Carini che non ha eguali in tanti decenni di lotta alle mafie; perché la predisposizione di un reato di associazione mafiosa – punita come distinta e separata dalla più vetusta associazione per delinquere (articolo 416) – ha segnato un traguardo di definitiva consapevolezza circa la peculiare e specifica minaccia che all’ordine costituito derivava dall’operatività dei clan. Non solo associazioni criminali, ma entità voraci di potere e alimentate da un’insaziabile e, a tratti, incontrollabile violenza. Da questo angolo visuale il sangue versato da Carlo Alberto Dalla Chiesa pesa e molto nella storia, in gran parte ancora da scrivere, della lotta alla mafia. Quando sarà calata la nebbia agiografica e mitologica che tuttora avvolge e ottenebra le vicende di quegli anni si dovrà pur porre mano a un’attenta ricostruzione dei canali di “collusione divergente”, sia politica che istituzionale, che hanno indotto i corleonesi allo scontro armato con lo Stato, facendo balenare loro il sogno di una vittoria impossibile. In fondo nel 1982 e nel 1992 quei boss tanto celebrati hanno commesso due errori fatali di sottovalutazione e di calcolo, guadagnandosi praticamente da soli le porte dell’inferno carcerario in cui, uno alla volta, si stanno dissolvendo. Le “menti raffinatissime” vicine a Riina e ai suoi li hanno spinti a uno scontro totalmente senza speranza di successo sia nel 1982 che nel 1992, illudendoli di una supremazia che li ha divorati in poco tempo. Resta da comprendere fino in fondo chi abbia sostituito gli sconfitti e quali sembianze abbia assunto la mafia siciliana liberatasi per sempre dei sanguinari viddani, scesi da Corleone con un delirio da realizzare.

Nel ricordo di Dalla Chiesa, un pensiero ai veri eroi e ai “professionisti dell’antimafia”. Alessandro Butticé su Il Riformista l'8 Settembre 2020. Il 3 settembre si è celebrato il trentottesimo anniversario della strage di Via Isidoro Carini, teatro del barbaro martirio per mano mafiosa del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Prefetto di Palermo, di sua moglie, Elisabetta Setti Carraro, e della guardia scelta della Polizia di Stato Domenico Russo, che seguiva l’A112 guidata dalla giovane signora. Si è detto e scritto tanto su quel tragico evento, che eliminò, assieme ad altre due vittime – una del dovere, l’altra dell’amore – chi era stato capace di sconfiggere il terrorismo brigatista. Con metodi, secondo alcuni, sicuramente da emergenza nazionale. Ma che non ha avuto lo stesso tempo, gli stessi mezzi e la stessa fortuna per affrontare un altro non meno pericoloso pericolo per il Paese: quello della Mafia. Al di là di ogni lettura ed interpretazione di quell’eccidio, per molti aspetti ancora non chiari, resta il fatto che esso rappresentò un momento storico della lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso nel nostro Paese. Tra i tanti commenti letti in questi giorni sui media e sui social, mi ha colpito particolarmente quello postato su Facebook da Alfredo Musumeci, che è un generale in congedo della Guardia di Finanza. Quella stessa Guardia di Finanza che, per la cronaca, attraverso due suoi militari richiamati dagli spari nella propria caserma che aveva sede in piazza Sturzo, distante poche decine di metri dall’eccidio, fu la prima forza di polizia ad intervenire. ‹‹Oggi è l’anniversario della morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – scrive il generale Musumeci – e ricordo che quando accadde ero ancora giovanissimo comandante di tenenza in quel di Termoli, in Molise. Nell’apprendere la notizia non ne compresi neppure da lontano la reale portata. La mafia non era ancora sulle bocche di tutti allora. Sono passati trentotto anni e oggi tutti parlano di mafia e di mafie. Per dirla citando un grande siciliano quale Sciascia, ne parlano “uomini, mezzi uomini, ominicchi e quacquaracquà”. E molti, forse, anche oggi lo ricorderanno, il generale Dalla Chiesa, con il solito déja vu: festival di commemorazioni e di parole qua e là sull’eroe e sull’uomo dello Stato vittima del dovere e di mani assassine. Parole che scivoleranno sulle coscienze come un film e, dopo i titoli di coda, tutto tornerà come prima. E non va bene. Non vanno bene le commemorazioni e i fiumi di parole alate se, poi, le coscienze e i comportamenti collettivi non cambiano. Con tutto il rispetto per i caduti, è proprio questa la vera questione. Crogiolarsi nei riti, continuare solo a celebrare i martiri e gli eroi è il tragico segnale di qualcosa che non va. Vuol dire che ci sono un Paese e una realtà che non girano come dovrebbero e in cui non tutti fanno ciò che sono chiamati a fare. E il vero sogno da realizzare dovrebbe essere, invece, proprio quello: un Paese reale fatto di sane e oneste normalità che, giorno per giorno, costruiscono una vita reale di sana e onesta normalità e in cui non c’è più bisogno di santi, martiri ed eroi. Perché se c’è bisogno di quelli vuol dire che la realtà è molto malata. E che i più non vogliono neppure farla guarire››. Pur nel rispettoso ricordo di un eroe come il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, e degli altri due martiri trucidati assieme a lui, come si può dare torto a Musumeci? Troppe lacrime di coccodrillo, versati per altri eroi, discreti e silenziosi, come i Falcone, i Borsellino e i Chinnici, e troppi «professionisti dell’antimafia» ho visto nella mia vita. Come troppe carriere di magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, giornalisti e politici costruite immeritatamente sul sangue di autentici martiri ed eroi. Coi quali nulla hanno a spartire, se non le foto a volte indegnamente e pomposamente esposte nei loro uffici. Mi è persino capitato di conoscere magistrati padani che, per aver prestato servizio solo qualche mese (sì, mesi, non anni!) in una procura della Repubblica siciliana, si sono presentati in Europa come magistrati antimafia. Cosa che avrebbe fatto sicuramente sorridere Giovanni Falcone, che era solito sostenere che ‹‹solo un siciliano intriso di sicilianità può comprendere il fenomeno mafioso e combatterlo››. Ma in Europa a volte basta solo essere siciliano (se non semplicemente italiano) per essere qualificato «mafioso». Così come altre volte basta solo essere magistrato italiano (magari di Trento, Bolzano, Torino o Aosta) per potersi presentare col pedigree di «magistrato anti-mafia». Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Soprattutto di chi li sa vedere e valutare. Onore quindi ai veri Eroi e Martiri della Repubblica, come il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sognando però un Paese normale. Che, come ammoniva Bertolt Brecht, non abbia bisogno di eroi, ma che sappia anche riconoscere e sbeffeggiare i falsi «professionisti dell’Antimafia» assieme a troppi autoproclamati eroi. Di cartone.

Adriano Scianca per la Verità il 14 settembre 2020. Per combattere un criminale devi pensare come lui. Quante volte lo abbiamo sentito dire nei polizieschi americani? Fuori dall'orizzonte della fiction, è esattamente così che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa impostò la sua guerra al terrorismo, quando, negli anni Settanta, creò il Nucleo speciale antiterrorismo. «Da oggi», disse, «nessuno di voi ha più un nome, una famiglia, una casa. Da adesso dovete considerarvi in clandestinità. Io sono il vostro unico punto di riferimento. Io vi darò una casa, io vi ordinerò dove andare e cosa fare. I nostri reparti dovranno vivere la stessa vita clandestina delle Brigate rosse». Così nacquero i «monaci», come venivano chiamati, del Nucleo speciale antiterrorismo. La vicenda, poco nota, di questo reparto speciale, è narrata nel recente Il coraggio tra le mani, del giornalista Emiliano Arrigo (Historica). Il saggio è in realtà un lungo colloquio con Nero, uno dei componenti del Nucleo speciale antiterrorismo. «Posta la specificità del mondo dell'eversione nazionale», spiega nella prefazione il generale Mario Mori, uno dei protagonisti di quell'avventura, «Dalla Chiesa comprese che era assolutamente necessario creare una struttura a sé stante, costituita da "investigatori nuovi", che a una formazione professionale adeguata, potessero aggiungere esuberanza e freschezza operativa, perché integrati nella cultura giovanile dell'epoca; lo stesso ceppo quindi da cui originavano gli esponenti delle formazioni eversive, sia di destra che di sinistra.  Certamente una tipologia di militari dell'Arma un po' fuori dai canoni tradizionali». Pensare come il nemico che si vuole combattere, appunto. C'era però anche un altro motivo che spinse i vertici dello Stato a cambiare approccio al terrorismo: la presenza, in seno alle organizzazioni eversive, di vere e proprie centrali di controspionaggio. I brigatisti si informavano, facevano indagini, compilavano dossier, pedinavano. Sapevano tutto, per esempio, degli uomini della Digos. Era quindi importante che non sapessero nulla degli agenti speciali che dovevano dar loro la caccia. «Era fondamentale», racconta Nero, «che nessun brigatista vedesse chi entrava o usciva dalla sezione e, soprattutto, nessuno di loro doveva vedere chi avevamo a bordo con noi. Pertanto, una nostra auto usciva in anticipo rispetto a tutte le altre, bonificava il territorio circostante e, dopodiché, se tutto era tranquillo, via radio si dava l'okay per l'uscita degli altri mezzi. E stesso discorso avveniva quando dovevamo rientrare in sezione». Per la medesima ragione, nessun agente poteva portare in caserma parenti o amici. E gli stessi componenti del gruppo erano scelti tra carabinieri che non avessero svolto in precedenza altre mansioni «al pubblico»: non si poteva certo rischiare di mettere alle calcagna di un terrorista lo stesso agente che qualche anno prima aveva raccolto la denuncia dell'estremista per una carta d'identità smarrita...Fra agenti e brigatisti si instaura una sorta di partita a scacchi, in cui oltre alla preparazione militare è essenziale anche la strategia, la furbizia, l'inventiva. Nel libro, Nero parla per esempio dell'arresto di un estremista che fu raccontato ai media in modo sensibilmente diverso da come in realtà era avvenuto: «Si disse che l'arresto era avvenuto nell'ambito delle attività di controllo della metropolitana finalizzata al contrasto della criminalità comune». A che scopo introdurre il particolare della metropolitana, se non era vero? «Perché volevamo indurre i brigatisti a non utilizzare la metropolitana visto che a quei tempi le nostre apparecchiature radio lì sotto erano pressoché inutilizzabili», spiega l'ex agente. Anche i pedinamenti dovevano tener conto della capillare opera di controspionaggio messa in campo dalle Br: «Noi», spiega l'ex agente speciale, «potemmo disporre di targhe di copertura, cosicché, se i brigatisti avessero sospettato di essere pedinati e avessero registrato le nostre targhe, non sarebbero comunque potuti risalire al vero proprietario. Inoltre, grazie ai nostri colleghi sparsi su tutto il territorio nazionale, potemmo contare anche sulle targhe di qualunque città. Ad esempio, se per una operazione si andava a Rieti, avevamo a disposizione le targhe di Rieti. Se si andava a Frosinone, avevamo le targhe di Frosinone. E così via». A un certo punto, il Nucleo speciale antiterrorismo arrivò a disporre di un proprio taxi fasullo, una Fiat Ritmo gialla di volta in volta guidata da un agente differente, per la disperazione di quanti si sbracciavano per prenotare la corsa di fronte a un taxi che sembrava sempre fuori servizio e che girava per la città cercando ben altro che clienti.

Maria Berlinguer per la Stampa il 4 settembre 2020. «Rita, mi diceva, se una macchina ti segue per due isolati volta all'improvviso e vai in una delle caserme più vicine. Giravo con una mappa di Montesacro, il quartiere dove abitavo allora e due volte ho avuto davvero paura. Mia sorella invece dovette essere trasferita nella notte da Torino a Catanzaro con il marito e la bambina, l' amica che la ospitava ricevette una telefonata minatoria da un brigatista, "sappiamo che la Dalla Chiesa è lì da lei, le consigliamo di allontanarla, sappiamo dove va a scuola sua figlia". Papà ha sempre cercato di proteggerci ma certo non ho avuto una gioventù spensierata e mi fa ancora rabbia ripensare al clima di connivenza e simpatia di certi ambienti intorno ai brigatisti. Mio padre, che pure aveva fatto la Resistenza, veniva dipinto come fascista». Il 3 settembre cade l' anniversario della strage del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della giovane seconda moglie, Emanuela Setti Carraro, assassinati dalla mafia a Palermo nel 1982, una strage per certi versi annunciata dal silenzio che vertici militari e politici avevano fatto intorno al prefetto di Palermo. A cento anni dalla nascita del padre, Rita Dalla Chiesa ci regala un ritratto familiare del generale che ha combattuto in prima linea terrorismo e mafia con Il mio valzer con papà (Rai libri).

Cosa l' ha spinta a scrivere proprio ora?

«Mi è stato chiesto di farlo. Di libri su papà ne sono usciti tanti. Volevano il ritratto di una famiglia cresciuta in caserma, spesso costretta a cambiare città. I ricordi di una ragazza adolescente e ribelle come sono stata. Ho accettato a patto di ricostruire insieme alla storia famigliare anche il clima di quei terribili anni. Chi non li ha vissuti non può sapere cosa sono stati. Anni nei quali potevi perdere la vita solo facendo la fila alla posta. Sparavano a un simbolo, una divisa, non a un uomo. Anni cupi, di piombo. E non solo per la mia famiglia».

Qual è il ricordo più forte?

«Ho visto pochissime volte piangere mio padre. L' ha fatto quando le Br hanno giustiziato Roberto Peci per punire il fratello che stava collaborando. Papà con Patrizio aveva costruito una relazione di affetto, in carcere gli portava dei libri, lo considerava un ragazzo che aveva sbagliato ma recuperabile. L' esecuzione di Roberto, che con le Br non c' entrava niente, è stata una vera vigliaccata. Quando è morta mia madre il vescovo di Torino ha detto "Dora Dalla Chiesa è solo l' ultima silenziosa vittima del terrorismo". E pure c' era chi aveva atteggiamenti ambigui, in certi salotti intellettuali si pensava che i terroristi fossero solo ragazzi, non assassini».

Come si erano conosciuti i suoi genitori?

«A Bari in caserma, erano entrambi figli di carabinieri, uno generale, l'altro colonnello. Papà aveva 18 anni, mamma 15. Dopo l'armistizio papà, che era un liberale si è unito alla Resistenza. Si sono sposati dopo la guerra. Il loro è stato un grandissimo amore. Mamma era tutto per papà, la sua roccia, la sua cassaforte. L' unica a cui confidava i segreti, ha continuato a scriverle tutte le sere una lettera, anche dopo la sua morte. Nei diari che poi mio fratello Nando ha consegnato a Giovanni Falcone emerge la solitudine di papà. Non è stato mai amato né dai militari né dai politici. Era troppo libero. Non guardava in faccia nessuno. Quando tornò a Palermo Giulio Andreotti lo mandò a chiamare. Papà gli disse chiaro che non avrebbe avuto pietà se avesse trovato collusioni nella dc siciliana. Andreotti, scrive papà nei diari, gli disse "stia attento, chi si mette contro quelle correnti normalmente si trova con i piedi stesi". Ma non gli rispondevano al telefono neanche Spadolini, Rognoni e De Mita. Quando arrivò a Punta Raisi non c' era nessuno ad aspettarlo. Per la prima volta lo vidi preoccupato».

Che tipo di padre era?

«Molto affettuoso, quando entrava a casa cambiava sguardo. In un ultimo biglietto, quasi premonitore, ci ha scritto "Voletevi bene sempre, come ora". Amava la musica, adorava Mina e Celentano, Azzurro era la sua canzone. Era un appassionato di Renata Tebaldi e cercava di convincermi che fosse da preferire alla Callas. Ascoltava anche i cantautori. E' stato il primo uomo a regalarmi delle rose, l' ha fatto ogni anno il 22 giugno, il giorno del mio onomastico. Credeva molto nella famiglia. Quando mi sono separata dal padre di Giulia non mi ha parlato a lungo. Si è come spento quando è morta mamma. Viveva in una stanza blindata sulla Salaria. Finiva tardi di lavorare e spesso trovava chiusa la mensa dei carabinieri. I suoi uomini gli lasciavano un po' di latte e della frutta in camera. Poi è arrivata Emanuela, un raggio di sole nella sua vita, anche se io ne sono stata gelosa, lo confesso».

Cioè?

«Ero innamorata di mio padre, quando è comparsa questa bella ragazza che aveva la mia età mi sembrava impossibile. Ma fui la prima a dirgli che non poteva vivere una relazione clandestina, "se vuoi sposala, parlo io ai fratelli". Papà non voleva che Emanuela andasse subito a Palermo con lui perché percepiva il pericolo. Povera Emanuela, assassinata a neanche due mesi dal matrimonio».

Dagospia il 29 settembre 2020. Da "I Lunatici Radio2". Rita Dalla Chiesa è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei. Rita Dalla Chiesa ha parlato del centenario della nascita del papà, Carlo Alberto Dalla Chiesa, e del libro "Il mio valzer con papà", edito da Rai Libri: "L'ho scritto perché mi sono meravigliata a pensare che papà avrebbe compiuto cento anni e perché la Rai mi ha chiesto di parlare di mio papà, più che del Generale. I proventi andranno tutti agli orfani dei carabinieri che sono morti in servizio. Mio padre era molto geloso, la gelosia è di famiglia. Io ero gelosa di lui e lui era geloso di me. Mi teneva lontane le persone che tentavano di avvicinarsi, qualunque corteggiatore arrivasse papà diceva sempre che non era quello giusto per me. Da ragazza uno vorrebbe vivere come vedeva vivere gli altri, io mi rendevo conto che trascorrevo una vita diversa. Vivere in caserma era bellissimo, era sempre aperto, non c'era bisogno di chiavi o di allarmi. Alle volte però mi ribellavo, perché tante cose che una ragazza vorrebbe fare non erano possibili. Quando ho deciso di fare la giornalista, però, mio padre è stato contento. Condivideva il tipo di vita che avevo cercato intraprendere. Da quando ero piccola ho amato scrivere. Scrivevo con mio fratello il giornalino della caserma, su un foglio di carta, una cosa che era soltanto nostra. Ho sempre avuto voglia di raccontare. I compleanni? Papà è sempre stato un Generale impegnatissimo ma anche un padre che era sempre presente. A modo suo, rubando i minuti, ma c'è sempre stato. Ricordo i primi fiori, delle roselline rosa, ricevuti da piccolissima. Me li regalò lui. Abbiamo fatto una vita particolare, mai la stessa casa per più di due anni, non invidio mai nulla ad esempio, ma invidio le persone che sono riuscite a portarsi una amicizia dai banchi di scuola. Io invece dovevo ricominciare sempre tutto dall'inizio. La cosa bella dei continui trasferimenti, invece, è che ho visto tutta l'Italia". Ancora Rita Dalla Chiesa: "Ho lasciato il cuore a Milano, mi è piaciuta tantissimo Ancona, avevamo una casa in collina e mi ricordo che tutte le sere mi affacciavo a guardare il mare e passavano sempre i treni diretti verso la Puglia. Adoro il treno, il suo rumore non mi dà fastidio, anzi. Mi piacerebbe ancora abitare vicino a una ferrovia. Il fatto di aver cambiato continuamente città ti dà la sensazione di appartenere a tutte le città. Io cambierei casa continuamente". Sul tre settembre del 1982: "C'è un dolore sordo che è dentro e non se ne va. Inizio a star male prima del tre settembre, divento nervosa, mi chiudo a riccio, non voglio vedere nessuno. Il 31 agosto è il giorno del mio compleanno e ricevevo sempre la telefonata di mio papà, che però quell'anno non è arrivata, perché c'era rimasto male perché non avevo mandato mia figlia Giulia a Palermo. Non l'avevo mandata perché da madre sentito che non dovevo mandarla. Purtroppo avevo ragione io. Mio padre mi ha chiamato il 3 settembre mattina, mi aveva raccontato che il Ministro Formica era stato a Palermo, avevamo parlato abbastanza. Ci siamo salutati dicendoci che ci saremmo risentiti domani e invece no, perché la sera lo hanno ammazzato. Vivere una dimensione pubblica del dolore certamente fortifica. Quando siamo andati a Palermo dopo che papà era stato già sepolto, per togliere tutti gli affetti personali di papà, abbiamo trovato un muro di fotografi. Avevo capito che la mia vita non sarebbe più stata la stessa. Mio padre era molto amato in tutta Italia. E' stato l'unico non siciliano ad essere stato ucciso in Sicilia, per la Sicilia. Era di Parma, si è trovato a combattere la mafia in Sicilia. Purtroppo il cancro della mafia esiste ancora, ora si è diffuso in tutta Italia, non è più un fenomeno solo siciliano". Rita Dalla Chiesa ha aggiunto: "Ho vissuto un pezzo della storia italiana molto importante e pesante. Ho vissuto gli anni di piombo, la mafia, i grandi uomini con i quali mio padre è venuto a contatto, che sono poi stati uccisi. Falcone, Borsellino, Chinnici. L'altro giorno sono stato al matrimonio del nipote di Chinnici, che si è sposato e che ora indossa la divisa dei carabinieri in onore di mio padre. Quando me l'ha raccontato mi sono messo a piangere. C'è un filo che ci lega ai Falcone, Borsellino, Chinnici, Mattarella. Ne ho conosciute tante di queste persone, sono passata attraverso tutti questi dolori. Ho vissuto cento vite in una vita sola". Ancora sulla fine del Generale Dalla Chiesa: "Non ha fatto in tempo a fare arrivare i suoi uomini a Palermo. E' arrivato a luglio ed è stato ucciso il tre settembre. All'epoca era tutto molto rallentato, avrebbe voluto i suoi uomini a Palermo, gli aveva mandato la richiesta, chi aveva risposto di sì non ha fatto in tempo ad arrivare. Quando aprimmo la cassaforte di papà, dopo la sua uccisione, trovammo una scatola vuota. Volevano metterla a tacere questa cosa. Ci sono intercettazioni di Riina dove lui dice che lo facevo ridere. Abbiamo dovuto convivere con una società che da un lato ci era vicina e ci aiutava, ma dall'altro abbiamo dovuto anche con la malavita, con dei mafiosi che continuavano e continuano a sbeffeggiare e delegittimare mio padre. E' stata una battaglia continua. Mio fratello ha dedicato tutta la sua vita a scoprire cosa fosse davvero successo". Sui suoi sentimenti: "I mafiosi mi fanno pena, sono dei poveracci. Non hanno neuroni. Non li odio. L'odio non fa parte della mia mentalità. Però non perdono. Ricordo tutto e tutti. Non perdono, ma è una cosa diversa dall'odiare".

Ci insegnò cosa fare quando si scopre un covo". 100 anni dalla nascita di Dalla Chiesa, il ricordo di Mario Mori: “Rivoluzionò il modo di fare indagini”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Ventisette settembre, cento anni dalla nascita di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Personalità unica tanto da assurgere oggi al ruolo antonomastico (“Qui ci vorrebbe un Dalla Chiesa”…), guadagnò sul campo di battaglia tutti i gradi, passando da giovane brigadiere di Corleone a Generale di Divisione dei Carabinieri, e divenne il primo Prefetto in divisa di Palermo. Sarà lì, dopo soli cento giorni dall’insediamento, che Dalla Chiesa sarà barbaramente trucidato a colpi di kalashnikov da un commando mafioso agli ordini di Totò Riina, la sera del 3 settembre 1982. Il boss, conquistato il vertice della cupola di Cosa nostra, sarà arrestato nel 1993 proprio dal braccio destro di Dalla Chiesa: il generale Mario Mori, comandante del Ros. Il più stretto collaboratore di Dalla Chiesa, poi Direttore dei Servizi segreti (Sisde), racconta al Riformista il Dalla Chiesa privato, in un ritratto inedito. Chiamiamo il Generale Mario Mori, la linea è disturbata da un sottile rumore metallico. La conversazione si interrompe. Richiamiamo. Mori scherza: «Sono i servizi deviati, non ci faccia caso».

Dev’essere il maltempo, la linea è disturbata.

«È tanto che è disturbata, la linea… ma andiamo avanti. Vuole sapere come definire il Generale Dalla Chiesa? Partiamo con una domanda difficile. Dalla Chiesa è indefinibile. Una personalità particolare, unica».

Da che punto di vista?

«È difficile inquadrarlo. Una presenza eminente, carismatica. Mi sembrava una sintesi tra una personalità di tipo ottocentesco e un manager di ultima generazione. Noi gli davamo tutti i soprannomi più disparati. Scherzando, nella squadra, lo chiamavamo Egli. Prendendolo un po’ in giro, come fosse un Padreterno. Quando eravamo un po’ incazzati lo chiamavamo Khomeini. Sempre con tanto rispetto, sia chiaro».

Cosa aveva di ottocentesco e cosa del manager moderno?

«Aveva uno stile non militaresco ma certo militare. E un linguaggio che non era desueto ma ricercato. Certamente non comune. Un linguaggio colto, come la sua scrittura, sempre molto puntuale. L’approccio nei nostri confronti era distaccato ma mai freddo. Severo. Era un uomo severo, anche e forse soprattutto con chi gli stava più a cuore. Mai scortese».

Un uomo che ha attraversato la storia, si è unito alla Resistenza, è stato ricercato dai nazisti, poi ha combattuto il terrorismo e infine la mafia…

«Ed è rimasto brillante, affascinante. Per molte signore, incluse le nostre mogli, era il più affascinante».

E sul lavoro?

«È stato un professionista impeccabile, un grande precursore. Un manager della sicurezza nel senso moderno. Rispetto ai suoi pari grado, ai generali come lui, era avanti di venti o trent’anni».

Un innovatore, quindi.

«Aveva una modernità intellettuale con cui affrontava il livello strategico della problematica operativa. Era svincolato dalla prassi della ripetitività del quotidiano, dalle abitudini. Sapeva mettere la flessibilità al centro, muovendo verso l’obiettivo in modo policentrico. Ci insegnò a non perseguire una sola idea fissa e a dubitare fino all’ultimo delle certezze, mettendo semmai in campo più ipotesi contemporaneamente».

Inventò il Ros, forse anche indicando una rotta che anni dopo ispirerà la nascita del Pool antimafia. Selezionò una “prima squadra” da dedicare al solo contrasto mafioso…

«Sì, seppe dedicare ai grandi fenomeni di criminalità mafiosa la stessa attenzione che fino a allora lo Stato aveva rivolto al terrorismo. E stata l’intuizione che non si poteva contrastare questi fenomeni così specifici se non si disponeva di una avanguardia di personale particolarmente preparata al contrasto, ovviamente scegliendo gli uomini che per propensione e preparazione potevano essere i più idonei a farlo, questo contrasto».

Qual era il principio?

«Il suo concetto era questo: quando c’è un fenomeno nuovo di grandi dimensioni, che non è la solita criminalità, bisogna affrontarlo con gente specializzata che individui le caratteristiche del gruppo e della struttura criminale e la combatta. Quando poi avremo inquadrato questo fenomeno, allora potranno subentrare tutte le forze di polizia, perché prima c’è bisogno di impostare le investigazioni in un certo modo, e quando il quadro è chiarito si estende la partecipazione a tutte le forze di polizia. Ma l’investimento andava fatto sugli “specialisti”, come allora ci chiamavamo».

Con quali caratteristiche venivano svolte le indagini?

«L’osservazione, insieme al controllo, al pedinamento e alla conoscenza di tutta la cultura del “nemico” era uno dei punti centrali delle investigazioni di Dalla Chiesa. Ero con lui nel 1978, per la prima volta. Per contrastare le Brigate Rosse lui fu il primo a chiederci di entrarvi nel merito. Ci disse di studiare tutto, di ripetere ad alta voce i loro slogan. Di masticare la loro ideologia, per provare a intuire dove andavano a parare, a colpire, e magari anche a nascondersi. Un metodo immersivo, si direbbe oggi».

Entrare in contatto mentale con il nemico.

«La sua convinzione era che bisognava conoscere e possibilmente anche usare il vocabolario e le tecniche degli avversari per essere in grado di individuare il filo conduttore dei loro ragionamenti e di anticipare le loro mosse: “Sapere il più possibile dell’avversario, far sapere il meno possibile di noi”».

Per sapere qualcosa in più di voi: è vero che le sue squadre diventavano una famiglia?

«Non ci voleva mai mollare. La sera si faceva il punto della situazione e si rimaneva a cena insieme. Quando eravamo fuori ci offriva anche il pranzo. Ma seduti a tavola si continuava a lavorare, ci si scambiava informazioni».

Erano cene importanti, strutturate?

«Andavamo a mangiare una pizza. Quasi sempre pizza. Dovevamo stare leggeri, sobri nel mangiare e ancora di più nel bere. Si faceva il punto della giornata e il briefing per quella successiva. E ci davamo i tempi delle indagini, dei filoni, che sapevamo essere asimmetrici».

Cosa vuol dire? Non necessariamente i più brevi?

«Non necessariamente. Dalla Chiesa ci diede questa impostazione, che io ho poi fatto mia: quando si individua il covo di un ricercato, si dedica tutto il tempo necessario all’appostamento e alle osservazioni. Si disegna tutto il tracciato sotterraneo dei suoi contatti. E si decide di intervenire solo in base a un ragionamento bilanciato tra opportunità e rischi. Perché ogni pedina porta a un’altra. Noi non abbiamo mai avuto il compito di fermare il singolo ma di individuare tutta l’articolazione delle organizzazioni criminali».

Questo ha portato in alcuni casi a polemiche e anche a qualche procedimento giudiziario.

«Abbiamo agito sempre nell’interesse delle indagini, come è stato appurato. Se tu scopri che ci sono sedici terroristi in una determinata area, ci insegnò Dalla Chiesa, non ne devi arrestare sedici. Ne arresti dodici, al massimo tredici. Perché quei tre che rimangono andranno in fibrillazione, contatteranno il resto dell’organizzazione e solo seguendoli e intercettandoli puoi arrivare alla fine ad arrestarli tutti».

Ha fatto l’esempio dei terroristi. Vale anche per Cosa Nostra, per Riina?

«Quando abbiamo arrestato Riina lo avevamo nel mirino, lo abbiamo seguito per un po’, sapevamo che ci avrebbe condotti ad altri. Come è noto, il capitano De Caprio è entrato in azione quando è stato più opportuno farlo. Era un pesce troppo grosso per rischiare. Con la tecnologia di oggi si possono fare molte più cose, inclusi i pedinamenti satellitari, i filmati infrarossi da lunga distanza, anche di notte. Ma il successo, quando si indaga, sta sempre nella testa degli uomini che comandano. E di Dalla Chiesa ce n’è stato uno solo, in Italia».

Perché è stato ucciso, arrivato da poco a Palermo?

«Ci sono state tante ipotesi. Quello che è certo, è che è stato il commando mafioso su mandato di Riina. Nelle condizioni in cui Dalla Chiesa era stato mandato a combattere in Sicilia, la condanna a morte da parte di quell’ignorante e della sua banda è segno di una grande sopravvalutazione».

Ci spieghi meglio.

«Dalla Chiesa aveva un nome e un prestigio che gli derivavano dal suo passato, ma i poteri che aveva a Palermo erano limitati. Non aveva gli strumenti che gli servivano. Dalla Chiesa si rendeva perfettamente conto di essere finito in un vicolo cieco, in una condizione in cui non poteva rendere quanto potenzialmente avrebbe potuto rendere».

È stato sovraesposto, alla fine?

«Non era in grado di svolgere un mandato di ampio potere, come quello con cui avrebbe potuto davvero contrastare le mafie, come si aspettava la pubblica opinione. Se ne rese conto, non mancò occasione di chiedere al governo una forza che non gli arrivò mai. “Il Prefetto di Palermo ha gli stessi poteri del Prefetto di Forlì”, fece rispettosamente notare. Quando morì era un uomo amareggiato. Straordinario, esemplare, ma come spesso accade agli eroi, solo».

«Risarcire i figli di Dalla Chiesa con i fondi per le vittime della mafia». Pubblicato mercoledì, 27 novembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. È già suonato il tempo scaduto per la prescrizione decennale dell’azione civile, sosteneva il ministero dell’Interno tramite l’Avvocatura dello Stato: e argomentava che i tre figli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (ucciso dalla mafia nel 1982) dovessero chiedere il risarcimento civile dei danni non patrimoniali solo al condannato boss Calogero Ganci (che però è nullatenente), e non avessero invece diritto di azionare anche la responsabilità solidaristica del «Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso», istituito dalla legge del 1999 appunto presso il Viminale ma con teorizzato accesso solo entro i limiti delle (scarse) disponibilità finanziarie annuali. E in primo grado nel 2018, davanti al Tribunale civile di Milano, il ministero si era visto dare ragione. Ma ora la II Corte d’Appello civile ribalta il diniego, e condanna il «Fondo», in solido con Ganci, a risarcire 400.000 euro a testa a Nando, Maria Simona e Rita Dalla Chiesa. Per l’omicidio del generale dei carabinieri assassinato da Cosa Nostra a Palermo in via Isidoro Carini la sera del 3 settembre 1982 con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, il 7 marzo 2003 era stato condannato, in concorso con Giuseppe Lucchese, il boss del quartiere «Noce» — e poi dal ‘96 collaboratore di giustizia — Raffaele Ganci, con sentenza che (divenuta definitiva l’11 maggio 2006) riconosceva nel contempo il risarcimento dei danni affidato a un separato giudizio civile, salvo una provvisionale subito di 60.000 euro. I giudici civili milanesi ora escludono che l’azione dei figli di Dalla Chiesa fosse già prescritta, obiettando al Ministero che essi non avrebbero potuto chiedere l’accesso al «Fondo» prima, in quanto prima non avrebbero ancora avuto i requisiti richiesti dalla legge. E accogliendo la lettura di taluni precedenti proposta dai legali Giuseppe Fornari e Maurizio Orlando, la Corte d’Appello osserva che, «in assenza di una norma che specificatamente impedisca al danneggiato di agire nel medesimo giudizio contro l’autore del reato, nulla osta che il “Fondo” sia condannato in solido con il reo», e «anzi ciò risponde a minimali esigenze di economia processuale» perché «per tutti agevola la difesa in unico contesto». Rimossi questi due principali ostacoli procedurali, è poi più semplice la valutazione della risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale: «È indubitabile», scrivono infatti il presidente estensore Walter Saresella e i consiglieri Letizia Ferrari da Grado e Elena Grazioli, come i figli di Dalla Chiesa «in età ancora giovane abbiano subìto gravi sofferenze a seguito della tragica perdita del padre, eminente esponente delle istituzioni e ineludibile punto di riferimento e di impegno sociale per tutta la famiglia»; e abbiano patito «l’irreversibile distruzione del sistema di vita basato sull’affettività e sulla condivisione dei rapporti reciproci, sostituiti inconsultamente da vicende mediatiche non ricercate e potenzialmente devastanti». La quantificazione avviene in via equitativa sulla base dell’importo massimo (331.000 euro) previsto dalle tabelle dell’«Osservatorio 2018 sulla giustizia civile di Milano», maggiorato sino a 400.000 a testa (al netto dei 60.000 della vecchia provvisionale) per «l’efferatezza e gravità del crimine, la finalità, la risonanza mediatica, l’ampia fascia temporale richiesta per identificare i colpevoli, i prolungati stati di tensione e pressione emotiva subìti dai figli della vittima».

È salentino l'avvocato che ha ribaltato le sorti del processo Dalla Chiesa. Giuseppe Fornari, 52 anni di Lecce, non è solo è il legale di Nando, Rita e Simona Dalla Chiesa, figli del generale ucciso dalla mafia. Fabiana Pacella il 29 Novembre 2019 su La Gazzetta del mezzogiorno. È salentino l’avvocato che ha sparigliato le carte del delicato processo culminato in appello, dopo 37 anni, col riconoscimento dello status di vittime innocenti di mafia ai i figli del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Giuseppe Fornari, 52 anni di Lecce, non è solo è il legale di Nando, Rita e Simona Dalla Chiesa. “Mi lega a loro un’amicizia profonda e la condivisione di valori e battaglie per la legalità - spiega il professionista -, che ci hanno portato sempre a stare dalla stessa parte, quella della giustizia. In tutti questi anni ai figli del generale è toccato difenderne la memoria, in un Paese in cui talvolta ci si diverte a manipolare la realtà e crearne altre parallele e fantasiose, delegittimando e isolando. Ancora oggi combattono per raccontare il vero Dalla Chiesa, l’uomo dello Stato migliore, la figura rimasta nel cuore del popolo, cara all’Arma che lo ricorda in migliaia di foto appese ai muri di ogni caserma”. La II Corte d’Appello civile di Milano ha ribaltato la sentenza di primo grado con cui si sosteneva che l’azione per il risarcimento dei danni non patrimoniali spettante ai figli del generale assassinato da Cosa Nostra a Palermo nell’82, fosse esperibile solo nei confronti del boss condannato Calogero Ganci, nullatenente ça va sans dire, e non anche verso lo Stato con accesso al Fondo di Rotazione. Il Viminale ora dovrà ora risarcire per 400mila euro a testa, più gli interessi maturati dall’82 a oggi, i tre aventi diritto. Il primo intoppo si giocò sul terreno scivoloso dei tecnicismi e nacque sul nome, del fondo. Nel ’99 fu infatti istituito con apposita legge come “Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso”. Tra i primi risarcimenti, accolto dal dissenso del movimento antimafia, quello alla figlia di Salvo Lima, accusato di essere referente politico di Cosa Nostra. “Si innescò una battaglia – spiega Fornari – per il cambio di denominazione in “Fondo di solidarietà per le vittime innocenti di mafia”, per sottolineare il ruolo e il sacrificio di chi la mafia l’aveva combattuta, come Dalla Chiesa. E così anche i suoi figli, costretti ad una prova più grande di loro, e alle conseguenze di una vicenda lacerante, dovevano essere riconosciuti vittime. Eppure, con una sentenza curiosa e un appiglio sbagliato l’istanza dei miei assistiti fu respinta, in primo grado”. Poi la vittoria di queste ore, che non è “economica ma morale”. Anche se un po’ d’amaro resta. Sullo sfondo come nell’anima. Da un lato per una pagina di storia fosca e dolorosa per l’Italia intera. Dall’altro “per il ruolo che lo Stato, attraverso certa politica di casa nostra, non ha mai riconosciuto a Nando dalla Chiesa, risorsa importante per lo studio e il contrasto alle mafie, voce importante nel mondo, ma non valorizzato in Italia. È come se la storia peggiore si ripetesse”. Oltre la toga il cuore. Anzi, prima quello, a far due conti. Quanto ci sia di salentino nelle arringhe di Giuseppe “Gippo” Fornari, 35 anni a Milano e centinaia di corse al fulmicotone per un saluto a Lecce a papà Giancarlo e mamma Marcella e un pasto caldo da dividere con loro, è presto detto: “ai miei ragazzi a studio dico sempre che alle capacità tecniche occorre aggiungere pathos, cuore, coinvolgimento. E questo è il bagaglio che mi sono portato da casa, da leccese, da salentino, da meridionale”.

Non è l'Arena, Rita Dalla Chiesa commuove lo studio: "Mio padre mi disse "la prima corona che arriva al mio funerale è del mandante", arrivò dalla Regione Sicilia". Libero Quotidiano il 28 settembre 2020. Rita Dalla Chiesa commuove lo studio di Non è l'Arena, il programma di La7 condotto da Massimo Giletti. La puntata, la prima della stagione, è quella di domenica 27 settembre. "Mio padre mi aveva detto la prima corona che arriva al mio funerale è del mandante, la corona che arrivò era della Regione Sicilia", esordisce la figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso nel 1982 dalla mafia assieme alla moglie Emanuela Setti Carraro. "La prima cosa che feci - a quel punto - fu quella di prendere la corona sulla tomba e buttarla fuori". Poi la Dalla Chiesa ricorda di aver chiesto a un ufficiale dei carabinieri di prendere il tricolore, la sciabola e la sciarpa e soprattutto il suo berretto di generale, perché - conclude la Dalla Chiesa - "è così che voglio venga sepolto". 

Roma, Rita Dalla Chiesa: «Mio padre scomodo da vivo, e anche da morto». La figlia del generale Carlo Alberto, conduttrice televisiva, parla all’indomani della decisione di risarcire lei e i due fratelli con 400mila euro a testa per la strage del 1982. Virginia Piccolillo il 29 novembre 2019 su Il Corriere della Sera.

«Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è stato scomodo da vivo, scomodo quando è stato ucciso ed evidentemente è scomodo anche da morto».

Rita Dalla Chiesa, il Viminale — come anticipato dal «Corriere» — è stato condannato a risarcire lei e i suoi fratelli per la morte di suo padre, al pari delle altre vittime di mafia, ma lei sembra più amareggiata che soddisfatta. Perché?

Lo Stato si è dimenticato di noi».

Come è potuto accadere?

«Quando ti viene ucciso un padre, in quel modo, tenti solo di sopravvivere all’immane dolore e l’ultima cosa a cui pensi è il denaro. Quindi non abbiamo certamente chiesto se ci spettasse qualcosa. Ma in quell’elenco noi dovevamo esserci».

Invece?

«Scoprimmo che esisteva quel fondo perché ne fece richiesta la figlia di Lima. L’avvocato presentò la richiesta ma venne respinta perché, dissero, era passato troppo tempo. Ma l’omicidio del generale Dalla Chiesa non può essere prescritto!».

Chi bocciò la richiesta?

«Non lo so. Vorrei conoscerli. Un giovane carabiniere giorni fa mi ha detto: “Io indosso questa divisa per suo padre”. Nelle piazze, nelle scuole, ovunque vada sento ancora che lui è un simbolo. La gente non ha dimenticato. Noi allo Stato abbiamo chiesto solo giustizia è verità».

E l’avete avute?

«No. C’è una grossa ombra che incombe sulla sua morte. Non mi bastano i nomi di chi ha sparato. Voglio sapere chi, come, quando, perché ha deciso la sua morte. Mio fratello Nando non ha mai smesso di combattere per averla».

Dopo il suo omicidio molti dalle istituzioni vi hanno manifestato affetto.

«Molto apparentemente. I livelli alti no. Quando mio fratello Nando scrisse “Delitto imperfetto” dove faceva nomi e cognomi la Rai non gli aprì mai le porte. Per tutti era una responsabilità troppo grande. L’unico ad ospitarlo fu Maurizio Costanzo. Gli altri non volevano sapere, vedere, ascoltare».

Il capitano Ultimo su Twitter ha pubblicato una sua foto al funerale di suo padre. Cosa ricorda di quel giorno?

«Sì, una foto bellissima, in cui io stringo al petto il berretto di mio padre. Ricordo tutto. Bettino Craxi tornò da Hammamet e si sedette dalla parte della famiglia. Giulio Andreotti non c’era. Unico politico. A inviarlo a Palermo furono Giovanni Spadolini, Virginio Rognoni e lui che gli disse: ‘Mi raccomando non indagare sulle correnti politiche’ (che portavano a lui). Rognoni fu l’unico a chiederci scusa».

Lei ha lavorato a lungo per le tv di Silvio Berlusconi. Che effetto le fa vederlo sotto accusa in inchieste di mafia?

«A lui devo una gratitudine immensa. Un anno dopo la morte di mio padre mi disse: “Di qualunque cosa abbia bisogno, chieda”. Questa cosa mi colpì. Non gli chiesi mai nulla. A Mediaset per Forum mi chiamò Arrigo Levi. E gli ascolti sono sempre stati alti. Ma posso dire che non ho mai subìto pressioni o richieste. Poi, la vita di tutti è un punto interrogativo».

Perché Dalla Chiesa è stato dimenticato? Il Generale di Carabinieri venne ucciso a Palermo 37 anni fa, abbandonato dallo Stato. E oggi la sua figura vive un inspiegabile oblio. Lorenzo Del Boca il 3 settembre 2019 su Panorama. Tre settembre 1982, in via Carini, a Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa venne inchiodato da una scarica di pallettoni di kalashnikov. Per tutti era «il generale dei carabinieri» anche se, da qualche mese, si era congedato per assumere l’incarico di prefetto in quell’angolo di Sicilia dove lo Stato - sembrava - aveva ceduto il passo alle bande dei mafiosi. Già da allora, le cronache risultarono scrupolose fino al dettaglio. Gli orologi segnavano le 21,15; a sparare fu un fucile a pompa AK-47; l’auto della vittima era una A112 e lui viaggiava sul sedile di destra. Da subito, si sostenne che si trattava del «delitto più grave della storia della Repubblica». Ma trascorsa la prima ondata di emozione, accompagnata dalla consueta rissa (abbastanza indecorosa) per appropriarsi del morto e della sua fama, Carlo Alberto Dalla Chiesa è finito sepolto nella categoria dei dimenticati. Ingombrante memoria. Niente a che vedere con le celebrazioni plurime e ripetute - ancorché meritate - che, puntualmente vengono dedicate a Falcone, Borsellino, Chinnici e, genericamente, ai «mortammazzati» della mafia. Persino il ricordo pubblico dei familiari sembrerebbe ingombrante. Mentre i parenti di alcune vittime illustri rappresentano - giustamente - una testimonianza di legalità contro i poteri malavitosi, i Dalla Chiesa sono stati presto ricacciati nella privatezza dello loro rispettive professioni. Eppure, al generale-prefetto non mancava niente per essere celebrato. Si poteva persino sostenere che aveva militato con gli antifascisti della prima ora. Nei giorni dell’armistizio dell’otto settembre 1943, prestava servizio nelle Marche. Collaborò con le bande partigiane al punto da finire nella lista nera dei nazisti. Prima che le SS potessero catturarlo, riuscì a fuggire e a entrare nella brigata «patrioti piceni». Alla fine della guerra, gli conferirono il «distintivo dei volontari della guerra di liberazione». Le tradizioni di famiglia indossavano la divisa dei carabinieri. Generale il padre Romano e generale il fratello Romolo. Carlo Alberto Dalla Chiesa era un militare da capo a piedi ma, al rigore della divisa, aggiungeva l’intelligenza dell’intuito. I suoi metodi non piacevano a tutti (nemmeno all’interno dell’Arma). Non era un ufficiale di routine ma proprio quel suo badare al sodo gli consentì di ottenere risultati significativi. Quando c’era qualche grana da sbrogliare, in un modo o nell’altro, dovevano ricorrere a lui. Nella lotta contro il terrorismo rosso, per esempio. Per anni, larghe particelle dello Stato si sforzarono di minimizzare la portata del fenomeno. Gli uomini che sparavano e uccidevano sarebbero stati parte di «sedicenti brigate rosse» o - ancor più inquietante - «compagni che sbagliano». Sembrò che la rivoluzione violenta fosse non solo legittima ma, addirittura, auspicata con il risultato che le due formazioni eversive in attività nel 1969 diventarono 91 nel 1977 e 269 nel 1979 quando «firmarono» 659 attentati. Le Bierre che, nel progetto originario di Renato Curcio e Alberto Franceschini, si erano poste dei limiti nell’uso delle armi, alzarono il tiro con il dichiarare guerra allo Stato. L’evidenza di questo diverso atteggiamento determinò l’attentato nel corso del quale venne preso prigioniero Aldo Moro, destinato ad essere ucciso e abbandonato nella Renault rossa, a Roma, in via Caetani. Chi poteva fermarli? Per affrontarli venne scelto Carlo Alberto Dalla Chiesa, autoritario, coraggioso, eccellente organizzatore, determinato fino ad apparire testardo, che si circondò di una squadretta di uomini opportunamente selezionati ai quali, per raggiungere lo scopo prefisso, dettò la regola fondamentale: «Per batterli, occorre entrare nella testa dei terroristi nel senso che da adesso dobbiamo pensare come loro». Ci vollero anche migliaia ore di lavoro, intuizioni geniali e un briciolo di fortuna. Non sempre gli organi di stampa e l’opinione pubblica si resero conto immediatamente dell’importanza di certe catture tanto che metà dei dirigenti delle Brigate Rosse finì in carcere senza che le autorità ne avessero esatta consapevolezza. Dalla Chiesa inventò la figura del «pentito» e, promettendo sconti di pena al limite dell’impunità, convinse Patrizio Peci, uno dei colonnelli dell’esercito rivoluzionario, a saltare il fosso e a collaborare con gli inquirenti. Con quello, fu scacco matto. Ovvio che, immaginando un personaggio capace di limitare il potere mafioso che stava dilagando, pensassero a lui. Fu l’allora ministro degli interni Virginio Rognoni a proporgli l’incarico di prefetto con sede a Palermo. Dalla Chiesa accettò solo quando gli assicurarono che sarebbe stato dotato di speciali poteri. Inevitabile il rimando a un altro prefetto «di ferro», Cesare Mori, che una cinquantina d’anni prima, era stato inviato a Palermo con uguale proposito e identiche intenzioni. Carlo Alberto Dalla Chiesa era rimasto vedovo di Dora Fabbo, madre dei suoi tre figli e, quasi in concomitanza con il suo trasferimento a Palermo, si risposò con Emanuela Setti Carraro, una ragazza di 32 anni della buona borghesia milanese, infermiera, una trentina d’anni più giovane di lui. Una volta in Sicilia, Dalla Chiesa dovette prendere atto che i vertici dello Stato non stavano mantenendo alcuna promessa e, di fatto, dal momento della nomina (6 aprile 1982) lo lasciarono solo. Si lamentò: «mi hanno mandato a Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì». Eppure, con il niente che aveva a disposizione, riuscì a impensierire i mafiosi. Collaborando con polizia e carabinieri, riuscì a mettere insieme un documento (passato alle cronache come «il dossier dei 162») nel quale indicava le «famiglie» malavitose della città. Si mosse con la consueta disinvoltura, senza guardare in faccia nessuno e senza badare alle «sensibilità» che andava toccando. Quando, per esempio, dichiarò che «la mafia è forte a Catania anzi da Catania viene alla conquista di Palermo». Azzardò che «con l’evidente consenso della “cupola” palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi lavorano a Palermo». Domandò: «Potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?». Se ne risentirono i cavalieri del lavoro Carmelo Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Geraci e Francesco Finocchiaro titolari, per l’appunto, di imprese di costruzione e l’allora presidente della regione Mario D’Acquisto si sentì in dovere di chiedere una «specificazione» per quelle dichiarazioni. Dalla Chiesa aveva agitato troppo le acque. A fine agosto, una telefonata anonima ai carabinieri (fatta probabilmente dal boss Filippo Marchese) avvertì che «l’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa». Quando il 5 settembre, una seconda telefonata, al giornale La Sicilia, sentenziò «l’operazione Carlo Alberto è conclusa», il generale-prefetto era già stato sepolto. Al funerale una folla immensa digrignò i denti nei confronti dei politici e applaudì soltanto il presidente della Repubblica Sandro Pertini. Un attentato di quella portata poteva essere decretato unicamente dal plenum dei vertici mafiosi. Per l’omicidio Dalla Chiesa, come mandanti, furono condannati all’ergastolo: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Ma per il resto, come rileva la motivazione della sentenza, «persistono ampie zona d’ombra». Dalle carte processuali, sembrerebbe che gli autori materiali del delitto siano stati Pino Greco e Antonino Madonia. Calogero Ganci sarebbe stato al volante della Bmw usata per l’agguato. Ma, periodicamente, spunta un pentito che mette in discussione le ricostruzioni dei magistrati. Un certo Simone Canale, per esempio, affiliato alla cosca Alvaro di Sinopoli (prima), pentito (poi) e ritenuto inaffidabile (infine), rivelò che Nicola Alvaro «’u zoppu» era presente all’omicidio. I fascicoli processuali non possono che dare conto di come «le carte che riguardano il generale Dalla Chiesa rappresentano la certificazione drammatica e autorevole di verità finora negate, nascoste e manipolate». Occorre altro per sostenere che il ricordo è faticoso? E che è meglio dimenticare?  

L'ultima estate calda del generalissimo lasciato solo da tutti. Luca Fazzo, Sabato 10/08/2019, su Il Giornale. Mancavano poche settimane alla sua morte. Nell'agosto 1982 i grilli e le cicale facevano da colonna sonora all'ultima estate di Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale dei carabinieri e prefetto di Palermo. Nella grande casa colonica che il generale aveva voluto comprare e ristrutturare, superando le resistenze della moglie, a Prata di Principato Ultra, sulle colline irpine, si ritrovava la famiglia allargata dell'uomo che aveva sconfitto le Brigate Rosse: le figlie Rita e Simona, il figlio Nando, i nipotini. I ricordi di Nando offrono squarci di serenità: le partite di pallone, le magliette di Italia e Brasile comprate dal nonno. Ma se poi si chiede a Nando «te lo sei goduto, tuo padre, in quell'ultima estate?» la risposta gela il sangue. «No. Fu un estate terribile. Si capiva benissimo che sarebbe finita in quel modo. Lui era disperato e inferocito, un leone in gabbia. Chiamava, chiamava, e nessuno gli rispondeva. Nemmeno De Mita, che abitava a pochi chilometri. Chiedeva appoggi, mezzi, qualunque cosa che lo facesse sentire meno solo nella missione che gli avevano rifilato mandandolo a Palermo. Niente». Le vacanze del figlio di un carabiniere sono le vacanze di un apolide, di un bambino e poi di un ragazzo costretto a seguire gli spostamenti del padre. «Nei cinque anni del liceo cambiammo quattro volte città. Le vacanze le passavamo a prepararci al nuovo trasloco e alla nuova scuola. Papà faceva quel che poteva per ammorbidire l'atterraggio, organizzava gli amici che ci venivano a trovare per farci sentire meno soli. Era un padre molto attento». Invecchiando, come a volte accade, Nando inizia a somigliare a Carlo Alberto. Non ha più i baffi, che si era fatto crescere quando era stato arruolato come ufficiale di complemento nei carabinieri, «e quando andavo a fare ordine pubblico mi davano un po' di autorevolezza». L'ingresso del figlio, anche se solo per la naja, nell'Arma aveva tranquillizzato il colonnello, inquieto come tutti i padri dell'epoca sulle tentazioni cui il vento di ribellione di quegli anni esponeva il figlio. «Ma quando a diciott'anni volli andare a vivere da solo a Milano per iscrivermi alla Bocconi, lui, con stupore dei miei amici, aveva detto di sì. Unica condizione: non farti crescere la barba». L'inizio e la fine, nelle vacanze dei Dalla Chiesa, hanno luoghi precisi: Mondello, la spiaggia di Palermo; e, venticinque anni dopo, la casa di Prata, «con le sue incredibili notti stellate e i due carabinieri della scorta che dormivano al pian terreno». A Palermo, Nando e le sue sorelle scendevano da Milano appena finita la scuola, «accompagnati dall'attendente di mio padre, che era siciliano. A Palermo c'era il nonno materno, Ferdinando Fabbo, anche lui ufficiale dell'Arma, che dopo il congedo era rimasto a vivere in Sicilia dove una figlia si era sposata. Per mio padre e mia madre, la vacanza vera forse erano i giorni in cui restavano a Milano, senza doversi più occupare di noi. Poi, a Ferragosto, anche i miei genitori scendevano. Il primo ricordo di papà in vacanza è lì, sulla spiaggia di Mondello. Nuotare gli piaceva, ma non ricordo di averlo mai visto in costume. Un ufficiale dei carabinieri, all'epoca, non andava in giro in mutande da bagno». Fu in quelle estati palermitane che il figlio imparò dal padre cos'era la mafia. «Mi accompagnava a vedere i villini di viale della Libertà che venivano fatti saltare uno dopo l'altro con l'esplosivo per fare largo al sacco di Palermo. Mi indicava le auto posteggiate che venivano distrutte per convincere i proprietari a usare i garage di proprietà dei clan: non era solo per i soldi, serviva a controllare il territorio, sapere chi andava e veniva». Al nord, durante l'anno, era l'epoca in cui Dalla Chiesa scalava i gradi. Il terrorismo era ancora di là da venire, la famiglia abitava nella caserma milanese di via Moscova. Nando giocava a pallone nell'oratorio di Sant'Angelo, e il padre ogni tanto andava a guardarlo di soppiatto. «Il calcio era una sua grande passione, da ragazzo aveva anche giocato nelle giovanili dell'Atalanta, poi si era rotto una gamba e aveva dovuto smettere. Essendo l'unico figlio maschio, ero il suo complice predestinato per andare alla partita. Si andava all'Arena, dove si giocava in notturna, e mi ricordo il Santos di Pelè, questo gioco fantastico di palloni alti. Io ero milanista. Ma nel pieno di una epidemia di influenza si giocò un Milan-Atalanta. L'Atalanta era decimata, chiese di rinviare la partita, il Milan si oppose, giocò, e ovviamente vinse 5 a 1. Mio padre era scandalizzato. Mi costrinse a diventare interista». Il rito delle vacanze siciliane, in quegli anni si interrompe una volta sola. «Nel 1961 mio nonno Ferdinando, che aveva fatto entrambe le guerre mondiali, volle portare la famiglia sui luoghi della Grande Guerra nel centenario dell'Unità d'Italia. Andammo dove il nonno aveva combattuto, sul Piave, sull'Isonzo. Fu un viaggio lungo e carico di emozioni, per noi e soprattutto per papà, che nei confronti del nonno e del suo vissuto aveva una sorta di devozione». Il sogno della casa di Prata prende forma negli anni di fuoco del terrorismo, gli stessi in cui Dalla Chiesa fonda il reparto speciale che sgominerà il nucleo storico delle Br. Il generale è nel mirino, i suoi colleghi vengono ammazzati uno dopo l'altro. Proprio per quello nasce in Dalla Chiesa il bisogno di un luogo dell'anima, un ritiro dove tirare il fiato: e sceglie a Prata, che era il paese di suo suocero, il rudere che diventerà Villa Dora. «La vacanza vera per lui non era il mare, non era la montagna dove in quegli anni non mettemmo piede una volta. La sua vacanza era la campagna, perché suo nonno era di Fornovo, nel Parmense, e con i fratelli le estati le passavano lì, tra birichinate e giochi nei boschi. Questo clima lo aveva cercato di ricreare a Prata. La felicità per lui erano delle famiglie di amici che si trovano, mangiano, parlano tra di loro mentre i bambini scorrazzano in giro». Ma l'estate del 1982 non fu un'estate felice. «Addosso c'era quella sensazione di tragedia incombente. Per tenerci su pensavamo: non possono ammazzarlo davvero, sarebbe troppo scoperto, troppo firmato. Ci sbagliavamo. Il 20 agosto papà scese a Palermo a commemorare il colonnello Russo, che era stato ucciso cinque anni prima alla Ficuzza, e subito infangato in ogni modo. Papà ritornò dalla cerimonia e disse: mi sono impappinato. Il 26 agosto ci salutammo, il 3 settembre uccisero lui ed Emanuela. Lo stesso giorno era uscito il Mondo con una intervista al sottosegretario all'Interno che diceva: Dalla Chiesa? Un prefetto come gli altri». Luca Fazzo

I nemici del generale dalla Chiesa. Non soltanto terroristi e mafiosi. «Dalla Chiesa» (prefazione di Aldo Cazzullo, Mondadori, pagine 324, euro 20). La biografia di Andrea Galli (pubblicata da Mondadori) ripercorre le vicende che portarono all’omicidio del 1982. C’è un vuoto di verità che va colmato, scrive Giovanni Bianconi il 28 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa (1920-1982), assassinato a Palermo da Cosa nostra. Si respira un’atmosfera da Giorno della civetta, quando un giovane capitano dei carabinieri sbarcato a Corleone il 3 settembre 1949 fa emergere a fatica i contorni di un misterioso delitto, nonostante latitanze e assoluzioni a protezione dei colpevoli. E non si fa scrupolo di denunciare le interferenze dei politici che «cercano di sopraffarsi affinché l’uno tragga vantaggi a scopi elettorali a danno dell’altro». Quel capitano — non il Bellodi creato da Leonardo Sciascia, ma l’ufficiale dell’Arma in carne e ossa Carlo Alberto dalla Chiesa — ha toccato con mano la mafia e gli intrecci che la proteggono, e sembrano inseguirlo fino a Milano, dove nella prima metà degli anni Sessanta si trova a indagare sulle propaggini lombarde della guerra fra cosche che ha rotto gli equilibri tra gli «uomini d’onore», con tanto di omicidi in trasferta. Poi dalla Chiesa, divenuto colonnello, torna sull’isola per comandare la Legione della Sicilia occidentale, ed eccolo alle prese con inchieste sui funzionari regionali legati a Cosa nostra, anticamera dei rapporti tra mafia e pubblica amministrazione; e con le calunnie di un Corvo ante litteram, impegnato a spargere veleni contro il comandante che con la sua fissazione per il rispetto delle regole rischia di mettere in pericolo il quieto vivere sul quale i boss hanno costruito il loro potere. Se ne andrà ma tornerà ancora, il carabiniere promosso generale e infine prefetto di Palermo, incaricato di guidare una battaglia che non farà in tempo neppure a cominciare: la mafia chiude i conti ammazzandolo a colpi di kalashnikov, insieme alla giovane moglie e all’inerme guardia del corpo. Era il 3 settembre 1982, trentatré anni dopo il primo incarico a Corleone. E stavolta non c’è lo sfondo arido e assolato da Giorno della civetta, bensì la determinazione cupa e sanguinaria de Il padrino. Tutto questo e molto altro, insieme alla sintesi di un lungo tratto di storia criminale e politica d’Italia, affiora dalle pagine in cui Andrea Galli ha ricostruito la vicenda del «generale dei carabinieri che sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia» (Dalla Chiesa, Mondadori, con prefazione di Aldo Cazzullo). Una parabola che comincia e finisce in Sicilia, ma in mezzo attraversa la lunga e drammatica parentesi della lotta armata, contro la quale lo Stato schierò dalla Chiesa due volte: prima agli albori delle Brigate rosse e poi, dopo l’inspiegabile scioglimento del suo Nucleo speciale, all’indomani del sequestro Moro. Il racconto di Galli, ricco di dettagli, suggestioni e episodi inediti o poco conosciuti, aiuta a ricordare che il capitolo più tragico del terrorismo rosso si apre e si chiude con le indagini di dalla Chiesa e dei suoi carabinieri, che tra il 1974 e il 1975 quasi arrivano a smantellare le Brigate rosse e in seguito, fra il 1978 e il 1981, avviano il percorso investigativo che porterà alla loro definitiva sconfitta. Un metodo innovativo più che una struttura organizzata, grazie al quale gli uomini del generale (un manipolo di fedelissimi selezionati e votati alla causa) riescono a infiltrare le bande armate e gli ambienti nei quali reclutano militanti, studiandone abitudini e obiettivi per anticiparne le mosse e riuscire a neutralizzarle. Fino al decisivo aiuto fornito dai terroristi «pentiti», primo fra tutti quel Patrizio Peci che proprio con dalla Chiesa decide di saltare la barricata e passare dall’altra parte. I successi del generale e del suo modo di lavorare — accompagnati dalle perplessità mai nascoste nei confronti di uno Stato che non sembra reagire compatto alla sfida del terrorismo rosso, e soprattutto non usa la stessa determinazione contro l’eversione di marca neofascista — lo trasformano in un obiettivo per i suoi avversari sul «campo di battaglia», ma determinano inquietanti preoccupazioni anche all’interno delle istituzioni, nonché gelosie e attenzioni poco benevole dentro l’Arma. Un quadro poco limpido, nel quale s’inserisce il ritrovamento del suo nome nell’elenco degli iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli, che accompagna la nomina di dalla Chiesa a vice-comandante dell’Arma e poco dopo, nella primavera del 1982, a prefetto di Palermo, chiamato a contrastare l’emergenza della mafia che ha sferrato un attacco senza precedenti alle istituzioni, con una raffica di «omicidi eccellenti». Lui accetta anche per provare a sfuggire all’isolamento nel quale si sente confinato con il precedente incarico «privo di contenuti», come scrive lui stesso. Pur nella consapevolezza di essere strumentalizzato: «Mi sono trovato al centro di uno Stato che usa il mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti e non ha nessuna volontà di debellare la mafia», pronto a «buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati e compressi», annota nel diario. Al generale promosso prefetto non viene concesso il tempo di verificare la sua amara profezia. I killer mafiosi entrano in azione su ordine di Totò Riina e della Cupola prima ancora che dalla Chiesa possa cominciare a incidere su quegli interessi. Un particolare che ha pesato e continua a pesare sul reale movente del delitto, come avevano già sentenziato Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri giudici istruttori del maxi-processo a Cosa nostra: «Persistono zone d’ombra sia nelle modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia (praticamente da solo e senza mezzi) a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia nella consistenza di specifici interessi, anche all’interno delle istituzioni, volti all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale». A trentacinque anni di distanza dall’omicidio, il libro di Andrea Galli aiuta a riempire, almeno parzialmente, quel vuoto di verità.

PARLIAMO DEL GEN. C.A. CARLO ALBERTO DALLA CHIESA.

Nota Biografica dal sito dei carabinieri.it

Saluzzo, cittadina sabauda e piemontese sino al midollo, lo vede nascere il 27 settembre 1920. E' un figlio d'arte: il papà ufficiale dei Carabinieri (Romano), il fratello pure (Romolo). Il primo contatto con la vita militare è la dura guerra nel Montenegro come sottotenente nel 1941. Un anno dopo passa ai Carabinieri e viene assegnato alla tenenza di San Benedetto del Tronto dove resta fino al fatidico 8 settembre 1943. Passa nella provincia di Ascoli Piceno e un bel giorno viene affrontato da un partigiano comunista. I partigiani della zona temevano che lui fosse responsabile del blocco dei rifornimenti di armi che gli alleati di tanto in tanto riuscivano a spedire via mare. Alla domanda "Lei con chi sta, tenente, con l'Italia o la Germania?", Dalla Chiesa risponde offrendo la sua collaborazione e per un certo periodo le cose filano a meraviglia. Poi, purtroppo qualcuno fa la spia e per Dalla Chiesa è meglio cambiare aria e darsi alla macchia insieme agli altri patrioti: diventa un responsabile delle trasmissioni radio clandestine di informazioni per gli americani. La guerra si chiude per lui con una promozione e due croci al merito di guerra, tre campagne di guerra, una medaglia di benemerenza per i volontari della II GM, il distintivo della guerra di liberazione ed una laurea in giurisprudenza conseguita a Bari. In quella stessa università prenderà più tardi la laurea in scienze politiche. La Sicilia che lo vede arrivare giovane capitano è immersa nel regno di terrore della mafia agraria, quella di Don Calò Vizzini, di Genco Russo e di Luciano Leggio. E' una mafia che poi verrà rievocata con nostalgia quando emergeranno nuovi e ferocissimi boss, ma in realtà era solo più arcaica, non meno spietata. Cosa Nostra ha stretto un patto di ferro con i più retrivi latifondisti che temono le lotte e le rivendicazioni contadine guidate dai sindacalisti comunisti e socialisti.

Nei covi di Corleone. Per Lucianeddu Leggio (più conosciuto come Liggio), il segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto rappresenta una spina nel fianco. Parla troppo, protesta troppo, intralcia troppo. Rizzotto, un semplice bracciante, cresciuto tra le insidie di una mafia occhiuta ed oppressiva, è un tipo prudente e cauto che non manca di prendere le sue precauzioni. Leggio affida il compito ai suoi giovani cagnazzi, "Binnu" e "Totò u' curtu". Calogero Bagarella, Bernardo Provenzano e Totò Riina sono picciotti fedelissimi, aggressivi, spavaldi, che si mostrano in paese arrancando con il caratteristico incedere mafioso. Sono furbi e si rendono conto che bisogna prendere Rizzotto per tradimento.

Un giuda si trova. Il 10 marzo 1948 il sindacalista viene caricato su una macchina, portato in luogo sicuro, torturato e suppliziato. Il suo cadavere viene gettato in una forra Lo trovano molto tempo dopo e riconoscono i resti da uno scarpone. Dalla Chiesa è chiamato dal colonnello Ugo Luca nel nuovissimo CFRB (Comando Forze Repressione Banditismo), che ha la missione di farla finita con Salvatore Giuliano, il re di Montelepre. A lui viene affidato il comando del gruppo squadriglie, basato a Corleone. Qui il piemontese ha primo impatto con questo tortuoso ambiente. E' un ufficiale abile, duro, inflessibile, gran lavoratore, non meno paziente dei suoi avversari corleonesi. A dispetto dell'omertà e della paura estremamente diffuse riesce insieme ai suoi colleghi a inchiodare tutti gli assassini di Rizzotto e a spedirli sotto processo, incluso Leggio.

Vittoria di Pirro. Il processo si conclude con una serie di assoluzioni per insufficienza di prove. Il giovane capitano viene opportunamente trasferito. Premio, siluramento, precauzione? Chissà. La Sicilia gli è rimasta dentro al cuore. Da ufficiale superiore è aiutante maggiore della legione e capo ufficio OAIO (Ordinamento Addestramento Informazioni Operazioni) della IV brigata di Roma e della legione di Torino. Poi regge i comandi del nucleo di polizia giudiziaria e del gruppo di Milano.

A caccia di battesimi e nozze. Negli anni Sessanta Carlo Alberto torna nell'isola del suo destino e per oltre 7 anni gli viene affidato come colonnello il Comando della Legione di Palermo (1966-1973). Qualcosa dallo scacco di quindici anni fa l'ha imparata. Bisogna conoscere a fondo la situazione e raccogliere quante più prove possibili, facendo i conti con la realtà del posto. Cosa Nostra non è stata con le mani in mano e si è adeguata rapidamente ai tempi nuovi. Ha progressivamente spostato i suoi interessi dal settore dell'agricoltura in cui aveva operato per oltre un secolo, a quelli industriale e commerciale, specialmente nel campo dell'edilizia e dei lavori pubblici. I tradizionali rapporti di "strusciamento con il potere" si rafforzano specialmente con le istituzioni amministrative e politiche in modo da influire sulle direttrici di sviluppo edilizio delle città, sull'ubicazione delle opere pubbliche, sulle destinazioni dei finanziamenti, sugli appalti. Lo scambio è sempre lo stesso: appoggio politico contro concessioni illegali di licenze e appalti. Il risultato è che gradualmente una serie di politici aiutano l'espandersi delle attività economiche mafiose, quando i rappresentanti mafiosi non sono direttamente inseriti nel tessuto politico ed amministrativo. Alla base dell'organizzazione c'è la "famiglia", rigidamente ancorata al territorio. In essa ci sono gli uomini d'onore o soldati, comandati dai capidecina, guidati da un capo famiglia o rappresentante coadiuvato da un vice e da uno o più consiglieri. Più famiglie sono rette dai capi mandamento che siedono nella cupola o commissione provinciale. Una struttura del genere è difficile da infiltrare, ma qualcosa si può sempre sapere ed è possibile conoscere la struttura attraverso il legame della famiglia. Sentiamo cosa diceva Dalla Chiesa alla commissione antimafia del 1962.

"Onorevole presidente, scoprirli [i capi mafiosi] non è difficile, in quanto i nomi sono sulle bocche di molti. (...) Vorrei mostrare (...) una scheda, che io ho preparato per la mia legione, per tutti i miei collaboratori, dedicata proprio ai mafiosi o indiziati tali.(...) attraverso le parentele e i comparati, che valgono più delle parentele, si può avere una visione organica della famiglia, della genealogia, più che un'anagrafe dei mafiosi. Quest'ultima è limitata al personaggio; la genealogia di ciascun mafioso ci porta invece a stabilire chi ha sposato il figlio del mafioso, con chi si è imparentato, chi ha tenuto a battesimo, chi lo ha avuto come compare di matrimonio; e tutto questo è mafia, è propaggine mafiosa (...) ... è molto più efficace seguire i mafiosi così, cioè non attraverso la scheda solita del ministero dell'Interno, ma da vicino, attraverso i figli, attraverso i coniugi dei figli, attraverso le provenienze, le zone dalle quali provengono, perché anche le zone d'influenza hanno la loro importanza".

Non è una trovata trascendentale, ma è il metodo e la costanza con cui ci si applica che danno i risultati. Nel 1966 un vero e proprio censimento degli uomini d'onore è stato finalmente realizzato e si conclude con l'arresto di 76 boss. Gente come Frank Coppola (Frank Tre dita) e Gerlando Alberti vengono arrestati e spediti al soggiorno obbligato.

Il trionfo sulle Brigate rosse. All'epoca Dalla Chiesa credeva moltissimo al soggiorno obbligato, più tardi si accorgerà che era a doppio taglio: allontanava i boss dalle loro zone e favoriva l'estendersi della piovra altrove. Poi i processi vanificheranno di nuovo la sua opera e un Dalla Chiesa più disilluso dichiarerà alla commissione antimafia riunita il 4 novembre 1970: "Siamo senza unghie, ecco; francamente, di fronte a questi personaggi, mentre nell'indagine normale, nella delinquenza, possiamo far fronte e abbiamo ottenuto anche dei risultati di rilievo, nei confronti del mafioso in quanto tale, in quanto inquadrato in un contesto particolare, è difficile per noi raggiungere le prove...".

Non c'è però tempo per i rimpianti. La lotta al terrorismo coinvolge presto Dalla Chiesa, ormai promosso generale. Dall'ottobre 1973 al marzo 1977 comanda la Brigata di Torino. Poi nel maggio 1977 assume l'incarico di coordinamento del servizio di sicurezza degli istituti di prevenzione e pena. Prima del suo arrivo le evasioni spettacolari avevano insinuato il sospetto che nelle carceri si potesse fare di tutto. Dopo la "cura" del generale vengono fuori le cosiddette supercarceri dalle quali la fuga è praticamente impossibile. Si tratta di un duro colpo sia per i terroristi che per i mafiosi, come ben sa Totò Riina finito proprio in uno di questi istituti di massima sicurezza. Successivamente (settembre 1978) assume anche le funzioni di coordinamento e di cooperazione tra Forze di Polizia nella lotta al terrorismo. Dallas, come lo soprannominano affettuosamente i suoi con una contrazione, è sempre un militare tutto d'un pezzo. Gira senza scorta perché crede che un ufficiale, all'assalto, non ci va con la scorta, ma sa benissimo coprirsi le spalle dalle insidie dei palazzi romani. Quando riceve i pieni poteri per la lotta alle Brigate Rosse una stampa faziosa lo dipinge come un futuro uomo forte della scena politica italiana. Lui non si muove prima di una discreta e attenta gestione delle pubbliche relazioni, che gli garantisce un segnale di via libera anche da parte delle opposizioni. Solo allora attua la sua controguerriglia urbana, conseguendo prestigiosi successi, celebrati dalla stampa nazionale ed internazionale, arrestando i capi storici delle Brigate Rosse e contribuendo validamente a debellare il fenomeno in Italia. "I nostri reparti dovevano vivere la stessa vita clandestina delle Brigate Rosse. Nessun uomo fece mai capo alle caserme: vennero affittati in modo poco ortodosso gli appartamenti di cui avevamo bisogno, usammo auto con targhe false, telefoni intestati a utenti fantasma, settori logistici ed operativi distanti tra loro. I nostri successi costarono allo Stato meno di 10 milioni al mese". Dal dicembre 1979 al dicembre 1981 comanda la prestigiosa Divisione Pastrengo a Milano per poi arrivare nel 1982 alla massima carica per un carabiniere: vice Comandante Generale dell'Arma. Con le promozioni arrivano altre decorazioni: croce d'oro per anzianità di servizio, medaglia d'oro di lungo comando, distintivo di ferita in servizio, una Medaglia d'Argento al Valor Militare, una di Bronzo al Valor Civile, 38 encomi solenni, una medaglia mauriziana. Al suo fianco compare, dopo la morte dell'amatissima moglie Dora Fabbo, una seconda moglie giovanissima e decisa: Emanuela Setti-Carraro. E' un periodo durissimo, però il futuro sembra sorridergli.

La grande guerra di mafia. Alla nomina a Prefetto di Palermo il ministro degli Interni, Virginio Rognoni, comincia a pensarci poco prima delle festività natalizie del 1981. L'escalation mafiosa è fortissima e l'austero generale sembra la persona giusta per arrestarla. Ne parla prima con l'allora presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, poi con i segretari dei cinque partiti di maggioranza ed infine sonda gli umori delle forze di opposizione. Da tutti un aperto consenso e nel marzo 1982, Rognoni, comunica a Dalla Chiesa la nuova nomina. Dallas non esita a manifestare perplessità, ma suadente Rognoni gli dice: "Caro generale, lei va a Palermo non come Prefetto ordinario ma con il compito di coordinare tutte le informazioni sull'universo mafioso". Il Ministro conta di dargli tutti i poteri in vigore per il suo compito; il generale, che sa quanto sia vana la parola "coordinamento", vuole poteri reali, uomini, mezzi e fondi (saranno concessi solo al suo successore). A maggio 1981, giunto a Villa Whitaker, trova una situazione pesante perché è scoppiata una gran guerra tra le cosche. Il conflitto si scatena a causa di un progetto, ideato da Don Stefano Bontade e Totò Inzerillo (il principe di Villagrazia), che prevedeva la creazione di una nuova Las Vegas ad Atlantic City. Il guadagno netto stimato si aggira intorno ai 130 miliardi di lire all'anno. La raccolta dei fondi per l'operazione si rivela un successo, ma un controllo dei contabili di Cosa Nostra scopre un ammanco di 20 miliardi. Nell'estate in cui c'è Dalla Chiesa a Palermo ci sono 52 morti e 20 lupare bianche.

Poi arriva la morte. Nella lotta a Cosa Nostra la morte è una costante con cui occorre fare sempre i conti. "Purtroppo in questa difficile battaglia gli errori si pagano. Quello che per noi è una professione, per gli uomini di Cosa Nostra è questione di vita o di morte: se i mafiosi commettono degli errori, li pagano; se li commettiamo noi, ce li fanno pagare. (...) Da tutto questo bisogna trarre una lezione. Chi rappresenta l'autorità dello Stato in territorio nemico, ha il dovere di essere invulnerabile. Almeno nei limiti della prevedibilità e della fattibilità". Sono parole del giudice Falcone, tuttora attuali e vere, anche se talvolta Cosa Nostra si è dimostrata più abile e forte: di Chinnici, di Borsellino, dello stesso Falcone. Gli uomini d'onore sanno benissimo di non essere invulnerabili e di doversi proteggere oltre la paranoia. Dalla Chiesa, seguito da cento occhi, ascoltato da cento orecchie, è immerso nei veleni di Palermo e circondato da molti onorevoli e notabili che mal nascondono una viva preoccupazione.

Operazione Carlo Alberto. Significativo uno scambio di battute a distanza sui giornali. Dalla Chiesa: "C'è una crescita della mafia, che va radicandosi anche come realtà politico-malavitosa". Martellucci: "Io ho la vista acuta, eppure non ho mai visto la mafia". Dalla Chiesa, alla commemorazione del Colonnello dei Carabinieri Russo ucciso dalla mafia: "Aveva tutti e cinque i sensi sviluppati, ma la mafia l'ha ammazzato". Il prefetto di Catania: "La mafia, qui da noi, non esiste". Il generale capisce che deve muoversi in fretta, prima che sia troppo tardi. Il primo giorno da Prefetto a Palermo si fa portare a Villa Whitaker da un tassista. Altre volte si fa vedere a sorpresa tra la gente, incontra gli allievi dei licei, gli operai nei cantieri. Vuole scuotere la paura e suscitare il consenso. Non si fa illusioni: "Certamente non sono venuto per sgominare la mafia, perché il fenomeno mafioso non lo si può sgominare in una battaglia campale, in una guerra lampo, un cosiddetto Blitz. Però vorrei riuscire a contenerlo, per poi sgominarlo". Infatti non rinuncia alla richiesta di poteri e mezzi. Quanto ai poteri, l'articolo 31 dello Statuto regionale della Sicilia sancisce che le Forze di Polizia sono sottoposte disciplinarmente, per l'impiego e l'utilizzo, al governo regionale. Come dire che se c'è un governo regionale mafioso, esso ha legalmente più potere del rappresentante dello Stato. Dalla Chiesa chiede fatti e poteri veri, ma a Roma si è restii a conferirgli poteri più significativi di quelli del ministro degli Interni. Anche così, tuttavia, Dalla Chiesa agisce. In due successivi blitz, interrompe con 10 arresti il summit dei vincitori corleonesi a Villagrazia, mentre in via Messina Marine scopre una raffineria di eroina con una produzione di 50 chilogrammi a settimana. Nel giugno 1982 invia il rapporto dei 162, una vera mappa del crimine organizzato. Al vertice ci sono i Greco di Ciaculli, con attività a Tangeri e in Sud America. Insieme ad essi i Corleonesi, il clan di Corso dei Mille. I perdenti Inzerillo, Badalamenti, Bontade, Buscetta sono stati invece massacrati. Per 20 giorni i magistrati tacciono poi spiccano 87 mandati di cattura e 18 arresti, ma restano latitanti una ventina dei più grossi tra cui Michele Greco, il Papa, braccio violento di suo zio Totò Greco detto l'ingegnere. Poi segue un rapporto della Guardia di Finanza sul mondo delle false fatture e dei contributi pubblici finiti nelle tasche di noti esponenti di Palermo e Catania. Inoltre il generale rispolvera l'efficace arma delle indagini su comparati, parentele e amicizie: avvia un'indagine sui registri di battesimo e nozze per vedere quali politici abbiano presenziato a eventi di famiglie mafiose. Riesamina anche vecchie voci di pranzi di ex-ministri con potenti boss e, con dodici agenti della Guardia di Finanza, fa setacciare ben 3.000 patrimoni. Cosa Nostra decide che è il momento di risolvere il problema. Il 3 settembre 1982 trenta pallottole di Kalashnikov falciano Dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti-Carraro mentre un altro killer liquida l'agente di scorta, Domenico Russo. Lui tenta di proteggere la moglie col suo corpo, ma il killer spara prima a lei.

Epilogo. Al funerale ci sono molte grida in favore della pena di morte. Solo Pertini ha potuto raggiungere indisturbato la sua auto mentre altre personalità sono state circondate, spintonate e colpite con monetine. Il 5 settembre arriva una telefonata anonima al quotidiano La Sicilia: "L'operazione Carlo Alberto è conclusa". Il Generale Dalla Chiesa siede tra gli eroi che l'Arma dei Carabinieri ha donato al Paese ed al Popolo italiano, ed anche quando si affievolisce il ricordo di lontani eroismi, resta indelebile la nuda, spartana virtù del dovere compiuto in nome di una società civile.

GENERALE PERCHE’ SI PENTE UN TERRORISTA?

E una delle tante domande poste da Enzo Biagi alle quali ha risposto l’alto ufficiale durante l’incontro avvenuto negli studi di Telemond e che sarà trasmesso il 7 marzo 1981 da 23 stazioni televisive. Come combatte le Br? Chi è un mafioso? Perché è stato ucciso Mauro De Mauro? È vero che non si fida dei giudici ? Chi ha contato di più nella sua vita?

Generale Dalla Chiesa, perché un giovane decide di diventare ufficiale dei carabinieri? 

«Perché crede e ha bisogno di continuare a credere.»

C’è qualche altro mestiere che le sarebbe piaciuto fare?

«Da piccolo il tranviere, poi mia madre voleva farmi intraprendere la carriera diplomatica, qualcuno mi suggeriva di fare il direttore d’orchestra.»

Quali sono i fatti che hanno contato di più nella sua vita?

«Almeno un paio: sotto il profilo militare quando ufficiale dell’Arma durante la resistenza, mi trovai alla testa di bande di patrioti e responsabile di intere popolazioni. Sotto il profilo umano, l’incontro con mia moglie.»

E suo padre, è per lei una figura che ha significato qualcosa?

«Certamente, è compreso tra i maestri ai quali mi sono ispirato.» 

Lei è religioso?

«Sì credo in Dio, nell’Immenso, anche se su questa terra forse perché siamo piccini piccini, qualche volta diventa difficile credere.»

È praticante?

«Anche. Nei limiti che posso.»

Ci sono stati momenti nei quali ha avuto paura?

«Sì. Sono stati forse più frequenti di quanto non si pensi: come quando ho dovuto impiegare dei collaboratori, sapendo che andavano a rischiare la vita; come quando sono in ufficio e, sentendo il suono del telefono, guardo il Cristo perché non so mai che cosa può arrivare.»

Paura per sé?

«No, direi più rassegnazione.»

Io l’ho vista girare un giorno in galleria a Milano, ed era, almeno mi pareva, da solo, perché?

«Giro da solo. Non vedo perché se ne meravigli. In definitiva la situazione me lo consente ho la coscienza di poterlo fare, penso che dia nello stesso tempo, a chi mi vede, la tranquillità, la sensazione che tutto è normale.»

Lei ha combattuto contro la mafia. Chi è un mafioso? Facciamo un ritrattino?

«Un mafioso è uno che lucra per avere prestigio e poi goderne in tutti i settori. E chi lucra è pure capace di uccidere. E, prima di uccidere, intendo assassinio anche come morte civile, è anche capace di usare delle espressioni come : “paternamente, affettuosamente ti consiglio…”»

Che cosa le è rimasto dentro di quella esperienza?

«È stata una grande esperienza, una soddisfazione, direi tutta interiore, per avere conosciuto da vicino risvolti, pieghe, di una società, di un mondo del quale è difficile, molto difficile dire “conosco”.»

Perché allora dichiarò “il nostro rapporto alla magistratura non aveva avuto fortuna. Noi tuttavia siamo radicati nella nostra convinzione”, quale convinzione?

«Lei certamente si riferisce alla scomparsa del povero Mauro De Mauro, il giornalista palermitano, quando cioè gli investigatori concentrarono i loro sforzi su due distinte strade di investigazione. Dissi: “Se avesse avuto più fortuna”. Non ricordo a chi lo dissi, ma certamente lo dissi di un nostro rapporto, perché ritengo ancora oggi che molte cose mi diano ragione. Se quel nostro rapporto avesse avuto più fortuna molto probabilmente le stesse vite del dottor Scaglione, Procuratore della Repubblica di Palermo di un bravo funzionario di PS e di un nostro ufficiale dell’Arma, non sarebbero state compromesse, in via definitiva, voglio dire che tra i primi nomi indicati nel rapporto, c’era quello del boss mafioso Gerlando Alberti che, unitamente ad altri troviamo poi nel famoso rapporto dei 114. Quasi tutti arrestati contemporaneamente in ogni parte d’Italia, mentre io ero al comando della Legione di Palermo.» 

Perché è morto Mauro De Mauro, secondo lei?

«Secondo me perché aveva appreso molto sui traffici della droga e si riprometteva di fare uno scoop giornalistico.»

Quante volte lei si è sentito sconfitto?

«Quando avevo ragione e ho dovuto sacrificarla.»

Dicono che le sue inchieste sono minuziose, precise, che lei si fiderebbe poco dei giudici. A proposito di una sentenza di Genova, lei ha detto “una giustizia che assolve!”

«Se minuzioso è inteso per scrupolo, sta bene. Bisogna essere scrupolosi e bisogna pretendere che lo siano anche gli ufficiali di polizia giudiziaria che lavorano alle tue dipendenze. Per raccogliere una messe di dati, di notizie che aiutino il magistrato e perché egli possa essere confortato laddove deve condannare e anche laddove deve assolvere per insufficienza di prove . Perché quando lo scrupolo si spinge a scartare le circostanze fortuite e esaltare le circostanze sintomatiche, si può sempre arrivare ad una insufficienza di prove. Per quanto riguarda la seconda parte della sua domanda le dirò che io ho sempre considerato la magistratura un altare. Come cittadino posso anche ammettere che il sacerdote sbagli la liturgia. Come comandante di uomini devo sempre considerare le fatiche, le amarezze, i sacrifici e i rischi che hanno affrontato.»

In un discorso, riferendosi alla battaglia che i carabinieri conducono contro il terrorismo, lei ha accennato, riferisco tra virgolette alla lotta con i denti, “alla rabbia del resistere alla gioia di dare, di donare senza chiedere, alla rinuncia per tutta la vita agli affetti più cari”.

«Lei si riferisce al discorso celebrativo che io tenni il 5 giugno scorso in occasione della festa dell’Arma. Lei non deve dimenticare che nei mesi precedenti erano stati barbaramente assassinati il maresciallo Battaglini e il carabiniere Tosa, il tenente colonnello Tuttobene, l’appuntato Casu e che erano stati feriti altrettanto barbaramente il tenente colonnello Ramundo, il maresciallo Bea. Io dopo questi gravissimi fatti non ho avvertito la minima flessione in nessun reparto e tantomeno in quelli più direttamente interessati. Non ho udito neanche un gemito uscire dalle sale operatorie. E ho visto esaltarsi la dignità sulla pelle delle vedove. Io ritengo che fosse doveroso in quella circostanza di fronte ad una prova così virile ed edificante, dare un riconoscimento a quegli uomini.»

Senta generale, lei ha mai incontrato Curcio o altri terroristi?

«Curcio non l’ho mai incontrato. Qualche altro sì.»

Veniamo all’argomento che preme, chi è un terrorista?

Io vorrei azzardare una distinzione iniziale tra terrorista ed eversore. Terrorista può essere anche un caso isolato, un anarchico. Certamente non iscritto in un processo che abbia alle sue spalle un retroterra culturale e davanti una strategia da condurre in porto. L’eversore invece lo vedo inserito non solo in una retroterra, chiamiamolo ideologico, ma anche innestato in una strategia che con la violenza, vuole affrontare, distruggere le istituzioni dello Stato.»

Chi sono i terroristi che ha incontrato?

«Ho conosciuto Peci e Barbone: perché mi hanno mandato a chiamare.»

Sono loro che hanno convocato lei?

«Non è che mi sia fatto convocare, ma la chiamata di Peci è stata certamente un fatto anomalo, un fatto assolutamente nuovo che mi ha spinto a soppesare per alcuni giorni la sua richiesta; poi, dietro alle insistenze…»

Si può fare una specie di radiografia dei terroristi per vedere se si tratta di figli del sottoproletariato, di delusi del ’68 , dei rampolli della borghesia o dei virgulti di una pseudocultura cattolico- marxista?

«Se si dovesse fare quella radiografia che lei chiede piccola o grande che sia verrebbero ad emergere più marcatamente delle ombre per quanto riguarda gli ultimi tre gruppi da lei indicati.»

Lei ha qualche dato, qualche statistica in proposito?

«Posso dire che ho compiuto un’analisi in questo senso, di carattere sociologico, nel periodo in cui fui a capo di quel particolare organismo preposto dal settembre ’68 al dicembre 1979 alla lotta contro il terrorismo.»

In quell’arco di tempo (una quindicina di mesi) vennero arrestati 197 eversori.

«Di questi 197 eversori soltanto 11 risultavano disoccupati. Oltre 70 erano docenti o studenti universitari. Poi c’erano 33 operai, 9 casalinghe, 19 impiegati, 5 laureati…Insomma un’immagine dell’eversione forse un po’ diversa da quella che normalmente uno si fa.»

Il ’68 è stato o no una fabbrica di terroristi ? Sono molti quelli che provengono dal mondo universitario?

«Ritengo che il ’68 non sia stato né una fabbrica né l’unica matrice del terrorismo. E certo però che molti docenti universitari degli anni successivi, sono nati, provenivano dal ’68 e indubbiamente abbiamo avuto dei docenti che hanno insegnato, hanno prodotto compendi imposti  ai loro studenti col consenso anche se tacito, della scala gerarchica. E in quelli si insegnava la guerriglia, si insegnava a rubare e mentre questo accadeva, le aule magna delle università di Stato venivano usate dagli apologeti della forza, della violenza ,per istigare contro le istituzioni dello Stato che concedeva le aule.»

La stampa ha delle responsabilità? Su questo tema?

«Penso di si. Penso di si senza voler fare il polemico a tutti i costi. Penso di si da un punto di vista professionale. Nel senso che, così come un corteo è preceduto da un megafono altrimenti dietro non sentirebbero, altrettanto l’eversore, i gruppi eversivi si propongono di ottenere dalla stampa quella cassa di risonanza che, da soli, per la loro organizzazione logistica e strutturale, non riuscirebbero ad ottenere sull’intero territorio del paese.»

Lei fece accerchiare l’università della Calabria. Ripeterebbe oggi quella operazione ? E quali risultati diede?

«Accerchiare per modo di dire perché se si considera che in poche ore si risolsero 25 perquisizioni che si riferivano all’abitato di Cosenza, all’abitato di Renda e all’intero complesso universitario, io credo che non si possa parlare di accerchiamento. Per quanto riguarda i risultati essi sono ancora al vaglio della magistratura che allora soppesò e diede l’autorizzazione preventiva per quelle 25 perquisizioni. Ripeterei l’operazione se la magistratura confermasse di essere d’accordo.»

Perché il terrorismo è così "italiano"?

«Non è italiano soltanto, perché lo hanno anche altri paesi. Noi aggiungiamo un condimento che è l’emotività: è una specie di droga che ci portiamo dentro, una droga leggera, ma c’è.»

Lei pensa che la centrale, il cervello del terrorismo sia l’estero?

«E’ un argomento che è stato sottoposto a valutazione ben più autorevoli della mia. E quindi mi astengo dal rispondere se non per dire che, quando esistono delle potenze o dei mondi contrapposti sarebbe assurdo pensare che i relativi servizi non siano impegnati nella ricerca di un teatro in cui determinate strategie economico e militare non abbiano da essere raggiunte.»

Si è parlato ad un certo momento e con insistenza del grande vecchio. Lei come lo immagina? 

«Potrebbe anche esistere, però io, con le conoscenze che ho acquisito, non sono in condizioni di farmene oggi un’immagine né di prestarne una a lei.»

C’è una figura misteriosa, inafferrabile: Mario Moretti. Ritiene davvero che sia il capo dell’eversione? E perché non ce la fate a prenderlo?

«È certamente un capo, del fronte esterno, ma oggi condizionato dal fronte interno (che sarebbe il carcerario) e della stessa accidentalità del terreno sul quale muove. Mi auguro che la fortuna qualche volta non l’assista!»

Perché qualcuno si "pente"? Come giudica questo fenomeno che si sta tanto intensificando?

«Ci sono le norme politico-legislative che hanno certamente contribuito molto a rendere più attuale il fenomeno del pentimento. Ma non dobbiamo dimenticare che sotto un profilo psicologico, tutto nacque con la confessione di Patrizio Peci. E ciò che più stupisce, ciò che più emerge in un contesto del genere, è quasi il riaffiorare di valori che sembra siano stati a lungo compromessi, contenuti. Fino a porre le forze dell’ordine - e la stessa giustizia - nelle condizioni di prevenire molti omicidi, molti ferimenti, molte altre rapine. E questo, credo, debba essere valutato nella misura più esatta.»

Lei pensa dunque che Peci abbia parlato per una “crisi di coscienza”?

«Una crisi di coscienza che lo ha visto di fronte ad una valutazione, direi onesta, di quello che in quel momento era la disarticolazione che noi avevamo creato in seno all’organizzazione eversiva.»

Senta generale, dicono che una delle sue qualità più spiccate è il segreto. È vero che neppure i suoi figli conoscono il suo numero di telefono diretto?

«È proprio così.»

E le pesa sapere i rischi che corrono i suoi famigliari?

«Molto.»

Lei crede che i brigatisti che confessano siano sinceri?

«Io non ho motivi né ho avuto motivi per pensare diversamente.»

C’è qualcuno di quelli che lei ha conosciuto che l’ha impressionata favorevolmente, da un punto di vista umano? Per esempio, Peci, che impressione le ha fatto?

«Entrambi quelli che ho avuto occasione di contattare, sia Peci, sia Barbone, mi hanno impressionato sotto il profilo umano.»

In che senso ? Per lealtà nel parlare…?

«Per una progressione nella liberazione di qualche cosa che dentro premeva. Questa gente parte con un volantinaggio, una volta reclutata. Parte andando a rilevare le targhe di qualche auto. Parte perché gli viene ordinato di fare l’inchiesta nei confronti di una persona. Tutti comportamenti che non costituiscono reato, se non inquadrati in un’associazione. Ma quando a uno, ad un certo momento, si richiede di fare l’autista per andare a compiere qualche cosa, ed assiste materialmente e funge da trasporto per queste persone, già è coinvolto. Allora lo si usa immediatamente per sparare. La seconda volta deve sparare e colpire. La terza finisce… Insomma è un progredire nel quale qualcuno, ad un certo momento, può desiderare di liberarsi. Di salvare. Di espiare. Di salvare altre vite umane che potrebbero essere coinvolte.»

Senta generale, non ne parliamo da un punto di vista processuale ma da un punto di vista psicologico: che differenza c’è fra un Curcio e un Toni Negri?

«Beh, Curcio andava. Negri invece mandava… ad espropriare. E nello stesso tempo cercava il finanziamento dal Centro nazionale delle ricerche!»

Che differenza c’è fra terrorismo di destra e terrorismo di sinistra?

«Per me nessuna differenza. C’è una differenza in questo senso: che, mentre nel terrorismo di destra noi troviamo un retroterra culturale quasi dai contenuti asmatici, non bene assimilato, tanto che porta a una pericolosità forse più avvertita, quella della estemporaneità e dell’immediatezza, in quello di sinistra c’è invece un filone ideologico. C’è un qualche cosa che viene coltivato, viene intensamente anche insegnato. E quindi si propone come strategia di usare la violenza contro le istituzioni dello Stato.»

Dicono di lei che è poco portato a collaborare. Che tende ad agire da solo. È vero?

«No. Non è vero. È vero nella misura, in cui preferisco lavorare con chi, da persona responsabile, ama il suo lavoro ed ama soprattutto il suo riserbo.»

Qual è stato il momento più difficile della sua carriera? 

«Quando ho visto pagare in silenzio, da parte della mia famiglia, quattro trasferimenti di sede in uno stesso anno.»

Come affronta la sconfitta?

«Quand’ero più giovane, con rabbia. Da qualche anno, invece, con maggiore serenità e anche andando ad analizzare gli errori compiuti. Però mi è capitato, mi capita talvolta, di mettermi tranquillo, in riva ad un fiume, ad attendere.»

Hanno scritto che quando considererà esaurito il fenomeno del terrorismo, lei se ne andrà?

«Prima di tutto non vedo il perché. Poi, me ne dovrei andare troppo presto. E poi perché? Non si vive di solo terrorismo, no?»

Ha dei rimpianti? C’è qualche cosa che avrebbe voluto fare e che non ha potuto fare?

«Non ho rimpianti. Avrei voluto soltanto che il mio lavoro non fosse costato tanto ai miei affetti.»

Chi sono i suoi amici?

«Personalmente amo i miei giovani. Li amo perché sono semplici, sono di pasta buona, hanno gli occhi puliti e ne sono spesso ricambiato. Ma amo anche i contadini di “terre lontane”, amo soprattutto i “miei” carabinieri! Di oggi, di ieri, di ogni ordine, di ogni grado, anche quelli che non sono più. E dico miei, nel senso usato nel suo testamento morale dall’amico generale Galvaligi.»

Ha mai provato ad immaginare la sua vita senza divisa? È una domanda che potrebbe apparire cattiva. Ma non ho queste intenzioni…

«Bene, io, in divisa, ho vissuto tutta la mia vita, con l’unico scopo di servire lo Stato, le sue istituzioni, la collettività che mi circonda. Penso però che non mi abbia mai fatto dimenticare di essere un cittadino come tutti gli altri.»

Ma, volevo dire, come può supporre la sua esistenza il giorno che non sarà più in servizio?

«Beh, potrò coltivare gli hobbies più tranquillamente e avrò anche tempo da destinare ad una lettura che fino ad oggi è stata un po’ frammentaria e soprattutto incentrata sull’attualità.»

Quali sono le accusa che l’hanno particolarmente ferita?

«Quelle che, nate da problemi contingenti, relativi al mio incarico o al mio lavoro, sono state poi strumentalizzate e sono scese così in basso da ledere la mia dignità di uomo, la mia dignità di soldato, la mia fede di vecchio democratico.»

Lei parlava di hobbies. Ne ha?

«Sì, quello dei francobolli e, quando ho tempo, quello dei campi, della terra.»

Quando ha un’ora libera, come la passa?

«Mi piace discorrere. Amo soprattutto essere un uomo come tutti gli altri.»

Si parla di un gruppo di 60 uomini (ma c’è chi dice 200) e lei fedelissimi, devotissimi, che vivono al di fuori delle caserme che si muovono in mezzo alla gente, direi quasi misteriosamente.

«In tema di devozione, arrivato al grado che rivesto, potrei presumere di più di 60 o di 200! Ma, a parte l’immodestia, lei si riferisce certamente ad un periodo che non è più. Cioè si riferisce al periodo che ho detto prima. Quando nacque quell’organismo, voluto dal ministero degli Interni nell’agosto-settembre 1978 per la lotta al terrorismo, ebbi effettivamente a disposizione 220-230 persone che venivano da ogni parte d’Italia. In mezzo a loro vi erano certamente alcune decine (20 o 30) provenienti dal famoso nucleo che era stato creato a Torino nel ’74-75 e alla cui esperienza e alla cui cultura attinsi a piene mani. Ma questi 220 elementi, tra i quali anche una quarantina di bravi appartenenti al corpo della Ps, ivi comprese delle validissime assistenti e ispettrici, direi anche coraggiose, vissero una parentesi talmente intensa, talmente inserita nella realtà, che, direi, non avevano una ragione geografica. Non avevano un affetto a cui dedicarsi. Non avevano un terreno a cui ancorarsi ed effettivamente li ho portati a vivere (così come ai tempi delle squadriglie in Sicilia si viveva accanto alla realtà del banditismo) la realtà dell’eversore, cioè mimetizzati, inseriti in modo diverso nella società. E questi uomini, questo gruppo di valorosi, perché tali sono stati hanno condotto a dei risultati che certamente erano nelle attese, soprattutto in un momento delicato, di transizione dei nostri servizi e di una opinione pubblica che non poteva non essere esasperata. Questi uomini si ritrovavano a Milano, magari provenienti da Bari o da Catanzaro; oppure quelli di Genova, di Torino dovevano catapultarsi a Roma o a Catania; questo amalgama è durato pochi mesi: ma già dai primi tempi ha dato la sensazione di essere un magma umano veramente efficiente, entusiasta. Non è che abbia speculato sul loro entusiasmo. Certamente l’ho usato molto. A loro sono molto grato e sono orgoglioso di averli avuti alle mie dipendenze. Quando i risultati venivano raggiunti, non ho mai dimenticato però che parte del merito andava sempre alla struttura dell’Arma. La struttura territoriale che effettivamente mi è stata sempre vicina dando un contributo del massimo rilievo; non soltanto quei 220, quindi, devono essere portati in superficie. È certo, tuttavia, che quando ci lasciammo, nel dicembre ’79, ci siamo sentiti uniti da una esperienza irripetibile; e da una medaglietta che io feci coniare per tutti, in metallo piuttosto vile.»

Lei crede che un terrorista pentito un giorno possa rientrare nella vita normalmente? 

«Io penso di sì. Soprattutto se lo Stato lo aiuta a dimenticare e a farsi dimenticare.»

La chiamano il “piemontese di ferro”. Perché?

«Se si tratta di attingere alla coerenza, all’amore per l’ordine e per lo Stato, io sono lieto di essere definito “piemontese”. Per quanto riguarda il “ferro”, sarei presuntuoso pensare ad un collegamento con un famoso duca del 1500. Però è anche vero che, di tanto in tanto, vengono in superficie la estemporaneità, l’impulsività, la fantasia, la trasparenza, anche un po’ di humour, che tradiscono le mie origini emiliane, alle quali sono molto attaccato.»

La capisco! C’è qualche definizione che le piace di più?

«Non è che mi piaccia…Mi chiamano “UFO”, ma non come una sigla che sta per “ufficiale fuori ordinanza”! Proprio come Ufo!»

Che cosa pensa di dovere ai suoi collaboratori?

«Tutto.»

Quando racconterà la sua vita ai suoi nipotini, che cosa dirà?

«Beh, ai bambini si raccontano le favole, le belle favole. E le racconterò anch’io ai miei nipotini. Ma se si riferisce alla mia vita, io penso che la mia vita non sia stata una favola! E se è, come è, una esperienza duramente vissuta, ambisco solo raccontarla ai giovani della mia Arma.»

E Dalla Chiesa disse... di GIORGIO BOCCA (La Repubblica-10 agosto 1982). La Mafia non fa vacanza, macina ogni giorno i suoi delitti; tre morti ammazzati giovedì 5 fra Bagheria, Casteldaccia e Altavilla Milicia, altri tre venerdì, un morto e un sequestrato sabato, ancora un omicidio domenica notte, sempre lì, alle porte di Palermo, mondo arcaico e feroce che ignora la Sicilia degli svaghi, del turismo internazionale, del "wind surf" nel mare azzurro di Mondello. Ma è soprattutto il modo che offende, il "segno" che esso dà al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e allo Stato: i killer girano su potenti motociclette, sparano nel centro degli abitati, uccidono come gli pare, a distanza di dieci minuti da un delitto all'altro. Dalla Chiesa è nero: "Da oggi la zona sarà presidiata, manu militari. Non spero certo di catturare gli assassini ad un posto di blocco, ma la presenza dello Stato deve essere visibile, l'arroganza mafiosa deve cessare».

Che arroganza generale?

«A un giornalista devo dirlo? uccidono in pieno giorno, trasportano i cadaveri, li mutilano, ce li posano fra questura e Regione, li bruciano alle tre del pomeriggio in una strada centrale di Palermo».

Questo Dalla Chiesa in doppio petto blu prefettizio vive con un certo disagio la sua trasformazione: dai bunker catafratti di Via Moscova, in Milano, guardati da carabinieri in armi, a questa villa Wittaker, un po' lasciata andare, un po' leziosa, fra alberi profumati, poliziotti assonnati, un vecchio segretario che arriva con le tazzine del caffè e sorride come a dire: ne ho visti io di prefetti che dovevano sconfiggere la Mafia.

Generale, vorrei farle una domanda pesante. Lei è qui per amore o per forza? Questa quasi impossibile scommessa contro la Mafia è sua o di qualcuno altro che vorrebbe bruciarla? Lei cosa è veramente, un proconsole o un prefetto nei guai?

«Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell'interesse dello Stato».

Credevo che il governo si fosse impegnato, se ricordo bene il Consiglio dei Ministri del 2 aprile scorso ha deciso che lei deve "coordinare sia sul piano nazionale che su quello locale" la lotta alla Mafia.

«Non mi risulta che questi impegni siano stati ancora codificati».

Vediamo un po' generale, lei forse vuol dirmi che stando alla legge il potere di un prefetto è identico a quello di un altro prefetto ed è la stessa cosa di quello di un questore. Ma è implicito che lei sia il sovrintendente, il coordinatore.

«Preferirei l'esplicito».

Se non ottiene l'investitura formale che farà? Rinuncerà alla missione?

«Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla Mafia, non per discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia dire di più».

No, parliamone, queste faccende all'italiana vanno chiarite. Lei cosa chiede? Una sorta di dittatura antimafia? I poteri speciali del prefetto Mori?

«Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza. Mio padre al tempo di Mori comandava i carabinieri di Agrigento. Mori poteva servirsi di lui ad Agrigento e di altri a Trapani a Enna o anche Messina, dove occorresse. Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel "pascolo" palermitano e non nel resto d'Italia non farebbe che perdere tempo».

Lei cosa chiede? L'autonomia e l'ubiquità di cui ha potuto disporre nella lotta al terrorismo?

«Ho idee chiare, ma capirà che non è il caso di parlarne in pubblico. Le dico solo che le ho già, e da tempo, convenientemente illustrate nella sede competente. Spero che si concretizzino al più presto. Altrimenti non si potranno attendere sviluppi positivi».

Ritorna con la Mafia il modulo antiterrorista? Nuclei fidati, coordinati in tutte le città calde?

Il generale fa un gesto con la mano, come a dire, non insista, disciplina giovinetto: questo singolare personaggio scaltro e ingenuo, maestro di diplomazie italiane ma con squarci di candori risorgimentali. Difficile da capire.

Generale, noi ci siamo conosciuti qui negli anni di Corleone e di Liggio, lei è stato qui fra il '66 e il '73 in funzione antimafia, il giovane ufficiale nordista de "Il giorno della civetta". Che cosa ha capito allora della Mafia e che cosa capisce oggi, 1982?

«Allora ho capito una cosa, soprattutto: che l'istituto del soggiorno obbligatorio era un boomerang, qualcosa superato dalla rivoluzione tecnologica, dalle informazioni, dai trasporti. Ricordo che i miei corleonesi, i Liggio, i Collura, i Criscione si sono tutti ritrovati stranamente a Venaria Reale, alle porte di Torino, a brevissima distanza da Liggio con il quale erano stati da me denunziati a Corleone per più omicidi nel 1949. Chiedevo notizie sul loro conto e mi veniva risposto: " Brave persone". Non disturbano. Firmano regolarmente. Nessuno si era accorto che in giornata magari erano venuti qui a Palermo o che tenevano ufficio a Milano o, chi sa, erano stati a Londra o a Parigi».

E oggi ?

«Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. E' finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?».

Scusi la curiosità, generale. Ma quel Ferlito mafioso, ucciso nell'agguato sull'autostrada, quando ammazzarono anche i carabinieri di scorta, non era il cugino dell'assessore ai lavori pubblici di Catania?

«Sì».

E come andiamo generale, con i piani regolatori delle grandi città? E' vero che sono sempre nel cassetto dell'assessore al territorio e all'ambiente?

«Così mi viene denunziato dai sindaci costretti da anni a tollerare l'abusivismo».

Senta generale, lei ed io abbiamo la stessa età e abbiamo visto, sia pure da ottiche diverse, le stesse vicende italiane, alcune prevedibili, altre assolutamente no. Per esempio che il figlio di Bernardo Mattarella venisse ucciso dalla Mafia. Mattarella junior è stato riempito di piombo mafioso. Cosa è successo, generale?

«E' accaduto questo: che il figlio, certamente consapevole di qualche ombra avanzata nei confronti del padre, tutto ha fatto perché la sua attività politica e l'impegno del suo lavoro come pubblico amministratore fossero esenti da qualsiasi riserva. E quando lui ha dato chiara dimostrazione di questo suo intento, ha trovato il piombo della Mafia. Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo: la Mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del "palazzo". Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato».

Mi spieghi meglio.

«Il caso di Mattarella è ancora oscuro, si procede per ipotesi. Forse aveva intuito che qualche potere locale tendeva a prevaricare la linearità dell'amministrazione. Anche nella DC aveva più di un nemico. Ma l'esempio più chiaro è quello del procuratore Costa, che potrebbe essere la copia conforme del caso Coco».

Lei dice che fra filosofia mafiosa e filosofia brigatista esistono affinità elettive?

«Direi di sì. Costa diventa troppo pericoloso quando decide, contro la maggioranza della procura, di rinviare a giudizio gli Inzerillo e gli Spatola. Ma è isolato, dunque può essere ucciso, cancellato come un corpo estraneo. Così è stato per Coco: magistratura, opinione pubblica e anche voi garantisti eravate favorevoli al cambio fra Sossi e quelli della XXII ottobre. Coco disse no. E fu ammazzato».

Generale, mi sbaglio o lei ha una idea piuttosto estesa dei mandanti morali e dei complici indiretti? No, non si arrabbi, mi dica piuttosto perché fu ucciso il comunista Pio La Torre.

«Per tutta la sua vita. Ma, decisiva, per la sua ultima proposta di legge, di mettere accanto alla "associazione a delinquere" la associazione mafiosa».

Non sono la stessa cosa? Come si può perseguire una associazione mafiosa se non si hanno le prove che sia anche a delinquere?

«E' materia da definire. Magistrati, sociologi, poliziotti, giuristi sanno benissimo che cosa è l'associazione mafiosa. La definiscono per il codice e sottraggono i giudizi alle opinioni personali».

Come si vede lei generale Dalla Chiesa di fronte al padrino del "Giorno della civetta"?

«Stiamo studiandoci, muovendo le prime pedine. La Mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana. Un altro non se ne accorgerebbe, ma io questo mondo lo conosco».

Mi faccia un esempio.

«Certi inviti. Un amico con cui hai avuto un rapporto di affari, di ufficio, ti dice, come per combinazione: perché non andiamo a prendere il caffè dai tali. Il nome è illustre. Se io non so che in quella casa l'eroina corre a fiumi ci vado e servo da copertura. Ma se io ci vado sapendo, è il segno che potrei avallare con la sola presenza quanto accade».

Che mondo complicato. Forse era meglio l'antiterrorismo.

«In un certo senso sì, allora avevo dietro di me l'opinione pubblica, l'attenzione dell' Italia che conta. I gambizzati erano tanti e quasi tutti negli uffici alti, giornalisti, magistrati, uomini politici. Con la Mafia è diverso, salvo rare eccezioni la Mafia uccide i malavitosi, l'Italia per bene può disinteressarsene. E sbaglia».

Perché sbaglia, generale?

«La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa "accumulazione primitiva" del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti a la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere».

E deposita nelle banche coperte dal segreto bancario, no, generale?

«Il segreto bancario. La questione vera non è lì. Se ne parla da due anni e ormai i mafiosi hanno preso le loro precauzioni. E poi che segreto di Pulcinella è? Le banche sanno benissimo da anni chi sono i loro clienti mafiosi. La lotta alla Mafia non si fa nelle banche o a Bagheria o volta per volta, ma in modo globale».

Generale Dalla Chiesa, da dove nascono le sue grandissime ambizioni?

Mi guarda incuriosito.

Voglio dire, generale: questa lotta alla Mafia l'hanno persa tutti, da secoli, i Borboni come i Savoia, la dittatura fascista come le democrazie pre e post fasciste, Garibaldi e Petrosino, il prefetto Mori e il bandito Giuliano, l'ala socialista dell'Evis indipendente e la sinistra sindacale dei Rizzotto e dei Carnevale, la Commissione parlamentare di inchiesta e Danilo Dolci. Ma lei Carlo Alberto Dalla Chiesa si mette il doppio petto blu prefettizio e ci vuole riprovare.

«Ma sì, e con un certo ottimismo, sempre che venga al più presto definito il carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire. Io, badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere. Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla Mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati».

Si va a pranzo in un ristorante della Marina con la signora Dalla Chiesa, oggetto misterioso della Palermo del potere. Milanese, giovane, bella. Mah! In apparenza non ci sono guardie, precauzioni. Il generale assicura che non c'erano neppure negli anni dell'antiterrorismo. Dice che è stata la fortuna a salvarlo le tre o quattro volte che cercarono di trasferirlo a un mondo migliore.

«Doveva uccidermi Piancone la sera che andai al convegno dei Lyons. Ma ci andai in borghese e mi vide troppo tardi. Peci, quando lo arrestai, aveva in tasca l'elenco completo di quelli che avevano firmato il necrologio per la mia prima moglie. Di tutti sapevano indirizzo, abitudini, orari. Nel caso mi fossi rifugiato da uno di loro, per precauzione. Ma io precauzioni non ne prendo. Non le ho prese neppure nei giorni in cui su "Rosso" appariva la mia faccia al centro del bersaglio da tirassegno, con il punteggio dieci, il massimo. Se non è istigazione ad uccidere questa?».

Generale, sinceramente, ma a lei i garantisti piacciono?

Dagli altri tavoli ci osservano in tralice. Quando usciamo qualcuno accenna un inchino e mormora: "Eccellenza".

Dalla Chiesa, l'ultimo mistero. Un ufficiale dell' Arma trafugò le sue carte segrete. È destinata ad allungarsi la lista delle prove trafugate dopo gli omicidi eccellenti di Palermo. Da qualche settimana, la Procura indaga sulla scomparsa di una valigetta di pelle marrone appartenuta al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il prefetto di Palermo assassinato dai killer di Cosa nostra il 3 settembre 1983. Di quella borsa, nessun investigatore si era mai interessato: subito dopo l'eccidio di via Carini, il pool di Falcone e Borsellino si era concentrato su un altro mistero legato a Dalla Chiesa, la sparizione di alcune carte dalla cassaforte della residenza privata del prefetto. Poi, all'improvviso, nel settembre 2012, è stato recapitato un anonimo molto ben informato a casa del sostituto procuratore Nino Di Matteo, uno dei pm che indaga sulla trattativa mafia-Stato: in dodici pagine non si parla solo delle carte che alcuni carabinieri del Ros avrebbero portato via dal covo di Totò Riina, nel 1993, ma anche del mistero della borsa di Dalla Chiesa. Ecco cosa scrive l'anonimo nelle prime righe del testo, che ha ribattezzato "protocollo fantasma": «Un ufficiale dei carabinieri in servizio a Palermo si preoccupa di trafugare la valigetta di pelle marrone che conteneva documenti scottanti, soprattutto nomi scottanti riguardanti indagini che Dalla Chiesa sta cercando di svolgere da solo». Il figlio di Dalla Chiesa, Nando, la ricorda bene quella borsa: «Mio padre la portava sempre con sé» - dice a Salvo Palazzolo su “La Repubblica” - «Era una borsa senza manico, con la cerniera. Dopo l'omicidio, c'eravamo chiesti che fine avesse fatto. In tutti questi anni abbiamo pensato che fosse andata persa, nel trambusto di quei giorni. Evidentemente, non era così». Le parole del professore Dalla Chiesa confermano che l'ultimo anonimo di Palermo è davvero ben informato, perché di quella borsa nessuno ha mai parlato in inchieste giudiziarie o giornalistiche. L'anonimo racconta anche di un ufficio riservato che il generale Dalla Chiesa avrebbe avuto alla caserma di piazza Verdi, sede del comando provinciale dei carabinieri: «Era ubicato di fronte al nucleo comando del Rono», scrive, sottolineando che in quella stanza c' erano «faldoni, appunti e messaggi» riservati. Tutte carte che Dalla Chiesa avrebbe iniziato a raccogliere dopo il suo ritorno in Sicilia come prefetto. Adesso, i pm di Palermo vogliono dare un nome a chi ha scritto quell' anonimo, e per questa ragione negli ultimi giorni hanno chiesto alla Dia di convocare una decina fra ufficiali e sottufficiali dell'Arma citati nelle dodici pagine. A condurre le audizioni è un pool, di cui fanno parte i sostituti Di Matteo, Sava, Del Bene, Tartaglia e l'aggiunto Teresi. I magistrati sono sempre più convinti che l'anonimo sia stato scritto proprio da un carabiniere. E sperano che alla fine si faccia avanti. Anche l'allora giudice istruttore Giovanni Falcone cercava notizie su alcune indagini riservate svolte da Dalla Chiesa negli ultimi mesi della sua vita. Agli atti del maxi processo è rimasta una lettera indirizzata al «comandante generale dell'Arma dei carabinieri» e per conoscenza «all'onorevole ministro della Difesa» e «al ministro degli Interni». Protocollo riservato "n. 10/6 Ris". Il 20 maggio ' 83, Falcone convocò anche l'allora comandante generale Lorenzo Valditara, per ribadirgli la domanda. L'alto ufficiale disse che Dalla Chiesa era rimasto in contatto con i pm di Bologna, che indagavano sulla strage alla stazione. Quella domanda di Falcone è tornata di attualità.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Rosario Livatino.

Dopo 20 anni ha 9 ore di permesso premio: bufera su Giuseppe Montanti, mandante dell’omicidio Livatino. Angela Stella su Il Riformista il 16 Settembre 2020. Un magistrato di sorveglianza di Padova ha concesso un permesso premio a Giuseppe Montanti, condannato all’ergastolo ostativo per reati gravissimi quali il concorso in cinque omicidi, tra cui quello del giudice Rosario Livatino di cui fu il mandante, e quattro tentati omicidi. L’ex appartenente della Stidda ha operato nel territorio di Caltanissetta tra la fine degli anni ‘80 e gli inizi degli anni ‘90, per poi essere catturato in Messico il 12 aprile 2000. Il permesso premio di cui il 64enne ha usufruito ieri è consistito in 9 ore trascorse nella struttura Piccoli Passi dove è rimasto in regime di detenzione domiciliare: lì ha potuto incontrare i suoi familiari e parlare anche con il suo avvocato Angela Porcello, che lo assiste con la collaborazione della collega Annalisa Lentini. Proprio il suo legale ci racconta: «Il signor Montanti era molto felice perché queste sono state le prime ore di vita fuori dal carcere dopo venti anni ininterrotti di reclusione». Facciamo subito presente all’avvocato Porcello che sono nate delle polemiche, tra cui quella del senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, perché il permesso sarebbe stato concesso proprio nella settimana delle commemorazioni per il giudice Livatino, ucciso in un agguato il 20 settembre del 1990: «Sono polemiche strumentali perché la data del provvedimento del magistrato di sorveglianza è del 17 luglio e il permesso premio è stato eseguito solo ora a fronte dei numerosi decreti di permesso già emessi ma la cui esecuzione era stata sospesa a causa dell’emergenza sanitaria». Ambra Minervini, membro dell’Associazione “Vittime del Dovere” e orfana del magistrato Girolamo Minervini, ucciso dalle Br, contesta i magistrati che hanno concesso la misura. Come si è giunti a questo permesso premio? Innanzitutto, come leggiamo dal provvedimento del magistrato, il Tribunale di Sorveglianza di Venezia nel 2016 ha accertato la cosiddetta “collaborazione impossibile” per Montanti. Successivamente, come ci spiega sempre l’avvocato Porcello, «c’è stata la svolta con la nota sentenza 253/2019 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis op che precludeva la concessione dei permessi premio a coloro che sono detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis c.p.». Nel frattempo l’avvocato chiede una “rivisitazione della sintesi”, ossia che venga effettuata una nuova relazione sulla condotta del detenuto. Da essa si evince che Montanti partecipa alla redazione di Ristretti Orizzonti e al progetto “Scuola carcere”, presta attività di volontariato nel laboratorio di cucito, riceve un compenso per la riparazione di biancheria dell’Amministrazione, ha partecipato a corsi di formazione per recuperare nozioni di matematica, scienza e lettere. Inoltre, come ha riferito la psicologa che lo ha seguito, «l’età ormai adulta e la lunga espiazione lo hanno costretto ad un bilancio esistenziale, condotto in piena responsabilità anche relativamente alla sfera affettiva e familiare ed ha maturato la consapevolezza del bisogno di chiedere aiuto. […] Ha ricostruito la storia dei primi contatti con l’organizzazione, i rapporti con i suoi coimputati, e le vicende connesse alle attività delittuose. Le ammissioni di responsabilità, dirette ed indirette sono state molteplici, così come la volontà di chiarire fatti e circostanze». Per quanto concerne la pericolosità attuale del detenuto, scrive il magistrato di sorveglianza: «Nessuna nota trasmessa dalle competenti Autorità (talune peraltro non hanno fornito risposta, a distanza di mesi dalla richiesta, tra cui la DNA) segnala indici diretti o indiretti di permanenza attuale di legami con l’organizzazione stiddara del territorio di Agrigento cui Montanti è appartenuto sino al 1992». A chi contesta che Montanti non hai mai ammesso il concorso nell’omicidio del giudice Livatino, è lo stesso Tribunale a rispondere indirettamente facendo riferimento ad una recente decisione della Cassazione in cui si afferma ‘la non necessità della confessione del reato per ottenere il permesso premio […]. Le mera professione di innocenza non esonera il giudice da una valutazione approfondita” del condannato. Quali sono ora le prospettive ora per il detenuto? «È l’inizio di un percorso positivo – ci spiega l’avvocato – che apre alla concessione di ulteriori permessi premio e poi la libertà condizionale e la semi detenzione per una apertura sempre maggiore verso la società».

Piero Nava, il testimone che accusò i sicari del giudice Livatino: «La mia vita in incognito». In un libro — dall’eloquente titolo «Io sono nessuno» il racconto della sua vita a trent’anni dall’efferato omicidio del magistrato ucciso dalla mafia ad Agrigento, il 21 settembre 1990. «Mai ripensamenti, ho fatto il mio dovere». Felice Cavallaro il 19 settembre 2020 su Il Corriere della Sera. I trent’anni dall’omicidio di Rosario Livatino coincidono con trent’anni di una vita in incognito. Quella del primo testimone di giustizia sul fronte antimafia, Piero Nava, protagonista di una odissea adesso raccolta in un libro dal titolo eloquente« Io sono nessuno».

Senza rimpianti?

«Senza alcun ripensamento, cosciente di avere fatto esclusivamente il mio dovere», risponde questo agente di commercio che il 21 settembre del 1990, in viaggio a bordo della sua auto fra Canicattì e Agrigento, vide il brutale inseguimento del «giudice ragazzino» ucciso sotto i suoi occhi. Pronto senza indugi ad avvertire le forze di polizia, a testimoniare contro assassini e mandanti. E, quindi, a cambiare con la sua famiglia identità e continente.

Cos’è accaduto dopo?

«Come raccontiamo nel libro scritto con il cuore da Stefano Scaccabarozzi, Lorenzo Bonini e Paolo Valsecchi, tre giovani della mia Lecco, io sono sparito per 11 anni cambiando città, stati, continente. Poi ho ricominciato a lavorare sotto nuova identità».

In Italia?

«Nel Sud Italia. Io sono ormai un uomo del Sud dal 1978, quando la mia carriera commerciale cominciò a Napoli. Vendendo serramenti e porte per aziende del Nord. Come facevo nel settembre 1990 in provincia di Agrigento».

Ha ricominciato facendo lo stesso lavoro?

«Sempre nel settore del commercio. Dalla base, come quando avevo 18 anni. Con datori di lavoro sorpresi. Un’esperienza boia la sua, mi dicevano. Maturata dove? E inventavo. Dovevo fingere di non avere mai fatto quel lavoro».

Adesso è arrivato il tempo del riposo?

«Delle letture, della pensione. Da tre anni. I figli sono grandi, hanno la loro vita. Ovviamente anche loro non si chiamano più Nava».

Mai un dubbio nemmeno in famiglia?

«Mai il dubbio che denunciando gli assassini del giudice Livatino e cambiando vita avessimo sbagliato. Esattamente il contrario. Tutti convinti che fosse giusto così. E non solo noi. Anche amici e parenti che non abbiamo più potuto frequentare con regolarità, come un tempo mai più tornato».

Si sente un modello per i giovani, come sostengono i tre autori del libro?

«So che la mia scelta è stata obbligata dalla coscienza. È la sola strada maestra per mantenere rispetto di se stessi. Le conseguenze? Ricordo cosa diceva con saggezza antica mia madre, quando ero giovane: “Abbraccia la Croce e accada quello che Dio vuole’”».

Ha mai pensato che cosa sarebbe accaduto se quel giorno non avesse chiamato le forze di polizia?

«Pensare di leggere la mattina la notizia in albergo sfogliando un giornale, magari con l’appello dei magistrati alla ricerca di eventuali testimoni, mi avrebbe fatto vomitare. Mi sarei sputato in faccia».

E sua moglie?

«Sulla stessa trincea. Quella della coscienza. Appena vide che al tiggì parlavano finalmente di un testimone per un delitto in Sicilia scattò sicura: “È lui, Piero”. Sentendosi subito con il mio datore di lavoro: “Può essere solo lui”. Pronti a venirmi a prendere. Ma ero già avvolto dalla protezione dello Stato. Con agenti straordinari. Professionisti capaci di diventare amici dei miei ragazzi, giocare con loro, alleggerire ogni peso».

Cosa dice ai giovani di oggi.

«Devono combattere soprattutto l’indifferenza. Essere partecipi. Conoscere. Coinvolgere se stessi».

C’è chi si volta indietro, chi si adatta, chi opera per piegare la cosa pubblica ai propri interessi...

«E noi dobbiamo dare l’esempio opposto, come ho detto intervenendo per il libro solo in collegamento, con la voce distorta, nella piazza di Lecco il 15 settembre».

Con quali parole?

«M’è scappato un verso di Dante. Come fossi Virgilio: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Il tutto nel girone degli ignavi».

Che stanno all’Inferno.

«Mi appassiona la Divina Commedia. I ragazzi della scorta erano un po’ stupiti perché, vedendo la mia collezione di soldatini, pensavano che studiassi solo Napoleone».

Lo Stato con le sue articolazioni non l’ha mai delusa?

«Solo adesso rischia di deludermi. Per la pensione. Anzi, per la pensione di reversibilità che dovrebbe andare a mia moglie, se mi accadesse qualcosa. Invece è sospesa...».

Ne parla nel libro.

«È una pagina che spero lega il presidente Mattarella nella copia che gli ho fatto avere. Ogni cittadino, se muore, non lascia per strada la moglie grazie all’istituto della reversibilità. Ci ha provato pure Rosi Bindi a spiegare all’Inps... Rispondono a voce di stare tranquillo. No, va messo per iscritto. Non mollo». 

Il giudice ragazzino. Claudio Scaccianoce il 20 settembre 2016 su L'Inkiesta. «Che vi ho fatto?» Rosario Livatino nasce a Canicattì il 3 ottobre 1952. Il padre Vincenzo è laureato in legge ed è un pensionato dell'esattoria comunale. La mamma si chiama Rosalia Corbo. Rosari...

«Che vi ho fatto?». Rosario Livatino nasce a Canicattì il 3 ottobre 1952. Il padre Vincenzo è laureato in legge ed è un pensionato dell’esattoria comunale. La mamma si chiama Rosalia Corbo. Rosario si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo il 9 luglio ’75 a soli 22 anni. Massimo dei voti cum laude. Tra il ’77 e il ’78 Livatino assume l’incarico di vicedirettore presso l’Ufficio del Registro di Agrigento. Sempre nel 1978 entra in Magistratura, prestando servizio presso il tribunale di Caltanissetta. Nel 1979 diventa sostituto procuratore presso il tribunale di Agrigento. Rimane in carica come sostituto procuratore sino al 1989, quando diventa giudice a latere.

«Che vi ho fatto?» Rosario Livatino fu ucciso in un agguato mafioso la mattina del 21 settembre 1990. Senza scorta , alla guida della sua Ford Fiesta, percorre il viadotto Gasena, lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta. Viene raggiunto ed affiancato da una vettura con a bordo quattro giovani armati. Gli sparano. Livatino ferito ad una spalla, accosta, scende ed inizia fuggire tra i campi. «Che vi ho fatto?». I suoi assassini con freddezza lo uccidono. Il colpo di grazia alla testa lo spara Gaetano Puzzangaro. Il suo corpo viene composto nell’obitorio dell’ospedale di Agrigento. Gli esecutori materiali dell’omicidio sono Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro, tutti successivamente condannati in via definitiva all’ergastolo. I mandanti sono i vertici della Stidda, un’ organizzazione mafiosa concorrente di Cosa Nostra. Secondo la sentenza, Livatino viene ucciso perché “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”.

“Giudice ragazzino”. Così l’aveva ingenerosamente battezzato otto mesi dopo la sua morte l’ex Presidente della Repubblica, Cossiga. «Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno…? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta». Nel 1992, Cossiga scrive una lettera al Giornale di Sicilia smentendo questa affermazione, sostenendo che Livatino era “un eroe e un santo”. Puntualizzazione oltremodo tardiva. Fu l’attentato a un magistrato che andava in ufficio da solo, con la sua piccola macchina. E che quindi era protetto unicamente dalla sua bontà, dalla sua imparzialità, dal modo in cui faceva il suo mestiere. ” Il ricordo che ho di Rosario Livatino è dolcissimo. Ricordo come fosse ieri il giorno in cui arrivò alla procura di Caltanissetta come uditore giudiziario con funzioni; cioè in prima destinazione dopo aver vinto il concorso e aver superato il corso di formazione. Procura che frequentavo poiché prestavo servizio nel distretto come sostituto alla procura di Nicosia. Quello che mi colpì subito, nel suo aspetto, fu l’estrema compostezza, la grande serietà. La serietà dello sguardo e, soprattutto, la modestia che lui professava a volte fino all’inverosimile. Ricordo che, insieme a un altro collega, impiegammo tre mesi per convincerlo a darci del tu. Rosario si ostinava a darci del lei. E noi giù, a parlargli che il magistrato si distingue solo per funzioni e che quindi dovevamo darci del tu, anche perché la nostra età non era molto dissimile dalla sua: eravamo giovanissimi magistrati. Questa è l’essenza del magistrato Livatino. Non si tratta di un grande eroe della lotta alla mafia, non si tratta di un grande sterminatore di nemici dello Stato. Si tratta di un giovane magistrato, serio, attento, posato, riflessivo. Estremamente sensibile, estremamente attaccato al suo dovere. Si tratta di un magistrato modello, secondo me. Perché il magistrato modello è proprio questo. E’ colui il quale professa la sua battaglia contro l’illegalità giorno dopo giorno, cimentandosi nelle imprese giudiziarie le più varie; confrontandosi con le più varie fattispecie di reati, sempre nell’unico grande scopo della riaffermazione della legalità. Questo era Rosario Livatino. Un magistrato che deve servire da modello a tutti i giovani magistrati, ma non solo. Fu un giovane magistrato che immolò la sua vita anche alla sua modestia perché viaggiava solo. La sua morte non fu il vile attentato a un magistrato che viaggia protetto, nei confronti del quale vengono impiegati terribili strumenti di morte proprio per vincere le difese poste a sua protezione. Fu l’attentato a un magistrato che andava in ufficio da solo, con la sua piccola macchina. E che quindi era protetto unicamente dalla sua bontà, dalla sua imparzialità, dal modo in cui faceva il suo mestiere. Dalla sua limpidezza e dalla sua trasparenza. Fu molto facile dimenticare tutto ciò e sparargli, prima attraverso il vetro della macchina e poi, a sangue freddo dopo averlo inseguito per la scarpata, finirlo con il colpo di grazia. E’ una cosa che ci ha toccato, noi tutti magistrati, e ci tocca ancora oggi. Ci ha fatto vedere cosa può essere l’attaccamento al dovere. Ci ha fatto vedere come si possa arrivare all’estremo sacrificio al servizio di un ideale che è quello della giustizia. Quello che dovrebbe legare a sé tutti gli uomini, almeno quelli di buona volontà. A volte il destino è bizzarro. Dopo tanti anni dalla sua morte ho avuto l’onere di assumere la responsabilità delle indagini nei confronti degli autori dell’assassinio di Rosario Livatino. Con molta serenità, ora posso dire che, alla fine, i miei colleghi e io abbiamo fatto il nostro dovere. Giustizia è stata veramente fatta: i tre processi nei confronti di nove, tra mandanti ed esecutori, dell’omicidio di Livatino sono stati, con sentenza passata in giudicato, tutti condannati all’ergastolo. Quanto meno questo. Quanto meno la sua morte è servita anche per togliere di mezzo, mi auguro in maniera permanente e definitiva, nove malfattori dal contesto civile.” Giovanni Tinebra (Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) 20 settembre 2003 – Fonte giustizia.it Rosario Livatino, servitore dello Stato e vittima di quel cancro chiamato mafia.

Stefano Castellino: «Io vittima di mafia ho provato pietà per il killer pentito». Giulia Merlo il 24 settembre 2020 su Il Dubbio. Stefano Castellino, sindaco di Palma di Montichiaro, durante la commemorazione del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia, ha fatto leggere la l…

«Il killer ha voluto testimoniare il proprio fallimento e io, vittima di mafia, sono riuscito a provare pietà per lui». Stefano Castellino, sindaco del paese di Palma di Montechiaro, nell’agrigentino, ha voluto organizzare un evento nel suo Comune per ricordare l’omicidio del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990. Durante la commemorazione, è stata letta anche la lettera del sicario che uccise il magistrato.

Come viene ricordato l’omicidio Livatino a Palma di Montechiaro?

«Purtroppo, negli anni passati, quasi tutte le precedenti giunte hanno deciso di non commemorare questa triste scomparsa. La ragione ufficiale era che, nella stessa data qualche anno dopo, era morto un vigile urbano della città. La verità è che, poichè il commando che ha ucciso il giu- dice era composto da cittadini palmesi, le amministrazioni hanno preferito, colpevolmente, non commemorarne la morte.

E perchè lei ha interrotto questo ciclo?

«Perchè è giusto e anche doveroso ricordare questo enorme sacrificio di un servo dello Stato. Non solo, però: abbiamo scelto di far ascoltare in sala anche le parole del sicario di Livatino. Per combattere la subcultura mafiosa, infatti, sono convinto sia indispensabile mostrare la faccia della mafia. Puzzangaro, che da giovanissimo ha abbracciato la via della mafia, ha voluto testimoniare il proprio fallimento ed essere esempio per chi oggi è tentato da quella strada, che porta solo a morte e sofferenza, altrui e propria».

Che cosa la ha colpita della lettera di Gaetano Puzzangaro?

«Le sue parole, per me che sono credente, hanno mostrato come la morte di Levatino abbia operato una sorta di conversione della sua anima perduta. E lo dico da uomo che alla mafia ha pagato un prezzo familiare enorme».

A chi si riferisce?

«Mio zio è stato vicesegretario del comune per vent’anni, nel 1995 è diventato caposervizio dell’igene pubblica ed è stato ucciso dalla mafia nel 1997. Lui viveva in casa con noi e io sono cresciuto con lui, avendo un rapporto privilegiato perchè ero il suo nipote maggiore: per me era una figura quasi paterna. Per questo dico: persino io, che ho ancora una ferita profonda e aperta, sono riuscito a provare pietà verso un carnefice che non riesce a perdonare se stesso e teme il giudizio divino».

Visto il rapporto così controverso della sua comunità con l’omicidio Livatino, non ha temuto le reazioni dei suoi concittadini?

«Sì, io e i miei assessori abbiamo avuto il timore che la sala potesse essere vuota. Invece, appena entrati in casa comunale, abbiamo visto l’atrio gremito e la presenza di moltissimi giovani. Io credo che sia la consapevolezza a far riconciliare una comunità. Palma non può disconoscere che gli autori di questo assassinio e deve interrogarsi sul perchè alcuni suoi giovani si siano persi sulla strada del male. Solo capendo gli errori compiuti si può immaginare un futuro diverso per la nostra comunità».

Questo evento è servito a generare consapevolezza?

«Io credo di sì. In passato ho avuto una spiacevole sensazione che, nell’elencare le morti di mafia, si elencassero sconfitte. Con questa commemorazione abbiamo voluto dimostrare, invece, che chi ha imboccato la via della morte è un esempio di sconfitta e fallimento. Spero che la testimonianza di Puzzangaro, che dice ai ragazzi di non intraprendere la sua stessa strada, possa aver raggiunto le coscienze dei tanti giovani in sala».

Mafia: il dialogo tra il killer del giudice e le vittime. Cerimonia a Palma nell’anniversario dell’omicidio del giudice Rosario Livatino: cronaca di una riconciliazione non annunciata. Sergio D'Elia il 23 settembre 2017 su Il Dubbio. Palma di Montechiaro in provincia di Agrigento è nota perché nel Palazzo ducale e nel Castello sono state girate alcune scene de Il Gattopardo, il kolossal diretto nel 1963 da Luchino Visconti, tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Negli anni ’ 90 è diventata teatro di scene più crudeli, di guerra vera della e nella mafia. Nel corso del secolo, la storia narrata nel capolavoro della letteratura del Novecento è quasi svanita nella memoria collettiva e, negli ultimi decenni, ha preso il sopravvento la cronaca nera di fatti drammatici di violenza inaudita che hanno lasciato ferite profonde non ancora del tutto rimarginate: molti servitori dello stato sono stati uccisi e molti autori di quegli omicidi, prima complici e poi, all’improvviso, divenuti nemici e assassini l’uno dell’altro. Nell’atrio di Palazzo degli Scolopi, sede del Municipio di Palma, campeggia una lapide che ricorda le vittime di mafia onorate della cittadinanza postuma: il carabiniere Giuliano Guazzelli, il giudice Rosario Livatino, il magistrato Antonino Saetta ucciso insieme al figlio Stefano. A ventisette anni dalla morte del giudice Rosario Livatino, il comune di Palma ha scelto il film Spes contra Spem – Liberi Dentro di Ambrogio Crespi per ricordare la figura del “giudice ragazzino” ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990. Un film che raccoglie le testimonianze di condannati all’ergastolo ostativo che hanno riconosciuto le loro terribili colpe e hanno manifestato il definitivo ripudio di ogni scelta criminale. Tra i protagonisti del film, girato nel cercare di Opera a Milano, c’è anche Gaetano Puzzangaro, cittadino di Palma, che fece parte del commando che tolse la vita al magistrato. L’evento senza precedenti è stato particolarmente voluto dal sindaco di Palma, Stefano Castellino, neo iscritto al Partito Radicale e lui stesso colpito dalla mafia che gli ha strappato lo zio. «E’ rivoluzionario che un uomo delle istituzioni ricordi un altro un uomo delle istituzioni assassinato con parole di compassione e inclusione del responsabile di quella morte a fronte del suo cambiamento», ha notato Elisabetta Zamparutti, tesoriera di Nessuno tocchi Caino, che ha proposto la costituzione di una “Lega di Sindaci per il Diritto alla Speranza”. Per il giovane sindaco, il bene e il male sono entrambi cittadini di Palma: il bene che ha ispirato la vita di Rosario Livatino, un giudice buono e giusto; il male compiuto da Gaetano Puzzangaro che gli ha tolto la vita e ha segnato la sua stessa vita condannata all’ergastolo senza speranza. Stefano Castellino è convinto che il male compiuto da Gaetano può essere convertito nel bene per altri che oggi hanno l’età che lui aveva quando, illuso dal guadagno facile, dal potere e da un malinteso senso del rispetto, ha scelto la via della violenza. A loro si rivolge Gaetano con una lettera letta dall’avvocato Maria Brucale, che lo segue in tutto e per tutto. «Scegliete di mettere in gioco la parte sana di voi stessi a beneficio delle persone che vi stanno vicino e per la comunità in cui vivete, poiché, mettendo a disposizione la parte migliore di voi, potrete capire il significato dei valori per cui vale la pena di vivere e perfino sacrificare il vostro respiro per ciò che amate». Il nipote di Gaetano, Anthony Puzzangaro, è intervenuto per dire di essere orgoglioso e felice del cambiamento di suo zio e di aver visto nei protagonisti del docufilm «uomini senza speranza che riescono a dare speranza ad altre persone, aiutandole a non intraprendere strade che portano alla morte non solo degli altri ma della loro stessa anima». La proiezione docufilm di Ambrogio Crespi, presente all’evento e commosso nel suo intervento, si è tenuta nel cortile del palazzo comunale affollato di cittadini di Palma. Nel suo intervento, dopo aver ricordato le vittime della mafia onorate della cittadinanza di Palma e che ha conosciuto nel corso della sua vita da magistrato, Santi Consolo ha detto che «gestire il disagio, la sofferenza e l’emergenza è possibile se non si uccide la speranza». «E’ facile, soprattutto quando siamo travolti dalla paura, dire “pena di morte” o “buttiamo via la chiave”. Ma voi credete che uno stato sia civile se a crimini efferati, omicidi, morti risponde con uccisioni di massa? La violenza chiama violenza e quando noi facciamo del male al prossimo quel male torna a noi stessi». «Occorre guardare avanti con coraggio e fiducia e costruire insieme un futuro di accoglienza, solidarietà, giustizia, verità e benessere», ha scritto nel suo messaggio don Giuseppe Livatino, postulatore della causa di beatificazione del giudice ucciso, che da tempo sta seguendo il percorso di riconciliazione di Gaetano Puzzangaro. Il 21 settembre, a Palma di Montechiaro, forse, è iniziata un’altra storia, di segno diverso da quella descritta dalla cronaca degli ultimi decenni. E’ storia di tolleranza, inclusione, accoglienza e di riscatto di un’intera comunità, alla quale i protagonisti negativi di quegli anni possono tornare per essere non più un pericolo ma una risorsa preziosa.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Bruno Caccia.

BRUNO CACCIA. ARCHIVIAZIONI & DEPISTAGGI. Cristiano Mais su La Voce delle Voci il 10 Ottobre 2020. Ancora uno schiaffo alla memoria di Bruno Caccia, il procuratore capo di Torino ammazzato il 26 giugno 1983, senza che sia mai stata raggiunta una verità giudiziaria. Oltre due anni fa – giugno 2018 – i familiari Cristina, Guido e Paolo Caccia, hanno presentato opposizione alla richiesta di archiviazione delle indagini nei confronti di Rosario Pio Catafi e Demetrio Latella, iscritti nel registro degli indagati da luglio 2015: una richiesta avanzata dalla procura di Milano. Ebbene, ora il gip meneghino Stefania Pepe ha emesso il provvedimento di archiviazione, sostenendo che sono emersi solo “labili indizi a carico di Cattafi e Latella” e che la ricostruzione di Fabio Repici, il legale della famiglia Caccia, “non appare supportata da concreti elementi di prova”. Commenta Repici con amarezza. “Il penosamente tardivo provvedimento di archiviazione del Gip di Milano, dopo oltre due anni dall’udienza, riesce ad essere insoddisfacente non solo nella decisione di chiudere, allo stato, le indagini in realtà mai avviate nei confronti degli indagati Cattafi e Latella, ma anche nella motivazione di quella decisione, che è un sunto della richiesta di archiviazione formulata quattro anni fa dal pm Tatangelo e che non dice praticamente nulla sugli atti di indagine suppletiva”. E continua: “Si tratta dell’ennesima occasione persa dalla giurisdizione milanese per rendere un po’ di verità e giustizia alla memoria del procuratore Bruno Caccia. Purtroppo per l’ennesima volta gli sforzi fatti dai familiari di una vittima ricevono una beffa ad opera degli apparati dello Stato. Quegli sforzi, naturalmente, proseguiranno”. E conclude: “Ci si augura che ministro della giustizia, procura generale della Cassazione e CSM attivino la propria attenzione sulle disfunzioni della giurisdizione milanese in relazione all’omicidio Caccia. A tanti anni da quell’omicidio non si conosce l’identità dei due killer, si sa poco dei mandanti e ancor meno delle ragioni e degli interessi altissimi che imposero proprio in quel momento l’eliminazione del procuratore della repubblica di Torino”. Un esempio lampante: perché non è stato mai sentito dagli inquirenti il figlio Guido, al quale il padre aveva parlato pochi giorni prima d’essere ammazzato di una concreta pista su cui stava lavorando e aveva detto che “Nei prossimi giorni succederà una cosa enorme?”. Con ogni probabilità la pista era quella dei maxi riciclaggi della malavita organizzata – la ‘ndrangheta soprattutto – nei Casinò del nord ovest, quello di Saint Vincent in particolare; e le collusioni con i servizi segreti. Un mix esplosivo. Una pista concreta su un business che proprio in quegli anni stava appena cominciando e sul quale il procuratore Caccia stava già indagando con efficacia. Proprio per questo “Doveva morire”, il suo lavoro andava a tutti i costi stoppato. In concreto, fino ad oggi, c’è solo una sentenza pronunciata contro un panettiere di Torrazza Piemonte, Rocco Schirripa, condannato all’ergastolo perché ritenuto l’esecutore materiale del delitto; e contro il boss Domenico Belfiore, ritenuto il mandante. Una sentenza che fa acqua da tutte le parti. E poi c’è la precisa denuncia, cinque anni fa, dei familiari di Caccia, i quali scrivono senza mezzi termini di depistaggi che hanno caratterizzato le indagini, oltre che di una sfilza di inerzie e lungaggini degli inquirenti torinesi e milanesi.

Delitto Bruno Caccia, l’avvocato Repici: “Depistaggio simile a quello di via D’Amelio. Cambiano solo le latitudini”, scrive Simone Bauducco il 16 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Badate a quanto le latitudini cambino il senso delle cose: in Sicilia l’intervento del Sisde, nelle indagini di via d’Amelio, è sinonimo di depistaggio, mentre a Torino per l’omicidio Caccia, l’autorità giudiziaria ha rivendicato pubblicamente di aver incaricato il Sisde per svolgere le indagini, abusivamente”. A 35 anni dalla morte del procuratore Bruno Caccia, la famiglia del giudice, insieme al legale Fabio Repici, continua a chiedere che si faccia chiarezza sul delitto. Durante l’audizione in conferenza capogruppo al comune di Torino, il legale che segue anche la famiglia Borsellino nel processo Borsellino quater, ha evidenziato i punti ancora oscuri della vicenda: “L’omicidio di Bruno Caccia ha pagato pesanti depistaggi: si tratta dell’unico delitto nella storia della Repubblica dove le indagini sono state subappaltate dallo Stato a un mafioso detenuto, Francesco Miano, incaricato appositamente da un funzionario del Sisde”. Ad oggi, per il delitto Caccia sono stati condannati in via definitiva il boss Domenico Belfiore come mandante e in primo grado Rocco Schirripa come esecutore materiale. “C’è un’area di interessi e di concause che hanno portato all’omicidio Caccia che non si è voluto in nessun modo porre sotto la dovuta luce, si è voluto costruire una versione che è palesemente falsa derubricandola a vendetta privata di Domenico Belfiore e del suo gruppetto mafioso, ma nessuno ha voluto ne saputo accertare in sede giudiziaria la causale del delitto”.

Delitto Caccia, «Lacune nelle indagini». Il pg contro i pm: no all’archiviazione. La Procura Generale di Milano avoca l’inchiesta sul procuratore di Torino ucciso nel ‘83. «Mai sentiti i parenti», scrive Luigi Ferrarella il 23 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". L’avocazione a sorpresa dell’ultima indagine (con la Procura Generale di Milano che ieri la toglie alla Procura della Repubblica per l’asserita «non effettività» dell’investigazione) determina l’ennesimo colpo di scena giudiziario attorno all’omicidio, la sera del 26 giugno 1983, dell’allora procuratore della Repubblica di Torino, Bruno Caccia, unico magistrato ucciso al Nord Italia dalla criminalità organizzata. Appena nel luglio dell’anno scorso, a 34 anni di distanza, il pool antimafia milanese, diretto allora da Ilda Boccassini, aveva ottenuto la condanna all’ergastolo di un panettiere calabrese, Rocco Schirripa, 64 anni, individuato nel 2015 come uno dei due esecutori materiali del delitto per il quale nel 1989 come mandante era già stato condannato all’ergastolo il boss di ‘ndrangheta Domenico Belfiore. Ieri la gip Stefania Pepe avrebbe dovuto esprimersi sulla richiesta dei pm di archiviare l’indagine sollecitata dalla famiglia del magistrato nei confronti di un indagato nel processo torinese di ‘ndrangheta «Minotauro», lì condannato a 9 anni per associazione mafiosa: Francesco D’Onofrio, per il quale il 18 maggio 2018 il pm milanese Paola Biondolillo (del pool ora guidato da Alessandra Dolci) aveva appunto chiesto l’archiviazione del fascicolo iscritto l’11 novembre 2016 dopo che il collaboratore di giustizia Domenico Agresta, in un verbale reso ai pm torinesi nell’ottobre 2016, aveva detto di aver appreso in carcere dal padre Saverio e da Aldo Cosimo Crea che «a farsi il procuratore» Caccia fossero stati Schirripa e D’Onofrio. Ma, a sorpresa, in aula ieri a rappresentare l’accusa al proprio posto la pm Paola Biondolillo trova un collega della Procura Generale, Galileo Proietto: che revoca la richiesta di archiviazione in forza di un provvedimento di avocazione dell’indagine recante la data dell’altro ieri e il visto del procuratore generale Roberto Alfonso, depositato in udienza alla gip ma sino ad allora né notificato né anticipato informalmente al procuratore Francesco Greco o al suo vice Dolci o alla pm titolare. Per la Procura della Repubblica, infatti, «nessun elemento di riscontro» ad Agresta era emerso né dai testi del processo a Schirripa, né dalle intercettazioni della Squadra Mobile di Torino (d’intesa con Milano) nel dicembre 2017/gennaio 2018 su D’Onofrio e sulla sua compagna, né dall’interrogatorio milanese di D’Onofrio il 6 marzo 2017.Al contrario per la Procura Generale (alla seconda avocazione di peso dopo quella nel caso Expo sul sindaco Beppe Sala), a parte l’interrogatorio di D’Onofrio, «è mancata una reale attività di indagine nei suoi confronti». Per esempio i familiari di Caccia «non risultano essere mai stati sentiti» su due episodi, come più volte chiesto dal loro avvocato di parte civile Fabio Repici, convinto che l’omicidio del procuratore di Torino debba essere inquadrato all’interno delle indagini (e anche dei rapporti con altre toghe invece opache) che l’«inavvicinabile» magistrato stava svolgendo sui «colletti bianchi» coinvolti nel riciclaggio di denaro della mafia catanese di Nitto Santapaola al Casinò di Saint Vincent. Il primo episodio sarebbe una lettera anonima indicante il nome di un detenuto che potrebbe «dirvi tutto». Il secondo è riportato dal libro «Tutti i nemici del Procuratore» scritto dal viceprocuratore onorario torinese Paola Bellone: lo scatto di nervi di Caccia («voi non capite, io rischio la vita») un giorno che i familiari gli chiedevano di abbassare il volume della radio dalla quale stava ascoltando una notizia.

"Sparai all'uomo sbagliato, lo scoprii dal giornale". Torino, risolto dopo 30 anni l'omicidio Rizzi. Vincenzo Pavia, il killer della famiglia Belfiore, ha ammesso di aver colpito la persona sbagliata per uno scambio di persona, scrive Gioele Anni, Martedì 27/11/2018, su "Il Giornale". Scoprì di aver ucciso l'uomo sbagliato solo la mattina dopo, leggendo il giornale. Ma per più di trent'anni mantenne il segreto. È la terribile storia confessata da Vincenzo Pavia, ex collaboratore di giustizia che negli anni Ottanta agiva a Torino come killer per il gruppo criminale guidato da Salvatore Belfiore. La vittima, Roberto Rizzi, somigliava a un altro uomo rivale del clan dei Belfiore. Si risolve così un giallo mai chiarito: l'assassinio di Rizzi era avvolto nel mistero. I fatti risalgono al 20 maggio 1987. Vincenzo Pavia, accompagnato da Saverio Saffioti, un altro membro della banda, entra nel bar 'I Tre Moschettieri' di via Pollenzo 37 a Torino. È convinto di trovarci un rivale, Francesco Di Gennaro detto 'Franco il rosso'. Invece nel locale c'è Rizzi, che con Di Gennaro ha una certa somiglianza. Pavia va a colpo sicuro: spara un colpo alla testa dell'uomo, poi torna in auto e scappa con il complice. Solo l'indomani si accorgerà dello scambio di persona. Soltanto pochi mesi fa, a giugno, Pavia ha confessato alla Polizia anche questo omicidio. Negli anni '90 ne aveva già ammessi 8, compiuti per i Belfiore di cui era il killer. Dell'omicidio Rizzi risponderà solo lo stesso Pavia: il complice Saffioti, infatti, è stato ucciso nel 1992 proprio su ordine dell'ex alleato Salvatore Belfiore. Francesco Di Gennaro, invece, sarà comunque ucciso sempre nello stesso bar ad agosto del 1988. Tra i vari crimini in cui è coinvolta la famiglia Belfiore c'è anche l'l’omicidio del Procuratore della Repubblica Bruno Caccia, nel giugno 1983.

Bruno Caccia, un omicidio senza giustizia. La famiglia del magistrato ucciso nell’83 accusa: «L’indagine di Milano non ha trovato i veri colpevoli. E il caso va riaperto». La controinchiesta commissionata dai figli arriva a conclusioni precise: non è stato soltanto un delitto di ’ndrangheta, scrive Fabrizio Gatti il 03 aprile 2017 su "L'Espresso". I fantasmi di quei temibili anni Ottanta riaffiorano ovunque. Perfino negli oggetti di cui a Milano è disseminata l’aula della Corte d’assise: il televisore Philips a tubo catodico da cui gracchia la testimonianza del pentito Vincenzo Pavia, il pavimento di linoleum con le venature rosse finto marmo, la vernice delle sbarre consumata da tre decenni di tormenti all’altezza delle mani. Riportano a quell’epoca anche i quadretti rossi e bianchi che dentro la gabbia danno un tocco roseo alla camicia di Rocco Schirripa, 63 anni, l’unico imputato: il panettiere calabrese nato a Gioiosa Ionica è accusato di essere uno dei due killer che spararono al procuratore di Torino, Bruno Caccia, assassinato sotto casa la sera di domenica 26 giugno 1983, in uno dei periodi più sanguinosi della Guerra fredda italiana. Sul processo in corso in questi giorni a Milano si è diviso un pezzo di magistratura. Da una parte il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia (Dda) Ilda Boccassini, il suo sostituto procuratore Marcello Tatangelo, ma anche il presidente della Corte d’assise, Ilio Mannucci Pacini e il giudice a latere, Ilaria Simi de Burgis, convinti che dietro l’agguato ci sia soltanto la ’ndrangheta. Dall’altra, i figli di Bruno Caccia e il loro consulente Mario Vaudano, magistrato legato alle indagini più delicate contro criminalità e corruzione, che con una dettagliata controinchiesta hanno evidenziato il coinvolgimento della mafia catanese di Nitto Santapaola e dei suoi presunti colletti bianchi, che allora tentavano di riciclare nel casinò di Saint-Vincent i guadagni della droga e dei sequestri di persona. Quella della famiglia Caccia è una denuncia circostanziata, che riporta la testimonianza di un altro storico sostituto procuratore milanese, Margherita Taddei: eppure per ben due volte la Dda l’ha invece iscritta tra gli atti non costituenti notizia di reato, tanto da provocare l’intervento severo del procuratore generale reggente, Laura Bertolè Viale, sull’ufficio di Ilda Boccassini. Proprio davanti ai giudici, sul banco della Corte d’assise, torreggia il faldone con le carte delle indagini. Lì in mezzo è depositato il foglio numero 507, verbale di istruzione sommaria che è già uno spartiacque: «Era accaduto», racconta il primo marzo 1984 Bruno Masi, amministratore delegato del casinò di Saint-Vincent, interrogato dall’allora sostituto procuratore Francesco Di Maggio, «che dovendo organizzare un convegno di magistrati sul tema magistratura e potere, insieme con il dottor Simi de Burgis, procuratore della Repubblica di Voghera, manifestai anche a costui le mie preoccupazioni circa l’opportunità di occuparmi io della organizzazione... Ricordo in una occasione, nel mese di settembre, che il dottor de Burgis, commentando con me la vicenda nella quale ero rimasto coinvolto, ipotizzò che mi si potesse attribuire (disse testualmente “quale novello Mefisto”) tutti i mali della Valle d’Aosta e comunque la responsabilità dell’attentato al dottor Selis e dell’assassinio del procuratore della Repubblica di Torino, dottor Caccia». L’allora procuratore di Voghera, Romeo Simi de Burgis, poi assolto in istruttoria con formula piena dalle accuse del boss catanese Angelo Epaminonda, è il papà del giudice a latere nel processo a Rocco Schirripa. È questo il terzo dibattimento sull’omicidio del procuratore Caccia. Il primo si è concluso con una sentenza passata in giudicato nel 1992: ergastolo come mandante per il capoclan della ’ndrangheta Domenico Belfiore, esecutori rimasti sconosciuti e il movente piuttosto generico secondo cui il magistrato è stato ucciso perché non si era piegato alle pressioni della criminalità. Il secondo processo, interrotto per un grave vizio procedurale nel 2016, è quello contro Schirripa: un cognome indicato trentadue anni dopo l’omicidio in una lettera anonima autorizzata dalla procura di Milano e spedita dalla squadra mobile di Torino al boss Belfiore. Il terzo processo, l’attuale, è il replay che deve rimediare al vizio procedurale. Indizi e prove, fantasmi e mostri di quegli anni Ottanta resteranno comunque fuori dalle nuove udienze. Lo ha deciso la Corte d’assise con un’ordinanza che addirittura circoscrive la futura testimonianza dei figli di Bruno Caccia «limitatamente al loro ruolo di danneggiati». Il pubblico ministero Tatangelo e gli stessi giudici condividono la premessa secondo cui nessuno può mettere in discussione la sentenza definitiva su mandante e movente. E nemmeno la stessa attività investigativa di Francesco Di Maggio, morto nel 1996, magistrato che molti famosi colleghi di oggi considerano il loro maestro. Così, ancora una volta, Guido Caccia molto probabilmente non potrà riferire in aula quello che il padre gli ha confidato poche ore prima di essere ucciso. La famiglia del procuratore assassinato, grazie a un’indagine difensiva affidata all’avvocato Fabio Repici e al magistrato in congedo Mario Vaudano, ha infatti scoperto che Belfiore e la ’ndrangheta sono soltanto una parte della trama. Sopra di loro e accanto a loro si muoveva la mafia catanese che a Milano, Torino e Saint-Vincent in quegli anni rispondeva a Nitto Santapaola, ora in carcere a vita per le stragi di Cosa nostra. Il consorzio tra ’ndrangheta e mafia aveva un interesse comune: riciclare attraverso l’ufficio cambi del casinò della Valle d’Aosta i miliardi di lire incassati con i riscatti dei sequestri di persona e il colossale traffico di droga verso la Francia. Un piano che, se scoperto, avrebbe portato alla chiusura della casa da gioco.

Non è una pista alternativa, ma integrativa della condanna contro Belfiore: perché è già tutto scritto negli atti del primo processo, anche se poi la sentenza si è accontentata di una diversa valutazione. Per questo i figli Guido, Cristina e Paola Caccia hanno chiesto nuove indagini sui due nomi già identificati nero su bianco nelle carte depositate. Il primo nome, come ipotetico mandante, è Rosario “Saro” Cattafi: 65 anni, ex estremista di destra, ex intermediario tra industrie e governi nella compravendita di armamenti, sempre sospettato di essere l’ambasciatore degli affari di Stato nel clan Santapaola o viceversa, attualmente è imputato a piede libero in un procedimento per associazione mafiosa. L’altro, denunciato come ipotetico killer, è Demetrio Latella, 63 anni, Luciano per amici ed ex complici: già fornitore di pezzi di ricambio alla marina militare e alla guardia di finanza, in quegli anni sicario calabrese al servizio dei catanesi a Milano e Torino, Latella è un ergastolano premiato con la libertà anche quando trent’anni dopo la polizia ha scoperto la sua partecipazione, mai confessata prima, al sequestro di Cristina Mazzotti. La ragazza di 18 anni, rapita nel 1975 in provincia di Como, uccisa nonostante i genitori avessero pagato il riscatto di un miliardo. Dopo anni di ricerche negli archivi giudiziari, la famiglia Caccia presenta la sua prima denuncia nell’estate 2013. E la Direzione distrettuale antimafia, diretta dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, dimostra subito di non condividere la richiesta di nuove indagini, rese invece possibili dall’esistenza in vita di gran parte dei protagonisti. Pur trattandosi dell’omicidio di un magistrato, la denuncia è iscritta dalla Dda milanese a modello 45: «Atti non costituenti notizia di reato». Un trattamento di solito riservato a esposti palesemente inventati come l’eventuale furto del Colosseo, che permette l’archiviazione da parte della Procura senza sottoporre il caso all’esame di un giudice. Infatti la prima denuncia viene archiviata. Guido, Cristina e Paola Caccia non si arrendono. Raccolgono altre notizie e testimonianze. E nell’estate 2014 consegnano alla Procura di Milano la seconda denuncia aggiornata con i nuovi indizi contro Cattafi e Latella. Ma la Dda iscrive nuovamente il fascicolo come atto privo di notizie di reato. Passa quasi un altro anno senza risultati. Il consulente della famiglia, il magistrato Mario Vaudano, si rivolge alla Procura generale e ottiene l’intervento severo dell’allora procuratore reggente, Laura Bertolè Viale. Si scopre così che il pm Tatangelo ha eseguito le direttive del procuratore aggiunto Boccassini e la prassi della Procura di Torino, da dove Tatangelo proviene. Solo grazie al rimprovero della Procura generale, Cattafi e Latella vengono finalmente iscritti nel registro degli indagati. Da lì a qualche mese, però, a fine 2015 Ilda Boccassini annuncia a sorpresa l’arresto del panettiere Rocco Schirripa. Mentre a fine gennaio di quest’anno il pm Tatangelo chiede l’archiviazione per Cattafi e Latella. Richiesta contro cui la famiglia Caccia ha presentato opposizione.

Il convincimento di un magistrato è insindacabile al di fuori dei riti del giudizio. Ma le osservazioni dei figli del procuratore assassinato sulle scelte investigative dell’allora pubblico ministero, Francesco Di Maggio, trovano conferma nelle migliaia di pagine, che L’Espresso ha potuto esaminare: «Il pm aveva raccolto elementi indizianti ben significativi su soggetti diversi da quelli poi sottoposti a processo», spiega l’avvocato Repici: «La rilevante mole di fonti probatorie relative a Rosario Cattafi, a uno dei presunti killer e al possibile movente del delitto rimase però del tutto trascurata. Su di essa fu omessa ogni valutazione, anche solo finalizzata a destituirla di fondamento». Secondo gli atti depositati dallo stesso Di Maggio e dai colleghi di allora, la mafia comincia a colpire il 13 dicembre 1982. Giovanni Selis, 45 anni, pretore di Aosta, tira la levetta di accensione della sua 500 e l’auto esplode. Il magistrato resta incredibilmente illeso. La sera del 17 dicembre provano ad ammazzarlo sotto casa. Suonano al citofono per farlo uscire. Lui si insospettisce e si chiude dentro. In tutte e due le azioni, viene segnalata un’auto verde con targa francese. Anche l’esplosivo era di produzione francese. Da settembre Selis sta indagando sul casinò di Saint-Vincent: «Come possibile movente», mette a verbale il pretore davanti al sostituto procuratore di Milano, Corrado Carnevali, «richiamo le indagini che avevo in corso presso la casa da gioco... in particolare tra l’ufficio fidi della casa e taluni prestasoldi. Da tempo mi ero interessato all’attività di taluni personaggi. Mi riferisco in particolare a un certo avvocato Valentini di Milano... Aggiungo ancora che una specifica indagine demandata alla guardia di finanza aveva a oggetto l’individuazione della causale di un assegno emesso da un certo ingegner Mariani in favore di Masi, amministratore delegato della Sitav, società che ha la gestione del casinò». «Dopo l’attentato ai miei danni», aggiunge Selis, «mi telefonò il collega Marcello Maddalena, sostituto procuratore a Torino, chiedendomi un colloquio riservato. In esito a questo colloquio sono legato al segreto istruttorio. Posso però affermare che potrebbe sussistere un collegamento fra le mie indagini e quelle del collega Maddalena, aventi a oggetto riciclaggio di denaro proveniente da sequestri di persona». Nella primavera 1983 il genero del procuratore Caccia, Gianvi Fracastoro, oggi professore al Politecnico di Torino, viene contattato da un ex compagno di scuola conosciuto durante gli studi a Catania.

L’amico ritrovato, Ettore Impellizzeri, una sera lo invita al ristorante “Giudice”, fuori città. Si presenta su una Porsche. A cena Impellizzeri gli rivela di conoscere Nitto Santapaola. E dice che in caso di furto dell’auto, il boss gliel’avrebbe fatta restituire. Poi a bruciapelo l’ex compagno di scuola chiede se il dottor Caccia è avvicinabile: «È uno con cui si può parlare?». Il genero del procuratore non risponde. Lì per lì pensa a una smargiassata. Dopo l’omicidio, l’amico ritrovato non si farà più sentire. Dal 17 maggio al 13 giugno di quell’anno, Bruno Caccia affida al suo sostituto Maddalena le indagini e il sequestro della documentazione sui conti correnti del casinò di Saint-Vincent, dei suoi amministratori e di alcuni cambiavalute. La guardia di finanza passa al setaccio uffici, case e banche, tra cui le sedi di Novara, Aosta e Milano della Banca Popolare di Novara. I mandati di perquisizione sono inequivocabili. Quei verbali ancora oggi ci ricordano che indagando sul riscatto per il sequestro degli imprenditori Tullio Fattorusso e Lorenzo Crosetto «risulta come le operazioni di riciclaggio venissero effettuate presso il casinò di Saint-Vincent, attraverso un meccanismo che potrebbe coinvolgere responsabilità di persone che operano sia all’interno che all’esterno del casinò, in qualità di cambiavalute o addirittura come responsabili dell’ufficio fidi». In quegli stessi giorni ad Alessandria si incontrano per parlarne quattro persone: l’amministratore delegato del casinò Masi; Franco Mariani, l’ingegnere messo sotto inchiesta dal pretore Selis nonché commerciante di armamenti e produttore di motori per i mezzi delle forze armate; il suo collaboratore Rosario “Saro” Cattafi e il capitano Rossi, alias Enrico Mezzani, un informatore del Sisde, il servizio segreto interno, in contatto con la guardia di finanza. Secondo Cattafi, poi interrogato da Di Maggio, Masi era alla ricerca di qualcuno ben introdotto nelle istituzioni capace di bloccare l’iniziativa giudiziaria: «Era anche preoccupato per talune pressioni che, nel corso della cena, disse di avere ricevuto da ambienti siciliani che avevano di mira l’accaparramento dell’ufficio cambi del casinò», sostiene Cattafi. Senza però rivelare che quegli “ambienti siciliani” sono i suoi. Lo racconterà mesi dopo, sempre a Di Maggio, il primo boss pentito Angelo Epaminonda: «Saro, un siciliano, sui 35 anni: dopo i primi convenevoli, nel corso dei quali Saro mi spiegò di essere legato strettamente a Nitto Santapaola, mi feci indicare i termini del progetto. Saro disse che agiva in società con altra persona ben introdotta nel casinò di Saint-Vincent e che si poteva impiantare nel casinò il lavoro del cambio assegni». Il pomeriggio di domenica 26 giugno, poche ore prima dell’agguato, Bruno Caccia e la moglie Carla Ferrari vanno a casa del figlio Guido. Hanno ospitato i nipotini nel fine settimana e gli riportano i bambini: «Si parlava di malaffare», racconta oggi Guido Caccia, «e papà disse: vedrete cosa verrà fuori tra qualche giorno, qualcosa di davvero grosso, ci sarà una bella sorpresa. Ricordo perfettamente il senso della frase. E ricordo anche la mia di sorpresa, perché papà non parlava mai del suo lavoro. Quella frase e l’assenza dopo qualche giorno di quel qualcosa di grosso annunciato mi hanno sempre accompagnato da allora. Ma su questo non sono mai stato interrogato».

Quasi quattro mesi dopo l’omicidio del procuratore, il 13 ottobre, l’avvocato di Milano Giuseppe Valentini, lo stesso su cui stava indagando il pretore Selis, scrive all’amministratore del casinò, Bruno Masi: «Colgo l’occasione per comunicarle, unicamente per sua informativa, che ieri ho ricevuto inaspettatamente la visita del signor Saro Cattafi, il quale si è preoccupato di notiziarmi di aver avuto da Lei impegno preciso ed inderogabile di autorizzare suoi amici di essere ammessi all’interno delle sale da gioco del casinò de La Vallè, con la esclusiva funzione di prestare denaro ai giocatori e ciò in cambio di un non precisato favore da lei richiesto e dal signor Cattafi esaudito». Il 7 novembre, l’avvocato Valentini scrive a Masi una nuova lettera, ancor più allusiva: «Non ritengo che io Le abbia mai estorto denaro o richiestoLe in mio favore un ingiusto profitto minacciandoLa di svelare cose o fatti per Lei compromettenti, soprattutto perché non ritengo che Lei abbia delle “verità” o “dei fatti” compromettenti sui quali vuol mantenere il segreto e che siano a mia conoscenza». Qualche giorno prima, il 3 novembre, l’ingegner Mariani, il compare commerciale di Cattafi, attraverso l’informatore del Sisde Mezzani fa arrivare alla guardia di finanza un rapporto riservato sull’omicidio del procuratore. Non sono stati i calabresi a volerlo morto ma i catanesi di Nitto Santapaola, rivela Mariani, rappresentati a Torino e Milano da Luigi “Gimmi” Miano e da Angelo Epaminonda: «Sempre come sfondo vi è la questione (come giustamente il pretore Selis pensa) inerente Saint-Vincent, Sanremo e Campione. Caccia si era confidato con un avvocato dicendo che poteva tra poco procedere contro i tre casinò. Era certo che tutti i soldi sporchi erano cambiati nei tre casinò... Il numero uno dei killer è un calabrese di nome Luciano legato al clan Santapaola... Al momento c’era in gioco l’asta di Sanremo e qualche improvviso scandalo con conseguenti arresti poteva essere di enorme danno». Preso a verbale l’anno dopo da Di Maggio, Mariani conferma le informazioni. Dice di averle ricevute da Cattafi. E aggiunge che Luciano, l’assassino del procuratore Bruno Caccia, è proprio Demetrio Latella.

Cattafi e Mariani, comunque sempre usciti indenni dalle indagini, vengono nel frattempo intercettati per il sequestro di un altro imprenditore, Mario Airaghi. Il giudice istruttore Margherita Taddei, oggi magistrato alla Corte di cassazione, dispone la perizia sulle telefonate e la trascrizione delle conversazioni. Ma viene fermata dal pm Di Maggio. È il 23 maggio 1984. Rispondendo alle domande del difensore della famiglia Caccia, Margherita Taddei ammette di avere un netto ricordo di quell’iniziativa anomala. Sono parole sue. Mette anche a verbale di essere assolutamente certa che Di Maggio non fosse il pubblico ministero titolare del procedimento: «Ricevetti la visita nel mio ufficio da parte del dottor Di Maggio, che nell’occasione era accompagnato dal dottor Francesco Saverio Borrelli, allora procuratore aggiunto. Il dottor Di Maggio venne per chiedermi di soprassedere dalla trascrizione delle intercettazioni disposte nei confronti di Mariani e Cattafi. Io fui molto sorpresa dall’intervento del dottor Di Maggio... A dire il vero quella richiesta mi lasciò parecchio esterrefatta. Già su quelle intercettazioni, eseguite dai carabinieri del nucleo operativo, avevo rilevato qualche stranezza. Ma davanti alla richiesta del dottor Di Maggio, supportata anche con la sua sola presenza dal procuratore aggiunto Borrelli, per esigenze di indagine che mi vennero rappresentate come particolarmente importanti, non potei che revocare l’imminente perizia». L’intervento di Borrelli, il futuro procuratore di Mani pulite, è stato evidentemente richiesto da Di Maggio che, da quello che si legge nella sua nota riservata consegnata personalmente al giudice Taddei, sta indagando su un «fatto di eccezionale gravità»: non fa nomi, ma tutti i colleghi sanno che la sua indagine più delicata in quel periodo è proprio l’omicidio di Bruno Caccia. Nel 2009 ancora un colpo di scena. Il magistrato Olindo Canali, oggi giudice al Tribunale di Milano e negli anni Ottanta, come uditore, spesso accanto a Francesco Di Maggio nell’indagine sull’agguato al procuratore di Torino, riferisce una frase che potrebbe far riaprire il caso. Il giudice Canali la pronuncia in una telefonata intercettata e poi la conferma in tutti i procedimenti per mafia in cui è chiamato a testimoniare: «Quel Saro Cattafi in cui trovammo in casa la rivendicazione dell’omicidio del giudice Caccia fatta dalle Br, che in realtà poi sappiamo fu ucciso dai calabresi e dai catanesi», dice nel mezzo di un discorso. La fonte di Canali è sempre Di Maggio. Ma oggi si scopre che, diversamente dalla prassi, i carabinieri del nucleo operativo di allora non hanno fotocopiato i documenti sequestrati a Saro Cattafi: nemmeno le «agende personali» o gli «otto fogli manoscritti», elencati nel verbale e restituiti con tutto il resto al proprietario. Così non ne restano copie. Il 1983 italiano, cominciato con l’assassinio vicino a Trapani del magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto, si conclude con lo stop all’inchiesta del giudice istruttore di Trento, Carlo Palermo. Ciaccio Montalto, Caccia, Palermo hanno aggredito la piovra lungo i suoi tentacoli più pericolosi: quello economico e quello politico. Bisognerà aspettare altri dieci anni, la reazione alle stragi del 1992 e ’93, prima che quella sacra alleanza si spezzi. «Dai morti non ci difendiamo, non c’è niente da fare», dice il giudice Olindo Canali nella telefonata del 2009, «e neanche da ciò che i morti ci dicono con la bocca dei vivi, non ci possiamo difendere». L’importante, però, è saperli ascoltare.

Omicidio Caccia, un giallo senza finale. «Ignorate le indicazioni della famiglia». Mario Vaudano, ex collega del procuratore assassinato: respinte da Ilda Boccassini le richieste di indagini formulate dai figli. Inchiesta trasferita d'autorità alla Procura generale. I misteri sul ruolo del Sisde, scrive Fabrizio Gatti il 29 novembre 2018 su "L'Espresso". 1983. Funerali del Procuratore della Repubblica Bruno Caccia. L'omicidio del procuratore di Torino, Bruno Caccia, da trentacinque anni attende giustizia. L'ultimo colpo di scena è della scorsa settimana: la Procura generale ha avocato l'inchiesta togliendola alla Procura di Milano per presunte lacune nelle indagini. La versione ufficiale circolata nel Palazzo di giustizia sostiene che l'attuale capo della Direzione distrettuale antimafia (Dda), Alessandra Dolci, e il sostituto procuratore Paola Biondolillo abbiano chiesto l'archiviazione del fascicolo, senza approfondire il ruolo di Paolo D'Onofrio, indagato come esecutore dell'agguato. Un fascicolo aperto dal precedente capo della Dda, Ilda Boccassini, e affidato al pubblico ministero, Marcello Tatangelo. Ma non è andata esattamente così. La realtà dei fatti è stata ripristinata da Mario Vaudano, storico giudice istruttore di Torino, nonché amico e allora "discepolo" di Bruno Caccia. Alessandra Dolci ha infatti ereditato l'inchiesta da Ilda Boccassini quando il termine per le indagini era già scaduto: quindi non poteva fare altro che chiederne l'archiviazione. Vaudano è intervenuto sulla pagina Facebook dedicata ad Agnese Borsellino, moglie di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso dalla mafia con la sua scorta nella strage di via D'Amelio a Palermo il 19 luglio 1992. «Per correttezza di informazione», scrive Vaudano, ora in congedo per limiti d'età, «devo indicare che si menziona il merito dei magistrati inquirenti Boccassini e Tatangelo. Tuttavia la responsabilità delle indagini lacunose a cui è dovuta l'avocazione (da parte della Procura generale, ndr) è stata di questi stessi e non dei loro successori. Purtroppo la precedente gestione della Direzione distrettuale antimafia aveva infatti respinto tutte le richieste di indagini formulate con precisione dalla parte civile, la famiglia Caccia e dall'avvocato Repici». Aggiunge l'ex giudice istruttore: «È sempre difficile e talora molto triste, ma deve essere detto per onestà intellettuale. Il ruolo dei veri amici è di dire anche quello che non si condivide. Anche da parte di uno come me che vanta una lunga amicizia con Ilda Boccassini...». Sull'omicidio del procuratore di Torino, assassinato a 65 anni il 26 giugno 1983, alla vigilia di una colossale indagine sul riciclaggio degli incassi della mafia catanese nei casinò italiani, si sono celebrati tre processi. L'ultimo si è concluso lo scorso anno con la condanna all'ergastolo del panettiere Rocco Schirripa, 64 anni, che l'inchiesta condotta dal pm Tatangelo indica come uno degli esecutori. Il secondo procedimento, sempre contro Schirripa, era stato interrotto per vizi procedurali. Il primo processo era invece terminato con una sentenza passata in giudicato nel 1992: condanna a vita come mandante per il capoclan della 'ndrangheta, Domenico Belfiore, e il movente piuttosto generico secondo cui Bruno Caccia è stato ucciso perché non si era piegato alle pressioni della criminalità. Sia Tatangelo, sia l'allora capo della Dda, Ilda Boccassini, non hanno invece trovato riscontri sul presunto coinvolgimento di Francesco D'Onofrio, ex militante dell'organizzazione terroristica “Comunisti organizzati per la liberazione proletaria” e oggi accusato di essere un affiliato alla 'ndrangheta torinese, tuttora in attesa del giudizio in Appello per il processo “Minotauro”. Di lui aveva parlato un collaboratore, Domenico Agresta, riferendo notizie apprese in carcere secondo le quali Schirripa e D'Onofrio sono gli assassini del procuratore. Bruno Caccia è l'unico magistrato ucciso dalla criminalità organizzata al Nord. I processi si sono svolti a Milano, poiché è il Tribunale competente per i reati che coinvolgono i pubblici ministeri e i giudici del distretto torinese. Ma esiste un ulteriore fascicolo per il quale il pm Tatangelo con il visto del capo Boccassini ha chiesto l'archiviazione, senza sentire i testimoni segnalati: è la denuncia circostanziata presentata dai figli del procuratore assassinato nei confronti di Rosario “Saro” Cattafi, 66 anni, indicato come presunto mandante, e Demetrio “Luciano” Latella, 64 anni, descritto come uno degli esecutori. Cattafi è un ex intermediario tra industrie e governi nella compravendita di armamenti, sospettato di essere l’ambasciatore degli affari di Stato nel clan catanese di Nitto Santapaola e viceversa: attualmente è libero sull'orlo della prescrizione, in attesa che la Corte d'Appello di Reggio Calabria ridetermini la pena, dopo che la Cassazione ha accolto il suo ricorso in merito a una condanna per associazione mafiosa, per fatti avvenuti prima del 2000. Latella è invece un ex fornitore di pezzi di ricambio alla Marina militare, ex sicario calabrese al servizio dei catanesi a Milano e Torino: un ergastolano premiato con la libertà anche quando trent'anni dopo la polizia ha scoperto la sua partecipazione, mai confessata prima, al sequestro di Cristina Mazzotti, rapita a 18 anni nel 1975 e uccisa, nonostante i genitori avessero pagato un miliardo di lire come riscatto.

I nomi di Cattafi e di Latella emergono dalla lunga indagine condotta sull'omicidio del procuratore dal magistrato di Milano, Francesco Di Maggio. I figli di Bruno Caccia, assistiti dall'avvocato Fabio Repici e come consulente gratuito da Mario Vaudano, per anni hanno cercato e studiato negli archivi giudiziari. E hanno scoperto che è già tutto scritto nella mole di documenti depositata da Di Maggio: Bruno Caccia stava per avviare un'indagine sul riciclaggio della mafia catanese nel casinò di Saint Vincent, dopo l'attentato al pretore di Aosta, Giovanni Melis, sopravvissuto all'esplosione della sua Fiat 500. Solo che tutte queste informazioni sono rimaste chiuse nei faldoni. E l'indagine di Francesco Di Maggio, storico nome dell'antimafia milanese scomparso nel 1996, ha portato a una ricostruzione molto più limitata nei fatti e alla condanna del boss della 'ndrangheta, Domenico Belfiore. Ricostruzione ufficiale che, ancora oggi, esclude il coinvolgimento della mafia catanese. La prima denuncia circostanziata dei figli del procuratore contro Cattafi e Latella viene presentata nell'estate 2013. Ma Ilda Boccassini dimostra subito di non condividere i risultati della controinchiesta suggerita dalla famiglia Caccia. Tanto che, pur trattandosi dell'omicidio di un magistrato, il fascicolo viene iscritto a modello 45: «Atti non costituenti notizia di reato». Ifigli Guido, Cristina e Paola Caccia non si arrendono e nell'estate 2014 consegnano alla Procura di Milano una seconda denuncia, con nuovi indizi contro Cattafi e Latella. Ma la Direzione distrettuale antimafia di allora iscrive nuovamente il fascicolo come atto privo di notizie di reato. Passa quasi un altro anno senza risultati. Il magistrato Mario Vaudano si rivolge alla Procura generale e ottiene l'intervento severo dell'allora procuratore reggente, Laura Bertolè Viale. La denuncia dei familiari viene finalmente iscritta come omicidio. Ma nel giro di qualche mese, a fine 2015, la Direzione distrettuale antimafia arresta Rocco Schirripa mentre per Cattafi e Latella viene chiesta l'archiviazione. «In conclusione», scrive il pm Tatangelo, «gli elementi acquisiti, per le ragioni esposte, paiono del tutto inidonei a sostenere adeguatamente l'accusa in giudizio, sia per Cattafi, sia per Latella». Arriviamo così a oggi. L'11 settembre scorso, durante l'udienza preliminare, i figli di Bruno Caccia si oppongono all'archiviazione della loro denuncia. Da quel giorno il giudice si è riservato la decisione e non si è ancora espresso. Secondo l'avvocato Repici, sarebbe stato doveroso sentire la testimonianza dei colleghi con cui il procuratore lavorava: Francesco Marzachì, Marcello Maddalena, Francesco Saluzzo, Armando Vitari e Ugo De Crescienzo. Perché potrebbero tuttora aiutare a capire cosa intendesse Bruno Caccia quando, poche ore prima di essere ucciso, si confidò con il figlio Guido: «Si parlava di malaffare», racconta oggi Guido Caccia, «e papà disse: vedrete cosa verrà fuori tra qualche giorno, qualcosa di davvero grosso, ci sarà una bella sorpresa. Ricordo perfettamente il senso della frase. E ricordo anche la mia sorpresa, perché papà non parlava mai del suo lavoro. Quella frase e l'assenza dopo qualche giorno di quel qualcosa di grosso annunciato mi hanno sempre accompagnato da allora». Ma né il figlio né i colleghi di Bruno Caccia sono mai stati sentiti in Procura. Il procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso, e il suo sostituto procuratore generale, Galileo Proietto, hanno ora la possibilità di estendere l'inchiesta. A cominciare dal ruolo del Sisde, l'allora servizio segreto civile che, come ricorda il legale della famiglia Caccia, per la strage di via D'Amelio è oggi sinonimo di depistaggio: mentre a Torino fin dai primi mesi dopo l'agguato gli 007 del Sisde, con la loro partecipazione diretta e abusiva alle indagini, hanno potuto contribuire alla versione ufficiale della vendetta personale del boss Domenico Belfiore. Una versione che secondo i familiari è smentita dalle carte, dimenticate nei faldoni del primo processo. Basterebbe leggerle.

Omicidio Caccia, dopo trent'anni il presunto killer a processo. Il procuratore della Repubblica del capoluogo piemontese venne ucciso per le sue indagini sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte, i rapporti della criminalità organizzata con i servizi segreti e gli interessi di Cosa nostra nei casinò del nord Italia. E dalle carte della famiglia emergono depistaggi e inerzie sulle indagini, scrive Anna Dichiarante il 5 luglio 2016 su "L'Espresso". Si dice che la mafia non dimentichi e si vendichi degli sgarri subiti anche a distanza di anni. Ma questa volta è lo Stato a non aver abbandonato la presa e ad aver deciso di perseguire gli esecutori materiali di un delitto, di cui finora si conosceva solo il nome del mandante. Trentatré anni dopo l’omicidio di Bruno Caccia, avvenuto a Torino, in via Sommacampagna, la sera del 26 giugno 1983, si apre domani davanti alla Corte d’assise di Milano il processo al suo presunto killer. Lo scorso maggio, infatti, il giudice per le indagini preliminari Stefania Pepe ha emesso decreto di giudizio immediato nei confronti di Rocco Schirripa, il sessantaquattrenne di origini calabresi arrestato nel dicembre 2015 dalla Squadra mobile di Torino e accusato, appunto, di aver ucciso il procuratore della Repubblica del capoluogo piemontese. A chiedere il rito alternativo, convinti dell’evidenza delle prove a suo carico, erano stati i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Milano, il sostituto Marcello Tatangelo e l’aggiunto Ilda Boccassini, che hanno coordinato le indagini. Un’inchiesta ripartita grazie alla richiesta presentata dai figli del procuratore Caccia, attraverso il loro avvocato Fabio Repici: nell’esposto erano contenuti spunti investigativi che puntavano l’attenzione, oltre che sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte, anche sui rapporti della criminalità organizzata con i servizi segreti e sugli interessi di Cosa nostra nei casinò del nord Italia. Esattamente quelli su cui indagava Caccia e su cui aveva indagato anche l’allora pretore di Aosta Giovanni Selis, che per la sua attività d’inchiesta sul casino di Saint Vincent il 13 dicembre 1982 subì un attentato: la sua Cinquecento, imbottita di esplosivo, saltò in aria e lui si salvò per un soffio. Nelle carte della famiglia Caccia, poi, si denunciavano depistaggi e inerzie da parte di alcuni magistrati delle Procure di Torino e Milano, da cui sarebbe derivato lo stallo nella ricerca dei colpevoli. E pochi giorni fa, durante le cerimonie per l’anniversario dell’omicidio, anche il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo è tornato sulla questione, definendo Caccia come “vittima di una controffensiva da parte di ambienti criminali, nella cui orbita gravitavano, fra l’altro, personaggi che prosperavano vicino alla Procura”. Se ancora resta parecchio da scoprire sui motivi che hanno determinato il suo assassinio, infatti, è certo che Caccia avesse dato fastidio a molti per la sua incorruttibilità.

Così le nuove indagini hanno portato sulle tracce di Schirripa, che in questi trent’anni aveva continuato a vivere a Torino e a lavorare come panettiere in borgata Parella. Per i pm milanesi, sarebbe proprio lui l’uomo alla guida dell’auto che avvicinò il procuratore mentre si trovava vicino casa, a passeggio con il suo cane. E proprio lui avrebbe ucciso Caccia, sparandogli il colpo di grazia alla testa. Secondo il giudice che ne aveva autorizzato l’arresto a pochi giorni dal Natale dell’anno scorso, però, Schirripa non sarebbe stato solo: insieme a lui ci sarebbe stato Domenico Belfiore, il boss calabrese già condannato all’ergastolo nel 1993 come mandante dell’omicidio. Scavando nel passato di Schirripa, gli inquirenti hanno scoperto legami di parentela con Belfiore e da lì sono partiti: hanno iniziato a intercettare il boss, nel frattempo uscito dal carcere a causa delle sue condizioni di salute, grazie a un virus che permette di attivare a distanza i microfoni degli smartphone e di trasformarli in registratori. Le conversazioni intrattenute al telefono, ma anche in luoghi all’aria aperta considerati immuni da microspie, sono state quindi immagazzinate. E per sollecitare gli intercettati a parlare ed eventualmente a tradirsi, gli investigatori hanno adottato anche un altro stratagemma. Hanno inviato ai sospettati una lettera anonima con un articolo di giornale relativo all’omicidio e con i loro nomi scritti dietro a mano: a quel punto, il panettiere ha capito che il rischio di essere scoperto era altissimo e ha iniziato a progettare la fuga. Ma è stato arrestato. Sul valore probatorio delle intercettazioni raccolte sono ora pronti a dare battaglia gli avvocati Basilio Foti e Mauro Anetrini, difensori di Schirripa: secondo loro, le parole del presunto omicida, pronunciate spesso in dialetto calabrese, sarebbero state fraintese o travisate nel corso delle operazioni di ascolto e di trascrizione da parte della polizia giudiziaria. In realtà, Schirripa era personaggio già noto ai magistrati antimafia. Le prime accuse mosse nei suoi confronti, proprio in riferimento al caso Caccia, risalgono agli anni Novanta. Vincenzo Pavia, cognato di Domenico Belfiore, decise allora di parlare del delitto con i pm Marcello Maddalena e Sandro Ausiello, confermando di aver partecipato ai sopralluoghi per l’organizzazione dell’agguato e indicando i nomi dei componenti del commando. A partecipare all’esecuzione, secondo lui, sarebbero stati Renato Angeli, Giuseppe Belfiore (fratello di Domenico), Tommaso De Pace e Rocco Schirripa. Le dichiarazioni di Pavia furono però ritenute inattendibili, perché al momento dell’omicidio Angeli era detenuto. L’indagine venne quindi archiviata. Il nome del panettiere, poi, è riemerso sia nel 2011, nella grande operazione contro la ‘ndrangheta in provincia di Torino denominata “Minotauro”, a seguito della quale è stato condannato come affiliato del locale di Moncalieri, sia poco tempo dopo, quando è stato accusato dalla Procura torinese di aver favorito la latitanza di Giorgio De Masi “u Mangianesi”, ritenuto il capo della cosca di Gioiosa Jonica.

Trentadue anni dopo l'omicidio preso il killer del giudice Caccia. Il mandante era già stato condannato. Era un capo della 'ndrangheta piemontese. L'inchiesta è proseguita e ha portato all'arresto del presunto esecutore del magistrato "incorruttibile", condannato a morte dai clan calabresi negli anni '80. Il primo e unico omicidio "istituzionale" deciso dai boss fuori dalla Calabria, scrive Giovanni Tizian il 22 dicembre 2015 su "L'Espresso". L'hanno incastrato con uno stratagemma degno della fiction Csi. Rocco Schirripa, uno dei presunti killer del giudice torinese Bruno Caccia, è stato arrestato trentadue anni dopo quell'esecuzione. Con il mandante, Domenico Belfiore, già condannato per l'omicidio. Il caso non è ancora chiuso. Gli investigatori sono arrivati a Schirripa dopo avere inviato una lettera anonima ai sospettati del delitto, in allegato c'era una fotocopia di un articolo che riportava la notizia dell'uccisione del procuratore di Torino con scritto a penna il nome del presunto killer, Rocco Schirripa appunto. Quella missiva a portato i sospettati a confidarsi l'uno con l'altro. Hanno inziaito, così, a fare supposizioni su chi di loro avesse parlato. Le intercettazioni hanno fatto il resto. Parola dopo parola, confidenza dopo confidenza hanno condotto gli inquirenti della procura antimafia di Milano, coordinata da Ilda Boccassini, con la squadra Mobile del capoluogo lombardo e di Torino sulle tracce di Schirripa, panettiere di 64 anni nella periferie torinese, imparentato tra l'altro proprio con Belfiore. Bruno Caccia è stato ucciso il 26 giugno 1983, con 14 colpi di pistola a pochi passi da casa, in via Sommacampagna. Il procuratore Caccia guidava la procura torinese. Secondo uno dei boss era «uno con cui non si poteva parlare». Assassinato mentre portava a passeggio il suo cane da almeno due sicari che lo finirono con un colpo alla testa. Caccia era impegnato in importanti indagini sul terrorismo perciò le prime ipotesi investigative puntavano a quell'ambito. Solo qualche tempo dopo grazie ad alcune inchieste sui clan catanesi a Torino, si è arrivati alla 'ndrangheta piemontese. Che già da tempo aveva messo radici nel territorio. I magistrati arrivarono così a Domenico Belfiore, punto di riferimento della 'ndrine del Nord. Secondo l'accusa era lui il mandante dell'omicidio Caccia. La prima e unica volta che la 'ndrangheta ha colpito un uomo delle istituzioni fuori dalla Calabria. Proprio negli anni in cui stava crescendo enormemente. Nel periodo in cui stava prendendo forma l'impero che conosciamo oggi. Un segnale ben preciso, di potenza, di forza, di organizzazione. Eppure, il sangue di Caccia, purtroppo, pian piano, negli anni è stato dimenticato. Così come il suo esempio. Rimuovendo la sua storia, è stata rimossa anche la presenza delle cosche in Piemonte. Dodici anni dopo l'uccisione del giudice incorruttibile, sempre la provincia di Torino emerge per questioni mafiose. Il comune di Bardonecchia verrà sciolto per 'ndrangheta, il primo del Nord Italia. Ventotto anni dopo, invece, centinaia di arresti porteranno alla sbarra le cosche calabresi trapiantate tra Torino e la Val di Susa. È l'operazione Minotauro: un'inchiesta e un processo storici. Davanti ai giudici hanno sfilato boss, imprenditori, politici, professionisti. Da quell'indagini partirono anche le ispezioni in alcuni Comuni della cintura torinese per valutarne lo scioglimento. «Come torinese e come magistrato che da Bruno Caccia ha imparato tutto, esprimo il ringraziamento e l'apprezzamento più convinto per l'ottimo lavoro della procura di Milano e della squadra mobile di Torino, che con pazienza e intelligenza sono riuscite ad aprire una nuova pista di indagine sull'omicidio dopo più di trent'anni», ha dichiarato Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo di Torino, che era giudice istruttore ai tempi di Caccia. Entrambi, negli anni Settanta, si erano occupati dell'inchiesta sui capi storici delle Brigate Rosse. «L'arresto di oggi», ha commentato Cristina Caccia, figlia del magistrato assassinato «è un tassello importante per gli sviluppi futuri dell'inchiesta. Ci auguriamo che possa far luce su tutti i risvolti rimasti oscuri di questa vicenda, a partire dagli altri mandanti». Dall'omicidio Caccia, dunque, a Minotauro, c'è sempre lo stesso sfondo criminale che fa da cornice. Come un romanzo criminale, di cui ancora non si conosce la fine. Con molti capitoli ancora da scrivere. E i protagonisti già noti.

32 ANNI DOPO. Svolta nel delitto di Bruno Caccia, arrestato il presunto assassino. Il procuratore ucciso la sera del 26 giugno 1983 da un commando di almeno due persone. Il fermato è un 62enne di origini calabresi che faceva il panettiere in piazza Campanella a Torino. Caselli: «Ringrazio come magistrato e torinese», scrive Silvia Morosi il 22 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. Uno dei presunti assassini di Bruno Caccia, il procuratore capo di Torino ucciso nel 1983, è stato arrestato dalla polizia. Si tratta di Rocco Schirripa, un torinese di 62 anni, di origini calabresi, che attualmente fa il panettiere alla periferia di Torino, nel popolare quartiere Parella. Schirripa avrebbe dato il «colpo di grazia» al magistrato, vittima di un agguato. L’inchiesta è stata coordinata dai pm Ilda Boccassini e Marcello Tatangelo. Caccia fu ucciso la sera del 26 giugno 1983, 32 anni fa, con 14 colpi di pistola mentre portava a spasso il suo cane, un cocker, sotto casa, in via Sommacampagna, davanti al numero civico 15, sulla precollina di Torino. Oggi qui resta una targa sotto la fronda di un glicine: «Il 26 giugno 1983 qui è caduto, stroncato da mano assassina, nel pieno della sua lotta contro il crimine, Bruno Caccia. Procuratore della Repubblica, medaglia d’oro al valor civile, strenuo difensore del diritto, luminoso esempio di coraggio e fedeltà al dovere». Per l’accaduto fu arrestato, nel 1993, il mandante del delitto, Domenico Belfiore, esponente di spicco della ‘ndrangheta in Piemonte, poi condannato all’ergastolo e dallo scorso 15 giugno ai domiciliari per motivi di salute. Caccia stava indagando su numerosi fatti di ‘ndrangheta tra cui alcuni sequestri di persona. «Come torinese e come magistrato che da lui ha imparato tutto, esprimo il ringraziamento e l’apprezzamento più convinto per l’ottimo lavoro della procura di Milano e della squadra mobile di Torino, che con pazienza e intelligenza sono riuscite ad aprire una nuova pista di indagine sull’omicidio dopo più di trent’anni», ha detto Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo a Torino — ora in pensione — in merito agli sviluppi dell’inchiesta.

Il delitto Caccia: il giorno in cui Torino conobbe la ‘ndrangheta. Erano gli anni di Piombo e per le strade del capoluogo piemontese scorreva il sangue del terrorismo e della criminalità organizzata. Alle undici di sera del 26 giugno 1983, il magistrato più importante di Torino, il procuratore capo Bruno Caccia, stava portando a passeggio il cane quando due killer su una Fiat 128 lo freddarono a colpi di pistola. Era domenica e aveva deciso di lasciare a riposo la scorta. Uno dei presunti componenti di quel commando è stato arrestato martedì 22 dicembre a Torino. Cinque gradi di giudizio, conclusi con la condanna del boss Domenico Belfiore, ritenuto il mandante, non sono bastati a far piena luce sul delitto di un «nitido esempio di dedizione allo stato, un uomo con la giustizia nel cuore», come i suoi colleghi, dal procuratore generale Marcello Maddalena al procuratore capo Giancarlo Caselli, lo hanno ricordato in questi anni. «Ci sono ancora troppi buchi», diceva l’avvocato Fabio Repici, il legale della famiglia Caccia, che in occasione del trentennale della morte avevano chiesto di riaprire il caso. L’arresto potrebbe far luce su una delle pagine più buie di Torino. E dare giustizia alla famiglia del magistrato. Trentadue anni dopo.

Le indagini sull’omicidio. Sui mandanti dell’omicidio, le indagini presero subito la via delle Brigate Rosse: erano gli anni di Piombo e per di più le indagini di Bruno Caccia riguardavano in presa diretta molti brigatisti. Il giorno seguente, le Br rivendicarono l’omicidio, ma presto si scoprì che la rivendicazione risultava essere falsa. Inoltre nessuno dei brigatisti in carcere rivelò che fosse mai stato pianificato l’omicidio del magistrato cuneese. Le indagini puntarono allora l’attenzione sui neofascisti del NAR, ma anche questa pista si rivelò ben presto infondata. L’imbeccata giusta arrivò da un mafioso in galera, Francesco Miano, boss della cosca catanese che si era insediata a Torino. Grazie all’intermediazione dei servizi segreti, Miano decise di collaborare per risolvere il caso e raccolse le confidenze del ‘ndranghetista Domenico Belfiore, uno dei capi della ‘ndrangheta a Torino e anch’egli in galera. Belfiore ammise che era stata la ‘ndrangheta ad uccidere Caccia e il motivo principale fu che «con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare», come disse lo stesso Belfiore. Come mandante dell’omicidio, Domenico Belfiore venne condannato all’ergastolo nel 1993. Nella sentenza c’è il racconto di un omicidio deciso a freddo, studiato nei minimi particolari, eseguito con brutale ferocia, per «eliminare un ostacolo all’attività della banda». Il clan dei calabresi era infatti nel mirino della Procura della Repubblica da quando Bruno Caccia era arrivato al vertice dell’ufficio: la sua sola presenza costituiva una grave minaccia. Quando Belfiore esce dal carcere, è con un escamotage che gli uomini della Squadra mobile riescono a ricostruire il rapporto con Rocco Schirripa, mai entrato nell’inchiesta sul delitto di Caccia, e a scoprire che sarebbe stato proprio lui — quella sera di 32 anni fa — a scendere dalla macchina ed esplodere il colpo fatale contro il procuratore torinese.

Schirripa incastrato da lettere anonime della Questura. «Dopo che Domenico Belfiore, il mandante del crimine, è stato messo ai domiciliari per gravi ragioni di salute — ha spiegato emozionata il procuratore aggiunto in conferenza stampa — la Questura di Milano ha fatto girare una serie di lettere anonime dirette ad alcune persone della cerchia di Belfiore. Nelle missive c’era la fotocopia dell’articolo uscito sulla “Stampa” quando Caccia venne ucciso e dietro c’era scritto a penna il nome di Rocco Schirripa». Sapevamo, ha aggiunto, che Schirripa era uno degli uomini di Belfiore: «Dopo l’invio delle lettere anonime abbiamo captato, grazie a una tecnologia molto avanzata, delle intercettazioni fortemente indizianti a suo carico». Tanto è bastato perché all’interno del gruppo si scatenasse la paura su chi avesse potuto rivelare quel nome. Belfiore, non sapendo di essere intercettato, pur utilizzando diverse precauzioni ha parlato dell’episodio con suo cognato, Placido Barresi, che era stato assolto dall’accusa di omicidio. Barresi ne ha parlato a sua volta con Schirripa che, interrogandosi su chi avesse inviato la lettera anonima con il suo nome, aveva anche progettato la fuga.

Schirripa: «Non ne ho parlato più con nessuno». «L’arresto di oggi è un tassello importante per gli sviluppi futuri dell’inchiesta. Ci auguriamo che possa far luce su tutti i risvolti rimasti oscuri di questa vicenda, a partire dagli altri mandanti», ha detto la figlia Cristina, commentando l’arresto del presunto assassino del padre. Schirripa è stato ascoltato per sei ore dalla Sezione Criminalità organizzata della Squadra mobile di Torino, e nella giornata di mercoledì verrà interrogato a Milano, probabilmente nel carcere di San Vittore. «Ti sei fatto trent’anni tranquillo, fattene altri trenta tranquillo», gli avrebbe detto lo scorso 22 novembre un presunto boss della criminalità calabrese. Il dettaglio è contenuto nell’ordinanza di custodia cautelare del gip Stefania Pepe, del tribunale di Milano. «Io non ne ho parlato più con nessuno» sarebbe la frase, intercettata dagli investigatori, pronunciata da Schirripa preoccupato per le lettere anonime. «Ti dico la verità, sto dormendo male. Io vedo di cercare una sistemazione, almeno posso andare a dormire tranquillo». Nel motivare le ragioni della custodia cautelare a carico di Rocco Schirripa, il gip di Milano evidenzia l’«elevatisisma e attualissima probabilità di reiterazione del reato» da parte dell’indagato. «L’indagato — osserva il gip — manifesta chiaramente un analogo proposito criminoso, rispondendo a Barresi: “Ma tu vedi di individuarlo che poi...non ti preoccupare”».

La memoria nel tempo. A Bruno Caccia sono stati intitolati il Palazzo di Giustizia di Torino, il 26 giugno 2001, e un cascinale a San Sebastiano da Po, sequestrato proprio alla famiglia Belfiore, più precisamente a Salvatore Belfiore, fratello di Domenico, grazie alla legge 109/96 che dispone in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati per reati di stampo mafioso. Cascina Caccia viene tuttora gestita da Libera la rete di associazioni contro le mafie che ricorda ogni anno il 21 marzo, nella Giornata della Memoria e dell’Impegno anche Caccia, presente nel lungo elenco dei nomi delle vittime di mafia e fenomeni mafiosi. «È una ferita rimasta aperta per trent’anni, ci auguriamo che le indagini possano finalmente far luce sul caso e assicurare alla giustizia i responsabili», ha commentato il sindaco di Torino, Piero Fassino.

Arrestato uno dei presunti killer del giudice Caccia, 32 anni dopo il delitto. Fa il panettiere a Torino. Arrestato dalla polizia dopo le indagini coordinate dalla pm Boccassini. L'uomo incastrato grazie a una lettera anonima spedita dagli inquirenti. Per il delitto c'era già stata una condanna all'ergastolo. La figlia del magistrato: "Ora si cerchino gli altri mandanti", scrivono Ottavia Giustetti, Emilio Randacio e Carlotta Rocci il 22 dicembre 2015 su “La Repubblica”. E’ stato arrestato dalla polizia a Torino uno dei presunti assassini del procuratore Bruno Caccia, ucciso la sera del 26 giugno 1983 con 14 colpi di pistola a pochi passi da casa, in via Sommacampagna, nella precollina torinese. Gli agenti della squadra Mobile, coordinati dai pm di Milano Ilda Boccassini e Marcello Tatangelo, lo hanno fermato questa notte. Le indagini sono durate 32 anni.

L'arrestato. L’uomo, Rocco Schirripa, è un torinese di 64 anni di origini calabresi con numerosi precedenti penali. A Torino ora faceva il panettiere in borgata Parella, ma scavando nel suo passato gli investigatori hanno trovato collegamenti di parentela con la famiglia di Domenico Belfiore, considerato il mandante dell’omicidio che è maturato nell’ambiente della ‘ndrangheta.  Belfiore infatti è ritenuto il numero uno delle cosche nel nord ovest negli anni ’90. Il boss, che avrebbe deciso l'eliminazione del procuratore per le sue indagini sul riciclaggio del denaro delle organizzazioni criminali, è stato condannato all'ergastolo (a incastrarlo furono le confidenze registrate di nascosto dal pentito Francesco Miano nell'infermeria del carcere), ma è uscito di prigione pochi mesi fa per motivi di salute. L’ identikit dell’arrestato corrisponde perfettamente a quello tracciato all’epoca da chi investigò sul caso subito dopo l’omicidio. Secondo gli inquirenti milanesi, Schirripa era alla guida dell'auto che avvicinó il procuratore sotto casa, poco prima dell'esecuzione. L'uomo, secondo le indagini, avrebbe poi inflitto a Caccia il colpo di grazia con un proiettile alla testa. L'altro componente del commando sarebbe stato proprio il boss della 'ndrangheta, Domenico Belfiore.  Scrive infatti il gip milanese Stefania Pepe nell'ordinanza di custodia cautelare: "Emerge con assoluta certezza che Rocco Schirripa è stato uno dei due esecutori materiali dell'omicidio del dr Caccia". Dalle intercettazioni, scrive ancora il giudice, "emergono inoltre plurimi elementi che fanno ritenere verosimile che la seconda persona che sparò al procuratore sia stato lo stesso Domenico Belfiore". Quanto, infine, a Placido Barresi, cognato di Belfiore coinvolto nell'inchiesta sull'omicidio caccia ma alla fine assolto per insufficienza di prove, "dagli atti del processo emerge senza alcun dubbio che il predetto era a conoscenza non solo della decisione di uccidere il procuratore, ma anche (nonostante fosse detenuto il giorno dell'agguato) di ogni dettaglio sull'omicidio, inclusa l'identità degli esecutori materiali". L’operazione risolve uno dei casi più eclatanti degli anni ’80, che per oltre tre decenni era rimasto solo parzialmente risolto. Due anni fa, nel trentennale dell'omicidio, un appello dei figli del procuratore ucciso sollecitava gli inquirenti a riaprire il fascicolo dormiente nei cassetti della procura milanese, competente per legge sui reati riguardanti i magistrati torinesi. Le indagini, in effetti, erano state riaperte circa un anno fa.

Le indagini. Il procuratore Caccia, magistrato incorruttibile che guidava la procura torinese con grande rigore (secondo uno dei boss era "uno con cui non si poteva parlare") fu assassinato la sera di una domenica elettorale, mentre portava a passeggio il suo cane, da almeno due sicari che gli spararono sul marciapiede di casa. Essendosi occupato di importanti indagini sul terrorismo (l'ultimo delitto torinese delle Brigate Rosse risaliva a pochi mesi prima) e sulla criminalità organizzata (sequestri di persona, omicidi, le infiltrazioni mafiose nel casinò di Saint Vincent), le prime ipotesi investigative batterono proprio queste due piste. Inizialmente una telefonata che rivendicava il delitto alle Brigate Rosse orientò gli inquirenti verso la pista terroristica, ma si rivelò subito falsa. Poco tempo dopo, grazie anche alle inchieste sul clan dei Cursoti, emerse la verità: Caccia era stato eliminato su ordine dei boss della 'ndrangheta trapiantata in Piemonte.

Lo stratagemma. Le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dal sostituto procuratore Marcello Tatangelo, sono ripartite dall'esposto presentato nei mesi scorsi dal legale della famiglia Caccia. "Anche se la pista indicata - ha sostenuto Ilda Boccassini -, portava ad altre piste e prendeva di mira anche il lavoro dei magistrati milanesi che 32 anni fa si occuparono dell'omicidio". Gli investigatori della Squadra Mobile, che già sospettavano un coinvolgimento di Schirripa, hanno inviato una lettera anonima ai sospettati del delitto con una fotocopia di un articolo che riportava la notizia dell'uccisione del procuratore di Torino con scritto a penna il nome del presunto killer, proprio Rocco Schirripa. I sospettati, intercettati, hanno iniziato a fare supposizioni su chi di loro avesse parlato e hanno rivelato il ruolo di Schirripa nell'intera vicenda. "La loro unica preoccupazione era quella di capire chi avesse parlato - ha spiegato il procuratore facente funzioni di Milano Piero Forno -  e i sospetti si sono concentrati proprio su Rocco Schirripa, che poi ha detto di aver fatto alcune confidenze a qualcuno". La preoccupazione degli arrestati era tutta rivolta a capire "se Schirripa avesse rivelato anche dei dettagli compromettenti del delitto, come la disposizione degli uomini del gruppo di fuoco nella macchina" utilizzata per fare l'agguato al magistrato o altri dettagli che le indagini non avevano ancora portato alla luce.

La "scommessa investigativa". Decisive per arrivare alla svolta di questa mattina, sono state le intercettazioni ambientali nell'abitazione di Domenico Belfiore, da pochi mesi agli arresti domiciliari: Belfiore - che parlava solo sul balcone di casa - ha fornito una ricostruzione decisiva per la svolta di oggi, parlando con il cognato Placido Barresi. Non sapendo di essere intercettato, pur utilizzando diverse precauzioni ha alluso all'episodio e Barresi ne ha parlato a sua volta con Schirripa che, interrogandosi su chi avesse inviato la lettera anonima con il suo nome, aveva anche progettato la fuga. La lettera anonima, ha spiegato il procuratore di Milano facente funzione, Pietro Forno, è stata quindi una "scommessa investigativa" che ha consentito di raccogliere elementi a carico di Schirripa, scatenando una reazione 32 anni dopo il delitto.

Le intercettazioni. Nelle conversazioni intercettate dagli investigatori si sente Belfiore dire "Quelli di là sotto lo sapevano quasi tutti" alludendo - annota il gip Stefania Pepe, "agli esponenti di vertice della 'ndrangheta che (...) erano stati informati", nel 1983, della decisione di uccidere il procuratore. Lo stesso Schirripa, in una delle registrazioni, assicura all'interlocutore Placido Barresi: "Io non ne ho parlato più con nessuno"; e di fronte alla sua preoccupazione per le lettere anonime inviate dalla Squadra mobile, il cognato di Belfiore replica: "Ti sei fatto 30 anni tranquillo, fattene altri 30 tranquillo". Aggiungendo ancora: "Mi sono informato giuridicamente. Sono passati 34 anni. Un reato non si prescrive, ma con le generiche non ti possono dare l'ergastolo e quindi è prescritto". Sempre parlando con Barresi, Schirripa, che per il gip gode di solidi appoggi in Spagna, dice di essere intenzionato a cercare una via di fuga: "Ti dico la verità, sto dormendo male. Io vedo di cercare una sistemazione, almeno posso andare a dormire tranquillo".

Le reazioni. "Come torinese e come magistrato che da Bruno Caccia ha imparato tutto, esprimo il ringraziamento e l'apprezzamento più convinto per l'ottimo lavoro della procura di Milano e della squadra mobile di Torino, che con pazienza e intelligenza sono riuscite ad aprire una nuova pista di indagine sull'omicidio dopo più di trent'anni". Lo ha detto Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo di Torino, che quando Caccia fu ucciso era giudice istruttore. Entrambi, negli anni Settanta, si erano occupati dell'inchiesta sui capi storici delle Brigate Rosse. "Quello di Schirripa è un nome che si inserisce nel solco delle indagini che non si sono mai fermate in tutti questi anni - ha detto il procuratore generale Marcello Maddalena, al momento del delitto sostituto di Caccia - E' un personaggio storicamente vicino alla famiglia Belfiore. La procura di Torino lo ha incontrato altre volte nelle indagini di 'ndrangheta". "Quell'omicidio - ha aggiunto - diede una grande spinta a tutto l'ufficio che da allora fu ancora più compatto e continuò con ancora maggiore convinzione". "L'arresto di oggi - ha commentato Cristina Caccia, figlia del magistrato assassinato - è un tassello importante per gli sviluppi futuri dell'inchiesta. Ci auguriamo che possa far luce su tutti i risvolti rimasti oscuri di questa vicenda, a partire dagli altri mandanti". "Siamo soddisfatti del lavoro svolto dagli investigatori, ma chiaramente in circostanze del genere non si può essere contenti -  ha aggiunto - E' strano che questa persona sia rimasta indisturbata a Torino, per oltre trent'anni. Ringraziamo la polizia e aspettiamo che l'inchiesta vada avanti".

Procuratore Bruno Caccia, quella sera di 32 anni fa a Torino. Il procuratore capo ucciso a colpi di pistola mentre era a passeggio con il suo cane, scrive "L'Ansa il 22 dicembre 2015. Erano le undici di sera del 26 giugno 1983. Il magistrato più importante di Torino, il procuratore capo Bruno Caccia, stava portando a passeggio il cane quando in via Sommacampagna, ai piedi della collina, due killer su una 128 lo freddarono a colpi di pistola. Era domenica e aveva deciso di lasciare a riposo la scorta. Uno dei presunti componenti di quel commando è stato oggi a arrestato a Torino. Cinque gradi di giudizio, conclusi con la condanna del boss Domenico Belfiore, ritenuto il mandante, non sono bastati a far piena luce sul delitto di un "nitido esempio di dedizione allo stato, un uomo con la giustizia nel cuore", come i suoi colleghi, dal procuratore generale Marcello Maddalena al procuratore capo Giancarlo Caselli, lo hanno ricordato in questi anni. "Ci sono ancora troppi buchi", diceva l'avvocato Fabio Repici, il legale della famiglia Caccia, che in occasione del trentennale della morte avevano chiesto di riaprire il caso. Erano gli anni di Piombo e per le strade del capoluogo piemontese scorreva il sangue del terrorismo e della criminalità organizzata. Ai principali quotidiani nazionali arrivano le prime rivendicazioni: da principio le Brigate Rosse, poi Prima Linea e persino in Nar. La matrice, però, si rivelò falsa e si fece strada l'ipotesi del crimine organizzato. "Cercheremo di riportare a galla elementi di indagini trascurate negli anni, ma che potrebbero aggiungere elementi di verità", diceva l'avvocato Repici. Come il materiale sequestrato a casa di Rosario Cattafi, avvocato milanese vicino all'estrema destra e alla mafia in carcere all'Aquila in regime di 41 bis. Sospetti, ombre, dubbi, che si intrecciano alle indagini portate avanti in quegli anni da Caccia. "E' improbabile che Belfiore abbia agito da solo e senza movente", insisteva il legale, ipotizzando il "coinvolgimento in concorso di soggetti calabresi e catanesi". Quei dubbi, scritti nero su bianco nella richiesta che il legale ha presentato alla procura di Milano, hanno portato alla riapertura del caso. Le indagini, coordinata dal pm Ilda Boccassini, hanno portato oggi all'arresto di un 64enne di origini calabresi che lavorava come panettiere in piazza Campanella, a Torino, nel popolare quartiere Parella. L'arresto potrebbe far luce su una delle pagine più buie di Torino. E dare giustizia alla famiglia del magistrato. Trentadue anni dopo.

Bruno Caccia, il giudice che aveva capito tutto. Nella Torino criminale degli Anni 80 ’ndrangheta e clan dei catanesi in guerra. Caccia intuì dalle indagini sul riciclaggio che la mala stava facendo il salto di qualità. Dietro le sbarre Domenico Belfiore e Placido Barres durante il processo per l’assassinio del procuratore Bruno Caccia, celebrato a Milano nel 1989. Belfiore fu condannato all’ergastolo, Barresi assolto, scrive Marco Neirotti il 23 dicembre 2015 su "La Stampa". «Hai visto Caccia? L’abbiamo fatto noi. Dovreste dirci grazie». Ha la parlata orgogliosa Domenico Belfiore, boss della ’ndrangheta a Torino, quando, un anno e mezzo dopo l’assassinio del Procuratore, si confida in carcere con Francesco «Ciccio» Miano, il capo dei catanesi. Non sa che Ciccio è un pentito e gira per l’infermeria con un registratore nelle mutande. Catanesi e calabresi avevano trovato una convivenza nella spartizione degli affari, ma Belfiore guardava avanti e guardando avanti aveva intuito che non gli scontri fra mafie, bensì quel magistrato era la barriera inaggirabile tra loro e il futuro. Caccia aveva consapevolezza che il fenomeno cruento ma rozzo degli Anni 80 si stava affinando per entrare come olio in ogni tessuto della società attraverso il riciclaggio del denaro (allora assiduo nei casinò) per poi assimilarsi a commercio, impresa e di qui a politica e voti e appalti. «L’abbiamo fatto noi» era orgoglio d’un gesto feroce e orgoglio d’aver spianato la via. Da metà Anni 70 Torino viveva con inquietudine sui suoi marciapiedi le pagine noir di Giorgio Scerbanenco, ma a cavallo fra ’70 e ’80 era ancor più provata dalla cascata di sangue del terrorismo: dopo i primi omicidi (dall’avvocato Fulvio Croce a Carlo Casalegno e Carlo Ghiglieno) erano brucianti quelli dell’82 (le guardie Mondialpol Antonio Pedio e Sebastiano d’Alleo) e la lotta armata era priorità assoluta. E la mafia «liquida» si espandeva silenziosa. Torino nera aveva convissuto con una delinquenza arcaica che da casa e dai night club organizzava bische e prostituzione e cominciava a trovare appetitoso uno spaccio di droga ancora disordinato. Negli Anni 70 il capo indiscusso si chiamava Rosario Condorelli, catanese d’origine. Una sera, nel ’75, entrò alla pizzeria Marechiaro, per mangiare un boccone, il commissario di polizia Francesco Rosano. Gli sguardi s’incrociarono, i due si riconobbero e Condorelli gli sparò subito, uccidendolo tra gli avventori. Torino capì che il «finché i malviventi si ammazzano fra loro...» non era una grande verità. La guerra «fra loro» ricominciò presto, e dura. Dalla stessa Catania salirono i fratelli Miano, Francesco detto «Ciccio» era il capo. Condorelli arrestato e incarcerato, i Miano fecero piazza pulita dei suoi. Presero possesso della città, a colpi di pistola e scalando nuovi affari, droga soprattutto, che apriva un altro fuoco, quello con i calabresi, fino allora impegnati più sul fronte dell’edilizia, del racket delle braccia, delle estorsioni, dei sequestri di persona. Se già i calabresi si muovevano in silenzio, più «liquidi» appunto, i catanesi erano spavaldi. Dirà poi Ciccio Miano: «Ero il capo. Avevo il mondo ai piedi. Mia moglie era una regina, i negozianti le regalavano tutto». Abitavano in un grande cascinale sontuosamente ristrutturato fuori Torino, nel cortile Ferrari e Mercedes. Incontravi uomini del clan nei bar. Uno di loro (poi finito con una palla da cinghiale in fronte sul pianerottolo di casa) sfotteva i cronisti affannati intorno a un telefono a gettoni: «Pieni di fantasia, ma, poveretti, devono mangiare anche loro». Il 28 settembre 1984, in lungo Dora Voghera, un ometto piccolo e tozzo, davanti a un distributore di benzina, uccide un uomo a rivoltellate. Passa una volante e la sparatoria si allarga. Lui si butta nel fiume e gli agenti dietro, lo catturano. Si chiama Salvatore Parisi, è il killer di fiducia dei Miano (confesserà sedici omicidi). In questura siede davanti a funzionari d’eccezione - Piero Sassi, Aldo Faraoni, Salvatore Longo, oggi questore di Torino - e con loro e con i magistrati incomincia a parlare. Come prova di credibilità, offre un nome e un indirizzo: la Squadra Mobile di Torino cattura Angelo Epaminonda, boss della malavita a Milano. E’ la fine dei catanesi. Si pente Ciccio Miano (suo fratello sarà ucciso per vendetta) e si presta alle registrazioni in carcere. «Caccia l’abbiamo fatto noi», gli dice Belfiore. Ma non svela a fondo la vera ragione, che nel clima di quegli Anni 80 era inquinata anche da fasulle e subito poco credibili rivendicazioni delle Br. Tanto che al maxiprocesso di terrorismo si alzò Francesco Piccioni dell’ala militarista e dichiarò: «Noi non c’entriamo. Quello è un omicidio al quale purtroppo siamo estranei». La ’ndrangheta si ritrovò liberata in un colpo solo dall’ingombro dei catanesi e del magistrato che, partendo dal riciclaggio (proprio per questo filone d’indagine il 13 dicembre 1982 subì un attentato Giovanni Selis, magistrato ad Aosta), si muoveva in anticipo verso le future strategie affaristiche nel Nord. Quelle che troveremo nel 1995 con l’operazione Cartagine, nel 2012 con l’operazione Minotauro, nel 2010 con l’operazione Infinito. Il disegno per il quale andava eliminato l’uomo che trentadue anni fa costituiva la più potente barriera. 

“Così arrivammo alla ’ndrangheta”. L’attuale questore di Torino ricorda l’omicidio di Bruno Caccia: subito avevamo pensato ai brigatisti, poi fu tutto chiaro, scrive Massimo Numa il 23 dicembre 2015 su "La Stampa". È la sera del 26 giugno 1983, poco dopo le 22. In questura, al secondo piano di via Grattoni, di turno negli uffici semideserti della squadra mobile, c’è un trentenne vicequestore, allora capo della Narcotici, Salvatore Longo. Oggi è il questore di Torino.

Che cosa ricorda di quel giorno terribile?

«Mi chiamarono dalla centrale operativa. Eravamo in uno dei periodi storici più tragici, in pieno terrorismo, quando le notizie di persone uccise erano purtroppo frequenti. Mi dissero che un uomo era stato ferito da armi da fuoco. Disposi le solite procedure. E partii per via Sommacampagna. Appresi subito che la vittima era il procuratore Bruno Caccia».

Le prime ipotesi?

«Il magistrato, che conoscevo personalmente, era già deceduto. Una scena atroce. Era stato riconosciuto subito, dai vicini, e poi dagli agenti intervenuti. Arrivarono, se ben ricordo, il capo della mobile Piero Sassi, il capo della Omicidi, Aldo Faraoni. E poi il pm Anna Maria Loreto, i colleghi Alberto Bernardi e De Crescenzo. Finiti in rilievi una prima riunione in questura, non a caso negli uffici della Digos. Oltre ai magistrati, anche gli ufficiali dei carabinieri, con cui condividemmo le informazioni. C’era collaborazione, ovviamente».

Pensavate a un’azione delle Br?

«Sì, perché l’indomani sarebbe iniziato un processo contro i brigatisti. Ma in realtà nessuna delle ipotesi fu scartata a priori. Analizzammo, ognuno con le proprie competenze, ogni possibilità: il ruolo della mafia catanese, allora in auge, quello del terrorismo nero, senza trascurare i boss delle cosche calabresi che già allora si erano radicati in Piemonte. C’era, quella notte, calma e un’estrema decisione. Nelle ore successive iniziarono le perquisizioni, oggi si direbbe a 360 gradi: nelle celle dei brigatisti, nelle case dei pregiudicati più noti. Non trovammo niente, in quella fase».

Quando i primi indizi sulla matrice e sul movente del delitto?

«Qualche tempo dopo ci rendemmo conto che la pista più credibile portava dritta al crimine organizzato. Iniziammo a monitorare, giorno dopo giorno, il quadro costituito da siciliani e calabresi. Le geometrie del racket cambiavano continuamente, tra alleanze, divisioni e rotture anche violente. Nonostante questo, non emergeva alcun indizio vero. Quindi le prime voci. Sino a quando i Servizi convinsero un pentito dei catanesi, Francesco Miano, in carcere con il boss dei calabresi Domenico Belfiore, a collaborare. Il resto è noto: emerse il movente, si ricostruì uno scenario, Belfiore prese l’ergastolo».

Perché Caccia fu ucciso?

«È un evento criminale isolato nella storia piemontese. Erano stati uccisi magistrati a Milano, Genova, in altre città. Mai a Torino, e non è più accaduto. Caccia venne ucciso perché era il simbolo di un’autorità giudiziaria incorruttibile, sotto il profilo anche morale. Non che i suoi colleghi fossero da meno, ma lui aveva un metodo di lavoro incalzante, organizzato, e soprattutto efficace. L’unico modo per fermarlo era togliergli la vita».

Lei lavorò al suo fianco?

«Si. Ho avuto la fortuna di partecipare alle riunioni operative con altri colleghi, dedicate alle varie inchieste in corso. La sua straordinaria preparazione giuridica per noi era la sicura garanzia di gestire le indagini in modo perfetto. Poteva sembrare burbero e severo, ma sapeva valorizzare, e premiare, il lavoro dei suoi collaboratori».

Una lettera anonima al sospettato. Così hanno incastrato il killer dell’omicidio Caccia. La Questura di Torino aveva inviato alla famiglia Belfiore una missiva «per smuovere le acque», scrivono Giuseppe Legato e Massimo Numa il 22 dicembre 2015 su "La Stampa". «Sai che c’è? C’è che non sto dormendo bene la notte. Per l’altra cosa sono tranquillissimo, ma c’è quest’altra storia che…la notte dormo male». Rocco Schirripa, uno dei componenti del commando che uccise il procuratore capo Bruno Caccia, ammazzato dalla ‘ndrangheta nel 1983, non si preoccupava minimamente della recente accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga che da un mese gli era arrivata tra capo e collo dopo un’indagine della squadra Mobile. Era tranquillo, per quella storia. Non dormiva per le lettere anonime – una pagina de La Stampa pubblicata il giorno dopo l’omicidio Caccia con scritti i nomi dei killer, tra cui il suo – che la Questura di Torino aveva inviato alla famiglia Belfiore «per smuovere le acque», per far riaffiorare discorsi sopiti dal tempo. Dove non sono arrivati 32 anni di indagini, decine di racconti di pentiti, altrettante informative e richieste di riaperture del caso, c’è arrivato un escamotage investigativo. Per decenni, i Belfiore non hanno mai parlato di quell’omicidio. Non lo ha fatto Mimmo, il capofamiglia che, in carcere, ha trascorso più di 30 anni in silenzio. Non ne aveva mai parlato Rocco Schirripa che a un vecchio boss della Torino nera destinatario di quella missiva rispondeva: «Assolutamente. Non ho mai parlato. Ma stiamo scherzando? Sono cose delicatissime queste». Ma quella lettera, quella pagina de La Stampa arrivata per posta a ottobre, li ha turbati molto: «Ormai mi sono fatto 20 anni e Mimmo ne ha passati 40 in carcere. Voglio capire perché è uscito fuori il nome di Rocco» dice uno dei Belfiore. Con un virus informatico inoculato nel tablet del vecchio capo malato Domenico e negli Iphone dei suoi parenti, la Mobile è riuscita a sentire tutto, trasformando quegli apparecchi in delle microspie ambientali. In 104 pagine di ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Stefania Pepe, Carte che svelano come non tutti i boss della malavita calabrese conoscano bene i meandri del diritto e del processo penale. Tutt’altro. In un’intercettazione Schirripa parla con gli uomini dei Belfiore: «Ma scusa – chiede – ma l’omicidio non va in prescrizione dopo 30 anni?». L’altro «Certo». E il killer: «Ma allora di cosa stiamo parlando?».

Rocco Schirripa, il panettiere che nel giardino aveva il manichino del Padrino. Il 62enne, detto «Barca», è un uomo d’azione della famiglia Ursini-Belfiore che governò negli anni Ottanta e Novanta l’universo della criminalità organizzata calabrese, scrive Giuseppe Legato il 22 dicembre 2015 su "La Stampa". Trafficante di cocaina, rapinatore di professione. Testa fredda e nervi saldi, Rocco, detto «Barca» è un uomo d’azione della famiglia Ursini-Belfiore che governò negli anni Ottanta e Novanta l’universo della criminalità organizzata calabrese nel difficile travaso di leadership dalla mafia siciliana alla ‘ndrangheta. Schirripa, 62 anni, da Gioiosa Jonica, residente a Torrazza Piemonte. Professione panettiere. Sei mesi fa, quando le forze dell’ordine bussarono alla sua porta per confiscargli una volta per tutte la villetta di viale Gramsci nel chivassese - dove nel giardino aveva un manichino vestito da Padrino -, scappò per pochi metri. Sapeva, Schirripa, di avere ancora conti aperti con la giustizia. Conti non saldati, mai emersi nelle indagini che su di lui, in trent’anni di carriera nera, non si erano mai fermate. Il suo nome tornava sempre nelle intercettazioni su picciotti ed evangelisti del Sud che si erano trapiantati al Nord. Scappò su un fiorino bianco ma tornò indietro subito dopo quando capì che gli uomini in divisa, quella mattina, dovevano solo notificargli lo sfratto e nulla più. Il resto è arrivato stanotte. Arrestato per droga nel 2001, condannato insieme ai nomi storici del narcotraffico torinese (Agresta in testa) fu arrestato di nuovo nella maxi operazione Minotauro. Patteggiò 1 anno e 8 mesi in continuazione con reati di droga. Di nuovo arrestato per la latitanza di Giorgio Demasi, detto «U Mungianisi», super boss di Gioiosa ricercato dopo l’operazione Crimine. Si nascondeva a Torino. L’uomo di punta di quella latitanza dorata era proprio lui Schirripa. Che anche allora patteggiò.

Delitto Caccia, parla Schirripa: "Sono innocente, mie parole fraintese". Si tratta di un torinese di 62 anni, di origini calabresi, scrive "L'Ansa" il 23 dicembre 2015. "Sono innocente, non c'entro nulla con l'omicidio: le mie frasi intercettate sono state fraintese". Sono le uniche dichiarazioni rilasciate nel corso dell'interrogatorio di garanzia da Rocco Schirripa, l'uomo arrestato ieri e ritenuto uno degli esecutori materiali dell'omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia, avvenuto nel 1983. Schirripa si è poi avvalso della facoltà di non rispondere e si è detto disponibile a farsi interrogare prossimamente dal pm di Milano Marcello Tatangelo. Uno dei presunti assassini di Bruno Caccia, il procuratore capo di Torino ucciso nel 1983, è stato arrestato dalla polizia. Si chiama Rocco Schirripa, torinese di 62 anni, di origini calabresi. Attualmente faceva il panettiere alla periferia della città. Nei suoi confronti "sono state raccolte numerose fonti di prova". Bruno Caccia fu ucciso la sera del 26 giugno 1983, 32 anni fa, con 14 colpi di pistola mentre portava a spasso il suo cane sotto casa, sulla precollina di Torino. Per l'accaduto fu arrestato, nel 1993, il mandante del delitto, Domenico Belfiore, esponente di spicco della 'ndrangheta in Piemonte, poi condannato all'ergastolo e dallo scorso 15 giugno ai domiciliari per motivi di salute. Caccia stava indagando su numerosi fatti di 'ndrangheta tra cui alcuni sequestri di persona. Schirripa avrebbe dato il "colpo di grazia" al magistrato, vittima di un agguato mentre portava a passeggio il suo cane il 26 giugno 1983. E' la ricostruzione degli inquirenti della Dda di Milano, che hanno coordinato le indagini sull'episodio, riaperte anche in seguito alle richieste dei legali della famiglia di Caccia. Domenico Belfiore, già condannato all'ergastolo per il delitto, e il suo "soldato", Rocco Schirripa, secondo quanto è emerso dalle indagini, avrebbero atteso il magistrato a bordo di un'auto, appostati vicino alla sua casa. Belfiore, esponente di spicco della 'ndrangheta in Piemonte, avrebbe sparato a Caccia dalla vettura, ferendolo. A quel punto, secondo le accuse, Schirripa sarebbe sceso dall'auto, per finire il procuratore con un colpo di pistola alla testa. Rocco Schirripa è stato incastrato grazie ad una lettera anonima inviata dagli inquirenti milanesi a Domenico Belfiore, già condannato all'ergastolo per l'episodio. In seguito alla lettera sono state intercettate le "reazioni" sul coinvolgimento di Schirripa. E' "emozionata" Ilda Boccassini, che ha coordinato l'inchiesta. "Le indagini hanno confermato che i calabresi sono stati mandanti ed esecutori materiali di un omicidio di mafia di questa portata", ha spiegato Ilda Boccassini durante una conferenza stampa in Procura a Milano. "Le indagini vanno avanti - ha proseguito - e stiamo verificando se l'omicidio sia stato voluto dalla famiglia Belfiore con il beneplacito dell'organizzazione in Calabria".

Chi era Bruno Caccia, il procuratore di Torino ucciso nel 1983. Dal terrorismo al traffico di droga: tutte le indagini del pm assassinato, scrive "La Stampa" il 22 dicembre 2015. Ripubblichiamo un articolo uscito il 27 giugno 1983 su La Stampa Sera. Sessantaquattro anni compiuti, il procuratore della Repubblica di Torino, Bruno Caccia, era alla vigilia della pensione. A novembre avrebbe probabilmente lasciato il servizio dopo avere scartato l’ipotesi di presiedere il tribunale di Bologna. Era un magistrato «intelligente, integerrimo, irreprensibile». A dirigere la procura della Repubblica di Torino era arrivato dopo essere stato alla procura generale e alla procura di Aosta. Erano gli «anni di piombo» quando il terrorismo sembrava invincibile. Gli uomini della rivoluzione sparavano e uccidevano: la città era sotto la cappa della paura. Ma in pochi mesi tutto è cambiato. Nel febbraio del 1980 è stato catturato Patrizio Peci, che ha cominciato a parlare e a raccontare i segreti delle bande armate. Poche settimane ancora ed è stato arrestato Roberto Sandalo. Anche lui ha deciso di vuotare il sacco mettendo in ginocchio «Prima linea». Lo Stato ha recuperato il terreno perduto. Un team di magistrati — sostituti procuratori della Repubblica e giudici istruttori — si è mosso con tempestività ed efficienza. Dietro loro, a coordinare il lavoro di indagine e di verifica, c’era Bruno Caccia. La procura della Repubblica di Torino aveva in questi ultimi anni promosso però anche una serie di inchieste clamorose che hanno portato in carcere industriali conosciuti e politici di prestigio. La magistratura di Torino non ha guardato in faccia a nessuno. Quando si affacciava un’ipotesi di reato veniva aperta l’inchiesta e se le accuse trovavano conferme c’erano le manette per i responsabili. Anche se erano imputati «eccellenti». Tre anni fa è stata avviata l’indagine per il contrabbando di petrolio. E’ venuta fuori una truffa di decine di miliardi organizzata da imprenditori, grossisti, funzionari dell’Utif che avrebbero dovuto sorvegliare sulla legalità del commercio. E sono finiti nei guai anche politici, amici di politici, sottufficiali, ufficiali e comandanti della Guardia di Finanza. Sono già stati istruiti sei processi, due sono in appello, ma l’inchiesta non è ancora finita. Si aprono nuovi capitoli: si accertano altre responsabilità. Sempre più in alto: verso personaggi sempre più influenti. Nel marzo è scattata l’operazione che ormai tutti chiamano della «tangenti-story». Dalla denuncia di un ingegnere di Milano, rappresentante della multinazionale «Intergrafp», Antonio Deleo, la procura della Repubblica ha ordinato una serie di accertamenti. Vicesindaco e assessori, dirigenti di partito, capigruppo sono stati interrogati e sono rimasti in carcere. Nell’amministrazione della cosa pubblica — è l’ipotesi di reato — hanno badato troppo agli interessi personali, del gruppo e delle correnti e troppo poco a quelli dei cittadini. In questi ultimi mesi i magistrati erano impegnati su altri due fronti: contro l’«ananonima sequestri» che ha ucciso l’impresario Lorenzo Crosetto (ritrovato sepolto in una buca alla periferia di Asti) e contro il racket della droga che vende morte e ottiene guadagni giganteschi. Quando era alla procura della Repubblica di Aosta, Bruno Caccia ha svolto l’indagine sull’assessore socialista Milanesio e su alcune speculazioni edilizie nella zona di Pila. A Torino, come sostituto alla procura generale, aveva sostenuto l’accusa al processo d’appello contro Franca Ballerini, Paolo e Tarcisio Pan. Paolo era stato condannato all’ergastolo, Tarcisio a pochi anni di carcere per occultamento di cadavere e la Ballerini è stata assolta con formula ampia. Caccia ha impugnato la sentenza ed ha presentato ricorso in Cassazione. La Suprema Corte gli ha dato ragione e ha ordinato che venisse celebrato un quarto processo contro la Ballerini (l’anno scorso è finito con un’altra assoluzione per «insufficienza di prove»). E’ stato lui ad occuparsi dell’indagine sul sequestro del sostituto procuratore di Genova Mario Sossi, tenuto prigioniero dalle Brigate rosse. Caccia aveva firmato la requisitoria d’accusa chiedendo il rinvio a giudizio contro gli imputati di «Controinformazione». Il procuratore di Torino sapeva dei rischi cui la sua posizione lo esponeva. Era prudentissimo. Si faceva scortare da un’auto di poliziotti anche quando andava a giocare a tennis. L’unico ritaglio «privatissimo» della sua vita era a tarda notte — tutte le notti — quando passeggiava con il cane, un coker, sotto casa. In via Sommacampagna abitava dal 1957. Quella di uscire solo era l’unica sua «leggerezza», e gli assassini l’hanno scoperto. Hanno studiato con cura le abitudini del magistrato e hanno colpito: con la brutalità di cui sono capaci i killer.

Un Uomo Per Bene. Il Ricordo Di Bruno Caccia. Articolo di: Mattia Maestri del 26 giugno 2013. Una morte silenziosa. E per troppo tempo dimenticata. Trent’anni fa come oggi veniva ucciso da killer tuttora ignoti il magistrato piemontese Bruno Caccia. Il 26 giugno 1983 era la prima domenica d’estate, a Torino, ed era sera. Pur avendo a disposizione la scorta e la macchina blindata, Bruno Caccia non rinunciava mai alla passeggiata serale con il suo cane, la sua unica libertà quotidiana. Quel giorno, però, fu l’ultima. Due uomini a bordo di un’automobile affiancarono il magistrato e gli spararono da distanza ravvicinata una decina di colpi di pistola, prima dei tre colpi di grazia finali. Ma chi era Bruno Caccia? E perché è stato così barbaramente assassinato? Era un uomo per bene. Nato a Cuneo il 16 novembre 1917, Bruno Caccia entrò a far parte della magistratura torinese nel 1941. Dopo un breve periodo di tre anni ad Aosta, rientrò nel 1967 nel capoluogo regionale e continuò la sua battaglia per la giustizia dapprima come sostituto procuratore, poi come procuratore della Repubblica di Torino dal 1980. Si occupò di temi difficili e spinosi in quegli anni, come le violenze e i pestaggi negli scioperi o lo scandalo delle tangenti alle giunte rosse di Torino. “Il suo rigore, la sua severità e durezza nel pretendere l’applicazione delle regole erano il tentativo di non sopraffare il più forte” spiega Gian Carlo Caselli alla Cascina Caccia (confiscata alla famiglia ‘ndranghetista Belfiore nel 1996 e intitolata al magistrato ucciso) a due passi da Chivasso, in occasione del ricordo del suo collega. I due avevano collaborato nel primo processo istruito contro le Brigate Rosse. Combatteva in prima linea Bruno Caccia. Terrorismo e Criminalità Organizzata furono le sue più grandi battaglie civili e legali, portate avanti grazie alla sua totale dedizione allo Stato e al suo costante impegno. In moltissime occasioni rimaneva in ufficio fino a tarda serata, a scrivere, a leggere, a cercare di capire. Si arrovellava soprattutto su un tema: l’infiltrazione mafiosa al nord, e in particolare quella della ‘ndrangheta calabrese che stava mettendo le proprie radici a Torino e in provincia. Bruno Caccia era convinto della massiccia presenza malavitosa nella sua regione e per dimostrare ciò iniziò una decisa lotta alla criminalità organizzata al nord. Fece pedinare i pusher siciliani che controllavano le piazze dello spaccio, inviò la polizia a perquisire le bische gestite da uomini calabresi e cominciò ad effettuare controlli bancari. Un lavoro prezioso, che fece tremare l’ascesa dei clan calabresi al dominio assoluto nella provincia torinese. Nessuno, nella parte settentrionale d’Italia, era arrivato ad osare così tanto. Del resto “La mafia al nord non esiste”, o almeno così abbiamo sentito dire fino a pochi anni fa da prefetti e uomini delle istituzioni. La ‘ndrangheta e la mafia, invece, al nord erano presenti e non tardarono a reagire. Uomini del boss ‘ndranghetista Domenico Belfiore pedinarono il magistrato per giorni, fino al momento in cui individuarono il punto debole, il pretesto per ammazzare Bruno Caccia. Quattordici colpi di pistola, e la vita dell’integerrimo magistrato finì, alle 23.30 del 26 giugno 1983. Le prime inchieste si concentrarono subito sulla pista del terrorismo rosso, in seguito ad una rivendicazione (rivelatasi poi falsa) delle Brigate Rosse. Solo successivamente le indagini investirono la criminalità organizzata e portarono, dieci anni dopo l’assassinio, alla condanna all’ergastolo di Domenico Belfiore, riconosciuto mandante dell’omicidio. Tuttavia, sono tuttora senza nome gli esecutori materiali del delitto. Anzi, nuove inquietanti scoperte sembrano ipotizzare il coinvolgimento di servizi segreti deviati e la collaborazione della mafia catanese alle indagini, finalizzata al controllo criminale della piazza torinese in quegli anni contesa, così come rivela ‘Il Fatto Quotidiano’ in questi giorni. “Lui mi ha insegnato il mestiere. Lui è il simbolo dell’uomo di giustizia. Questa cascina è la dimostrazione della possibilità di restituire il maltolto delle mafie. Ricordarlo qui è il modo migliore per ricordare l’impegno di un uomo morto perché credeva nella legalità e nel rispetto delle regole”, ricorda lo stesso Gian Carlo Caselli, ringraziando Libera Piemonte per la splendida gestione della cascina. A Caselli, attuale procuratore capo del palazzo di Giustizia di Torino (intitolato a Caccia dal 2001), spetterà in questi giorni l’incarico di tracciare «l’ingerenza della ’ndrangheta nella vita politica in Piemonte» nel processo Minotauro, considerato il più importante contro la ‘ndrangheta in Piemonte. La rilevanza penale della presenza criminale nel tessuto sociale regionale potrebbe essere il giusto riconoscimento al lavoro di Bruno Caccia. Una persona troppo spesso dimenticata, anche dal mondo dell’antimafia. Riappropriamoci della sua memoria e facciamola vivere sempre, tutti i giorni, con l’impegno, con il senso del dovere, con la giustizia nel cuore.

Bruno Caccia, trent’anni dalla morte. Quando il nord dimentica i suoi eroi, scrive Andrea Contratto l'1 luglio 2013. Il 26 giugno del 1983 erano circa le 23 quando una Fiat 128 su cui viaggiavano almeno due uomini apre il fuoco contro un passante che stava portando a spasso il suo cane. Così fu ucciso dall’ndrangheta il primo e unico magistrato al nord: Bruno Caccia. La verità processuale ha portato alla condanna di Domenico Belfiore all’ergastolo, ma per i 30 anni della sua morte una nuova pista si fa largo e potrebbe far riaprire le indagini. Sono passati 30 anni da quella sera in via Sommacampagna quando Bruno Caccia fu ucciso mentre portava a spasso il suo cane. A ritrovarlo, la figlia, scesa in strada per vedere cosa fossero quei colpi di pistola. Così morì il primo magistrato ucciso al Nord dall’Ndrangheta, in una calda serata estiva. Quest’anno per il suo trentesimo anniversario sono state molteplici le iniziative nel capoluogo piemontese tra cui la presentazione di un documentario sulla vicenda, “Bruno Caccia, una storia ancora da scrivere”, prodotto da Libera e ACMOS, il libro “Il giudice dimenticato”, la commemorazione in Sala Rossa e infine un evento nel Tribunale a lui dedicato con Saviano e il Procura Gian Carlo Caselli. Saviano durante il suo intervento ha sottolineato l’importanza di essere a Torino in questa data perchè si ricordi la figura di un magistrato definito incorruttibile puntando il dito contro le autorità nazionali, completamente latitanti da tutte le manifestazioni. Il percorso del processo dell’omicidio Caccia è stato fin da subito occultato da una nebbia di depistaggi. Pochi minuti dopo l’omicidio giunge la prima rivendicazione da parte delle Brigate Rosse. Nelle telefonate a varie testate nazionali si parli di vendetta contro il “servo dello stato”. La lotta alle Brigate Rosse è stato uno dei capisaldi del lavoro del Procuratore a Torino e per questo fu subito diramato l’ordine di perquisire tutte le celle del carcere dove risiedevano alcuni brigatisti per trovare conferme ai sospetti. I giorni successivi sono giorni di fuoco: i brigatisti prima trincerati in un assordante silenzio iniziano a dichiarare che non è stata la mano brigatista ma di altri. Le indagini si spostano su delinquenza comune e sulla pista delle organizzazioni criminali. Solo dopo un anno, nel 1984, alcuni Catanesi inizieranno a collaborare e fare il nome del boss Belfiore. In particolare sono le parole di Roberto Miano, affiliato al clan dei Catanesi, a fine 1984 parla di un contatto tra lui e Belfiore, che all’epoca era il capo del clan dei Calabresi in Piemonte. Il boss lo aveva contatto per fargli recuperare un fucile di precisione proprio per l’omicidio del giudice. Proprio il caso Caccia unì le due compagini e una terza, molto meno conosciuta. Infatti il contabile dei calabresi era un certo Franco Gonnella, conosciuto negli ambienti per essere amico di alcuni magistrati. Il Belfiore in un colloquio con Miano, capo del clan dei catanesi pentito e diventato collaboratore, assicurò che una volta ucciso il procuratore, sarebbe stato sostituito da un magistrato più malleabile. Il clan dei Calabresi, di cui Belfiore era a capo, puntava alla liberazione di alcuni suoi membri ma con Caccia a capo della procura non sarebbe stato possibile avere alcuna riuscita. Il procuratore infatti viene sempre descritto come una persona riservata e integerrima che in particolare non frequentava il bar del palazzo di giustizia, descritto da molti come il luogo in cui si incontravo diversi volti della medesima medaglia. Il punto di svolta lo troviamo proprio in queste vicende perchè secondo le fonti il caso potrebbe essere riaperto proprio seguendo il filone di indagini che porta non solo alla galassia ‘ndranghetista ma anche verso quella dei colletti bianchi. Caccia era supervisore di un processo decisamente imporante per l’epoca come lo scandalo dei petroli, che tra gli altri coinvolgeva due generali della Finanza e diversi membri di quella che poi passerà alla storia come la P2. Intrecci che non fanno altro che complicare il quadro dell’omicidio del giudice “impassibile” e che si spera abbiano nuovi risvolti anche alla luce di queste nuove scoperte. “Bruno Caccia è stato ucciso per il futuro” queste le parole enigmatiche dell’ex procuratore di Aosta Mauro Vaudano, che di Caccia fu collega, lasciano un ampio spazio a considerazioni. Parlare di Bruno Caccia non è semplice memoria. E’ futuro, e tante righe dovranno essere ancora scritte.

Bruno Caccia: Il magistrato del nord che la mafia volle morto, scrivono venerdì 28 giugno 2013 Mario Vaudano e Paola Bellone su “Altritaliani”. Ripercorrere la vita e la morte del Procuratore Bruno Caccia, significa ripercorrere un pezzo della storia d’Italia e di Torino, in quegli anni stretta dalla lotta al terrorismo e dai prodomi di una mafia che iniziava ad allargarsi prepotentemente nel nord Italia. Una testimonianza di chi c’era che aiuta a comprendere meglio gli scenari in cui si muovono mafia e politica, i pericolosi percorsi in cui la magistratura ieri come oggi combatte la sua battaglia nel nome della Legge. Alle ore 23,30 circa del 26 giugno 1983, il Procuratore capo della Repubblica di Torino, dottor Bruno Caccia, mentre passeggiava portando al guinzaglio il suo cagnolino lungo il marciapiede che fiancheggia gli stabili di Via Sommacampagna, in Torino, veniva raggiunto da un’autovettura Fiat 128 di colore verde, con due uomini a bordo. L’autista, arrestata bruscamente la marcia, esplodeva contro il magistrato, attraverso il finestrino, alcuni colpi di arma da fuoco che lo colpivano in varie parti del corpo, facendolo cadere a terra. Quasi contemporaneamente, l’altro individuo, discendeva dall’auto e, raggiunta la vittima, sparava altri colpi di pistola al capo della stessa. Il dottor Caccia, soccorso e trasportato all’ospedale a mezzo di autoambulanza, vi giungeva cadavere». Con queste frasi inizia la lunga motivazione della sentenza con cui la Corte d’assise di Milano, esattamente sei anni dopo, il 16 giugno 1989, condannerà all’ergastolo come mandante dell’omicidio, Domenico Belfiore, detto Mimmo, capo del clan dei Calabresi, che all’epoca dominava la malavita torinese in duopolio con il clan dei Catanesi, guidato da Francesco Miano, detto Ciccio. All’azione omicida assistevano quattro passanti. Due di loro riferivano che, mentre faceva stridere i pneumatici per fuggire, l’uomo al volante si sporgeva dal finestrino e puntava contro di loro l’indice della mano col pollice aperto, come a impugnare una pistola, gridando «Bang! Bang! Bang!», così ammonendoli a non muoversi ed ad non lanciare alcun allarme. Nonostante la chiara intimidazione, i due lo descrivevano, consentendo la ricostruzione del volto al photofit (a loro dire molto somigliante). Ciononostante i due sicari non furono mai identificati. Fu individuato solo, grazie ad una dichiarazione di un codetenuto, il presunto mandante, un uomo di peso della mafia calabrese (legato anche alla mafia siciliana già operante in Piemonte e Lombardia), Domenico Belfore che fu poi condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise di Milano (all’epoca competente per i reati contro magistrati di Torino). La sentenza divenne definitiva, ma furono necessarie ben sei decisioni giudiziarie: dopo la sentenza di primo grado, una prima sentenza di appello, nel ’90, una sentenza di annullamento della Cassazione per vizio di motivazione, ed infine una seconda sentenza d’appello, nel ’92, e la decisione definitiva di conferma della Cassazione). Bruno Caccia è stato l’unico magistrato ucciso dalla mafia nel Nord Italia. Oltre a lui, solo un altro magistrato con funzione di Procuratore Capo è stato ucciso dalla mafia: Gaetano Costa, Procuratore Capo di Palermo, il 6 agosto 1980. Responsabile, in questo caso, fu Cosa Nostra. Oltre a lui, solo un altro magistrato è stato ucciso dalla ‘ndrangheta: Antonio Scopelliti, il 9 agosto 1991, su richiesta di Cosa Nostra, perché il Sostituto Procuratore Generale avrebbe dovuto sostenere l’accusa nel maxi processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino davanti alla Corte di Cassazione (almeno secondo le dichiarazioni del pentito Giacomo Lauro, ma l’omicidio è rimasto senza responsabili). Perché ricordare oggi Bruno Caccia? Non è solo un atto di omaggio doveroso, ma deve essere un esercizio di memoria efficiente, per vivificare un modello per la società. Bruno Caccia viene spesso ricordato, per la sua intransigenza, che di per sé non è un valore, se non associato a tutte le qualità che facevano di lui un magistrato straordinario. Parlano di lui i pareri agli atti del suo fascicolo personale, che lo segnalavano già, a un anno dalla nomina, letteralmente, come «ottima promessa per il futuro». «Intelligentissimo, investigatore acutissimo, amante del lavoro, dotato di molto senso pratico, di retta intuizione». «Il dott. Caccia può considerarsi, per il suo equilibrio - concludeva il primo giudizio - addirittura eccezionale». Bruno Caccia, dunque, non era solo intransigente. E la sua intransigenza non era una comoda via per esercitare l’autorità. Era funzionale ai valori che lo guidavano nello svolgimento del suo lavoro. Parlano, in questo caso, i ricordi dei magistrati, allora “giudici ragazzini”, che facevano parte del suo ufficio. La prima circolare firmata da Bruno Caccia quando si insediò come Procuratore Capo di Torino, il 6 febbraio 1980, ordinava di segnalargli eventuali casi di richiesta di raccomandazione. Intransigente, ma autorevole, non autoritario. Aspro polemista, sapeva cambiare idea e rispettava le posizioni altrui se ben argomentate. I magistrati del suo ufficio ricordano di non avere mai subito pressioni da parte sua nell’esercizio dell’azione penale. Contraddirlo con intelligenza valeva guadagnarsi rispetto da parte sua. Anche se a contraddirlo era un sostituto procuratore od un giovane giudice istruttore e aveva meno di trent’anni (come la maggioranza dei magistrati in servizio sotto la sua direzione). Per dirla con Leonardo Sciascia, Bruno Caccia «considerava l’autorità di cui era investito come il chirurgo considera il bisturi: uno strumento da usare con precauzione, con precisione, con sicurezza; riteneva la legge scaturita dall’idea di giustizia e alla giustizia congiunto ogni atto che dalla legge muovesse». Per questo Bruno Caccia poteva dire: «Avere il potere e non esercitarlo è altrettanto grave che non averlo ed esercitarlo». Potere che esercitava con imparzialità, senza ombra di classismo («senza guardare in faccia nessuno», come ricorderanno all’indomani dell’omicidio i suoi colleghi). Bruno Caccia viene ricordato spesso, invece, perché era un conservatore. Non era solo conservatore. Nel lavoro era, anzi, un capo moderno ed aggiornato. La Procura di Torino, sotto la sua guida, era all’avanguardia grazie alla specializzazione dei gruppi d’indagine. I rapporti con i Giudici Istruttori, in passato difficili con chi l’aveva preceduto, divennero molto piu diretti ed efficaci. Con Bruno Caccia Procuratore Capo, nasca a Torino il primo pool antiterrorismo. Ma ricordare Bruno Caccia, significa anche ricostruire la storia di Torino in quegli anni; ed in parte di questo Paese, riferendosi alle inchieste aperte a Torino sotto la sua guida. Impegnato in prima linea contro il terrorismo è lui, nel 1975, a seguito di avocazione del processo, a redigere e firmare la richiesta di rinvio a giudizio contro il nucleo storico delle BR. Bruno Caccia, Sostituto Procuratore Generale e Giancarlo Caselli, giudice istruttore, avevano costruito l’intero processo ricorrendo per la prima volta alla fattispecie della banda armata. È anche noto che l’inizio della sconfitta delle Brigate Rosse iniziò il 19 febbraio 1980 (due settimane dopo l’insediamento di Bruno Caccia come Procuratore Capo), con l’arresto di Patrizio Peci, capo della colonna torinese, che con le sue dichiarazioni consentì l’arresto di altri settanta brigatisti. Ma è meno noto che a raccogliere per la prima volta a verbale le sue dichiarazioni formali come pubblico ministero c’era proprio Bruno Caccia. Così come non è molto noto il ruolo di Bruno Caccia nell’affaire Donat-Cattin. Il 29 aprile era stato arrestato il terrorista di Prima Linea Roberto Sandalo (tra le sue vittime il magistrato Emilio Alessandrini), che, sull’orma di Patrizio Peci iniziò a collaborare e, tra gli altri, denunciò Marco Donat-Cattin, figlio del vice segretario della DC Claudio, dichiarando che era riuscito ad evitare l’arresto grazie all’aiuto del padre, messo in allerta da Francesco Cossiga, allora Presidente del Consiglio. L’ipotesi era violazione del segreto per favorire la fuga del terrorista. Fu Bruno Caccia a ordinare la trasmissione degli atti al presidente della Camera Nilde Jotti (decisione condivisa con l’Ufficio dei giudici istruttori). Il Parlamento bocciò la proposta di messa in stato d’accusa di Cossiga davanti alla Corte Costituzionale, ma il Governo da lì a poco cadde. Estremamente importanti anche le altre due inchieste aperte nel periodo di da Bruno Caccia alla guida della Procura, in stretta collaborazione con l’ufficio Istruzione Penale. Con otto anni di anticipo rispetto a Mani Pulite, alla vigilia delle elezioni politiche del 1983 e in piena epoca Yalta, indagò sulle tangenti in favore di politici locali, provocando nel giro di pochi giorni le dimissioni della giunta regionale prima e di quella comunale poi (il Psi torinese sarà commissariato da Bettino Craxi). L’altra inchiesta toccava figure di rilievo nazionale, indagati eccellenti appartenenti ai vertici della Finanza, primo tra tutti il Generale Raffaele Giudice, Comandante Generale della Guardia di Finanza tra il 1974 ed il 1978 iscritto alla P2 di Licio Gelli. È l’inchiesta sui petroli, che in tutta Italia fece emergere un sistema di corruzione generalizzate dei vertici centrali e locali della Guardia di Finanza e delle Dogane e di evasione del pagamento delle accise per il 20 per cento del consumo di carburante per quasi 2000 miliardi di lire dell’epoca. Con importanti collusioni e protezioni politiche, principalmente nell’entourage dell’on. Moro e del suo segretario Freato, e dell’On. Andreotti, ministro di tutela dell’epoca. Bruno Caccia fu ucciso alla chiusura delle due indagini e mentre i processi in appello erano in corso o dovevano essere celebrati di li a poco. Ma non c’era provvedimento che uscisse dalla Procura senza il suo visto. Come quella richiesta di archiviazione di un sostituto che, senza svolgere indagini, aveva ritenuto priva di fondamento una lettera di denuncia nei confronti del direttore sanitario del Centro clinico ospedaliero delle carceri giudiziarie di Torino. Secondo la lettera il medico rilasciava certificati falsi, dietro compenso, per dichiarare l’incompatibilità dello stato di salute di carcerati mafiosi con lo stato di detenzione. Bruno Caccia non vistò il provvedimento e andò avanti, ascoltando personalmente l’autore della lettera. Inchiesta d’avanguardia se si considera che, negli stessi anni, camorristi del calibro di Cutolo, grazie a perizie psichiatriche false, si facevano rinchiudere nei manicomi giudiziari, da dove fuggivano come se fosse un gioco da bambini. Il direttore sanitario finì condannato in primo grado a cinque anni di reclusione proprio due giorni prima che venisse assassinato Bruno Caccia. Sotto la sua direzione, grazie all’organizzazione data all’ufficio, si intensificarono, infatti, anche le indagini di criminalità organizzata, governata a Torino e Milano dal Clan dei Calabresi e dal Clan dei Catanesi. Ricordare, infine, l’omicidio di Bruno Caccia, ci obbliga anche a ricostruire il contesto in cui maturo il suo omicidio, per ricercarne le motivazioni. Bruno Caccia fu ucciso nel 1983, l’anno in cui, come scrive Giancarlo Caselli ne Le due guerre, «l’Italia poté considerarsi fuori dall’emergenza terrorismo». Proprio in quei giorni si stava celebrando nel carcere torinese delle Vallette il processo d’appello contro il nucleo storico delle Brigate Rosse. Quando Bruno Caccia fu ucciso era domenica. Erano in corso le elezioni politiche. I seggi della prima giornata elettorale avevano chiuso da un’ora e mezza. Il sole e il grande caldo nel resto d’Italia spiegavano in parte la più bassa affluenza alle urne registrata dal 1948 («soltanto l’89 per cento», titolano i giornali). I risultati sancivano il crollo dalla DC. In leggero calo anche il PCI di Berlinguer, ma vicino al sorpasso della DC di De Mita. Crescevano repubblicani e liberali e i socialisti di Craxi, che diventerà Presidente del Consiglio, il primo socialista a ricoprire questa carica. L’Italia delle elezioni politiche del 1983, dunque, usciva dall’emergenza del terrorismo. Non da quella della mafia, che nelle terre di origine, proprio in quegli anni, faceva centinaia di morti. Tra il ’79 e l’83 818 persone assassinate in Campania, dove Luigi Giuliano aveva costituito una federazione di famiglie napoletane per combattere lo strapotere cutoliano. Mille morti ammazzati tra l’81 e l’83 in Sicilia, dove Totò Riina aveva dato inizio alla cosiddetta “seconda guerra di mafia”, per sterminare i mafiosi della vecchia guardia palermitana. La ‘ndrangheta era uscita rinnovata da qualche anno dalla prima guerra di mafia (iniziata nel ’75 con l’omicidio del capo dei capi della ‘ndrangheta, ‘Ntoni Macrì, padrino vecchia maniera). Da allora si chiamava “Santa”: inizialmente trentatré (numero tipico del rituale massonico), i “santisti”, erano autorizzati dal codice della nuova organizzazione a intrattenere rapporti con ambienti prima vietati (a cominciare da carabinieri e poliziotti), e ad affiliarsi alla massoneria deviata, in modo da gestire direttamente il potere politico ed economico e ad “aggiustare” le sentenze. Ma nell’83 queste trame erano per lo più ancora oscure. Il primo a squarciarle, è noto, fu Tommaso Buscetta. Per la ‘ndrangheta bisognerà aspettare fino al 1992, quando inizierà la collaborazione Giacomo Lauro, inizialmente coperto dagli inquirenti con il codice “Alfa”. Nel 1992 fu pronunciata la sentenza d’appello per l’omicidio di Bruno Caccia, che sarà confermata definitivamente in Cassazione, sancendo la responsabilità, come unico mandante, di Domenico Belfiore. Ma è proprio la trasformazione della ‘ndrangheta, rivelata nel 1992, a imporre un’analisi storica integrativa della verità giudiziaria. Lo impone alla luce delle stesse emergenze processuali di allora. “Relazioni pericolose” è il titolo del capitolo più doloroso della seconda sentenza d’appello per l’omicidio di Bruno Caccia, che descrive il proscenio delle indagini. Gli investigatori non avevano ancora orientato le indagini in una direzione precisa, ma a poco a poco scoprirono un rapporto di contiguità tra alcuni suoi colleghi e gli stessi malavitosi indagati dal suo ufficio, nell’ambito delle inchieste di criminalità organizzata. La sentenza per l’omicidio condannerà moralmente i primi, perché con la loro «disponibilità» verso i malavitosi, avrebbero rafforzato la loro motivazione ad uccidere Bruno Caccia, nell’aspettativa che, alla sua morte, subentrassero i loro magistrati amici. La lettura degli atti del processo per l’omicidio e di altri processi conferma il rapporto di contiguità non solo tra certi magistrati e i malavitosi indagati nell’ambito delle inchieste sulla criminalità organizzata, ma anche tra quegli stessi magistrati e gli indagati nelle inchieste sul c.d. scandalo dei petroli e sulle tangenti. Un intreccio di interessi politici con interessi economici e della malavita organizzata, che solleva il dubbio di un’alleanza nella pianificazione, urgente, di un omicidio altrimenti anomalo, in quanto vede, come unico mandante, un Domenico Belfiore di 30 anni, in un’epoca in cui la ‘ndrangheta era già gerarchizzata al suo interno, che, da solo, avrebbe deciso di uccidere la massima autorità della Procura di Torino (unico caso di omicidio di ‘ndrangheta nella storia giudiziaria italiana, che ha come vittima un magistrato, unico caso di omicidio di mafia nella storia giudiziaria italiana, che ha come vittima un magistrato nel Nord Italia). E’ un quadro che impone, anzitutto con un’analisi storica, di scandagliare i collegamenti tra il basso livello della malavita organizzata e gli alti livelli istituzionali dell’epoca, considerando, che, proprio adesso, si sta svolgendo là, a Torino, la discussione finale nel processo “Minotauro”, in cui, per la prima volta, proprio quei collegamenti affiorano a livello processuale. Un’analisi che potrebbe portare all’individuazione di una molteplicità di cause convergenti dell’omicidio di Bruno Caccia, e far emergere nuovi scenari di connivenza e complicità pubbliche. Paola Bellone, viceprocuratore onorario presso la Procura della Repubblica di Torino. Mario Vaudano, magistrato, all’epoca Giudice Istruttore a Torino.

Solo un passo in direzione della verità, scrive Cristina Caccia il 23 dicembre 2015 su "La Stampa". Ieri mattina, il mio risveglio è stato particolare: un collega al telefono mi diceva: «Hanno preso uno dei killer di tuo padre». Dopo la telefonata, mi interrogavo da sola su ciò che provavo, ed era difficile dare una risposta. Non sapevo come mi sentivo, l’unica parola che veniva fuori era «impressione». Fa impressione apprendere una notizia come questa, trentadue anni dopo l’omicidio di tuo padre sentire che - forse - hanno arrestato uno dei suoi assassini. Fa impressione poi che questa persona abbia vissuto nella tua stessa città per tutti questi anni. L’emozione è tanta, partono le telefonate ai fratelli, Guido che vive in Germania, Paola che fa l’insegnante ed è ancora a scuola. Quando riusciamo a sentirci riconosco anche nelle loro voci quella nota di incertezza che forse c’è nella mia. E’ un passo avanti, ci diciamo facendoci coraggio, un gradino in più verso la conoscenza. Questa, per noi, è la lettura razionale di quanto è accaduto. L’arresto di ieri è un passo avanti nella ricerca della verità che la mia famiglia persegue da anni, in ultimo chiedendo alla procura di Milano nuove indagini sul caso. In molti mi hanno chiesto se siamo soddisfatti. La risposta è sì, naturalmente. Ma la questione su cui porre l’accento è un’altra, il fatto cioè che questo è un punto di partenza e non di arrivo, una nuova pista da cui partire sperando che stavolta finalmente qualcuno parli, dopo il silenzio durato trent’anni del mandante riconosciuto dell’omicidio. In famiglia abbiamo sempre pensato che ciò che era uscito non bastasse. Non bastasse un mandante unico, non bastasse una manciata di ragioni dietro a un omicidio eccellente come quello di un Procuratore della Repubblica di una città importante come Torino, l’unico di un magistrato qui al Nord in tanta storia di delitti di mafia italiani. Così questo arresto rappresenta una nuova speranza, una spinta ad andare avanti, e questo è l’importante. C’è ancora molto da sapere. Con mia sorella, per due interviste televisive, abbiamo ripercorso il marciapiede dove nostro padre fu ucciso, ricordando quella terribile sera di giugno di tanti anni fa. Un marciapiede che, sebbene io abiti in questa zona anche adesso, non calpesto mai, se mi capita attraverso. Mi hanno anche chiesto della giustizia e del perdono. Il perdono va chiesto, ho risposto io, e non mi pare purtroppo che sia mai accaduto in trent’anni. E la giustizia - ieri, oggi e anche domani - è sempre una meta a cui tendere.

Bruno Caccia, questo è il tempo della verità. I figli del magistrato ucciso a Torino nel 1983 puntano a far riaprire il caso, scrive Matteo Viberti il 6 novembre 2014 su “La Gazzetta d’Alba”. Il primo delitto di mafia al Nord, negli anni del post-terrorismo, quando le indagini sul casino di Saint Vincent stavano per eruttare un verminaio indicibile. Per la morte di Bruno Caccia, procuratore capo della Repubblica di Torino, ucciso sotto casa con 17 colpi di pistola il 26 giugno del 1983, un boss della ’ndrangheta “settentrionale”, Domenico Belfiore, è stato condannato all’ergastolo come mandante, ma i sicari non si sono ancora trovati. A oltre trent’anni dall’omicidio, Guido, Paola e Cristina, i figli del magistrato sepolto a Ceresole, hanno depositato una denuncia al Tribunale di Milano, che chiama in causa, indicando piste e nomi precisi, le più sconcertanti connessioni italiane, da Cosa nostra ai servizi segreti. Ne parliamo con Paola Caccia.

Come ha vissuto la sua famiglia la tragedia dell’omicidio di suo padre, Paola?

«Siamo rimasti scioccati, chiusi a lungo nel nostro dolore. Abbiamo cercato di superare la tragedia, trasmettendo ai nostri figli i valori in cui credette mio padre. A lungo non ci siamo interessati alle indagini. Avevamo fiducia totale nella magistratura. Solo in seguito, dopo il processo che si è chiuso nel 1992, abbiamo iniziato a interrogarci, mia madre per prima, sui molti temi a cui la sentenza non aveva risposto, e a cercare di capirne le ragioni. Devo ammettere, dopo aver letto gli atti, molta sorpresa per il modo con cui è stato condotto il processo. Purtroppo, temo siano state nascoste alcune verità. Per questo, anche grazie al sostegno di Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti, abbiamo preso coraggio e stiamo cercando di far riaprire il caso. Fin qui conosciamo solo il volto del mandante dell’omicidio di mio padre, il boss della ’ndrangheta Domenico Belfiore, ma non quello di chi lo ha ucciso».

Quali sono i nuovi elementi sui quali chiedete di indagare?

«L’avvocato Fabio Repici, esperto nei processi di mafia, con la consulenza del magistrato Mario Vaudano, ha depositato una denuncia presso la Procura di Milano in cui si indica la pista da seguire: l’indagine sul casino di Saint Vincent, che mio padre aveva fatto perquisire proprio nel mese precedente la sua morte, e che avrebbe svelato come al casino venissero riciclate ingenti somme di denaro proveniente da attività criminali. Rileggendo il fascicolo processuale ci si rende conto che molti elementi sono stati inspiegabilmente trascurati dal titolare dell’indagine, il pm Francesco Di Maggio».

Proprio intorno ai casino italiani ruotavano forti interessi criminali.

«Grazie al lavoro dell’avvocato Repici siamo arrivati a ipotesi sulle quali, a nostro avviso, occorre indagare, a partire, ad esempio, dalla falsa rivendicazione dell’omicidio operata dalle Brigate rosse, il cui testo è stato trovato in casa di un mafioso».

Belfiore non avrebbe quindi avuto il ruolo che gli è stato attribuito?

«È stato condannato un “pesce piccolo”, senza andare oltre. Ci sono dettagli importanti, lasciati cadere nel processo, e per questo confidiamo nella riapertura delle indagini, che ci è stata negata lo scorso anno. Lo sentiamo come un dovere in quanto familiari e cittadini. Forse è stata occultata la verità».

Ha ancora fiducia nella magistratura?

«Sì, ho ancora fiducia. Ma devo ammettere che mi aspettavo un altro tipo di impegno da parte della Procura di Milano e dei colleghi di Torino per il raggiungimento della verità. Un maggiore coraggio nel pretenderla, un dovere verso un uomo coraggioso come mio padre che, ai tempi del terrorismo, quando la paura era una costante per noi, ci raccomandava: “Se mi rapiscono non venite a patti”».

Come ricorda suo padre, Paola?

«Mio padre non parlava del suo lavoro in famiglia. Abbiamo conosciuto il magistrato dopo la sua morte, grazie ai suoi sostituti, che ci sono stati molto vicini. In casa era un uomo positivo, ottimista, allegro, sereno, anche se rigoroso sulle questioni importanti. Amava l’orto, lo sport, la natura. Gli piaceva mettersi in gioco, giocava a bridge ogni settimana con gli stessi amici. A noi figli ha sempre dato fiducia, esigendo sincerità, ma lasciandoci liberi di seguire le nostre inclinazioni».

La Commissione parlamentare antimafia sta riaprendo alcuni casi di omicidi irrisolti sui quali si staglia l’ombra della mafia.   Il 28 ottobre, in audizione a Messina, la presidente Rosy Bindi ha assicurato, tra l’altro, parlando di Bruno Caccia: «Tra i nostri compiti c’è anche quello di far sentire la vicinanza alle vittime della mafia. Sosterremmo la famiglia Manca e sosterremo Sonia Alfano. E saremo vicini anche al percorso di ricerca della verità sull’omicidio del giudice Bruno Caccia». La Commissione ha infatti sentito l’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia del procuratore capo di Torino ucciso nel 1983. Secondo Repici, che ha presentato un dettagliato dossier, chiedendo una seria riapertura delle indagini, il delitto del magistrato si lega con le vicende messinesi sulle quali il legale è impegnato. Tra gli informatori dei servizi segreti mobilitati subito dopo il delitto, ad esempio, ci sarebbe anche il barcellonese Rosario Pio Cattafi, ora al 41 bis.

Rocco Sciarrone: le mafie sono al Nord e pure Cuneo e Alba rischiano. “Parliamo con Rocco Sciarrone. Sociologo, docente all’Università degli studi di Torino e autore del libro Mafie al Nord (Donzelli editore, 2014), il 31 ottobre è stato a Cuneo, ospite dell’associazione Libera, per presentare il suo lavoro di ricerca.

La mafia al Nord: soltanto un timore oppure una presenza reale, professore?

«La mafia del Nord Italia è un fenomeno reale e di vecchia data. Riscontriamo tracce soprattutto in Lombardia, ma anche in Piemonte. Il Canavese è il luogo più “colpito”, con una forte presenza della ‘ndrangheta calabrese».

Quali forme può assumere il fenomeno?

«Sovente si tratta di movimenti che intaccano la sfera del legale, comunicano con essa, ne dissolvono i confini. Più che ruberie e palesi atti delinquenziali, la mafia al Nord scalfisce il tessuto imprenditoriale e politico, tentando di infiltrarsi e di controllarlo. Ad esempio, nel mondo dell’edilizia, delle amministrazioni comunali, delle società partecipate.  La mafia s’innesta con maggiore facilità laddove preesistono pratiche illegali, oppure dove è presente una vulnerabilità economica e sociale a livello di contesto. Dobbiamo cambiare quindi la prospettiva tradizionale: la mafia non contagia un tessuto, non rappresenta un agente patogeno esterno che arriva da fuori e agisce. Si tratta di un processo complesso che s’installa laddove trova un ambiente “accogliente”».

Quindi anche una provincia come Cuneo e una città come Alba rischiano di veder sviluppare queste forme criminali?

«Cuneo e Alba sono luoghi storicamente considerati “protetti”, ovvero più resistenti all’installazione di fenomeni mafiosi. Vuoi per la solidità del tessuto di valori etici, vuoi per le eccellenze imprenditoriali e sociali. Ma proprio queste eccellenze possono essere punto di attrazione per organizzazioni criminali, come avviene in Brianza. Non dimentichiamo infine che la relativa tranquillità della Granda ha fatto sì che il territorio divenisse sovente rifugio di latitanti».

Come si può contrastare il fenomeno?

«Tenendo alta la guardia, monitorando costantemente i punti più sensibili dell’apparato economico e istituzionale. Sovente il mafioso, per agire come tale, deve rendersi riconoscibile. Ha dei punti di vulnerabilità, dobbiamo imparare a riconoscerli».

Bruno Caccia: dimenticare, confondere, ricordare, vivere, scrive il 29 gennaio 2013 Libera Piemonte. Bruno Caccia. Chi lo dimentica, chi lo confonde, chi lo ricorda, chi continua a vivere la sua vita. Tutto questo succede in una mattina d’inverno, a Torino. Il teatro è l’inaugurazione dell’anno giudiziario, sabato 26 gennaio. Tra gli attori, tutti i vertici della Corte d’Appello e della Procura Generale.

Chi lo dimentica. Quest’anno, ingenuamente, pensavamo che il trentennale dell’omicidio di Bruno Caccia sarebbe stato ricordato da tutti, anche stante l’importante processo Minotauro che vede ritornare molti cognomi di cosche già operative all’epoca dell’uccisione del Procuratore. Era il giugno 1983 e “con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare”. Per questa ragione venne freddato sotto casa, mentre passeggiava col cane. Diciassette colpi. Ancora ignoti gli esecutori dell’omicidio, mentre come mandante è stato condannato all’ergastolo nel 1993 Domenico Belfiore, da Gioiosa Jonica. La mattinata passa e intervento dopo intervento (incluso quello del ministro Paola Severino) nessuno menziona Bruno Caccia. Tra di noi ci guardiamo un po’ sorpresi.

Chi lo confonde. Ci vogliono pazienza e tempo per leggere tutta la Relazione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario. Ma se si arriva a pagina 173, al settimo capitolo (cioè l’ultimo prima degli allegati) si trova il suo nome. Ed è un passaggio in particolare del presidente Barbuto che vogliamo riportare: “Il palazzo entrò in funzione nel 2001, ed è dedicato a Bruno Caccia, Procuratore della Repubblica di Torino, assassinato dalle Brigate Rosse, sotto casa nel 1983, due anni prima che si deliberasse la costruzione del nuovo palazzo. Per il quale, l’evocazione della fortezza, pur se inconsapevolmente, non fu estranea alla percezione sociale di aggressione terroristica di quegli anni”. Avete letto bene. Brigate Rosse. Questo c’è scritto nella relazione che trovate sul sito giustizia.piemonte.it e che è stata distribuita in numerose copie stampate sabato mattina. E la ‘ndrangheta? Domenico Belfiore faceva forse parte delle BR?

Chi lo ricorda. Alla fine della mattinata, in un’aula ormai spoglia e stanca della lunga cerimonia, prende la parola il Procuratore capo Gian Carlo Caselli. Ricorda il collega Caccia, le ragioni della morte, le parole dei suoi figli. Riprendiamo qui uno stralcio del suo discorso: “Il 2013 è l’anno del trentesimo anniversario della morte di Bruno Caccia. I figli del Procuratore ucciso dalla ‘ndrangheta hanno indirizzato ai media (che l’anno pubblicata integralmente o per ampi stralci) la lettera che ora leggo: A trent’anni dalla morte di nostro padre, siamo profondamente grati a tutti coloro che vorranno ricordarlo con eventi e iniziative che ne onorano la memoria e che ci fanno un grande piace. In tutti questi anni nelle periodiche ricorrenze e non solo, abbiamo sentito sempre forte e presente il ricordo e l’affetto delle Istituzioni cittadine. Abbiamo apprezzato lo sforzo continuo dell’associazione Libera, che è riuscita a tener viva la scintilla dell’interesse e della partecipazione, anche e soprattutto tra i giovani. Non possiamo però nell’occasione tacere ciò che purtroppo ancora ci cruccia. A fronte degli esiti processuali che risalgono ormai a molti anni fa, sentiamo tuttora il disagio per qualcosa che non ci pare ancora del tutto chiarito. Le recenti cronache del processo Minotauro avallano in qualche modo i nostri dubbi, mettendo in luce un percorso della malavita organizzata che dai fatti di oggi si può far risalire fino ad allora. Proprio in quest’ottica, la sentenza definitiva ci pare a tutti gli effetti una verità parziale. Ci piacerebbe perciò che la ricorrenza di quest’anno diventasse occasione e stimolo per uno sforzo corale teso ad avvicinarsi maggiormente alla Verità, partendo dal presupposto che l’omicidio di nostro padre non fu certo un fatto isolato nella storia cittadina. Questa memoria “fattiva” sarebbe secondo noi un degno coronamento della commemorazione del suo sacrificio. Firmato: Guido, Paola e Cristina Caccia”. Una lettera franca. Essa comporta per tutti (politici, amministratori, società civile, giuristi e magistrati) l’obbligo di moltiplicare il proprio impegno. L’obbligo per tutti di respingere con forza, con sdegno, ogni tentazione di sottovalutazione (e qualcosa in questo senso va purtroppo serpeggiando) perché la penetrazione delle mafie al nord è un’emergenza in atto da lunghissimo tempo, mentre scarsissima è la consapevolezza al riguardo. Nessuna presa di posizione, quindi, nessuna decisione significativa è registrabile. Incredibile, nel nostro Piemonte, questa mancanza di consapevolezza:

1)  in Piemonte viene ucciso nel 1983 Bruno Caccia (il più “eccellente” dei 44 omicidi di mafia registrati in provincia di Torino fra il 1970 ed il 1983, con 24 persone uccise di origini calabresi).

2)  in Piemonte è il primo comune italiano sciolto per mafia: 1995 Bardonecchia.

3) numerose ed importanti sono state negli anni passati le inchieste della magistratura torinese sul versante ‘ndranghetista (Cartagine per tutte).

Perché questa mancanza (rifiuto?) di consapevolezza? Per ignoranza, impreparazione, ritardo culturale, miopia, sottovalutazione, distacco aristocratico (razzista) della gente del nord verso il pericolo mafioso? Anche per tutto questo…insieme al (soprattutto per il) fatto che la mafia nelle aree non tradizionali riesce ad ibridarsi, riesce a proteggersi con una forza relazionale che fa di tutto per non essere percepita, per non essere avvertita come pericolo presente. La mafia opera sistematicamente, programmaticamente, ontologicamente (è nel suo Dna) per mimetizzarsi. Questa mimetizzazione è anch’essa vecchia quanto le mafie, per cui è ben strano che funzioni ancora oggi, mietendo vittime anche illustri in alto loco. MENTRE proprio la strategia di mimetizzazione del crimine organizzato ne dimostra la pericolosità. Tutto ciò è scolpito nel 416 bis. Dimenticarlo o ignorarlo non si può. I figli di Caccia, con la loro lettera, ci chiedono di non farlo”.

Chi continua a vivere la sua vita. In quest’ultimo capoverso vanno ricompresi tutti coloro che fanno il proprio dovere fino in fondo, come faceva Bruno Caccia. A partire da chi abita un luogo a lui dedicato, un luogo confiscato alla famiglia Belfiore (capitali mafiosi e non brigatisti), la cascina in cima a San Sebastiano da Po, dove si cerca di costruire una comunità alternativa alle mafie, grazie all’incrocio dell’impegno di molti. Chiediamo scusa alla famiglia del Procuratore per tutti coloro che oggi, a trent’anni di distanza, lo dimenticano o lo confondono. Noi abbiamo scelto di ricordarlo e di continuare a vivere la sua vita.

Cinquant'anni di 'Ndrangheta in Piemonte. Storia del crimine all’ombra della Mole, scrive Luca Rinaldi il 16 Gennaio 2012 su “L’Inkiesta”. Quello dell’operazione Minotauro, datata giugno 2011, che ha portato all’arresto di 151 presunti affiliati alla ‘ndrangheta, è solo l’ultimo capitolo della lunga storia dell’infiltrazione della criminalità organizzata in Piemonte. Prima i confini degli anni Sessanta, poi il 13 giugno 1983, quando venne assassinato il procuratore della Repubblica Bruno Caccia fino ai presunti rapporti odierni fra ‘ndrangheta e politica. Il 26 giugno del 1983 a Torino veniva assassinato per mano della ‘ndrangheta il procuratore della Repubblica Bruno Caccia. Uno con cui, riferì Domenico Belfiore, condannato come mandante del delitto, «non si poteva trattare». Sibillina quella frase di Mimmo Belfiore da Gioiosa Ionica. Uomo di ‘ndrangheta in trasferta a Torino, dove gestiva un bar proprio sotto il tribunale del capoluogo piemontese, in affari con i Gonnella esponenti di Cosa Nostra. Sibillina al punto che i magistrati nella sentenza di condanna di colui che era diventato un referente di primo piano per le ‘ndrine calabresi in Piemonte, scriveranno «Egli [Bruno Caccia, nda], poté apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri giudici. Perché questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati». Le famiglie mafiose da Torino e dal Piemonte non se ne sono mai andate, anzi, hanno spesso affari con la pubblicazione amministrazione e amicizia con la politica. A trent’anni di distanza, i figli del magistrato piemontese hanno chiesto di riaprire il processo sull’omicidio del padre. L’avvocato della famiglia, Fabio Repici, ha dichiarato l’ANSA che «ci sono ancora troppi buchi. Cercheremo di riportare a galla elementi di indagini trascurate negli anni, ma che potrebbero aggiungere elementi di verità». La figlia di Bruno Caccia, Paola, ha detto che la richiesta di riapertura delle indagini che verrà depositata alla Procura di Milano porterà a «riaprire ferite peraltro mai chiuse. Ma lo sentiamo come un dovere, come un bisogno di giustizia per il nostro Paese. Ed è anche un modo per sentirci ancora vicini a papà, che per tutta la sua vita ci ha insegnato i valori della coerenza e della verità». Così se nel 1963 arriva in Piemonte spedito al confino Rocco Lo Presti, soprannominato il padrino di Bardonecchia (che sarà poi il primo comune del Nord Italia sciolto per infiltrazioni mafiose), l’8 giugno 2011 va in porto l’operazione “Minotauro” con l’arresto di 151 presunti affiliati alla ‘ndrangheta in tutto il Piemonte, a Milano, Modena e Reggio Calabria. Le indagini sono partite dalle dichiarazioni del pentito Rocco Varacalli, e per il procuratore di Torino Giancarlo Caselli, come ebbe a dire durante la conferenza stampa lo stesso 8 giugno, dimostra «l’amorevole intreccio tra criminalità organizzata e politica». Un intreccio prosegue Caselli che «dà a quest'inchiesta un risvolto inquietante». Il risvolto inquietante sono i contatti con la politica e gli appalti delle aziende delle cosche nella Pubblica Amministrazione. Risvolti inquietanti che già Roccuzzo Lo Presti, organico al clan Mazzaferro aveva importato nel freddo Piemonte negli anni ’60. Lo Presti aprì proprio a Bardonecchia un negozio di abbigliamento, per poi prosperare in altri settori come ediliza, autotrasporti, bar, le immancabili sale da gioco e la ristorazione. Per i giudici è Lo Presti a «portare la mafia a Bardonecchia», e non a caso si era accasato con i Mazzaferro, già attenzionati nel 1976 dopo l’ottenimento di appalti per la costruzione del traforo del Frejus. Altre due inchieste, la prima nel 1984 e la seconda verso la fine del 1994, vedono i clan infiltrarsi negli appalti pubblici nell’alta Val di Susa, fino allo scioglimento del comune di Bardonecchia il 28 aprile del 1995. Dopo un’inchiesta molto approfondita della prefettura il Consiglio dei Ministri scioglie il Consilio comunale, ravvisando «l’esistenza di condizionamento degli amministratori da parte della criminalità organizzata». Già nella relazione della Commissione Parlamentare Antimafia del 1994, si censivano le presenza persistenti di ‘ndrangheta, cosa nostra e dei casalesi, mettendo poi in risalto quelle «situazioni sospette» nel settore finanziario. Già nel 1994 emergeva quella “zona grigia” fatta di professionisti, politici e funzionari pubblici su cui la mafia si appoggia per trasformare l’illecito in apparentemente lecito. Così gli anni ’90 e i primi anni 2000, viste anche le ghiotte occasioni degli appalti e in particolare dei subappalti per le Olimpiadi invernali di Torino 2006 e per il Tav, le cosche tra lavoro nero e gare al massimo ribasso tornano sulla scena pubblica. Una ‘ndrangheta quella insediata in Piemonte, che fa poco rumore, ma che ormai è una presenza storica. Presenza che porta all’insediamento delle nove locali scoperte dagli investigatori nel giugno scorso durante l’operazione “Minotauro”. L’indagine restituisce la fotografia di quei nuclei strutturati di famiglie che rispondono al vertice calabrese, ma che sul territorio negli anni si sono ricavate una propria autonomia, soprattutto per quanto riguarda i contatti con amministratori pubblici e politica locale. Non è un caso che l’indagine prenda le mosse dalle indicazioni del collaboratore di giustizia Rocco Varacalli, organico alle famiglie di Natile di Careri, che nel 2008 iniziò a ricostruire i traffici di stupefacenti delle ‘ndrine tra il Sud America, la Calabria e alcune città del nord Italia. Inoltre emergono sempre dalle deposizioni del collaboratore di giustizia le falle in cui le ‘ndrine vanno ad inserirsi nell’economia: subappalti, servizi, facchinaggio e piccole commesse pubbliche, che sommate all’amicizia con il politico o l’amministratore arrivano anche più facilmente dalle parti di quelle aziende apparentemente senza macchia a cui vengono affidati i piccoli subappalti senza gara pubblica. Nel racconto del pentito Varacalli, attendibile a fasi alterne, trovano posto poi anche nomi e cognomi non solo di mafia ma anche di politica. Nelle carte dell’operazione coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Torino emergerà su tutti, perché tra gli indagati, Nevio Coral, già sindaco di centrodestra di Leinì (Torino) per 30 anni e suocero dell'assessore regionale alla Sanità Caterina Ferrero, del Pdl, che poco tempo prima di questa operazione firmò le proprie dimissioni per un caso di tangenti. Nevio Coral avrebbe, secondo l’accusa, procacciato voti tra gli esponenti della ‘ndrangheta per l’elezione del figlio, poi diventato sindaco della stessa Leinì nel marzo 2010 e dimessosi lo scorso dicembre. Tra le pieghe dell’inchiesta emergeranno i rapporti poco convenienti tra il boss di Rivoli Salvatore De Masi e alcuni esponenti politici regionali. Dalle carte emergerebbe infatti che «Tra la fine di gennaio e il febbraio 2011 (De Masi, nda) si è incontrato direttamente o tramite intermediari con l'onorevole Gaetano Porcino dell'Idv (il suo nome emergerà anche in occasione dell’inchiesta sul clan Valle-Lampada sull’asse Milano-Reggio Calabria), con l'onorevole Domenico Lucà del Pd, con il consigliere regionale del Pd Antonino Boeti, con l'assessore all'Istruzione di Alpignanno Carmelo Tromby, sempre dell’Idv». Nessuno di questi è stato indagato dalla procura di Caselli, ma nell’ordinanza si legge appunto di incontri poco convenienti e addirittura in una occasione Lucà chiama il boss Demasi in cerca di voti per Fassino alle primarie del Partito Democratico per la candidature a sindaco di Torino. Allo stesso modo, inconsapevolmente, fa sapere la stessa, Claudia Porchietto, assessore al Lavoro della Regione Piemonte (all’epoca dei fatti, nel 2009, candidata alla presidenza della provincia di Torino per il Pdl), incontra al Bar Italia nel centro del capoluogo piemontese Franco D’Onofrio, considerato dai magistrati «responsabile provinciale della Cosca di Siderno». Il padrino del “Crimine torinese”. I magistrati non indagano la Porchietto considerandola estranea, anche perché l’incontro tra I due dura solo pochissimi minuti, ma è però preceduto da una chiacchierata tra lo stesso D’Onofrio, Giuseppe Catalano e il nipote Luca consigliere comunale del Pdl ad Orbassano. Riconosciuta l’estraneità della Porchietto il gip Silvia Salvadori, che firma l’ordinanza non può fare a meno di classificare l’episodio come «altamente rappresentativo dell’influenza che la ‘ndrangheta assume nella vita democratica». I boss in Piemonte, si interessano di tutta la regione, e in consiglio comunale ad Alessandria si sarebbe seduto addirittura seduto un “picciotto”: nell’ambito di un’altra operazione antimafia, denominata “Maglio” ed eseguita pochi giorni dopo “Minotauro”, gli inquirenti sono arrivati ad arrestare il consiglieri Giuseppe Caridi, del Pdl. Caridi, stando alle indagini dei Carabinieri, avrebbe ricevuto la dote di “picciotto” con cui era stato ammesso ufficialmente a partecipare alle attività della “locale” guidata da Bruno Francesco Pronestì. Quarant’anni di mafia in Piemonte che torneranno probabilmente a fare rumore alla conclusione del processo scaturito proprio dall’operazione “Minotauro”. Intanto, dall’emiciclo di coloro che di solito fanno strali contro chi viene pizzicato in scomoda compagnia, arriva il più solido garantismo e la convinzione che spesso, in campagna elettorale, può capitare di stringere le mani sbagliate. Certo, quando capita ai soliti, come notano gli inquirenti della direzione distrettuale antimafia di Milano nel caso di Gaetano Porcino dell’Idv «sarà uno sfortunato caso». Lo scorso 23 febbraio dopo otto ore di camera di consiglio, la seconda sezione della Corte di Cassazione ha rigettato i ricorsi dei 50 boss condannati in Appello e ha di fatto confermato le sentenze degli altri gradi di giudizio: 300 anni di carcere. La pronuncia ha respinto la richiesta di annullamento fatta dallo stesso procuratore generale per «difetto di motivazione». È la prima sentenza passata in giudicato sulla ‘ndrangheta nel Nord Ovest: «Questa pronuncia – commenta il procuratore capo, Armando Spataro a La Stampa – conferma l’eccellente lavoro della Dda di Torino e della polizia giudiziaria».

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Paolo Adinolfi.

Caso Adinolfi, il figlio del giudice scomparso: «Torno a sperare grazie a Cantone, procuratore a Perugia». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 2/7/2020. Roma, quartiere Farnesina. Era il 2 luglio 1994. Nove di mattina. «Ciao Nicoletta, devo fare alcune commissioni in tribunale e alle poste, ci vediamo per pranzo». Un bacio, un sorriso. E non tornò mai più. La storia di Paolo Adinolfi, giudice onesto e rigoroso, caso più unico che raro di lupara bianca nel cuore della capitale, torna d’attualità nelle ore del 26° anniversario: pochi giorni fa, quando è stata ufficializzata la nomina di Raffaele Cantone alla guida della Procura di Perugia, un uomo che da oltre un quarto di secolo si batte per ottenere verità e giustizia è saltato sulla sedia. In cuor suo ha esultato. È tornato a sperare. È Lorenzo Adinolfi, il figlio oggi quarantenne dello scomparso, anche lui uomo di legge, avvocato. Quell’estate in cui suo padre Paolo, a 52 anni, sparì, Lorenzo era appena stato promosso al terzo anno di liceo e si trovava a Londra in vacanza-studio. «Le circostanze e i dolori della vita - racconta al Corriere il figlio del magistrato inghiottito nel nulla - mi hanno insegnato a restare freddo, inattesa di prove concrete per sapere cosa sia accaduto. Ne ho viste troppe. Quando ho saputo che il dottor Cantone era stato chiamato a dirigere la Procura di Perugia, territorialmente competente a indagare su vicende che riguardano magistrati romani, mi si è accesa una speranza: ho pensato che sia l’occasione per fare luce su una vicenda da sempre circondata da un alone di mistero. Cantone non è soltanto un magistrato che stimo professionalmente per esperienza, coraggio e per essere costretto a vivere sotto protezione inseguito alle sue inchieste contro il crimine organizzato e in particolare la camorra. È anche una figura simbolo...»

Paolo Adinolfi, un giudice tutto d’un pezzo. Famiglia borghese, formazione cattolica. Il riferimento di Adinolfi junior è all’attività svolta fino allo scorso anno da Raffaele Cantone, come presidente dell’Autorità nazionale anti-corruzione, e a quello che potrà fare adesso nel nuovo ruolo. «Una vicenda tragica, terribile e colpevolmente dimenticata come quella di mio padre - aggiunge Lorenzo Adinolfi - è stata certamente il frutto di collusioni, tipiche di quegli anni Ottanta e Novanta, ma purtroppo ancora oggi esistenti, tra affarismo, malapolitica e ambienti giudiziari opachi, limitati, certo, ma dotati di una certa pervasività. Per questo ritengo che una figura forte, esperta nella lotta alla corruzione e ai conflitti di interessi, sia l’unica davvero in grado di riprendere in mano il triste fascicolo che porta il mio cognome, il caso Adinolfi». L’inchiesta sulla scomparsa di Paolo Adinolfi, che per tutti gli anni Ottanta lavorò al tribunale fallimentare di Roma, fu al centro di due inchieste giudiziarie e archiviata nel 2003, dopo che proprio la Procura di Perugia, con il pm Alessandro Cannevale, aveva fatto emergere la pista del rapimento e del successivo omicidio di un giudice integerrimo e incorruttibile, come tale considerato «scomodo» in ambienti criminali. Scartate le ipotesi iniziali del malore, dell’allontanamento volontario e del suicidio - anche perché Adinolfi era felice e appagato dal suo rapporto con Nicoletta Grimaldi, la moglie, legatissimo ai due figli e all’anziana madre, nonché molto devoto - le indagini, per quanto in ritardo, si indirizzarono verso il movente dell’attività professionale. A chi poteva aver dato fastidio il magistrato trasferito a inizio ‘94 nella corte d’appello di Roma? In base alle risultanze emerse, gli attriti nelle aule e nei corridoi del tribunale civile di Roma avevano riguardato alcune sentenze di fallimento da lui emesse anni prima, a cominciare da quella relativa alla Fiscom, società finanziaria legata alla Ambra assicurazioni, sulla quale aveva poi acceso un faro, poco prima della scomparsa, anche il pool Manipulite di Milano.

Così il giudice sparì: il mistero in 10 mosse. Ore 9, un bacio alla moglie: «Torno per pranzo». Per un paio d’anni, tra il 1996 e il ‘97, in seguito alle dichiarazioni del pentito e faccendiere Francesco Elmo, le indagini ripresero così quota. Gli inquirenti, in cerca del corpo di Adinolfi, autorizzarono persino lavori di scavo nell’allora Villa Osio, nel centro di Roma, di proprietà del presunto cassiere della banda della Magliana Enrico Nicoletti, poi diventata Casa del jazz in quanto ritenuta provento di attività mafiose. «Quella fase di indagini andrebbe ripresa grazie a una formale riapertura dell’inchiesta, in cui io continuo a credere e sperare - conclude Lorenzo Adinolfi - perché dall’esame dei documenti, delle perizie e delle mappe sotterranee si evince con chiarezza che le ricerche furono limitate nello spazio e molto frettolose, nonostante gli elementi di dubbio non mancassero». 

Venti anni prima di Mafia Capitale: Paolo Adinolfi, storia del giudice “scomparso”. Pubblicato l'01 Marzo 2015 da  Giuliano Girlando su Antimafia duemila. “Chi sa, ed ha mantenuto il silenzio fino ad oggi, trovi la forza di raccontarci a verità: noi continuiamo ad aspettare, e non smetteremo mai di cercarlo”. Questo è stato l’ultimo appello  comparso su due quotidiani (in cronaca di Roma del Messaggero e del Corriere della Sera) di Nicoletta, Giovanna e Lorenzo, moglie e figli di Paolo Adinolfi, magistrato della Repubblica Italiana, che più di  vent’anni fa, il 2 luglio del 1994, spariva nel nulla. Da quel momento fino ad oggi , la famiglia combatte per la verità. La verità però non è mai arrivata poiché questa storia si è arenata tra depistaggi, indagini svolte in modo approssimativo e archiviazioni. Nel 1997, dalle dichiarazioni di un pentito Francesco Elmo escono delle rivelazioni sul giudice Adinolfi  che doveva essere messo a tacere perché era sul punto di rivelare i misteri del fallimento Fiscom,  società legata a personaggi del mondo dei servizi segreti e della malavita organizzato. Secondo il pentito, il giudice Adinolfi sarebbe stato ucciso da componenti della Banda della Magliana su mandato dei servizi proprio in relazione al caso «Ambra». Elmo racconterà di aver visto il magistrato poco prima della sua scomparsa in un albergo di Roma insieme a due persone, e poi di aver riconosciuto quei due accompagnatori del giudice grazie alle informazioni fornitegli da Mario Ferraro, colonnello del SISMI che pochi mesi dopo sarà trovato «suicidato» tramite impiccagione a un termosifone. Di questo la moglie Nicoletta è sempre stata convinta: “Paolo è sparito perché dava fastidio ai malaffari della Fallimentare.” Paolo Adinolfi quindi, fino a due anni prima della sua a scomparsa, si era occupato del fallimento della «Fiscom», società nelle quale ha avuto un ruolo di rilievo Enrico Nicoletti, il «cassiere» della Banda della Magliana finito sotto processo per bancarotta fraudolenta insieme tra gli altri a Michele Di Ciommo, il «notaio» della stessa banda che comparirà anche nel fallimento dell'«Ambra assicurazioni» e in una lunga serie di «affari» come il caso De Lorenzo, le vicende IMI-SIR e «Toghe sporche». La «Fiscom», fu fondata da personaggi come Giorgio Paolini, prestanome dell'ex amministratore delle ferrovie Lorenzo Necci e tra i cui soci compariva anche il generale Walter Bruno, iscritto alla P2 ed ex proprietario dell'«Ambra», risultò connessa a sua volta con un'altra controllata, la «Cima», un cui socio, Alfonso Conte, verrà accusato dai pentiti di riciclaggio di fondi della camorra. Nelle perquisizioni presso la sede della «Cima» verranno trovati messaggi indirizzati ai faccendieri Flavio Carboni e Francesco Pazienza, gli stessi che avrebbero intrattenuto rapporti con alcuni giudici del Tribunale fallimentare di Roma finiti poi sotto indagine per vicende come le parcelle d’oro e per assegnazioni pilotate delle cause. «Mio marito mi diceva: secondo me dietro questi crac c'è la camorra... I comportamenti di alcuni colleghi gli apparivano poco chiari... Non riusciva a ottenere in tempi rapidi risposte dai periti... » raccontò ancora Nicoletta Grimaldi, vedova del giudice Adinolfi. Nel 1992, due anni prima della sua scomparsa, suo marito tornò da una vacanza e scoprì che gli era stato revocato l'incarico su un altro fallimento delicatissimo: quello della «Casina Valadier», che era di proprietà di Giuseppe Ciarrapico. «Paolo, a quel punto, decise lasciare il tribunale fallimentare. Continuò però il suo impegno civile su quel fronte. Anzi, non si dava pace. Chiedeva consigli ai colleghi più anziani. Voleva testimoniare da privato cittadino, come persona informata sui fatti». Il magistrato, qualche giorno prima di sparire, parlando al telefono con il pm di Milano Carlo Nocerino, lo informò su dei fatti riguardanti le indagini allora in corso sul crac dell'«Ambra assicurazioni. Da una interrogazione alla camera dei deputati su queste vicende emergerebbe che che lo studio notarile Di Ciommo a Roma, sarebbe stato per parecchi anni punto di riferimento per la Roma politica, della finanza e dei grandi affari e con circa 30 dipendenti riusciva a gestire fino a 5.000 pratiche al mese; che tra i clienti di Di Ciommo ci sarebbe stato anche il signor Enrico Nicoletti, famoso finanziere della «banda della Magliana», che sarebbe anche anello di congiunzione tra criminalità organizzata, banche ed istituzioni; che di particolare rilievo sarebbe l’operazione relativa all’acquisto della società assicurativa «Ambra», del tutto anomala per quanto riguarda le garanzie, visto che la banca incaricata del finanziamento respingeva il «progetto CIMA» e concedeva un finanziamento più consistente alla Fiscom spa di Salvatore Tuttolomondo per 30 miliardi, che si assumeva debiti della CIMA con la Cariri ed il Credito fondiario relativi all’operazione «Pratidia» e se ci sarebbero riscontri sul fatto che il signor Antonino Mattarella avrebbe incassato 365 milioni delle vecchie lire da Enrico Nicoletti, come risulterebbe da documento peritale ordinato dal tribunale di Roma nel contesto del processo Cariri-Cariplo, e se tali somme sarebbero servite per le famose operazioni immobiliari di Cortina. Forse oggi sarebbe il caso di riaprire le indagini e fare luce dopo i fatti di Mafia Capitale e quelli che hanno coinvolto la fallimentare. Per questo ci appelliamo al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone: riaprire le indagini sul giudice Paolo Adinolfi.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte di Don Pino Puglisi.

Don Pino, un delitto annunciato. Attilio Bolzoni, Silvia Bortoletto e Francesco Trotta su La Repubblica l'1 settembre 2020. A maggio, cinque mesi prima, Papa Wojtyla durante la messa celebrata nella Valle dei Templi di Agrigento aveva gridato il suo anatema contro la mafia. E ai boss aveva urlato: «Convertitevi». A settembre, cinque mesi dopo, Cosa Nostra ha ucciso don Pino. Era il giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, il 15 settembre 1993. Quella sera padre Puglisi stava rientrando a casa, nel suo appartamento di piazza Anita Garibaldi, nel quartiere palermitano di Brancaccio. Erano pressappoco le 20 e 40. Qualcuno lo stava aspettando con le armi in pugno, gli è scivolato alle spalle e gli ha sparato un colpo alla nuca. Don Pino era il parroco della chiesa di San Gaetano, a due passi abitavano i fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, i boss delle stragi che fra un attentato e l'altro tenevano il moccolo a Totò Riina. La chiesa di Don Pino non era la loro chiesa, quella che negava l’esistenza della mafia e dava rifugio ai latitanti. Lui, sacerdote impegnato nel sociale, rifletteva perfettamente l’impegno evangelico in quella borgata periferica di Palermo,  degradata, dove si respirava omertà e dove in tanti - troppi - erano schiavi del potere mafioso. Don Pino aveva sfidato i boss semplicemente svolgendo il dovere di un prete: offrire ai ragazzi del suo quartiere un’alternativa diversa da quella della criminalità. Non erano mancate le intimidazioni. Alla fine di giugno del 1993 in una notte qualcuno aveva incendiato la porta di casa di tre volontari del Comitato intercondominiale di Brancaccio, poi le molotov contro la chiesa, poi ancora le telefonate e le lettere anonime. Segnali. Era un prete troppo ingombrante, un prete troppo pericoloso. Non per quello che diceva, ma per quello che faceva. Lontano dalle passerelle, dai riflettori, dalle parate. I Graviano lo tenevano d'occhio. Il suo è stato un delitto annunciato. Da oggi e per quindici giorni pubblichiamo sul Blog stralci della sentenza di primo grado (presidente Innocenzo La Mantia) che ha condannato a 18 anni di reclusione il killer Salvatore Grigoli - reo confesso poi diventato collaboratore di giustizia - e all’ergastolo come mandanti i fratelli Graviano. Un delitto che non doveva sembrare un’esecuzione mafiosa ma l’azione violenta di qualche balordo. Il sicario, un attimo prima di far fuoco, gli aveva portato via il borsello. E mentre Grigoli sparava, don Pino ebbe il tempo di voltarsi, guardarlo negli occhi, sorridere e dirgli: «Me lo aspettavo». Gli articoli li trovate anche sulla pagina Instagram dell’Associazione Cosa Vostra. Hanno collaborato: Elisa Boni, Francesca Carbotti, Sara Cela, Rosa Cinelli, Ludovica Marcelli, Marta Miotto, Enza Marrazzo, Sofia Matera, Asia Rubbo. Supervisione Tecnica a cura di Alessia Pacini.

Ucciso il giorno del suo compleanno. La Repubblica l'1 settembre 2020. Il processo in esame riguarda l’omicidio del parroco della chiesa di San Gaetano nella borgata di Brancaccio, un sacerdote barbaramente ucciso a causa del suo impegno evangelico e sociale svolto in un quartiere periferico della città di Palermo, molto degradato e costretto a misere condizioni di omertà e di assoggettamento al potere mafioso locale. Padre Giuseppe Puglisi venne colpito alle spalle, attinto alla nuca da un unico colpo di pistola alle ore 20 e 40 circa del giorno 15 settembre 1993. Stava rientrando a casa nel modesto appartamento sito nella locale Piazza Anita Garibaldi al civico 5 del quartiere di Brancaccio ed aveva appena raggiunto il portone esterno d’ingresso. Gli assassini lo avevano atteso in quel luogo. Rapida e silenziosa fu la sequenza del delitto. Il killer esplodeva il colpo con un’arma semiautomatica di calibro 7.65, munita di silenziatore e da una distanza non superiore a venti centimetri dal bersaglio. Il bossolo, residuo dello sparo, veniva rinvenuto dalla Polizia Giudiziaria nel corso del sopralluogo. Il referto autoptico dirà che la vittima era stata colta nell’atto di aprire il portone e proprio nel momento in cui, il capo leggermente reclinato in avanti, introduceva le chiavi nella serratura del portone. Nessuno aveva udito il colpo di pistola; nessuno in nessun modo aveva avvertito alcunchè. Solo le grida di chi si era accorto che il corpo insanguinato di qualcuno giaceva sull’asfalto avevano di lì a poco richiamato l’attenzione di un agente di Polizia di Stato, Restivo Paolo, abitante nel vicino immobile sito al civico 3 della stessa Piazza Garibaldi. Quest’ultimo fissava l’ora di rinvenimento del corpo del povero Padre Giuseppe Puglisi alle ore 20 e 45 di quel giorno. Padre Puglisi era stato soccorso e trasportato al pronto soccorso del vicino ospedale Buccheri La Ferla. Qui i medici, nonostante prontamente intervenuti per soccorrerlo, dopo un inutile intervento, non avevano potuto far altro che constatarne il decesso. Le particolari circostanze del delitto, e tra queste la mancanza di segni di colluttazione sul corpo dell’ucciso ed il mancato ritrovamento del borsello della vittima, in uno alla personalità ed all’impegno religioso e sociale del prelato, un esponente di grande levatura del clero siciliano, muovevano le indagini degli inquirenti in ogni ragionevole direzione di approfondimento, onde accertare la vera matrice ed il reale movente dell’atroce scelta assassina. Ma ben presto dette indagini, scartando tutte le altre piste alternative, si sono indirizzate in un ambito investigativo ben preciso, e cioè sul contesto ambientale di Brancaccio e sul fastidio che il prete dava alla criminalità organizzata di quello scacchiere mafioso. Giuseppe Puglisi, infatti, dal giorno della prelatura presso la Chiesa di San Gaetano di Brancaccio, si era attivamente dedicato ad una costruttiva, anche se silenziosa, opera di recupero sociale. Questa opera si era diversificata nell’aiuto in un ambiente povero e degradato ai bambini abbandonati, alle famiglie in difficoltà e ciò attraverso l’azione del neo fondato centro di accoglienza “Padre Nostro”, luogo questo vicino alla parrocchia San Gaetano, sito al numero civico 461 della Via Brancaccio. Il sacerdote si era attivato anche per il recupero dei tossicodipendenti, per la creazione di aggregati sociali, tra questi il Comitato Intercondominiale della via Azolino Hazon in cui si cercava di promuovere, attraverso diverse iniziative, il recupero del territorio urbano del quartiere tra i più degradati della città di Palermo. E quindi la creazione di una scuola, a tal fine utilizzando un ampio vano terrano dismesso all’interno dell’immobile sito sempre nella via Azolino Hazon del quartiere di Brancaccio. A questa opera laica svolta da Padre Puglisi era congiunta una continua e visibilmente ben corrisposta attività di evangelizzazione, sicchè la Chiesa di San Gaetano era ormai divenuta un centro di riferimento permanente per tutti coloro che nell’azione del sacerdote si riconoscevano e trovavano un’alternativa alla triste e violenta realtà del quartiere di Brancaccio. L’aggregazione sociale voluta da Don Pino Puglisi, la pratica dei valori cristiani tradizionalmente opposti alla logica della violenza e del terrore di “Cosa Nostra”, quindi, rappresentava un consistente pericolo per l’organizzazione criminale che vedeva compromessi i suoi principi proprio nel luogo ove più forte era il suo radicarsi per consolidata permanenza. Ecco, allora, che nel variegato panorama di indagini, la matrice del grave fatto di sangue veniva ricercata nella intensa attività di impegno sociale e pastorale portato avanti con tenacia dal coraggioso prete. L’impianto accusatorio, inizialmente promosso in tal senso, si rafforzava ancor più a seguito delle propalazioni di numerosi mafiosi della zona che, per motivi vari, si erano dissociati dall’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, iniziando un percorso collaborativo con la giustizia. E’ stato possibile, pertanto, effettuare una puntuale e completa ricostruzione di ogni circostanza che portò gli assassini di “Cosa Nostra” ad accanirsi contro un uomo giusto, portatore del Vangelo. Si avviavano, al riguardo, tre distinti procedimenti sfociati in altrettanti processi.

La straordinaria storia di Don Pino. La Repubblica il 9 settembre 2020. “Esponente del clero siciliano più avanzato e coraggioso”, Padre Giuseppe Puglisi “era divenuto, al pari di altri preti di frontiera impegnati nelle attività sociali, un sacerdote di trincea che aveva trasformato la sua chiesa in una prima linea nella lotta alla mafia; esprimeva l’immagine di un clero isolano non più timido ed impacciato nelle prese di posizione contro il potere mafioso, bensì risoluto e battagliero nella coerenza evangelica e nella testimonianza di fede, ed impavido nel mobilitare la comunità e favorire il risveglio delle coscienze”. “Era stato parroco della chiesa di San Gaetano a Brancaccio, che il sacerdote aveva cercato di trasformare da roccaforte e riserva di “Cosa Nostra” in avamposto dell’antimafia, dal quale combatteva ogni forma di prepotenza e soprusi ed aveva avviato un’opera di risanamento morale e religioso che aveva coinvolto larghe fasce di fedeli, i quali avevano visto nel sacerdote un punto di riferimento in una realtà territoriale spesso indifferente o peggio acquiescente ed in una situazione ambientale fortemente intessuta di complicità, silenzi ed omertà”. Don Puglisi “concepiva la sua missione come impegno nelle attività sociali, come educazione dei giovani alla giustizia, al rispetto dei diritti e dei doveri e, nel rigoroso ambito della visione pastorale ed evangelica del suo operato, esortava cittadini e parrocchiani e tutta la comunità ecclesiastica ad aderire alla cultura ed alla pratica dell’ordinaria legalità. Per questo raccoglieva i giovani dalla strada tossicodipendenti e sbandati, utilizzando per il loro recupero e lo svolgimento delle attività sociali luoghi che un tempo erano sotto il dominio di “Cosa Nostra” che li destinava all’esercizio di attività criminali. Aveva dato vita anche ad un gruppo di giovani volontari diventando presto punto di riferimento per tutti gli emarginati della zona ed aveva creato un centro di accoglienza “Padre Nostro”, annesso alla chiesa di San Gaetano”. “Con l’ausilio di volontari ed altri religiosi, operando in un quartiere degradato ed emarginato, assoggettato alla cultura della sudditanza alla organizzazione criminale che aveva reso passivi e succubi larghi strati di popolazioni, il prete aveva lucidamente inteso la sua missione – tramite il suo silenzioso ma efficace operato – come un “percosso di liberazione” dei suoi parrocchiani ed in generale della gente della borgata, dall’impotente assuefazione al predominio mafioso [...]. Aveva valorizzato gli spazi di aggregazione e potenziato l’esperienza del centro sociale, moltiplicando le occasioni di incontro con la gente della borgata ed in genere con i più bisognosi, sperando di incidere anche in quelle frange ormai cronicamente cresciute in un clima di omertà mafiosa, fossero essi giovani malavitosi o ragazzi abbandonati, più facili prede delle lusinghe mafiose”. “Era di carattere schivo e riservato, preferendo l’impegno quotidiano alle azioni spettacolari, ma per il suo attivismo che si esprimeva nell’organizzazione di visite ed incontri con le Istituzioni, nella partecipazione a cortei contro il prepotere criminale, nelle denunce del malaffare, si era esposto prima alle rappresaglie poi all’offensiva della mafia, aveva ricevuto minacce, avvertimenti, che aveva coraggiosamente denunciato ai fedeli nelle omelie domenicali”. Don Puglisi, [...] era convinto che [...] le intimidazioni e le minacce, che avevano lo scopo evidente di incutere paura e terrore, provenissero da chi allora comandava nel quartiere, affermando espressamente che i comandanti della zona con sicurezza erano i fratelli Graviano. [...] Da tutti gli atti del processo [...] emerge, la figura di un prete di trincea, un sacerdote che infaticabilmente lavorava sul territorio; un religioso non contemplativo ma calato pienamente nel sociale, immerso nella realtà del tutto particolare e difficile di un quartiere degradato, dove, “fino a qualche tempo prima c’era quasi il coprifuoco la sera”. [...] Ed a Brancaccio si poteva morire anche solo per avere avuto il coraggio di reclamare una vita normale, la legalità più elementare, la voglia di professare l’impegno sociale cristiano, da molti spesso sbandierato ma solo da pochi praticato. Don Pino non faceva politica, non era iscritto nel lungo elenco dei retori dell’antimafia. Era solo un uomo ed un cristiano che cercava la normalità e pretendeva la normalità. Per lui la legalità era normalità del convivere civile e non un esercizio di retorica. La legalità, per lui, era potere operare da uomo libero, con semplicità, con naturalezza, senza servire il politico o l’amministratore di turno e senza abdicare alla dignità di cittadino, di sacerdote e di uomo.[...] Sulla vita e sulla attività del sacerdote hanno reso testimonianza le persone a lui più vicine e coloro che lo affiancarono nel suo quotidiano apostolato: [...] L’allora diacono Renna Rosario Mario, che coadiuvava padre Puglisi nelle celebrazioni liturgiche, nell’amministrazione della parrocchia e nelle attività del centro di accoglienza “Padre Nostro”, e che era stato l’ultimo a vedere in vita il prelato la sera del delitto, ha riferito che il sacerdote dedicava particolare cura al recupero dei bambini del quartiere di Brancaccio che non frequentavano la scuola, e che, per rendere più incisiva tale opera, verso la fine del primo anno di parrocato, padre Puglisi aveva istituito dei corsi di scuola elementare e di scuola media, maturando e portando avanti anche l’idea di creare un centro di accoglienza per dare assistenza ai malati, agli anziani ed ai diseredati, mancando del tutto il quartiere di strutture in tal senso. Padre Puglisi manteneva ottimi rapporti col Comitato Intercondominiale di via Azolino Hazon, al quale dava tutto il suo contributo, incoraggiando le persone impegnate nello stesso e schierandosi al loro fianco per tutte le iniziative sociali che venivano portate avanti. Detto comitato era costituito da un gruppo di persone di quel rione che portavano avanti iniziative sociali in perfetta sintonia con l’opera pastorale parallelamente svolta da Don Puglisi, il quale dava allo stesso comitato il suo pieno sostegno come padre spirituale. Il Renna ha aggiunto che padre Puglisi non gli aveva mai riferito di avere ricevuto minacce. Negli ultimi tempi, però, il sorriso sulle sue labbra si era spento, il suo sguardo adombrato, circostanze che egli aveva fatto presente al sacerdote, ricevendone come risposta: “non ti preoccupare…… non c’è niente”. [...] Carini Giuseppe, un giovane allora studente della facoltà universitaria di medicina e chirurgia molto vicino a Padre Puglisi, ha evidenziato che il religioso aveva rapporti tormentati con il Consiglio di Quartiere e con le forze politiche in genere. Il Carini, che era stato uno dei più attivi collaboratori della parrocchia di San Gaetano, ha affermato che padre Puglisi non si sarebbe mai azzardato a fare propaganda elettorale per alcun partito e che aveva avuto modo di constatare che era entrato in conflitto con certi soggetti – come uno dei fratelli Mafara, il medico Nangano e la moglie, Pippo Inzerillo, Cosimo Damiano Inzerillo – i quali facevano parte di un comitato di festeggiamenti che organizzavano feste rionali mediante questue con cantanti od altre cose del genere, utilizzando tali manifestazioni come trampolino per ricevere voti elettorali. Padre Puglisi appunto non aveva accettato che “in un quartiere, dove c’era un disagio sociale grandissimo, si potessero spendere anche ottanta milioni per delle feste, ed entrò in contrasto con loro, soprattutto col dottore Nangano”. Il teste ha ricordato che per l’Epifania una signora, facente funzioni di segretaria del Consiglio di Quartiere, aveva organizzato una recita, alla quale avevano presenziato l’onorevole Mario D’Acquisto ed alcuni consiglieri comunali, tra cui una signora chiamata la “madrina di Brancaccio”. In quella occasione padre Puglisi aveva mostrato il suo disappunto per la presenza di quelle persone che, pur sapendo che la gente del quartiere viveva in condizioni misere, avevano avuto il coraggio di presentarsi in quella zona per chiedere consensi elettorali. Il sacerdote in quella occasione aveva preso la parola ed aveva detto testualmente: “Qui c’è una situazione nel quartiere disagiata al massimo, senza una scuola media, gente disoccupata,…….situazioni familiari assurde, promiscuità incredibile e voi venite qui a chiedere voti, ma perché, con quale faccia vi presentate qui!”. Negli ultimi mesi di vita padre Puglisi era cambiato d’umore: era divenuto molto riservato ed aveva cominciato ad allontanare tutti coloro che gli erano stati più vicini, evitando che rimanessero con lui fino a tarda sera. […] Don Puglisi aveva acquistato uno stabile, installandovi il centro di accoglienza “Padre Nostro” che all’inizio aveva avuto come obiettivo lo studio delle condizioni ambientali del quartiere; in seguito era stato strutturato in modo da dare assistenza ai minori a rischio, agli anziani, ai disadattati. A questo scopo vi lavoravano le suore dei poveri di Santa Caterina da Siena e parecchi volontari. Il prezzo di acquisto dell’immobile era stato pagato in parte con un mutuo bancario e in parte con denaro messo a disposizione dallo stesso Don Puglisi, il quale insegnava presso il liceo classico Vittorio Emanuele di Palermo. [...] Dalle deposizioni delle persone […] che affiancarono don Puglisi nel suo apostolato quotidiano [...] emerge la figura di un prete di trincea, un religioso che infaticabilmente operava sul territorio, “fuori dall’ombra del campanile” della sua parrocchia. Don Puglisi, in sostanza, era il centro motore di molteplici iniziative non soltanto pastorali ma anche sociali e persino economiche in favore della sua comunità ecclesiale che potessero servire al riscatto della gente onesta della borgata, migliorandone le condizioni di sopravvivenza civile. Tutte le opere e le iniziative benefiche che avevano fatto capo al sacerdote [...] mostrano la figura di un religioso non contemplativo ma calato pienamente nel sociale, un prete immerso nella difficile realtà di un quartiere della periferia degradata della città, che non si arrende neppure di fronte alle minacce ed alle intimidazioni. Il parroco della chiesa di San Gaetano di Brancaccio aveva scelto di schierarsi, apertamente e concretamente, dalla parte dei deboli e degli emarginati; aveva deciso di appoggiare fermamente e senza riserve i progetti di riscatto provenienti dai cittadini onesti, che intendevano cambiare il volto del quartiere, desiderosi di renderlo più accettabile, vivibile ed accogliente, e per questo erano mal visti, boicottati e addirittura bersaglio di intimidazioni e di atti violenti. Tutto ciò non lo aveva distolto dalle sue occupazioni silenziose e quotidiane in favore della comunità: soltanto di fronte all’azione implacabile di una maledetta truce mano omicida il suo spirito indomito di religioso, impegnato sul piano etico e civile, aveva dovuto soccombere, solo ed inerme. Per il suo attivismo, infatti, il buon prete si era esposto dapprima alle rappresaglie, e, poi alla tremenda offensiva mortale della mafia. La straordinaria vicenda di Padre Pino Puglisi – 3 P come chiamavano il sacerdote i suoi collaboratori più stretti – è, in realtà, nella sua disarmante semplicità, la storia di quanti sono morti per affermare la normalità e la legalità in una terra soggiogata dalla prepotenza mafiosa.

Le prime indagini dopo l'omicidio. La Repubblica il 2 settembre 2020. In un primo contesto processuale venivano giudicati gli esecutori materiali del crimine, ad eccezione dell’odierno imputato Grigoli Salvatore. Tutti sono stati già condannati alla massima pena dell’ergastolo, consentenza ormai divenuta irrevocabile, sulla base delle stesse fonti di prova del processo in esame. In altro processo venivano giudicati i fiancheggiatori ed i favoreggiatori degli sterminatori di morte operanti nel quartiere di Brancaccio, e tra questi il medico Mangano Salvatore, il quale, come persona insospettabile, gli assassini avevano posto a controllo degli spostamenti del prete una volta deliberata la decisione di ucciderlo. Un terzo contesto processuale, quello che ci occupa, vede imputati due mandanti, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, ed uno degli esecutori materiali apertosi successivamente alla collaborazione, appunto Grigoli Salvatore. E ciò perché il contenuto delle varie dichiarazioni rese nel tempo dai collaboratori di giustizia, in relazione all’omicidio del parroco di Brancaccio, è caratterizzato da un dato comune: il riferimento costante ai così detti reggenti della famiglia mafiosa di quella periferia della città di Palermo, sicuramente ed indiscutibilmente individuati nei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, e l’indicazione di Grigoli Salvatore, quale componente del “gruppo di fuoco” che operava in quel contesto ambientale. Per cui, dette propalazioni ed i tanti elementi certi raccolti in sede di accertamenti investigativi ed acquisiti agli atti sono sfociati dapprima nella emissione di una ordinanza di custodia cautelare nei confronti dei fratelli Graviano Giuseppe e Graviano Filippo, quali mandanti dell’omicidio del sacerdote, nonché nei riguardi di uno degli esecutori materiali del crimine, Grigoli Salvatore, e successivamente nella richiesta di rinvio a giudizio dei tre soggetti sopra indicati, regolarmente formulata dal Pubblico Ministero nelle forme e nei termini di legge. Con decreto del 21 novembre 1995 il Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Palermo, su conforme richiesta del Procuratore della Repubblica, disponeva il giudizio davanti alla Corte di Assise della stessa città nei confronti di Graviano Giuseppe e Graviano Filippo, in stato di detenzione, e di Grigoli Salvatore, latitante, per rispondere, i primi due, dei reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, omicidio premeditato in persona di Padre Giuseppe Puglisi, detenzione e porto illegale di arma e duplice violenza privata ed il terzo dei reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, omicidio premeditato, detenzione e porto illegale di arma. Nel processo di primo grado svoltosi avanti la Corte di Assise si costituiva ritualmente la comunità civile, in quelle articolazioni locali della Provincia Regionale e del Comune di Palermo. Non si costituivano, invece, la comunità ecclesiale ed i parenti dell'ucciso. Dopo la regolare costituzione delle parti e la dichiarazione di apertura del dibattimento, il Pubblico Ministero svolgeva la relazione introduttiva, procedendo ad una dettagliata esposizione dei fatti posti a sostegno delle imputazioni e all’indicazione delle prove a carico degli imputati di cui chiedeva l’ammissione. Quella Corte, indi, provvedeva alla ammissione delle prove orali, così come regolarmente dedotte, ed alla acquisizione delle prove documentali, così come ritualmente indicate dall’accusa e dalla difesa degli imputati. Si procedeva, pertanto, in varie udienze discontinue nel tempo a causa della concomitanza con molti altri procedimenti nei quali i Graviano erano pure imputati, ad una lunga e complessa attività di istruzione dibattimentale, nel corso della quale venivano sentiti numerosi testimoni, i consulenti tecnici e molti imputati di reato connesso e venivano acquisiti, altresì, gli atti ed i documenti di volta in volta offerti dalle parti. In particolare, l’agente della Polstato Restivo Paolo, il sovrintendente Passafiume, i consulenti tecnici Dottori Milone e Pugnetti, gli esperti balistici Farnetti e Azzolina, hanno parlato dei tempi e delle modalità di esecuzione del commesso omicidio nonché dell’arma utilizzata, circostanze, queste, che hanno permesso di ricostruire in maniera precisa e puntuale la dinamica dei fatti. E’ emerso, così, che la sera del 15 settembre 1993, alle ore 20 e 40 circa, l’agente della Polizia di Stato Restivo Paolo, mentre era intento a cenare nella propria abitazione, aveva udito delle urla provenienti dall’esterno. Affacciatosi al balcone, aveva notato il corpo di un uomo disteso supino per terra parallelamente al portone di ingresso ubicato al numero civico 5 della Piazza Garibaldi. Accorso sul posto, aveva rinvenuto sanguinante ma ancora in vita padre Giuseppe Puglisi, parroco della chiesa di San Gaetano in Brancaccio, il quale, trasportato in autoambulanza al vicino ospedale Buccheri La Ferla, era successivamente deceduto a causa delle lesioni riportate. Attraverso l’esame autoptico si accertava che la morte era stata causata da gravi lesioni cranio-encefaliche prodotte da un unico colpo di arma da fuoco, esploso da una pistola semiautomatica, munita di congegno di silenziatore, calibro 7,65, corto, entro il limite delle brevi distanze, con direzione dall’indietro in avanti, da sinistra verso destra e dal basso verso l’alto, ad opera di uno sparatore posto alle spalle della vittima e lievemente alla sua sinistra. Il sacerdote era stato attinto alla regione retroauricolare sinistra mentre si trovava a brevissima distanza dall’ingresso della sua modesta abitazione, sita al civico 5 della Piazza Anita Garibaldi, nel quartiere Brancaccio, ed era stato colto nell’atto di aprire il portone e proprio nel momento in cui stava introducendo le chiavi nella serratura. Nel corso del sopralluogo veniva rinvenuto il bossolo calibro 7,65, corto, e, in sede autoptica, veniva trovato un proiettile di pari calibro. Attraverso l’esame dei reperti balistici in sequestro si accertava, inoltre, che l’arma utilizzata, una pistola marca Beretta, calibro 7,65, modello 34 o 35, era munita di silenziatore. Un sopralluogo effettuato nell’abitazione della vittima, infine, consentiva di rinvenire un milione cinquecento cinquantamila lire e cento dollari USA, mentre non si rinveniva il borsello che padre Puglisi era solito portare sempre con sé.

Le minacce prima dell'agguato. La Repubblica il 3 settembre 2020. Attraverso le testimonianze di Porcaro Gregorio, Guida Giuseppe, Palazzolo Salvatore, Carini Giuseppe e Renna Rosario, poi, si ricostruiva il contesto ambientale in cui si era mosso Don Pino Puglisi, il suo operato, il suo impegno sociale e pastorale, le gravi minacce e le intimidazioni dallo stesso subite ed ancora quelle subite da coloro che nel suo operato si riconoscevano e trovavano una alternativa alla triste e violenta realtà del quartiere Brancaccio. Si è accertato, così, che il sacerdote, il quale operava in un quartiere degradato sito nella periferia della città, quale era appunto quello di Brancaccio all’epoca dei fatti, si era dedicato al recupero dei bambini non scolarizzati, istituendo corsi di scuola elementare e media; aveva creato il centro di accoglienza “Padre Nostro”, luogo questo vicino alla parrocchia San Gaetano, per dare assistenza ai minori a rischio, agli anziani e ai disadattati, provvedendo anche alla raccolta dei fondi per l’acquisto dei locali che ospitavano detto centro. Si è appreso, anche, che il sacerdote fungeva da direttore spirituale e animatore del “Comitato Intercondominiale” di via Azolino Hazon, istituito e composto da volontari che si erano associati allo scopo di migliorare la qualità della vita del quartiere, attraverso diverse iniziative. Si è saputo, inoltre, che i rappresentanti di tale comitato – Romano Mario, Guida Giuseppe e Martinez Giuseppe – nella notte del 29 giugno 1993, erano stati destinatari di attentati incendiari, a contenuto intimidatorio, da essi regolarmente denunciati agli organi competenti e negativamente commentati da padre Puglisi nella omelia della messa domenicale. Con l’audizione delle persone predette, veniva dimostrato altresì l’isolamento politico e sociale in cui il povero prete ha dovuto assolvere il suo ministero sacerdotale fino alla morte: la sua attività sociale, infatti, era osteggiata anche dalle forze politiche che allora reggevano il Consiglio di quel quartiere. I segnali intimidatori, poi, erano stati estesi direttamente a Don Giuseppe Puglisi, anche se da quest’ultimo non esplicitamente denunciati agli organi di polizia o alla magistratura. Anche il teste Balistreri Serafino riferiva, nel corso del suo esame dibattimentale, di un attentato incendiario, avvenuto nello stesso periodo, ad un proprio mezzo meccanico, parcheggiato in un'area antistante l’edificio ecclesiastico ed impegnato nei lavori per la ristrutturazione del tetto della parrocchia di San Gaetano, a lui dati in appalto. Quest’ultimo atto delittuoso non venne denunciato dalla persona offesa, ma fu, invece, riferito e stigmatizzato, durante l’omelia della messa domenicale, proprio da Don Pino Puglisi, il quale pubblicamente ha deprecato non solo l’episodio ma anche il modo illecito con cui venivano gestiti gli appalti. Ciò aveva destato evidentemente enorme scalpore nel quartiere, da sempre soggiogato al potere mafioso ed assoggettato ad un pesante clima di omertà. Lipari Antonino, un giovane che operava in parrocchia, poi, raccontava che per due volte, nel luglio del 1993, era stato avvicinato ed intimorito da sconosciuti che lo avevano minacciato di bastonarlo e gli avevano intimato di non frequentare più la chiesa. Aggiungeva che Padre Puglisi lo aveva esortato a non aver paura e gli aveva fatto presente che anch’egli aveva ricevuto minacce a mezzo posta o per telefono, cui non aveva dato peso. Precisava, ancora, che, dopo l’uccisione del sacerdote, aveva ricevuto telefonate anonime di carattere intimidatorio ed era stato aggredito con un coltello da due individui che gli avevano detto che avrebbe fatto la stessa fine di don Pino Puglisi, unitamente al vice parroco della stessa chiesa di San Gaetano, padre Porcaro. Concludeva affermando che le minacce erano cessate dopo che lui si era allontanato dalla parrocchia di Brancaccio. Quanti erano stati vicini ed avevano collaborato con l’ucciso nella sua opera di recupero sociale e di evangelizzazione, quindi, delineavano il movente dell’omicidio e nel contempo evidenziavano che gli episodi di intimidazione non erano cessati alla morte del povero Don Pino Puglisi, ma addirittura si erano estesi anche successivamente, prendendo di mira coloro i quali, per dovere civico oltre che per rispetto alla memoria del coraggioso sacerdote, avevano continuato nell’attività di impegno pastorale e sociale portato avanti dal quel martire della mafia. Ancora. Attraverso l’audizione degli imputati di reato connesso Drago Giovanni, Cancemi Salvatore, Contorno Salvatore, Marchese Giuseppe, Mutolo Gaspare, La Barbera Gioacchino, Di Matteo Mario Santo, Pennino Gioacchino, Cannella Tullio, Di Filippo Emanuele, Di Filippo Pasquale, Romeo Pietro, Carra Pietro, Calvaruso Antonino e Brusca Giovanni, tutti collaboratori di giustizia, il contenuto delle cui dichiarazioni sarà esposto dettagliatamente in altra parte della presente sentenza, è risultato acclarato che i mandanti dell’omicidio del sacerdote sono stati indicati unanimemente negli odierni imputati Giuseppe e Filippo Graviano, i quali componevano all’epoca i ranghi dell’associazione per delinquere denominata “Cosa Nostra” con ruoli di promozione, direzione ed organizzazione. Ed è rimasto provato, altresì, dalle dichiarazioni rese nel tempo dai numerosi citati collaboratori di giustizia, oltre che da altre incontrovertibili e certe acquisizioni di natura oggettiva (atti e documenti usciti dal carcere), che i due congiunti sopra menzionati non solo facevano parte in epoca coeva all’uccisione del povero prete ma fanno parte tuttora, con i medesimi ruoli di preminenza, della temibile associazione criminale mafiosa, nonostante il ristretto regime detentivo di cui all’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario a cui sono pure sottoposti. Con l’audizione dei collaboratori di giustizia Di Filippo Pasquale e Romeo Pietro, poi, è stata acclarata la responsabilità di Grigoli Salvatore quale esecutore materiale – in concorso con Mangano Antonino, Spatuzza Gaspare, Giacalone Luigi e Lo Nigro Cosimo, separatamente giudicati e ormai tutti condannati con sentenza definitiva - dell’uccisione di Padre Puglisi e l’organica appartenenza dello stesso Grigoli al “gruppo di fuoco” agli ordini della famiglia mafiosa di Brancaccio. Lo stesso Grigoli, del resto, come si dirà da qui a poco, non appena tratto in arresto in data 19 giugno 1997, immediatamente cominciava a collaborare con la giustizia, fornendo la chiave di lettura del crimine mediante indicazione di causale, mandanti ed esecutori materiali dell’omicidio di padre Puglisi, primo fra tutti egli stesso. Con l’esame degli ufficiali di polizia giudiziaria La Barbera Salvatore, Messina Francesco, Pellizzari Maria Luisa, Giuttari Michele, Alaimo Mario, Manganelli Antonio, Grassi Andrea, Pomi Domenico, Minicucci Marco, Bossone Davide, Brancadoro Andrea, i quali, dopo l’uccisione di Don Puglisi , si sono tutti occupati attivamente di svolgere indagini, sia sul contesto di Brancaccio che in campo nazionale sulla attività criminosa della famiglia di Brancaccio, sono stati ricostruiti due interminabili anni di attività investigativa sull’omicidio del povero prete, dalle nebulose investigazioni dei primi giorni fino alle certe acquisizioni della chiusura delle indagini preliminari, ed inoltre è stata evidenziata la composizione della famiglia mafiosa di Brancaccio, i suoi rapporti con i Corleonesi di Bagarella Leoluca, il suo coinvolgimento - e questo è un punto molto importante per intendere meglio i fatti – nella strategia stragista di “Cosa Nostra” con l’attacco alle Istituzioni dello Stato e della Chiesa. Infine. L’esistenza, la struttura e le regole comportamentali dell’organizzazione criminale “Cosa Nostra” sono state dimostrate mediante acquisizione di copia delle sentenze, ormai passate in autorità di cosa giudicata, emesse nell’ambito dei così detti “maxi processi”, celebratisi nel recente passato dalle Corte di Assise di Palermo. L’appartenenza a “Cosa Nostra” dei fratelli Graviano Giuseppe e Graviano Filippo veniva riscontrata dall’acquisizione delle sentenze dalle quali risulta che i predetti due congiunti sono stati entrambi condannati per il reato di cui all’articolo 416 bis del Codice Penale, in quanto appartenenti alla famiglia di Brancaccio ed al mandamento di Ciaculli. Non solo, ma attraverso la prova offerta da testimoni e da collaboratori di giustizia, ed anche con atti e documenti usciti dal carcere, veniva dimostrato altresì che i predetti imputati, non solo durante lo stato di latitanza, ma anche dalla detenzione carceraria, sottoposta al vincolo ristrettissimo di cui all’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, erano stati capaci di impartire ordini e di determinare scelte criminali. Mediante l’acquisizione della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, emessa dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo nei confronti di Castiglione Gaetano e Catanzaro Antonino, poi, è rimasto acclarato che questi ultimi soggetti hanno pesantemente minacciato, al fine di non farli ulteriormente parlare e testimoniare nel processo in esame, soggetti che erano rimasti vicini al buon sacerdote ucciso. Inoltre, con l’acquisizione della sentenza di condanna, emessa nei confronti di Nangano Salvatore con le forme del rito abbreviato e non appellabile in quanto la pena inflitta non deve essere scontata, è rimasto provato che quel medico di Brancaccio era stato incaricato dalla famiglia mafiosa di quella borgata di seguire i movimenti di padre Giuseppe Puglisi poco prima di essere ucciso. Oltre a questo, con la produzione di numerosa documentazione amministrativa, venivano dimostrati anche i pregressi rapporti intercorsi tra il Comitato Intercondominiale di Via Azolino Hazon, la Prefettura, il Comune di Palermo e il Consiglio di quartiere di Brancaccio in ordine alla assegnazione di alcuni locali da destinare a struttura scolastica. Frattanto, in data 19 giugno del 1997, mentre era in corso l’istruzione dibattimentale avanti i primi giudici, veniva tratto in arresto Grigoli Salvatore, il quale immediatamente cominciava a collaborare con la giustizia. 

Il “pentimento" di Salvatore Grigoli. La Repubblica il 4 settembre 2020. Per quel che riguarda il procedimento in esame, il predetto imputato, all’udienza del 7 luglio dello stesso anno 1997, rendeva spontanee dichiarazioni, riportate nella sentenza di primo grado e che appare opportuno qui trascrivere testualmente, nei passi più salienti, costituendo la sua collaborazione una svolta decisiva, la chiave di lettura dell’omicidio di Padre Puglisi, in quanto il predetto ha espressamente indicato causale, mandanti ed esecutori materiali dell’omicidio, primo fra tutti se stesso. Il Grigoli ha così esordito: “Io vorrei collaborare….con la giustizia, quindi definendomi collaboratore”. “Però, per quanto riguarda questo processo, vorrei definirmi io più che altro un pentito, perché mi sono pentito realmente di aver commesso questo omicidio”.

“Riguardo ….io cominciai già a pensare qualcosa del genere all’incirca, riguardo sul pentirmi, un sei mesi addietro a questa parte…. E mi ha dato modo di pensare questo il fatto che da un anno a questa parte io non ero più sostenuto da nessuno, né economicamente né ….cioè in poche parole io non ero più in condizioni di campare, come si suol dire la famiglia; mi sono dovuto persino impegnarmi dell’oro che avevo io per potere mandare dei soldi a casa….e fare….altre cose; addirittura farmi prestare dei soldi per potere tirare avanti i miei figli e questa cosa mi ha cominciato a fare pensare io con chi…per tutta…per gran parte della mia vita, con chi ho avuto a che fare, se è stato giusto le cose che ho commesso, i delitti….cioè questa cosa mi cominciò a far pensare se era stato giusto quello che avevo fatto io per conto di questa organizzazione. E da questo, ecco, che io ho deciso anche di collaborare con la giustizia”.

“Adesso vorrei dire io cosa sono a conoscenza e le mie responsabilità riguardo il delitto di Padre Puglisi”.

“Vorrei premettere un’altra cosa, che io….tengo a precisare che non è assolutamente vero il fatto che io mi sia vantato, dopo aver commesso questo omicidio, perché non ne trovavo le ragioni, non me ne vantavo per altri omicidi….figuriamoci di questo che già….anche perché, dopo averlo commesso, ci pensavo spesso a questo omicidio e non vedevo la ragione per cui è stato fatto….anche se i motivi ne sono a conoscenza, ma non mi sembravano motivi validi per uccidere un prete”.

“Prima….volevo precisare un’altra cosa, prima dell’omicidio, ho commesso un altro reato, lo dico perché secondo me è attinente a questo omicidio. Fummo incaricati io, Spatuzza e Guido Federico di bruciare tre porte di tre famiglie di uno stabile di via Azolino Hazon, nei dintorni di questa via…perché queste persone erano vicine a padre Puglisi”.

“I fatti che io conosco, le responsabilità dell’omicidio sono quelli che un giorno…non ricordo se fu lo Spatuzza o Nino Mangano che un giorno mi disse che dovevamo commettere questo omicidio, che deve essere stato lo Spatuzza anche perché la persona che conosceva il padre. Già aveva parlato con Giuseppe Graviano e si doveva commettere questo omicidio, sicuramente ne parlai anche con Nino Mangano, perché io non facevo niente se non ne parlassi con lui”.

“Quindi una sera….cercammo di vedere i movimenti, gli spostamenti del padre e lo incontrammo a Brancaccio, in un telefono pubblico. Non mi ricordo se già ero armato o dopo averlo visto…ci recammo per armarci, anche se poi l’unico a essere armato ero io e lo attendemmo nei pressi di casa”.

“Così fu, eravamo io, lo Spatuzza, Giacalone Luigi e Lo Nigro Cosimo. Eravamo comunque…non avevamo né macchine rubate, né motociclette, niente di tutto questo, eravamo con le macchine….una era di disponibilità del Giacalone, un BMW e una Renault 5 di proprietà del Cosimo Lo Nigro. Scese Spatuzza dalla macchina del Lo Nigro, perché Spatuzza era con Lo Nigro ed io ero con Giacalone. Il primo ad arrivare fu lo Spatuzza, ricordo che il padre si stava accingendo ad aprire il portone di casa, ….lo Spatuzza si ci affiancò, perché il padre aveva un borsello, gli mise la mano nel borsello e gli disse: padre questa è una rapina".

“Allorchè il padre neanche si era accorto di me….e il padre, fu una cosa questa qui che non posso dimenticare, perché ogni volta che penso a questo episodio mi viene in mente questa visione del padre che sorrise, non capii se fu un sorriso ironico o sorrise….sorrise e gli disse allo Spatuzza “me l’aspettavo”. Allorchè io gli sparai un colpo alla nuca e il padre morì sul colpo senza neanche accorgersene di essere stato ucciso”.

“Dopo di ciò chiaramente il borsello fu portato via dallo Spatuzza… Dopo di ciò ci recammo in uno stabilimento della zona industriale cosiddetto Valtras, uno stabilimento di export-import…una specie di spedizionieri erano e lì fu controllato il borsello. Ricordo bene che c’era una patente, lo ricordo bene perché lo Spatuzza aveva la mania, perché lui all’epoca già era latitante, di togliere le marche da bollo che potevano servire per eventuali documenti falsi e tutti i documenti e tolse le marche da bollo”.

“Tra le altre cose ricordo che c’era una lettera…non ricordo se è stata inviata al padre o….c’era una busta con un foglio, una lettera di una persona che gli aveva scritto che, se non ricordo male, gli facesse gli auguri non so di cosa, all’incirca trecento mila lire e poi altri pezzettini di carta…”

“Vorrei premettere che il borsello fu portato via, perché si voleva far credere che l’omicidio….cioè l’omicidio dovevano pensare gli inquirenti che era stato fatto da qualche tossicodipendente o da qualche rapinatore, ecco perché fu utilizzata la 7,65, non è un’arma consueta agli omicidi di mafia”. “Questo è quello che io sono a conoscenza….”.

Al termine di dette dichiarazioni spontanee il Pubblico Ministero chiedeva l’esame di Grigoli Salvatore, che la Corte di Assise ammetteva e che veniva espletato all’udienza del 28 ottobre 1997, nel corso del quale sono stati approfonditi, nel contraddittorio fra le parti, i temi già spontaneamente enunciati dal predetto imputato. A richiesta della difesa di Graviano Filippo, poi, venivano acquisiti i verbali delle dichiarazioni rese dal Grigoli il 24 giugno 1997 al Procuratore della Repubblica di Firenze ed al Procuratore della Repubblica di Palermo il 26 giugno successivo. Frattanto l’istruzione dibattimentale proseguiva con l’esame dei testi addotti dalla difesa degli imputati Graviano Giuseppe e Graviano Filippo. Il processo di primo grado subiva una battuta d’arresto a causa di una prolungata assenza per malattia del Presidente nonché per il trasferimento ad altro ufficio del giudice a latere di quella Corte. Quest’ultima circostanza rendeva necessaria la rinnovazione del dibattimento disposta con ordinanza del 21 settembre 1998 a seguito della quale quella Corte, nella nuova composizione, dichiarava utilizzabili gli atti dell’attività istruttoria fino ad allora compiuta, disponendo solo un nuovo esame dell’imputato Grigoli Salvatore che veniva espletato all’udienza del 27 ottobre 1998. Esaurita l’assunzione delle prove si svolgeva la discussione finale, nel corso della quale il Pubblico Ministero e successivamente i Difensori delle parti civili e degli imputati formulavano ed illustravano le rispettive conclusioni. Ultimata la discussione, orale, il presidente dichiarava chiuso il dibattimento e subito dopo la Corte si ritirava in camera di consiglio per la deliberazione.

L'assenso dei Graviano, i capi di Brancaccio. La Repubblica il 5 settembre 2020. Le indagini relative all’uccisione di don Pino Puglisi, parroco della chiesa di San Gaetano di Brancaccio, prontamente avviate dagli organi inquirenti all’indomani del grave fatto di sangue, inizialmente venivano orientate in ogni ragionevole direzione di approfondimento, non scartando nessuna pista investigativa, comprese quelle fornite da notizie anonime pervenute agli organi di polizia. Si è proceduto, innanzi tutto, ad un accurato sopralluogo, nel corso del quale, come già detto, veniva rinvenuto qualche rivolo di sangue, ma non anche segni eclatanti di un omicidio. Nelle vicinanze del posto dal quale era stato rimosso il corpo del reverendo veniva trovato un bossolo 7 e 65, calibro confermato dal proiettile rinvenuto in sede autoptica. L’esame del proiettile, poi, ha evidenziato che questo aveva attraversato la canna di una pistola munita di congegno di silenziamento. Sul corpo del sacerdote non sono stati riscontrati segni di colluttazione: si è giunti, quindi, alla conclusione che egli era stato colto di sorpresa. In un primo tempo si era pensato ad una rapina perché sui luoghi non è stato rinvenuto il borsello che Don Puglisi portava sempre con sé. Tale ipotesi, però, è stata scartata sia per le modalità dell’aggressione e per l’uso dell’arma silenziata, sia per il ritrovamento di una somma di denaro di lire un milione cinquecento cinquanta mila e di cento dollari USA nell’abitazione della vittima. Del pari, le stesse modalità di esecuzione dell’omicidio, condotto con fredda determinazione e perpetrato con un unico colpo esploso a distanza ravvicinata alla nuca, escludevano l’ipotesi che il crimine fosse stato opera di qualche balordo o fosse legato alla condotta d’impeto di un tossicodipendente. Ma, ben presto, nel variegato panorama investigativo riguardante l’omicidio del povero sacerdote, la vera matrice ed il reale movente dell’atroce scelta assassina veniva in rilievo, grazie al coraggio civile di chi aveva creduto nell’insegnamento di don Pino. Dalle minuziose indagini condotte sulla vita dell’ucciso, infatti, emergeva, fin dai primi atti investigativi, che il vero movente dell’omicidio era da ricercare nell’attività di impegno sociale e pastorale portato avanti dallo stesso. Il reverendo, dal giorno della prelatura presso la chiesa di San Gaetano in Brancaccio, infatti, aveva portato avanti una serie di iniziative volte al recupero sociale dell’ambiente degradato di quel quartiere. Si accertava, in particolare, che lo stesso aveva profuso un grande impegno nel tentativo di costruzione di centri di accoglienza, di acquisizione di alcuni locali da destinare a scuola media, di attivazione di altre opere di aggregazione sociale; e si era attivato anche per recuperare i tossicodipendenti ed aiutare i diseredati ed i bisognosi. Ed emergeva, altresì, sin dalle prime fasi delle indagini, che diversi ed inequivocabili segnali intimidatori avevano preceduto il terribile atto omicidiario: numerosi ed ultimativi erano stati gli inviti ad accettare il consolidato e triste potere criminale mafioso che regnava sovrano nel territorio urbano di Brancaccio, un quartiere tra i più degradati della città di Palermo. Ma, altrettanto forte e decisa era stata la scelta del prete di continuare l’opera laica di recupero sociale alla quale si era attivamente dedicato sin dal primo giorno del suo apostolato presso la chiesa di San Gaetano di Brancaccio e che lo aveva portato ad entrare in contrasto con le forze politiche che allora reggevano il Consiglio di quel quartiere e, in special modo, con l’organizzazione criminale che vedeva compromessi i suoi principi proprio nel luogo ove più forte era la sua consolidata permanenza. La continua e ben corrisposta attività di evangelizzazione, tradizionalmente opposta alla logica della violenza e del terrore, e l’intensa opera di aggregazione e di recupero sociali, rappresentavano un consistente pericolo per l’organizzazione criminale che da tempo regnava sovrana nel quartiere di Brancaccio. Da qui gli avvertimenti inequivocabili e le intimidazioni. I primi atti intimidatori sono stati due distinti attentati incendiari. Il 29 maggio 1993 l’impresa Balistreri di Bagheria, aggiudicataria dell’appalto relativo ai lavori per la ristrutturazione del tetto della parrocchia di San Gaetano, subiva un attentato incendiario ad un proprio autocarro parcheggiato in un’area antistante l’edificio ecclesiastico. L’episodio delittuoso non era stato denunciato dal Balistreri agli organi di polizia. Padre Puglisi, però, nel corso dell’omelia della messa domenicale ne aveva parlato ed aveva anche pronunciato espressioni dure e pesanti contro gli ignoti attentatori ed il modo illecito con cui venivano gestiti gli appalti. Ciò, evidentemente, aveva destato scalpore in un quartiere da sempre assoggettato ad un pesante clima di omertà e tradizionalmente soggiogato alla mafia. Il 29 giugno successivo, Guida Giuseppe, Romano Mario e Martinez Giuseppe, persone impegnate in attività sociali e componenti del Comitato Intercondominiale di Via Azolino Hazon, presieduto e diretto da don Pino Puglisi, subivano contemporaneamente degli attentati incendiari alle porte di ingresso dei rispettivi appartamenti, dagli stessi regolarmente denunciati. Ed anche in tale occasione il sacerdote aveva preso pubblicamente posizione, commentando negativamente e deprecando l’accaduto in alcune omelie delle messe domenicali, dicendo chiaramente che gli atti incendiari erano rivoli indirettamente alla sua persona ed al contempo esternando le sue preoccupazioni per eventuali nuove iniziative che danneggiavano l’ambiente, mettendo anche in pericolo la gente del quartiere. Ancora. Dalle indagini emergeva, altresì, che un ragazzo, di nome Lipari Antonino, il quale operava nella parrocchia di San Gaetano, per ben tre volte era stato avvicinato ed intimorito da sconosciuti, che lo avevano minacciato di bastonate e gli avevano intimato di non frequentare più la chiesa. L’ultimo episodio era stato il più grave, giacché era stato aggredito con un coltello e gli era stata strappata la maglietta. In tale occasione padre Puglisi lo aveva esortato a non avere paura e gli aveva fatto presente che anch’egli aveva ricevuto minacce a mezzo posta e per telefono, cui non aveva dato peso. Le gravi minacce e le intimidazioni, quindi, non si erano limitate alle persone vicine al sacerdote, che con lui collaboravano e nel cui operato si riconoscevano, ma erano state estese, poi, direttamente a don Giuseppe Puglisi, anche se da quest’ultimo mai esplicitamente denunciate agli organi di polizia o alla magistratura e che, però, nelle conferenze pubbliche e nelle riunioni private, erano state manifestate con una serena aspettativa e cristiana speranza per il futuro. Fin dai primi atti investigativi, quindi, emergeva in modo univoco che il movente dell’omicidio era da ricercare unicamente nell’attività di impegno sociale e pastorale portato avanti dal sacerdote. Peraltro, il rinvenimento a casa della vittima della somma di lire un milione cinquecento cinquantamila e di una banconota di cento dollari, unitamente alle concordanti circostanze che il corpo dell’ucciso non presentava nessun segno di colluttazione e che lo stesso aveva l’abitudine di circolare con poco denaro addosso - cosa questa in linea col suo stile di vita improntato all’essenzialità ed alla povertà - escludevano tra i moventi possibili quello dell’omicidio a scopo di rapina. Le stesse modalità di esecuzione dell’omicidio, infine, condotto con fredda determinazione e con un unico colpo esploso a distanza ravvicinata alla nuca, escludevano parimenti l’ipotesi che il crimine fosse stato opera di un qualche balordo o legato alla condotta d’impeto di un tossicodipendente. Si manifestavano, pertanto, evidenti depistagli: la sottrazione del borsello e la dinamica del fatto, invero, non erano consone con le modalità con cui di regola vengono eseguiti e perpetrati gli atti omicidiari in “Cosa Nostra”. Il delineato movente dell’omicidio si rafforzava sempre di più con l’audizione di quanti, uomini e donne, avevano collaborato con l’ucciso nella sua opera quotidiana, i quali tratteggiavano la figura e l’impegno religioso e sociale del prete. Le indagini sull’assassinio di Giuseppe Puglisi subivano un salto di qualità allorquando Drago Giovanni, uomo d’onore della famiglia di Brancaccio e dichiarato esecutore di numerosi omicidi, collaborante di giustizia, appreso dell’efferato omicidio avvenuto in quello che era stato il suo territorio, il quartiere di Brancaccio, sentiva il bisogno di rendere alcune importanti dichiarazioni. Si rafforzava così maggiormente l’impianto accusatorio fino a quel momento promosso, sia in relazione al movente, sia in relazione alle intuite responsabilità dei cosiddetti reggenti della famiglia mafiosa di quella periferia. Dunque, questo primo collaboratore di giustizia, nell’ambito delle indagini per l’omicidio di Don Pino Puglisi, riferisce il quadro ed il perché “Cosa Nostra” prende la decisione di eliminare il sacerdote. Per cui, in questa prima fase, le dichiarazioni di Drago sono nel senso che apprende da Folonari, uomo d’onore della stessa famiglia, in quanto tutti e due di Brancaccio, che nel quartiere c’era apprensione data dalla presenza di questo parroco coraggioso, impegnato nel sociale ed in tutto ciò che era antimafia, il quale, pertanto, doveva essere punito. Dunque, da questo momento, le forze investigative cominciano a penetrare nel contesto in cui Don Pino Puglisi operava, il contesto ambientale di Brancaccio, e ad approfondire il fastidio che detto prete dava alla criminalità organizzata di quello scacchiere mafioso. Le indagini, cioè, sono state indirizzate in un ambito investigativo ben preciso, vale a dire su quello che è il fenomeno omicidiario nell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, che, come già è stato pacificamente dimostrato, con sentenze ormai divenute irrevocabili da tempo, ha delle regole ben determinate e dei moventi altrettanto precisi al riguardo: la stessa struttura di “Cosa Nostra”, articolata per territorio, influenza molto la scelta omicidiaria di detta associazione mafiosa. Dunque il Drago riferisce che proprio per la struttura di “Cosa Nostra”, per il modo in cui “Cosa Nostra” è articolata, quell’omicidio, l’omicidio di un sacerdote, l’omicidio di un prete di così grande levatura e di tanto fulgore, non può che essere avvenuto con l’assenso di quelli che erano i riconosciuti capi storici di Brancaccio, cioè a dire di Graviano Giuseppe e Graviano Filippo, i quali risultavano essere stati entrambi condannati per il delitto di cui all’articolo 416 bis del Codice Penale, in quanto appartenenti all’organizzazione mafiosa “Cosa Nostra”, e che all’epoca detenevano il governo mafioso di quel territorio. Il riferimento del Drago alla struttura ed al fenomeno omicidiario in “Cosa Nostra”, portava gli organi inquirenti a sentire un altro collaboratore di giustizia, Cancemi Salvatore. Costui era un uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova, nonché membro della commissione di “Cosa Nostra”, cioè dell’organismo di vertice di questa organizzazione criminale. Dunque il Cancemi, pur non potendo riferire direttamente sull’omicidio, confermava quanto dichiarato dal Drago in ordine alla struttura ed al fenomeno omicidiario in “Cosa Nostra”, per quella che era la sua esperienza aggiornata stante che si era costituito nelle mani delle forze dell’ordine nell’imminenza dei fatti. Si perveniva, poi, all’audizione di un altro collaboratore di giustizia, Pennino Gioacchino, il quale, apertosi alla collaborazione con la giustizia, ricostruiva in modo organico e qualificato le attività di “Cosa Nostra”, viste però stavolta non in chiave militare, come aveva riferito il Drago ed in parte anche il Cancemi, ma in chiave più altamente politica e di supporto alle attività criminali. Le indagini, a questo punto, registravano la ennesima dissociazione di soggetti aderenti a “Cosa Nostra” e la loro fattiva e piena collaborazione. In particolare, iniziavano a collaborare con la giustizia altri due mafiosi: i fratelli Di Filippo Emanuele e Di Filippo Pasquale, a cui si aggiungeva da lì a poco anche Cannella Tullio. Questi collaboratori di giustizia, i due Di Filippo molto vicini ai Graviano ed il Cannella Tullio addirittura con un particolare rapporto con i Graviano medesimi, non solo rafforzavano il quadro probatorio già esistente a carico dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, ma permettevano altresì di identificare anche uno degli autori materiali dell’omicidio in Grigoli Salvatore. E ciò, perché il contenuto delle loro dichiarazioni, rese nel tempo, è caratterizzato da un dato comune: il riferimento costante ai fratelli Graviano quali reggenti la famiglia mafiosa di Brancaccio e l’indicazione di Grigoli Salvatore quale componente del “gruppo di fuoco” facente capo a certo Mangano Antonino.Per cui, a punto, si determina un quadro che consente di delineare il contesto ambientale in cui il delitto era maturato e di focalizzare il volto e il nome dei mandanti dell’uccisione dell’esponente del clero siciliano, quadro che si riesce a ricostruire attraverso le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia proprio su quella che è la struttura di “Cosa Nostra” nel quartiere Brancaccio. Ma si ha anche l’indicazione dell’esecutore materiale in questo Grigoli Salvatore appartenente ad un “gruppo di fuoco” - il “gruppo di fuoco” è una formazione di killer a disposizione delle varie famiglie di “Cosa Nostra” - che era a servizio dei Graviano e di Mangano Antonino, soggetto quest’ultimo appartenente a “Cosa Nostra” che successivamente prenderà il posto dei primi allorchè gli stessi verranno arrestati a Milano in una brillante operazione di polizia condotta dai carabinieri del nucleo operativo di Palermo. Le indagini sull’assassinio di Giuseppe Puglisi subivano un ulteriore impulso allorquando altri noti collaboratori di giustizia rendevano alcune importanti dichiarazioni in ordine all’efferata scelta omicidiaria. La loro fattiva e piena collaborazione, unitamente alle menzionate dichiarazioni di quanti erano stati vicini all’ucciso e con lui avevano collaborato nella sua opera sociale e pastorale, hanno così rafforzato l’impianto investigativo fino a quel momento promosso, sia in relazione al movente sia per quanto concerne le intuite responsabilità dei cosiddetti reggenti della famiglia mafiosa di Brancaccio. Tralasciando qui di esporre dettagliatamente il contenuto delle dichiarazioni rese nel tempo dai vari collaboratori di giustizia, quello che è interessante sottolineare in questa sede è il dato comune che le caratterizza: il riferimento costante ai fratelli Graviano sopramenzionati, quali reggenti la famiglia mafiosa di Brancaccio, e l’indicazione, quale esecutore materiale, di questo Grigoli Salvatore, componente del gruppo di fuoco, specializzato nel commettere omicidi, che operava all’interno del mandamento di Brancaccio e che, all’epoca dell’omicidio di Padre Puglisi, faceva capo a certo Mangano Antonino, soggetto appartenente anch’egli a “Cosa Nostra”. Sulla base di detti elementi certi, le indagini relative all’omicidio che ci occupa, a quel punto, erano sfociate nella emissione di una ordinanza di custodia cautelare nei confronti dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, quali mandanti dell’omicidio del sacerdote, nonché nei riguardi di uno degli esecutori materiale del crimine, Grigoli Salvatore. Le intense e penetranti indagini preliminari scaturite dall’uccisione di Don Pino Puglisi ed attivamente condotte sia sul contesto mafioso di Brancaccio che in campo nazionale sull’attività criminosa della famiglia di quel quartiere di periferia, sono state chiuse dopo ben due anni con la richiesta del Procuratore della Repubblica di rinvio a giudizio dei tre odierni imputati. E’ appena il caso di rilevare, poi, che le ulteriori investigazioni hanno consentito di acclarare, in seguito, che l’aggressione sferrata alla Chiesa con l’uccisione di don Pino Puglisi e le altre azioni intimidatorie poste in essere in quel contesto temporale, non erano limitate al territorio di Brancaccio ma erano strettamente collegate ad una più vasta e totalizzante scelta strategica di terrore perseguita a livello nazionale dall’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, continuata all’indomani dell’assassinio del povero prelato e sfociata negli attentati eclatanti del 1993 a Firenze, Roma e Milano.

L'attacco mafioso contro la Chiesa. La Repubblica il 6 settembre 2020. La verifica giudiziale delle prove raccolte nel presente procedimento utilizzate per la ricostruzione della vicenda omicidiaria che ci occupa e per l’affermazione della responsabilità degli autori dell’efferato delitto, non può prescindere dalla disamina, sia pure breve, del contesto ambientale in cui è inserito il grave episodio criminoso e dell’aggregato criminale imperante nell’ambito territoriale in cui il delitto è maturato ed è stato portato a compimento. Già i giudici di prime cure si sono soffermati sul contesto ambientale in cui è maturato ed è stato eseguito l’omicidio di don Pino Puglisi, e questa Corte non può che condividere quanto dagli stessi affermato in merito. Il contesto è quello di una borgata della periferia degradata della città di Palermo, in cui, all’epoca dei fatti, tra l’altro, regnava sovrano l’ordine mafioso, conservatore, opprimente e reazionario, che era stato imposto dal gruppo criminale emergente della zona. Tutte le deposizioni testimoniali delle persone che affiancarono don Pino Puglisi nel suo apostolato, hanno evidenziato la difficile e triste realtà del tipico quartiere degradato della periferia, composto da un agglomerato urbano disomogeneo, lasciato in totale stato di abbandono: non esistevano, infatti, i servizi essenziali, come le fognature, ed i liquami si riversavano per strada, mentre le autorità competenti, il cui intervento era stato più volte richiesto, avevano eseguito dei lavori fognanti solo parziali che non avevano per nulla risolto il problema. La zona era infestata anche da topi e non si era proceduto ad una efficace opera di bonifica. Mancava una scuola media. Non vi erano spazi verdi per i ragazzi che giocavano in mezzo alle immondizie, né altri servizi sociali. Ma nel quartiere esisteva anche un grave arretramento culturale e vi era la presenza di un alto potenziale criminogeno: la gente viveva ed operava sotto una cappa di dominio e sopraffazione, subiva impotente un clima di intimidazione, correva rischi concreti se si fosse adoperata solo per migliorare le condizioni minime di sopravvivenza civile degli abitanti o per favorire un processo di avanzamento del fronte della legalità. Al riguardo, i primi giudici hanno così scritto: “La radiografia del quartiere, all’epoca della commissione dell’omicidio di padre Puglisi, infatti, alla stregua delle ampie e dettagliate descrizioni rassegnate dai testi esaminati, consente di tracciare una geografia di poteri locali comprendente varie componenti, espressione dell’ambiente politico del tempo largamente inquinato, settori della società civile degradati, amministratori degli enti locali e rappresentanti delle articolazioni di quartiere per buona parte corrotti o collusi, esercenti attività economiche fortemente condizionati, un’accentuata presenza di malavitosi e gente di malaffare, in un tessuto storico sociale caratterizzato da violenza e sottocultura: in questo contesto la parrocchia, la scuola, il commissariato e poche altre sedi istituzionali non inquinate rappresentavano delle nicchie di legalità mal tollerate dal potentato criminale locale che costituiva allora il centro di coagulo dei delinquenti della zona e di formazione permanente della manovalanza in crescita”. “In un territorio a prevalente sovranità mafiosa , una di queste isole di extra-territorialità era costituita dalla parrocchia di don Pino Puglisi che, per adesioni e progettualità e per la vitalità manifestata, era diventata “un enclave” di valori cristiani, morali e civili”. Alle eloquenti deposizioni degli amici e collaboratori di padre Puglisi, si affiancano le preziose indicazioni fornite dagli ex malavitosi ed ex criminali di quartiere che, attratti nell’orbita della potente organizzazione criminale facente capo alla cosca di Brancaccio, hanno scelto, immediatamente dopo la cattura, per motivi economici o anche per ragioni di opportunità, la via della collaborazione con la giustizia. Detti soggetti, con le loro rivelazioni, hanno fornito importanti notizie dirette sulle condizioni di vita e sulle presenze mafiose nel quartiere di Brancaccio. Sulla base di dette rivelazioni, infatti, è stato possibile ricostruire l’assetto organizzativo criminale del mandamento di Brancaccio, negli anni novanta, sullo sfondo di un quartiere degradato, intriso di sottocultura e di violenza, nel quale aveva trovato spazio ed era radicato il fenomeno della diretta cooptazione di manovalanza delinquenziale per il compimento delle più svariate imprese criminose. Ma nella stessa area criminale si era verificato anche un intenso fenomeno di “pentitismo”, che aveva consentito di aprire vistose maglie nel blocco fino ad allora pressoché impenetrabile del sistema mafioso imperante nella zona. Ed infatti, la dirompente collaborazione dei fratelli Di Filippo Emanuele e Pasquale, cui si è aggiunta a breve distanza di tempo la devastante e pur provvidenziale emorragia rappresentata dalle collaborazioni di Calvaruso Antonino, Ciaramitaro Giovanni, Romeo Pietro, Scarano Antonino e Trombetta Agostino, hanno consentito di scoprire dall’interno i segreti del citato mandamento mafioso, di indicare gli esponenti di rango della gerarchia mafiosa nell’articolazione locale del sodalizio, di operare la ricostruzione delle relazioni della cosca con soggetti ad essa esterni nonché di individuare i responsabili dei più gravi fatti delittuosi addebitabili agli uomini d’onore ed ai componenti del gruppo operativo di quel quartiere. Si è appreso, in tal modo, che il gruppo operativo, all’interno del mandamento di Brancaccio, all’epoca dell’omicidio di Padre Puglisi, faceva capo ai fratelli Graviano, prima; a Mangano Antonino ed a Bagarella Leoluca dopo; il Mangano è stato indicato dai collaboranti unanimemente come il portavoce dei fratelli Graviano e, dopo il loro arresto, avvenuto nel gennaio del 1994, come il loro successore per diretta investitura del Bagarella, divenuto esponente di vertice dell’associazione mafiosa, alla guida di quel territorio, senza che per altro venissero recisi i collegamenti con i detti fratelli detenuti, i quali continuavano a dare disposizioni e ad impartire ordini anche dall’interno del carcere. Nell’anno in cui è stato assassinato il coraggioso prete della Diocesi di Palermo sono accaduti diversi episodi criminosi eclatanti, che è opportuno qui ricordare brevemente in quanto, come già detto, riconducibili tutti ad una scelta strategica di terrore perseguita a livello nazionale dall’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, la così detta “strategia stragista continentale”, voluta dai vertici dell’organizzazione stessa e tendente a realizzare effetti destabilizzanti per la società civile e per le Istituzioni. L’anno 1993 si era aperto con la cattura di Riina Salvatore, capo indiscusso di “Cosa Nostra”, ponendo fine ad una lunghissima latitanza. Ma già nel precedente anno 1992 si era assistito ad una stagione di delitti culminati con le stragi Falcone e Borsellino, nonché con altri omicidi eccellenti, quali quelli dell’onorevole Salvo Lima e del finanziere Ignazio Salvo. E l’ondata di violenza non era destinata ad esaurirsi, poiché era stata scatenata, al contempo, una campagna terroristica da parte di gruppi criminali mafiosi sfociata nei noti attentati del 1993 nelle città di Firenze, Roma e Milano, nella prospettiva di realizzare un clima di destabilizzazione mediante stragi e atti di terrorismo, per finalità di eversione dell’ordine democratico e tendenti ad instaurare nuove relazioni esterne con settori del mondo politico al fine di ristabilire la forza dell’organizzazione mafiosa ed ottenere l’impunità degli affiliati alla stessa. Sempre nell’anno 1993 venne sferrato un vile quanto feroce attacco ai pentiti con il gesto terribile ed eclatante del rapimento del giovane figlio del collaborante Di Matteo Mario Santo, in seguito barbaramente strangolato e disciolto nell’acido. Anche la Chiesa è stata colpita per il suo atteggiamento ostile verso “Cosa Nostra”, e l’aggressione venne sferrata con gli attentati dinamitardi in danno di alcuni edifici sacri di Roma, ma, sopratutto, con l’uccisione di Don Pino Puglisi, esponente di punta del clero siciliano, prete coraggioso che si batteva per gli emarginati, fra i quali la mafia arruola le sue reclute, un prete il cui impegno non si era limitato alla testimonianza della fede ma si era esteso nel sociale, mediante l’attuazione di progetti rivolti ai ceti più umili ed ai diseredati, nel tentativo di avviare un processo reale di rigenerazione collettiva della gente sfiduciata del quartiere di Brancaccio. Sulle stragi continentali sono stati svolti accurati ed approfonditi accertamenti investigativi, dai quali è risultato che gli attentati erano stati opera dell’ala intransigente di “Cosa Nostra”, facente capo a Salvatore Riina e della quale facevano parte anche i fratelli Graviano, odierni imputati, e che avevano avuto essenzialmente uno scopo terroristico: quello di ingenerare panico attraverso la distruzione di edifici sacri, di monumenti e di bellezze artistiche dello Stato, in modo da costringere le Istituzioni a scendere a patti con “Cosa Nostra” per una modifica della normativa restrittiva della carcerazione cautelare derivante dall’introduzione dell’articolo 41 bis nell’Ordinamento Penitenziario.

Il "gruppo di fuoco" dei Graviano. La Repubblica il 7 settembre 2020. Come è noto, e come hanno ben argomentato i primi giudici, il potere mafioso si avvaleva, all’epoca dell’omicidio di Padre Puglisi, e si avvale tuttora, di gruppi che operano sul territorio a vari livelli per la realizzazione delle singole operazioni criminali, che vanno dalle estorsioni alle rapine, al traffico di armi e stupefacenti ai sequestri di persone e agli omicidi. Questi ultimi venivano portati a compimento da speciali corpi armati, dotati di cospicui arsenali, inseriti in una vasta rete protettiva di covi e reticoli relazionali in grado di assicurare coperture e latitanze. Tali squadre avevano compiti specifici diversificati: vi erano i picchiatori, gli addetti a bruciare i negozi, a rubare macchine, a riscuotere il pizzo, a fare le telefonate estorsive, ad eseguire sequestri di persone ed uccisioni. Organizzava e sovrintendeva i vari gruppi criminali una figura dominante, dotata di carisma e di capacità gestionali, la quale era in genere candidata a succedere alla massima carica del mandamento. Tale aspirante capo era anche colui che dirigeva il così detto “gruppo di fuoco”: l’unità militare armata che custodiva e maneggiava le armi ed uccideva sparando alle vittime designate. Il gruppo di fuoco era una vera e propria struttura militare, composta da killers abilmente selezionati dagli uomini di vertice di Cosa Nostra, i quali, dopo un periodo di tirocinio nell’esecuzione di reati meno gravi e di attenta osservazione delle capacità operative dimostrate, destinavano i più abili all’esecuzione degli omicidi. Questi soggetti, specializzati nell’esecuzione di omicidi, occupavano una posizione privilegiata all’interno dell’ambiente mafioso, perché autorizzati a custodire e maneggiare le armi. Attorno al ristretto gruppo di fuoco ruotava, poi, una cerchia di altri personaggi di fiducia e di provata capacità in grado di fornire supporto, ausilio e sostegno logistico. Il gruppo di fuoco in assetto operativo era, dunque, una formazione militare costituita da soggetti feroci autorizzati a sparare e da altri soggetti pronti ad intervenire in funzione di appoggio o per offrire copertura. Per quel che qui interessa, Grigoli Salvatore ha raccontato che era divenuto killer di fiducia di Mangano Antonino, il quale lo aveva aggregato ad un gruppo specializzato nel commettere omicidi. Tale gruppo operava all’interno del mandamento di Brancaccio ed aveva avuto una composizione variegata man mano mutata nel tempo col ricambio di nuovi personaggi che sostituivano quelli receduti (come ad esempio Di Filippo Emanuele) o via via arrestati. Dapprima ne era capo Graviano Giuseppe e dopo Mangano Antonino. Mangano Antonino era sostanzialmente il capo di un “gruppo di fuoco feroce che aveva a disposizione una serie di personaggi killer”; eseguiva gli ordini impartiti dai Graviano e, dopo l’arresto di questi ultimi, era divenuto addirittura reggente della famiglia e del mandamento di Brancaccio. In particolare, il Grigoli ha riferito di aver fatto parte del “gruppo di fuoco” della famiglia mafiosa dei Graviano insieme a Mangano Antonino, coordinatore del gruppo stesso, Giacalone Luigi, Lo Nigro Cosimo, Spatuzza Carmine, Giuliano Francesco, Tutino Vittorio, Romeo Pietro e Di Filippo Pasquale; di aver ricevuto dai fratelli Graviano, tramite il Mangano, l’ordine di uccidere il sacerdote; di avere incontrato occasionalmente quest’ultimo per strada, mentre ritornava nella sua abitazione; di avere, insieme allo Spatuzza, al Giacalone ed al Lo Nigro, organizzato nella immediatezza l’omicidio già deciso in precedenza; di avere sparato al sacerdote alla nuca con una pistola munita di silenziatore con l’aiuto dello Spatuzza, mentre il Giacalone ed il Lo Nigro si trovavano alla guida delle rispettive autovetture ad aspettarlo. Or bene il collaborante Calvaruso Antonio ha riferito che del gruppo di fuoco di Brancaccio, all’epoca dei fatti in esame, facevano parte, oltre che il Grigoli, Mangano Antonino, Spatuzza Gaspare, Lo Nigro Cosimo, Giuliano Francesco, Tutino Vittorio e Giacalone Luigi. Impartivano loro ordini dapprima Giuseppe Graviano e, dopo l’arresto di quest’ultimo, Mangano Antonino, il quale, - sempre secondo rivelazioni dei collaboranti - era divenuto il nuovo reggente del mandamento di Brancaccio. Il Calvaruso ha precisato, altresì, che quando Giuseppe Graviano era stato catturato facevano parte del citato gruppo Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano, Cosimo Lo Nigro, Luigi Giacalone, Vittorio Tutino; dopo l’avvento del Mangano si sono aggiunti Pietro Romeo e Pasquale Di Filippo. Il gruppo di fuoco disponeva di diverse basi operative nonché di una nutrita dotazione di armi e munizioni, la maggior parte delle quali, allorchè il gruppo operava sotto le direttive del Graviano, era custodita dagli appartenenti al mandamento di Brancaccio-Ciaculli, mentre il resto era nella disponibilità di quelli di Corso dei Mille. Di Filippo Emanuele ha dichiarato che “la famiglia di Roccella era stata data in mano a Mangano Antonino, insieme al Giacalone e al Grigoli”: Queste persone erano dedite alle stesse attività illecite del gruppo di fuoco di Brancaccio: omicidi, estorsioni ed altro. Romeo Pietro ha aggiunto che il “gruppo di fuoco” era specializzato nell’eseguire i crimini più gravi: “...uccidere le persone...lupare bianche...estorsioni, stragi...” Lo dirigeva prima Giuseppe Graviano; dopo l’arresto di quest’ultimo, Antonino Mangano. In effetti, dalle tante prove acquisite agli atti del processo risulta che erano i Graviano a trasmettere ordini dal carcere, indicando le persone che dovevano essere soppresse; chi operava in concreto era, tuttavia, il Mangano, coordinatore di detto “gruppo di fuoco”. Ciaramitaro Giovanni, cooptato nell’organizzazione mafiosa nell’anno 1993, infine, ha riferito che del gruppo di fuoco hanno fatto parte anche Giacalone Luigi e Spatuzza Gaspare, come aveva saputo da Giuliano Francesco. Quanto alla costituzione del “gruppo di fuoco” facente capo alla famiglia mafiosa dei Graviano ed alla individuazione dei soggetti che ne hanno fatto parte, quindi, la dichiarazione del Grigoli ha trovato ampia conferma nelle convergenti dichiarazioni dei numerosi collaboranti prima indicati, di guisa che l’attribuzione dell’omicidio di Padre Pino Puglisi (dagli amici chiamato affettuosamente 3 P, in quanto tutto comincia con la lettera P) a tale gruppo, ritenuta dai primi giudici nell’impugnata sentenza, contrariamente a quanto sostenuto dalla Difesa, è, tra l’altro, anche una deduzione logica pienamente condivisibile da questa Corte. Senza pregio alcuno, inoltre, deve ritenersi anche l’altra censura difensiva riguardante il periodo di costituzione di detto gruppo, tenuto conto che dalle dichiarazioni di alcuni dei suddetti collaboranti è emerso che la formazione era operante ancor prima dell’arresto dei fratelli Graviano e che il capo coordinatore della stessa era il Mangano, il quale, come già detto, ha preso il posto dei Graviano dopo il loro arresto. Alla luce delle rivelazioni del collaboratori di giustizia, che hanno trovato pieno riscontro negli accertamenti investigativi, adunque, risulta acclarata l’esistenza, coevamente all’uccisione del parroco della chiesa di San Gaetano, di una formazione militare costituita da un gruppo di uomini ferocissimi, con a disposizione armi potentissime, pronti a commettere qualsiasi tipo di crimine, e con una sede come base operativa per torture, scomparse ed assassinii (la così detta camera della morte); la commissione, da parte di questa formazione, di una serie interminabile di gravi delitti nel territorio in genere e nel contesto sociale del quartiere di Brancaccio in particolare; la diretta subordinazione di questo gruppo di uomini alle necessità funzionali della famiglia mafiosa capeggiata dai fratelli Graviano; infine, la evidente utilità di questi delitti al consolidamento del potere criminale e di terrore esistente in quel quartiere. Di conseguenza, l’attribuzione dell’omicidio del povero padre Puglisi al “gruppo di fuoco” operante all’epoca nel territorio di Brancaccio, come espressamente riferito dall’imputato collaborante Grigoli Salvatore e come esattamente argomentato e ritenuto dai giudici di prime cure, non può che essere confermata pienamente anche da questa Corte, essendo evidente l’utilità di detto delitto al consolidamento del potere mafioso esistente in quel quartiere periferico della città di Palermo.

Spatuzza, il nuovo capomandamento. La Repubblica l'8 settembre 2020. Sulla figura del collaborante Grigoli Salvatore e sulla sua attendibilità intrinseca ed estrinseca, si sono soffermati a lungo i primi giudici, sul rilievo che il fulcro dell’accusa ruota attorno alle sue dichiarazioni auto ed etero accusatorie. Il Grigoli, soprannominato “il cacciatore” o “il ricciolino”, ha avuto un ruolo di spicco all’interno dell’organizzazione criminale denominata “Cosa Nostra”; in particolare in quella articolazione operante nella difficile realtà del quartiere Brancaccio, della quale è stato un feroce “super killer”. “Membro stabile dell’apparato militare del mandamento, dedito all’attività di killer abituale, abilitato ed adibito all’uso consueto delle armi, in un ambiente che egli presenta come una fabbrica inarrestabile di violenza, il predetto imputato ha confessato i delitti commessi e si è professato affidabile professionista del crimine per qualità ed attitudini personali, responsabile di gravi misfatti, ciascuno dei quali tappa di un’escalation delinquenziale finalizzata all’organico inserimento, per speciali meriti criminali, nel tessuto organizzativo dell’ente mafioso, proteso nella scalata all’oligarchia elitaria del mandamento” di Brancaccio. Egli, nonostante non fosse stato ritualmente affiliato, oltre che commettere omicidi ed altre azioni delittuose nell’interesse dell’organizzazione criminale, ha partecipato anche ad appuntamenti con vari esponenti di massimo livello dell’associazione mafiosa, quali Bagarella Leoluca, Messina Denaro Matteo, Virga Rodolfo, Nicolò Di Trapani, Guastella ed altri, con i quali è entrato altresì in contatto. In effetti egli era un “riservato”: infatti - secondo il suo assunto - non veniva presentato ad alcuno ma accompagnava i maggiori esponenti del sodalizio mafioso locale e godeva della loro massima ed incondizionata fiducia. Come detto, pur facendo parte, a tutti gli effetti, dell’organizzazione “Cosa Nostra”, non era stato mai formalmente affiliato, nonostante che questa fosse stata una sua non dissimulata aspirazione, ostandovi, tra l’altro, il fatto che era imparentato con un esponente delle forze dell’ordine (un suo cognato era un poliziotto in attività di servizio in territorio adeguatamente lontano). Originario della via Giafar, nel cuore di Brancaccio, Grigoli Salvatore, prima di essere cooptato in “Cosa Nostra”, aveva esercitato l’attività di commerciante. In precedenza aveva lavorato anche presso un’impresa, ma ben presto era stato licenziato per cessata attività. In questo periodo, per sfamare la famiglia aveva cominciato a delinquere, frequentando Giacalone Luigi; altro malavitoso del quartiere. Aveva partecipato ad una rapina in una gioielleria e dopo, nell’anno 1986 - sempre secondo quanto da lui stesso riferito - era stato avvicinato da Filippo Quartararo e da Mangano Antonino, soggetti appartenenti all’associazione mafiosa, i quali gli avevano commissionato vari delitti che egli aveva regolarmente commesso. Aveva fatto anche da autista e guardaspalle a tale Giovanni Sucato da Villabate, soprannominato il “mago dei soldi”, in seguito trovato bruciato all’interno della sua autovettura Volkswagen Polo lungo la strada statale Palermo-Agrigento il 30 maggio 1996. Il Sucato, era stato l’organizzatore di una maxi-truffa: aveva, infatti, raccolto dagli scommettitori un’ingente quantità di denaro, che alla fine era stata incamerata da Mangano Antonino, da Quartararo Filippo e da Giovanni Torregrossa. Grigoli Salvatore conosceva all’epoca il Mangano, il quale abitava nella sua stessa borgata, e tra loro era nata “una sorta di amicizia, anche perché lui (Mangano) si conosceva già da prima con Giacalone Luigi”. Allo stesso modo aveva conosciuto Quartararo Filippo, uomo d’onore della famiglia di Brancaccio. Per loro tramite aveva conosciuto altri uomini d’onore, iniziando a commettere, per conto dell’organizzazione, dapprima piccoli reati, (come attentati incendiari di macchine e negozi) dando poi la scalata al vertice criminale, divenendo killer del gruppo di fuoco del mandamento di Brancaccio, i cui capi erano i fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo. Aveva commesso il suo primo omicidio nell’anno 1989, quando aveva l’età di ventiquattro anni e ne erano seguiti molti altri. Secondo il suo assunto, a capo del gruppo di fuoco, quando Graviano Giuseppe era stato arrestato, era succeduto Antonino Mangano, il quale lo aveva aggregato ad una formazione specializzata nel commettere omicidi all’interno del mandamento di Brancaccio. Già allora facevano parte di tale formazione Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano, Cosimo Lo Nigro, Luigi Giacalone, Vittorio Tutino; dopo l’avvento del Mangano si sono aggiunti Pietro Romeo e Pasquale Di Filippo. Secondo Grigoli, Mangano Antonino, che è stato a capo del “gruppo di fuoco”, organizzava i singoli omicidi, impartendo ordini e specificandone le modalità esecutive, pur se trattavasi di azioni delittuose commissionate direttamente dai Graviano. Il gruppo di fuoco disponeva di diverse basi operative nonché di una nutrita dotazione di armi e munizioni, la maggior parte delle quali, allorchè detto gruppo operava sotto le direttive dei Graviano, era custodita dal mandamento di Brancaccio-Ciaculli, mentre il resto era nella disponibilità di quella di Corso dei Mille. La composizione del medesimo gruppo nelle varie imprese criminali era variabile in quanto “l’unico esecutore materiale” era stato per lo più egli soltanto, mentre gli altri si erano alternati con ruoli diversi: o guidavano le macchine, o le moto, ovvero davano la “battuta”. Dopo l’inizio della collaborazione dei fratelli Di Filippo e la cattura di Bagarella e dopo un periodo di semiclandestinità, il Grigoli aveva trascorso la latitanza nella provincia di Trapani per circa un anno, in località Alcamo e Marausa sotto la protezione di Antonino Melodia. Dopo che si era sospettato che anche Vincenzo Ferro, uomo d’onore componente della famiglia di Alcamo, avesse cominciato a collaborare con la giustizia, il Grigoli aveva fatto ritorno a Palermo, fidando nella protezione di Gaspare Spatuzza, assurto nel frattempo alla più alta carica mafiosa nel mandamento di Brancaccio. Come hanno ben sottolineato i giudici del primo grado di giudizio, “i suoi fitti e pregressi rapporti di frequentazione con esponenti di vertice di “Cosa Nostra” (in epoca coeva all’uccisione di Padre Puglisi) evidenziano l’evolversi ed il consolidarsi della sua figura delinquenziale, adusa alle imprese sanguinose più eclatanti che accrescevano di volta in volta il suo prestigio criminale; ben inserita nella compagine locale del sodalizio mafioso, al seguito del più noto Leoluca Bagarella, che aveva frequentato quando aveva intrapreso a tutelare la latitanza di Matteo Messina Denaro, facendo da autista a quest’ultimo ed accompagnandolo nei suoi assidui appuntamenti con i rappresentanti della varie famiglie”. Il Grigoli, colpito da ordinanza di custodia cautelare in carcere del 18 luglio 1995 perché coinvolto in una lunga serie di omicidi, veniva arrestato, dopo una lunga latitanza, il 19 giugno del 1997. Era stato a lungo ricercato; per molto tempo era stato inafferrabile ed aveva costituito una delle braccia armate più spietate a disposizione di “Cosa Nostra” ed uno dei sicari più pericolosi e killer di fiducia del Mangano Antonino. Inoltre, è stato coinvolto nel processo sulle stragi del 1993, nel fallito attentato a Maurizio Costanzo, nel fallito attentato a Formello ideato contro il collaborante Salvatore Contorno, nel sequestro del piccolo Di Matteo, il figlio del collaboratore, segregato per circa due anni e poi strangolato e disciolto nell’acido. Dopo la cattura, il Grigoli ha scelto subito la via della collaborazione. Ha parlato ad investigatori e magistrati delle decine di omicidi commessi per conto della famiglia mafiosa di Brancaccio, delle varie scomparse e delle numerose intimidazioni ai commercianti del quartiere. Ha spiegato le ragioni che lo avevano indotto ad imboccare la strada della dissociazione, da individuarsi, in primo luogo, in impellenti necessità di sopravvivenza materiale, essendo egli braccato, privo di risorse finanziarie e non sostenuto economicamente nella latitanza dal capocosca, il quale non aveva ritenuto di adempiere al relativo compito. Infatti, lo Spatuzza, divenuto, dopo l’arresto del Mangano, capo del mandamento di Brancaccio, ed a cui competeva farsi carico del sostentamento delle famiglie dei latitanti, non gli aveva riconosciuto il dovuto merito di essere stato un superkiller, uno dei migliori sicari del gruppo di fuoco. Di fronte al comportamento omissivo dello Spatuzza, il Grigoli aveva allora cominciato a riflettere “se fosse stato giusto tutto quello che aveva fatto per l’organizzazione criminale “Cosa Nostra” e, pensando a tutti I crimini commessi, si era reso conto che tutto ciò che aveva fatto era stata una cosa errata”. Ha altresì contribuito alla maturazione di questa scelta di vita, a tenore delle dichiarazioni del Grigoli, il fatto che egli fosse rimasto particolarmente scosso dalla fine che era stata riservata al piccolo Giuseppe Di Matteo, che egli aveva sequestrato assieme ad altri componenti del gruppo di fuoco, nonché dalla sorte toccata a padre Giuseppe Puglisi e dalla barbara uccisione di una ragazza estranea ai conflitti mafiosi durante un omicidio commesso ad Alcamo: tutto questo lo aveva indotto a meditare sul suo passato criminale e ad iniziare la collaborazione con le autorità dello Stato. Come risulta dalle sue stesse confessioni e dichiarazioni, Grigoli Salvatore era diventato killer perché questo era l’unico modo per affermarsi nella triste realtà del quartiere di Brancaccio, perché ciò gli garantiva denaro, donne, autovetture, motociclette e soprattutto uno “status”. Grigoli ha confessato di avere commesso un numero incredibile di omicidi perché attraverso il crimine, sempre più orrendo, affermava se stesso e otteneva la considerazione degli “uomini d’onore” che contavano e il rispetto degli umili, di quelli che avevano abdicato alla propria dignità di uomini liberi. Non appena è stato arrestato, tuttavia, si sarà reso conto che il suo sistema di valori perversi era crollato per sempre e che la sua “onnipotenza” era ormai finita, da quando era stato identificato come un pericolo killer al soldo della famiglia mafiosa di Brancaccio e da quando non era più utile e funzionale agli interessi della sua cosca. Egli, a quel punto, solo e misero, decise di confessare tutti i crimini commessi e di collaborare con la giustizia, scegliendo la via della legalità. Ma, se don Pino Puglisi è l’esempio dell’affermazione della dignità umana, dell’uomo che non si fa soggiogare dal (pre)potente di turno, Grigoli, il suo carnefice, è l’esempio tipico della dignità negata. Per quel che interessa il procedimento in esame, va rilevato che Grigoli Salvatore, il quale, come già detto, immediatamente dopo il suo arresto, messo nelle condizioni di comprendere il sistema di valori perversi in cui fino ad allora era vissuto, aveva cominciato a collaborare fattivamente con la giustizia, ha ammesso di essere stato egli stesso l’esecutore materiale dell’omicidio di Padre Puglisi, indicando causale, mandanti e complici. Egli, all’udienza del 7 luglio del 1993, e cioè pochi giorni dopo il suo arresto, davanti alla Corte di Assise di Palermo rendeva spontanee dichiarazioni che appare opportuno anche qui riportare testualmente, sia pure nei passi più salienti, costituendo la sua collaborazione una svolta importante del processo, in quanto ha fornito la chiave di lettura dell’uccisione di padre Puglisi, indicando, come già detto, causale, mandanti ed esecutori materiali dell’omicidio, primo fra tutti egli stesso. Anche se le predette dichiarazioni, rese dal Grigoli nel corso del procedimento del quale ci occupiamo, cronologicamente non siano le prime sull’omicidio del sacerdote -- avendo egli fatto abbondanti dichiarazioni al riguardo -- a giudizio della Corte, tuttavia, è da queste che bisogna prendere l’esame sia, appunto, per la loro spontaneità, sia perché in nessun modo influenzate dall’intervento di terzi, accusa o difesa, legittimamente mosse da interessi contrapposti. Ebbene, il Grigoli Salvatore ha così liberamente esordito: “Io vorrei collaborare, …..con la giustizia, quindi definendomi collaboratore. Però per quanto riguardo questo processo vorrei definirmi io più che altro un pentito, perché mi sono pentito realmente di aver commesso questo omicidio”.

“Riguardo. io cominciai già a pensare qualcosa del genere all’incirca, riguardo sul pentirmi, un sei mesi addietro a questa parte...E mi ha dato modo di pensare questo il fatto che da un anno a questa parte io non ero più sostenuto da nessuno, né economicamente né....cioè in poche parole io non ero più in condizione di campare, come si suol dire, la famiglia. Mi sono dovuto persino impegnarmi dell’oro che avevo io per potere mandare dei soldi a casa...e fare....altre cose; addirittura farmi prestare dei soldi per potere tirare avanti i miei figli, e questa cosa mi ha cominciato a fare pensare io con chi...per tutta...per gran parte della mia vita, con chi ho avuto a che fare, se è stato giusto le cose che ho commesso, i delitti...cioè questa cosa mi cominciò a far pensare se era stato giusto quello che avevo fatto io per conto di questa organizzazione”. “E da questo ecco che io ho deciso anche di collaborare con la giustizia...”

“Adesso vorrei dire io cosa sono a conoscenza e le mie responsabilità riguardo il delitto di padre Puglisi”.

“Vorrei premettere un’altra cosa, che io... tengo a precisare che non è assolutamente vero il fatto che io mi sia vantato, dopo aver commesso questo omicidio, perché non ne trovavo le ragioni; non me ne vantavo per altri omicidi....figuriamoci di questo che già...anche perché, dopo averlo commesso, ci pensavo spesso a questo omicidio e non vedevo la ragione per cui è stato fatto...anche se i motivi ne sono a conoscenza, ma non mi sembravano motivi validi per uccidere un prete”.

“Prima...volevo precisare un’altra cosa, prima dell’omicidio, ho commesso un altro reato, lo dico perché secondo me è attinente a questo omicidio. Fummo incaricati io, Spatuzza e Guido Federico di bruciare tre porte di tre famiglie di uno stabile di via Azzolino Hazon, nei dintorni di questa via...perché queste persone erano vicine a padre Puglisi”. “I fatti che io conosco, le responsabilità dell’omicidio sono quelli che un giorno...non ricordo se fu lo Spatuzza o Nino Mangano, che un giorno mi disse che dovevamo commettere questo omicidio, che deve essere stato lo Spatuzza anche perché la persona che conosceva il padre. Già aveva parlato con Giuseppe Graviano e si doveva commettere questo omicidio; sicuramente ne parlai anche con Nino Mangano, perché io non facevo niente se non ne parlassi con lui”.

“Quindi una sera...cercammo di vedere i movimenti, gli spostamenti del padre e lo incontrammo a Brancaccio, in un telefono pubblico. Non mi ricordo se già ero armato o dopo averlo visto....ci recammo per armarci, anche se poi l’unico ad essere armato ero io, e lo attendemmo nei pressi di casa. Così fu, eravamo io, lo Spatuzza, Giacalone Luigi e Lo Nigro Cosimo. Eravamo comunque...non avevamo né macchine rubate, né motociclette, niente di tutto questo, eravamo con le macchine...una era di disponibilità del Giacalone, un BMW, e una Renault 5 di proprietà del Cosimo Lo Nigro. Scese Spatuzza dalla macchina del Lo Nigro, perché Spatuzza era con Lo Nigro ed io ero con Giacalone. Il primo ad arrivare fu lo Spatuzza, ricordo che il padre si stava accingendo ad aprire il portone di casa, lo Spatuzza si ci affiancò, perché il padre aveva un borsello, gli mise la mano nel borsello e gli disse: padre, questa è una rapina…il padre neanche si era accorto di me..., fu una cosa questa qui che non posso dimenticare, perché ogni volta che penso a questo episodio mi viene in mente questa visione del padre che sorrise, non capii se fu un sorriso ironico o sorrise sorrise e gli disse allo Spatuzza “me l’aspettavo”. Allorchè io gli sparai un colpo alla nuca e il padre morì sul colpo senza neanche accorgersene di essere stato ucciso”. “Dopo di ciò chiaramente il borsello fu portato via dallo Spatuzza.…Dopo di ciò ci recammo in uno stabilimento della zona industriale, cosiddetto Valtras, uno stabilimento di export-import...una specie di spedizionieri erano e lì fu controllato il borsello. Ricordo bene che c’era una patente, lo ricordo bene perché lo Spatuzza aveva la mania, perché lui all’epoca già era latitante, di togliere le marche da bollo che potevano servire per eventuali documenti falsi e tutti i documenti e tolse le marche da bollo”.

“Tra le altre cose ricordo che c’era una lettera...non ricordo se è stata inviata al padre o...c’era una busta con un foglio, una lettera di una persona che gli aveva scritto che, se non ricordo male, gli facesse gli auguri non so di cosa, all’incirca trecentomila lire e poi altri pezzettini di carta...”

“Vorrei premettere che il borsello fu portato via, perché si voleva far credere che l’omicidio....cioè l’omicidio dovevano pensare gli inquirenti che era stato fatto da qualche tossicodipendente o da qualche rapinatore, ecco perché fu utilizzata la 7 e 65, che non è un’arma consueta agli omicidi di mafia”. “...Questo è quello che io sono a conoscenza...”.

Al termine di dette dichiarazioni spontanee il Pubblico Ministero ne chiedeva l’esame che la Corte del primo grado di giudizio ammetteva e che veniva espletato all’udienza del 28 ottobre 1997. Nel corso di detto esame sono stati approfonditi i temi già spontaneamente enunciati dal Grigoli, il quale ha ribadito di aver fatto parte di “Cosa Nostra” ed ha spiegato testualmente: “Vede io non avevo mai commesso reati di nessun genere...fino all’incirca undici, dodici anni fa. Dal momento in cui poi io sono stato licenziato perché il lavoro era finito, avevo già un bambino piccolino, nove mesi, cominciai a delinquere”.

“All’epoca io feci una rapina in una gioielleria per fare soldi e poter dare da mangiare al mio bambino. Ecco, da lì poi continuai a delinquere, perché purtroppo poi essendo che uno comincia poi a conoscere i soldi, poi viene ancora più difficile tornare indietro. E quindi nella borgata lo stesso Quartararo Filippo, Nino Mangano, loro mi osservavano sotto questo aspetto che ero uno, non so, uno in gamba, qualcosa del genere. E quindi ci fu questa sorta di avvicinamento. Da lì poi cominciai a far parte di questa...Perché poi cominciai a delinquere per loro, cominciai a bruciare autovetture, negozi”.

“Poi mi fu presentato Giuseppe Graviano e quindi poi io dipendevo da lui. Mi disse un giorno Nino Mangano: Senti, c’è un appuntamento, ci sono persone che ti vogliono conoscere. E lì trovai Giuseppe Graviano. Lui si presentò dicendomi: Io sono Giuseppe Graviano, credo che tu hai sentito parlare di me come io ho già sentito parlare di te”. “E quindi da allora io ho capito che dipendevo da lui”.

“Ma già anche da prima, anche...perché io lo conoscevo, perché da piccolino....ci conoscevamo da bambini con Giuseppe Graviano perché eravamo della stessa borgata. Poi non ci siamo più visti. E quindi già diciamo che lo conoscevo. Anche quando io operavo per Mangano e Filippo Quartararo era sottinteso che era già all’epoca Giuseppe Graviano il capo mandamento di Brancaccio. Io addirittura cominciai insieme solo io e Giacalone Luigi a commettere i primi omicidi. Poi successivamente proprio il Giuseppe Graviano ci affiancò lo Spatuzza Gaspare e poi tutti gli altri”.

“Nino Mangano ci comunicava: “I picciotti vogliono che si fa questo omicidio”.

“Perché sono fratelli. Erano tutti e due in sostanza a reggerlo, anche se si parlava di Giuseppe come capo mandamento. Però c’era riferimento ai “picciotti”.

“Ma io ebbi ordine anche direttamente da Graviano...Giuseppe”. “Quando ci comunicò il fatto di sequestrare il piccolo Di Matteo”. “Ma vede, lui all’epoca, non è che io adesso voglio difenderlo, perché...però lui fece una specie di...per entrare in questo discorso girò talmente tanto, perché tipo che era quasi dispiaciuto di dovere fare questa cosa. Quindi come dire...”Voi potete pensare che io sono....insomma mi ha fatto tutto un raggiro per dirci poi: “Dobbiamo sequestrare....siccome già a Napoli è stata effettuata una cosa del genere con esiti positivi” dice: “Dobbiamo sequestrare il figlio di un pentito per tenerlo alcuni giorni, quindi fare in modo che il padre ritrattasse o perlomeno si impiccasse”.

A precisa domanda del Pubblico Ministero che gli chiedeva: “Senta chi le disse di uccidere don Pino Puglisi?” il Grigoli ha risposto: “Mangano Antonino mi disse che i picciotti gli avevano parlato di questa cosa che si doveva fare questo tipo di delitto”.

“Perché si diceva che siccome lì a Brancaccio, nei pressi della parrocchia di Brancaccio, c’era un ...un non so come definire, c’erano delle suore, una congregazione, non so come dire, dove operavano delle suore in sostanza, non so cosa facessero, e si pensava che in questo locale si erano infiltrati i poliziotti e anche in chiesa. Cioè si pensava che padre Puglisi era un confidente, uno che si stava anche interessando per la cattura di Giuseppe Graviano”.

Ancora. A domanda del Pubblico Ministero che gli chiedeva: “Senta, prima di questo atto omicidiario, lei partecipò a qualche attività delittuosa di intimidazione nei confronti di persone vicine a don Pino Puglisi?”, il Grigoli ha così risposto: “Sì...Questa se non ricordo male me la comunicò Gaspare Spatuzza che si era visto...disse: “Sai, mi sono visto con “madre natura” e dobbiamo fare questa cosa qui”; però, tutto quello che io... erano poche le cose che mi comunicavano gli altri, ma quelle poche cose prima ne parlavo con Nino Mangano. Dico, per dire: “di questa storia qui tu ne sei a conoscenza” e lui mi diceva: “Sì, a posto, ci puoi andare”. “Questa...me la comunicò lo Spatuzza, questa cosa qui. Dovevamo bruciare tre porte di tre abitazioni nello stesso palazzo...nello stesso complesso, erano tre scale ed in ogni scala c’era una porta da incendiare. Una, se non erro, è al decimo piano, una al settimo e una al quinto, se non erro. C’era un certo Martinez e gli altri non li ricordo. E andammo io e lo Spatuzza, insieme anche a Vito Federico, e salimmo tutti e tre contemporaneamente le scale; abbiamo dato tempo a colui che doveva arrivare al decimo piano di arrivare prima e abbiamo dato fuoco a queste porte e poi scendemmo tutti e tre contemporaneamente e poi andammo via”.

Ed, alla ulteriore domanda del Pubblico Ministero:

“Senta lei sa, è a conoscenza di un altro attentato incendiario che fu fatto proprio contro la chiesa di San Gaetano, nel senso, a una attività di impresa che all’interno della chiesa si svolgeva?”, Grigoli Salvatore ha risposto: “Si, si bruciò credo un furgone, adesso non mi ricordo bene, di questo appaltatore che stava facendo i lavori in chiesa ”.

“So che a farlo sicuramente era stata gente di Brancaccio, ma non so chi specificamente ci andò”.

Infine, in ordine all’organigramma della famiglia mafiosa di Brancaccio, ha precisato: “Il capo mandamento era Giuseppe Graviano, poi c’era Nino Mangano, uomo d’onore, e poi c’eravamo tutti noi del gruppo di fuoco”.

Nell’interrogatorio reso il 26 giugno del 1997 al Procuratore della Repubblica di Palermo che gli chiedeva chi avesse dato l’ordine di ammazzare Don Pino Puglisi, il Grigoli ha risposto: “L’ordine me lo comunicò il Gaspare Spatuzza che mi disse...dice...”madre natura”, che lo chiamavamo proprio come Madre Natura a Giuseppe Graviano, diciamo fece sapere che si deve fare questo omicidio di Padre Puglisi”.

“Il motivo fu, perché si diceva che il padre fosse un confidente o perlomeno qualcuno che desse una mano alla Polizia di effettuare indagini anche su loro stessi che erano latitanti, addirittura c’erano le suore, una comunità di suore che potevano esserci poliziotti infiltrati là dentro..., per questo motivo. Una 7,65 fu usata anche perché doveva sembrare un omicidio non fatto da “Cosa Nostra”, ma un omicidio di un tossicodipendente, o di un ladruncolo, qualche cosa del genere. Infatti noi portammo via al prete il suo borsello per sembrare che fosse una rapina”.

“....Nella famiglia di Brancaccio,....fino alla cattura Giuseppe Graviano prendeva le decisioni....Giuseppe Graviano e Filippo Graviano, sicuramente le prendevano assieme...le decisioni”.

“Magari non avevano. cioè sono due tipi diversi, uno si occupava del gruppo di fuoco, Giuseppe Graviano, e magari Filippo Graviano si occupava di altre cose ”.

“Giuseppe Graviano, secondo me, aveva....i compiti di ordinare i vari....i vari incendi, i vari...Poi si occupava di costruttori....era Filippo Graviano ad occuparsene di gli ordini li impartiva a Tutino Vittorio”.

Dello stesso tenore sono le dichiarazioni rese nell’esame effettuato davanti alla Corte di Assise nella sua nuova composizione in data 20 ottobre 1998.

Ed infatti, al Pubblico Ministero che gli chiedeva: “Lei ha detto che il mandamento era retto da Giuseppe Graviano; però, prima, quando ha parlato degli omicidi, ha parlato dei “picciotti”, cioè di Giuseppe e Filippo, e allora, dico, perché questa differenza, ce lo sa spiegare?”, il Grigoli ha risposto: “quello che è a conoscenza mia è che il mandamento di Brancaccio lo gestiva Giuseppe Graviano, però, come risulta a me, ogni qualvolta o talvolta, perché l’ho detto pure che alcune volte si diceva “madre natura” come talvolta si diceva i “picciotti”, mi veniva dato questa indicazione, poi io non lo so spiegarglielo perchè i picciotti e reggeva solo Giuseppe Graviano”.

“Ho sparato a padre Puglisi....Perché mi è stato ordinato. Da Nino Mangano, che diceva che gliel’aveva fatto sapere madre natura Madre Natura è Giuseppe Graviano”.

E, a seguito di insistenza del Pubblico Ministero, il collaborante ha precisato: “Mangano ha detto “i picciotti” o “madre natura”....Non so spiegarmi il motivo per cui Nino Mangano diceva talvolta i picciotti. I picciotti mandano a dire questo, mandano a dire quell’altro”.

Ciò posto va subito detto che le dichiarazioni di Grigoli Salvatore, autoaccusatosi di avere personalmente ucciso il sacerdote e chiamante in causa dei mandanti e dei partecipi all’esecuzione del crimine, risultano assistite da elevata attendibilità intrinseca ed estrinseca secondo i criteri direttivi di disamina affrontati dalla Suprema Corte di Cassazione e riportati in altra parte della presente sentenza.

Il movente “semplice” del delitto. La Repubblica il 10 settembre 2020. Il vasto e variegato materiale probatorio acquisito agli atti del processo nel corso del lungo e complesso dibattimento svoltosi avanti i primi giudici testimonia, in modo inoppugnabile, che la causale dell’uccisione del parroco delle Chiesa di San Gaetano in Brancaccio va ricercata ed individuata nell’intensa ed instancabile attività di risanamento morale e civile di quella borgata, dallo stesso portata avanti con salda e tenace determinazione. Don Pino Puglisi era un prete di trincea, che operava infaticabilmente in un tipico quartiere della periferia degradata della città di Palermo ad alto potenziale criminogeno, dove esisteva un grave arretramento culturale e mancava la coscienza civile dei diritti più elementari e dove la gente viveva ed operava sotto una cappa di dominio e di sopraffazione. In questo contesto ambientale padre Puglisi era diventato sostanzialmente il centro motore di molteplici iniziative pastorali, sociali ed anche economiche in favore della sua comunità ecclesiale che potessero servire al riscatto della gente onesta della borgata. L’opera continua e profonda del prete della diocesi di Palermo ha finito per rappresentare una insidia ed una spina nel fianco del gruppo criminale emergente che governava il territorio di quella periferia della città, perché costituiva un elemento di sovversione in quella situazione ambientale dove dominava l’ordine mafioso, conservatore, reazionario ed opprimente, contro cui il buon sacerdote mostrava di essere uno dei più tenaci ed indomiti oppositori. E padre Puglisi, che non era solo religioso e contemplativo ma che si era profondamente immerso nella difficile realtà di quel quartiere, calandosi pienamente nel sociale, non si arrendeva neppure di fronte alle minacce ed alle intimidazioni. Don Pino Puglisi aveva scelto di schierarsi, concretamente, dalla parte dei deboli e degli emarginati; aveva preferito appoggiare, senza riserve, i progetti di riscatto provenienti dai cittadini onesti, che intendevano cambiare il volto del quartiere, desiderosi di renderlo più accettabile, accogliente e vivibile, e per questo erano malvisti, boicottati o addirittura bersaglio di atti violenti. Il coraggioso parroco di Brancaccio era andato oltre la mera solidarietà e l’appoggio morale agli emarginati; aveva scelto di denunciare pubblicamente i soprusi ed i misfatti, scoraggiando l’appoggio offerto alla Chiesa dai potenti della zona, collusi e compromessi con gli esponenti locali del potere mafioso e con il ceto politico, facile a certi compromessi, conscio che essi non operavano per il bene del quartiere. La sua attività di recupero del quartiere e di risanamento morale e sociale di quel territorio non era sfuggita all’occhio vigile ed attento degli esponenti del potere criminale che dominavano la zona e che evidentemente erano portatori di interessi contrapposti o confliggenti con quelli espressi dalla comunità ecclesiale che si stringeva attorno al parroco. L’opera pastorale del prete di Brancaccio, che aveva coagulato intorno a sé un vasto movimento popolare in difesa di valori cristiani e di tolleranza, aveva inevitabilmente interferito, invero vistosamente, con l’ordine sociale imposto dalla cosca di quello scacchiere mafioso e si era fatalmente scontrato con i contrapposti interessi della mafia. Siffatta epoca, infatti, rappresentava “una variabile eversiva intollerabile in un territorio dove il fenomeno criminale aveva profondissime radici e costituiva il serbatoio di reclutamento e di ricambio delle forze delinquenziali”, “prodotto del sistema che si rigenera in un “humus” ambientale e culturale difficile da rimuovere”. Conseguentemente, “si doveva bloccare il progetto che il parroco stava attuando di liberare le forze sane della società civile e di favorire un processo di avanzamento del fronte della legalità”: detto fronte doveva essere spezzato, colpendo al cuore questo movimento, e l’attacco doveva essere condotto proprio nel cuore del quartiere di Brancaccio, dove, allora, indiscusso ed inviolato, dilagava il potere dei fratelli Graviano, indicati unanimemente con i massimi esponenti del mandamento, controllori incontrastati del territorio e di parte dell’apparato militare della mafia, non solo dagli ex mafiosi ed ex criminali che hanno scelto la via della collaborazione con la giustizia ma anche da tutti gli organi inquirenti che hanno condotto indagini sulle condizioni di vita e sulle presenze mafiose in quel quartiere. I giudici del primo grado di giudizio hanno dato ampio spazio, nella parte motiva dell’appellata sentenza, alla causale, giustamente individuata nella eliminazione, da parte dell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, di un personaggio di spicco del clero locale operante nel quartiere di Brancaccio ed impegnato in prima fila proprio nella lotta ad ogni forma di prepotenza e di soprusi. Questa Corte non può che condividere appieno il “decisum” su tale movente, risultante, tra l’altro, da plurime e convergenti dichiarazioni di collaboranti e di testimoni oltre che da argomentazioni di natura logica. Anche questa Corte, invero, ritiene che l’omicidio del parroco di Brancaccio sia maturato in un contesto mafioso, individuando la causale nel preminente interesse dei fratelli Graviano, capi clan di quel mandamento, a far tacere un esponente del clero locale impegnato da anni nel sociale, pronto a combattere ogni forma di sopruso e di prevaricazione. Come già detto, infatti, padre Puglisi era considerato un esponente di punta del clero siciliano, in quanto aveva trasformato la sua parrocchia in una prima linea nella lotta al potere mafioso imperante nel quartiere di Brancaccio, educando i giovani e le famiglie ad un quotidiano impegno sul territorio, valorizzando gli spazi di aggregazione e moltiplicando le occasioni di incontro con la gente della borgata onde favorire un processo di avanzamento della legalità. Per tale ragione i fratelli Graviano, che controllavano in maniera incontrastata quel territorio, - ed il loro luogotenente e portavoce Mangano Antonino, che dopo l’arresto dei predetti era subentrato al loro posto - avevano tutto l’interesse, manifestato in più occasioni, di mettere a tacere una persona giudicata scomoda, in quanto contestava il perseguimento dei loro sporchi scopi criminosi e nel contempo di fare ripiombare il quartiere in quella consueta atavica atmosfera di soggiogazione al potere mafioso. La Difesa dell’imputato Graviano Giuseppe, nei motivi a sostegno del proposto appello, ha lamentato, tra l’altro, che l’impugnata sentenza aveva “del tutto ignorato matrici omicidiarie alternative a dispetto di precise emergenze” processuali. Ha dedotto che, proprio la stessa mattina del giorno in cui venne commesso l’omicidio, Don Puglisi era presente a Palazzo delle Aquile, sede del Comune, per definire la tormentata vicenda relativa all’assegnazione degli scantinati di via Azolino Hazon numero 18, curata personalmente da lui e dai componenti il Comitato Intercondominiale Martinez, Romeo e Guida, destinatari anch’essi di intimidazioni e danneggiamenti, vicenda che confliggeva con gli interessi vitali dei malavitosi del luogo che occupavano detti locali per svolgervi i loro loschi traffici. Ha dedotto, altresì, che il giovane Lipari era stato vittima di tutta una serie di intimidazioni da parte di esponenti di tale frangia malavitosa, continuate anche dopo la scomparsa di Don Puglisi, e ciò in quanto aveva partecipato alle ulteriori residue iniziative sempre mirate allo spossessamento dei locali sopra menzionati. Ha assunto, infine, che gli attentati subiti da Martinez, Guida e Romano postulano una lettura indipendente da quanto riferito dall’imputato collaborante Grigoli Salvatore. Ha concluso sostenendo che “vi è un solo filo conduttore che consente di legare tutte le esperienze intimidatorie, i danneggiamenti, fino all’epilogo delittuoso in danno di Don Pino Puglisi: ed è appunto quello legato al rilevante interesse al mantenimento dei locali” di Via Azolino Hazon.

Tale doglianza, alla luce di quella che è la realtà processuale, appare del tutto priva di pregio. Al riguardo, basti osservare che i locali a piano terra dell’edificio sito al numero civico 18 di via Hazon, dei quali il Comitato Intercondominiale e padre Puglisi avevano chiesto l’acquisizione per ristrutturarli e destinarli a scuola media, erano costituiti di soli pilastri, accessibili a tutti e lasciati in stato di completo abbandono: gli stessi, invero, erano ricettacolo di semplici ladruncoli, giovani prostitute e drogati, i quali avrebbero potuto servirsi agevolmente anche di qualsiasi altro vicino spazio per le loro losche attività. Ma, ciò che maggiormente rileva è che l’ordine rigorosamente imposto in quel quartiere dal potere mafioso locale era tale da precludere qualsivoglia possibile autonomia, qualsiasi spunto o iniziativa a eventuali frange criminose del luogo e non, dal momento che le stesse non avrebbero mai avuto modo di esprimersi da sole in un contesto territoriale così minuziosamente ed ineluttabilmente controllato dai massimi esponenti del mandamento. Nessun reato, dal semplice furto al più grave degli omicidi, a maggior ragione se “eccellente”, sarebbe stato possibile perpetrare in quello scacchiere mafioso senza un “placet” del supremo sodalizio criminoso territoriale, alla cui guida erano, in modo incontrastato, come già detto, proprio i fratelli Graviano; e ciò secondo regole ben precise che vigono in seno all’organizzazione criminale “Cosa Nostra” e che vanno osservate in maniera rigorosa ed inderogabile. Alla stregua delle considerazioni esposte, adunque, l’asserita causale alternativa, legata appunto alla tutela e, quindi, alla temuta lesione degli interessi di una frangia criminale autonoma ed indipendente da “Cosa Nostra”, si è rivelata non percorribile sin dalle prime fasi delle indagini e si rivela tuttora del tutto infondata alla stregua di quelli che sono gli elementi probatori tutti versati in atti. Ecco affiorare, allora, chiaramente, nel pur variegato panorama probatorio, la vera causale dell’omicidio del coraggioso sacerdote, l’unica possibile sulla base di quelle che sono le emergenze processuali: la sua intensa ed instancabile attività tendente al risanamento morale e sociale del quartiere di Brancaccio che lo aveva portato ineluttabilmente in contrasto con il gruppo criminale emergente che dominava nella zona. Ed invero, detta attività di risanamento morale e sociale del quartiere e di affrancazione dal potere mafioso non poteva lasciare indifferenti i maggiorenti della zona, i quali, ad un certo momento di questa sfiancante contrapposizione, decisero di eliminare il prestigioso ed ingombrante capo spirituale della zona, per disperdere i frutti della sua opera e del suo apostolato e nel contempo fare ripiombare il quartiere nella plumbea atmosfera di vassallaggio all’imperante potere mafioso. La causale, così identificata, assume specifica rilevanza per la valutazione e per la coordinazione logica di tutte le risultanze processuali ai fini della formazione del convincimento di questa Corte in ordine a una ragionata certezza della responsabilità, quali mandanti, di detti maggiorenti, sicuramente e unanimemente indicati ed individuati nei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, odierni imputati appellanti. E valga il vero! Il collaborante Drago Giuseppe ha ricordato che Giuliano Giuseppe, detto “Folonari”, uomo d’onore della famiglia di Brancaccio, gli aveva riferito che don Puglisi “....era un prete che predicava contro la mafia. Quindi era una persona che dava fastidio, appunto, alla famiglia dei mafiosi di Brancaccio”. Si era addirittura pensato che padre Puglisi avesse consentito la infiltrazione nella parrocchia di agenti per conoscere più da vicino i personaggi dell’ambiente mafioso e scoprire le loro malefatte. E Grigoli Salvatore ha riferito “...Si diceva che lui...aveva creato un. locale dove c’erano delle suore che operavano; sostenevano che padre Puglisi aveva infiltrato dei poliziotti anche per la stessa ricerca di Giuseppe Graviano, che all’epoca era latitante. Comunque, si diceva che era un confidente della Polizia”. Romeo Pietro, ha dichiarato, poi, di avere appreso da Giuliano Francesco che già da prima era stata decretata la morte di don Puglisi perché “....lui si prendeva i bambini e per non farli cadere, diciamo, a farli diventare persone che rubano, che vanno in carcere, ...per non darli, diciamo, nelle mani alla mafia”. Ha aggiunto che l’ordine di uccidere il sacerdote - secondo quel che gli aveva comunicato il Giuliano - era stato impartito perché l’opera di evangelizzazione del religioso disturbava i piani della mafia, parlando “ male della mafia” e procedendo ad un’opera di rieducazione sociale non consona alle regole territoriali. Calvaruso Antonio, altro collaborante, ha affermato che Leoluca Bagarella, dopo che era stata pubblicata la notizia dell’uccisione di padre Pino Puglisi, aveva con lui commentato negativamente la vicenda, sottolineando che era un problema che riguardava i fratelli Graviano, i quali avevano sbagliato nel non prendere prima le loro contromisure consentendo al sacerdote di “diventare un personaggio”. Secondo Bagarella, quindi, i fratelli Graviano “dovevano pensarci prima, in modo che non si sollevava tutto questo polverone che si sollevò poi effettivamente, dopo che padre Pino Puglisi era diventato un personaggio: che è abbastanza notevole contro la lotta” alla mafia. Nel corso delle conversazioni che Calvaruso aveva scambiato con Giacalone Luigi e con Bagarella Leoluca, poi, egli aveva avuto modo di apprendere che il prete era stato ucciso per il suo impegno antimafia, che “era un motivo già valido”. Ma, in concreto, quel che aveva spinto i Graviano a commissionare il delitto sono state essenzialmente le critiche del Bagarella, il quale “ne aveva per tutti; criticava i Graviano, nel senso che c’era questo prete nel loro territorio, che faceva questi discorsi, che faceva le manifestazioni contro la mafia, che prendeva questi bambini, cercando di dire loro “non mettetevi con i mafiosi”, e comunque operava per cercare di levare la gente dalle mani mafiose: per il Bagarella questo era uno smacco nei confronti dei Graviano, che avevano un personaggio di questo (spessore) che continuava ad adoperarsi contro la mafia, e loro praticamente lo ignoravano. Quindi i Graviano furono costretti a dare una risposta anche al Bagarella, che loro non si sarebbero fatti mortificare da un prete”. Ciaramitaro Giovanni, infine, dopo che il prete era stato ucciso, ha avuto modo di sentire le doglianze di Giuliano Francesco, il quale aveva commentato negativamente la vicenda, adducendo che la morte del sacerdote aveva provocato un certo scompiglio in seno all’organizzazione giacchè gli affari andavano male e non potevano più muoversi. Il Giuliano aveva anche affermato che in fondo non vi erano neppure ragioni tanto valide per commettere tale omicidio, che aveva “smosso troppo le acque della zona” e che era stato commesso dal Grigoli, il quale aveva sparato per dimostrare che aveva tanto coraggio da far fuoco, “...senza alcun problema”, anche contro un sacerdote. Il parroco di Brancaccio, quindi, per il suo impegno antimafia, era diventato un “personaggio” scomodo, uno “smacco nei confronti dei Graviano” i quali “furono pure costretti” a commissionare il delitto “per dare una risposta anche al Bagarella, che loro non si sarebbero fatti mortificare da un prete”. Tale movente, risultante da plurime e convergenti dichiarazioni di collaboranti e testimoni, oltre a costituire un ulteriore fattore di coesione e di raccordo, utile allo svolgimento del percorso logico diretto a riconoscere valenza probatoria agli altri elementi probatori su cui si fonda l’accusa, fornisce, altresì, la certezza che l’omicidio di padre Puglisi fu ideato, deciso e realizzato nell’ambito della famiglia mafiosa dei Graviano, con esclusione di piste alternative, adombrate dalla Difesa sulla base solo di mere congetture ed illazioni e non già di precise risultanze processuali.

Il potere di "Madre Natura". La Repubblica l'11 settembre 2020. Il quartiere di Brancaccio, all’epoca del fatti per cui è processo, era una di quelle zone della città di Palermo a più alta densità delinquenziale, “in cui era maggiormente radicata la presenza di dinastie mafiose di consolidate origini e tradizioni ed in cui il potere sul territorio era mantenuto attraverso l’uso della forza militare e la violenza”. E la cosca mafiosa di Brancaccio era, nei primi anni novanta, saldamente nelle mani dei fratelli Graviano, indicati unanimemente come i massimi esponenti del mandamento, controllori incontrastati del territorio e di parte dell’apparato militare della mafia. Tutti i collaboranti che hanno offerto il loro contributo probatorio nell’ambito di questo processo, infatti, hanno concordemente affermato che in quel tempo dominavano nel quartiere di Brancaccio i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano entrambi latitanti, perché colpiti da provvedimenti di custodia cautelare e ricercati per una condanna loro inflitta per associazione per delinquere di stampo mafioso. Tra i vari mafiosi che, ad un certo punto del loro percorso criminale, hanno scelto di collaborare con la giustizia, Di Filippo Emanuele ha spiegato che la famiglia di Brancaccio era “stata data in mano ai fratelli Graviano…..Filippo, Giuseppe e Benedetto Graviano”. Ha aggiunto che nel quartiere di Brancaccio comandavano i fratelli Graviano: qualsiasi cosa succedesse – estorsioni, rapine, omicidi – “loro ne erano a conoscenza”, se non addirittura ne erano gli autori o i mandanti. Del resto, ha aggiunto, sintomaticamente, queste erano le regole dell’organizzazione, “….nel senso che tutto quello che succedeva, tutto quello che veniva comandato, noi dovevamo saperlo, e questa è una storia, una situazione che percorre nel tempo e non può cambiare per cui, andando avanti nel tempo ed essendo che i Graviano dopo presero il possesso di Brancaccio, la storia si tramanda, e anche loro comandano, eseguono e sono responsabili di quello che succede nella zona”. Il “comando” dei Graviano non si era neppure sminuito con la loro cattura, tant’è “…..che molti detenuti, come Sacco, come Giacalone Luigi, cercavano di far pervenire messaggi ai Graviano per avere delle risposte sul come comportarsi o durante i processi dibattimentali o durante la detenzione”. Il collaborante Drago Giovanni ha riferito che Giuseppe Graviano era colui che dirigeva la famiglia mafiosa di Brancaccio, e, dopo l’arresto di Lucchese Giuseppe, era divenuto reggente del mandamento di Ciaculli, “… Graviano Filippo (era) la mente, Giuseppe a suo pari, mentre Benedetto il braccio di forza”. Calvaruso Antonio, altro collaborante di giustizia, ha ribadito che coloro che reggevano le sorti del quartiere di Brancaccio erano Giuseppe, Filippo e Benedetto Graviano;: tutti egualmente influenti e capi, “solo che il Giuseppe Graviano era il primo in assoluto; poi veniva Filippo e, in ultimo, Benedetto”. Anche Carra Pietro, un autotrasportatore che lavorava per una società di spedizioni nella zona industriale di Brancaccio, pur non essendo uomo d’onore e non avendo mai fatto la conoscenza dei predetti Graviano, ma essendo stato vicino alla famiglia mafiosa sin dal 1993, aveva sentito spesso parlare di loro come esponenti di massimo livello dell’organizzazione criminale da Spatuzza, da Giuliano, da Giacalone, da Cosimo Lo Nigro, da Barranca. Ciaramitaro Giovanni, cooptato nell’organizzazione mafiosa nell’anno 1993, non aveva personalmente conosciuto Giuseppe Graviano; aveva saputo, però, che “….era….il capo prima di Nino mangano e comandasse lui la zona di Brancaccio”. Il dottor Pennino Gioacchino, che aveva fatto parte di quell’aggregato mafioso locale, non appena ha iniziato la sua fattiva collaborazione con la giustizia, ha espressamente indicato i fratelli Graviano come capi in assoluto del mandamento di Brancaccio. Anche Brusca Giovanni, già esponente di massimo livello dell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, e, in particolare, della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, divenuto successivamente collaboratore di giustizia, riferendosi al mandamento di Brancaccio, ha ribadito: “…..il punto di riferimento è Giuseppe Graviano, come capo mandamento. Però, bene o male, tutti in famiglia, nel senso di “Cosa Nostra” collaboravano”. Ha aggiunto: “il capo mandamento è Giuseppe Graviano, poi lo affiancava, perché si può dire che erano……decidevano quasi tutto insieme, Filippo”. Ha concluso: “Parlando con Filippo era come parlare con Giuseppe; cioè, come si suol dire, erano la stessa persona”. E lo stesso Grigoli Salvatore, nel ripercorrere il suo passato di criminale, ha ricordato: “….Era già all’epoca Giuseppe Graviano il capo mandamento di Brancaccio………Filippo era il fratello… Erano tutti e due in sostanza a reggerlo, anche se si parlava di Giuseppe come capo mandamento. Però c’era riferimento ai picciotti”, individuati sicuramente nelle persone di Giuseppe e Filippo Graviano. E’ appena il caso di rilevare come le varie dichiarazioni rese nel tempo dai collaboratori di giustizia sulle leadership della famiglia mafiosa di Brancaccio, oltre che concordanti e convergenti, sul punto, siano tutte caratterizzate da un dato comune: il riferimento costante e preciso ai fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, quali unici reggenti di fatto, in quel tempo, della famiglia stessa, ed al loro dominio assoluto ed incontrastato nella zona. E questa asserzione, sui due fratelli Graviano e sulla loro comune appartenenza in modo organico ed altamente qualificato a “Cosa Nostra”, trova un ulteriore preciso e puntuale riscontro documentale nelle sentenze emesse, nell’ambito dei così detti maxi-processi storici, dalla Corte di Assise di Palermo, divenute irrevocabili e regolarmente acquisite al processo in esame, con le quali i predetti sono stati entrambi giudicati e condannati per il delitto di cui all’articolo 416 bis del Codice Penale, in quanto appartenenti appunto allo scacchiere mafioso di Brancaccio. E che in epoca coeva all’uccisione di don Pino Puglisi dominassero nel quartiere di Brancaccio i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, entrambi latitanti, perché colpiti da provvedimenti di custodia cautelare e ricercati per una condanna loro inflitta per associazione per delinquere di stampo mafioso, è stato possibile apprenderlo, oltre che dalle plurime convergenti propalazioni dei collaboranti, anche attraverso le dichiarazioni dei numerosi investigatori che, successivamente all’omicidio del parroco di Brancaccio, hanno svolto un incessante lavoro di penetrazione in quel quartiere. Qui basta ricordare solo alcuni di detti investigatori. Il maggiore Bossone Davide, comandante del Nucleo Operativo dei carabinieri di Palermo, che aveva svolto indagini sulla famiglia mafiosa di Brancaccio a partire dall’anno 1992 nell’ambito dell’operazione denominata “Pipistrello”, ha riferito che Dragna Giuseppe, il quale ha pagato con la vita le sue propalazioni, nel corso della sua collaborazione fiduciaria con le Forze dell’Ordine, aveva rivelato che al vertice della famiglia di Brancaccio erano i Graviano, in particolare Giuseppe e Filippo. I due erano stati arrestati a Milano il 27 gennaio 1994 presso il ristorante “Il Cacciatore” al termine di un reiterato pedinamento di diversi soggetti. La cattura di questi due latitanti era stata considerata un passo strategico nel contrasto al fenomeno criminale mafioso in quell’area. L’Ufficiale ha aggiunto, tra l’altro, che sul conto dei Graviano era emerso che gli stessi reimpiegavano i loro capitali illeciti nel settore dell’edilizia avvalendosi di diversi soggetti come prestanome. Il capitano Minicucci Marco ha dichiarato che, nella sua qualità di comandante del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo, aveva coordinato le indagini che avevano portato alla cattura dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano a Milano il 27 gennaio 1994 nel ristorante “Il Cacciatore”. Tali indagini erano state maggiormente intensificate all’indomani dell’omicidio di padre Puglisi, essendosi i sospetti appuntati proprio sui detti fratelli, allora entrambi latitanti, i quali controllavano a quel tempo il territorio nel quale era avvenuto il delitto. Le susseguenti indagini avevano confermato che i due fratelli erano stati insieme anche durante la latitanza. Il capitano Brancadoro Andrea, che dal 1992 al 1996 aveva prestato servizio presso il Nucleo Operativo dei carabinieri di Palermo ed aveva effettuato attività investigativa sul quartiere di Brancaccio e sulla famiglia mafiosa che ne controllava il territorio, ha dichiarato che dopo l’omicidio di padre Puglisi l’attività investigativa era stata incentrata sulla cattura dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, entrambi da tempo latitanti, i quali erano i maggiori indiziati del delitto. Ha precisato che, dal contesto delle lettere sequestrate dalla Direzione Investigativa Antimafia di Palermo nell’abitazione di Mangano Antonino nonché dagli altri elementi raccolti, era risultato chiaro che coloro i quali a quell’epoca comandavano nella zona di Brancaccio erano proprio Giuseppe e Filippo Graviano. Ha aggiunto di non aver fatto indagini dirette sull’omicidio di padre Puglisi ma che la cattura di questi due latitanti era considerata un “passo strategico” nel contrasto al fenomeno criminale in quell’area. Alla strega delle dichiarazioni, concordanti e pienamente attendibili, rese dai vari collaboratori di giustizia, pienamente riscontrate dagli accertamenti investigativi degli ufficiali di polizia giudiziaria, adunque, risulta provato, in maniera certa ed inconfutabile, che i maggiorenti del mandamento mafioso di Brancaccio, all’epoca dell’uccisione del coraggioso parroco della chiesa di San Gaetano, erano entrambi i fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, odierni imputati. Sulla base di tutte le numerose univoche dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e degli inquirenti, risulta acclarato, quindi, che la cosca mafiosa di Brancaccio era, di fatto, nei primi anni novanta, saldamente ed indistintamente, nelle mani dei due fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, con un ruolo paritario, senza che l’uno primeggiasse o fosse meno capace dell’altro ad attuare il dominio territoriale nel quartiere, dove indiscusso e inviolato, dilagava il loro potere, anche se formalmente si parlava di Giuseppe come capo del mandamento: i due congiunti, infatti, venivano indistintamente considerati come i massimi esponenti del mandamento, controllori incontrastati del territorio e dell’apparato militare in quello scacchiere mafioso. Come risulta, in maniera incontestabile, da tutti gli elementi di prova versati in atti, poi, i due più volte menzionati fratelli, anche durante la loro detenzione, non hanno per nulla reciso i collegamenti con l’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, e, in particolare, con quella articolazione locale del famigerato quartiere di Brancaccio, facente capo, dopo il loro arresto, a Mangano Antonino prima ed a Leoluca Bagarella dopo: il Mangano, infatti, è stato indicato unanimemente come il portavoce dei fratelli Graviano e, dopo la loro cattura, anche il loro successore per diretta investitura del Bagarella alla guida di quel territorio, senza che peraltro venissero recisi i collegamenti con i detti fratelli detenuti, i quali continuavano a trasmettere ordini dal carcere e ad impartire precise disposizioni relative alla gestione familiare delle azioni criminose. Ed invero, a seguito della cattura di Bagarella Leoluca, nel corso di una perquisizione effettuata presso l’abitazione del Mangano – il quale gestiva all’epoca un’agenzia di assicurazioni nel Corso dei Mille e che già allora era stato attenzionato per i suoi probabili collegamenti, poi risultati certi, col Bagarella - – è stata rinvenuta una copiosa corrispondenza epistolare tra quest’ultimo e Graviano Giuseppe, nella quale si parla di attività illecite dell’organizzazione criminale del mandamento di Brancaccio. Nella stessa, mittente e destinatario sono indicati con nomi di fantasia: Graviano Giuseppe si firma con lo pseudonimo di “Madre Natura”, Mangano con altro. Ebbene, tale corrispondenza contiene precise indicazioni relative ad acquisto di armi, ad attività estorsive in danno di imprenditori compiute nell’interesse dell’organizzazione, a nomi o pseudonimi di soggetti inseriti o vicini all’organizzazione medesima, a lettere scambiate con i Graviano contenenti riferimenti a personaggi facenti parte di tale associazione. Costituisce, pertanto, un puntuale ed incontrovertibile riscontro documentale alle numerose dichiarazioni dei collaboranti, secondo cui la cosca di Brancaccio era, in epoca coeva all’uccisione di padre Puglisi, ed è tutt’ora, saldamente nelle mani dei fratelli Graviano, odierni imputati, unanimemente indicati quali incontrastati capi “ex equo” di quell’assetto criminale.

I picciotti di Brancaccio. La Repubblica il 12 settembre 2020. Attraverso le tante prove accumulate nel corso di una lunga ed incessante istruzione dibattimentale svoltasi avanti i giudici del primo grado di giudizio, è stato acclarato, in maniera incontrovertibile, come già detto, che la posizione preminente in seno al sodalizio criminoso del famigerato quartiere di Brancaccio, all’epoca dell’uccisione del sacerdote, da liberi ma pur durante la latitanza e successivamente anche dal carcere, era di entrambi i fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, odierni imputati. Giuseppe Graviano, libero e non ancora latitante, si occupava prevalentemente di strategie ed azioni sul campo: capeggiava il “gruppo di fuoco” creato per la commissione dei più svariati reati connotati dal comune denominatore di procacciare entrate finanziarie alla famiglia e mantenere saldo il predominio nel quartiere, che, successivamente, ed in particolare dopo il suo arresto, venne capeggiato da Mangano Antonino, considerato suo “alter ego”. Flippo Graviano aveva anch’egli un ruolo preminente nell’ambito di quel sodalizio criminoso locale: era collocato non già in un “gradino inferiore”, sibbene alla pari con il fratello al vertice della famiglia, anche se con mansioni più strettamente, ma non esclusivamente, inerenti alla gestione finanziaria dei crimini. Questa ripartizione di potere criminale fra i due fratelli, tuttavia, non incideva minimamente sulla collocazione di entrambi “ex aequo” al vertice di quell’aggregato mafioso, sì che tutto promana indifferentemente da loro, senza che l’uno fosse più o meno attivo dell’altro, senza che l’uno primeggiasse o fosse meno capace dell’altro ad attuare la gestione familiare dei crimini e ad imporre il loro dominio sul territorio. Essi, quindi, “insieme” comandavano, promuovevano e gestivano gli affari illeciti, uccidevano e facevano uccidere, ed avevano un ritorno economico della collaudata “partnership” familiare mafiosa. Non solo non è distinto il ruolo dei due ma addirittura è giudicato paritario scorrendo tutte le numerose dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dei vari inquirenti, anche se formalmente il capo mandamento veniva indicato nella persona di Giuseppe. Alla luce degli elementi probatori versati in atti, infatti, risulta pacificamente acclarato l’inserimento, con posizione di preminenza, e paritaria, dei due fratelli, Giuseppe e Filippo Graviano, nell'organizzazione criminale “Cosa Nostra”, indipendentemente dall’attribuzione di qualunque carica formale. Questo primato criminale, questo loro dominio incontrastato nella zona viene così descritto dai giudici del primo grado di giudizio: “Il quartiere di Brancaccio si presentava, all’epoca dei fatti, come uno di quelli a più alta densità delinquenziale, in cui era maggiormente radicata la presenza di dinastie mafiose di consolidata origine e tradizioni ed in cui il potere sul territorio era mantenuto attraverso l’uso della forza militare e della violenza. La cosca mafiosa di Brancaccio era, nei primi anni novanta, saldamente nelle mani dei fratelli Graviano…..” Giuseppe e Filippo. Non può condividersi, pertanto, l’affermazione fatta dagli stessi giudici in altra parte della motivazione dell’impugnata sentenza, secondo i quali Filippo va “collocato, alla pari con il fratello, al vertice della famiglia” ma “posto in un gradino inferiore quanto meno con riferimento alla strategia e all’azione sul campo”. Ed invero, il collaborante Grigoli salvatore, profondo conoscitore di quel contesto ambientale, ove aveva operato da sempre, ha ribadito che “erano tutti e due , in sostanza, a reggerlo, anche se si parlava di Giuseppe come capo mandamento”, tant’è che c’era continuo e costante riferimento ai “picciotti”, individuati sicuramente nelle persone di Giuseppe e Filippo Graviano. Graviano Filippo, di contro, va collocato alla pari con il fratello al vertice del sodalizio criminale e non già in un “gradino inferiore”, neppure con riferimento alle strategie delle azioni criminose poste in essere per le esigenze della famiglia, avendo avuto anch’egli un ruolo del pari preminente in quello scacchiere mafioso. E convergenti erano anche le volontà dei due fratelli Graviano nell’ideazione, decisione e realizzazione delle varie azioni criminose perpetrate nella zona e non, per le necessità funzionali della famiglia, in considerazione del loro ruolo paritario di vertice rivestito in seno a quell’aggregato mafioso di Brancaccio. Il ruolo di questo fratello è tanto importante al punto che gli affiliati non sono in grado spesso di distinguere le posizioni dei due ed enunciano una sorta di comunanza indistinta di ruoli, sia in virtù del rapporto di fratellanza che lega i due, sia a causa della consapevolezza che la volontà dell’uno non possa non coincidere con quella dell’altro: “erano come la stessa persona” ha precisato sintomaticamente il collaborante Brusca Giovanni. Comunanza indistinta di ruoli, quindi: tutto promana indifferentemente dai Graviano, sicuramente individuati nei fratelli Giuseppe e Filippo, odierni imputati, indiscussi dominatori del quartiere. La volontà indistinta degli stessi diviene il cardine di ogni manifestazione esteriore degli intenti criminosi da realizzare. Anche Graviano Filippo, quindi, all’epoca dei fatti che ci occupano, era incontrastato capo “ex equo” di quello scacchiere mafioso; e, insieme al fratello Giuseppe, che si interessava prevalentemente del settore operativo, egli si occupava della gestione familiare dei crimini, in posizione del tutto paritaria, anche se, come detto, con mansioni più strettamente, ma non esclusivamente, inerenti all’aspetto finanziario. Stante il loro provato inserimento, con posizioni di preminenza, nell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, tra i due fratelli vi era anche un acclarato consueto accordo decisionale non solo per la gestione degli affari illeciti della famiglia ma anche per la realizzazione di tutte le azioni criminosa in genere. Unicità di intenti criminosi da realizzare, quindi.

E’ da escludere, pertanto, che il ruolo di questo fratello fosse del tutto marginale, come pure sostenuto dalla Difesa nei motivi dedotti a sostegno del proposto appello. Al contrario, come ha precisato il collaborante Drago Giovanni, profondo conoscitore del contesto ambientale e delle vicende criminali di quella famiglia, Graviano Filippo era “la mente” di quell’aggregato mafioso locale e Giuseppe “suo pari”. Pertanto, se di prevalenza di Giuseppe si vuol parlare, come fa la Difesa, questa forse era limitata esclusivamente nell’ambito della “famiglia anagrafica”, ma giammai in seno alla “famiglia mafiosa”. Graviano Filippo, infatti, come il fratello Giuseppe, era incontrastato capo “ex equo” di quell’assetto criminale; e, insieme al fratello, si occupava anch’egli della gestione familiare dei crimini, in posizione del tutto paritaria. E’ da escludere, quindi, come già detto, che il ruolo di questo fratello fosse secondario e quasi notarile, come vorrebbero far credere i suoi difensori. L’idea di una marginalità del ruolo del Graviano Filippo in seno all’organizzazione criminale, a parere della Corte, sulla scorta di quelle che sono gli elementi probatori versati in atti, è insolubilmente errata e, quindi da disattendere. Risulta provato, infatti, che il suo ruolo era del pari direttivo come quello di Giuseppe, svolgendo anch’egli, in seno a quell’assetto criminale, mansioni di capo oltre che di organizzazione e di direzione della “societas sceleris”. Prova evidente ne è il fatto che tutti i collaboratori di giustizia e tutti gli inquirenti parlano, senza distinzione alcuna, dei Graviano o genericamente dei “picciotti”, come di coloro che erano a capo della famiglia mafiosa di Brancaccio e di una loro volontà indistinta negli intenti criminosi da realizzare. Tutto promana, indifferentemente ed indistintamente dai “picciotti”, tanto che anche il Mangano sovente usa espressioni quali: “i picciotti hanno mandato a dire…..”, “i picciotti dicono…..”. Espressioni che confermano la loro indiscussa posizione di preminenza in seno alla famiglia e che sono in grado di farci individuare le loro comuni responsabilità in ordine ai singoli fatti delittuosi perpetrato nell’interesse e per le esigenze di quell’aggregato mafioso e, per quanto qui ci occupa, in ordine all’omicidio del povero padre Puglisi. Ed invero, in quanto collocati al vertice del sodalizio criminoso del quartiere di Brancaccio, in posizione del tutto paritaria, essi soltanto, e non altri, avevano il potere supremo di impartire l’ordine di uccidere un esponente locale del clero cattolico, secondo le precise ed inderogabili regole del sistema mafioso o antistato.

Don Pino sfida la mafia. La Repubblica il 13 settembre 2020. Dalle emergenze processuali, siano esse costituite da propalazioni dei singoli collaboratori - primo fra tutti Grigoli Salvatore, autoaccusatosi di avere personalmente ucciso il povero sacerdote - che da attività di investigazione tradizionale, è dato affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’omicidio di padre Giuseppe Puglisi rispondeva ad una concreta esigenza, dal punto di vista criminale, della famiglia mafiosa di Brancaccio, disturbata dall’opera incessante di lotta verbale e attivamente fattiva del coraggioso prete, volta ad affrancare il quartiere dallo stato di soggezione e di degrado in cui versava. L’uccisione del parroco di Brancaccio rispondeva alla necessità di sopravvivenza della stabilità criminale di quell’aggregato mafioso locale, all’esigenza di consolidamento del sistema di potere criminale e di terrore nel quartiere, messa in forse dall’azione del prete: il controllo del territorio e la sovranità criminale sullo stesso, invero, come già detto, costituiscono il motivo ed il movente dell’efferato atto delittuoso punitivo. Come hanno ben osservato i primi giudici nella parte motiva dell’impugnata sentenza, e come già detto, l’opera di Don Pino aveva finito per rappresentare una spina nel fianco del gruppo criminale emergente che dominava il territorio, perché costituiva un elemento di sovversione nel contesto dell’ordine mafioso, conservatore, opprimente e reazionario che era stato imposto nella zona, contro cui il prete mostrava di essere uno dei più tenaci ed indomiti oppositori. L’interesse alla eliminazione del buon prete, quindi, coinvolgeva tutta la «famiglia», rispondendo alla necessità funzionale della stessa. Ed invero, «ciò che doveva essere bloccato era il progetto che il parroco stava attuando di liberare le forze sane della società civile, favorendo un processo di avanzamento del fronte della legalità: detto fronte doveva essere spezzato, colpendo al cuore questo movimento, e l’attacco doveva essere condotto proprio nel cuore del quartiere di Brancaccio», onde ripristinare la forza del potere mafioso su quel territorio. E la famiglia mafiosa di quel famigerato quartiere di periferia, all’epoca dei fatti, per cui è processo, era capeggiata saldamento dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, entrambi latitanti, con braccio operativo Mangano Antonino che dirigeva sul campo l’attività del sodalizio. E’ stato acclarato, infatti, dalle tante prove accumulate nel corso di un’incessante istruzione dibattimentale, che la posizione preminente in seno a quel sodalizio criminoso, da liberi ma pur durante la latitanza e successivamente anche dal carcere, era di entrambi i predetti due fratelli, quali incontrastati capi «ex-equo», indipendentemente dall’attribuzione di qualunque carica formale: a Brancaccio, invero, in epoca coeva all’uccisione di don Pino Puglisi, «non si muoveva foglia senza il consenso dei fratelli Graviano.» Su quel territorio, quindi, dilagava indiscusso e inviolato, il potere di entrambi i fratelli Graviano, indicati unanimemente come i massimi esponenti del mandamento, controllori incontrastati del territorio e di parte dell’apparato militare della mafia, i quali agivano sempre insieme e di concerto tra di loro, anche se formalmente il capo mandamento veniva indicato nella persona di Giuseppe. Sull’omicidio di padre Puglisi la fonte di conoscenza primaria è quasi esclusivamente Grigoli Salvatore, il quale si è autoaccusato di avere personalmente ucciso il sacerdote ed ha indicato gli altri partecipanti alla esecuzione materiale del crimine (Mangano Antonino, Spatuzza Gaspare, Giacalone Luigi e Lo Nigro Cosimo) nonché la causale ed i mandanti, gli odierni imputati Giuseppe e Filippo Graviano. Gli altri collaboratori, non avendo preso parte al delitto, non hanno potuto riferire altro che quello che nell’ambiente era trapelato in ordine al fatto delittuoso. Causale ed autori materiali del crimine erano venuti fuori, tuttavia, prima della cattura e della collaborazione di colui che premette il grilletto della pistola silenziosa e pose fine alla vita di un uomo giusto, attraverso notizie più o meno dirette fornite dagli altri collaboranti. Era conseguenziale, quindi, secondo i criteri ben precisi che regolano il fenomeno omicidiario in «Cosa Nostra», risalire ai mandanti, nelle persone dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, genericamente indicati come «i picciotti», in quanto indiscussi dominatori del quartiere. L’esistenza, la struttura verticistica, l’organizzazione su base territoriale (per famiglie, mandamento, e quant’altro), le principali caratteristiche dell’attività dell’organizzazione criminale denominata «Cosa Nostra» e le modalità di partecipazione alla stessa, da parte dell’uomo d’onore ritualmente «combinato» o di chi abbia posto in essere condotte parimenti indicative di uno stabile vincolo associativo, sono state inconfutabilmente accertate e analiticamente approfondite in diversi processi ormai definiti e principalmente nell’ambito del processo storico così detto «maxi uno». In questa sede, pertanto, non occorre soffermarsi più di tanto su detti argomenti, essendo sufficiente rimandare a quanto è stato affermato nella sentenza resa dalla Suprema Corte all’esito del procedimento penale sopra menzionato, ritualmente acquisita agli atti del processo (Sentenza numero 80 Registro Generale 1992). Piuttosto, per quel che qui maggiormente interessa, va rilevato che, come pure è stato ormai acclarato, il fenomeno omicidiario in «Cosa Nostra» ha delle regole ben determinate, dei moventi ben precisi, e che la stessa struttura dell’organizzazione criminale, articolata per territorio, influenza la scelta delle vittime. Al riguardo, il collaborante Drago Giovanni ha ribadito, nel corso del suo esame, che proprio per la struttura dell’organizzazione mafiosa «cosa nostra», per il modo in cui la stessa è articolata, questo omicidio, l’omicidio di un sacerdote, l’omicidio di così grande levatura, non può che essere avvenuto con l’assenso di coloro che erano i capi storici della famiglia di Brancaccio, cioè a dire dei fratelli Graviano Giuseppe e Graviano Filippo. Anche Brusca Giovanni, il noto collaborante già famigerato capo della famiglia di San Giuseppe Jato, rispondendo ad una precisa domanda del Pubblico Ministero che gli chiedeva se avesse appreso chi erano stati i mandanti dell’uccisione di padre Puglisi, ha affermato testualmente: «......Guardi, come mandanti per me il punto di riferimento è Giuseppe Graviano, come capo mandamento di Brancaccio, all’epoca dell’omicidio” del sacerdote. “Poi lo affiancava, perché si può dire che decidevano quasi tutto assieme, Filippo...”. “Tra i due fratelli non c’era nessun tipo di problema...Filippo come se fosse la stessa persona di Giuseppe ...cioè, come si suol dire, erano la stessa persona”. Questa asserzione sui due Graviano come mandanti dell’uccisione del povero prete dei diseredati si basa non solo su quelle che sono le regole ben precise di «cosa nostra» in ordine agli omicidi, ma risulta altresì provata, manifestamente e pacificamente, grazie ad una miriade di concordanti ed incontrovertibili emergenze processuali. Prima fra tutte le dichiarazioni accusatorie di Grigoli Salvatore, il solo che è in grado di fornirci elementi di conoscenza diretta su chi effettivamente diede l’ordine di uccidere il religioso. E detto collaborante, nel corso del suo primo esame dibattimentale, avvenuto all’udienza del 28 ottobre 1997 tenuta dalla Corte di Assise, a precisa domanda, ha chiarito che Nino Mangano gli disse che «i picciotti» gli «avevano parlato» che si doveva fare questo tipo di delitto, facendo, quindi, esplicito riferimento ai «picciotti», quali mandanti dell’uccisione del prete. E il termine generico «i picciotti» sicuramente ed incontestabilmente si riferisce ai fratelli Graviano Giuseppe e Filippo, odierni imputati. Inoltre, poiché, come ha precisato lo stesso Grigoli, i due fratelli « le decisioni sicuramente le prendevano insieme», nessun ragionevole dubbio può sussistere in ordine alla effettiva e cosciente compartecipazione di entrambi al terribile mandato assassino. Il riferimento generico ai «picciotti», sicuramente individuati nei due fratelli Giuseppe e Filippo, costantemente e unanimemente fatto dai vari collaboranti nelle loro convergenti propalazioni, è più che sufficiente ad assumere la connotazione di elemento individualizzante dei due congiunti. Al riguardo, il Grigoli ha precisato: «Vorrei sottolineare che si intendevano ...i fratelli Graviano i picciotti». «Quando si parlava di picciotti non è che si parlava di altre persone, si parlava dei fratelli Graviano, o i picciotti o madre natura». «...In genere Nino Mangano, dipende cosa mandavano a dire, diceva: i picciotti vogliono che facciamo questa tale cosa. I picciotti vogliono che si fa questo omicidio, e, alcune volte, ci spiegava anche il perché». «Erano tutti e due, in sostanza, a reggerlo anche se si parlava di Giuseppe come capo mandamento. Però c’era riferimento ai picciotti». E’ certo, quindi, che i «picciotti» si identificavano indiscutibilmente nei due fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i quali stavano costantemente insieme e d’accordo reggevano le fila del mandamento di Brancaccio anche nel periodo in cui erano latitanti. Le volontà dei due fratelli nell’ideazione, decisione ed esecuzione dell’omicidio di don Puglisi, quindi, sono state perfettamente convergenti, fino al punto di congiungersi, unificarsi e diventare all’esterno la volontà indistinta dei «picciotti». Invero, il fatto era di tale gravità da richiedere certamente un preventivo accordo decisionale fra i due congiunti: trattandosi di un omicidio eclatante, la determinazione di uccidere non si poteva esaurire nel singolo ma richiedeva necessariamente l’assenso di entrambi i fratelli. La scelta di uccidere un rappresentante del clero locale, divenuto ormai un «personaggio», per il suo impegno antimafia, richiedeva necessariamente un coinvolgimento della volontà di entrambi i fratelli, in quanto l’atto omicidiario, tra l’altro, avrebbe suscitato una enorme indignazione popolare ed avrebbe creato un eccessivo scalpore con evidente danno per quella articolazione locale dell’organizzazione criminale a causa dell’aspra reazione delle forze dell’ordine, così come in effetti poi è avvenuto. Non bisogna dimenticare che la commissione di un omicidio così eclatante in quel particolare momento non fu condiviso da tutti all’interno dell’organizzazione criminale. Lo stesso Bagarella, che non si faceva scrupoli ad uccidere o fare uccidere anche per ragioni molto meno gravi di quelle che costituiscono la causale di questo, ebbe ad avanzare critiche non per l’omicidio in sé, ma per il momento tardivo in cui il crimine era stato commesso, e, cioè, quando padre Puglisi era diventato un «personaggio» e, quindi, la sua uccisione aveva creato enorme scalpore con conseguente danno per l’organizzazione. Del resto, se, come è stato probatoriamente dimostrato, normalmente vi era una gestione familiare dei crimini, se vi era solitamente un accordo fra i due fratelli per la realizzazione delle azioni criminose che in genere venivano poste in essere nell’interesse e per i bisogni, dal punto di vista criminale, della famiglia, non si vede perché debba escludersi che un accordo vi sia stato per l’omicidio del povero prete dei diseredati. Alla luce delle tante prove accumulate nel processo, è da disattendere, pertanto, anche sul piano logico, l’idea che il Filippo potesse avere rispetto al fratello una diversa opinione sul modo di arginare l’attività nociva del sacerdote, l’attivismo del coraggioso prete che osava insidiare addirittura la stessa sopravvivenza e la stabilità criminale dell’intera dinastia mafiosa di consolidate origini e tradizioni. Ed è errato pensare che l’un fratello non sapesse ciò che l’altro stava ordinando, così come non è esatto ipotizzare un eventuale silenzioso disaccordo del Filippo sulla soppressione dell’esponente del clero siciliano. Dal principio, assoluto ed inderogabile, vigente nell’organizzazione criminale «Cosa Nostra», secondo cui nessun omicidio può essere commesso nella zona di influenza di una determinata famiglia, specie se trattasi di «omicidio eccellente», senza il consenso del vertice della famiglia stessa; dalle precise e puntuali dichiarazioni accusatorie di Grigoli Salvatore, che indica genericamente come mandanti dell’uccisione di Padre Puglisi «i picciotti», sicuramente individuati in Giuseppe e Filippo Graviano; dall’acclarato inserimento organico, con posizioni paritarie di preminenza, dei due predetti fratelli, nell’organizzazione criminale denominata «Cosa Nostra»; dalla provata gestione familiare dei crimini in generale e dal dimostrato consueto accordo tra gli stessi fratelli nella ideazione e nella realizzazione delle azioni criminose, è gioco forza affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che vi sia stato un accordo decisionale tra i medesimi anche in ordine alla terribile scelta di sopprimere il povero sacerdote: un uomo giusto ma che, nell’ottica perversa del sistema mafioso costituiva un elemento di disturbo e di sovversione da eliminare. L’assassinio punitivo di don Pino Puglisi, il buon parroco della chiesa di San Gaetano, in quanto momento di ripristino della forza mafiosa nel quartiere di Brancaccio, infatti, costituì la soluzione finale per un problema di coloro che quel territorio controllavano e sul quale dominavano in modo incontrastato. Del resto, l’ascrivibilità del delitto che ci occupa all’organizzazione criminale «Cosa Nostra», nell’articolazione particolare di quella periferia della città, è stata definitivamente accertata nel processo a carico dei correi degli odierni imputati, Mangano Antonino, Spatuzza Gaspare, Giacalone Luigi e Lo Nigro Cosimo, conclusosi con la condanna degli stessi alla pena a vita. Non bisogna dimenticare che l’uccisione di don Pino Puglisi - prete coraggioso che si batteva per gli emarginati, che dava accoglienza alle famiglie dei detenuti e sfamava i diseredati e che stava attuando il progetto di liberare le forze sane della società civile dal potere mafioso e di portare avanti un processo di avanzamento del fronte della legalità - rispondeva alle necessità funzionali della famiglia del quartiere ed era finalizzato ad affermare e consolidare l’egemonia mafiosa del gruppo criminale emergente che dominava nel territorio e che vedeva quali capi incontrastati, nei primi anni novanta, proprio Giuseppe e Filippo Graviano, unanimemente considerati come i massimi esponenti del mandamento, con un ruolo paritario, senza che l’uno primeggiasse o fosse più o meno capace dell’altro ad attuare il dominio territoriale nella zona, dove indiscusso ed inviolato dilagava di fatto il loro potere. E non bisogna neppure dimenticare che l’uccisione di don Pino, come esattamente osservato dai giudici del primo grado di giudizio, si inquadrava in una strategia di livello criminale nazionale, consistente, tra l’altro, anche nell’aggressione sferrata dalla mafia alla Chiesa come Istituzione, strategia che i due Graviano ebbero a condividere pienamente, come risulta dagli accertamenti investigativi all’uopo espletati e dalle conseguenti iniziative giudiziarie. Ebbene, se i fratelli Graviano di fatto erano i capi incontrastati della famiglia criminale di Brancaccio e se gli stessi condivisero una strategia stragista di respiro nazionale che prevedeva tra gli atti eclatanti anche l’assassinio terroristico del parroco di Brancaccio, non ha ragione di esistere il dubbio, esternato dai primi giudici nell’impugnata sentenza, che Filippo avrebbe potuto non sapere. Conseguentemente, l’affermazione della Corte di Assise, secondo cui “non può neppure escludersi che il Filippo potesse avere rispetto al fratello una diversa opinione sul modo di arginare l’attività nociva del sacerdote”, alla luce di quelle che sono le precise risultanze processuali, non ha una compiuta e raziocinante ragione di esistere e va del tutto disattesa. Del pari disattesa va la prospettazione difensiva di “un potere contrapposto” a quello dei Graviano, nel quartiere di Brancaccio, in epoca coeva all’uccisione di don Pino Puglisi; di “frange indipendenti ed autonome, di tresche e clandestinizzazioni (gruppi di fuoco autonomi) determinanti una situazione assolutamente ambigua ed indecifrabile tale da non consentire la imputabilità certa” dei Graviano medesimi. Come già detto, infatti, la posizione preminente in seno a quel territorio, da liberi ma pur durante la latitanza e successivamente anche dal carcere, era di entrambi i predetti due congiunti, quali incontrastati capi di quell’assetto mafioso. E, proprio in forza di tale potere i fratelli Graviano hanno assunto l’iniziativa e si sono determinati a togliere la vita al coraggioso sacerdote in assoluta autonomia decisionale ed indipendenza e nel pieno rispetto del dogma della onnipotenza di «Cosa Nostra». Anche l’altro assunto difensivo, poi, secondo cui l’assassinio di padre Puglisi “ha rappresentato la mossa giusta al momento giusto perché potessero uscire definitivamente di scena” i fratelli Graviano, “secondo un piano a tal punto ben preordinato da terzi”, si basa non già su elementi probatori acquisiti agli atti del processo sibbene su mere congetture e su pure illazioni. Pertanto, l’ipotesi adombrata dalla Difesa di “una sorta di sovrapposizione di poteri e di tradimenti”, in seno al mandamento di Brancaccio, “in coincidenza temporale con la rilevata assenza dei Graviano da quel territorio”, con conseguente “addirittura isolati exploit da parte di frange indipendentiste che perseguivano interessi e vendette personali”, estranei agli interessi di «Cosa Nostra», non trova fondamento alcuno nelle emergenze processuali, ma anzi è in netto e palese contrasto con le risultanze medesime. Contrariamente a quanto dedotto dalla Difesa, invero, il parroco della Chiesa di San Gaetano in Brancaccio, i cui sermoni non risparmiavano veementi attacchi ad ogni forma di sopruso e di sopraffazione, rappresentava un elemento di turbamento ed un pericolo per l’ordine mafioso costituito in quel territorio. Da qui un interesse reale alla sua eliminazione da parte di coloro che l’egemonia mafiosa detenevano: si trattava, infatti, di riscattare attraverso l’omicidio una immagine di leaders calpestata.

La "religiosità" dei Graviano. La Repubblica il 14 settembre 2020. La Difesa ha sostenuto nei motivi di gravame che i fratelli Graviano non avrebbero potuto ordinare un omicidio così eclatante, in quanto per loro sarebbe stato del tutto controproducente, avendo gli stessi tutto l’interesse al mantenimento dello “status quo”. Si assume, al riguardo, che l’uccisione di “un sacerdote che godeva di una certa considerazione” non poteva considerarsi una “eliminazione di routine” ma doveva “ritenersi un omicidio eccellente”, con la conseguente previsione che avrebbe concentrato su quel territorio l’attenzione delle forze investigative: “eliminare padre Puglisi significava soltanto sovraesporre il territorio, quel territorio ed in particolare chi lo reggeva”. Non a caso, aggiunge sempre la Difesa, la cattura dei fratelli Graviano “prende le mosse proprio dalla concentrazione di forze in quel territorio e dalla attenzione che viene loro rivolta come possibili mandanti”. Detto argomento difensivo, a parere della Corte, si appalesa del tutto incongruo e comunque tale da non scalfire neppure minimamente quello che è il pregnante quadro accusatorio nei confronti degli odierni appellanti. Ed invero, anche le terribili stragi del 1992, in cui tragicamente hanno perso la vita i giudici Falcone e Borsellino e le persone a loro vicine o che con loro si trovavano, era prevedibile che avrebbero provocato gravi reazioni sul piano investigativo e giudiziario contro l’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, così come in effetti è avvenuto, e nonostante ciò gli autori efferati delle stesse non hanno desistito per nulla dal loro vile proposito criminoso. Non bisogna dimenticare, poi, che il grave episodio criminoso che ci occupa non può essere esaminato prescindendo dal considerare il contesto mafioso in cui è maturato ed è stato portato a compimento e l’ondata di violenza scatenata dall’organizzazione criminale “Cosa Nostra” a livello nazionale in cui è inserito. Nell’anno 1992, infatti, si era assistito ad una intensa stagione di delitti, culminata con le ricordate stragi Falcone e Borsellino, nonché con altri omicidi eccellenti, quali quelli dell’onorevole Salvo Lima e del finanziere Ignazio Salvo. E l’ondata di violenza non era destinata certo ad esaurirsi con detti delitti, poiché era stata scatenata, al contempo, una campagna terroristica da parte dei vertici di alcuni gruppi criminali mafiosi sfociata nei noti attentati del 1993 presso le città di Firenze, Roma e Milano, nella prospettiva di realizzare un clima di destabilizzazione mediante stragi e atti di terrorismo, finalizzati ad instaurare nuove relazioni esterne con settori del mondo politico, al fine di ristabilire la forza e l’impunità dell’organizzazione mafiosa. Sempre nell’anno 1993 veniva sferrato un vile attacco ai pentiti con il gesto terribile ed eclatante del rapimento del giovane figlio del collaborante Di Matteo Mario Santo, successivamente barbaramente strangolato e disciolto nell’acido, mentre l’aggressione alla Chiesa, come Istituzione, veniva espressa con l’uccisione di Don Pino Puglisi, prete coraggioso che si batteva per gli emarginati fra i quali la mafia arruola le sue reclute, un prete il cui impegno non si era limitato alla testimonianza della fede ma si era esteso all’attuazione di progetti rivolti ad aiutare i ceti più umili, nel tentativo di avviare nel tessuto sociale sfiduciato del quartiere di Brancaccio un processo reale di rigenerazione collettiva e di riscatto dal clima di intimidazione e di violenza mafiosa. Ebbene, la verifica giudiziale delle prove raccolte ed acquisite agli atti del processo, utilizzate per la ricostruzione della efferata vicenda omicidiaria in esame e per l’affermazione della responsabilità degli scellerati autori della stessa, consente di affermare, con certezza, che i fratelli Graviano ebbero a condividere in pieno la così detta “strategia stragista continentale” voluta da Totò Riina e da loro espressa attraverso la distruzione di edifici sacri, di monumenti e di bellezze artistiche e culminata con l’uccisione dell’esponente di punta del clero siciliano. La Difesa, nei motivi a sostegno del proposto appello, ha dedotto, tra l’altro, che i giudici di prime cure avevano del tutto ignorato un dato comportamentale dei fratelli Graviano, di particolare pregnanza, e cioè che gli stessi, come già riferito da un cameriere del ristorante “Il Cacciatore” di Milano al Capitano dei Carabinieri Brancadoro, “facevano il segno della croce mettendosi a tavola”. Dunque, secondo la difesa, “un significativo genuino profilo di religiosità”, questo, “oggetto di ripetuta attenzione in circostanze sicuramente non sospette”. “Significativo”, dal momento che si tratterebbe di “manifestazioni di cristianità assolutamente estranee alla esperienza della maggior parte dei praticanti, a maggior ragione ove si consideri che tali manifestazioni di fede sarebbero intervenute in locali pubblici, in presenza di ben altre attenzioni, sollecitazioni e, perché no, di quei ricorrenti condizionamenti che fanno capo al così detto rispetto umano”. “Una così manifesta, spontanea sensibilità”, sempre secondo quanto sostenuto dalla Difesa, “non appare in alcun modo conciliabile con la truce aggressione di un messaggero di Cristo”. Ebbene, a parere della Corte, l’asserito profilo di religiosità, pubblicamente esternato dai fratelli Graviano ed oggetto di attenzione da parte di taluni soggetti, non può considerarsi una spontanea e genuina manifestazione di cristianità. Ed invero, anche a prescindere dal fondato sospetto che un tale comportamento possa essere stato preordinato per “future significazioni defensionali”, e, quindi, essere falso e strumentale, è inverosimile immaginare che lo stesso, in quanto posto in essere da due soggetti mafiosi come i fratelli Graviano, appartenenti ad una temibile famigerata organizzazione criminale, già condannati per innumerevoli gravissimi delitti di mafia, sia manifestazione spontanea e sincera di fede cristiana. E’ difficile credere che due persone che hanno ammazzato o comandato di ammazzare per conquistare potere e denaro siano talmente presi dal rispetto umano e così carichi di senso cristiano da rivolgersi anche in pubblico e sinceramente a Dio come fonte di verità per ringraziarlo e lasciarsi guidare da Lui. Il vero si è che bisogna riconoscere che qualcosa di ambiguo c’è in questa presunta religiosità dei mafiosi. E l’ambiguità diventa contraddizione ove si esaminano attentamente alcune manifestazioni religiose dei mafiosi stessi. Bisogna ammettere, allora, che l’Essere Supremo in cui i veri cristiani credono non sia lo stesso di quello in cui crede un mafioso: se le parole e certi atteggiamenti esteriori sono simili, infatti, diversi sono i contenuti della fede e le scelte esistenziali. Si è molto discusso ultimamente sulla così detta religiosità dei mafiosi, specie a seguito della cattura di noti esponenti di spicco dell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”. Che molti di questi ultimi abbiano una religiosità è indubbio, perché una religiosità mafiosa si coglie da tanti segnali: bisogna chiedersi, però, che tipo di religiosità sia e che tipo di rapporto abbia con quella cristiana. Or bene, quella dei mafiosi non è e non può essere una religiosità cristiana, sibbene una religiosità senza Dio. E’ una religiosità senza Vangelo, perché il Vangelo di Gesù è quello delle beatificazioni, è il Vangelo che proclama beati i poveri, i non violenti, i costruttori di pace, i perseguitati, coloro che cercano la giustizia e sono capaci di misericordia coloro che sono pronti a sacrificarsi per difendere la dignità degli uomini, come il buon povero Padre Puglisi, il cui martirio è il prezzo della fedeltà a Cristo in ogni tempo. Secondo il Vangelo non si uccide, tanto meno un “messaggero” di Cristo: Gesù ha fatto del bene a tutti ed è morto ammazzato sulla croce come supremo atto di amore verso l’umanità intera. Che cosa c’è, allora, della fede cristiana in questa asserita religiosità dei mafiosi? Nulla! Se guardiamo alle innumerevoli e sanguinarie azioni delittuose dei mafiosi, infatti, nella loro religiosità di cristianesimo non c’è proprio nulla. Un vero cristiano, quando sbaglia sa di commettere peccato e chiede perdono a Dio. Non pare che in questa religiosità mafiosa ci sia il senso del peccato e quindi il bisogno di conversione. Solo in rarissimi casi di vero pentitismo, è riemerso nell’ex mafioso un senso più autentico di religiosità, forse legato al ritorno della religiosità di quando era fanciullo, ed è affiorata l’anima cristiana unitamente ai valori etici del giusto e dell’onesto. In realtà, i simboli e certi atteggiamenti esteriori dei mafiosi sono mutuati dalla religione cristiana: vi è, tuttavia, un profondo abisso tra l’invocazione religiosa che fanno questi soggetti, consolatoria ed autogiustificante, e la coerenza evangelica della loro esistenza e del loro quotidiano agire. Il comportamento individuale e sociale dei mafiosi non ha nulla a che fare con la morale evangelica, perché non è conseguenza di un rapporto con Dio, e, quindi, genuino profilo di cristianità siamo, invece, come è stato acutamente osservato, all’interno di una “visione magica” che tende ad usare la religione per la realizzazione dei propri progetti illeciti, piuttosto che per mettersi alla sequela di Gesù Cristo, che tutto vede e tutto ascolta, e lasciarsi guidare da Lui. Si tratta, quindi, di una religiosità alquanto ambigua, certamente distorta, comunque vuota di contenuti; di una “religiosità senza Dio”, di un “ateismo religioso”, come pure è stato detto. Come tale, del tutto estraneo al vero cristianesimo e, conseguentemente, ben compatibile “con la truce aggressione in danno di un messaggero di Cristo”. In quest’ottica, l’assunto difensivo appare del tutto privo di pregio: non rimane che la speranza e l’augurio che questi soggetti abbandonino le opere peccaminose e nefaste dell’organizzazione criminale, che tanti lutti e tanto terrore hanno seminato e che hanno distrutto le loro stesse famiglie oltre che notevolmente turbato la serena convivenza civile e sociale nella nostra terra di Sicilia. Che si ricordino di Padre Pino Puglisi, non solo per la sua morte crudele per mano della mafia ma soprattutto per la profondità e la ricchezza del cammino interiore di fede che a quella morte lo ha condotto. Che guardino a questo martire per la giustizia, per la carità, per la fedeltà al suo ministero, come vero modello di cristiano, per lasciarsi contestare e contagiare dalla sua vita e dalla sua morte e per riporre fedeltà al Vangelo e ai Poveri senza compromessi ed ambiguità.

Don Pino che andava incontro alla morte. La Repubblica il 15 settembre 2020. Gli elementi probatori acquisiti nel corso di una lunga ed accurata istruzione dibattimentale, siano essi costituiti da attività di investigazione tradizionale che da convergenti, molteplici e significative propalazioni dei singoli collaboratori, consentono di confermare il giudizio relativo alla penale responsabilità dei tre imputati in ordine al reato associativo nelle forme e con le aggravanti di cui alla impugnata sentenza. Non vi è dubbio alcuno, infatti, che, come già detto, entrambi i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, pur durante la latitanza e successivamente anche dal carcere, fossero, tradizionalmente e stabilmente inseriti nell’organizzazione criminale «Cosa Nostra», ed in particolare in quella articolazione locale operante nel famigerato quartiere di Brancaccio, con posizione preminente di organizzazione e di direzione di quell’assetto mafioso. Dalle dichiarazioni convergenti dei collaboratori di giustizia, che hanno trovato pieno riscontro negli accertamenti investigativi, poi, risulta acclarata l’esistenza, in seno a detta organizzazione mafiosa, di una formazione militare costituita da un gruppo di uomini ferocissimi, con a disposizione armi potentissime, pronti a commettere qualsiasi tipo di crimine, e con una sede come base operativa per torture, scomparse ed assassini, la così detta «camera della morte». Ebbene, i fratelli Graviano, in quanto dominatori incontrastati del quartiere, si avvalevano della forza di intimidazione insita nel vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere i più svariati reati connotati dal comune denominatore di procacciare entrate finanziarie e mantenere saldo il predominio nel quartiere; per acquisire, in modo diretto o indiretto, la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici in genere; per realizzare profitti ingiusti; per impedire od ostacolare il libero esercizio del diritto di voto e per procurare voti a determinate persone in occasione di consultazioni elettorali. Le molteplici attività delinquenziali svolte anche con uso delle armi nell’interesse del sodalizio dai membri e dagli affiliati, pur sotto la direzione ed il controllo dei sopra menzionati due congiunti, ampiamente e con dovizia di particolari descritte dai collaboratori di giustizia, danno contezza dei metodi propri di «Cosa Nostra», secondo la descrizione del reato associativo di stampo mafioso operata dall’articolo 416 bis del Codice Penale, usati dalla famiglia mafiosa di Brancaccio, disturbata dall’opera incessante di lotta verbale e attivamente fattiva di padre Puglisi, volta ad affrancare quel quartiere dallo stato di soggezione e di degrado. In altra parte della presente sentenza è stata ricostruita la figura specifica dei due congiunti, specie con riguardo al loro paritario ruolo direttivo ed organizzativo all’interno della compagine mafiosa in cui sono stati inseriti, a prescindere dall’attribuzione di qualsiasi qualifica o carica formale di capo-mandamento o capo-famiglia. Entrambi i fratelli, infatti, sono stati univocamente indicati, quali dominatori incontrastati dell’aggregato criminale di Brancaccio, non soltanto da parte di tutti i collaboranti ascoltati ma anche da parte degli investigatori che hanno condotto in quello scacchiere mafioso accurate ed approfondite indagini all’indomani dell’uccisione di don Pino Puglisi. Giuseppe Graviano, libero e non ancora latitante, capeggiava il «gruppo di fuoco», composto da ferocissimi killer e creato per la commissione dei più svariati reati finalizzati a procacciare entrate finanziarie e mantenere saldo il predominio nel quartiere. Filippo Graviano aveva anch’egli un ruolo preminente nel sodalizio mafioso, pur svolgendo prevalentemente, ma non esclusivamente, mansioni più strettamente inerenti alla gestione finanziaria delle varie attività delinquenziali della famiglia. Il suo ruolo dirigenziale è tanto importante al punto che gli affiliati non sono in grado di distinguere la posizione dell’uno e dell’altro ed enunciano una sorta di comunanza indistinta di ruoli, sia in virtù del rapporto di fratellanza che lega i due, sia soprattutto a causa della consapevolezza che la volontà dell’uno possa non coincidere con quella dell’altro. Per cui, è la volontà indistinta dei «picciotti» che ogni volta viene manifestata esteriormente per la realizzazione degli intenti criminosi dei due fratelli. Da tutti gli elementi di prova versati in atti, poi, risulta, in maniera incontrovertibile, che i due congiunti più volte sopra menzionati, pur durante la loro detenzione e pur sottoposti al regime carcerario di cui all’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, non hanno per nulla reciso i collegamenti con l’organizzazione criminale «Cosa Nostra», e, in particolare, con quella articolazione locale operante nel quartiere di Brancaccio da loro reso famigerato. Anche dopo la loro cattura, infatti, i due fratelli continuavano a trasmettere ordini dal carcere e ad impartire precise disposizioni relative alla gestione familiare delle azioni criminose, che venivano puntualmente eseguiti dal loro «alter ego» e luogotenente sul campo Mangano Antonino. Ed invero, come già detto in altra parte della sentenza, a seguito della cattura di Bagarella Leoluca, è stata rinvenuta nell’abitazione del Mangano una copiosa corrispondenza epistolare tra quest’ultimo e Graviano Giuseppe, nella quale si parla, tra l’altro, di attività illecite compiute nell’interesse e per le esigenze dell’organizzazione criminale del mandamento di Brancaccio, con espliciti riferimenti anche a nomi e pseudonimi di soggetti inseriti o vicini alla organizzazione medesima. Alla stregua delle considerazioni sopra esposte, dunque, l’assunto difensivo, sostenuto nei motivi dedotti a sostegno del proposto gravame, secondo cui Graviano Filippo, relativamente al reato associativo, dovrebbe essere «mandato esente da responsabilità», quanto meno in ordine alle circostanze aggravanti contestatigli al riguardo, va disatteso perché del tutto privo di fondamento logico giuridico. L’appello concernente il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, pertanto, va disatteso e l’impugnata sentenza confermata sul punto. Del pari confermata va la sentenza emessa dalla Corte di Assise di primo grado in ordine alla ritenuta responsabilità di Graviano Giuseppe per il delitto di violenza privata aggravata, mentre nei confronti di Filippo Graviano va affermata la pena responsabilità anche relativamente a detto delitto. Ed invero, tra le molteplici gravissime attività delinquenziali poste in essere dagli affiliati alla cosca mafiosa capeggiata incontrastatamente dai due congiunti sopra menzionati, sempre sotto la direzione ed il controllo degli stessi, bisogna pur annoverare le violenze e le minacce, esercitate anche attraverso l’uso di attentati incendiari, per costringere i componenti del Comitato Intercondominiale di Via Azolino Hazon, nelle persone di Martinez Giuseppe, Guida Giuseppe e Romano Mario, a desistere dalla loro attività di impegno politico e sociale, portata avanti instancabilmente con l’aiuto, non soltanto spirituale ma anche economico, del povero parroco della chiesa di San Gaetano. Anche tali attentati, infatti, secondo quanto riferito soprattutto dal Grigoli, rientravano nella strategia volta a scoraggiare padre Puglisi ed i suoi più stretti collaboratori dall’intraprendere iniziative ritenute pregiudizievoli per la famiglia di Brancaccio secondo la perversa logica mafiosa. Per quanto concerne il delitto di omicidio in danno del povero padre Puglisi ed il connesso reato in armi, l’impugnata sentenza va parzialmente riformata nella parte concernente l’assoluzione da detti reati dell’imputato Graviano Filippo, ferma restando la penale responsabilità al riguardo affermata dai giudici del primo grado di giudizio sia nei confronti del Graviano Giuseppe che nei riguardi di Grigoli Salvatore. Ed invero, come già ampiamente detto prima, da una attenta ed accurata disamina di tutte le emergenze processuali, siano esse costituite da propalazioni dei singoli collaboratori - primo fra tutti Grigoli Salvatore, autoaccusatosi di avere personalmente ucciso il sacerdote - che da attività di investigazione tradizionale, è dato affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’omicidio di padre Giuseppe Puglisi rispondeva ad una concreta esigenza, dal punto di vista criminale, della famiglia mafiosa di Brancaccio, capeggiata, all’epoca dei fatti, dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, entrambi latitanti, indiscussi dominatori del quartiere, i quali hanno ideato e deciso insieme il crimine, trasmettendo il relativo «comando di uccidere» a Mangano Antonino, loro stretto collaboratore e luogotenente, che dirigeva sul campo l’attività operativa del sodalizio. Non vi è dubbio alcuno, infatti, che, come già pure detto, la posizione preminente in seno al sodalizio criminoso operante nel quartiere di Brancaccio, pur durante la latitanza e successivamente anche dal carcere, era di entrambi i fratelli, Giuseppe e Filippo Graviano, i quali di fatto svolgevano insieme, in posizione paritaria ed in maniera incontrastata, funzioni di organizzazione e di direzione di quell’assetto mafioso. Pertanto, l’interesse alla eliminazione di quel prete tanto scomodo quanto coraggioso e battagliero coinvolgeva tutti e due i fratelli e non soltanto Giuseppe, come inopinatamente ritenuto dai primi giudici, stante la evidente utilità per entrambi a far tacere un esponente del clero siciliano, impegnato da anni nel sociale, pronto a combattere ogni forma di sopruso e di prevaricazione, e, conseguentemente, l’utilità al consolidamento del sistema di potere criminale e di terrore in un quartiere degradato ed emarginato, fortemente intessuto di complicità, silenzi ed omertà. Ed invero, padre Giuseppe Puglisi era considerato un esponente di punta del clero locale, in quanto aveva trasformato la sua parrocchia in una prima linea nella lotta al potere mafioso imperante nel quartiere di Brancaccio, educando i giovani e le famiglie ad un quotidiano impegno sul territorio, valorizzando gli spazi di aggregazione e moltiplicando le occasioni d’incontro con la gente della borgata. Per questo era un uomo pericoloso, perché capovolgeva le regole atavicamente accertate e indiscusse ed insidiava il controllo delle persone e del territorio su cui si basa il potere mafioso. Per tale ragione i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, incontrastati capi di quell’assetto criminale - ed il loro luogotenente Mangano Antonino, che dopo l’arresto dei due congiunti aveva preso il loro posto - avevano tutto l’interesse, manifestato in più occasioni, di mettere a tacere per sempre una persona giudicata «scomoda», secondo la perversa logica mafiosa, in quanto con il suo attivismo contrastava il perseguimento dei loro sporchi scopi delittuosi per approdare ad una comunità civile la quale si facesse artefice di un processo di liberazione spirituale e sociale. Alla luce di tali considerazioni è da escludere l’idea che il Filippo potesse avere rispetto al fratello una diversa opinione sul modo di arginare l’attività antimafia del sacerdote. Tanto basta, sicuramente, in ossequio ai principi inderogabili vigenti nell’organizzazione criminale «Cosa Nostra», per affermare, con assoluta certezza, il coinvolgimento, quali mandanti, di tutti e due i mafiosi più volte sopra citati in ordine all’uccisione di Padre Puglisi, come reclamato a viva voce dal Procuratore della Repubblica e dal Procuratore Generale, sul rilievo fondamentale che l’eliminazione del sacerdote rispondeva all’esigenza di sopravvivenza della stabilità criminale della famiglia di Brancaccio, i cui capi, all’epoca, erano, di fatto, appunto Giuseppe e Filippo Graviano, indiscussi dominatori di quello scacchiere mafioso. Trattandosi di episodio maturato in un contesto mafioso, invero, vige la rigorosa regola comportamentale che nessun omicidio può essere commesso nella zona di influenza di una determinata famiglia senza la decisione o, quanto meno, senza il consenso del vertice della famiglia stessa. A tale principio, che, si badi bene, nel sistema dell’organizzazione mafiosa ha un valore assoluto ed inderogabile, specie se trattasi di un «omicidio eccellente», nel caso di specie, si aggiungono le precise ed articolate dichiarazioni del collaborante Grigoli Salvatore - il carnefice di don Pino, colui che ha premuto il grilletto dell’arma che ha ucciso un uomo giusto - le quali indicano, in maniera puntuale, nei «picciotti», sicuramente individuati nei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, le persone dalle quali è partito l’ordine scellerato di uccidere il coraggioso sacerdote, trasmesso all’intermediario che si è incaricato dell’organizzazione e della coordinazione della squadra esecutiva. E, si è visto come dette propalazioni siano assistite da elevata attendibilità intrinseca ed estrinseca secondo i criteri direttivi di disamina affermati dalla Suprema Corte: sotto il profilo «intrinseco», per la coerenza e la costanza del racconto, sotto il profilo «estrinseco», perché riscontrate da numerosi elementi esterni, quali le modalità del fatto, gli accertamenti di polizia giudiziaria e le dichiarazioni convergenti di molti altri collaboranti. Le volontà dei due fratelli nella ideazione e decisione dell’efferato crimine, come pure già detto prima, non possono essere state che «convergenti» sino al punto di unificarsi: ed invero, l’uccisione di un esponente di punta del clero isolano, divenuto ormai un «personaggio» per il suo instancabile, quotidiano ed incisivo impegno antimafia sul territorio, nel tentativo di attuare un processo di rigenerazione del tessuto sociale, per troppo tempo assoggettato alla signoria mafiosa, era un fatto così eclatante e di tale gravità da richiedere un accordo decisionale tra i vertici di quella famiglia mafiosa della periferia della città di Palermo, che, all’epoca, incontestabilmente ed incontrastatamente, si identificavano appunto nei due fratelli Graviano. La determinazione di uccidere un esponente di punta del clero siciliano, invero, era un fatto così eclatante ed inaudito che non si poteva esaurire nel singolo, ma che richiedeva necessariamente l’assenso di entrambi i fratelli stante la loro incontrastata «leadership». Don Giuseppe Puglisi sapeva di andare incontro alla morte, ma trovò il coraggio di andare avanti nella sua missione, tra minacce e intimidazioni, ed era disposto anche al sacrificio della vita pur di raggiungere il suo scopo: lo rivelano i suoi discorsi e le sue omelie domenicali, lo ricordano i suoi amici più fidati ed i suoi più stretti collaboratori. La consapevolezza del suo martirio si coglie nelle parole del suo killer, reo confesso. Grigoli Salvatore, infatti, racconta di essere rimasto colpito, quella sera del 15 settembre 1993, dal sorriso sul volto della sua vittima, che accolse quel proiettile nella nuca con un inequivocabile «me l’aspettavo». I suoi collaboratori ricordano di averlo avvertito più volte di fare attenzione, di non «pestare troppo i piedi» alla temibile e famigerata cosca mafiosa di quella borgata. Ma lui, spirito indomito e caparbio, rispondeva sempre: «il massimo che possono fare è ammazzarmi. E allora? Io non posso tacere.» Come se la morte non gli facesse paura, neppure quando gli attentati intimidatori si ripeterono a catena contro di lui e contro i suoi amici e sostenitori: porte di casa bruciate ai volontari, aggressioni per strada e minacce varie. Don Puglisi stesso si trovò le ruote dell’auto tagliate e un labbro spaccato: ma lui sdrammatizzava sempre e continuava a fare il proprio dovere, mettendo sempre al primo posto evangelizzazione e promozione sociale. Negli ultimi tempi, però, questo prete che quotidianamente stava con gli ultimi anche «al di fuori dell’ombra del campanile» della sua parrocchia e che chiamava Cristo «Paparino», questo sacerdote che si opponeva sempre ad ogni forma di intimidazione e di sopruso, tant’è che veniva definito dalla stampa «prete antimafia», impediva agli amici e ai suoi collaboratori di andarlo a trovare nelle ore serali e sovente soffermava le sue riflessioni spirituali sul tema della morte, nella consapevolezza, forse, del suo martirio annunciato. Tanti episodi fanno pensare, infatti, a un don Pino consapevole di andare incontro a morte violenta, dalla battuta al medico che si occupava di autopsie («quando toccherà a me stammi vicino»), alla fretta che gli faceva per battezzare il figlio («non ci rimane più molto tempo»), alla risposta data alle preoccupazioni della suora che lo assisteva «non ho paura di morire, se quel che dico è la verità». E fu ucciso dai mafiosi la sera del 15 settembre 1993. Il riconoscimento del martirio da parte della Chiesa, quindi, non potrebbe essere altro che un suggellare ciò che di fatto già viene riconosciuto.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte di Diabolik.

Decriptati i cellulari di Diabolik. E spunta la pista estera. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 13/11/2020. Li ha «aperti» una ditta tedesca, mentre la polizia francese ha segnalato contatti con un albanese. Indagini anche all’estero. Non c’è la droga, non da sola almeno, dietro l’omicidio di Fabrizio Piscitelli Diabolik. È la convinzione sulla quale hanno virato le indagini del pm Nadia Plastina, che per risolvere il giallo del 7 agosto 2019 si avvale da qualche settimana di due armi in più: la collaborazione della polizia francese e l’apertura degli iper protetti telefoni del narcotrafficante-capo ultrà, affidati a una ditta in Germania. La prima possibile svolta arriva da una segnalazione delle autorità giudiziarie francesi, che nel corso di una loro indagine si sono imbattuti nei telefoni di un albanese già noto anche alla Procura capitolina. In alcune chat l’uomo fa riferimento all’ex leader degli Irriducibili e ai suoi affari. Il contenuto di questi messaggi non è ancora materialmente nelle mani degli inquirenti italiani ma viene ritenuto di grande interesse. L’altra novità nelle indagini era invece in qualche modo attesa anche se non scontata. I tre telefoni di Piscitelli, resi finora inespugnabili dalle protezioni installate da Alessandro Telich Tavoletta, l’informatico che a nome di Diabolik e del suo socio e amico Fabrizio Fabietti si occupava della protezione dati relativi agli affari di droga, hanno cominciato a «parlare». L’apertura dei dispositivi si deve a una ditta di Monaco di Baviera all’avanguardia in questo tipo di operazioni (la stessa intervenuta sui telefoni di Carlo Russo, l’imprenditore amico di Tiziano Renzi, coinvolto nel caso Consip). La mole di materiale estratto è ora all’esame dei finanzieri del Gico. «Stabilmente inserito nel mondo della criminalità organizzata», come viene descritto in una delle ordinanze che hanno smantellato gli affari della sua banda (53 imputati sono a processo per reati che includono estorsione, riciclaggio, usura), Fabrizio Piscitelli è ritenuto il capo di una associazione mafiosa. Ma se finora l’ascesa dalla curva laziale ai rapporti con i maggiori clan della Capitale sembrava circoscritta al traffico di droga (come confermato dal nuovo arresto di Fabietti assieme al gruppo criminale guidato dall’ex della banda della Magliana, Roberto Fittirillo) nessuna ipotesi su debiti e dissidi in questo ambito ha trovato riscontri. Altre potrebbero essere le motivazioni del delitto. Diabolik, è l’ipotesi investigativa, avrebbe giocato su troppi tavoli assieme, attirandosi accuse di tradimento e sospetti di comportamenti non in linea con il codice criminale. Fino a determinarne l’eliminazione in «un attentato di chiara matrice mafiosa».

Ultras Lazio, la sede di Diabolik sarà sgomberata, il cerchio sulla morte si stringe. La sindaca di Roma Virginia Raggi vuole liberare i locali Inail occupati in via Amulio, mentre il Questore emette 44 Daspo e la sorella di Fabrizio Piscitelli viene indagata per corruzione in una inchiesta su presunti favori agli Irriducibili detenuti. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 18 settembre 2020. Una sequenza apparentemente scollegata di fatti ha attraversato nelle ultime ore mondi e vicende connesse alla morte di Fabrizio Piscitelli, Diabolik, il leader degli Irriducibili freddato con un colpo di pistola nell’agosto dello scorso anno in via Lemonia, nel Parco degli Acquedotti a Roma. Cioè a pochi centinaia di metri dalla sede del Municipio Roma VII, dove giovedì la presidente Monica Lozzi, da poco passata dal Movimento Cinque Stelle ad Exit Italia di Gianluca Paragone, dando indicazione di astensione alla sua maggioranza, ha bocciato l’approvazione di una delibera di sgombero dei locali Inail occupati dagli Ultras Lazio in Via Amulio, 47 promossa dalla consigliera del Partito Democratico Francesca Biondo. Una delibera che chiedeva al Municipio di attivarsi presso le istituzioni competenti (Comune e Questura) per mettere fine ad una decennale occupazione di quei locali che furono ceduti da Forza Nuova a Piscitelli, locali che come già raccontato nelle nostre inchieste sono stati addirittura cancellati dalle planimetrie. Tuttavia, per il capogruppo del Movimento Cinque Stelle in consiglio municipale Andrea Guido Roy, «questo gruppo non produce problemi di legalità sul nostro territorio, che non si può certo dire che sia attraversato dalla violenza». E pazienza per la bomba carta esplosa in piena notte oltre un anno fa davanti alla sede, i numerosi episodi di violenza squadrista, le affissioni abusive partite neanche un mese fa e l’omicidio dello stesso Piscitelli avvenuto nel tardo pomeriggio in un parco pubblico dello stesso territorio. «Per i Cinque Stelle del Municipio l’atto non meritava di essere votato perché “ideologico” - ha dichiarato Francesca Biondo, che ha poi sottolineato che «non hanno detto una parola sul traffico di stupefacenti e il danno continuo per i residenti che fanno la gincana tra intimidazioni e occupazione di tutta la via fino a tarda notte».  Mentre Roy e la presidente Monica Lozzi mitizzavano, il Questore di Roma Carmine Esposito emetteva 44 provvedimenti di Daspo nei confronti di altrettanti appartenenti degli Irriducibili che scontano misure cautelari legate all’operazione “Grande Raccordo Criminale” che nel novembre 2019 aveva di fatto smantellato, grazie alle indagini del Gico della Guardia di Finanza di Roma, l’organizzazione criminale di Fabrizio Piscitelli e Fabrizio Fabietti che saldandosi avevano unito le piazze di spaccio di Tor Bella Monaca e di Roma Nord. I Daspo, definiti «fuori contesto» poiché riferibili ad azioni che scaturiscono da episodi avvenuti fuori dallo stadio, sono l’ultima dimostrazione che gli Irriducibili ieri e gli Ultras Lazio oggi agiscono da canale di confluenza di molteplici interessi illeciti, avendo una struttura di tipo organizzativo al loro interno che coniuga diversi interessi ma un unico scopo: fare soldi. Dopo l'astensione maturata in VII Municipio e l’emissione dei Daspo è intervenuta la sindaca di Roma, Virginia Raggi, che chiederà all'Inail, proprietaria dello stabile, e alle forze dell’ordine di procedere alla liberazione dei locali, colmando così un vuoto politico che rischiava di far diventare il voto municipale una “Caporetto” della legalità. Secondo quanto si apprende da fonti del Campidoglio, la mozione gemella che richiede lo sgombero promossa dal consigliere dem Giovanni Zannola in Assemblea Capitolina sarà votata i primi giorni di ottobre, dopo l’assestamento di bilancio. Vista la diversa complessità dell’operazione di sgombero di Casa Pound, il tutto dovrebbe essere concluso entro la fine dell’anno. Ma i guai per gli Ultras Lazio non finiscono qua perché, nonostante il cambio di nome, il gruppo sta perdendo l’antica egemonia del muretto della Curva Nord. Sono sempre di più i tifosi che si dissociano dal modus operandi e dall’ideologia fascista del gruppo, tanto che qualche settimana fa sulla pagina “La voce della Nord” (pagina ufficiale degli Ultras Lazio), dopo pochi minuti la pubblicazione della foto di uno striscione che recitava «Il vostro inchiostro non macchia i nostri ideali. Saluti romani a tutti siamo i soliti laziali», gli amministratori hanno rimosso il contenuto perché sommersi dalle critiche dei tifosi biancocelesti stanchi dell’assimilazione dei colori della propria squadra alla figura di Piscitelli, ai suoi giri criminali e all’ideologia neofascista. A questo proposito, è da registrare anche la nascita dell’associazione “Lazio e libertà”, che promuove l’integrazione culturale, sportiva e combatte ogni forma di fascismo o discriminazione ed in poco tempo ha radunato tantissimi tifosi stanchi dell’equazione “laziale=fascista”. L’associazione qualche giorno fa ha esposto uno striscione davanti la sede della Lazio a Formello con lo slogan «La Lazio non è nera, ma bianco celeste». Gli Ultras Lazio sembrano comunque non accantonare i loro propositi e, anche se non è possibile accedere allo Stadio Olimpico per assistere agli incontri casalinghi della Lazio, in spregio ed opposizione ad ogni dispositivo di sicurezza per l’emergenza Covid il gruppo ha convocato la tifoseria a Ponte Milvio già questo sabato, alle 15, per l’amichevole della Lazio contro il Benevento, sotto il motto «che nessun si tiri indietro, non si ceda neanche un metro», si apprestano alla prima esibizione pubblica che si annuncia ovviamente fuori da ogni legalità. Sul versante connesso alla figura di Fabrizio Piscitelli, invece, ci sono da registrare due episodi: il primo riguarda la sorella, Angela, impiegata al ministero della Giustizia, che è stata colpita da un avviso di garanzia per corruzione nell’ambito di una inchiesta che, secondo gli inquirenti, avrebbe favorito diversi detenuti del carcere di Regina Coeli mediante un sistema i pizzini che i detenuti, tutti legati agli Irriducibili, avrebbero utilizzato per comunicare all’esterno del penitenziario, ricevere comunicazioni, droga e altri benefici in cambio di soldi e biglietti per assistere ad eventi ceduti ad una rete di agenti penitenziari capitanati da Antonio Pappone, sodale degli Irriducibili e amico di Piscitelli. Gli uomini della Guardia di Finanza, durante la perquisizione nella sua abitazione, avrebbero trovato 4000 euro in contanti, una pianta di marijuana e una poesia dedicata allo stesso Diabolik. In particolare il braccio destro di Piscitelli, Marco Turchetta, detenuto in seguito all’operazione “Grande Raccordo Criminale” avrebbe fatto giungere in questo frangente all’esterno un messaggio chiaro: «Non mi pento». Un messaggio che ha rassicurato l’ambiente della criminalità organizzata romana e che racconta il sottobosco di complicità interne ed esterne che si celano dietro l’assassinio di Fabrizio Piscitelli. Secondo un nostro informatore, in passato facente parte di una batteria di picchiatori che agiva per conto del sodalizio, «quel messaggio racconta molte cose. Chi ha ucciso Piscitelli è pronto ad uccidere ancora, se internamente verranno svelati gli assetti e le motivazioni che hanno portato al superamento del comando di Diabolik. Lo sapevano tutti quelli che gli stavano intorno che avrebbe fatto una brutta fine: è stata una congiura e anche l’atteggiamento morboso che hanno sulla sua memoria lo conferma, con queste scenate - continua la nostra fonte - cercano di coprire le loro responsabilità e di non dare adito alle rivelazioni sulla vera natura di Fabrizio, che non era un santo e non era manco fedele». Chissà se nelle prossime settimane mentre qualcuno sgombererà i locali di Via Amulio si scioglieranno gli ultimi nodi intorno alla morte della “Strega” Piscitelli, chissà se chiusa una sede e individuato un assassino la storia lo lascerà riposare in pace o se altre trame e altri collegamenti emergeranno, perché forse è vero che «è uno che, se muore, non ci credere, perché è capace pure di rinascere», così come è vero che, sempre più, i sodalizi criminali di Diabolik somigliano per intensità e metodi ad una mafia nuova e antica al tempo stesso. 

Da "repubblica.it" l'8 agosto 2020. Hanno tappezzato la città di manifesti per ricordare l'anniversario della morte di Fabrizio Piscitelli, il capo ultrà della Lazio ucciso il 7 agosto del 2019 su una panchina del Parco degli Acquedotti. I manifesti raffigurano l'immagine del fumetto di Diabolik e la scritta "Diablo Vive", accompagnata dalla data 7/8/2019 - 7/8/2020. E fuori dalla sede degli Irriducibili, in via Amulio - dopo la cancellazione pretesa e ottenuta dal Comune di Roma - è stato anche realizzato nuovamente un murale in suo onore. Piscitelli fu ucciso con un colpo di pistola alla nuca da un finto runner che si avvicinò a lui alle spalle; i suoi killer, mandante ed esecutori, sono ancora senza un nome, anche se gli investigatori hanno ristretto il campo e sono convinti facciano parte della criminalità organizzata del sud, in particolare della 'ndrangheta. Nel novembre del 2019 la Dda della procura di Roma arrestò 51 persone in una vasta operazione per contrastare il traffico di stupefacenti il cui capo indiscusso era appunto, secondo l'accusa, Diabolik che aveva messo in piedi una struttura dello spaccio innovativa guadagnandosi un livello altissimo nella scala gerarchica dello spaccio in numerose piazze della città. Nel corso della giornata, previste altre iniziative per Piscitelli, ad un anno dal delitto, oltre che una messa in forma privata, riservata soltanto ai familiari.

Striscioni, messa e saluto romano: i neofascisti omaggiano Diabolik a un anno dalla uccisione. Il narcotrafficante Fabrizio Piscitelli, ammazzato per un regolamento di conti, viene ricordato come un eroe. Con tanto di rituale religioso questa sera, affissioni sui muri di Roma e il "presente" così caro all'estrema destra. Massimiliano Coccia il 07 agosto 2020 su L'Espresso. Nell’antica Roma si celebravano i “Parentalia” dei giorni dedicati al ricordo dei defunti, in quell’occasione si pensava che le anime potevano muoversi liberamente tra i vivi sia per rivedere i propri cari che per organizzare terribili vendette. I vivi e i morti. Duemila anni dopo a Roma poco o nulla è cambiato, il culto dei morti, la loro santificazione facendo riecheggiare gesta e nome sui muri della città sembra un rituale che nessuno vuole fermare. Nella moderna mitologia urbana però l’eroe è di solito l’antagonista colui che in vita si è fatto spregio della legge degli uomini e di dio. Leggi che Fabrizio Piscitelli aveva calpestato nel corso della sua vita ma che non sembrano essere l’ostacolo per essere ricordato come un “semidio”. Un po' santo e un po' assassino, un po' padre di famiglia e un po' capo spietato di una legione di fascisti che facevano affari con la criminalità organizzata e la domenica andavano in Curva Nord a sostenere la Lazio utilizzando quel serbatoio per radicarsi e fare proseliti. Questo cursus honorum non ha impedito di ricordare con manifesti e murales comparsi in ogni angolo della città che è passato un anno ma che “Diablo vive”. L’essere stato un narcotrafficante per la Diocesi di Roma non ha molto peso visto la messa prevista per le 19 di questa sera e poi come rituale ultimo nessuna ha per il momento impedito il pellegrinaggio sul luogo dell’uccisione con il saluto finale del “presente”. Un commiato lungo e strutturato per ricordare che Fabrizio Piscitelli veniva freddato con un colpo di pistola un anno fa su una panchina di via Lemonia, nel quartiere Tuscolano di Roma. Tra i presenti tutti ometteranno che non si trattò di un omicidio estivo, non un incidente, ma un vero e proprio regolamento di conti che ha visto eliminare dalla scena criminale della città un uomo che sapeva essere molte cose. Anche troppe. Se per i camerati ed i suoi fedelissimi degli Irriducibili della Curva Nord era “Diabolik”, per la camorra e la famiglia Senese era «la strega» che tra le sue capacità divinatorie aveva il dialogo con pezzi degli apparati di sicurezza. «Era ‘na strega perché quando c’erano le guardie che arrivano lui non ci stava mai, quando c’era un pericolo spariva - dice Raimondo, che nei primi anni ’90 venne da Secondigliano per fare i soldi con Gennaro Senese e ora ha ripiegato nel servire ai tavoli di un ristorante di catena della Capitale - non ti dico niente di nuovo se affermo che Piscitelli pensava di fare il furbo con i Senese che lo avevano cresciuto. Come tutti i romani puntava troppo in alto e va bene una volta che ti perdonano ma la seconda volta ti puniscono». Per il nostro confidente Piscitelli infatti avrebbe introdotto per due volte un quantitativo di droga notevole nel mercato partenopeo. La prima volta ascrisse l’invio ad un errore di comunicazione tra batterie criminali e tra grandi patemi fu perdonato, la seconda volta, come si legge anche tra le carte della Procura di Roma cercò di immettere 100 chilogrammi di cocaina nel mercato napoletano, una mossa che gli sarebbe costata cara, sommata al giro di crediti mai restituiti della vendita della droga che, insieme ad Alessandro Telich detto “Tavoletta” e Fabrizio Fabietti, suoi bracci operativi e finanziari, fece confluire a Dubai. La tripla identità di Fabrizio Piscitelli lo portava a giocare su più tavoli: partite pericolose, vinte spesso bluffando e facendo leva su un sistema di potere che le varie inchieste coordinate dalla Procura di Roma hanno via via smantellato. Quando muore, ucciso da un uomo di corporatura robusta, tatuato, vestito da runner con una maglia verde, è orfano della protezione storica di Massimo Carminati e di Michele Senese detto “ ‘o pazzo”: è solo come tutti i capi che la mafia decide di far fuori, non muore da eroe ma muore per leggerezza, per eccesso di sicurezza e di fiducia tra i suoi. È lontano il tempo in cui i Ros in un’informativa scrivevano: “tutti erano concordi nell’affermare che su Ponte Milvio opera una batteria pericolosa con a capo Fabrizio Piscitelli e dalla quale facevano parte soggetti albanesi; che la predetta batteria era al servizio dei napoletani ormai insediatisi a Roma Nord, tra cui i fratelli Esposito facenti capo a Michele Senese”. Fatti e circostanze che col tempo gli si rivolteranno contro, punti di forza e di impatto criminale che diverranno causa della sua tragica fine. È morto in territorio straniero, Piscitelli, in quel quartiere Tuscolano un tempo gestito dai Casamonica con la supervisione forte dei Senese, una morte che è diventata subito oggetto di culto: dalla veglia in via Amulio dove transitò il gotha della fascisteria romana, tra cui Luigi Ciavardini, fino ai funerali al Divino Amore che divennero l’occasione di una riunione dei capi ultras di tutto il Paese, dalla vendita delle magliette con la sua effige organizzata dalle figlie, passando per la curiosa asta che si è scatenata online per avere il suo santino funebre, arrivando alle celebrazioni organizzate per il primo anniversario della morte. Un culto che nessuno ha il coraggio di interrompere evidentemente perché se dopo un anno dopo la città è percorsa di striscioni che ne ricordano la figura, preparati con tutta calma, fin da ieri sera dagli Ultra Lazio (eredi del disciolto gruppo “Irriducibili” di cui Piscitelli era fondatore e leader) nella sede occupata all’Inail di Via Amulio, un culto che serve da distrattore per mascherare l’esistenza di un modello criminale autoctono nella Capitale che fonde vecchia e nuova fascisteria, criminalità organizzata e stadio. Gli striscioni, la messa e il saluto romano eventi che abbracciano le plurime identità con cui si presentava il defunto, descritto come tifoso genuino, padre amorevole, amico fedele: una narrazione che in pochi sembrano voler interrompere. Un programma di celebrazioni che al momento sembra non aver nessuno ostacolo, tranne una decina di agenti della Digos che alle prime luci dell’alba hanno svolto un sopralluogo in via Amulio, centrale operativa delle affissioni avvenute in nottata, ma oltre a questa encomiabile azione di controllo territoriale, nessuno ha mosso la minima obiezione. Non le istituzioni locali e nazionali, dalla sindaca Virginia Raggi alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. E nemmeno la Diocesi di Roma: già lo scorso anno assistette silente alla celebrazione nella Chiesa di Santa Maria Ausiliatrice che si trasformò in un evento con oltre 100 persone che conclusero acclamando il nome di Piscitelli tra cori e sciarpe della Lazio. Un lungo filone, dai tempi bui della Curia che per un’opera di bene fu disposta ad accogliere Renato De Pedis nella cripta di Sant’Apollinare, fino ad ospitare – il 20 agosto di cinque anni fa - i funerali cafonal e mafiosi di Vittorio Casamonica in Piazza San Giovanni Bosco, dove il feretro del vecchio capo clan romano fu tirato da sei cavalli e un elicottero fece dolcemente cadere sulla folla petali di rosa. Roma appare così ancora una volta come “una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene” sopratutto ad agosto, quando la città è vuota e rimane solo l’eco di uno sparo qualsiasi su cui si annidano interrogativi antichi come l’uomo.

GIUSEPPE SCARPA PER IL MESSAGGERO l'8 luglio 2020. Si scrive Michele Senese. Si legge camorra a Roma. Michele o pazzo gestiva il suo network criminale da dietro alle sbarre. E la mala romana ne era ben conscia, tanto da conferirgli la corona di capo dei capi. «Cioè, qui stiamo parlando, che è il capo di Roma! Il boss della camorra romana! Comanda tutto lui!». Lo descrive così Alessandro Presutti, coinvolto anche in altre inchieste con i Casamonica, in una intercettazione telefonica del marzo 2014. Un regno la cui parola fine è stata scritta ieri dal valutario della guardia di finanza e dalla squadra mobile. Estorsione, usura, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio, autoriciclaggio e reimpiego di proventi illeciti con l'aggravante di aver agito con metodo mafioso sono i reati per i quali sono stati arrestati ventotto esponenti della famiglia Senese. I beni sequestrati tra quote societarie, appartamenti e locali sfiorano i 15 milioni di euro. O pazzo era in carcere dal 2014. Sul boss pende una sentenza all'ergastolo per omicidio. Fu il mandante dell'assassinio di Giuseppe Carlino, il 10 settembre del 2001. Carlino, a sua volta, era coinvolto nell'omicidio del fratello di Michele Senese avvenuto il 16 settembre del 1997, sempre a Roma. Città in cui i Senese si erano rifugiati a metà anni Ottanta, inviati dal clan Moccia di Afragola in piena guerra di camorra contro gli storici nemici capeggiati dalla Nco di Raffaele Cutolo. E nella Capitale Senese ha piantato radici. O meglio ha fatto entrare tonnellate di droga: «Ogni viaggio (per rifornire i Senese, ndr) erano 30 - 40 chili di cocaina e 500, 1000 chili di hashish», ha riferito un collaboratore di giustizia nel 2014 al pm Francesco Minisci, titolare della maxi inchiesta. Il cordone con la Campania, tuttavia, non è mai stato tagliato. E per mandare messaggi ai Moccia, Senese faceva affidamento sulla moglie Raffaella Gaglione (da ieri in carcere). «Gli devi dire che non ha paura quello sa morire». Un messaggio in codice che tradotto significa, «che Michele Senese - si legge nell'ordinanza - nonostante la condanna in giudicato non si dissocia». Una rassicurazione insomma. A tenere le redini della famiglia era il figlio Vincenzo. Il primogenito, plenipotenziario del padre. O pazzo tracciava comunque la direzione. Le indicazioni venivano date anche con dei pizzini infilati dentro le scarpe. Padre e figlio se le scambiavano. In una foto gli inquirenti immortalano la scena. Vincenzo entra con le scarpe marroni dentro il penitenziario di Oristano ed esce con ai piedi quelle nere del padre, il 23 marzo del 2017.

RIPULIRE IL DANARO. Il grande problema della famiglia era ripulire il volume di denaro sporco ricavato con il business della droga e dell'usura. Da un lato i metodi tradizionali, murare il denaro dentro intercapedini e fare un uso costante del contante. Dall'altro i canali di investimento che il clan utilizzava per «ripulire» e far «fruttare» i soldi erano il commercio all'ingrosso di abbigliamento a Frosinone e Verona. I capitali sono stati trasferiti in Svizzera e poi impiegati per finanziare attività imprenditoriali di una società milanese. Il fratello del boss, Angelo è riuscito a fare confluire investimenti per 230 mila euro in attività di ristorazione a Roma, tra le quali «Da Baffo» e «Da Baffo 2». Tra le persone arrestate figura anche Claudio Cirinnà, 54 anni, fratello della parlamentare del Pd, Monica Cirinnà. L'uomo è accusato di usura, estorsione, auto riciclaggio e intestazione fittizia di beni. Cirinnà non aveva legami diretti con il clan Senese ma, sostanzialmente, prestava somme di denaro a soggetti che, a loro volta, erano vittime di usura del clan. «Apprendo con amarezza e dolore che mio fratello sarebbe coinvolto in un'inchiesta giudiziaria - dice la senatrice del Pd - So pochissimo della sua vita travagliata».

Da Il Messaggero l'8 luglio 2020.

IL CASO. «Lazialotto». Così con disprezzo era chiamato Fabrizio Piscitelli, capo ultras della curva Nord, neofascista e narcotrafficante. L'epiteto è coniato da Vincenzo Senese, il figlio di Michele. Il primogenito del boss ha pochi dubbi con Diabolik, non vuole concludere nessun affare: «Daniele (Caroccia, ndr) una cosa ti volevo dire, la cosa la dobbiamo fare io e te». Insomma il lazialotto è fuori. La conversazione è del giugno 2017. L'affare in questione è l'apertura di un ristorante. Caroccia gli replica così: «ci volevo andare a parlare (con Piscitelli, ndr) perché lui conosce qualcuno che ha i negozi là, solo per quello». Insomma con La Strega altro soprannome di Piscitelli, morto assassinato lo scorso 7 agosto, i Senese non volevano più fare affari. Eppure el Diablo era cresciuto nella mala sotto l'ala protettiva di Michele o pazzo. Sotto la sua benedizione, con una batteria di picchiatori albanesi gestiva lo spaccio a Ponte Milvio. Ad ogni modo se i Senese potevano permettersi di fare i prepotenti con l'ultras della Lazio, di ben altra natura erano i rapporti intessuti con altre famiglie del grande crimine. «I Senese - scrive il gip nell'ordinanza - si rapportavano con due esponenti di spicco di ambienti delinquenziali della Capitale, Roberto De Santis e Franco Gambacurta, operanti in zone distanti e diverse tra loro».

PONTE MILVIO. Insomma il clan aveva la sua fetta della Capitale. La zona intorno a Cinecittà, antico feudo di o Pazzo. Come, d'altro canto, Ponte Milvio. Nell'ordinanza emerge un particolare inquietante. Il gestore del locale la Champagneria Lady decide di mettersi sotto la protezione dei Senese. Si offre di pagare il pizzo per essere protetto. È il 21 novembre del 2018 e dalle intercettazioni della mobile e della finanza emerge questo quadro: «La stessa proprietà - annotano gli investigatori - avrebbe manifestato la propria intenzione di essere partner del clan Senese». «Il proprietario - spiega Vincenzo Senese alla moglie - vuole stare vicino a noi». E per vantarsi dell'amicizia protettiva del clan paga mille euro al mese.

I LOCALI. In generale, comunque, i Senese difficilmente pagavano quando si trattava di andare a mangiare nei ristoranti. A Ostia per esempio. Ma il fatto di non versare un euro per il conto, non impediva a Vincenzo Senese di criticare aspramente la cucina del locale. E così quando a settembre del 2018 non gli viene servito un piatto con i gamberi rossi, si arrabbia: «Gli ho detto (al ristoratore, ndr ) portami i gamberi rossi. La prossima volta che mi porti un altro tipo di gamberi.... ». L'interlocutore cerca di calmarlo. Ma Vincenzo Senese giura di non volerci più andare nonostante non abbia pagato il conto. E spiega di voler andare da un'altra parte in una successiva occasione: «la Bussola a me, ci tratta da alto bordo, i Francia Corta, l'altra volta la tavolata da 15, tu non mi devi dare i soldi ...ci fa tante attenzioni». Serviti come i re della mala nei locali di Roma e temuti dagli avversari. «Se appartiene a Michele Senese - spiega Modestino Pellino, luogotenente del clan Moccia ad un suo interlocutore - devono lasciare perdere là». Giu. Sca

Ecco perché hanno ucciso Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik. Gli sgarbi agli altri clan, la spartizione del territorio, gli accordi dei rivali, i soldi a Dubai e il sogno di sostituire Massimo Carminati. Dall'inchiesta sulla morte del narcotrafficante e ultras emerge uno spaccato preciso dei movimenti della criminalità romana. Massimiliano Coccia il 2 luglio 2020 su L'Espresso. A Roma tutto appare eterno ma tutto scorre veloce. La città che nacque da un fratricidio ha sempre fatto delle congiure e dei regolamenti di conti una sua costante, quasi una regola che ha attraversato i suoi 2.773 anni di vita. Niente resiste sotto il sole della città, forse solo le scritte sui muri che celebrano eroi senza virtù e capi senza eserciti. “Non esiste la mafia” dentro al pomerio perché nella capitale niente ha il nome che dovrebbe avere e tutto si mantiene su un sottile equilibrio sempre pronto a spezzarsi. È passato quasi un anno da quando Fabrizio Piscitelli detto “Diabolik”- neofascista, bombarolo, capo degli ultras della Lazio, usuraio e narcotrafficante - è stato freddato con un colpo di pistola calibro 7,65 che gli ha centrato la testa trapassandola all’altezza dell’orecchio sinistro e lasciandolo senza vita su una panchina del Parco degli Acquedotti in via Lemonia, zona Tuscolana. Era il 7 agosto 2019, lui aveva 53 anni. E oggi l’immagine del suo corpo riverso a terra e rivestito di una coperta sembra la rappresentazione simbolica di quanto sia complesso il mondo della criminalità organizzata romana. Fabrizio Piscitelli aveva due identità intrecciate fra loro: da un lato il capo tifoso “identitario” e fascista; dall’altro il pregiudicato, capo di una organizzazione criminale che solo lo scorso novembre è stata smantellata. In mezzo a queste due identità c’è quel serraglio di rapporti in cui vanno ricercati i nomi dei mandanti e dell’esecutore del suo omicidio. Di quest’ultimo si sa che è un uomo atletico, intorno al metro e novanta di altezza, con una barba di media lunghezza, tatuaggi sul corpo, quel giorno nascosto da una calzamaglia e da una bandana verde: così l’autista di Piscitelli, il cubano Eliobe Creagh Gomez, lo ha descritto agli inquirenti. Gomez era seduto accanto al suo capo mentre questi veniva ucciso, ha visto chiaramente il killer e ha restituito agli investigatori un ritratto fedele. Questa, tra l’altro, sembra essere una prima incongruenza della vicenda: è il primo caso di un omicidio in modalità mafiosa in cui l’assassino risparmia il guardaspalle della vittima, rischiando così di essere riconosciuto. Lo scioglimento del gruppo ultrà della curva Nord è stato un atto inevitabile per i superstiti della stagione di Diabolik. Che con la morte di Piscitelli rischiavano di diventare prede. E perdere il controllo del territorio. Diabolik è stato ammazzato più dagli amici che dai nemici, pensano gli inquirenti. E la sua uccisione è stata concordata da tutti i principali clan che operano a Roma perché «nella capitale se non si è d’accordo non si ammazza un capo alla luce del sole senza che scoppi una guerra», racconta un ex terrorista di destra. Secondo voci insistenti il killer di Diabolik potrebbe essere già agli arresti per altri reati, cioè si nasconderebbe tra i tanti nomi che appaiono nelle diverse operazioni concluse dagli investigatori nei mesi successivi all’accaduto. Nell’ordinanza che ha portato all’arresto di 57 membri dell’organizzazione di Diabolik nell’ambito dell’inchiesta “Grande Raccordo Criminale” si vede chiaramente quanto il «vorticoso giro di affari legato alla regolare e continuativa compravendita di ingenti quantitativi di stupefacente», il controllo territoriale e l’usura fossero il volano di Piscitelli per tentare di sostituire Massimo Carminati nello scacchiere della criminalità romana. E proprio questo tentativo di ascesa gli è stato fatale: “radio carcere” da sempre guarda con diffidenza chi viene dal mondo delle curve, sa che spesso gli ultras fanno il doppio gioco, hanno rapporti con le forze dell’ordine (di cui talvolta sono informatori) e per loro lo scambio di favori è all’ordine del giorno: per questo motivo il pedigree criminale di Diabolik lasciava perplessi i capi di camorra e ’ndrangheta che agiscono su Roma. Nella mole di intercettazioni ambientali contenute nell’ordinanza si comprende inoltre quanto l’indole di Piscitelli fosse narcisistica e mettesse in pericolo l’intera organizzazione, anche con spedizioni punitive e richieste costanti di “punire” gli insolventi. In più, c’era un fiume di soldi prestati a strozzo che Piscitelli faceva gestire dal complice Fabio Gaudenzi detto “Rommel”, finito poi a processo per usura proprio con Carminati e con il suo numero due Riccardo Brugia. Questa massa di denaro veniva ripulita e poi trasferita altrove, all’estero. Gaudenzi, all’interno di questa organizzazione, avrebbe agito con il ruolo di fiduciario di Diabolik e del suo clan. Il cassiere di Piscitelli, secondo quanto si legge nelle informative, era invece Alessandro Telich detto “Tavoletta”, mago dell’informatica e a capo di una società che operava nel settore dei dispositivi di comunicazioni criptati, strumenti tecnologici che erano a disposizione del gruppo e che hanno reso molto difficoltose le indagini. Telich viveva tra Roma e Dubai prima di essere arrestato proprio nell’emirato, dove confluivano i soldi dei proventi illeciti. Il sodalizio tra Piscitelli e Telich è sempre stato al centro di scontri interni al gruppo, in particolare modo con l’altra colonna dell’organizzazione criminale rappresentata da Fabrizio Fabietti, un pezzo grosso che gestiva il traffico di droga e lo smercio territoriale nonostante si trovasse agli arresti domiciliari assieme alla moglie. Tutti sapevano che la gestione del patrimonio era un tabù e un punto di potenziale attrito. La condanna a morte per Diabolik sarebbe arrivata proprio per aver distratto fondi che sarebbero dovuti essere oggetto della ripartizione territoriale tra le diverse organizzazioni: una distrazione, spesso raccontata come “prestito non restituito”. Per operare in molti territori infatti le cosiddette organizzazioni minori, come quella costituita da Piscitelli, devono girare parte dei proventi all’organizzazione “madre”, una somma che può arrivare fino al 20-25 per cento dei ricavi. Soldi che - da quanto rivela all’Espresso una fonte - Piscitelli non aveva alcuna intenzione di restituire: «Fabrizio diceva sempre che Roma era dei romani e che gli altri dovevano essere ospiti», rivela la fonte. «Lui portava rispetto solo ai Senese, aveva quasi una ossessione per loro. Gli altri pensava che fossero manovalanza di bassa lega. Gli impicci maggiori li ha avuti dagli albanesi che lui ha messo dentro pensando di poterli trattare come schiavi e che invece dopo Mafia Capitale hanno alzato la testa, cercando di imporre la loro roba e la loro modalità». Sarebbero stati tutti d’accordo quindi nell’uccidere Piscitelli, colpevole non solo di aver pestato i piedi a clan più potenti ma anche di non essere affidabile. Del resto nelle intercettazioni ambientali dell’inchiesta sono numerose le occasioni in cui Piscitelli fa riferimento all’idea di «mandare bevuto» qualche avversario criminale. Il teatro dell’omicidio, poi, rappresenta una firma inequivocabile, perché la zona Tuscolana è da sempre feudo dei Casamonica e territorio di controllo indiretto della camorra. Le ore precedenti l’omicidio evidenziano che l’agguato era stato ben pianificato e che quel giorno Piscitelli non aveva alcun sospetto di poter diventare una vittima. Il 7 agosto, intorno alle 17 e 30, l’ultimo ad incontrarlo fu Gianluca Ius, (in seguito prosciolto dopo essere stato sospettato di essere uno dei “cassieri di Carminati” nell’inchiesta Mafia capitale). Ius ha raccontato agli inquirenti di essere rimasto per un’ora in compagnia di Piscitelli e del suo autista, trovandolo «stanco ma sereno» e con l’unica preoccupazione di «non sapere a chi lasciare i cani per le vacanze estive». Secondo quanto riferito da Ius, Piscitelli non aveva ricevuto chiamate ma scambiava messaggi con qualcuno, fino a quando, dopo un’ultima occhiata al cellulare, disse al suo autista «andiamo a st’appuntamento che poi andiamo ad Anzio» (dove era atteso per una festa in barca, alla quale naturalmente non è mai arrivato). Il tessuto di connessioni che lega la morte di Piscitelli alla nuova spartizione del territorio romano è molteplice e sembra il terreno su cui gli inquirenti si sono mossi fino a questo momento, con la difficoltà propria di chi si trova davanti una evoluzione della canonica organizzazione criminale, dove la capacità di invisibilità di Diabolik, e i suoi doppi giochi, hanno reso torbide le acque anche dopo la sua morte. Appare significativo in questo contesto anche lo scioglimento del gruppo della curva della Lazio “Irriducibili”, avvenuto negli scorsi mesi. Secondo molti questo gruppo era un contenitore “sporco” agli occhi della criminalità organizzata, che voleva continuare a controllare il territorio dopo la morte di Piscitelli. Anche sotto le insegne degli “Ultras Lazio” il gruppo continua tuttavia a occupare una sede Inail in via Amulio, oggetto di uno scambio immobiliare di occupazioni con Forza Nuova e con il suo leader Giuliano Castellino, che recentemente ha smentito di aver mai conosciuto Diabolik. Fatto assai singolare, tra l’altro, vista la vicinanza politica tra i due neofascisti romani. La vita e la morte di Piscitelli raccontano un modello del tutto autoctono della criminalità nella capitale, un modello associativo violento, complesso e che ha avuto sempre l’astuzia di cambiare volto, un modello che era inviso a tanti proprio per la scarsa affidabilità del suo capo. Che - come Renato De Pedis, ultimo caso di boss freddato in pieno giorno a Roma - è caduto per mano di vecchi amici diventati nuovi nemici perché nella città nata da una lama le alleanze si affossano a colpi di tradimenti.

Giulio De Santis per il Corriere della Sera - Roma il 13 giugno 2020. Ecco l' identikit del killer di Fabrizio Piscitelli nelle parole di chi lo ha visto in viso, il cubano Eliobe Creagh Gomez, autista e bodyguard di Diabolik: «Era alto circa 1,85, 1,90, corporatura atletica, calzava in testa una bandana verde, aveva la barba di colore nero media lunghezza, indossava sia sulle braccia che sulle gambe una specie di calza maglia, a coprire i tatuaggi che avrebbero potuto farlo identificare». Non solo il cubano l' ha avuto a pochi centimetri dagli occhi, ma, interrogato dalla Squadra mobile subito dopo l' omicidio, l' ha anche identificato. Con una percentuale di precisione del 90%, secondo gli investigatori. La testimonianza è contenuta nell' informativa consegnata al pm Nadia Plastina, in cui la polizia ricostruisce i minuti successivi all' omicidio di Piscitelli, ucciso con un colpo di pistola nel parco degli Acquedotti nel tardo pomeriggio del 7 agosto 2019. Subito dopo la notizia dell' esecuzione, alle 20.40, la Squadra mobile interroga Gomez, 30 anni. Questo è il racconto del bodyguard dell' ultimo giorno di vita di Diabolik dalle 16 in poi di quel pomeriggio di dieci mesi fa. «Andiamo a trovare un suo amico. Non so dire il suo nome, era alto un 1,80, capelli biondi, ben vestito. I due hanno parlato della Lazio. Dopo dieci minuti è arrivato Fabrizio Fabietti (il braccio destro di Piscitelli, ndr ). Nel corso dell' incontro, Fabrizio ha avvisato Fabietti che "stava andando là". Fabietti gli ha risposto: "Ok"». Domanda degli investigatori: «Fabietti sapeva con chi Diabolik aveva appuntamento al parco degli Acquedotti?» La risposta non c' è nell' informativa. Prosegue Gomez: «Siamo arrivati alle 18 al parco. Fabrizio mi ha chiesto, dato che eravamo in anticipo, di fargli compagnia sulla panchina dove sarebbe stato ucciso. Stavamo seduti dando le spalle al parco e guardando la strada. Dopo circa un' ora ho visto un uomo arrivare alle nostre spalle e senza dire nulla ha sparato in testa a Fabrizio, per poi scappare sulla sinistra rispetto a dove eravamo seduti, verso il centro della città. Appena l' uomo ha sparato, mi sono alzato dalla panchina e ho sollevato le mani per far capire che non volevo essere ucciso. Questi del tutto incurante si è dato alla fuga senza proferire parola». All' interrogativo degli inquirenti, se fosse in grado di riconoscerlo, la risposta del cubano è stata secca: «Sì».

Fulvio Fiano per corriere.it il 27 maggio 2020. Diabolik, l’ultrà che volle farsi boss senza averne lo spessore e ne rimase ucciso. O, forse meglio, Fabrizio Piscitelli, il narcotrafficante in affari con la camorra da trent’anni, che usava la curva laziale come sponda per i suoi affari illeciti. L’ultimo atto dell’inchiesta sui traffici del 53enne assassinato il 7 agosto scorso in un agguato al parco degli Acquedotti invita a una rilettura implicita della sua epopea. A chiusura delle indagini, che contano 57 capi di imputazione e 53 indagati per reati che includono estorsione, riciclaggio, usura possesso d’armi oltre che droga, il pm Nadia Plastina contesta all’associazione a delinquere guidata dal defunto estremista di destra con il socio e amico, oggi detenuto, Fabrizio Fabietti, l’aggravante del 416 bis, il metodo mafioso. Accusa già formulata inizialmente, non accolta dal gip al momento di ordinare i 51 arresti del 28 novembre, ma sostenuta ora da ulteriori elementi emersi. Fra tutti, il ruolo di mediatore tra gli Spada e i rivali napoletani per il controllo della piazza di Ostia, che sempre più mettono Piscitelli al centro degli equilibri malavitosi della Capitale. Quello che risalta dagli accertamenti dei finanzieri del Gico e del comando provinciale è infatti la molteplicità di rapporti intessuti dalla banda Un aspetto inedito, sottolineato a suo tempo anche dal procuratore Michele Prestipino, era la capacità di agire su più livelli nel mercato degli stupefacenti. Le indagini sono piene non solo di episodi di acquisto e spaccio in nove quartieri della Capitale (Ostia, Bufalotta, San Basilio, Colli Aniene, Tuscolano, Romanina, Borghesiana, Tor Bella Monaca fino a Frascati e un progetto di espandersi a Fondi) ma anche di una sorta di mediazione e brokeraggio che metteva in contatto trafficanti e grossisti con rivenditori al dettaglio. Da un lato Piscitelli e Fabietti movimentavano con la ‘ndrangheta e i narcos sudamericani 250 chili di cocaina e 4.250 di hashish grazie alla credibilità costruita negli anni, dall’altra — pur senza vendere in prima persona — supervisionavano al funzionamento delle piazze di spaccio affidate a terzi. Un’organizzazione fluida che permetteva pagamenti cash immediati grazie alla velocità di vendita e riacquisto degli stupefacenti, tanto da poter disporre in un paio d’ore, alla bisogna, anche di 300 mila euro sull’unghia. «Un gruppo senza eguali in altre città italiane», lo definiscono gli inquirenti, che metteva assieme pezzi di criminalità da stadio, di strada e di ispirazione politica. Dorian Petoku era in quota alla banda di albanesi di Ponte Milvio, Sestina Fabietti (sorella del capo) teneva la contabilità, altri facevano da corrieri o si occupavano della logistica. Figura centrale era quella di Alessandro Telich «Tavoletta», che aveva creato una rete di telefoni criptati in grado di respingere ogni infiltrazione investigativa e di «bonificare» qualunque ambiente dalle microspie grazie a una sofisticatissima dotazione tecnologica. E poi la batteria di picchiatori composta da Kevin Di Napoli, pugile professionista, Andrea Ben Maatoug «Il Pischello» e i due fedelissimi di Piscitelli negli Irriducibili della Lazio, Ettore Abramo «Pluto» (celebrato in curva Nord assieme a Diabolik) e Aniello Marotta. Piscitelli in prima persona li mandava a compiere spedizioni punitive verso debitori o concorrenti che non stavano ai patti. Ad esempio il greco Anxelos Mirashi. I quattro picchiatori si presentano da lui vestiti da carabinieri per non farsi riconoscere: «Dobbiamo sfondarlo proprio, lo devi squarta’». «Le coltellate non gliele dò sulla femorale sennò lo ammazzo. A parte che poi zampilla...». «Io voglio crea’ ‘na pace globale», diceva Fabietti tradendo l’ambizione di controllare l’intero mercato capitolino. Un patto tra gli altri clan avrebbe messo fine ai suoi sogni e alla vita di Diabolik.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 28 maggio 2020. Un tesoro di milioni e milioni di euro custodito in qualche banca di Dubai. La coppia di narcotrafficanti Fabrizio Fabietti e Fabrizio Piscitelli ha realizzato negli anni un enorme capitale. Una quantità di denaro che risulta difficile da conteggiare e ad oggi impossibile da sequestrare da parte della procura di Roma. Infatti la città degli Emirati Arabi Uniti rappresenta una cassaforte per chiunque voglia trasferire e custodire denaro sporco. Non c'è collaborazione tra le forze dell'ordine italiane e quelle di Dubai. E nessuno, soprattutto, fa domande sconvenienti per capire la provenienza del capitale. Il Gico della finanza, che ha arrestato il 28 novembre Fabietti, è riuscito a intercettare un bonifico da 200mila euro a favore della Imperial Eagle di Alessandro Telich, l'hacker della banda, la cui sede è appunto a Dubai. Ma si tratta di una goccia in un fiume di denaro che Diabolik e il socio gestivano. La quantità di droga che muovevano rispecchiava il volume di soldi che incassavano. Gli stupefacenti li vendevano a tonnellate. Solo per fare degli esempi: Fabietti tra febbraio e il marzo del 2018 aveva fatto stoccare 3.000 chilogrammi di hashish in un capannone agricolo nell'agro di Tarquinia, in provincia di Viterbo. Altri 700 chilogrammi, sempre di hashish, Diabolik e il socio stavano cercando di piazzarli il 18 settembre del 2018. Salvo poi subire un sequestro da parte della finanza. Ma c'è anche un'altra partita di 641 chilogrammi, sempre di erba, intercettata dalle forze dell'ordine il 13 marzo del 2018. Ovviamente nella fornitura all'ingrosso non poteva mancare la cocaina, 12 chili sono stati scoperti con impresso il marchio dello scorpione a febbraio del 2018 a Valmontone. E ancora altri 7 chilogrammi, questa volta con il profilo di una tartaruga stampato sulle confezioni. La lista dei sequestri potrebbe andare avanti all'infinito. E si tratta soltanto delle partite sequestrate dalla guardia di finanza di Roma. Il volume di droga restituisce l'immagine di due mercanti che hanno rifornito un'intera città di stupefacenti. Un'ascesa verso l'olimpo dello spaccio che ha attirato anche numerosi nemici alla coppia. Fabietti era terrorizzato che qualcuno lo potesse uccidere dopo la fine del suo amico e socio Diabolik. Piscitelli che era divenuto una sorta di padrino della mala romana, capace di negoziare la pax mafiosa ad Ostia. E forse l'inizio della sua fine, il 7 agosto scorso, parte da quel pranzo al ristorante Oliveto a Grottaferrata a dicembre del 2017. Ad intavolare dei discorsi per i quali El Diablo non aveva, in realtà, una totale investitura. E a far supporre, agli inquirenti, che questo possa essere il filo logico dell'intera vicenda c'è qualche cosa che è più di un semplice indizio. Si scopre solo adesso che a fare il nome del narcotrafficante Er Miliardero, al secolo Alessandro Capriotti, sarebbe stato proprio Fabietti. Secondo la ricostruzione del socio in affari del Diablo, Capriotti avrebbe dato l'appuntamento a Piscitelli il 7 agosto al parco degli Acquedotti (vicenda che Er Miliardero ha sempre smentito). Appuntamento che, per l'ultras della Lazio, si è rivelato fatale. Il killer travestito da runner gli ha piantato una pallottola nella nuca, in una zona controllata dalla camorra. Ad ogni modo la confessione di Fabietti la dice lunga sul suo stato d'animo. Il socio del Diablo, infatti, era terrorizzato. Aveva il timore di fare la stessa fine dell'amico. Tant'è che quando i finanzieri, a novembre, sono andati ad arrestarlo è scappato per i tetti, si è nascosto, in pigiama, dietro ai motori dei condizionatori. Quando i militari del Gico gli hanno mostrato i tesserini ha tirato un sospiro di sollievo. Insomma pensava che la stessa potente mano che era piombata su Diabolik lo stesse per colpire. Forse, insomma, i due Fabrizi erano cresciuti troppo, in troppo poco tempo. Perciò qualcuno gli ha ricordato chi comanda a Roma.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero – Cronaca di Roma” il 26 aprile 2020. È un rapporto che inizia nel 1992, quello tra Fabrizio Piscitelli e la camorra. Un legame che, forse, si è interrotto bruscamente l' estate scorsa. Diabolik, 26 anni, è un giovanissimo ultras alla testa degli Irriducibili. Siede tra gli spalti della curva Nord dell' Olimpico e nel frattempo stringe legami con Gennaro Senese, esponente di spicco della mafia campana. Gennaro è il fratello di Michele Senese, ribattezzato o pazzo, trapiantato a Roma in piena guerra di camorra a metà anni Ottanta, quando a Napoli il sangue scorre a fiumi tra la Nco di Raffaele Cutolo e la nuova famiglia di Carmine Alfieri. I Senese, legati a quest' ultimo, virano su Roma, mettono le radici e fondano un loro clan. A caccia di figure di prestigio, i Senese, nei primi anni Novanta individuano in Piscitelli un uomo di cui potersi fidare: Diabolik è «il principale riferimento sulla Capitale», annota il Gico della Guardia di Finanza nell' informativa finale dell' inchiesta che ha portato alla luce il summit mafioso del 13 dicembre 2017 a Grottaferrata, al ristorante l' Oliveto. Il pranzo della pace in cui sedeva Piscitelli nella veste di ambasciatore di Marco Esposito, affiancato dall' avvocato Lucia Gargano (ai domicliari). Dall' altra parte del tavolo sedeva un altro pezzo grosso della mala romana, Salvatore Casamonica rappresentante degli Spada, clan decimato dagli arresti e che rischiava di essere spazzato via dal gruppo di Esposito, soprannominato Barboncino, a sua volta legato ai Triassi. I Triassi altra famiglia storica del crimine che nel 2007, nel litorale romano, aveva accettato un pace sconveniente per non rimetterci la pelle di fronte all' ascesa irresistibile degli Spada. Una pax mal sopportata dai Triassi il cui grande regista era stato, appunto, o Pazzo. Ed è sotto l' ala protettiva di Michele Senese ( in carcere dal 2015) che cresce in prestigio Diabolik, di certo non poteva fargli da padrino Gennaro Senese, ucciso nel 1997 in un palazzone di via Cornelio Sisenna, sulla Casilina. Piscitelli prosegue il suo apprendistato nel grande crimine inanellando una serie di reati. Nel 2006 l' arrestano per estorsione aggravata nei confronti del patron della Lazio Claudio Lotito, nel 2013 per traffico internazionale di stupefacenti e poi a novembre del 2019 le manette sarebbero dovute arrivare perché Diabolik (per la procura) era diventato un boss, al vertice di un' organizzazione criminale che riforniva di droga Roma, insieme al socio Fabrizio Fabietti. Ma che Piscitelli avesse già incassato i gradi di grande ufficiale del crimine era cosa già nota nella malavita italiana. Nessuno senza quel grado si sarebbe potuto sedere al tavolo della pax mafiosa per decidere i destini della malavita a Ostia che muove droga, armi e milioni di euro. Resta allora un rebus che probabilmente verrà svelato a breve il motivo per il quale Fabrizio Piscitelli a 53 anni, e da 27 anni vicino ai Senese, sia stato assassinato, lo scorso 7 agosto, da un killer travestito da runner al parco degli Acquedotti, una zona storicamente controllata dalla mafia campana.

Lazio, addio agli Irriducibili: si scioglie lo storico gruppo della Curva Nord. Ci sarà soltanto lo striscione degli Ultras Lazio, che raccoglierà e identificherà l'intera tifoseria. Franchino: "Non c'entra nulla con la morte di Piscitelli". La Repubblica il 27 febbraio 2020. Addio Irriducibili, dopo 33 anni si sciolgono: una "svolta epocale" per la Curva Nord biancoceleste dell'Olimpico dove da ora sugli spalti ci sarà solo la sigla degli Ultras Lazio. La notizia è stata annunciata in un comunicato dagli stessi ultrà: "Come per tutte le cose della vita, esiste un inizio e, inevitabilmente, una fine. C'è un tempo per tutto. Anche su quelle storie fantastiche, gloriose, prima o poi, cala il sipario". "Troppo sangue, troppe diffide, troppi arresti". "Dopo trentatrè anni - si legge - abbiamo deciso di sciogliere il gruppo". Tutto è iniziato il 18 ottobre 1987, quando, "in un tranquillo Lazio-Padova, apparve sulle gradinate dello Stadio Olimpico lo striscione Irriducibili. 10 metri di stoffa, scritta bianca, sfondo blu. Un nome che diventerà ben presto il nostro simbolo". Ma "da oggi ci sarà una svolta epocale. Senza precedenti per la Nord. Per la prima volta in curva sarà presente soltanto uno striscione, dietro il quale si identificherà tutta la tifoseria laziale: Ultras Lazio. Con la stessa voglia di sempre. Stesso entusiasmo, stessa adrenalina" spiegano. "Va via un pezzo di noi, un pezzo di storia. Dietro quel nome molti di noi han perso la libertà e la vita. Sciogliere gli Irriducibili è stata una esigenza dopo un corso: tutto ha un inizio, una durata e una fine e abbiamo ritenuto opportuno chiudere questo capitolo". Così commenta  l'attuale capo ultras degli Irriducibili Franco Costantino, noto come 'Franchino'. "Una decisione sofferta - dice - ma no, la morte di Fabrizio (Piscitelli 'Diabolik', ucciso al parco degli Acquedotti la scorsa estate) non c'entra. Sono negli Irriducibili dal primo giorno, avevo 16 anni e oggi ne ho 49. Ieri avevamo tutti gli occhi lucidi e non nascondo che stanotte non ho dormito".

Curva nord Lazio: gli Irriducibili si sciolgono dopo 33 anni. Il gruppo storico della curva nord della Lazio ha deciso di dire basta dopo 33 anni e non c'entra la morte di Fabrizio Piscitelli: "Si è chiusa un'era". Marco Gentile, Giovedì 27/02/2020 su Il Giornale. La Lazio di Simone Inzaghi sta facendo letteralmente sognare i tifosi biancocelesti che sognano ora di vincere il tricolore come avvenuto 20 anni fa nel 1999-2000 quando i ragazzi di Sven Goran Eriksson recuperarono diversi punti alla Juventus di Carlo Ancelotti che perse lo scudetto all'ultima giornata perdendo per 1-0 sul campo, ai limiti della praticabilità per via della pioggia, del Perugia allenato da Carlo Mazzone. I biancocelesti stanno volando in campionato e non perdono una partita da 20 giornate dove hanno vinto 16 gare e pareggiato quattro volte. La Lazio è ora al secondo posto a quota 59 punti ma una vittoria nell'anticipo di sabato, alle ore 15, nel match dello stadio Olimpico contro il Bologna di Sinisa Mihajlovic porterebbe per oltre 24 ore la squadra di Simone Inzaghi al primo posto della classifica a più due sulla Juventus che sarà invece impegnata, a porte chiuse o aperte, domenica o lunedì all'Allianz Stadium contro l'Inter di Antonio Conte che si sta giocando il titolo proprio con bianconeri e biancocelesti. In queste ultime settimane il pubblico di fede biancoceleste ha seguito in maniera nutrita la squadra sia in casa che in trasferta ma oggi c'è da registrare lo scioglimento di uno dei gruppi più importanti e longevo della storia della curva nord della Lazio. Sabato 29 febbraio contro il Bologna, infatti, sarà l'ultima partita degli "Irriducibili", gruppo istituito nel 1987: gli stendardi di uno dei gruppi più caldi della tifoseria laziale non appariranno più in curva nord. A comunicare lo scioglimento del gruppo, il cui ex leader era Fabrizio Piscitelli conosciuto come Diabolik ucciso sette mesi fa a Roma durante un agguato legato al traffico di droga, ci hanno pensato gli stessi Irriducibili con un lungo comunicato ufficiale. Uno dei leader degli Irriducibili Franco Costantino all'Adnkronos ha parlato dello scioglimento del gruppo più datato della curva nord: "Questa è una decisione sofferta, ma no, la morte di Fabrizio non c'entra. Sono negli Irriducibili dal primo giorno, avevo 16 anni e oggi ne ho 49. Ieri avevamo tutti gli occhi lucidi e non nascondo che stanotte non ho dormito". Franco Costantino ha poi concluso: "Quando si ha una responsabilità del genere bisogna portare avanti decisioni importanti, la curva nord si unirà dietro un unico striscione che col nome di Ultras Lazio. Abbiamo dato tanto ma lo scioglimento è prettamente legato al decorrere di un'epoca, è finita un'era. Ne parlavamo già l'anno scorso, Fabrizio sarebbe stracontento di questo".

Droga, mafia e potere: dietro l'addio degli Irriducibili la nuova mappa criminale a Roma. Lo scioglimento del gruppo ultrà della curva Nord è stato un atto inevitabile per i superstiti della stagione di Diabolik. Che con la morte di Piscitelli rischiavano di diventare prede. E perdere il controllo del territorio. Massimiliano Coccia e Nello Strocchia il 28 febbraio 2020 su L'Espresso. La notizia dello scioglimento del gruppo degli Irriducibili non rappresenta una nota di folklore inerente al tifo organizzato del nostro Paese ma è un vero e proprio accadimento storico nelle logiche e nelle strategie del controllo del territorio criminale della città. Nei locali occupati illegalmente in via Amulio a Roma è andato in scena l’ultimo atto qualche sera fa, tra lacrime e recriminazioni, ma la certezza che sciogliere per non perire è l’unico atto che i superstiti della stagione di Diabolik hanno potuto mettere in pratica. Nonostante le smentite ufficiali del gruppo che ha specificato come la morte di Fabrizio Piscitelli non c’entri nulla con la decisione presa, appare chiaro non solo il nesso tra i due eventi ma la matrice della decisione. I vertici degli Irriducibili hanno sempre avuto un ruolo nello scacchiere criminale della Capitale partendo dalla Curva Nord che è stato il laboratorio di ciò che rimaneva della destra eversiva degli anni ’80, un laboratorio che univa identità politica, sportiva e affari. Un misto di criminalità servente e criminalità pensante che ha saputo, grazie a Fabrizio Piscitelli, guadagnare uno spazio ampio nel panorama della malavita. Per capire l'unione, il legame indissolubile, bastava andare in curva ogni domenica. «Gli irriducibili erano un gruppo che ha fatto la storia del mondo ultrà e Fabrizio Piscitelli ha scritto quella storia. A lui sono stati legati portandolo sempre in curva anche se a lui era vietato l'ingresso perché sottoposto a Daspo» racconta chi ha frequentato quegli scaloni e intonato quei cori. «E con la sua morte il rischio di diventare una preda era molto alto».

Il nesso non è solo confermato da chi ha partecipato attivamente alle riunioni che hanno portato allo scioglimento del gruppo, ma si può ricostruire con una attenta visione di quello che è accaduto in curva, “per molto tempo – continua la nostra fonte - in Nord campeggiavano tre striscioni, uno dedicato a Fabrizio Piscitelli aka Diabolik, un altro a Marco Turchetta, braccio destro di Piscitelli e il terzo dedicato ad un sodale storico del gruppo Zogu Arben, detto Riccardino, noto narcotrafficante, oggi in carcere. Questi striscioni non erano solo roba commemorativa ma stavano a significare che quel territorio era ancora roba di Diabolik e compagnia”. 

La saldatura con l'estrema destra. Lo sbocco nella curva romanista. La decadenza dopo l'arresto di Carminati. La parabola di Fabrizio Piscitelli. Come abbiamo raccontato, prima che giungessero gli arresti, tutti questi personaggi erano diventati il blocco di riferimento degli affari di Diabolik. lessandro Telich era l'uomo delle tecnologie, usate per bonificare ambienti e distribuire telefoni satellitari al sodalizio criminale, Fabrizio Fabietti, signore della droga ed Ettore Abramo, capo storico della curva, tutti coinvolti in una maxi inchiesta della Guardia di Finanza dello scorso novembre. Dalle carte delle inchieste appare evidente la sovrapposizione di ruoli: i vertici degli Irriducibili erano anche i vertici di un clan dedito al traffico internazionale di droga, ai pestaggi (affidati per conto del gruppo a uomini come Kevin Di Napoli e Aniello Marotta) e alla cura dei rapporti con altri clan. Ma la storia di Diabolik nel gruppo non è stata solamente quella del leader indiscusso: c’erano molti dissapori sulla sua figura tanto che, oggetto di discussione dopo il suo arresto tra i reduci degli Irriducibili, è proprio la sua figura controversa «perché Diabolik - come racconta un vecchio conoscente della Nord - non andava mai in galera. Il carcere non era il suo vestito, in ogni indagine lui non c'era e quando c'era finiva subito fuori».  Questi dissidi, queste voci emergono sfogliando anche vecchie informative dove al centro si ritrovano i sospetti di molti sodali che ipotizzavano “movimenti strani di Piscitelli con avvocati e gente che conta”. Da notare come un altro capo ultrà Fabrizio Toffolo, per anni amico di Piscitelli, è stato gambizzato due volte. Nella prima occasione, era l'anno 2007, molti non esclusero il fuoco amico. Contrasti e dissidi che producevano voci incontrollate e mezze verità.

L'omicidio di Diabolik ha sconvolto gli equilibri silenziosi che attendevano la sentenza Carminati. Dando vita a una nuova geografia criminale. Eppure a sfogliare l'informativa del Ros dei Carabinieri relativa all'inchiesta Mafia Capitale, si legge a proposito della prima gambizzazione di Toffolo: “Il ruolo di Piscitelli quale leader della tifoseria organizzata della S.S. Lazio (Curva Nord dello Stadio Olimpico) è inequivocabilmente emerso nel corso delle indagini svolte dal Comando Provinciale Carabinieri-Nucleo Investigativo nell’ambito del p.p. 54939/07 di Codesta Procura della Repubblica (relativo al tentato omicidio di Toffolo, altro storico capo ultras della tifoseria della S.S. Lazio". Alla fine per quella storia, però, Piscitelli non fu neanche indagato. Toffolo da anni non è più capo come un tempo. Diabolik, invece, non è mai caduto in disgrazia fino a quando, da signore della droga, boss temuto, è stato ucciso con un solo colpo dietro la testa. Vale la pena ricordare che Piscitelli, prima di tornare libero ed essere ucciso, ha scontato la parte residua dell'ultima condanna in una casa di recupero per tossicodipendenti e alcolisti con tanto di piscina gonfiabile. Ed era con altri boss di rango. 

Centinaia di tifosi sono giunti da tutta Italia per essere presenti all'ultimo saluto al leader degli Irriducibili Fabrizio Piscitelli. Tra loro anche Luca Lucci, il leader della curva del Milan amico di Salvini. Lo scioglimento degli Irriducibili, che mentre chiudono la loro parabola rivendicano la loro storia iniziata nel 1987, arriva non appena lo Stato con un ingente spiegamento investigativo ha decapitato un gruppo che aveva nei vertici trasformato la foga ultrà in strategia criminale, la passione per il calcio in una struttura organizzata dedita a pestaggi, affari con le mafie e traffici internazionali di cocaina. Ora la geografia criminale della città cambierà. «In tanti stanno facendo accordi con i calabresi, altri con i napoletani - ci dice un ex appartenente agli Irriducibili - nessuno vuole morire e tutti vogliono mettersi al sicuro perché è finita un’epoca e di sangue ne è già stato versato parecchio». Roma Nord, territorio di Piscitelli, sarà equamente spartita, una sorta di terra di nessuno dello spaccio, un libero territorio di transito in attesa di un nuovo patto. Ormai da giorni nei quartieri di Primavalle, Battistini, Corso Francia è cambiata l’aria e forse la provenienza degli stupefacenti. Il mercato della droga corre veloce e non ha tempo di fermarsi a pensare. La Roma di Piscitelli non esiste più e morto un Diabolik non se ne fa un altro, almeno per il momento, e con lui muore un gruppo gli Irriducibili. Forse chi gli ha sparato in testa quel giorno di agosto sapeva che facendo fuori Fabrizio Piscitelli le fondamenta criminali della città sarebbe state scosse. Facendo crollare muretti dentro uno Stadio e antiche appartenenze.

Diabolik ucciso dalla 'Ndrangheta. Repubblica Tv l'1 gennaio 2020. Fabrizio Piscitelli, ucciso il 7 agosto 2019 da una calibro 7,65 su una panchina nel Parco degli Acquedotti, aveva fatto uno sgarbo alla ‘ndrangheta. Ne sono convinti in alcuni ambienti, considerato il salto di qualità nella mala che da tempo Diabolik, capo degli Irriducibili della Lazio, aveva fatto. Cresciuto all’ombra del clan Senese e del suo boss, Michele ‘o Pazzo, Piscitelli era considerato da anni a sua volta un capo, al vertice di una organizzazione criminale capace di piazzare in tutta Roma carichi di droga. Era a lui che clan di ‘ndrangheta e camorra dovevano chiedere il permesso per far entrare cocaina o hashish. E la sua ascesa sembrava non avere fine, tanto che, per fermarlo, è stato ingaggiato un finto runner che gli ha trapassato in pieno pomeriggio il cranio con un proiettile senza che nessuno lo vedesse e senza che, ancora oggi, nessuna sappia di chi si tratta. Di Federica Angeli.

Federica Angeli per “la Repubblica - Cronaca di Roma” il 5 gennaio 2020. Erano le 18.50 del 7 agosto. Fabrizio Piscitelli era seduto su una panchina all' interno del parco degli Acquedotti di via Lemonia, in attesa di incontrare una persona. Un rendez vous- trappola: ad aspettare il capo storico della curva Nord della Lazio c' era un killer travestito da runner. Un uomo che ha estratto una pistola calibro 7.65, l' ha poggiata sulla nuca di Diabolik e ha esploso un colpo che lo ha ucciso all' istante, lasciando il cadavere in un lago di sangue fino all' arrivo della polizia. Improprio forse inquadrare l' assassinio di Piscitelli in un "Cold case": sono passati solo 5 mesi. Ma, sulla scia dei precedenti delitti di cui Repubblica si è occupata nelle puntate precedenti, il fil rouge è la mano che deciso la morte di Diabolik. Che si tratti infatti di una esecuzione mafiosa è fuori di ogni dubbio: la procura di Roma, da subito, ha aperto un fascicolo per omicidio aggravato dal metodo mafioso. Ripercorriamo dunque i punti oscuri di questa storia per tracciare il perimetro entro cui l' omicidio e il suo esecutore vanno inquadrati.

Il nome del killer sul cellulare. «È evidente che Diabolik sapesse con chi doveva incontrarsi e che non era lì per caso - spiega l' avvocato Marcello Petrelli - Se non avesse blindato i suoi tre cellulari tanto da renderli impenetrabili, a quest' ora anche gli inquirenti saprebbero quel nome». Il capo degli Irriducibili conosceva il suo killer. E, al momento, c' è soltanto un altro uomo in grado di arrivare a quel nome: Alessandro Telich, un informatico che procurava per Piscitelli e per la banda criminale che guidava, cellulari che non potevano essere intercettati dalla polizia. Telich, che aveva una ditta specializzata in informatica, è riuscito a installare sui tre cellulari in uso a Piscitelli un sistema avanzatissimo per criptarli che nessun software italiano, a oggi, è in grado di decifrare. Tanto che la squadra mobile ha inviato i cellulari della vittima in America. Telich però è stato arrestato un mese fa e ora è in carcere: potrebbe collaborare e sbloccare quei cellulari (se non ha già provveduto a cancellarne i dati) oppure anche essere accusato di concorso in omicidio.

La confessione di Gaudenzi. All' inizio di settembre, a un mese dall' omicidio, Fabio Gaudenzi un amico di vecchia data di Piscitelli, già camerata di scorribande di gioventù come militante in gruppi di estrema destra a fianco di Massimo Carminati, decide di farsi arrestare. «Lo ha fatto per paura di fare la stessa fine di Diabolik » , spiega il suo difensore, il penalista Petrelli.

Pubblica un video su Youtube col volto travisato da un passamontagna e impugnando una pistola. Una volta in carcere confessa di sapere chi ci sia dietro all' omicidio di Piscitelli. « Avevo incontrato Fabrizio il giorno prima che venisse ucciso e mi aveva dato informazioni che gli avevo chiesto di procurarsi su un imprenditore che mi doveva dei soldi: si chiama Macchi». Secondo Gaudenzi dunque sarebbe l' imprenditore fiorentino, il cui nome comparve nell' inchiesta Mondo di mezzo, ad aver avuto un ruolo nel delitto.

Il sodalizio con la camorra. Che Piscitelli fosse l' uomo ombra di Michele Senese, ' o pazzo, il boss della camorra venuto da Afragola a far fortuna nel quadrante est della capitale, Tuscolano-Cinecittà, lo sapeva persino la moglie che, contattata da Repubblica, ha descritto il marito quasi come un santo, ad eccezione di quella amicizia con Senese, dovuta però a ragioni di vicinato. «Abitavano sulla stessa via, ecco perché si conoscevano. Da qui a dire che erano boss che lavoravano insieme ce ne passa».Per conto dei Senese - secondo la Dda - Diabolik ha portato avanti affari importanti, soprattutto legati al mondo della droga e del controllo di videopoker, servendosi della feroce manovalanza ereditata dal boss camorrista: batterie di albanesi, per lo più pugili, pronti a picchiare e a farla pagare ai debitori.

Il salto di qualità. Dopo gli arresti eccellenti per mafia di personaggi più o meno importanti nella compagine criminali di Roma, Piscitelli era rimasta una delle figure malavitose più importanti. Secondo la recentissima indagine della dda di Michele Prestipino "Grande raccordo criminale", il capo degli Irriducibili era diventato talmente potente da gestire direttamente contatti con ' ndrangheta e altre organizzazioni criminali di livello, per far entrare la droga a Roma. " Il broker dello stupefacente", lo hanno definito gli inquirenti nell' ordinanza che ha portato all' arresto di oltre 50 persone nel novembre scorso. Il suo carattere non lo favoriva di certo nella gestione del business. Perché l' arroganza mescolata a presunzione mal si conciliano nei rapporti con boss di alto cabotaggio da generazioni nei giro losco della criminalità organizzata.

In conflitto con la 'ndrangheta? E a meno che non si abbiano santi in paradiso, o nella versione molto più terrena, qualcuno di molto forte che ti copre le spalle, organizzazioni spietate come la ' ndrangheta o la camorra, non si fanno remore a lasciarti steso nel sangue in un parco pubblico di Roma all' ora del tramonto. Escludendo conflitti con la camorra, di cui Piscitelli, era un fido scudiero, non resta che la pericolosa ' ndrangheta quella capace di assoldare un finto runner ed far eseguire un omicidio in modo così professionale. Scavalcando la congettura per esclusione, la pista della ' ndrangheta sembra essere quella più plausibile. La partita di droga restituita Il socio in affari di Diabolik, Fabrizio Fabietti, arrestato nell' operazione dello scorso novembre, restituì, qualche mese prima dell' omicidio, a due 'ndranghetisti da cui importava la droga, una partita di cocaina perché, a suo dire, invendibile in quanto di pessima qualità. Alzare il tiro così tanto potrebbe essere costato la vita alla vera mente dell' organizzazione. Tolto di mezzo Piscitelli infatti, il socio Fabietti non avrebbe avuto la caratura criminale per continuare a comandare.

Alessia Marani e Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 12 gennaio 2020. Smanioso e iracondo. Aveva iniziato a dare fastidio in un ambiente dove non poteva permetterselo, nonostante la sua fama e il credito che negli anni aveva acquisito riuscendo a entrare nelle grazie di un boss da novanta come Michele Senese. «Diabolik ci sta dando dei problemi» confidava un uomo in odore di malavita la scorsa estate – poco prima che Fabrizio Piscitelli venisse freddato su una panchina al parco degli Acquedotti da un colpo di pistola alla testa – a un altro uomo che del capo ultras conosceva le “gesta” dell’Olimpico quando Piscitelli era ancora – e soltanto – il numero uno della curva Nord. Lui non lo aveva capito nonostante qualcuno l’avesse anche messo in guardia, accecato forse da quella smania di dominio che gli aveva annebbiato probabilmente i pensieri a tal punto da non capire più quando era il momento di parlare e quello di stare in silenzio. Quando si doveva rimanere al proprio posto senza forzare confini prestabiliti. Ma provare a frenare Piscitelli era diventato quasi impossibile perché di chiacchiere ne aveva messe in giro molte e in alcuni casi gli avevano forse garantito anche dei “salvacondotti” con la giustizia. Episodi che avevano inceppato l’ingranaggio perfetto che regolava i rapporti nella criminalità organizzata romana dove non ci sono monopoli, ma piuttosto piccoli oligarchi che si dividono la città arrivando a mordersi come cani solo all’occorrenza. Con chi parla Piscitelli? Chi incontra Fabrizio? Cosa va a raccontare in giro Diabolik? Qualcuno forse si era fatto venire il sospetto che gli interlocutori non fossero più solo e soltanto gli amici di sempre, che Piscitelli fosse l’artefice di qualche soffiata, e che pure tra il giro della “mala” avesse iniziato a seminare zizzania nell’entourage di chi è solito sporcarsi con la droga perché rischia in prima persona andando a fare il carico all’estero per mettere la merce a reddito delle piazze di spaccio. Che fosse riuscito a mettersi contro gli stessi uomini con cui sembrava fosse in affari? Adesso chi indaga sulla sua morte è convinto che qualcuno dei “suoi” non lo ritenesse più affidabile tanto da non opporsi alla sua “condanna a morte” decretata a livelli più alti tra i clan che hanno stretto un patto di non belligeranza per il controllo della Capitale. Dalla sera del sette agosto sono passati 5 mesi. Nessuna rappresaglia, nessun regolamento dei conti eppure si dice che Piscitelli avesse le spalle coperte da “o’pazzo’”. Una volta forse. Il capo ultras è stato freddato non in una strada qualunque della Capitale ma nel territorio in cui operano proprio i Senese. Una casualità? O un messaggio chiaro per spiegare la matrice di un gesto concordato tra gruppi criminali per disfarsi di un personaggio diventato scomodo? C’è una data che torna utile a capire probabilmente chi tra i tanti dei suoi amici era forse diventato un nemico. È quella del primo agosto scorso quando la Squadra Mobile di Roma firma l’operazione “Aquila Nera” portando dietro le sbarre un gruppo agguerrito di criminali – 5 albanesi, un rumeno e un italiano – e costringendo ai domiciliari una donna romana e un altro albanese. «Un’organizzazione criminale – si legge nell’ordinanza – dedita alla commissione di un numero indeterminato di delitti di importazione e successiva distribuzione di ingenti quantitativi di cocaina». A guidarli è Lulzim Daiu «capo e organizzatore» che coordinava «i rapporti tra i detentori dello stupefacente all’estero e i corrieri incaricati del trasporto e successiva distribuzione sul territorio italiano». Dopo sei giorni dagli arresti, Piscitelli viene freddato mentre gli affari del gruppo criminale proseguono fino all’8 gennaio scorso quando sempre la Mobile arresta in una seconda “Aquila Nera” altre 4 persone. Tra loro, stavolta, c’è anche Fabrizio Fabietti già in carcere dal novembre scorso dopo gli arresti della Guardia di Finanza nell’operazione “Grande raccordo criminale” nella quale emergeva insieme a Piscitelli come “dominus” di una fitta organizzazione dedita al traffico e allo spaccio di stupefacenti. Sempre quel Fabietti che la sera dell’omicidio di Diabolik, come hanno chiarito le indagini, si trovava al Tuscolano a pochi metri da via Lemonia e da quella panchina dove il suo socio è stato ucciso. E che potrebbe spiegare agli investigatori se dietro la morte del Diablo ci sia proprio una vendetta per le soffiate che hanno portato gli investigatori sulle tracce degli albanesi e non solo.

Diabolik garante della «pax mafiosa» a Ostia: «Devono fare i bravi». Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Dopo l’accusa postuma di essere il capo di una banda di narcotrafficanti, per Fabrizio Piscitelli arriva quella di concorso in associazione mafiosa. Proprio Diabolik – l’ultrà laziale e neofascista assassinato il 7 agosto scorso con un colpo di pistola alla nuca – avrebbe fatto il “garante” per portare la pax mafiosa a Ostia, due anni fa, dopo gli attentati contro il clan Spada. Una missione compiuta con la complicità del suo legale, l’avvocata Lucia Gargano, 35 anni, arrestata stamane dai carabinieri di Roma per lo stesso reato, insieme al quarantacinquenne Salvatore Casamonica, già detenuto al 41 bis. I fatti risalgono al dicembre 2017, quando in un ristorante di Grottaferrata, alle porte della capitale, ci fu il summit tra Casamonica in rappresentanza degli Spada, Piscitelli che parlava a nome della fazione avversa guidata da Marco Esposito detto “Barboncino”, e l’avvocata Gargano, arrivata a riunione in corso e andata via dopo aver preso le consegne da Diabolik; secondo la ricostruzione della Procura di Roma, condivisa dal giudice che l’ha messa agli arresti domiciliari, la donna avrebbe svolto il ruolo di mediatore, portando il messaggio a Ottavia Spada, che si trovava in carcere e doveva aderire al patto di non belligeranza. Per conto dei “garanti” Casamonica e Piscitelli. «Risolviamo questa cosa perché non conviene a nessuno... però poi devono fare i bravi davvero», diceva Casamonica. «Bravo… sui miei ti metto tutte e due le mani sul fuoco», rispondeva Diabolik. E l’altro assicurava: «Io la stessa cosa, capisci che ti voglio dire?». Ancora Piscitelli: «Ci mettiamo seduti un giorno… … Stiamo tra amici… Il sì deve sì e il no deve essere no». Il colloquio è stato intercettato grazie a un infiltrato presente all’incontro che ha registrato le parole di Casamonica, Diabolik e dell’avvocatessa, impegnati a bloccare gli attentati avvenuti a Ostia dopo l’arresto di Roberto Spada, finito in carcere il 9 novembre 2017 per via della famosa “testata” a un giornalista della Rai. Approfittando del momento di debolezza del clan – dovuta anche alla detenzione di Ottavio Spada, fratello di Roberto, e all’obbligo di dimora imposto a Carmine Spada detto “Romoletto”, vittima di due tentati omicidi – il clan rivale guidato da Marco Esposito “Barboncino” era passato al contrattacco con tre assalti in tre giorni: due gambizzazioni, colpi di pistola sparati contro una porta di casa e la vetrina di un bar. Due settimane più tardi avviene l’incontro al ristorante di Grottaferrata. Nel quale Piscitelli chiede all’avvocata Gargano, riferendosi ancora a due dei boss più importanti del clan Spada: «Quando gli ho scritto la lettera di questa situazione di Romolo, di Ottavio, tu gliene hai parlato?». L’avvocato assicura: «Io gliene ho parlato con Romolo, ho parlato…». Il dialogo prosegue sulla necessità di ristabilire gli equilibri mafiosi a Ostia e l’esigenza di “mettere pace», con Casamonica che sottolinea: «Ti ripeto Fabrì, sappi che io e te ci stiamo mettendo in mezzo per fare da garanti». A quel punto Piscitelli insiste sulla necessità che i duellanti «devono fare i bravi davvero». E per questo occorre il benestare di Ottavio Spada, chiuso in carcere, che dev’essere monitorato dall’avvocata. «Gli stai a scrivere questa cosa? Ma lui la legge lì, la strappa subito o se la porta?», le chiede Piscitelli. Nell’intercettazione si sente una mezza risposta della Gargano: «… sennò gli dico...», e Diabolik si raccomanda: «Stanno cose delicate». Piscitelli ha un messaggio pure per un altro avvocato degli Spada, titolare dello studio dove lavora la Gargano, al quale manda a dire: «Questa cosa di Ostia è importante. Io e Salvatore… parlasse con Ottavio, perché Ottavio ci sta in mezzo… se volete noi possiamo mettere di tutto e fate la pace… però deve essere la pace». Parole che nell’interpretazione del pubblico ministero Giovanni Musarò, che conduce l’inchiesta coordinata dal procuratore reggente Michele Prestipino, dimostrano come Casamonica, Piscitelli e Gargano «contribuivano concretamente, pur senza farne parte, alla conservazione e al consolidamento della capacità operativa dell’associazione mafiosa denominata clan Spada, operante sul territorio di Ostia». Di qui l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Riscontrata, secondo la Procura, dagli incontri in carcere dell’avvocata Gargano cominciati il giorno dopo il summit di Grottaferrata, che ne confermerebbero il ruolo di “anello di congiunzione”. Nella prima visita al penitenziario di Rebibbia la legale incontra un detenuto rinchiuso nello stato reparto di Ottavio Spada, e tra dicembre 2017 e febbraio 29018 torna cinque volte in carcere per parlare con direttamente con Spada. Nelle settimane successive gli attentati contro il clan egemone di ostia si sono interrotti, come se la pax mafiosa fosse tornata secondo i desideri espressi in quella riunione al ristorante.

Federica Angeli per repubblica.it il 14 febbraio 2020. L'interrogatorio di una delle vittime del clan Casamonica era previsto per oggi. E invece Christian Barcaccia, imprenditore della Romanina, senza dare alcuna spiegazione né avvertire il tribunale, ha disertato l'aula, non si è presentato. I giudici del X collegio, presieduto da Antonella Capri, dopo aver fatto l'appello dei 37 imputati arrestati nel corso dell'operazione Gramigna del luglio 2018, tutti videocollegati dalle varie carceri italiani in cui sono detenuti, non hanno potuto far altro che prendere atto dell'assenza ingiustificata e rinviare l'udienza al prossimo lunedì 17 febbraio. A quanto risulta da un primo accertamento avrebbe avuto un malore nel corso della notte, ma l'ipotesi che possa aver paura di andare a deporre aleggia nell'aula Occorsio, in cui la tensione è palpabile. Due donne del clan sono sedute in seconda fila, salutano fissando il monitor parenti e amici detenuti, sghignazzano masticando a bocca aperta gomme da masticare, insultano a bassa voce il pubblico ministero Giovanni Musarò, colui che ha istruito l'intero processo contro i Casamonica, al suo arrivo in aula. Tirano un sospiro di sollievo di fronte all'assenza di uno dei testimoni più importanti del processo. Barcaccia infatti avrebbe dovuto raccontare di una estorsione subìta dalla famiglia sinti e in particolare da parte di Giuseppe Casamonica detto “mano monca” e di sua moglie Rosaria che si sarebbero rivolti all'imprenditore e alla sua società (la Wordlluce srl) per l'acquisto di alcuni elementi di arredo per un importo totale di 44mila e 500 euro. Dopo un acconto di 6000 euro, raccontano le carte dell'inchiesta, i Casamonica si sono presentati a richiedere gli arredi che però non erano ancora arrivati. Così è cominciato un vero e proprio assedio nei confronti di Barcaccia, fatto di una presenza costante dei membri del clan nel negozio e un conseguente danno di immagine. “Le richieste nei confronti del Barcaccia - si legge nell'ordinanza - erano fatte con minacce larvate, che consistevano anche nell'essere avanzate continuamente, con un tono aggressivo e nel corso dei mesi”. In alcun conversazioni intercettate si legge il tenore dei toni usati dal clan e delle frasi urlate nell'esercizio commerciale in presenza di altri clienti: “Non me ne frega un cazzo, vedi quello che devi fare ma devi portare i mobili a casa”. Per Barcaccia i giudici hanno disposto l'accompagnamento coatto alla prossima udienza.

Valentina Errante per ilmessaggero.it il 14 febbraio 2020. Svolta nel caso dell’omicidio di Fabrizio Piscitelli, conosciuto con l’alias di Diabolik, ucciso con un colpo di pistola lo scorso 7 luglio nel parco degli Acquedotti di via Lemonia. Dalle prime ore dell’alba militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Roma stanno dando esecuzione a un’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal Gip su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia della capitale, nei confronti di Salvatore Casamonica (esponente apicale dell’omonimo clan, attualmente sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’articolo 41-bis, destinatario della misura della custodia cautelare in carcere) e di un avvocato del Foro di Roma, Lucia Gargano (agli arresti domiciliari), entrambi indagati per il reato di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso (articoli 110 e 416-bis del codice penale). I due, in concorso tra loro e con Fabrizio Piscitelli alias “Diabolik” – il noto capo ultrà ucciso il 7 agosto 2019 al Parco degli Acquedotti – hanno contribuito concretamente al perfezionamento di un accordo finalizzato a stabilire la pace fra il clan mafioso Spada e un altro gruppo criminale operante a Ostia capeggiato da Marco Esposito detto “Barboncino”, contribuendo, in tal modo, a conservare la capacità operativa degli stessi Spada. Le indagini, coordinate dalla Dda e condotte dagli specialisti del Gico del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Roma, si sono sviluppate nel medesimo contesto investigativo delle precedenti operazioni delle Fiamme Gialle denominate “BRASILE LOW COST” e “GRANDE RACCORDO CRIMINALE”, grazie alle quali sono stati arrestati per reati di narcotraffico, oltre a Salvatore Casamonica, Dorian Petoku, Tomislav Pavlovic, Fabrizio Fabietti ed altri 51 sodali. Un summit mafioso il 13 dicembre 2017 nel ristorante Oliveto di Grottaferrata. Al tavolo sedevano Salvatore Casamonica e Fabrizio Piscitelli. L'obiettivo era garantire la pax mafiosa a Roma tra Casamonica, Spada e l'organizzazione criminale capeggiata da Dabolik, ucciso nell'agosto scorso. Proprio il legale, un'avvocatessa romana, secondo il pm Giovanno Musarò avrebbe svolto un ruolo di mediazione. Durante il summit, Diabolik chiede all'avvocato: "Ma quando gli ho scritto la lettera di questa situazione di Romolo (Spada ndr) tu gliene hai parlato?," e il legale risponde: "io ho parlato con Romolo". Dopo di che scrive il gip nell'ordinanza: "si discuteva degli equilibri mafiosi di Ostia e della necessità di mettere pace tra il clan Spada e il gruppo riconducibile a Marco Esposito, detto Barboncino. Piscitelli rappresentava Barboncino, mentre Casamonica e l'avvocatessa erano i plenipotenziari degli Spada. Si legge ancora nell'ordinanza: "Casamonica e Piscitelli fungevano da garanti per l'accordo'. "Ti ripeto Fabrì - dice Salvatore Casamonica durante il pranzo monitorato dalla Finanza - sappi che io e te ci stiamo mettendo in mezzo per fare da garanti, però poi devono fare i bravo davvero". Replica Piscitelli: "bravo eh, sui miei ti metto tutt'e due le mani sul fuoco".

L'Avvocatessa. Durante il summit di Grottaferrata, l'avvocatessa viene incaricata da Piscitelli e Casamonica di portare un messaggio a Ottavio Spada, detenuto, che lei può incontrare in qualità di legale. Messaggio che l'avvocato avrebbe portato effettivamente a nove giorni dal pranzo, durante un colloquio con il suo cliente. Monitorando sul territorio l’evolversi di diverse trattative criminali, i Finanzieri e i loro undercover hanno intercettato, in presa diretta, Salvatore Casamonica e “Diabolik” mentre concordavano la pax mafiosa tra il clan Spada e il sodalizio lidense facendo capo a Esposito. Per siglare e mantenere l’accordo, i due “garanti” (“…io e te ci stiamo mettendo in mezzo per fare da garanti eh!...”) avevano però bisogno del supporto di un professionista quale trait d’union con libertà di movimento, credibile agli occhi degli altri criminali e con possibilità di accesso alle aule di Tribunale e agli istituti carcerari. Il 13 dicembre 2017, il legale giungeva in un ristorante a Grottaferrata (RM) dove, di lì a poco, sarebbe iniziata la riunione illecita, suscitando lo stupore di uno dei presenti (“…Ho paura di tutti questi delinquenti che stanno a questo tavolino… l’avvocato, mamma mia che coraggio che ha! Mamma mia… in mezzo a tutti questi scatenati…”). Ma – come riporta il Gip di Roma nell’ordinanza – “…la presenza dell’avvocato… non era affatto casuale”, tant’è che Casamonica e “Diabolik” iniziavano a parlare della necessità di avviare il processo di pacificazione fra le due fazioni egemoni nel territorio di Ostia solo quando il professionista giungeva al ristorante. D’altronde, la pace da imporre sul litorale si inseriva in un momento storico particolarmente complesso per il clan Spada, dovuto allo stato di detenzione dei propri vertici Ottavio Spada detto “Marco” e Roberto Spada (per il fermo conseguente all’aggressione del giornalista della Rai Daniele Piervincenzi), alle limitazioni cui era soggetto il capo indiscusso della consorteria, Carmine Spada detto “Romoletto” (sottoposto all’obbligo di dimora e vittima di due tentati omicidi nel novembre del 2016) e al fatto che i capi e numerosi sodali del clan Fasciani, federati agli Spada, erano detenuti da anni. In virtù del momento di difficoltà del clan Spada, l’organizzazione riconducibile al “Barboncino” aveva intenzione di “riprendersi” Ostia con atti di forza e di alto impatto sulla cittadinanza: in appena tre giorni venivano infatti perpetrati tre distinti atti intimidatori nei confronti di soggetti organici o contigui agli Spada: il 23 novembre 2017 venivano gambizzati Alessandro Bruno e Alessio Ferreri (quest’ultimo fratello di Fabrizio, cognato del detenuto Ottavio Spada); due giorni dopo, il 25 novembre 2017, venivano esplosi colpi di arma da fuoco contro la vetrina del bar “Music” a Piazza Gasparri a Ostia, nella disponibilità di Roberto Spada; lo stesso 25 novembre altri colpi d’arma da fuoco venivano esplosi in via Forni verso la porta di casa di Silvano Spada (nipote del boss Carmine detto “Romoletto” e di Roberto Spada, nonché organico all’omonimo clan). Come evidenzia il Gip, “una guerra non sarebbe convenuta a nessuna delle due organizzazioni, tanto che Piscitelli e Salvatore Casamonica dichiaravano apertamente che stavano fungendo da garanti di un accordo tra i due gruppi contrapposti”. I citati atti intimidatori avevano turbato Ottavio Spada detto Marco, tanto che Casamonica e Piscitelli, per scongiurare quella che il Giudice definisce “una vera e propria guerra di mafia”, decidevano di dettare all’avvocato una lettera che questi avrebbe dovuto consegnare, qualche giorno dopo, allo stesso Ottavio, ristretto in carcere. In effetti, da lì a poco, cessavano le ostilità sul litorale. Nel mondo criminale romano questa vicenda aveva una tale eco da diventare tema di discussione per mesi: se ne trovano tracce anche tra le righe dell’ordinanza di custodia cautelare relativa all’operazione “Maverik”, che il legale leggeva con preoccupazione ad un suo conoscente. In quelle pagine spiccavano ai suoi occhi alcune frasi di Fabio Di Francesco che, parlando di “Barboncino”, raccontava come solo l’intervento pacificatore di Piscitelli avesse potuto mettere fine ad una faida destinata, altrimenti, a mietere molte vittime: “Romoletto (Carmine Spada) gliel’hanno apparato Diabolik e Fabietti. Perché (Marco Esposito) se stava a cacà in mano”. La lettura delle intercettazioni metteva in agitazione il professionista, che affermava: “mo riarresteranno pure il mio povero Diabolik!” e, consapevole del proprio ruolo in quelle vicende, chiedeva “secondo te mi arrestano? Sicuramente mi indagano”. Quando, nel gennaio del 2019, il Gico dava esecuzione all’operazione “BRASILE LOW COST”, l’avvocato realizzava come alla riunione del 13 dicembre 2017 ci fossero “le guardie” (l’infiltrato delle Fiamme Gialle) tant’è che, forte della sua esperienza forense e consapevole dell’illiceità delle proprie condotte, così si sfogava con un suo collega: “... concorso esterno…”.

Michela Allegri per ''Il Messaggero'' il 15 febbraio 2020. Preparata e ambiziosa. Lucia Gargano, 36 anni, in poco tempo aveva scalato le gerarchie tra gli avvocati in tribunale. Tutti a chiedersi come una ragazza giovane come lei fosse riuscita ad avere nel suo portafoglio clienti di quel peso. La gavetta, dura, l' aveva fatta in uno degli studi legali più noti della Capitale, quello di Angelo Staniscia. E proprio da pochi mesi aveva iniziato il suo percorso personale. Voci di tribunale sostenevano che fosse stata allontanata dal suo dominus. Lei, invece, raccontava di aver scelto da sola la nuova avventura. E di fatto nel suo studio arrivano i pezzi da novanta della mala romana. Difendeva i criminali più pericolosi del Litorale e di Roma, dagli Spada ai Casamonica. La famiglia di Fabrizio Piscitelli si affidava a lei. Era amica e legale delle figlie dell' ultras. Di quei boss, alla fine, era diventata il punto di riferimento. Vestiti eleganti, quasi sempre con tacchi neri, a bordo della sua Fiat 500 arrivava di mattina presto a piazzale Clodio. Nel cortile parlava spesso con i colleghi. Nessuno lo avrebbe immaginato, che quella 36enne tutta selfie sui social, serate con gli amici e ambizioni da influencer fosse il trait d' union tra due clan criminali. E che sarebbe finita in arresto (seppure ai domiciliari) e accusata con Salvatore Casamonica di concorso esterno in associazione di stampo mafioso. «Non è possibile, hanno arrestato Lucia», era ieri il leit motiv nei corridoi della cittadella giudiziaria. La Gargano era una delle più giovani penaliste ad assistere imputati nel processo Mondo di mezzo. Sempre sorridente, tifosa sfegatata della Lazio, nata ad Avellino e arrivata nella Capitale per fare il lavoro dei suoi sogni. Una professione che, per il gip, avrebbe tradito, diventando contigua ai clan criminali. Single, fuori da piazzale Clodio esistevano solo la passione per i biancocelesti, i concerti di Eros Ramazzotti e di Calcutta. Poi le cene a base di sushi con le amiche e le vacanze, in estate, nella sua Campania. Rispettata dai colleghi, ma tenuta in considerazione soprattutto dai boss del narcotraffico che si erano rivolti proprio a lei per siglare la pax mafiosa di Ostia: tra il clan Spada e un altro gruppo capeggiato da Marco Esposito. Non era intimorita, il 13 dicembre 2017, seduta al tavolo del ristorante Oliveto di Grottaferrata, circondata da criminali di spessore. Era l' avvocato di Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, il capo ultrà della Lazio ucciso con un colpo di pistola alla testa al parco degli Acquedotti.  Ed era anche sua amica. Li univano la fede calcistica, ma anche gli affari illeciti. Era stata del Diablo - legato a Esposito - l' idea di siglare la pace tra clan. E proprio lui l' aveva presentata a Casamonica, che rappresentava il clan Spada. La Gargano aveva avuto un incarico preciso: comunicare in carcere al boss Carmine Spada, detto Romoletto, un messaggio di Diabolik, per ristabilire gli equilibri mafiosi di Ostia stravolti da una lunga catena di atti intimidatori e agguati. E lei era il trait d' union tra Romoletto e il Diablo, ma anche il gancio con la Procura, in grado di recapitare messaggi segreti ai detenuti e di informarsi sull' esito delle indagini più delicate. Il summit del 13 dicembre 2017 al ristorante Oliveto serve per fare il punto sulla situazione. Sono presenti Salvatore Casamonica e Piscitelli. C' è anche il francese, il finanziere infiltrato nel clan. Pure lui resta colpito dalla sicurezza della Gargano: «Da solo ho paura! Tutti questi delinquenti che stanno a questo tavolino, questa povera signora: mamma mia che coraggio che ha», dice al telefono. È lei a scrivere il testo del messaggio da presentare a Spada, sotto dettatura. «Gli stai a scrivere questa cosa? - dice il Diablo - senti, ma lui la legge lì, la strappa subito o se la porta?». Piscitelli è preoccupato: «Stanno cose delicate». Il colloquio in carcere con Spada è di pochi giorni dopo. La Gargano va a Rebibbia quattro volte: tra il 12 gennaio e il 2 marzo 2018. Dopo l'operazione Gramigna, che ha decimato il clan Casamonica, nel luglio del 2018, l' avvocato si preoccupa. Parlando al telefono con un amico, il 7 gennaio 2019, definisce gli arresti «il fattaccio», teme di essere sotto inchiesta, ma spera di essersi tutelata: «Avevo già cominciato prima staccandomi da quelle persone, se tu vedi i miei accessi a Rebibbia sono drasticamente calati». L' ansia cresce dopo un' altra retata, l' operazione Maverik, che coinvolge anche Esposito. Tra gli indagati c' è Piscitelli. «Mò riarresteranno pure il mio povero Diabolik», dice parlando al telefono. È il novembre 2018, la Gargano è sempre più spaventata: «Secondo te mi arrestano? Sicuro mi indagano». Il 30 gennaio 2019, dopo l' operazione Brasile Low Cost nei confronti, tra gli altri, di Salvatore Casamonica, capisce di essere nei guai. Si procura tutti gli atti, vede riferimenti al summit di Grottaferrata e si affretta a fare arrivare in procura una nota dove dice che quell'incontro era dovuto a «una circostanza casuale». Gli investigatori non le hanno creduto. Troppi i dettagli sospetti, la spregiudicatezza dimostrata in più occasioni, travalicando i confini della professione. Come quando consegna un cellulare a un assistito che si trovata ai domiciliari, incontrandolo mentre è evaso e ricevendo della documentazione da consegnare ad altri. E ancora: le cene che diventano corsi d' aggiornamento per criminali, con l' avvocato che insegna come eludere i sistemi di sorveglianza telematici ed evitare le intercettazioni usando Whatsapp, e come capire se nei cellulari fossero stati piazzati dei virus informatici.

Valentina Errante per ''Il Messaggero'' il 15 febbraio 2020. «Risolviamo questa cosa, anche perché poi non conviene a nessuno». Così il 13 dicembre del 2017 parlava Salvatore Casamonica, uomo degli Spada. Le gambizzazioni e gli agguati avevano ampiamente dimostrato che sul litorale il clan stava perdendo terreno. Fabrizio Piscitelli, boss emergente, aveva proposto l' incontro. Parlava per conto di Barboncino, al secolo Marco Esposito, il rivale che aveva organizzato gli agguati. Un summit in piena regola, in un ristorante a Grottaferrata, con un' insolita regia: Lucia Gargano, giovane avvocatessa romana, amica e legale di Diabolik e degli Spada. Tanto determinata e decisa a curare gli interessi di entrambi, da portare in carcere ai suoi clienti la proposta della pax. Così spregiudicata da non considerare che il suo lavoro di avvocato non prevedeva di far da tramite per una partita di droga. Da ieri è ai domiciliari con l' accusa di concorso esterno ad un' associazione mafiosa. La stessa accusa ha colpito anche Salvatore Casamonica, già in carcere. Sarebbe arrivata anche per l' ultrà, se un colpo di pistola non lo avesse ucciso lo scorso agosto. Temeva di essere arrestata, Lucia Gargano, la maxi operazione che aveva portato all' arresto di Salvatore Casamonica aveva rivelato che quel giorno a, tavola al ristorante Oliveto, oltre ai sodali albanesi di Piscitelli, sedeva anche un infiltrato del Gico della Guardia di Finanza. E ieri sono stati proprio i militari del Gico a chiudere il cerchio e a notificarle l' ordinanza di custodia cautelare. La scelta di Grottaferrata per l' incontro non è stata casuale: la Gargano scrive il gip «Svolgeva il fondamentale ruolo di trait d' union tra Carmine Spada, detto Romoletto, e Fabrizio Piscitelli, i quali non potevano incontrarsi perché il primo era sottoposto ad obbligo di dimora nel comune di Roma e il secondo a sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno in Grottaferrata». «Si stanno ammazzando», diceva Piscitelli. Quell' incontro era il frutto di una lunga attività di mediazione, secondo i pm Ilaria Calò, Giovanni Musarò e Mario Palazzi, la Gargano aveva già portato altri messaggi. Si trovava, del resto, in una posizione privilegiata: lavorava con l' avvocato Angelo Staniscia, legale di molti esponenti del clan e ai suoi interlocutori assicurava di avere già parlato con il suo capo sulla necessità della mediazione.

LE INTERCETTAZIONI.  «Ti ripeto Fabrì sappi che io e te ci stiamo mettendo in mezzo per fare da garanti, però poi devono fare i bravi davvero», diceva Casamonica a Diabolik durante il pranzo. E Piscitelli: «Bravo, sui miei ti metto tutte e due le mani sul fuoco». E Casamonica: «Io la stessa cosa capisci che ti voglio dire?». Ma la pax non poteva essere siglata senza il placet di Ottavio Spada, detenuto a Rebibbia. Così la Gargano, a tavola, prende carta e penna per riportare esattamente il messaggio. Piscitelli si preoccupa: «Gli stai a scrivere questa cosa? senti, ma lui la legge lì, la strappa subito o se la porta?» E l' avvocatessa: «Sennò gli dico». E Diabolik: «Stanno cose delicate». Il colloquio con Carmine Spada (Romoletto) avrebbe preceduto il summit di Grottaferrata: è Piscitelli a chiedere all' avvocatessa: «Ma quando gli ho scritto la lettera di questa situazione questa situazione di Romolo tu gliene hai parlato?» E lei: «Gliene ho parlato, con Romolo ho parlato». Le verifiche della Finanza confermano: nove giorni dopo quell' incontro la Gargano va a Rebibbia: colloquio con Ottavio Spada. Ma Diabolik ha anche un messaggio per Staniscia.

Scrive il gip: «Lucia Gargano riceveva da Piscitelli un ulteriore messaggio, da recapitare questa volta all' avvocato Angelo Staniscia, al quale lui aveva già spiegato l' importanza della questione». Infatti Diabolik dice: «Gli ho accennato al matto, questa di Ostia è importante». E aggiunge: «Parlasse con Ottavio perché questo Ottavio che ci sta in mezzo, se volete noi possiamo mettere di tutto e fate la pace, però deve essere la pace». L' accordo funziona. Si legge nell' ordinanza: «Diverse circostanze sono indicative del fatto che gli accordi raggiunti nella riunione del 13 dicembre 2017 avevano prodotto effetti, consentendo di raggiungere la pax mafioso perseguita da Salvatore Casamonica (per conto degli Spada e da Piscitelli (per conto del gruppo avverso). Dopo il summit gli atti intimidatori e le gambizzazioni cessano.

Camilla Mozzetti per ''Il Messaggero'' il 15 febbraio 2020. A vederlo da fuori se non fosse per la duplice, eppure minimale insegna, il ristorante L' Oliveto di Grottaferrata sembrerebbe una classica villetta privata come tante ce ne sono in questo comune della provincia di Roma. E invece è qui che Fabrizio Piscitelli ha apparecchiato con Salvatore Casamonica l' incontro per la pax mafiosa di Ostia: «Perchè una guerra non conviene a nessuno», concordano i due boss. Per chi arriva a piedi all' Oliveto si scende un gradino di mattoncini e ci si ritrova davanti la porta che pare quella di una vecchia locanda: maniglia in ferro battuto ricamato e una vetrata incorniciata dal legno. Una volta dentro, sulla sinistra, su un tavolino che precede una parte della cucina a vista, ci sono delle pirofile in vetro con mozzarelle e ricottine. A destra si apre invece la sala, rettangolare, con una quarantina di coperti e pareti spessissime in muratura. Le finestre sono arcuate e impreziosite da tende ricamate color crema. La luce del sole filtra appena. Viene incontro uno dei gestori e al nome di Piscitelli dice: «Lo conosco perché sono della Lazio ma non ricordo quel giorno, sicuramente non aveva prenotato perché fissiamo i tavoli solo nel weekend. Non era un cliente abituale, con lui nessun rapporto». Il 13 dicembre 2017 era un mercoledì. Quel giorno, di quasi tre anni fa, si svolse il summit tra Salvatore Casamonica, Fabrizio Piscitelli, il francese, l' avvocato Lucia Gargano - a cui in un secondo momento prese parte anche l' albanese Dorian Petoku - ed altri soggetti non identificati tra cui un certo Roberto per discutere la pax mafiosa tra il clan Spada di Ostia e il gruppo capeggiato da Barboncino, al secolo Marco Esposito, che stava tentando la scalata alla più potente famiglia malavitosa del litorale romano. Piscitelli garantiva per Barboncino e il suo gruppo tra cui gli albanesi. Casamonica, che comunque con gli ultimi era in affari, garantiva a sua volta per gli Spada.

Quando Piscitelli, Casamonica e gli altri si accomodarono al tavolo l' esordio della conversazione fu chiaro come chi sa già cosa ordinare senza leggere neanche il menù: «Ti ripeto Fabrì - disse Salvatore Casamonica - io e te ci stiamo mettendo in mezzo per fare da garanti eh!...però poi devono fare i bravi davvero». E Piscitelli rispose: «...o sui miei ti metto tutte e due le mani sul fuoco...Questa cosa di Ostia è importante!». A Tavola furono ricordati anche gli ultimi episodi contro il clan Spada, come la gambizzazione di Alessio Ferrari, i colpi di arma da fuoco esplosi sulla porta dell' abitazione di Silvano Spada e contro il bar Music di Roberto. Piscitelli commentò: «Mo si stanno ammazzando» e Casamonica a seguire: «Sì sì vabbè dai risolviamo questa cosa! Anche perché poi... non conviene a nessuno penso io no Fabrì?». Sempre il capo ultrà: «Oggi sono più forti questi altri due... (riferendosi a Barboncino ndr) hai capito che ti voglio dire?... il sì deve essere sì e il no deve essere no». Bisognava mettere un freno. «L' avvocatessa Gargano - si legge nell' ordinanza de gip Corrado Cappiello - si impegnava a sensibilizzare l' avvocato Angelo Staniscia affinché anche lui parlasse con il detenuto Spada Ottavio per avere rassicurazioni in merito al rispetto degli accordi». «Io e Salvatore.. parlasse con Ottavio - aggiunse Piscitelli - perché questo Ottavio ci sta in mezzo se volete noi possiamo mettere di tutto e fate la pace...però deve essere la pace». A registrare la conversazione, uno dei partecipanti: il francese, già in attività con Casamonica e l' albanese Petoku per un grosso traffico di droga proveniente dal Brasile di cui si stava discutendo proprio in quei mesi. L' uomo, che in passato aveva conosciuto nel carcere di Marsiglia un corriere della droga di Casamonica e che gli aveva fatto da tramite poi per entrare nel giro, aveva deciso di collaborare con le forze dell' ordine, diventando quindi un infiltrato della guardia di finanza. Dopo che l' avvocato Gargano quel giorno lasciò il gruppo, con la promessa di recapitare una lettera dettata da Piscitelli a Ottavio Spada per suggellare la pax, al ristorante arrivò Dorian Petoku e si tornò a discutere di stupefacenti. Soprattutto dell' affare che Casamonica stava portando avanti con gli albanesi: importare dal Sud America grossi quantitativi di droga da piazzare a Napoli e Roma sfruttando un canale svizzero. Camilla Mozzetti

Mirko Polisano per ''Il Messaggero'' il 15 febbraio 2020. Aveva puntato gli occhi su Ostia, Diabolik. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per avere il controllo della piazza di spaccio del litorale di Roma, anche di fare da mediatore per una pax criminale che avrebbe giovato al suo tornaconto personale. È la pista investigativa che sta prendendo sempre più corpo all' indomani dell' arresto di Salvatore Casamonica e dell' avvocato Lucia Gargano in affari proprio con Fabrizio Piscitelli, ucciso con un solo colpo alla testa mentre era seduto su una panchina di via Lemonia. Dopo gli arresti dei Fasciani prima e degli Spada poi a Ostia si è creato un «vuoto di potere» in un territorio che dai tempi della Magliana è stato al centro degli interessi criminali non solo romani. Così a tentare la scalata sono stati gli emergenti di Barboncino, al secolo Marco Esposito. Classe 1978 e un curriculum di precedenti di tutto rispetto: prima soldato dei Fasciani, poi affiliato degli Spada e infine loro nemico. Gli ha fatto la lotta negli ultimi anni, arrivando anche a tentare di uccidere uno dei fratelli Spada e lo stesso boss Romoletto. Ma questa guerra di certo non avrebbe fatto comodo a chi avrebbe voluto mettere le mani sul fiume di droga che scorre parallelo alla foce del Tevere. E in più ci sono gli albanesi che spingono ad Acilia e che sono disposti a prendersi Ostia. Hanno armi e soldi e l' appoggio delle famiglie legate ai Casalesi: Guarnera, Iovine, Costagliola. Per fare un carico di droga più forze, diverse, si uniscono. Poi decidono come rivenderla, stabiliscono le quote, le stecche che spettano a ognuno. E Barboncino è una presenza forte anche ad Acilia, legato da vincoli di parentela con i Sanguedolce, nemici giurati dei napoletani Costagliola. Una piazza che Diabolik vuole prendersi a tutti i costi ma proiettili e sangue fanno troppo clamore. Così decide di sostenere la «batteria» di Barboncino per poi sedersi al tavolo delle trattative con Casamonica per farsi «garante» di un patto non belligerante su Ostia. È lo stesso Piscitelli a rifornire di droga il gruppo di Barboncino: stupefacenti per 40mila euro. Un «ingente quantitativo», come scrive la procura, che inizia a girare sul litorale. Il passo successivo per avere l' esclusiva del controllo è andare a parlare con gli Spada che però sono in carcere. È Salvatore Casamonica in affari con Diabolik la persona più vicina al clan sinti di Ostia. Tramite l' avvocato Gargano, difensore degli Spada, mandano un messaggio a Romoletto, il boss in carcere. Basta a sparatorie e attentati: «Mo si stanno ammazzando», dice Piscitelli. Il gruppo di Barboncino deve essere lasciato in pace e in cambio non ci sarà più nessun attacco degli emergenti agli Spada. Per poi suggellare la pax criminale: «sui miei ti metto tutte e due le mani sul fuoco». Piscitelli garantiva per Barboncino, ma da Marco Esposito prendeva anche la manovalanzza. Kevin Di Napoli, pugile di professione, era sia un picchiatore per conto di Diabolik che un membro del clan degli emergenti. Il suo nome, non a caso, compare sia nell' operazione Maverick, quando i carabinieri del Gruppo Ostia sgominarono per primi la batteria di giovani di Acilia e Ostia; sia nell' operazione Grande Raccordo Criminale che ha rivelato gli affari di Piscitelli. Ma Di Napoli è solo uno degli anelli di congiunzione tra il mondo di Ostia e quello di Diabolik.

Giuseppe Scarpa per ''Il Messaggero'' il 16 febbraio 2020. Diabolik l' ultras della Lazio, il neofascista e il narcotrafficante. E infine Diabolik il mediatore, seduto a capotavola per negoziare la pax tra clan a Ostia, plenipotenziario di un altro boss, Marco Esposito, soprannominato Barboncino. Il punto di partenza per la scalata al vertice. Fabrizio Piscitelli, 53 anni, assassinato con un colpo di pistola alla nuca il 7 agosto al Parco degli Acquedotti, aveva bruciato le tappe. Arrivato nel gotha del grande crimine romano iniziava a sentirsi, non solo arbitro, ma anche padrone. In una piazza però, quella di Roma, che non accetta re.

IL SOCIO. Piscitelli e il suo socio in affari Fabrizio Fabietti, uno capace di scontrarsi in carcere con i mafiosi di Cosa Nostra come Sante Fragalà, volevano estendere il loro dominio su gran parte della Capitale. E del loro ambiziosissimo progetto ne stava iniziando a fare le spese anche Barboncino. Proprio quel Marco Esposito di cui Diabolik, nel summit del 13 dicembre 2017 con Salvatore Casamonica, emissario degli Spada, doveva curare gli interessi. Niente guerra tra la batteria di Esposito e la decimata (dagli arresti) famiglia Spada nel litorale romano. Questo il successo incassato dal Diabolik diplomatico. Ma mentre El Diablo con una mano aiutava Barboncino, con l' altra gli sfilava gli uomini di peso. Su tutti il pugile, picchiatore e quindi riscossore di debiti di droga, Kevin Di Napoli. D' altro canto lo scenario per il duo Piscitelli-Fabietti era propizio, gli Spada, i Casamonica e i Fasciani indeboliti erano stati decimati dagli arresti. E Barboncino e i suoi uomini, per l' emergente coppia criminale, erano veramente poca cosa. Tenuto conto, tra l' altro, che Esposito vantava debiti di droga (40 mila euro) con Fabietti e aveva accettato che Diabolik ne portasse le istanze nel tavolo della pace tra clan, apparecchiato al ristorante Oliveto a Grottaferrata, con Salvatore Casamonica.

LE INTERCETTAZIONI. A fare una spietata analisi, dei nuovi e sempre mutevoli equilibri criminali romani, sono due uomini vicini a Barboncino intercettati dal Gico della Guardia di Finanza. Si tratta di Fabio Di Francesco e Natale Perrulli. I due commentano il successo della negoziazione di Diabolik, nell' incontro con Salvatore Casamonica, capace di raggiungere un accordo con gli Spada ed evitare dei guai ad uno spaventato Marco Esposito: «Romoletto (Spada) gliel' hanno apparato Diabolik e Fabietti. Perché (Barboncino) se stava a cacà in mano». Ma dopo il prestigioso successo diplomatico del 13 dicembre 2017 Diabolik cerca di passare subito all' incasso. Il 25 settembre 2018, il duo Piscitelli e Fabietti blandisce uno degli uomini di Esposito: «Controverso avvicinamento del Kevin Di Napoli al gruppo criminale con a capo Fabietti e Piscitelli, con conseguente allontanamento dello stesso dall' organizzazione» guidata dal Barboncino, annota la finanza nell' informativa finale Grande Raccordo Criminale.

IL PUGILE. Sono sempre Perrulli e Di Francesco a spiegare i movimenti in atto nella mala romana. «Il 21 aprile 2018 - annotano le fiamme gialle - Perrulli e Di Francesco ritornavano a discutere di Fabietti e Piscitelli e delle vicende che vedevano coinvolti questi ultimi, intenzionati a rompere gli equilibri dei propri rivali. Di Francesco: Stanno attizza' Kevin a rompere gli equilibri con Marco». E ancora «o vogliono mette su, lo vonno tirà. Si, lo vonno portà dalla parte loro, come con Lorenzo. Eh però, portandose Kevin pensano che pure Lorenzo poi capito?». A quel punto un Di Francesco infuriato riferiva a Perrulli che il pugile Di Napoli avrebbe dovuto rimanere con loro. E che anzi si sarebbe dovuto fare portatore di un messaggio bellicoso nei confronti di Diabolik e soci, dopo avergli pagato un debito di droga. «No però senti, da Kevin che arriva là con i dieci sacchi e gli dice: noi abbiamo i conti diversi però se succede qualche cosa scendiamo tutti per strada». Il 27 aprile 2018 ogni progetto di guerra è messo da parte, ed un più accondiscendente Di Francesco dice «io voglio crea' una pace globale». Ma né per la pace né per la guerra ci sarà il tempo sufficiente. Di Francesco, Perrulli e Barboncino vengono arrestati ad ottobre del 2018 dai carabinieri di Ostia. Diabolik muore il 7 agosto scorso assassinato da un killer e l' altro ufficiale del crimine romano, Fabietti, viene arrestato tre mesi fa.

Valentina Errante per ''Il Messaggero'' il 16 febbraio 2020. Sosteneva Fabrizio Piscitelli di averne parlato anche con Angelo Staniscia. Il dominus dello studio legale dove Lucia Gargano, finita venerdì ai domiciliari con l' accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, era cresciuta professionalmente fino a stringere rapporti extra mandato con i clienti più importanti, da Spada a Casamonica allo stesso Diabolik, secondo l' ultrà laziale sarebbe stato interessato della mediazione tra i clan. Così afferma Piscitelli nelle intercettazioni. Angelo Staniscia, secondo le parole di Diabolik, sarebbe stato sollecitato a parlare con Ottavio Spada per convincerlo che una tregua, nella guerra scoppiata a Ostia tra il suo clan, indebolito dagli arresti, e quello emergente di Marco Esposito, sarebbe stata utile a tutti. Il matto, così Piscitelli chiama l' avvocato e allo stesso modo lo indica Lucia Gargano nelle intercettazioni. Non ci sono, però, riscontri sul fatto che Staniscia abbia dato seguito a quell' invito. Ma l' ordinanza che ha portato ai domiciliari l' avvocatessa sembra un frammento di un' indagine assai più ampia: mancano dei pezzi nelle contestazioni, a cominciare dal telefono che la Gargano consegna a un cliente ai domiciliari, che riesce poi a mettersi così in contatto con ambienti criminali. Il 13 dicembre 2017, al ristorante Oliveto di Grottaferrata, all' incontro organizzato per parlare di un carico di droga e della pace tra i clan, Lucia Gargano era attesa. «L' avvocato? Deve ancora arrivare?», chiede Piscitelli. Da lì a breve la giovane donna raggiunge gli altri commensali. A tavola siedono Salvatore Casamonica, Diabolik, il francese, che si rivelerà essere un agente infiltrato della Finanza, e poco dopo anche Dori Petoku, leader del gruppo di albanesi che hanno investito nel traffico di droga sul litorale. Diabolik introduce la Gargano ai presenti: «È il nostro avvocato di fiducia». La missione di Gargano è andare in carcere e chiedere il placet di Ottavio Spada per siglare la tregua. Annotano i finanzieri: «Piscitelli affermava di aver già comunicato al matto che questa cosa qui di Ostia è importante e che lui (Piscitelli) e Salvatore (Casamonica) si stavano esponendo». L' avvocatessa annuisce e Diabolik torna a parlare di Staniscia: «Il matto parlasse con Ottavio perché questo Ottavio che ci sta in mezzo, se volete noi possiamo mettere di tutto e fate la pace... però deve essere la pace». «Mo' riarresteranno pure il mio Diabolik», commentava Lucia Gargano nel novembre 2018. In carcere era appena finito Barboncino e il fatto che Piscitelli, ritenuto responsabile di una cessione di droga da 40mila euro, non fosse stato arrestato, le faceva capire che l' inchiesta dovesse essere più ampia. Annotano i militari del Gico: «Lucia Gargano riferiva a Piscitelli di essersi procurata l' intera informativa con le intercettazioni integrali e che c' era qualcosa in più, ma le frasi più importanti erano quelle, diceva. Su sollecitazione di Piscitelli, comunque, avrebbe riletto tutto per controllare meglio il contenuto». È novembre 2018, quando Lucia Gargano, si legge nell' ordinanza, «si è prodigata per consegnare personalmente un telefono ad Alessio Lori, sottoposto alla misura degli arresti domiciliari presso il centro di solidarietà Don Guerrino Rota di Spoleto, incontrandolo fuori dalla comunità e ricevendo della documentazione da consegnare a terze persone, tra cui Mimoza Zogu, sorella di Arben Zogu». L' avvocatessa, annota ancora il gip, «ha provveduto anche ad effettuare le ricariche telefoniche richieste da Lori che nelle settimane seguenti è così riuscito a intrattenere rapporti con soggetti inseriti in contesti criminali, in particolare, tramite la sorella Mimoza, con Arben Zogu». Fatti non contestati all' avvocatessa che inducono a pensare che l' inchiesta dei pm Ilaria Calò, Giovanni Musarò e Mario Palazzi avrà presto nuovi sviluppi.

Marco De Risi e Alessia Marani per ''Il Messaggero'' il 16 febbraio 2020. A Ponte Milvio gli albanesi amici di Diabolik sono spariti. Da quando il capo ultras della Lazio è stato ucciso il 7 agosto scorso con un colpo alla nuca nel Parco degli Acquedotti, a Cinecittà, anche la geografia criminale di Roma sembra cambiata. In realtà, almeno a Ponte Milvio, dove il Diablo era di casa, il panorama era iniziato a variare già qualche tempo prima. Con un'escalation di bar, ristoranti, alberghi, locali della movida, coiffeur e bar-berie, finiti nell' arco degli ultimi anni nell' orbita dei clan calabresi o di loro epigoni, tutte attività aperte nel raggio di poche centinaia di metri, sino al Fleming. Nomi come Rizzuto o i Pelle originari di San Luca, dove ha base una delle ndrine più feroci del pianeta, hanno preso indirizzo in zona o spuntano improvvisamente nei libri paga dei locali più in voga. A gennaio uno strano episodio: due auto finiscono incendiate nei pressi di Corso Francia. Apparentemente non c' è nulla che desti sospetti, se non che una delle utilitarie era parcheggiata sotto casa, si scoprirà, del figlio di un calabrese di rango. La macchina era intestata a un' altra persona ma, di fatto, a usarla era proprio il ragazzo che, di recente, aveva avviato un' attività nel settore beauty a Ponte Milvio. Uno strano corto circuito o qualcuno ha dato fuoco all' auto dell' imprenditore? Mistero. Martedì scorso le forze di polizia vengono chiamate per dare esecuzione allo sfratto di un albergo in via della Farnesina. La gestione dell' hotel, poco più di un anno fa, era stata ceduta dai proprietari a una società composta da tre pregiudicati per droga di Crotone che avevano deciso di trasferire business e residenza a Roma. I primi tre-quattro mesi di canone erano stati regolarmente pagati, poi ogni versamento era stato interrotto. Ma a fare precipitare le cose erano state le continue liti interne fra i tre soci, visti girare più volte per Ponte Milvio accompagnati da avvocati e guardaspalle. Ormai il sodalizio era minato e i proprietari delle mura ne hanno approfittato per chiedere lo sfratto, eseguito senza problemi. Ma chi hanno ospitato in tutto questo tempo i gestori morosi nelle loro stanze? Tutti gli ospiti sono stati regolarmente registrati? Chissà. Non si potrà mai sapere. Gli investigatori stanno scandagliando indizi, visure camerali e certificati anagrafici, che confermerebbero l' ascesa delle 'ndrine in questo angolo esclusivo di Roma Nord dove la movida crea un indotto da milioni di euro all' anno. Insomma, una gigantesca e ottimale lavatrice in cui arrivare persino a potere vendere la cocaina (che qui, secondo i beninformati, gira a fiumi) con tanto di scontrino: il cliente entra, consuma, e paga. Dalla Calabria, intanto, fioccano le nuove residenze nel quartiere. C' è persino chi ha appena deciso di scontare gli arresti domiciliari a due passi dalla Chiesa della Grande Madre di Dio, come nel caso di un pluripregiudicato che annovera precedenti per droga, istigazione alla corruzione e associazione a delinquere di stampo mafioso. È qui che sta scontando la sua pena. Se le indagini sul Mondo di Mezzo avevano disegnato una pacifica convivenza nella piazza tra i romani di Carminati e i fratelli napoletani Esposito con gli albanesi amici di Fabrizio Piscitelli, questi ultimi operanti sotto l' ala protettiva di Michele Senese O' Pazz', adesso a Ponte Milvio gli equilibri sembrano mutati. Da quando Diabolik è morto, poi, gli albanesi sarebbero spariti del tutto, complici anche le inchieste giudiziarie che ne hanno portati dietro le sbarre un bel po'. Ma tanti altri restano arroccati tra Acilia, Fonte Nuova e i Castelli, senza più mettere piede a Roma Nord.

A. Mar. per “il Messaggero” il 17 febbraio 2020. È nel ruolo di Fabrizio Piscitelli come pacificatore, nella sua veste di broker per il narcotraffico internazionale che ricopriva insieme con l'amico Fabrizio Fabietti, che gli inquirenti cercano la chiave per arrivare a chi abbia sentenziato la sua uccisione, avvenuta il 7 agosto dello scorso anno nel parco degli Acquedotti, in pieno pomeriggio. La mediazione con Salvatore Casamonica per porre la pace a Ostia tra gli Spada e il clan rivale capeggiato da Marco Esposito, detto Barboncino, sarebbe solo una delle tante vicende - seppure significativa in quanto il Lido e l'aeroporto di Fiumicino sono da sempre una porta per la droga a Roma - per cui Diabolik, carismatico capo della Curva Nord laziale, si sarebbe speso, sempre nel silenzio dei suoi telefoni criptati. Se Fabietti, intercettato nell'operazione Grande Raccordo Criminale della Guardia di Finanza diceva, riferendosi alla droga, «la devo dà a tutta Roma», preoccupandosi di fare arrivare coca e hashish di qualità dal Sudamerica e dai Balcani alla Capitale, il Diablo, stando a chi indaga, avrebbe rappresentato la garanzia per concludere gli affari. Non a caso dopo il summit del 13 dicembre del 2017 al ristorante l'Oliveto di Grottaferrata a cui partecipò anche il suo avvocato, Lucia Gargano, ora ai domiciliari - in cui si parlò oltre che della tregua necessaria a Ostia anche di un carico di coca da fare arrivare via Svizzera - Diabolik sentì puzza di bruciato e disse poi alla Gargano che «quando vengono quelli che ti dicono che ti calano la droga con agli aerei... so' guardie». E sventò la trappola messa in campo dal francese, un infiltrato. I summit a Grottaferrata, almeno tra gli albanesi amici di Piscitelli e Fabietti, e Salvatore Casamonica, erano del resto, stando alle intercettazioni di un'altra operazione del Gico, Brasile low cost, una prassi che dava la cifra di un «rapporto di collaborazione consolidato in un contesto avviato da tempo», come scriveva il gip. A Roma la pax mafiosa serve soprattutto per non intralciare gli affari milionari messi in campo dai signori della droga in continuo contatto con i fornitori all'estero (narcos di calibro ormai impiantati tra la Spagna, il Centro e il Sudamerica) e finanziatori di rango (le organizzazioni criminali), e non può essere messa a rischio da beghe tra clan. Ognuno mette la sua parte, i suoi uomini e i suoi soldi in un affare e attende, a operazione conclusa, che gli arrivi il giusto profitto. Può Piscitelli, in questo contesto, avere fallito? A volte anche gli affari migliori non riescono, i soldi non tornano indietro e gli uomini finiscono in galera: può qualcuno avergliene attribuito la colpa? Resta il fatto che Diabolik era un fumantino e che può avere alzato troppo la posta o la cresta fino a decretare la sua fine. Intanto, sarà interrogata questa mattina dal gip Corrado Cappiello, Lucia Gargano, l'avvocatessa finita ai domiciliari venerdì scorso con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. La professionista dovrà chiarire il suo ruolo al summit di Grottaferrata durante il quale, secondo i pm Ilaria Calò, Giovanni Musarò e Mario Palazzi, si sarebbe prestata a portare in carcere ad Ottavio Spada il messaggio di Fabrizio Piscittelli e Salvatore Casamonica per una pax tra i clan ad Ostia.

ROMANZO CRIMINALE CAPITALE: LA MAFIA È UN'IDRA A MOLTE TESTE. Francesca Fagnani per ''il Fatto Quotidiano'' il 16 febbraio 2020. Nella palude romana i clan sono come l' idra, il mostro acquatico a sette teste, che tagliate ricrescono sempre. "Er Più" a Roma non esiste, c' è spazio per tutti e i capi sono tanti. Le mafie tradizionali - camorra, cosa nostra, 'ndrangheta - continuano a fare affari e soprattutto a ripulire i loro capitali illeciti, immettendoli nei circuiti legali. Gli altri si spartiscono il controllo del territorio e dello spaccio: i Casamonica, gli Spada, il gruppo degli albanesi, i sopravvissuti della vecchia mala romana e poi lui, Fabrizio Piscitelli, Diabolik che sembra essere più interpretabile da morto che da vivo, nonostante ancora non si sappia (o non sia stato ancora reso pubblico) il nome del killer né quello dei mandanti del suo omicidio, avvenuto il 7 agosto scorso. Quali sono i pesi criminali che controllano oggi la Capitale? Nella puntata di Non è l' Arena in onda questa sera su La7 si cercherà di dare una risposta a questo interrogativo, partendo proprio dall' omicidio di Diabolik, strategico per il riassetto di alcuni degli equilibri criminali della città. "Piscitelli è morto prima di poterci spiegare tante cose - ci dice il maggiore Stilian Cortese, alla guida del gruppo operativo Antidroga della Guardia di Finanza - Con la sua morte ci saranno grandi cambiamenti negli equilibri criminali della città". In questa chiave va letta l' operazione Tom Hang realizzata due giorni fa dal Gico, perché fotografa relazioni tra gruppi e interconnessioni tra zone distanti della città impensabili fino a poco tempo fa. Come quella tra Salvatore Casamonica, boss in grado di trattare direttamente con i cartelli sudamericani l'ingresso a Roma di sette tonnellate di cocaina purissima e proprio lui, Fabrizio Piscitelli, personaggio scaltro ed eclettico, che da una parte godeva della popolarità derivante dal suo essere capo ultrà della Lazio e dall'altra del peso sempre maggiore che aveva acquisito nel mondo della distribuzione della droga a Roma. Nell' altra recente operazione "Grande Raccordo Criminale", in cui sono finite in cella 50 persone, a capo della banda dedita al narcotraffico erano indicati proprio Diabolik e il suo vice Fabrizio Fabietti. Non entrava un grammo di droga a Roma senza che loro lo sapessero. Diablo si era allargato, tanto, forse troppo. Da Ponte Milvio, dalla sua Roma Nord era arrivato fino al mare, fino ad Ostia, dove nel frattempo era scoppiata una vera e propria guerra di mafia tra il clan Spada, indebolito dagli arresti dei suoi capi e la batteria che ne voleva prendere il posto: il gruppo di Marco Esposito, alias Barboncino, cresciuto con il clan Triassi e diventato sempre più autonomo. Gli Spada, per anni al servizio del clan Fasciani - i "cani dei Fasciani" a detta di qualcuno - non potevano più contare nemmeno sui vecchi alleati, in carcere, anche loro per mafia. Le faide di mafia però non fanno comodo a nessuno, rallentano gli affari e attirano l' attenzione delle forze dell' ordine. Bisognava imporre la pace e a farlo doveva essere qualcuno che fosse rispettato e riconosciuto dai gruppi criminali in guerra, pur non facendone parte. Come per l' appunto Fabrizio Piscitelli e Salvatore Casamonica, garanti per la batteria di Barboncino il primo e per gli Spada il secondo. Per questo Casamonica e Piscitelli si siedono attorno ad un tavolo in un ristorante di Grottaferrata: "Ti ripeto Fabri' sappi che io e te ci stiamo mettendo in mezzo per fare da garanti eh! - dice intercettato Casamonica - oh sui miei ti metto tutte e due le mani sul fuoco" risponde Diabolik. A quel pranzo però era presente anche "il francese", un agente infiltrato delle Fiamme Gialle che registrò tutto, compreso un arrivo inatteso, quello di Lucia Gargano, 35 anni, avvocato del foro romano, accusata oggi di concorso esterno in associazione mafiosa. "Salvatore Casamonica e Fabrizio Piscitelli - spiega ancora il maggiore Cortese - potevano garantire la pace ma avevano bisogno che qualcuno si recasse in carcere da Ottavio Spada, detto Marco, a cui erano stati rivolti tutti gli attentati compiuti ad Ostia. Era necessario spiegare ad Ottavio che non si sarebbe dovuto vendicare, impegnandosi a mantenere la pace". A portare questo messaggio è proprio Lucia Gargano, che però non si ferma qui, ma compie secondo gli inquirenti tutta una serie di azioni illecite per agevolare il clan Spada e altri pregiudicati, come far evadere momentaneamente un suo assistito da una struttura per tossicodipendenti fornendogli denaro in contanti e telefoni con i quali tra l' altro è stato poi contattato Arben Zogu, un noto narcos albanese. Sembra una fiction, invece è la realtà marcia di Roma, dove per decenni i Casamonica sono stati indagati sempre per gli stessi odiosi reati per finire poi assolti o prescritti. Erano gli anni della Banda della Magliana e nelle sentenze già compariva il nome dei Casamonica, utilizzati dalla Banda per il recupero credito e per spezzare le ossa a chi ritardava i pagamenti. Cosa è successo negli anni successivi? Nulla. Nel 2008 viene condannato Giuseppe Casamonica, uno dei capi del clan, ma nel 2014 la sua condanna viene estinta per prescrizione. A pensar bene, volendo escludere la malafede o peggio, il fenomeno è stato a lungo sottovalutato tanto da potersi radicare nel territorio romano, crescere e moltiplicarsi. Vale per i Casamonica, per gli Spada, per lo stesso Piscitelli, che è morto da uomo libero. La giustizia di quello che un tempo era chiamato "il porto delle nebbie" oggi può dire di aver consegnato alle patrie galere, per mafia al 41bis, gran parte degli capi dei clan romani, grazie soprattutto all' azione tenace del procuratore reggente Michele Prestipino e della sua squadra, tra cui il pm Giuseppe Musarò, che sta portando avanti il maxi processo ai Casamonica, tra le urla e gli insulti dei parenti degli imputati, sempre presenti a tutte le udienze. Finché non si capirà che questa è mafia e non è folklore non andremo lontano, a differenza dei clan.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 18 febbraio 2020. Due ore e mezzo di interrogatorio in cui l'avvocato Lucia Gargano ha fornito la sua versione sull'incontro tra i boss tenuto a Grottaferrata il 13 dicembre del 2017. Un summit a cui erano presenti i rappresentanti degli Spada. Ovvero Salvatore Casamonica e la Gargano. Mentre dall'altra parte del tavolo sedeva, come plenipotenziario di Marco Esposito, detto Barboncino, Fabrizio Piscitelli. L'obiettivo dell'incontro era siglare la pace a Ostia tra il clan nomade e la batteria di Barboncino. Affinché si raggiungesse l'accordo era necessario incassare l'assenso di uno dei boss degli Spada. Ottavio, detenuto in carcere, e a cui la Garagano, in qualità di legale, avrebbe dovuto recapitare il messaggio sulla pax mafiosa. L'avvocatessa indagata per concorso esterno in associazione mafiosa, ha fornito la sua versione ai pm. Si sarebbe trattato di un pranzo del tutto casuale, «io non ho portato nessun messaggio in carcere». Ma le domande dei magistrati della Dda Giovanni Musarò, Ilaria Calò e Mario Palazzi, hanno toccato anche un altro argomento. Le date dei colloqui in carcere. Infatti, ad autorizzare la tregua nel litorale romano, doveva essere Ottavio Spada. Boss detenuto a Rebibbia. A lui bisognava recapitare un messaggio affidato alla Gargano.

Tuttavia, come è emerso anche ieri durante l'interrogatorio, dopo il summit il primo a parlare con il boss Spada sarebbe stato il dominus della Gargano, Angelo Staniscia il 18 dicembre. La penalista è andata il 21 dicembre, mentre il 14 ha incontrato altri detenuti, tra cui uno rinchiuso nello stesso reparto del carcere assieme a Spada. I pm hanno insistito su questo argomento anche perché, come emerge dall'ordinanza, la Gargano durante il summit mafioso ha ricevuto precise indicazioni da parte di Diabolik affinché, dell'intera partita venisse informato anche lo stesso Staniscia. Questo passaggio è stato evidenziato dal gip Corrado Cappiello: «Nella circostanza, inoltre, Gargano riceveva da Piscitelli un ulteriore messaggio, da recapitare questa volta all'avvocato Staniscia, al quale lui (Diabolik) aveva già spiegato l'importanza della questione. «Gli ho accennato al matto (Staniscia) spiega questa cosa di Ostia è importante!», sottolinea Piscitelli alla Gargano nel famoso pranzo a Grottaferrata del 13 dicembre 2017. L'ordinanza prosegue così: «La Gargano avrebbe dovuto rappresentare a Staniscia la necessità di parlare con Ottavio Spada, in modo da ricevere anche il suo assenso all'accordo di pace». Ed ecco un'altra intercettazione sempre di Diabolik: «Parlasse (Staniscia) con Ottavio perché questo Ottavio che ci sta in mezzo.. se volete noi possiamo mettere di tutto e fate la pace.. però deve essere la pace». Gli investigatori tuttavia, ad oggi ritengono sia stata la Gargano a recapitare in carcere la proposta di pace il 21 dicembre. Questa l'argomentazione dei pm impressa nell'ordinanza: «Sul piano logico, avendo Spada già fatto un colloquio con il suo difensore di fiducia Staniscia in data 18.12.2017, non vi sarebbe stata ragione per un nuovo colloquio dopo tre giorni» da parte della Gargano. «Sicché non può che ritenersi che Gargano abbia utilizzato il colloquio del 21.12.2017 per comunicare a Spada il messaggio di Casamonica e Piscitelli». Dunque l'avvocatessa ha sostenuto di fronte ai pm che l'incontro a Grottaferrata con Casamonica e Piscitelli sarebbe stato del tutto fortuito. Si sarebbe recata nella cittadina dei Castelli Romani perché Diabolik aveva lì l'obbligo di dimora. Nell'incontro, secondo la sua versione, avrebbero dovuto discutere di un'inchiesta in cui era coinvolta la moglie di Piscitelli. L'appuntamento sarebbe stato fissato, ha spiegato Gargano, in un centro estetico della famiglia dell'ultras. Ma qui Piscitelli non si sarebbe fatto trovare. L'avvocatessa, allora, accompagnata dalla consorte di Diabolik e da due Irriducibili sarebbe andata al ristorante Oliveto. Qui avrebbe incontrato Piscitelli e Casamonica e sarebbe stata, senza volerlo, coinvolta nella discussione sulla pax mafiosa di Ostia.

Michela Allegri per “il Messaggero” il 19 febbraio 2020. Aveva capito di essersi spinta troppo oltre, nelle relazioni pericolose con boss e criminali. Lucia Gargano, legale di Fabrizio Piscitelli, che lo aveva aiutato a organizzare la pax mafiosa di Ostia, temeva di finire in carcere. Ma sapeva a chi chiedere aiuto: i suoi rapporti opachi non erano solo con la malavita: erano anche con le forze dell'ordine. Quando i clan del litorale e della Capitale hanno iniziato a essere decimati da raffiche di arresti, la Gargano si è preoccupata e si è rivolta a un carabiniere per avere dritte e consigli. Quelle conversazioni sono finite agli atti dell'inchiesta dei pm Giovanni Musarò, Ilaria Calò e Mario Palazzi, in cui l'avvocatessa di Diabolik è finita ai domiciliari per concorso esterno in associazione mafiosa. I suoi timori erano diventati più consistenti che mai il 17 luglio 2018, quando l'operazione Gramigna aveva portato in carcere 37 persone, quasi tutte affiliate al clan Casamonica. Tra gli arrestati c'era anche Salvatore Casamonica, che mesi prima, a cena a Grottaferrata con la Gargano, aveva siglato con Piscitelli la tregua tra i clan di Ostia: gli Spada e i soci di Marco Esposito, detto Barboncino. Lei, leggendo gli atti, aveva capito di essere stata intercettata. Si era quindi rivolta a un carabiniere che, sei mesi dopo, l'aveva tranquillizza. È il 7 Gennaio 2019. «Sono passati sei mesi dal fattaccio», dice il militare. Ma lei è preoccupata: «Non significa niente - risponde - le ordinanze le fanno dopo quando gli pare». Lui sottolinea che le «cose brutte» sarebbero dovute essere imminenti. E lei replica che «sempre brutte sono, anche se vengono a fare una perquisizione a casa, gli dico mettetemela a posto se riuscite». La Gargano, temendo di essere arrestata a sua volta, ha iniziato a tutelarsi. E lo racconta sempre al miliare: da quando ha saputo degli arresti, i suoi colloqui a Rebibbia con i detenuti coinvolti, in particolare con Spada, sono «drasticamente calati». Evidentemente, sottolineano i pm, «temeva che gli inquirenti avessero acquisito elementi utili a dimostrare il suo ruolo di postino a Rebibbia», dove avrebbe consegnato a Ottavio Spada i messaggi di Diabolik. La Gargano aveva iniziato a utilizzare cautele quando parlava al telefono: con Piscitelli parlava via Whatsapp o attraverso Signal e Wit. D'altronde, il Diablo era il re delle conversazioni criptate: aveva sul cellulare un dispositivo in grado di modificare la sua voce, facendola sembrare femminile. Lo racconta Denise Bartoli, ex fidanzata di Alessio Lori, cliente della Gargano legato agli Spada: «Cambia la voce, dice che ha messo la voce da donna». Una conversazione intercettata durante una cena a casa di Paolo Prearo, il 17 dicembre 2018. Lui si trova ai domiciliari e, nonostante questo, ha invitato amici pregiudicati e anche la Gargano. In quell'occasione l'avvocato tiene una lezione su come evitare le intercettazioni. Dice di cancellare sempre i messaggi su Whatsapp e sottolinea che è un'app difficile da captare: «Solo se ti sequestrano il telefono e trovano le chat». Invita i presenti a usare l'Iphone - «è il più sicuro» - aggiornandolo «sempre, sempre» e a fare attenzione a mail o messaggi particolari, perché avrebbero potuto nascondere un virus della polizia giudiziaria, «che ne so ti arriva una mail finta della banca che tu pensi che è vera». Per gli inquirenti, la Gargano era «insensibile alle prescrizioni connesse alle misure custodiali». E l'avrebbe dimostrato in due occasioni precise. Il 19 giugno 2019, avrebbe consentito tramite l'utenza del suo studio legale un colloquio non autorizzato tra Carmine Spada, detenuto a Voghera, e la compagna Emanuela Leone. Ma nel giugno 2018 sarebbe avvenuto un fatto ancora più grave: la dimostrazione, per gli inquirenti, che l'avvocato fosse «disponibile ad assecondare qualsiasi tipo di richiesta di soggetti detenuti». Alessio Lori, che era ai domiciliari in una comunità di Spoleto, aveva chiesto alla Gargano di procurargli un telefono. Inizialmente, l'avvocatessa diceva che sarebbe stato imprudente consegnarglielo subito, visto che era appena arrivato e non aveva ancora appoggi: «Innanzitutto fatti qualche amico, vedi pure con gli operatori come sono... non è che ti dico no e devi stare tutto il tempo qua così isolato dal mondo». Per non destare sospetti, la Gargano decide di consegnare il telefono dopo la visita del fratello di Lori, in modo da non essere l'unica sospettata, e utilizza una scheda intestata a uno straniero, per evitare che il suo assistito facesse «impicci con la scheda intestata a me». L'incontro è il 15 novembre.  Lori si nasconde tra la vegetazione, sale di nascosto sulla macchina dell'avvocatessa e le dice dove andare: «Sbrigate, sono scappato, dai dai, mannaggia la miseria sono tre ore che ti sto facendo così con l'accendino sbrigati Lucia». Poi, lo scambio: la Gargano dà al detenuto un cellulare e 200 euro, e lui le consegna delle lettere da recapitare ai suoi soci.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Nino Agostino.

Duplice omicidio Agostino, chiesto rinvio a giudizio per i due boss. Le Iene News il 02 luglio 2020. Dopo 31 anni dal duplice omicidio dell’agente Nino Agostino e della moglie, Ida Castelluccio, la svolta nelle indagini e la richiesta di rinvio a giudizio per Gaetano Scotto e Antonino Madonia. Con Gaetano Pecoraro ci siamo occupati di questo caso, intervistando anche Scotto. La procura generale di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio di Madonia Antonino e Scotto Gaetano per il duplice omicidio dell’agente Nino Agostino e della moglie avvenuto il 5 agosto 1989. Per Rizzuto Francesco, che era amico dell’agente Nino, è stato chiesto il rinvio a giudizio per favoreggiamento aggravato. L’agente Agostino venne ucciso da due killer a colpi di pistola mentre entrava nella villa di famiglia a Villagrazia di Carini con la moglie, Ida Castelluccio, incinta di cinque mesi. Un mese e mezzo prima Nino aveva sventato l’attentato all’Addaura, ai danni del giudice Giovanni Falcone. Con Gaetano Pecoraro, nel servizio del 28 febbraio 2016 che potete vedere qui sopra, abbiamo ripercorso i misteri e gli intrighi che avvolgono l’omicidio di Nino. “È morto perché faceva il suo dovere fino alla fine”, ha detto alla Iena il padre di Nino, Vincenzo, che in segno di protesta non si è più tagliato barba e capelli, “finché non avrò la verità”. La Iena ha incontrato anche il boss Gaetano Scotto, che aveva negato non solo di essere responsabile dell’omicidio di Vincenzo Agostino ma anche di essere un affiliato delle associazioni mafiose. Era il 2016 e a proposito dell’omicidio dell’agente Agostino, aveva detto:  “Questo è tutto un processo che andrà in fumo, io non so niente”. E quando la Iena gli ha chiesto se ha fatto parte della mafia, ha risposto “No, io me ne sono andato latitante, ma non per queste cose, per la droga”. Riferendosi al padre di Nino, Vincenzo, ha aggiunto: “A me dispiace per il figlio, io non posso pensare quello che può sentire una persona quando gli muore il figlio”. Poco dopo il nostro servizio, la Procura ha acquisito questa nostra intervista. “La mia più grande paura è di non vedere chiuso questo processo, non vedere condannato chi ha ucciso mio figlio”, ha detto alla Iena Vincenzo. Ora, dopo 31 anni dal duplice omicidio, arriva una svolta nelle indagini e la richiesta di rinvio a giudizio per i due boss. “È emerso che l’agente Agostino assolveva anche ‘mansioni coperte’, che esulavano dai suoi compiti ordinari istituzionali”, si legge nel comunicato stampa della Direzione Investigativa Antimafia. “Con particolare riferimento ad iniziative assunte unitamente ad esponenti di spicco dei Servizi di sicurezza e apparentemente finalizzate alla ricerca di latitanti di mafia di spicco. Sono state acquisite, in particolare, dichiarazioni da parte di alcuni collaboratori di giustizia sugli esecutori materiali del delitto, indicati nelle persone di Gaetano Scotto e Antonino Madonia, nonché in ordine al movente, che si è rivelato di peculiare complessità, poiché ambientato nel torbido terreno di rapporti opachi tra componenti elitarie di Cosa Nostra e alcuni esponenti infedeli delle Istituzioni”. Nelle nuove indagini è emersa poi la figura di Francesco Rizzuto, minorenne all’epoca dei fatti e amico di Agostino. Grazie alle investigazioni della Dia di Palermo, è stato possibile raccogliere prove, ora al vaglio del Gup, “sul fatto che Rizzuto, in più occasioni, abbia reso dichiarazioni false, contraddittorie e reticenti in ordine a quanto accaduto nel giorno e nel luogo in cui fu commesso il delitto e, in generale, su quanto a sua conoscenza”, si legge nel Comunicato. L’udienza preliminare è prevista per il 10 settembre. 

Delitto Agostino, la svolta dopo 31 anni. La procura generale chiede il processo per i boss Madonia e Scotto. Pubblicato giovedì, 02 luglio 2020 da La Repubblica.it. Erano amici inseparabili, Nino Agostino e Francesco Paolo Rizzuto: 28 anni, il poliziotto; 16, il suo vicino di casa. Anche la notte prima del delitto, erano usciti insieme in barca, per una battuta di pesca. Il pomeriggio, Nino fu assassinato da due killer. Era il 5 agosto 1989. Adesso, dopo 31 anni di misteri, l’amico del cuore è accusato di aver aiutato quei sicari, con il suo silenzio e tante bugie. Rizzuto è indagato per favoreggiamento aggravato. Anche per lui la procura generale diretta da Roberto Scarpinato ha chiesto il rinvio a giudizio. In cima alla lista, i boss Antonino Madonia e Gaetano Scotto, il capo mandamento di Resuttana e il boss dell'Arenella, ora accusati di essere mandanti ed esecutori del delitto del poliziotto e della moglie, Ida Castelluccio. Questa mattina, sono stati notificati agli indagati le richieste di rinvio a giudizio. Udienza preliminare davanti al gup il 10 settembre. Dice il direttore della Dia, il generale Giuseppe Governale: "Dopo 31 anni dall'efferato duplice omicidio, la Dia e la Procura generale di Palermo forniscono un nitido quadro probatorio sul movente e sugli autori di uno dei più raccapriccianti delitti commessi da Cosa nostra contro i rappresentanti delle istituzioni, spingendo la propria tracotanza fino agli incolpevoli e vulnerabili affetti familiari. La Dia e la procura generale - prosegue il generale Governale - hanno fatto proprio il tormento e la sofferenza di una famiglia che, con grande compostezza e dignità, ha atteso verità e giustizia. Ho ritenuto di chiamare personalmente il padre dell'agente Agostino, per testimoniargli ancora una volta la mia vicinanza personale e istituzionale".

L'inchiesta. L'indagine della Direzione Investigativa antimafia, coordinata dai sostituti procuratori generali Nico Gozzo (oggi alla Dna) e Umberto De Giglio, ha esplorato la zona grigia in cui hanno convissuto mafiosi e ambienti deviati dei servizi segreti. Agostino, ufficialmente agente del commissariato San Lorenzo, andava a caccia di grandi latitanti. Probabilmente per conto dei Servizi. Già la sera del delitto, un collega di pattuglia aveva scritto all’allora capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera che Nino andava a caccia dei grandi latitanti: "Me l’ha confidato lui". Ma quella notizia così importante rimase chiusa in un cassetto per quattro anni, mentre La Barbera (lo stesso che poi costruì il falso pentito Scarantino) si ostinava a indagare sulla pista di un’improbabile vendetta dei familiari di un’ex fidanzata di Nino. La sera del delitto, avvenne anche dell’altro: agenti della Mobile, probabilmente insieme a uomini dei Servizi, perquisirono casa di Agostino, ad Altofonte, portando via alcuni appunti. "La verità sulla morte di mio figlio e di mio nuora è dentro lo Stato — continua a ripetere Vincenzo Agostino — ringrazio i magistrati per il loro prezioso lavoro, finalmente dopo tanti anni, vediamo la speranza di un processo. È un punto di partenza, perché non conosciamo ancora i nomi dei mandanti. Qualcuno dentro lo Stato sa, ma continua a restare in silenzio".

Il complice. Le nuove indagini contestano altri silenzi colpevoli all’amico di Nino, Francesco Paolo Rizzuto, che oggi ha 47 anni, prima d’ora mai nessun guaio con la giustizia, è un operaio specializzato che lavora nel settore delle ferrovie, sposato con figli. Due anni fa, era stato convocato come testimone al palazzo di giustizia, adesso i magistrati scrivono: "Ha eluso le investigazioni, tacendo elementi a sua conoscenza e riferendo circostanze false in relazione al delitto". Avrebbe visto qualcosa che non ha mai raccontato. Nell’audizione, disse di essersi allontanato con il suo scooter dopo il delitto. "Ha invece taciuto di essere rimasto — scrive l’accusa — con la maglia che indossava coperta di sangue". Una circostanza emersa nell’ultima indagine. Ha detto il signor Agostino: "La famiglia Rizzuto abitava accanto alla nostra villetta. La mattina del delitto, il padre di Paolo mi chiese la barca di Nino. Nel pomeriggio, invece, il ragazzo mi domandò più volte a che ora sarebbe arrivato mio figlio, quel giorno aveva cambiato turno. Ma appena arrivò, Paolo andò via. Mi sono sempre chiesto perché". Per l’avvocato degli Agostino, Fabio Repici, "il processo che sembrava un miraggio è oggi a portata di mano, nel silenzio e nell’inerzia di tanti".

Il papà di Nino Agostino: “Deluso da Pm, credo nello Stato e chiedo giustizia”. Giorgio Mannino de Il Riformista il 7 Marzo 2020. «Finalmente ci sarà un processo che spero porterà alla luce la verità. A molti scomoda». L’espressione del volto e gli occhi lucidi non riescono a nascondere l’emozione. Vincenzo Agostino, padre del poliziotto Nino Agostino ucciso a Villagrazia di Carini il 5 agosto 1989 in circostanze tutte da chiarire insieme alla moglie incinta Ida Castelluccio, “dopo tanti anni di sofferenza” vede “una luce in fondo al tunnel”. Settimana scorsa la procura generale di Palermo ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini – preludio alla richiesta di rinvio a giudizio – ai boss Gaetano Scotto e Nino Madonia, considerati gli esecutori materiali dell’omicidio. E all’amico di Nino Agostino, Francesco Paolo Rizzuto, indagato per favoreggiamento aggravato. Dopo quasi trentuno anni di buchi neri e depistaggi e un intricato iter giudiziario fatto di archiviazioni, rigetti di richieste d’arresto e riaperture dei fascicoli d’indagine, “qualcosa – dice Agostino – sembra muoversi”.

«Non ho potuto leggere i documenti perché bisogna aspettare i tempi tecnici, ma sicuramente questa notifica mi fa ben sperare. Ci sarà un processo, mi auguro che il giudice trovi i dovuti riscontri per poter dare giustizia alla mia famiglia, ma anche ai tanti uomini caduti per lo Stato. Spero solo di avere la forza di vedere concluso questo eventuale processo. L’età avanza. La procura generale è arrivata a questo punto dopo una richiesta d’archiviazione della procura, un provvedimento del gip che ha rigettato due richieste d’arresto e dopo due avocazioni di cui una è stata annullata dalla Cassazione. Rimasi molto deluso quando i pm chiesero l’archiviazione dopo tanti anni d’indagini. Spesso io e mia moglie (Augusta Schiera, morta un anno fa, ndr) andavamo al tribunale, ci venivano date notizie. Alla fine non hanno saputo mettere i tasselli al posto giusto. La procura generale ha avocato a sé le indagini e ora vedremo cosa accadrà».

Secondo lei perché è stato ucciso suo figlio?

«Non saprei. So soltanto che ogni tanto mio figlio mi chiedeva la cortesia di contattare qualcuno per provare a fargli cambiare sede. Non amava il commissariato San Lorenzo, diceva, “perché altrimenti finiremo nel calderone”. Ma nel calderone finì soltanto lui. Cosa c’era in quel commissariato? Chi erano gli infedeli? Perché voleva andare via? Una settimana prima dell’omicidio mi diceva che con la sua macchina non poteva più circolare, gli chiedevo il perché ma lui glissava. E poi c’è quella frase che mi tormenta, pronunciata da mia nuora poco prima che le sparassero: “So chi siete”. Chi aveva riconosciuto la moglie di mio figlio?»

La procura ha individuato un nome nuovo: Francesco Paolo Rizzuto. Chi era?

«Non me l’aspettavo. Era amico di Nino, a volte andavano a pescare insieme. Quando lo conobbi era ragazzino. Secondo i procuratori generali avrebbe assistito all’agguato e conoscerebbe elementi utili per risalire agli esecutori. Dato che non avrebbe raccontato tutto è indagato per favoreggiamento aggravato. Spero dirà qualcosa di utile. Un altro nome è quello di Giovanni Aiello, detto “faccia da mostro”, al centro di tante vicende italiane ancora oscure. Nell’aula bunker dell’Ucciardone ho fatto un riconoscimento all’americana. Lui venne a casa mia a cercare mio figlio pochi giorni prima del suo omicidio. Perché? La procura non lo ha interrogato per 19 mesi. Credo che sarebbe stato convocato nel settembre 2017, ma il 21 agosto è morto d’infarto. È stato giusto non chiamare a deporre subito quest’uomo? Non sono mancati i depistaggi. Quelli che avrebbe compiuto Guido Paolilli, collega e amico di Nino Agostino, distruggendo i documenti trovati nell’armadio di suo figlio durante la perquisizione dopo l’omicidio. Indagato nel 2008 per favoreggiamento aggravato, le accuse sono cadute in prescrizione. In sede civile, però, ha chiesto un risarcimento danni di 50 mila euro: come mai? È stato commesso un furto di verità. Mi diceva sempre che mi avrebbe fatto vedere sei fogli che aveva trovato tra le carte di Nino. Fogli che secondo lui non mi avrebbero fatto piacere. Ma io gli ripetevo che dovevo vederli. Lui tergiversava. Poi è spuntata l’intercettazione in cui Paolilli, parlando al figlio, dice di aver preso dall’armadio di Nino “una freca di cose che ho poi stracciato”».

Perché è importante continuare a cercare la verità?

«Facendo luce sull’uccisione di mio figlio si scopriranno tanti legami indicibili che c’erano in quegli anni. La gente onesta ha bisogno di giustizia».

Omicidio Nino Agostino, 31 anni di indagini e depistaggi senza alcun risultato. Giorgio Mannino de Il Riformista il 7 Marzo 2020. La sua barba è sempre più lunga e non la taglierà fino a quando non avrà giustizia. Quella che manca da trentuno anni. Vincenzo Agostino pretende verità sull’omicidio del figlio poliziotto Nino e della nuora incinta Ida Castelluccio, freddati da due sicari, ancora senza nome, il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Un fatto di sangue – commesso nell’estate dei veleni palermitani dopo le lettere del Corvo e dopo il fallito attentato all’Addaura al giudice Giovanni Falcone – pieno zeppo di buchi neri, omissioni, depistaggi che hanno inquinato la verità. In un’odissea giudiziaria che continua ad essere un incubo tra fascicoli aperti, poi archiviati e nuovamente riaperti. L’ultimo spiraglio dal quale sembra filtrare una flebile luce prova ad accenderlo la Procura generale di Palermo guidata da Roberto Scarpinato. Dopo trentuno anni di indagini, una richiesta d’archiviazione della procura (a cui la famiglia Agostino si era opposta tramite il legale Fabio Repici), un provvedimento del gip che ha rigettato due richieste d’arresto e dopo due avocazioni di cui una, la prima, è stata annullata dalla Cassazione, l’inchiesta sul delitto Agostino arriva in un’aula di un’udienza preliminare. Pochi giorni fa la procura generale del capoluogo siciliano ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini, preludio alla richiesta di rinvio a giudizio, ai boss Gaetano Scotto (nuovamente arrestato tre giorni fa nell’ambito dell’operazione della Dia “White Shark” con l’accusa di associazione mafiosa) e Nino Madonia e al compagno di pesca – all’epoca sedicenne – di Nino Agostino, Francesco Paolo Rizzuto, indagato per favoreggiamento aggravato. Scotto, considerato da molti collaboratori di giustizia l’anello di collegamento tra mafia e servizi segreti, ha sempre negato di appartenere alla mafia e di avere avuto un ruolo nel delitto del poliziotto palermitano. Ma la chiusura delle indagini da parte della procura generale e il nuovo arresto del presunto boss dell’Arenella, potrebbero fornire nuovi elementi su un duplice omicidio ancora senza colpevoli. Perché fu ucciso Agostino? E come mai la strada verso un processo è così tortuosa? Secondo quanto emerso dalle indagini finora effettuate, Agostino sarebbe stato impegnato nella ricerca dei latitanti e probabilmente indagava sul fallito attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone. Dopo l’omicidio, per il quale il capo della Mobile Arnaldo La Barbera batté la pista passionale, il secondo tentativo di depistaggio proseguì quando furono fatte sparire le carte di Agostino che il poliziotto conservava nell’armadio di casa sua. Il padre, Vincenzo, ha sempre raccontato che «mio figlio nel portafogli portava un biglietto in cui era scritto di andare a cercare dentro il suo armadio nel caso in cui gli fosse successo qualcosa». Gli appunti, però, sparirono. Nella sua casa di Altofonte ad arrivare per primo fu un poliziotto, Guido Paolilli, che, parlando con il figlio, inconsapevole di essere intercettato, ammise, di avere fatto “sparire una freca di carte”. Indagato per favoreggiamento, la sua posizione è stata archiviata per prescrizione. A Paolilli, però, Vincenzo Agostino ha chiesto un risarcimento di 50mila euro. Alle numerose anomalie investigative che hanno allontanato la verità si è aggiunto anche altro: Vincenzo Agostino ha dovuto fare i conti, in un confronto all’americana, con Giovanni Aiello, ex agente di polizia ritenuto vicino ai servizi segreti e conosciuto anche come “faccia da mostro” per una cicatrice sul volto. Morto nel 2017, Aiello era tra gli indagati del delitto Agostino. Secondo l’accusa avrebbe aiutato i due presunti killer, Madonia e Scotto, a fuggire. Vincenzo Agostino, durante il confronto nell’aula bunker dell’Ucciardone, lo aveva riconosciuto tra le lacrime e le urla di dolore come l’uomo che, una settimana prima dell’omicidio, si era presentato a casa sua per chiedere del figlio. Adesso un nuovo processo rinfocola le speranze: «Aspetto giustizia da trentuno anni – dichiara Vincenzo Agostino – nonostante tutto ho ancora fiducia nello Stato. Spero di tagliare presto la mia barba».

Delitto Agostino, il gip dice no all'arresto dei boss Nino Madonia e Gaetano Scotto. Rigettata la richiesta della procura generale che aveva avocato l'inchiesta. Trent'anni dopo, l'omicidio del poliziotto e della moglie è destinato a restare un mistero. Il dolore della famiglia. Salvo Palazzolo il 28 gennaio 2020 su La Repubblica. Da trent’anni è un mistero, destinato a durare ancora. Nei mesi scorsi, la procura generale di Palermo aveva chiesto due arresti per l’omicidio dell’agente Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio: per i boss Nino Madonia e Gaetano Scotto. Ma ieri il giudice delle indagini preliminari Marco Gaeta ha rigettato la richiesta di custodia cautelare. Per il gip, non ci sono sufficienti elementi per stringere il cerchio delle responsabilità attorno al capomafia del mandamento di Resuttana, in carcere dal dicembre 1989, e per il mafioso dell’Acquasanta da sempre ritenuto trait d’union fra Cosa nostra e ambienti deviati dei servizi segreti. Resta il mistero, nonostante gli appelli accorati dei genitori e delle sorelle dell’agente ucciso: «Quanta amarezza – ci diceva alcuni giorni fa papà Vincenzo al palazzo di giustizia – mia moglie Augusta è morta quasi un anno fa senza conoscere la verità, e io sono ormai stanco di combattere contro un muro di gomma: la verità sulla morte di Nino e Ida, ne sono sicuro, è dentro lo Stato». E oggi l'avvocato di parte civile della famiglia, Fabio Repici, rilancia: «Prendiamo atto della decisione del gip, assunta con una certa lentezza, la riteniamo gravemente sbagliata. Rileviamo che ancora lo Stato a oltre trent’anni dal delitto non abbia la forza per affermare la verità sull’uccisione di Nino Agostino e Ida Castelluccio. Riteniamo che ciò sia oggettivamente l’effetto del coinvolgimento di apparati istituzionali nel delitto».

Il depistaggio. Nino Agostino era ufficialmente un poliziotto addetto alle volanti del commissariato San Lorenzo. In realtà, avrebbe dato la caccia ai grandi latitanti, Riina e Provenzano. La sera del delitto – il 5 agosto 1989 - un compagno di pattuglia lo riferì all’allora capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera: «Me lo ha confidato lui stesso», scrisse in una relazione di servizio. Ma quella notizia così importante rimase chiusa in un cassetto per quattro anni, mentre La Barbera (lo stesso che poi costruì il falso pentito Scarantino) si ostinava a indagare sulla pista di un’improbabile vendetta dei familiari di un’ex fidanzata di Nino. La sera del delitto, avvenne anche dell’altro: agenti della Mobile, probabilmente insieme a uomini dei Servizi, perquisirono casa di Agostino, ad Altofonte, portando via alcuni appunti.

La nuova indagine. Cosa c’è davvero dietro la morte di Nino e di Ida, che era incinta? I pentiti di mafia non hanno mai saputo dire nulla sugli esecutori del delitto. Tre anni fa, il procuratore generale Roberto Scarpinato aveva avocato l’indagine dopo la richiesta di archiviazione della procura per Scotto e Madonia. Nel fascicolo era indagato anche Giovanni Aiello, sospettato di essere “faccia da mostro”, il killer di Stato al servizio della mafia, poi deceduto nell’agosto 2017: alcuni collaboratori hanno raccontato di averlo visto in vicolo Pipitone, il quartiere generale della cosca di Resuttana. La procura generale ha fatto nuove indagini, assieme agli investigatori del centro operativo Dia di Palermo. A seguire il caso sono stati i sostituti procuratori generali Nico Gozzo, da oggi in servizio alla procura nazionale antimafia, e Umberto De Giglio.

La pista nera. È stata approfondita anche una pista che già aveva portato la procura a sentire l’ex estremista di destra Stefano Volo, il professore noto a Palermo per le sue scuole private: secondo il suo ultimo racconto, Agostino gli avrebbe fatto da scorta, nella primavera del 1989. In quei mesi, Volo aveva chiesto di fare delle dichiarazioni: un funzionario di polizia del commissariato San Lorenzo, Elio Antinoro, lo aveva messo in contatto con Giovanni Falcone. Fra il 28 marzo e il 18 maggio, vennero fatti dodici interrogatori: il professore Volo confermava la pista dei killer neofascisti per l’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella, e poi rivelò di far parte della “Universal legion”, una struttura legata ai servizi segreti che assomigliava molto a Gladio, di cui ancora nessuno sapeva. Quegli interrogatori dicono molto della grande attenzione di Falcone per le parole di Volo. Poi, tutto precipitò: a giugno, il fallito attentato dell’Addaura. Ad agosto, l’omicidio Agostino. Al funerale del poliziotto, il giudice disse al commissario Montalbano, che dirigeva San Lorenzo: «Questo omicidio è un segnale contro me e te». Frase rimasta misteriosa, che però lega gli eventi di quel 1989. Ora, la procura generale potrebbe fare appello contro il no del gip e insistere al tribunale del riesame per gli arresti. Mentre la famiglia torna a chiedere un processo: «Siamo convinti, ormai da anni - dice ancora l'avvocato Repici - che le prove della responsabilità siano certe, nel processo riteniamo di poterlo dimostrare. Almeno questo lo Stato deve consentirlo, altrimenti la sua credibilità sulla strada della verità e della giustizia da oggi sarebbe nulla e irrecuperabile».

Delitto Agostino, "Quel poliziotto depistò le indagini". Il padre gli chiede un risarcimento. Vincenzo Agostino, il papà dell'agente ucciso a Palermo nel 1989. L'ispettore in pensione Paolilli dovrà presentarsi al tribunale civile di Palermo. "Ha distrutto gli appunti di mio figlio". Salvo Palazzolo il 13 gennaio 2020 su la Repubblica. Da trent’anni aspetta di sapere chi ha ucciso suo figlio Nino e la moglie incinta, Ida, quel pomeriggio del 5 agosto 1989. "E’ un dolore ancora grande - dice Vincenzo Agostino – perché oggi so che la verità è dentro lo Stato". Il papà del poliziotto diventato il simbolo delle battaglie per fare luce sui misteri di Palermo non è disposto a rassegnarsi. E con l’avvocato Fabio Repici ha deciso di lanciare un’iniziativa senza precedenti: ha chiesto un risarcimento all’ispettore accusato di aver depistato le indagini con la distruzione degli appunti del figlio ucciso nel 1989. Lui si  chiama Guido Paolilli, abita a Montesilvano (Pescara), è in pensione ormai da anni, giovedì dovrà presentarsi davanti al giudice del tribunale civile di Palermo Paolo Criscuoli. Papà Agostino e le sorelle di Nino gli chiedono 50 mila euro. "L’indagine per favoreggiamento nei suoi confronti si è chiusa solo per l'intervenuta prescrizione", ricorda l’avvocato Repici. "Le intercettazioni della Dia non lasciano dubbi sul suo ruolo". Il 21 febbraio 2008, a casa Paolilli stavano seguendo un'intervista del signor Agostino, sulla Rai, il figlio dell'ispettore chiese un commento, la risposta del padre fu lapidaria: "Una freca di cose, che… proprio… io ho pigliato e poi ne ho stracciato…". Cosa c’era scritto in quegli appunti distrutti? E che attività svolgeva davvero Nino Agostino, ufficialmente solo un poliziotto addetto alla squadra Volanti del commissariato San Lorenzo? La sera del delitto, un suo collega stilò una relazione di servizio informando l’allora capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera che Nino si occupava della ricerca di grandi latitanti, da Riina e Provenzano, assieme a un amico poliziotto che tornava di tanto in tanto a Palermo. Il compagno di quelle indagini era Guido Paolilli, da sempre molto vicino a Bruno Contrada, il superpoliziotto accusato di rapporti con la mafia. Nonostante quell'indicazione così precisa fatta dal compagno di pattuglia di Agostino, la squadra mobile iniziò invece a indagare sulla pista di un'improbabile vendetta dei familiari di un'ex fidanzata del poliziotto. E, intanto, qualcuno andava nella casa di Altofonte di Nino per trafugare i suoi appunti, quelli di cui aveva scritto in un biglietto conservato nel portafoglio: "Se mi succede qualcosa, cercate nell’armadio di casa". Ma cosa c’era scritto in quegli appunti distrutti? "Come ufficiale di polizia giudiziaria – dice ancora l’avvocato Repici – Paolilli avrebbe dovuto preservare e portare a conoscenza dell’autorità giudiziaria ogni reperto utile all’accertamento della verità sul delitto e sulla sua causale. Invece, l’attività di depistaggio ha cagionato enormi danni ai familiari di Nino Agostino, che non hanno mai smesso di chiedere verità e giustizia sull’assassinio del proprio congiunto". Nel suo atto di citazione, il legale ricorda la sentenza del tribunale di Palermo sul depistaggio nel caso del disastro di Ustica: in quell'occasione, il giudice parlò chiaramente di un "vero e proprio diritto alla verità, oltre che quello immediatamente conseguente del diritto a ottenere giustizia". A un risarcimento furono condannati i ministeri della Difesa e dei Trasporti, in favore dei familiari delle vittime, per "la dimostrata attività di ostacolo e di depistaggio posta in essere, nel corso degli anni, allo scopo di impedire una rapida e veritiera individuazione delle effettive cause del disastro, con occultamento di prove significative e di indizi essenziali alla scoperta della verità". Nel caso Agostino, prove e indizi furono sistematicamente cancellati per non far emergere la verità sull'omicidio. I pentiti di mafia hanno saputo dire ben poco sugli esecutori, nei mesi scorsi la procura generale di Palermo ha avocato il fascicolo dopo la richiesta di archiviazione della procura della repubblica per due indagati, i boss Nino Madonia e Gaetano Scotto, quest'ultimo ritenuto l'anello di congiunzione fra l'organizzazione mafiosa e ambienti deviati dei servizi segreti.

In cella Gaetano Scotto. Nuova pista sul delitto Agostino: «Il papà ora potrà togliersi la barba». Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it da Felice Cavallaro. Sulla «famiglia» dell’Arenella-Vergine Maria torna a campeggiare l’ombra di un ruolo sia nel fallito attentato dell’Addaura, il primo contro Giovanni Falcone, sia nell’omicidio di un poliziotto ucciso con la moglie del 1989, Antonino Agostino, primogenito di quel padre che da allora non si taglia più la barba in attesa di giustizia. Storie antiche e recentissime attività criminali s’intrecciano nella nuova sberla che la Dia assesta a un pezzo di Cosa Nostra con otto arresti nell’ambito di una operazione chiamata «White Shark». Operazione che scuote le due borgate marinare di Palermo, a due passi dai Cantieri navali e dal lussuoso Villa Igiea. La stessa area dominata secondo l’accusa da Gaetano Scotto, 68 anni, dai suoi fratelli Francesco Paolo e Pietro, dal figlio di quest’ultimo, Antonio, e dagli altri boss arrestati, pronti ad ostentare la propria potenza in ogni modo, anche governando le processioni religiose e impossessandosi perfino della statua di Sant’Antonio. Manifestazioni «di rispetto e devozione» non ne sono mancate nei confronti di Gaetano Scotto, come si legge nelle informazioni della Dia diretta dal generale Giuseppe Governale con riferimento al ruolo del capofamiglia uscito da Rebibbia nel 2016 e accolto il 5 agosto di quello stesso anno da una borgata incredula. Perché per la processione a mare del Santo patrono che tradizionalmente arriva al porticciolo dell’Arenella su una barca senza nessun estraneo a bordo Scotto stupì tutti. «Compresi i suoi congiunti». Comparendo sorridente a prua, accanto alla statua, insieme con la fidanzata Giuseppina Marceca. E il capocentro della Dia di Palermo Antonio Amoroso sottolinea «la grande importanza simbolica di tale gesto che rende promiscuo sacro e malaffare». Un modo per ribadire «la funzione in termini di potere mafioso della partecipazione a feste pubbliche e religiose». D’altronde Scotto era stato proposto ai vertici del mandamento di Resuttana, la zona orientale di Palermo, la più ricca per pizzo e intrallazzi. Ma, cercando di non ostentare troppo il suo potere e temendo di essere intercettato, come accadde, rifiutò l’offerta dopo un periodo di detenzione a Rebibbia: «Queste cose non le posso fare in questo momento... Ho spiegato la situazione, non lo faccio perché il Signore mi è venuto padre che sono uscito... perciò è inutile che mi incaricate». Solidi per la Dia i rapporti con la mafia italo americana anche attraverso un cittadino italo americano ex socio dello stesso Scotto nella gestione del ristorante Mamma Leone sul lungomare Cristoforo Colombo. Il capitolo più inquietante di questa nuova pagina sulle borgate vicine alla costa dell’Addaura riporta al 1989, quando il 21 giugno i poliziotti si scorta nella villa al mare di Falcone si accorsero di una borsa imbottita di tritolo e, un mese e mezzo dopo, il 5 agosto, venne ucciso uno dei due poliziotti che forse sventò l’attentato, Nino Agostino, poi trucidato con la moglie Ida Castelluccio, in attesa di un bimbo. Almeno così lasciò pensare una frase pronunciata da Falcone ai funerali: «Io a quel ragazzo gli devo la vita». Parole scolpite nella memoria di Vincenzo Agostino, il padre che da allora non si taglia più la barba. Distrutto dal dolore quando la Procura della Repubblica propose l’archiviazione dell’inchiesta, poi avocata con sua soddisfazione dal procuratore generale Roberto Scarpinato. Un nuovo filone che approda adesso alla famiglia Scotto. Come conferma il generale Governale, fiducioso nell’esito degli accertamenti: «Direi che forse Vincenzo Agostino può cominciare a radersi, a tagliare la barba, simbolo di una giustizia che pur dopo tanto tempo credo stia arrivando». È l’auspicio che dovrebbe illuminare zone d’ombra dove pezzi di mafia avrebbero agito d’intesa con settori deviati dei servizi segreti.

Omicidio del poliziotto Nino Agostino: “Boss Gaetano Scotto a processo”. Le Iene News il 14 febbraio 2020. Gaetano Pecoraro aveva incontrato il potente boss dell’Arenella, imputato per la morte nel 1989 del giovane poliziotto Nino Agostino, che due mesi prima di essere ucciso aveva sventato un attentato ai danni del giudice Falcone. Ora il procuratore generale di Palermo ha chiesto per Scotto il rinvio a giudizio. Quando Gaetano Pecoraro lo aveva incontrato, a spasso per la città, il boss dell’Arenella Gaetano Scotto aveva negato di appartenere alla mafia e delle pesantissime ombre che gravano sulle sue spalle aveva detto: “Sono tutte fesserie, è tutto un processo che andrà in fumo, io non so niente”. L’uomo, considerato trait d’union tra Cosa Nostra e i servizi segreti deviati, e accusato di avere partecipato alla strage di via d’Amelio dove hanno perso la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, aveva anche parlato dell’omicidio del poliziotto Nino Agostino: “A me dispiace per il figlio di Vincenzo Agostino, io non ci posso pensare a quello che può sentire una persona quando gli muore un figlio, ma sono minchiate, sono tutte cose false”. Ora per Gaetano Scotto, per l’omicidio del giovane poliziotto palermitano (una storia che ci ha raccontato Gaetano Pecoraro nel servizio che potete rivedere sopra) arriva la richiesta del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato: vada a processo insieme al boss Nino Madonia e a Francesco Paolo Rizzuto, amico di Nino Agostino, ucciso il 5 agosto 1989 in circostanze ancora non chiarite. Nino Agostino, poliziotto impegnato nella squadra volanti del commissariato San Lorenzo, sarebbe in realtà stato membro attivo di un’unità speciale, a caccia dei superlatitanti di Cosa Nostra. La sera del 5 agosto 1989 Nino Agostino viene ucciso a colpi di pistola mentre entra nella villa di famiglia con la moglie a Villagrazia di Carini, incinta di cinque mesi. Un mese e mezzo prima Nino aveva sventato l’attentato all’Addaura, ai danni del giudice Giovanni Falcone. Con Gaetano Pecoraro avevamo incontrato Vincenzo Agostino, il papà dell’agente di polizia barbaramente ucciso. Vincenzo Agostino aveva raccontato alle nostre telecamere durante l’intervista di Gaetano Pecoraro del 28 febbraio 2016 di quella sua barba lunghissima (che anche l’ex ministro degli interni Matteo Salvini aveva notato, durante una visita in città). Una barba fatta crescere, dal giorno dell’omicidio del figlio, in segno di protesta, chiedendo finalmente la verità sulla morte di Nino. L’anziano padre aveva confidato alla Iena la sua più grande paura: “Non arrivare a vedere chiuso questo processo, per vedere condannato chi ha ucciso mio figlio”. Ora forse, finalmente, qualcosa comincia a muoversi.

Arrestato il boss Gaetano Scotto, la Dia: “È ancora un capomafia”. Le Iene News il 18 febbraio 2020. La Direzione investigativa antimafia lo ha arrestato insieme ai fratelli Pietro e Francesco Paolo e altre 5 persone. Sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa ed altri reati. Gaetano Scotto è anche indagato per l’omicidio del poliziotto Nino Agostino. Noi de Le Iene lo avevamo incontrato con Gaetano Pecoraro. Gaetano Scotto torna in carcere. Il boss dell’Arenella a Palermo è stato arrestato dalla Dia insieme ai fratelli Pietro e Francesco Paolo e altre 5 persone. Sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa e altri reati. Secondo gli investigatori della Dia Gaetano Scotto, dopo essere tornato in libertà, sarebbe tornato a svolgere il ruolo di capo della famiglia mafiosa della zona dei Cantieri navali del capoluogo siciliano. Un altro guaio giudiziario per Gaetano Scotto, che rimane anche indagato per l’omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie, avvenuto il 5 agosto 1989 in circostanze ancora non chiarite: l’agente venne ucciso a colpi di pistola mentre entra nella villa di famiglia a Villagrazia di Carini con la moglie, incinta di cinque mesi. Un mese e mezzo prima Nino aveva sventato l’attentato all’Addaura, ai danni del giudice Giovanni Falcone. Gaetano Scotto è anche una delle dieci persone accusate ingiustamente della strage di via D'Amelio, in cui fu assassinato Paolo Borsellino e 5 agenti della sua scorta: adesso è parte civile nel processo sul depistaggio che è in corso a Caltanissetta. Con Gaetano Pecoraro avevamo incontrato Vincenzo Agostino, il papà dell’agente di polizia barbaramente ucciso. Vincenzo Agostino aveva raccontato alle nostre telecamere durante l’intervista di Gaetano Pecoraro del 28 febbraio 2016 di quella sua barba lunghissima (che anche l’ex ministro degli interni Matteo Salvini aveva notato, durante una visita in città). Una barba fatta crescere, dal giorno dell’omicidio del figlio, in segno di protesta, chiedendo finalmente la verità sulla morte di Nino. L’anziano padre aveva confidato alla Iena la sua più grande paura: “Non arrivare a vedere chiuso questo processo, per vedere condannato chi ha ucciso mio figlio”. E la Iena aveva incontrato anche Gaetano Scotto, che aveva negato non solo di essere responsabile dell’omicidio di Vincenzo Agostino ma anche di essere un affiliato delle associazioni mafiose. A quanto pare, però, la Dia non è d’accordo con lui.

Il caso Mattarella  e i misteri sulla morte dell’agente Agostino. Pubblicato sabato, 22 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. «Quel povero ragazzo lo conoscevo, perché mi aveva fatto la scorta per un periodo», rivelò il neofascista Alberto Volo, intercettato nel luglio 2016, sull’agente di polizia Nino Agostino, 28 anni, assassinato il 5 agosto 1989. Delitto crudele e misterioso: perché insieme a lui i sicari uccisero anche la moglie ventenne Ida, incinta; e perché è rimasto senza colpevoli, avvolto da intrighi e depistaggi. Da ultimo ne ha parlato, nelle oscure dichiarazioni, il boss stragista Giuseppe Graviano ma il padre dell’agente, Vincenzo Agostino, che dalla morte del figlio si fa crescere la barba in attesa di avere giustizia, non ha ancora potuto radersi. La Procura generale di Palermo ha avocato e appena chiuso l’inchiesta sui capi-mafia Gaetano Scotto e Nino Madonia, e si appresta a chiedere di processarli. Ma già la Procura aveva indagato a lungo sull’omicidio, giungendo a una richiesta di archiviazione in cui è messo nero su bianco — per la prima volta in un provvedimento giudiziario — un possibile collegamento con un altro delitto «eccellente» di quarant’anni fa, eseguito da killer tuttora impuniti: l’assassinio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, sul quale nel 1989 stava indagando il giudice Giovanni Falcone. Coadiuvato, in gran segreto, proprio dall’agente Agostino. Dell’omicidio Mattarella, in quell’anno denso di corvi e veleni, s’era deciso a parlare Alberto Volo, militante dell’estrema destra siciliana conosciuto dai mafiosi, che nel 1984 aveva negato di sapere alcunché. Cinque anni dopo cambiò idea, e da informatore del funzionario di polizia Elio Antinoro, in servizio al commissariato del quartiere San Lorenzo dove lavorava Agostino, divenne un testimone. Che Falcone interrogò a tappe forzate tra il 28 marzo e il 18 maggio ’89: dodici verbali in meno di due mesi. Sulle dichiarazioni di Volo e di altri pentiti «neri» il magistrato fondò, a ottobre dello stesso anno, il mandato di cattura per l’omicidio Mattarella contro i terroristi neofascisti Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini. Accusa dalla quale i due imputati furono assolti nei successivi processi. Ma al di là degli esiti giudiziari e dell’attendibilità di Volo, ciò che lega quei fatti al delitto Agostino è l’interesse di Falcone per le sue confessioni. Il pentito aveva chiamato in causa pure «gruppi occulti all’interno della massoneria» e Licio Gelli, rivelando la propria appartenenza a una struttura paramilitare filoatlantica dei servizi segreti molto simile alla Gladio svelata da Giulio Andreotti solo un anno più tardi. E divenuta un altro «chiodo fisso» del giudice assassinato a Capaci.Come accertato dall’indagine condotta dai pubblici ministeri Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi (il primo oggi consulente della commissione parlamentare antimafia, il secondo in pensione), il commissariato di San Lorenzo organizzò un servizio di scorta «informale, sostanzialmente segreto» a protezione del testimone che deponeva davanti a Falcone, di cui fece parte l’agente Agostino. L’ha confermato Antinoro, sebbene con un ritardo tale da irritare i pm: «Colpisce che tali dichiarazioni sull’impiego operativo di Agostino — così delicato e significativo, a dispetto di una ricostruzione tante volte reiterata di un agente impiegato in attività sempre marginali e poco significative, al punto da indurre a prospettare originariamente, come unica possibile causa della sua eliminazione, quella legata alle “classiche” vicende sentimentali — siano state rese solo a tanti anni dall’omicidio, nonostante la palese potenziale rilevanza di tali circostanze». Nel 1989 c’erano ben altre possibilità di sviluppi investigativi, mentre oggi bisogna accontentarsi delle intercettazioni di Volo e del riscontro sui fogli di servizio del poliziotto con l’annotazione, ad esempio alla data 20 giugno 1989: «Volante San Lorenzo 1 (scorta)». Inoltre è «quanto meno ipotizzabile» che Agostino sia stato coinvolto nell’ascolto delle audiocassette registrate da Volo prima di incontrare Falcone, poi misteriosamente scomparse, dal momento che alla vigilia del primo interrogatorio il poliziotto annotò sulla sua agenda — per quattro giorni consecutivi— la parola «ascolto». Un mese dopo l’ultimo verbale ci fu il fallito attentato dell’Addaura contro Falcone, e il 5 agosto l’esecuzione di Agostino. Riferendosi ai mandanti della bomba inesplosa il magistrato parlò di «menti raffinatissime», mentre davanti alla salma del poliziotto disse al dirigente del commissariato San Lorenzo: «Questo omicidio è un segnale contro di me e contro di voi». Il coinvolgimento segreto dell’agente Agostino a supporto dell’inchiesta sul delitto Mattarella, secondo la Procura di Palermo, diventa così «una possibile chiave di lettura di quell’espressione, mai del tutto compresa».

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro Rostagno.

MAURO ROSTAGNO. 32 ANNI FA L’OMICIDIO NEL TRAPANESE. Mario Avena su La Voce delle Voci il 29 Settembre 2020. 32 anni fa veniva ammazzato a Lenzi di Valderice, in provincia di Trapani, Mauro Rostagno. Un giallo sul quale non è stata mai fatta piena luce. Si è in attesa della sentenza che dovrà essere pronunciata, il prossimo 27 novembre, dalla Cassazione. Mentre un processo parallelo sui depistaggi rischia di finire in prescrizione. Come al solito. Ma vediamo gli ultimi fatti giudiziari sull’omicidio del giovane sociologo torinese trapiantato in Sicilia, fondatore della comunità antidroga Saman e animatore di una battagliera tivvù locale, “Radio Tele Cine”, che sfornava inchieste continue sulle connection mafiose. E per questo entrata nel mirino delle cosche trapanesi di Cosa Nostra. Non aveva avuto remore, Rostagno, di alzare il sipario su affari da novanta, legami intrecciati dai boss con pezzi da novanta. Come ad esempio Licio Gelli. Aveva scritto delle frequentazioni trapanesi del Venerabile, come quando fu ospite dei boss Natale L’Ala e Mariano Agate. Quest’ultimo era un potente affiliato della loggia segreta “Iside”, nata all’interno del centro studi “Scontrino”. E sempre a Trapani era attiva, presso un altro comodo centro studi, “Scorpione”, una cellula di Gladio. Tanto per non farsi mancare niente. Al tribunale di Trapani, nel 2011, si è riaperto il processo per l’omicidio. E tra anni dopo, a maggio 2014, sono state pronunciate in primo grado le condanne a carico dei boss Vincenzo Virga e Vito Mazzara, ritenuti rispettivamente il mandante e l’esecutore. L’appello, però, ha parzialmente ribaltato quella sentenza. Assolvendo Mazzara, nonostante l’esame del DNA fosse risultato compatibile con il 99,9 per cento delle probabilità. A questo punto il 27 novembre la Cassazione (dopo un rinvio a causa del Covid) si dovrà pronunciare sui due ricorsi presentati: dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo (per l’assoluzione di Mazzara) ma anche dai legali di Agate, che contestano la condanna all’ergastolo. Nel frattempo al tribunale di Trapani è in corso il processo per i depistaggi. Dieci gli imputati, tra cui alcuni esponenti delle forze dell’ordine, accusati di falsa testimonianza. Un processo che però rischia fortemente di non arrivare alla sentenza finale, per la solita mannaia della prescrizione. La tormentata vicenda giudiziaria e la storia umana e professionale di Mauro sono ricostruite in dettaglio sul sito “Ossigeno per l’Informazione”, animato da Alberto Spampinato e che documenta in modo costante e minuzioso le violenze e le aggressioni subite da tanti cronisti e reporter. Basta andare alla voce giornalistiuccisi.it e alla voce “Cercavano la verità”.

Mafia e massoneria a Trapani, Rostagno sapeva, scrive Rino Giacalone. Continua a Trapani il processo per l’omicidio del giornalista – sociologo Mauro Rostagno. E lo schema delle ultime udienze si ripete: da un lato ci sono gli avvocati della difesa che tentano di portare teste a sostegno di altre matrici del delitto, dall’altro invece i teste convocati che, di volta in volta, confermano le responsabilità degli imputati Vincenzo Virga e Vito Mazara. E’ andata così anche per l’ultima che ha portato in aula, lo scorso i giornalisti Luciano Scalettari e Andrea Palladino, autori di libri e reportage sugli affari “sporchi” condotti dall’intelligence italiana e non solo, in Somalia e in Italia, negli anni in cui furono uccisi i giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. I due reporter in questi anni si sono occupati dei segreti della cooperazione internazionale, della presenza dei servizi segreti tra le bande in lotta in Somalia, del traffico illecito di rifiuti finiti sepolti sotto le lunghe strade asfaltate di Bosaso. E in aula, i due giornalisti, hanno raccontato gli scenari di questi traffici illeciti. Le risposte di Scalettari e Palladino davanti alla Corte di Assise di Trapani hanno confermato, infatti, queste commistioni fra mafia, i servizi segreti, centrali di intelligence straniere, gruppi di spregiudicati affaristi. Convergenze che negli anni ’90 erano oltremodo potenti e che negli anni in cui Mauro Rostagno faceva il giornalista dalla tv privata Rtc stavano prendendo forma. La cronaca dell’udienza. Mercoledì scorso l’udienza del processo Rostagno si è aperta con l’attesa testimonianza di Anna Di Ruvo, ex ospite della Saman che avrebbe dovuto riferire dei contrasti dentro la Comunità, del famoso fax di forte rimprovero che Cardella mandò a Rostagno (che avrebbe portato alla cacciata dal Gabbiano qualche settimana prima del delitto) del ritrovamento dello stesso fax e la sua molto presunta distruzione, considerato che il fax come più volte ha rimarcato l’avvocato di parte civile Carmelo Miceli fa parte degli atti del processo (sebbene la difesa miri a dimostrare che sia stato distrutto su volere della compagna di Mauro, Chicca Roveri). La Di Ruvo tra tanti non ricordo una cosa precisa l’ha ricordata: il famoso verbale di interrogatorio reso dinanzi ad ispettori della Digos di Trapani (ai tempi dell’indagine denominata Codice Rosso, metà anni ’90) lo firmò senza rileggerlo e le cose lì scritte non corrispondono, a suo dire, al vero, almeno nelle risposte da lei date. La teste ha ricordato, infatti, un certo caos nel suo interrogatorio e affermato di aver firmato “senza avere il tempo di rileggere il verbale”. Le rivelazioni del finanziere Voza. Dopo di lei citato dalla parte civile rappresentata dall’avvocato Carmelo Miceli, parte civile per Maddalena Rostagno e Chicca Roveri, è entrato in aula l’investigatore della Guardia di Finanza Angelo Voza. A Trapani dal 1983, affianco per tanto tempo al pm Carlo Palermo, sfuggito ad un attentato nel 1985, Voza ha ripreso un argomento che già era emerso per la testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia e cioè la forte e qualificata presenza della massoneria in città. E’ saltato fuori il nome di Licio Gelli, il capo della P2. Gelli e Trapani: P2 e Iside 2, due logge super segrete, la Iside 2 a Trapani era un “salotto” dove sedevano mafiosi e colletti bianchi, qui si decidevano le sorti della città. Elezioni, incarichi pubblici, gestione dei Palazzi del potere cittadino. Questo è il contesto in cui Mauro Rostagno da giornalista ha vissuto e respirato, andando persino a bussare alla porta di chi quei segreti li conosceva. Voza ha aggiunto – ai fatti già noti – che “nel 1981 Gelli, all’epoca latitante, partecipò ad una riunione indetta dai massoni trapanesi, presenti anche funzionari pubblici come un vice prefetto e un vice questore”. Ovviamente la circostanza venne appurata molto tempo dopo da un punto di vista investigativo. Mauro Rostagno, invece, la conoscenza di questo fatto l’avrebbe potuta avere fatto quando seppe della presenza di Gelli a Trapani. Il capo della P2, infatti, era tornato più volte nella provincia e si era visto con i mafiosi di Campobello di Mazara (piccolo paese ricco però di logge massoniche sino ad oggi come certificato dalla relazione che ha condotto allo scioglimento per mafia del Comune in tempi recentissimi) e di Mazara del Vallo. Un nome per tutti? Quello di Mariano Agate il capo mafia di Mazara, in carcere oramai dal 1992 e che secondo il qualificato giudizio di molti investigatori se oggi fosse libero sarebbe alla guida di Cosa nostra (uomo più potente del latitante Matteo Messina Denaro). Dal carcere Mariano Agate ha mostrato grande capacità per continuare a comandare. La testimonianza di Voza è stata ricca di particolari, i contatti tra Trapani e Catania a proposito di mafia e massoneria, le minacce che lui stesso ricevette per essersi occupato della Iside 2. Voza, inoltre, ha affermato “mentre era in corso il processo per il delitto del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari, durante una pausa Agate dalla gabbia dell’aula attirò l’attenzione di un operatore tv di Rtc mandato lì apposta da Rostagno a seguire l’udienza, per dirgli di riferire “a chiddo ca varva vistuto di bianco” che la finisse di dire minchiate”. Rostagno seguiva in modo attento quel processo: “Io ero un investigatore – ha detto Voza – lui un giornalista presto mi resi conto che stavamo dalla stessa parte e lui faceva il giornalista sul serio, giornalista che faceva indagini, il fare indagini ci univa”. Voza ha anche poi aggiunto un particolare sulla capacità che Rostagno aveva di essere ascoltato dall’opinione pubblica: “Quando alle 14 c’era il notiziario di Rtc era difficile incontrare qualcuno per strada a Trapani”. Gli anni ’80 a Trapani. La mafia cambiava pelle, diventava imprenditrice, cominciava a interessarsi direttamente di politica, la scalata dei corleonesi di Riina era già abbondantemente cominciata, il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina, Angelo Siino, il regista di super appalti miliardari in mezza Sicilia veniva a Rtc a incontrarsi con l’editore Puccio Bulgarella e Rostagno aveva il suo ufficio a 5 passi da quello di Bulgarella. Gli investigatori cercavano ancora il boss Totò Minore, ritenuto latitante ma il capo mafia di Trapani era già morto e questo Rostagno deve averlo saputo perché in un appunto contenente un elenco di nomi di mafiosi, quello di Minore era depennato e già nel 1988 capo mafia di Trapani era Vincenzo Virga. Virga di mestiere faceva l’imprenditore e si occupava di rifiuti, diceva in giro commentando i suoi affari “trasi munnizza e nesce oro”. Scalettari e Palladino. L’inchiesta dei due giornalisti parte da lontano, dall’Africa e arriva in Sicilia. Armi, droga e rifiuti infatti sarebbero passati per Trapani con coperture eccellenti. Le stesse esistenti già negli anni ’80 che cominciavano a mettere il cappello su diversi affari che interessavano la mafia, che dalla sua avrebbe avuto complici importanti, gli uomini di Gladio, del centro Scorpione di Trapani. Gladio secondo Scalettari e Palladino – espressione dei servizi segreti – colloquiava con la mafia Uomo cerniera un ex ospite della Saman, Giuseppe Cammisa detto Jupiter, braccio destro del guru della Saman prima e dopo il delitto Rostagno, diventato imprenditore in Ungheria. Citato ampiamente nelle indagini sul delitto di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin “mai nessuno è andato a cercarlo per interrogarlo”. Protetto da qualcuno? Forse. Gladio e la mafia. Non è una novità che ci sia l’ombra di Gladio dietro al tentato omicidio di Falcone avvenuto all’Addaura, il 21 giugno del 1989 e che su questo episodio si intreccino i segreti mai svelati sulla morte dell’agente Agostino e sulla sparizione di un altro agente dei servizi Emanuele Piazza. Tutti e due facevano la spola con Trapani. Un testimone importante che avrebbe potuto raccontare questi rapporti era il maresciallo Vincenzo Li Causi morto però in circostanze strane in Somalia nel 1993, mentre la Procura di Trapani indagava su Gladio e dopo averlo sentito si stava preparando a rifarlo. Un particolare che spesso finisce dimenticato è quello che il tritolo usato all’Addaura nel 1989 è lo stesso usato nel 1984 e nel 1985 in altri due attentati, quello al treno rapido 904 e a Pizzolungo contro Carlo Palermo. Nel 1988 Rostagno stava cercando elementi su Pizzolungo, Carlo Palermo e sul delitto del 1983 di Ciaccio Montalto, comune denominatore tra Ciaccio Montalto e Carlo Palermo, i traffici di armi e droga dalla Turchia, indagini fermate dalle ingerenze della politica e in particolare per Palermo dall’allora primo ministro socialista, Bettino Craxi. E pezzi forti del Garofano erano di casa a Saman, ma i contatti con Craxi in quel 1988 erano gestiti direttamente da Francesco Cardella, il guru della Saman, le famose bobine delle intercettazioni sparite dal comando dei carabinieri pare contenessero le “chiacchiere” tra Cardella e Craxi, dopo il delitto Rostagno. Un’altra udienza insomma che riconduce il delitto di Mauro Rostagno all’unica matrice possibile, quella della mafia. Mauro Rostagno non taceva nulla in tv e certamente non avrebbe taciuto quello sul quale stava lavorando nel momento in cui avrebbe avuto ogni tassello al suo posto. E in quel settembre del 1988 mancava poco a lui per mettere apposto il puzzle. Il processo. A seguire l’udienza seduto al fianco di Maddalena Rostagno, in aula c’era l’ex leader di Lotta Continua Adriano Sofri…..L’udienza l’ha commentata così sulla stampa il giorno dopo: Nell’udienza del processo per l’assassinio di Mauro Rostagno a Trapani, cui ho potuto assistere (un’udienza del tutto ordinaria, come altre dozzine) ho trascritto alcune frasi di testimoni che vorrei riportare senza commento. Una è la semplice domanda che una testimone, che a suo tempo, ragazza, si misurò con questo problema, ha rivolto al difensore dei mafiosi che la interrogava: “Ma lei sa che cos’è un tossicodipendente?”. Le altre le ha pronunciate un sottufficiale della Finanza, che a suo tempo operava a Trapani. Domanda: “Ma lei come sa che il lavoro giornalistico di Mauro Rostagno era molto seguito?” Risposta: “Perché alle due meno dieci a Trapani, quando c’era il suo notiziario televisivo, non si vedeva più nessuno in strada”. Domanda: “Ma lei che tipo di conoscenza o di amicizia aveva col dottore Rostagno?” Risposta: “Venivamo da mondi diversi e ci siamo accorti che facevamo la stessa battaglia”. Oggi questa battaglia non è finita e per questa ragione c’è chi pensa che la mafia non c’entri col delitto. La mafia invece, fece da “service” – come in altre occasioni – a poteri più forti, ma nel contempo si levò di mezzo una “camurria” di giornalista come disse il patriarca della mafia belicina, don Ciccio Messina Denaro. Oggi la mafia non spara alle “camurrie” riesce ad emarginarle in altro modo: appoggi istituzionali, pressioni e intimidazioni mettono a tacere i giornalisti scomodi, senza fare rumore.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

C'era una volta Giancarlo Siani. Carlo Bonini, Ottavio Ragone, Dario Del Porto, Conchita Sannino, Armando D'Alterio su La Repubblica il 17 settembre 2020. Il 23 settembre 1985, a Napoli, la Camorra uccide Giancarlo Siani, cronista del quotidiano "il Mattino", con dieci colpi alla testa di calibro 7.65, mentre, al volante della sua Citroën Mehari di colore verde, rientra nella sua casa nel quartiere dell'Arenella. Siani ha compiuto da pochi giorni 26 anni e si è guadagnato la condanna a morte per aver illuminato i rapporti tra cosche e politica nella Campania della ricostruzione post-terremoto dell'Irpinia, e per a...

Il 23 settembre 1985, a Napoli, la Camorra uccide Giancarlo Siani, cronista del quotidiano “il Mattino”, con dieci colpi alla testa di calibro 7.65, mentre, al volante della sua Citroën Mehari di colore verde, rientra nella sua casa nel quartiere dell’Arenella. Siani ha compiuto da pochi giorni 26 anni e si è guadagnato la condanna a morte per aver illuminato i rapporti tra cosche e politica nella Campania della ricostruzione post-terremoto dell’Irpinia, e per aver dato conto dei retroscena dell’arresto del boss Valentino Gionta, “venduto” ai carabinieri dai Nuvoletta quale prezzo di un patto di non belligeranza con il clan di Antonio Bardellino. Da quel settembre dell’85, sono passati trentacinque anni. Un tempo sufficiente non solo per tornare a raccontare quella storia (Repubblica lunedì 21 settembre distribuirà gratuitamente ai suoi lettori dell’edizione di Napoli, in abbinamento con il quotidiano,” La stampa addosso – Giancarlo Siani – La vera storia dell’inchiesta“, libro inedito firmato dal magistrato Armando D’Alterio che, nella veste di pm, rese possibile con la sua indagine la condanna all’ergastolo di assassini e mandanti) ma anche e soprattutto per chiedere conto di cosa ne è stato e ne è della sua eredità materiale e simbolica in un Paese dove le mafie si preparano ad aggredire il fiume di risorse e denaro pubblico che deve portarci fuori dalla devastazione di pandemia senza precedenti.

1985-2020. Trentacinque anni dopo, le grandi organizzazioni criminali hanno un unico volto. Camorra, Cosa nostra, ‘ndrangheta si somigliano sempre di più. Uniformate le priorità, evitano gli omicidi eccellenti, lavorano nell’ombra, investono insieme per miliardi di euro. Infiltrano e intossicano l’economia e la politica anche oltreconfine. Trentacinque anni dopo, Federico Cafiero de Raho, Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, ricorda così Giancarlo Siani, il cronista coraggioso assassinato dalle cosche campane legate ai corleonesi: “Forse tanti giovani non sanno che Siani, a dispetto della sua giovanissima età, è stato un maestro. Sapeva andare oltre la superficie”, riflette, pensando al presente. Cafiero de Raho non nasconde le preoccupazioni per l’ennesima occasione che l’emergenza Covid rischia di offrire alle strategie criminali. “Ma sento un silenzio assordante della politica, su questo pericolo. Ai tavoli delle grandi imprese, già prima della pandemia, le mafie spesso sedevano insieme, i profili sempre più sovrapponibili a quelli di manager e industriali. E fondano società in comune. Ma guai se adesso non si impedisse il loro accesso agli enormi flussi di denaro disponibili per risollevare l’economia post-virus”. È un filo rosso tra epoche che appaiono lontanissime. E invece, dice de Raho, “vedo una possibile analogia tra quanto accadeva negli anni Ottanta e oggi. Tra quello che comportò la ricostruzione post-sisma, con le collusioni che il bravo Siani ebbe il merito di vedere prima di altri, e ciò che rischia di accadere oggi in piena emergenza Covid”. L’emergenza figlia della pandemia muove una massa imponente di miliardi. Eppure, invece di accendere alla massima potenza l’azione di contrasto, la politica sembra accantonare il problema. Fingere di non vederlo. Il Procuratore nazionale scuote la testa. “Il silenzio è assordante. Come se l’azione di contrasto, proprio oggi, fosse solo questione di arresti, processi e Tribunali. E non obbligasse, al contrario, a mettere in cima all’agenda la necessità primaria di proteggere le aziende sane e, contemporaneamente, di impedire con ferrei controlli la possibilità di arricchimento da parte delle organizzazioni criminali”.

Una storia che ritorna. Se il parallelo tra le due stagioni coglie nel segno, conviene allora ritornare a quel tempo. Ai primi anni Novanta. Quelli del grande salto. Cafiero de Raho ha vissuto quell’epoca. Da giovane pubblico ministero divideva nell’antico Castel Capuano, nel centro storico di Napoli, una stanzetta minuscola e ingombra di fascicoli con il pm Armando D’Alterio. Federico sarebbe diventato il pioniere delle inchieste contro il gotha dei casalesi: la mafia campana che, con Bardellino, teorizzò e attuò l’approdo dei suoi ambasciatori, compresi avvocati e professionisti, nei luoghi apicali della politica. Armando si apprestava invece a sciogliere l’intricatissima matassa dell’omicidio Siani, arrivando a scoprire e far condannare killer e mandanti. Già, trentacinque anni e un mondo che è cambiato. Niente più commando di killer che sparano all’impazzata. Lo Stato più forte. Almeno in strada. Ma nelle stanze che contano? Dice Cafiero de Raho: “Le mafie, oggi, offrono soprattutto servizi. Le imprese di ‘ndrangheta, di mafia, di camorra, elargiscono strumenti di formidabile potere: come quello delle false fatturazioni, ad esempio. È un “prodotto” che aggrega le imprese e consente alle mafie di tenere in pugno anche quella parte dell’economia che non ha un’origine criminale. È evidente che da quel momento in poi, il soggetto o l’impresa che ha ricevuto quel servizio resteranno impigliati e coinvolti, quasi costretti, a proseguire nel percorso dell’illegalità. Non solo su scala domestica”. Le mafie cambiano, mentre gli anticorpi di politica e istituzioni si affievoliscono. “In un momento di grande sofferenza economica come questo, è indiscutibile la necessità di intervenire con verifiche e controlli per impedire che le imprese criminali continuino ad arricchirsi. E, anzi, a godere di un’eccezionale iniezione di capitali pubblici. Occorrono, ora, meccanismi di controllo che rendano più selettivi gli accessi”. Il rischio esiste, è stato quasi in tempo reale sondato dagli analisti. Le segnalazioni di tentativi di inquinamento sono sul tavolo della Direzione nazionale antimafia. A cominciare dalla relazione semestrale della Dia. Che già a luglio sanciva la rischiosa “situazione di riduzione di liquidità finanziaria” che può “finire per compromettere l’azione di contenimento sociale che lo Stato, attraverso i propri presidi di assistenza, prevenzione e repressione ha finora, anche se a fatica, garantito”, generando problemi di ordine pubblico. “Guai se adesso – ripete il procuratore nazionale antimafia – questi fondi si trasformassero in un’ulteriore occasione per gonfiare le casse di ‘ndrangheta, camorra e mafia. Lo Stato deve impedire che queste accedano non solo al credito, ma agli stessi finanziamenti. Certo, senza ritardare o vanificare il reale obiettivo di aiutare le imprese sane. Il grande lavoro che viene sviluppato dalla stessa Dna, con il nucleo speciale di polizia valutaria della Direzione investigativa antimafia, in materia di segnalazioni di operazioni sospette, consente un grandissimo controllo delle transazioni. Ma occorrerebbero anche ulteriori sistemi. Per una mafia che non è più quella che combatte sul territorio, ma che da ciascun territorio trae profitti e filiere economiche”. Mafie che, dopo la pelle, cambiano teste. In una dinamica esattamente identica a quella intuita e raccontata da Giancarlo Siani nel momento stesso in cui il cambio di passo si stava producendo.

Senza paura. “Giancarlo va ricordato senza retorica come un precursore, un eroe. Non solo per il nostro territorio o per la comunità dei giornalisti, ma io credo per il Paese”, osserva il procuratore nazionale. “È stato un ragazzo di straordinaria etica e passione civile. Che ha saputo cogliere le evoluzioni in corso nei territori che osservava e che ha raccontato all’opinione pubblica, dandole consapevolezza. Guardava alla de-industrializzazione del proprio territorio come ad una delle cause fondamentali per l’accrescimento e la forza delle mafie. Indicava le collusioni di politica e imprese con la camorra, ad esempio nella gestione di tutti gli affari legati all’edilizia scolastica. Ecco perché, malgrado la sua giovanissima età, ho sempre pensato sia stato un maestro. Portava le notizie senza preoccuparsi dell’effetto che la loro pubblicazione avrebbe provocato nel modo di pensare e di agire delle organizzazioni criminali di allora”. “I clan di allora – sottolinea Cafiero – non erano quelli di oggi. Oggi un clan è forte perché reinveste nell’economia. Una volta, era forte perché controllava il territorio con la forza delle armi, con gli omicidi. Le esecuzioni, i regolamenti di conti erano la normalità. Ma nonostante fosse consapevole di tutto questo, Giancarlo raccontava ciò che la società non voleva vedere”. Viviamo un tempo purtroppo affine. “La ricostruzione post-sisma per la camorra è stata la vera e propria scuola dell’impresa edilizia. Non dimentichiamo che i clan sono stati i primi a creare il consorzio di calcestruzzo, delle cave, degli inerti. Il denaro degli appalti consentì alla Camorra di condizionare le attività economiche e politiche nei territori. È stato un momento di grande evoluzione: il primo vero salto di qualità. Così i vari Alfieri, Galasso, Bardellino, Nuvoletta, hanno guidato la trasformazione: sono stati loro i protagonisti del cambiamento”. E la città del malessere, afflitta da tanti problemi, continua a portarsi dietro il «marchio» di città-violenta mortificando la parte sana e produttiva che si ribella invano”.

Padrini anni ’80. Carmine Alfieri, classe 1943, padrino di Nola, redditi per 1500 miliardi di vecchie lire negli anni Ottanta, ha ammesso di essere il mandante materiale e morale di centinaia di azioni di sangue. Ha guidato la confederazione di clan Nuova Famiglia (Nf) capace, in pieni anni Ottanta, di muovere un esercito di quasi 8mila uomini contro la Nco (la Nuova camorra organizzata) di Raffaele Cutolo, l’acerrimo nemico del quale possedeva le stessi doti di ferocia e lungimiranza. Più una: cogliere l’opportunità della collaborazione con lo Stato, raccontando decenni di collusioni con la politica.

Pasquale Galasso, classe 1955, lo studente di Medicina che si fece mafioso, killer e capoclan di Scafati, di Alfieri è stato per quasi venti anni il braccio destro: vice per gli affari di morte, e soprattutto per le “relazioni istituzionali” con esponenti di spicco dei partiti, Democrazia cristiana in testa.

Antonio Bardellino, classe ’45, socio in affari di Tommasino Buscetta, il fantasma della prima camorra imprenditrice. Della sua uccisione, raccontata da ciascun pentito in modo diverso, esiste solo una data presunta: 1988, a Rio de Janiero, vittima del figlio di un ex socio ammazzato. Ma nessuna certezza, né un corpo. Eppure è stato Bardellino a fondare l’impero dei casalesi e a immaginare che bisognava entrare nei palazzi di Roma.

Angelo Nuvoletta, il padrino ergastolano morto in carcere nel 2013, a 71 anni, è stato condannato in via definitiva come mandante dell’assassinio di Giancarlo. Era il referente di Totò Riina. E’ nella loro tenuta di Poggio Vallesana, a Marano, “un pezzo della Corleone vincente in Campania” che fu organizzata la trappola per gli alleati che lo Zio siciliano, Totò Riina, voleva morti. I cinque furono accolti, cenarono, poi furono strangolati e sciolti nell’acido.

La strage di Torre Annunziata. Nuvoletta, Bardellino, Galasso, Alfieri. Sono i nomi dei padrini che tra gli anni Ottanta e Novanta hanno sconvolto la vita sociale ed economica con lutti, affari sporchi, violenze, cemento. E morti da esibire. Ad Alfieri e Bardellino è attribuita anche quella strage di cui Giancarlo scrisse a lungo.

Consumata in un mezzogiorno di una domenica estiva: il 26 agosto 1984. Un bus con la scritta “Gita turistica” – rubato solo qualche settimana prima in Calabria – si ferma accanto al Circolo dei pescatori di Torre Annunziata, dove ciondolano uomini del clan Gionta, ma anche ignari passanti. Salta giù un commando di 14 sicari, armati di fucili a pompa e mitragliatori AK-47 ed Uzi. Sparano alla cieca, devono punire l’alleanza tra i Gionta e i Nuvoletta che sta estromettendo la stella Bardellino dai comuni del vesuviano per le attività economiche in espansione. Il capoclan Gionta si salva, scappa. A terra restano 8 morti e 7 feriti, tra cui alcuni innocenti. È la rappresaglia più grave che si sia vista, dal dopoguerra. La Camorra è già cambiata. E quella strage è uno spartiacque. Anche per la vita di Giancarlo Siani. Che ne scriverà, con concretezza e onestà: “Due minuti di fuoco e terrore. Una strage. L’ultimo atto di una guerra scatenata dal clan della Camorra per distruggere l’impero di Valentino Gionta, boss incontrastato di Torre Annunziata e dell’area vesuviana”. Il coraggioso cronista non può sapere, né nessun altro sospetta, che chi sfidava a viso aperto istituzioni e pubblica incolumità, mettendo a rischio anche donne e bambini all’ora della messa, non avrebbe avuto remore a far fuori un giornalista. Quella spedizione di morte resterà impressa come la strage di Sant’Alessandro. Avviene solo tredici mesi prima dell’omicidio di Giancarlo. E lui, esattamente un anno dopo quell’esplosione di fuoco criminale, torna a scriverne:  “Con la strage, l’attacco era decisivo e mirato a distruggere l’intero clan. Torre Annunziata diventa una zona che scotta. E Valentino Gionta un personaggio scomodo anche per gli stessi alleati. Un’ipotesi sulla quale stanno indagando gli inquirenti e che potrebbe segnare una svolta anche nelle alleanze della Nuova famiglia. Un accordo tra Bardellino e Nuvoletta avrebbe avuto come prezzo proprio l’eliminazione del boss di Torre Annunziata e una nuova distribuzione dei grossi interessi economici dell’area vesuviana“. È il reportage che lo condannerà a morte. E proprio Nuvoletta sarà condannato all’ergastolo perché ritenuto mandante dell’omicidio del cronista. Quella pioggia di miliardi di lire che arrivò negli anni Ottanta dopo il terremoto dell’Irpinia consentì tutto questo.

E ora? Con il nuovo scenario e l’Europa – non aliena da infiltrazioni mafiose – che ci osserva?

“Credo che oggi sulla base delle esperienze del passato, bisognerebbe che la politica facesse molto di più – esorta Cafiero de Raho – Non mi riferisco tanto alla normativa: l’Italia ha le migliori leggi antimafia, e, anzi, sono gli altri Paesi a doversi adeguare alla nostra legislazione antimafia. Mi riferisco invece al discorso pubblico. Sarebbe importante, ad esempio, in un momento come questo, sostenere che il problema numero uno è quello dell’azione antimafia. L’impresa sana si aspetta questa condivisione, perché ha esigenza di protezione. E la politica deve perseguire gli interessi superiori della comunità: tra i primi, c’è l’eliminazione delle mafie. Anche una dichiarazione ribadita in premessa ad un provvedimento economico darebbe il senso di una consapevolezza. Ma questo non lo vedo”. La criminalità, la corruzione non si combattono soltanto con i carabinieri. Le persone per scegliere devono sapere, devono conoscere i fatti. E allora quello che un giornalista “giornalista” dovrebbe fare è questo: informare”.

“Mio fratello”. Il fiume di studenti attraversava il centro della città sotto gli occhi di automobilisti intrappolati nel traffico, passanti distratti, negozianti assorti. Scandivano slogan contro la Camorra e, battendo le mani, si rivolgevano a chi li guardava dai balconi sotto il sole di un appiccicoso autunno napoletano: “Gente, gente, gente, non state lì a guardare. Scendete nelle piazze, venite a protestare”. Qualche giorno prima, il 23 settembre del 1985, avevano ammazzato Giancarlo Siani. “Quella manifestazione rappresentò un momento molto commovente, che diede una spinta molto forte alle indagini”, ricorda Paolo Siani, il fratello del cronista abusivo (“oggi si direbbe precario”, sottolinea) che da allora non ha smesso di andare in giro a parlare di legalità nel nome di Giancarlo. “All’inizio fu molto difficile. Quando provavo a organizzare eventi nelle scuole, trovavo presidi che mi rispondevano stupiti, scettici. ‘D’accordo, ma questo che c’entra con noi?’, mi chiedeva qualcuno. Ora invece questo non succede più. E devo dire grazie ad altri presidi e altri insegnanti che invece ci hanno aperto le porte dei loro istituti, ci hanno dato la possibilità di parlare ai loro studenti di Giancarlo, della camorra, delle vittime. Quella sensibilità che 35 anni fa non c’era, l’abbiamo costruita. Adesso ricevo così tanti inviti che non so come fare per onorarli tutti. I ragazzi non solo leggono gli articoli di Giancarlo, ma li studiano, ne parlano”. Eppure, 35 anni dopo, qualcosa sembra esserci inceppato. La lotta alle mafie non è più percepita come una priorità.

L’identità smarrita. “È venuto meno il tratto identitario antimafia di alcune forze politiche”, ragiona Isaia Sales, saggista e studioso dei fenomeni criminali. E spiega: “Oggi l’opinione pubblica è di sicuro più attenta rispetto a quando fu ucciso Giancarlo Siani. Inoltre, sono stati compiuti passi in avanti straordinari dal punto di vista della repressione con arresti e processi. Non a caso, il movimento antimafia si è sviluppato quando si aveva la sensazione che le istituzioni non facessero fino in fondo la loro parte nel contrasto alle cosche malavitose. Un calo di tensione nei momenti in cui la repressione è più forte ci può anche stare”. “Quello che invece appare oggi meno attento al confine tra illegale criminale è proprio il mondo politico. Lo stesso Pd ha una posizione opaca. Un tempo, la sinistra aveva nella sua carta di identità, nella sua agenda, la lotta alla mafia. Se eri comunista, eri contro la criminalità organizzata in tutte le sue forme. Ecco, adesso sono venute meno proprio alcune forze progressiste, a cominciare dal Pd. Oggi non fa troppa differenza se uno appartiene a un ambiente oppure a un altro. Assistiamo, anzi, al reclutamento di personaggi di confine oppure a condannati per corruzione che collaborano alla compilazione delle liste”. Anche per don Luigi Ciotti, che con l’associazione Libera rappresenta un pezzo di storia del movimento antimafia in Italia, la sensibilità dell’opinione pubblica sul tema della criminalità organizzata “è cresciuta quantitativamente ma non sempre qualitativamente. Oggi le mafie sono una realtà innegabile, diffusa dovunque in Italia e nel mondo, mentre negli anni Ottanta c’era ancora chi ne sottovalutava o negava l’esistenza. Quest’importante presa di coscienza manca però spesso della qualità e profondità necessarie”. “Permane ancora, riguardo alle mafie, un paradigma sorpassato, non più in grado di coglierne i mutamenti, di capire quanto il fenomeno mafioso sia penetrato, fino a diventarne parte organica, in un più generale sistema ‘ingiusto alla radice’, per usare le parole con cui Papa Francesco ha definito il modello economico neoliberista, un modello che con le sue zone d’ombra e il suo disprezzo delle regole ha favorito enormemente la diffusione delle mafie nel mondo e nel nostro Paese”. Secondo don Ciotti “il calo d’attenzione è direttamente proporzionale all’ignoranza o alla semplificazione del fenomeno. Occorre un nuovo sguardo, un nuovo paradigma, al di là dell’ammirevole azione repressiva dei magistrati e delle forze di polizia. Da anni vado ripetendo che le mafie non sono più un ‘mondo a parte’ ma parte di questo mondo“. Per il fondatore di Libera “non si tratta di fare graduatorie, tantomeno liste dei buoni e dei cattivi. La società e la politica siamo noi: la politica è nostra espressione e la qualità della classe politica dipende anche dalle scelte dei cittadini e dalla loro capacità di esigere dalla politica politiche al servizio del bene comune”. “Chi non ha questa consapevolezza non avverte la responsabilità dell’essere cittadini che ci assegna la Costituzione, e diventa facile preda dei demagoghi e dei manipolatori che seducono le piazze con gli slogan facili dell’antipolitica. La deriva personalistica della politica – nel nostro Paese e non solo – è il segno di una democrazia malata, dove la delega ha preso il posto della responsabilità”.

La “mafia di massa”. Medico pediatra, dal 2018 Paolo Siani è in Parlamento, eletto deputato come indipendente nelle liste del Pd. “Ero molto scettico sull’opportunità di accettare la candidatura. Avevo rifiutato un sacco di volte. Poi è scattata la molla. Mi sono detto che era arrivato il momento giusto per entrare in quel palazzo”. Anche Siani avverte un calo di tensione, dentro e fuori i palazzi della politica.

“Le spiegazioni sono diverse. È sicuramente un momento di stanchezza. Inoltre, le organizzazioni criminali sparano meno e questo fa ritenere che non ci siano più. Invece sono più vive che mai. Per questo bisogna parlarne. Io stesso mi sono arrabbiato quando si tardava ad istituire la commissione Antimafia. Ma qualcosa si muove. Il 21 marzo scorso ero in aula, alla Camera. Era la giornata nazionale della memoria delle vittime innocenti delle mafie.  D’accordo con il presidente Fico, pensai che anche il Parlamento dovesse fare qualcosa per ricordarle. Così presi la parola e iniziai a pronunciare i nomi: Piersanti Mattarella, Giancarlo Siani, Giovanni Falcone. All’inizio non tutti capirono. Poi partì un primo applauso e tutti si alzarono in piedi. L’aula di Montecitorio stava tributando un omaggio alle vittime delle mafie. Pensai a Giancarlo, al tempo che era passato, a come sarebbe oggi. Ero emozionato. Lo sono ancora adesso”. Intanto le mafie hanno cambiato più volte pelle, in questi anni. “Assistiamo a un cambio di gerarchia – argomenta Sales – Prima, se dicevi mafia, pensavi a Cosa nostra e alla Sicilia. Oggi, invece, bisogna guardare soprattutto alla camorra e alla ‘ndrangheta. Due forme criminali storicamente sottovalutate, ritenute la prima una malavita urbana, la seconda banditesca, che invece oggi si sono dimostrate una specie più adatta alla sopravvivenza. E mi spiego: il modello piramidale di Cosa nostra si è rivelato un limite, perché quando il capo viene abbattuto, arrestato, la successione poi è più complicata”. “Non avere una cupola, per la camorra, è diventato un vantaggio: la sua struttura a rete ha mostrato, con i fatti, di essere più capace di rispondere alla repressione pur straordinaria di questi anni. E se andiamo ancora più a fondo, ci accorgiamo di come la camorra sia a tutti gli effetti, e non da oggi, una mafia di massa, non di élite. Ha il più alto numero di vittime, di arresti, di collaboratori di giustizia. Nella sua evoluzione, si sono unite due caratteristiche: alla matrice gangsteristica si affianca la capacità di sfondare il muro del rapporto con la borghesia e con le professioni”. Nella interpretazione di don Ciotti, “una delle chiavi per analizzare oggi il fenomeno mafioso è il concetto di "area grigia", cioè di commistione di legale e illegale, frutto avvelenato di una progressiva "mafiosizzazione" della società. Perché il punto è proprio questo: al di là della diversità dei metodi – cioè dell’uso più o meno diretto della violenza – si sono creati molteplici punti di contatto e convergenza tra le logiche del profitto finanziario e il metodo mafioso”.  “Gli obbiettivi, del resto, sono gli stessi: accumulazione di denaro e potere senza alcuna attenzione per il bene comune e dunque lo sviluppo sociale. Da qui, inevitabile, il dilagare della corruzione e il minore ricorso alle armi: con i soldi si ottengono profitti anche maggiori e al tempo stesso si desta minore allarme sociale. In questo scenario l’equazione secondo cui c’è mafia dove c’è un fatto di sangue è da superare. Da molto tempo non è più così. Le nuove mafie sono ‘imprenditoriali’, flessibili, capaci di costituirsi in network per diffondere il più possibile il loro raggio di azione. Sono mafie che sparano meno non per sopraggiunti scrupoli morali, ma perché, semplicemente, non gli conviene: col denaro e con la corruzione ottengono quello che prima ottenevano con la violenza diretta e con le armi”.

Un inizio e una fine. Giovanni Falcone diceva che le mafie sono un fenomeno umano e dunque hanno un inizio e una fine e quello del magistrato ucciso a Capaci, assicura don Ciotti, “non era solo un sogno, il suo. Del resto Falcone era un utopista vero, di quelli che l’utopia non si limitano a sognarla ma la costruiscono giorno dopo giorno, tenacemente. Anch’io, nel mio piccolo, continuo a pensare che le mafie avranno una fine, come ogni fenomeno umano. Ma vedendo quello che è accaduto da Capaci in poi, aggiungerei oggi alle parole di Falcone una piccola chiosa: è vero che le mafie non sono invincibili perché sono un fenomeno umano. Ma per sconfiggerle dobbiamo imparare tutti a essere più giusti e più responsabili. Dunque, più umani”. Proprio le indagini sull’omicidio di Giancarlo Siani, commenta il fratello Paolo, dimostrano che “quando magistratura e società civile stanno insieme, sono una forza imbattibile”. Per Sales, “rispetto a 30-40 anni fa possiamo tranquillamente rispondere che Falcone aveva ragione. Le mafie possono essere sconfitte. Lo Stato ha dimostrato di essere in grado di opporsi alla forma armata della criminalità organizzata. Non è stato invece in grado di bloccarne adeguatamente la penetrazione nell’economia, che resta una delle attività più opache, dove questi mondi si incontrano. Il problema è solo di volontà. Se tutti i soggetti interessati si impegnassero in una battaglia di annientamento e in una battaglia di riduzione, si raggiungerebbe l’obiettivo. Mi riferisco a magistrati, pubblica opinione, naturalmente la politica. Che purtroppo sembra ancora quella più sorda”. È essenziale però coinvolgere i giovani, come quelli che marciarono dopo l’omicidio Siani. “I giovani sono naturalmente aperti alla vita e dunque affamati di futuro – annuisce don Ciotti – Non si dica però, come vuole la retorica ufficiale, che sono il nostro futuro: sono il nostro presente. Un giovane chiede qui e ora di mettersi in gioco, di poter offrire alla sua fame di vita orizzonti più vasti di quelli dell’io, con tutti i corrispettivi idoli della società del consumo: il “successo”, la “fama”, la “ricchezza”. Un giovane va accompagnato ma non “condotto”: ecco la differenza tra l’essere educatori e l’essere seduttori. E va ascoltato nei suoi dubbi, nelle sue domande: a un giovane non basta sapere che le cose esistono, vuole sapere perché esistono. Se ci si avvicina ai giovani e ai giovanissimi con questo atteggiamento e questa umiltà, la risposta, lo dico per esperienza, è sempre straordinaria. Poi ovviamente bisogna non fermarsi alle parole, occorre dare ai giovani gli strumenti e le opportunità per realizzare i loro talenti e le loro passioni”. Quel talento e quella passione che Giancarlo Siani, a bordo della sua Mehari verde, aveva messo al servizio della notizia e che la camorra gli ha impedito sviluppare fino in fondo. “Chi sarebbe oggi Giancarlo? Che cosa sarebbe diventato, se non lo avessero ucciso? Di tanto in tanto mi pongo anche io questa domanda – ammette Paolo – E ogni volta mi viene da piangere. Secondo me era un grande giornalista. Con il suo omicidio, la società ha perso un’intelligenza, un capitale umano di grande valore e dunque un’opportunità. A me, invece, hanno tolto un fratello. E mi manca ogni giorno”.

“La stampa addosso. Giancarlo Siani, la vera storia dell’inchiesta” di Armando D’Alterio. L’omicidio di Giancarlo Siani fu dirompente, il primo salto di qualità della camorra campana. All’epoca faceva ancora scalpore, come esempio di inaudita ferocia, la circostanza che un capoclan di Forcella avesse mandato suoi accoliti a tagliare un dito ad un biscazziere. Era responsabile di avere, con quel dito, indicato la porta di uscita ad un protetto del clan che aveva voluto cacciare dal proprio locale. La mano gli era stata bloccata su di un tavolo mentre il calcio di una Beretta calibro 9 piombava a mannaia sul coltello che incrociava il dito indice dello sventurato. Non c’era poi soltanto lo shock per gli omicidi Turatello e Vangone. Impressionavano ancora la testa mozzata, le mani mutilate ed il cuore estirpato di Giacomo Frattini, alias “Bambulella”, cutoliano, il cui massacro era stato rivendicato dagli uomini della “Nuova famiglia” con un volantino in stile “Brigate rosse”. Sconvolgeva l’analogo trattamento inflitto ad Aldo Semerari, colpevole di aver aiutato Cutolo con una perizia che ne attestava falsamente l’insanità mentale. Eppure, tutto era nulla a confronto dell’immagine di Giancarlo Siani con il capo riverso nel fuoristrada, il 23 settembre del 1985. Devo spiegare perché? Otto anni dopo, nel ’93, avevo la foto di Giancarlo nel portafogli. Quando la Cassazione confermò le condanne, la rimettemmo nel vecchio fascicolo da cui l’avevamo presa. Vita da pubblico ministero e da investigatori significa anche caricarsi con gesti simbolici. Facile definirli ingenui, a posteriori. Ma forse adeguati rispetto alla rilevanza del delitto. L’omicidio di Siani si inserisce infatti nella storia di questo Paese. È un fatto storico per la sua genesi, che si ricollega a dinamiche e strategie criminali emblematiche dell’epoca. Per le conseguenze rilevanti che produsse. Per i profili sociologici che chiama in causa. Siani fu ucciso anche perché all’epoca appariva come l’esponente di una minoranza non silenziosa, che incideva nella pubblica informazione, con la sua professionalità, il suo disinteresse, il rigore che lo rendeva non ricattabile, la capacità di fare giornalismo d’inchiesta, cioè d’iniziativa, dando impulso all’azione giudiziaria. E tuttavia, tornando al giorno d’oggi, non va condivisa la critica al giornalismo giudiziario, che gli imputa ora di non essere più “giornalismo d’inchiesta” ma giornalismo “sulle inchieste” nel senso che non anticiperebbe, né si spingerebbe oltre le indagini della magistratura, ma ne darebbe mero resoconto. Il giornalismo d’inchiesta può esplicarsi in modo del tutto autonomo essenzialmente quando magistratura e forze dell’ordine attraversano momenti d’inerzia. Quando si muovono, come accade da oltre trent’anni, è giocoforza che si restringano, senza annullarsi è ovvio, gli spazi per il giornalismo d’inchiesta, i cui strumenti di accertamento dei fatti non possono essere altrettanto penetranti. (…). Tornando a Siani: la spinta che realizzava poteva produrre conseguenze pericolosissime per la criminalità. Aveva capito, vista l’evidenza e gravità del fenomeno, la pericolosità della commistione tra politica e mafia, all’epoca in larga parte misconosciuta. Poi scoperta dalle indagini. Ma Giancarlo seguiva tutto in diretta. Poteva farlo grazie alla sua attività pervasiva, che non si rivolgeva soltanto verso i nomi noti del clan, ma anche verso gli imprenditori riciclatori. Quelli che, secondo Gabriele Donnarumma, ne istigavano l’omicidio perché temevano di “perdere tutto”. Come riferito concordemente da collaboratori da opposte sponde, privi di qualsiasi collegamento (Donnarumma appunto, dal clan Gionta, Antonio Tarallo dal clan Limelli) lui indagava sui lavori relativi al depuratore Consarno, per i quali noi scopriamo – nove anni dopo – che venivano pagati 15 milioni al mese, versati a Pasquale Gallo, all’epoca esponente di spicco del clan Gionta. Analizzava il progetto di recupero del cosiddetto Quadrilatero delle carceri a Torre Annunziata, l’agglomerato urbano in cui si erge palazzo Fienga sul quale, anche per questo, si appuntavano le avidità tangentizie di politici, funzionari e camorristi. Recupero per il quale, ai fini dell’approvazione dell’appalto, si spendeva un avvocato venuto da Roma. Sempre da Roma, un sottosegretario alle Finanze, Antonio Carpino, raggiungeva Torre Annunziata per incontrare gli elettori preferiti, cioè Valentino Gionta e la sua corte, per rassicurare che lui sapeva bene quanto vitale fosse per quelle famiglie il contrabbando di sigarette. Lui, il sottosegretario alle Finanze che avrebbe dovuto sollecitarne la più severa repressione! Non a caso, dopo l’omicidio, i rapporti del clan Gionta con i politici si interrompevano, per l’impatto del delitto sulla pubblica opinione e sulla repressione criminale. Ma non s’interrompeva la corruzione, semplicemente Luigi Limelli si sostituiva a Valentino Gionta, e Antonio Tarallo a Eduardo Di Ronza, per fungere da intermediario con politici ed amministratori corrotti. Sempre gli stessi, con al centro le figure dei tre sindaci che arrestammo nell’inchiesta, e la loro corte di consiglieri comunali, assessori, imprenditori e professionisti collusi. Poi il clan Gionta, qualche anno dopo, terminata la prima onda di rivalsa dopo l’omicidio, tornava in sella, con Salvatore Migliorino al posto dello screditato e bruciato Eduardo Di Ronza, cui veniva rimproverata non solo la rottura dell’omertà mafiosa, ma anche la pubblicizzazione dei rapporti con i politici, che rischiava di far saltare il sistema criminale. Ricominciava il flusso di tangenti, a politici e camorristi, di importi stratosferici, in cui miliardi di lire, illecitamente erogati in anticipo per lavori che si sapeva che non sarebbero mai stati fatti, venivano direttamente smistati ai politici ed alla camorra. Nemmeno la ristrutturazione della chiesa dell’Annunziata sfuggiva alle tangenti pagate per ottenere, da parte dell’impresa appaltatrice, la semplice liquidazione degli stati di avanzamento dei lavori effettivamente realizzati. (…). Assessori alle finanze, assessori all’edilizia scolastica ed alla pubblica istruzione, ai lavori pubblici, allo sport, consiglieri comunali, componenti di commissioni di gara d’appalto, capigruppo di partiti presenti nel consiglio comunale di Torre Annunziata, componenti dell’Avvocatura generale, della Segreteria e della Ragioneria generale del Comune di Torre Annunziata, imprenditori di rango collusi, imprenditori prima estorti e poi collusi, costituivano un team operativo su base pluriennale al quale Giancarlo non dava tregua, anticipando le acquisizioni giudiziarie raccolte nelle nostre successive indagini. Il sistema rendeva inadeguato persino il termine classico di “infiltrazione camorristica”. Il crimine non doveva infiltrarsi in nulla perché si identificava con il tutto, governava in assoluto l’amministrazione, gli appalti, il controllo del voto espressamente pattuito per una quaterna di candidati al consiglio comunale di fiducia del sindaco dell’epoca, poi consigliere comunale durante la nostra indagine, ma ancora saldamente al comando della squadra come ai tempi in cui a lui si interessava Giancarlo. Dunque Siani era riuscito a penetrare da estraneo e da estraneo integerrimo, gli “arcana imperii” di un sistema in cui era totale il governo della camorra e di una politica che la gestiva su base paritaria. Quel “corpo criminale” era in equilibrio perfetto, l’anomalia da rigettare era Giancarlo. E Giancarlo fu rigettato e con lui, momentaneamente, la speranza degli uomini onesti. Finiti i soldi della ricostruzione post-sisma, con la disoccupazione alle stelle, i bilanci comunali disastrati per le spese destinate agli appalti distribuite a vuoto a politici e camorristi, restava solo una città allo stremo, con le imprese prima sane ora in bancarotta, i capitali fuggiti all’estero, persino i soldi dei camorristi e dei politici, rubati alla collettività, messi al sicuro in investimenti oltralpe. L’amministrazione comunale veniva infine sciolta e commissariata dallo Stato. Anche il commissariamento dava ragione a Giancarlo che a quell’amministrazione si era opposto da sempre. Poteva farlo perché era animato da un impegno etico e civile straordinari. La mafia – perché le organizzazioni camorristiche coinvolte non solo erano affiliate a Cosa nostra siciliana, ma pensavano ed agivano secondo i codici di comportamento mafiosi – vedeva lontano quando lo individuava come bersaglio. E dunque Siani è stato uno dei precursori del nuovo giornalismo, che ha prodotto epigoni, anche sull’onda dell’elevazione della qualità delle indagini nel tempo. Già questo consente di affermare il valore storico della sua azione e del delitto che lo ha fermato. E poi, ancora sul piano causale: il delitto Siani ha prodotto numerosi depistaggi, ha influenzato le carriere di magistrati, ha prodotto un intenso impegno giornalistico sulla vicenda, non acritico rispetto all’azione di inquirenti, ha contribuito a sviluppare una più intensa azione della stampa sul panorama del contrasto della criminalità. Ha scosso cittadini ed inquirenti, che capirono come le collusioni fra politica e camorra riguardassero tutti e ponessero in gioco la stessa sopravvivenza della società. Ha condotto il sistema giudiziario ad un accertamento definitivo dei fatti. Perciò è evidente che l’omicidio sia un fatto provvisto di dignità storica. Lo è infine sotto il profilo dell’orientamento delle strategie criminali. Come ho anticipato, dal punto di vista della mafia siciliana, penso che si inserisca nella prima strategia stragista di Cosa nostra. Secondo recenti notizie di stampa due dei condannati definitivi come esecutori dell’omicidio di Giancarlo avrebbero ricevuto in questi anni cospicue “mesate”, un flusso di sovvenzioni costante per trentacinque anni, tanti quanti trascorsi dall’omicidio ad oggi, da parte dei clan di Marano di Napoli. Che proverrebbero dagli stessi ambiti geo-criminali dell’omicidio di Giancarlo, raggiungendo ormai importi eccezionali. Niente di nuovo, apparentemente, ma l’importante conferma della pervicacia e solidità del “welfare criminale” su cui si appuntava l’analisi di Giancarlo. Era la capacità di sostegno interno che aveva già caratterizzato, con le rimesse ai detenuti, i primi clan camorristici. Il testo è tratto dal libro in edicola con l’edizione napoletana di Repubblica il 21 settembre.

L’altro “contagio”. Dice il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris: “Sta arrivando il contagio criminale perché sta arrivando un fiume di denaro pubblico come l’Italia non aveva mai visto dal dopoguerra a oggi. Ma non vedo consapevolezza del pericolo nel governo, nei ministri. Sembra quasi un argomento da addetti ai lavori. Serve una grande azione preventiva e di intelligence”. Anche de Magistris, dunque, denuncia l’insidia nascosta dell’emergenza Covid. Il numero degli omicidi in città durante il lockdown è drasticamente calato, così come le “stese”, le sparatorie in strada di ragazzi a bordo di scooter, per affermare la supremazia sul territorio. Ma il fatto che la violenza sia meno evidente non significa nulla. Al contrario. Le mafie sono già al lavoro. Vogliono approfittare della spaventosa crisi dell’economia per entrare con forza ancora maggiore nella struttura economica del Paese, grazie al silenzio o, peggio, alla complicità delle istituzioni. Questo pensa de Magistris. Ed è convinto che ci sia un calo di tensione nella lotta alla criminalità e una disattenzione della politica, anche a Napoli. “Sono stato – dice – uno di quelli che, in questi mesi, ha maggiormente rilanciato il tema. Accanto ai devastanti effetti della pandemia, è concreto, diffuso e pervasivo il rischio di un contagio criminale. Si avverte un calo della tensione morale sul tema del crimine, e del crimine organizzato in particolare. E contribuisce a questa situazione il crollo di credibilità della magistratura, che vive forse il suo momento più opaco. Ciò mette obbiettivamente in difficoltà la controffensiva dello Stato. Sono molto preoccupato di quello che ci aspetta nei prossimi mesi. La desertificazione delle città, non parlo solo di Napoli, produce da un lato un avanzamento del crimine nella sua forma tradizionale, cioè l’occupazione di spazi attraverso le estorsioni, le sparatorie, lo spaccio; dall’altro alimenta l’usura: la criminalità si mostra con il volto di chi ti aiuta, ma in realtà ti sta rendendo schiavo. La capacità delle organizzazioni mafiose di immettere liquidità in tutto il comparto delle attività produttive, può addirittura modificare il tessuto economico del nostro Paese”. Sull’incombente pericolo, il sindaco di Napoli vede “una sottovalutazione enorme”. Anche nel versante della politica e delle possibili infiltrazioni malavitose. “Soprattutto in tempi di voto – riflette, anche nella veste di ex magistrato – le mafie vanno alla ricerca del consenso sociale. In questo momento lo stanno acquisendo, perché si mostrano come quelli che certe volte sostituiscono lo Stato nei momenti di estrema difficoltà come la pandemia”. De Magistris polemizza con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, facendo espresso riferimento alle scarcerazioni dei boss in seguito all’emergenza Covid. “Credo ci sia anche una inadeguatezza a livelli governativi ad affrontare in modo forte, autorevole e carismatico un tema così delicato. Lo stesso ministro Bonafede l’ha dimostrato”. Il riferimento è “ad alcune situazioni che hanno caratterizzato negli ultimi tempi la magistratura, ma anche forze di polizia: penso alla scandalo della caserma di Piacenza, una cosa devastante, ma anche al caso Palamara, vicende che mostrano una rete di opacità diffusa sul piano nazionale”.

Quale collegamento c’è con il rischio criminale dovuto all’emergenza Covid?

“Il cittadino – risponde il sindaco di Napoli – si smarrisce, perde fiducia nei confronti di chi invece dovrebbe infonderti coraggio. Se vuoi denunciare un crimine, un’estorsione, il reato di un colletto bianco, una rete di collusioni criminali che operano sul territorio nazionale, con quale animo puoi farlo?”. La conclusione è che “c’è un arretramento complessivo del Paese nel contrasto alle forme più insidiose di criminalità organizzata”.

Quanto a Napoli, aggiunge, “ho apprezzato la reazione della città questa estate. È più viva. C’è stata una bella risposta. Ho visto funzionare le attività economiche. Però sono molto allarmato per gli spazi, che possono conquistare la camorra e il crimine. La paura, il rinchiudersi in casa, rischiano di favorire l’occupazione del territorio. A Napoli mi preoccupano molto l’usura e l’infiltrazione nelle attività commerciali e produttive. Qui, in tutto il Sud, occorre un livello di allerta molto alto da parte di tutti, comprese le categorie che rappresentano il mondo economico, il Comune, la prefettura, le forze di polizia, la magistratura. Serve una grande operazione preventiva di intelligence, oltre che repressiva. Bisogna saper leggere per tempo quello che velocemente può accadere nei nostri territori. La camorra come tutte le mafie ha ingente liquidità: non devono presentare domande in carta da bollo, agiscono in maniera rapida ed efficace”. Naturalmente non c’è solo Napoli. “Sono molto preoccupato soprattutto sul piano nazionale. Forse, in una crisi così devastante il rischio perfino maggiore è da Roma in su, perché sanno soffrire di meno e non sono abituati a non aver turisti, al crollo delle attività commerciali. Qui c’è più resilienza. Al Sud abbiamo costruito una classe dirigente sensibile ai temi delle mafie. Forse al Nord non sempre è così, c’è un po’ meno conoscenza, un po’ meno preparazione”. “Detto questo, andrebbe aperta una grande campagna di sensibilizzazione. Bisogna preservare il Paese dal contagio criminale. Arriverà un fiume di denaro pubblico che l’Italia non ha mai visto. Vogliamo aprire un dibattito su come verrà gestito? O ci ritroveremo un domani a discutere di come sono state gestite le stagioni commissariali che ben conosciamo nel nostro Paese nel corso degli ultimi trent’anni? Ci vuole più competenza, professionalità e una spinta etica. Non mi sembra che si stia mettendo in campo una macchina da guerra”. Puoi cadere migliaia di volte nella vita, ma se sei realmente libero nei pensieri, nel cuore e se possiedi l’animo del saggio potrai cadere anche infinite volte nel percorso della tua vita, ma non lo farai mai in ginocchio, sempre in piedi” “La stampa addosso – Giancarlo Siani – La vera storia dell’inchiesta” e il titolo del libro del magistrato Armando D’Alterio, che ‘Repubblica’ darà gratuitamente ai suoi lettori dell’edizione di Napoli lunedì 21 settembre, in abbinamento con il giornale, nel 35esimo anniversario dell’omicidio. Un volume di 286 pagine, un romanzo-verità firmato da D’Alterio, che nella veste di pm con la sua indagine rese possibile la condanna all’ergastolo di assassini e mandanti. Il libro di D’Alterio, edito da Repubblica nella speciale collana Novanta-Venti nata in occasione del trentennale della nostra redazione napoletana, è realizzato in collaborazione con l’editore Guida e ha la prefazione del direttore Maurizio Molinari. Il volume è a cura di Ottavio Ragone e Conchita Sannino. Il libro è nato grazie alla Fondazione antimafia “Polis” di don Tonino Palmese; al centro Ascender di Geppino Fiorenza; alla cooperativa sociale Less; al sostegno dell’università Federico II di Napoli con il rettore Arturo De Vivo; del teatro San Carlo con il soprintendente Stéphane Lissner; dello Stabile Mercadante con il direttore artistico Roberto Andò; degli imprenditori Antimo Caputo (Molini Caputo), Luciano Cimmino (Yamamay) e Francesco Tavassi (Gls Napoli).

Paolo Siani: "Mio fratello Giancarlo, amato dai ragazzi". Intervista di Dario Del Porto su La Repubblicatv il 16 settembre 2020. "Chi sarebbe oggi Giancarlo? Che cosa sarebbe diventato, se non lo avessero ucciso? Di tanto in tanto mi pongo anche io questa domanda. E ogni volta mi viene da piangere. Secondo me era un grande giornalista. Con il suo omicidio, la società ha perso un’intelligenza, un capitale umano di grande valore e dunque un’opportunità. A me, invece, hanno tolto un fratello. E mi manca ogni giorno". Aveva 31 anni, Paolo Siani, quando la camorra uccise suo fratello Giancarlo, cronista abusivo ("oggi si direbbe precario", sottolinea) che sulla sua Mehari andava in giro a cercare notizie sui clan che avevano trasformato un rione di Torre Annunziata nel " fortino inespugnabile" dei boss. Il Fortapasc del film di Marco Risi. Oggi Paolo ne ha 35 in più e da allora non ha smesso di andare in giro a parlare di legalità nel nome di Giancarlo. "All’inizio fu molto difficile. Ora invece questo non succede. Adesso ricevo così tanti inviti che non so come fare per onorarli tutti. I ragazzi non solo leggono gli articoli di Giancarlo, ma li studiano, ne parlano ". Uno scossone formidabile all’indifferenza di quei giorni arrivò dalla marcia degli studenti organizzata nell’ottobre del 1985. "Fu un momento molto commovente che impresse una spinta forte alle indagini", ricorda Paolo Siani

Marco Ciriello per Dagospia il 29 giugno 2020. Nella città che parla con i santi non fa meraviglia che si possa dare una tessera a un morto. E persino il più surrealista degli scrittori o il più credente dei dialoganti da statua chiederebbe una ragione valida. Solo che la ragione valida è superata, come tutto in Italia. Pure la morte, che era una cosa seria ai tempi di Totò, è diventata un motivo di contrattazione, così, Giancarlo Siani, a 35 anni dalla sua uccisione, lascia la condizione di abusivo e diventa giornalista professionista: come tutti quelli che fanno le scuole di giornalismo e da disoccupati prendono la tessera. Mentre scompare dalla storia la condizione di abusivo – l’essere un trapezista da redazione in attesa di riconoscimento, assunzione e diritti, lo racconta Antonio Franchini, dimostrando che a Napoli negli anni Ottanta ogni cosa era abusiva: anche i pensieri – smette di esistere una categoria, che era stata già linguisticamente sostituita dai precari, che fanno comodo ai giornali e puliscono la coscienza dell’inutile ordine dei giornalisti. Tra l’altro, in una strana sincronicità, esce dall’ordine Vittorio Feltri – il più politicamente scorretto dei giornalisti – segnandone l’ipocrisia e si consegna al morto Siani uno status di professionista che serve ai vivi, all’ordine, ai nuovi tecnici della militanza d’albo, alle redazioni senza fumo, alla stratificazione di commemoratori che appendono più in alto il poster di Giancarlo, tanto è leggiere, se fa piccirille, o al massimo affresco per il soffitto in sala riunioni e poi murale in periferia. È il tempo degli status che dai social arrivano ai ricordi, che mettono in ordine un passato che non può essere ordinato, che non può essere imbiancato, perché c’è un sangue che non va via, un sangue che puzza, e anche molte ombre sulla morte del cronista abusivo del “Mattino”: abbiamo una verità giudiziaria, ma come in molti altri casi, non abbiamo una verità forte, unica, soddisfacente, che sarebbe stata molto più importante di una tessera giornalistica. Abbiamo i killer ancora stipendiati – in carcere –, e forse alcuni mandanti che si sono messi in salvo dai tormenti della memoria. In molti diranno che Giancarlo voleva diventare professionista, che voleva quella tessera, ma dargliela alla memoria, dopo la morte, a 35 anni da quegli spari sotto casa sua, equivale a dare oggi la patente nautica a Yanez. Quella tessera negli anni Ottanta dava lavoro, adesso è un ornamento. Quello che era uno status nella società, attualmente è uno status su Facebook. Siani è già nella storia del giornalismo, è già romanzo, è già epica, è già oltre tutta la sua generazione con tessera e pensione e appartamenti e privilegi, era già professionista per autocertificazione e articoli divenuti imprescindibili: senza il suo ultimo pezzo su i muschilli non ci sarebbero le paranze di Roberto Saviano e senza le sue inchieste precedenti non ci sarebbe nemmeno “Gomorra”, senza il suo sacrificio non ci sarebbero stati tanti abusivi assunti nei giornali, senza la sua forza e la sua curiosità di ragazzo che non voleva essere eroe ma solo firma – che non viene garantita da una tessera ma dalla scrittura e dalle storie –, in molti (compreso me) non avrebbero fatto questo lavoro; e saperlo libero nella sua clandestinità equivaleva a sentirlo fratello nella nostra indipendenza fuori dalle redazioni, sulle strade, in bilico. È la fisicità di Giancarlo che ci ha garantito l’epica, dare la tessera in assenza di fisicità è una operazione da giornalismo in smart working. Sanare la sua condizione d’abusivo significa condannarlo alla normalità, dargli il posto – certo, lo voleva, ma da vivo – da morto, ha senso? Siamo oltre Nanni Loy. L’antimafia d’ordinanza gli ha consegnato un loculo suppletivo, un titolo che oggi non ha valore – la tessera verde, la tessera rossa, un rito di un mondo spazzato via da una professionalità cresciuta e coltivata fuori dagli albi dell’ordine –, gli danno un titolo del passato in un presente senza titolo, nell’Italia dell’uno vale uno, banalizzando il suo – involontario – sacrificio. Già la sua Mehari era diventata una macchina da luna park, chi aveva bisogno di un nuovo status ci faceva un giro, una foto, e via andare, ad ogni giro una medaglia, ad ogni medaglia un salto di grado, dimenticando che fosse una bara. Ma è ormai Napoli che ha smarrito il suo rapporto con la morte, il sapersi restituire alla terra fino a farsi carne di questa, come diceva Ignazio Buttitta, con una sola biografia, quella autentica, senza riscritture. Bisognava lasciare la Mehari sotto casa, e farne un monumento, conficcarla come un chiodo in quella strada-teatro. E bisognava lasciare Giancarlo un abusivo. Invece, in questa storia, è sparita la sostanza delle cose. Giancarlo Siani che già da ragazzo era passato a eroe, ora diventa eroe giornalista-professionista, e vissero tutti felici, contenti e con la tessera.

Siani, tre clan pagano i killer. 16 misure cautelari emesse dal gip nei confronti del clan Polverino. Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2020. Va avanti da quasi 35 anni il sostegno della camorra ai due killer ergastolani del giornalista de Il Mattino Giancarlo Siani, trucidato sotto casa, nel quartiere Vomero di Napoli, il 23 settembre 1985, da Ciro Cappuccio e di Armando Del Core. Emerge dall’indagine dei carabinieri che, coordinati dalla Dda di Napoli, hanno assestato un altro duro colpo alla criminalità organizzata di Marano di Napoli, notificando 16 misure cautelari emesse dal gip nei confronti di altrettante persone ritenute legate al clan Polverino accusate di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e all’intestazione fittizia di beni, reati aggravati dal metodo mafioso. L’apporto economico, le cosiddette «mesate», a coloro che sono «caduti nell’adempimento del dovere criminale » o a chi sta pagando con il carcere la sua fedeltà alla camorra, non è una novità per chi conosce le dinamiche delle mafie. Ma certamente può ritenersi singolare che per questi due killer, e per le loro famiglie, il flusso di denaro sia rimasto ininterrotto, per tutto questo tempo, malgrado il controllo degli affari illeciti sia passato per le mani di addirittura tre clan in quella zona del Napoletano: prima i Nuvoletta, poi i Polverino e infine gli Orlando. Per Paolo Siani, fratello di Giancarlo, quest’indagine dimostra che la lotta alle mafie «non può essere lasciata solo ai magistrati e alle forze dell’ordine. Non bastano le manette e gli arresti. C’è bisogno di un grande intervento sociale sul territorio. C’è bisogno di ridare opportunità e speranza, perché il vero welfare che da benessere ai cittadini è quello dello Stato, non certo quello criminale». E per le famiglie Cappuccio e Del Core, «foraggiati» separatamente in cella, il welfare criminale non è venuto meno neppure quando tra i Polverino e gli Orlando, sono sorti attriti «armati». Una circostanza che ha spinto gli inquirenti a ritenere che i servigi resi da questi due affiliati – che con le loro famiglie non hanno mai rescisso il vincolo criminale con i clan – fossero di caratura. Le cronache dell’epoca riportano che Cappuccio e Del Core dopo avere ucciso Siani, tornarono nel loro covo per festeggiare con i boss che avevano impartito l’ordine stappando una bottiglia di champagne. A decidere che Giancarlo dovesse morire furono i clan Nuvoletta e Gionta, con i boss Angelo Nuvoletta e Luigi Baccante.

Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano” il 27 maggio 2020. Fa una certa impressione apprendere quanto emerge in Campania da un' indagine dei carabinieri, che ha portato a un'operazione antidroga contro la camorra a Marano di Napoli: i clan, a 35 anni dall' omicidio del giornalista Giancarlo Siani, continuavano a pagare lo stipendio mensile alle famiglie dei killer che per quel delitto stanno scontando l'ergastolo. Dall' inchiesta risulterebbe un' efficienza, nel sostegno alle famiglie degli assassini, davvero senza precedenti: a erogare i pagamenti infatti, negli anni, sarebbero stati vari clan, a volte anche in guerra tra loro. Come dire: tra noi ci scanniamo, ma per quanto riguarda il sussidio alle famiglie dei nostri sicari non devono esserci ripercussioni. Il "welfare" della camorra non può perdere neanche un colpo. Naturalmente sappiamo fin troppo bene che la camorra non sa assolutamente nulla di cosa sia uno stato sociale, essendo il suo campo quello della lotta eversiva allo Stato, e sua ambizione quella di sostituirsi a esso. Quello che può sembrare assistenzialismo o "welfare", sia pure a beneficio di due spietati assassini, in realtà non è che un mezzo, anche a trentacinque anni di distanza, per rinsaldare il vincolo criminale, per fare capire agli uomini che finiscono sotto la sua influenza, e alle loro famiglie, chi è che paga, e dunque chi è che comanda. In breve, il pagamento mensile di uno stipendio alle famiglie dei killer è un atto di dominio, di potere, non assistenza sociale sia pure dal punto di vista del crimine. Chi prende quei soldi, appartiene alla camorra, come fosse stato loro venduto. Ed è questa esigenza, il dominio, che spiega perché a incaricarsi del pagamento, in 35 anni, sono stati diversi clan, talora anche in acerrima rivalità.

SUSSIDIO MENSILE. E tuttavia qualche ulteriore riflessione su questo meccanismo di legame attraverso il puntuale, indefesso pagamento di un sussidio economico, si può svolgere. Abbiamo detto che la camorra, tutto quel che fa, lo fa per scalzare lo stato di diritto, per sbaragliarne quella che considera la concorrenza. O lei oppure lo Stato, terza alternativa non si dà (questo almeno in linea di principio, lasciamo per adesso da parte le tante "zone grigie"). In questa ottica di alternativa, "o con noi o contro di noi", bisogna dire che lo strumento di un pagamento mensile che arriva sempre, per ottenere il quale non bisogna presentare una farragine di documenti, e che è assicurato vita natural durante senza, pare, che si debbano temere decurtazioni o rinvii da questa o quella riforma delle pensioni imposta dalle disastrate finanze dello stato di diritto, è un' arma formidabile che la camorra si è procurata. Un' arma molto più pericolosa delle pistole. Se lo Stato ha un welfare lento, pigro, complicato, che proprio per questo quasi scoraggia a usufruire dei suoi servizi; se le nostre pensioni subiscono continuamente innalzamenti dell' età alla quale si può accedervi e abbassamenti degli assegni corrisposti; se infine strumenti come il reddito di cittadinanza vanno, come si è visto, a beneficiare non pochi criminali "nullatenenti"; allora perché, penserà qualche cittadino campano o di altra regione che sventuratamente comprende aree che di fatto si trovano sotto il tallone della criminalità, perché non rivolgersi alla concorrenza? Se l' Italia nicchia, ci pensa la camorra. Mentre lo Stato aspetta che un ultrasessantenne impari a usare internet per fare domanda per un qualche sussidio cui ha pienamente diritto, allegando tutti i documenti necessari, e solo dopo aver determinato un iter complicatissimo e una lunga attesa, quasi con degnazione lo aiuta, ecco che la camorra ti aiuta subito, e ben felice di farlo.

STATO DI DIRITTO. Certo, in cambio vuole la tua anima, ma ci sono anime dannate fin dalla nascita, o per disperazione, che non hanno tempo da perdere, oppure non sono in condizioni di ribellarsi al dominio malavitoso. Per impotenza, paura, miseria, debolezza. Proprio a queste persone dovrebbe, invece, rivolgersi lo stato di diritto, i suoi strumenti di assistenza anche economica, il suo "welfare". Sottraendole così alla dannazione camorristica. Ma vi pare che l' Inps e le altre strutture del nostro stato di diritto, siano all' altezza di questa sfida? Quando registriamo le mille inefficienze e disservizi e errori di questi enti, ricordiamoci che non arrecano solo un danno a noi cittadini e ai nostri diritti, ma anche un ulteriore vantaggio agli enti pensionistici della camorra, che invece sono di un' efficienza spietata, agghiacciante.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro De Mauro.

Mauro De Mauro, 50 anni di misteri e nessuna verità. Il Dubbio il 16 Settembre 2020. Inghiottito da un buco nero, lo stesso che ha fagocitato uomini e storie del Dopoguerra. Mauro De Mauro, cronista di razza de L’Ora di Palermo, scomparve una fresca sera di settembre dinanzi casa. Inghiottito da un buco nero, lo stesso che ha fagocitato uomini e storie del Dopoguerra. Mauro De Mauro, cronista di razza de L’Ora di Palermo, scomparve una fresca sera di settembre dinanzi casa. Era il 16, preso dai preparativi per il matrimonio della figlia Franca, si attardò per scaricare dall’auto delle buste. De Mauro non oltrepassò mai più il portone di via delle Magnolie dove ad attenderlo c’era la figlia. L’ultima ad averlo visto, la testimone che raccontò di quei tre uomini con i quali si allontanò a bordo della propria auto. Per sempre. I racconti dei pentiti hanno dato diversi identikit su quei tre uomini, ma nonostante le ipotesi e le sentenze successive, a distanza di 50 anni su chi abbia ucciso e fatto sparire il corpo di De Mauro resta ancora il mistero. Ma ancora di più resta oscuro il movente. Di piste in 50 anni ne sono state seguite molteplici, battute dai più grandi investigatori, come Carlo Alberto Dalla Chiesa, il capitano dei carabinieri Giuseppe Russo ed il capo della Mobile Boris Giuliano. Tutti in seguito uccisi da Cosa Nostra. La teoria più attendibile, e accreditata dalla sentenza del 2011, porta alla morte di Enrico Mattei. La “pista Mattei” appare ancora oggi la più plausibile. De Mauro aveva ricevuto dal regista Francesco Rosi l’incarico di “indagare” sull’incidente aereo di Bascapè, dove l’industriale perse la vita. Al giornalista il compito di ricostruire le ultime ore in Sicilia del presidente dell’Eni, un lavoro necessario per potere realizzare la sceneggiatura del film “Il caso Mattei”. Secondo le rivelazioni dei collaboratori di giustizia, primo fra tutti Tommaso Buscetta, sarebbero stati gli uomini di Bontate a farlo sparire nel nulla, per mettere un freno alla sua inchiesta sulla morte del manager. Ma le ragioni che si nasconderebbero dietro alla scomparsa non si esaurirebbero soltanto con il lavoro che stava conducendo per ricostruire la vicenda che coinvolse l’industriale, alla ricerca di un retroscena e dei possibili responsabili della sua fine, ma la mafia voleva uccidere De Mauro anche per la sua attività di cronista scomodo, per quel suo curiosare, chiedere, informarsi. Mettere il naso nelle cose di Cosa nostra. Già nel gennaio del 1962 aveva pubblicato su L’Ora i verbali di polizia del medico Melchiorre Allegra, uomo d’onore pentitosi nel 1933, in cui veniva ricostruito il vertice mafioso. Qualche anno dopo aveva pure pubblicato una biografia di Lucky Luciano. E poi le sue tante inchieste, i suoi servizi ricchi di dettagli, di particolari sconosciuti e le informazioni preziose. Come ebbe a dire Buscetta: “De Mauro era un cadavere che camminava”. Inevitabile che le indagini che seguirono alla scomparsa del giornalista siano state contrassegnate da depistaggi e false piste. Una condizione quasi naturale negli anni del Dopoguerra, in quel lungo periodo avvelenato dai misteri, dei servizi segreti deviati, degli interessi esteri, da quelle tante lesioni sul tessuto democratico dell’Italia. Sulla sua figura sono stati pure proiettati inquietanti sospetti, come quello di avere compiuto inchieste per ragioni meschine, allo scopo di ordire ricatti per ottenere benefici di varia natura. La storia di De Mauro è una pagina oscura, una delle tante, di un’Italia avvolta dai misteri. Ma è anche il racconto della vita di un cronista coraggioso e determinato nel ricercare la verità.

Il mistero di Mauro De Mauro. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta su La Repubblica il 16 settembre 2020. Sono passati cinquant'anni dal giorno della sua scomparsa. Era il 16 settembre del 1970 e il giornalista de “L'Ora” Mauro De Mauro, uno dei reporter più famosi della Sicilia, viene rapito sotto casa a Palermo. Aveva appena posteggiato la sua BMW accanto al portone d’ingresso in viale delle Magnolie, l'ultima a vederlo - dalla finestra della sua abitazione - fu la figlia Franca. Suo padre era insieme a tre uomini. Poi il silenzio. La Bmw di Mauro fu ritrovata il giorno dopo dall'altra parte della città, le chiavi inserite nel cruscotto. Ma di  Mauro nessuna traccia. Una lupara bianca, un sequestro senza ritorno. Chi l’ha rapito? E perché? E' vivo? E' morto? Dove è stato nascosto il suo cadavere? Dopo cinquant'anni è ancora mistero profondo. Dopo cinquant'anni solo ipotesi. Come quella sera di settembre del 1970. La pista droga seguita dai carabinieri - subito rivelatasi inconsistente – con De Mauro che aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. La pista del golpe Borghese, un tentativo di colpo di stato che gli irriducibili fascisti guidati dal principe nero della Decima Mas avrebbero voluto fare il giorno dell'Immacolata di quel 1970, con De Mauro - che in gioventù era entrato in contatto con quegli ambienti - che era venuto a conoscenza di particolari sul golpe. La pista del delitto del presidente dell'Eni Enrico Mattei, con Mauro che aveva scoperto qualcosa dopo l'incarico ricevuto dal regista Francesco Rosi per la stesura della sceneggiatura di un film proprio sulla tragica fine di Mattei. Il 27 ottobre del 1962 il presidente dell'Eni fu ucciso - ma si sarebbe accertato moltissimi anni dopo - in un attentato. L’inchiesta del magistrato Vincenzo Calia della procura di Pavia, ha dimostrato che sull'aereo di Mattei - in volo da Catania a Milano -  era stato piazzato dell’esplosivo. Un boato nei cieli di Bascapè, nella bassa pavese. Nelle pieghe di questa inchiesta sull'attentato a Mattei, la procura lombarda ha svolto un’indagine anche sul rapimento di Mauro De Mauro che ha trasmesso alla procura della repubblica di Palermo. Da oggi e per circa trenta giorni ne pubblichiamo ampi stralci sul Blog. E' una preziosa inchiesta che fa affiorare tanti nomi e tantre storie che si incroceranno negli anni successivi a Palermo. Quella del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, quella del vicequestore Boris Boris Giuliano (straordinaria la sua capacità di "leggere” gli avvenimenti in quel 1970 e straordinario il suo impegno nella ricerca della verità sulla scomparsa di Mauro De mauro), quella del senatore padovano Graziano Verzotto, emigrato in Sicilia e diventato segretario regionale della Democrazia Cristiana e poi invischiato in uno dei primi scandali del banchiere Michele Sindona.  Quello di un famigerato “Mister X”, alias Vito Guarrasi, uno dei “grandi vecchi” della Sicilia più misteriosa. Dopo cinquant'anni però, sulla scomparsa del nostro collega ancora il buio. 

La scomparsa cinquanta anni fa. La Repubblica il 16 settembre 2020. Questa relazione  trae origine dalle indagini che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pavia ha avviato, delegandole principalmente ai Carabinieri di Pavia, per accertare le cause che avevano portato alla morte il presidente dell’ENI Enrico Mattei, il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista americano William Mc Hale. I decessi erano avvenuti in Bascapè (PV) il 27 ottobre 1962, a seguito della caduta dell’aereo sul quale viaggiavano, un piccolo quadriposto bireattore,  Morane Saulnier 760 Paris II, di proprietà della SNAM. I nuovi accertamenti hanno consentito di appurare che l’aereo in argomento era precipitato a causa dell’esplosione di un piccolo ordigno posto all’interno dell’abitacolo. Nel corso della raccolta e della lettura della rassegna stampa riguardante l’incidente aereo,  era apparso evidente come, a parte i giorni immediatamente successivi al 27 ottobre 1962, solo nel 1970, prima e  ancor più  dopo la sparizione di Mauro DE MAURO, tutta la stampa aveva ripreso ad interessarsi della morte dell’ing. MATTEI, ponendola in stretta relazione con il delitto avvenuto a Palermo. Essendo il sequestro avvenuto in epoca successiva alla morte di MATTEI e nell’ipotesi che i due delitti potessero avere i medesimi mandanti (tesi molto accreditata  tra tutti coloro che, a vario  titolo, si erano interessati di DE MAURO), è stato ritenuto utile svolgere indagini sulla vicenda più recente. Pertanto la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pavia aveva richiesto, e detiene tuttora in visione, il fascicolo processuale del Tribunale di Palermo riguardante le indagini svolte sulla scomparsa di Mauro DE MAURO. L’esame del fascicolo palermitano, recentemente archiviato una seconda volta per essere rimasti ignoti gli autori del sequestro, ha reso necessario compiere mirati accertamenti, divenuti numerosi perché originati gli uni dalle risultanze degli altri; Indagini che non si erano prefisse lo scopo di indagare - ex novo - sul sequestro stesso, ma di ricostruire tutte le circostanze del delitto, per verificare la sussistenza di elementi di connessione con la morte dell’ing. Mattei. Le conclusioni del lavoro svolto sono organicamente raccolte nella presente relazione. Sarà perciò dimostrato che il sequestro De Mauro era stato attuato proprio in conseguenza della morte non accidentale di Enrico Mattei. Per fare questo, che è poi l’aspetto rilevante per la procura di Pavia, saranno ripercorse tutte le tappe delle indagini esperite dagli organi inquirenti nei mesi successivi al rapimento.     Emergeranno così il clima e i risvolti più drammatici nei quali si sono svolte le investigazioni e sarà perciò possibile rivalutare tutti gli eventi seguiti al rapimento. Si incontreranno personaggi noti come il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, all’epoca comandante della Legione Carabinieri di Palermo; Il tenente colonnello Giuseppe Russo, all’epoca comandante del Nucleo Investigativo e successivamente ucciso dalla mafia; Il vice Questore Boris Giuliano, all’epoca addetto alla Squadra Mobile e successivamente ucciso dalla mafia; Il Questore Angelo Mangano, all’epoca dirigente della Divisione di Polizia Criminale del Ministero dell’Interno, il quale successivamente aveva subito un tentativo di omicidio da parte della mafia; Il Questore Bruno Contrada, all’epoca commissario della Squadra Mobile di Palermo. Tutti personaggi che si erano occupati direttamente delle investigazioni. Inoltre se ne erano occupati, più marginalmente, anche il Questore di Palermo Ferdinando Li Donni e il capo della Mobile vice Questore Nino Mendolia.

I principali sospettati del grave delitto erano stati: Antonino Buttafuoco, anziano e notissimo tributarista di Palermo, in rapporti con la famiglia De Mauro, il quale, dopo il sequestro, aveva posto in essere un comportamento che gli era valso l’arresto per il concorso con ignoti nel rapimento; l’ex senatore Graziano Verzotto, all’epoca presidente della più importante realtà economica dell’isola e, cioè, l’Ente Minerario Siciliano. Questi era stato il rappresentante  dell’ENI  in  Sicilia  ed  aveva  organizzato  l’ultima visita di Mattei; l’avvocato palermitano Vito Guarrasi. Descritto dai giornalisti come “il papa nero” e “la testa del serpente” per indicarlo come il capo della mafia, era stato sospettato inoltre quale mandante degli omicidi in danno di Boris Giuliano (perché questi, ben dopo la chiusura delle indagini su De Mauro, aveva continuato ad interessarsene ritenendo Guarrasi il principale responsabile) e del sindaco palermitano Insalaco (perché questi, di fronte ai giudici di Palermo, aveva chiamato in causa Guarrasi in merito alla gestione  dei grandi appalti pubblici).

Lupara bianca per un giornalista. La Repubblica il 17 settembre 2020. Tra il  giugno e il  luglio del 1970 il  regista  cinematografico  Francesco ROSI aveva incaricato il giornalista Mauro DE MAURO, del  quotidiano   palermitano  “L’ORA”, di  raccogliere materiale  relativo ai movimenti di Enrico MATTEI nei giorni 26-27 ottobre 1962 in Sicilia, necessario per predisporre la sceneggiatura del film  “Il caso Mattei”, in fase di realizzazione. Tra  l’agosto e il settembre 1970 Mauro DE MAURO aveva provveduto ad espletare tale incarico, recuperando diverso materiale cartaceo e intervistando tutte le persone che, negli  ultimi  due giorni di vita del presidente dell’E.N.I., avevano avuto modo di incontrarlo in Sicilia. Già da alcuni mesi DE MAURO era  passato alla redazione sportiva del giornale “L’ORA” e, pertanto,  non si occupava più di cronaca “nera”. Il 16 settembre 1970, verso le ore 21.00, Mauro DE MAURO veniva sequestrato da tre individui, mentre si trovava davanti alla sua abitazione, sotto gli occhi della figlia Franca che stava rincasando. Da allora non si è più avuta notizia del giornalista. La denuncia dell’avvenuto sequestro era stata presentata la mattina del 17/9/1970 dai familiari del giornalista, presso la Squadra Mobile della Questura di Palermo. Anche al momento della denuncia non vi era stata la certezza del sequestro in quanto la figlia Franca aveva riferito di aver visto il padre salire sulla propria auto, con le tre persone, apparentemente in modo volontario. Le conseguenti indagini erano state esperite, oltre che dalla polizia, anche dal  Nucleo Investigativo del Gruppo Carabinieri della stessa città. La Squadra Mobile aveva privilegiato immediatamente la c.d. “pista  Mattei”, ritenendo che il movente andasse ricercato in qualcosa che De Mauro aveva scoperto svolgendo il lavoro commissionatogli per il film. I Carabinieri avevano invece impostato l’attività investigativa ritenendo che il delitto fosse maturato nell’ambiente  mafioso per motivi di droga.

La “pista droga” seguita dai carabinieri. La Repubblica il 18 settembre 2020. L’esame della documentazione trasmessa dai Carabinieri alla competente Autorità Giudiziaria è di per se stessa più che sufficiente a dimostrare la totale inconsistenza della “pista droga”, sostenuta da Carlo Alberto DALLA  CHIESA e da Giuseppe RUSSO. Al riguardo è sufficiente riportare i giudizi espressi dai due magistrati che si sono occupati delle indagini sul sequestro De Mauro: Ugo Saito, sostituto procuratore: “Ricordo perfettamente il rapporto dei Carabinieri nel processo De Mauro: si trattava di un rapporto che, almeno nella sua prima stesura, a giudizio sia mio che di Scaglione (Procuratore Capo della Repubblica di Palermo), non era nemmeno sufficiente ad avviare delle misure di prevenzione ... Ricordo che il colonnello Dalla Chiesa mi portò personalmente il rapporto in udienza, accompagnato da operatori della televisione ...” Mario Fratantonio, giudice istruttore: “La tesi investigativa portata avanti dai Carabinieri per spiegare la scomparsa di Mauro De Mauro si dimostrò rapidamente inconsistente ...” Significativi sono pure  i ricordi di Bruno CONTRADA sul punto; lo stesso ha infatti dichiarato: “Mi sembrava assolutamente non aderente alla realtà investigativa che De Mauro avesse potuto scoprire qualcosa di mafia talmente grave da indurre l’organizzazione ad eliminarlo. Non era infatti emerso alcun elemento che facesse ritenere valida l’ipotesi dei carabinieri. In particolare, quanto alla presunta scoperta di De Mauro di traffici di droga ad opera di famiglie di mafia, voglio precisare che i veri traffici di mafia in Sicilia, con sbarchi sulla costa, sono iniziati soltanto in epoca successiva”. L’intervento diretto del massimo rappresentante dell’Arma in Sicilia, con la personale esecuzione di alcuni atti di P.G., aveva - di fatto -  portato ad incanalare le indagini in una sola direzione con l’esclusione, al contempo, di qualunque altra ipotesi investigativa.

L'indagine “riservata” su Eugenio Cefis. La Repubblica il 19 settembre 2020. Le dichiarazioni rese da CONTRADA al P.M. di Pavia (unico funzionario inquirente ancora in vita) hanno evidenziato che il questore LI DONNI, pochi giorni dopo il sequestro, aveva incaricato l’ufficio politico della questura di Palermo di svolgere una inchiesta riservata, mirata ad accertare eventuali responsabilità di Eugenio Cefis. A tal fine Li Donni aveva si era avvalso di una pubblicazione sull’ENI e su Cefis (probabilmente l’opuscolo “L’ENI da Mattei a Cefis” dell’agenzia Roma Informazioni), dalla quale traeva - passo passo - lo spunto per accertamenti investigativi. In questo contesto, connesso agli avvenimenti successivi al sequestro De Mauro, erano emersi i nomi di Vito Guarrasi, Graziano Verzotto e Antonino Buttafuoco e su tali personaggi erano state svolte le investigazioni dell’ufficio politico. L’ inchiesta riservata condotta dall’ufficio politico, interdipendente dalle indagini formali della squadra mobile, attesta che era stato tenuto in seria considerazione il movente politico nel sequestro De Mauro. Dimostra pure che il questore Li Donni aveva concreti elementi per ritenere sussistente la connessione tra il sequestro De Mauro e la morte di Enrico Mattei. Inquadrare correttamente tale inchiesta parallela significa arrivare subito al nocciolo del sequestro De Mauro. Pertanto si deve necessariamente rimandare alle conclusioni della presente relazione ogni connessione con tutto il lavoro investigativo svolto attualmente. E’ per ora sufficiente  dimostrare che tale inchiesta riservata dell’ufficio politico, incentrata sulla pista Mattei, era realmente esistita e si era focalizzata sull’avvocato Vito Guarrasi e su Eugenio Cefis. Infatti:

nel fascicolo sulle indagini dei carabinieri di Palermo, è stato rinvenuto un appunto manoscritto da Giuseppe Russo del seguente tenore: “Ufficio politico - cerca pure un plico a detta dei De Mauro ove forse aveva documenti (ENI - Mattei?)” - pag. 2349 fasc. nota 144;

i marescialli dell’ex P.S. ZACCAGNI e SALFI, che all’epoca delle indagini prestavano servizio all’ufficio politico della questura di Palermo, hanno confermato di avere svolto tali indagini su incarico del questore, nonché di averle condotte nei confronti di Guarrasi e nell’ambito della pista ENI/Mattei;

la questura di Palermo ha trasmesso a questa Procura cinque distinti fascicoli così intestati: 1) Inchiesta sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro; 2) GUARRASI Vito - accertamenti; 3) GUARRASI Vito; 4) GUARRASI Vito; 5) Società controllate (da Guarrasi).

Tali fascicoli sono stati rinvenuti in archivi riservati e/o comunque in archivi della questura diversi dall’archivio della squadra mobile. Infatti nel corso delle precedenti acquisizioni tali fascicoli non erano mai stati rinvenuti e comunque non erano stati uniti al fascicolo principale sulle indagini tenuto dalla squadra mobile.

La polizia e la "pista Mattei". La Repubblica il 20 settembre 2020. Le indagini, avviate dalla mattina del 17 settembre 1970, erano state dirette dai commissari capo Boris GIULIANO e Bruno CONTRADA della Squadra Mobile della Questura di Palermo: il primo, più giovane, dirigeva la sezione reati contro la persona, mentre il secondo, più anziano, dirigeva la sezione mafia dello stesso reparto.

Contrada, il 29/9/1970 (momento in cui tutta la stampa nazionale aveva dato per scontato lo stretto collegamento tra il sequestro De Mauro e la morte del presidente Mattei) aveva sentito a Roma, presso gli studi della Vides Cinematografica, il regista Francesco Rosi e l’organizzatore cinematografico Pietro Notarianni: l’esito di tali incontri aveva portato ad escludere la validità del movente collegato all’ENI.

Tale ipotesi di lavoro aveva oggettivamente subito i seguenti sviluppi operativi:

1. 17/9/1970 - 29/9/1970 (dichiarazioni dei familiari e degli amici dello scomparso): pista privilegiata rispetto alle altre possibili;

2. 1/10/1970 (rientro a Palermo di Contrada): ridimensionamento alla luce delle risultanze romane;

3. 19/10/1970 (arresto del rag. Antonino BUTTAFUOCO, quale corresponsabile del sequestro): massimo impulso con aspettativa di clamorose iniziative riguardanti anche il possibile attentato a Enrico Mattei;

4. fine ottobre - primi di novembre 1970 (intervento del capo del S.I.D. a Palermo): definitivo abbandono.

Inizialmente l’accreditamento e lo sviluppo delle indagini nell’ambito del movente ENI si era basato sui seguenti riscontri accertati dalla polizia:

- Mauro De Mauro da quattro mesi era stato spostato alla redazione sportiva del giornale “L’Ora” di Palermo. Tale incarico ovviamente escludeva che il giornalista potesse interessarsi, per conto del giornale, di fatti diversi da quelli sportivi.

- tutti i testimoni sentiti dalla polizia, ad eccezione di uno “reperito” nel 1974, avevano concordemente affermato che De Mauro, già dall’inizio dell’estate 1970, era stato impegnato esclusivamente in un lavoro di ricerca commissionatogli dal regista Rosi per il suo film “il caso Mattei”;

- i familiari del giornalista (la moglie Elda e le figlie Franca e Junia), l’architetto Margherita De Simone e il rivenditore di libri Flavio Flaccovio avevano riferito alla Polizia - senza possibilità di equivoci - che Mauro De Mauro aveva loro confidato di avere fatto un “grosso colpo” connesso al lavoro che stava svolgendo per conto di Rosi;

- diversi altri testi avevano riferito sulle confidenze ricevute da De Mauro sul colpo giornalistico, arricchite da frasi altisonanti tendenti ad enfatizzare la portata della scoperta, senza poter dire quale era l’argomento;

anche il giornalista Lucio Galluzzo, sentito dal G.I. dott. Mario Fratantonio, aveva confermato il nesso tra Mattei ed il sequestro di Mauro De Mauro, escludendo al contempo possibili interessi di mafia;

il rag. Antonino BUTTAFUOCO era stato arrestato il 19/10/1970 per il concorso con ignoti nel sequestro De Mauro perché, durante i contatti avuti con la famiglia De Mauro, aveva voluto sapere quanto scoperto dal giornalista sull’argomento E.N.I.. Inoltre Buttafuoco, sempre nell’ambito dei medesimi contatti, aveva chiesto a Elda De Mauro di farsi dire dalla polizia - e non dai carabinieri - su quali piste stavano lavorando e su quali persone erano concentrati i loro sospetti, chiedendole l’esito degli incontri: la posizione dei due corpi di polizia rispetto alle indagini erano all’epoca note per essere state illustrate da tutti i giornali.

La sequenza di tali elementi, contrapposta all’assenza di fatti che potessero suffragare qualunque altra ipotesi investigativa, aveva indotto la polizia a credere fermamente nel movente “ENI/Mattei”. Però, tale pista si era raffreddata temporaneamente alla fine del settembre del 1970, per essere definitivamente abbandonata tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre dello stesso anno. Successivamente anche la polizia, come i carabinieri, avevano proseguito le indagini ricercando prove rispetto a moventi improponibili quali le esattorie Salvo, la droga e il golpe Borghese.

Una riunione per “annacquare” l'indagine. La Repubblica il 21 settembre 2020. Le indagini esperite da questa Polizia Giudiziaria, sotto la direzione e - più frequentemente - l’intervento del P.M. dott. Vincenzo Calia, hanno permesso di accertare l’esistenza di un superiore disegno tendente ad escludere qualunque relazione tra la morte di Enrico Mattei ed il sequestro di Mauro De Mauro. I conseguenti depistaggi avevano coinvolto direttamente la Polizia, l’Arma dei Carabinieri e il Servizio Informazioni Difesa (SID). Dell’intervento del direttore dei Servizi dell’epoca, volto a far cessare le indagini in corso sul movente del sequestro De Mauro, avvenuto proprio durante la detenzione di Antonino Buttafuoco (arrestato il 19/10/1970) e che - come si vedrà più avanti - aveva dato notevole impulso alla “pista Mattei”, ne ha riferito il dott. Ugo SAITO. Questi ha dichiarato: “Era stata imboccata anche dalla Procura e dall’ufficio istruzione (oltre che dalla polizia), con decisione e con convinzione la c.d. “pista Mattei”;  e fu appunto percorrendo tale pista che giungemmo alla cattura del rag. Nino Buttafuoco. ... Domanda: vorrei sapere da lei eventuali circostanze o fatti che non risultano dalla lettura dell’incarto De Mauro. Risposta: ricordo benissimo che sin dall’inizio dell’indagine la mia casa si era trasformata in un porto di mare. ... Venivano con notevole frequenza Boris Giuliano e il capitano Antonio Russo. ... Improvvisamente non ho più visto nessuno. Ciò avvenne ai primi del mese di novembre 1970. Ebbi successivamente occasione di incontrare in Procura Boris Giuliano e siccome i nostri rapporti erano molto cordiali, gli chiesi come procedevano le indagini sulla vicenda De Mauro e come mai, improvvisamente, nessuno pareva più interessarsi a tali investigazioni. Boris Giuliano manifestò il suo stupore per il fatto che io non ero a conoscenza della circostanza che a “Villa Boscogrande”, un night club in località Cardillo, vi era stata una riunione alla quale avevano partecipato i vertici dei Servizi Segreti e i responsabili della Polizia Giudiziaria palermitana. In tale riunione fu impartito l’ordine di “annacquare” le indagini. Giuliano non mi precisò se a tale riunione era egli stesso presente, ma mi raccontò l’episodio come di un fatto certo e di cui io avrei dovuto essere a conoscenza. Giuliano mi precisò anche che era presente il direttore dei Servizi Segreti, facendomene anche il nome: oggi non sono più certo se si trattasse di Miceli o di Santovito. ... Prima dell’interruzione delle indagini di cui le ho appena fatto cenno, l’istruttoria era giunta a focalizzare delle responsabilità molto elevate e noi prevedevamo che quando avessimo assunto i provvedimenti opportuni, sarebbe successo un finimondo. Noi con la Polizia ritenevamo infatti, con assoluta certezza, che De Mauro era stato eliminato perché aveva scoperto qualcosa di eccezionalmente rilevante relativamente alla morte di Enrico Mattei.” Un singolarissimo (e perciò particolarmente attendibile) riscontro alle affermazioni del dott. Saito proviene dalle  dichiarazioni  rese da Franca DE MAURO.  Infatti, nel relativo verbale compare il seguente aneddoto: “Boris Giuliano mi aveva detto che era sua abitudine non cambiarsi di abito fino a che il caso di cui si stava occupando non fosse stato risolto. Verso il mese di novembre del 1970 Giuliano venne a casa mia con una giacca diversa. Glielo feci notare ed egli mi disse che non sempre si poteva vincere: in quel momento aveva forse perso la speranza di risolvere il caso, ma aggiunse che egli avrebbe comunque continuato ad indagare.” In conclusione si deve ragionevolmente ritenere che i Servizi, immediatamente dopo il sequestro di De Mauro, erano intervenuti sui carabinieri e che, visti gli sviluppi delle indagini della polizia, il direttore in persona era dovuto andare a Palermo per “ordinare”  il blocco delle indagini. Premesso che appare oramai incontrovertibile, pur con i soli elementi di fatto conosciuti negli anni settanta, che il movente del sequestro del giornalista Mauro De Mauro andava ricercato in qualcosa connesso alla morte di Mattei, appare un vero e proprio “auto depistaggio” quello operato dai CC e già indicato nel precedente § 3.1..     Al riguardo si segnalano le dichiarazioni rese, oltre che da Contrada, sia da Elda BARBIERI DE MAURO (Dalla Chiesa mi disse, a proposito della pista Mattei, “signora non insista su questa tesi, perché, se così fosse, ci troveremmo dinanzi a un delitto di Stato e io non vado contro lo Stato”) sia da Graziano VERZOTTO (“Ho anche detto che DE MAURO era stato sequestrato perché aveva molestato la mafia che trafficava in droga. Ammetto di avere depistato. Tale depistaggio mi venne suggerito dai Carabinieri ...”).

Un “colpo giornalistico” su cosa? La Repubblica il 22 settembre 2020.  Oggettivamente la squadra Mobile aveva abbandonato la pista ENI/Mattei dopo che Contrada era andato a Roma per sentire Francesco ROSI, Pietro  NOTARIANNI. ed altri. Era infatti emerso che l’incarico da loro affidato a Mauro De Mauro non riguardava la morte del presidente dell’ENI ma semplicemente la ricostruzione dei due giorni trascorsi da Mattei in Sicilia. Tanto, come si vedrà, risponde assolutamente al vero in quanto De Mauro aveva avuto incarico di indagare sulla morte di Mattei da Graziano Verzotto. Ma è altrettanto vero che nel verbale fatto da Contrada nel settembre del 1970 non risulta inserita una circostanza importantissima  che NOTARIANNI ha invece comunicato al P.M. di Pavia il 22/2/96 e, cioè, che aveva contattato De Mauro il giorno precedente o lo stesso giorno del sequestro per sollecitargli l’invio del lavoro, e che De Mauro gli aveva risposto che il lavoro era terminato e che lo avrebbe spedito immediatamente. La circostanza che De Mauro aveva effettivamente terminato il lavoro per Rosi è stata accertata anche nel corso delle attuali investigazioni; è evidente che all’epoca delle indagini tale notizia avrebbe avuto notevole importanza perché avrebbe dovuto indurre gli investigatori a ricercare il “copione” già predisposto e che di fatto non è mai stato trovato. E che  la missione romana di Contrada avesse determinato l’abbandono della “pista Mattei”, lo si può agevolmente verificare leggendo l’articolo apparso su “Il Giorno” del 2 ottobre 1970, del quale si riportano i passi più significativi: “LE INDAGINI RIPARTONO DALLA VIA “GIUSTA” - DE MAURO: RIFLETTORI SULLA MAFIA - Si parla sempre più di mafia per il “caso De Mauro” ... l’altra pista tenuta in vita dagli inquirenti, quella agganciata “al caso Mattei” ... avrebbe invece perduto molto della sua consistenza. Lo si è appreso stamane al rientro da Roma di un funzionario di Polizia incaricato di prendere contatti con Rosi. ... Per riferire anche sull’esito della missione romana, funzionari di P.S. e ufficiali dei CC si sono in mattinata recati nell’ufficio del sostituto procuratore dott. Saito, incaricato dal Procuratore Capo, dottor Scaglione, di seguire attentamente l’evolversi  delle indagini sulla scomparsa di De Mauro”. Sul punto vi è inoltre la testimonianza di Nino MENDOLIA, allora Capo della Mobile di Palermo, secondo il quale “tra le diverse ipotesi valutate sul movente del sequestro De Mauro era stata seguita la “pista Mattei”. Tale pista era culminata con l’interrogatorio da parte di Contrada al regista Francesco Rosi a Roma. Dall’interrogatorio era emerso che non vi era nulla di rilevante nell’affidamento dell’incarico a De Mauro e in quello che De Mauro fino a quel momento aveva riferito e pertanto la “pista Mattei” perse consistenza. ... Era comunque stato Contrada che aveva riferito in tal senso, avendo sentito - mi pare - anche altre persone nell’ambito del film che si stava realizzando.” Altro depistaggio aveva riguardato le dichiarazioni rese da Flavio Flaccovio, titolare della libreria palermitana presso la quale De Mauro aveva  chiesto alcune pubblicazioni riguardanti Enrico Mattei (“L’assassinio di Mattei”, “Petrolio e potere” ed altro). All’interno del fascicolo relativo alle indagini esperite sul sequestro De Mauro della Squadra Mobile della Questura di Palermo, in una copertina con  l’intestazione “pista  Mattei”, è stato rinvenuto un appunto manoscritto, datato 29/10/1970, riguardante le informazioni assunte da Flaccovio. Vi si legge, tra l’altro, “... Mauro De Mauro disse a Flaccovio che “avrebbe fatto un grosso colpo giornalistico”, cioè un rilevante servizio giornalistico - M. d. M. non precisò l’argomento del servizio ma, dati i precedenti colloqui e le circostanze (tra cui la richiesta dei libri sull’argomento), F.F. mise in relazione il “colpo” con il lavoro su Mattei”. Il contenuto di tale appunto era stato trasfuso in un verbale di sommarie informazioni testimoniali datato 11/11/1970, nel quale la circostanza appena riferita era stata così modificata: “...De Mauro non mi accennò ad un grosso colpo giornalistico di natura estranea al lavoro che stava svolgendo. Non è da escludere che De Mauro avrebbe potuto utilizzare lo stesso materiale raccolto per il film di Rosi ai fini di un servizio giornalistico”. La falsa ricostruzione del concetto riportata nel verbale era risultata poi inequivocabile nel già citato rapporto sulle ulteriori indagini, inviato alla magistratura il 17/11/1970, nel quale, alla pagina 29 (nell’ambito del paragrafo relativo alla pista Mattei), era stato scritto: “...Circa le dichiarazioni sull’argomento di Storani, Arisco, Flaccovio e Spatola, non si rilevano in esse elementi di particolare interesse, essendosi gli stessi limitati a riferire di essere a conoscenza del lavoro che stava svolgendo Mauro De Mauro;” Inoltre, nel più volte citato rapporto del 17 novembre, alla pag. 33, era stato scritto che, dopo tutte le indagini esperito in merito all’argomento specifico: “non è emerso l’oggetto del “grosso colpo giornalistico” che, nei giorni precedenti la sua scomparsa, il giornalista aveva preannunciato e riteneva di poter realizzare. Oggetto che, allo stato delle indagini, rimane fissato o delineato soltanto nell’affermazione di Junia De Mauro ...” Tale affermazione citata nel rapporto, oltre ad essere falsa rispetto ai testi De Simone, Flaccovio e Galluzzo, è assolutamente contraddittoria rispetto a quanto Franca De Mauro  aveva scritto alla pagina del 14/9/1970 in un pseudo-diario il cui originale, va sottolineato, era ancora agli atti della Squadra Mobile di Palermo prima che il P.M. di Pavia ne disponesse l’acquisizione. Con tale diario, composto da alcuni foglietti manoscritti, Franca De Mauro aveva ricostruito le sue giornate precedenti al sequestro del padre. Per il citato giorno del 14/9 si legge “compere? - al mare con papà e Junia. A casa papà (dopo pranzo) dice che ha scoperto una cosa importante riguardo al caso Mattei: con chi passò le ultime due ore (o chi sapeva l’orario della partenza)...” Ulteriore azione depistante nell’ambito del “movente ENI/Mattei” emerge dalle dichiarazioni rese a questa P.G. da Angelo MANGANO. Questi, nel 1970, era dirigente della Polizia Criminale del Ministero dell’Interno. Si era attivato per svolgere accertamenti sul sequestro De Mauro. L’alto dirigente ministeriale ha riferito a questa P.G. che le investigazioni da lui condotte, all’epoca del sequestro, lo avevano portato a ritenere che Mauro De Mauro era stato rapito ed ucciso per avere scoperto qualcosa di rilevante sulla morte non accidentale di Mattei. Inoltre, partendo da fonti confidenziali, aveva inviato alla Squadra Mobile di Palermo un appunto riservato, con il quale aveva attribuito la responsabilità del sequestro all’avvocato Vito Guarrasi, a Graziano Verzotto (indicati anche quali responsabili della morte di Mattei), a Luciano Leggio e a Antonino Buttafuoco. Con tale appunto Mangano aveva sollecitato la Squadra Mobile ad eseguire degli accertamenti tendenti a verificare le confidenze ricevute su tali persone. In merito Mangano ha riferito che “..queste ipotesi di investigazione non erano mai state prese in considerazione da Palermo. ... è poi risultato che il documento, che evidentemente era scottante per le persone implicate, non era mai arrivato alla Squadra Mobile: almeno così avevano detto alla Questura di Palermo. ... Sul fatto che il documento era arrivato alla Squadra Mobile ne ho certezza anche perché qualche giorno dopo l’invio avevo telefonato ad un funzionario di quel reparto, credo che fosse Bruno CONTRADA ma sul punto non ho memoria certa, per chiedere se avevano provveduto ad interrogare una persona indicata nel mio appunto. Il funzionario aveva risposto evasivamente dicendomi che non avevano ancora avuto tempo e confermandomi così indirettamente che l’appunto lo avevano ricevuto”. Sulle affermazioni del questore Mangano va precisato che il documento da lui ricordato non è stato trovato nel fascicolo della Squadra Mobile, attentamente visionato presso la Questura di Palermo, ma è stato rinvenuto solo il 29/10/1998 agli atti della questura, in uno dei fascicoli dell’inchiesta parallela. Inoltre, la persona indicata nell’appunto riservato, tale Giuggi Brucato di Palermo (che aveva ricevuto delle confidenze secondo le quali Guarrasi poteva essere responsabile del sequestro De Mauro), non risulta essere mai stata effettivamente interrogata dalla polizia di Palermo. In ultimo, si segnala il rapporto della Squadra Mobile di Palermo inviato alla magistratura il 15/10/1974, riguardante, ancora, le indagini sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. Con tale documento, facendo riferimento alle dichiarazioni rese in data 13/10/1974 dal giornalista Vittorio GERVASI, si comunicava, con assoluta certezza, che il movente del sequestro De Mauro era stato una sua inchiesta, condotta, proprio nell’estate del 1970, sulle esattorie e sui Salvo. Dopo tutto quanto è stato detto sul possibile movente ENI/MATTEI, appaiono assolutamente ridicole le dichiarazioni di Gervasi. Infatti la sua testimonianza, oltre ad essere stata fornita quattro anni dopo il rapimento, era isolata e contrastante con quanto riferito, in tempi non sospetti, dai familiari e dagli amici di De Mauro. Eppure nel citato ultimo rapporto era stato riferito all’A.G.: “Altro particolare della massima importanza è quello che può e deve ritenersi oramai acclarato che “il grosso colpo giornalistico che avrebbe fatto tremare mezza Italia” si riferiva alla inchiesta fatta dal De Mauro sulle Esattorie e sui Salvo.” Circa i depistaggi elencati, pare doveroso fare delle considerazioni per meglio comprenderne la loro coerenza. Quanto al verbale di NOTARIANNI del 29/9/1970, non si è in grado di dire con certezza cosa possa essere accaduto, poiché in tale periodo tutta la questura era impegnata con convinzione ad investigare nell’ambito della pista ENI/Mattei. Si può semplicemente ipotizzare che Notarianni, all’epoca, non aveva riferito la circostanza a Bruno CONTRADA. Quanto agli altri depistaggi, non si può non osservare che sono avvenuti dopo l’11 novembre 1970, cioè poco dopo l’intervento del direttore del S.I.D. a Palermo. La conferma definitiva alle argomentazioni esposte viene dalle dichiarazioni rese dal maresciallo ZACCAGNI, il sottufficiale più anziano ed esperto dell’ufficio politico nel 1970. Questi ha infatti riferito che:  “Dopo 40 giorni. o due mesi di cui ho accennato, la nostra attività era stata sospesa per espressa richiesta del questore. Questi ci aveva detto che era sufficiente quello che avevamo fatto fino a quel momento, ci aveva chiesto di dargli tutte le relazioni e gli accertamenti fatti, che costituivano un grosso “malloppo” di carta. Da quel momento non ci siamo più interessati del caso De Mauro”. Quindi era arrivato il blocco delle indagini ma, di più, risulta essere sparito il documento riepilogativo sulle responsabilità di Vito Guarrasi in ordine al sequestro di Mauro De Mauro. Di tale relazione conclusiva, non trovata nei fascicoli recentemente consegnati dalla questura di Palermo, ne ha parlato lo stesso Zaccagni: “Tali elementi erano stati infine raccolti in una relazione conclusiva, da me predisposta ma non firmata. Ricordo che erano almeno 7- 8 pagine scritte a macchina. Ritengo anche possibile che tale relazione, che riepilogava quanto avevamo scoperto su Guarrasi, possa essere stata fatta sparire per interesse di qualcuno”.

Il quadro che emerge dalla composizione del mosaico composto da:

dinamica degli articoli di stampa e dichiarazioni dei giornalisti;

dichiarazioni di MANGANO, CONTRADA, ZACCAGNI, SALFI e VERZOTTO;

dichiarazioni dei magistrati FRATANTONIO e SAITO;

diario di Junia e dichiarazioni di Elda e Franca DE MAURO;

documenti rinvenuti nel corso della presente indagine, si può e si deve concludere che il questore LI DONNI, pochi giorni dopo il sequestro di Mauro DE MAURO, oltre alle normali investigazioni condotte dalla Squadra Mobile che puntavano decisamente sulla pista MATTEI, aveva avviato una indagine su Eugenio CEFIS che aveva portato a Vito GUARRASI. Tale indagine era stata ispirata dai socialisti (attraverso il capo della Polizia VICARI) che in quel momento ambivano alla presidenza dell’E.N.I. e, nel momento dell’intervento delle massime autorità politiche, era stata insabbiata dallo stesso LI DONNI a concreta opera di tutta la questura di Palermo.

Era sulle tracce dei misteri dell'Eni. La Repubblica il 23 settembre 2020. Nel corso delle investigazioni condotte da questa Polizia Giudiziaria, sono emersi ulteriori e significativi elementi che avvalorano il movente ENI nel sequestro De Mauro. Tali nuovi elementi sono derivati dalla seguente attività:

1.    sono stati risentiti i familiari che, in maniera più organica e prospetticamente più completa dato il tempo trascorso e le conoscenza acquisite, hanno fornito tutte le informazioni in loro possesso sul rapimento e sugli avvenimenti successivi.

2.    sono stati sentiti tutti i giornalisti che, a qualsivoglia titolo, si sono interessati della scomparsa del loro collega e hanno pubblicato libri o articoli.

3.    sono stati sentiti gli appartenenti alle forze di polizia e i magistrati che istituzionalmente si sono interessati del rapimento.

4.    sono  stati acquisiti documenti ritenuti utili a chiarire lo svolgimento dei fatti.

5.    sono state acquisite le dichiarazioni rese sull’argomento dai collaboratori di giustizia.

6. sono state raccolte le importantissime dichiarazioni di Graziano Verzotto.

Le risultanze emerse non non lasciano margini di dubbio al fatto che Mauro De Mauro era stato rapito ed ucciso perché aveva scoperto importanti elementi che avrebbero consentito di stabilire che la morte del presidente Mattei era avvenuta, non a seguito di un incidente, ma per volontà di qualche potente personaggio istituzionale italiano. Infatti, posto che De Mauro era considerato da tutti un ottimo giornalista, cosa poteva avere scoperto di così importante  che - secondo lui - avrebbe fatto “tremare mezza Italia”?  Le  ipotesi di un traffico di droga o qualunque fatto di mafia locale si auto escludono. Del resto, anche la possibilità che De Mauro avesse scoperto che Mattei era stato vittima di un attentato non avrebbe, di per sé stessa, fatto tremare la “mezza Italia” che, evidentemente, si riferiva agli ambienti che contano.

Franca DE MAURO: riconoscendo come suoi gli appunti manoscritti a forma di diario rinvenuti nel fascicolo della Squadra Mobile della Questura di Palermo, ha ricordato come suo padre, il giorno 14 settembre 1970 (due giorni prima del sequestro), aveva iniziato a raccontare a casa, dopo pranzo, di avere scoperto qualcosa di molto importante sulla morte di Mattei, ucciso per una bomba messa sull’aereo sul quale viaggiava. Tale circostanza  riferita  da  Franca  risulta essere una novità per le indagini, non  essendo  state  mai  verbalizzate  le  analoghe  dichiarazioni  rese   pochi   giorni  dopo  la   scomparsa del padre. Franca ha inoltre ricordato il comportamento “ambiguo” tenuto dal colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa il quale, a proposito della pista ENI/Mattei, “la trattava come sciocchezze delle quali noi eravamo ingiustificatamente infatuati”.

Tullio DE MAURO, fratello di Mauro, sentito a verbale il 21 febbraio 1996, ha confermato che la nipote Junia, oggi non più in vita, le aveva raccontato “che suo padre aveva fatto cenno di avere trovato cose straordinarie, molto importanti, in relazione alle quale c’entrava un presidente e che ciò aveva relazione con la morte di Mattei”. Nella  medesima  circostanza  Tullio ha dichiarato di avere appreso, a suo tempo,  dalla cognata Elda De Mauro, il  contenuto  delle  frasi  pronunciate  dal  colonnello Dalla    Chiesa sul “delitto di Stato”.

Elda DE MAURO: sentita a verbale il 27 maggio 1996, ha riferito che: “verso le ore 12,15-12,30 del 14 settembre, mio marito uscì dal giornale e, dopo essere passato da casa per rinfrescarsi, si recò all’E.M.S.. Rientrò a casa verso le 15 e ci sedemmo tutti a tavola. Dopo avere chiacchierato di vari argomenti, io chiesi a mio marito se aveva poi visto VERZOTTO e come era andata. Ci fu una pausa, quasi a voler pesare le parole, dopo di che Mauro disse: “HO SAPUTO UNA COSA ...”. E disse ciò con gravità, quasi a voler dire: “adesso vi faccio allibire”. Fu almeno questa la netta impressione mia e delle mie figlie. Suonò quindi il campanello e, mentre io e mia figlia Franca ci alzavamo per vedere chi fosse, mio marito continuò: “... HO SAPUTO CHE IL PRESIDENTE...” e non ho più sentito il seguito perché intanto io e mia figlia Franca ci eravamo allontanate. A.D. Mio marito non si sarebbe mai riferito a VERZOTTO chiamandolo “IL PRESIDENTE”, mentre sono assolutamente certa e glielo ripeto, che mio marito aveva pronunciato quelle frasi subito dopo essere rientrato dalla visita a Verzotto e rispondendo alla mia domanda volta a chiedergli come fosse andato l’incontro.” So che dal 5 settembre avevano ripetutamente telefonato a casa sia ROSI che NOTARIANNI ... cercando mio marito. Ma io avevo l’incarico di dire che Mauro non era in casa. ... Avevo anche chiesto a mio marito perché si faceva negare ed egli mi aveva risposto dicendo che doveva ancora valutare “se fare una cosa o l’altra”. Io non avevo allora capito a cosa intendeva riferirsi mio marito né, per vero, gli avevo chiesto chiarimenti. Solo successivamente ho compreso che probabilmente egli non aveva ancora deciso se bruciare qualche sua scoperta con il film di Rosi o se utilizzare quel materiale per “prendere la libera docenza”.

-  Junia DE MAURO: non è stata sentita perché non più in vita. I  verbali delle sue dichiarazioni peraltro non necessitano di ulteriori chiarimenti.     Aveva tenuto un diario sul quale aveva scritto gli avvenimenti delle giornate dal 16 settembre all’11 novembre 1970. Tale   diario   era   stato   pubblicato, con   diverse   parti   omesse, in   due puntate, dal settimanale  “Il Mondo” il 3 e il 10 ottobre 1971.

Le parti in grassetto sono quelle non pubblicate e, secondo quanto riferito da Elda De Mauro, i “tagli” (riguardanti Vito Guarrasi) erano stati consigliati dal questore di Palermo LI DONNI al fine di evitare possibili querele.

L'ombra di Vito Guarrasi. La Repubblica il 24 settembre 2020. Tutti i giornalisti che si erano occupati del sequestro De Mauro si sono definiti convinti  della  validità  della  “pista Mattei”  pur  senza  fornire  concreti  elementi di prova. Convinzione basata sulle indiscrezioni e sul clima che si era creato negli ambienti della Questura di Palermo nel corso delle prime indagini. Fra tutti, i giornalisti che senza dubbio si sono occupati più a fondo del caso sono Pietro ZULLINO e Paolo PIETRONI, entrambi redattori del settimanale “Epoca” al tempo del sequestro De Mauro. Il loro lavoro di minuziosa ricerca e ricostruzione dei fatti era stato trasfuso  in due articoli per “Epoca”: il primo, pubblicato il 21 marzo 1971, mentre il secondo non era mai stato pubblicato per l’intervento del direttore generale periodici Mondadori (su sollecitazione della presidenza dell’E.N.I.), andato appositamente da Milano a Roma. Entrambi gli articoli, che proponevano l’assoluta coerenza della pista  “ENI/MATTEI” scartando ogni altra possibilità, erano basati su diversi elementi di fatto sui quali erano stati poi costruiti dei ragionamenti logico-deduttivi. Quindi dai giornalisti non è pervenuto alcun valido aiuto alle investigazioni, salvo che le loro dichiarazioni hanno fornito la cronistoria delle indagini svolte dalla polizia nell’ambito del movente che interessa. [...]. Ulteriori indizi che irrobustiscono la “pista ENI/Mattei” sono le convinzioni personali di chi - tra la magistratura  e la polizia - avevano investigato sul sequestro di Mauro De Mauro. Tali convinzioni si basano sulla presenza di significativi elementi “conducenti” a tale pista sommati alla contestuale assenza di fatti legati ad altri moventi. Ciò avrebbe dovuto indurre gli inquirenti a privilegiare  le indagini in tale direzione: così era avvenuto dopo l’arresto di Antonino Buttafuoco provocando, in un momento assolutamente decisivo per la risoluzione del caso, l’intervento del direttore dei Servizi italiani. Anche quest’ultimo fatto va obiettivamente interpretato come ulteriore e significativo riscontro alla validità del movente ENI/Mattei.

-    Il sostituto procuratore Ugo SAITO,  in merito alla attività svolta dal suo ufficio, ha riferito che: “le indagini procedevano molto bene ... Era stata imboccata anche dalla Procura e dall’Ufficio Istruzione (oltre che dalla Polizia), con decisione e convinzione la c.d. “pista Mattei”; Dopo aver parlato del blocco delle indagini da parte dei Servizi Segreti, Ugo Saito ha proseguito riferendo che: “ Noi con la Polizia ritenevamo infatti, con assoluta certezza, che Mauro De Mauro era stato eliminato perché aveva scoperto qualcosa di eccezionalmente rilevante relativamente alla morte di Enrico Mattei”.

-   Il giudice istruttore Mario Fratantonio, seppure con  toni più cauti - considerata, forse, la diversa posizione ed attività rispetto al P.M. -, ha ribadito la validità del movente indicato da Ugo Saito.  Ha infatti riferito che: “la tesi investigativa portata avanti dai Carabinieri di Palermo per spiegare la scomparsa di Mauro De Mauro, si dimostrò rapidamente inconsistente e fu anche per tale ragione che si cercò di potenziare la pista che al momento pareva la più credibile: quella seguita dalla Polizia quella che, attraverso Buttafuoco, conduceva a Mattei”. Quanto poi all’intervento dei Servizi,  anche Mario Fratantonio ne ha riferito in maniera indiretta: “Quando al Ministro Restivo succedette come nuovo Ministro degli Interni l’on. Andreotti e questi rese pubblica la sua intenzione di aprire gli archivi dei servizi segreti, io - forse su suggerimento e comunque di concerto con Boris Giuliano - scrissi al Ministro una lettera riservata che lo stesso Giuliano recapitò, per espressa mia richiesta, al ministero dell’interno, con la quale chiedevo se i Servizi si erano occupati del caso De Mauro e, ove l’avessero fatto, di inviarmi i relativi atti. Ricevetti più tardi risposta negativa dal capo di gabinetto. Ricordo che io avevo avuto la netta percezione che nelle indagini De Mauro si fossero intromessi i Servizi Segreti”.

-    Il giudice per le indagini preliminari di Palermo, dott. Giacomo Conte, con propria ordinanza dell’8 aprile 1991, nel disporre nuove indagini sulla scomparsa di Mauro De Mauro, aveva, in premessa, osservato che “Tra le varie ipotesi formulate ed esaminate nelle indagini sulla scomparsa di Mauro De Mauro, la più aderente alle risultanze del procedimento, è quella che egli sia stato sequestrato ed ucciso in relazione all’inchiesta che stava conducendo sulla fine di Enrico Mattei ... Tale ipotesi presuppone che l’incidente aereo nel quale Enrico Mattei ha perso la vita sia stato causato da un sabotaggio dell’aereo  o da una carica di esplosivo precedentemente collocata su di esso ... La suddetta ipotesi implica che almeno la direzione di provenienza dei mandanti dell’eventuale omicidio di Enrico Mattei e del sequestro di persona di Mauro De Mauro sarebbe la stessa.”

-    Il commissario capo di P.S. Boris Giuliano era stato, almeno fino al momento dell’intervento del direttore dei Servizi a Palermo, il promotore, l’animatore delle indagini sulla “pista Mattei”. Anche successivamente, al contrario della “tesi ufficiale” segnalata dalla Questura all’Autorità Giudiziaria (esattorie e Salvo),  Giuliano era fermamente convinto della validità del movente ENI/Mattei ed in particolare nutriva sospetti sul possibile mandante di tale delitto. Infatti nel diario del giudice Rocco CHINNICI, alla data del 14/7/1981, risulta annotato: “viene a trovarmi il marchese De Seta; Dopo avermi raccontato delle sue vicende con l’avvocato Guarrasi, mi fa presente che costui è intimo amico del senatore Emanuele Macaluso. Mi riferisce che alla galleria d’arte la “Tavolozza” (il cui proprietario effettivo è Renato Guttuso) si recava spesso il dott. Boris Giuliano, il quale, in quella sede, parlando con Leonardo Sciascia e qualche altro, si riteneva certo che il responsabile del sequestro De Mauro fosse proprio Guarrasi”.

In un articolo di Vittorio Nisticò, all’epoca direttore del quotidiano “L’Ora” di Palermo presso il quale lavorava De Mauro, intitolato “Assassini nella nebbia”,  si trova un riscontro indiretto alle affermazioni del marchese De Seta: “Incontrai Giuliano proprio qualche settimana fa in occasione di una inchiesta televisiva sulla scomparsa di De Mauro, ed ebbi così modo di raccogliere qualche sua confidenza. Sicuro della validità del lavoro investigativo che aveva condotto, ne parlava con la passione di chi viveva quel caso con la stessa intensità di sette anni prima, ma anche con la grinta amara di chi aveva deciso di non gettare la spugna. “c’è un uomo politico che andava arrestato subito, se non altro per reticenza”, mi disse ad un certo punto, con una forte intonazione polemica, dalla quale mi sembrò trasparisse una irritazione ancora viva per le difficoltà o gli ostacoli che l’indirizzo delle sue indagini aveva presumibilmente incontrato in qualche ambiente del potere”. L’uomo politico a cui alludeva Giuliano non poteva che essere l’avvocato Vito Guarrasi  o Graziano Verzotto, come riferito dallo stesso Nisticò, perché erano gli unici personaggi politici sui quali si era indagato.

Nella circostanza non si può non notare la straordinaria perspicacia dimostrata da Vittorio Nisticò...

- Il questore Nino Mendolia, all’epoca dirigente della Squadra Mobile e superiore diretto di Giuliano e Contrada, ha rilasciato a questa P.G. delle dichiarazioni che, pur reticenti e ancora oggi coerenti con le disposizioni impartite dal direttore del S.I.D., confermano, sia pure indirettamente, l’ipotesi in trattazione. Infatti ha riferito che: “Nell’ambito delle indagini sul sequestro De Mauro ho svolto attività di coordinamento. ... Peraltro lo stesso Questore Li Donni si interessava personalmente al caso, che era divenuto di interesse nazionale. ... Le investigazioni condotte sul sequestro De Mauro purtroppo non avevano dato alcun esito concreto. Non ho neanche una idea personale precisa sul movente del sequestro. ... Personalmente con il Questore Li Donni ho sentito solamente il sen. Graziano Verzotto e l’avv. Vito Guarrasi ... Queste ...  persone che ho citato erano state sentite nell’ambito della “pista Mattei”: erano stati colloqui informali dei quali non era stato fatto alcun verbale perché non c’erano elementi di concreto interesse.”

Che Mendolia non  avesse un’idea personale del movente, alla luce di quanto  detto e di quanto si dirà, dimostra che è stato reticente. Il commissario Giovanni Viviano, addetto alla Squadra Mobile fino al dicembre 1970. Si era interessato degli aspetti tecnici delle registrazioni ambientali della polizia, riguardanti Buttafuoco. Ha dichiarato che: “Rammento che il convincimento di noi inquirenti della Polizia, a differenza dei Carabinieri, era che la scomparsa di Mauro De Mauro era da ascrivere a qualcosa di correlato alla morte di Enrico Mattei ...”. Il commissario capo Bruno Contrada, sentito dal P.M. di Pavia ha dichiarato: “...successivamente venni a sapere che i due ufficiali avevano depositato nelle mani del sostituto SAITO un rapporto conclusivo sul caso DE MAURO, inquadrando l’episodio in una associazione per delinquere di stampo mafioso.... La nostra impressione fu che quel rapporto fosse frutto di una decisione del colonello DALLA CHIESA, che noi non ritenevamo peraltro fondata su ragioni investigative, perché ritenevamo con convinzione che in quel momento, l’unica pista conducente e che era opportuna seguire, era la c.d. “pista Mattei”. Si trattava di una convinzione, non solo di noi funzionari della Squadra Mobile, ma dello stesso questore, che anzi ne era il più convinto assertore. Mi sembrava assolutamente non aderente alla realtà investigativa che De Mauro avesse potuto scoprire qualcosa di mafia talmente grave da indurre l’organizzazione ad eliminarlo. Non era infatti emerso alcun elemento che facesse ritenere valida l’ipotesi dei Carabinieri ... La ferma convinzione da parte della Polizia e in particolare del Questore di Palermo della fondatezza della pista MATTEI, indusse lo stesso questore ad incaricare la squadra politica della Questura di Palermo di svolgere una complessa e vasta azione informativa in ordine alla pista Mattei e precisamente al possibile collegamento tra la morte di Mattei e la scomparsa di Mauro De Mauro... Nell’ufficio politico furono formate diverse squadre, ciascuna incaricata di specifici accertamenti.. Si trattava di indagini parallele a quelle svolte dalla Squadra Mobile, i cui risultati io non conosco... LI DONNI era fermamente convinto della bontà della pista Mattei e del coinvolgimento nella vicenda dell’avvocato Vito Guarrasi.”

I nuovi documenti dell'indagine di Pavia. La Repubblica il 25 settembre 2020. La documentazione reperita nel corso delle attuali indagini può essere suddivisa rispetto alla provenienza: una prima fonte è rappresentata dai fascicoli della polizia e dei carabinieri e, pertanto, si tratta di documenti e notizie già noti all’epoca dei fatti, mai utilizzati e, comunque, mai portati all’attenzione, almeno ufficialmente, dell’A.G..; Una seconda fonte raggruppa gli atti che sono stati reperiti altrove e che rappresentano, quanto meno apparentemente, una novità. Il condizionale e l’uso della parola “apparentemente” è d’obbligo ove si consideri che non risulta nella sua completezza l’attività di “insabbiamento” posta in essere da tutti gli organi inquirenti. Pertanto, mentre sono stati accertati diversi occultamenti e la falsificazioni di alcuni documenti importanti, non risulta fino a quale punto gli inquirenti siano stati a conoscenza di altre fonti di  prova  per  le  quali  non  abbiano  attivato le conseguenti e doverose investigazioni. Per poter correttamente interpretare ed apprezzare il valore dei documenti che saranno elencati, è necessario aver presente il contesto nel quale era maturato il sequestro del giornalista, così come risulta, in ipotesi, dalla attuali indagini.  Infatti: Mauro De Mauro era stato sequestrato ed ucciso per avere scoperto chi erano i mandanti del sabotaggio all’aereo del presidente dell’ENI;

gli organi di polizia giudiziaria e dei Servizi avevano posto in essere un’attività diretta a non consentire che emergesse tale verità;

la magistratura inquirente, forse solo per  inerzia e comunque per non essere venuta a conoscenza - almeno formalmente - di alcuni fatti importanti, non aveva svolto doverosamente la propria attività;

a livello politico si era scatenata una lotta di potere, a causa dell’imminente scadenza delle cariche della presidenza della Repubblica  e della presidenza dell’E.N.I., che aveva visto in campo anche il sequestro De Mauro e la morte di Mattei come armi di ricatto.

E’ quindi stato ulteriormente accertato che Mauro De Mauro aveva ultimato il lavoro commissionatogli dal regista Francesco Rosi, l’aveva raccolto in cartelle dattiloscritte e, dopo aver parlato telefonicamente con Notarianni della Vides Cinematografica, si stava accingendo a spedirlo a Roma o, forse, l’aveva mandato proprio il giorno del suo sequestro. Di certo comunque tale lavoro ultimato non è mai stato trovato dagli organi inquirenti, mentre gli appunti manoscritti di De Mauro, trovati nel proprio ufficio presso il giornale, non erano altro che lo stadio embrionale del lavoro stesso. Graziano Verzotto, all’epoca presidente dell’Ente Minerario Siciliano, era stato  l’ultimo ad avere parlato con Mauro De Mauro. Sentito dal P.M. di Pavia  ha dichiarato che: “pochi giorni prima della sua scomparsa - mi pare il 14 settembre 1970 - mi sono incontrato con Mauro De Mauro, come ho già dichiarato a suo tempo ai giudici di Palermo. ... aveva con sé dei fogli di carta dattiloscritti, che costituivano un copione del lavoro che gli era stato commissionato dal regista Rosi e per il cui completamento egli chiedeva il mio ulteriore aiuto. ... Il copione che De Mauro aveva con sé e che egli mi aveva mostrato in occasione di quel fugace incontro era composto da più fogli ed aveva una struttura in forma di dialogo, con delle introduzioni per presentare le diverse persone che si erano incontrate con il presidente dell’ENI. Lo stato di avanzamento di tale lavoro era senz’altro più progredito di quello degli appunti manoscritti che lei mi mostra e che furono trovati nel cassetto della redazione di cui abbiamo parlato.” Se è vero - come pare - che De Mauro aveva terminato il suo lavoro per Rosi e se è vero - come appare - che gli organi di p.g. non avevano trovato tale lavoro e non ne avevano messo al corrente l’A.G., ci si trova di fronte ad una novità di rilevanza eccezionale nell’ambito delle indagini, che accredita, in via definitiva, la validità del movente “ENI/Mattei” nel sequestro De Mauro.

I fascicoli ripescati a Palermo. La Repubblica il 26 settembre 2020. Il fascicolo della Squadra Mobile. Pur composto da numerosi faldoni, nel sottofascicolo intestato “pista ENI” vi sono solamente pochi atti. E’ stato acquisito: un appunto manoscritto e verbale dattiloscritto relativi alle dichiarazioni del libraio Flavio Flaccovio, dei quali si è già detto […]. un appunto dattiloscritto datato 9/5/74, a firma di Boris Giuliano, contenente, fra l’altro, la seguente notizia: “Il G.I. Istruttore il giorno 10 maggio alle ore 09,30 interrogherà Maniscalco Maria - via Villa Grazia 322 - in relazione alla circostanza della “busta gialla” in possesso del De Mauro il pomeriggio del 16 settembre 1970.  Appare indicativo che “la circostanza della busta gialla” sia data per conosciuta: conteneva forse i documenti su Mattei? La polizia riteneva di si, come risulta da un appunto tratto dall’analogo fascicolo dei carabinieri e indicato al successivo [paragrafo].

Da tale fascicolo sono stati inoltre acquisiti i seguenti atti, significativi nell’ambito della pista “ENI/Mattei”: appunto dattiloscritto, verosimilmente predisposto da Giuliano, datato 20.9.1970, contenente una sommaria descrizione dell’evento, dei propositi investigativi e degli accertamenti eseguiti fino a tale data. Al foglio 3° si legge: “Allo stato sembra da escludere: - che il De Mauro stesse conducendo una qualsiasi inchiesta giornalistica sulla mafia o su singoli mafiosi. In proposito da oltre quattro mesi egli era stato destinato all’incarico di capo dei servizi sportivi regionali.  - che vi fosse qualche mafioso che in seguito o a causa dell’attività professionale del De Mauro avesse subito particolare danno o pregiudizio con conseguente sorgere di odio ... - che il fatto possa essere riconducibile a vicende sentimentali extraconiugali o a situazioni economico-finanziarie di natura familiare”;

Il fascicolo dei Carabinieri. Sebbene i Carabinieri non si fossero interessati della ricerca che De Mauro aveva svolto su Mattei, si erano comunque tenuti informati sull’attività della Polizia in tale ambito. Dal fascicolo sulle indagini esperite dai carabinieri, sono stati rinvenuti ed acquisiti i seguenti documenti:

tre appunti manoscritti dal capitano Giuseppe RUSSO. Nel primo è scritto: “Ufficio Politico - cerca pure un plico a detta dei De Mauro ove forse aveva documenti - (ENI - MATTEI ?) - VERZOTTO ex segretario di Mattei e partigiano con lui.  B. 25/9/70”.  L’interpretazione di tale appunto appare semplice: Bruno Contrada (?) il 25/9/70  aveva  riferito a  Russo  che l’ufficio politico stava cercando  una  busta contenente dei documenti, forse su Mattei e l’ENI; Verzotto era stato associato a tale notizia. Il   “plico “  cercato   dalla   polizia potrebbe essere proprio il copione  di  cui ha riferito Verzotto;

appunto dattiloscritto datato 16 ottobre 1970 (tre giorni prima dell’arresto di Buttafuoco), contenente informazioni sull’operato della polizia (nell’ambito della pista ENI/Mattei), nonché diversi altri appunti, sempre riguardanti l’attività della polizia, tutti rilevanti perché conducenti a Vito Guarrasi quale possibile mandante nel sequestro De Mauro: di tali documenti si riferirà nel successivo  [paragrafo].

I fascicoli della questura di Palermo. Solo in data 29 ottobre 1998, dopo che Contrada ha riferito delle “indagini parallele” svolte dall’ufficio politico nell’ambito della pista ENI/Mattei, a seguito di mirata ricerca sono stati acquisiti dalla questura di Palermo i cinque fascicoli dei quali si è già detto. Tali fascicoli sono rilevanti perché dimostrano l’esistenza dell’inchiesta parallela e perché contengono alcuni riscontri importanti e dei quali si dirà nell’ambito dei rispettivi paragrafi di interesse.

L'indagine misteriosa di un avvocato. La Repubblica il 27 settembre 2020. Il 2 maggio 1972 Elda e Junia De Mauro avevano firmato un procura speciale con la quale avevano conferito all’avvocato Giuseppe Lupis, del foro di Locri (RC) ma con studio a Messina, l’incarico di costituzione di parte civile nel procedimento penale instauratosi a seguito della scomparsa di Mauro De Mauro. Tale procura speciale era stata depositata presso il Tribunale di Palermo ed è presente nel relativo fascicolo processuale. Tale avvocato era stato proposto e presentato alla famiglia De Mauro dal giornalista  Pietro  Zullino, così  come  riferito  da  Elda  De Mauro e  dallo stesso Lupis. Questi comunque aveva offerto gratuitamente le sue prestazioni alla famiglia De Mauro, lasciando intendere di essere a conoscenza di “cose importanti” sia su Enrico Mattei che sulla scomparsa del loro congiunto. Sul conto dell’avvocato Giuseppe  Lupis sono state raccolte le seguenti informazioni: Elda De Mauro: “ho incontrato l’avvocato Lupis un paio di volte dopo che mi venne presentato e proposto da Pietro Zullino. Fu proprio Pietro Zullino, infatti, a dirmi che avrei fatto bene ad avvalermi dei servigi dell’avv. Lupis, suo conoscente, facendomi anche implicitamente capire che non avrei assolutamente dovuto preoccuparmi per la parte finanziaria. L’avvocato Lupis, infatti, non mi ha mai chiesto denaro, neanche per le spese che egli avrebbe dovuto necessariamente sostenere. ... Prendo atto che lei mi mostra la memoria a firma Giuseppe Lupis del 10 luglio 1972: non l’avevo mai vista, non ne ho mai sentito parlare e neanche il giudice Fratantonio me ne aveva fatto cenno. Il giudice Fratantonio, infatti, mi informava di ogni minimo sviluppo delle indagini. Egli veniva a casa almeno due o tre volte la settimana per verificare assieme a me gli elementi che via via acquisiva.”

Pietroni Paolo: “A.D. l’avvocato Lupis mi pare che fosse uno degli informatori di Zullino e credo che egli fosse in qualche modo legato ai servizi segreti.”

Franca De Mauro: “Noi non conoscevamo Lupis, egli si presentò a casa nostra in un momento che non so situare con precisione nel tempo ... Io ebbi l’impressione che egli si vantasse di essere a conoscenza dei segreti della massoneria e che per questa via poteva ottenere informazioni da Buttafuoco, che si diceva essere massone. A me Lupis non era piaciuto anche se si era trattato di una sensazione epidermica: mi pareva ambiguo e avevo l’impressione che volesse trarre da noi delle informazioni da utilizzare per suoi scopi. ... Leggo oggi per la prima volta una memoria istruttoria datata 10 luglio 1972 a firma di Giuseppe Lupis. Non ho mai avuto conoscenza delle circostanze articolate in tale memoria e l’impressione che ho tratto oggi, leggendola, è stata quasi di una minaccia diretta all’avvocato Guarrasi. Mi è parso quasi come se il destinatario di quella memoria fosse l’avvocato Guarrasi. Tale scritto mi pare infatti drammaticamente ricattatorio.”

Pietro Zullino, in data 3 giugno 1974, aveva spedito una lettera al G.I. Mario Fratantonio con la quale gli aveva trasmesso copia di vario materiale cartaceo raccolto con Pietroni e Nese comprendente, fra l’altro, un appunto sullo “Stato delle nostre ricerche sulle cause della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro al 16 giugno 1971”. Tale documento tratta il recupero del nastro contenente la registrazione dell’ultimo discorso di Mattei a Gagliano Castelferrato, tenuto presso la locale sala cinematografica gestita dal signor  Domenico Puleo. Vi si legge: Noi (Zullino, Pietroni e Nese) abbiamo recuperato presso il signor Puleo detta registrazione domenica 8 giugno, nel seguente modo: “Si sono recati per nostro conto a Gagliano, da Reggio Calabria, l’avv. Giuseppe Lupis e il tenente dei CC. Mimmo Barillari, suo amico, in forza presso la tenenza di Villa S. Giovanni ... Durante l’ascolto, l’avv. Lupis ha a sua volta registrato il contenuto del nastro con un micromagnetofono nascosta in una tasca interna del suo giubbotto ...” L’attuale tenente colonnello dei CC Domenico Barillari, pur confermando di essere amico di Lupis perché compagno di studi dal liceo all’università, ha invece dichiarato di non essersi mai attivamente interessato ai casi Mattei/De Mauro. Il signor Domenico Puleo nel merito ha confermato quanto scritto nell’appunto di Zullino/Pietroni/Nese dichiarando: “Alcuni anni dopo (il 1962) vennero due signori che volevano comprare il nastro e mi chiesero di sentire prima il contenuto della cassetta per apprezzarne le qualità sonore. Questi signori di nascosto me lo registrarono.”

Giuseppe Lupis: “Sono stato difensore di parte civile di Elda e Junia De Mauro nel processo contro Antonino Buttafuoco, presso l’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Ricordo che in quegli anni io vivevo molto tempo a Roma e frequentavo molti giornalisti così come persone appartenenti ad organi istituzionali dello Stato, nei diversi ambienti politici e culturali di Roma. Non era, inoltre, infrequente che alcuni di questi facessero anche parte dei servizi di sicurezza ed in particolare del S.I.D.. Mi fu anche chiesto, non ricordo da chi, di svolgere attività di collaborazione con il S.I.D., in maniera organica, con retribuzione per informazioni periodiche, ma non se ne fece niente ... Conobbi, tra gli altri, due giornalisti della redazione romana di “Epoca”: Pietro Zullino e Paolo Pietroni, che mi presentarono alla Elda e Junia De Mauro. ... Non ho mai chiesto alcun compenso poiché ritenevo tale incarico di per sé appagante per la mia professione ...  Poco tempo dopo (la costituzione di parte civile) depositai, sempre nel medesimo ufficio, una memoria con la quale chiedevo al magistrato di svolgere una serie di attività istruttorie. Tali richieste istruttorie erano state da me formulate sulla scorta di una serie di informazioni che avevo ricevuto dalla lettura di vari libri ed articoli di stampa, tra i quali, soprattutto, un libro di Riccardo De Santis e da chiacchierate con i frequentatori degli ambienti di cui le ho già parlato, tra i quali ricordo, in particolare, Nicola Falde, all’epoca mi pare maggiore dell’Arma in servizio al S.I.D. ... Nicola Falde era informato di tutto ciò che avveniva in Italia e con lui ricordo anche che si era parlato sia del caso Mattei che della scomparsa di Mauro De Mauro ...”

La presentazione dell’avv. Giuseppe Lupis è stata necessaria per poter accedere al seguente discorso sulla “memoria di parte civile” di cui si è accennato e per dimostrare il suo attivo interessamento ai casi Mattei/De Mauro. Ma per conto di chi? Non certo della parte civile che rappresentava. Il 28 settembre 1995 il P.M. di Pavia aveva incontrato Pietro Zullino a Roma, per escuterlo quale persona informata sui fatti. Al termine del relativo atto il giornalista aveva informalmente consegnato al magistrato dei documenti inerenti il “caso De Mauro”. Fra questi vi era pure una “memoria di parte civile con richiesta di esecuzione di atti istruttori”, diretta al giudice istruttore presso il Tribunale di Palermo che stava indagando sul rapimento De Mauro. Tale memoria, datata 10 luglio 1972 e firmata dall’avvocato Giuseppe Lupis, non risulta essere presente nel relativo incarto processuale del Tribunale di Palermo. Il dott. Mario Fratantonio, al quale era diretta, ha riferito: “Prendo visione e leggo fotocopia di una memoria istruttoria nell’interesse delle parti civili Elda e Junia De Mauro, datata 10/7/72 e firmata dall’avv. Giuseppe Lupis: non l’ho mai letta prima e anzi le aggiungo che se l’avessi letta mi sarei senz’altro attivato per accertare la fondatezza e approfondire le questioni articolate in tale memoria.” La richiesta formulata dall’avv. Lupis era diretta a sollecitare il G.I. dott. Fratantonio ad escutere, previo mandato di comparizione, Vito Guarrasi e Graziano Verzotto per chiarire una serie di fatti e circostanze che De Mauro avrebbe accertato nel corso del suo lavoro per conto del regista Francesco Rosi. Il documento, completamente incentrato sulla pista “ENI/Mattei”, attribuiva conoscenza - e quindi responsabilità - da parte di Cefis, Verzotto e Guarrasi sulla morte non accidentale del presidente dell’ENI Mattei. La rilevanza di tale “memoria” è data dal fatto che tutte le notizie ivi contenute sono risultate - nell’ambito delle attuali indagini sulla morte di Enrico Mattei - fondate o comunque non contrastanti con quanto finora accertato. Alcuni fatti sono una vera e propria novità rispetto alle conoscenze ufficiali dell’epoca come, ad esempio, la circostanza che Mattei era sceso in Sicilia con entrambi gli aerei gemelli Morane Saulnier 760 a disposizione della presidenza dell’ENI. Se ne deve dedurre, ma è lo stesso Lupis a confermarlo, che le notizie indicate nella memoria istruttoria erano state attinte da ambienti bene informati quali quelli dei servizi segreti. E se è vero - come pare più probabile alla luce di quanto detto precedentemente - che il documento non era mai stato depositato presso l’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, l’ipotesi che fosse stato formato con lo scopo di ricattare Vito Guarrasi ed Eugenio Cefis assume una certa consistenza. In ogni caso, ciò che in questa sede risulta essere importante nel documento,  è l’accostamento della morte di Enrico Mattei al rapimento di Mauro De Mauro. In conclusione, si deve ragionevolmente ritenere che le figure dell’avv. Lupis e del giornalista Pietro Zullino (che lo aveva introdotto in casa De Mauro e che deteneva una copia della “memoria”) siano importanti per comprendere ed accertare la cronologia degli eventi. L’avvocato Lupis, in tandem con Zullino, aveva sostenuto delle spese per “indagare” sulla morte di Mattei, con risultati apprezzabili dei quali, però, aveva tenuto all’oscuro le persone da lui rappresentate nonché il magistrato inquirente. Inoltre parte di tali risultati erano poi confluiti nel secondo articolo predisposto per essere pubblicato su “Epoca” e mai uscito, così come riferito dallo stesso Pietro Zullino. Ci si deve quindi chiedere per conto di chi due avevano lavorato, chi aveva coperto le spese e quali reazioni aveva provocato la memoria di Lupis e l’articolo giornalistico di Zullino, posto - in maniera controversa - all’attenzione di Eugenio Cefis prima della pubblicazione.

Nino Buttafuoco, l'ambiguo commercialista. La Repubblica il 28 settembre 2020. Preliminarmente è utile ricordare la vicenda del tributarista Antonino Buttafuoco, arrestato il 19 ottobre 1970 nell’ambito delle indagini sulla pista “ENI/Mattei”, sulla base dei seguenti fatti, tratti direttamente dal diario tenuto da Junia De Mauro, che pare il documento più attendibile tra tutti quelli prodotti, anche dalle autorità inquirenti:

“GIOVEDÌ’ 17 (settembre 1970) - ... Né radio, né giornali, né TV avevano dato la notizia, quando alle 21 telefonò Buttafuoco chiedendo se ci fossero ‘novità’; rispose Franca. Non ce ne erano, e riappese.”

“DOMENICA 20 - ... La sera, alle 21, al telefono rispondo io. E’ Buttafuoco, ma non vuole notizie, vuole parlare a mamma. ... Lui insiste nel volerle parlare. ... “non son cose da dire a te, e per telefono. Di alla mamma che ho cose importanti da dirle, e avvertila che sarò da voi tra dieci minuti”.  Del fatto erano stati informati subito i commissari Contrada e Giuliano che avevano consigliato di riceverlo. L’incontro era avvenuto nello studio di Mauro De Mauro alla sola presenza di Elda e Tullio De Mauro. Il colloquio era stato così ricostruito: “... aveva detto” Non sono venuto per confortarvi, ma per esporre la situazione reale: Mauro non è stato attento. Comunque ora ci sono qua io”. ... Prima di tutto vuol sapere se mamma è a conoscenza di qualche notizia utile sul sequestro di mio padre. Poi chiede chi della Polizia o di noi abbia toccato fra le sue carte e se è stato trovato qualcosa. Quindi inizia ad elencare una serie di possibili moventi del sequestro, scartandoli immediatamente, senza dare motivazioni. “Agrigento, no. Droga, no. Mafia, no. Caso Tandoj, no. ENI” senza interrogativi, senza negazioni. “Cavaliere, perché dice Eni?” chiese Tullio. “Così l’ho letto sui giornali” quindi ... avverte che “Mauro starà via qualche giorno” ... continuò dicendo di stare tranquilli, di attendere sue notizie, che lui non sarebbe più venuto a casa nostra perché ora c’era troppa polizia (“Sebbene a me non potranno mai fare niente”).

“MARTEDI’ 22 - ... La sera, verso le 22, telefona Buttafuoco; anche lui parla in cifra ma non dietro nostra richiesta. Aveva ‘letto la pratica’ e i documenti sul nostro affare; c’era stata qualche difficoltà, ma grazie all’aiuto di ‘esperti’, la lettura alla fine gli era riuscita chiara. Le cose stavano proprio come lui aveva previsto, aggiunse, un ‘medico’ sarebbe venuto da fuori per visitare il ‘malato’, e soltanto dopo la visita si sarebbe potuto concludere l’affare. Dovevamo star certi del buon esito della faccenda al 98,99 % lui sarebbe andato fuori - sempre per il nostro affare - e si sarebbe fatto sentire entro due o tre giorni.”

“SABATO 26 - Con la posta della mattina arrivò al giornale una busta, contenente un breve tratto di nastro magnetico. ... il messaggio diceva “Il De Mauro è vivo, non gli facciamo del male, vogliamo solo ‘chiacchierargli’ bene”. ... Passata la mezzanotte ‘legale’ ci giunse la telefonata di Buttafuoco. Disse di chiamare da ‘fuori’. ... e chiese subito se avessimo ricevuto qualche ‘messaggio’. Tullio rispose che erano arrivate le solite lettere anonime, ma Buttafuoco precisò “messaggi orali, verbali”. Nell’incertezza, Tullio rispose, interrogativamente, ‘un nastro?’, ‘Esatto’ esclamò il cavaliere. Riconfermò la sua certezza al 99% circa del buon esito del nostro affare”.

“MARTEDI’ 29 - ... Tullio si reca all’appuntamento (nello studio di Buttafuoco). ...” Dopo diversi discorsi  “a bruciapelo chiese se avessimo ‘più trovato la lettera del barbiere’. Tullio, stupitissimo e preso alla sprovvista, risponde subito di no e chiede di che si tratti. Buttafuoco risponde evasivamente, dopo essersi assicurato della sincerità di Tullio, che si trattava di una sciocchezza, un appunto preso in calce ad una lettera ... Domanda subito dopo cosa noi pensiamo della pista ENI. Mio zio risponde che, a noi familiari, in quel momento pareva l’ipotesi più valida e Buttafuoco senza lasciarlo proseguire chiede “E Mauro allora, a chi della famiglia ha eventualmente fatto i nomi dei responsabili della morte di Mattei?” A questo Tullio non poté rispondere, ma non gli disse di quel ‘qualcosa’ che papà mi aveva detto e che non riuscivo a ricordare. ... Quindi, spontaneamente, fece (Buttafuoco) un’ipotetica ricostruzione del movente del sequestro, precisando che avrebbe usato i nomi dei presenti a mo’ d’esempio: “Nino Buttafuoco dice una cosa a Mauro. Mauro fa capire a un altro di sapere questa cosa. Questo fa rapire Mauro per sapere cosa Nino Buttafuoco gli abbia detto, e per mettere paura a Nino Buttafuoco.” Ribadì che quell’esempio, nomi a parte, rispecchiava la realtà.”

“MERCOLEDI’ 30 - La mattina stessa è mamma ad andare allo studio di Buttafuoco.” Il ragioniere tranquillizza Elda De Mauro. Parla del sequestro. Chiede copia del nastro e della busta entro il quale era inserito. Fornisce ad Elda un numero  telefonico ‘segreto’ (in realtà riservato, cioè non inserito in elenco). Aggiunge che “bisognava restare ottimisti perché ‘quelli’ volevano solo accertare cosa mio padre realmente sapesse interrogandolo per molti giorni. Domandò ancora se tra le carte di papà si fosse trovato qualcosa di interessante, e vuol sapere che tipo di domande ci facessero i funzionari di polizia.” (non interessava quindi l’attività dei Carabinieri)

“VENERDI’ 2 ottobre - ... si decise che mamma avrebbe telefonato a Buttafuoco alle otto e mezza, per fissargli un appuntamento in studio. Ma Buttafuoco preferisce incontrarla all’aperto. Le ricorda di portare manoscritti recenti di papà (per confrontare le grafie) e il nastro con la busta.” Elda, giunta all’appuntamento, era stata accompagnata da Buttafuoco fino all’interno della sua abitazione. “Li mamma ripeté che non intendeva essere confortata e di non avere, in questo caso, bisogno di lui. Buttafuoco negò ancora decisamente d’agire per un simile motivo ... Ricordò allora le 98 probabilità a nostro favore, e disse di "lasciare all’ENI" le ultime due.”

“DOMENICA 4 ottobre - Alle 9,45 telefona Buttafuoco, fissando a mamma un appuntamento "al solito posto, tre ore prima dell’ultima volta", ossia nella sua casa alle 15.  Mamma giunge all’appuntamento e trova il cavaliere turbato da un margine di incertezza che non gli permette di stabilire con certezza che l’autore del messaggio è mio padre ... Ribadì che le 99 buone probabilità le dettava la scienza e non il cuore, aggiungendo "perché Mauro si è fatto scaltro e ora pesa bene le parole". Rimproverò a mamma d’avere detto alla radio, durante un’intervista, che papà le diceva sempre tutto.”

“MARTEDI’ 6 ottobre - Alle dodici e un quarto precise, presi la telefonata di un esultante Buttafuoco che quasi gridava “va tutto bene! Di alla mamma che va tutto bene ... Aspetto la mamma a casa di Pina quattro ore prima della penultima volta” = a casa sua alle 16. ... Buttafuoco dice chiaramente “Lei signora deve farsi ricevere dal questore. Si faccia ricevere in colloquio privato - glielo concederà senz’altro - e si faccia dare tutti i nomi su cui stanno indagando, chieda di tutti gli elementi di cui dispongono in quest’indagine. Faccia presente che lei è una pedina importante, e un nome che a loro non dice niente, faccia capire che invece a lei  può dire molte cose ... invece verrà a dire tutto a me. ... Vada anche dai carabinieri, così non s’insospettiscono, ma è dalla polizia che si deve far dare nomi, fatti, notizie, tutto ciò che sanno su questo caso. Poi venga e mi riferisca tutto. Il pomeriggio, mamma e Tullio, insieme al questore, Mendolia, Contrada e Giuliano, concordano di dargli nomi di scarsa importanza.” Avvenuto ciò, Buttafuoco, evidentemente per avere esaurito il suo compito, si era “allontanato” bruscamente dalla famiglia De Mauro. Ma vi è un’ultima e importante  annotazione nel diario riguardante il tributarista:

“DOMENICA 11 ottobre - ... in una telefonata intercettata dalla polizia, Buttafuoco, placando i timori di un misterioso interlocutore (“no, dica agli amici di Trapani di stare tranquilli: non ci fu ammazzata per il giornalista”) gli aveva annunciato per martedì un incontro importante riguardo ‘all’affare’ di mio padre.”

La cronologia degli eventi permette di avanzare le seguenti ipotesi e, cioè, che Antonino Buttafuoco:

effettivamente era stato coinvolto quanto meno nei fatti seguenti al sequestro;

aveva ricevuto incarico dal mandante del rapimento di cercare i documenti riguardanti l’ENI e Mattei tra le carte del giornalista e di cercare di capire cosa i familiari sapessero della ricerca che Mauro De Mauro aveva svolto per conto del regista Francesco Rosi;

De Mauro non era stato immediatamente ucciso ma interrogato dai rapitori per fargli dire cosa aveva scoperto sulla morte di Mattei e, soprattutto, se aveva dei documenti compromettenti e dove;

inizialmente non era stata prevista la morte del giornalista ma nel corso o a seguito dell’esito degli ‘interrogatori’ era stato ucciso;

Buttafuoco aveva cercato di ottenere la totale fiducia dei familiari di De Mauro raccontando loro parte della verità e montando la storia del nastro, per indurli a considerarlo importante per la sorte del giornalista, e per conoscere le notizie sulla pista ENI/Mattei nonché i movimenti della polizia in tale ambito.

Tutto ciò premesso, anche la vicenda del settimanale “Le Ore”, che pare strettamente legata alla detenzione di Antonino Buttafuoco, si inquadra nell’ambito di una attività ricattatoria basata su conoscenze e possibili  rivelazioni sulle circostanze riguardanti l’uccisione di Enrico Mattei.  E questo, probabilmente,  al fine di sollecitare “chi di dovere” ad attivarsi per fare uscire Buttafuoco dal carcere e dall’intricata storia. Infatti, il 20 novembre 1970 Ugo Moretti, direttore del giornale, aveva presentato alla Procura della Repubblica di Milano una denuncia contro ignoti per l’omicidio in danno di Enrico Mattei, Irnerio Bertuzzi e William Mc Hale. La denuncia era stata trasmessa, il successivo 25 novembre, alla Procura della Repubblica di Pavia per competenza. Sul numero 3 della medesima rivista, che aveva quindi iniziato le pubblicazioni tra la prima e la seconda settimana del novembre 1970, era comparso un articolo titolato sulla copertina: “ECCO LE PROVE DEL DELITTO - OMICIDIO! - DENUNCIATI ALLA PROCURA GLI ASSASSINI DI MATTEI”. L’articolo in realtà non conteneva concretamente “le prove dell’omicidio Mattei”, né alcuna novità di rilievo. L’unica anomalia riscontrabile nel testo era che si dava per scontato, al contrario delle cronache e degli accertamenti ufficiali, che  Mattei il 26 ottobre 1962 si era recato a Palermo per partecipare a una riunione segreta. E ciò porta direttamente a Vito Guarrasi, indicato dalle cronache giornalistiche come il mandante del sequestro, il quale ha dichiarato ai magistrati e giornalisti di non avere incontrato Mattei nel suo ultimo viaggio  perché questi non era stato a Palermo, contrariamente alle risultanze delle attuali indagini. Per tornare al giornale “Le Ore della settimana” - e alla connessione di tale articolo con Buttafuoco - va detto che era stato fondato, e ne era redattore capo, da Massimo Balletti, ovvero il genero del tributarista. Dopo la pubblicazione del predetto articolo su Mattei, in data 5 gennaio 1971, Antonino Buttafuoco era stato scarcerato e successivamente, con sentenza dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo (dr. G. Miccichè) datata 11/1/1983, era stato prosciolto “per non avere commesso il fatto”. Tale sentenza di primo grado, intervenuta ben 13 anni dopo l’arresto e con la formula più ampia, si commenta da sola alla luce degli elementi a carico. Si deve quindi concludere che i “forti poteri” intervenuti per “insabbiare” le indagini erano stati sollecitati, con l’articolo apparso su “Le Ore della settimana”, ad attivarsi “anche”  per  Buttafuoco, con esito assolutamente positivo. Va da sé che  quanto appena esposto rafforza ulteriormente il movente ENI nel sequestro di Mauro De Mauro e, conseguentemente, l’ipotesi delittuosa nella morte di Enrico Mattei.

Gli archivi “ripuliti” del Viminale. La Repubblica.it il 29 settembre 2020. Fino a questo punto sono state indicate le “presenze” di numerosi elementi e documenti riconducibili al movente “ENI/Mattei” nel sequestro di Mauro De Mauro.    Nel corso delle attuali indagini sono state però rilevate delle “assenze”, cioè la mancanza di documenti e di elementi - alcuni sottratti o mai consegnati -  che confortano ulteriormente la più volte citata “pista ENI”. Le “assenze” sono state rilevate presso tutti gli uffici che si sono interessati del “caso De Mauro” e sono costituite essenzialmente dalla mancanza di riferimenti, notizie e documenti ricollegabili alle prime e più importanti indagini esperite dalla questura di Palermo nell’ambito del movente “ENI/Mattei”. Anche le dichiarazioni sull’argomento dei c.d. collaboratori di giustizia si possono inserire nell’ambito del presente paragrafo. Il ministero dell’interno e il dipartimento della P.S. - direzione centrale della polizia di prevenzione (ex UCIGOS) - hanno fornito tutta la documentazione in possesso su Mattei e De Mauro. La direzione centrale della polizia di prevenzione ha ereditato l’archivio della soppressa Divisione Affari Riservati. Sono stati acquisiti, in copia, i seguenti fascicoli:

Enrico MATTEI: vi è una relazione riservata, presumibilmente dell’ufficio perché priva di intestazioni, sul conto di Eugenio CEFIS quale possibile candidato per assumere la guida del vertice dell’ENI.  Vi è inoltre una lettera riservata della questura di Milano datata 21/11/70, avente per oggetto: “On.le Ing. Enrico Mattei - Decesso per incidente aviatorio a Bascapè (PV) il 27/10/1962”, che tratta del sequestro De Mauro connesso con il presunto omicidio di Mattei, in relazione al libro “L’assassinio di Mattei” di Bellini e Previdi, pubblicato i primi mesi del 1970. Il documento conclude però che: “Si ha tuttavia l’impressione, confortata da talune indiscrezioni, che la campagna di stampa, peraltro alquanto attenuatasi in questi ultimi giorni, fosse soprattutto una manovra politica tendente a screditare, da una parte, l’on Fanfani, presidente del consiglio all’epoca della disgrazia di Mattei, e, dall’altra, il massimo esponente dell’ENI, Eugenio Cefis.” Sostanzialmente quindi, nel fascicolo intestato a Mattei non c’è nessuna notizia concreta sul disastro aereo del 27/10/62. L’unico documento esistente che tratta, indirettamente,  la morte di Mattei viene sminuito nella parte finale. Tale conclusione potrebbe essere non priva di una sua logica ma ciò che importa è il fatto che non era stato eseguito il doveroso approfondimento, in negativo o in positivo, sulle gravissime accuse utilizzate per la “campagna di stampa”.

Vito GUARRASI: contiene copia di una relazione riservata della Questura di Palermo sul suo conto, inviata - a richiesta - al presidente della commissione parlamentare antimafia. Tale rapporto informativo non fa alcun cenno delle connessioni, rilevate proprio dalla Squadra Mobile di Palermo,  tra Guarrasi, Buttafuoco e il sequestro di Mauro De Mauro. Mauro De Mauro: contiene diverse notizie ed atti riguardanti il sequestro ma nulla che si riferisca alle indagini svolte. Vi sono diverse interrogazioni parlamentari con schemi di risposta. Solamente l’interrogazione dell’on. Macaluso, in stretti rapporti con Vito Guarrasi, assume rilievo nell’ottica generale. Infatti, il deputato aveva chiesto ai ministri dell’interno e di grazia e giustizia di sapere se rispondeva al vero che: “le autorità che conducono le indagini sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro avrebbero preso in considerazione la possibilità di collegare la scomparsa del giornalista alle ricerche che stava compiendo sulla morte dell’ingegnere Enrico Mattei. La presa in considerazione di questa traccia fa presumere che le autorità inquirenti abbiano elementi tali da considerare la morte dell’ingegnere Mattei un delitto che ancora oggi qualcuno cerca di coprire. L’interrogante chiede di sapere quindi quali sono questi elementi e se sarà riaperta un’istruttoria sulla morte dell’ingegnere Mattei...”. Lo schema di risposta del ministero dell’interno aveva rassicurato l’interrogante che: “Nel corso delle indagini per la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro gli organi della polizia giudiziaria non si sono occupati della morte dell’ing. Mattei...”. quotidiano “L’Ora” di Palermo: non vi è nulla di concretamente riferibile al sequestro De Mauro, ad eccezione di qualche articolo pubblicato sull’argomento. E’ stato rinvenuto un’interessante appunto interno che integralmente si trascrive: “4.6.70 Ente Minerario Siciliano, organismo dipendente dal governo regionale, ha effettuato in questi giorni un importante versamento finanziario a favore del giornale “L’Ora” di Palermo, organo del PCI.” L’importanza di tale appunto deve essere sfuggita a chi ha curato la tenuta dei fascicoli in argomento. Infatti il contenuto lega Graziano Verzotto (presidente dell’E.M.S. versante) a Vito Guarrasi (che lo ha collocato alla presidenza e che potrebbe quindi aver favorito il finanziamento) ed entrambi al quotidiano “L’Ora” che, durante le indagini sulla “pista ENI/Mattei” e sull’arresto di Buttafuoco, aveva tenuto un atteggiamento a dir poco sospetto, come più avanti si vedrà. Il Ministero dell’Interno, in data 3 maggio 1998 ha fornito, altresì, i seguenti fascicoli, provenienti dalla Direzione Centrale della Polizia Criminale: Mauro De Mauro: contiene numerosi atti riferiti al sequestro ed alle indagini svolte. Nessun documento però riferisce della pista “ENI/Mattei”. E’ sintomatico che vi siano tutti i riferimenti sulle varie piste seguite dalla polizia ma nessuno sull’indagine principale e più importante. Vi è però un documento la cui rilevanza, anche questa volta, è sfuggita al curatore della pratica: si tratta di un appunto, privo di intestazione, con il quale si riferisce dell’atteggiamento del quotidiano “L’Ora” rispetto alla vicenda del  “Signor x”. In sostanza il direttore Vittorio Nisticò, dopo un litigio con i familiari De Mauro, avrebbe deciso di pubblicare il vero nome del “signor x”, cioè Vito Guarrasi...In conclusione si deve ritenere che presso tutti gli uffici interessati del ministero dell’interno siano stati “ripuliti” i fascicoli, epurando ogni atto comunque riconducibile all’ENI o a Mattei, salvo naturalmente i pochi documenti sopra illustrati, nei quali, però, la connessione era molto indiretta. Invero potrebbe esservi una diversa chiave di lettura circa tali “assenze”: poiché dall’alto era arrivato a Palermo l’ordine di non addentrarsi nel lavoro che De Mauro stava svolgendo per conto di Rosi, è verosimile ritenere che le indagini in tale direzione erano state in qualche maniera nascoste ai superiori. L’arresto di Buttafuoco e la conferenza stampa del questore Li Donni, durante la quale aveva dichiarato prossima la soluzione del “caso De Mauro” con importanti novità, aveva quindi reso necessario, come già detto, l’intervento personale del direttore dei Servizi. Tale ipotesi, se per un verso potrebbe giustificare l’assenza di notizie, su tale filone di indagine, nei rapporti documentali  tra  Palermo e Roma, dall’altro verso però è irragionevole supporre che a Roma non fosse pervenuta, per altra via, la notizia che si stava investigando sul movente “ENI/Mattei”: non fosse altro perché ne avevano scritto tutti i giornali e lo stesso on. Macaluso aveva fornito indicazioni in tale senso con la sua interrogazione parlamentare.

Guarrasi, un nome che compare e scompare. La Repubblica il 30 settembre 2020. Come già detto, agli atti della Squadra Mobile riguardanti il sequestro De Mauro, nel sottofascicoletto intestato “Indagini pista E.N.I. - Mattei” ci sono solamente alcuni documenti irrilevanti e l’appunto - importante - su Flavio Flaccovio. Premesso che i verbali delle dichiarazioni rese dai familiari e da tutti coloro che hanno riferito sul “colpo giornalistico” annunciato da Mauro De Mauro, nonché tutto quello che riguardava Antonino Buttafuoco, sono sparsi nel fascicolo, rimane da chiarire a cosa serviva il sottofascicoletto “ENI/Mattei”. E’ stato “manipolato”? Il quadro generale conforta la possibilità che ciò sia avvenuto. E’ sufficiente, per ora, accennare alla clamorosa svolta alle indagini annunciata dalla polizia dopo l’arresto di Buttafuoco - svolta inserita nell’ambito del movente “ENI/Mattei” - e della quale nessuna traccia documentale vi è nel fascicolo. I giornalisti, sulla base di fonti informative interne alla questura, avevano anche dato per imminente l’arresto di Vito Guarrasi: ma di tale nome, nel fascicolo De Mauro, non vi è traccia. Eppure la Squadra Mobile possiede un fascicolo personale a lui intestato, contenente solamente un rapporto informativo datato 16/11/1983, diretto al giudice istruttore di Torino. Vi si legge, tra l’altro, che: “... il suo nome (Vito Guarrasi) è stato spesso oggetto della cronaca giudiziaria in alcuni clamorosi processi, anche perché fu oggetto di indagini al tempo della misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, redattore del quotidiano L’Ora”. Atteso che nel fascicolo di Guarrasi non vi è altro documento e che nel fascicolo De Mauro non vi sono atti o appunti di indagine sul conto dell’avvocato palermitano, l’affermazione sopra richiamata  necessariamente deve provenire o da un ulteriore fascicolo non reso noto, ovvero è basata sui ricordi diretti di qualche funzionario che ancora nel 1983 prestava servizio alla Squadra Mobile. La recente acquisizione dei fascicoli dell’inchiesta parallela, se da un lato conforta e costituisce riscontro oggettivo a quanto ipotizzato fino ad ora, dall’altro evidenzia ancor di più la mancanza dei documenti più importanti, così come riferito, ad esempio, dal maresciallo Zaccagni: nemmeno in tali fascicoli incentrati su Vito Guarrasi vi è alcun elemento a suo carico, eccezion fatta per i due appunti informativi del questore Mangano.

I servizi segreti. Si erano attivati, svolgendo mirate investigazioni a Catania e Palermo, subito dopo l’incidente aereo del 1962. Avevano “occupato” l’area ove si trovavano i rottami e si erano installati presso la stazione carabinieri di Landriano. Alla richiesta del P.M. dott. Calia di avere copia dei documenti, il Si.S.Mi. ha risposto che il fascicolo di Mattei era stato distrutto dalla “commissione Beolchini”.     Lo stesso ente non ha risposto, né ha inviato documenti, in ordine all’incidente aereo del 27 ottobre 1962. Per contro il Servizio ha invece fornito copiosa documentazione relativamente all’incidente aereo del febbraio 1962 nel corso del quale un cacciavite, dimenticato nel reattore dagli specialisti motoristi, aveva danneggiato il motore non appena era stato avviato. I servizi segreti, come visto, si erano interessati anche del “caso De Mauro”. Quanto al “caso De Mauro”, a richiesta del G.I. Mario Fratantonio di voler inviare copia della relativa documentazione, il S.I.D. aveva risposto “di non aver svolto alcuna indagine sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro”.

E nemmeno oggi il Si.S.Mi. è stato in grado di produrre alcuna documentazione riguardante un interessamento diretto al “caso De Mauro”.

La mafia braccio armato di altri poteri. La Repubblica l'1 ottobre 2020. Le dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia, tra i quali Gaspare MUTOLO Tommaso BUSCETTA e Salvatore RIGGIO, sulle circostanze riguardanti la morte di Enrico MATTEI e il sequestro del giornalista Mauro DE MAURO, non hanno consentito di sviluppare in maniera organica le indagini sulle circostanze da questi riferite. I fatti narrati su tali eventi delittuosi rispondono ad informazioni per lo più generiche ed ampiamente note, apprese da terzi e quindi, anche se ipoteticamente vere, difficilmente riscontrabili. I numerosi elementi raccolti nel corso di queste indagini consentono comunque una valutazione delle notizie esposte da tali collaboratori di giustizia. In via generale, le dichiarazioni dei “pentiti” concordano con gli esiti investigativi scaturiti nel corso di queste indagini. Non si esclude la possibilità che DE MAURO sia stato materialmente sequestrato da esponenti mafiosi, tuttavia, è certo che i motivi non sono legati ad interessi della mafia stessa, che invece può aver agito per conto di altri. Dalle indagini non è emerso nessun fatto concreto che possa far ritenere un particolare risentimento della mafia nei confronti di Mauro DE MAURO. Il contributo fornito dai collaboratori di giustizia, sebbene abbia consentito, in questi ultimi anni, di far piena luce su tutti i delitti mafiosi “importanti”, non è servito però a chiarire i casi Mattei/De Mauro: questo significa che Cosa Nostra non aveva interessi propri nei due casi. Oltre a tutto quanto detto ed accertato, vi è quindi l’ulteriore legame tra i delitti Mattei e De Mauro, invisibile ma forte, costituito dall’assoluta mancanza dei documenti e delle testimonianze che potrebbero chiarire lo svolgimento delle due vicende, divenute parallele. Documenti e testimonianze che pure dovrebbero essere facilmente reperibili nei “posti giusti” e che sono quelli indicati nel presente paragrafo dedicato alle “assenze”. Responsabilità nel corso delle investigazioni, indubbiamente significative nel contesto generale, sono quelle indicate nel paragrafo dedicato ai depistaggi. Vi sono stati però altri - ed ancor più significativi - interventi “combinati” nei casi Mattei/De Mauro che meritano senza dubbio attenzione particolare: sono i casi del quotidiano “L’Ora” di Palermo, del direttore Vittorio Nisticò e del film di Rosi “Il caso Mattei”. Quanto segue è importante perché, se correttamente interpretato, chiarisce il contesto politico/economico nel quale si era inserita la vicenda personale di Mauro De Mauro. Infatti, le imminenti scadenze, nel 1971, delle cariche di presidente della Repubblica e di presidente dell’E.N.I. avevano complicato ulteriormente, come già detto, le indagini sul rapimento De Mauro e, forse, proprio tali scadenze avevano determinato la necessità di stoppare le investigazioni sulla pista Mattei e, ancor di più, di bloccare gli accertamenti sul conto di Vito Guarrasi. Perché era così importante tale personaggio? Di certo non può essere sottaciuto il fatto che l’ordine di insabbiamento era venuto nell’imminenza, almeno così pare, del suo arresto e che tale avvenimento avrebbe effettivamente creato il “finimondo” in Italia. E ciò non tanto per le eventuali responsabilità di Guarrasi nel sequestro di Mauro De Mauro ma, bensì, per le implicazioni nel “caso Mattei” e le relative conseguenze politiche. E’ sufficiente pensare a cosa sarebbe successo se fosse stata accertata la seguente ipotesi, circolante fra i giornalisti a Palermo e, cioè, che:

Mattei era stato vittima di un attentato preordinato;

Guarrasi coinvolto nel complotto, non poteva che essere il portatore di interessi politico-economici nazionali (Fanfani e Cefis);

De Mauro era stato sequestrato ed ucciso per averlo scoperto, per comprendere quale finimondo si sarebbe verificato mettendo in concreto pericolo, non solo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, ma anche tutto l’equilibrio politico istituzionale fino a quel momento mantenuto. Questa teoria sulle responsabilità a carico di Guarrasi, Cefis e Fanfani, come già detto, circolava fra i giornalisti e verrà discussa nei sottoparagrafi seguenti. Per ora è sufficiente accennare come essa trovi riscontro nelle dichiarazioni di Italo Mattei, Rosangela Mattei, Ugo Saito e Mario Fratantonio.

Infatti gli stessi hanno dichiarato:

Italo Mattei, sentito dal G.I. Fratantonio: “... mia figlia Rosangela mi disse che ... aveva incontrato il ministro Oronzo Reale al quale era stata presentata come nipote di Enrico Mattei; mi precisò che si era trattenuta al tavolo con lui nello stesso albergo e che nel corso della loro conversazione il ministro stesso le disse che era un peccato che FANFANI, CEFIS e GIROTTI avessero fatto fuori mio fratello, tanto più che in quell’epoca si accingeva a firmare un contratto molto importante per l’Italia, per lo sfruttamento del petrolio algerino. D.R. su tale notizia datami da mia figlia non ho svolto alcun accertamento perché ero intimamente convinto che FANFANI, CEFIS e GIROTTI, se non materialmente coinvolti nella morte di mio fratello, fossero per lo meno a conoscenza di quello che sarebbe poi accaduto a mio fratello stesso. Tale convincimento mi deriva dalle seguenti circostanze: poco prima del disastro gli on.li Amintore FANFANI e Ugo LA MALFA, di ritorno da un loro viaggio effettuato negli Stati Uniti, convocarono mio fratello e gli dissero di non acquistare più petrolio dalla Russia ... In quella circostanza mio fratello disse chiaramente a FANFANI che da quel momento gli avrebbe tolto ogni appoggio politico e che da quel momento avrebbe dato tutta la forza del suo peso politico all’onorevole Moro, ritenendo costui uomo di maggiore capacità e indipendenza. Eugenio CEFIS, che non era più all’ENI, subito dopo la morte di mio fratello riprese la sua attività a favore dell’ENI, non so con quale qualifica...”;

Rosangela Mattei, sentita dal G.I. Fratantonio, aveva confermato integralmente il racconto fatto dal padre Italo;

Ugo Saito, sostituto procuratore titolare dell’inchiesta De Mauro: “prima della interruzione delle indagini di cui le ho appena fatto cenno, l’istruttoria era giunta a focalizzare delle responsabilità molto elevate e noi prevedevamo che quando avessimo assunto i provvedimenti opportuni, sarebbe successo un finimondo. ... Ritenevamo inoltre che il rag. Buttafuoco non era altro che l’ultimo anello di una catena che faceva capo ad Amintore Fanfani e alla sua corrente. Ritenevamo infatti che l’eliminazione di Mattei era da ricondursi a FANFANI il quale era sostenitore di una politica petrolifera antitetica a quella di Aldo Moro. ...”;

Un riscontro “rovescio” a quanto dichiarato da Saito emerge nelle dichiarazioni rese da Franco Briatico, all’epoca assistente speciale del presidente dell’ENI Eugenio Cefis: “Sul caso De Mauro non posso dire nulla se non che ho acquisito l’opinione che il suo sequestro non fosse assolutamente legato alla vicenda Mattei. Tale convinzione ho tratto principalmente dopo aver parlato, tra gli altri, con Rosi e con Vito Guarrasi. ... Al momento della morte di Mattei la situazione finanziaria dell’Eni era preoccupante. Di tale problema si era fatto carico il presidente del consiglio Amintore Fanfani il quale aveva voluto alla guida effettiva dell’ENI Eugenio Cefis, perché considerato l’unico in grado di poter gestire l’Ente da un punto di vista operativo.”

Mario Fratantonio, giudice istruttore nel procedimento De Mauro, ha dichiarato che: “... dopo l’audizione di Italo Mattei, d’accordo con il P.M., si decise di spedire tali atti istruttori al Pubblico Ministero di Pavia, competente per territorio quanto alla morte di Enrico Mattei. Rammento che vi fu una espressa richiesta in tale senso del P.M. Signorino a seguito della quale io provvidi a far estrarre copia degli atti che potevano riguardare l’inchiesta Mattei e a trasmetterli alla Procura della Repubblica di Pavia. Ho anche memoria del fatto che da quegli atti potevano emergere ipotesi di responsabilità a carico di alcuni personaggi di rilievo della vita italiana: FANFANI, CEFIS e un altro, di cui non ho adesso memoria ...”.

Per completezza va detto che tali documenti, attentamente ricercati in archivio e nei registri dalla segreteria, non risultano essere mai pervenuti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pavia e che dall’esame del fascicolo di Palermo sul sequestro De Mauro non risultano nemmeno trasmessi.

Il film di Rosi su Enrico Mattei. La Repubblica il 2 ottobre 2020. Francesco Rosi, nel luglio del 1970, come è noto, aveva dato incarico a Mauro De Mauro di ricostruire le ultime due giornate siciliane di Enrico Mattei, in funzione del film di prossima realizzazione “Il caso Mattei”. Il film si riproponeva, quanto meno nelle premesse, di presentare l’ipotesi di sabotaggio all’aereo del presidente dell’E.N.I.. Ciò si può dedurre dal titolo stesso del film, nonché dal fatto che Bellini e Previdi, autori del libro “L’assassinio di Mattei”, erano stati contattati dalla produzione del film per fornire la loro collaborazione nella presceneggiatura. Il sequestro di Mauro De Mauro e alcuni interventi nei confronti di Rosi avevano di fatto modificato la sceneggiatura del film? Così pare. Per iniziare, era circolata voce che l’E.N.I. di Cefis avesse finanziato la realizzazione del film. L’accertamento di tale circostanza è rilevante perché poteva costituire la contropartita alla variazione della storia. Dal diario di Junia De Mauro, nella parte mai pubblicata, al giorno 31 ottobre si legge: “La sera un inviato dice di aver appreso da CATTANEI (presidente della commissione parlamentare antimafia) che il film di Rosi su Mattei veniva finanziato da Eugenio Cefis”. Il riscontro è negli atti ufficiali della commissione antimafia. Nel corso dell’audizione di Graziano Verzotto un commissario, il senatore Li Causi, aveva domandato: “A Rosi chi commissionò il film?” Verzotto aveva risposto di non saperlo e Li Causi aveva allora commentato: “pare che il presidente dell’ENI abbia spinto Rosi a realizzare il film.”  Tale affermazione è evidentemente ironica. Le negazioni di Francesco Rosi che il film fosse stato commissionato e finanziato dall’ENI e che, a causa del sequestro De Mauro, fosse stata modificato la storia, sono poco attendibili. E’ più attendibile e concreto il timore che aveva preso il regista nel corso della preparazione del lungometraggio. Sono infatti state raccolte le seguenti dichiarazioni:

Paolo Pietroni: “Fui inoltre molto colpito dalla visita che Nese ed io facemmo al regista Rosi ... Egli in sostanze temeva che prima di finire il film potesse capitargli qualcosa di fisico, ma, poiché il film non conteneva nulla di sconvolgente, io pensai che egli avesse per paura mutato o addolcito il contenuto del film. ... Mi parve che Rosi ci parlava come preoccupato che noi potessimo dire a qualcuno che egli era a conoscenza di informazioni importanti sulla morte di Mattei ...”

Gino MILLOZZA, organizzatore generale del film: “Durante la lavorazione del film ricordo che un rappresentante di una società petrolifera (Vincenzo Cazzaniga della ESSO), una delle sette sorelle, aveva più volte invitato me e Rosi ad andare in ufficio a parlare e al nostro rifiuto, ci chiedeva sempre se avevamo trovato qualcosa cioè se avevamo scoperto chi aveva ucciso Mattei. Ricordo che Rosi aveva paura ad andare perché si diceva allora che erano state le sette sorelle ad uccidere Mattei. ... Ricordo che Rosi, che voleva sempre viaggiare con macchine di lusso, alla mia richiesta di noleggiare un’auto per andare al Tribunale di Palermo (perché convocato dal G.I. Fratantonio), mi aveva risposto ‘è meglio se andiamo in autobus perché lì è più difficile che ci uccidano’. Voglio cioè dire che Rosi era molto timoroso su tutto quello che riguardava il film e il caso De Mauro”.

Francesco Rosi: “Ho invece ricevuto delle minacce. La prima risale ad un momento successivo alla scomparsa di De Mauro, ma prima che io avessi cominciato a girare il film. Ricevetti a casa una telefonata ... Questo signore mi aveva detto di avere colto casualmente la conversazione di due persone che parlavano del mio progetto di film e della quale conversazione egli mi voleva mettere a conoscenza e a tale scopo egli chiedeva di incontrarmi. Rifiutai l’incontro ... Una seconda minaccia è stata invece ricevuta dalla mia governante, alla quale - sempre per telefono - era stato dato incarico di riferirmi di stare attento alle mie gambe e a quelle di mia figlia ... Mi sembra di ricordare che all’epoca di questa seconda minaccia io non avevo ancora cominciato a girare ...”

Circa poi l’esistenza di un controllo sul film da parte dell’ENI, celato con la collaborazione fornita nella pratica realizzazione (sono stati prestati i mezzi, le strutture fisse e gli alloggiamenti del gruppo ENI, cioè un consistente aiuto economico), finalizzato a salvaguardare l’immagine dell’ENI e del presidente Cefis, non vi sono dubbi di alcun genere. Infatti, sul punto sono state raccolte le seguenti dichiarazioni: Franco Briatico, all’epoca assistente speciale del presidente Cefis: “Io ho seguito la fase di preparazione del film per ciò che concerneva l’aspetto informativo della figura di Mattei e dell’ambiente nel quale operava.”

Leonid Kolosov, all’epoca tenente del KGB, con l’incarico  “coperto” di inviato a Roma del giornale “Izvestija” di Mosca: “Circa due anni fa, dopo l’anteprima del film “Enrico Mattei” a cui assistette un circolo ristretto di persone, chiesi a Rosi quali fossero le cause della tragica morte del presidente dell’ENI; lui si strinse nelle spalle e con aria desolata disse: ‘Io ho solo voluto una volta di più attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle circostanze della sua morte, circostanze che non ho potuto chiarire fino in fondo per motivi che non dipendono da me’ ...”.

Pasquale Ojetti: “Durante la realizzazione del film io sono stato incaricato dall’ufficio delle pubbliche relazioni dell’ENI di accompagnare la troupe di Rosi nella realizzazione del film. La ragione di questo incarico era di agevolare le riprese sia in Italia che all’estero. Avevo dunque un incarico di consulenza per l’ENI e in pieno accordo con il regista Rosi si lavorava per evitare di dire inesattezze.”

E il controllo sull’operato di Rosi era arrivato anche dalla ESSO Standard Oil italiana. Vincenzo Cazzaniga, allora presidente della ESSO Italia, ha così ricordato Rosi e il suo film: “... attraverso il mio capo ufficio relazioni esterne, avevo invitato e parlato con il regista Rosi Francesco nel mio ufficio. Motivo dell’incontro che io avevo desiderato era quello di avere con il regista un chiarimento su alcuni aspetti della storia del film in fase di realizzazione sulla vita e sulla morte di Mattei. Infatti avevo ricevuto voci su notizie che sarebbero state presentate nel film e che non rappresentavano la verità. ... Non ricordo chi mi aveva fatto pervenire tali voci, ma credo che provenissero dai pettegolezzi del nostro ambiente petrolifero.”

Insomma, la preparazione del film era stata movimentate perché aveva subito pressioni di un certo livello. Le “preoccupazioni” del regista Rosi appaiono quindi, sotto un certo aspetto, più che giustificate e rappresentano la sintomatologia di un “qualcosa non andava” nel film che aveva infine proposto, parallelamente, le due ipotesi di incidente e sabotaggio, senza adombrare alcuna responsabilità a carico dell’ENI e del suo presidente Eugenio Cefis. In ogni caso sarebbe definitivamente chiarita tutta la vicenda potendo dare una risposta alla domanda “perché, proprio nel 1970, era stato deciso di fare il film su Mattei basandolo sulla teoria di Bellini e Previdi del sabotaggio, esposta nel libro pubblicato nel medesimo anno?”

Vi era stato un disegno complessivo volto ad esautorare Cefis?: pare di si. Al riguardo si veda il successivo [paragrafo]. (antefatto al sequestro De Mauro).

Ritratto di due “oggetti misteriosi”. La Repubblica il 03 ottobre 2020. I due nomi, a questo punto, sono divenuti familiari perché più volte citati nel contesto della morte di Enrico Mattei e del sequestro di Mauro De Mauro. Prima di procedere alla collazione degli elementi che li riguardano, è utile prospettare una sommaria biografia di entrambi i personaggi.

Graziano Verzotto. Nato a S. Giustina in Colle (PD) il 31/05/1923, attualmente è residente a Roma, via S. Ignazio n. 5; Spesso dimora presso un’abitazione di proprietà a Parigi. E’ in possesso di maturità classica. Nel periodo 1944-1945 aveva comandato la brigata partigiana “Damiano Chiesa” in Camposampiero (PD). Dal 1945 al 1948 era stato a Roma quale funzionario della segreteria nazionale della Democrazia Cristiana. Nel 1948 era stato assegnato alla federazione provinciale D.C. di Catania. Nel 1949 aveva sposato Maria Fiorini Nicotra eletta, nello stesso periodo, alla camera dei deputati. Nel 1950, con l’aiuto della moglie e del partito, era stato assunto dall’AGIP, società del gruppo ENI. Nel 1951 aveva preso la residenza a Catania. Nel 1958 si era presentato candidato - non eletto - alla camera dei deputati. Nel 1960 era stato nominato vice segretario regionale della D.C. e nel 1962 ne era diventato segretario, mantenendo la carica fino al 30/2/1966. Nel 1961 era stato nominato capo ufficio pubbliche relazioni dell’ENI in Sicilia. Nel 1967 era stato nominato presidente dell’ente minerario siciliano. Alle elezioni politiche del 1968 era stato eletto senatore nel collegio di Noto (SR). Si era dimesso subito dalla carica di senatore, perché incompatibile con quella di presidente dell’E.M.S. alla quale non aveva rinunciato. Era rimasto in carica fino al 17/1/1975, data sotto la quale era stato colpito da un ordine di cattura nei suoi confronti per interesse privato in atti d’ufficio, a seguito di indagini sull’E.M.S. da parte delle magistrature palermitana e milanese. Di lui si sono interessati, oltre i magistrati e, naturalmente, i giornalisti, anche la commissione parlamentare antimafia che aveva provveduto alla sua audizione. Come presidente dell’Ente Minerario Siciliano, era entrato a far parte dei consigli di amministrazione di numerose società controllate o collegate a tale Ente. In diverse di tali società si trovava anche il nome di Vito Guarrasi come socio fondatore, amministratore, sindaco o consulente. Era stato lo stesso Guarrasi a volere Graziano Verzotto quale presidente dell’E.M.S.. Questo fatto e le connessioni economiche tra Guarrasi e Verzotto risultano, oltre che dalla relazione conclusiva della commissione parlamentare antimafia - VI legislatura anche da tutti i rapporti informativi - attuali e dell’epoca - redatti sul conto di entrambi dalla polizia e dai carabinieri.

Vito Guarrasi. Nato a Palermo il 22/04/1914, ivi residente in via Segesta n. 90, avvocato civilista. E’ stato amministratore di numerose società industriali ed estrattive, tra le quali le miniere del principe Lanza Branciforti di Trabia. E’ stato socio, consigliere o sindaco di tutte le società di un certo rilievo in Sicilia (comprese quelle che gestivano il quotidiano locale “L’Ora” e il Palermo calcio), come anche consulente di molte delle società nazionali operanti in Sicilia: ENI, AGIP, SNAM, ANIC, SIR, BASTOGI, NUOVO PIGNONE, MONTEDISON (quando Cefis ne era diventato presidente), ITALTRADE, SPARTACUS FILM ecc...Era stato detto che l’affermazione di Guarrasi nel mondo economico proveniva dalla sua stretta amicizia con l’ing. Domenico La Cavera, direttore generale della So.Fi.S.(Società Finanziaria della Regione Sicilia che sosteneva praticamente tutte le aziende siciliane nelle quali Guarrasi era presente) nel periodo 1957/1967. Invece era successo l’esatto contrario: La Cavera era stato “lanciato” dall’amico Guarrasi; Infatti il primo aveva ricevuto l’incarico, creato ad hoc da Guarrasi perché inesistente, dal governo regionale presieduto dall’on. Silvio Milazzo, governo costituito con la regia di Vito Guarrasi. Il secondo, nel 1958, era stato nominato da Silvio Milazzo segretario generale del “piano quinquennale per la ricostruzione della Sicilia”: in sostanza gli era stata data carta bianca per rappresentare la regione Sicilia in tutti i suoi rapporti economici. Nel periodo bellico era stato ufficiale di complemento del ruolo automobilistico. Dopo lunga convalescenza, era stato destinato al ministero della guerra e, successivamente, all’ispettorato del centro automobilistico. L’8 settembre 1943 era stato aggregato alla commissione italiana del comando in capo delle forze alleate del Mediterraneo. Il rapporto informativo della questura di Palermo, inviato - a richiesta - al presidente della commissione antimafia nel 1971, così descriveva il Guarrasi di quel periodo: “Non appaiono, tuttavia, ben definiti né la sua presenza nella ‘équipe’ di alti e qualificati ufficiali che trattarono la resa dell’Italia, né il ruolo da lui avuto, se si considera che l’allora cap. Guarrasi era un semplice ufficiale di complemento del Servizio Automobilistico. La sua presenza appare molto più chiara se si considera, invece, che in quegli avvenimenti ebbe la sua parte, certamente non secondaria, un altro siciliano l’allora sottotenente GALVANO LANZA BRANCIFORTI di Trabia, ufficiale d’ordinanza del generale Castellano, e amico del Guarrasi. ... E mentre Galvano Lanza e Vito Guarrasi partecipavano alle trattative di armistizio, don ‘Calogero Vizzini’ (oramai riconosciuto come un capo mafia dell’epoca) , amministratore del feudo di proprietà dei Lanza, secondo quanto può leggersi nei testi che si occupano di tali avvenimenti, svolgeva, a livello tattico, attività di preparazione dello sbarco degli alleati in Sicilia”. Come dire che Guarrasi, in quel contesto, aveva rappresentato, in qualche maniera, gli interessi della mafia siciliana. Peraltro, esiste un rapporto custodito nell’archivio del dipartimento di stato a Washington, firmato dall’allora console generale americano a Palermo, indirizzato il 27/11/1944 al segretario di stato, avente come oggetto “Formazione di un gruppo favorevole all’autonomia della Sicilia sotto la direzione della Mafia” che, nell’elencare gli ufficiali americani e le personalità siciliane partecipanti alle trattative, aveva indicato tra quest’ultime anche Vito Guarrasi. Fare l’elenco di tutte le società nelle quali Guarrasi era interessato sarebbe decisamente troppo. Più avanti saranno segnalate esclusivamente le società nelle quali era presente assieme a Graziano Verzotto. Guarrasi, quale rappresentante delle miniere baronali dominate dai capi mafia Vizzini e Di Cristina, aveva tentato di collocare tali attività - assolutamente antieconomiche al punto da aver ridotto notevolmente il patrimonio dell’amico Lanza Branciforti - presso l’ENI di Enrico Mattei, ottenendo da questi un netto rifiuto. Era stato consigliere legale e politico, oltre che di Silvio Milazzo, anche del sen. Giuseppe Alessi (D.C., succeduto a Milazzo quale presidente della Regione), di Franco Restivo (l’amico di De Mauro e più volte ministro), anche assiduo frequentatore di Gaspare Ambrosini (ex presidente della corte costituzionale), di Emilio Colombo (presidente del consiglio all’epoca del sequestro De Mauro), dell’on. Aristide Gunnella, dell’avv. Orlando Cascio (padre dell’attuale sindaco). In rapporti con i fratelli Salvo (divenuti suoi clienti dal 1982) e amico di Salvo Lima e Giovanni Gioia (ritenuti mafiosi e capi gruppo di correnti D.C. in Sicilia collegate a Roma con il senatore Amintore Fanfani). Nessun precedente penale, a parte diverse vicende giudiziarie connesse all’amministrazione di alcune società ma comunque risoltesi sempre in suo favore. La relazione parlamentare antimafia della VI legislatura si era interessata di Vito Guarrasi. Si cita solo un passo particolarmente significativo: “Da Leggio a Vito Guarrasi - ... da Leggio si torna a Leggio, passando sempre sui cadaveri di Mattei e De Mauro, anche attraverso Vito Guarrasi. ...” In ultimo, un’informativa del nucleo regionale di Palermo della polizia tributaria, datata 26/11/94 e diretta al prefetto di Palermo, riferiva che: “Il Comando Generale della Guardia di Finanza ha comunicato ... di aver appreso da organo qualificato (si legga Si.S.Mi.), che nell’ambito di ‘Cosa Nostra’ siciliana e palermitana in particolare, da qualche tempo si starebbe verificando una sorta di fermento tendente a modificarne nella sostanza gli indirizzi e le linee strategiche. Sfuggono al momento le esatte motivazioni e connotazioni, ma non sarebbe estraneo ad una sorta di occulta regia il ruolo dell’anziano avv. palermitano GUARRASI Vito ”. Anche le presenti notizie sono state tratte dai rapporti informativi dei carabinieri, polizia e D.I.A. di Palermo già citati e dalle ulteriori fonti indicate. Una serie di documenti ufficiali attestano i rapporti e le cointeressenze societarie tra Vito Guarrasi e Graziano Verzotto, oltre agli incarichi che avevano presso l’E.N.I., sia prima che dopo la morte di Mattei. Infatti, mentre Guarrasi ne era il consulente, Verzotto era capo dell’ufficio delle pubbliche relazioni dello stesso ente in Sicilia. Il legame tra i due personaggi era proseguito anche negli anni successivi, sia prima che dopo il sequestro De Mauro. La principale cointeressenza tra i due era data dagli interessi che entrambi avevano nell’Ente Minerario Siciliano (EMS), principale realtà economica dell’isola. Nella relazione conclusiva della Commissione Parlamentare Antimafia, risulta con certezza che era stato proprio Guarrasi a volere Verzotto alla presidenza dell’E.M.S., mentre egli stesso ne era consulente incaricato dal presidente. Ciò trova una plausibile ragione in considerazione della tutela degli interessi professionali ed economici di Guarrasi nell’E.M.S. e nelle altre società collegate all’Ente Minerario Siciliano. Come si evince dalla citata nota della D.I.A. di Palermo, Guarrasi è stato socio fondatore, azionista e presidente del collegio sindacale dalla data di costituzione fino al 18/11/1967, della “So.Chi.Mi.Si. - Società Chimico Mineraria Siciliana S.p.A.”, costituita a Palermo il 16/05/1964, avente per oggetto sociale principale la riorganizzazione e la verticalizzazione dell’industria zolfifera siciliana. Buona parte del pacchetto azionario era stato sottoscritto dalla “So.S.Mi.” della quale Guarrasi era presidente. La So.Chi.Mi.Si. era una società satellite dell’E.M.S.; Ne era Presidente Graziano VERZOTTO e consigliere delegato Aristide Gunnella (parlamentare nazionale del P.R.I. e amico di Vito Guarrasi). GUARRASI era pure consulente della “So.Ri.M. - Società Ricerche Minerarie S.p.A., altra impresa satellite dell’E.M.S. come del resto era consulente di tutte le società fondate, controllate o con partecipazione azionarie da parte dell’E.M.S...I legami economici tra Verzotto e Guarrasi, rafforzatisi dopo la scomparsa di Mauro de Mauro, sono quelli che avevano visto Verzotto implicato nello scandalo per la vicenda dei “fondi neri” dell’E.M.S. depositati presso la banca Loria di Milano, e per i quali Verzotto era stato colpito dal già accennato ordine di cattura. Nella relazione della Commissione Parlamentare Antimafia a tal proposito si legge: “24) Da Leggio a Graziano Verzotto. ... La banca Loria, già del gruppo Sindona (...) passò nel febbraio del 1972 sotto il controllo di una finanziaria, la GEFI, che ne acquistò il pacchetto di maggioranza. Del consiglio di amministrazione della GEFI faceva parte, già prima dell’acquisto del pacchetto di maggioranza della Banca Loria, l’avvocato Vito Guarrasi. Due mesi dopo l’operazione, il 28 aprile 1972, del consiglio di amministrazione entrò a far parte anche il senatore Graziano Verzotto.” E il nome di Michele Sindona, personaggio che non ha bisogno di presentazione, è stato recentemente accostato a quello di Vito Guarrasi dal collaboratore di giustizia Angelo Siino; questi ha dichiarato che in una circostanza aveva accompagnato Michele Sindona a Mondello (PA): nell’occasione Sindona si era incontrato con Nino Salvo e successivamente era andato a casa di Vito Guarrasi.

Alla caccia dei mandanti. La Repubblica il 4 ottobre 2020. La rassegna degli elementi indiziari a carico dei diversi personaggi che sono già stati citati nella presente relazione, parte da solide basi che erano già presenti e conosciute nel 1970 e che, per i motivi già evidenziati, non sono state prese in considerazione o non sono state doverosamente potenziate. Le attuali indagini infatti, che non erano mirate a risolvere il “caso De Mauro”, ma avevano semplicemente lo scopo di ampliare le conoscenze sull’accaduto al fine di acquisire ulteriori elementi investigativi sulla morte di Enrico Mattei, hanno, di fatto, chiarito ulteriori aspetti ruotanti attorno al sequestro di Mauro De Mauro e, conseguentemente, hanno fornito validi elementi di connessione con la morte di Mattei.

Chi aveva fornito a De Mauro la “sensazionale notizia” su Mattei? Questa polizia giudiziaria, alla luce di tutto quanto emerso, ritiene che per comprendere il “caso di Mauro De Mauro” sia necessario cercare di comprendere da quale fonte il giornalista aveva ottenuto l’importante notizia su Mattei. Infatti oggi, come allora, non è in dubbio cosa aveva scoperto: aveva saputo chi era stato il o uno dei mandanti dell’attentato all’aereo del presidente dell’ENI. Capire chi aveva fornito le informazioni a De Mauro consente di comprendere quale era stata la molla che aveva fatto scattare il sequestro e l’uccisione del giornalista. Appare plausibile la seguente ipotesi, perché assolutamente logica, coerente, che armonizza tutti gli elementi raccolti e trova un riscontro nelle dichiarazioni di Graziano VERZOTTO, ovvero le dichiarazioni di VERZOTTO trovano riscontro in tutti gli elementi già raccolti: Mauro De Mauro, nell’ambito delle informazioni che stava raccogliendo su Mattei per assolvere l’incarico avuto da Rosi, si era consultato più volte con Graziano Verzotto con il quale era in confidenza e dal quale aveva avuto “indicazioni” sul possibile attentato a Mattei...Verzotto in quel momento era in “guerra aperta” con Eugenio Cefis per la costruzione di un metanodotto dall’Africa alla Sicilia, del valore di 500 miliardi dell’epoca. Tale importante opera era stata bocciata dal presidente dell’ENI perché aveva preferito il trasporto del gas liquefatto con navi metaniere, armate dal petroliere Angelo Moratti. Questi aveva ottenuto il relativo appalto dalla ESSO e dall’ENI. L’estrazione, la liquefazione, il trasporto, la rigassificazione e la distribuzione del metano erano state realizzate da un accordo ENI/ESSO intervenuto dopo la morte di Mattei e in contrasto con la sua politica. Secondo varie fonti, i soci occulti delle quattro navi metaniere erano proprio Eugenio Cefis e Vincenzo Cazzaniga. E’ di tutta evidenza che l’affare sulle metaniere era colossale e rischiava di essere “stracciato” a causa del progetto di Verzotto, che in questo caso era spalleggiato dalla Regione Sicilia. Regione ovviamente interessata perché, in caso di costruzione del metanodotto, avrebbe ottenuto il gas ad un prezzo concorrenziale ed avrebbe ottenuto ulteriori ricavi dalla distribuzione del gas (rompendo così il monopolio della distribuzione detenuto dall’ENI), mentre invece, con le metaniere che facevano scalo a Panigaglia (SP) ove era ubicato l’impianto di rigassificazione, il prezzo sarebbe aumentato per gli ulteriori costi di trasporto da La Spezia a tutte le città dell’isola. La ricerca di De Mauro si era quindi innestata proprio nel periodo culminante della contesa tra Cefis e la SONEMS; Quest’ultima era la società a capitale misto tra l’E.M.S. di Verzotto (26% di capitale), la SONATRACH (azienda petrolifera di stato algerina, 50% di capitale), la SNAM/ENI (20%) e il Banco di Sicilia (4%), che era stata costituita proprio per realizzare la costruzione del metanodotto e della quale Verzotto era consigliere. Questi, per eliminare dal vertice dell’ente statale Eugenio Cefis che avversava la costruzione del metanodotto, aveva incaricato De Mauro di indagare sulla morte di Mattei, partendo dal presupposto che dietro vi fosse stato un complotto culminato con l’attentato. DE MAURO, contrariamente o in aggiunta all’incarico avuto da ROSI, al momento del suo sequestro aveva raccolto elementi a carico di CEFIS e del suo braccio destro in Sicilia, cioè Vito GUARRASI, che avrebbe dovuto utilizzare per “attaccare” il presidente dell’ENI. Tale iniziativa di Verzotto si era sommata a quella socialista, in corso di attuazione, per esautorare Eugenio Cefis al fine di ottenere la presidenza ENI (e, quindi, il controllo di un notevole flusso di denaro in nero). De Mauro, già dai primi giorni del settembre 1970, aveva parlato di una “sensazionale scoperta”, mentre il suo sequestro era avvenuto frettolosamente il 16 settembre successivo. Il giornalista, nel corso degli accertamenti eseguiti per verificare le notizie ottenute da Verzotto, si era imbattuto in Vito Guarrasi: aveva cioè scoperto qualcosa che lo accomunava ai mandanti dell’omicidio Mattei. Guarrasi, saputo ciò, aveva ordinato il sequestro del giornalista.

 Una guerra sulla pelle di Mauro De Mauro. La Repubblica il 5 ottobre 2020. Guarrasi stava per essere arrestato quale responsabile del sequestro: tanto risulta inequivocabilmente e all’argomento, molto ampio, è stato dedicato il successivo § 6. De Mauro era ottimo conoscente di Verzotto e si fidava di lui: ciò è stato dichiarato dallo stesso Verzotto al P.M. di Pavia il 16/2/1996 e risulta dal diario di Pompeo Colajanni (amico dai tempi partigiani di Mattei);

De Mauro aveva lungamente parlato con Verzotto delle ultime due giornate di Mattei in Sicilia: è stato dichiarato dallo stesso Verzotto in una intervista rilasciata al quotidiano “L’Ora” di Palermo. In particolare aveva detto che “Ricordo che parlammo a lungo, ma sostanzialmente non facemmo che ripetere le cose che avevamo detto otto anni fa, subito dopo la morte di Mattei, allorché cercammo di ricostruire tutte le mosse, gli incontri, i tempi della permanenza di Mattei in Sicilia. De Mauro allora fu incaricato di fare dei servizi su questo argomento ed io lo aiutai raccontandogli tutto quello che sapevo”;

Verzotto, nel 1970, era in “guerra aperta” con Eugenio Cefis per la storia del metanodotto: è stato detto più volte da Verzotto. In particolare al P.M. di Pavia l’8/11/1995 ha dichiarato “Con la morte di Mattei e l’avvento di Cefis, io sono stato gradualmente esautorato e quindi costretto a dimettermi. Io non ho mai avuto alcun rapporto con Eugenio Cefis, anche se la mia sensazione era di essere stato esautorato per avere calpestato interessi economici rilevanti. Circolava infatti voce che tutte le difficoltà frapposte dall’ENI alla realizzazione del metanodotto tra l’Italia e l’Algeria, di cui era l’ideatore e il presidente della società che avrebbe dovuto costruirlo, fossero dovute al fatto che c’era chi riteneva più sicuro e conveniente che il gas algerino fosse trasportato in Italia liquefatto in apposite metaniere. Si diceva anche che tali metaniere appartenessero ad una società che trasportava il metano alla stazione di rigassificazione di La Spezia, della SNAM, e che soci diretti o occulti di tale società fossero Cefis, Cazzaniga, Fornara e Girotti”.

Delle metaniere ha pure parlato Mario Pirani, il quale ha dichiarato che “Si parlò all’epoca di un grosso giro di interessi personali nella costruzione e nella gestione di tali metaniere”;

Verzotto aveva parlato con De Mauro del metanodotto: è stato dichiarato da Verzotto nella già citata intervista all’Ora, pubblicata il 23-24 ottobre 1970. Infatti vi si legge: “D. nelle dichiarazioni del prof. De Mauro si fa riferimento non soltanto alla morte di Mattei ma anche al contrastato progetto del metanodotto fra Algeria e Sicilia. In che termini ne parlò lei con Mauro De Mauro? R. Molto dettagliatamente ne parlai con il giornalista Marcelli che condusse l’anno scorso un’inchiesta per “L’Ora” su problemi economici siciliani. All’intervista partecipò Mauro. Anzi l’incontro avvenne proprio a casa sua durante una colazione. Come le ho già detto, con Mauro siamo da tempo in rapporti molto amichevoli ... C’è una inesattezza nelle dichiarazioni del fratello di De Mauro. Egli afferma che ultimamente io avrei abbandonato il progetto. E’ una notizia sbagliata, forse per una deformazione subita nella affrettata trasmissione mentre era in corso qui all’E.M.S. una riunione in cui si trattava anche di questo argomento. In verità l’EMS e io personalmente siamo come prima e più di prima impegnati fino in fondo nel progetto del metanodotto.”;

Verzotto aveva utilizzato De Mauro - con la verità su Mattei - per estromettere Cefis: riscontro indiretto è fornito da Verzotto nel proseguimento della citata intervista del 23 ottobre 1970, cioè un mese circa dopo il sequestro. Infatti Verzotto, alla domanda dell’intervistatore “se il progetto incontra ostacoli”, aveva risposto che “...C’è stata fino a qualche tempo fa un’opposizione dell’ENI che preferisce trasportare il metano algerino con le navi cisterna liquefacendolo ai porti di imbarco e rigassificandolo nei porti di arrivo, così come fanno le altre compagnie petrolifere. Ma ora l’atteggiamento dell’ENI è mutato e anche quello della ESSO italiana, per esempio. Insomma attorno a questa questione non può dirsi che vi sia in atto uno scontro così aspro e drammatico come c’era al tempo di Mattei fra l’ENI e le sette sorelle. In quel clima tutti i dubbi sulla morte di Mattei furono possibili. Il clima odierno non è da delitto”.

Con tale dichiarazione Verzotto aveva lanciato chiari messaggi, rassicuranti da un lato e ulteriormente intimidatori dall’altro lato, per indurre l’ENI e la ESSO a non ostacolarlo più;

Cefis, nel 1970, era stato oggetto di attacchi personali al fine di estrometterlo dall’ENI: tanto risulta da tutti i documenti ufficiali, dal tenore di tutta la presente relazione e, in ultimo, dalle dichiarazioni di Graziano Verzotto rese a questa p.g.;

Cefis non voleva la costruzione del metanodotto: la circostanza si evidenzia da sé. Inoltre l’ENI aveva una quota del 20% nella società incaricata della costruzione, acquisita - secondo Verzotto - proprio per sabotare dall’interno il progetto.

Inoltre, nel fascicolo dei Carabinieri di Palermo riguardante le indagini sulla scomparsa di Mauro De Mauro, vi sono due appunti sull’argomento “pista ENI” predisposti dal cap. Russo. Nel primo è annotato: “Contrasti tra ENI ed altra società metanodotto - B. 25.9.70” dove B. indica l’informatore, così come interpretato da Angelo Tateo, oggi colonnello dei carabinieri in pensione e all’epoca tenente e primo collaboratore di Russo. Nel secondo è annotato: “ Il Buttafuoco, ... , si ritiene sia stato incaricato di prendere contatti con la famiglia De Mauro al fine di accertare se e cosa di compromettente potesse avere il De Mauro. In tale ipotesi non si esclude che egli cercasse un qualche appunto relativo alla realizzazione di un metanodotto (Algeria-Palermo) della prevista spesa di 500 miliardi, la cui realizzazione starebbe particolarmente a cuore di “”Verzotto”” osteggiato da “”Cefis””(sostituto di Mattei, che avrebbe quale consulente il Guarrasi).”;

Anche il già citato Mario Pirani aveva riferito al P.M. di Pavia del voltafaccia di Cefis rispetto alla realizzazione del metanodotto che era stato progettato da Mattei, sia pure su un tragitto che non interessava la Sicilia;

La ricerca di De Mauro su Mattei si era innestata nel periodo di contesa per il metanodotto: anche tale affermazione si evidenzia da sé. Peraltro, nella più volte citata intervista a Verzotto pubblicata il 23-24 ottobre 1970, il giornalista, rifacendosi alle dichiarazioni di Tullio De Mauro, aveva messo in relazione il sequestro con la vicenda del metanodotto;

Verzotto aveva chiesto al presidente Mattei di andare ancora in Sicilia ed aveva organizzato il programma delle due giornate: è lo stesso Verzotto che, per la prima volta, ha “ammesso” la circostanza al P.M. di Pavia in data 8/11/1995. Infatti ha dichiarato: “D’Angelo mi incitò, con vive pressioni, a fare in modo che Mattei anticipasse il più possibile l’incontro con la popolazione di Gagliano Castelferrato, allo scopo - come egli mi aveva detto - di tranquillizzare la gente. Io riversai tale esigenza direttamente a Roma, non rammento se a Gandolfi, a Ruffolo (mio diretto superiore) o personalmente a Enrico Mattei. Non escludo comunque di aver potuto telefonare al presidente dell’ENI, nel suo ufficio, per rappresentargli tale esigenza. Le ribadisco che è certamente possibile che io abbia fatto tale telefonata e che anche a seguito di tale telefonata Mattei si sia indotto a tornare dopo pochi giorni in Sicilia. Ricordo comunque che solo pochi giorni prima del 26/10/1962 mi giunse da Roma la richiesta di organizzare la visita di Mattei a Gagliano Castelferrato per il 27/10/1962”;

De Mauro, con le notizie avute da Verzotto, si era imbattuto in Vito Guarrasi: è sempre Verzotto che ha confermato, sia pure indirettamente, la circostanza. Nel verbale delle sue dichiarazioni rese al P.M. di Pavia, in data 11/3/1996, si legge: “A.D. E’ vero che fui io a consigliare a De Mauro di recarsi dall’avvocato Guarrasi per avere utili informazioni circa la ricostruzione dell’ultimo viaggio di Mattei in Sicilia per conto di Rosi. ... De Mauro mi riferì poi che Guarrasi non gli aveva dato alcuna utile risposta. Lo stesso Guarrasi mi rimproverò per avergli mandato De Mauro in quanto si dichiarava contrario a tutte le interviste.”. Perché il rimprovero visto che era stato lo stesso Guarrasi che aveva invitato De Mauro (a una sua richiesta di incontrasi) e poi lo aveva congedato scusandosi per l’inutile visita, non avendo egli nulla da raccontare perché, il 26/27 ottobre 1962, Mattei non era andato a Palermo? E, perciò, il motivo di risentimento di Guarrasi doveva essere stato nell’argomento trattato dal giornalista. Infatti, appare strano che Verzotto, organizzatore del soggiorno di Mattei in Sicilia e, pertanto, a conoscenza del programma, avesse mandato De Mauro da Guarrasi che pure, almeno ufficialmente, non aveva avuto alcun contatto con il presidente dell’ENI. E’ evidente che invece un valido motivo per l’incontro ci doveva essere stato al punto che Guarrasi, consulente dell’E.M.S., lo aveva rimproverato.

E’ comunque lo stesso Guarrasi che fornisce una sua versione e che tenta di riversare sospetti su Verzotto in ordine alla morte di Mattei. Infatti ha dichiarato: “E’ assolutamente falso che il contatto tra me e De Mauro sia stato creato da Graziano Verzotto. ... E’ inoltre inverosimile che possa essere stato lo stesso Verzotto a consigliare a De Mauro di incontrarmi, per informarsi su circostanze relative al soggiorno di Mattei a Gagliano Castelferrato, in quanto egli, quale addetto alla pubbliche relazioni dell’ENI in Sicilia, non poteva non sapere che io non ero presente a Gagliano Castelferrato. Ritengo invece verosimile che a Gagliano Castelferrato fosse presente proprio Graziano Verzotto ...”;

E Verzotto aveva dichiarato che: “Al consiglio di amministrazione ritengo che non poteva non essere presente anche l’avv. Guarrasi, il creatore dell’ANIC-GELA ...”

Scambio di “cortesie” dalle quali emerge che uno dei due mente sul come è avvenuto l’incontro con De Mauro. Mattei, contrariamente al programma e alle varie ricostruzioni fatte sul suo ultimo viaggio, effettivamente era stato - quindi segretamente - a Palermo a una riunione alla quale poteva aver partecipato Vito Guarrasi: la prima parte dell’assunto risulta da diverse fonti. Ed è importante perché forse legata a Guarrasi; Questi, sentito all’epoca dal G.I. Fratantonio di Palermo e oggi dal P.M. di Pavia, ha voluto precisare di non aver incontrato Mattei in occasione del suo ultimo viaggio in Sicilia perché il presidente dell’ENI non era andato a Palermo. La prima fonte è costituita dal diario di Pompeo Colajanni, amico di Mattei dal periodo partigiano, nel quale è annotato l’esito dell’incontro con De Mauro in relazione alla ricerca in atto per conto di Rosi. Vi si legge: “Colloquio con D.M. sugli ultimi giorni di Mattei: 26-27 ott. 62. ... D.M.: ho fiducia solo in te ed in Verzotto ... Andai con jet l’indomani con Mattei da Gela a Palermo”. Tali appunti sono importanti perché provano che De Mauro, contrariamente a quanto asserito dalla polizia, si stava interessando del possibile attentato a Mattei. Inoltre indicano che De Mauro, per ciò che concerneva la ricerca su Mattei, si fidava solo di Verzotto e di Colajanni. Vi sono poi le dichiarazioni rese da Campelli Mario, all’epoca capo del personale di Gela, il quale ha riferito che: “Ho anche memoria del fatto che Mattei venne raggiunto a Gela da alcuni politici palermitani, tra i quali Verzotto e D’Angelo, per poi spostarsi a Palermo per una riunione politica”. Vi sono ancora le intercettazioni telefoniche eseguite da questa P.G. sull’utenza in uso a Verzotto. Il giorno 4/11/1995 la moglie Nicotra Mary, parlando con una donna sconosciuta racconta dell’ultimo viaggio di Mattei in Sicilia. Durante la conversazione Nicotra dà per scontato il viaggio di Mattei a Palermo. In ultimo, sul giornale “Le Ore della settimana” del quale si è già detto, in un articolo ricattatorio ed intitolato “Mattei è stato ucciso”, compare la seguente indicazione “Negli ultimi due giorni di vita di Enrico Mattei c’è un vuoto di poche ore. In quelle poche ore c’è la spiegazione della tragedia di Bascapè. Sono poche ore che Enrico Mattei trascorse a Palermo, la città dove è scomparso De Mauro ...”. Vito Guarrasi, proprio il 26 ottobre 1962, apparentemente era stato estromesso completamente dall’ENI a richiesta di Giuseppe D’Angelo: che Mattei sapesse benissimo chi era e cosa rappresentava in Sicilia Vito Guarrasi, a “libro paga” dell’ENI quale consulente, è desumibile, oltre che dalla logica, anche dalle dichiarazioni rese in merito da Raffaele Girotti (vice presidente ENI con Mattei e successivamente con Cefis), il quale aveva mantenuto Guarrasi come consulente ENI anche nel corso della sua presidenza: “Ho conosciuto naturalmente Vito Guarrasi ... Non sono a conoscenza del motivo per cui Mattei lo aveva estromesso dall’ENI ma a titolo personale avevo pensato che ciò fosse avvenuto in seguito alle voci contrastanti che circolavano su Guarrasi e che lo davano come appartenente alla mafia o contiguo alla mafia o comunque con collegamenti con la mafia.” Quindi secondo Girotti, che non era un dirigente qualsiasi all’ENI, Guarrasi era stato effettivamente estromesso dall’ENI. Sulle motivazioni sarebbe quasi superfluo fare commenti: sono palesemente reticenti perché semmai è vero l’inverso e, cioè, che Guarrasi era divenuto consulente dell’ENI (come di tutte le società più importanti in Sicilia e a livelle nazionale) proprio perché “contiguo” alla mafia. Cenno dell’estromissione di Guarrasi dall’ENI su pressione di Giuseppe D’Angelo si trova inoltre in due documenti. Il primo è la più volte citata relazione della commissione antimafia, mentre il secondo è un appunto riservato predisposto dal questore Angelo Mangano il 10/11/1970. Di fatto Guarrasi aveva dato le dimissioni dal consiglio di amministrazione dell’ANIC - Gela nel 1960, e lui stesso le aveva poste in relazione alle “pressioni del presidente della Regione”; Infine Verzotto ha dichiarato al P.M. di Pavia che “Ho saputo che Guarrasi era stato allontanato dal consiglio di amministrazione dell’ANIC-GELA soltanto a cose avvenute...” Premesso che il motivo di attrito tra D’Angelo e Mattei era stato il rapporto dell’ENI con Guarrasi, e nell’ipotesi che Guarrasi (come chiaramente emerge dalla sua biografia) fosse diventato consulente dell’ENI quale rappresentante della mafia, è possibile ipotizzare che Mattei lo avesse estromesso completamente senza comunicarglielo personalmente? E poteva Mattei attendere che Guarrasi venisse informato di tale grave decisione da altri? Quindi il fatto che Mattei, come pare, fosse andato a Palermo, fornisce una possibile risposta ai due interrogativi appena formulati.

Quanto al ruolo di Guarrasi quale rappresentante della mafia, va aggiunto quanto detto da Verzotto e, cioè, che “Lo stesso D’Angelo, fiero avversario di Guarrasi e mio successore all’E.M.S., è ricorso alla collaborazione di Guarrasi”;

Il 14/9/1979, due giorni prima del sequestro, De Mauro aveva avuto un fugace incontro con Verzotto: è lo stesso Verzotto a dichiararlo, oltre che ai giudici di Palermo, al P.M. di Pavia, aggiungendo però a quest’ultimo magistrato l’importante elemento riguardante il copione in possesso di De Mauro e mai ritrovato. Incontro che inizialmente aveva taciuto agli inquirenti e che era emerso dalle dichiarazioni dei familiari del giornalista. Infatti, come già precedentemente detto, Elda e Junia De Mauro avevano dichiarato che Mauro aveva fatto a loro la confidenza di una grossa scoperta su un presidente, proprio al ritorno dall’E.M.S. del 14/10 e a seguito della domanda fattagli da Elda sul come era andato l’incontro con Verzotto.

I sequestratori avevano interrogato su De Mauro per sapere cosa aveva scoperto su Mattei e se aveva dei documenti a tale riguardo: tale affermazione trova conforto in quanto detto precedentemente su Antonino Buttafuoco e sugli elementi utilizzati per il suo arresto, oltre che dall’esame obiettivo della dinamica del sequestro;

Il sequestro era servito anche a spaventare Graziano Verzotto: questa teoria, che è coerente con tutto quanto detto fino ad ora, era stata proposta come veritiera da Antonino Buttafuoco. Nel diario di Junia De Mauro risulta la seguente annotazione al giorno 29/9/1970: “Quindi, spontaneamente, fece (Buttafuoco) un’ipotetica ricostruzione del movente del sequestro, precisando che avrebbe usato i nomi dei presenti a mo’ d’esempio: “Nino Buttafuoco dice una cosa a Mauro. Mauro fa capire a un altro di sapere questa cosa. Questo fa rapire Mauro per sapere cosa Nino Buttafuoco gli abbia detto, e per mettere paura a Nino Buttafuoco.” Ribadì che quell’esempio, nomi a parte, rispecchiava la realtà.” E’ sufficiente sostituire i nomi con quelli di Guarrasi e Verzotto per dare un senso compiuto alla “verità” di Buttafuoco; Comunque Verzotto aveva dato un grosso contributo ad ostacolare le indagini sul sequestro De Mauro, dichiarando, prima alla stampa e poi ai carabinieri di Palermo, che a “suo avviso” Mauro De Mauro era stato sequestrato per motivi di mafia e droga. E, vedi il caso, tale dichiarazione alla stampa era stata fatta in occasione dell’intervista, pubblicata da “L’Ora” il 23-24 ottobre 1970, con la quale Verzotto aveva ribadito la sua volontà di proseguire nel progetto del metanodotto, “non più ostacolato” dall’ENI e dalla ESSO. Ciò consente di stabilire che Verzotto poteva essere solo spaventato e non era possibile prendere provvedimenti più drastici nei suoi confronti. Perché? Ancora una volta la risposta la fornisce lo stesso Verzotto, con una intervista concessa ad un giornalista del “Corriere della Sera” (pubblicate il 22/6/1975) mentre era latitante a Beirut per i fondi neri dell’E.M.S.. L’articolo era intitolato “Verzotto in Libano ha paura - ‘Non hanno rinunciato a uccidermi’. Il testo conteneva dei riferimenti interessanti per l’argomento ora trattato. Verzotto aveva detto di aver rilasciato una intervista registrata ad un giornalista romano a casa di De Mauro ed aveva aggiunto “Chissà che fine ha fatto (il nastro) forse conteneva spunti interessanti”. E il giornalista, nel proporre la rassegna “di alcuni nomi, alcune situazioni che in ipotesi potrebbero aver congiurato contro De Mauro prima e contro di lei dopo”, aveva ‘gettato’ un nome (senza indicarlo nell’articolo) spesso ricorrente a Palermo “tutte le volte che è sorta una occasione per fare della fantapolitica in chiave di giallo” . Verzotto aveva risposto “Secondo me quello non c’entra però consiglierei un’assicurazione sulla vita a chiunque si trovasse a tagliargli la strada”. Il nome fatto dal giornalista era quello di Vito Guarrasi.

Verzotto aveva riproposto, come nel 1970, messaggi occulti (ma neanche tanto) nei confronti dei suoi amici/nemici: rassicurazioni da un lato e minacce dall’altro. Ecco quindi: partita e contropartita giocata dopo e a causa del sequestro De Mauro e basata su un segreto riguardante Enrico Mattei. A proposito di velate minacce ed assicurazioni sul mantenimento del segreto, altro elemento che comprova il ruolo attribuito da questa p.g. a Verzotto nel sequestro De Mauro, è costituito dalle “attenzioni” poste dai carabinieri proprio nei confronti del presidente dell’E.M.S.. Infatti, mentre nell’ottobre del 1970, con l’intervista a “L’Ora”, Verzotto aveva “richiesto” la prosecuzione del progetto metanodotto ed aveva tranquillizzato i mandanti del sequestro De Mauro spostando l’attenzione su una pista irrilevante, nel 1971 i carabinieri avevano “sentito a verbale” Graziano Verzotto per ribadire la pista droga, utilizzata come base del rapporto consegnato in Procura personalmente dal colonnello Dalla Chiesa. A cosa serviva se non a mantenere Verzotto fermo su tali posizioni? Tale interpretazione emerge dalle dichiarazioni del g.i. Fratantonio: nella copia di un articolo giornalistico, rinvenuto a Genova nel fascicolo processuale contro Saladino Giuliana, per diffamazione a mezzo stampa in danno del procuratore Pietro Scaglione, firmato da Zullino e Pietroni (e pertanto potrebbe essere il settimanale “Epoca” degli anni 1971 o 1972), in una intervista il giudice aveva dichiarato che “La mia istruttoria (sul caso De Mauro) è stata disturbata con gli espedienti più strani. Hanno detto e continuano a dire, per esempio, che il procuratore capo Scaglione mi nascondeva un rapporto dei carabinieri che attribuiva la morte di De Mauro ai trafficanti di droga. Ecco un tipo diversivo di stampo mafioso, inventato e diffuso a Roma. Scaglione mi dette subito quel rapporto ma era un documento meno significativo del rapporto che aveva potuto fornirmi la polizia.” Ancora, a verbale, lo stesso giudice ha dichiarato che “Mi destò molte perplessità il comportamento tenuto dai carabinieri e dal generale Dalla Chiesa in alcuni momenti dell’indagine. Ricordo in particolare che il col. Dalla Chiesa assunse direttamente a verbale Graziano Verzotto. Il comportamento dell’ufficiale era assolutamente anomalo perché era un’ingerenza nell’istruttoria in corso. In seguito io disposi un confronto tra Verzotto e Giuseppe Di Cristina, detenuto per altra causa. Sul luogo del confronto comparve inopinatamente e non invitato il capitano Giuseppe Russo. ... Il cap. Russo, dopo alcuni giorni nel mio ufficio, mi fece presente che il col. Dalla Chiesa era rimasto “impressionato” del fatto che io avessi disposto il confronto tra Verzotto e Di Cristina e mi chiese anche l’esito di tale confronto. ... Oltre all’intervento non autorizzato di Dalla Chiesa nella mia indagine, mi stupì anche la mia richiesta di informazioni avanzata dal cap. Russo ...”

Sull’interrogatorio di Verzotto da parte di Dalla Chiesa, anche l’allora cap. dei CC Amara Angelo ha fatto delle dichiarazioni al P.M. di Pavia: “... nel 1971 il colonnello Dalla Chiesa mi aveva chiesto di procurargli un incontro con Verzotto, al fine di ottenere informazioni sulla scomparsa del giornalista De Mauro. ... Interrogava il colonnello Dalla Chiesa. Il senatore Verzotto ci aveva preliminarmente rappresentato che lui doveva continuare a vivere con i siciliani e quindi non poteva sbottonarsi più di tanto. ... Non so di preciso quali idee avesse il generale Dalla Chiesa in merito al sequestro De Mauro, ma so che era convinto che Verzotto non avesse nulla a che fare con la scomparsa del giornalista.” Quindi è plausibile che i carabinieri fossero convinti che Verzotto, suo malgrado, sapeva tutto e, pertanto, era in serio pericolo di vita. Il quadro che emerge dall’antefatto rappresenta Graziano Verzotto in duplice e doppia veste:

quale presidente dell’EMS, alleato ed avversario dell’ENI, con Guarrasi in veste di consulente di entrambe le aziende;

a titolo personale, nemico di Cefis e Guarrasi dai quali si era difeso minacciandoli, ma concretamente coprendoli, su quel “qualcosa” riguardante il “caso Mattei”.

Infatti Verzotto non aveva mai perso occasione, dal 1970 ad oggi attraverso le dichiarazioni ai magistrati e - soprattutto - alla stampa, di puntare l’indice su Cefis e Guarrasi, sia pure in modo molto indiretto e interpretando al meglio la tradizione siciliana di parlare attraverso messaggi cifrati. Sul delitto De Mauro Verzotto sa tutto. Tanto emerge, oltre che dal ruolo oggettivamente avuto nelle due situazioni, anche dalle sue contraddizioni e reticenze precedentemente segnalate. Sembra che voglia aiutare gli attuali inquirenti, ma si sente costretto a negare o depistare se posto di fronte a precise domande le cui risposte potrebbero seriamente colpevolizzarlo agli occhi di Guarrasi e Cefis. In occasione del suo terzo incontro a Pavia con il P.M., durante il quale era stato affrontato dettagliatamente l’argomento De Mauro, aveva dichiarato: “Subito dopo la morte di Mattei io ero fermamente convinto che l’aereo fosse stato abbattuto. Cambiai opinione dopo aver letto copia della relazione predisposta dalla Commissione Ministeriale di Inchiesta. ... Se attentato vi è stato nella morte di Mattei, ritengo di poter escludere che possa essere ragionevolmente ascrivibile all’O.A.S. francese o alle ‘Sette Sorelle’. L’unica ipotesi valida che può essere formulata può essere quella del "cui prodest.”. Ovvero Eugenio Cefis. In sostanza esclude personalmente l’attentato (si defila) ma poi interpreta correttamente (almeno, alla luce delle attuali indagini su Mattei) l’evento se ritenuto delittuoso. L’intervista pubblicata il 23-24 ottobre 1970 su “L’Ora” di Palermo deve essere ritenuta fondamentale per comprendere il tutto: basta leggerla correttamente. Infatti, isolando le frasi rilevanti emerge quanto segue: con De Mauro “ parlammo a lungo e come otto anni fa cercammo di ricostruire tutte le mosse, gli incontri, i tempi della permanenza di Mattei in Sicilia (minaccia: ricordatevi quello che so) ... non mi sentirei ora di sottoscrivere una dichiarazione affermante che la morte di Mattei fu un assassinio (tranquillizza: per ora non parlo). Ma neanche mi sentirei di sottoscrivere che fu certamente una disgrazia (minaccia: se non fate quello che voglio allora parlo). Ma torniamo al metanodotto. ... l’EMS e io personalmente siamo come e più di prima impegnati fino in fondo nel progetto del metanodotto (ecco quello che voglio). ... Il progetto incontra ostacoli? Si senza dubbio ... C’è stata fino a qualche tempo fa una opposizione dell’ENI ... Ma ora l’atteggiamento dell’ENI è mutato e anche quello della ESSO, per esempio (è l’ENI che deve fare quello che voglio e deve coinvolgere anche la ESSO). L’intervista si chiude con il passaggio spontaneo di Verzotto dall’argomento metanodotto a quello della droga, dicendosi convinto che De Mauro è stato sequestrato per tale ultimo motivo (tranquillizza definitivamente: indica un’alternativa possibile alla pista ENI).

Le tante, troppe voci su Liggio. La Repubblica il 06 ottobre 2020. Il nome dell’ipotetico mandante del sequestro di Mauro De Mauro non costituisce, a questo punto, una sorpresa. Esso infatti potrebbe essere stato proprio il plurinominato Vito Guarrasi per conto di Eugenio CEFIS (oltre che per se stesso). E tanto risulta non perché questa polizia giudiziaria abbia svolto delle specifiche indagini nei suoi confronti, ma perché emerge esclusivamente dalla raccolta degli elementi che lo riguardavano e che erano già conosciuti nel 1970. Questa p.g. si è limitata al tentativo - parzialmente riuscito - di “recuperare” alcuni importanti indizi che sono “andati perduti” all’epoca delle indagini, evidentemente nell’ambito dei citati depistaggi. Così è avvenuto per i rapporti ante sequestro intercorsi tra Buttafuoco e Vito Guarrasi. Così è avvenuto per una “misteriosa telefonata” fatta da Guarrasi a Buttafuoco, della quale tutti i giornali avevano parlato, senza che se ne sia trovata traccia agli atti della procura e della polizia. E, infine, così è avvenuto per le notizie apparse sulla stampa nazionale che avevano dato per imminente l’arresto di Guarrasi, senza che - nuovamente - vi sia la minima traccia di indagini sul suo conto, tanto nel fascicolo della procura quanto in quello della polizia. Il nome di Vito Guarrasi, nonché il suo coinvolgimento nel sequestro di Mauro De Mauro, era emerso percorrendo la strada conducente alla pista “ENI/Mattei”, partendo proprio dall’arresto di Antonino Buttafuoco. Questi aveva agito non di propria iniziativa ma per conto di qualcuno. E questo qualcuno non poteva che essere Vito Guarrasi, almeno così aveva concluso la polizia. Per introdurre la complessa ricostruzione degli elementi che erano stati individuati a carico di Vito Guarrasi, pare opportuno iniziare con un ampio stralcio del libro, di Giuliana Saladino, “De Mauro - MAFIA ANNI 70”, che era stato pubblicato nel 1972. E’ un libro-diario retrospettivo che ricostruisce gli avvenimenti palermitani dell’epoca, ponendo in primo piano il sequestro di Mauro De Mauro e le indagini sviluppate da polizia e carabinieri. L’opera è permeata di ironia indirizzata verso tutte le pubbliche istituzioni che si sono interessate del caso di Mauro De Mauro. Inizia, naturalmente, il 16 settembre e termina il 31 dicembre 1970. Di seguito si riportano le parti ritenute più significative perché ricostruiscono, in modo semplice ma efficace, quanto era emerso sul conto di Vito Guarrasi. E’ una versione dei fatti che trova, nelle attuali indagini, obiettivo riscontro anche nei casi messi in forma dubitativa dall’autrice: “12 novembre - ... La strada in salita che porta in alto, di cui ha parlato con bella immagine il presidente dell’antimafia, non è maestra, piuttosto un sentiero tortuoso e ripidissimo ... E’ la strada che porta al signor X? La polizia dice di si. E che pista è? Forse è Mattei, ma notizie fuggite da chi sa dove - dalla questura è probabile - fanno pensare a un audace triangolo: Buttafuoco, Liggio, il signor X. In base a che? Dicerie, mezzi accenni, mezze frasi. Alla polizia tira aria di fiducia, di sicurezza, e il questore afferma “siamo in navigazione, quando si è in mare è difficile valutare le distanze, l’obbiettivo comunque lo vediamo.” Il capo della squadra mobile cela a stento un sorriso furbesco, è euforico, i cronisti che lo incontrano lo definiscono “frizzante”. Saltano fuori intanto voci di sospette telefonate fatte da Buttafuoco, salta fuori che Buttafuoco appena arrestato temette che lo stesse sequestrando un commando travestito da poliziotti, che Buttafuoco andò a trovare il bandito Liggio in clinica. Dicerie, notizie confuse e contraddittorie fanno il giro della città che sente salire la febbre a quaranta in attesa di clamorosi imminenti arresti....Intanto, prima cautamente, poi con particolari più precisi, poi con dettagli, con date, con riferimenti netti - tutto fuorché un nome - in questi giorni si compone pezzo per pezzo, soprattutto sui giornali del Nord, un’intera biografia - con tante lacune, si sa così poco di lui -, infine il signor X acquista contorni precisi, esce come una farfalla da un bozzolo lungamente covato: è l’avvocato Vito Guarrasi....Lo ha perduto una telefonata. Da Parigi ha chiamato Buttafuoco e hanno parlato di De Mauro, questa la notizia precisa nei dettagli, anche se non confermata. Se confermata non si capisce bene cosa resterebbe del potente dell’astuto dell’insospettabile mandante del sequestro che parla al telefono del colpo con il compare e si lascia beccare come l’ultima mezza tacca. Ma non c’è solo la telefonata, la polizia ha certamente tutto in mano. Fulmineo, prima ancora che arrivi in edicola a Palermo, Guarrasi querela il settimanale che per primo osa fare il suo nome, passerà poi a querelare tutti coloro che più o meno velatamente hanno accennato. Palermo è a rumore. La psicosi del colpo di scena si diffonde e accentua. Ora lo arrestano. Che pista è? Mattei, la droga, l’edilizia, il segreto tributario? Pista Mattei. Che si dissero Guarrasi e Buttafuoco per telefono? La polizia sa tutto e l’euforia monta. Valanga di ipotesi avanzate e vagliate, cui manca solo quella giusta: che non è vero niente, che Guarrasi e Buttafuoco per telefono non hanno mai parlato, né da Parigi né da Palermo, che la squadra mobile regge tra le mani un granchio colossale, con chele dal morso velenoso. 13 novembre - Alla procura della repubblica il rapporto di polizia col grosso nome nero su bianco, con Guarrasi tirato fuori allo scoperto, è atteso di ora in ora. Cronisti, inviati speciali, fotografi e corrispondenti di agenzie attendono fin dal mattino. Alle dodici ancora nulla, né all’una, né alle due. Delusione. Niente nel tardo pomeriggio, la squadra mobile non invia il rapporto già annunciato da una settimana, i CC si fregano le mani. Che accade? Il questore si chiude in difesa, il capo della mobile nega di avere mai tirato fuori un signor X. Sconcertante. Signor questore, è vero che state indagando su Guarrasi? “Noi stiamo indagando su tutto ... Non possiamo dire niente, può darsi che qualcuno ha fatto un grosso errore...” Sconcertante. Intorno al corpo scomparso di Mauro De Mauro si è aggrovigliato un giallo politico a vasto spettro che abbraccia dai servizi segreti internazionali alla banda di Alcamo, dallo spionaggio industriale al bandito Liggio, da cosa nostra ai ricatti della classe dirigente siciliana. Intorno al suo nome - l’unica cosa che resta - il turbinare di interessi del capitale pubblico e di quello privato, i colossi ENI e Montedison, la vendetta di fazioni e di correnti, gli imbrogli del rinnovo delle cariche regionali. Ora il solo suo nome serve a mettere paura e a ricattare ...” 25 novembre - ... Sempre in questi giorni è stato annunciato ed atteso un rapporto dei carabinieri: è quello appunto che in tutta solennità il colonnello Dalla Chiesa, accompagnato dai suoi ufficiali, consegna stamane alle 11 al procuratore capo Scaglione col quale si intrattiene in breve colloquio ed esce dalla porta di servizio per non incontrare i cronisti affamati di notizie e tenuti a stecchetto da tanto. 30 novembre - ... Lasciando i discorsi in generale, si avanza in particolare l’ipotesi che nelle indagini sul caso De Mauro quel che più è mancato e manca tuttora alle polizie - granchi a parte - è la copertura alle spalle: una copertura che né la procura né la classe dirigente politica hanno inteso o intendono minimamente assicurare a chi si avventuri sulle strade in salita che portano molto in alto.” In buona sostanza, il racconto della Saladino riepiloga l’essenza dei fatti riportati nel presente documento. Per esempio, come non pensare subito all’intervento del direttore del S.I.D. di fronte al voltafaccia del questore Li Donni? Essendo la “vicenda Guarrasi” molto complessa, perché è stato necessario “scoprire” quali elementi aveva la polizia sul conto dell’avvocato, si ritiene opportuno fissare i seguenti argomenti, fornendo le relative fonti di prova:

Guarrasi aveva avuto rapporti con Buttafuoco?;

era veramente intercorsa la telefonata tra i due?;

Guarrasi stava per essere arrestato dalla polizia?;

Sospetti, querele e giochi pericolosi. La Repubblica il 07 ottobre 2020. Vito Guarrasi, dal novembre 1970, aveva querelato tutti i giornalisti che avevano scritto di lui quale “signor X”. Aveva iniziato con Mario Pendinelli e Arrigo Benedetti, il primo cronista e il secondo direttore del settimanale “Il Mondo”, per un articolo pubblicato il 15/11/1970 ed intitolato “Dossier Nero ‘(Mafia e Politica)’ Gli assassini e i ricattatori”, con il quale si era data per certa l’esistenza di una telefonata compromettente intercorsa tra l’avvocato e il rag. Buttafuoco.

In sostanza l’avvocato Guarrasi, alle accuse di essere il mandante del sequestro De Mauro, di essere il signor X, di avere telefonato - forse da Parigi - a Buttafuoco, di avere incaricato Buttafuoco di verificare presso la famiglia De Mauro cosa avesse scoperto Mauro, si era difeso in maniere semplice dichiarando al processo contro Pendinelli: “non ho mai avuto rapporti con Buttafuoco, lo conoscevo solo di vista”. Ma quanto asserito dall’avvocato Guarrasi non pare che corrisponda a verità. Infatti, tali rapporti erano stati ritenuti scontati da parte di: Angelo Mangano, questore, il quale con “l’appunto riservato”, datato 10/11/1970, riguardante Vito Guarrasi e che la questura aveva negato di aver mai ricevuto, aveva comunicato che “Il Buttafuoco era legato al Guarrasi in quanto entrambi avevano una particolare amicizia con il noto Salafia Emilio, ex campione olimpico di scherma, che frequentemente alloggiava dal Guarrasi. Erano così stretti i legami di amicizia tra Guarrasi e Buttafuoco che un giorno quest’ultimo ospitò, nel tempo in cui era ricercata dalla polizia, la signora Ugonj, cugina del Guarrasi, ospitalità sollecitata da parte di quest’ultimo”. Costituisce un riscontro indiretto alle affermazioni di Mangano il fatto, accertato nel corso della perquisizione presso lo studio di Buttafuoco dopo il suo arresto, che gli Hugony, i cugini di Guarrasi, erano risultati essere tra i clienti dello stesso Buttafuoco. Pietroni e Zullino, i due giornalisti che, più di ogni altro collega, si erano interessati del sequestro De Mauro. Nei loro appunti compare la seguente frase: “Da notare incidentalmente che Buttafuoco era vecchio amico e aiutante di Guarrasi”. Mario Pendinelli, il querelato, che con una lettera datata 30/9/1971, aveva comunicato al proprio avvocato Ludovico Isolabella di aver saputo da Pietroni che, nel corso di una intervista, “Buttafuoco gli ha detto di conoscere Guarrasi dai tempi in cui quest’ultimo non era ancora tanto importante e noto”. Graziano Verzotto, il personaggio sicuramente più attendibile sulla questione, ha riferito a questa P.G. che i rapporti in questione erano esistenti di sicuro.

Commissione parlamentare antimafia - VI legislatura - nella propria relazione finale. Quindi tutti davano per scontati i rapporti fra Guarrasi e Buttafuoco anche se concretamente risulta arduo poterlo dimostrare per effetto, forse, della banalità della circostanza. Era intercorsa la telefonata? Guarrasi stava per essere arrestato? Che ne fossero tutti convinti, fra gli addetti ai lavori, lo si desume dalla rassegna stampa dell’epoca. In buona sostanza tutti i giornalisti che erano massicciamente presenti a Palermo e, in particolare, nei paraggi della squadra mobile, avevano “arguito”, dalle parole ed indiscrezioni del questore Li Donni e del capo della mobile Mendolia, che tra Buttafuoco e Guarrasi era intercorsa una telefonata riguardante le sorti del giornalista.

21.10.70 LA STAMPA. Ecco uno dei misteri legati ad un nastro. Altri nastri testimonierebbero di strane telefonate del ragioniere. Telefonate "in codice" dirette anche all'estero (si dice a Parigi).

21.10.70 IL GIORNO. COMPROMETTENTI LE TELEFONATE DEL PROFESSIONISTA. Le sue conversazioni via filo sono state registrate. La polizia, dunque, ha raccolto indizi di sicura consistenza. Ma fino a che punto discutibili, anche se gravi, indizi e da che punto prove? Si parla soprattutto di conversazioni telefoniche pazientemente registrate, conversazioni con due interlocutori: con i familiari di De Mauro e con "altri". Con i De Mauro discorsi nei quali via via le abili e suggestive allusioni cedevano progressivamente alle notizie certe, alle proposte. Con "gli altri" discorsi facilmente intuibili ed è in queste altre parole che dovrebbe esserci , se c'è , la verifica, la controprova della malizia e del dolo che sono stati riscontrati nelle conversazioni con i De Mauro.

21.10.70 CORRIERE DELLA SERA. Una parte importante nel capitolo Buttafuoco ce l'ha il telefono. La polizia, messa sull'avviso dalla famiglia De Mauro, avrebbe provveduto a controllare tutte le telefonate del Buttafuoco, sia quelle dirette alla famiglia De Mauro, sia quelle tra lui ed altre persone. Da queste telefonate , appunto, sarebbe nata la convinzione che il Buttafuoco, come ha detto il giudice Saito, sia "infilato fino al collo nel sequestro De Mauro". Questo controllo telefonico data dai primi giorni della scomparsa del giornalista, ma la polizia avrebbe atteso tanto tempo per l'arresto allo scopo di avere indizi più precisi, elementi più probanti. Ieri finalmente questi indizi sarebbero stati sufficienti , e subito dopo, la perquisizione sia nello studio che nell'abitazione dell'arrestato.

07.11.70 LA STAMPA. Il nome scritto nel rapporto della Polizia potremmo collocarlo in alto come in basso. Forse è l'uomo che è stato messo nei guai da una registrazione telefonica, l'unica, sembra, veramente pericolosa ottenuta ponendo sotto controllo l'apparecchio del cavaliere.

10.11.70 RESTO DEL CARLINO. "Quello - dice - è un uomo accortissimo e per parlare di lui gli indagatori devono avere il mandato di cattura già pronto. Ora, se questo è vero, il nostro se ne starà già chissà dove, al sicuro". Parliamo di lui, del misterioso interlocutore telefonico di Buttafuoco a Parigi, per un buon quarto d'ora. sarebbe meglio dire che parla lui, Pantaleone, che è un uomo molto diverso ... "Comunque se questa telefonata con Buttafuoco c'è stata - gli dicevamo - e se essa prova che il "signor X" era in qualche modo a contatto con chi sa molte cose sul sequestro, non dovrebbe essere difficile verificare la sua posizione. Per quanto potente egli possa essere, la polizia ha titoli per inquisire chiunque. perché non l'ha ancora fatto?"

10.11.70 IL MESSAGGERO. Non basta la registrazione della telefonata? Si deve pensare di no, perché questo elemento dovrebbe essere in mano alla polizia sin da quindici giorni prima dell'arresto di Buttafuoco. Se non è stato considerato sufficiente a giustificare un ordine di cattura è segno che il magistrato vuole qualcosa di più.

14.11.70 l'ORA 2^ edizione. Si è parlato fin da quando venne arrestato Buttafuoco di strane telefonate sue a Parigi, nei giorni scorsi si fece circolare la voce che l'interlocutore all'altro capo del filo fosse una persona ben identificata. Logico quindi accomunare tutti e due nella responsabilità: però Buttafuoco è all'Ucciardone, l'altra persona no. E ciò vuol dire che la telefonata non era per niente compromettente, o non lo era abbastanza. Del resto un nostro cronista il giorno successivo all'arresto di Nino Buttafuoco, andò a parlare coi familiari dell'arrestato, e questa telefonata a Parigi non venne nascosta: al cronista fu riferito che Buttafuoco aveva parlato, cercandolo in un locale notturno, con un suo cliente, un principe palermitano, assai per il suo ruolo nelle file del separatismo monarchico. Questa telefonata parigina fece muovere un alto funzionario della polizia italiana specializzato in malavita francese, il quale fu spedito di gran fretta oltre confine. I risultati della missione ci sono ignoti, ma non devono essere granché producenti all'indagine visto che non se n'è parlato. I fili del telefono, peraltro, costituiscono le maglie della rete nella quale s'è ammagliato Buttafuoco e con la quale s'è tentato da parte della polizia di catturare altri. La vicenda giudiziaria del commercialista di via Ruggiero Settimo è, praticamente, tutta una telefonata . E ci sarà un bel da fare per i periti - se mai si arriverà in corte di Assise, o solo ad un rinvio a giudizio - per tentare di attribuire un nome ad ogni voce, o almeno separare le voci note da quelle sconosciute.

15.11.70 "IL MONDO". E' Buttafuoco l'uomo incaricato di prendere contatto con Liggio? Il cavaliere è stato incauto. Ha insospettito la famiglia De Mauro e, mentre aveva il telefono controllato dalla polizia, ha fatto - ecco una nuova indiscrezione importante - una telefonata compromettente, chiamando l'avvocato Vito Guarrasi.

Dal citato breve spaccato della rassegna stampa, che va dal 20 ottobre al 15 novembre 1970, si rilevano alcuni riscontri al racconto fatto dalla Saladino nel suo libro/diario. Questa, come già esposto, aveva condensato tutta la vicenda al 13 novembre 1970, giorno in cui il questore Li Donni e il capo della mobile Mendolia avevano fatto “indietro tutta”. Le date sono importantissime perché strettamente legate, sia all’intervento del direttore del S.I.D., che al “cambio d’abito” di Boris Giuliano: tali circostanze sono state infatti collocate, da Ugo Saito e Elda De Mauro, ai primi di novembre 1970. Peraltro emerge che alcuni giornalisti avevano confuso la telefonata Guarrasi/Buttafuoco con i colloqui e le telefonate Buttafuoco/famiglia De Mauro. L’articolo che appare più “lucido” è quello de “L’Ora” di Palermo, chiaramente in difesa di Guarrasi. A questo punto si può cominciare a trarre qualche conclusione: se effettivamente la polizia, intercettando le utenze in uso a Buttafuoco, aveva registrato una telefonata intercorsa con Guarrasi e durante la quale - sia pure con frasi criptiche - era stato affrontato l’argomento del sequestro De Mauro, con consigli o disposizioni a Buttafuoco su come comportarsi con la famiglia De Mauro, devono ritenersi del tutto giustificate le ventilate ipotesi di arresto per Guarrasi. Le recenti dichiarazioni rese da Bruno Contrada e dal maresciallo Zaccagni, nonché l’acquisizione dei fascicoli relativi all’indagine parallela su Vito Guarrasi, confermano in via definitiva l’assunto secondo il quale Guarrasi stava per essere arrestato: era stato lui il bersaglio delle investigazioni “speciali” del questore Li Donni, per risalire poi a Cefis e a Fanfani.

Le soffiate alla stampa su “Mister X”. La Repubblica l'8 ottobre 2020. E’ quindi vero che il questore Li Donni aveva fatto capire ai giornalisti, in occasione della conferenza stampa del 2/11/1970, alla quale era presente pure il capo della polizia Vicari, che “mister x” era Vito Guarrasi? E aveva fatto inoltre capire che questi stava per essere arrestato? La risposta è inequivocabilmente si. Ecco le fonti di prova, in aggiunta a quanto scritto da tutti i giornalisti, che smentiscono Ferdinando Li Donni: questi aveva negato le circostanze di cui sopra nel corso della sua audizione al processo milanese Guarrasi/Pendinelli ma, per contro, aveva confermato che “Alla fine di una cordiale comunicazione con i giornalisti fu mia la battuta di trattenere i giornalisti a non andar via perché vi era un colpo grosso”. Mario Pendinelli e Giampaolo Pansa, sentiti da questa polizia giudiziaria, hanno inequivocabilmente attribuito al questore Li Donni l’identikit di “mister x”. Di più, Pendinelli ha altresì attribuito a Francesco Cattanei, l’allora presidente della commissione antimafia, che durante il dibattimento nel “suo” processo a Milano non aveva voluto nominare per non creargli imbarazzo, delle rivelazioni - provenienti dalla questura - circa le indagini in corso su Vito Guarrasi e sulla “clamorosa svolta”. come già detto, il capo della mobile e Bruno Contrada, il 12 ottobre 1970, avevano sentito, presso la sua abitazione, Vito Guarrasi. Del colloquio non era stato fatto un verbale, ma ne esiste una registrazione audio. Sull’etichetta del relativo nastro è scritto “12/X/1970 ore 20 - 20,30 conversazione tra Mendolia e X”. Pertanto doveva essere stata la polizia - e non i giornalisti - ad inventare il termine “mister x” per indicare Vito Guarrasi, perché la stampa aveva iniziato a parlarne solo il 24 ottobre successivo;

come già detto, l’unico documento presente nel fascicolo di Vito Guarrasi della questura di Palermo è una nota informativa diretta alla procura di Torino. In tale nota vi è scritto, tra l’altro, che all’epoca del sequestro De Mauro Vito Guarrasi era stato oggetto di indagini;

la sentenza di assoluzione dei 15 giornalisti (tra i quali Vittorio Nisticò, Giampaolo Pansa, Bianca Cordaro, Italo Pietra e Alberto Ronchey) che erano stati querelati da Guarrasi per averlo indicato, sui giornali, come il “mister x” di cui parlava la polizia, sentenza datata 31/7/1981, della quale si consiglia la integrale lettura perché riepiloga efficacemente tutti gli avvenimenti seguiti al sequestro De Mauro, aveva concluso che ragionevolmente Buttafuoco era collegato al sequestro, che il movente erano l’ENI e Mattei e che i personaggi indicati dalla polizia nella sabbia della clessidra erano Guarrasi e Liggio. Quest’ultimo possibile esecutore del rapimento perché Buttafuoco era andato a trovarlo a Roma mentre si trovava ricoverato in una clinica privata. In particolare la sentenza afferma che “Il collegamento Buttafuoco-Liggio trapela subito dall’ambiente della polizia - l’unico ad esserne informato - e viene ripreso dalla stampa. Le risultanze del processo consentono inoltre di ritenere che anche la notizia della compromettente telefonata che il Buttafuoco avrebbe fatto all’avv. Vito Guarrasi indicato come Signor X o Mister X, riguardante il sequestro di Mauro De Mauro, sia trapelata dalla polizia che in quel periodo aveva dato segni evidenti di essere pervenuta alla soluzione delle indagini (conferenza stampa di Li Donni 2 novembre e conferenza stampa Commissione antimafia del 4 novembre successivo). ... La rassegna dei fatti del processo e la valutazione delle prove consentono pertanto di non dubitare che anche l’identikit del signor X, pubblicato dalla stampa, sia l’immagine fedele delle notizie che la polizia e ancor prima Tullio De Mauro avevano fornito ai giornalisti ...”.

come ultimo elemento, all’interno del fascicolo dei carabinieri e riguardante le indagini sul sequestro, è stato rinvenuto un appunto datato 7.11.1970, nel quale era stato riassunto l’esito di un colloquio intercorso tra Vito Guarrasi e il colonnello Dalla Chiesa. Sostanzialmente Guarrasi, facendo riferimento alle voci circolanti sul suo conto che lo volevano responsabile del sequestro de Mauro, le aveva attribuite al marchese De Seta perché questi aveva dei motivi di risentimento nei suoi confronti. Nell’appunto era, tra l’altro, stata attribuita a Guarrasi la seguente frase: “... il De Seta (diabolico), oltre ad essere l’ispiratore della P.S., potrebbe aver cercato di suffragare le sue affermazioni con provocazioni quali: la strana notizia che dava il Guarrasi presente a Parigi (settembre-ottobre 1970, nota telefonata o presunta tale del Buttafuoco) ...”. Quindi, secondo Vito Guarrasi, la polizia riteneva che l’interlocutore della “nota telefonata” potesse essere lui perché De Seta aveva loro riferito che in quel periodo era proprio a Parigi: l’esistenza delle telefonata e la provenienza parigina erano perciò considerati dei fatti pacificamente provati; Evidentemente rimaneva da identificare l’interlocutore di Buttafuoco. Anche in questo caso la fonte non poteva che essere stata la polizia. E Guarrasi poteva averlo saputo da Nisticò (come già detto, lui stesso aveva fornito tali informazioni ai carabinieri) oppure dalla stampa. Ma è indicativo che in quest’ultimo caso, almeno presso il colonnello Dalla Chiesa, Guarrasi non si fosse lamentato dei giornalisti ma avesse attribuito la ricostruzione dei fatti alla polizia stessa. Circa il significato intrinseco della telefonata “a difesa” fatta da Guarrasi al colonnello Dalla Chiesa, si possono fare diverse ed ovvie considerazioni. In conclusione, le notizie riportate dai giornali secondo le quali la polizia stava indagando su “mister x” e che questi era Vito Guarrasi, corrispondono alla realtà dei fatti. Peraltro il questore Li Donni aveva confermato che vi era stata la conferenza stampa durante la quale sarebbero state date tali notizie, aveva confermato di aver consigliato ai giornalisti di non andare via perché sarebbe successo qualcosa di importante, aveva confermato di aver rilasciato anche una intervista (su quale argomento quindi?) e, infine, aveva confermato di aver parlato della “clessidra al centro della quale vi era Buttafuoco”. Tali conferme erano state fornite nel corso della sua audizione al processo Guarrasi/Pendinelli. Del resto, in maniera inequivocabile, Bruno Contrada ha riferito che era stato Li Donni a coniare personalmente il termine “mister X”. Anche la logica sorregge l’assunto: alla conferenza stampa era presente il capo della polizia Vicari e in quegli stessi giorni il presidente della commissione antimafia, assieme ad alcuni membri, era presente a Palermo proprio per il sequestro De Mauro ed aveva presenziato a una conferenza stampa sull’argomento. Come giustificare tali qualificatissime presenze se non di fronte a fatti di particolare rilievo quali, appunto, la risoluzione del sequestro?

Una telefonata “cancellata”. La Repubblica il 09 ottobre 2020. Le circostanze riguardanti l’esistenza della telefonata sono le seguenti: Le intercettazioni sulle utenze in uso a Buttafuoco, sia a casa che in studio, erano state senz’altro eseguite. Erano iniziate il 22 settembre. Il 1° ottobre successivo erano iniziate anche su una utenza riservata (212388) installata nello studio del tributarista. La squadra mobile di Palermo, con rapporto datato 3/10/1970, aveva fatto riserva all’A.G. di comunicare l’esito di tali intercettazioni. in un appunto interno, rinvenuto nel fascicolo sul sequestro dei carabinieri di Palermo, datato 16 ottobre 1970, si legge: “Da colloqui avuto con il dr. NISTICO’ e con l’avv. SORGI... Il Buttafuoco, per telefonata o telefonate da lui fatte a Parigi a Vito Guarrasi, telefonate non chiare ed esplicite come contenuto, si ritiene sia stato incaricato di prendere contatti con la famiglia De Mauro, al fine di accertare se e cosa di compromettente potesse avere il De Mauro.” Anche in questo caso la notizia di Nisticò era stata fornita ai carabinieri diversi giorni prima che la stampa iniziasse ad interessarsi di “mister x” e non poteva che pervenire, sulla base di quanto già argomentato, dalla questura o dal ministro dell’interno. Tullio De Mauro ha riferito che: “Ricordo che si era parlato di una o più telefonate tra Buttafuoco e Vito Guarrasi. ... Ritengo possibile che me ne avesse parlato lo stesso Boris Giuliano perché ricordo che tale notizia era per me non ipotetica ma data per scontata e del resto solo con Giuliano vi era qualche contatto diretto sull’andamento delle indagini.” Questa polizia giudiziaria, nel ricercare a Palermo, sia presso l’ufficio competente del tribunale che presso la questura, qualunque riscontro all’esistenza di tale telefonata, ha rilevato che:

1. nel fascicolo delle indagini (sia del tribunale che della squadra mobile), oltre alle richieste e alle autorizzazioni delle intercettazioni, non vi sono i verbali o le relazioni degli ascolti eseguiti e non c’è nessuna comunicazione all’A.G. del relativo esito;

2. come riferito da Lucio Capozzo, all’epoca addetto alle intercettazioni, “le bobine delle registrazioni venivano depositate presso gli uffici della squadra mobile, mentre le trascrizioni sintetiche di ogni telefonata venivano date ...”; Quindi di ogni telefonata venivano fatte trascrizioni sintetiche che non esistono più;

3. le bobine riguardanti le intercettazioni eseguite presso l’abitazione di De Mauro e presso il giornale “L’Ora” erano state depositate presso il Tribunale di Palermo solo il 2/5/1990, mentre le bobine relative alle utenze di Buttafuoco si trovavano ancora presso la squadra mobile, assieme a numerose altre bobine prive di etichette. Questa polizia giudiziaria ha quindi proceduto all’ascolto di tutte le bobine individuando esclusivamente quelle riguardanti le intercettazioni avvenute sull’utenza dell’abitazione di Buttafuoco, ma non quelle eseguite presso lo studio. Pertanto attualmente risultano mancanti ancora tali bobine. Sul punto specifico è stata fatta una apposita relazione.

4. Il G.I. Miccichè, con la sentenza di assoluzione nei confronti di Buttafuoco del 1981, aveva scritto che “esito negativo hanno avuto sia le perquisizioni domiciliari sia le intercettazioni delle comunicazioni telefoniche del Buttafuoco.” Tale affermazione non trova alcun riscontro documentale nel fascicolo processuale, a meno che il giudice si riferisca alle telefonate fatte da un “provocatore”, il maresciallo di P.S. Patronaggio, le cui trascrizioni integrali sono agli atti.

Riprendendo la sentenza di assoluzione dei 15 giornalisti, anche il Tribunale di Palermo aveva ritenuto che tale telefonata fosse veramente esistita. Infatti aveva scritto il Collegio che “Al riguardo torna utile illustrare il comportamento tenuto al dibattimento di Milano nel processo a carico di Pendinelli dal Questore Li Donni e dal Commissario Capo Mendolia. Il primo, posto di fronte alle diverse contestazioni mossegli, così si esprime: ‘vorrei pregare il Tribunale di considerare che il caso De Mauro è ancora aperto e che pertanto l’istruttoria in corso ha come finalità l’accertamento dei rapitori; per conseguenza il caso di per sé delicato ripropone massimo riserbo.’ E il secondo così risponde alla domanda se fosse vera la notizia della telefonata: ‘Non posso rispondere se tra il Buttafuoco e l’avv. Guarrasi fosse intercorsa qualche telefonata all’epoca dei fatti. La mancata risposta dipende dal riserbo dovuto all’istruzione formale del processo di Palermo’. Ora è evidente che se la notizia fosse stata destituita di fondamento i due funzionari avrebbero senz’altro aderito alla domanda rispondendo negativamente, anziché trincerarsi dietro il paravento del segreto istruttorio, avendo l’obbligo di rispondere.”

Deve essere inoltre aggiunto che nel giugno 1971, data di audizione a Milano dei due funzionari, le indagini erano “lettera morta” da diversi mesi. Inoltre all’A.G. palermitana non era stato fatto alcun accenno alla famosa telefonata e, perciò, non vi sarebbe comunque stata la violazione del segreto istruttorio.

Ritornando al processo milanese contro Pendinelli, questo si era risolto per la remissione di querela. Perché Guarrasi aveva rimesso la querela? L’avvocato Isolabella, a tale interrogativo, ha risposto che la remissione era intervenuta dopo che in udienza aveva annunciato l’intenzione di chiedere in visione il passaporto di Guarrasi per verificare se lo stesso fosse stato effettivamente a Parigi. Sul punto Mario Pendinelli ha riferito che le ipotesi, per l’inaspettata remissione, erano probabilmente da attribuire al profilarsi di qualche accertamento sgradito a Guarrasi e, cioè, la richiesta di visione del passaporto, o la prevista audizione del procuratore generale Scaglione (ucciso due giorni prima dell’udienza) oppure la lettera di Pietroni, già depositata, che attestava i legami esistiti tra Guarrasi e Buttafuoco.

Va ribadito ancora che nei fascicoli del tribunale e della questura di Palermo non vi è alcun atto riconducibile alle intercettazioni avvenute, alle indagini svolte sul conto di Guarrasi e alla famosa telefonata da Parigi.

In ultimo, ma non meno importante indizio, riguarda le possibili motivazioni per le quali la squadra mobile aveva registrato, all’insaputa dell’interessato, la conversazione avuta con Vito Guarrasi. Il colloquio era avvenuto il 12/10/1970 cioè 7 giorni prima dell’arresto di Buttafuoco. Era stata l’unica registrazione effettuata dalla polizia. Sull’etichetta, come detto, vi era stato scritto “12/X/1970 ore 20 - 20,30 conversazione tra Mendolia e X”: da tanto se ne deduce che al momento della registrazione Guarrasi era già sospettato dalla polizia. La conversazione era stata, come prevedibile attese le premesse, assolutamente irrilevante per le indagini. Si può quindi ipotizzare che, nella famosa telefonata parigina ricevuta da Buttafuoco, l’interlocutore non era stato identificato e, pertanto, era stata fatta una comparazione tra la voce di Guarrasi registrata nel corso del colloquio e quella proveniente dalle intercettazioni telefoniche, con esito positivo. Si deve perciò concludere che, pur non esistendo prove dirette dell’esistenza della telefonata e della sua registrazione - perché evidentemente soppresse -, esistono però numerosi, importanti e concordanti indizi che dimostrano, senza lasciare spazio a dubbio alcuno, che la polizia di Palermo, in merito a tale conversazione telefonica:

aveva dichiarato, sia pure non ufficialmente, che esisteva;

aveva svolto accertamenti;

riteneva che l’interlocutore di Buttafuoco fosse Vito Guarrasi;

si era lasciata sfuggire - volutamente - la notizia presso i giornalisti;

si era ritenuta pertanto in procinto di risolvere il caso con clamorose iniziative.

Non è possibile neppure ritenere che ciò sia stato un tentativo della Mobile di fare uscire allo scoperto il mandante del sequestro, perché se la telefonata non fosse esistita si sarebbe ottenuto il risultato assolutamente contrario.

L’atteggiamento successivo della polizia, apparentemente contraddittorio, trova invece una perfetta logica ove si consideri anche il famoso intervento a Palermo del generale Vito Miceli, volto a fare cessare le indagini.

Due delitti, un solo mandante. La Repubblica il 10 ottobre 2020. Come già detto, il giudice per le indagini preliminari di Palermo, dott. Giacomo Conte, con propria ordinanza dell’8 aprile 1991, nel disporre nuove indagini sulla scomparsa di Mauro De Mauro, aveva, in premessa, osservato che “Tra le varie ipotesi formulate ed esaminate nelle indagini sulla scomparsa di Mauro De Mauro, la più aderente alle risultanze del procedimento, è quella che egli sia stato sequestrato ed ucciso in relazione all’inchiesta che stava conducendo sulla fine di Enrico Mattei ... Tale ipotesi presuppone che l’incidente aereo nel quale Enrico Mattei ha perso la vita sia stato causato da un sabotaggio dell’aereo o da una carica di esplosivo precedentemente collocata su di esso ... La suddetta ipotesi implica che almeno la direzione di provenienza dei mandanti dell’eventuale omicidio di Enrico Mattei e del sequestro di persona di Mauro De Mauro sarebbe la stessa.” Premesso che l’A.G. di Pavia è già pervenuta alla conclusione che Mattei era stato vittima di un attentato, il ”ponte” tra i due delitti non poteva ovviamente che essere costituito dalle figure di Graziano Verzotto e/o di Vito Guarrasi. Il primo deve essere eliminato, oltre che per quanto ampiamente detto sul suo conto, anche in funzione del fatto che non esisteva alcun valido movente in entrambi i casi. Il secondo aveva invece dei possibili moventi sia per Mattei che per De Mauro e, inoltre, aveva dei particolari punti di contatto con il presidente Eugenio Cefis. Infatti:

entrambi (Guarrasi e Cefis) erano stati - o si erano - allontanati dall’ENI perché rappresentanti di interessi contrari a quelli dell’Ente petrolifero ed erano rientrati all’ENI immediatamente dopo la morte di Enrico Mattei; Se viene correttamente interpretata la presenza di Guarrasi nelle più importanti aziende operanti in Sicilia, nel senso che aveva la funzione di verificare che tali società non assumessero iniziative contrastanti con gli interessi dei quali era portatore, risulta evidente come Guarrasi non potesse accettare la sua estromissione dall’ENI che, tra l’altro, avrebbe dato un cattivo esempio per tutte le altre società;

dall’esame del relativo fascicolo personale tenuto dall’ENI si evince che era stato Eugenio Cefis a fare avere l’incarico di consulente dell’Ente all’avvocato Vito Guarrasi;

nel corso delle indagini sul rapimento di Mauro De Mauro, partendo da Paolo Pietroni (il giornalista che con Zullino e Nese si era occupato, per conto di “Epoca”, del sequestro e che era già apparso reticente o comunque sospetto in relazione all’attività dell’avvocato Lupis), era emerso un fatto che, se fosse stato provato, avrebbe avuto enorme rilevanza nell’ambito delle indagini in corso.

In data 14/3/1971 Pietroni aveva spedito una lettera a Elda De Mauro con la quale, tra l’altro, si diceva “più che mai convinto della responsabilità di quel famoso signore”, riferendosi a Vito Guarrasi. Tale lettera era stata consegnata da Elda De Mauro al giudice istruttore Fratantonio, accompagnata dalle seguenti dichiarazioni verbalizzate: “Egli (Pietroni) mi aveva messo al corrente di aver saputo di una telefonata, intercettata da una donna impiegata presso l’ENI, fatta dal presidente dell’ENI stesso Cefis, ad un ignoto interlocutore di Palermo, ivi abitante, del seguente tenore: ‘A proposito dell’avvocato Guarrasi: questa volta di essere più prudente di quanto non sia stato nella faccenda del giornalista di Palermo: stava per lasciarci le penne e non so chi l’avrebbe tirato fuori, nemmeno il Presidente della Repubblica’. Tale donna, a dire del Pietroni, sarebbe disposta a confermare dinnanzi alla magistratura quanto confidato, solo nel caso che le indagini si estendessero nell’ambito dell’ENI e del Cefis. ...”

Il giudice istruttore aveva convocato e sentito, in data 8/4/1971, Paolo Pietroni il quale, nel merito della importante vicenda, aveva dichiarato: “Con riferimento alla pretesa intercettazione telefonica di cui è cenno nel promemoria dattiloscritto da me ed inviato ad Elda De Mauro, devo far presente che non ho verificato l’autenticità della confidenza e l’identità della fonte. Mi riservo ... non appena ...”. Risentito dallo stesso magistrato, in data 12/10/1971 aveva ulteriormente dichiarato: “... anche oggi non sono in grado di sciogliere la mia riserva ...” Nell’occasione aveva ipoteticamente attribuito la confidenza a una sua amica, Patrizia Tudini, esternando nel contempo il dubbio che potesse essere effettivamente lei. Risentito il 19/10/1974 dal medesimo giudice istruttore, alla presenza del nuovo pubblico ministero Antonio Signorino, Pietroni aveva ancora dichiarato: “Confermo integralmente quanto precedentemente dichiarato ...”, senza sciogliere la riserva perché, aveva spiegato, non era più riuscito a trovare la donna che le aveva fatto la confidenza. Alle contestazioni del giudice circa l’inverosimiglianza della versione fornita e all’invito a dire la verità a scanso delle conseguenze penali previste per i testimoni falsi o reticenti, Pietroni non aveva modificato la sua versione. Aveva però concluso che “alla luce della situazione politica all’interno dell’ENI, rivelatasi in epoca successiva, penso che non sia da escludersi che io sia stato strumentalizzato nel quadro delle manovre tese a screditare la riconferma di Cefis alla presidenza dell’ENI.”. Risentito dal p.m. di Pavia, il giornalista aveva riconfermato tutto quanto precedentemente dichiarato, attribuendo però la confidenza a un tale oggi non più in vita, ammettendo di aver mentito ai giudici di Palermo per coprire la “sua fonte”.

Dall’esame della vicenda si possono fare diverse considerazioni a parte, naturalmente, il dover prendere atto della reticenza dello stesso Pietroni:

1. è possibile che la storia fosse stata inquadrata nell’ambito degli “attacchi” diretti contro il presidente dell’ENI, ma la frase attribuita a Cefis può, però, apparire logica alla luce delle attuali risultanze processuali, cioè se riferita all’intervento del direttore del S.I.D., in un momento in cui gli accertamenti su Guarrasi erano molto avanzati. Ciò suggerisce la possibilità che i Servizi si fossero mossi sulla base di una richiesta politica proveniente dal presidente dell’ENI. Quanto alla qualità dei rapporti tra Cefis e gli uomini di governo, è sufficiente citare le ultime dichiarazioni rese a questa polizia giudiziaria da Graziano Verzotto: “ Mi è stato detto (dal segretario particolare) che (Cefis) gli aveva garantito (al ministro Gullotti) che sarebbe finito o a capo del gruppo D.C. a Montecitorio o probabilmente primo ministro italiano” se avesse obbligato l’E.M.S. a vendere la propria partecipazione azionaria della SONEMS all’ENI;

2. l’A.G. procedente, al di fuori degli atti richiamati, non aveva svolto, o delegato a svolgere, alcun accertamento sul conto di Eugenio Cefis e di Vito Guarrasi. Solo Patrizia Tudini di Roma era stata identificata dalla squadra mobile, ma successivamente non era mai stata sentita. Peraltro il nome di Cefis non doveva suonare nuovo alla magistratura: infatti Junia De Mauro, sentita dal dott. Fratantonio il 17/3/1971 circa una sua conversazione con il padre, aveva dichiarato che “Con tale ricostruzione sono in grado di affermare con sicurezza che mio padre addossava precise responsabilità sulla morte di Mattei all’attuale presidente dell’ENI Eugenio Cefis. Desidero precisare che mio padre non fece esplicitamente il nome Cefis, ma disse testualmente "attuale presidente".”

Dell’esistenza di un legame tra i due delitti doveva essere stato consapevole lo stesso presidente del consiglio dei ministri, l’on. Emilio Colombo (indicato come frequentatore dell’avv. Guarrasi e alle cui dipendenze funzionali agiva il S.I.D.), poiché il questore Nino De Vito, all’epoca addetto ai servizi di sicurezza della presidenza del consiglio, nell’ottobre/novembre 1970 aveva ricevuto incarico di indagare sulle cause del decesso dell’ing. Mattei. Al termine del lavoro aveva redatto una relazione riservata, datata 14/11/1970, con la quale veniva ribadita la validità dell’ipotesi dell’incidente. Inoltre, sempre per restare tra gli eventi di quello stesso periodo e, cioè, tra l’arresto di Buttafuoco e l’atteso arresto di Guarrasi, si sottolinea che Eugenio Cefis aveva ordinato a Franco Briatico (vds. relativo verbale, nota 102) di acquisire copia della sentenza di archiviazione dei g.i. di Pavia sul “caso Mattei”, copia ottenuta il 14 novembre 1970. Tale acquisizione deve essere ragionevolmente posta in relazione alle motivazioni del sequestro De Mauro e non agli attacchi subiti da Cefis perché iniziati già dai primissimi mesi del 1970. Quindi, tra Mattei e De Mauro, tutto si era consumato tra la fine dell’ottobre e i primi del novembre 1970. Infatti in tale periodo:

il direttore dei Servizi era stato sostituito: il 18 ottobre Miceli aveva rilevato Henke;

Antonino Buttafuoco era stato arrestato (19 ottobre);

Graziano Verzotto aveva rilasciato un’intervista giornalistica, accreditando la pista droga nel sequestro. La pubblicazione era avvenuta su “L’Ora” il 23-24/10/1970;

il questore (alla presenza del capo della polizia) aveva partecipato alla conferenza stampa del 2/11, mentre il presidente dell’antimafia aveva partecipato ad altra conferenza stampa il 4/11 successivo: in entrambe si era alluso a “mister X”, al suo possibile arresto e, comunque, alla soluzione del caso (tanto risulta dalla sentenza del procedimento Guarrasi contro giornalisti);

Vito Guarrasi, il 7/11/1970, aveva conferito con il colonnello Dalla Chiesa per “scagionarsi” dalle accuse che stavano per essergli contestate;

ai primi di novembre era intervenuto a Palermo il direttore del S.I.D. Vito Miceli;

il questore Angelo Mangano aveva fatto pervenire a Palermo una appunto riservato, datato 10/11/1970, con il quale attribuiva precise responsabilità sul conto di Guarrasi, Verzotto e Liggio nel sequestro De Mauro: tale appunto - secondo la squadra Mobile - non era mai pervenuto;

Vittorio Nisticò aveva voluto pubblicare il nome di Vito Guarrasi sul giornale, probabilmente con le finalità ipotizzate dalla divisione affari riservati del ministero, annotate sull’appunto dell’11.11.1970;

il questore Nino De Vito aveva ricevuto incarico di svolgere accertamenti sulla morte di Mattei , redigendo una relazione datata 14/11/1970);

Franco Briatico aveva ricevuto incarico di acquisire copia della “sentenza Mattei”, ottenendola da Pavia il 14/11/1970;

con il “rapporto sulle indagini” del 17/11/1970, la polizia aveva abbandonato definitivamente la pista “ENI/Mattei”.

Oltre a tutti i richiami citati nella presente relazione e riguardanti le connessioni fra i due delitti, a conclusione di tutto il lavoro e a dimostrazione delle affermazioni del dott. Conte, peraltro assolutamente condivisibili, va ancora tenuto conto che, come visto al precedente [paragrafo]., il pubblico ministero e il giudice istruttore del tribunale di Palermo avevano inviato a Pavia - anche se mai pervenuti - gli atti raccolti nel corso delle indagini svolte sul del sequestro De Mauro e riguardanti il possibile attentato ad Enrico Mattei. Le ultime dichiarazioni di Graziano VERZOTTO, suffragate dai numerosissimi elementi elencati nel presente documento, rendono la connessione tra Mattei e De Mauro evidente e certa e non lasciano spazio a dubbi che Mauro De Mauro sia stato sequestrato proprio in ragione del fatto che stava indagando specificamente sulle responsabilità di CEFIS e GUARRASI nella morte di Enrico Mattei.

Un caso chiuso (e apertissimo). La Repubblica l'11 ottobre 2020. Il sequestro del giornalista Mauro De Mauro, alla luce del presente documento, deve essere virtualmente considerato risolto, sia sotto il profilo della causale/movente che per ciò che concerne il mandante. Non è un caso che questa polizia giudiziaria non abbia preso in considerazione le persone che materialmente hanno attuato il rapimento, pur in presenza di ampia documentazione in merito, perché non vi è alcun riscontro concreto, attendibile e utilizzabile. Del resto gli esecutori indicati dalle cronache (con qualche elemento oggettivamente valido) sono deceduti. Essi erano Luciano Leggio (detto Liggio), per i suoi collegamenti con Antonino Buttafuoco evidenziati dal questore Mangano, e Giuseppe Di Cristina, per i suoi collegamenti con Graziano Verzotto (questi era stato testimone di nozze assieme a Calderone, lavorava alle dipendenze dell’E.M.S., il giorno 14/9/1970 aveva presenziato, sia pure non direttamente, all’ultimo incontro De Mauro/Verzotto e, in ultimo, dopo le dichiarazioni alla stampa di Verzotto del 23/10/1970, con le quali era stato dato impulso alla “pista droga”, Di Cristina lo aveva “ammonito” perché aveva “fatto arrabbiare gli amici” mafiosi). Ovviamente non possono non sapere qualcosa anche Pietro Zullino, Paolo Pietroni e Giuseppe Lupis, in relazione ai loro discutibili comportamenti. Quanto da loro fatto e detto inducono a ritenere che siano a conoscenza di notizie rilevanti sul “caso De Mauro”, anche se non si può escludere che vi sia stata una manovra concertata per ricattare sia Cefis che Guarrasi. In ultimo, sempre per il ruolo avuto nella vicenda, non può non sapere tutto, o quasi, il direttore Vittorio Nisticò. In data 4 settembre 1998 Graziano VERZOTTO, è stato nuovamente sentito dal P.M. di Pavia. L’incontro si è reso necessario per raccogliere le diverse dichiarazioni rese alla P.G. che ha formulato specifiche domande e chiesto precisi chiarimenti, alla luce delle risultanze della presente relazione.

Graziano VERZOTTO ha riferito fatti e circostanze di rilevanza eccezionale sul “caso De Mauro”; Fatti e circostanze che costituiscono delle novità assolute e che risultano assolutamente coerenti e riscontrati dai risultati investigativi già ottenuti ed esposti nel presente documento. L’importanza del contenuto del verbale non consente di riassumerlo e, pertanto, se ne rimanda necessariamente alla sua lettura integrale. Analogamente si deve rimandare alla integrale lettura dei più volte citati verbali delle dichiarazioni rese da Bruno CONTRADA e dal maresciallo ZACCAGNI; Infatti quanto da loro riferito è estremamente importante perché centra in pieno la vicenda Mattei/De Mauro e sono di riscontro alle dichiarazioni di Graziano Verzotto.

In particolare Verzotto ha dichiarato che: a suo avviso, la vicenda De Mauro era strettamente collegata alla realizzazione del metanodotto e di Enrico Mattei in quanto il giornalista, nell’aiutare il presidente dell’E.M.S. a “colpire”Cefis, stava svolgendo delle vere e proprie investigazioni sulla morte del presidente ENI;

De Mauro era stato trasferito dalla cronaca allo sport proprio a causa dell’aiuto che stava fornendo a Verzotto contro Cefis; De Mauro, prima del suo rapimento, era convinto di ciò come era convinto che nella morte di Mattei vi fossero responsabilità di Cefis e di Guarrasi (convinzione, quest’ultima, di tutti coloro che a vario titolo si sono interessati delle due vicende);

la presidenza ENI aveva tentato di mettere fuori gioco Verzotto in varie maniere: il sequestro De Mauro, il suo tentativo di rapimento e, in ultimo con esito positivo, lo scandalo dei fondi neri EMS; quanto a quest’ultima vicenda, va segnalato che erano stati arrestati Antonino RENNA e Pietro GIORDANO i quali, materialmente e all’insaputa di Verzotto, avevano predisposto e ritirato dal Banco di Milano (controllato dalla GEFI dalla quale Guarrasi era uno degli amministratori) i fondi neri. Antonino RENNA era dichiaratamente uomo di Guarrasi (così dice Verzotto in ultimo verbale); quanto a Pietro GIORDANO nei fascicoli recentemente acquisiti dalla questura di Palermo è stato trovato un appunto informativo interno sul conto di Guarrasi. Tra l’altro è scritto “La concessionaria per il collocamento ... del vino RAPITALA è la società Interfina spa, con sede a Palermo, via Segesta n° 9 (sede dello studio legale dell’avv. Guarrasi). ... amministrata dalla signora Concetta CUCINOTTA ... moglie del suddetto GIORDANO ... E’ indubbio che la società Interfina è stata voluta dall’avv. Guarrasi ... (Guarrasi) con la costituzione dell’Interfina ha certamente voluto offrire un mezzo di sussistenza all’ex direttore dell’E.M.S. Pietro GIORDANO”.

Se si considera inoltre che il Banco di Milano era la sede dei fondi neri anche dell’IRI e dell’ENI (in misura molto maggiore di quelli dell’EMS) che ne sono usciti indenni, mentre Graziano VERZOTTO ha fatto ben 16 anni di latitanza per tale vicenda, l’ipotesi che che la costituzione e la “scoperta” dei fondi neri (in una banca controllata da Guarrasi all’epoca consulente dell’EMS, fondi materialmente predisposti e ritirati da due uomini di Guarrasi che, dopo il loro arresto sono stati “sistemati” da Guarrasi) sia stata organizzata per far fuori Verzotto è più che convincente. E’ meno convincente il prudentissimo Verzotto quando attribuisce la regia della vicenda alla presidenza dell’ENI. E’ infatti vero che l’ENI (e, in particolare, Cefis) ha tratto giovamento dall’estromissione di Verzotto dall’EMS, ma la regia specifica deve essere logicamente attribuita a Guarrasi. E anche in questo caso, come in quello di Mattei e De Mauro, pare sia stato attivato l’identico meccanismo: Cefis ha un problema, Guarrasi lo risolve.

"La storia della mafia" di Leonardo Sciascia, scrive Valter Vecellio il 5 marzo 2013. Un consiglio, per quello che può valere: procuratevi La storia della mafia di Leonardo Sciascia, meritoriamente pubblicata dalle edizioni Barion, “etichetta” gloriosa, specializzata nella pubblicazione di romanzi celebri a prezzi popolari, e rilevata da Mursia. Si tratta di uno smilzo volumetto di una settantina di pagine, costa 8 euro; il testo di Sciascia è accompagnato da “Io, Nanà e i don”, di Giancarlo Macaluso e impreziosito da una postfazione di Salvatore Ferita. Il piccolo saggio di Sciascia è un quasi inedito: pubblicato in origine per la rivista mondadoriana “Storia Illustrata” nell’aprile del 1972; il quotidiano francese “Libération” poi lo ripubblicò il 30 dicembre 1976. Infine, questo testo viene utilizzato come prefazione dal giornalista francese Fabrizio Calvi per la sua ormai difficile da trovare La vie quotidienne de la Mafia 1950 à nos jours, e per la traduzione italiana del libro, La vita quotidiana della mafia dal 1950 a oggi (Rizzoli).    Un testo, quello di Sciascia che, a oltre quarant’anni di distanza ancora prezioso e per quanto abusato vocabolo, “attuale”; naturalmente avendo sempre presente l’avvertenza che occorre situare ogni situazione nel suo contesto, e tener conto delle evoluzioni, che – nel caso di Cosa Nostra – sono di difficile e lenta decifrazione. (…)

Arrivano poi gli attacchi e le volgarità postume. Pino Arlacchi su “La Repubblica” sostiene che Sciascia non può essere considerato un maestro, “perché gravissimi furono i suoi silenzi, mentre altri sfidavano le cosche»; e perfino che II giorno della civetta in realtà fa l’apologia di Cosa Nostra”. Testuale: “Una storia ben narrata della sconfitta della giustizia dello Stato e dei suoi rappresentanti di fronte a un delitto di mafia”. Trascurabile il fatto che ciò che viene raccontato nel libro era quello che in quegli anni accadeva; irrilevante che sia stato grazie a Sciascia e al suo libro che se ne è avuta, finalmente percezione e conoscenza. Tutto ciò, per Arlacchi diventa una sorta di complicità. E, infatti: “Dei due maggiori personaggi del racconto, il capitano dei carabinieri e il capobastone locale, è il secondo che colpisce sovrasta”. Conclusione: “Sciascia stregato dalla mafia”. Un livello di polemica che indigna Tullio De Mauro, il fratello di Mauro De Mauro, il giornalista de “L’Ora” impegnato in inchieste di mafia, scomparso un giorno del 1970 e mai più tornato e ritrovato. Dice De Mauro: “I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposte in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti, per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in una serie di innumerevoli circostanze. Un sociologo [Arlacchi, ndr] dovrebbe valutare queste cose, come dovrebbe aver capito che Sciascia aveva intuito perfettamente la struttura internazionale della mafia e i suoi stretti rapporti con il mondo della politica”.

Quelli che morivano e quelli che tacevano, scrive Alessandra Ziniti - Giornalista di Repubblica. «Lo ricordo bene Mario Francese, con quel suo fare ironico si intratteneva da me in procura cercando invano di carpire informazioni e raccontando quel che sentiva per le strade di Palermo». Quello del Presidente del Senato Pietro Grasso è un ricordo che va a ritroso di quarant'anni, quando lui era un giovane pubblico ministero a Palermo e Mario Francese era un cronista che seguiva il fiuto senza paura, ficcando il naso negli affari di quei corleonesi sanguinari che non erano ancora “scesi dalle montagne” alla conquista della città. Ma che certo non avevano alcuna intenzione di farsi mettere il bastone tra i piedi da un giornalista, incurante di quella “regola” che negli anni 70-80 almeno in Sicilia era la norma: raccontare solo quello che non si poteva fare a meno di raccontare, non dare fastidio alla mafia e soprattutto ai loro amici tenutari dei meglio salotti e del potere palermitano. Funzionava così e basta, come dimostra il doppio tributo che il giornalismo palermitano ha pagato con il sangue, prima con Mauro De Mauro e poi con Mario Francese. Anche perché a Palermo non è che il panorama giornalistico di quegli anni fosse troppo variegato: il giornale L’Ora era l’unica altra voce, ma era dei “comunisti” e quindi ci stava pure. E il Giornale di Sicilia non aveva nessuna remora a tacere quello che si doveva tacere. Persino il giorno dell'inizio di un'indagine sugli esattori mafiosi Nino e Ignazio Salvo (era il 1984), la notizia che giornalisticamente valeva l’apertura del quotidiano fu relegata in un trafiletto di poche righe in una pagina interna. Così come quell’indimenticabile titolo di prima pagina “Silenzio, entra la Corte”, il primo giorno del maxiprocesso e l’affannoso rincorrersi di interventi e interviste a fare da controcanto alle clamorose rivelazioni dei pentiti di mafia e alla forza scardinante del maxiprocesso. Fu proprio in quegli anni, quando il maxiprocesso e don Masino Buscetta aprirono le porte della Sicilia alla stampa nazionale e internazionale, che il giornalismo anche a Palermo riuscì a liberarsi dalla melma della palude. Trent’anni di pagine di archivio raccontano un’altra storia, diversa da quella degli anni bui, ma diversa anche da quella di oggi dove in Sicilia, come nelle regioni ancora condizionate dalle mafia, il giornalismo ha davanti una sfida che è sicuramente meno cruenta ma altrettanto infida: quella con l’antimafia da strapazzo, con quei “testimonial” che per anni hanno ingannato tutto e tutti monetizzando ruoli istituzionali o di primo piano, e che – con colpi bassi, minacce più o meno velate e con la nuova arma delle querele temerarie delle richieste di risarcimento danni in sede civile - provano ancora oggi a decidere cosa deve andare sui giornali e che cosa no.

Contro di me una macchina del fango che si chiama antimafia, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Contiguo alla mafia. Una commissione parlamentare ha solennemente deciso così: il giornale che ho diretto per più di tre anni in Calabria, e che si chiamava “Calabria Ora”, era “contiguo alla mafia”. Contiguo, dice il dizionario, significa vicino, molto vicino, quasi “appiccicato”. Due cose contigue sono così vicine che si toccano. Il numero 1, per esempio – in matematica – è contiguo al numero 2. Se il mio giornale era “appiccicato” alla mafia evidentemente anch’io, che lo dirigevo, ero appiccicato alla mafia. E, ragionevolmente, lo erano anche altri giornalisti che lavoravano sotto la mia direzione. Su che basi mi si rivolge questa accusa sconvolgente? Su nessuna base. L’accusa si concretizza applicando il seguente sillogismo: Le Procure combattono la mafia; “Calabria Ora” (e il suo direttore in particolare) criticava le Procure; dunque “Calabria Ora” (e in particolare il suo direttore) era contigua alla mafia. Si capisce, di conseguenza, che “Calabria Ora” e il suo direttore criticavano le Procure per conto della mafia, o per favorire la mafia, o addirittura su mandato della mafia. Naturalmente ho chiesto al mio avvocato di procedere contro i calunniatori. In particolare contro l’edizione on line del “Fatto Quotidiano” che ha dato grande risalto a queste calunnie condendole con proprie considerazioni. Mi sarà più difficile procedere contro la commissione antimafia perché è un organismo parlamentare e tutti i suoi componenti sono coperti dall’immunità parlamentare completa (il famoso articolo 68 della Costituzione prevede che le opinioni espresse nel corso dell’attività parlamentare siano insindacabili e impunibili: un parlamentare può dire quel che vuole anche di un privato cittadino, può dire che è un assassino, mentendo – più o meno quel che ha fatto con me – senza che questo cittadino possa denunciare per calunnia). Decideranno i giudici se ho ragione o torto e cioè se è possibile o no criticare le Procure anche senza necessariamente essere affiliati alla ‘ndrangheta o giù di lì. Io però vorrei raccontarvi ben bene quali sono le tre ragioni per le quali il mio giornale è stato giudicato contiguo alla mafia, sulla base di informazioni, molto approssimative  – alcune del tutto errate, ma questo è un dettaglio persino di scarsa importanza – fornite all’antimafia dai suoi consulenti che, quasi tutti, sono o giornalisti o magistrati che hanno sempre dichiarato la loro ostilità verso “Calabria Ora” ( e ora la dichiarano verso il “Garantista”). La prima si chiama questione Cacciola. La seconda si chiama questione Pesce. La terza si chiama affare-Musolino. Poi ci sono moltissime altre questioni che davvero riguardano il problema del rapporto tra giornali e lotta alla mafia, delle quali la commissione non ha voluto nemmeno occuparsi (per esempio la guerra furiosa tra magistrati all’interno della Procura di Reggio, o intorno alla Procura, che forse è ancora in corso e della quale la commissione antimafia si è infischiata, probabilmente anche perché è all’oscuro di tutto).

Capitolo Cacciola. Il motivo dello scontro tra “Calabria Ora” e la Procura, al quale accenna, se ho capito bene, uno dei magistrati interrogati dalla Commissione, è il seguente: alla signora Cacciola (testimone antimafia che poi ritrattò e poi tornò ad accusare) , dopo la ritrattazione fu levata la “protezione” che le era stata garantita dallo Stato. Successivamente fu trovata morta perché aveva bevuto acido muriatico (forse suicida, forse assassinata, forse costretta al suicidio). Noi siamo stati l’unico giornale che ha chiesto con insistenza perché le fu tolta la protezione. Nessuno ci ha risposto, e la Commissione antimafia che, trovatasi di fronte a questo problema avrebbe fatto bene ad indagare sul tema, visto che la Procura non aveva indagato, se ne è fregata. Non indagare su un suicidio sospetto o, meglio, su un possibile omicidio di ‘ndrangheta non è una bella cosa, no? E se un giornale denuncia, fa una azione antindrangheta, credo. Poi ci si accusa per avere dato conto della famosa cassetta inviata dalla Cacciola ai giornali nella quale ritrattava le sue accuse alla propria famiglia. Mi auguro che il sindacato dei giornalisti, come ha fatto altre volte, intervenga per spiegare che se si entra in possesso di una cassetta con grande interesse per l’informazione, come è successo in questo caso, i giornali sono obbligati a informare e a pubblicare. Anche se la pubblicazione danneggia o comunque non piace a una Procura.

Caso Pesce. Analogo, ma per fortuna meno tragico. La signora Pesce si pente e accusa la sua famiglia. Poi scrive una lettera nella quale accusa invece la Procura di averla costretta a pentirsi, mentre era in prigione, portandola in un carcere nel quale le era impossibile vedere i suoi figli. Noi entriamo in possesso di questa lettera e del verbale di interrogatorio nel quale la signora dice: “riavvicinatemi ai bambini e dirò tutto quello che volete”. Pubblichiamo l’una e l’altro (e pubblichiamo anche la risposta della Pm che replica correttamente: “lei non deve dirci quel che vogliamo, deve dirci la verità”). Successivamente la signora ritratta la ritrattazione e torna a collaborare. Ma questo non vuol dire che la lettera fosse falsa o che fosse falso il verbale (tipo caso-Crocetta). La lettera e il verbale erano autentici. Di cosa ci si accusa? Di avere ricevuto lettera e verbale dall’avvocato della signora (che è uno dei più famosi penalisti italiani). Non ho capito che male c’è: ricevere materiale da un magistrato è consentito, riceverlo da un avvocato no? Cioè, l’avvocato è considerato più o meno un complice? Roba da Cile di Pinochet…(Comunque nella ricostruzione dell’antimafia c’è anche una imprecisione, dovuta alla scarsa attendibilità degli informatori della commissione. Io, personalmente, non ho mai incontrato l’avvocato né ho mai avuto contatti con lui. Non che ci sarebbe stato niente di male se l’avessi fatto: preciso questo dettaglio solo per dire che gli informatori sono un po’ approssimativi e poco informati).

Capitolo Musolino.  Lucio Musolino, quando io sono arrivato a “Calabria Ora” nell’estate del 2010, è un giornalista del quotidiano. Si occupa di giudiziaria a Reggio Calabria. E’ un bravo giornalista di giudiziaria, credo, nel senso che possiede molte informazioni che vengono dalla Procura, anche se all’epoca dei fatti – mi pare di aver capito – non ha rapporti idilliaci con la Procura di Reggio, cioè non è molto simpatico al Procuratore. Anche perché Musolino conduce una campagna battente contro il governatore Scopelliti, accusandolo delle peggiori malefatte, ma soprattutto (cosa che scrive spessissimo) di aver partecipato non ricordo più bene se a un battesimo o a un pranzo dove c’era un mafioso. Musolino non ha buoni rapporti con il resto della redazione di Reggio. Anzi, pessimi. Nella prima proposta di riorganizzazione del giornale, nella quale si prevedono vari spostamenti (resi necessari dal fatto che prima che io arrivassi si erano dimessi dieci redattori del giornale) propongo a Musolino di trasferirsi da Reggio, sia per via dei cattivi rapporti che aveva con la redazione di Reggio, sia perché avevamo deciso di rafforzare le redazioni di Catanzaro e Lamezia (cosa che poi non facemmo). Lui mi risponde con durezza, dicendomi che non intendeva lasciare Reggio e accusandomi di dire le stesse cose che dice la ‘ndrangheta. Mi incazzai come un ape, naturalmente, e gli chiusi il telefono in faccia, ma siccome sono una persona pacifica e che non ama i conflitti, e siccome ero appena arrivato in Calabria e non ero in grado di capire tutto, decisi immediatamente di rinunciare al trasferimento, e comunicai questa decisione sia all’editore, che fu contrariato, sia al comitato di redazione. Quando presentai il piano di riorganizzazione, il trasferimento di Musolino non c’era. Non c’è mai stato il suo trasferimento. Qualche giorno dopo Musolino dichiarò all’Ansa che sarebbe stato trasferito, per motivi politici, provocando una polemica politica accesa, e poi andò in Tv a dichiararsi perseguitato dal giornale. L’editore andò su tutte le furie e licenziò Musolino perché aveva danneggiato con le sue dichiarazioni l’immagine e gli interessi dell’azienda. Io mi rifiutai di firmare il licenziamento. E siccome il contratto dei giornalisti prevede che i licenziamenti li faccia il direttore, quel licenziamento fu annullato dal tribunale. Io però non lasciai sotto silenzio le accuse di Musolino e lo querelai. Un paio d’anni fa, attraverso un amico comune, Musolino mi chiese, gentilmente, di ritirare la querela (e insistette molto perché io la ritirassi dicendomi che gli procurava un sacco di guai) , cosa che io – che ormai non avevo più niente contro di lui – feci di buon grado. Andammo insieme dai carabinieri di Reggio, lui, io e l’amico comune, e procedemmo al ritiro. (Quando Musolino era ancora al giornale, un giorno andai a intervistare Scopelliti, e lo feci di fronte a molti testimoni. Nel corso dell’intervista Scopelliti attaccò Musolino dicendo che scriveva balle. Io mi infuriai, gli dissi che Musolino era un ottimo giornalista e che il Presidente della Regione non doveva attaccare i giornalisti. Lui accettò il rimprovero. E il giorno dopo riferii dello scontro sul giornale). Posso finire qui, il racconto, ma voglio aggiungere una cosa, visto che si è insinuato che il motivo del mio scontro con Musolino era una mia amicizia con Scopelliti. Vi racconto come si è conclusa la mia esperienza a “Calabria Ora”. Sono stato licenziato perché mi ero rifiutato di esautorare un redattore di Reggio Calabria che non piaceva a Scopelliti. Vi dico anche il nome del redattore: Consolato Minniti, capo della redazione di Reggio. Scopelliti allora chiese al mio editore di mandare via me visto che io non rimuovevo Minniti, e lui lo fece (anche se portò come motivo ufficiale del mio licenziamento il mio rifiuto a licenziare una quarantina di giornalisti per ridurre il deficit del giornale). Non mi stupii né mi indignai. Ho sempre saputo del peso che hanno i politici nei giornali, e anche in passato mi era capitato di essere allontanato da un incarico di direzione, in altri giornali, su richiesta di leader politici. E infatti, nonostante l’ingiustizia subita ho mantenuto buoni rapporti umani sia con Scopelliti (che ho difeso quando è stato cacciato dai giudici dalla Presidenza della Regione) sia con il mio editore. Ora mi chiedo se nel Parlamento italiano debba esistere una commissione che non ha mai disturbato la mafia, non ha mai neppure in modo impercettibile contribuito alla lotta alla mafia, è composta in gran parte da parlamentari che ignorano il fenomeno mafioso e non se ne sono mai occupati, e che ha il solo scopo di gettare fango dove i famosi professionisti dell’antimafia (amatissimi, per altro, dalla mafia) chiedono che sia gettato.

I documenti del ministero dell’Interno che riportano il tentativo da parte del suo direttore di ostacolare le indagini; il «confino» al quale fu destinato quando i vertici del suo giornale lo spostarono inspiegabilmente dalla cronaca allo sport; i diari della figlia che denunciano l’indifferenza della direzione del quotidiano comunista “L’Ora” dopo la sua scomparsa; il ruolo oscuro, a margine del rapimento, di personaggi vicini al Pci e di avvocati di apparato. Tante ombre, sospetti, tradimenti. Sull’omicidio di mafia di Mauro De Mauro, cronista de «L’Ora» di Palermo, «icona» della sinistra antimafia militante, vittima il 16 settembre 1970 di «lupara bianca», si addensano oggi nuovi e ingombranti sospetti. Proprio sul comportamento di colleghi, proprietari ed entourage di quel giornale «democratico e antifascista», come lo definiva il suo direttore, Vittorio Nisticò, si sviluppa il bel libro «Mauro De Mauro, la verità scomoda» (Aliberti editore) scritto con coraggio da Francesco Viviano, inviato di Repubblica. Scavando nelle carte e nelle vecchie raccolte del giornale, Viviano si è imbattuto in una notizia destinata a fare rumore e riaprire le indagini: all’atto del sequestro, poco prima di essere ammazzato, De Mauro fu portato a casa di una persona che conosceva bene. E che molto probabilmente gli chiese conto di cose che solo il cronista conosceva. Chi interrogò De Mauro prima di ucciderlo? Chi fece da «talpa» per il sequestro? Dopo aver esplorato i possibili moventi del rapimento(a cominciare dal golpe Borghese attraverso un documento inedito rinvenuto da Viviano nel quale De Mauro parlava appunto di «colpo di stato») Viviano si sofferma a lungo sul giornale de «l’Ora» e sulle accuse a «Mister X», il potente avvocato siciliano Vito Guarrasi, fondamentale amico dei comunisti siciliani ed ex consigliere d’amministrazione del quotidiano, che il giudice Rocco Chinnici aveva definito «la testa pensante della mafia in Sicilia». L'inviato di «Repubblica» spulcia ogni indizio, ogni testimonianza che possa dare concretezza a quelle che sono molto più che semplici teorie. «In quei giorni - scrive Viviano - pur sapendo che De Mauro stava lavorando a uno scoop sensazionale, il direttore lo aveva spostato allo sport». Sospetto sempre respinto da Nisticò, che in un articolo vergato tre anni dopo la scomparsa del suo cronista, prima spiega come quella scelta avesse alla base il semplice tentativo di rilanciare la cronaca sportiva, poi però getta ombre sullo stesso De Mauro, sottolineando i suoi rapporti con alcuni democristiani «personaggi-chiave di quel sistema clientelare impastato di mafia e politica (...)». Nello stesso articolo Nisticò si lamenta del fatto che mai nessuno gli ha chiesto nulla sulla personalità di De Mauro. Da qui i dubbi di Viviano: perché mai il direttore e i colleghi del cronista ucciso si sono lamentati solo dopo anni? Perché, se avevano in mano qualcosa di utile, non si sono mai recati dagli inquirenti? L’autore del libro racconta anche di come il coinvolgimento di Guarrasi nell’«affaire» De Mauro, anche se non giudiziario, porti al deterioramento dei rapporti tra il direttore dell’«Ora» e la famiglia del cronista sparito nel nulla il 16 settembre 1970. Accade il giorno in cui Tullio De Mauro, il linguista fratello di Mauro, riceve una telefonata da un amico che lo mette in guardia proprio su Guarrasi. I De Mauro raccontano tutto ai due poliziotti che stavano seguendo il caso, Boris Giuliano e Bruno Contrada. Nisticò pare non prenderla bene: «Ancora oggi per me restano indefinibili i reali motivi che indussero i De Mauro ad affidarsi pienamente ed esclusivamente alla polizia». Inquietanti le pagine del diario della figlia di De Mauro pubblicati nel libro: «A partire dal terzo giorno del sequestro (...) il giornale aveva cominciato a tenere un contegno tra il prudente e (a parer mio) l’indifferente. Nessuno dell'“Ora”, sebbene casa nostra brulicasse di inviati e corrispondenti, era più venuto da noi; e gli articoli su un fatto tanto clamoroso e che toccava direttamente il giornale di mio padre erano affidati alle giovani leve del quotidiano (...)». Sulla scena compare poi improvvisamente anche un «inquietante personaggio», come lo definisce Viviano. Si tratta di un commercialista palermitano amico di Guarrasi, che quando ancora nessuno sa del rapimento di De Mauro, telefona a casa sua tentando di indirizzare le indagini su una pista che non avrebbe portato a nulla. Il commercialista finì agli arresti, poi venne rimesso in libertà: gli indizi a suo carico caddero.

·         Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Peppino Impastato.

Peppino Impastato. di A. BOLZONI e F. TROTTA Giustizia è stata fatta il secolo dopo. La Repubblica il 14 aprile 2020. Dopo i depistaggi, i reperti scomparsi, le prove dimenticate, dopo l'inchiesta insabbiata. Non era un “terrorista” Peppino Impastato come volevano farci credere, era un ragazzo, un giornalista, un militante che è stato ucciso dalla mafia. Nella sua Cinisi, nella notte fra l'8 e il 9 maggio del 1978, qualche ora prima del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani a Roma. Dopo più di due decenni il mandante del delitto Gaetano Badalamenti - boss di Cosa Nostra, uno dei personaggi più significativi nella storia della mafia siciliana e del traffico internazionale dei stupefacenti del '900 - è stato condannato all'ergastolo. In un altro processo è stato condannato al carcere a vita - e sempre come mandante - il mafioso Vito Palazzolo. Sentenze arrivate con grande ritardo, una giustizia lenta (che si è mossa soltanto quando a decidere erano magistrati come Rocco Chinnici), anticipata dalle denunce dei familiari di Peppino come il fratello Giovanni e la madre Felicia, dagli amici, dai compagni che avevano al suo fianco raccontato un sistema politico-mafioso mentre gli altri non vedevano e non sentivano. Una giustizia anticipata soprattutto dal tenacissimo e prezioso lavoro di ricerca del "Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato” di Umberto Santino, che nel corso degli anni ha fatto più volte riaprire le indagini sull'uccisione di Peppino. Se oggi conosciamo la storia di Impastato per quella che è - nonostante i depistaggi infiniti - lo dobbiamo a loro. Una lunghissima battaglia per la verità che ha portato - nel 2000 - la Commissione Parlamentare Antimafia della XIII° Legislatura ad approvare la “Relazione sul Caso Impastato”, elaborata da un apposito Comitato interno presieduto da Giovanni Russo Spena. Un documento decisivo che oggi proponiamo sul nostro Blog per una trentina di giorni. La vita e la morte di Peppino sono diventate famose negli anni successivi grazie a quel meraviglioso film - I Cento Passi - diretto da Mario Tullio Giordana, sceneggiatura di Claudio Fava e Monica Zappelli e con la straordinaria interpretazione di Luigi Lo Cascio. Un volto dell'antimafia italiana più vera. Ma proprio perché il suo non rimanga solo un nome da gridare nelle piazze o le sue parole solo uno slogan che piace tanto ai conformisti dell'antimafia ("La mafia è una montagna di merda”), proprio perché quel ragazzo di Cinisi non sia trasformato solo in un brand, vi proponiamo la lettura del documento che spiega cosa c'è dentro e dietro l'omicidio di Peppino.

(Hanno collaborato: Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Emanuela Braghieri, Francesca Carbotti, Sara Cela, Rosa Cinelli, Ludovica Marcelli, Enza Marrazzo, Sofia Matera, Ludovica Mazza, Francesca Rampin, Sara Pasculli, Asia Rubbo)

Gli articoli li trovate anche sulla pagina Instagram dell’Associazione Cosa Vostra. Supervisione Tecnica a cura di Alessia Pacini.

Benvenuti a Mafiopoli. La Repubblica il 14 aprile 2020. A «Mafiopoli» la vita scorre, giorno dopo giorno, tranquillamente e, come sempre, senza grandi scossoni, tranne le eccezioni che ci sono dappertutto. Solitamente c’è calma, tranquillità; invece quel giorno c’è movimento, c’è tensione. Tutti sono in attesa dell’importante decisione riguardante il progetto chiamato Z–10 e la costruzione di un palazzo a  cinque  piani;  perciò  il  «grande capo,  Tano  Seduto,  si  aggira  come uno sparviero sulla piazza». Il 7 aprile 1978 durante la trasmissione radiofonica «Onda pazza» di  Radio  Aut,  Peppino  Impastato  –  Peppino  per  gli  amici,  perché all’anagrafe  il  suo  nome  è Giuseppe  –  parla  in  questi  termini  del  suo paese d’origine, Cinisi, centro costiero a due passi da Palermo e di un suo illustre concittadino. Il  Tano  Seduto  della  trasmissione  è Gaetano  Badalamenti,  nato  a Cinisi il 14 settembre 1923, meglio noto come Tano, nome sempre preceduto dall’onorifico e rispettato « don. » Don Tano Badalamenti – potente, riverito, temuto, prestigioso esponente della mafia  palermitana e siciliana, collocato ai suoi vertici assieme a personaggi destinati  ad entrare nella leggenda di Cosa nostra come Stefano Bontate e come Luciano Leggio,  quest’ultimo  da  tutti  conosciuto  come  Liggio  –  è burlato, svillaneggiato, messo in ridicolo nel suo stesso paese; quel paese  il  cui  nome  è storpiato  in  «Mafiopoli» e il  corso  dove  abita l’illustre  esponente  di  Cosa  nostra,  corso  Umberto  I,  è  stato ribattezzato corso Luciano Liggio a beneficio degli ignoranti, perché  sappiano, e  a  beneficio  di chi  abbia voluto  far  finta  di  non  capire  –  perché almeno non possa dire di non aver capito. I cittadini di Cinisi, a detta di tutti, ascoltano le trasmissioni di Radio Aut e ridono – eccome se ridono! – dei personaggi, tutti volti noti, anzi notissimi essendo loro compaesani, che Peppino ed i suoi compagni mettono in scena giorno dopo giorno. Parlare  di  mafia  a  quei  tempi  è già  un  atto  di  coraggio,  ma  fare i nomi dei mafiosi e ridicolizzarne i capi pubblicamente è sicuramente un  atto  temerario.  Talmente  temerario  che  solo  un  pazzo  può  per- metterselo. Qualche anno prima, il 30 marzo 1973, ha fatto i nomi dei mafiosi quel «matto» di Leonardo Vitale, un « modesto uomo d’onore » della «famiglia» di Altarello di Baida che, « travagliato da una crisi di coscienza»,  si  è presentato  in  questura  ed  ha  rivelato  « quanto  a  sua conoscenza sulla mafia e sui misfatti propri ed altrui». Impastato  non  lo  saprà  mai,  ma  Vitale  sarà  ucciso  il  2  dicembre 1984, qualche mese dopo essere uscito dal carcere, mentre rientra a casa in compagnia dell’anziana madre e della sorella con le quali ha assistito alla messa in una chiesa di un popolare quartiere di Palermo. Dopo  le  dichiarazioni,  sconvolgenti  per  l’epoca,  è stato  dichiarato seminfermo di mente e, nonostante ciò, sbattuto in galera per le accuse lanciate contro se stesso, le uniche che saranno credute; quelle contro gli altri mafiosi da lui accusati saranno, invece, con la sola eccezione del giudice istruttore del tempo, Aldo Rizzo, ritenute inattendibili e di conseguenza tutti quelli chiamati in causa saranno prosciolti e lasciati andare.

La “famiglia” di Peppino. La Repubblica il 15 aprile 2020. Peppino  Impastato  non  è mafioso,  ma  proviene  sicuramente  da una  famiglia  mafiosa;  tra  i  suoi  parenti  c’è don  Tomasi  Impastato, confinato come mafioso ad Ustica durante il fascismo, diventato capomafia  a Cinisi  dopo  il  crollo del  fascismo. Soprattutto,  è mafioso Luigi  Impastato,  padre  di  Peppino,  anche  se  è rimasto  sempre  un «mafioso di vecchio stampo», di quelli che sono mafiosi per la cultura che hanno respirato in famiglia o in paese sin dalla fanciullezza, per l’intima convinzione che li porta a credere – sbagliando, e sbagliando  tragicamente   –  che   le   fondamenta   della   società   siano l’omertà, la   cieca  obbedienza   verso chi   comanda,  un   certo  senso dell’onore. Di pasta ben diversa sono altri mafiosi di Cinisi, a cominciare da Cesare Manzella, « notissimo capo mafia», ex emigrato negli Stati Uniti dove  si  è « arricchito  all’ombra del  gangesterismo americano con  il traffico degli stupefacenti ». Ritornato al suo paese natale, ha continuato a mantenere rapporti con i mafiosi americani e con quelli palermitani; nello stesso tempo esercita il dominio sui mafiosi del suo paese e della sua zona. L’immagine sociale che cerca di trasmettere è di estremo interesse dati  i  tempi, è  attento  “a  circondarsi  dell’aureola  del  benefattore, facendosi promotore di istituti di beneficenza, mantenendo l’atteggia- mento dell’uomo ligio ai doveri dell’onesto cittadino riuscendo così a cattivarsi  la stima  di  gran parte  della società provinciale”.  Questo comportamento, che agli occhi dei più  nasconde la vera natura dei suoi traffici, non ha ingannato i carabinieri di Cinisi i quali, nel proporlo per  la  diffida  nel  1958, scrivono  di lui  che «l’individuo  in  oggetto  è capo mafia di Cinisi. è di carattere violento e prepotente. è a capo di una combriccola di pregiudicati e mafiosi, composta dai fratelli “Battaglia”,  cioè Badalamenti  Gaetano, Cesare  e  Antonio, dediti ad attività  illecita,  non  escluso  il  contrabbando  di  stupefacenti». E'  bene  notare come  sin da quel lontano  documento  del  1958  i carabinieri di Cinisi conoscano molto bene tutti i Badalamenti definendo con estrema precisione Gaetano Badalamenti come mafioso e come elemento coinvolto in traffici di stupefacenti. Lo scritto dei carabinieri prosegue affermando che Cesare Manzella «individuo scaltro con  spiccata capacità  organizzativa»  gode  di  un  «ascendente indiscusso»  tra  i  pregiudicati e  i  mafiosi locali nonché tra quelli  dei paesi vicini, quali Carini, Torretta, Terrasini, Partinico, Borgetto e Camporeale. «Tale suo ascendente fa sì che le malefatte compiute dai suoi  accoliti  non  vengano  nemmeno  denunziate  all'autorità  costituita. Per  tale motivo  ed  anche  perché  la  sua  funzione  si  esplica  e  si  limita alla  sola  organizzazione della delinquenza  e  della  mafia,  è sempre sfuggito ai rigori della legge. Infatti è incensurato. Per la consumazione dei crimini si serve esclusivamente di sicari». A Cinisi « corre voce » che la soppressione di due persone uccise  di recente in territorio di Carini sia stata da lui voluta in quanto i due uccisi hanno compiuto dei furti di bovini probabilmente senza la relativa autorizzazione. « è comunque certo che i pochi ma gravi delitti venuti alla luce nel territorio di Cinisi, siano stati da lui sentenziati. Non si spiegherebbe diversamente, infatti, che un capomafia, quale il Manzella,  tolleri  nel  suo  territorio  la  consumazione  di  attività  illecite senza il suo benestare. Tra tali delitti devesi ricordare, oltre al duplice omicidio Vitale e Alfano, peraltro consumato nel limitrofo territorio di Carini, i vari contrabbandi di sigarette e di stupefacenti per i quali sono stati denunziati appunto individui appartenenti alla cricca capeggiata dal Manzella. Il Manzella stesso ha ottima posizione economica consistente in proprietà immobiliari (terreni a coltura intensiva, giardini, oliveti ed altro, nonché  fabbricati, tutti nel comune di Cinisi) il tutto valutato per 20 milioni circa». La carriera di boss mafioso di Cesare Manzella si interrompe drammaticamente alle 7,40 del 26 aprile 1963 in contrada Monachelli, una delle sue tante tenute che racchiude un vasto e ricco agrumeto alle porte di Cinisi. A quell’ora un « pauroso boato » fa « sussultare l’abitato di Cinisi » e ai carabinieri accorsi si presenta uno spettacolo che negli anni a venire sarà  destinato ad essere abituale in Sicilia: un profondo cratere e corpi mutilati, in questo caso quelli di Manzella e del suo fattore Filippo Vitale. L’esplosivo che ha dilaniato i corpi è contenuto in una Giulietta rubata a Palermo all’inizio del mese. La clamorosa uccisione ha un preciso movente. Agli inizi del 1962 Manzella, i fratelli Angelo e Salvatore La Barbera e altri mafiosi – « tutti facoltosi proprietari terrieri, commercianti e costruttori edili» – finanziano una partita di droga che, arrivata in Sicilia, deve poi essere spedita negli Stati Uniti. A ritirare la merce e a spedirla ai mafiosi  americani  è  incaricato,  su  proposta  dello  stesso  Manzella, Calcedonio Di Pisa, « uno dei più  abili emissari della mafia palermitana nel campo del contrabbando e del traffico di stupefacenti »; Di Pisa organizza una squadra fidata. A conclusione dell’operazione gli americani pagano una cifra inferiore rispetto a quella attesa dai siciliani. Interrogati sulle ragioni di tale riduzione, gli americani rispondono di aver pagato solo per la quantità  ricevuta. è evidente che qualcuno ha fatto la “cresta” alla droga e ne ha consegnato una quantità  inferiore. I sospetti cadono su Calcedonio Di Pisa accusato, neppure tanto velatamente,  di  aver  trattenuto  per  se´ la  droga  mancante.  Convocato innanzi ad un «tribunale mafioso», Di Pisa riesce a scagionarsi per cui viene lasciato in vita. Tale decisione non convince i fratelli La Barbera. Costoro, utilizzando la vicenda della droga trafugata, contestano la decisione del tribunale mafioso e passano a vie di fatto. Il 26 dicembre 1962  Calcedonio  Di  Pisa  è ucciso  a  Palermo  in  Piazza  Principe  di Camporeale. Dopo Di Pisa tocca anche agli uomini della squadra che con  lui  hanno ritirato  la  droga; due  si  salvano  per  miracolo dagli attentati dei loro nemici. I  fatti  sono  gravi  perché sono  chiara testimonianza di  un’insubordinazione contro il « tribunale mafioso » che ha mandato assolto Di Pisa.  Più grave  ancora  è il  coinvolgimento  nella  vendetta  di  Salvatore La Barbera che ha personalmente partecipato a quella riunione. Un tale  comportamento  non  può   certo  essere  ignorato  né  tanto  meno tollerato. Salvatore La Barbera scompare il 17 gennaio 1963 in circostanze   misteriose   e   non   fa   più   rientro   a   casa. La   morte   di Manzella segue di poco quella di Salvatore La Barbera e gli inquirenti mettono  in relazione le  due morti  giacchè   ritengono  che  sia  stato proprio Angelo La Barbera a volere la morte del Manzella, in quanto è stato uno dei promotori della riunione del « tribunale di mafia » che, inquisendo sull’operato di Salvatore La Barbera ne ha decretato «la soppressione e la scomparsa, per avere costui ingiustamente assassinato l’intraprendente Calcedonio Di Pisa». La guerra che esplode si basa su un presupposto che anni dopo si scoprirà  essere totalmente falso. A uccidere Calcedonio Di Pisa non sono stati i La Barbera, ma Michele Cavataio che è stato abilissimo ad ingannare  tutti  quanti,  compresi  i  più   grossi  e  più   esperti  cervelli mafiosi i quali non si accorgono della trappola in cui si vanno a cacciare. L’uccisione di Calcedonio Di Pisa rompe una fragile tregua raggiunta tra i principali mafiosi del tempo in attesa di capire meglio quali effetti concreti avrebbe prodotto l’imminente costituzione della Commissione parlamentare antimafia che a quell’epoca è limitata alla sola Sicilia. I mafiosi precedentemente chiamati a stabilire « la linea di condotta da tenere», secondo talune fonti di «origine confidenziale», sono   «alcuni   malfattori  e   cioè  Manzella  Cesare  da  Cinisi,  Greco Salvatore nato nel 1923 da Palermo, Badalamenti Gaetano da Cinisi, Panno Giuseppe da Casteldaccia, La Barbera Salvatore da Palermo, Leggio  Luciano  da  Corleone. Per  concorde volontà  di  costoro  venne deciso di sospendere ogni   attività delittuosa   che   avrebbe   potuto confermare  la   pericolosità  della   malavita  associata, con   impegno reciproco di rispettare la tregua da parte di tutte le “famiglie mafiose” della Sicilia occidentale e di Palermo e provincia in particolare ». L’elenco  dei  nomi  è oltremodo interessante  perché svela la  singolare  circostanza  di  Cinisi  che  è l’unico  paese  ad  avere due  rappresentanti, il  più anziano  Cesare  Manzella  e  il  giovane  Gaetano  Badalamenti, già  a quel tempo «conosciuto anche all’estero come contrabbandiere e trafficante di droghe». Potenza dei nomi o importanza del territorio controllato che comprendeva lo scalo aereo di Punta Raisi, nodo cruciale per gli arrivi di mafiosi o di droga e per le partenze di uomini o di droga verso – e da – ogni parte d’Italia e del mondo? Probabilmente sia l’uno che l’altro. Su quel territorio cruciale per i traffici nazionali e internazionali degli stupefacenti, si affermeranno due boss di prima grandezza, entrambi, guarda caso, con solidi legami con gli Stati Uniti d’America.

La scalata di don Tano (Badalamenti). La Repubblica il 16 aprile 2020. La scomparsa di Manzella favorisce la definitiva ascesa e la piena affermazione sulla mafia di Cinisi di don Tano Badalamenti. A quell’epoca ha 40 anni e alle spalle un vissuto criminale di  tutto  rispetto. Il curriculum che viene pubblicato in allegato alla relazione della Commissione antimafia firmata dal senatore Michele Zuccalà sul traffico dei tabacchi è oltremodo significativo ed è bene rileggerlo con attenzione  perché  si apprendono  notizie di  un  certo  interesse. Badalamenti  è l’ultimo  di  sette  figli,  oltre  a  lui  tre  sorelle  e  tre fratelli, e nasce nell’anno in cui muore il padre. Il piccolo Gaetano cresce orfano di padre. Il fratello più  grande è Emanuele, classe 1902, emigrato negli Stati Uniti. Don Tano, scrive l’ignoto estensore del curriculum, « nato e vissuto in ambiente di modeste condizioni economiche ed esercitando l’attività  di “vaccaio”, per altro senza impegno e  con  poca  buona  volontà,  nel  1939  è nullatenente».  Il  suo  tenore  di vita,  però,  ben presto  si rivela  sproporzionato  rispetto  alle  sue  reali possibilità  e  «dalla  voce  pubblica  viene  attribuito  ai  guadagni  facili ottenuti  da  illecite  attività».

Non è infrequente, in quegli anni, imbattersi in rapporti scritti da funzionari di polizia o da ufficiali dei carabinieri che si richiamano ad un’indistinta «voce pubblica» tanto più  autorevole quanto generica ed anonima. così come saranno frequenti i richiami a non meglio precisate «fonti confidenziali», anche queste anonime, senza volto, senza nome e cognome. La «voce pubblica» è un enorme contenitore dentro il quale c’è  di  tutto:  dalle  cose  vere  alle  cose  parzialmente  vere,  alle  cose inventate di sana pianta. è un intrico di vero, di verosimile e di falso che spesso viene inserito nei rapporti per illustrare la personalità di soggetti ritenuti  criminali  o  mafiosi  senza  supportare  le  affermazioni della «voce pubblica» né da indizi né tanto meno da prove. Ma, in mancanza d’altro e quando serve, si fa ricorso alla «voce pubblica» o alla «fonte confidenziale», o a entrambe per non sbagliare. La carriera criminale del futuro capo mafia di Cinisi inizia nel 1941, all'età  di  appena 18 anni,  con  una  denuncia  dei  carabinieri  di Terrasini  per  furto di  bestiame. La  via  è aperta, e gli  anni  successivi saranno scanditi da accuse  sempre più numerose nei confronti di Badalamenti:

25 marzo 1946 – Colpito da mandato di cattura emesso dal Consigliere istruttore della Corte di appello del Tribunale di Palermo   per associazione a delinquere, concorso  nel  sequestro  di  persona  al fine di estorsione in offesa all’industriale Vito Zerilli ed altro;

5 giugno 1947 – Denunziato per omicidio pluriaggravato in  persona di Calati Salvatore;

21 ottobre 1947 – Denunziato, in stato di latitanza, dai carabinieri di Cinisi, per tentato omicidio con lesioni, in persona di Finazzo Procopio, avvenuto il 10 ottobre 1946 e, insieme al pregiudicato Di Maggio, per concorso nell’omicidio dello stesso Procopio, avvenuto il 15 ottobre 1947, con l’aggravante, per entrambi, di essere stati i mandanti;

13 novembre 1947 – Giudice istruttore del Tribunale di Palermo: mandato di cattura per il citato reato di tentato omicidio;

5 agosto 1949 – Sezione istruttoria della Corte di appello di Palermo. Mandato di cattura per sequestro di persona a scopo di estorsione;

14 settembre 1949 – Sezione istruttoria di Palermo: assolto dall’imputazione di omicidio aggravato per insufficienza di prove e, per amnistia, anche dall’imputazione di omessa denunzia di armi;

7 giugno 1950 – Arrestato dalla polizia statunitense ed estradato in Italia.

La Guardia di finanza ha segnalato e precisato per tempo che Gaetano Badalamenti è stato « arrestato a Monroe, Michigan, nel 1950 e, successivamente, deportato in Italia ». Deportato è un termine un po’ forte,  per  molti  versi  singolare  e  inspiegabile  rispetto  a  quelli,  più usuali e più  corretti, di espulso, di estradato o di rimpatriato, termine probabilmente sfuggito dalla penna dell’estensore dell’informativa, a meno di non credere che esso sia stato usato di proposito per sottolineare ulteriormente il fatto di una brutale espulsione dal territorio statunitense.

Badalamenti è riuscito ad entrare «illegalmente negli USA a quell’epoca. Questa è un’altra indicazione che riflette gli stretti legami tra gli Stati Uniti e la mafia siciliana ». La notazione è importante anche  e soprattutto per  l’anno  in  cui  è fatta,  il  1950;  inoltre  perché, già   a   quel   tempo, Badalamenti   deve essere  stato  considerato   un personaggio  di  rilievo  se  il  suo  ingresso  illegale  negli  Stati  Uniti  è valutato come una prova degli stretti legami esistenti tra mafia siciliana e mafia americana. La sottolineatura del Comando generale della Guardia di finanza non si presta certo ad essere equivocata: già  in quel periodo emerge la preoccupazione per i rapporti che si vanno sempre di più  annodando tra mafiosi siciliani e mafiosi americani. I timori non sono  infondati  poiché,  qualche  anno  più  tardi,  il  12  ottobre  1957,  ci sarebbe stata una significativa riunione a Palermo all’hotel « Delle  Palme » tra mafiosi americani e mafiosi siciliani.

Scorrendo gli anni successivi ci imbattiamo in altre disavventure giudiziarie di Badalamenti:

11 gennaio 1951 – Arrestato dalla polizia di Napoli e denunziato per espatrio clandestino e truffa in danno della società  di navigazione Italia;

21 giugno 1951 – Corte di assise di Trapani: assolto, per non aver commesso il fatto, dall’imputazione di sequestro di persona e, con formula piena, dall’imputazione di associazione per delinquere;

13 aprile 1953 – Denunziato, in stato di arresto, dalla Guardia di finanza di Palermo per contrabbando di sigarette estere e resistenza, a mano armata, a pubblico ufficiale;

21 luglio 1953 – Giudice istruttore del Tribunale di Palermo: non doversi procedere, per insufficienza di prove, in ordine all’imputazione di resistenza a pubblico ufficiale;

15 gennaio 1955 – Fermato dalla squadra mobile e rimpatriato a  Cinisi  con foglio di  via obbligatorio,  perché  diffidato.

Il 24 gennaio 1956 la Guardia di finanza «durante alcuni servizi antisbarco» effettuati tra Castellammare e Scopello individua un’autovettura con a bordo Badalamenti e altre persone che sono annotate con singolare imprecisione: un « certo Finazzo da Cinisi (Palermo) e uno dei fratelli Buccafusca da Palermo ». Il 10 marzo 1957 viene arrestato a Pozzillo dalla Guardia di finanza di Catania. Al momento dell’arresto, Badalamenti è armato. Sul bagnasciuga di Pozzillo e su un camion sono sequestrati circa 3.000 kg. di tabacchi lavorati esteri. Ancora nel 1957 la « voce pubblica » lo ritiene autore di alcuni episodi di abigeato, come sempre non provati giudiziariamente.

Summit e patti per il futuro. La Repubblica il 17 aprile 2020. Il 12 ottobre di quell’anno [1957] all’hotel Delle Palme di Palermo si tiene un singolare incontro siculo–americano. Da parte americana, tra gli altri, ci sono Lucky Luciano, Giuseppe Bonanno noto anche come Joe Bananas, Francesco Garofalo che negli Stati Uniti era conosciuto come Frank Carrol e Joseph Palermo della famiglia Lucchese. Gli italiani sono rappresentati dal vecchio Giuseppe Genco Russo, Gaspare Maggadino, i fratelli Greco, Luciano Leggio e i La Barbera. « Tutti avevano in  comune  la  capacità di  pensare  in  grande,  a  superamento  delle modeste e taccagne visuali contadine delle precedenti generazioni mafiose ».  C’è anche  Gaetano  Badalamenti  « dalla  mentalità più  tradizionalista e rispettosa degli antichi valori mafiosi », che appare come un  « personaggio  in  bilico  tra  due  età». L’incontro  di  Palermo  segue quello analogo tra siciliani e americani dell’anno precedente nella villa di Joseph Barbara ad Apalachin (New York). L’ordine del giorno di questi incontri si concentra su due questioni.

La prima: la riorganizzazione del traffico internazionale di droga che, dopo la chiusura della grande base caraibica di Cuba, dove era in corso la rivoluzione di Fidel Castro, è costretta a trovare nuove rotte rispetto alle quali la posizione geografica della Sicilia diventa centrale, anzi strategica; la seconda: la creazione di una struttura di vertice di Cosa nostra che sul modello americano permetta alle cosche siciliane di evitare la frammentazione,  struttura  che  anni  dopo  sarà  rivelata  in tutti  i  suoi dettagli da  Tommaso Buscetta quando deciderà di  parlare con Giovanni Falcone. In conseguenza di questa decisione dapprima « si costituisce un organismo provinciale palermitano, da cui sono esclusi dunque i trapanasi, nel quale siedono inizialmente personaggi di secondo rango (semplici “soldati”) e non i capi-famiglia » che invece parteciperanno in un secondo momento dando impulso alla struttura  di  comando  più  solida  e  più  duratura  nel  tempo. Buscetta darà una versione diversa dell’incontro che, ammette, c’è stato  ma  al  ristorante  Spanò che  si affaccia  sul  mare  e  non  all’hotel Delle  Palme  dove  invece  è  alloggiato  Bonanno  che,  come  un  gran signore d’altri tempi, riceve gente e tiene conversazione con numerose persone  accorse  ad  omaggiarlo.

E,  soprattutto,  non  si  è parlato  di stupefacenti  perché,  dice  Buscetta:  « sono  convinto  che  Joe  Bonanno non abbia mai commerciato in stupefacenti ». Buscetta invece con- ferma che in quell’incontro conviviale Bonanno ha prospettato l’idea di dar vita ad una commissione.

Il   vertice   all’hotel   Delle   Palme   è  talmente   sottovalutato   dalla polizia che redige un rapporto sulla partecipazione di Genco Russo scrivendo  che  è accompagnato  da  alcuni  «sconosciuti».  In  una  relazione all’Antimafia si possono leggere giudizi molto severi: In nessun modo può  ritenersi possibile che la Questura di Palermo non fosse in condizione di individuare gli « sconosciuti » prima della fine delle riunioni che si tenevano in uno dei saloni del centralissimo e lussuoso albergo palermitano. Del resto questa spavalda manifestazione di sicurezza dell’organizzazione  mafiosa  è  la  conseguenza  dell’inefficienza  degli  organi  della sicurezza pubblica, che i boss non ignorano e sanno valutare. L’inefficienza  degli  organi  di  polizia  è fatta  risalire ad una causa precisa che ha le sue radici nel mondo politico: Naturalmente  l’insipienza degli  organi della pubblica sicurezza  non  è che  il  riflesso  della  insensibilità  del  potere  politico,  intorno  agli  anni  ’50,  nel valutare il fenomeno mafioso per affrontarlo e distruggerlo, o quanto meno contenerlo nella sua pericolosa evoluzione. Probabilmente se quegli « sconosciuti » partecipanti al vertice palermitano fossero stati individuati, si sarebbe avuto  un  quadro  molto  più   preciso  della  evoluzione  della  « nuova  mafia », quella che si staccherà  dalle tradizionali condizioni agrarie legate al feudo, ed allo sfruttamento delle masse contadine, per collegarsi ai grandi interessi dell’edilizia, dei mercati ed infine del contrabbando e della droga. Avremmo avuto più  chiara la successione che si preparava, verso la metà  degli anni ’60, nell’organizzazione mafiosa ed il ruolo di grande importanza che vi avrebbero svolto i nuovi e più spietati capi, i La Barbera, i Greco, i Leggio, i Badalamenti. Giudizio molto netto e puntuale sui ritardi, le sottovalutazioni, le incomprensioni di quegli anni che concretamente si traducono in un vantaggio nei confronti di una organizzazione che ancora  si  conosce  poco e che molti sono convinti che non esista neppure, se non nelle fantasie  dei  nemici  della  Sicilia  e  dei  siciliani.

Ma, a metà degli  anni settanta, quando viene pubblicata la relazione dell’Antimafia, la potenza della  mafia è indicata nei  « grandi  interessi  dell’edilizia,  dei mercati ed infine del contrabbando e della droga », cioè nel passaggio dalla  mafia  rurale  a  una  mafia  più  dinamica  e  più  aggressiva,  colta, peraltro, in un delicato momento di trasformazione e di riorganizzazione.

Nel   1958   Badalamenti   è  diffidato   dalla   Questura   di   Palermo. L’anonimo estensore del curriculum scrive che Badalamenti, in quel periodo, « per la sua violenza ed il suo passato assurge a figura di preminente importanza presso la malavita locale, tanto che la gente del paese lo teme al punto che preferisce accettare silenziosamente la sua prepotenza e le sue malefatte, per paura di vendette e rappresaglie ». Il 2 settembre 1961 a Cinisi ci sono due omicidi che la ”voce pubblica” addebita a Badalamenti. Il duplice omicidio è attribuito a Badalamenti anche dal senatore Zuccalà  perché, a suo avviso, « porta l’impronta  del  nuovo astro  in  ascesa che  nello  stile  del  più  spietato killerismo, ora rompe la tregua tra le cosche per “governare” l’importante centro mafioso di Cinisi». Badalamenti continua a tessere la sua fitta rete di relazioni andando  ben  al di  là  della  realtà  locale  e  frequentando  mafiosi  di calibro elevato. Il 21 agosto 1960 il «contrabbandiere» Badalamenti va a ricevere assieme a Francesco Garofalo, originario di Castellammare del Golfo, all’aeroporto di Punta Raisi di Palermo, Vincenzo Martinez, originario di Marsala e proveniente da Roma. Garofalo e Martinez sono cittadini statunitensi. Entrambi finiscono in un rapporto del luglio 1965 firmato dalla Squadra mobile della Questura di Palermo insieme ad altri siciliani del calibro di Gaspare e Giuseppe Magaddino,  Diego  Plaia,  Giuseppe  Scandariato,  Gioè Imperiale,  Francesco Paolo Coppola, Angelo Coffaro e Giuseppe Genco Russo. Tutti quanti sono rinviati a giudizio dal giudice istruttore presso il Tribunale di  Palermo  Aldo  Vigneri  perché  ritenuti  responsabili  di  aver  « svolto in Italia, e specialmente in Sicilia, negli anni dell’immediato dopoguerra  al  1965,  una  intensa  attività  associata  negli  illeciti  traffici  di narcotici, della valuta, del tabacco e dell’emigrazione clandestina interessanti gli Stati Uniti d’America e la Sicilia nel quadro della vasta organizzazione a delinquere tra italo–americani, operante negli Stati Uniti con il nome di “Cosa nostra” ovvero “Mafia Americana”, strettamente collegata alla mafia siciliana per rapporti di filiazione e permanenti ragioni di interesse». Francesco  Garofalo  è  « schedato »  come  sospetto  trafficante  di stupefacenti  ed è ritenuto  associato   con   « Plaia   Diego,   Buccellato Antonio, Martinez Vincenzo, Badalamenti Gaetano, Orlando Calogero, Cerrito Joseph, tutti elementi dediti al traffico internazionale dei narcotici ». Don Tano, descritto come un « malfattore internazionale », non è imputato in questo procedimento penale ma i suoi incontri con alcuni imputati sono ritenuti, data la sua fama e i suoi precedenti, indizi  di  pericolosità  per  gli  stessi  imputati. Nel mese di ottobre del 1961 Badalamenti è segnalato ancora una volta all’aeroporto di Palermo in compagnia dei palermitani Angelo La Barbera e Rosario Mancino, personaggio di un certo rilievo per quel tempo  tanto  che  a  lui  è dedicato  un  intero  capitolo  nella  relazione dell’Antimafia sui singoli mafiosi. Inizia come scaricatore di porto, poi prosegue come titolare di una agenzia marittima e, infine, come esportatore di agrumi. I rapporti con Mancino sono di epoca antica e si possono far risalire almeno al 1951. Quell’anno il palermitano invia 50 kg. di eroina negli Stati Uniti all’indirizzo del trafficante  Nino  Battaglia, nome dietro al  quale  si  cela  l’identità  di Badalamenti; e forse non deve essere stato molto difficile individuare il nesso tra Badalamenti e Battaglia essendo proprio Battaglia – « battagghia » in dialetto siciliano – il soprannome dei Badalamenti di  Cinisi.  è l’insieme  di  questi  rapporti  a  far  includere  Badalamenti nell’elenco dei 25 trafficanti « che senza dubbio si possono considerare  di primo piano », elenco predisposto dalla Guardia di Finanza. All’inizio degli anni sessanta don Tano Badalamenti si sposta a  Roma dove convergono altri mafiosi. Per la precisione,  dal  febbraio  1962, « a Roma si sono dati convegno quasi tutti i maggiori esponenti    dei gruppi facenti capo a Mancino Rosario, a La Barbera Angelo, ai Greco  di  Ciaculli, ai  Badalamenti di  Cinisi». Nelle  vicinanze  c’è già Francesco Paolo Coppola, meglio noto come Frank tre dita. «Durante questo periodo, stante alle notizie raccolte sia in Italia che negli Stati Uniti,  il  controllo sul  traffico della  droga passò  nelle  mani  dei  pochi latitanti come Davì  Pietro, Greco Salvatore fu Pietro, Greco Salvatore  fu Giuseppe, Buscetta Tommaso, Badalamenti Gaetano ». A Roma Badalamenti alloggia per qualche tempo all’hotel Cesari, meta di tanti altri mafiosi compresi Rosario Mancino e Angelo La Barbera. In quel periodo Badalamenti svolge una funzione importante nel mondo criminale poiché  coordina  «i  rapporti tra  Joe  Pici,  Gaetano  Chiofalo e Frank Coppola, rispettivamente residenti a Torrilla in Brianza, a Marsiglia e a Pomezia». Dopo la clamorosa uccisione di Cesare Manzella, Badalamenti, prudentemente, sparisce dalla circolazione e si dà  alla latitanza che si concluderà  il  26  luglio  1969  quando  farà  rientro  a  Palermo  con  un aereo proveniente da Roma. Durante il periodo della latitanza il suo curriculum si arricchisce ulteriormente:

28 maggio 1963 – Denunziato, in stato di latitanza, dalla Squadra mobile e dal Nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri di Palermo per associazione a delinquere ed altro;

17 luglio 1963 – Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo: mandato  di  cattura  perché   imputato  del reato di  associazione  per delinquere ed altro;

21 febbraio 1966 – Procura generale di Messina: ordine di carcerazione per conversione di pena, dovendo scontare anni tre di reclusione per contrabbando di tabacchi esteri, perché  non solvibile al pagamento della multa di £. 252.104.359;

25 febbraio 1967 – Denunziato, insieme ad altre 90 persone, dal Nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri di  Roma,  per  traffici  illeciti;

22 dicembre 1968 – Corte di assise di Catanzaro: assolto, per insufficienza di prove, dalla imputazione di associazione per delinquere; revocato il mandato di cattura emesso dall’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo in data 17 marzo 1963.

Durante il dibattimento del processo di Catanzaro emergono rapporti economici tra Badalamenti, Domenico Coppola, Filippo Rimi, Giacomo  Riina.  Tali  rapporti,  però,  sono  valutati  dai  giudici  catanzaresi alla stregua di rapporti d’affari e non come indizi di cointeressenze che nulla hanno a che fare con commerci quali quelli ufficialmente   dichiarati. «All’epoca dei fatti per cui è processo», Gaetano Badalamenti risulta «impegnato nell’amministrazione dei beni propri (industria armentizia), delle sorelle e del fratello Emanuele residente in America ». La conclusione dei giudici è chiara: «Non può pertanto del tutto escludersi che rapporti economici (quali risultano attraverso i menzionati assegni) siano stati mantenuti dal Badalamenti con altri imputati, quali Rimi Filippo, Coppola Domenico (entrambi commercianti  grossisti di  agrumi,  vini ed  animali)  nonché  col  Di  Pisa (che curava il commercio di vino per l’esercizio intestato a sua madre) in conseguenza della comune loro attività commerciale».   Insomma, sono tutti commercianti, più  o meno agiati, che hanno tra loro normali rapporti relativi ai loro commerci.

Cinisi e i grandi traffici di droga. La Repubblica il 18 aprile 2020. La permanenza a Cinisi dopo il rientro dalla latitanza, all’indomani  dell’assoluzione  a  Catanzaro,  non  durerà  a  lungo.  Nel  dicembre di quell’anno il Tribunale di Palermo, sulla base di un rapporto della Questura, lo assegna al soggiorno obbligato in provincia di Cuneo. Don Tano non ha alcuna intenzione di raggiungere la sede a lui assegnata e interpone appello. E, a questo punto, ha inizio una vicenda di estremo interesse nel corso della quale emerge il sistema di coperture e di connivenze che circonda il potente capo mafia di Cinisi. Nel febbraio del 1970 la Corte di appello di Palermo modifica la decisione del Tribunale e invia Badalamenti a Velletri. Contro quella decisione, a fine febbraio, « insorge » il Comando dei carabinieri di Palermo chiedendo una nuova assegnazione. Le proteste producono un effetto immediato: Badalamenti viene inviato prima a Macherio  e poi a Calciano. Il  senatore  Michele  Zuccalà usa parole inusuali per una relazione parlamentare e sceglie a bella posta frasi inequivocabili per descrivere il senso complessivo di quella decisione: è  la  scelta  più   sospetta  che  mai  sia  avvenuta  e  dimostra  a  quale distorsione  può  pervenire  una  misura  di  prevenzione,  utile  ed  insostituibile, quando  è irrazionalmente applicata.

A  Velletri,  Badalamenti  governa  magnificamente la sua posizione di “capo” della cosca romana, ha molti amici e tra l’altro il cugino Francesco ed il notissimo Zizzo Salvatore sono anche loro a Velletri in  un lussuoso appartamento, mentre  a  Roma  è  stato  inviato  in soggiorno obbligato, sempre dalla Corte di appello di Palermo a modifica di precedente decisione, il “braccio destro” di Badalamenti, D’Anna Gerolamo.

Tutto ciò  non deve stupire poiché la « cellula romana » organizzata da Badalamenti durante il suo soggiorno a Roma agisce senza che nessuno  si  preoccupi  di  interessarsi  delle  sue  attività,  cosicché  risulta essere «la più tranquilla»,  tanto  che  da  essa  partono  « le  più  grosse operazioni  di  traffici  illeciti  internazionali». Già  in questa  fase  emergono « coperture di persone rispettabili ed autorevoli » che intrattengono rapporti con Badalamenti e « probabilmente questo intreccio di protezioni  e  di  “rispettabilità”  è alla  base del fenomeno più sconcertante che riguarda il boss della “nuova mafia” » e che ha determinato la vicenda dell’assegnazione della sede dove scontare il confino.

Che Badalamenti abbia goduto e goda – certamente non in solitudine ma in buona compagnia con altri mafiosi – di “amicizie e influenze” le più  varie e le più  diverse nei campi e negli ambienti più disparati, è noto da tempo, da quando, rinviato a giudizio il 23 giugno 1964 dal giudice istruttore di Palermo, Cesare Terranova, si scopre che è in possesso del porto d’arma regolarmente rilasciato; e   come Badalamenti tanti altri mafiosi hanno il porto d’arma.

Gerolamo D’Anna sarà tra i protagonisti, un anno dopo questi fatti, della spedizione negli Stati Uniti di una partita di eroina di 83,5 kg. dietro la quale si intravede l’ombra di  Badalamenti.  L’operazione  prende l’avvio a Roma dove l’eroina viene spedita  a  Torino.  Qui  D’Anna, all’epoca latitante, prenota sotto falso nome una camera nello stesso albergo dove alloggia il corriere italo–americano Giuseppe D’Aloisio. La droga da Torino raggiunge Genova su una Ford che viene imbarcata e spedita a New York sulla nave da crociera Raffaello. Il 22 settembre 1971 a New York Giuseppe D’Aloisio è arrestato con la droga occultata in nascondigli ricavati nella Ford ed accusato di avere clandestinamente introdotto la droga in territorio americano.

Due rapporti congiunti dei carabinieri e della questura di Palermo in data 6 giugno e 15 luglio 1971 denunciano Badalamenti e altre 113 persone, i mafiosi più  rappresentativi dell’epoca: apre la lista Giuseppe Albanese, poi seguono Gerlando Alberti, Giuseppe Bono, Stefano Bontate, Giovan Battista Brusca, Tommaso Buscetta, Giuseppe Calderone, Francesco Paolo Coppola, Gerolamo D’Anna, Pietro Davì, Giuseppe Di Cristina, Antonino, Gaetano e Giuseppe Fidanzati, i due Salvatore Greco, Luciano Leggio, Rosario Mancino, Giuseppe Mangia- pane, Gioacchino Pennino, Natale Rimi, Salvatore Riina, Antonino Salomone, Giuseppe e Tommaso Spadaro, Pietro Vernengo e tanti altri mafiosi i cui nomi sono meno significativi ai fini del presente lavoro.

Con sentenza del 16 marzo 1976 Badalamenti e gli altri vengono rinviati a giudizio dal giudice istruttore presso il Tribunale di Palermo Filippo Neri. Le indagini raggiungono risultati apprezzabili tenuto conto del fatto che a quel tempo le strutture mafiose sono ancora molto  impermeabili perché  protetti dallo  scudo dell’omertà e i  collaboratori   di   giustizia   sono   del   tutto   sconosciuti   nonché   del   tutto inimmaginabili. Le fonti confidenziali scalfiscono appena l’organizzazione, e tuttavia consentono a polizia e a carabinieri di comprendere, seppure in modo alquanto approssimativo e non completamente preciso, quanto si muove nel mondo mafioso palermitano.

Il “triumvirato” di Cosa Nostra. La Repubblica il 19 aprile 2020. Il  punto  di  partenza  dei  rapporti  è il  periodo  che  va  dalla  strage di Ciaculli del 30 giugno 1963 alla conclusione del processo davanti alla corte di assise di Catanzaro il 22 dicembre 1968. Periodo tranquillo, senza tanti morti ammazzati – appena un paio – che gli inquirenti ritengono frutto di una tregua siglata dai principali capi mafiosi preoccupati di non turbare l’andamento del processo di Catanzaro. Buscetta,  come  si  vedrà   tra  poco,  darà   una  lettura  completamente diversa di quel periodo.

Le pagine dedicate a Badalamenti descrivono le progressioni compiute in campo criminale dal « vaccaio » di Cinisi. Una « fonte fiduciaria certa » racconta che Badalamenti « a seguito di riunione dei capi-gruppo, ognuno rappresentante di cinque famiglie, era stato nominato, secondo il vecchio rituale mafioso, “Presidente della Commissione” ». Le carte giudiziarie delineano un personaggio con una « posizione di preminenza e un ruolo direzionale » non solo all’interno della mafia siciliana ma anche nei collegamenti internazionali tra questa e quella americana.

Una donna, rimasta vedova del marito ucciso, « ha precisato che   il marito, entrato a far parte della mafia, ebbe modo di apprendere che il Badalamenti era un “padreterno” per l’alto ruolo da lui ricoperto che gli conferiva il potere di realizzare qualsiasi sua decisione e di infliggere qualsiasi punizione».

Le carte dell’istruttoria ci mostrano nuove, importanti amicizie di don Tano a cominciare da quella, molto stretta, con Luciano Leggio.    I due diventano compari dopo che Liggio fa da padrino di battesimo di   un   figlio  di Badalamenti.   è  un’amicizia   antica,   che   risale   al 1957–1958 quando Liggio, non si sa come, ha assunto il « servizio di autotrasporti » per la costruzione dell’aeroporto di Punta Raisi.

Badalamenti, nonostante il soggiorno obbligato, si muove libera- mente e mantiene i contatti con « altri affiliati », primo fra tutti  Gerlando  Alberti  « e  il  suo  nucleo  mafioso,  nonché   con  i  latitanti Buscetta Tommaso, Greco “ciaschiteddu” e con Calderone Giuseppe ». Badalamenti  è fotografato mentre va  a casa di Gerlando Alberti  a Cologno Monzese, è solito incontrare nella zona di Macherio Gaetano Fidanzati e Faro Randazzo, è controllato dalla polizia il 17 giugno 1970 insieme a Gerlando Alberti, Giuseppe Calderone, Tommaso Buscetta e Salvatore Greco.

Dopo la sentenza di Catanzaro e il rientro a casa di numerosi capi mafia  c’è una  riorganizzazione delle cosche  mafiose  e  una  ripresa  in grande  stile  del  traffico  degli  stupefacenti  che  avviene  nei  modi  più disparati come « il lancio in mare della droga in involucri impermeabili assicurati a un gavitello e il loro successivo recupero con mezzi veloci. Altro sistema era quello di far pervenire la droga dal Medio Oriente, via Malta (per il successivo inoltro negli Usa o presso le raffinerie francesi) in occasioni di sbarchi di sigarette, dentro un cartone opportunamente contrassegnato».

Il processo celebratosi a Palermo conferma l’impianto accusatorio formulato nel rinvio a giudizio nei confronti degli imputati – nel frattempo scesi a 75 rispetto ai 114 iniziali – a cominciare dall’importanza della riunione del 1970 a Milano, importanza attestata dalla partecipazione di Alberti e Badalamenti che lasciano la sede del confino, di Calderone che si sposta appositamente da Catania e di Buscetta che « si indusse a venire in Italia nonostante pesasse su di lui la condanna a quattordici anni di reclusione inflittagli dalla Corte di Assise  di  Catanzaro ».  La  riunione  è sicuramente  importante,  come intuiscono i giudici palermitani, ma per motivi completamente diversi da  quelli  immaginati.  Buscetta,  come  si  vedrà  in  seguito,  racconterà che  l’incontro  di  Milano  è stato  organizzato  per  discutere  le  proposte della partecipazione della mafia siciliana al golpe Borghese. Quanto ai collegamenti internazionali risulta che sono « tra loro collegati nello schema della malavita organizzata siciliana per il traffico dell’eroina diretta agli Stati Uniti ed associati inoltre a gruppi di malfattori internazionali operanti in Francia, Canada, USA ». Badalamenti  è condannato  a  6  anni  e  8  mesi  di  reclusione  per  i  reati contestatigli  « esclusa, come  per tutti  gli altri, la scorreria  in  armi ».  Insomma,  sono  sì mafiosi,  ma  di  una  razza  speciale dal momento che non sono armati!

Il soggiorno milanese di noti mafiosi richiama l’attenzione della Commissione antimafia sin dal 1972. Nella sua relazione il presidente Francesco Cattanei menziona il fatto che « il noto Gaetano Badala- menti, confinato a Macherio, ha fatto di quella zona del milanese il centro di rapporti e di attività  poco chiare collegate allo stesso Alberti e ad altri mafiosi come Gaetano Fidanzati, Faro Randazzo, Gaspare Gambino, Calogero Messina ed altri».

A Milano, secondo un altro presidente della Commissione, Luigi Carraro, si sono svolti numerosi incontri tra Luciano Liggio e altri noti mafiosi come Agostino e Domenico Coppola, Gaetano Badalamenti, Salvatore Riina, Giuseppe Calderone e Giuseppe Contorno».

Alla relazione Carraro aggiunge un particolare di non poco conto la relazione di minoranza firmata da deputati e senatori del Partito comunista italiano e della Sinistra indipendente a cominciare da Pio La Torre: « il commercialista palermitano Pino Mandalari (candidato del MSI alle elezioni politiche del 1972) ospita nel suo studio le società finanziarie  di  alcuni  tra  i  più  noti  gangesters  tra  cui  Salvatore  Riina, braccio destro di Leggio, e  il  Badalamenti  di  Cinisi,  nonché  quelle  di padre  Coppola. Tali  società  intestate a  dei prestanome si  occupano delle attività  più  varie (dall’acquisto dei terreni ed immobili come beni di rifugio alla speculazione edilizia, alla sofisticazione dei vini) ». Presso  lo  studio  Mandalari  aveva  sede  la  società  S.A.Z.O.I.  che secondo la Guardia di finanza di Palermo appartiene a Gaetano Bada- lamenti.  Presidente  del collegio sindacale  è proprio  Mandalari.  Altre società  nella  disponibilità  di  Badalamenti  sono:  S.F.A.C.  Spa,  Sicula calcestruzzi Spa, Immobiliare B.B.P.–S.N.C, Copacabana Spa, Investimenti Spa, Ber. Ma. Asfalti Srl, Badalamenti Vito & C. S.N.C., Badalamenti Gaetano ditta individuale, Vitale Teresa ditta individuale.

A  distanza  di  tanti  anni  non  è possibile  conoscere  la  consistenza del patrimonio finanziario movimentato dalle società  finanziarie ospitate  nello  studio  del  commercialista  Pino  Mandalari,  ma  è probabile che sia stata talmente rilevante da suscitare invidie e gelosie; sentimenti e risentimenti, questi, gravidi di tragedie quando albergano in cuori mafiosi. Sta qui, secondo Giovanni Falcone, una delle ragioni della grande guerra di mafia esplosa negli anni ottanta. Intervistato da Marcelle Padovani spiega: « L’origine di tale guerra risale agli inizi degli anni Settanta, quanto alcune famiglie realizzano vere e proprie fortune grazie al traffico di stupefacenti. Gaetano Badalamenti, all’epoca uno dei pochi boss in libertà, getta le basi del commercio con gli Stati Uniti, in particolare con Detroit, dove ha la sua testa di ponte. Salvatore Riina, il “corleonese”, se ne accorge nel corso di una conversazione con Domenico Coppola, residente negli Stati Uniti, da lui convocato appositamente in Sicilia. Ecco gettati i presupposti per lo scatenamento della guerra di mafia».

Anche Buscetta, che conosceva molto bene sia Badalamenti che Leggio  e Riina,  sottolinea la  disparità delle  condizioni  economiche esistenti  tra  di  loro.  Badalamenti  « li  ha  mantenuti  per  anni,  perché i corleonesi erano dei pezzenti morti di fame. Se ne prese cura, gli  trovava le case per dormire durante le loro latitanze, il sostegno economico.  Riina  e  Liggio  avevano  molti  obblighi  nei  suoi  confronti ».

Antonino Calderone ha raccontato del risentimento di Luciano Leggio, condiviso dagli altri corleonesi, nei confronti di Badalamenti: «L’accusa rivolta a Badalamenti era di essersi arricchito con la droga nel  momento  in  cui  molte  famiglie  si  trovavano  in  serie  difficoltà finanziarie e molti uomini d’onore erano quasi alla fame»; tra l’altro, Badalamenti  avrebbe  iniziato  da  solo  il  commercio  di stupefacenti «all’insaputa  degli  altri  capimafia  che  versavano  in  gravi  difficoltà economiche».

La disparità  di condizioni economiche esistenti all’interno di Cosa nostra spiegano tante cose, dalle gerarchie di comando, che per anni sono nelle mani di Badalamenti, alle manovre, poi riuscite di Riina e dei corleonesi, di dare l’assalto al potere dei Badalamenti e dei suoi uomini. Lotte di potere e lotte di supremazia economica si intrecciano nel  cuore  più   profondo  di  una  moderna,  anzi  della  più   moderna organizzazione mafiosa italiana.

Gli anni che vanno dal 1970 al 1978 costituiscono il periodo cruciale di Badalamenti che passa dal fulgore della massima potenza ai vertici di Cosa nostra all’espulsione dalla stessa organizzazione. Per comprendere il 1970 occorre fare un passo indietro, agli anni 1962–1963 caratterizzati dallo scontro armato con i La Barbera ritenuti  gli  assassini  di  Calcedonio  Di  Pisa.  In  realtà,  si  scoprirà  dopo che  ad uccidere Calcedonio Di  Pisa  è stato  Michele  Cavataio,  detto  il “cobra”,  che  ha  fatto  ricadere la  responsabilità   sui  la Barbera  per prenderne  il  posto.  A  metà di  dicembre  1969  a  Viale  Lazio,  in  pieno centro di Palermo, sei mafiosi travestiti da poliziotti entrano sparando negli uffici di una impresa edile e ammazzano Cavataio.

Il 1963, come si ricorderà, è l’anno in cui è iniziato un periodo di tregua  che  durerà fino  al 1968, tregua che tutti  –  magistrati,  forze dell’ordine, opinionisti – hanno ritenuto che sia stata il frutto di un accordo tra  i  capi  mafia  per  non  turbare  il  processo  di  Catanzaro.  è, invece, accaduto qualcosa di più  clamoroso perché – racconta Buscetta negli  anni  successivi  –  i  vertici  di  Cosa  nostra,  vuoi  perché   non riescono a porre rimedio al caos interno vuoi perché  sottoposti a una repressione da parte dello Stato dopo la strage di Ciaculli, decidono   di sciogliere l’organizzazione, almeno per una fase transitoria.

L’idea di ricostituire il vertice dell’organizzazione matura nel 1970. Secondo  Buscetta, nel  giugno del  1970 c’è un  incontro  a  Roma  tra  lo stesso Buscetta, Bontate, Salvatore Greco e Badalamenti. Nell’occasione Buscetta suggerisce agli altri di ricostituire la Commissione di Cosa  nostra. I  quattro si  trovano d’accordo anche  nell’opportunità  di includere Luciano Leggio che verrà  sostituito, in sua assenza, da Totò Riina.  La  decisione  assunta  successivamente  è quella  di  dar  vita  a  un triumvirato formato da Stefano Bontate, Luciano Liggio e Gaetano Badalamenti, « un individuo rozzo e ignorante ma “venerato come Dio in terra” nei loro ambienti»”.

Per quanto potere abbia avuto, Badalamenti rimane pur tuttavia un uomo che non riesce a far dimenticare la sua estrazione sociale. Se Stefano Bontate – uomo che ha la « raffinata cultura della mediazione della mafia cittadina », figlio di quel « Paolino che, sin dall’immediato dopoguerra », ha intessuto « rapporti politici ad altissimo  livello »  –  per  i  suoi  modi  è soprannominato  il  «principe  di Villagrazia », il mafioso di Cinisi, « un boss  zotico come pochi », è costretto a subire le punture di spillo di Liggio «che non rinunciava a sottolineare l’ignoranza di Gaetano Badalamenti rilevando con piacere maligno gli errori di grammatica e di sintassi ». Liggio, quanto  a  estrazione  sociale  non  è certo  «superiore»  a  Badalamenti, però,  contrariamente al  “vaccaio”  di  Cinisi,  «benché  figlio  di  poveri braccianti e inveterato assassino, coltivava l’immagine di intellettuale della mafia e amava farsi chiamare “professore” ». Disprezzato perché  incolto e dai modi alquanto rozzi, odiato perché  si è arricchito alle spalle di altri mafiosi, Badalamenti è  anche temuto e rispettato per il  suo  sistema  di  potere  che  va  ben  al  di  là  di  Cosa  nostra.

Il triumvirato è un “miracolo” mafioso perché  mette assieme due aspetti della mafia del tempo: da una parte Bontate e Badalamenti che si sono arricchiti con il traffico di droga, che « controllano molti politici siciliani e assieme ai Salvo costituiscono una holding dell’illecito quasi inespugnabile», dall’altra parte « capiscono di dover cooptare nella gerarchia di comando quei rozzi, arroganti, semianalfabeti corleonesi, che hanno il merito di sparare e ammazzare ».

Forte della nuova carica Badalamenti ordina a Salvatore Zara, un camorrista napoletano affiliato a Cosa nostra, di uccidere un uomo che sul  finire  degli  anni  cinquanta  si  è reso  responsabile  di  un  oltraggio nei confronti del famoso Lucky Luciano, espulso dagli USA e da poco residente  a  Napoli.  Luciano  è schiaffeggiato  all’ippodromo  di  Agnano da un esuberante guappo in vena di esibizionismo. L’offesa, seppure con molti anni  di  ritardo,  è lavata  e  Badalamenti,  « fiero »  di  aver ordinato  l’assassinio, si  precipita a  far sapere negli  USA  quanto  è appena accaduto.

La costituzione della commissione e la formazione del triumvirato hanno   solo rinviato   lo scontro   interno che si   alimenterà   di   vari ingredienti  e  di  varie  causali  momentanee,  ma  che  avrà  sempre  come epicentro sensibile «un problema di potere».

Lo   scontro   non   esploderà   all’improvviso   ma   avrà   una   lunga gestazione  data  la  tattica  attendista  dei  corleonesi.  Totò   Riina,  che eredita il comando prima esercitato da Luciano Liggio, agisce  abilmente per minare,  giorno  dopo  giorno,  progressivamente,  il  potere  e  il prestigio di Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti.

Le trame dello “zio” Totò. La Repubblica il 20 aprile 2020. All’epoca del triumvirato – approfittando di un periodo di carcerazione di Bontate, di Badalamenti e di Liggio – Riina organizza il sequestro di persona in danno di Luciano Cassina senza informare né Bontate né  Badalamenti. I due, appresa la notizia, protestano in modo furibondo, ma  Luciano  Liggio  li  mette  a  tacere  dicendo  che  oramai  è del  tutto  inutile discutere  dal momento che  il  riscatto  è stato  pagato e l’ostaggio liberato. Il tema dei sequestri torna ad essere affrontato quando, chiusa l’epoca del triumvirato, si ricostituisce la commissione con a capo proprio Badalamenti. La decisione della commissione è di non  fare  sequestri  di  persona  in  Sicilia  « e  ciò  –  spiegherà  Buscetta – non per motivi umanitari ma per un mero calcolo di convenienza. I  sequestri,  infatti, creano  un  sentimento generale di ostilità  da  parte della  popolazione  nei  confronti  dei  sequestratori  e  ciò  è controproducente se avviene in  zone,  come  la  Sicilia,  dove  la  mafia  è tradizionalmente insediata ». Anche Giuseppe Calderone si oppone ai sequestri di persona per motivi opportunistici dal momento che, proteggendo i Costanzo, « egli non sarebbe stato in grado di difenderli adeguatamente » da un sequestro non avendo a sua disposizione un numero adeguato di «soldati». Il  sequestro  di  Luciano  Cassina  ha  dei  risvolti  particolari  perché l’obiettivo principale di Riina non è solo incassare i soldi del riscatto, ma  anche  quello di  colpire sia  Badalamenti sia Bontate. Luciano  è figlio  del  conte  Arturo  Cassina,  uno  degli  uomini  più  ricchi  e  più  in vista di Palermo, che ha il monopolio della manutenzione della rete stradale, dell’illuminazione pubblica e della rete fognaria a Palermo. Un  uomo  così   va  adeguatamente  protetto,  altrimenti  ne  va  di mezzo il  prestigio  dei  boss  locali.

Ed  è proprio  il  prestigio  dei  palermitani  il principale obiettivo di Riina. Nel luglio del 1975 avviene il sequestro più  clamoroso per la Sicilia e  più  devastante  per  Gaetano  Badalamenti  e  Stefano  Bontate.  Viene rapito Luigi Corleo, suocero di Antonino Salvo, cugino di Ignazio Salvo, entrambi ricchi e famosi esattori, amici di uomini potenti politici della DC, a cominciare da Salvo Lima, entrambi affiliati alla cosca di Salemi. Il  sequestro  Corleo,  a  parte  l’enormità  del  riscatto,  20  miliardi  del- l’epoca, è un colpo durissimo sia per Bontate sia per Badalamenti. Né  l’uno  né   l’altro,  riusciranno  a  fare  nulla  di  significativo  né   per  la liberazione  dell’ostaggio  né  per  la  restituzione  del  corpo  dell’anziano sequestrato. Gli appelli rivolti da Antonino Salvo non sortiscono gli effetti sperati: Bontate e Badalamenti sono del tutto impotenti: non conoscono gli autori del rapimento, non riescono a recuperare il corpo. è Antonino Salvo a dare il senso dell’impotenza, sua e di Stefano Bontate. Interrogato da Falcone del 1984 così risponde: Avevo ritenuto di aver instaurato una tranquilla anche se scomoda convivenza con tali organizzazioni ritenendo a torto che fosse sufficiente comportarsi bene per non avere problemi con chicchessia. Quando però  venne sequestrato mio suocero, mi resi conto che era necessario scendere a patti, anche nel tentativo quanto meno di ottenere la restituzione del cadavere del nostro congiunto. Fu così che decisi di rivolgermi a Stefano Bontate, il cui altissimo livello in seno alle organizzazioni mafiose era noto a tutti ed al quale anzi nel passato avevo fatto qualche piccolo favore avvalendomi del mio vasto giro di amicizie. Né  fa meglio Gaetano Badalamenti che, pur rivestendo il ruolo di capo della commissione,  non  è  in  grado  di  esaudire  i  desideri  di Salvo.

Non  è  facile  minare  d’un  colpo  il  prestigio  di  un  uomo  come Badalamenti;  ci  vuole tempo,  molto tempo, anche  perché  Riina  fa  un lavoro  coperto,  nascosto,  attento  a  non  esporsi.  E  poi  perché  Bada- lamenti,  per  i  ruoli  che  ha  ricoperto  e  per  le  sue  indubbie  capacità personali, ha messo in piedi negli anni un fitto sistema di relazioni sia mafiose sia politiche sia economiche che ancora gli garantiscono la tenuta di un robusto sistema di potere. Anche il racconto di vicende minute ha il pregio  di  gettare  un  fascio di luce per illuminare questo sistema di relazioni messo in piedi  da  Badalamenti. 

Il  catanese  Antonino  Calderone  ha  raccontato  che «qualche tempo dopo la strage di via Lazio » Badalamenti manda a chiamare  Giuseppe  Calderone,  Calogero  Conti  che  all’epoca  è  vice rappresentante per la provincia di Catania e Antonino Calderone. Badalamenti è un uomo ospitale e offre il pranzo ai suoi invitati anche per meglio predisporli ad accettare la proposta che si appresta a fare. «Durante il pranzo ci chiese se potevamo ospitare il suo compare Luciano Liggio, che era latitante in loco, ma che non poteva più restare là. Mentre eravamo a tavola arrivò  un prete. Ci fu presentato come un uomo d’onore della famiglia di Partinico.

Agostino Coppola si chiamava. Quello che poi riscosse i soldi del sequestro Cassina. Con mio fratello abbiamo scherzato durante il viaggio di ritorno su questo prete che faceva parte della mafia. Accettammo di buon grado la proposta  di Badalamenti». Nel racconto di Calderone, Badalamenti appare al centro di una molteplicità  di  rapporti  con  più  persone  provenienti  da  paesi  diversi: con Luciano Liggio che aiuta nella sua latitanza; con i Calderone, che sono di Catania, convocati a Cinisi e coinvolti nella protezione della latitanza  di  Liggio  fidando  sul  fatto  che  Catania  è meno  controllata dalle forze di polizia perché  ritenuta una provincia priva di mafia; con il sacerdote Agostino Coppola che si reca a Cinisi, senza alcun preavviso, come se fosse un ospite abituale. Badalamenti  è stato  tra  i  protagonisti  delle  vicende  fondamentali della storia della mafia che si sono intrecciati a momenti particolari della  vita politica  italiana a  partire dalla seconda  metà   degli  anni cinquanta  e,  quando  non  è stato  protagonista,  a  lui  si  sono  rivolti  in molti per un parere e per un consiglio.

Il nome di Badalamenti comincia a circolare sin dall’epoca della uccisione del bandito Giuliano. C’è  oramai   una   vasta   letteratura sull’argomento. Qui basta solo ricordare che tra le varie versioni dei fatti   ve   ne   è  una   secondo   la   quale   « Giuliano   sarebbe   stato   già consegnato cadavere a Pisciotta dalla mafia di Monreale, diretta dal boss Ignazio Miceli, che aveva provveduto a farlo uccidere dal ‘picciotto’ Luciano Liggio, per ordine di Gaetano Badalamenti». Non  è compito  di  queste  pagine  accertare  la veridicità  di  questa versione dei fatti; essa è stata richiamata solo per sottolineare il ruolo di Badalamenti – anche se la versione dovesse risultare totalmente falsa  è tuttavia  significativa la  circostanza che  nella vicenda sia stata inclusa la presenza del mafioso di Cinisi  –  e  per  far  notare  come  il suo ruolo sia, a quell’epoca, di grado superiore a quello di Liggio. Durante il tentativo di golpe del principe Junio Valerio Borghese, Badalamenti discute con Leggio, Salvatore Greco, Giuseppe Calderone e  Giuseppe  Di Cristina  la posizione più conveniente  per  Cosa  nostra rispetto alla proposta del principe. Badalamenti si schiera contro il golpe fascista nonostante il principe Borghese abbia promesso, in caso di successo del golpe, un’ampia amnistia e dunque l’immediata liberazione di Vincenzo Rimi e del figlio Filippo, cognato di Badalamenti, in quel periodo detenuti. Buscetta ricorda le parole di don Tano: «A noi i fascisti non ci hanno mai sopportato e noi andiamo a fare un golpe proprio per loro? ». I suoi dinieghi pesano, come quello opposto a Michele Sindona quando rientra in Sicilia alla ricerca di consensi per un suo progetto separatista. Altrettanto noti e robusti erano i suoi rapporti con i cugini Salvo. È stato Badalamenti a presentare  i  due  cugini  a  Stefano  Bontate,  a presentarli come mafiosi  perché  i  Salvo  e  lo  stesso  Badalamenti,  per ovvie ragioni, hanno sempre cercato di tenere nascosta la loro affiliazione alla mafia nella famiglia di Salemi. Tramite i Salvo Badalamenti entra in contatto con uomini politici potenti come Salvo Lima, discusso esponente politico siciliano molto legato all’onorevole Giulio Andreotti di cui costituisce l’architrave della sua corrente in Sicilia. Mentre   Riina   e i corleonesi   cercano di metterlo in difficoltà dentro Cosa nostra, Badalamenti continua a tessere i suoi rapporti a  livello internazionale per  estendere  ancor  più   i  suoi  canali,  già robusti peraltro,  del  traffico  di  stupefacenti.

Agli  inizi  del  1976  i  capi del traffico turco inviano in Italia un  loro  «ufficiale  di  collegamento» Salah Al Din Wakkas con il compito di coordinare l’afflusso  di eroina in  Italia.

Per  fare  ciò  Wakkas  tratta  «con  i  pezzi più  grossi  della  mafia  di  Palermo. Quasi  tutti  i  membri  della  Cupola erano nel suo elenco, a  partire  dal  mammasantissima  appena  prescelto per capeggiarla, Gaetano Badalamenti».

Nel frattempo Badalamenti partecipa assieme a Salvatore Greco, Giovanni Spatola, John   Gambino e Giuseppe Bono   a   società   costituite   dai   Cuntrera. E  tuttavia,  Riina  continua a  minare  la  credibilità di Badalamenti e  di  Bontate  che,  di  fronte  ai  corleonesi,  assumono  sempre  di  più  la funzione dell’ala moderata della mafia. È bene  intendersi  sull’uso  dei  termini  perché  moderato  è sicuramente un  attributo che stride  se  riferito  a  un  mafioso.  Ed  in  realtà  è così   anche  se occorre  tenere conto  delle varie  fasi attraversate  dalla mafia  –  che  è pur  sempre  un’organizzazione  che  si  trasforma  col trascorrere del tempo – e dei ruoli che i singoli personaggi volta per volta assumono. Dopo la sentenza di Catanzaro Badalamenti diventa «il personaggio  più  potente  di  Cosa nostra»  e  la  sua  prima  preoccupazione  è quella di organizzare una serie di attentati in Sicilia «per mostrare a tutti che la mafia era tornata in scena più  forte di prima».

Le sue sono espressioni inequivocabili oltre che crude: «Dobbiamo riprendere possesso della Sicilia. Dobbiamo farci sentire. Tutti i carabinieri a mare li dobbiamo buttare». In altre occasioni, dopo l’acquisizione di enormi ricchezze e dopo aver realizzato il suo sistema di potere e di  alleanze  politiche  e  istituzionali,  è Badalamenti,  diventato  oramai « governativo », a dire: «Noi non possiamo fare la guerra allo Stato». Riina  sfrutterà  questa  contraddittorietà,  che  ha  sempre  contraddistinto  gli  uomini  di  mafia,  e  la  userà  nella  sua  lotta  contro  Bontate e Badalamenti. «Che facciamo, stiamo a parlare degli sbirri?» risponde  Riina a  chi  gli  chiede  conto  del  perché  ha  fatto  ammazzare il  colonnello  dei  carabinieri  Giuseppe  Russo. L’ufficiale è stato  ucciso la sera del 20 agosto del 1977. La decisione, ancora una volta, è  assunta senza  informare  né  Bontate  né  Badalamenti. Dopo una serie molto lunga di colpi per indebolire il prestigio di Badalamenti, per Riina finalmente arriva il grande giorno: Badalamenti  è addirittura  espulso da  Cosa  nostra,  «posato»  come  si  dice  in gergo mafioso. Una delle conseguenze dell’espulsione è l’isolamento del mafioso cacciato. Si trova scritto nell’ordinanza–sentenza del maxi-processo:  «L’uomo  d’onore posato  non  può  intrattenere  rapporti  con altri membri di Cosa nostra, i quali sono tenuti addirittura a non rivolgergli  la  parola». E’  una  delle  tante  regole  –  buona  per  i picciotti ma non per i capi – che saranno regolarmente infrante. Le reali ragioni che hanno spinto Riina e i corleonesi ad adottare una decisione così drastica nei confronti di Badalamenti sono rimaste un  mistero  per  lunghi  anni  e  ancora  oggi  non  c’è una  spiegazione sicura. Ci sarebbe anche da chiedersi come mai non sia stato ucciso dal  momento che  l’infrazione grave  –  qualunque  sia  stata  –  è stata commessa  da  uno  che  ha  avuto  un  ruolo  così  preminente  in Cosa nostra;  e  dunque  avrebbe  dovuto  essere  punito  con  la  morte.  Non  è semplice rispondere a questa domanda, si possono solo avanzare delle ipotesi: un’ipotesi potrebbe essere il suo legame di comparaggio con Liggio che potrebbe aver funzionato come salvacondotto per avere salva la vita; un’altra ipotesi potrebbe essere legata agli affari economici rilevanti gestiti da Badalamenti e ai suoi molteplici collegamenti nel campo degli stupefacenti, affari che, con ogni probabilità, ha gestito in cointeressenze con altri capi mafia e che avrebbe potuto continuare a  gestire  anche  da  « posato »,  e,  dunque,  gli  è stata  salvata  la  vita  per non compromettere gli interessi di altri mafiosi di peso; un’altra ipotesi, inoltre, si può  rintracciare nel fatto che all’epoca l’uccisione di Badalamenti   avrebbe   fatto   reagire   ben   più   pesantemente   Stefano Bontate  che  è  ancora  forte  in  Cosa  nostra  avendo  a  disposizione uomini a lui fidati e un sistema di relazioni politiche ancora molto forte. Questa ultima ipotesi non esclude per niente le altre con le quali non  è per  nulla  in  contraddizione,  anzi.

Quando don Tano fu “posato”. La Repubblica il 21 aprile 2020. C’è, infine, da vedere quando esattamente  è stato «posato» Badalamenti avendo questa circostanza una diretta relazione con l’assassinio di Peppino Impastato. Leggiamo quanto ha detto Giovanni Falcone a Marcelle Padovani: Gaetano Badalamenti, resosi conto di quanto si sta tramando contro di lui, decide di eliminare un certo numero di persone, in particolare Francesco Madonia della famiglia di Vallelunga (Caltanissetta) con cui Leggio appare legato a doppio filo. Nel gennaio 1978 Salvatore Greco detto « Cicchiteddu » (uccellino), giunto dal Venezuela dove risiede, ma che ha conservato tutta la sua influenza su Cosa nostra, incontra in una riunione a Catania Gaetano Badalamenti. Questi, accompagnato da Santo Inzerillo, suo amico fedele, solleva il problema dell’eliminazione di Francesco Madonia, aggiungendo che Giuseppe Di Cristina, capo della famiglia di Riesi, è disposto ad occuparsene. Ma Chicchiteddu consiglia di soprassedere, di rimandare ogni decisione a data successiva e invita anzi Di Cristina a lasciare la carica di capo famiglia e di « andare a riposare in Venezuela » con lui. Ripartito per Caracas, vi muore prematuramente, per cause naturali, il 7 marzo 1978. Il 16 marzo Francesco Madonia viene ucciso, secondo le dichiarazioni di Antonino Calderone, da Giuseppe Di Cristina e Salvatore Pillera (inviato di rinforzo dal catanese Giuseppe Calderone). Il 30 aprile 1978 è il turno però  di Giuseppe Di Cristina, assassinato nonostante un suo tentativo di mettersi in contatto coi carabinieri. Il 30 settembre 1978 viene ucciso Giuseppe Calderone e, fatto più  importante, Gaetano Badalamenti viene «posato» dalla sua famiglia.

La  scansione  temporale  fatta  da  Falcone  è di  estremo  interesse perché  ci  dice come  Riina abbia abilmente stretto  il  cerchio  attorno a Badalamenti e a Bontate per poi dividerli evitando  che  Bontate  potesse andare in soccorso di Badalamenti. Prima viene ucciso Di Cristina, poi viene ucciso Calderone – eliminando, così, due amici di Bontate e di Badalamenti – poi, alla fine, viene « posato » Badalamenti con un argomento così forte da paralizzare la reazione di Bontate. L’anno  è il  1978,  il  mese  dovrebbe collocarsi  tra  ottobre  e  dicembre, dopo l’assassinio di Calderone e dopo la morte di Impastato che è del 9 maggio. Quando i miseri resti di Peppino Impastato sono stati trovati attorno ai binari della ferrovia, Badalamenti è ancora in sella alla sua famiglia di Cinisi e a Cosa nostra, seppure con un potere di vertice traballante  a  livello  provinciale anche  se il fatto è difficile  che  sia  a conoscenza dei picciotti di Cinisi.

C’è  una   conferma   di   tutto   ciò   nelle   cose   dette   da   Antonino Calderone il quale ha raccontato come suo fratello Giuseppe, o Pippo come veniva da lui chiamato, abbia subito nel luglio 1978 un attentato e come subito dopo i due fratelli si siano recati a Trabia, vicino Palermo, « per discutere con Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Rosario Riccobono. Esponemmo i fatti e io non riuscii a trattenere uno sfogo contro di loro, questi grandi mafiosi palermitani che non si rendevano conto della strategia dei corleonesi di fare piazza pulita in periferia – a Catania a Caltanissetta ad Agrigento – per poi concentrarsi sull’attacco diretto alle posizioni degli avversari nella capitale dell’isola ». È immaginabile  una  riunione  del  genere  con  un  Badalamenti «posato»? È difficile  pensare  che  uomini  di  mafia  così  esperti  e navigati come Bontate e Riccobono si sarebbero esposti a tanto conoscendo le regole che, per quanto mutevoli potessero essere, hanno sempre fatto divieto di parlare dei fatti interni dell’organizzazione con uno «posato» anche se il divieto non ha implicazioni dirette negli affari, soprattutto quelli legati al traffico di droga.

Lo stesso Buscetta «si era mostrato piuttosto scettico che il Badalamenti, benché "posato", fosse coinvolto nel traffico di stupefacenti con altri uomini d’onore; senonché,  venuto  a  conoscenza  delle prove  obiettive  acquisite dall’ufficio, si è dovuto ricredere ed ha commentato che “veramente il denaro ha corrotto tutto e tutti”. Questa circostanza conferma, se mai ce ne fosse bisogno, il potere di Badalamenti e la sua spregiudicatezza che non gli hanno mai fatto difetto,  nemmeno  in  passato.  E  l’esempio  più  evidente  di  ciò  sta  nel fatto che nel 1963, nonostante la decisione di sciogliere le famiglie, don Tano non abbia sciolto la sua e, anzi, proprio in quel periodo, abbia affiliato alla famiglia di Cinisi un personaggio importante come il dottor Francesco Barbaccia, medico dell’Ucciardone, il carcere di Palermo.

«La cerimonia di iniziazione avvenne a Ciaculli, nella tenuta Favarella». Ancora di recente sono emersi particolari importanti che vanno nella direzione dell’ipotesi avanzata. Il Tribunale di Palermo che ha giudicato il senatore Andreotti ha accertato che «Antonino Salvo fornì al Bontate, per circa due mesi, un’Alfetta blindata in un periodo molto critico per Cosa Nostra: quello – collocato attorno alla fine del 1978 – in cui il Badalamenti era stato espulso dalla Commissione». Nel corso di quel dibattimento il mafioso Francesco Marino Mannoia diventato collaboratore di giustizia ha risposto così ad una domanda del pubblico ministero: «Badalamenti ha rivestito la carica di capo della Commissione  e  quindi  era  la  persona  più  importante,  in  seno  a  Cosa nostra, fino a quando ne ha fatto parte, appunto, fino alla fine, credo, del ’78». La storia di Badalamenti dagli anni cinquanta al 1978, ci racconta anche la storia di come i capi mafia di quel periodo abbiano potuto affermarsi  grazie  alle  complicità,  alle  sottovalutazioni  e  incomprensioni degli organi dello Stato, periferici e nazionali. Su questo la Commissione antimafia ha pronunciato parole nette e inequivocabili già  in passato, con la relazione firmata dal presidente Cattanei nel 1971: Le sentenze nei confronti dei mafiosi sono assolutorie, nel migliore dei casi, per insufficienza di prove; i rapporti di polizia sono inadeguati e talvolta contraddittori; le concessioni amministrative a loro favore sono a dir poco stupefacenti;  il  credito  bancario  è loro concesso con larghezza; hanno  libero accesso agli uffici dello Stato e degli enti locali; possono assicurare il successo, direttamente o indirettamente, ai candidati nelle elezioni politiche o amministrative. Per anni, magistrature, polizia, organi dello Stato e forze politiche hanno troppo spesso mostrato di ignorare l’esistenza della mafia.

Questo  spiega, per esempio, perché  dai killers  non si sia cercato quasi mai di risalire ai   mandanti   dei crimini... è quindi   fuori   luogo   parlare   di   ricerca   della rispettabilità   per  alcuni di  essi,  come mezzo per  captare più   agevolmente favori  da  parte  delle  autorità.  I  favori  li  ottengono  tutti,  nessuno  escluso. Quando si pensa alla facilità con cui la Questura di Palermo rilascia passaporti e  licenze  di  porto  d’arma  c’è da  allibire.  Le  protezioni  riguardano  tutti  i mafiosi di cui abbiamo fatto la storia, non solo quelli che potevano sembrare rispettabili. Navarra, dopo che è tornato al confino da Joiosa Jonica, avendovi scontato solo una parte della pena, perché  la misura era stata revocata, viene proposto per il cavalierato al merito della Repubblica  e  lo  ottiene.

Le assoluzioni non si contano, le concessioni di credito neppure. Le   responsabilità  dei  pubblici  poteri   sono   nette   «perché nei confronti di quasi tutti questi mafiosi si riscontrano inspiegabili omissioni, scarsa coscienza della gravità del fenomeno, tolleranza che talvolta rasenta la connivenza insieme a comportamenti coraggiosi e risoluti, a seconda dei periodi e delle circostanze». È in questo quadro che si avviano gli anni settanta; e per comprendere  quanto  è successo  con  le  indagini  attorno  alla  morte  di Peppino Impastato occorre andare a quell’andazzo, a quel modus operandi degli apparati dello Stato, a quel periodo nel corso del quale il  nemico  principale sono i  terroristi  rossi  e  non  i  mafiosi,  perché  i primi sono pericolosi per lo Stato, i secondi no. E a Cinisi il corpo estraneo era sicuramente un giovane come Peppino Impastato che perfino il padre ha cacciato di casa e non un   uomo rispettato come don Tano Badalamenti.

Peppino Impastato si scontra con il potente don Tano, uno dei personaggi  più ambigui  e più indefinibili di  Cosa nostra.  Dice di lui Antonino Calderone: «Non ha senso chiamare ‘vecchio’ o ’nuovo’ uno come lui», perché,  si  potrebbe  aggiungere,  è stato  contemporaneamente, a seconda delle convenienze, vecchio e nuovo, sempre a cavallo  di  diverse  realtà. La  storia  di  don  Tano  Badalamenti,  così  come  è sommariamente descritta nelle pagine precedenti, si ferma al 1978, poco dopo  la  morte di Peppino Impastato. Quando il giovane militante di Democrazia proletaria viene ucciso in quel modo atroce Badalamenti è ancora  a capo della famiglia di Cinisi  e,  nonostante  sia  alla  vigilia di essere «posato», ha ancora un potere immenso; tanto immenso  che, pur essendo « posato » egli, come se nulla di rilevante fosse successo, continua ad interessarsi attivamente del traffico degli stupefacenti. Peppino Impastato  aveva  ben  compreso  la  pericolosità  di  Tano Badalamenti e Tano Badalamenti  aveva  ben  compreso  la  pericolosità di Peppino Impastato. Erano, entrambi, pericolosi l’uno nei confronti dell’altro. Peppino  Impastato  non  si  era  sbagliato. Badalamenti  continuerà ad essere pericoloso ben oltre il 1978. Esemplare, da questo punto di vista, è la condanna a una lunga pena detentiva subita negli Stati Uniti d’America  e  il  carcere  che  lì   sta  scontando.  La  condanna riguarda l’imputazione di traffico internazionale di stupefacenti, l’antica attrazione che Badalamenti ebbe  fin  dalla  gioventù quando  fu  tra  i  primi a comprendere che con quel commercio poteva guadagnare tanto denaro e con il denaro ottenere tanto potere.

Una giustizia lenta, molto lenta. La Repubblica il 22 aprile 2020. Il fascicolo della procura della Repubblica di Palermo relativo alla morte  di  Giuseppe  Impastato  è aperto,  il  9  maggio  1978,  come  « atti relativi al decesso di..., avvenuto in territorio di Cinisi nella notte dall’8 al 9 maggio 1978, a seguito di scoppio di ordigno esplosivo».

Il procedimento prende il numero n. 1670/78/C. Giuseppe Martorana, all’epoca procuratore capo reggente, delega per la trattazione del procedimento il sostituto procuratore Domenico Signorino. Dopo centottantuno giorni di « istruzione sommaria », il 6 novembre 1978, il pubblico ministero, dispone l’iscrizione del processo contro ignoti (al n. 33379/78/B) per i reati di omicidio premeditato di Giuseppe Impastato e di detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo. Quindi trasmette gli atti al giudice istruttore « per il formale procedimento  contro  ignoti  cui  darà  carico:  a)  del  delitto  previsto  e punito dagli artt. 110, 575, 577 n. 3 c.p., per avere, in concorso tra loro, cagionato, mediante esplosione di dinitrotoluene la morte di Impastato Giuseppe, commettendo il fatto con premeditazione; b) del reato previsto e punito dagli articolo 2 e 8 della legge 14.10.1974, n. 474, per avere detenuto e portato illegalmente in luogo pubblico materiale esplosivo (In Cinisi, il 9.5.1978) ».

Prosegue  l’indagine  il  giudice  istruttore  Rocco   Chinnici. Dopo l’assassinio di Chinnici, il CSM nomina al vertice dell’Ufficio Istruzione del tribunale di Palermo (novembre del 1983) Antonino  Caponnetto,  che  assume  la titolarità  del  processo.

Il 19 maggio 1984, Caponnetto emette sentenza di «non doversi procedere in ordine ai rubricati delitti di omicidio volontario sulla persona di Impastato Giuseppe e porto illegale di materiale esplosivo, per essere rimasti ignoti gli autori del reato». Con questa pronunzia, a  poco  più  di  sei  anni  di distanza,  termina  la  prima saliente – e  per molti versi essenziale – fase del procedimento penale relativo agli eventi di quella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978.

Dopo il 1984, il processo per l’omicidio di Peppino Impastato, come è  noto,  subirà  altre  vicende,  con riaperture delle   indagini, un’archiviazione nei confronti di ignoti e, infine, il rinvio a giudizio di Badalamenti Gaetano e Palazzolo Vito. Attualmente è nella fase del dibattimento di primo grado, dinanzi alla Corte di Assise di Palermo [Ndr. Badalmenti è stato condannato in primo grado nel 2002, a distanza di 24 anni dal delitto Impastato, all’ergastolo; è stato ritenuto il mandante dell’omicidio di Peppino]. […] Nelle pagine che seguono verranno rivisitati gli accadimenti che segnarono la prima fase dell’inchiesta penale. Oggetto  dell’analisi  è la  ricostruzione  dell’andamento  delle  investigazioni e della loro adeguatezza, per verificare – su un piano di rigore obiettivo e testuale – la paventata esistenza di fatti e comportamenti  che potrebbero averne condizionato tempi, modalità  di  svolgimento e risultati. In sostanza, un rilettura di quella vicenda investigativa per tentare di dare una risposta a quanti – a cominciare da Felicia Bartolotta, una madre che più  di ogni altra persona al mondo ne ha titolo – ad oltre vent’anni di distanza, legittimamente chiedono di sapere se vi furono « deviazioni » che sviarono il regolare corso della giustizia; che impedirono l’individuazione della causale della morte, un corretto sviluppo investigativo, la raccolta e la valutazione di reperti  e prove; che determinarono la diffusione di notizie non veritiere; che non  consentirono  di  dare  un  nome  agli  assassini.  E  se  sì,  perché  ciò accadde. È questo un   compito   complesso   e   delicato,   che   impone   una metodologia di lettura approfondita ed analitica delle carte processuali, delle risultanze delle numerose audizioni compiute e dell’ampio materiale documentario raccolto. Una ricostruzione basata dunque su fatti e non mere ipotesi, per enucleare criticamente le eventuali anomalie delle investigazioni e per analizzarne gli effetti. La Commissione, con questa relazione , intende infine tentare non solo una analisi storico–politica di quelle vicende ma anche ricercare, individuare e collegare i dati e le circostanze necessari per una esatta descrizione dei ruoli e dei comportamenti dei protagonisti di quelle indagini. Il tutto nei limiti dei compiti assegnati dalla legge istitutiva, nel  rispetto  pieno dell’autonomia e dell’indipendenza  delle  autorità giudiziarie – che furono e sono impegnate su questa vicenda – e senza, in  nulla, interferire  con  l’accertamento  delle  responsabilità  penali  dei singoli, il cui vaglio resta per intero affidato all’esclusivo lavoro dei giudici.

Come iniziarono le indagini sulla “bomba”. La Repubblica il 23 aprile 2020. Il fascicolo 1670/78/C della procura della Repubblica di Palermo risulta formalmente aperto a seguito della segnalazione trasmessa dal pretore del mandamento di Carini. Avvertiti dai carabinieri, il dr. Martorana, nella   qualità di  procuratore   della   Repubblica   facente funzioni, e il sostituto procuratore  della  Repubblica  « di  turno »  (addetto ai cosiddetti atti urgenti ed esterni), dr. Signorino, si portano  sul luogo dei fatti lo stesso mattino del 9 maggio, senza tuttavia porre in  essere  attività  processuali. Sul  posto  essi  delegano  il  compimento degli «atti urgenti» al pretore del circondario di Carini, dr. Giancarlo Trizzino. Conseguentemente l’attività  di indagine (i cd. atti preliminari all’istruzione,   o,   più   esattamente,   le   «Sommarie   indagini»   di   cui all’articolo  225  del  codice  abrogato)  è svolta  tutta  dai  carabinieri  e  – in minima parte – da personale della Polizia di Stato. I carabinieri agiscono alle dipendenze del maggiore Antonio Subranni, all’epoca comandante del Reparto Operativo del gruppo di Palermo, anch’egli giunto in Cinisi assieme al suo vice, il capitano Basile, comandante del Nucleo Operativo del Reparto Operativo.

Quel 9 di maggio del 1978, risulta presente – ed operante sempre alle dipendenze del maggiore Subranni – anche personale della Stazione di Cinisi, intervenuto per primo sul luogo dell’esplosione, e della Compagnia di Partinico (con il capitano Del Bianco ed altri sottufficiali e militari). Da atti di formale istruzione del Giudice Chinnici – e solo da essi – si può  inoltre evincere la presenza sul posto di personale del Nucleo Informativo del gruppo dei carabinieri di Palermo. Infatti, il 19 dicembre 1978, il giudice Chinnici assume la testimonianza del maresciallo capo Giovanni Riggio, appartenente a quel reparto. Il Riggio è infatti cofirmatario del verbale della perquisizione eseguita (ai sensi dell’articolo 224 CPP abrogato) nei locali adibiti ad emittente Radio Privata Aut, ubicati n Terrasini, via Vittorio Emanuele 100. Secondo quanto riferito dal Riggio, che a suo dire in quella occasione si limito`  ad eseguire la perquisizione alla sede di Radio Aut a  Terrasini,  « nella  tarda  mattinata  del  9  maggio »  si  reco`  «sul  posto ove si era verificata l’esplosione » anche tale «maggiore Frasca», verosimilmente comandante del Nucleo Informativo. Entrambi trovarono «soltanto una Giulia dei carabinieri », in quanto «erano andati via sia il pretore che gli altri ufficiali e sottufficiali che avevano eseguito il sopralluogo e le indagini».

Il  maggiore  Frasca  non  è stato  mai  ascoltato  nel  corso  dell’istruzione del processo.

Il questore Alfonso Vella, all’epoca dirigente dell’ufficio Digos della questura di Palermo ha riferito nel corso della sua audizione davanti al Comitato Impastato sulla presenza di personale della Polizia di Stato.

In tale circostanza, il Vella ha precisato: Ebbi notizie del fatto in questione intorno alle ore 8 del 9 maggio del 1978. Mentre mi stavo recando in ufficio in macchina, la centrale operativa, alla quale forse era arrivata la notizia, mi disse che si era verificato un fatto di sangue a Cinisi. Ero insieme al collega – se non ricordo male – Salerno, con il quale ci stavamo recando in questura per iniziare la nostra giornata. Ricordo che c’era traffico e che dovemmo mettere in funzione le sirene per svincolarci  e  recarci  a  Cinisi. poiché  non conoscevamo  il posto dove si  era verificato effettivamente il fatto e non sapendo come comportarci di conseguenza, andammo direttamente nel centro di Cinisi, alla caserma dei carabinieri,  per  avere  indicazioni  precise.

Tutto  questo  comporto`  che  andammo a Cinisi, alla caserma e... Verso le 8 e mezza arrivammo a Cinisi paese. Abbiamo trovato il piantone e nessun altro. Tutti si trovavano sul posto dove era avvenuto il fatto. Avute le indicazioni (aggiungo che nessuno ci accompagnò), qualche minuto prima delle ore 9 arrivammo sul luogo. [...]. Sul posto non trovammo niente, perché  avevano già  smobilitato tutto. Vedemmo solo il pretore che se ne stava andando; i resti dell’Impastato erano stati già  raccolti e portati via. [...]. Vidi soltanto che il pretore aveva concluso gli atti e che se ne stava andando. Non trovai niente di particolare da vedere. Non vidi com’era il luogo del fatto [...] Arrivato in quel luogo ripeto che vidi quasi niente, neanche  i  resti  del  povero  Impastato perché  erano stati  già   raccolti;  vidi soltanto il pezzo di binario mancante. [...]. Ricordo che il pretore stava finendo di verbalizzare con il cancelliere; se non ricordo male, stavano firmando  un  documento.  Questo  è quello  che  ricordo.  Dopo  di  ciò,  per  circa una decina di minuti, curiosammo in giro e rivolgemmo delle domande; poi andammo in caserma. Non ricordo con precisione, ma penso che verso le 10 – diventa difficile ricordare i tempi tecnici – stavamo in caserma. In quella circostanza mi fu chiesto che cosa pensavo del fatto avvenuto. Risposi che non sapevo che dire in quel momento non avendo visto niente;  tra  l’altro,  mi  si disse che si trattava di una bomba, ma non sapevo di quale tipo. Giunti in  caserma – se non ricordo male – mi si disse che era stata eseguita  dai  carabinieri una perquisizione in casa dell’Impastato a seguito della sua morte, nel corso della quale era stata trovata una lettera. Secondo le interpretazioni che si davano, si trattava di una specie di testamento per un suicidio, una cosa   di questo genere. Questo fu il discorso che mi venne fatto ... dai carabinieri, perché  loro  avevano  questa  specie  di… [...]. L’unica cosa che consigliai fu quella di sentire qualche amico dell’Impastato, di fare magari qualche perquisizione per trovare qualcosa di diverso. Pertanto, da Palermo feci arrivare qualcuno, più  i carabinieri, e furono fatte delle perquisizioni in casa di alcuni giovani, che ci erano stati indicati dai carabinieri dal momento che noi non li conoscevamo, non sapevamo chi erano gli amici [...]. Nelle prime ore  del  pomeriggio, arrivò la  notizia  del  ritrovamento  del  cadavere  dell’onorevole Moro a Roma. Dal momento che si prevedevano manifestazioni e una serie  di  problemi, rientrai  a Palermo,  poiché eravamo impegnati in  prima persona. La competenza sulle indagini era dei carabinieri e a loro è rimasta. [...].  Di  questo  caso  non  ho  saputo  più  niente,  perché  non  mi  venne  chiesto di compiere accertamenti di alcun genere in seguito ai fatti che si sono verificati.  Non ho  saputo  niente né  sulla perizia  né su  come sono andate le cose  e,  successivamente,  non  mi  è stato  mai  chiesto  niente  al  riguardo  dalla procura o da altri, neanche su situazioni o fatti di altro tipo. Tra l’altro, anche    se l’ufficio avesse voluto occuparsi di queste indagini, non avrei potuto seguirle,  perché  era  implicata  la  mafia;  invece  io  facevo  parte  della  DIGOS, quindi  ci  occupavamo  degli  attentati  e  dei  fatti  politici.  Questo  è  quanto ricordo di tutta la vicenda [...].

FIGURELLI.  poiché  ha  detto  che  partecipo`  –  mi  corregga  se  dico  male – agli interrogatori – non so se a tutti o solo ad alcuni – di persone segnalate non dal suo ufficio ma tutte dai carabinieri, vorrei sapere se su questi interrogatori o, comunque, rispetto a questa partecipazione o cooptazione, diciamo così, alle indagini, fece altre relazioni alla questura o al Ministero.

VELLA. No, su questo no.      

FIGURELLI. ...oppure al magistrato?

VELLA. No, solo i verbali. Probabilmente, anzi sicuramente qualcuno dei miei  della  DIGOS ha  partecipato a questi  interrogatori  e  avrà  sottoscritto  il verbale. Chi materialmente aveva fatto la perquisizione, poi ascoltava anche questi ragazzi.

FIGURELLI. Lei ne ha sentiti alcuni direttamente?

VELLA.  No,  li  ho  sentiti  mentre  erano  nella  caserma,  perché  venivano interrogati  da qualcuno,  ma non  intervenivo personalmente.  Eravamo  là, stavamo discutendo; se non ricordo male, c’era anche il colonnello comandante del gruppo dei carabinieri. [...] Non ricordo il nome, ma era il comandante del gruppo; c’era anche il comandante del nucleo operativo, Subranni (non so se allora era capitano o maggiore).

FIGURELLI. E il capitano Basile era presente?

VELLA.  Mi  pare  di  no.  Ricordo  che  c’era  sicuramente  Subranni,  perché dirigeva  le operazioni  [...]. Quando siamo  arrivati  là,  i  carabinieri  erano  già arrivati  alle  conclusioni. Si  disse  che era  stata trovata la  lettera, si  parlò  di « incidente  sul  lavoro »:  tutto  era  già  pianificato.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Mi scusi, ma vorrei capire bene questo punto  perché  è importante.  Lei  sta  dicendo  che,  quando  arrivò  alle  ore  9,50 nella  caserma  dei  carabinieri,  trovò già  tutto  pianificato?

VELLA. Nel senso che avevano trovato la lettera...

RUSSO  SPENA  COORDINATORE.  Lei  ha  detto  che  era  già  tutto  pianificato.

FIGURELLI. No, lui ha parlato proprio di conclusioni.

VELLA. No, era stata trovata la lettera...

RUSSO SPENA COORDINATORE. Quindi lei vuol dire che erano arrivati già  a  delle  conclusioni?

VELLA. Perlomeno si erano formati un’idea.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Un’idea certa?

VELLA. Un’idea certa non lo posso dire; si erano formati un’idea.

RUSSO SPENA COORDINATORE. E avevano parlato di «incidente sul lavoro»?

VELLA.  Chiamiamolo  così.  [...]  Siccome  l’omicidio  è avvenuto  a  Cinisi,  i carabinieri hanno iniziato le indagini. Noi saremmo intervenuti se avessimo avuto delle notizie di natura diversa, ma su quello stesso fatto continuavano ad indagare i carabinieri ed il magistrato colloquiava con loro. [...] Abbiamo cercato di cominciare a capire, anche dopo, se ci fossero state situazioni che portavano  al  terrorismo,  ma  a  noi  non  è risultato  niente.  [...]  Il  rapporto è stato fatto dai carabinieri. Gli atti firmati dai miei sono stati lasciati ai carabinieri, i quali li hanno trasmessi al magistrato. [...] Ribadisco che non so che cosa ha scritto il professor Del Carpio. Non so che cosa è stato scritto durante il sopralluogo. Sarei riuscito anche a capire se avessi saputo qualcosa. [...].

Alle 9,45 del 9 maggio giunge (83) per fonogramma alla procura  di Palermo la seguente informativa, a firma del pretore Giancarlo Trizzino: Informo la S.V. che in contrada « Feudo » (84), territorio di Cinisi in zona  adiacente  alla  linea  ferrata  Palermo–Trapani,  Km.  30?180,  è  stato rinvenuto cadavere irriconoscibile di persona di sesso maschile che allo stato sembra identificarsi con IMPASTATO Giuseppe, nato a Cinisi il 15.1.1948. Il cadavere  è stato  dilaniato  da  esplosione;  pezzi  si  rinvengono  in  un  raggio  di 300 metri dalla linea ferrata. Indagini in corso. Intervenuto sul posto ho proceduto agli atti di rito e disposto trasporto resti obitorio di Carini. Resto in  attesa  disposizioni  che  la  S.V.  vorrà Impartirmi. Firmato Pretore Trizzino.

Per  gli  atti  urgenti  di  sua  competenza,  già   alcune  ore  prima  i carabinieri hanno avvisato il  pretore  del  mandamento  di  Carini. Questi, alle prime ore del mattino del 9 maggio lascia la sua abitazione in Palermo e si reca a Cinisi a bordo della sua autovettura privata. Le pagine che seguono sono dedicate appunto alla ricostruzione delle primissime fasi dell’indagine. 

Le lettere del “suicidio” di Peppino. La Repubblica il 24 aprile 2020. Per il piccolo treno, formato dal solo locomotore, che collega Palermo ad Alcamo, partito da Palermo alle ore 0,26 (con 21 minuti di ritardo), quella del giorno 9 maggio 1978 non è una corsa come tutte le altre. Il macchinista Sdegno Gaetano e il suo aiuto Finazzo Salvatore,  giunti  in  prossimità  del  Km.30,  tra  le  stazioni  di  Carini  e di  Cinisi,  avvertono un  forte  sobbalzo.  così  lo  ricorda Sdegno: «Quando  avvertii  il  sobbalzo  del locomotore pensai: “si  è divelta  la rotaia  e  siamo  a  terra!”  e  invece  il  locomotore  continuò regolarmente la marcia». Passato indenne quel tratto di binario rettilineo, il treno 59413 arresta la corsa all’incirca 550 metri dopo, al passaggio a livello posto al Km. 30+745. Qui il personale viaggiante informa dell’accaduto il guardiano di turno, cui  preannunzia  un’ulteriore  fermata,  per  un controllo alla macchina, nella stazione di Cinisi–Terrasini, raggiunta all’1,40 circa. In  precedenza  il  treno 735  partito  da  Palermo  per  Trapani  è arrivato alla stazione di Cinisi–Terrasini alle ore 0,16, con sette minuti di ritardo, senza che siano state rilevate anomalie. Questo particolare, essenziale per collocare esattamente nel tempo il momento dell’esplosione, si desume dall’indagine effettuata dalla Polfer di Palermo, e, in particolare dal tempestivo interrogatorio dei macchinisti dei due convogli. I tre verbali redatti dalla polizia ferro- viaria il 10 e l’11 maggio non risultano inoltrati direttamente al PM, ma pervengono in procura accompagnati da una nota, a firma del maggiore Subranni, datata 12 maggio 1978.

Le dichiarazioni dei macchinisti erano state trasmesse al reparto operativo dei carabinieri, con una laconica nota (dell’11 maggio) firmata dal dr. P. Ferro, all’epoca dirigente del commissariato di pubblica sicurezza presso la direzione compartimentale delle ferrovie di Palermo. Nota che ha ad oggetto «Impastato Giuseppe – decesso a seguito deflagrazione ordigno esplosivo al km. 30?180 della linea Palermo–Trapani».

In  essa  non  c’è alcun  riferimento  ad  un  attentato  terroristico.

Va detto che la polizia ferroviaria – per i suoi specifici compiti d’istituto – effettua un accesso sul luogo dell’esplosione (peraltro in una  fotografia  pubblicata  sul  Giornale  di  Sicilia  martedì   10 maggio1978 si nota la presenza sui binari di personale della Polfer): ciò  logicamente comporta l’esistenza di atti rituali (verbali di ispezione del luogo e relazioni di servizio), redatti verosimilmente dagli stessi sottufficiali, Tartaglione e Faranda, che si occuparono subito dopo degli interrogatori dei macchinisti dei treni 59413 e 735. Ma – al di fuori degli interrogatori dei macchinisti – non risultano nel processo altri atti, rilievi tecnici o relazioni di servizio della polizia ferroviaria. né risultano richiesti. E i verbalizzanti Tartaglione e Faranda non sono stati mai esaminati. Nell’immediatezza del fatto non sono esperite altre indagini per collocare nel tempo l’evento, né  vengono interrogati i guardiani di quel passaggio a livello 30+745, poco distante dal luogo dell’esplosione. Passaggio verosimilmente attraversato da chi si addentrò  nella trazzera di «Feudo Orsa» e da chi si allontanò  da quei luoghi dopo l’esplosione. Di questi accertamenti – intrinsecamente urgenti – se ne occuperà solo il giudice istruttore Chinnici, a distanza di qualche mese. Ulteriori particolari sulla scoperta delle conseguenze di quell’esplosione al km. 30.180 si desumono dai risultati dell’inchiesta amministrativa delle ferrovie (acquisita al processo a seguito di un’espressa richiesta del giudice istruttore): il custode del passaggio a livello, Benedetto Salamone, interrogato il 1o settembre 1978 dal geometra delle ferrovie Vajarelli, si limita a dichiarare che, alle ore tre   di quella notte, alcuni operai, che avevano appena completato l’ispezione dei binari, gli avevano riferito che « la  rotaia  era  stata  rotta  a seguito di un presupposto attentato dinamitardo», senza aggiungere altri dettagli. Sulla  posizione  del  casellante, che  di seguito sarà  richiamata  più estesamente,  appaiono  necessarie, già  a  questo  punto, quattro considerazioni:

1) Fino al 9 gennaio 1979 nessuno esamina sugli accadimenti di  quella notte il casellante Salamone.

2) Non viene considerato il particolare che quel casellante aveva intrapreso il suo servizio solo alle ore 22 dell’8 maggio e che, conseguentemente, un altro casellante avrebbe potuto rendere informazioni su quanto era accaduto in precedenza e, in particolare dall’ora della scomparsa dell’Impastato (successiva alle 20 dell’8 maggio).

3) Solo otto mesi dopo la morte di Impastato, risulta in un atto processuale che la casellante di turno fino alle 22 del giorno 8 maggio al casello 30+745, tale Vitale Provvidenza « da Cinisi » (non è neppure compiutamente identificata), si trova « emigrata in USA ». E sebbene ne fosse atteso il rientro in Cinisi alla fine del mese di gennaio del 1979, non vi è traccia in atti del verbale delle sue dichiarazioni testimoniali, che il comandante della stazione dei carabinieri di Cinisi si era espressamente riservato di assumere e trasmettere al giudice istruttore.

4) Vitale  Provvidenza è mai rientrata in Italia? E perché quell’impiegata delle  ferrovie  «emigra»  –  dopo  i  fatti  dell’8  maggio 1978 – negli Stati Uniti?

La prima persona a raggiungere il luogo ove era stato segnalato dal macchinista un « forte angolo » del binario è l’operaio delle ferrovie Vito Randazzo. è lui che, in corrispondenza del km. 30+180, si accorge della mancanza di un tratto di circa 40–50 cm «sulla rotaia di sinistra rispetto alla direzione Trapani ». E informa prima il casellante Salamone e poi l’operaio specializzato delle ferrovie Andrea Evola. Quest’ultimo, recatosi subito sul posto, individua il cratere dell’esplosione, rendendosi conto che « non si tratta di un semplice mancanza di binario, bensì di un fatto dovuto all’esplosione di un ordigno»; e in tal senso fa rapporto al suo capo squadra, Antonino Negrelli. Negrelli ed Evola si recano subito alla stazione dei carabinieri di Cinisi. Approssimativamente alle ore 4 del 9 maggio il maresciallo Travali e l’appuntato Pichilli giungono sul posto insieme ai due tecnici delle ferrovie. Entrambi i militari notano l’autovettura di Impastato e due sandali a circa un metro dall’interruzione della rotaia. Poi, tutto intorno, resti umani: di ciò, via radio, informano la centrale operativa della compagnia di Partinico. Questa, a sua volta, provvede ad avvertire il pretore di Carini. Prima ancora di incontrarsi con il pretore, il maresciallo Travali e il suo collega Di Bono, del nucleo operativo di Partinico, sopraggiunto sul luogo dell’esplosione, con altri carabinieri di quella compagnia, tra cui il brigadiere Carmelo Canale, si portano a casa dell’Impastato, in corso Umberto di Cinisi. Qui Travali apprende che Peppino Impastato di solito dorme dalla zia, in piazza Stazione. Poco dopo Travali accompagna Trizzino sul punto dello scoppio. Il maresciallo Di Bono, con altro personale, avvia accerta- menti a Cinisi e, innanzi tutto, la perquisizione domiciliare nell’abitazione di Bartolotta Fara, zia dell’Impastato, ove quest’ultimo abitualmente dimora.

Mentre si svolge l’ispezione dei luoghi condotta dal dr. Trizzino, i  carabinieri hanno  già  in corso un’attività operativa  che  prende  le mosse dalla perquisizione iniziata alle ore 7 – secondo quanto risulta dal verbale – presso la casa di piazza Stazione. Nel corso di tale atto, «conclusosi alle ore 8 circa », sono rinvenute, depositate in un cassetto del comodino della camera di Giuseppe Impastato, 6 lettere ed un manoscritto composto da tre pagine, che, come si legge nel verbale, « mette in chiara evidenza il proposito suicida dell’Impastato ». Lettere e manoscritto vengono sequestrati e consegnati al personale del nucleo investigativo dei carabinieri di Palermo. Di  questi  accertamenti,  posti  in  essere  in  Cinisi,  si  parlerà  più innanzi. Nella pagine che seguono verranno esaminati gli elementi emersi sul luogo dell’esplosione o comunque ad esso riferibili.

Le ricerche svogliate dei resti di Peppino. La Repubblica il 25 aprile 2020.

Il  Pretore  Giancarlo  Trizzino  alle  ore  6,45  dà  inizio  alla  stesura del processo verbale di descrizione e ricognizione di cadavere, assistito dal maresciallo dei carabinieri, Alfonso Travali, che lo scrive di suo pugno. Alle operazioni partecipa Salvatore Di Bella, settantenne medico condotto di Cinisi. Occorrono sei pagine di verbale per descrivere le condizioni dei frammenti dei resti visibili del cadavere, e in particolare i resti degli arti inferiori, rinvenuti circa cento metri uno dall’altro. Il pretore evidenzia immediatamente che: « il cadavere è dilaniato e si possono descrivere i frammenti rinvenuti sparsi nel raggio di circa 300 metri ». La scena che si presenta alla vista del magistrato, e così rappresentata  nel  verbale, indica  le  concrete  difficoltà  incontrate nell’individuazione e nella raccolta dei resti dell’Impastato. Ecco come il dr. Giancarlo Trizzino ricorda e ricostruisce il suo intervento sul luogo dell’esplosione, nel corso dell’audizione del 25 novembre 1999 dinanzi al Comitato di lavoro: Vorrei precisare innanzitutto che, in qualità  di pretore, mi sono limitato all’effettuazione  degli atti  di  mia  stretta  competenza,  relativi  cioè alla  ricognizione del cadavere (se di cadavere in quella circostanza si poteva parlare), alla sua identificazione. Questo era un problema essenziale e non facile da risolvere proprio per le condizioni in cui si trovava il defunto. Non ho partecipato  ad alcun atto  di indagine, perché quella  stessa  mattina,  appena tornato in caserma, a distanza di un paio di ore dal fatto, intervennero alla stazione di Cinisi il sostituto di turno, dottor Signorino, ed il procuratore della Repubblica facente funzioni, che all’epoca era – se non ricordo male – il dottor Martorana. Ero un giovane pretore, quindi il dottor Signorino mi delegò immediatamente  il  compimento  degli  atti  di  identificazione  e  mi  incaricò  di sentire alcuni congiunti di Impastato (infatti, il problema principale era quello dell’identificazione certa del cadavere e di questo si preoccupava il collega). Ricordo in particolare il fratello, al quale mostrai un paio di occhiali semidistrutti (mi torna in mente questo flash), e una donna che aveva praticato delle iniezioni alla vittima (l’unico pezzo intero era una gamba). I due colleghi, invece, si chiusero nella stanza del comandante di stazione, dove nel frattempo erano sopraggiunti numerosi ufficiali – anche di alto grado – dei carabinieri. Mi sembra di aver visto l’allora maggiore Subranni, che credo comandasse il nucleo operativo. Questi sono gli atti a cui partecipai. Tengo a precisare che non feci nessun tipo  di  investigazione; anzi, proprio  perché ero impegnato in questi adempimenti di natura urgente, non partecipai neppure a quella riunione che vidi tenersi nella stanza del comandante di stazione.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Vorremmo chiederle di fornire degli approfondimenti su alcune questioni che per noi sono importanti. Con chi e a  che  ora  è giunto  sul  posto  e  chi  l’ha  avvertita?

TRIZZINO. Ho ricevuto una telefonata dalla stazione dei carabinieri di Cinisi nella prima mattinata. Abitavo a Palermo, a poca distanza da Cinisi, e mi muovevo con la mia auto privata.

RUSSO  SPENA  COORDINATORE.  Quindi  è intervenuto  da  solo?

TRIZZINO. sì. Mi sono recato alla stazione dei carabinieri di Cinisi, perché  non  sapevo  dove  fosse il posto in cui  era  accaduto  il  fatto.  Peraltro, se  ben  ricordo,  chi  mi  telefonò  non  specificò  il  luogo; mi  fu solo detto che vi era un morto sui binari. Quindi andai alla stazione di Cinisi, dove mi fecero aspettare un po’ di tempo. Poi arrivò un pulmino dei carabinieri, con il quale mi portarono sul posto. lì trovai il medico, il dottor Di Bella (non so se era l’ufficiale sanitario o il medico condotto di Cinisi), una persona anziana. Non avevo molta esperienza di  ispezione  cadaverica,  perché  ero  al  mio  secondo mese di servizio  in  pretura;  se  avessi potuto prevedere la  scena  che  mi si sarebbe presentata dinanzi, forse mi sarei fatto accompagnare sul posto – come poi ero solito fare – da un medico dell’Istituto di medicina legale. Quindi  trovai  sul  posto  questo  medico. [...].  Ricordo  l’estrema  complessità e  difficoltà   del  sopralluogo,  proprio  perché   –  come  ho  già   detto  –  non vi era un cadavere da identificare, da sottoporre a ricognizione, ma solo brandelli sparsi – una scena veramente raccapricciante – oserei dire a centinaia di metri, alcuni dei quali furono trovati anche sui pali della luce; sulle prime   non   si   riuscì   a   reperire   una   parte   consistente   del   corpo. Ricordo anche un altro particolare. Mentre stavo ultimando il sopralluogo, proprio  perché   non  c’era  più   nulla  da  fare, mi  posi  il seguente interrogativo:   può   il   corpo   di   una   persona   ridursi   in   quel   modo,   senza   la possibilità  di trovare una  sua  parte  più   consistente?  Mi  rivolsi,  quindi,  ad un ufficiale superiore dei carabinieri che stava sul posto, pregandolo di attivarsi per far intervenire un gruppo di militari per scandagliare la zona al  fine di trovare un  qualcosa  di  più   considerevole.  Proprio  nel  momento in  cui  stavo  per andare via  da quel luogo, fui richiamato perché  fu  trovata una gamba intera.[...]. Ricordo – ripeto che si tratta di flash a distanza di tanto tempo  –  che  la  ferrovia  era  interrotta  perché   alcune  traversine dei  binari  erano  saltate. In  prossimità della ferrovia  vi  era  una  macchina, una Fiat 850 o qualcosa del genere, che mi fu segnalata come appartenente all’Impastato. Dal cofano anteriore di tale macchina fuoriusciva una specie di  filo  elettrico. Proprio in  relazione al  ritrovamento  della  gamba  intera – non  ricordo  se  a  posteriori  o  sul  momento  –  supposi  che  l’Impastato si trovasse in posizione curva o prona sui binari e che l’esplosivo fosse collocato  sotto  il  torace,  cosa  che  poteva  dare  adito  a  perplessità  sulle  reali causali del fatto.

RUSSO  SPENA  COORDINATORE.  Lei  ipotizzò  una  causale?

TRIZZINO. No, perché non era mio compito ipotizzarla. Posso dire soltanto che il maresciallo dei carabinieri di Cinisi, con il quale ebbi contatti prima di arrivare sul posto, mi ventilò  la possibilità  che si potesse trattare di un  suicidio,  perché nel corso di una perquisizione – mi fu detto – avevano trovato una lettera nella quale l’Impastato formulava propositi suicidi. Successivamente mi fu anche detto che l’Impastato era un extraparlamentare di sinistra. Tuttavia, devo dire che non era  mio  compito  formulare ipotesi, ma in cuor mio potevo soltanto immaginare possibili...

RUSSO SPENA COORDINATORE. Consigliere, mi faccia capire bene. Nel corso del suo spostamento con il pulmino dei carabinieri dalla stazione  di  Cinisi...

TRIZZINO. Ora non ricordo se a bordo del pulmino c’era il maresciallo o un carabiniere; in ogni caso, prima di arrivare, non so se trovai il maresciallo...

RUSSO  SPENA  COORDINATORE.  Le  parlò  di  una  lettera?

TRIZZINO. Sì. Ripeto,  però,  che  si  tratta  di  ricordi.  Non  mi  ricordo  se me lo disse nel corso del sopralluogo nel quale mi assisteva.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Consigliere, le rivolgo un’ultima domanda. Risulta dagli atti che nei pressi, [...] vi era una casa rurale diroccata o, comunque, delle mura in piedi. Vorrei sapere se lei ha fatto delle ispezioni all’interno di tale casa.

TRIZZINO.  Non  l’ho  né  vista  né  mi  fu  segnalata.  Al  riguardo  posso  dire soltanto  che  qualche  giorno  dopo,  quando  forse  avevo  già  trasmesso  gli  atti urgenti alla Procura della Repubblica, mi recai – non so per quale motivo – presso gli uffici della Procura, dove incontrai il sostituto dottor Scozzari, che probabilmente aveva preso la direzione delle indagini. Il dottor Scozzari, parlando del caso Impastato, mi disse che nel corso di un sopralluogo, probabilmente – se non ricordo male – su segnalazione di alcuni amici dell’Impastato, era stato trovato il casolare nel quale furono rinvenute delle tracce di sangue. Tuttavia, devo dire onestamente che, nel corso del sopralluogo, non notai traccia. Peraltro, nelle immediate vicinanze non vi erano casolari, ma solo alberi e muretti a secco. Non vidi, quindi, casolari – almeno ricordo di non averli visti – né  alcuno me li indicò. In ogni caso, debbo dire che il sopralluogo si svolse... La mancanza di personale e di militari mi spinse a sollecitare l’ufficiale superiore ad attivarsi maggiormente[...]. Sulla «casa rurale abbandonata», i ricordi del pretore divergono da precedenti dichiarazioni del maresciallo Travali. Infatti, il comandante della stazione di Cinisi, rispondendo alle domande di Chinnici rivolte a ricostruire i dettagli di quella ispezione, ricorda, tra l’altro, di essere entrato unitamente al pretore nel corso dell’ispezione «nella casa rurale ... che si trova a circa 50 metri dal punto in cui mancava la rotaia». Dalla descrizione effettuata dal Pretore nel suo verbale di ispezione dei   luoghi,   può   desumersi   che i resti dell’Impastato erano dispersi in un’area di circa 2800 mq.. Tale situazione, rendendo oltremodo difficile l’opera di individuazione e di raccolta, determina il giovane pretore di Carini, da appena due mesi al suo posto, a sollecitare i carabinieri (e precisamente l’«ufficiale superiore» presente   sul   posto)   a   mobilitare   più   uomini   per   effettuare ricerche adeguate. Sollecitazione sostanzialmente inevasa, visto che vari altri rinvenimenti di resti e materia organica umana vengono effettuati anche nei giorni successivi nell’ambito di una pietosa ricerca intrapresa dai giovani amici dell’Impastato. Secondo quanto risulta in atti, nel corso dell’ispezione nessuno trovò  mai tracce  di  miccia o  di innesco elettrico o  a  tempo,  o  altri oggetti che potessero condurre all’identificazione dell’esplosivo. Ma quel mattino del 9 maggio 1978 anche tracce, resti e reperti ben visibili e di sicuro interesse investigativo furono trascurati o subirono le vicende singolari, che di seguito saranno ricostruite e descritte. Il dato della dispersione dei resti del corpo dell’Impastato, appena richiamato,  non  rileva  solo  sul  piano  descrittivo,  ma, come si vedrà, concorre significativamente alla ricostruzione delle circostanze dell’esplosione e, quindi, dei profili modali dell’azione. È certo che le operazioni condotte dal dr. Trizzino, iniziate come si  è detto  alle  ore  6,45, non sono né  brevi né  prive  di  difficoltà.  Il pretore lascia il luogo all’incirca un’ora dopo l’inizio della ricognizione, autorizzando il ripristino della linea ferroviaria Palermo–Trapani. Sostituita la rotaia rotta, alle ore 9,30 la linea viene riattivata.

Un reperto finito nel nulla. La Repubblica il 26 aprile 2020. In tutta questa fase delle operazioni magistrato e medico condotto sono coadiuvati dal necroforo di Cinisi. La sua presenza sul posto, risulta documentalmente da alcune fotografie, scattate da un operatore dei carabinieri, che lo ritraggono impegnato a recuperare alcune parti del cadavere. Ma viene anche confermata dal dr. Trizzino, che nel corso della sua audizione dinanzi al Comitato di lavoro il 25 novembre 1999, ricorda: «...C’era un necroforo, un addetto al cimitero che collaborava in queste  occasioni.  Egli  aveva  con  sé dei  sacchetti  di  cellophane.  Noi  lo seguivamo; man mano che rinvenivamo i brandelli, il medico li descriveva e il necroforo li metteva nei sacchetti. Invece la gamba fu ritrovata a notevole distanza dai binari, se non ricordo  male.  Infatti  non  ce  ne  eravamo  accorti  sul momento, fu trovata solo successivamente...». Infine  questa  presenza  – apparentemente inconferente –  è desumibile dallo stesso verbale di descrizione del cadavere, che, infatti, termina con l’autorizzazione alla rimozione dei resti (« ... A questo punto il pretore dispone la rimozione dei resti del cadavere e dispone che gli stessi vengano trasportati all’obitorio presso il cimitero di Cinisi per gli ulteriori accertamenti »): adempimento di norma spettante al necroforo comunale. Non vi è alcun riferimento all’ora esatta in cui terminò la verbalizzazione della ricognizione del cadavere. Quindi il momento in cui furono portate via i resti dell’Impastato può  ragionevolmente farsi coincidere con l’allontanamento del magistrato dal luogo dell’esplosione.

Consegue   che   il   necroforo   prestò   ininterrottamente   la   sua assistenza  al magistrato  fino a  al momento in cui  si  occupò del trasporto dei resti presso l’obitorio del cimitero di Cinisi, ove sarebbe stata eseguita, di lì a poco, l’autopsia. Egli fu quindi un teste diretto di tutte le fasi del rinvenimento e  della descrizione dei resti, per avervi personalmente  partecipato,  durante tutta l’ispezione condotta dal pretore Trizzino. Ma nella ricostruzione dell’andamento delle indagini sulla morte dell’Impastato, questo personaggio, impegnato in un’opera pietosa ed oscura, e di norma irrilevante in un’istruttoria penale, assumerà   via via una particolare importanza, e un ruolo di protagonista. Nel « Promemoria all’attenzione del giudice Chinnici », un documento della Redazione di Radio Aut, ricco di circostanziati spunti investigativi, fatto pervenire al giudice istruttore nel novembre del 1978 – cioè all’inizio  dell’«istruzione  formale»  –,  al  punto  3),  si  legge: La mattina del 9 maggio i carabinieri di Terrasini si presentavano   alla redazione di Radio Aut aprendo con una  chiave,  che  affermavano essere quella di Impastato. Siamo tutti certi che Peppino teneva questa chiave nella tasca destra dei pantaloni, separata dalle altre. Come mai non  è stata  danneggiata  dall’esplosione? Come  mai  i  carabinieri  sapevano che quella chiave isolata  era  quella  della  radio?  Inoltre  la  persona  che ha  raccolto  i  resti,  tal  Liborio,  necroforo  comunale,  disse  in  giro che i carabinieri gli avevano detto di cercare in un  determinato  posto, dove, tra le pietre, egli avrebbe trovato la chiave. Riteniamo opportuna una verifica. Verifica che ha luogo. Il giudice istruttore esamina, in primo luogo il maresciallo, Travali, che, rispondendo ad una specifica domanda, riferisce  quanto  segue:  «In  prossimità  del  luogo  in  cui  mancava  la rotaia, a breve distanza, cinque metri  circa,  rinvenimmo  un chiavino del tipo Yale, perfettamente pulito. Il chiavino fu trovato sul lato destro della rotaia, rispetto alla direzione Trapani, nei pressi di un cespuglio   tra la parte sterrata e la massicciata...». Chinnici raccoglie la testimonianza del necroforo il 20 dicembre 1978, citato con il soprannome di Liborio, perché le sue generalità non risultano espressamente in alcun atto del processo. In un certo senso, quello di Chinnici è  un atto a sorpresa, la cui motivazione va ricercata senz’altro nel promemoria di Radio Aut: di quel verbale del 20 dicembre è bene  trascrivere  integralmente  il  contenuto  delle dichiarazioni di « Liborio » a Rocco Chinnici: «D.R. Sono spesso chiamato dai carabinieri per rimuovere cadaveri che si trovano nelle strade in occasione di incidenti stradali o di altri avvenimenti delittuosi. Quando vengono a fare le autopsie io pulisco i cadaveri.

 Quando morì  Giuseppe  Impastato  il  maresciallo  mi  chiamò  e  mi  disse:  Dobbiamo andare a prendere quello che è rimasto di un picciotto che è scoppiato nella ferrovia». Io ci andai. Quando ci andammo c’erano pure il Pretore e l’Ufficiale sanitario. Io giravo assieme a tutti e trovai sotto gli alberi di ulivo dei pezzetti del corpo e precisamente pezzi di pelle del torace, in tutto potei trovare circa tre chili del corpo dell’Impastato. Trovai inoltre la montatura degli occhiali senza i vetri e tre dita della mano compresi «i nervi  del  braccio». Mentre io cercavo i resti di Impastato, il brigadiere dei carabinieri di Cinisi mi disse di cercare una chiave. Io trovai tre chiavi vicino alla macchina  di  Impastato  e  precisamente  accanto  alla  portiera  di  destra,  cioè accanto al lato di chi si trova vicino al guidatore. Le tre chiavi erano l’una vicina all’altra. Il brigadiere, dopo che io trovai le tre chiavi, mi disse: « Ma se ne deve trovare un’altra!». Io allora cercai altri pezzi del corpo di Impastato perché  il  brigadiere  mi  disse  che  l’altra  chiave  la  cercava  lui ».  Di  fatti  poco dopo il brigadiere ritrovò la chiave a circa tre metri, «un poco più  avanti dove ci fu lo scoppio». La chiave se la prese il brigadiere e se ne andò  subito alla Caserma.  Di  altro  non  so  più  nulla.  Io  mi chiamo Giuseppe,  ma a Cinisi  mi chiamano Liborio». Dai particolari acquisiti dal Chinnici circa il rinvenimento della chiave di tipo Yale discende una circostanza del tutto nuova. Per la prima volta, a poco più  di sette mesi dalla morte di Giuseppe Impastato, si scopre l’esistenza di un reperto «le tre chiavi», di cui fino  a quel momento non vi era traccia negli atti del processo.

Un reperto finito nel nulla! Ma Liborio conferma anche un altro particolare: la vicinanza della chiave al luogo dell’esplosione. Circostanza difficilmente spiegabile se la chiave si fosse trovata in una delle tasche del pantalone, considerato che gli arti furono trovati a grande distanza dai binari. La chiave Yale – perfettamente pulita, oggetto di una specifica (quanto inspiegata) ricerca da parte di un sottufficiale di Cinisi – verosimilmente non si trovava nelle tasche dell’Impastato al momento dell’esplosione. Nell’inchiesta penale quel « brigadiere di Cinisi » che andava alla ricerca di  questa  chiave  non  è stato  mai  esaminato. L’appuntato Pichilli, sentito da Chinnici il 10 dicembre 1978, riferisce di non sapere nulla « di chiavi rinvenute sul luogo ». Pichilli  fornisce  però  un  particolare  non  irrilevante  e  inedito:  ricorda che « il pretore eseguì l’ispezione assieme al maresciallo, [a me] e al brigadiere Antonio Esposito ». Agli atti del processo non risulta alcuna testimonianza dell’Esposito, sottufficiale in forza alla stazione di Cinisi all’epoca dei fatti. All’atto della sua citazione dinanzi al Comitato  di  lavoro  della  Commissione,  l’Esposito  è risultato  in  missione all’estero. L’importanza delle testimonianze di Giuseppe Briguglio, nato a Cinisi  il  10  febbraio  1944  –  è questa l’esatta  identità  del  necroforo  – sarà   resa   ancora   più   evidente   dal   tenore   delle   sue   dichiarazioni nell’intervista resa a Felicia Vitale. Di questa intervista si parlerà nell’ambito delle vicende delle tracce di sangue.

Scomparse tutte le tracce dell'esplosione. La Repubblica il 27 aprile 2020. Tra le parti del cadavere individuate e raccolte, il Pretore indica, in primo luogo, un pezzo costituito da materia cerebrale «con ossa della volta cranica e un tratto di cuoio capelluto, un pezzettino d’osso della volta cranica che si rinviene a poca distanza, un pezzo di pelle ... commista a frammenti di tessuto molto probabilmente del collo. Un pezzo d’osso che si identifica come un tratto della colonna vertebrale del lato cervicale. Pezzi sparsi ovunque di tessuti molli di cui non si riesce a stabilire la parte del corpo a cui appartengono». E ancora «un pezzo d’arto inferiore troncato, con insieme delle parti muscolari: l’arto  (destro)  appare  integro  dal  terzo  superiore  in  giù». A questo punto il verbale dà atto dell’impossibilità  di rilevare altre parti del corpo e conclude parlando di «sconquassamento di tutto il corpo prodotto da esplosione». Di seguito la descrizione riprende e si legge che «alla distanza di quasi cento metri da primo arto si rinviene ... il resto dell’arto di sinistra pure integro dal terzo superiore della coscia fino al piede e alla radice dilaniato», che evidenzia «parti molli e la testa del femore scoperchiata ». Segue la descrizione del rinvenimento di frammenti di stoffa «sparsi tutto intorno alla zona in questione e particolarmente nel tratto vicino alla linea ferrata». In presenza di un cratere al suolo, la circostanza che gli  arti  inferiori siano stati rinvenuti integri, contrariamente alle ossa della scatola cranica, esclude che il corpo dell’Impastato al momento dell’esplosione  potesse  essere  in  posizione  accovacciata  o  eretta,  e  già in  sé fa  dubitare  che  lo  stesso  fosse  animato. Alle ore 13,50 del 9 maggio 1978, presso l’obitorio del cimitero di Cinisi,  il  pretore  Trizzino  dà  ingresso  alle  operazioni  di  autopsia  sui resti del cadavere. È presente in qualità  di perito il dr. Antonio Caruso dell’Istituto  di  medicina legale  dell’università di  Palermo, al quale vengono proposti i rituali quesiti sulla «causa della morte, i mezzi che l’anno prodotta, l’epoca presumibile a cui essa risale ed ogni altra circostanza utile ai fini di giustizia». La descrizione dei  resti  che  si trova nel verbale delle operazioni della perizia autoptica fornisce utili dettagli. Essa pertanto va riconsiderata nel contesto della relazione. L’attenzione del medico legale è – ovviamente – rivolta ai due arti inferiori, raccolti nella cassa metallica  mortuaria  portata  nell’obitorio del cimitero di Cinisi, di fatto gli unici resti di una certa consistenza. Il perito osserva che «i due arti inferiori» si presentano: ricoperti da abbondante peluria di un soggetto di sesso maschile, con unghie  che  oltrepassano  le  estremità  delle  dita.

Tali  arti  risultano  irregolarmente  disarticolati  in  corrispondenza  delle  anche.  Il  rivestimento  cutaneo  è irregolarmente frastagliato ed affumicato sulla fascia anteromediale delle cosce stesse. L’affumicatura si estende alla cute integra per una decina di centimetri ed ai muscoli della radice delle cosce per un’estensione pressoché analoga. Sulla fascia mediale della coscia sinistra la pelle presenta delle lacerazioni a forma di V con apice in basso. In corrispondenza della lacerazione più  interna (delle due anzidette) si rinviene una parte dello scroto, un testicolo e il pene ampiamente lacerati ed affumicati. Integre le parti restanti delle cosce, delle gambe e dei piedi. Segue un interessante descrizione di alcune lesioni ai piedi: Sulla faccia destra dei piedi e delle dita rispettive, piccole ferite lacero contuse  a  lembo,  il  cui  bordo  libero  è rivolto  verso  l’alto  (verso  la  tibiotarsica). Integre le ossa delle cosce, delle gambe e dei piedi. L’autopsia descrive poi i «frammenti della mano destra costituiti dagli ultimi tre metacarpi e dalle ultime tre dita, a confine assai  irregolare, la  cui superficie  palmare  è interamente affumicata  e decisamente nerastra sui polpastrelli. Significativi particolari sono riferiti a parti anatomiche riferibili al cranio « ... si notano altresì frammenti di cuoio capelluto, di ossa craniche (ogni frammento, di forma triangolare, quadrangolare o pentagonale, ha il diametro massimo di 6-8 centimetri) ». Segue una sintetica descrizione delle ulteriori parti:  « frammenti  di  muscoli, di  rachide cervicale, di  ossa tra  cui è riconoscibile solo un largo frammento dell’osso iliaco destro, di cute, di encefalo e di intestino».

Il rinvenimento delle calzature, di frammenti di stoffa e di pezzi di rotaia. Sempre nel tratto vicino alla linea ferrata, e precisamente sulla massicciata adiacente alla stessa, il pretore Trizzino individua e descrive frammenti di stoffa, « due zoccoli di tipo Scholls » in legno con cinghia in cuoio di colore bianco, e « sparsi nella zona soprastante la linea ferrata, 3 pezzi di rotaia, che vengono posti sotto sequestro ». Detti frammenti del lato sinistro della rotaia, come precisa il mare- sciallo Travali nel suo verbale di sopralluogo, sono rinvenuti « alla distanza di circa 100 metri lato monte ». Il sottufficiale precisa che « detti pezzi in conseguenza dello scoppio hanno assunto delle forme irregolari ».

La descrizione dell’auto «parcheggiata».

Il verbale dato atto che «a ridosso di detto tratto della  strada  ferrata» a «circa 5 metri dalla interruzione sopra descritta nei pressi    di un cespuglio di agave viene rinvenuta una chiave di tipo  Yale  [...] unita ai reperti precedenti ...», prosegue evidenziando che «nello spiazzale antistante una casa rurale abbandonata ... si rinviene parcheggiata un’autovettura targata PA 142453 Fiat 850, color bianco, non chiusa a chiave con deflettore aperto lato sinistro e vetro leggermente abbassato... Dal cofano fuoriesce un filo della lunghezza di circa un  metro ... tipo telefonico. Nel lunotto posteriore si trova  un  rotolo  di  detto filo. Per precauzione l’interno dell’autovettura non viene ispezionato « in attesa dell’arrivo degli  artificieri  tempestivamente  avvertiti». Alle ore 12,15 nella stazione dei carabinieri di Cinisi, il pretore Trizzino, assistito dal cancelliere della pretura di Carini, redige un processo verbale di descrizione e ricognizione dei « brandelli degli indumenti indossati dalla vittima a momento dell’esplosione». Alle 13,50 « su delega dl P.M. di Palermo, stante l’assoluta urgenza, il Pretore dispone procedersi all’autopsia sui resti del cadavere rinvenuto in contrada Feudo di Cinisi» ed identificato da Impastato Giuseppe e da   Impastato   Simone.   Viene   richiesto   in   qualità   di   perito   il   dr. Antonino   Caruso  dell’Istituto di   Medicina   legale   dell’Università   di Palermo, cui vengono posti i rituali quesiti in ordine alla causa della morte e ai mezzi che l’avevano prodotta. Nel corso dell’esame autoptico il perito preleva frammenti di encefalo, di intestino e di cute affumicata per poter espletare i necessari esami chimico tossicologici e di ricerca delle polveri da sparo. Per questi accertamenti gli viene associato il dr. Paolo Procaccianti dell’Istituto di medicina legale dell’Università di  Palermo.

Le caratteristiche del « cratere » e le tracce dell’esplosione. Non si apprezzano negli atti della polizia giudiziaria molti particolari sulle caratteristiche del « cratere » formatosi nel punto dello scoppio. Il maresciallo Travali così sinteticamente lo descrive: « Al km. 30,180 della ... linea ferrata si nota la mancanza di circa 30-40 cm. di  rotaia,  lato  sinistro  rispetto  alla  direzione  Palermo–Cinisi  nonchè un fosso sottostante da cui manca la traversa di legno ». Delle tracce dello scoppio e delle misure del cratere non vi è alcuna menzione nei verbali redatti dai carabinieri, che si limitano a menzionare il reperimento  di  tre  pezzi  di  binario.

 E  ciò  malgrado  la  palese  importanza di questo elemento per la individuazione delle caratteristiche dell’esplosivo e  delle  modalità  della  sua  collocazione. Fa eccezione il rapporto giudiziario del Reparto operativo dei carabinieri di Palermo, datato 10 maggio, in cui, alla prima pagina, testualmente si legge che « in sede di sopralluogo si constatava che: la rotaia del binario (unico) lato monte per un tratto di circa 40 centimetri era tranciato e divelto e sotto di essa si sera formata una grossa buca con spostamento delle traverse ... ». L’approfondimento  della  conseguenze  dell’esplosione  è affrontato per la prima volta nel corso dell’istruzione formale condotta dal giudice Chinnici il 19 ed il 21 dicembre 1978 in occasione degli esami testimoniali del maresciallo Alfonso Travali, comandante della stazione di Cinisi, e del brigadiere Antonio Sardo, artificiere del reparto operativo dei carabinieri del gruppo di Palermo. Ne parla per primo  al giudice istruttore il maresciallo Travali, che ricorda la circostanza: « sul punto indicato dal ferroviere notai che effettivamente sul binario di sinistra, in direzione di Cinisi, e, quindi, di Trapani, per un tratto di circa 30-40 centimetri mancava la rotaia. In corrispondenza del punto in cui mancava la rotaia c’era un piccolo buco, del diametro di 30–40 centimetri, profondo circa 10–15 centimetri ». Il 20 dicembre 1978 il brigadiere dei Carabinieri Carmelo Canale, allora in servizio a Partinico, esaminato dal giudice istruttore Chinnici circa le tracce lasciate dall’esplosione, parla di un cratere del diametro di  circa  mezzo  metro  e  della  profondità  di  30-40  centimetri. Infine il brigadiere dei carabinieri del reparto operativo del gruppo  di Palermo Antonio Sardo, esaminato il 21 dicembre del 1978 da Rocco Chinnici, precisa che essendo sopraggiunto sul luogo dell’esplosione solo   alle   ore   10 del  mattino, trovò la   linea   ferrata   «ripristinata perfettamente». Sardo ricorda invece che «fu il comandante della stazione, assieme ad altri, che ci descrissero come fu trovato il tratto      di strada ferrata»... in particolare ci dissero che al momento del loro arrivo mancava uno spezzone di binario di circa 70 centimetri e  nel punto in cui mancava il binario c’era una buca [...] Non ricordo se mi fu precisata la dimensione di detta buca». Il teste Antonio Sardo dichiara che sostanzialmente si limitò «solo ad esaminare gli spezzoni del binario che [gli] furono mostrati e ad aprire il cofano della vettura Fiat 850». Questa precisazione comporta una «rilettura» della relazione di servizio redatta da lui alle ore dieci del giorno 9 maggio, in cui si legge: «si suppone che la carica esplosiva fosse composta da esplosivo ad elevato potere dirompente, verosimilmente esplosivo da  mina comunemente impiegato nelle cave di pietra e per sbancamento di terreno quantitativamente rappresentato da Kg. 4–6 circa». Di  tenore  sostanzialmente  analogo  la  relazione  di  servizio  del sergente maggiore Longhitano dell’11 direzione di artiglieria. Il militare, «richiesto di intervenire da parte del comando di gruppo carabinieri di Palermo», a sua volta, dopo aver precisato  che  al momento del suo arrivo il tratto di strada ferrata era stato ripristinato, «stante quanto riferito dai carabinieri», quindi de relato «presume che l’esplosivo fosse ad elevato potere dirompente, verosimilmente esplosivo da mina comunemente impiegato nelle cave di pietra e per sbancamento terreni». «La carica esplosiva, considerati gli effetti dirompenti, poteva essere di kg. 4-6 circa». La relazione del brigadiere Sardo risulta redatta in Palermo, presso  il  Reparto  operativo  dei  Carabinieri, in data 9.5.1978, cioè lo stesso giorno del sopralluogo. Nessun altro particolare consente oggi di risalire a chi – fra i carabinieri di Cinisi – descrisse gli  effetti dell’esplosione, consentendo tali conclusioni circa il tipo e il quantitativo dell’esplosivo impiegato. C’è  allora  da  interrogarsi  su  come  entrambi  questi  testi  siano giunti  a  tali  «presunzioni».  né  una  riposta  all’interrogativo  sembra potersi desumere dal tenore delle dichiarazioni rese dal generale Antonio Subranni alla Commissione Antimafia in occasione della sua audizione dell’11 novembre 1999. In tale circostanza all’audito viene chiesto di riferire in ordine alle caratteristiche dell’esplosione. Di seguito si riportano i passi del resoconto sommario nei quali è trattato l’argomento.

RUSSO SPENA COORDINATORE. E in base a quali atti tecnico-scientifici? Finora abbiamo parlato di contesto. Io le ho chiesto di farci capire gli aspetti tecnico-scientifici, e non soltanto di contesto o soltanto di commento. Cioè, vi sarà stata un’indagine  su  come  era  stata  uccisa,  o  come  era  morta, o come si era suicidata una persona…

SUBRANNI.  Tecnicamente  c’è poco;  c’è polvere  da  cava,  ce  n’era  molta in quella zona. [...]. io parlo sempre delle prime indagini. Al di fuori della buca formatasi per effetto dell’esplosione non c’era traccia di miccia, ad esempio. Questo l’ho detto anche a Del Carpio, che mi disse che lui effettivamente non si intendeva di queste cose. La lettera di Impastato per me era valida, nei termini in cui ne ho parlato.

RUSSO SPENA COORDINATORE. La lettera viene dopo, generale, parliamo della miccia, della polvere, e poi parliamo della lettera, di cui abbiamo peraltro  già  parlato.

SUBRANNI. Gli elementi tecnici erano questi: l’assenza di una traccia di miccia che andasse oltre la buca creatasi per effetto dell’esplosione; in secondo luogo, la dinamite usata era quella comune delle cave, e lì ci sono tantissime cave. Questi sono i pochi aspetti tecnici, il resto era tutto legato alle indagini, si  trattava  di  sentire  le  persone,  se  qualcuno  aveva  visto  qualcosa,  perché  la macchina circolava, se qualcuno aveva visto quando era stato aggredito: in questo caso, certamente avremmo preso un indirizzo diverso [...].

Come si vede, il generale Subranni richiama due aspetti tecnici: l’assenza di una traccia di miccia e il tipo di esplosivo adoperato: dinamite comune da cava. Quanto alla mancata individuazione dei resti della miccia non può  non rilevarsi che è di comune scienza il dato che i resti del detonatore o della miccia vengono dispersi in lontananza dall’esplosione. In ordine al tipo di esplosivo, anche alla luce del tipo di indagini tecniche effettuate dai periti e in assenza di specifici elementi identificativi, l’indicazione data Subranni alla Commissione deve ritenersi priva di adeguato riscontro a meno che essa derivi da elementi allo stato non agli atti nella disponibilità della  Commissione. Alcuni altri particolari in merito alle tracce lasciate dall’esplosione, si traggono dal verbale delle dichiarazioni rese al giudice istruttore dal teste Andrea Evola, operaio specializzato delle Ferrovie dello Stato nella tratta Cinisi-Carini e addetto alla manutenzione dei binari. Questi riferisce al giudice Chinnici, di avere – al lume della lanterna – individuato il luogo dell’interruzione e constatato che esso era di circa 55 centimetri e di aver notato « un fosso profondo circa 30 centimetri e largo non più  di 30 centimetri ». Sostanzialmente analogo l’assunto di Antonino Negrelli, casellante delle ferrovie, che a sua volta riferisce al magistrato di aver notato « un fosso profondo circa 20 centimetri e largo circa 40 centimetri », e aggiunge che, quasi nel punto in cui mancava il binario, c’era un sandalo di legno. Come si è già  osservato, durante i sopralluoghi i verbalizzanti non effettuano alcuna esatto rilevamento delle dimensioni del « cratere » né più  approfondite  ispezioni.

I resti (si parla nel verbale di sequestro di tre pezzi del binario non vengono nemmeno misurati, e non vengono allegate fotografie che li ritraggono. Ma  soprattutto  né  dai  verbali (Trizzino e Travali) di sopralluogo, né  da   altri atti vi è  menzione degli  eventuali  resti  dell’innesco dell’ordigno, rectius del detonatore oppure degli eventuali resti di una miccia. È notorio che il detonatore,  di qualsiasi tipo esso sia, può essere proiettato in frammenti lontano dall’onda d’urto dell’esplosione. E altrettanto vale per la miccia. L’assenza in atti di elementi relativi al ritrovamento di queste tracce non consente la formulazione di ipotesi attendibili circa le modalità  dell’accensione  dell’ordigno  esplosivo,  né  ovviamente  di  più precise conoscenze sulla natura e sulla quantità  della sostanza o delle sostanze con cui esso era stato preparato: pertanto non si vede come da tale quadro possa essere stata desunta la consumazione di un’azione dinamitarda da parte della vittima. Sul punto si riportano le argomentazioni del perito Pellegrino: Su un frammento di stoffa repertata sul luogo, sono state rinvenute tracce di binitrotoluene (o DNT – dinitrotoluene). Il binitrotoluene fa parte dei nitroderivati aromatici della serie nitrotolueni [...]. Questi tre nitrotolueni, ed, in particolare, quelli di 2-4 e 2-6, danno luogo ad una famiglia di esplosivi detti, per l’appunto, a base di bibitrotoluene. Oltre a ciò  essi vengo impiegati per inumidire, e quindi fiemmatizzare leggermente, alcuni esplosivi a stato di aggregazione fisica pulverulenta. Gli esplosivi a base di binitroluene fanno parte dei così detti esplosivi dirompenti, o da mina, e quindi vengono utilizzati anche nelle nostre cave. Stante le risultanze ottenute si può  quindi affermare che  l’ordigno  esplosivo  col  quale  è stato  ucciso  (ammesso  che  non  fosse  già morto prima) Impastato Giuseppe era composto di esplosivo a base di binitrotoluene.  Purtroppo  non  è stato  possibile  stabilire  quale  degli  esplosivi appartenenti a questa famiglia è stato impiegato. Di conseguenza non è stato possibile stabilire quali caratteristiche fisiche è[...] aveva l’esplosivo impiegato. Di  conseguenza  non  è possibile  stabilire,  seppure  con  approssimazione  sufficiente, la quantità  dell’esplosivo impiegato. Stante il mancato reperimento di elementi indicativi, non è possibile neanche dedurre come era stato innescato l’ordigno: se con detonatore elettrico o se con detonatore a miccia o a tempo.

Segue il rinvenimento delle calzature della vittima. L’appuntato dei carabinieri di Cinisi, Carmelo Pichilli, dopo avere riferito al G.I. di avere partecipato, unitamente al maresciallo Travali e al brigadiere Antonio Esposito all’ispezione condotta dal pretore Pizzillo, precisa: « per terra, quasi nel tratto in cui mancava   il binario, notai un sandalo « tipo farmacia » di colore bianco, un altro era nel lato opposto, e quasi a contatto con il binario ». Mentre «a tre metri di distanza circa dal sandalo, che si trovava nel punto in cui mancava il binario, c’erano gli occhiali. Intatti o – non ricordo – se mancava un vetro». Di questi tre reperti non si sa altro. Certo è veramente strano che gli occhiali siano rimasti sostanzialmente intatti a circa un metro dal punto ove mancava il binario, mentre la volta cranica sostanzialmente esplose, dispersa in un ampio raggio. Le indagini nemmeno preciseranno se sui sandali siano state rinvenute tracce dell’esplosione.

Il sopralluogo e gli atti mancanti. La Repubblica il 28 aprile 2020. Accertamenti sull’autovettura Fiat 850 di Peppino Impastato risultano effettuati dal vice brigadiere dei carabinieri Squardo Antonino «artificiere-antisabotaggio » presso il reparto operativo dei carabinieri di Palermo. « Per ordine del Comandante del Reparto Operativo», il sottufficiale giunge sul luogo dell’esplosione alle ore dieci del mattino del 9 maggio e rileva che dal cofano anteriore, «chiuso», dell’auto- vettura, nella parte destra, fuoriusciva un cavo telefonico con i due fili, uno  di  colore  rosso  e  l’altro  trasparente,  già  agguainata  all’estremità.

Supponendo  l’esistenza  di  una  trappola  esplosiva,  l’artificiere  con «tutti  gli  accorgimenti  del  caso» procede all’apertura  del  cofano. «Appena aperto il cofano » constata trattarsi di una cavo telefonico, della lunghezza di circa metri 2,80, collegato con i morsetti della batteria.

Il  dato  più  significativo  consiste  nel  fatto  che  l’ispezione  di  tutto il  veicolo  «alla  ricerca  di esplosivo o di trappole  esplosive»  non  dà esito: di essi non si riscontra «alcuna traccia». Viene soltanto rinvenuta sul piano lunotto una matassa di cavo telefonico della lunghezza di circa 28 metri.

I mancati atti di polizia scientifica. Non si cercano le impronte digitali sul veicolo dell’Impastato. Non vengono effettuati rilievi planimetrici. Non si procede ad un idoneo setacciamento del terreno per individuare tracce dell’innesco. Non vi è alcun riferimento negli atti ad indagini di polizia scientifica indirizzate ad evidenziare a bordo dell’auto  impronte  digitali recenti dei possibili compartecipi all’azione criminosa ascritta all’Impastato. Non risultano effettuati rilevi planimetrici atti a indicare  il luogo esatto ove l’auto fu ritrovata e le distanze relative con altri reperti  e  i  manufatti  presenti  in  quel  contesto.  né   risulta  alcuna specifica ricerca di tracce di esplosivi, inneschi o di qualsiasi altra cosa servita o destinata alla consumazione della presunta azione dinamitarda. Queste  carenze  appaiono  tanto  più  inspiegabili  se  si  tiene  conto della presenza in loco di personale di polizia giudiziaria idoneo a tali rilievi, desunta dalla circostanza dell’avvenuto rilevamento fotografico dello stato dei luoghi da parte di personale  della  compagnia  di Partinico. Tuttavia, inspiegabilmente, nessuno sembra avere proceduto ai rituali rilevamenti planimetrici o quanto meno ad allegare agli atti di polizia giudiziaria un estratto di mappa catastale utile a fornire una rappresentazione dei luoghi stessi. E nemmeno, nel cratere provocato dall’esplosione, a prelievi di inerti (terra, pietrame, ecc.) utili ad  eventuali analisi chimiche per l’individuazione dell’esplosivo e del  relativo innesco. Inoltre, senza una plausibile spiegazione, mancano agli atti del procedimento reperti fotografici essenziali, quali, ad esempio, le immagini del luogo dell’esplosione, i particolari del cratere e del binario interrotto, ecc. In sostanza, occorre prendere atto che gli atti della polizia giudiziaria versati alla procura di Palermo producono una sorta di oscuramento dello stato dei luoghi.

Il verbale di sopralluogo redatto dai carabinieri il 9 maggio 1978. Alle ore 10 del 9 maggio 1978, il maresciallo Travali redige un proprio «processo verbale di sopralluogo» (compilato «per essere  allegato al rapporto giudiziario»).  L’atto  è intestato  «Verbale  di sopralluogo  effettuato  in  località  «Feudo», agro di Cinisi, (PA),  ove sono stati rinvenuti i frammenti del cadavere di Impastato Giuseppe ..., celibe,  studente  universitario  f.c.  [leggasi  fuori  corso],  nullafacente». Dal sopralluogo eseguito, si addiviene ai medesimi rilievi descrittivi del processo verbale redatto in presenza del pretore Trizzino. In particolare si evidenzia, iniziando la descrizione dei luoghi, che la località Feudo è raggiungibile dalla strada comunale che  costeggia  la recinzione – lato monte – dell’aeroporto di Punta Raisi: « Dopo avere percorso 4-5 chilometri dall’abitato di Cinisi, sulla destra si perviene ad una trazzera che termina ad una casa rurale, abbandonata ed aperta, con antistante un piccolo piazzale in terra battuta, ove si rinviene l’autovettura ... in possesso di Impastato Giuseppe. Detta autovettura «non chiusa a chiave » presentava il cofano socchiuso, da cui fuoriusciva un filo – presumibilmente di corrente elettrica – della lunghezza di circa un metro, con la estremità  sguainata. L’autovettura non  è stata  ispezionata  all’interno  a  scopo  precauzionale,  in  attesa dell’intervento dell’artificiere richiesto». Nel verbale di sopralluogo redatto dal maresciallo Travali si fa espresso riferimento al rinvenimento di un chiavino del tipo Yale, a  distanza di circa 5 metri dalla interruzione dei binari, nei pressi di un cespuglio di agavi. Manca ogni elemento utile a configurare le distanze e la posizione relativa del punto dello scoppio rispetto all’autovettura e alla casa rurale prospiciente. Proprio quell’edificio semi-abbandonato che, stranamente protetto da un servizio di piantonamento di carabinieri anche dopo  il  sopralluogo del  9 maggio, diventerà scenario di importanti sviluppi investigativi solo per iniziativa di alcuni amici di Impastato e di un anziano medico legale, noto per il suo impegno civile. Il verbale Travali si chiude dando atto che « sul posto sono state scattate delle fotografie », senza indicare chi vi ha proceduto. Nessun riferimento al rinvenimento delle tre chiavi nei pressi della Fiat 850, nessuna menzione di una pietra insanguinata. Il rapporto giudiziario n. 2596/2 del 10 maggio firmato dal maggiore Subranni, comandante del reparto operativo del gruppo di Palermo non  menziona la «casa rurale abbandonata», indicata solo in un allegato.

Come  si  è appena  rilevato,  nel  verbale  di  sopralluogo  predisposto dal maresciallo Travali ed unito al Rapporto giudiziario 2596/2 del 10 maggio 1978, non si trovano altri riferimenti a questa «casa rurale abbandonata ed aperta». Eppure l’interesse investigativo dell’immobile era stato palesato dai rinvenimenti di tracce effettuati fin dalle prime battute delle indagini, e addirittura dal reperimento di una pietra recante evidenti tracce di sangue, consegnata nelle prime ore del mattino del giorno 9 ai carabinieri e portata via in un sacchetto di plastica. Nelle 18 pagine del rapporto giudiziario del 10 maggio del maggiore Antonio Subranni, Comandante del reparto operativo dei Carabinieri di Palermo, non vi è alcun cenno a detta costruzione. Nemmeno nella parte iniziale, ove Subranni pure richiama le risultanze del sopralluogo e, in particolare, il punto dell’esplosione, la disseminazione dei brandelli del corpo dell’Impastato, e, con maggiore dovizia di particolari, l’ubicazione dell’auto del giovane (posta a circa venti metri da punto dello scoppio) e la presenza a bordo di una matassa di filo «di circa 20 metri». Una coincidenza di distanza, invero, utile a suffragare l’ipotesi della destinazione del cavo rinvenuto a bordo dell’auto all’innesco dell’esplosivo.

Tra gli allegati al rapporto del 10 maggio non vi sono rilievi planimetrici. Nemmeno tra i numerosi allegati al rapporto giudiziario risultano rilievi dai quali desumere l’esatta posizione dei reperti e, in particolare, la distanza della Fiat 850 dal luogo dell’esplosione e dalla casa rurale aperta e abbandonata. Questa carenza non appare priva di significato, trattandosi di un tipo di rilievo del tutto usale, anche in un semplice incidente stradale e che  inspiegabilmente  risulta  omesso. Non è dubitabile  che  la  esatta rappresentazione dello stato dei luoghi avrebbe evidenziato l’interesse e il potenziale investigativo della casa abbandonata nel contesto dei fatti che determinarono la morte dell’Impastato.

Il fascicolo fotografico. Quanto  osservato  per  i  rilievi  planimetrici  vale  ancor  più  per  il cosiddetto fascicolo fotografico che, a tutt’oggi, appare addirittura mancante agli atti del procedimento penale. Eppure  da  una  pluralità  di  fonti  si  desume  che  molte  fotografie vennero scattate fin dalle prime ore del mattino del 9 maggio: Si  è già  detto  della  esistenza  di  specifici  reperti  fotografici effettuati dai carabinieri sul luogo dell’esplosione e non risultanti negli atti processuali: si tratta delle «fotografie scattate dai carabinieri subito dopo il fatto» esaminate dal perito Pietro Pellegrino, ma non allegate alla sua relazione.

Lo stesso maresciallo Travali nel processo verbale di sopralluogo  a  sua firma  del  9  maggio dà  atto  che «sul posto sono  state scattate delle fotografie».

La Commissione ha acquisito ed esaminato copia di un « fascicolo fotografico a seguito della morte di Impastato Giuseppe classe 1948 da Cinisi », realizzato dal Nucleo operativo della Compagnia dei carabinieri di Partinico. Ma questo fascicolo, a firma « Il Maresciallo Ordinario Comandante del Nucleo Operativo Francesco Di Bono », privo di indice e di relazione, consta di sole 9 (nove) fotografie, tutte prive di legenda e mancanti di qualsiasi elemento descrittivo, che ritraggono  da  più   posizioni  i  resti  degli  arti  inferiori  di  Impastato Giuseppe. In questo « fascicolo fotografico » non vi è alcuna inquadratura del binario interrotto dall’esplosione, dei frammenti di rotaia (v. sub a), della posizione degli altri reperti individuati e descritti nei verbali di sopralluogo (chiavi, zoccoli, ecc.), né  dell’autovettura fiat 850 parcheggiata in uno spiazzo poco distante dal luogo dell’esplosione, nei pressi di una casa disabitata. Tantomeno risultano presenti in questo fascicolo (trasmesso anche all’A.G.) fotografie di campo largo, idonee a documentare l’area dell’evento e dell’intervento della polizia giudiziaria, che ordinaria- mente vengono effettuate in occasione di qualsiasi sopralluogo.

Queste anomalie non meritano ulteriori commenti. Ancora in argomento va rilevato che tra le copie degli atti processuali acquisite dalla procura della Repubblica di Palermo non è stata  trovata  traccia delle  fotografie di  cui è fatta  menzione  nel « processo verbale di ispezione dei luoghi » redatto alle ore dieci circa del giorno 13 maggio del 1978 dal sostituto procuratore della Repubblica di Palermo Francesco Scozzari, in occasione del sopralluogo condotto dallo stesso magistrato unitamente al maggiore Antonio Subranni ed al capitano Emanuele Basile, a periti di ufficio e di parte e con l’assistenza di « elementi della Squadra scientifica dei carabinieri del reparto operativo di Palermo ». L’atto istruttorio condotto dal Pubblico Ministero Scozzari nell’economia della relazione merita una autonoma e specifica trattazione. Sul tema specifico della carenza di idonei reperti fotografici negli atti processuali, merita di essere sottolineata una circostanza che riconduce immediatamente al «sopralluogo Scozzari». Quattro giorni dopo lo scoppio dell’ordigno, in quel mattino del 13 maggio,  nel  corso  della  « ispezione  del  caseggiato  in  prossimità  del quale fu rinvenuta in sede di primo sopralluogo l’autovettura Fiat 850 di pertinenza di Impastato Giuseppe » vengono individuati e asportati importanti reperti recanti tracce ematiche, che successivamente i periti indicheranno dello stesso gruppo dell’Impastato. Il magistrato nel procedere all’ispezione del caseggiato evidenzia innanzitutto  che  esso si presenta composta da due distinte  unità immobiliari «non comunicanti». E, relativamente alla prima di esse, verbalizza  che  «nel  vano  descritto  è stato  fatto  un  minuzioso  rilevamento fotografico con particolare riferimento alla traccia lasciata dalla asportazione della pietra che si assume macchiata di sangue, alla pietra che i periti hanno ritenuto portante traccia di materia verosimilmente organica  ed al  sedile». Quindi dà  atto che «...eseguiti i  rilevamenti fotografici la pietra, dai periti come sopra notata, viene asportata per costituire reperto». Anche  nella  seconda  unità immobiliare,  con  ingresso  a  lato  nord, il Pubblico Ministero Scozzari dispone che si proceda « all’accurato rilevamento fotografico dei vani ». Altrettanto dicasi per uno straccio individuato all’esterno del caseggiato. L’accurata verbalizzazione dell’ispezione evidenzia il rilievo che a questo atto processuale attribuisce il magistrato, che conseguentemente avverte l’importanza di una particolareggiata repertazione fotografica dei luoghi. Ma tali fotografie non risultano tra gli atti pervenuti nella disponibilità  di questa Commissione. Va sottolineato che i rilievi del giorno 13 risultano effettuati da elementi della Squadra scientifica dei carabinieri  del  reparto  operativo  di  Palermo,  e  cioè da  personale  alle dirette  dipendenze del maggiore Subranni,  che  partecipò   personalmente all’ispezione Scozzari, ed ebbe pertanto una diretta percezione dell’esistenza di tracce ematiche all’interno del casolare. Sempre in tema di rilievi fotografici – ma questa volta in riferimento alla presenza e all’operatività, il giorno 9 maggio, in Cinisi, di carabinieri addetti a rilevamenti fotografici – deve essere tenuto presente il contenuto della ricostruzione degli avvenimenti del 9 maggio  effettuata  da  Giosuè  Maniaci,  Faro  Di  Maggio,  Andrea  Bartolotta e altri compagni di Giuseppe Impastato, e riportata nello scritto « Testimonianze dei compagni di radio Aut »: Faro  Di  Maggio:  « Erano  le  otto  e  già  avevano  fatto  tutto,  già  alle  otto i carabinieri sono andati via, hanno portato via la macchina di Peppino e sono andati in caserma ». Andrea Bartolotta: « Io e Faro tentavamo di avvicinarci al binario perché ci avevano detto che era saltato sul binario. C’era tutto lo spiegamento di pubblica sicurezza, siamo stati subito additati dalla gente ... e ci hanno bloccato subito. Il tono fin dalle prime battute era molto perentorio: « non vi potete avvicinare, non si può  avvicinare nessuno », e c’era altra gente che era vicina ai binari, mentre noi non potevamo avvicinarci. Gente di Cinisi, persone qualunque  che non  si capiva  perché potevano stare lì.  Siamo  stati  trattenuti almeno  una  cinquantina  di  metri  dalla  casa  che  c’è prima  dei  binari.  Oltre il muretto. Ci hanno detto: « voi non avete dove andare, dovete presentarvi subito in caserma ». Il tono era chiarissimo ». Faro Di Maggio: « Siamo andati in caserma e c’era la macchina di Peppino posteggiata davanti. Io l’ho aperta, ed ho guardato che cosa c’era: c’era un pezzo di filo che pendeva, quello che hanno detto che era servito per fare l’attentato, avrò lasciato le impronte, poi è venuto un carabiniere che ha detto che  la  macchina  non  si  poteva  toccare,  era  sequestrata.  Ma  l’avevano  già toccata tutti ... ». Giosuè   Maniaci:  « Prima di entrare  in caserma abbiamo sostato  nella piazzetta e c’era un carabiniere che aveva una 6x6 e avrà  scattato migliaia di foto a noi ». Per quanto sopra evidenziato, deve ritenersi che le rilevate anomalie ed omissioni nella rituale documentazione fotografica di luoghi, reperti e tracce, concorrendo in maniera non trascurabile alla dissimulazione di un quadro indiziario univocamente orientato ad un evento omicidiario volontario, ebbero una significativa e indubbia rilevanza nella rappresentazione della morte di Giuseppe Impastato quale conseguenza di un « incidente sul lavoro » di un presunto terrorista. La singolare vicenda di un reperto descritto dai carabinieri come « pezzo di stoffa » con attaccature di materiale solido color piombo. Tra le vicende relative a reperti che subiscono un destino singolare, tale da oscurarne del tutto l’importanza, oltre a quella delle « tre chiavi »,  già  descritta,  va  menzionato  il  rinvenimento  di  un  pezzo  di stoffa colore nocciola sporco delle dimensioni di cm. 40 x 60 circa che presenta attaccature di materiale solido color piombo ad un angolo e in altre parti due macchie [di colore] nero probabilmente di catrame ed  una  certa  quantità  di  catrame  attaccata. La stoffa in questione, malgrado le dimensioni, non viene individuata  nel  corso  del  primo  sopralluogo. È consegnata  ai  carabinieri  di Cinisi alle 19,10 del 13 maggio da Faro Di Maggio, Benedetto Manzella e Gaetano Cusumano che dichiarano di averla rinvenuta nello spiazzo antistante  la  casa  rurale  di  contrada  « Feudo »  lì  « dove  ...  poco  più avanti era stata lasciata parcata l’autovettura appartenente a Impastato Giuseppe ». Solo dopo dieci giorni, nella nota n. 4304/22–3 di prot. « P » datata 23 maggio 1978 della stazione dei carabinieri di Cinisi, indirizzata al PM Signorino e, per conoscenza, al reparto operativo del gruppo di Palermo e al comando compagnia di Partinico, si menzionano « alcuni reperti » presentati da Di Maggio Faro, Manzella Benedetto e Cusumano Gaetano. In essa si legge, in particolare, che n. 2 pezzi di stoffa rinvenuti  vicino  alla  casa  rurale  abbandonata  (e,  come  si  è detto,  a disposizione dei militari dal 13 maggio) – unitamente ad altri reperti – verranno depositati presso la cancelleria della procura di Palermo.

Fra gli atti acquisiti dalla Commissione parlamentare presso gli uffici  del  Reparto operativo del  gruppo dei  carabinieri di  Palermo  è stata rilevata corrispondenza tra quel reparto e il comando della stazione dei carabinieri di Cinisi (cfr. la nota n. 25/9) datata 25 maggio 1978, pertinente « n. 2 ricevute relative ai reperti versati in data odierna presso la cancelleria del locale tribunale ». Tra gli atti  la missiva all’ufficio reperti, datata 25 maggio 1978, relativa a reperto costituito da: « un pezzo di stoffa a fiorellini bleu, bianchi e verdi che presenta tre piccoli buchi prodotti da bruciature ed un pelo attaccato all’orlo di uno dei buchi; un pezzo di stoffa color nocciola misurante cm. 40 x 60 che presenta tracce di materiale solido color piombo nonché  due macchie di catrame  e  con  catrame  attaccato;  n.  4  frammenti di pietre che presentano tracce nerastre rinvenute all’interno della  stalla  Venuti  da  giovani  compagni, in atti  generalizzati,  del deceduto Impastato Giuseppe ... ». Altri resti organici – unitamente ad una pietra con apparenti tracce di sangue – vengono ritrovati da amici dell’Impastato il pomeriggio   del 12 maggio, ma   questo ritrovamento sarà oggetto di separata ed approfondita trattazione nell’ambito della vicenda relativa al reperimento di pietre insanguinate. La missiva di trasmissione del reperto di stoffa con una macchia di colore piombo risulta formata dal Reparto operativo del gruppo di Palermo e reca la firma del maggiore Antonio Subranni. Essa, come si  è detto,  è datata  25  maggio  1978.

Le “dimenticanze” di quei carabinieri. La Repubblica il 29 aprile 2020. Il  destino  di  questo  reperto  è singolare:  nessuno  se  ne  occupa  e nessuna analisi e nessun specifico accertamento viene su di esso effettuato. Nessuno deve avere preso in considerazione l’opportunità  di verificare se quella sostanza gelatinosa potesse fornire tracce interessanti per l’individuazione di esplosivi e per l’eventuale accertamento della loro provenienza. Nella perizia balistica disposta dal Pubblico Ministero non vi è  alcun richiamo al reperto di tela di sacco rinvenuto e consegnato ai carabinieri il 13 maggio. Come perso nel nulla, esso non è preso  in  debita considerazione da alcuno. Nemmeno dopo che,  nel  corso  della  formale istruzione, Faro Di Maggio con una lunga testimonianza, riferisce nuovi  particolari sia in ordine al sopralluogo effettuato nel casolare, sia in ordine alle fotografie scattate alle macchie di sangue ivi rilevate, sia, infine, alla consegna ai carabinieri di «un telo di sacco imbevuto di sostanza solidificata argentata». Eppure la testimonianza Di Maggio evidenzia le sostanziali diversità  nelle descrizioni di questo reperto. Di Maggio descrive al giudice istruttore un telo di sacco «imbevuto di sostanza solidificata argentata». I carabinieri nel verbale del 13 maggio descrivono il reperto come «un pezzo di stoffa di colore nocciola sporco che presenta attaccature di materiale solido colore piombo». Poi nella nota al PM Signorino parlano genericamente di «alcuni reperti presentati da Di Maggio Faro ed altri», riservandosi di trasmettere in cancelleria « n. 2 pezzi di stoffa». Una modalità  di verbalizzazione che ha una rilevanza superiore al dato meramente descrittivo, tenuto anche conto del fatto che l’informativa  4304/22-3  viene  redatta il  23 maggio, cioè dopo  dieci  giorni dalla ricezione del « telo di sacco » e perviene in Procura solo il successivo 27 maggio, per essere inutilmente allegata agli atti.

Sulla tela di sacco imbevuta di sostanza solidificata argentata non sarà  mai  effettuato  alcun  accertamento. E ciò anche se con la «richiesta di indagini» datata 11 maggio 1978 indirizzata al Sig. comandante del Reparto operativo dei carabinieri di Palermo (leggasi il maggiore Antonio Subranni), il Pubblico Ministero procedente aveva espressamente richiesto l’accertamento della provenienza del materiale esplodente.

Questa richiesta resterà infatti inevasa (e mai più rinnovata).

E  la  stessa  sorte  toccherà  ad  alcuni  pezzi  di  pietra  con  tracce apparentemente ematiche raccolti dagli amici di Impastato e consegnati ai Carabinieri, sui quali non risulta mai effettuata alcuna indagine tecnica.

Gli accertamenti di interesse balistico. Come risulta dal fascicolo processuale, l’incarico di « perizia tecnica di ufficio » conferito dal PM Signorino al perito balistico Pietro Pellegrino risale al 19 maggio. Il Pm propone tre quesiti:

1) Tipo di esplosivo usato nella morte  di Impastato Giuseppe;

2) La ricostruzione della dinamica della morte;

3) Quant’altro risulta utile alle indagini. Il perito accetta l’incarico e chiede 40  giorni per  rispondere per  iscritto  ai  quesiti  (ma  depositerà la propria consulenza il 28 ottobre 1978).

Nel verbale di incarico nulla si legge circa i reperti oggetto di perizia. Essi non vengono neppure indicati, nemmeno per relationem. In sostanza, da quell’atto non è dato comprendere su cosa lavorerà  il perito. Solo all’atto del deposito della Relazione (28 ottobre 1978) si saprà  che il sig. Pietro Pellegrino «allo scopo di acquisire elementi utili per l’indagine», aveva consultato i carabinieri della caserma Carini, sede del comando provinciale, il perito prof. Paolo Procaccianti, incaricato di svolgere esami chimici sui reperti, ed aveva esaminato le fotografie scattate dai Carabinieri subito dopo il fatto. Quanto alle «fotografie scattate dai carabinieri subito dopo il fatto»  nulla  di  più  è dato  conoscere,  perché  non  furono  allegate  dal perito alla propria dissertazione, né  se ne hanno altre tracce, eccezion fatta  per  quelle  già  indicate. Ci si deve pertanto attenere ai brevi riferimenti effettuati dal Pellegrino, che pertanto vanno integralmente riportati: «Dalla documentazione fotografica si evince inoltre che un tratto di binario ferroviario  è stato  divelto dall’esplosione ed asportato di  netto,  tra  le due   traverse   di   legno.   Dalla   modalità   di   come   il   binario   è  stato tranciato e dalle tracce che si possono osservare sulla fiancata di una delle traverse di legno, si può  dedurre che doveva trattarsi di esplosivo ad  alto  potere  dirompente  e  ad  elevata  velocità di  detonazione».

Una perizia sugli atti! Una  perizia  sugli  atti  dunque,  atteso  che  in  essa  non  vi  è alcuna menzione di rilievi o analisi su reperti di interesse per gli accertamenti di natura chimico-balistica, quali ad esempio, gli spezzoni di rotaia, l’area interessata all’esplosione, oltre al citato «pezzo di stoffa color nocciola recante tracce di sostanza color piombo». Né il sig. Pietro Pellegrino – che, come si legge dalla carta intestata allo Studio Pellegrino, si dichiara oltre che «consulente tecnico del tribunale  di  Palermo,  Membro  della  Confèdèration internationale des associations d’experts, aggregata all’ONU» – riferisce di diretti sopralluoghi o ispezioni di reperti. In sostanza la perizia Pellegrino si riporta agli esiti del lavoro del perito chimico, e, in particolare, alle analisi effettuate «su un frammento di stoffa repertata sul luogo» ove erano state rinvenute tracce di binitrotoluene (o DNT – dinitrotoluene) e trae delle ulteriori deduzioni dall’osservazione di reperti fotografici che non risultano agli atti!

Le conclusioni della «perizia» Pellegrino saranno di seguito esaminate. Allo  stato  è necessario evidenziare che nella  relazione  di  perizia Caruso–Procaccianti (depositata anch’essa il 28 ottobre 1978) si legge che  la ricerca per le  polveri  da  sparo  allo  scopo  di  evidenziarne « residui incombusti » fu effettuata sul frammento della mano destra di Impastato attraverso il metodo del guanto di paraffina e « su un frammento della camicia di lana (a piccoli scacchi verdi e marrone chiaro, su fondo beige) sottoposto ad esame con una miscela di acetone: metanolo 1/1 e con successiva analisi cromatografica su strato sottile e gas-cromatografica. Tale accertamento aveva consentito di rilevare tracce di dinitrotoluene (DNT). Con la stessa metodica i periti Caruso e Procaccianti avevano poi proceduto sullo straccio di tessuto « fantasia » per abito da donna con tracce di materia nerastra, rinvenuto e repertato durante il sopralluogo giudiziario del 13 maggio 1978. Detta ricerca aveva dato esito negativo.

Quella pietra scomparsa dall'inchiesta. La Repubblica il 30 aprile 2020.

All’esito  delle  risultanze  acquisite  agli  atti  della  Commissione  è possibile affermare che il primo ritrovamento di una pietra con evidenti tracce di sangue risale alla primissima fase degli accertamenti, allorché i carabinieri si portarono   per   la   prima   volta   sul   luogo dell’esplosione. La  circostanza  non  solo  è in  sé rilevantissima, ma  fornisce  una plausibile chiave interpretativa di plurime anomalie investigative e, al tempo stesso, costituisce una netta smentita alle soluzioni investigative proposte  nel rapporto giudiziario del 10 maggio, redatto  già  all’indomani dell’evento. Di  tale  (prima)  pietra  insanguinata non vi è traccia negli atti processuali.  Tuttavia  la  sua  esistenza  può, al di là di ogni ragionevole dubbio, essere desunta innanzi tutto da due indipendenti testimonianze: le dichiarazioni del maresciallo Travali rese in sede di  audizione dinanzi alla Commissione e quelle  del  necroforo  comunale, raccolte e registrate da Felicia Vitale. Entrambe le fonti – allo stato non comprese tra quelle oggetto di specifica attività  processuale – si palesano precise, particolareggiate e concordanti e trovano, come si vedrà, riscontri sia di natura obiettiva (per esempio il successivo rinvenimento di ulteriori reperti dello stesso genere nello stesso luogo), sia di natura logica (desumibili dalle medesime accennate anomalie investigative).

La testimonianza del necroforo di Cinisi circa il ritrovamento di una pietra insanguinata. La  prima di  queste è quella del  necroforo  comunale,  e  si  ritrova nelle dichiarazioni rese a Felicia Vitale. Per la sua particolare importanza il testo dell’intervista riportato in una registrazione audio, la  cui   copia è  stata acquisita agli   atti della Commissione, va integralmente riportato.

F. Che mestiere fai?

L.  Il  mio  mestiere  è...di spostare i cadaveri.

F.  Cioè sei necroforo comunale?

L. sì, sì. Giusto.

F. Da quanto tempo fai il necroforo?

L. Quarant’anni.

F. Conoscevi Peppino Impastato?

L. sì,  conoscevo Peppino Impastato. Quannu c’era d’appizzari [appendere] i manifesti...U venerdì, mi retti [diede] i manifesti pi essiri pronti u sabatu, chi c’era u fattu du comiziu, ai si purtava Pippinu Impastato. Perciò... Poi sintivi  stu  fattu, mi vinniru a chiamari...là...u dutturi...

F. Parli del 9 maggio?

L. Il 9 maggio, quannu fu...Pippinu Impastato...

E. Quando fu assassinato Peppino Impastato...

L. sì, e mi vinniru  a  chiamari,  u  dutturi  Di  Bella,  compreso  il  Comune di Cinisi, pi spustari... «(Sai, ci fu stu buottu...». Poi di chiddu c’era sei chila di robba, sei chila...

E.  Cioè del  corpo  di  Peppino  hai  recuperato...

L. L’occhiale e compreso chiddu chi c’era vicino ai zabbari [alle agavi], giustu?...Nu murettu c’era una amma [gamba] di Pippinu Impastato.

Pu  fattu`  di  chiavi,  truvai  nella  ferrovia, ’nsemmula [insieme] cu  mare- sciallu, chi era e ... truvammu sti chiavi nella ferrovia.

F. Le hai trovate tu o... ti ha detto...?

L. U maresciallu mi rissi: « Amu a truvari sti chiavi ». E circammu ’nsinu chi truvammu sti chiavi nella ferrovia. A ferrovia era già  staccata, du scoppiu [per lo scoppio].

F. Ti ha indicato lui il posto dove cercare?

L. sì, sì, pi circari sti chiavi, ca i chiavi un si putevanu truvari unii eranu e i truvammu na ferrovia. Tuttu bellu... I truvammu e ci retti all'autorità. « Cca` ci sunnu i chiavi ». Poi arrivannu na cosa... truvammu sta pietra... Sta pietra era... E si la purtaru iddi...

F. Dove?

L. Ni lu casularu.

F. Dentro il casolare...

L. Dentro il casolaro e truvammu sta pietra e s’a purtaru iddi ’n Palermu, pi i fatti soi, pi indagini.

F. La pietra era sporca di sangue?

L. sì inchiappata [sporca] di sangue era.

F. Era sporca di sangue...

L. sì, e s’a purtaru, tranquilli.

F. Che grossezza poteva avere?

L. Un cuculuni i mari [un ciottolo di mare], tantu poteva essiri, massimu.

F. Un...

L.  Chi  dicu,  mittemu,  menzu  chilu, chiossa`...su per  giù ddocu si  batti.

E. Ed era sporca... questa pietra?

L. Inchiappata era...

E. Sporca di sangue...

L. E s’a purtaru iddi, a misiru n’un sacchiteddu e s’a purtaru.

F. E tu l’hai notato che dentro il casolare c’era il sedile di pietra, quello che noi chiamiamo la ricchiena?

L. sì, la ricchiena dda c’era, a manciatura parrannu in sicilianu.

F. sì e poi dall’altra parte il sedile... E tu l’hai notato che era sporco di sangue?

L. Puru tuttu inchiappatu era dda. Picchi quannu truvammu... truvai a pietra, era propria in terra, accusciata a ringhiera era, unni c’ era sta manciatura, e a truvai. A pigghiaru e ci dissi: ”Purtativilla”. Era chissu, su cuculuni i mari.

E.  E l’hai consegnato alle autorità?

L. E a cunsignai ai carrabinieri chi c’eranu.

Le dichiarazioni del Liborio derivano la loro importanza dal fatto   che esse conducono a riferire con certezza il  ritrovamento  del  «cuculuni i mari» al contesto delle prime indagini, e in particolare alla raccolta dei resti del cadavere di Giuseppe Impastato.

Non v’è dubbio, infatti, che solo in tale circostanza si ha la presenza sul luogo del necroforo, che, espletato il suo compito, provvede al  trasporto  delle  poche spoglie recuperate all’obitorio, dove, come si evince dal relativo verbale, si procede alle operazioni autoptiche. Secondo la precisa testimonianza del Liborio, una pietra insanguinata fu consegnata ai carabinieri, conservata in un sacchetto e portata a Palermo: ma di tale reperto  non  vi  è traccia  in  atti.

Si tratta quindi del primo rinvenimento di reperti con tracce ematiche, avvenuto il mattino del giorno 9 maggio, e pertanto ante- cedente alla stesura del primo rapporto giudiziario. Un fatto certamente idoneo ad ancorare ad elementi concreti la tesi dell’omicidio, potendo da esso ipotizzarsi un evento lesivo in danno della vittima, riferibile ad uno scenario (uno dei vani della casa rurale) peraltro interessato da altre simili tracce. La circostanza che la testimonianza rivelatrice del Liborio sia stata raccolta al di fuori dell’impianto istruttorio  ne  ha  determinato  una  sorta  di  eccentricità rispetto  agli elementi processuali.

Di  Liborio  non  vi  è traccia  agli  atti  fino  alla  improvvisa  citazione da parte di Chinnici. Né risulta che tale testimonianza sia stata oggetto di successivi approfondimenti (ad esempio con l’esame della Vitale sulle modalità  e il contesto di quella intervista, peraltro resa pubblica). Peraltro, anche al di fuori del processo, il rinvenimento della pietra da parte del Liborio ha dato adito a diverse ricostruzioni del suo contesto, non risultando di essa costituito alcun reperto. Deve essere sottolineato che – in base agli elementi testé esaminati – il  ritrovamento  del  « cuculuni  i  mari »  non  va  confuso  né  con  la pietra insanguinata fatta pervenire al professore Ideale Del Carpio dagli  amici  dell’Impastato  il  12  maggio  (e  cioè  la  sera  precedente all’ispezione condotta dal pubblico ministero Scozzari, avvertito e, verosimilmente, richiesto dal Del Carpio), né  con i reperti asportati nel corso dell’ispezione condotta dal pubblico ministero Francesco Scozzari (iniziata alle ore 10 circa del 13 maggio), né, infine, con il prelievo di altri reperti (tracce di macchie ematiche sulla « panca in muratura » all’interno di uno dei vani della casa abbandonata) effettuato alle ore 17 del giorno 13 maggio 1978 dall’appuntato Pichilli e dal maresciallo Travali, a seguito delle « pressanti richieste » di Faro Di Maggio, Benedetto Manzella e Gaetano Cusumano.

L’audizione del maresciallo Travali dinanzi al Comitato « Impastato » dell’11 novembre 1999.

A seguito dell’audizione del maresciallo Alfonso Travali, effettuata giovedì 11 novembre 1999, l’inchiesta si arricchisce di nuovi particolari circa l’andamento delle prime indagini dei carabinieri e in particolare circa il rinvenimento di tracce che potevano e dovevano orientare gli inquirenti a ritenere la fine dell’Impastato riconducibile ad una azione dolosa di terzi. Il racconto del sottufficiale al Comitato ricostruisce con precisione l’avvio degli accertamenti: ricordo che la mattina del 9 maggio 1978, alle prime ore del giorno, intorno alle 3,45-4, busso`  alla porta della caserma dei carabinieri un impiegato delle ferrovie. Costui ci riferì che il personale macchinista di un treno – giunto alla stazione di Vergara di Cinisi – lo aveva informato che il convoglio nei pressi di una località, il cui nome in questo momento non ricordo, aveva subito uno sbalzo per poi proseguire nella sua corsa. A seguito di questa notizia l’impiegato delle ferrovie aveva provveduto ad ispezionare quel tratto di linea ferrata ed ad un certo punto aveva riscontrato l’esistenza di una buca e la mancanza di un pezzo di binario, inoltre, nelle immediate vicinanze aveva rinvenuto un sandalo della marca dottor School’s. Immediatamente, accompagnato da due carabinieri e dall’impiegato delle ferrovie, mi recai  sul posto dove effettivamente, alla luce dei fari, potei constatare  l’esistenza  sia  della buca sulla linea ferrata, sia del sandalo; nei pressi, inoltre rinvenimmo l’automobile di Giuseppe Impastato, una Fiat 850. Sul posto, ripeto, alla luce dei fari constatammo quanto già  detto e notammo un’automobile parcheggiata poco distante, accanto ad una casa diroccata, che riconoscemmo essere quella di  proprietà  di  Giuseppe  Impastato.  ...  distante  circa  10-15  metri...  A  quel punto detti l’allarme a seguito del quale sono intervenuti reparti speciali, il nucleo  operativo  di  Palermo,  comandato  dall’allora  maggiore  Subranni. … Ripeto, a seguito del mio allarme, intervennero dei reparti speciali che condussero tutte le operazioni ritenute necessarie ».

Secondo il Travali, tramite il Comando Compagnia di Partinico, l’allarme venne inoltrato tra le 4,30 e le 5, subito dopo che erano stati rinvenuti alcuni pezzi di cadavere. Nel frattempo, si era fatto giorno, e  alla  luce  si  delineo`  lo  scenario  del  delitto  e  vennero  rinvenuti  altri frammenti del cadavere di Impastato sparsi nei dintorni. Alla specifica domanda, avente ad oggetto l’interesse investigativo rappresentato dall’esistenza in un punto assai prossimo al luogo dell’esplosione di un edificio (« lei ha dichiarato che l’auto  Fiat  850  era  parcheggiata nell’area antistante un casolare, vi siete recati sul posto? »), il Travali risponde affermativamente, e ricorda subito la circostanza che nulla impediva l’accesso all’interno di quell’edificio  (« sì,  il  casolare  era  aperto »).

L’argomento viene focalizzato dalle domande e dalle risposte che seguono:

RUSSO SPENA COORDINATORE. Che cosa avete trovato nel casolare?

TRAVALI. Poche cose, quasi niente. Ripeto, ricordo che non abbiamo trovato niente, poi non so se nel verbale...

RUSSO SPENA COORDINATORE. Non avete osservato dei segni di violenza, ad esempio delle pietre insanguinate?

TRAVALI. Credo che sia stata rinvenuta qualche pietra con tracce di sangue. A proposito del casolare torno a ripetere che si trattava di un edificio malandato disabitato da molto tempo.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Maresciallo Travali, precedentemente, a mia precisa domanda, lei ha risposto che il casolare era stato perquisito e che  non  avevate  rinvenuto  nulla, adesso  però afferma  che  in quell’edificio vi erano delle pietre insanguinate...

TRAVALI. Mi sembra di ricordare che all’interno di quel casolare disabitato e fatiscente rinvenimmo qualche pietra con tracce di sangue.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Avete dato importanza al fatto di aver trovato  queste  pietre  insanguinate  nel  casolare?  Inoltre  ci  può  descrivere  il casolare?

TRAVALI. Era un edificio con mura fatiscenti, senza porte e quindi accessibile a tutti, forse veniva utilizzato come ricovero da qualche pastore dal momento che era completamente aperto.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Il sopralluogo nel casolare l’avete effettuato  immediatamente, non appena compresa  la  gravità  dei  fatti  verificatisi?

TRAVALI. Certamente, nella stessa mattinata e siamo  rimasti  sul posto fino a tardi.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Quindi presumo che il sangue sulle pietre fosse ancora fresco?

TRAVALI. Questo non lo so dire.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Immagino che abbiate esaminato queste pietre, non sa dirmi quindi se si trattasse di sangue fresco?

TRAVALI. Noi abbiamo rinvenuto delle pietre con qualche schizzo di sangue.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Non avete toccato le pietre per verificare se si trattasse di sangue fresco?

TRAVALI.  No,  non  l’abbiamo  fatto  perché  toccandole  avremmo  potuto alterare delle prove. Successivamente, provvedemmo a comporre in una cassa i frammenti del cadavere dell’Impastato che rinvenimmo nei dintorni, addirittura sugli alberi considerato che la deflagrazione era stata di una certa violenza. A quel punto tornammo in paese dove altri gruppi stavano effettuando  indagini, accertamenti e perquisizioni a  cui non  partecipai  perché – ripeto–rimasi sul posto dove stilai il verbale di sopralluogo».

La questione del ritrovamento veniva ulteriormente approfondita nel corso della medesima audizione:

RUSSO SPENA COORDINATORE. Lei ha parlato poco fa di  reperti  e  vorrei sapere qualcosa sulle pietre insanguinate e sulle tracce di sangue trovate nel casale.

TRAVALI. Anche le pietre venivano repertate.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Lei ha detto che non bisognava alterare le  pietre perché avevano macchie di  sangue.  Poche  ore  dopo  l’avvenimento, quindi quando ha albeggiato, lei è entrato nel casolare e ha trovato pietre con macchie di sangue, tant’è vero che ha detto che non bisognava alterarle (verbo che lei ha usato e che risulta dai nostri resoconti stenografici). Agli atti non vi  è  traccia  di reperto  sulle pietre insanguinate, è  sicuro  che  sono  state repertate?

TRAVALI. Tutto quello che veniva rinvenuto sul luogo o che ci veniva portato dai giovani di Cinisi...

RUSSO SPENA COORDINATORE. Mi riferisco a quello che avete rinvenuto  nel  casolare; i  giovani svolgevano  attività  di  volontariato  nelle  indagini le  quali  però  spettano  alla  stazione  dei  carabinieri. Avete  repertato  le  pietre con macchie di sangue rinvenute nel casolare?

TRAVALI. Tutto ciò  che veniva rinvenuto veniva repertato e quindi anche queste pietre.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Il ritrovamento di pietre insanguinate nel casolare sarebbe stato utile anche per le vostre indagini.

TRAVALI. Tutto quello che veniva rinvenuto veniva repertato e consegnato presso la cancelleria della procura.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Lei ha detto di aver visto pietre insanguinate  e  tutto  ciò  che  è stato  rinvenuto  sul  posto  veniva  repertato. Di conseguenza, anche le pietre insanguinate sono state repertate. Quale ufficiale  di polizia giudiziaria curava la repertazione?

TRAVALI. Lo facevo io con altri militari della stazione. Dopo vent’anni non mi ricordo i loro nomi ma mi facevo dare una mano a repertare da chi  era presente; i reperti venivano poi portati alla procura di Palermo.

Le precisazioni del Travali circa l’esistenza di tracce di sangue su pietre rilevata fin dal primo sopralluogo costituisce un riscontro pieno all’attendibilità  delle  dichiarazioni  del  necroforo,  che,  come  si  è visto, con dovizia e precisione di particolari aveva parlato di una pietra insanguinata, trovata la mattina del 9 maggio, consegnata ai militari      e  dagli  stessi  portata  via  (...e  s’a  purtaru  iddi  ’n  Palermu,  pi  i  fatti  soi,   pi indagini).

Tuttavia – malgrado la contraria affermazione del maresciallo Travali sopra riportata (Tutto quello che veniva rinvenuto veniva repertato e consegnato presso la cancelleria della procura) – della consegna  e  della repertazione del  «coccoluni»  non  vi  è traccia  nel verbale di sopralluogo dattiloscritto, redatto dal Travali «nell’ufficio Stazione dei Carabinieri alle ore 10 del 9 maggio» e nemmeno in altri atti.

né  di una o più  pietre insanguinate repertate quella mattina si fa menzione nella nota inoltrata dallo stesso Travali in data 12 maggio 1978 al magistrato dr. Signorino (e per conoscenza alla Compagnia di Partinico e al reparto operativo di Palermo) con la quali si provvedeva a trasmettere 4 verbali di perquisizione, i verbali di sequestro e di affidamento della Fiat 850 e 4 reperti (precisamente: i tre pezzi di rotaia ed una chiave tipo Yale; alcuni oggetti di vestiario; i due cavi telefonici rinvenuti all’interno della Fiat 850; i tre cavi telefonici rinvenuti nei locali di radio Aut in Terrasini).

Tornando agli accadimenti della mattinata del nove maggio, deve rilevarsi che il particolare sottolineato dal pretore Trizzino, circa la mancata ispezione della costruzione rende evidente che la scoperta dei carabinieri dovette essere precedente alle operazioni del sopralluogo da lui condotto. Poiché  il  magistrato  non  assistette al  rinvenimento  del  «cuculuni i mari», il fatto va ascritto ad una fase immediatamente antecedente al suo arrivo o successiva al suo allontanamento.

Le indagini degli amici di Peppino. La Repubblica l'1 maggio 2020. L’arrivo di amici e compagni di Giuseppe Impastato sul luogo dell’esplosione va collocato ad un lasso di tempo compreso tra le ore 7,30 e le ore 9,30. I giovani giungono alla spicciolata sul luogo dell’esplosione. Vito Lo Duca ricorda di essere arrivato sul posto insieme ad Antonio Giannola fra le 9 e le 9,30 e di essere stato tenuto a distanza dai carabinieri, che ne annotano il  nome. Alle 11,10 di mercoledì 10 maggio vengono raccolte a verbale le sue dichiarazioni nella stazione dei carabinieri di  Cinisi, ai quali spiega che il filo più lungo trovato sull’auto di Impastato veniva adoperato in occasione dei comizi per collegarsi  all’impianto elettrico del bar Munacò. Lo Duca nel corso delle sue dichiarazioni a Chinnici precisa di essere ritornato uno o due giorni dopo sul luogo dell’esplosione e di essere entrato con altri in una stalla e di avere notato sul pavimento di pietra tre gocce che sembravano di sangue. In  quella  occasione  una  delle  pietre macchiate viene estratta e consegnata a Faro Di Maggio e poi, insieme ad alcuni resti del corpo, fatta pervenire al prof. Ideale Del Carpio. Il luogo dell’esplosione è  raggiunto anche da Giovanni  Riccobono ma neanche  a  lui  è consentito  avvicinarsi. Giovanni Impastato «a riprova che le indagini non furono condotte con la necessaria solerzia» riferisce al giudice istruttore che «quando Faro Di Maggio si presentò  al maresciallo dei carabinieri per dire che nel casolare vicino al luogo erano state trovate macchie di sangue, il maresciallo quasi non voleva andare. Dopo reiterati tentativi fu costretto ad andare [...] » e aggiunge di avere appreso che «i ragazzi amici del fratello avevano notato tali macchie fin dal primo momento, e  in  tal  senso  avevano  informato  il  maresciallo,  il  quale  però  solo  a distanza  di  giorni accettò la richiesta di accedere sul  posto». Faro Di Maggio così  ricorda la mattina del giorno 9 maggio: « Sul posto dove furono trovati i resti di Peppino ci recammo in sei o sette  compagni  e  in  un  primo momento  però  non  fu  consentito di avvicinarci».

E precisa, a sua volta, che «i resti del corpo di Impastato erano tutti bruciacchiati ed erano misti a parti di indumento [...]», aggiungendo di essere successivamente ritornato sul luogo (assieme a Gaetano Cussumano, Paolo Chirco, Pino Manzella e Vito Lo Duca ) e di avere notato macchie di sangue sul  pavimento  di  un casolare accanto alla strada ferrata». Ricorda pure che in tale occasione erano state scattate varie foto: «...Compresa l’importanza del fatto prima abbiamo fatto delle fotografie sia alle macchie sul pavimento, che a quelle sulla panca in muratura [...] quindi anche ad uno straccio che fu rinvenuto dalla zia di Peppino che era lì a portare dei fiori...». Queste foto non sono agli atti del procedimento penale. Due di esse sono state acquisite agli atti della Commissione al termine dell’audizione di Pino Manzella avvenuta giovedì 2000. 27 luglio Felicia Vitale riferisce al giudice istruttore di essersi recata nel luogo dove si era verificata l’esplosione assieme alla cugina venuta dagli USA. Questa la sua testimonianza sul punto: «fui io che assieme ad altre persone, Faro Di Maggio, Gaetano Cusimano, notai delle macchie di sangue nel casolare che si trova a pochi metri dal luogo dell’esplosione. A seguito della scoperta abbiamo avvertito i Carabinieri». Quindi « spontaneamente » la Vitale riporta al dr. Chinnici un particolare di sicuro interesse, temporalmente riferibile ad una fase successiva delle  indagini,  sul  quale  sarà   necessario  soffermarsi  in seguito: «Spontaneamente: ho sentito dire che nel casolare sarebbero stati rinvenuti dei pannolini igienici per donna. Posso affermare, avendo partecipato personalmente alla ispezione del casolare, che questo si compone di due vani. In quello in cui abbiamo rinvenuto macchie di sangue non c’era traccia di pannolini. I pannolini li abbiamo  notati  nel  secondo  vano, si  trattava però di pannolini  per bambini,  e  non  già  di  assorbenti  igienici  da  donna ». In  relazione  a  quest’ultima dichiarazione, non  può  non  rilevarsi che  il  15  maggio  1978,  cioè due  giorni  dopo  l’ispezione  nel  casolare fatta dal Pubblico Ministero Scozzari, il quotidiano «Il Giornale di Sicilia » pubblica un articolo, non firmato, intitolato « Sfuma la pista delle macchie di sangue» che svilisce la portata della scoperta di tracce ematiche all’interno del casolare. Auditi dinanzi alla Commissione parlamentare la stessa Felicia Vitale ed anche Giovanni Impastato ribadiscono quanto riferito al   giudice Chinnici in ordine alla circostanza che i carabinieri erano stati messi subito al corrente dell’esistenza di tracce di sangue nel casolare [circostanza, come si è  visto, verbalizzata nella frase « ...A seguito della scoperta abbiamo avvertito i Carabinieri », senza ulteriori dettagli utili a  collocare  nel  tempo  il  fatto  e  a  individuarne  le  modalità  [...]  con ulteriori e nuovi particolari, dai quali si apprende – per la prima volta – di un piantonamento del casolare da parte di personale non appartenente alla stazione di Cinisi:

RUSSO SPENA COORDINATORE. Voi,  come  parenti,  amici  e compagni di Peppino andaste sul posto?

VITALE. è successo un paio di giorni dopo. Con alcuni compagni eravamo andati  sul  posto per  vedere. Non  ero  andata  subito  perché  stavo  con  mia suocera, la madre di Peppino. Cercavamo noi stessi di indagare, di vedere se fosse sfuggito loro qualcosa. Quando siamo entrati nel casolare c’era il sedile in pietra. Nello spigolo del muro c’era una traccia di sangue, una macchia con delle gocce di sangue sul pavimento tutto in pietra. Ho chiamato i compagni mostrando loro cosa avevo trovato. Quindi chiamammo i carabinieri per far vedere loro il sangue e far sì che le pietre insanguinate fossero rimosse e il sangue  analizzato. Non  ricordo chi fu il  compagno  che  andò  a  chiamare  il carabiniere che piantonava il casolare.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Questo accadeva due giorni dopo?

VITALE. Uno o due giorni dopo, non lo ricordo esattamente. Certamente non  fu  la  mattina  stessa perché sul posto  non  facevano  avvicinare  nessuno. Chiamammo il carabiniere – una persona piuttosto robusta – per far rimuovere le pietre. Egli, però, ci disse che probabilmente si trattava di sangue mestruale e che non dovevamo pensare a cose del genere. Ci guardammo allibiti.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Era un carabiniere di Cinisi?

VITALE. No, sicuramente non era di Cinisi. Infatti, dal momento che mio padre gestiva un bar vicino alla caserma conoscevo quasi tutti i Carabinieri del paese. Allibiti per la reazione del Carabiniere decidemmo di prelevare noi stessi le pietre e di portarle a Del Carpio.

MICCICHE’. Se non sbaglio le avete portate prima ad un avvocato. Potreste dirci il nome?

IMPASTATO. In quel periodo il nostro avvocato di  parte  civile  era  un  certo Tullio Lombardo, ma ci seguiva anche l’avvocato Michelangelo Di Napoli.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Dagli atti risulta che vi recaste nel casale il pomeriggio del giorno successivo alla morte di Impastato. Ci rendiamo conto di quanto possa essere penoso per voi ricordare certi fatti e comprendiamo anche che, probabilmente, la lontananza nel tempo rende difficile ricordare con precisione come andarono le cose, tuttavia è proprio per questo che cerchiamo di approfondire ogni aspetto e di trovare dei riscontri. è questo il nostro compito, il nostro dovere. Quindi, quando voi vi recaste in quel luogo il  casolare  era  già  piantonato  da  un  Carabiniere?

IMPASTATO. è stato piantonato per un paio di giorni dalle forze dell’ordine. I compagni di Peppino però  hanno  insistito, sono entrati, hanno fatto i rilievi di cui i Carabinieri non volevano proprio saperne. Era evidente la  precisa  volontà  di  non  tener  conto  di  quegli  elementi.

RUSSO SPENA COORDINATORE. I compagni quindi hanno insistito per entrare nel casolare piantonato perché hanno incontrato una certa resistenza?

IMPASTATO. sì. La resistenza maggiore c’è stata il giorno del fatto. Tutti cercavano di avvicinarsi, ma non appena qualcuno si identificava come compagno o amico di Peppino era evidente la reticenza dei Carabinieri a farlo entrare nell’area recintata del casolare dove era stata trovata la macchina. Il giorno dopo i compagni di Peppino, che insistevano per vedere cosa c’era lì dentro, si recarono nuovamente sul luogo. Ancora una volta fu posto loro un rifiuto,  ma  essi  continuarono  ad  insistere  finché non  riuscirono  ad  entrare. Una volta entrati nel casolare, dove nel lato in cui era avvenuta l’esplosione non c’erano finestre ma solo una porta sul lato opposto (questo per dire che   le macchie non potevano essere entrate a seguito dell’esplosione), hanno trovato le pietre insanguinate. Nel colloquio che avemmo in loco con i Carabinieri, costoro, trattandosi di un luogo isolato dove a loro dire le coppiette andavano a fare l’amore, insistettero sull’ipotesi del sangue mestruale. Per noi era un’ipotesi assurda. I compagni allora presero la pietra e  la consegnarono agli avvocati che poi la diedero ad Ideale Del Carpio. Costui in  seguito  ad  un  esame  accertò  che  si  trattava  proprio  del  gruppo  sanguigno di Peppino. Si tratta, tra l’altro, di un gruppo sanguigno molto raro, zero negativo. Non so se a quei tempi esisteva già l’esame  del  DNA.

MICCICHE’  Esiste  una  documentazione  relativa  a  questi  esami? IMPASTATO. sì, dovrebbe esistere.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Vorrei capire una cosa legata a quanto ha affermato poc’anzi la signora Vitale. La signora ha detto che era visibile un sottile filo di sangue che scorreva sulla panchina, cui a terra corrispondevano delle macchie. In qualche modo, quindi, era sangue abbastanza fresco, non ancora completamente coagulato. Era ben visibile questo rivolo?

VITALE. sì. Nello spigolo c’era una macchia di sangue che scendeva  a  terra.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Il casolare era buio e siete entrati con una torcia?

IMPASTATO. No. Era giorno ed era sufficiente aprire la porta per vedere questo rivolo di sangue.

RUSSO  SPENA  COORDINATORE.  Rivolgiamo  queste domande perché quando ci risultano cose diverse da quelle contenute negli atti cerchiamo di approfondire la questione. Quindi voi siete entrati dalla porta e  con la luce che filtrava dalla stessa era possibile vedere il rivolo di sangue e le macchie a terra ...». Quanto   appreso   nel   corso   dell’audizione   dà   significato   all’iniziativa degli amici di Impastato di consegnare la pietra insanguinata (ed altri reperti organici) ad un esperto indipendente, il professore Ideale Del Carpio, un noto docente palermitano, che il magistrato Martorana ha ricordato dinanzi a questa commissione come « un eccellente medico legale, sul quale credo non si possa  avanzare  alcuna ombra ». Ideale Del Carpio, la sera stessa in cui gli furono consegnati i reperti – e cioè il 12 maggio 1978 – dopo aver immediatamente tentato di avvertire il Pubblico Ministero Signorino – si mette in contatto telefonico con il sostituto procuratore Francesco Scozzari e gli riferisce l’accaduto. Ecco come questo illustre medico ricorda l’episodio, nelle dichiarazioni rese il 13 maggio 1978 al pubblico ministero Scozzari: « così come comunicato telefonicamente ieri alla S.V. ed integrando tale comunicazione, dichiaro quanto segue: Ieri alle ore 16,30 si è presentato a me nell’Istituto di medicina legale in Palermo persona da me conosciuta con il cognome  di  Carlotta  ... studente  presso  la  facoltà  di  medicina,  che  mi  ha consegnato un sacchetto di plastica contenente una mano umana e altro materiale  organico  presumibilmente  umano,  nonché  un  sasso  del  tipo  usualmente usato per le massicciate stradali che presenta su una delle facce una macchia rotonda che io giudico essere di sangue. Il Carlotta mi ha dichiarato che la mano e o l’altro materiale organico erano stati rinvenuti da alcuni giovani di Cinisi che avevano effettuato una ispezione nel luogo ove il 9 maggio decorso  è morto Impastato Giuseppe  [...]. Ho  fatto  rilevare  al  Carlotta  che sarebbe stato opportuno che dei rinvenimenti avesse informato i CC, ma il Carlotta mi rispose che i CC erano stati informati ma che essi avevano trascurato l’informazione [...]. All’indomani della comunicazione telefonica con Del Carpio, il Pubblico Ministero Scozzari, effettua personalmente una rituale ispezione dell’« abitazione   abbandonata »   in   prossimità   della   quale   fu rinvenuta l’autovettura Fiat 850, « al fine di accertare la esistenza di ulteriori tracce, ed in particolare, delle asserite tracce di sangue che sarebbero state rinvenute da taluni giovani che, eseguita una loro ispezione, effettivamente rinvennero una mano umana ed altri frammenti organici e ritennero di avere rinvenuto nell’interno del caseggiato predetto caseggiato tracce di sangue umano ». Nel procedere all’ispezione del caseggiato, il Pubblico Ministero dà subito atto che si tratta di un unico corpo di fabbrica che si compone di due vani o gruppi di vani, tra loro non comunicanti, che hanno ingresso, l’uno dal lato nord, l’altro dal lato sud. L’ispezione ha inizio con l’unità immobiliare che ha ingresso sul lato sud, che consta di un unico vano di circa 24 metri quadri. In  esso  è descritto  un  sedile  di  pietra,  « che  presenta  una  patina di cemento in parte abrasa, palesemente impolverato ed è cosparso di minutissimi detriti pietrosi e fa presumere, per tale sua condizione, di non  essere  stato  di  recente  usato  [...].  In  prossimità  del  suo  spigolo esterno, a circa 15 centimetri, viene indicata dai testi [Vito Lo Duca e Pietro La Fata] la traccia della asportazione della pietra che si assume macchiata di sangue, pietra che faceva parte della pavimentazione del vano ». Quindi, a circa 40 cm da tale traccia, viene descritta un’altra pietra saldamente infissa nel terreno con una traccia rossastra, che viene asportata e consegnata ai periti (su tale pietra i periti Caruso e Procaccianti con la relazione depositata il 28 ottobre 1978 – cioè oltre 5 mesi dopo il sopralluogo, a fronte dei 50 giorni concessi nell’incarico peritale – evidenzieranno la presenza di tracce di sangue dello stesso gruppo di quello dell’Impastato). Nella seconda unità immobiliare, quella con ingresso dal lato nord, consistente in un vano di circa 16 metri quadrati, viene descritta una scala costituita da blocchi di tufo che conduce ad  una  terrazza  alla  quale si accede da una porta. In questo vano non vengono rilevate presenze di sospette tracce ematiche.

Il  Pm  nel  verbale  dà  una  descrizione  comune  del  « pavimento  di tutti i vani ...Costituito da terra battuta e pietre infisse e conci di tufo lungo  il  colatoio;  tale  pavimento  è cosparso  di  sterco,  paglia  secca  si notano frammenti di carta», quindi «precisamente nel sottoscala » dà atto della presenza «di due tamponi usati, chiaramente del tipo igienico per donna». La precisazione che questi tamponi si trovano «nel sottoscala » ne fissa  la  presenza  nella  seconda  unità   immobiliare,  altra  rispetto  a quella in cui si trovava il sedile di pietra e dalla quale i periti avevano asportato una pietra del pavimento recante tracce ematiche. Particolare non secondario, tenuto conto anche che i due vani non sono comunicanti. Nel  corso  di  questa  ispezione  –  come  si  è  già   rilevato  –  gli « elementi della squadra di polizia scientifica dei carabinieri del nucleo operativo  di  Palermo »  (di  cui  non  si  conoscono  né  le  generalità  né il grado), su espressa disposizioni del Pm, eseguono accurati rilievi fotografici. Tali fotografie, tuttavia, non risultano a disposizione della Commissione, perché non comprese negli atti processuali acquisiti in copia. La sera del 13 maggio alle ore 19,10 Faro Di Maggio, Benedetto Manzella e Gaetano Cusumano esibiscono ai carabinieri della stazione di Cinisi « due pezzi di stoffa », « a loro dire » rinvenuti nello spiazzo antistante la casa rurale di contrada « Feudo ». Tra questi quel pezzo di stoffa colore nocciola, di cui si è già  detto in precedenza. Tutti e tre i giovani (precisa il verbale – con una significativa limitazione – « nella circostanza »...) riferiscono vano di avere notato « alcune macchie probabilmente di sangue che si trovano sulla panca in muratura nell’interno della stalla con ingresso verso Cinisi ». Nel corso di un ulteriore sopralluogo Travali e Pichilli asportano una pietra e tre pezzi di tufo facente parte della panca « ciascuno dei quali presenta macchie rossastre con delle sbavature ».

L’atto viene trasmesso al PM dieci giorni dopo. I  pezzi  di  stoffa  –  come  si  è già  detto – non  sono  stati oggetto di alcun accertamento. Su delega (evidentemente verbale) del Pubblico Ministero  Scozzari, quella stessa sera (è il  13 maggio)  i  carabinieri assumono a sommarie informazioni Benedetto Manzella. La verbalizzazione ha luogo alle  19,30  del  tredici  ed  è pertanto  successiva  al sopralluogo effettuato dal pubblico ministero e alla esibizione di reperti di cui si è detto in precedenza. Fino al 13 maggio non era stata raccolta la testimonianza del Manzella. L’atto riporta in sintesi le circostanze dell’individuazione di tracce di sangue su di una pietra del pavimento di una stalla con ingresso che si affaccia verso Cinisi « che fa parte di una casa abbandonata distante pochi metri dalla strada ferrata ». Ma non precisa che si tratta della stessa casa rurale abbandonata indicata nel verbale di sopralluogo dinanzi alla quale fu rinvenuta l’auto di Peppino Impastato. Ad una specifica domanda del maresciallo Travali, Manzella dichiara di aver consegnato la pietra ad un giovane per farla giungere a Del Carpio e aggiunge: «in quanto non sapevo che potevo consegnala alla caserma dei carabinieri». è del tutto evidente che questa affermazione contrasta con quanto riferito  dal  Del  Carpio (e  con  quanto  sarà ribadito successivamente da altri), e cioè al fatto che «i carabinieri erano stati informati ma che essi avevano trascurata la informazione».

Per il resto la verbalizzazione non raccoglie alcun elemento utile o nuovo. La   ricostruzione   di   questi fatti  si arricchisce però di nuovi particolari nell’audizione del Manzella dinanzi alla Commissione antimafia: Vent’anni fa è successo  questo: Peppino  Impastato  è stato  ucciso  dalla mafia. Come facciamo a saperlo? Eravamo un gruppetto di ragazzi dai venti ai  trent’anni  e  ci  è stato  detto:  «Il  vostro  compagno  è saltato  in aria perché stava  mettendo  una  bomba».  Noi  naturalmente  non  ci  abbiamo  creduto  e abbiamo cominciato a girare lì  attorno,  dove  vi  è  un  casolare  nel  quale abbiamo  ritrovato  macchie  rosse  che  poi  è risultato fossero di  sangue  dello stesso gruppo di quello di Peppino Impastato. Quando abbiamo ritrovato queste macchie di sangue, che tra l’altro erano su un sedile di cemento all’interno della stalla (anticamente sopra questo sedile di cemento veniva posto un giaciglio di paglia sul quale si riposava il vaccaro, il pastore), abbiamo avvertito i carabinieri dicendo loro « guardate che abbiamo trovato queste cose all’interno di una casupola »; per tutta risposta sono venuti (prima non volevano  neanche  venire)  e  ci  hanno  detto  «ma  è probabile  che  questo  sia sangue mestruale...». Va comunque rilevato che, nelle sommarie informazioni rese la sera del 13 maggio Pino Manzella nulla riferisce circa le fotografie da lui scattate all’interno della casa rurale (le due fotografie qui pubblicate – con immagini di particolare importanza – sono state acquisite agli atti della Commissione al termine della sua audizione il 27 luglio 2000). Né  in  quel  verbale  è fatta  menzione della strana circostanza che la sua abitazione di campagna era stata oggetto di una anomala effrazione la sera in cui vi aveva riposto i poveri resti dell’amico.

Il caffè con i mafiosi. La Repubblica il 2 maggio 2020. Eppure Manzella sostiene di avere denunziato questo accadimento. Ma di certo nel verbale che riporta le sue dichiarazioni, datato 13 maggio, non ve ne è  traccia. E neppure nella nota 4304/22   del successivo 23 maggio, che « fa seguito al rapporto giudiziario 2596 del 10 maggio ». Di tenore e contenuto ben diversi – rispetto alle risultanze dei verbali appena richiamati – sono le dichiarazioni che Manzella farà  di seguito su quei fatti. Il testo del racconto del Manzella era stato riportato da Giuseppe Casarrubea nell’introduzione al libro di Salvo Vitale “Nel cuore dei coralli”: L’argomento è stato ripreso nel contesto dell’audizione del Manzella dinanzi alla Commissione:

RUSSO SPENA COORDINATORE: No. Comunque la aiuto rivolgendole delle  domande specifiche; infatti, avendo già  svolto  molte  audizioni  su  tutta la questione del sangue  e  delle  pietre  insanguinate, abbiamo centinaia di atti. Con lei vorremmo invece indagare su  alcuni  punti  che  sono  un  po’ inediti. Leggo  a pagina 15 della ricostruzione  di  Salvo  Vitale:  « La  notte  del 12 – racconta Pino Manzella – la mia casa di campagna, dove la notte precedente si erano custoditi i resti di Peppino, fu «visitata» da ignoti che scassarono la porta e misero tutto sottosopra. Evidentemente gli assassini avevano seguito tutte le nostre mosse. Denunciai il fatto ai carabinieri perché  ero  sicuro  che,  essendo  in  corso  le  perquisizioni,  qualcuno  avrebbe potuto occultare delle armi per confermare le tesi dei mafiosi locali. Ma può  darsi  che  volessero  semplicemente  ammonirmi o sapere cosa  avevamo trovato. Tutto il gruppo fu tenuto sotto controllo dalla  mafia  per  qualche  tempo. Ricordo che una macchina  targata  Modena  (si  diceva   che   don  Tano – si  intende,  credo,  don  Tano  Badalamenti  – «avesse  delle   fabbriche di ceramica in provincia di Modena) attraversava la strada  al  momento in cui andavo a chiudere la mia macchina nel garage. Oppure  ricevevamo  delle  telefonate e  non  rispondeva nessuno; volevano accertare   se eravamo dentro e darci la sensazione che ci controllavano». Questo forse è  l’aspetto  che ci  interessa di più conoscere da lei.

MANZELLA : Il discorso della borsa piena dei resti di Peppino deriva dal fatto che il medico legale, che allora era Ideale Del Carpio, se non ricordo male, ci disse di andare a cercare lì attorno a dove era successo il fatto e di raccogliere  tutto  quello  che  potevamo  trovare,  cioè i resti di  Peppino,  perché da quello che dopo risultò a noi i resti di Peppino furono raccolti velocemente, i  pezzi  più  visibili. Le  altre  cose, molte  cose, credo che alla  fine  di  questo lavoro molto triste...purtroppo mi viene la pelle d’oca anche a parlarne, perché abbiamo riempito tre sacchetti di plastica in diverse volte di resti di  Peppino. Credo  che  molte altre  cose  siano rimaste  lì  attorno,  perché il corpo fu completamente sfracellato, poche cose rimasero intere poiché  abbiamo finito tardi questa raccolta, eravamo un gruppetto e non sapevamo a chi affidare queste cose, naturalmente non potevamo portarcele a casa. Ci siamo chiesti « dove lasciamo queste cose? ». Ed io, avendo questa casa in campagna, ho detto « le lasciamo qui, in questa casa, e domani le veniamo a prendere e le portiamo dal professor Del Carpio ». Ecco da dove nasce questo discorso dei resti. Infatti, poi la casa fu visitata, nel senso che ... ma non solo la mia: anche in  altre  case  vi  furono  delle  effrazioni.  Non  hanno  preso  niente,  però  con l’atmosfera che c’era allora io e tutti gli altri avevamo paura che potessero mettere armi, droga o tutto quello che volevano dentro le case e dopo una settimana dire “andiamo a cercare...”

RUSSO SPENA COORDINATORE: In cosa consistevano le effrazioni?

MANZELLA: Trovare le porte aperte, dentro tutto sottosopra.

RUSSO SPENA COORDINATORE: E nella sua casa in particolare?

MANZELLA: Nella mia casa, che era chiusa a chiave, ho trovato la porta scassata, con un piede di porco o qualcosa del genere, in maniera forzata per aprirla, e dentro i cassetti ...c’era una cassettiera con tutto sottosopra. Si vedeva che qualcuno aveva cercato, non si sa che cosa, però  avevano cercato qualcosa lì dentro.

RUSSO  SPENA  COORDINATORE:  Questo  quando  è  avvenuto  esatta- mente?

MANZELLA,  Questo  è avvenuto  qualche  giorno  dopo.  Il libro dice il 12; credo due o tre giorni dopo il fatto.

RUSSO SPENA COORDINATORE: Voi depositaste i resti la sera precedente.

MANZELLA:  sì,  l’indomani  mattina  li  abbiamo  consegnati  e  la  sera  è successo il fatto.

RUSSO SPENA COORDINATORE: Quindi la sera del giorno della consegna.

MANZELLA: sì. Probabilmente qualcuno li ha avvertiti che c’era stato movimento attorno alla casa: « sono andati alla casa di Pino Manzella, non si sa cosa hanno fatto ».

RUSSO SPENA COORDINATORE: Quindi l’effrazione ha riguardato anche altre case di amici del gruppo «Impastato»?

MANZELLA: sì, ricordo un certo Bartolotta, Cavataio, credo...

RUSSO SPENA COORDINATORE: Voi denunziaste questo episodio ai carabinieri?

MANZELLA, sì, io sono andato dai carabinieri.

RUSSO SPENA COORDINATORE: Quando?

MANZELLA: Devo essere sincero: malgrado non avessi ...allora non avevo nessuna fiducia nei carabinieri; oggi ho un atteggiamento molto diverso, anche perché  oggi i carabinieri a Cinisi sono molto ...io sono amico del maresciallo. è un’altra cosa rispetto a ventidue anni fa. Ma allora, malgrado non avessimo nessuna  fiducia, più che altro era  per  mettere ...

RUSSO  SPENA  COORDINATORE:  perché  non  aveva  fiducia  allora?

MANZELLA: perché  vedevo questi carabinieri che molto spesso – ed era una  cosa che  a  me dava  un fastidio enorme  –  andavano  a  prendere  il  caffè con  i  mafiosi.  Si  dice  « ma  non  vuol  dire  niente »,  però  per  me  era  una  cosa palese, rispetto anche alla gente, questo fatto di andare a prendere il caffè al bar assieme ai mafiosi, persone che tutti sapevano che erano mafiose, i Trapani, i Finazzo e compagnia.

RUSSO SPENA COORDINATORE:. Quindi si sapeva che erano mafiosi? Le chiedo questo perché  dalle indagini che abbiamo svolto, ma anche da atti e fascicoli, a noi risulta che praticamente per quella zona non ci sono fascicoli di presenza di mafiosi all’epoca.

MANZELLA:  Cioè non  risulta  niente?

RUSSO SPENA COORDINATORE, Vorrei precisare: sto dicendo che non risulta agli atti che vi fossero presenze mafiose. In secondo luogo, le dico che abbiamo svolto numerose audizioni in cui i carabinieri (anche la  DIGOS)  presenti all’epoca in quelle zone sostengono che vi poteva essere  qualche  sospetto vago su qualcuno, ma sostanzialmente non avevano conoscenza di mafiosi.

MANZELLA, Allora ha ragione l’attuale sindaco di Cinisi, che dice ... ho pubblicato  un libro  fotografico su  Cinisi, dove  c’è la  famosa  foto,  che  credo sia anche qua, del gruppo di mafiosi, che poi sono anche quelli che organizzavano la festa di Santa Fara.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Per chiarezza, lei parla di una foto- grafia  che  è contenuta  anche  nel  libro  di  Salvo  Vitale  Nel  cuore  dei  coralli, in cui ci sono ...

MANZELLA, Ci sono il padre di Peppino, Cesare Manzella, Gaetano Badalamenti, Sarino Badalamenti, Nichi Impastato e così via.

RUSSO SPENA COORDINATORE: Riprendiamo il filo del discorso, anche   se questa parentesi era importante per capire il contesto. [...] Lei stava dicendo che ha denunciato l’episodio dell’effrazione nella sua casa di campagna ai carabinieri.  Com’è avvenuta  la  denuncia,  a  voce?

MANZELLA: A voce, ma anche per ...a me interessava mettere nero su bianco.

RUSSO SPENA COORDINATORE, Chi ha redatto l’atto? Dove ha sporto denuncia?

MANZELLA: Alla caserma dei carabinieri.

RUSSO SPENA COORDINATORE, C’era il comandante della stazione?

MANZELLA. C’era un carabiniere che ha scritto ...ora non ricordo chi fosse allora il comandante.

La questione delle effrazioni, delle numerose e strane effrazioni poste in essere dopo la morte dell’Impastato, è rimasta sostanzialmente inesplorata in sede processuale. Essa fu comunque esplicitamente sollevata dalla Redazione  di  Radio  Aut,  nel  citato  «Promemoria per il giudice Chinnici» ove, al punto 15 testualmente si legge: «[...] 15) Prendere atto delle strane effrazioni ad opera di ignoti, in cui niente  è stato  portato via,  verificatesi  giorni  dopo  l’omicidio,  nelle  case  di campagna di Benedetto Cavataio, di Giuseppe Manzella, di Ferdinando Bartolotta e, per ben cinque volte, a casa della signora Fara Bartolotta, presso la   stazione,   domicilio   abituale   di   Peppino. Con ogni probabilità chi ha scassinato cercava qualche eventuale dossier, sulla cui esistenza a Cinisi si era sparsa la voce ».

Questi fatti, rimasti senza spiegazione e del tutto trascurati dagli inquirenti, costituiscono un aspetto ulteriormente anomalo della vicenda Impastato. è logico supporre che le effrazioni siano state poste in  essere  nel  contesto  di  una  attività   diretta  al  recupero  di  atti  e documenti: una vera e propria «bonifica».

Sull'omicidio cala il silenzio. La Repubblica il 3 maggio 2020. «Per quanto riguarda le indagini di primo tempo io ed io soltanto ritengo di  essere  il  più   rappresentativo  per  gli  investigatori  di  quel  momento. ... le indagini di primo tempo che ho svolto e di cui sono responsabile per intero  è  di quelle  che io  definisco complete, avvedute,  tormentate» (dall’audizione del generale Antonio Subranni al Comitato « Impastato » in data 16 novembre 1999). La concordanza tra quanto dichiarato dal Travali alla Commissione e quanto la Vitale raccolse dalla viva voce del Liborio consente di individuare nella stessa mattinata del 9 maggio un momento particolare delle indagini, segnato dalla scomparsa del reperto, raccolto dal Liborio e consegnato ai carabinieri, e dal conseguente « silenzio » degli atti della polizia giudiziaria circa l’esistenza di tracce di sangue all’interno del casolare e circa il ritrovamento della pietra insanguinata.

Un  silenzio  che,  come  si  vedrà,  va  coniugato  sia  al  «piantonamento» del casolare effettuato da carabinieri (non appartenenti alla stazione di Cinisi) sia alla successiva resistenza dei militari a prendere atto dell’avvenuto ritrovamento da parte degli amici dell’Impastato di altre tracce di sangue all’interno del casolare. Un silenzio che va inoltre coniugato con la divulgazione giornalistica di notizie volte a sminuire la portata dei ritrovamenti di tracce ematiche e ad esaltare la vocazione suicida e terroristica di Giuseppe Impastato. Un silenzio, infine, che trova riscontro nelle dichiarazione rese al giudice istruttore dal maggiore Subranni, quando il processo aveva nettamente imboccato la via dell’omicidio. Ancora in data 25 novembre 1980 l’ufficiale «conferma» a Rocco Chinnici il suo rapporto giudiziario del 10 maggio, con la seguente testuale precisazione «nel momento in cui ho redatto il rapporto non erano state ancora rinvenute le macchie di sangue all’interno del casolare...». L’assunto del Subranni sembra trovare un riscontro formale nelle risultanze degli atti ma, come si è visto, resta nettamente smentito dalla ricostruzione degli accadimenti finora svolta: Il primo rapporto  del comandante del  reparto  operativo  porta  la data del 10 maggio, liquida la tesi dell’omicidio usando come chiave interpretativa di un presunto  gesto  terroristico  e  suicida  il contenuto di uno scritto reperito nel comodino della camera da letto  di  Impastato. È lo stesso Subranni, in sede di   audizione,   a   fornire   una spontanea  spiegazione  di  tanta  tempestività:  «Il  mio  primo  rapporto datato 10 maggio, cioè il giorno successivo al decesso di Impastato: sto parlando, ovviamente, delle indagini di primo tempo, non dell’inchiesta giudiziaria. Si tratta, quindi di un rapporto fatto a distanza di un giorno e adesso a tanti anni di distanza mi chiedo come ho fatto a redigerlo in così breve tempo: evidentemente ero divorato dall’ansia di venirne a capo, c’era un clima particolare, storico, di terrorismo...». Dopo l’intervento di Ideale Del Carpio, il Pubblico Ministero Scozzari effettua il sopralluogo il 13 maggio. Fino a quel momento, secondo plurime fonti, i carabinieri sebbene  avvertiti  dell’esistenza  delle tracce ematiche avevano rifiutato di constatarne l’esistenza. Successivamente a tale data, e precisamente nel rapporto giudiziario n. 2596/12 del 30 maggio 1978 il maggiore Subranni riferisce gli esiti di indagini delegate dal Pubblico Ministero Signorino l’11 maggio. Come  è stato  ampiamente  chiarito  dall’audizione  del  procuratore Martorana, dopo l’intervento di Del Carpio e la conseguente ispezione di Scozzari la Procura sembra orientata ad approfondire l’ipotesi dell’omicidio e decide di delegare urgenti indagini sul contenuto di un esposto di persone vicine all’Impastato in cui la tesi dell’omicidio era apertamente prospettata. Il rapporto giudiziario in questione non dedica neanche una parola alla richiesta di accertamenti sulla provenienza dell’esplosivo (a dispetto dell’esplicita delega sul punto). Quanto alla tesi omicidiaria – oggetto dell’esposto a firma Barbera ed altri, su cui la procura aveva chiesto indagini urgenti –, prescindendo completamente anche dagli spunti investigativi conclamati dal- l’ispezione Scozzari nella casa abbandonata, il Subranni, tra l’altro, scrive: « ...I residui motivi sui quali si basa l’ipotesi di omicidio, sostenuta dai compagni di Impastato, sono riferiti a due circostanze. La prima è che Impastato Giuseppe era uscito alle ore 20,15 dalla sede della radio Aut di Terrasini e non aveva raggiunto la sua abitazione di Cinisi ove erano giunte lo stesso giorno 8 maggio sua zia e la di lei figlia  provenienti  dell’America.  La  seconda  è che  Impastato  avrebbe ricevuto lettere di minaccia. [...]. Relativamente alle lettere di minaccia [...] non risulta che in casi di « scomparsa » (e ce ne sono molti, moltissimi) ad opera della mafia, le vittime designate abbiano avuto (magari!) lettere minatorie. [...] se si volesse insistere in un’ipotesi delittuosa (non corroborata finora da alcun serio elemento), bisognerebbe  concludere  che  Impastato  Giuseppe  è stato  ucciso  (in  maniera laboriosa) da persone o ambienti comunque diversi dalla mafia o dalle SAM  [acronimo di Squadre armate Mussolini]. [...] Dalle ulteriori indagini svolte e dalle risultanze di cui si è parlato si ritiene che siano stati acquisiti altri univoci elementi che confermano  l’ipotesi  già  prospettata  secondo  cui  Impastato  Giuseppe si sia suicidato compiendo scientemente un attentato terroristico, così come si ritiene che non sia emerso alcun serio elemento che conduca ad una diversa conclusione. F.to. Il maggiore comandante del reparto. Antonio Subranni ».

Gli articoli di stampa sulle macchie ematiche. Se vi fu una politica di ridimensionamento dell’importanza della scoperta di tracce di sangue nella casa rurale di contrada Feudo situata a  pochi  metri dal  luogo dell’esplosione essa  indubitabilmente  si  attuò – al di fuori delle pagine processuali – anche attraverso la diffusione di notizie orientate in tale direzione.  Il  già  richiamato  articolo  del Giornale di Sicilia del 15 maggio 1978 sembra confermare pienamente questa ipotesi. L’articolo si apre con una affermazione virgolettata: « Anche gli ultimi accertamenti non hanno modificato la nostra prima ricostruzione,  secondo  cui  Impastato  si  è tolto  la  vita.  E  prosegue:  « lo  ha dichiarato uno degli ufficiali dei carabinieri che partecipano alle indagini per fare luce sul giallo di Cinisi cominciato all’alba di martedì scorso quando Giuseppe Impastato, 30 anni, candidato alle elezioni di Democrazia Proletaria, saltò  in aria insieme con 6 centimetri di binario ferroviario, ucciso dall’esplosione di cinque chili di tritolo. I carabinieri sono convinti che l’unica pista « seria e conducente » sia quella del suicidio   .....   In   Procura   è  stato   già   consegnato   un   rapporto   che proverebbe la tesi. Gli investigatori dell’arma hanno tenuto anche a sottolineare come poco conducente sia un’altra pista, quella delle macchie di sangue trovate in una stalla poco distante dal luogo in cui avvenne l’esplosione. Le macchie sono oggetto di perizia, se si trattasse del sangue dell’Impastato la dinamica dei fatti verrebbe ricostruita in modo ben diverso: non vi sarebbero dubbi sull’omicidio. Ma in proposito gli investigatori hanno detto di avere trovato accanto a quelle macchie degli assorbenti igienici femminili e sono convinti  che  l’indagine  ematologica  non  sposterà il   «quadro»   già delineato».

Questo pezzo intitolato « UNA PIOGGIA DI QUERELE PER IL “GIALLO” DI CINISI - SFUMA LA PISTA DELLE MACCHIE DI SANGUE » è pubblicato dal quotidiano palermitano senza la firma del suo autore. È del  tutto  superfluo  osservare  che  ogni  particolare  descritto  nel verbale dell’ispezione dei luoghi condotta dal Pubblico Ministero Scozzari era coperto dal segreto istruttorio mentre va sottolineato che il   magistrato   adottò   perfino   specifiche   modalità   nella   stesura   del verbale «sottoscritto da tutti gli intervenuti all’atto e per la parte che ciascuno  riguarda,  dandosi  atto  che  soltanto  tale  parte  è  stata  a ciascuno letta». Il successivo martedì 16 maggio 1978 il quotidiano « Il Giornale di Sicilia » pubblica un altro articolo, anche questo non firmato, intitolato « Cinisi – Lo sconvolgente « testamento » di Impastato, il candidato D.P. dilaniato dal tritolo – « Medito sulla necessità  di abbandonare la politica e la vita ». In esso, tra virgolette, il testo, sostanzialmente integrale, del manoscritto rinvenuto dal brigadiere Carmelo Canale nell’abitazione di Impastato. Manoscritto, secondo l’articolista, ricostruito « nelle sue linee essenziali » con l’aiuto dei compagni di Impastato, « con le frasi che ricordano ». Annotazione quest’ultima che, se ritenuta accettabile, evidenzierebbe una circostanza nuova: la conoscenza da parte di terzi dell’esistenza e del contenuto del manoscritto in questione..., (come sembra doversi desumere anche dalla testimonianza della zia convivente).

Bartolotta Fara, il 7 dicembre 1978, dichiara infatti al giudice istruttore: «Confermo che mio nipote negli ultimi tempi era sereno e tranquillo;  era  anche  contento  perché  l’attività  politica  gli  dava  soddisfazione. Sono a conoscenza di una lettera da lui scritta parecchio tempo prima, in un momento in cui non era d’accordo con alcuni del suo partito. So che in detta lettera, che io conoscevo, egli manifesta molta  sfiducia  e  il  proposito  di  suicidarsi.  Escludo  nel  modo  più assoluto che mio nipote avesse avuto dei propositi suicidi».

Rocco  Chinnici  non  verrà  mai  a  sapere  dell’esistenza  di  un’altra stesura del manoscritto oggetto del suo interesse. Delle due versioni del manoscritto parla Salvatore Vitale, amico e compagno di partito di Impastato nella biografia di quest’ultimo pubblicata nel 1995 con il titolo Nel cuore del corallo, rivelando il ritrovamento, dopo la perquisizione, di un secondo testo sostanzialmente analogo al manoscritto citato nel rapporto giudiziario, di cui appare un’edizione autografa, riveduta e corretta, scritta a stampatello. Nel  capitolo  intitolato  « Crisi  di  identità  e  riscoperta  dell’entusiasmo politico », si legge: La mattina del 9 maggio carabinieri e agenti della Digos fecero irruzione nella casa della zia di Peppino, presso la stazione Cinisi-Terrasini, dove solitamente Peppino dimorava e pernottava. Portarono via sacchi di materiale, libri, appunti e altra roba. Di tutto questo non venne redatto, per quel che sappiamo,  un  dettagliato  verbale  né  fu  possibile  prenderne  visione,  tanta  era in quel mattino la confusione e il senso  di  smarrimento.  Tra  le  cose sequestrate venne trovata la famosa « lettera » che sarebbe il presunto testamento, con il quale Peppino dichiarava di « abbandonare la politica e la vita » [...] quella lettera avrebbe dovuto essere l’elemento probante del suicidio. Cercando accuratamente tra le poche cose scritte rimaste e sfuggite al sequestro, sono state trovate le note autobiografiche, che abbiamo trascritto, e  una  seconda  copia  autografa  della  lettera  .  [...]  Nel  secondo  testo  è  scritto: « medito sull’opportunità  di abbandonare la politica »: si noti, « la politica » e non « la vita »; manca inoltre l’ultima parte relativa ai funerali e alle « ceneri ».

Di questo secondo manoscritto si parla specificamente il 28 settembre 2000, nel contesto dell’audizione di Salvo Vitale dinanzi al Comitato della Commissione antimafia: FIGURELLI. Nel memoriale inviato a Chinnici, forse al punto 8, Vitale ricordava lo zucchero e la nafta messe nel serbatoio della benzina di Peppino Impastato dieci giorni prima del delitto. Questo episodio, anche rilevante, come fu avvertito in quel momento, come fu visto e vissuto da Impastato, dallo stesso Vitale, diciamo da tutto il gruppo? Come fu letto? Fu denunziato? Cosa di concreto si fece dopo quell’atto? Inoltre, questo stesso fatto dello zucchero e  della  nafta,  come  è stato  da  voi  ripensato  dopo  il  delitto?  Tanto  è vero  che Vitale  ha  sentito  la  necessità  di metterlo  nel memoriale per Chinnici.

VITALE. Per quanto riguarda questo fatto, io non l’ho saputo al momento, l’ho   scritto   lì   perché   me   lo hanno riferito   i   compagni   dopo   la   morte; ovviamente  quello  che  mi  hanno  riferito  i  compagni  era che questo era  già stato un segnale molto chiaro di tenere Peppino a piedi per evitare che facesse una campagna elettorale attiva, una sorta di minaccia; lo avevano visto tutti come un avvertimento.

FIGURELLI. Nel medesimo memoriale inviato al giudice Chinnici si parla delle effrazioni di casa e in altre case e – si aggiunge – alla ricerca di un dossier scritto da Impastato di cui...insomma correva voce, di cui si parlava. A riguardo vorrei sapere due cose: come si parlava di questo dossier, che tipo di dossier e su che cosa? E più  in generale, a parte il dossier (non lo dico solo per le effrazioni ma anche le perquisizioni ufficiali fatte dai carabinieri) c’era dell’altro materiale ricercato? Noi abbiamo sentito da vive testimonianze – faccio solo un esempio – che Peppino amava anche fare fotografie e che si  era divertito o avrebbe potuto fare, del resto faceva parte anche delle sue caricature alla radio, delle sue rappresentazioni, figurazioni di Tano seduto   o altro, delle foto di mafiosi a braccetto con i carabinieri.

VITALE. Mai sentita una cosa del genere.

FIGURELLI.   Questo   ci   è  stato   detto   nel   corso   della   nostra   attività istruttoria.  La  domanda  è volta  anche  a  verificare.

VITALE. La foto pubblicata a pagina 112 del mio libro con Badalamenti e Alfano è stata scattata da Peppino dall’alto, dalla finestra di una casa vicino al bar di Palazzolo. Altre fotografie che facevano parte di questa serie... Forse a casa ne dovrei avere una su un funerale scattata in occasione della morte   di Savino Badalamenti, il cugino di Gaetano Badalamenti. Sempre foto di questo tipo, di mafiosi, e fatte di nascosto. Per il resto, di Peppino non abbiamo trovato quasi niente di scritto, tranne pochissimi appunti in un quaderno. Se il dossier c’era, se esistevano appunti o altre cose penso siano stati sequestrati dai carabinieri quando hanno fatto la perquisizione. Il fatto che non sia stato trovato quasi niente se non pochissime righe, per me che sapevo che Peppino scriveva spesso anche qualche articolo sul Quotidiano dei lavoratori, mi ha sempre lasciato molto perplesso. Sull’esistenza di qualche cosa non posso che ipotizzare che vi sia stata ma che non sia venuta fuori perché probabilmente imboscata  da  chi  ha  fatto  le  perquisizioni.  Ripeto comunque che si tratta di una mia illazione.

FIGURELLI. Al punto 15 si dice che con ogni probabilità chi ha scassinato cercava qualche eventuale dossier scritto da Peppino sulla cui esistenza a Cinisi si era sparsa la voce. In che modo si era sparsa la voce, quando, ad opera di chi e quale voce era?

VITALE. Non sono in grado di aggiungere niente di particolare, senatore. Erano voci che circolavano...

RUSSO  SPENA  COORDINATORE.  Conferma  però  che  circolava  la  voce. In un piccolo paese, si diceva che vi fosse questo dossier.

VITALE. Si, era una cosa abbastanza nota.

FIGURELLI. Si diceva anche qualcos’altro, su cosa fosse il dossier? Spesso la voce popolare dice cose vere.

VITALE. No, non sono in grado di aggiungere altro. Mi viene in mente ora che il volantino di Lotta Continua che ho citato prima finisce con le parole « abbiamo materiali sufficienti per un vostro definitivo sputtanamento ».

RUSSO SPENA COORDINATORE. C’era evidentemente del materiale raccolto.

VITALE. Doveva pur esserci qualcosa che Peppino raccoglieva e che non abbiamo trovato.

RUSSO   SPENA   COORDINATORE.   Per   chiarezza   può   riassumerci   il contenuto di quel volantino e leggere la frase a cui fa riferimento?

VITALE. Il volantino parla di una serie di progetti e di finanziamenti con cui venivano fatti i lavori pubblici a Cinisi, soprattutto da mafiosi tipo Giuseppe Finazzo, che era una prestanome di Badalamenti. Sono citate la strada Siino–Orsa, la strada « Purcaria » e il silenzio complessivo delle forze di sinistra rispetto alla questione. Ecco perché il volantino termina: « Di fronte ad una simile situazione noi diffidiamo questi partiti cosiddetti di sinistra e li  richiamiamo  alle  loro  responsabilità ».  Continua  poi:  « Abbiamo  materiali sufficienti  per un vostro definitivo  sputtanamento ».  Presumo  –  ripeto  che  è un pensiero che mi è venuto in questo momento – che Peppino potesse avere altre cose oltre alle poche note autobiografiche che abbiamo trovato. Posso  aggiungere qualcosa anche sulla nota autobiografica?

RUSSO SPENA COORDINATORE. Si.

VITALE. Mi riferisco alla presunta lettera di Peppino di cui abbiamo trovato una copia con la quale contesto quella prima « copia originale » usata dai carabinieri...

RUSSO SPENA COORDINATORE. Parlando di presunta lettera si riferisce a quella...

VITALE. In cui si dice « medito di abbandonare la politica e la vita » [...] Quello che mi ha sempre lasciato perplesso è che un atto del genere abbiamo dovuto conoscerlo in un primo momento esclusivamente da  Il Giornale di  Sicilia del 16 maggio; un atto che penso avrebbe dovuto essere segreto  istruttorio, che viene spiattellato come  prova  del  suicidio.  Chi  ha  fornito questa  lettera  ai  giornalisti? così   come il  giorno prima, il  15  maggio,  sullo stesso giornale c’era scritto che il sangue  ritrovato  dai  compagni  di  Peppino era sangue mestruale. Chi ha fornito questo tipo di notizie? Se dobbiamo individuare responsabilità, dobbiamo metterci su questa strada. Per esempio, la  fotografia  su  Cronaca  vera,  fatta a  Peppino  durante il  servizio militare...

RUSSO SPENA COORDINATORE. Ci dica meglio. Ricorda più  o meno in che periodo?

VITALE.  Il  31  maggio.  è stata  pubblicata  una  fotografia  fatta  a  Peppino quando   è  andato  a   fare  il servizio militare. La  foto  di  schedatura  che abitualmente viene scattata.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Era quindi una fotografia che poteva essere contenuta solo nell’archivio dell’esercito?

VITALE. sì.

FIGURELLI. Vitale ci ha lui stesso risposto con una domanda. Chi ha fornito quella versione, chi ha dato subito la lettera, chi ha detto del sangue mestruale, chi ha dato la fotografia? Potremmo controllare chi abbia firmato gli articoli in questione e compiere un accertamento sul punto; non si tratta di grandi ricostruzioni, ma di sapere dagli autori di questi pezzi chi e come.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Questo è un lavoro di approfondimento che dovremo fare. Tornando alla domanda precedente  abbiamo  forse  interrotto il signor Vitale mentre stava descrivendo, se ho ben capito, le differenze esistenti tra la lettera che voi conoscevate e quella che era stata pubblicata.

VITALE. Ho trovato alla stazione, dove Peppino dormiva  in  una  casetta  con sua zia, degli appunti tra i quali c’era una copia di questa lettera. Non era  però  la  lettera  che  ho  letto  sul  giornale; era un  po’ riveduta e  corretta.

RUSSO  SPENA  COORDINATORE.  La  lettera  è battuta  a  macchina?

VITALE. No era scritta a mano e l’originale si trova al Centro Impastato.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Quando parla di copia intende una fotocopia?

VITALE. No, era una lettera scritta a mano. Un secondo originale  nel  quale, per esempio,  non era  riportato «Medito  di  abbandonare  la  politica  e la vita». Il riferimento alla vita era stato tolto, era un po’ diversa. Nel libro riporto integralmente il testo mentre l’originale, lo ripeto, dovrebbe essere  ancora al centro Impastato.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Quando ha trovato questa seconda lettera, simile alla prima, dopo la perquisizione dei Carabinieri?

VITALE. sì, l’ho trovata alla stazione dove dormiva Peppino.

FIGURELLI. Ed erano cancellate le parole « la vita »?

VITALE. No, era una copia pulita e ben scritta, non nervosa. Era dentro il cassetto di un armadio...

RUSSO SPENA COORDINATORE. La lettera non era nascosta, lei la trovò facilmente?

VITALE. sì.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Era in un cassetto nella casa dove dormiva? Quindi abbiamo una lettera, quella pubblicata da Il Giornale di Sicilia..

VITALE. Nel mio libro, a pagina 121, sono messi a confronto i due testi.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Cosa evince dal fatto che la lettera pubblicata da Il  Giornale  di  Sicilia  contenesse  richiami al  togliersi  la  vita e  la lettera trovata dopo la perquisizione riportasse un testo di contenuto analogo ma in parte diverso? Cosa ha pensato quando ha trovato questa lettera?

VITALE. Ho pensato che Peppino avesse avuto un momento di grande crisi politica dopo che nel 1977 si era diffusa la concezione del « riprendiamoci la vita ». I suoi rapporti con i cosiddetti creativi di cui parlavo prima, gente che ormai si era spoliticizzata e di cui non voleva sentire parlare penso lo abbiano indotto  in questa  fase di  forte depressione.  Non  dimentichiamo  che  è anche il momento in cui viene sciolta Lotta continua e vengono meno i punti di riferimento politico. Penso tuttavia che questa fase, anche con l’avvio di Radio Aut, l’abbia superata perché successivamente non troviamo scritto nella lettera che abbiamo trovato frasi come « voglio che le mie ceneri siano buttate in una latrina ». Non c’è più  questa voglia suicida. Penso si sia trattato di un momento di sconforto, politicamente superato senza problemi. Questo è anche uno dei motivi per cui Peppino ad un certo momento occupò  simbolicamente la radio, per protestare contro questi personalisti.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Sempre nel suo libro, a pagina 139  scrive che gli esiti della perquisizione operata dai Carabinieri nell’abitazione della madre di Giuseppe Impastato portarono al sequestro di cinque sacchi di  materiale  e  presso  la  sede  di  Radio  Aut  di  altro  materiale.  può  precisare questo punto? Sa quale fosse il contenuto di questi sacchi? Come lei sa è una delle questioni mai chiarite, nemmeno dalle indagini successive.

VITALE. Non sarei in grado di dirlo. Bisognerebbe chiederlo alla madre di Peppino che era presente. Per quanto ne so erano giornali, libri, quaderni.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Appunti autobiografici o appunti politici...

VITALE. Avranno portato via tutto,  credo.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Come lo sa?

VITALE. La madre e anche Giovanni.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Il fatto che non sia rimasto... Lei sa dai più  stretti  congiunti  che  avevano  portato  via  tutto.

VITALE. sì.

Una copia di questo secondo manoscritto, privo di riferimenti alla morte o a intenti suicidari, ritrovato da Salvatore Vitale, dopo le perquisizioni,  in  un  cassetto  dell’armadio  di  Giuseppe  Impastato,  è stata acquisita  agli  atti  della  Commissione.  L’originale  è  conservato presso il Centro siciliano di documentazione.

Le perquisizioni e la pista del “terrorismo”. La Repubblica il 4 maggio 2020. La chiave di tipo Yale rinvenuta nei pressi di un cespuglio di agave ricompare alle ore 11,10 del 9 maggio nelle mani dei carabinieri che procedono alla perquisizione dei locali adibiti ad emittente Radio privata Aut in Terrasini alla via Vittorio Emanuele, n. 100. Il  verbale  della  perquisizione  dà  preliminarmente atto che  essa viene effettuata «nella immediatezza dell’evento diretto presumibilmente a provocare un disastro ferroviario, allo scopo di ricercare ogni possibile elemento per far luce sul fatto». I militari scrivono che «nel corso dell’operazione, considerato che i locali erano chiusi e che non era possibile reperire alcuno dei responsabili in loco, stante l’urgenza [...] abbiamo provveduto ... ad aprire la porta di ingresso facendo uso di una chiave marca Yale rinvenuta nella mattinata nel corso del sopralluogo effettuato in località Feudo del  comune di  Cinisi in prossimità   del  cadavere  del  predetto  Impastato ». Alla perquisizione, veniva chiamato ad assistere tale Palazzolo Salvatore, un sarto residente in uno stabile vicino. La perquisizione termina alle ore 11,30 e consente ai carabinieri di sequestrare un cavo, molto verosimilmente telefonico, in tre spezzoni, della lunghezza di mt. 30 « molto simile a quello rinvenuto nel corso del sopralluogo sulla linea ferrata...», così descritto nel verbale di sequestro debitamente formato. Il maresciallo Riggio riferirà, esaminato da Chinnici, che la chiave adoperata per aprire la porta di ingresso della radio, gli era stata consegnata dal comandante della stazione di Cinisi, che riteneva fosse appunto quella della radio. L’interesse del giudice istruttore a ricostruire il ritrovamento e il successivo impiego della chiave Yale nella perquisizione della sede della radio derivò certamente  dal  punto  n  3 del promemoria della redazione di radio Aut, tutto dedicato a questi particolari. E  –  come  si  è detto  –  è proprio  tentando  di  ricostruire questi fatti che Chinnici esamina Liborio e apprende dell’avvenuto ritrovamento di altre tre chiavi vicino alla Fiat 850. Altri particolari su questo specifico episodio sono riferiti da Salvatore Vitale, nel corso dell’audizione del 28 settembre 2000 dinanzi al comitato: l’indomani, dopo la morte di Peppino, intorno alle ore 10, io da casa mia vidi dei carabinieri che stavano andando alla sede di Radio Aut; sono andato; insieme a me c’era un dirigente del PCI di Cinisi, si chiama Vincenzo Puleo, e i carabinieri avevano una chiave con cui hanno aperto la sede della Radio. Sia il Puleo che io gli contestammo che non potevano entrare senza  un mandato di perquisizione, gli chiedemmo cosa fosse quella chiave. Ci risposero  che  era  la  chiave  dell’Impastato. Com’è che i carabinieri  potessero avere  la  chiave  della  Radio  è rimasto  sempre  un  mistero.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Vorremmo sapere se il fatto  che  Peppino Impastato avesse un mazzo di chiavi e la chiave di Radio Aut separata dal mazzo fosse un fatto notorio in paese, per cui lo potessero sapere anche i carabinieri.

VITALE. No, era qualcosa che potevano sapere esclusivamente quelli che lavoravano alla Radio, non era un fatto per nulla noto.

Alla domanda di un commissario che chiedeva di sapere se era possibile  che  i  carabinieri  l’avessero addirittura  avuta  già  prima  del delitto, Salvo Vitale risponde:  « Teoricamente è possibile perché se io trovo una chiave nella sua tasca, non  è che  vado  ad  individuare  che  chiave  è, quindi  potrebbe anche essere. I carabinieri in quella fase alla Radio vennero solo a cercare una matassa di filo, un cavo telefonico, per dimostrare che era dello stesso tipo di quello che c’era nella macchina di Peppino Impastato ». Quindi, richiesto « se i carabinieri conoscessero il fatto che a Radio Aut c’era del filo » Vitale osserva: « Nessuno esclude che abbiano potuto trovarlo occasionalmente. Loro andarono a cercarlo... fra l’altro era in uno stanzino, non dove era la Radio, ma ad un piano superiore. Andarono a cercarlo e lo portarono... [...], non mi hanno fatto entrare nella Radio, mi hanno tenuto fuori ». […] I primi atti della polizia giudiziaria sono state le perquisizione domiciliari presso la casa familiare di Giuseppe Impastato, al corso Umberto 220, ove abitava la madre Felicia Bartolotta e presso il suo domicilio di piazza stazione 12, ove il giovane viveva ospite della zia Fara Bartolotta. La perquisizione al corso Umberto si concludeva, secondo il verbale alle ore 8,30 circa con esito negativo. Il relativo verbale porta la firma del solo maresciallo De Bono. Viceversa presso l’abitazione della zia Fara i carabinieri rinvenivano e sottoponevano a sequestro 6 lettere e un manoscritto, ritenuti di interesse investigativo. Detto manoscritto, secondo gli inquirenti, attesta  la  volontà dell’Impastato di  porre  fine  ai  suoi  giorni  con  un gesto eclatante, o meglio, una vera e propria azione terroristica…Di seguito alcuni passi del rapporto dell’11 maggio 1978, sull’argomento:  «Nel corso della perquisizione domiciliare eseguita nell’abitazione di Bartolotta Fara, nella camera da letto di Impastato e precisamente nel cassetto del comodino, venivano rinvenute sei lettere e un manoscritto composto di tre fogli a firma di Giuseppe (Impastato) ... Di rilievo ... appare lo scritto autografo... in  esso  è  manifestato il  proposito di  suicidio  ed  è  manifesta  anche  la motivazione che lo ha indotto a tale grave decisione. Egli dice infatti: « Il parto (ossia  la  decisione  non  è stato  indolore  (ossia  gli  è costato),  ma  la  decisione è presa... (ossia non revocabile) – Proclamo pubblicamente il mio fallimento  come uomo e come rivoluzionario! Non voglio funerali di alcun genere ». La  motivazione  che  è già  dato rilevare nella  frase  « il  mio fallimento  come uomo  e  come  rivoluzionario »  acquista  contorni  ancor  più   precisi  laddove egli critica aspramente « coloro » i quali propugnano « il personalismo », il « riprendiamoci  la  vita »  e  la  « creatività», finendo  col  dire  che  costoro  sono le persone peggiori che ha conosciuto e che a loro preferisce « criminali incalliti, adri, prostitute, stupratori, assassini e le canaglie in genere ». Da queste frasi traspare per intero la macerata delusione per avere speso tanti anni  in  una  intensa ed  appassionata attività  politica, non compresa da  molti compagni   del   suo   gruppo e dagli stessi frustrata con attività meno impegnate politicamente....  Alla  stregua  delle  su  esposte  considerazioni è dato ritenere che egli il giorno 8 maggio, uscito dalla  sede  della  radio  AUT verso le ore 20,15, abbia rinunciato a partecipare alla riunione fissata intorno alle ore 21 e che dopo avere riflettuto ancora una volta su quello che egli stesso ha definito un fallimento, abbia progettato ed attuato l’attentato dinamitardo alla linea ferrata in maniera da legare  il  ricordo della sua morte ad un fatto eclatante ...». L’alto grado di inverosimiglianza del costrutto rende difficile accettare l’ipotesi che esso possa avere costituito la struttura portante di un rapporto giudiziario relativo ad un evento così grave e complesso. La contemporaneità  tra risoluzione suicidaria, coniugata ad un intento « terroristico » e l’attuazione del progetto palesa profili di evidente illogicità  tenuto  solo  conto  della  necessaria  predisposizione di  particolari mezzi (esplosivi, inneschi, ecc.), di cui peraltro non è rinvenuta traccia dagli stessi artificieri chiamati a ispezionare il veicolo. A tali conclusioni del tutto eccentriche rispetto alle concordanti deposizioni dei compagni dell’Impastato ed al comune sentire, che lo vedevano strenuo oppositore degli interessi mafiosi, il verbalizzante sembra poter pervenire senza tenere conto degli esiti negativi delle perquisizioni e dell’assenza di qualsiasi sia pur minima traccia  o  sospetto di terrorismo. Invero, va evidenziato che in occasione di un grave evento  delittuoso che vide due carabinieri misteriosamente trucidati all’interno di una caserma dell’arma la notte del 27 gennaio 1976 (la cosiddetta strage della casermetta di Alcamo Marina), vennero orientate dai carabinieri indagini nei confronti di militanti di organizzazioni  politiche di sinistra, rivelatesi del tutto prive di risultati e, in tale contesto, anche l’Impastato subì una perquisizione domiciliare, con  esito  negativo. A Cinisi, tra l’altro, c’era un’assoluta mancanza di qualsiasi fenomeno riconducibile a presenze terroristiche. Quanto al riferimento, pure presente nel libro Nel cuore dei coralli, a sequestri di documentazione presso l’Impastato senza la redazione di un dettagliato verbale, dall’esame degli atti del fascicolo « P » (permanente) del reparto operativo – acquisito in copia presso il comando provinciale dei carabinieri di Palermo nell’ambito dell’attività preparatoria all’elaborazione di  questa relazione  –  è  stato  possibile individuare un cospicuo elenco di materiali e documenti di pertinenza dell’Impastato,  oggetto  di  un «SEQUESTRO INFORMALE», nonché ulteriore corrispondenza fra comandi dipendenti dal gruppo di Palermo relativa a questa documentazione. Così, con una nota del 1 giugno 1978, a firma del maggiore Enrico Frasca, il nucleo informativo del gruppo di Palermo scriveva alle stazioni di Cinisi e Terrasini e al comando della compagnia di Partinico, trasmettendo un «elenco, sequestrato informalmente nella abitazione di Giuseppe Impastato nel corso delle indagini relative al suo decesso» e richiedendo l’identificazione delle «persone in esso indicate». Pertanto  è provato  che,  dopo  i  sequestri  informali  eseguiti,  cioè senza il rispetto delle formalità  di legge, di materiale documentario di proprietà di Giuseppe  Impastato,  sono  stati  posti  in  essere  ulteriori accertamenti  di  cui  agli  atti processuali non  vi è  alcun  riscontro. La  macroscopicità di questa violazione della legge processuale costituisce una anomalia  di intrinseca  e  indiscutibile  gravità.  Essa comporta  la  ideologica  falsità degli atti  descrittivi  delle operazioni  di perquisizione e sequestro nei domicili di Giuseppe Impastato, ove venne omesso qualsiasi riferimento a tale documentazione. Infatti, nel processo verbale di perquisizione domiciliare eseguita ai sensi dell’articolo 224 c.p.p. nell’abitazione di Bartolotta Fara – ove dimorava l’Impastato – firmato, nell’ordine, dall’appuntato Abramo Francesco, dal brigadiere Carmelo Canale e dal maresciallo Di Bono Francesco – non si legge alcun riferimento a documenti diversi dalla sei lettere e al manoscritto, « ritenuti utili per la prosecuzione delle indagini, e in particolare il manoscritto che mette in chiara evidenza   i propositi suicidi dell’Impastato » e «opportunamente sequestrati». Mentre è il solo maresciallo Di Bono a firmare il processo verbale della perquisizione domiciliare ai sensi dell’articolo 224 c.p.p. presso l’abitazione di Felicia Bartolotta, conclusasi alle ore 8,30 del 9 maggio «con esito negativo». Detto atto «fatto, letto confermato e sottoscritto in data  e  luogo  di  cui  sopra»  (e  cioè alle  ore  21  del  9  maggio  presso  la stazione di Cinisi) non reca la firma della Bartolotta. E lo stesso Chinnici sembra aver dubitato delle modalità di verbalizzazione degli atti della polizia giudiziaria, come si evince dall’ultima domanda posta al maresciallo Travali nel lungo esame testimoniale del 19 dicembre 1978. Il tenore della risposta – dal significato evidentemente « relativistico » – fu il seguente: «Di tutti gli atti ai quali io partecipai fu redatto regolare processo verbale che io sottoscrissi e trasmisi alla procura della Repubblica e che confermo».

E' saltato in aria da solo... La Repubblica il 5 maggio 2020. «C’era  la  sensazione  che  non si  volesse cercare la  verità, almeno come primo tentativo. Anche noi l’abbiamo notato subito. Ripeto  che  nessuna domanda è stata fatta  su  altre  cose, si diceva solo che noi eravamo attentatori e basta» (dall’audizione di Salvatore Riccobono fatta dalla Commissione in Palermo il 31 marzo 2000). «C’erano  Subranni  e  Basile, il capitano che  poi  è stato  ucciso  ed  era  l’unico che ascoltasse, l’unico con cui sono riuscito a dialogare. Dicevo che non si trattava di un attentatore ma di una persona che portava  avanti  una battaglia ed era stato ucciso. Dissi che c’era stata una simulazione. Mi fu chiesto in  che  modo  potessi  dimostrarlo,  ma io risposi che non potevo dimostrare niente. però   erano  dieci  anni  che  lo  frequentavo.

Mi si contestò che lì c’erano i fili, c’era la macchina, c’erano i cavetti telefonici ma erano quelli che servono per attaccare le trombe all’amplificatore     e al megafono. L’unico che avesse dei  dubbi  era  il  capitano Basile si diceva solo che noi eravamo attentatori e basta». (dall’audizione di Piero La Fata, fatta dalla Commissione in Palermo il 31 marzo 2000). In questo contesto viene profilata la nota tesi dell’attentato terroristico coniugato ad un proposito suicida. Tesi che resiste agli esiti negativi di un grande numero di perquisizioni nei domicili di giovani compagni di Impastato alla ricerca  di armi e esplosivi e che resiste anche agli esiti negativi dei rilievi effettuati a bordo della Fiat 850, ove, come si è  visto, non viene trovata alcuna traccia di esplosivo. Tesi, infine che resiste agli esiti del tutto divergenti, degli esami testimoniali degli stessi amici di Giuseppe Impastato, proseguiti incessantemente fino alla stesura del rapporto del 10 maggio. Esami che indicavano la matrice mafiosa dell’evento e fornivano evidenti spunti investigativi, evocando con chiarezza i contenuti salienti dell’impegno politico dell’Impastato nella denuncia dell’esistenza di un traffico internazionale di stupefacenti, nella denuncia degli interessi economici e  delle  attività  criminali  facenti capo  ai  mafiosi operanti  nella  zona, dal capofamiglia Gaetano Badalamenti, a Finazzo ai proprietari del camping Z 10 ( tra i quali tale Giuseppe Lipari) e ad altri,  nella  denunzia di campi paramilitari fascisti nel territorio di Cinisi, nella denuncia di rapporti tra personaggi mafiosi ed esponenti delle istituzioni, compresi carabinieri. Giovanni Impastato, nel corso della sua audizione ha ricordato che: «... In quel periodo c’era un buon rapporto tra i mafiosi locali e i carabinieri della caserma di Cinisi. Pare che lo stesso Badalamenti fosse molto stimato dai carabinieri in quanto persona precisa, tranquilla, che amava il dialogo. Sembrava  quasi  che  facesse  loro  un  favore  giacché   a  Cinisi  non succedeva mai niente e poteva ritenersi un paese tranquillo. Semmai eravamo  noi i sovversivi che rompevano le scatole. Era questa  l’opinione  dei  Carabinieri. Quando mi capitava di parlare con qualcuno di loro – cosa che non accadeva spesso perché non avevo troppa fiducia –  mi rendevo conto che l’opinione diffusa era che Tano Badalamenti fosse un galantuomo e che noi invece fossimo quelli che rompevano le scatole.

RUSSO  SPENA  COORDINATORE.  perché  non  aveva  fiducia  in  loro?

IMPASTATO. perché  determinati fatti non mi portavano ad avere fiducia nei loro confronti. Vedevo che spesse volte andavano sotto braccio con Tano Badalamenti e i suoi vice. Non si può  avere  fiducia nelle istituzioni quando si vedono i mafiosi a braccetto con i carabinieri.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Praticamente i Carabinieri cammina- vano nel corso del paese a braccetto con Badalamenti.

IMPASTATO. Sì, lo posso confermare. Non so se posso portare delle foto. Forse esiste qualche foto di Peppino che lo confermi. In ogni caso i rapporti con la caserma dei carabinieri erano molto evidenti. Lo dicevano loro stessi. Badalamenti aveva rapporti diretti con il capitano dei carabinieri Russo, perciò  si  figuri se  un maresciallo non  doveva  stimare  Badalamenti.  Desidero solo chiarire la situazione. Ma anche Peppino denunciava questi fatti  nei  comizi. Affermava che esistevano rapporti diretti fra mafia e carabinieri anche a Cinisi ».

Eppure le indicazioni dei giovani erano state esplicite e coraggiose: Marcella Adriolo Stagno aveva ricordato le denunce dei mafiosi locali fatte dall’Impastato e, in particolare la circostanza che quest’ultimo « indicava Gaetano Badalamenti quale capo della mafia locale, nonché in privato quale corriere della droga » e pubblicamente citava «tale Finazzo, costruttore edile del luogo », quale « speculatore edilizio». Fara Iacopelli aveva definito le frasi del manoscritto «come uno sfogo puramente personale». Concetto approfondito da Giuseppe Maniaci, che aveva spiegato il fraseggio adoperato in esso come espressione di una « posizione critica [...] in seno all’area del collettivo », aggiungendo che «nonostante la crisi di sconforto che l’Impastato aveva» di non ritenerlo fallito. E Maria Fara Vitale e Graziella Iacopelli, a loro volta, avevano ritenuto «di nessun valore di nessun peso le frasi scritte», e, dopo avere ricostruito il senso politico esistenziale delle divergenze insorte in passato nel gruppo facente capo a Radio Aut, erano state concordi nell’escludere qualsiasi proposito suicida. «La lotta aperta alla mafia locale ... sul piano dell’informazione e della controinformazione, consistente nella pubblica denunzia dei danni derivanti al territorio dalle speculazione edilizia» e il «preciso riferimento» a Gaetano Badalamenti e ai due ex sindaci Orlando e Pandolfo erano stati poi richiamati da Andrea Bartolotta.

Mentre Giovanni Impastato aveva parlato esplicitamente di omicidio mascherato da evento terroristico. Questi appena citati – come tutti gli altri giovani amici dell’Impastato – indicano ai carabinieri la pista mafiosa, contribuendo anche a chiarire taluni particolari, come quello dei cavi rinvenuti nell’auto, comunemente adoperati per collegarvi un impianto di amplificazione della voce nel corso della campagna elettorale. E tutti concordemente evidenziano la circostanza, non secondaria, che quella tragica sera dell’8 maggio avevano inutilmente atteso Giuseppe Impastato nella sede di Radio Aut per le 21, ove era stata fissata un’assemblea in vista dell’importante e atteso comizio di chiusura della campagna elettorale che il loro amico avrebbe dovuto tenere l’indomani. Ma dal successivo ricordo dei giovani di quegli interrogatori emergono anche elementi che ne descrivono la tensione: Vitale Maria Fara, ricorda «un senso di sfiducia» per la conduzione delle indagini. Piero La Fata, dinanzi al Comitato Impastato, dice testualmente: «L’interrogatorio fu così forte e duro che non ressi. Mi contraddissi  ma, di fronte a quella lettera, non avrei potuto reagire che in quel modo:  la lettera era di Giuseppe, non l’avevo mai letta e non sapevo nemmeno della sua esistenza. L’impatto emotivo fu forte» [...] furono piuttosto duri  e  pressanti. L’interrogatorio  durò  più   di  tre  ore,  da  circa  le  10  del mattino fino all’una [...] Non posso negare che in quel particolare contesto quell’interrogatorio abbia avuto una sua logica. Dovete anche tener presente  che  non  si  può  sottostare  ad  un  interrogatorio  pressante per troppe ore parlando di tutto: o si parla di cetrioli o si parla di fave. Loro misero tutto insieme. Sottostando a molte ore di interrogatorio – non  so  se  a  voi  è  mai  capitato  –  ad un certo punto si perde lucidità e non si riesce  più  a  capire  nulla, non si è più in grado di riflettere. Non ero e non sono un robot. Ho i miei limiti». E Salvatore Riccobono, a sua volta ricorda: «All’indomani della morte  di  Peppino,  gli  inquirenti  portarono  me e altri amici di Giuseppe in caserma dove fummo  tutti  tartassati e trattati da terroristi», e, richiesto di precisare il contenuto di tale affermazione,  aggiunge:  «Ho  usato  il  termine  «tartassati»  perché   una stessa  domanda ci fu rivolta  frequentemente ed è la seguente:  « perché stavate facendo l’attentato? ». Noi dovevamo affermare per forza che avevamo fatto l’attentato, o che lo stavamo facendo e che era andata male  avendo  Peppino  perso  la  vita. Questo  è il  senso.  La domanda venne rivolta parecchie volt».

Le affermazioni del Riccobono impongono al Comitato un approfondimento, e nuovi particolari vengono alla luce:

MICCICHE’.  Del  famoso  biglietto  scritto  da  Peppino  Impastato,  con  cui avrebbe fatto capire in qualche  maniera  che  si  sarebbe  potuto  suicidare,  lei ne era a conoscenza?

RICCOBONO. No, l’ho già  detto, ma credo anche nessuno dei miei amici o compagni. Era una cosa scritta tempo prima. Si sarà  trattato di un momento di sconforto come ne abbiamo avuto tutti noi ragazzi che abbiamo fatto una  certa militanza. Lui l’ha scritto, noi no, ma credo che non si debba dare molto peso ad una cosa del genere.

MICCICHE’.  In  quel  momento  lei  ritiene  che  gli  inquirenti  attribuirono troppo peso a quel biglietto?

RICCOBONO. In un secondo tempo si.

MICCICHE’.  No,  chiedevo  all’inizio  dei  fatti.

RICCOBONO. Certo, hanno dato molto peso a quel biglietto. Noi diciamo che  per  non  indagare in  una direzione si  è trovato  il  modo  per  indagare  su altre strade.

MICCICHE’. La sensazione era che si trattasse fin dall’inizio di una forma di depistaggio? L’idea che vi siete formati man mano che uscivate dall’interrogatorio, dopo aver parlato tra voi, era che si trattasse di un depistaggio immediato?

RICCOBONO.  C’era  la  sensazione  che  non  si  volesse  cercare  la  verità, almeno come primo tentativo. Anche noi l’abbiamo notato subito. Ripeto che nessuna  domanda  è stata  fatta  su  altre  cose,  si  diceva  solo  che noi  eravamo attentatori e basta.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Lei intende dire che non hanno posto  domande sulla mafia locale?

RICCOBONO. L’unica domanda sulla mafia è stata fatta quando il carabiniere voleva i nomi.

RUSSO SPENA COORDINATORE. In sostanza solo quando lei ha affermato che poteva trattarsi di un attentato di stampo mafioso le hanno chiesto di dire i nomi.

RICCOBONO. Io – come tutti gli altri – feci loro presente che Peppino aveva diffuso volantini, presentato denunce e fatto comizi contro la mafia. In qualche modo tutti noi invitavamo gli inquirenti ad indagare in quella direzione. Fu allora che il carabiniere che svolgeva l’interrogatorio, piuttosto arrabbiato e sbattendo una mano sulla scrivania, ci chiese di fare i nomi.

MICCICHE’.  Quindi  si  passò  immediatamente  alla  tesi  di  un  attentato  da parte del vostro gruppo e poi a quella del suicidio. Da quel momento aveste la sensazione che la pista della vendetta mafiosa fosse del tutto accantonata e non venisse neppure sfiorata come ipotesi?

RICCOBONO. sì.

FIGURELLI. Ricorda qualche testimonianza di quei giorni circa le perquisizioni effettuate in paese? In sostanza, ricorda se, quanto e in quale  direzione, subito dopo la morte di Impastato, la stazione dei Carabiniere indagò tra i  mafiosi  o  tra  quelli  che  in  paese  erano  ritenuti  fiancheggiatori della mafia o comunque uomini legati ai capi mafia?

RICCOBONO. Le uniche perquisizioni furono fatte in casa mia, in quella di La Fata, di Giovanni Impastato e nella casa in campagna di Manzella Benedetto. Sull’altro versante non furono fatte perquisizioni. Furono perquisite solo le case dei compagni di Peppino».

Nessun atto di polizia giudiziaria risulta infatti indirizzato nei confronti di soggetti a qualsiasi  titolo riconducibili agli  ambienti mafiosi oggetto delle denunce di Giuseppe Impastato e dei giovani  facenti capo a Radio Aut. E ciò  anche se, già  all’indomani dell’evento mortale, era emerso un quadro netto e distinto dell’importanza dell’opera di « controinformazione » svolta dall’Impastato e del livello delle sue denunzie. Dovranno purtroppo passare da allora ancora molti anni per conoscere l’entità degli  interessi criminali denunziati da  Giuseppe Impastato, a partire dal fenomeno del trasporto dello stupefacente a mezzo di corrieri e dall’insediamento territoriale delle raffinerie dell’eroina che a far tempo dal 1977/78 consentirono a Cosa nostra di lucrare centinaia di miliardi l’anno. così come per conoscere e valutare l’importanza degli investimenti di Cosa Nostra nel settore turistico e alberghiero e nella gestione delle cave. Con il deposito del rapporto giudiziario del 30 maggio del 1978 a firma del maggiore Subranni, viene ribadita l’ipotesi che « Impastato Giuseppe  si  sia  suicidato  compiendo  scientemente  un  attentato terroristico, così  come si ritiene che non sia emerso alcun elemento che conduca  ad  una  diversa  conclusione.  E  ciò   malgrado  i  conclamati rinvenimenti nel casolare, la totale assenza di indizi circa l’esistenza di  attività  terroristiche  in  Cinisi, la  mancanza di  ogni traccia circa  la disponibilità  e l’attitudine all’impiego di esplosivi da parte della vittima e la perfetta consapevolezza della portata dell’attività  di denuncia degli interessi mafiosi effettuata dall’Impastato e  rievocata  anche  dagli organi di stampa dopo la sua morte. Nessuna perquisizione nei confronti di mafiosi.

Nessuna richiesta di intercettazioni telefoniche. Né  il  pubblico  ministero,  durante  i  centottantuno giorni in cui tratta direttamente l’inchiesta, effettua o delega approfondimento o un’indagine sulle persone, sui fatti e sulle specifiche circostanze che prima Peppino Impastato e poi i suoi amici avevano avuto il coraggio civile di denunciare. E  dopo  il  30  maggio  nessuna  attività   investigativa  del  reparto operativo dei carabinieri di Palermo sulla morte di Giuseppe Impastato viene riferita all'autorità  giudiziaria, tanto meno quella, espressamente delegata e rimasta senza esito, volta a ricostruire natura e provenienza dell’esplosivo. Solo, e inaspettatamente, il 9 gennaio 1979 il comandante della stazione dei carabinieri di Cinisi trasmette al giudice Chinnici una nota avente ad oggetto « Cinisi – decesso di Impastato Giuseppe ». Il maresciallo Travali, venti  giorni  dopo  avere reso testimonianza al giudice Chinnici, invia il verbale delle « sommarie informazioni testimoniali » da lui acquisite dal tale Salamone Benedetto, « operaio delle ferrovie addetto al servizio di passaggio a livello sito al km. 30?745, distante dal punto dove avvenne l’episodio circa 750 metri ». Due osservazioni devono precedere l’esame delle informazioni rese dal Salamone. In primo luogo, non vi è traccia in atti di alcuna delega da parte del giudice istruttore all’assunzione di questa testimonianza. Sicché  –  almeno  formalmente  –  l’atto  va  ascritto  all’iniziativa  investigativa del Travali, così come l’espresso riferimento ad una potenziale utilità  di  questa  nuova  testimonianza  all’inchiesta,  anzi  « ai  fini  dell’inchiesta » in ordine al decesso dell’Impastato. Nell’iniziativa sembra implicita una apertura inusitata a direzioni dell’indagine diverse da quelle perentoriamente affermati nei rapporti presentati ai magistrati dal comandante del reparto operativo del gruppo dei Carabinieri di Palermo.

In secondo luogo, anche nei suoi contenuti, l’esame del Salamone appare  di  sicuro  interesse  perché focalizza l’attenzione  sul  passaggio a livello del km. 30.745 poco distante dal luogo ove Impastato saltò in aria, posto, come si sa al km. 30.180. Cioè a poco più  di 500 metri di binario. Un punto che potenzialmente poteva o doveva essere attraversato per giungere alla trazzera ove fu ritrovata la Fiat 850 dell’Impastato. Salamone ricorda che, rispettivamente alle ore 22,30 e alle  24 circa, due treni passeggeri erano transitati senza inconvenienti e che fino alla mezzanotte nessuno aveva segnalato problemi alla linea.  Ed esclude  di avere notato quella   notte   qualcosa   di   anomalo   nel presidio del passaggio  a  livello, le  cui  sbarre restavano abbassate – particolare interessante – per circa  sette  minuti  ad  ogni transito.

Su questo il Salamone sembra preciso: « Durante le operazioni di apertura e chiusura delle  sbarre  non  ebbi  modo di  notare persone o macchine che si trovassero dietro le sbarre stesse  in attesa che venissero riaperte ». Solo al passaggio del locomotore delle 1,35 del 9 maggio, diretto da Palermo a Trapani era accaduto qualcosa di inconsueto. Il locomotore dopo  aver  superato il casello per circa 50 metri si era fermato ed era tornato indietro e il conducente lo aveva informato che sulla linea ferrata aveva notato qualcosa di anormale, tanto da indurlo ad ispezionare al lume di lanterna circa 100 metri di binario, rimasta senza alcun esito. Solo alle 3 di quella notte l’operaio specializzato Vito Randazzo aveva rilevato sulla linea « l’ammanco della rotaia e nessun altro oggetto ».

Ad una specifica domanda dei verbalizzanti (brigadiere Esposito  e maresciallo Travali), il casellante Salamone riferisce di non aver udito « alcun rumore da attribuire a qualche esplosione » e di « non avere visto aggirarsi nei paraggi del casello o sulla strada vicina comunale ... persone di Cinisi, di Terrasini o estranei ». Quanto alla mancata percezione dell’esplosione, il Salamone fa presente che « quel- la notte, sino all’una circa, vi era un forte vento di scirocco che soffiava da Trapani versoi Palermo », che aveva allontanato l’eco o altri rumori ».

L’effetto che il Salamone intende – o meglio pretende – descrivere è quello  di  un mascheramento  acustico dell’esplosione a causa  della forte sciroccata. L’assunto non appare supportato da alcun valido riscontro: basta considerare che quella notte il traffico aereo non aveva subito intralci per le condizioni atmosferiche, come dimostra la ricostruzione del traffico aereo in arrivo e in partenza da Punta Raisi richiesta dal giudice Chinnici (170).

Il  teste  Salomone  non  viene  mai  più  interrogato  su  queste  circostanze.

Ma durante la sera dell’8 maggio e la notte tra l’8 e il 9 maggio    1978 Benedetto Salamone non  era  stato  l’unico  ad  essere  in  servizio in quel passaggio a livello. Alle ore 22 aveva dato il cambio alla collega Provvidenza Vitale. Fino a quel momento quindi il passaggio a livello   era stato presidiato dalla Vitale, la quale secondo il Salamone, non segnalò alcuna « anomalia inerente al servizio di vigilanza al passaggio a livello ». Ma – come riferisce il Travali a Chinnici riservandosi di trasmettere il verbale dell’esame della Vitale – questa casellante, nata a Cinisi, aveva  lasciato  il  paese  perché  emigrata  verso  gli  Stati  Uniti.  Come  si è detto in precedenza, non si conoscono i motivi di tale trasferimento né risulta alcun atto istruttorio che abbia coinvolto la Vitale, potenziale teste oculare. Anzi, fatta eccezione della nota di trasmissione del verbale delle sommarie informazioni testimoniali rese dal Salomone, il  nome  della  Vitale  non  comparirà  mai  negli  atti processuali.

I rapporti tra il reparto operativo e la scala gerarchica. Un ultimo, ma non meno significativo, profilo della ricostruzione delle  vicende  delle  indagini  sulla  morte  di  Giuseppe  Impastato  è  dato dall’analisi dei rapporti tra il reparto operativo, dipendente, nel maggio del 1978 del maggiore Subranni e i comandi superiori dell’arma dei carabinieri. Quei fatti sono stati al centro di un fitto scambio di corrispondenza tra il Reparto operativo dei carabinieri di Palermo e la scala gerarchica, che evidenzia circostanze meritevoli di approfondimento. Va premesso che si tratta di una corrispondenza che prosegue per lungo tempo con aspetti e particolari inediti e che essa, sulla base degli atti  disponibili,  può  essere  ricostruita  solo  in  parte. Come si evince dai documenti acquisiti, il comando della legione più volte richiese e sollecitò al   reparto operativo informazioni sull’andamento delle indagini. E tali richieste si fecero insistenti e frequenti dopo la formalizzazione del processo contro ignoti per omicidio volontario Dopo vari solleciti, in data 26 aprile 1979, il maggiore Subranni riferisce alla scala gerarchica dell’avvenuta contestazione con mandato di  cattura ad Amenta Giuseppe del reato di falsa testimonianza. E, il successivo 5 maggio, il comando legione, attraverso le vie gerarchiche, gli richiede ulteriori notizie con cadenza mensile. Di tali sviluppi non si è avuta contezza, non disponendosi del relativo carteggio. Tuttavia tra gli atti esaminati dalla Commissione, appare meritevole di citazione la nota n. 2596/31, a firma del comandante pro-tempore del nucleo operativo, il maggiore Tito Baldo Honorati, datata 20 giugno 1984 e indirizzata al comando del gruppo di Palermo, di cui si riporta integralmente il testo: «Le indagini molto articolate e complesse svolte all’epoca da questo Nucleo operativo hanno condotto al convincimento che l’Impastato Giuseppe abbia trovato la morte nell’atto di predisporre un attentato di natura terroristica. L’ipotesi di omicidio attribuito all’organizzazione mafiosa facente capo a Gaetano Badalamenti operante  nella zona  di Cinisi è stata  avanzata e strumentalizzata da movimenti politici di estrema sinistra ma non ha trovato alcun  riscontro  investigativo ancorché sposata  dal  Consigliere  Istruttore  del tribunale di Palermo, dr. Rocco Chinnici a sua volta, è opinione di chi scrive, solo per attirarsi le simpatie di una certa parte dell’opinione pubblica conseguentemente a certe sue aspirazioni  elettorali,  come  peraltro  è noto, anche se non ufficialmente ai nostri atti, alla scala gerarchica. Lo stesso  Magistrato peraltro, nell’ambito dell’istruttoria formale condotta con molto interessamento, non è riuscito a conseguire alcun elemento a carico  di esponenti della mafia di Cinisi tanto da concludere con un decreto di archiviazione per delitto ad opera di ignoti. A  parte  il  complesso di elementi a suo tempo forniti da questo Nucleo a sostegno della tesi prospettata dall’Arma, si vuole fare osservare, e ciò è di immediata intuizione per chi conosca anche superficialmente questioni di mafia, come una cosca potente, ed all’epoca dominante, come quella facente capo al Badalamenti non sarebbe mai ricorsa per l’eliminazione  di  un  elemento fastidioso   ad   una   simulazione   di   un   fatto   così    complesso  nelle sue componenti di natura ideologica, ma avrebbe organizzato o la soppressione eclatante ad esempio e monito di altri eventuali fiancheggiatori dell’Impastato, o la più sbrigativa  e  semplice  eliminazione  con  il  sistema  della lupara bianca che ben difficilmente avrebbe comportato particolari ripercussioni. Si aggiunge, con riserva di fornirne dimostrazione, che l’indagine è stata  svolta  con  il  massimo  scrupolo  e la  possibile completezza ed, allo stato  non  sussistono  ulteriori  possibilità   investigative. F,to Il comandante del nucleo, maggiore Tito Baldo Honorati». L’unico commento che può farsi  alle  osservazioni  dell’ufficiale sulla persona del consigliere Chinnici riguardano le date. La nota Honorati  è del  giugno  del  1984.  Il  magistrato  era  stato  ucciso  dalla mafia  il  23  luglio  1983.  Ed  è  proprio  questo  particolare  a  rendere oltremodo stigmatizzabile lo stile adoperato e la spiegazione data delle iniziative intraprese dal giudice Chinnici. Oltremodo significativa appare poi la successiva presa di posizione del comandante della legione di Palermo, con la nota 27 giugno 1984. Su essa si sottolinea che l’esito (sentenza di non luogo a procedere contro ignoti per il delitto di omicidio) dell’inchiesta giudiziaria, « che ha dato luogo a sfavorevoli commenti ed apprezzamenti, ampiamente pubblicizzati dagli organi di informazione, con particolare riferimento all’Arma, la quale, titolare delle indagini, inizialmente aveva attribuito il decesso a suicidio, impone ora che tutta la complessa vicenda venga ripresa e con convinto e fervoroso impegno per conseguire concreti risultati. In altri termini si tratta di un impegno d’onore che deve riscattare la serietà e professionalità degli  operatori  portando  chiarezza sull’intera vicenda. In tale quadro prego fare riprendere, fin dall’inizio, gli accertamenti i quali devono tenere conto delle risultanze acquisite in sede processuale e delle ipotesi formulate dagli organi di stampa... ». L’iniziativa dei vertici siciliani dei carabinieri appare di segno completamente opposto alla ricostruzione proposta dal maggiore Tito Baldo Honorati e, al tempo stesso, si pone come una netta presa di distanza dalle interpretazione di quest’ultimo degli indirizzi dati al processo durante l’istruzione formale. Ulteriori tracce di corrispondenza, risalenti addirittura all’anno della morte di Impastato, si possono rinvenire tra gli atti pervenuti alla  commissione il 23 novembre 2000: si tratta di varia corrispondenza interna all’Arma. Il colonnello comandante della legione, Mario Sateriale, nell’immediatezza sollecita « approfondite indagini per far luce sul fatto »; richiede successivamente «notizie» tramite il comando gruppo (il 13 maggio 1978) e quindi, dopo la redazione dei rapporti giudiziari del 10 e del 30 maggio, fa sapere di considerare non concluse le indagini ed  anzi  di  restare  «in  attesa  delle determinazioni dell'autorità giudiziaria e delle eventuali possibili ulteriori risultanze da ricercare ed acquisire  per  fare definitiva  luce  sull’episodio»  (è il  7  giugno  1978). Ed ancora il 7 dicembre 1978, lo stesso comandante della legione di Palermo, richiamando una propria precedente nota, sollecita l’espletamento di « ulteriori investigazioni per fare piena luce sul fatto ». Solleciti e richieste seguono la via gerarchica e vedono quale destinatario finale il comando della stazione di Cinisi, cui vengono « girati » dal comandante della compagnia di Partinico, capitano Ernesto Del Bianco. Questa  circostanza  appare  di  difficile  interpretazione,  perché  la direzione delle indagini era stata assunta fin dal primo momento dal reparto operativo del maggiore Antonio Subranni. E, all’epoca dei fatti, il reparto operativo era un’articolazione diretta del comando di gruppo. Tuttavia, quando il comandante della legione restituisce al comandante del gruppo i rapporti giudiziari del 10 e del 30 maggio, gli « ulteriori risultati » richiesti tramite la compagnia di Partinico, vengono sollecitati al comando della stazione dei carabinieri di Cinisi, da una laconica nota a firma del capitano Del Bianco datata 23 maggio 1978. E lo stesso accade sia quando il comandante della legione fa sapere di non considerare concluse le indagini e di essere in attesa di ulteriori risultanze «da ricercare ed acquisire per fare definitiva luce sull’episodio », sia quando successivamente dispone «ulteriori investigazioni per fare piena luce sul fatto». In tali circostanze il comando del gruppo dei carabinieri di Palermo, primo destinatario delle iniziative della legione, investe della questione la compagnia di Partinico. E quest’ultima, a sua volta, la stazione di Cinisi. In  ogni  caso, per  molti  anni,  nessuna  «nuova  luce»  chiarirà la vicenda della morte di Giuseppe Impastato.

Una magistratura molto distratta. La Repubblica il 6 maggio 2020. L’analisi prenderà ora in esame l’atteggiamento della magistratura inquirente, co-protagonista anch’essa, della vicenda processuale scaturita dalla morte di Giuseppe Impastato. L’esame è apparso doveroso, oltreché inevitabile, poiché proprio all'autorità giudiziaria vanno ricondotti, comunque, i risultati dell’attività della polizia giudiziaria, prima esaminata, atteso il principio di dipendenza funzionale stabilito dall’articolo109 della Costituzione. Va subito precisato che all’analisi e alla ricostruzione dei fatti si procederà distinguendo le varie fasi processuali e l’opera dei diversi magistrati che si sono succeduti nell’esercizio delle funzioni di pubblico ministero, giudice istruttore prima e giudice per le indagini preliminari poi nel lungo corso delle varie indagini. Dalla compiuta istruttoria svolta, infatti, si appalesa diverso il quadro della sensibilità, dell’impegno e della professionalità che ha caratterizzato l’attività di ciascuno degli organi giudiziari che si sono occupati della vicenda. Ovviamente le valutazioni che seguono, in ossequio al principio della separazione dei poteri, si attengono al doveroso rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. L’inchiesta parlamentare e la presente relazione conclusiva non hanno ad oggetto, infatti, la responsabilità personale degli imputati, bensì le ragioni e le cause dei ritardi e delle omissioni, del depistaggio – per usare il termine adoperato dal giudice Caponnetto – verificatisi nell’accertamento della realtà processuale oggi acclarata e posta al giudizio di una Corte di Assise della Repubblica Italiana. La realtà processuale finalmente emersa e, ancor più i risultati di quest’inchiesta parlamentare, impongono il dovere di riconoscere anche formalmente l’importanza storica del ruolo avuto da Giuseppe Impastato nella lotta alla mafia.

Egli aveva lucidamente individuato un percorso di contrasto alla mafia fondato sulla pubblica denuncia, coraggiosa e originale, di persone e fatti concreti, denuncia calata nel più generale contesto di un lavoro politico e culturale, ricco, approfondito e impegnato, volto a far nascere e consolidare, soprattutto tra le nuove generazioni, una coscienza antimafia. Ma, soprattutto, Giuseppe Impastato aveva compreso che la forza del gruppo di giovani che in lui si riconoscevano, avrebbe potuto dispiegarsi utilmente in favore della legalità e della giustizia, utilizzando anche la postazione del Consiglio Comunale di Cinisi al quale era candidato nelle liste di Democrazia Proletaria. Troppe cose aveva capito Giuseppe Impastato e troppo lucida e determinata era la sua battaglia, perché la mafia potesse tollerarne l’azione instancabile e, nella prospettiva del Consiglio comunale, ancor più efficace e documentata. Con le sue battaglie egli poneva in pericolo gli interessi mafiosi della speculazione edilizia e quelli del traffico di eroina che avevano nell’aeroporto di Cinisi uno snodo fondamentale, come dimostreranno le indagini giudiziarie degli anni successivi e le sentenze definitive di condanna, proprio per quei reati denunciati a Radio Aut da Giuseppe Impastato. […] Il primo magistrato ad intervenire sul posto verso l’alba del 9 maggio 1978, avvisato dai Carabinieri della stazioni di Cinisi, è il pretore di Carini, Giancarlo Trizzino. Egli, come si è già visto, effettua il sopralluogo e procede alla ricerca dei resti del cadavere di Impastato ai fini del riconoscimento. Il lavoro specificamente giudiziario di questa prima fase, si presta ai seguenti rilievi:

1. nell’attività di raccolta delle tracce del reato non avere colto la fondamentale importanza del vicino casolare abbandonato, la cui doverosa ispezione avrebbe potuto, da subito, indirizzare corretta- mente la ricostruzione degli accadimenti che portarono a morte Giuseppe Impastato.

2. avere consentito l’immediato ripristino della linea ferroviaria, senza adeguati rilievi tecnici e accurata descrizione e documentazione fotografica dei luoghi, attività tutte rientranti nella categoria degli atti urgenti esperibili dal Pretore intervenuto sul posto.

3. mancata ispezione del casolare posto nelle immediate vicinanze della ferrovia e del luogo dove avvenne lo scoppio.

Il pretore Trizzino, nel corso della ricognizione dei luoghi, contrariamente a quanto ha ricordato dinanzi a questa Commissione si avvide – e non poteva essere diversamente – di quel casolare. La circostanza è stata oggetto di uno specifico approfondimento:

RUSSO SPENA COORDINATORE. Risulta dagli atti che nei pressi, forse a circa 150 metri dal tratto di binario divelto dall’esplosione, vi era una casa rurale diroccata o, comunque, delle mura in piedi. Vorrei sapere se lei ha fatto delle ispezioni all’interno di tale casa.

TRIZZINO. Non l’ho né vista né mi fu segnalata.

FIGURELLI. Vorrei riprendere la questione sollevata dal senatore Russo Spena in merito al casolare. Nel verbale di ricognizione da lei firmato in quella circostanza c’è scritto che: « Nello spiazzale antistante una casa rurale abbandonata nei pressi della strada ferrata si rinviene una autovettura targata Palermo 142453, Fiat 850 » e via dicendo. La vicinanza della vettura della vittima al casolare, in relazione alla particolari modalità del fatto, avrebbe dovuto suggerire una visita all’interno del manufatto. E tuttavia va dato atto al dott. Trizzino che, nel fonogramma trasmesso alle ore 9,45 alla Procura della Repubblica di Palermo, si limita ad una notizia che fotografa la situazione senza affacciare alcuna ipotesi (..il ventaglio delle ipotesi era aperto. ha detto nel corso della sua audizione il dott. Trizzino) sulla natura del fatto e sulle causali di esso, ciò che spettava alla Procura della Repubblica di Palermo. […] Sul luogo dei fatti, in contrada «Feudo», quella stessa mattina, intervenne anche il Sostituto di turno della Procura della repubblica di Palermo, dottor Domenico Signorino. Dopo di lui, anche il Procuratore aggiunto dott. G. Martorana, si recò sul posto, perché il fatto, evidentemente, fu ritenuto di particolare rilevanza. Il dott. Martorana, peraltro, non solo visita il teatro del fatto, ma si ferma nella Stazione dei Carabinieri di Cinisi, dove presiede una riunione con il sostituto Domenico Signorino, il maggiore Subranni e gli altri ufficiali dei carabinieri sopraggiunti sul posto. Può osservarsi, sulla base di questi dati di fatto, accertati nel corso della inchiesta parlamentare, che dal punto di vista delle risorse umane impiegate, vi erano tutte le condizioni per una corretta e completa ricerca delle tracce del reato e di ogni altro elemento utile alla ricostruzione del fatto e per una compiuta valutazione di tutte risultanze emerse già quella mattina. Sulle caratteristiche dell’attività di ricerca delle tracce del reato si è ampiamente detto. Quanto alla valutazione dei materiali raccolti va osservato che a Cinisi, vi fu una riunione cui parteciparono ben due esperti e qualificati pubblici ministeri, vari ufficiali dei carabinieri, anch’essi capaci e competenti, e con loro il comandante della stazione di Cinisi, sicuro conoscitore di Peppino Impastato, della sua storia, degli obiettivi delle sue battaglie, specie delle ultime. Il risultato di quest’incontro, verosimilmente, è contenuto nel fonogramma che il procuratore Martorana, ex articolo 233 cpp. del 1930, invia quella stessa mattina del 9 maggio 1978, al procuratore generale di Palermo, e nel quale si afferma che le « indagini del caso vengono espletate tenendo presente sia l’ipotesi del suicidio che quella dell’attentato dinamitardo». Sulla scorta di quanto evidenziato nella disamina della prima attività di indagine, pare difficile giustificare e comprendere come investigatori e magistrati abbiano potuto evitare accuratamente di prendere in esame l’ipotesi mafiosa. Vero è che non fu evidenziata la circostanza decisiva del rileva- mento da parte del maresciallo Travali, all’interno del casolare durante il primissimo sopralluogo, di pietre macchiate di sangue. Ma a parte l’osservazione che è inspiegabile ed ingiustificabile la mancata ispezione del casolare da parte del dott. Signorino, pubblico ministero titolare dell’indagine, presente sul posto, occorre sottolineare che si trattava di magistrati conoscitori del territorio e delle dinamiche criminali in esso presenti e ben consapevoli, dunque, della signoria mafiosa ivi esercitata. L’ingiustificabilità della scelta risulta confermata dal fatto che gli elementi acquisiti non avevano dato e non potevano dare, ai magistrati e ai carabinieri che indagavano, certezze e determinazioni univoche circa la natura del fatto. Il fonogramma al procuratore generale, che apoditticamente esclude l’ipotesi omicidiaria, parla, infatti, di due soluzioni, peraltro tra loro alternative: suicidio o attentato fallito.

Dunque permaneva una incertezza.

E allora, sulla base di quali evidenze furono escluse altre ipotesi? perché fu evitato lo scrutinio di altre causali, prima fra tutte quella dell’omicidio? perché ciò avveniva senza che neppure una parola fosse spesa per spiegare le ragioni di quella esclusione?

E se, forse, non vi era, spazio per attivare accertamenti su una causale di omicidio diversa da quella mafiosa, per quest’ultima, invece, erano del tutto evidenti, già in quella fase, gli elementi che rendevano doveroso lo verifica della possibilità che fosse stata la mafia di Cinisi ad ordinare ed eseguire, con quelle modalità, l’assassinio di Peppino Impastato. Come mai nessuno degli inquirenti si pose la domanda se per caso Impastato avesse avuto nemici; se per caso qualcuno avesse avuto interesse, e perché alla morte di Peppino?

L’esclusione aprioristica della pista mafiosa, già nella giornata del 9 maggio 1978, appare dunque difficilmente giustificabile. D’altra parte, va sottolineato come l’esclusione di ogni attenzione verso gli ambienti mafiosi, non sia stata decisa a seguito del ritrovamento della lettera con il proposito suicida. L’esclusione dell’omicidio e, in particolare, della pista mafiosa avviene in realtà prima: quando sono organizzate e programmate le perquisizioni, nelle prime ore di quelle mattina, quando la lettera, ovviamente, non era stata ancora rinvenuta e, ciononostante, la mafia era stata esclusa. I carabinieri inquirenti – e con loro il magistrato, necessariamente informato del limitato ventaglio di ipotesi seguite – esclusero la pista mafiosa prima ancora che venisse trovata la lettera ed emergesse, così, un’ipotesi di suicidio. Ai titolari della indagine, peraltro gli amici e i familiari della vittima illustrarono immediatamente le ragioni della infondatezza della tesi del suicidio. Fu detto, tra gli altri motivi, che quel manoscritto di Impastato, era stato vergato diversi mesi prima del fatto e la circo- stanza poteva essere immediatamente verificata, grazie ai riferimenti temporali ivi contenuti. Le condizioni psicologiche di Peppino, la sua attività, la programmazione di impegni per i giorni successivi, lo stato d’animo positivo e battagliero che caratterizzava il suo impegno in quella primavera del 1978 e i fatti che lo comprovavano, furono adeguatamente rappresentati e documentati anche nel corso della istruzione sommaria condotta dal dott. Domenico Signorino. Ma tutto ciò non fu sufficiente neppure a far sorgere dubbi nel magistrato.

Peppino, un terrorista “morto sul lavoro”. La Repubblica il 7 maggio 2020. La stessa tesi dell’attentato, pure suggerita dallo scenario che si presentò agli occhi dei primi intervenuti, era immediatamente contrastata dalla circostanza che la condotta di Giuseppe Impastato non aveva mai dato adito ad alcun sospetto di terrorismo, come risulta dai fascicoli e dalle schede personali di lui, tenute dai carabinieri che ne seguivano la vita politica sin dalla più giovane età. Impastato non era un terrorista e neppure i suoi compagni lo erano: ciò era noto ai carabinieri di Cinisi ed anche alla DIGOS di Palermo. E infatti, in data 16 dicembre 1977, in un rapporto informativo della stazione dei carabinieri di Cinisi, a firma proprio del maresciallo Alfonso Travali, diretto a riferire alla compagnia dei carabinieri di Partinico dei risultati delle indagini relative alle « attività di movimenti e gruppi eversivi » si afferma esplicitamente che Giuseppe Impastato e il suo gruppo composto da Domenico Di Maggio, Andrea Di Maggio, Vito Lo Duca, Giuseppe Fantucchio, Giovanni Riccobono e Giovanni Pietro La Fata, tutti militanti di Lotta continua appena transitati in Democrazia proletaria, « non sono ritenuti capaci di compiere attentati terroristici ». Nello stesso documento i carabinieri procedono ad una valutazione di quel gruppo sottolineando come i suoi componenti fossero in grado di svolgere « manifestazioni di piazza » e fossero « capaci di trascinare e sobillare le masse ». I carabinieri dimostravano, così, di saper distinguere tra l’area del terrorismo e quella della contestazione praticata da gruppi della sinistra extra parlamentare. In quella area territoriale, mai era emerso alcun segno di attività terroristiche, o di persone o gruppi implicati in vicende di tal genere: né mai vi erano stati attentati dinamitardi di quella matrice. Al contrario, come vedremo, l’esplosivo, quel particolare tipo di esplosivo era regolarmente utilizzato dai gruppi mafiosi della zona per realizzare attentati intimidatori finalizzati alle estorsioni. Neppure sul piano delle idee e delle posizioni politiche espresse dai gruppi della sinistra extraparlamentare della zona, era mai stata ventilata una qualche simpatia per le Brigate rosse o per altre formazioni terroristiche o comunque per la pratica della lotta armata. Particolarmente significativo, a tal proposito, è un passo della audizione dinanzi al comitato di lavoro della Commissione, in data 25 novembre 1999, del dottor Alfonso Vella, all’epoca dirigente della DIGOS di Palermo:

FIGURELLI. Ma in quel periodo, in generale, la DIGOS aveva svolto indagini sul terrorismo, su possibili manifestazioni o organizzazioni terroristiche nel territorio di vostra competenza?

VELLA. Seguivamo anche gli eventi nazionali, di conseguenza stavamo tutti all’erta e cercavamo di capire lo svolgersi degli avvenimenti. Però, dato il vasto campo di nostra competenza, non andavamo anche nei piccoli paesi.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Quindi voi non sapevate che a Cinisi ci fosse un nucleo terrorista?

FIGURELLI. Non vi risultava?

VELLA. No, non ci risultava.

FIGURELLI. Neanche che c’erano collegamenti, iniziative, indizi, sospetti?

VELLA. No.

Mai era emerso, dunque, che potesse da qualcuno concepirsi un attentato terroristico a Cinisi o nella zona. La conferma documentale su questo punto si rinviene dalle informazioni e dagli atti acquisiti presso i carabinieri e la questura di Palermo, quindi presso il Ministero dell’Interno: la documentazione acquisita conferma l’assoluta mancanza, in quella zona e in quel periodo di attività o posizioni simpatizzanti con il terrorismo. E per dire dell’assoluta infondatezza logica della ipotesi dell’attentato – a tacere di numerose altre considerazioni – fu fatto presente subito che esso, avvenendo nella sperduta contrada Feudo, su una tratta ferroviaria di interesse secondario, prossima a Cinisi, (mentre a due passi vi era l’aeroporto di Palermo), non avrebbe certo avuto un grande richiamo presso l’opinione pubblica nazionale, mentre a livello locale esso poteva solo danneggiare il lavoro politico di Peppino, soprattutto in vista delle imminenti elezioni. E come non rilevare che il dott. Vella, pure intervenuto subito sui luoghi del fatto con i suoi uomini, venne di fatto allontanato senza che, neppure successivamente, vi fosse l’affiancamento della DIGOS ai Carabinieri. E la questura non s’interessò più del fatto. La documentazione acquisita dalla Commissione presso la questura di Palermo e presso il ministero dell’Interno conferma che la DIGOS non si interessò più del fatto. Si verifica quindi l’anomalia di una indagine che ipotizza un attentato terroristico, magari finito male per l’imperizia di Impastato, ma fa a meno, nell’immediatezza dei fatti e successivamente dell’attività informativa e investigativa di un organo specializzato quale la DIGOS. […] Ma vi era un dato obiettivo, emerso e formalizzato lo stesso giorno del fatto, il 9 maggio 1978, e che non poteva sfuggire all’analisi tecnica dei magistrati e dei carabinieri: il tipo di esplosivo utilizzato sembrò mina da cava. Ora, gli unici fatti nei quali era utilizzato l’esplosivo, secondo le esperienze investigative locali, erano gli attentati dinamitardi finalizzati alle estorsioni, realizzati anche in quel periodo e in quel territorio, proprio dalle organizzazioni mafiose. Il punto risulta confermato dalle dichiarazioni rese al Comitato di lavoro della Commissione dall’allora Capitano Ernesto Del Bianco comandante della Compagnia di Terrasini.

DEL BIANCO. Si sono verificati diversi atti estorsivi nelle zone di TRAPPETO, Balestrate, Partinico, Borgetto. Ovviamente, per ogni esplosione veniva utilizzato – si presume – esplosivo da cava. Da quali cave provenisse non siamo mai riusciti a saperlo. So che esisteva una cava nelle vicinanze di Cinisi.

RUSSO SPENA COORDINATORE. C’erano cave a Terrasini?

DEL BIANCO. Tra Cinisi e Terrasini c’era una cava.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Non ricorda a chi appartenesse? DEL BIANCO. Non era di un certo D’Anna?

RUSSO SPENA COORDINATORE. Un certo D’Anna è storicamente presente, da allora. Lei ricorda D’Anna, quindi?

DEL BIANCO. Mi sembra di ricordare D’Anna. Poi collego D’Anna a Finazzo e a Badalamenti che sono stati messi in correlazione tra di loro.

RUSSO SPENA COORDINATORE. In base alla sua esperienza di allora, ricorda la materia di questo nesso tra D’Anna e Badalamenti?

DEL BIANCO. Se non sbaglio erano anche parenti e poi, come fattore comune, erano stati già denunciati per i medesimi reati.

Il capitano Del Bianco conferma esplicitamente, nel corso della sua audizione, che in quella località vi erano estorsioni realizzate a mezzo di attentati dinamitardi (...la consueta bomba...). da parte di « alcuni soggetti mafiosi » puntualmente denunciati quali mandanti, mentre altri erano stati anche arrestati.

Queste circostanze rendevano obbligatorio perquisire le case dei mafiosi e, in ogni caso, dei pregiudicati della zona e, come per prassi, di quelle persone ritenute capaci di usare esplosivi, oltreché controllare le cave e i relativi registri: ma tale linea di indagine, che nulla avrebbe tolto alla verifica di altre ipotesi, non fu affatto coltivata. E questo indirizzo fu assecondato dal magistrato di turno della procura, il quale, subito avvisato della esplosione e delle immediate iniziative di polizia giudiziaria – dal ripristino del binario al tipo di perquisizioni avviate – non dette alcuna indicazione alternativa né nell’immediatezza e neppure dopo. Furono invece programmate ed eseguite la perquisizione dell’abitazione della vittima, dei suoi familiari e dei suoi amici, tutte eseguite nella prospettiva che potessero trovarsi elementi di conferma dell’ipotesi dell’attentato. Tutta questa prima fase delle indagini, dalla mancata ispezione del casolare alle immediate iniziative di polizia giudiziaria, avvenne alla presenza della magistratura inquirente di Palermo, rappresentata dal procuratore della Repubblica e da un sostituto di sicura esperienza. La responsabilità delle scelte investigative, delle prime scelte investigative, oltreché di quelle successive, come subito vedremo, ricade per intero, dunque, anche sulla magistratura. Nella sua audizione, dinanzi al Comitato di questa Commissione l’allora procuratore aggiunto Martorana ha cercato spiegare che le indagini furono orientate su due ipotesi: quella dell’attentato terrori- stico, in considerazione del clima generale determinato dal caso Moro e quella del suicidio a causa del rinvenimento del biglietto manoscritto. Ma qui non è in discussione l’inclusione di quelle due ipotesi nel contesto del lavoro investigativo. può essere comprensibile che la scena in contrada Feudo e il successivo ritrovamento della lettera potessero aver fatto prospettare agli inquirenti quelle ipotesi. Le dichiarazioni di Martorana e Trizzino, sul punto possono anche comprendersi. Quel che alla Commissione resta non comprensibile e non giustificata è l’esclusione della pista omicida, e in particolare della causale mafiosa. Già alla data del 9 maggio, nell’immediatezza del fatto, sulla scorta dello scenario di Contrada Feudo sussistevano indizi che militavano per l’ipotesi dell’omicidio di mafia, sicché esclusione di essa appare implausibile. La scelta di escludere la pista mafiosa, compiuta nei primi due giorni permane anche dopo l’articolato esposto degli amici di Peppino, presentato in data 11 maggio: gli investigatori, infatti, non esplorarono il percorso indicato dai familiari e dagli amici di Impastato. Dal novero delle possibili strade di ricerca della verità viene di fatto esclusa quella mafiosa. Nessuno degli auditi, neppure tra i magistrati, ha saputo fornire alla Commissione adeguata e convincente giustificazione al riguardo. Le dichiarazioni rese dal dott. Martorana chiariscono perfettamente quanto limitato fosse l’orizzonte delle indagini nella prima fase.

Il quadro delle valutazioni appena espresse risulta confermato dalle significative dichiarazioni del dott. Martorana:

FIGURELLI. Nonostante alcune sottovalutazioni, considero molto impor- tante quanto sta emergendo da questa audizione. Pertanto vorrei sapere, di fronte alla portata dell’esposto Carlotta e degli amici di Impastato, quali indagini vennero effettuate e nei confronti di chi. In sostanza, le sto rivolgendo la stessa domanda di poco fa: quali mafiosi furono sottoposti a perquisizioni e a inchieste? Sono convinto, infatti, che un magistrato del suo scrupolo, che tra l’altro all’epoca dei fatti reggeva la procura di Palermo, possa dirci senz’altro quali fossero gli elementi a disposizione della procura sul clan Badalamenti e sul controllo che esso esercitava sul territorio. Sappiamo anche che la famiglia di Impastato aveva delle connessioni mafiose. Dal momento che lei poc’anzi ha affermato che tutte le tesi potevano andar bene, appare evidente che davanti ad un simile quadro della situazione fosse opportuno fare indagini anche in questa direzione. Tra le varie ipotesi, quindi, doveva esserci anche questa, dal momento che in quel territorio Badalamenti e i boss mafiosi non erano certo dei marziani.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Quanto ha affermato ora il senatore Figurelli è di estrema rilevanza. Le chiedo pertanto di rispondere sintetica- mente a queste ultime domande. La prima. Nel corso dei colloqui iniziali si parlò di mafia?

MARTORANA. No, questa ipotesi emerse con l’esposto dei compagni o dei familiari di Impastato quattro o cinque giorni dopo, se la memoria non mi tradisce.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Lei è molto preciso e per questo la ringraziamo. La seconda domanda è questa: all’epoca vi erano notizie di una presenza mafiosa a Cinisi? Lei ha ricordato che « Radio Aut » diceva che Badalamenti...

MARTORANA. In tutti i paesi del cosiddetto triangolo mafioso c’era presenza mafiosa. Noi siamo stati accusati, ma in realtà abbiamo fatto molte proposte di misure di prevenzione o di confino.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Quindi lei alla prima domanda ha risposto che nel corso dei colloqui iniziali non si parlò di mafia. Alla seconda domanda ha risposto però che a Cinisi...

MARTORANA. Ho detto che non si è parlato di mafia il primo, il secondo o il terzo giorno. Quando poi fu presentato l’esposto... Comunque, vi invito a controllare le carte; credo che gli esposti siano stati presentati quattro giorni dopo.

FIGURELLI. No, due giorni dopo.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Vi erano indagini in città sulla presenza mafiosa a Cinisi?

MARTORANA. Allora la lotta alla mafia si estrinsecava prevalentemente, come ho già detto, con misure di prevenzione.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Ma vi erano indagini in corso?

MARTORANA. Non lo ricordo. Presumo però che se i carabinieri furono sollecitati dal dottor Signorino ad approfondire le indagini, non dovevano certo approfondire l’ipotesi del suicidio o dell’attentato, ma piuttosto dovevano seguire la tesi dell’omicidio. E la tesi dell’omicidio riguardava tutto... Insomma, quando dico al collega che bisogna fare questo accertamento e il collega incarica i carabinieri, tutto il resto...

FIGURELLI. Vorrei far registrare che l’esposto di Carlotta e degli altri è dell’11 maggio, cioè neanche 48 ore dopo il suo fonogramma.

MARTORANA. Credo che la pietra fu portata il secondo giorno. Del Carpio telefonò e ci informò. Evidentemente il collega Scozzari gli aveva dato l’incarico di fare subito gli accertamenti medico-legali su quella macchia di sangue, sempre che fosse stato possibile.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Nell’immediatezza vi furono perquisizioni presso domicili di mafiosi o intercettazioni? Cioè, il procuratore della Repubblica disse di indagare anche sulla mafia?

MARTORANA. Presidente, gliel’ho detto, chiamai i due colleghi quando spuntarono questi esposti in cui si profilò... E credo che in uno di questi si fece anche il nome di Badalamenti, ma non sono del tutto sicuro. Comunque è pacifico che in questi esposti si sosteneva pienamente la tesi dell’omicidio.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Dell’omicidio mafioso?

MARTORANA. sì, dell’omicidio mafioso.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Quindi lei dice che ciò avvenne non prima, ma dopo gli esposti.

MARTORANA. Dopo due o tre giorni. Come ho già detto, allora – sarà stato il quarto o il quinto giorno – convocai i due colleghi. Tra l’altro, era difficile che entrambi riuscissero ad essere presenti contemporaneamente, perché magari uno era in udienza e l’altro in assise. Forse ci saremo riuniti nel pomeriggio, non lo ricordo più. In quell’occasione dissi di invitare i carabinieri a svolgere ulteriori ed approfondite indagini, naturalmente sulla mafia e sull’omicidio che si diceva mafioso. Negli esposti questo fu chiaro. Non mi sento di dire che si parlò subito di Badalamenti, ma questa tesi si accennò nei giorni successivi.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Ma quando lei chiese questo supplemento di indagini, in che cosa si concretizzò la sua richiesta di approfondimento?

MARTORANA. Presidente, ma come faccio io...

RUSSO SPENA COORDINATORE. Insomma furono fatte queste indagini?

MARTORANA. Indiscutibilmente. E poi guardi che queste indagini saranno state necessariamente fatte di nuovo dai consiglieri Chinnici e Caponnetto.

L’argomento « mafia », entra nel fascicolo processuale solo a seguito delle ricerche, delle pressioni, delle dichiarazioni degli amici e dei familiari di Impastato. Ma quelle dichiarazioni – che saranno premiate da riscontri oggettivi acquisiti dal sostituto Scozzari in data 13 maggio 1978– non sono affatto valutate dai carabinieri – e poi dal magistrato Signorino – nella loro oggettiva consistenza ma, piuttosto, considerate mere allegazioni difensive di chi aveva, al pari di Peppino, commesso un delitto. Si preferisce esaltare talune divergenze, peraltro datate, all’interno del gruppo politico di Impastato per argomentare una scelta suicida che, con il ritrovamento del biglietto, consentiva di chiudere tempestivamente il caso. Il rapporto del reparto operativo dei carabinieri di Palermo del 10 maggio 1978, infatti, conclude subito per «...l’attentato dinamitardo....perpetrato... in maniera da legare il ricordo della sua morte ad un fatto eclatante». […] Rispetto a questa ricostruzione, il Pubblico Ministero non procede ad alcuna valutazione critica delle dichiarazioni degli amici e dei familiari di Peppino Impastato e si adagia sulla ipotesi del rapporto di polizia giudiziaria, senza dare alcuna ulteriore direttiva di indagine o procedere autonomamente ad altre iniziative od accertamenti. L’articolato esposto presentato l’11 maggio 1978, a due giorni dal fatto, a firma di Francesco Carlotta, Giuseppe Barbera e Paola Bonsangue, in rappresentanza di numerose associazioni, partiti e circoli e organi di stampa, non modifica più di tanto gli orientamenti del magistrato inquirente. Egli si limita a trasmetterne immediata- mente copia ai carabinieri già incaricati delle indagini, con la più classica delle richieste .....per indagini e rapporto ..... con la sola ulteriore richiesta – peraltro rimasta inevasa – dell’accertamento della provenienza del materiale esplodente. La personalità della vittima, l’analisi attenta e non pregiudiziale della sua storia, i nemici pericolosi che aveva combattuto, la ricostruzione degli ultimi giorni e delle ultime ore della vita di Impastato, le concrete modalità di svolgimento del fatto, a partire dall’esplosivo, costituivano aspetti della vicenda che avrebbero consigliato ad ogni magistrato una maggiore attenzione per ipotesi come quella mafiosa, che erano state escluse dal reparto operativo dei Carabinieri addirittura prima che, col ritrovamento del biglietto, prendesse corpo la pista del suicidio.

Su don Tano non indaga nessuno. su La Repubblica l'8 maggio 2020. Va peraltro segnalata la forte presa di posizione del quotidiano Lotta Continua che l’11 maggio 1978 pubblica un articolo dal titolo «V’ammazzaru u’capo, ora o’essirich’u’arrissittati canticchia», nel quale viene esplicitamente criticato sia l’indirizzo delle indagini sia la pubblicazione sui giornali del biglietto di Peppino, operazione volta ad accreditare la tesi del suicidio. Quell’articolo indica le possibili ragioni della uccisione di Peppino e ripropone i nomi di Finazzo e Badalamenti, ma soprattutto adombra l’ipotesi che gli stessi Carabinieri del Reparto Operativo sapessero quale fosse la causa della morte di Peppino, come si comprende dalla frase asseritamente rivolta ai suoi amici da un carabiniere, durante una pausa degli interrogatori in Caserma: « Vi hanno ammazzato il capo, adesso speriamo che vi calmiate un po’ ». I contenuti dell’articolo portano immediatamente il maggiore Subranni, ad una denuncia per vilipendio e calunnia che il Procuratore aggiunto Martorana assegna al dott. Signorino. Nonostante la riunione tra i due magistrati nessun processo seguì a quella denuncia. Essa confluì nel fascicolo relativo alla morte di Impastato, ma non fu espletato, neppure nell’ambito di quest’ultimo procedimento penale, alcun specifico accertamento.

Così il dott. Martorana, dinnanzi al Comitato, ha ricostruito quella fase delle indagini:

RUSSO SPENA COORDINATORE. Il giorno 11 maggio di quell’anno Lotta Continua pubblicò un articolo su Impastato nel quale si parlava esplicitamente dei mafiosi Badalamenti, Finazzo...

MARTORANA. In base a questo non ci furono querele o denunce dei carabinieri.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Fu avanzata denuncia per calunnia e vilipendio dall’allora maggiore Subranni. Lei conferì con il dottor Signorino? Quali indicazioni ebbe da Signorino e quali indicazioni dette?

MARTORANA. In che senso?

RUSSO SPENA COORDINATORE. Vi fu un processo a seguito della denuncia dei carabinieri?

MARTORANA. Come ho già detto, invitai i carabinieri ad approfondire le indagini.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Che cosa può dire in relazione alla denuncia per calunnia e vilipendio presentata dal maggiore Subranni?

MARTORANA. Non lo ricordo.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Non vi fu un processo?

MARTORANA. Ricordo che ci fu questa denuncia dei carabinieri per vilipendio ma non ricordo altro.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Non ricorda che cosa le disse il dottor Signorino a questo proposito e se lei dette indicazioni allo stesso dottor Signorino?

MARTORANA. Come ho già detto, incaricai i colleghi di operare in modo tale da venire a capo della situazione e soprattutto di approfondire la vicenda a seguito degli esposti e delle denunce presentate dai compagni, dai familiari di Impastato e anche da qualche quotidiano. Inoltre, signor Presidente, lei ricorderà – presumo sia agli atti – che alcuni editoriali di stampa nazionale manifestarono subito la tesi dell’attentato dinamitardo e da questo derivarono – credo – querele e denunce avanzate da Lotta Continua e da altre organizzazioni di sinistra contro questi quotidiani, tra i quali ricordo il Corriere della Sera. Ricordo, comunque, che quattro o cinque quotidiani nazionali parlarono dell’attentato in maniera esplicita. La cosa sembrò assurda, come dicevo, a Lotta Continua o a Democrazia Proletaria e venne presentata una querela contro questi giornali. Non ricordo, però, quale esito abbia avuto tale querela.

FIGURELLI. Dottor Martorana, non ho capito un passaggio. Lei ha detto che i carabinieri si risentirono. Vorrei sapere con chi e come.

MARTORANA. Fu presentata una denuncia dai carabinieri, dal maggiore Subranni, per vilipendio e calunnia in relazione ad articoli di stampa che erano stati pubblicati o a vari proclami – chiamiamoli così – che erano stati fatti, per i quali i carabinieri si risentirono. Ricordo che fu presentata questa denuncia o questo esposto-denuncia (non so come fu formulata tecnicamente).

FIGURELLI. E si procedette per calunnia?

MARTORANA. Non lo ricordo, senatore.

FIGURELLI. Ho qui un documento sul quale sono state apposte delle sigle che forse sarebbe utile che il dottor Martorana identificasse.

(Il dottor Martorana legge il documento consegnato dal senatore Figurelli).

MARTORANA. Fa riferimento al primo rapporto che presentarono i carabinieri, in cui si evidenziava la tesi del suicidio, sulla quale poi tra l’altro insistettero sempre.

FIGURELLI. Vorrei rimanesse agli atti che è stata mostrata al dottor Martorana la nota del maggiore Subranni (fascicolo numero 2596/4, Palermo 11 maggio 1978, diretta alla procura della Repubblica di Palermo, sostituto procuratore dottor Signorino). Vorrei quindi sapere dal dottor Martorana se ricorda se si procedette per calunnia – come il maggiore Subranni chiedeva rispetto a quelle che egli riteneva insinuazioni o affermazioni calunniose – e se è in grado di identificare le sigle apposte a penna sul foglio che le abbiamo mostrato, sul quale è annotata anche la parola: « Conferire ».

MARTORANA. Secondo la prassi, quando vi era qualche fatto rilevante, il procuratore – in quel caso ero io – assegnava l’indagine al collega dopo avere apposto il visto. Questa lettera era diretta al dottor Signorino; forse la segreteria me l’ha sottoposta prima di consegnarla al dottor Signorino, oppure il dottor Signorino stesso è venuto da me per mostrarmi la nota. In questi casi, egli mi accennava il problema e allora stabilivo se era il caso di assegnare l’indagine a lui o al collega. Poi sul documento scrivevo: «Visto, si assegna al collega Signorino, che ha i precedenti» (in questo caso quelli relativi alla vicenda Impastato). La nota in questione ci pervenne il 12 maggio 1978 (come dimostra, in alto a sinistra, il bollo della procura della Repubblica di Palermo) e lo stesso giorno, presone atto attraverso la segreteria (che provvede ad informare subito il procuratore) o il collega stesso, dopo aver discusso un po’ con lui, gli assegnai l’indagine. Inoltre, se si riteneva che si trattasse di una questione di una certa rilevanza, si aggiungeva anche la parola: «Conferire». Qualche volta poteva capitare che si ritenesse opportuno assegnare il caso ad altri colleghi. In quell’occasione, invece, siccome il dottor Signorino aveva iniziato le indagini e quindi aveva seguito tutta la vicenda Impastato, assegnai il caso immediatamente a lui, dopo aver concordato non so più che cosa. Evidentemente gliel’ho detto io di fare degli accertamenti.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Volevamo appunto sapere come mai non fu aperto un fascicolo.

MARTORANA. Doveva farlo Signorino. Io mi limitavo ad annotare «si assegna» e «conferire». Questo significava che poi il dottor Signorino doveva riferirmi quali erano le sue idee e cosa intendeva fare.

FIGURELLI. Ricorda cosa disse il dottor Signorino?

PRESIDENTE. Questo è un punto importante.

MARTORANA. Non lo ricordo. Vi prego di credermi sul mio onore, era una situazione difficile, eravamo pochi magistrati e le pratiche che arrivavano...

FIGURELLI. Sì, però questa era una cosa...

MARTORANA. Sì, ma questo, rispetto alla vicenda grossa, era un aspetto...

FIGURELLI. Non era un aspetto secondario, era connesso al grosso della vicenda, perché se era una calunnia...

MARTORANA. Io mi attivai immediatamente. La lettera arrivò il giorno 12, chiamai subito il dottor Signorino e discussi con lui, dicendogli di informarmi su quello che faceva, perché seguivo tutto, guardavo tutto e vedevo tutto. Purtroppo molto spesso non potevo arrivare a controllare tutto, lo dico sinceramente, anche se ero impegnato la mattina, il pomeriggio, la sera e a volte anche la notte. Per la magistratura inquirente, la denuncia del maggiore Subranni avrebbe potuto rappresentare un’ulteriore, diversa occasione per avviare accertamenti in una chiave diversa da quella scelta in via esclusiva dai carabinieri di Palermo. Tutto invece si risolve con una cosiddetta archiviazione di fatto all’interno del fascicolo processuale relativo alla morte di Giuseppe Impastato. Non vi fu alcuna attività istruttoria, e la stessa decisione di non trattare la denuncia non ebbe neppure il vaglio di un giudice nell’ambito di un autonomo procedimento penale.

La vera inchiesta la fanno i suoi amici.  La Repubblica il 9 maggio 2020. Ma se la Procura della Repubblica di Palermo resta inerte nonostante le dichiarazioni, gli esposti, gli interrogativi che doveva suscitare un esame sereno di quello strano caso, ben diverso fu l’atteggiamento degli amici e dei familiari di Impastato, che continuarono nella opera di denuncia e nell’attività di ricerca di tracce obiettive del delitto di mafia. A fronte delle resistenze dei carabinieri della Stazione di Cinisi, la scelta da parte degli amici di Impastato, di rivolgersi al prof. Ideale Del Carpio, cattedratico di grande autorevolezza morale e professionale, quale tramite con le istituzioni, si rivelò efficace. Il professore infatti avverte l’Ufficio di Procura nella persona del dott. Francesco Scozzari di quanto quei giovani avevano rinvenuto sul luogo del fatto sicché, in data 13 maggio 1978 si procedette a nuovo sopralluogo da parte dello stesso Scozzari, assistito dal magg. Subranni, dal cap. E. Basile e dal mar.Travali, alla presenza dei periti proff. Caruso e Procaccianti, oltreché dello stesso Del Carpio, consulente di parte, e di Pietro La Fata e Vito Lo Duca, cioè dei giovani che avevano trovato i reperti utili alle indagini. L’atto giudiziario si rivelò di straordinaria importanza perché all’interno del casolare furono trovate macchie di sangue sia su pietre infisse nel pavimento, sia in prossimità della spigolo di un sedile in pietra, il tutto adeguatamente fotografato. I risultati della iniziativa degli amici di Peppino costituivano, com’è a tutti evidente, un dato obiettivo che contrastava e poteva azzerare la costruzione investigativa fondata sul binomio attentato-suicidio. Il dato fu però svilito, nell’analisi dei Carabinieri, con la considerazione che poiché la casa era abbandonata, poteva trattarsi di sangue di origine diversa (mestruale o di animali o altro). Ma quel che mette conto qui di osservare è che l’atteggiamento della magistratura inquirente non mutò, neanche a seguito di questa decisiva emergenza investigativa, peraltro direttamente verificata. L’eccezionalità dei risultati del sopralluogo venne completamente ignorata dal magistrato inquirente. Egli si limitò a mettere a disposizione dei periti il materiale ematico e a chiedere loro la ricostruzione della dinamica della morte e la posizione di Impastato all’atto dell’esplosione oltre agli accertamenti di rito sull’esplosivo adoperato, senza attivare la polizia giudiziaria sulle ipotesi, indicate da quei giovani e dal prof. Del Carpio e, soprattutto, avvalorate dal ritrovamento delle importantissime tracce del delitto nel casolare. Il rapporto del Reparto Operativo dei Carabinieri in data 30 maggio 1978, presentato a seguito della delega di indagine conferita dal dott. Signorino relativamente all’esposto presentato dagli amici Impastato, sembra invece voler costituire una vera e propria colata di cemento su ogni diversa lettura del fatto. A seguito della delega non vi furono indagini positivamente indirizzate sugli ambienti e sui fatti indicati nell’esposto: il maggiore Subranni, infatti, si limita ad ascoltare i firmatari dell’esposto e il professor Del Carpio. Invece di indagare le persone e i fatti segnalati dall’esposto, cioè la mafia di Cinisi e quindi Badalamenti e il suo gruppo, sono le dichiarazioni dei firmatari dell’esposto e lo stesso prof. Del Carpio ad essere oggetto di attenta verifica. Sul punto va osservato che i Carabinieri del reparto operativo, senza delega specifica procedettero ad un atto, l’esame del consulente di parte della famiglia Impastato già formalmente costituito in tale qualità negli atti giudiziari compiuti dal sostituto Scozzari e già ascoltato nel corso del procedimento dal Pubblico Ministero titolare della istruttoria sommaria, che lo stesso dott. Martorana, nel corso della sua audizione ha definito «uno straripamento». L’esame del prof. del Carpio, censurabile anche sul piano formale, condotto con veemente pressione inquisitoria, degna di miglior causa, si concentrava sul fatto che egli avesse formulato le sue valutazioni tecniche sulla scorta di quanto descrittogli (in modo assolutamente fedele dai giovani studenti) piuttosto che a seguito di esame diretto dei luoghi. La circostanza, evidentemente non minava la fondatezza delle osservazioni e delle valutazioni dell’illustre cattedratico ma la ingiustificata insistenza su di essa determinava una condizione psicologica difensiva, assolutamente ingiustificabile per un uomo di grande spessore morale e professionale, lealmente e intervenuto a dare un disinteressato contributo di scienza alle indagini. L’impegno fu rivolto alla sua persona e alla sua condotta, piuttosto che alle cose che diceva, ai fatti di cui dava prova, alla ipotesi dell’omicidio di mafia che doveva cogliersi dalle sue dichiarazioni. Neppure le dichiarazioni dei compagni e dei familiari di Peppino, sentiti dal dott. Signorino dettero al magistrato inquirente l’impulso indagini nella direzione della mafia di Cinisi posto che si trattò di atti compiuti senza alcuno spunto significativo di un interesse per ipotesi diverse da quelle legate al binomio suicidio-attentato, senza alcuna conseguente iniziativa investigativa, quasi con nell’adempimento burocratico del dovere di dare veste giudiziaria agli compiuti dai Carabinieri. L’istruttoria sommaria condotta dal sostituto procuratore dunque non vuole allontanarsi dal tracciato dei carabinieri, nonostante i dati obiettivi delle indagini richiedessero iniziative verso le persone e gli ambienti che erano stati oggetto di denuncia da parte di Peppino Impastato. Potevano e dovevano adottarsi provvedimenti di prassi quali quelli di perquisizione o, all’esito di queste e ricorrendo i presupposti, richiedersi intercettazione delle conversazioni telefoniche, oppure pro- cedere agli accertamenti sui titolari delle cave che avevano la disponibilità di quell’esplosivo (che erano poi le stesse persone che gravitavano nell’ambiente di mafia protagonista delle speculazioni edilizie contrastate pubblicamente e con forza da Peppino Impastato). Niente di tutto questo accade nell’istruzione sommaria del dott. Domenico Signorino. Il tempo scorre in attesa delle relazioni dei periti senza che il Pubblico Ministero adotti alcuna iniziativa, fermo com’era, evidentemente, alla ipotesi dell’attentato-suicidio. Passano così sei mesi, un tempo prezioso per acquisire decisivi elementi di prova di un delitto di omicidio. Quando interviene, il risultato degli accertamenti peritali confermerà che le macchie trovate sul sedile di pietra all’interno del casolare erano di sangue umano, dello stesso gruppo del sangue di Giuseppe Impastato, così come sarà confermato che l’esplosivo era costituito da mina da cava. Questi risultati, stando alle carte processuali, impongono al sostituto procuratore Domenico Signorino a modificare l’impostazione del processo e ad ipotizzare, finalmente, a carico di ignoti, il delitto di omicidio premeditato. Ma i risultati delle perizie non erano novità assolute per l’indagine. Nel frattempo erano comunque trascorsi mesi e mesi dal fatto. Le relazioni peritali, infatti, hanno solo convalidato gli elementi emersi nella immediatezza dei fatti. Quegli elementi erano già stati fortemente – e anche formalmente – evidenziati agli investigatori e ai magistrati: le tracce di sangue all’interno del casolare, l’uso della mina da cava, l’esistenza di validi e noti motivi a sostegno della causale mafiosa erano dati disponibili per il magistrato già la mattina del 9 maggio 1978. Nel novembre del 1978, senza che nel corso della sommaria istruzione fosse stato compiuto alcun atto mirato alla verifica della pista dell’omicidio, il Sostituto Signorino «formalizza» l’accusa di omicidio premeditato a carico di ignoti e affida il processo al giudice istruttore Rocco Chinnici. Solo con l’arrivo nel processo di questo Giudice si cominciò a lavorare seriamente su quella che fin dal primo momento poteva e doveva essere utilmente verificata: la pista dell’omicidio di mafia. L’esame delle attività sviluppate da questo giudice, il ventaglio degli accertamenti disposti per sviluppare gli originari elementi di prova contro la mafia di Cinisi, costituisce la conferma più autorevole e genuina della fondatezza delle osservazioni formulate da questa Commissione alla conduzione degli accertamenti seguiti alla morte di Giuseppe Impastato. Si è cercato, in questa sede, di proporre una ricostruzione ancorata ai fatti di allora, una valutazione operata dalla medesima angolazione processuale di chi aveva il potere e il dovere di guardare e vedere gli indizi obiettivamente emersi nella direzione mafiosa, per svilupparli tempestivamente nei modi e con tutti gli strumenti propri della investigazione penale. Con la formalizzazione della inchiesta da parte del Pubblico Ministero Signorino, viene dunque segnata in modo definitivo la strada dell’ipotesi mafiosa. Questo rendeva naturalmente proficuo il rapporto tra l'autorità giudiziaria, nella specie il giudice Rocco Chinnici, e coloro i quali sempre avevano affermato che la chiave del delitto fosse, appunto, quella mafiosa. I familiari e gli amici di Giuseppe Impastato intervengono con tempestività ed efficacia sulla scena processuale presentando nel novembre 1978 il «Promemoria all’attenzione del giudice Chinnici» e il Documento della redazione di Radio Aut e del Comitato di controinformazione costituitosi presso il centro siciliano di documentazione, mentre la madre Bartolotta Fara e il fratello Giovanni si costituiscono parte civile. Il «promemoria» offre una serie di suggerimenti investigativi che furono in gran parte espletati dal giudice istruttore, mentre altri, pure molto importanti, risultavano purtroppo superati o impossibili da eseguirsi per il lungo tempo trascorso (così per esempio il controllo delle cave di D’Anna o gli accertamenti sulle «strane effrazioni» nelle case dei familiari e degli amici di Peppino). Ma, soprattutto, venuta meno la diffidenza verso gli amici e i familiari di Impastato, vengono offerte al giudice istruttore informazioni su circostanze inedite, prima fra tutte quella concernente l’avviso dato da Amenta Giuseppe al cugino Giovanni Riccobono, compagno di militanza di Peppino, a non recarsi a Cinisi, quella sera, perché sarebbe accaduto qualcosa di grave. Le dichiarazioni rese a questa Commissione da Giovanni Riccobono, nel corso della missione del Comitato a Palermo del 31 marzo 2000 meritano di essere riportate perché espressione di coraggio civile e di capacità di rottura di un clima omertoso fondato anche sul ricatto degli affetti familiari. Quando il processo approda dinanzi al giudice Chinnici, il giovane Riccobono rompe gli schemi, denuncia un fatto di particolare importanza ai fini delle indagini e lo conferma, poi, anche in sede di confronto con il cugino Amenta, dinanzi al giudice istruttore. Nel corso della sua audizione del 31 marzo 2000, così Riccobono ha precisato i fatti: Innanzi tutto vorrei spiegare il motivo per cui non presentai subito la mia denuncia alla magistratura. All’indomani della morte di Peppino, gli inquirenti portarono me e altri amici di Giuseppe in caserma dove fummo tutti tartassati e trattati da terroristi. [...] All’epoca lavoravo a Palermo da un mio cugino. Il giorno 8, nel pomeriggio, mi prese in disparte e mi disse che quella sera non sarei dovuto andare a Cinisi perché sarebbe accaduto qualcosa di grave. Premetto che quel giorno dovevo necessariamente tornare in paese per riconsegnare la macchina che mi aveva prestato un parente. In seguito a questo « avvertimento » – non so bene se definirlo avvertimento o consiglio – mi preoccupai subito per Peppino che, a mio avviso, era la persona più esposta proprio per il tipo d’attività politica che svolgeva. Quindi tornai in paese e mi recai direttamente, senza passare per casa, a «Radio Aut» dove arrivai verso le 19,45. Peppino stava andando via perché a casa lo aspettavano dei parenti americani. Poiché alle 21 era in programma un incontro per discutere delle elezioni del giorno 14, ci sedemmo aspettando le 21 e fu durante quell’attesa che parlai dell’avvertimento con due o tre compagni. [...] Durante il confronto con mio cugino alla presenza del dottor Chinnici, all’inizio egli giustificò il consiglio che mi aveva dato con il fatto che mio fratello era candidato nella lista della Democrazia Cristiana e, quindi, bisognava evitare di intralciare la sua campagna elettorale. Tuttavia, quella sera non dovevamo fare alcun comizio e, quindi, non potevamo creare alcun problema. [...] Domenico Di Maggio mi riferì di aver visto mio cugino in piazza, a Cinisi, appartato mentre parlava con Finazzo, che è ben conosciuto. Questo è avvenuto una settimana prima. [...] è chiaro che sono giunto a questa conclusione dopo l’interrogatorio. Ho usato il termine «tartassati» perché una stessa domanda ci fu rivolta frequentemente ed è la seguente: «perché stavate facendo l’attentato?». Noi dovevamo affermare per forza che avevamo fatto l’attentato, o che lo stavamo facendo e che era andata male avendo Peppino perso la vita. Questo è il senso. La domanda venne rivolta parecchie volte. Ricordo che uno dei carabinieri, ma non so con precisione chi fosse, sbatté forte la mano sul tavolo quando dissi loro che sapevano benissimo chi aveva ucciso Peppino. Mi chiedevano di fare il nome e il cognome del mafioso. Non potevo pronunciare tale nome, perché non sapevo chi avesse ammazzato Peppino. Non sapevo se Badalamenti, Finazzo o altra persona lo aveva fatto saltare per aria. Questo è il senso della frase. Per forza dovevamo dire che avevamo fatto l’attentato o dovevamo fare un nome.

Il giudice Chinnici riapre le indagini. La Repubblica il 10 maggio 2020. Rocco Chinnici pose al centro del suo lavoro istruttorio gli interessi mafiosi denunciati da Giuseppe Impastato e indagò con rigore e serietà professionale in quella direzione. Partendo dall’esame approfondito dei numerosi testimoni dell’ultimo periodo e delle ultime ore di vita di Impastato, Chinnici acquisì e approfondì i risultati della inchiesta della Direzione Compartimentale delle Ferrovie dello Stato, dispose il sequestro delle pratiche edilizie relativa al famoso palazzo nel centro di Cinisi e al camping Z 10, con conseguenti perizie tecniche ed invio di comunicazione giudiziaria per interesse privato in atti di ufficio al sindaco, al vice sindaco e alla commissione edilizia di Cinisi. Si registrarono, in quella istruttoria, gli arresti per falsa testimonianza dei fratelli Amenta e la comunicazione giudiziaria per l’omicidio di Giuseppe Impastato, inviata a quel Finazzo Giuseppe, poi ucciso nella guerra di mafia, proprietario del palazzo abusivo denunciato da Peppino. Queste coordinate di indagine, sviluppate con rigore professionale dal dottor Chinnici, delineano il quadro entro cui poteva emergere la prova della personale responsabilità penale di mandanti ed esecutori dell’omicidio di Impastato. Rocco Chinnici muore il 29 luglio 1983 per mano della mafia e il fascicolo processuale passa quindi al Consigliere istruttore Antonino Caponnetto. Senza ulteriori significativi atti istruttori il pubblico ministero dott. Domenico Signorino rassegna le proprie conclusioni in data 7 febbraio e 2 marzo 1984, richiedendo il non doversi procedere per falsa testimonianza nei confronti dei fratelli Amenta, per intervenuta amnistia e, quanto all’omicidio premeditato in danno di Giuseppe Impastato, per essere rimasti ignoti gli autori del reato. L’atto conclusivo della prima fase di questa tormentata storia processuale, si ha con la sentenza istruttoria del dott. Antonino Caponnetto in data 19 maggio 1984. Essa stigmatizza la valutazione compiuta dal Pubblico Ministero dott. Domenico Signorino nella sua requisitoria finale, laddove afferma che le originarie indagini furono «dubbiose» in ordine alla qualificazione della morte di Impastato. Il giudice istruttore, infatti, è categorico nell’affermare che quelle indagini «furono decisamente e convintamente orientate verso l’ipotesi suicida». La responsabilità del depistaggio delle indagini viene tuttavia ricondotta dal dott. Caponnetto esclusivamente al ritrovamento del manoscritto e al «.... senso di sfiducia che indusse amici, compagni e parenti del giovane a rivelare in un momento successivo e soltanto al giudice istruttore circostanze di indubbia rilevanza al fine di accertare modalità e causa del tragico episodio». La sentenza descrive in modo rigoroso e approfondito le ragioni fondanti della ipotesi omicidiaria e dimostra l’insussistenza delle altre e, in specie, la inconsistenza reale degli indizi militanti per la soluzione terroristico – suicidiaria. In particolare, essa ha il merito fondamentale di avere motivatamente ricondotto all’alveo mafioso l’origine del delitto di Giuseppe Impastato e di avere, quindi individuato la causale del delitto nella sua battaglia contro la mafia e i mafiosi di Cinisi. La sentenza ebbe le critiche da parte degli amici e dei familiari di Impastato, soprattutto perché sembrava rendere più difficile la possibilità di pervenire all’accertamento delle responsabilità personali degli autori e dei mandanti, nel momento meno opportuno. Proprio in quel periodo, infatti, Gaetano Badalamenti, principale sospettato mandante dell’omicidio veniva arrestato in Spagna, perché colpito da mandato di cattura per traffico internazionale di stupefacenti in relazione alla cosiddetta operazione Pizza connection. […] Anche la successiva parentesi della tormentata storia processuale, cioè la riapertura delle indagini disposta dalla Procura di Palermo è avviata, su sollecitazione degli amici e dei familiari di Impastato. Nel giugno del 1986, infatti, Umberto Santino, Salvo Vitale, Nuccio Gaspare e Giovanni Impastato, chiedono formalmente la riapertura del procedimento con una motivata richiesta che, muovendo dai risultati della sentenza Caponnetto, secondo cui la morte di Peppino era stata decisa da quegli stessi gruppi e personaggi mafiosi contro cui aveva concentrato il suo impegno di lotta, introduce un elemento nuovo di conoscenza che si rivelerà significativo per la comprensione delle dinamiche decisionali tra le cosche mafiose. Con quella richiesta, infatti, vengono evidenziati, accanto ai motivi delle battaglie di Peppino, come ad esempio il famoso volantino in cui attacca Badalamenti definendolo esperto di lupara e di eroina, nuovi fatti specifici, tra i quali la visita a casa Impastato del mafioso Vito Palazzolo che convoca Luigi Impastato, padre di Peppino, presso Gaetano Badalamenti, e, quindi, l’improvviso viaggio di Luigi in America, per località e ragioni taciute ai familiari, alla ricerca di protezione per il figlio presso le cosche mafiose siciliane in America (...prima che uccidono lui devono uccidere me ...disse alla cugina Vincenza Bartolotta, a Los Angeles) e, infine, al ritorno dall’America, l’incontro di Luigi Impastato nella casa del fratello di Gaetano Badalamenti. Gli elementi illustrati dai familiari dettero luogo ad un’indagine, condotta dal Pubblico Ministero Ignazio De Francisci e dal giudice istruttore Giovanni Falcone, che tuttavia non poté pervenire a concreti risultati perché, scontata la posizione negatoria, di Gaetano Badalamenti, non ebbe dai parenti americani di Luigi Impastato alcun significativo contributo. E peraltro, il Pubblico Ministero, nella richiesta di archiviazione del 27 febbraio 1992, affaccia il sospetto che ad uccidere Impastato fosse stata la frangia mafiosa dei «corleonesi», ricordando che Lipari Giuseppe, comproprietario di quel villaggio turistico Z10 contro la cui realizzazione si era strenuamente battuto Peppino, era ritenuto vicinissimo a Riina Salvatore. Quest’ipotesi era basata sulle dichiarazioni di Buscetta, secondo il quale Badalamenti era stato «posato», cioè estromesso, dalla «commissione» tra la fine del 1977 l’inizio del 1978, sicché la sua posizione di predominio sulla zona di Cinisi era «quanto mai precaria» per il netto contrasto con il gruppo cosiddetta dei «Corleonesi», che di lì a poco avrebbe dato luogo alla guerra di mafia che ha insanguinato Palermo per tutti i primi anni ottanta. Nel corso di questa indagine viene esclusa la cosiddetta «pista nera», indicata da Angelo Izzo, noto personaggio della destra extra parlamentare. Questi, nel processo per l’omicidio del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella, aveva riferito, de relato, di un coinvolgimento quali esecutori materiali del delitto Impastato di elementi della destra extra parlamentare. Ma da un lato le indagini non avevano consentito di acquisire riscontri e, dall’altro, lo stesso Concutelli non confermava di aver fornito ad Izzo quelle informazioni. La richiesta del Pubblico Ministero viene integralmente accolta dal Giudice per le indagini preliminari, che archivia nuovamente il caso. Anche l’epilogo negativo delle ulteriori indagini viene apertamente criticato dai compagni e dai familiari di Giuseppe, anche sul rilievo che, al di là delle dichiarazioni di Buscetta, la presenza e l’attività in Cinisi di Gaetano Badalamenti «esperto in lupara e traffico di eroina» era stata rilevata e denunciata da Peppino Impastato, proprio nel periodo dell’omicidio. Dinanzi al Comitato di questa Commissione, per la prima volta, Giovanni Impastato, sua moglie Vitale Felicia e la madre di Peppino, Bartolotta Felicia, hanno potuto compiutamente riferire alcuni essenziali passaggi, di grande rilievo probatorio, non ancora adeguatamente evidenziati nella sede processuale propria:

FIGURELLI. Lei non sapeva niente di quello che era successo quando arrivarono i carabinieri per perquisirle la casa?

BARTOLOTTA. Non mi dissero niente, ma lo immaginavo. Chiesi loro che cosa fosse successo e mi risposero che si trattava solo di fatti di ragazzi. Io avevo immaginato, perché vi erano state delle minacce forti.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Vorrei sapere chi fece le minacce forti.

BARTOLOTTA. Badalamenti, il quale chiamò mio marito e gli disse che gli avrebbe ammazzato suo figlio.

MICCICHE’. A lei risulta questo perché glielo raccontò suo marito?

BARTOLOTTA. Sì. Mio marito gli disse che non gli dovevano toccare il figlio.

IMPASTATO. Dobbiamo parlare chiaro. Mio padre era un mafioso ed era un amico di Badalamenti, il quale molte volte veniva a casa nostra a chiamarlo. Sicuramente avranno avuto un dialogo in questo senso perché, nell’ultimo periodo, tramite «Radio Aut» o attraverso i volantini, Peppino aveva alzato il tiro nei confronti della mafia di Cinisi e, in particolare, contro Badalamenti. Sicuramente Badalamenti chiamò più volte mio padre per dirgli di far smettere Peppino, altrimenti sarebbe finito male.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Chi lo veniva a chiamare?

IMPASTATO. Palazzolo.

VITALE. Dopo uno degli ultimi volantini fatti da Peppino durante la campagna elettorale, assistemmo al solito rito. Eravamo a cena e in quell’occasione era presente anche Peppino. Ho detto che c’era anche Peppino perché egli aveva dei periodi di alti e bassi con suo padre e spesso non stava a casa. Suonarono alla porta e andai io ad aprire: si trattava di Vito Palazzolo, detto «varvazzetta», imputato nel processo e indicato come il mandante del delitto. Mi chiese di far uscire mio suocero da casa. Chiamai mio suocero, il quale uscì da casa e parlò con lui per un po’ di tempo. Quando rientrò, si scatenò l’ira di Dio. Mio suocero se la prese con Peppino, dicendogli che doveva smettere la sua attività, che voleva rovinare entrambi e che non ce la faceva più.

MICCICHE’. Emergeva chiaramente che Palazzolo avesse fatto qualche minaccia precisa a Luigi del tipo: «Se tuo figlio non la smette noi ammazziamo lui o te»?

VITALE. È  una delle ultime minacce fatte a mio suocero. Questo fatto è avvenuto subito dopo il volantino, eravamo in campagna elettorale.

MICCICHE’. Si parlò espressamente di pericolo di vita per qualcuno? Quando lei afferma che è successo il finimondo, al di là dell’arrabbiatura del suocero, del momento particolare della minaccia ricevuta, suo suocero disse qualcosa di preciso che potrebbe essere utile a questa Commissione nel senso: « Mi hanno detto che se non la finisci ti ammazzano»?

BARTOLOTTA. A casa non parlava mai di queste cose.

VITALE. È chiaro che il problema era quello.

IMPASTATO. Il viaggio compiuto da mio padre era importante anche a seguito di questi fatti che sono successi.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Oltre a Palazzolo c’erano altri che minacciavano?

IMPASTATO. Erano state fatte anche dallo zio Giuseppe Impastato detto «sputafuoco».

RUSSO SPENA COORDINATORE. Quello del volantino è un punto da approfondire.

FIGURELLI. Questo «sputafuoco» è stato interrogato dai carabinieri?

IMPASTATO. Per quanto riguarda queste vicende non è stato interrogato dai carabinieri, ma può darsi che mi sbagli.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Siccome c’è un problema che riguarda un palazzo appartenente a Finazzo, di cui è stata bloccata la costruzione in seguito alle denunce di Radio Aut, c’era un punto specifico su cui avveniva l’avvertimento? C’era un punto nel volantino che aveva particolarmente colpito la mafia locale nei suoi interessi?

IMPASTATO. Per quanto riguarda il famoso progetto Zeta 10, un progetto turistico a Cinisi, Peppino lo aveva denunciato politicamente ed era stata bloccata una sovvenzione della Cassa per il Mezzogiorno. Questo progetto Zeta 10 è di Giuseppe Lipari che è nel maxi–processo. I proprietari erano tre: Caldara, Cusumano e Lipari; uno di questi tre aveva rapporti con la mafia di Corleone, con Totò Riina ed è indagato nel maxi–processo. Il contenuto del volantino parlava di questo progetto Zeta 10, del palazzo a cinque piani e accusava direttamente Tano Badalamenti di essere esperto in lupara e traffico d’eroina. In quel volantino si denunciavano i rapporti tra le istituzioni (comune, amministrazione comunale) e la mafia. Si denunciava l’amministrazione locale che concedeva molto alla mafia in base a quei progetti. C’è una serie di fotografie che parla chiaro, si tratta di foto diventate famose: l’autostrada, la famosa curva, perché c’erano i terreni dei Di Trapani. Il progetto Zeta 10, il palazzo a cinque piani, tutto il saccheggiamento della costa, su queste cose Peppino colpiva nel segno. Poi, nell’ultimo periodo si era candidato alle elezioni comunali, quindi diventava molto pericolosa la sua presenza in consiglio comunale nelle liste di Democrazia proletaria.

MICCICHE’. Quelli che suo zio riferiva a suo padre erano minacce o consigli a sua volta ricevuti da Badalamenti?

IMPASTATO. In precedenza ho assistito a qualcosa, ma molti anni prima. L’impegno di Peppino è durato dieci anni, sempre contro Badalamenti, e faceva attacchi concreti con nomi e cognomi. Questo «sputafuoco» veniva a casa con minacce precise del tipo: «Cerca di far smettere tuo figlio, fagli fare politica, può fare il comunista, quello che vuole, ma che non parli dei mafiosi, ci sono tanti argomenti di cui trattare, perché deve parlare proprio di mafia?».

MICCICHE’. Le risulta che questo suo zio avesse parlato direttamente con Peppino?

IMPASTATO. Con mio fratello no, perché non lo salutava, ma con mio padre si, che poi buttava Peppino fuori di casa, lo contrastava in questo suo impegno. Poi, man mano che passava il tempo, il tiro si alzava sempre di più.

RUSSO SPENA COORDINATORE. È necessario individuare l’ultimo messaggio pervenuto alla famiglia Impastato da parte di persone vicine a Badalamenti.

IMPASTATO. L’ultimo è stato quello di Palazzolo.

BARTOLOTTA. Vito Palazzolo e suo cugino una mattina, arrivati in macchina, bussano alla porta. Mi chiedono se c’è mio marito e io risposi di no, ma se avevano un appuntamento mio marito sarebbe arrivato. Mi disse che suo cugino voleva parlargli. Quando arrivò mio marito lo avvertii e lui comprò perfino un regalo per la figlia di Palazzolo. Questo è l’ultimo avvertimento, due o tre mesi prima.

MICCICHE’. È arrivata qualche minaccia negli ultimi giorni prima che Peppino morisse? Quando Vito Palazzolo ha bussato alla porta e ha chiesto di incontrare il padre di Peppino?

VITALE. Mio suocero era ancora vivo.

IMPASTATO. Questo è successo prima della morte di Peppino ma dopo il volantino che era stato redatto un anno prima.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Il discorso del viaggio in America merita una trattazione organica separata. Gli auditi hanno osservato che Badalamenti aveva avuto colloqui con il padre di Peppino preceduti da visite di persone che lo convocavano presso Badalamenti stesso. Chi erano le altre persone e dove veniva convocato suo padre?

IMPASTATO. Uno era Palazzolo, un altro Giuseppe Impastato detto «sputafuoco», un altro ancora un cugino di Gaetano Badalamenti, Vito Badalamenti. Gli incontri avvenivano anche a casa di Badalamenti, a Cinisi, a pochi metri da casa mia.

MICCICHE’. Lei ritiene che finché suo marito era vivo in qualche maniera questi minacciavano ma non facevano niente, ma appena suo marito è morto si sono ritenuti liberi di ammazzare suo figlio?

BARTOLOTTA. Finché era vivo sì.

MICCICHE’. Quindi lei ritiene che la morte di suo marito sia stata determinante perché tolse ai suoi figli l’unico legame di protezione di cui godevano. In pratica, se l’avessero ucciso con il padre ancora in vita, gli stessi assassini avrebbero rischiato una ritorsione.

BARTOLOTTA. Mio marito chiedeva a mio figlio di smettere e lui rispondeva che se lo avessero ammazzato si sarebbero resi colpevoli. Lui sapeva di correre certi rischi perché gli erano già arrivate delle minacce, ma diceva: “Se mi ammazzano confessano la loro colpa”. Fu Badalamenti a far ammazzare mio figlio.

IMPASTATO. Il fatto importante è che quando mio padre torna dagli Stati Uniti muore in un incidente stradale. E questo accade circa otto mesi prima della morte di Peppino.

FIGURELLI. Per quale ragione allora si recò negli Stati Uniti?

IMPASTATO. Proprio perché c’era qualcosa che non andava. Dopo essere stato chiamato da Badalamenti tramite Palazzolo e dopo aver parlato con alcuni suoi amici mafiosi decise improvvisamente di partire per gli Stati Uniti. A noi diede una motivazione assurda. Ci disse che dal momento che Peppino attaccava i suoi amici e «faceva casino» sarebbe andato negli Stati Uniti per avere un po’ di tranquillità. Probabilmente, invece, andò in America per incontrare alcune persone e convincerle a parlare a Badalamenti. Questa è una mia ipotesi.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Probabilmente si trattava di superiori gerarchici nell’ambito dell’organizzazione mafiosa ai quali suo padre chiedeva di convincere Badalamenti a non minacciare suo figlio.

IMPASTATO. Qualcosa in questo senso è accaduto. Infatti, nell’interrogatorio di una mia cugina, Bartolotta Vincenza, risulta che lei lo abbia in qualche modo provocato dicendogli che probabilmente si era recato negli Stati Uniti perché stava accadendo qualcosa a Peppino. Egli negò fermamente e aggiunse che se avessero voluto fare del male a Peppino prima avrebbero dovuto ammazzare lui.

Tano Badalamenti finalmente alla sbarra. La Repubblica l'11 maggio 2020. La riapertura dell’inchiesta continuò ad essere un tema di mobilitazione dei familiari degli amici e di un vasto movimento che si era sviluppato nella società civile come dimostrano le qualificate adesioni di associazioni, sindacati, partiti e personalità del Parlamento, all’appello promosso nel maggio del 1992 dai consiglieri della Provincia Regionale di Palermo di Rifondazione comunista, Rete, Pci–Pds, Verdi, e da Umberto Santino presidente del Centro Impastato. Ovviamente l’appello, in mancanza di fatti diversi da quelli già valutati dall'autorità giudiziaria, non poteva determinare effetti sul piano strettamente processuale. Ma anche negli anni successivi, benché sul versante giudiziario la situazione fosse assolutamente ferma alle insoddisfacenti conclusioni delle due precedenti istruttorie penali, il Centro Impastato e i familiari continuarono nell’opera incessante e meritoria di denuncia e di sensibilizzazione della pubblica opinione sui temi dell’impegno civile e politico di Peppino Impastato. Una siffatta azione, ovviamente, era tesa altresì a cogliere ogni pur minimo segnale che permettesse di rimettere in moto la macchina giudiziaria. E, infatti, una formale richiesta di riapertura delle indagini venne avanzata a firma del legale dei familiari e del Centro Impastato avvocato Vincenzo Gervasi, in data 9 maggio 1994, atteso il diverso ruolo che, nell’ambito della struttura di cosa nostra sembrava dovesse attribuirsi a Badalamenti sulla base delle risultanze delle indagini scaturite dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio ma, soprattutto, con riferimento alle ulteriori dichiarazioni di Buscetta e di Palazzolo Salvatore, affiliato proprio alla mafia di Cinisi, collaborazione che poteva offrire spunti decisivi per l’accertamento della verità sulla morte di Giuseppe Impastato. […] Non è questa la sede per affrontare il tema dei collaboratori di giustizia, e, d’altra parte la Commissione – che, peraltro ha istituito un apposito comitato – ha avuto modo di esprimere, nei suoi dibattiti, nel corso delle sue inchieste e in deliberati formali proprie compiute valutazioni sul tema. Per questo specifico caso, tuttavia, quali che siano le determinazioni della competente autorità giudiziaria in ordine alla personale responsabilità degli imputati, va sottolineata l’oggettiva importanza delle dichiarazioni rese sulla vicenda da numerosi collaboratori di giustizia, posto che esse, proprio perché provenienti da chi era dall’interno della struttura mafiosa, permettono alla magistratura di rivisitare una vicenda che ancora presenta aspetti oscuri. E infatti, il processo che oggi vede alla sbarra Gaetano Badalamenti e Palazzolo Vito si instaura presso la Procura della Repubblica di Palermo, in data 11 aprile 1995, proprio a seguito delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Palazzolo Salvatore. Le indagini hanno poi potuto contare sul contributo di conoscenza diretta e indiretta di Gaspare Mutolo, Calderone Antonino e Francesco Di Carlo mentre, relativamente al ruolo di Badalamenti in Cosa nostra, ed alla sua esclusione dalla Commissione, utili dichiarazioni hanno reso Tommaso Buscetta, Antonio Calderone, Francesco Marino Mannoia, Ganci Calogero, Anzelmo Francesco Paolo e Pennino Gioacchino. Esperite le dovute indagini, la Procura di Palermo in data 26 maggio 1997, a conclusione dei suoi accertamenti, ha richiesto la misura della custodia cautelare in carcere per Badalamenti Gaetano e quella degli arresti domiciliari per Palazzolo Vito, in considerazione delle sue precarie condizioni di salute. La richiesta del pubblico Ministero è fondata su molteplici e convergenti dichiarazioni sia in ordine al fatto specifico della responsabilità di Gaetano Badalamenti e Vito Palazzolo per la morte di Peppino Impastato sia relativamente al loro ruolo di vertice nella famiglia di Cinisi (che li rendeva necessariamente partecipi e responsabili del delitto, secondo le regole della organizzazione mafiosa, giudizialmente accertate). Contestualmente ai provvedimenti coercitivi la Procura della Repubblica di Palermo avanzava richiesta di rinvio a giudizio per entrambi gli imputati. Con ordinanza 11 novembre 1997 il Gip preso il Tribunale di Palermo accoglieva la richiesta di custodia cautelare, limitatamente a Gaetano Badalamenti. Per Palazzolo Vito, invece, il Gip, con la medesima ordinanza 11 novembre 1997 riteneva che, a differenza di Badalamenti, il Palazzolo non era raggiunto da gravi indizi di colpevolezza in quanto a suo carico vi era la sola chiamata in correità del collaboratore di giustizia Palazzolo Salvatore, pur considerata intrinsecamente attendibile, posto che gli altri collaboratori non avevano riferito della sua qualità di mandante, anche se lo indicavano come «vice capo» della famiglia di Cinisi, all’epoca dei fatti guidata da Badalamenti. Contro le decisioni del giudice per le indagini preliminari ricorrevano al Tribunale del riesame sia il Pubblico Ministero sia il difensore. Il collegio giudicante accoglieva la richiesta del Pubblico Ministero e disponeva la misura coercitiva degli arresti domiciliari per Vito Palazzolo sottolineando la pluralità delle indicazioni relative alla sua qualità all’interno della famiglia di Cinisi, alla conoscenza dell’impegno antimafia del giovane, al conseguente interesse alla sua eliminazione; fu proprio Vito Palazzolo, infatti, a recarsi a casa Impastato per convocare il padre Luigi da Badalamenti dopo il noto volantino di attacco. Il ricorso di Badalamenti avverso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, invece, veniva rigettato. Contro la decisione del Tribunale del riesame proponeva ricorso per Cassazione l’avvocato Gullo nell’interesse sia di Gaetano Badalamenti sia di Vito Palazzolo. La Suprema Corte ha rigettato entrambi i ricorsi, a conferma di un impianto accusatorio ritenuto, evidentemente, articolato e solido. Per il delitto di omicidio in danno di Giuseppe Impastato i due imputati, tuttora, sono sottoposti a misure restrittive della libertà personale: a Gaetano Badalamenti – dalla Spagna estradato verso gli Stai Uniti, dove è detenuto– è applicata la custodia cautelare in carcere; a Palazzolo Vito, per ragioni di salute è applicata la misura degli arresti domiciliari. Va dato atto, infine, che il procedimento penale, è poi andato incontro alla separazione delle due posizioni processuali. Alla richiesta di rinvio a giudizio in data 26.5.1997 avanzata dalla Procura di Palermo –Direzione Distrettuale Antimafia nei confronti di Gaetano Badalamenti e Vito Palazzolo segue il decreto del 29 ottobre 1999 che fissava l’udienza preliminare per il giorno 30 novembre 1999. Con atto del 22 novembre 1999, il Badalamenti rinunciava all’udienza preliminare sicché il Giudice per le Indagini preliminari disponeva, con decreto del 23 novembre 1999 ,il giudizio immediato. Nei confronti di Gaetano Badalamenti, infatti è attualmente in corso il dibattimento dinanzi alla Corte di Assise di Palermo. Palazzolo Vito, invece ha richiesto di essere giudicato con il rito abbreviato.

Anatomia di un depistaggio. La Repubblica il 12 maggio 2020. La Commissione non ha avuto il compito di giungere a conclusioni sul delitto Impastato, ma solo di indagare su che cosa si sia opposta a fare verità e giustizia. La finalità del lavoro era specifica e limitata e tuttavia importante.. La Commissione, come le pagine precedenti dimostrano ampiamente, ha lavorato su documentazioni, testimonianze, audizioni partendo da una domanda incalzante sul piano storico, oltre che giuridico: perché la realtà processuale che è oggi all’esame della Corte d’Assise di Palermo è giunta 22 anni dopo il delitto? L’indagine ha, cioè, dovuto ricostruire l’anatomia di una deviazione, che ha, dalla immediatezza del delitto, impedito di ricercare e di individuare i mandanti e gli esecutori materiali dell’omicidio. Come sempre avviene nelle inchieste condotte con serietà, molte sono state le domande emerse, i punti oscuri da chiarire; non a tutte le domande è stato possibile dare esauriente risposta. Sembra, comunque, rilevante la messa a tema delle questioni, e la acquisizione di un terreno nuovo e di condizioni diverse e migliori per fare verità e giustizia. Niente di più, ma niente meno. Mai, forse, ed è un aspetto da sottolineare, nella storia del Parlamento italiano, la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari, ha dovuto indagare su una vicenda così specifica mentre è in corso il relativo processo penale. L’inchiesta della Commissione si è svolta su un piano del tutto autonomo e distinto dall’indagine penale. La Commissione ha in ogni momento e in ogni atto di indagine ed approfondimento, curato di evitare che si determinassero influenze e condizionamenti reciproci. Era, e doveva fino all’ultimo rimanere, ben diverso l’oggetto delle due attività oltre che il punto di arrivo, come distinti erano, e sono rimasti, gli obiettivi da raggiungere. Il procedimento penale aperto a Palermo, è volto esclusivamente ad accertare la fondatezza della pretesa punitiva dello Stato nei confronti di coloro ai quali il Pubblico Ministero imputa la responsabilità dell’omicidio di Giuseppe Impastato. Si potrebbe solo osservare come il quadro processuale, oggi compiutamente delineato, con l’accusa di omicidio mafioso rivolta a Gaetano Badalamenti e Vito Palazzolo, era stato sin dal primo momento indicato dai familiari e dai compagni di Giuseppe Impastato. Era stato indicato, reclamato, «gridato», in un grande isolamento, anche politico: troppi sottovalutarono gli avvenimenti, limitandosi inizialmente ad una neutra e quasi notarile richiesta di « piena luce » sulla morte del «giovane Impastato». La Commissione si è posta, invece, l’obiettivo di accertare se, soprattutto nella fase iniziale delle indagini, si fossero verificate anomalie nel comportamento degli inquirenti e in tal caso di dare doverosamente conto, al Parlamento ed al Paese, delle ragioni, delle cause dei ritardi, delle omissioni – del «depistaggio», per usare il termine, forte ma motivato, adoperato dal giudice dott. Caponnetto – verificatisi nel corso delle indagini, fin dalle prime ore successive all’uccisione di Giuseppe Impastato. Per fare ciò la Commissione ha dovuto destrutturare un vero e proprio teorema (la morte del terrorista incauto e, alternativamente, la morte di un suicida) costruito con assoluta unilateralità e pregiudizialità e senza alcuna verifica dei fatti, delle prove, degli indizi, da parte dei titolari delle indagini fin dal momento del rinvenimento dei resti dilaniati di Giuseppe Impastato. La responsabilità della mafia nell’omicidio – al di la` di chi verrà,  se verrà, processualmente riconosciuto come colpevole – è sempre indiscutibilmente emersa nel processo tutte le volte che i magistrati hanno voluto verificare gli elementi indicati o addirittura messi a disposizione della autorità Giudiziaria dai compagni e dai familiari di Giuseppe Impastato, il cui contributo alla verità si è per molti versi configurato quasi come un’opera di supplenza rispetto alla doverosa e tuttavia mancata attività della polizia giudiziaria e della magistratura inquirente. Quell’opera, come si è visto, comincia subito dopo la scomparsa di Peppino Impastato e prima addirittura della notizia della sua morte: inizia con la frenetica, preoccupata ricerca dell’amico scomparso e prosegue, poi, con la raccolta affettuosa e disperata dei suoi resti, offerti, insieme alle tracce del suo sangue rimaste impresse sul pavimento del casolare, agli inquirenti che, hanno cercato prima di non vederle e poi di ignorarle. Dall’esposto-denuncia della matrice mafiosa dell’omicidio, presentato a 48 ore dal fatto, l’11 maggio 1978, ai reperti e alle informazioni fornite agli inquirenti; dal promemoria presentato dal giudice Chinnici – vero e proprio programma di lavoro istruttorio, puntualmente coltivato con significativi risultati dal giudice istruttore – alle articolate richieste di riapertura delle indagini dopo la prima conclusione e la seconda archiviazione, diversi e significativi sono i momenti che segnano e determinano le sorti della vicenda processuale. Solo con l’intervento del giudice istruttore Rocco Chinnici, tuttavia, la verifica della ipotesi mafiosa, si inquadra in una prospettiva organica dopo la formalizzazione dell’accusa di omicidio e, in precedenza, a lungo esclusa dal Pubblico ministero Domenico Signorino nel corso di tutta la istruttoria sommaria. L’assassinio di Rocco Chinnici determinò, un colpo assai grave e una interruzione del lavoro istruttorio che fu ripreso, ma oramai inevitabilmente solo per le conclusioni, e in assenza di una vera attività requirente, da Antonino Caponnetto. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e le indagini successive della Procura di Palermo completano il quadro degli elementi probatori sui quali sarà chiamata ad esprimersi la magistratura giudicante di Palermo. L’istruttoria parlamentare di questa Commissione offre della vicenda una visuale storica e processuale per certi aspetti anche nuova rispetto alle acquisizioni giudiziarie, ed evidenzia, all’interno delle pubbliche istituzioni – in particolare in alcuni suoi uomini – omissioni e veri e propri vuoti di contrasto allo sviluppo del potere mafioso nella zona. Tali omissioni e veri e propri vuoti di contrasto si determinarono su un territorio segnato dalla sottovalutazione del sistema mafioso combattuto da Peppino Impastato. Di fronte ad una mafia che si evolve nella scelta degli interessi da perseguire e nelle alleanze da stringere sul territorio, ad una mafia che comprende la insopportabile pericolosità di Peppino Impastato e ne decide la eliminazione, vi è uno Stato o incapace di comprendere quegli intrecci, o deciso a non indagare contro la mafia e a non ricercare – in un territorio ove la presenza della mafia era nota a tutti da molto tempo – gli esecutori e i mandanti di quel delitto. perché è successo tutto ciò? Come mai ci furono quei comportamenti omissivi? perché – di fronte a indizi e prove che confutavano l’ipotesi del suicidio e dell’attentato terroristico – essa non fu abbandonata? La risposta va cercata in quel contesto storico, la seconda metà degli anni settanta, e analizzando le forze che si fronteggiavano e il modo in cui si fronteggiavano sul campo. La linea scelta nell’accertamento delle cause e degli autori del- l’assassinio di Giuseppe Impastato è il frutto di un atto positivo di volontà, di una precisa scelta. Non negligenza o inerzia, ma scelta consapevole di non vedere la sfida della mafia e lucida decisione di lasciare inesplorati il sistema e i poteri criminali di quel territorio. In particolare l’assoluta prevalenza, la quasi esclusività, dell’ipotesi del suicidio-attentato, pur oggettivamente contrastata da precise e immediate emergenze mette in luce un complessivo orientamento politico-culturale e istituzionale che tagliava trasversalmente gli organi dello Stato. Ripercorrendo il modo come i magistrati hanno, nelle fasi iniziali, condotto le indagini è possibile percepire quale fosse il grado di comprensione del fenomeno mafioso nel cuore di una Procura della Repubblica cruciale nella lotta alla mafia come quella di Palermo, dove, non a caso, la nomina del nuovo Procuratore Gaetano Costa, da parte del CSM, fu da un lato accolta dalla polemica contro il «giudice rosso» e, dall’altro lato, fu seguita da un ritardo della presa di possesso. Da questa inchiesta parlamentare può essere avanzata l’ipotesi che l’aprioristica esclusione della pista mafiosa abbia potuto trovare una ragione in rapporti tra la cosca di Cinisi e segmenti delle istituzioni con essa compromessi. Questa relazione ha già illustrato, nella prima parte, quanto grave fosse il contesto dei rapporti tra mafia e strutture statuali nella prima metà degli anni ’70, citando una fonte ufficiale e particolarmente autorevole, le nette ed inequivocabili affermazioni della relazione firmata dal presidente Cattanei nel 1971: «per anni magistrature, polizia, organi dello Stato e forze politiche hanno troppo spesso mostrato di ignorare l’esistenza della mafia». Anche in quegli anni vi sono stati certamente, e tanti, comportamenti coraggiosi e risoluti da parte di molti uomini collocati ai vari livelli degli organi dello Stato – carabinieri, poliziotti, altri esponenti delle forze dell’ordine, magistrati, politici e anche esponenti della società civile – che vanno ricordati con gratitudine, ma a prevalere furono la scarsa coscienza della gravità del fenomeno mafioso, e una tolleranza che, troppo spesso, diventava connivenza. Inquadrare la pregiudiziale unilateralità e il ‘depistaggio’ sul delitto Impastato in questo più generale contesto non può e non deve costituire tuttavia giustificazione di indagini che sono state, hanno voluto essere una grande deviazione. Giuseppe Impastato sfidò la mafia in un territorio in cui si era stabilito un «sistema di relazioni» tra segmenti degli apparati dello Stato e mafiosi molto potenti; un «sistema di relazioni» che, in quegli anni, può essere rinvenuto anche in altri territori, teso, spesso illusoriamente, alla cattura, per via «confidenziale», di alcuni capimafia, all’apporto che queste «relazioni» potevano dare ad alcuni filoni di indagine o, comunque, ad una pacifica «convivenza» per un tranquillo controllo della zona. La prassi investigativa dell’uso dei confidenti era ampiamente usata a quei tempi. Una conferma autorevole viene dal colonnello dei carabinieri Mario Mori il quale nel corso del 1995 ha parlato di un «generazione di investigatori che in considerazione dei tempi in cui si era svolto il loro operato, avevano fatto del rapporto confidenziale con personaggi mafiosi o vicini alla mafia lo strumento principe della loro attività. Queste tecniche investigative sono oggi da ritenersi completamente superate ma in quell’ottica era assolutamente verosimile che questi rapporti confidenziali generassero nell’opinione pubblica delle voci, dei sospetti sulla trasparenza dell’operato» degli ufficiali di polizia giudiziaria. Proprio per queste ragioni nel corso degli anni settanta «si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un implicito patto bilaterale di non aggressione che Cosa nostra romperà solo nell’agosto del 1977 con l’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, senza incontrare, peraltro, nessuna apprezzabile reazione della controparte». La ricerca e gli approfondimenti sulla prassi dei rapporti confidenziali devono muovere da quello che nella relazione del Presidente della Commissione antimafia Luciano Violante è stato definito il «clima della coabitazione» che ha avuto delle precise conseguenze: «Lo Stato non colpiva Cosa nostra in quanto associazione criminale, ma solo quando compiva omicidi particolarmente gravi. Cosa nostra, dal canto suo, non colpiva i rappresentanti dello Stato in quanto tali, ma soltanto coloro che, compiendo atti repressivi particolarmente efficaci, derogavano alle regole non scritte della convivenza. In pratica i rapporti tra istituzioni e mafia si sono svolti per moltissimi anni come relazioni tra due distinte sovranità; nessuno dei due ha aggredito l’altro sinché questi restava entro i propri confini». È anche del tutto probabile – ma questa ipotesi dovrebbe essere sottoposta a verifiche critiche e ricerche ulteriori, oltre i reperti finora disponibili – che Badalamenti abbia avuto dei rapporti confidenziali con i carabinieri in una zona alta, «apicale», data la statura delinquenziale del capo mafia di Cinisi. Anche questa circostanza deve essere considerata nel contesto di un modus operandi caratterizzato dalla ricerca e dall’uso dei confidenti, in cui fior di capi mafia hanno avuto legami confidenziali con i carabinieri e la polizia – con gli «sbirri», per usare una espressione del loro colorito linguaggio – non solo nella mafia siciliana ma anche in quella campana e in quella calabrese. E' ancora tutto da scrivere il capitolo del rapporto tra mafiosi e forze dell’ordine. E quando lo si scriverà si potrà vedere che esso è popolato da notissimi capi mafia i quali, agli occhi del popolo mafioso, vogliono apparire come i più fieri avversari della «sbirraglia» ma in realtà con la « sbirraglia » trattano, si accordano, fanno dei patti. Un doppio gioco. Per un lungo periodo storico la prassi dei rapporti confidenziali dei carabinieri e dei poliziotti con i mafiosi è stata un dato di fatto, anzi è stata il cuore di quelli che oggi vengono chiamati «colloqui investigativi». Chi ci abbia guadagnato in questo scambio di rapporti non è facile a dirsi perché occorre guardare caso per caso e saper distinguere nella loro specificità ciascuna realtà territoriale; come non è facile dire se, nel quadro appena descritto, qualche rappresentante dello Stato non abbia valicato il confine che separa il lecito dall’illecito, il legale dall’illegale. È bene ricordare che anche all’interno dell’Arma dei carabinieri convivevano opinioni e tesi diverse. Già tra il giugno e il dicembre del 1978, come si è avuto modo di notare, c’era stato un carteggio aperto dal Comando della legione di Palermo che, seguendo le vie gerarchiche, sollecitava «ulteriori investigazioni per fare piena luce sul fatto» dal momento che, non essendo ancora chiuse le indagini, si era «in attesa delle determinazioni dell'autorità giudiziaria e delle eventuali possibili ulteriori risultanze da ricercare ed acquisire per fare definitivamente luce sull’episodio». Parole – « eventuali possibili ulteriori risultanze » – che contrastano apertamente e nettamente con le certezze del maggiore Antonio Subranni e del maresciallo Alfonso Travali i quali avevano scritto, come abbiamo visto, che Impastato si fosse ucciso o fosse perito in un fallito attentato, nonostante lo stesso Travali, appena cinque mesi prima, in data 16 dicembre 1977, avesse riferito in una nota inviata al comando della compagnia di Partinico che Impastato e il suo gruppo di Democrazia proletaria «non sono ritenuti capaci di compiere attentati terroristici». Altro indizio della diversità di valutazioni sono le ricordate parole del maggiore Tito Baldo Honorati nei confronti di Rocco Chinnici – che viene accusato di aver «sposato» l’ipotesi di omicidio solo «per attirarsi le simpatie di una certa parte dell’opinione pubblica conseguentemente a certe sue aspirazioni elettorali, come peraltro è noto, anche se non ufficialmente ai nostri atti, alla scala gerarchica» – parole che sono il segno del perdurare di una cultura che non arretra neanche dinanzi al ricordo di un magistrato che era rimasto vittima di Cosa nostra che lo aveva brutalmente assassinato non certo per le sue pretese ambizioni elettorali. Le parole del maggiore dei carabinieri tentano malamente di avvalorare, ancora a distanza di sei anni dai fatti, la tesi della morte accidentale di Impastato nel mentre preparava un attentato terroristico. A questo proposito occorre ricordare che già nelle pagine precedenti sono state riportate le parole pronunciate, nel corso della sua audizione davanti al «Comitato Impastato», del dottor Alfonso Vella, all’epoca dirigente della DIGOS di Palermo il quale ha affermato: «abbiamo cercato di cominciare a capire, anche dopo, se ci fossero state situazioni che portavano al terrorismo, ma a noi non è risultato niente». Il dirigente della DIGOS esclude, sin dall’inizio, la presenza del terrorismo. E allora c’è da chiedersi: perché mai i carabinieri che indagavano continuarono ad insistere su questa tesi? Perché continuarono ad indagare soltanto loro? Perché la DIGOS sparisce dalla scena e non vi fa più ritorno? Le parole di Honorati sono ben diverse dalle parole illuminanti che dopo una settimana dalla sua missiva i vertici siciliani dell’Arma scrivono: «Si tratta di un impegno d’onore che deve riscattare la serietà e professionalità degli operatori portando chiarezza sull’intera vicenda ». La scelta del termine – « chiarezza » – è quanto mai felice ed opportuna perché è stato anche il criterio guida ispiratore di questa relazione. La materialità del «depistaggio» prese forma, quasi con naturalezza (una naturalezza devastante per lo stesso Stato di diritto), a Cinisi, in un giorno di maggio del 1978. Quell’omicidio fu, allora, un «impaccio» di cui liberarsi immediatamente, catalogandolo come suicidio o infortunio di un terrorista, al di la` di ogni palmare evidenza. Indiscutibile merito di questa Commissione è la volontà di far uscire quell’omicidio dal cono d’ombra, riscrivendo la grammatica di un’inchiesta, descrivendo l’anatomia di una « deviazione » che ha riguardato l’uccisione di un giovane valoroso e coraggioso, seppure imprudente. perché solo l’imprudenza – o un grande, devastante dolore – poteva spingerlo a rifiutare pubblicamente le condoglianze dei mafiosi dopo la morte del padre. Il rifiuto delle condoglianze, nella cultura popolare del sud, rappresenta il massimo del disprezzo e dello sfregio. Era questo, probabilmente, lo stato d’animo di Peppino Impastato quando decise di compiere quell’atto sicuramente inusuale per quella realtà e per quei tempi. Avere descritto l’anatomia di una deviazione è, forse, una operazione che all’apparenza può sembrare modesta. Essa non ha guardato, però, solo al recupero della memoria storica (compito, comunque, niente affatto inutile e superfluo) ma, ha voluto essere in concreto anche un esile filo di speranza, sicuramente utile per le future generazioni.

Ergastolo per Tano Badalamenti.  La Repubblica il 13 maggio 2020. Cento passi dividevano la casa di Peppino Impastato da quella di Tano Badalamenti. Ci sono voluti ventiquattro anni meno un mese e una settimana alla giustizia italiana per percorrerli e dire finalmente che il primo era stato ammazzato per ordine del secondo. Era il 9 maggio del 1978 quando Peppino, incubo dei mafiosi con le trasmissioni della sua radio libera di Cinisi, venne trovato morto. In Italia si parlava d'altro, era il giorno in cui le Br fecero ritrovare il cadavere di Aldo Moro. A Cinisi, l'ipotesi investigativa dei carabinieri era quella di un attentato andato male del quale Impastato, militante di Democrazia proletaria, era rimasto vittima. In questi anni la memoria è rimasta viva grazie al coraggio della famiglia, a un bel libro e a un film, "I cento passi" appunto, che hanno cancellato sotto il nome di Impastato il comodo e infamante marchio di terrorista per restituirgli la dolorosa dignità di vittima della mafia. Ergastolo, dunque, per Gaetano Badalamenti. Oggi il presidente Claudio Dell'Acqua ha letto la sentenza emessa dalla Corte d'assise di Palermo, che si era ritirata in camera di consiglio ieri pomeriggio, accogliendo la richiesta del pm Franca Imbergamo. Zu Tano non si è voluto smentire. Per lui Peppino Impastato nulla era in vita e nulla è mai stato in morte. Detenuto da quasi 18 anni negli Stati Uniti a Fairton, nel New Jersey, per traffico di droga, non ha voluto ascoltare in videoconferenza la condanna. Quel 16 maggio del 1978 il corpo di Impastato era stato trovato dilaniato da una bomba sui binari della ferrovia alle porte di Cinisi, a pochi chilometri da Palermo. In un primo momento le indagini avevano concluso che il giovane era morto mentre stava preparando un attentato. La tesi era stata sostenuta anche dalla difesa di Badalamenti, unico imputato del processo. In realtà il boss aveva deciso l'eliminazione di quel giovanotto che lo infastidiva denunciando i suoi affari sporchi dai microfoni di "Radio Aut", l'emittente radiofonica da lui fondata, e lo derideva chiamandolo "Tano Seduto". Questo ha stabilito oggi la Corte d'assise di Palermo riconoscendo che i familiari di Peppino - la mamma Felicia Bartolotta e il fratello Giovanni, che si erano costituiti parte civile - e i suoi amici avevano avuto ragione a chiedere giustizia per ventiquattro anni. "Finalmente quell'assassino paga la sua colpa", ha detto Felicia Bartolotta, 86 anni, dalla casa di Cinisi: "Volevo andare in aula, ma ero troppo emozionata, non ero sicura di come finiva. Ho preferito restare a casa". "Non ho mai provato sentimenti di vendetta - ha aggiunto turbata - Mi sono sempre limitata a invocare giustizia per la morte di mio figlio. Confesso che, dopo tanti anni di attesa, avevo perso la fiducia, dubitavo che saremmo mai arrivati a questo punto, ma ora provo tanta contentezza, una grande soddisfazione. Io ho sempre saputo com'era andata. Badalamenti chiamava mio marito Luigi per lamentarsi di Peppino e mio marito lo implorava di non uccidere il ragazzo; Luigi gli diceva: uccidi me e lascia stare Peppino. Ma non è servito a niente, lo ha ammazzato lo stesso. La morte di mio marito è sempre rimasta un mistero, dicono che fu un incidente, ma c'è sempre stato un punto interrogativo su questo incidente, non c'è mai stata chiarezza". "Non ho mai perdonato Badalamenti - ha concluso Felicia Bartolotta - né lo perdonerò mai, come si fa a perdonare l' uomo che ti ha ammazzato un figlio? Però una cosa la posso dire: oggi per la prima volta posso affermare di credere nella giustizia italiana". “A 24 anni dall'omicidio di Peppino mi sembra una vergogna giudiziaria per un Paese civile - è stato invece il commento di Giovanni Impastato - Non si dovrebbe attendere tutto questo tempo per avere giustizia. Non sono felice ma mi sento appagato del risultato". Per il pm Franca Imbergamo, "questa sentenza restituisce l'onore a una persona coraggiosa come Peppino Impastato e pone fine alla lunga impunità di Tano Badalamenti". Secondo l'avvocato Jimmi D'Azzò, uno dei legali di Badalamenti, invece "se Impastato è stato ucciso dalla mafia, lo avrà fatto una cosca diversa da quella di Badalamenti". Il difensore ha sostenuto che i collaboratori di giustizia parlano di "una famiglia mafiosa diversa da quella di Badalamenti". "Alla fine, malgrado le difficoltà, la verità è venuta a galla. E giustizia è stata fatta". Questa la dichiarazione del presidente della commissione Antimafia, Roberto Centaro (Fi). Per Centaro l'uccisione di Impastato "è la dimostrazione che la mafia teme anche chi la colpisce nella credibilità sociale mettendola alla berlina. Impastato, infatti, non era una persona pericolosa perché capace di contrastare i traffici di Cosa Nostra. Piuttosto, riusciva a risvegliare dal torpore la coscienza sociale. E questa è una delle strade perché la mafia non abbia il sopravvento". (Da Repubblica, 11 aprile 2002)